L'antico al cinema 9788820748357, 8820748355

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L'antico al cinema
 9788820748357, 8820748355

Table of contents :
Cinema e antico : i motivi di un confronto tra gli studiosi del cinema e di storia dell'antichità - Iaccio, Pasquale ; Menichetti, Mauro
Antigone come opera aperta e metafora d'arte contemporanea - Franco, Mario
Il futuro nell'antico : metamorfosi d'immagini nel fumetto e nel cinema - Frezza, Gino
...detto anche l'Africano : l'antichità di Roma nello sguardo di Luigi Magni - Grassigli, Gian Luca
Miti sullo schermo : Roma alla conquista del mondo - Iaccio, Pasquale
Friends, Romans, Countrymen : la Roma antica tra facce e plasticità marmorea nel Giulio Cesare di Mankievicz, 1953, con una nota sul coevo allestimento di Giorgio Strehler - Massarese, Ettore
Forme, modelli, stereotipi e innovazioni nella ri-produzione cinematografica del mondo antico : una ricognizione - Modesti Pauer, Carlo
I ritorni di Ulisse : letture cinematografiche dell'epos omerico - Salvadori, Monica
Scene di Roma antica : da Fellini a Villa Adriana - Slavazzi, Fabrizio
Lo specchio elettronico : la videoarte e l'antico - Zuliani, Stefania ; Trimarco, Angelo
Indice dei nomi -

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Cinema e storia 13 Collana diretta da Pasquale Iaccio

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L’Antico al cinema a cura di Pasquale Iaccio e Mauro Menichetti

Liguori Editore

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INDICE

1

Introduzione Cinema e antico. I motivi di un confronto tra gli studiosi del cinema e di storia dell’antichità di Pasquale Iaccio e Mauro Menichetti

17

Antigone come opera aperta e metafora d’arte contemporanea di Mario Franco

29

Il futuro nell’antico. Metamorfosi d’immagini nel fumetto e nel cinema di Gino Frezza

45

“...detto anche l’Africano”. L’antichità di Roma nello sguardo di Luigi Magni di Gian Luca Grassigli

63

Miti sullo schermo: Roma alla conquista del mondo di Pasquale Iaccio

81

Friends, Romans, Countrymen. La Roma antica tra facce e plasticità marmorea nel Giulio Cesare di Mankievicz (1953) (con una nota sul coevo allestimento di Giorgio Strehler.) di Ettore Massarese

91

Forme, modelli, stereotipi e innovazioni nella ri-produzione cinematografica del mondo antico. Una ricognizione di Carlo Modesti Pauer

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viii

111

INDICE

I “ritorni” di Ulisse. Letture cinematografiche dell’epos omerico

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di Monica Salvadori

135

Scene di Roma antica: da Fellini a Villa Adriana di Fabrizio Slavazzi

151

Lo specchio elettronico. La videoarte e l’antico di Angelo Trimarco e Stefania Zuliani

161

Indice dei nomi

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a Vittorio Martinelli, in memoriam

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Introduzione CINEMA E ANTICO I motivi di un confronto tra gli studiosi del cinema e di storia dell’antichità di Pasquale Iaccio e Mauro Menichetti

L’idea di organizzare all’Università di Salerno un convegno di studi sul tema dell’antico nel cinema è nata dalla consapevolezza di uno stretto legame che intercorre tra discipline, forme artistiche e materie, a prima vista molto distanti tra loro: l’antichistica, nelle sue varie implicazioni, e la forma di comunicazione (e a volte d’arte) principale dell’ultimo secolo: le “immagini in movimento”. Contrariamente a quanto si pensa, i legami e gli intrecci sono molti e di grande significato. Volendo enumerarli brevemente, non si può non partire da quello più evidente e cioè dalla funzione che ha avuto il cinema di accogliere, fin dalle origini, la storia antica nei temi che trattava sullo schermo. Il cinema storico, ambientato soprattutto nella Roma classica, era uno dei filoni più importanti del cinema muto tanto da diventare subito un vero e proprio “genere” cinematografico. Da allora in poi ha attraversato, con alti e bassi e con diverse rappresentazioni storiche e visive, tutto l’arco del Novecento ed è ancora oggi in auge. In questo ambito la parte avuta dalla “cultura” italiana è stata senza dubbio determinante per rappresentare e definire il genere storico. E proprio il filone della storia classica fu il primo e più importante motore dell’affermazione della cinematografia italiana nel periodo che precedette la prima guerra mondiale. Fece rapidamente il giro del mondo (come si vedrà in qualcuno dei saggi del volume) e attecchì soprattutto in America. E dagli Stati Uniti, sull’onda dell’affermazione di quella che era diventata la più importante cinematografia del mondo, conseguì il

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L’ANTICO AL CINEMA

successo presso il pubblico dell’intero pianeta. La conquista dell’immaginario collettivo di ogni paese, da parte dei kolossal hollywoodiani, ha proceduto con una determinazione e una capacità di penetrazione che non ha avuto nulla da invidiare alla marcia vittoriosa delle antiche legioni romane. Da allora in poi si può dire, citando il titolo di un libro recente, che tutto quello che sappiamo su Roma l’abbiamo imparato da Hollywood1. Oltre a ciò vi è un altro aspetto, riguardante quelle che gli addetti ai lavori chiamano “immagini in movimento”, che di solito è ignorato dagli studiosi di antichistica, come dalle stesse storie del cinema, che invece richiederebbe una massiccia opera di ri-scoperta: il settore del documentario. In realtà, riferendoci al cinema delle origini, bisognerebbe partire dai “dal vero”, prodotti già dal 1895, e cioè dalla data in cui viene fatta risalire la scoperta del “cinema”. Successivamente, i “dal vero” furono inseriti nelle “attualità”, i precursori dei “cinegiornali”. Questi settori comprendevano, tra i tanti argomenti che trattavano, anche aspetti legati all’archeologia e alla cultura classica nel suo insieme. E l’Italia era uno dei luoghi più rappresentati, dapprima attraverso il lavoro degli operatori inviati dalle maggiori case di produzione straniere, a cominciare dai Lumière, poi attraverso i riflessi della produzione nazionale. Il nostro paese era, agli occhi dell’Europa e del mondo intero, la patria del bello, dell’arte e dell’archeologia. Non è certo un caso che i primi “dal vero” e la prime “vedute” degli albori del cinema comprendessero, assieme alle città d’arte di Venezia, Firenze, Roma, un’immancabile visita a Pompei e alle sue rovine. La strada di una proficua ricerca moderna in questo campo si è aperta da quando i giacimenti audiovisivi di tutto il mondo hanno cominciato ad essere interessati da programmi di indagine e di restauro che hanno messo in luce i primi pionieristici “documentari” archeologici e artistici. La prospettiva aperta non riguarda solo gli studiosi di storia del cinema o – meglio – gli specialisti che, all’interno della storia del cinema, si occupano specificamente del periodo delle origini o di quello del muto, ma gli storici e gli specialisti di ogni disciplina della storia, dell’archeologia, dell’arte antica e di altre materie affini, per la

1 Laura Cotta Ramosino, Luisa Cotta Ramosino, C. Dognini, Tutto quello che sappiamo su Roma l’abbiamo imparato a Hollywood, Bruno Mondadori, Milano 2004. Ma la capacità comunicativa dispiegata dal cinema nel corso del Novecento, permette di estendere la definizione ad altre epoche storiche, come ad esempio il Medio Evo.

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INTRODUZIONE

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possibilità di trovare documentazione, notizie e continui e riferimenti utili allo studio delle loro materie. Il cinema, di qualsiasi epoca e di qualsiasi paese, è un documento “fragile” per la sua natura effimera ed è quindi esposto, più di altre forme artistiche e dello spettacolo, ad un processo di dissolvimento che ha già investito la produzione più antica2. Per diverse ragioni, il rinnovamento tecnico che via via si è succeduto nel tempo, ha portato alla perdita della produzione precedente, come è avvenuto, ad esempio, col cinema “muto” dopo l’introduzione del sonoro. Solo con molto ritardo il mondo della cultura ha cominciato a rendersi conto del patrimonio di conoscenze e di documenti contenuti nei film del passato e di che portata fosse la perdita o la dispersione dei depositi delle case di produzione più antiche. La riscoperta del cinema muto, avvenuta poco più di un ventennio addietro, ha portato al centro dell’attenzione dei cinefili e degli studiosi, non solo la grande messe del cinema anteriore agli anni Trenta, ma anche l’ineludibile necessità di procedere ad una corsa contro il tempo per salvare, prima di tutto, la produzione più fragile e più antica. Si consideri che solo qualche anno fa in Italia (ma la situazione non era diversa nel resto del mondo) tutto ciò che si era salvato di quel lontano e vastissimo patrimonio di immagini, ammontava a non più del 5% di quanto era stato effettivamente prodotto all’epoca. In pratica sopravviveva, e nemmeno in 2 Alla fragilità naturale della pellicola cinematografica si aggiunge, a volte, l’accanimento con cui gli uomini decidono di prendere di mira il cinema per distruggere la memoria storica che esso rappresenta in una comunità nazionale o locale. È noto il danno che durante la seconda guerra mondiale le truppe tedesche in ritirata inflissero al Centro Sperimentale di Cinematografia e ai suoi archivi. Le attrezzature vennero smembrate, caricate su vagoni ferroviari e trasportate in Germania. Solo una parte di esse venne poi dirottata a Venezia per dar vita all’effimera cinematografia della Repubblica di Salò. Parte dei depositi non venne più recuperata e con essa scomparvero alcuni film italiani in copia unica come il famosissimo Sperduti nel buio diretto da Nino Martoglio e tratto da un dramma di Roberto Bracco, capolavoro della cinematografia del muto e antesignano (“incunabolo”, lo ha definito qualcuno) del cinema neorealista. Purtroppo anche le guerre regionali più recenti non hanno risparmiato il patrimonio cinematografico dei belligeranti. Per quanto chirurgiche e “intelligenti” siano state le incursioni della NATO sulla ex Jugoslavia, non hanno potuto fare a meno di ferire la Cineteca di Belgrado, la Jugoslovenska Kinoteca, distruggendo ben 80.000 opere di quella che fino ad allora era una delle prime cinque cineteche del mondo. Il danno è stato così ingente perché si è andati a colpire pellicole al nitrato, e quindi altamente infiammabili, che hanno innescato un processo di autocombustione. Per ironia della sorte, la distruzione ha riguardato, non soltanto opere della Serbia o della ex Jugoslavia, ma materiali appartenenti al patrimonio di ogni paese, data la caratteristica di crocevia dell’Europa e del mondo che la Belgrado cinematografica ha costituito per tutto il Novecento. La Jugoslovenska Kinoteka come la biblioteca di Serajevo, a riprova della cecità della guerra, sia interetnica sia “umanitaria” o come la si voglia definire.

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L’ANTICO AL CINEMA

buono stato di conservazione, solo una piccola parte di ciò che l’ingegno e l’operosità dei nostri progenitori aveva realizzato e che milioni di contemporanei avevano visto su uno schermo. Le cose in seguito sono andate migliorando perché si è proceduto, in maniera sempre più massiccia e consapevole, ad un’opera di scoperta, di restauro e di catalogazione di ciò che è stato possibile salvare setacciando cineteche e depositi sparsi in tutto il mondo. Tuttavia, la lotta per il recupero del “cinema perduto” è ancora agli inizi e sappiamo già che, per certe epoche e per certe opere, la battaglia è perduta in partenza; nel senso che la maggior parte della produzione di alcuni periodi o di alcuni autori è definitivamente scomparsa. Questo impone a tutti noi, studiosi e semplici cittadini, interessati alla conservazione della memoria, una maggiore sensibilità nei riguardi delle immagini in movimento e ci induce a spingere sull’acceleratore nell’opera di recupero. Il primo passo è stato ed è quello di considerare il cinema (tutto il cinema: dal documentario alla fiction, dal corto al lungo metraggio, dal cinema muto a quello sonoro) un patrimonio culturale e storico simile a qualsiasi altro che la nostra tradizione ci ha insegnato ad amare e a preservare per noi e per le generazioni future. Ma oltre a ciò, se consideriamo il cinema delle origini (e non solo) – come è giusto che sia – un documento storico e lo paragoniamo ad un sito archeologico che, come un continente scomparso o una civiltà sepolta, richiede un lavoro di recupero e di restauro, per certi versi non molto diverso da quello che impegna gli archeologi o gli studiosi di qualsiasi disciplina dell’antichistica, ci accorgiamo che un confronto tra questi ultimi, e tutti coloro che si occupano di recupero delle memorie cinematografiche, è quanto mai utile ad entrambi. A cominciare dall’aspetto metodologico. Il reperimento, l’identificazione e i complessi processi di restauro che conducono alla ricostruzione di un’opera cinematografica, di fiction o documentaristica, intera o in frammenti, passata o recente, non è, come spesso si ritiene, un problema esclusivamente di ordine tecnico, (restauro dei materiali in un laboratorio specializzato, passaggio ad un nuovo e più durevole supporto, conoscenza delle tecniche audiovisive dell’epoca in cui l’opera fu realizzata, ripristino della qualità formale della versione originale, identificazione di chi ha preso parte alla realizzazione, ecc.), ma un evento storico e culturale di vasta portata e dalle innumerevoli implicazioni che interessa gli storici e tutti coloro che studiano sia temi trattati nella pellicola, sia la società da cui proviene il film. Il restauro di una pellicola è diventato un evento che mette in moto una serie di ricerche

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parallele (storiche, iconografiche, artistiche, archivistiche, biografiche, comparatistiche, ecc.) che investono diverse discipline e richiedono il ricorso ad una metodologia che presenta molte somiglianze con i procedimenti adoperati nelle materie dell’antichistica. Per chi, come me, si occupa di storia del cinema, è sempre assai utile e stimolante partecipare ad un convegno di archeologia o di storia antica per gli spunti e gli orizzonti nuovi che apre alle mie ricerche, anche se si parla degli scavi pompeiani o dell’antica Roma. In Italia, per quanto riguarda il problema della ricerca, conservazione e diffusione delle fonti audiovisive, si può far riferimento ad alcuni enti sparsi sul territorio nazionale, a cominciare dalle strutture “storiche”, come la Scuola Nazionale di Cinema-Cineteca Nazionale (ex Centro Sperimentale di Cinematografia)3 di Roma, l’Archivio Storico del Film e il Museo del Cinema di Milano4, il Museo Nazionale del Cinema di Torino, con la sua preziosa collezione di archeologia del cinema5, l’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza di Torino6, l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio 3 La Scuola Nazionale di Cinema (ex Centro Sperimentale di Cinematografia) è stata fondata nel 1935 grazie all’apporto di studiosi e registi quali Luigi Chiarini, Umberto Barbaro, Francesco Pasinetti, Alessandro Blasetti. Al suo interno venne costituita una delle prime scuole di cinema. La Scuola ha svolto da allora una importantissima funzione di formazione, ricerca e sperimentazione con una serie di iniziative rivolte in varie direzioni. Da sottolineare l’opera di restauro e di valorizzazione di opere fondamentali del cinema italiano di diverse epoche e di diversi generi. La sua biblioteca conta più di 50.000 volumi, oltre 10.000 sceneggiature, collezioni e raccolte di circa 350 riviste specializzate, un’emeroteca e una schedatura di articoli di periodici cinematografici e televisivi di tutto il mondo. Tra le sue tante pubblicazioni, da ricordare l’enciclopedia degli autori e delle opere del cinema “Filmlexicon”, in dieci tomi, e la raccolta di numeri monografici dedicati alla schedatura del cinema muto italiano di Aldo Bernardini e Vittorio Martinelli. È in corso d’opera l’ambizioso progetto di una “Storia del Cinema Italiano” in 15 volumi. 4 La Cineteca Italiana, diretta per lunghi anni da Gianni Comencini, svolge dal 1947 un’interrotta attività di conservazione e diffusione della cultura cinematografica, attraverso il restauro delle opere e un ciclo di proiezioni annuali. 5 Il Museo del Cinema di Torino, in assoluto uno dei più suggestivi musei del mondo (non solo di cinema), è installato nella definitiva sistemazione della Mole Antonelliana. La struttura, organizzata in diversi livelli, permette al pubblico un percorso che lo trasporta attraverso i secoli: dall’inizio di quella che può essere definita la lunga strada della visione ad oggi. Le collezioni raccolte da Maria Adriana Prolo – fondatrice del Museo nel 1958 – oggi sono considerate tra le più importanti al mondo. A questo ente, il regista napoletano Francesco Rosi ha recentemente donato il suo ricco archivio di documenti e di memorie. 6 L’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza, animato per lunghi anni da Paolo Gobetti, con iniziative di grande importanza per lo studio e la divulgazione della storia di carattere resistenziale, si connota per l’attenzione agli audiovisivi ma anche ad attività di vario genere in cui si mette in pratica l’incrocio di fonti diverse. Per quanto riguarda gli ultimi anni è utile accennare ad un ciclo di iniziative, organizzate in collabo-

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L’ANTICO AL CINEMA

e Democratico di Roma7 a cui vanno aggiunti enti che hanno una storia a sé, dall’Istituto LUCE, la più antica struttura italiana ancora in attività e di cui si parlerà in seguito, alle teche della RAI, con la preziosa documentazione di carattere televisivo. Per quanto riguarda il periodo del cinema muto, si deve tener presente la meritoria opera di scoperta e valorizzazione svolta soprattutto da due cineteche che sono all’avanguardia in campo mondiale: la Cineteca del Friuli con sede a Gemona8 e la Cineteca Comunale di Bologna9. Oltre a questi enti bisogna considerare alcune strutture di vario genere specializzate razione con la Presidenza del Consiglio dei Ministri ed enti locali (Comune e Regione), rivolte agli studenti e finalizzate alla conoscenza di alcuni periodi storici attraverso rassegne cinematografiche. 7 L’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico ha la doppia funzione di conservazione di un vasto patrimonio di documenti audiovisivi (ma anche cartacei, fotografici e di altro genere) e di promotore di film con materiali archivistici o di ricerca sul campo. I film documentari, i film di fiction, i documenti audiovisivi sono prevalentemente di argomento storico-sociale e riguardano tutto il Novecento, in particolare gli anni dal 1945 al 1998. Si riferiscono a tutti i paesi del mondo, anche se l’Italia ha una parte predominante. Altro settore importante, in cui è impegnato l’archivio, è il restauro di materiali che rischiano la dispersione. Per il patrimonio di immagini conservato e per la scelta delle iniziative, l’Archivio ha mantenuto uno stretto e costante rapporto con la storia contemporanea. Negli ultimi anni l’Archivio si è fatto promotore di convegni di studio in cui ha chiamato a confrontarsi gli esponenti più importanti di discipline e di campi diversi al fine di focalizzare l’attenzione sull’importanza delle fonti audiovisive per lo studio della storia contemporanea. 8 La Cineteca del Friuli, diretta da Livio Jacob, si è costituita nel 1977. Possiede film di finzione a 16mm, di corto e lungo metraggio, documentari e cinegiornali su pellicola di vario formato, una fototeca, una biblioteca specializzata, un centro di documentazione con schede di film di tutto il mondo consultabili su CD-rom, pubblica una rivista, “Griffittiana”, e opere monografiche dedicate in particolare al cinema muto. Con i film del proprio archivio ha prodotto diverse videocassette di documentazione sulla storia della regione e su temi di carattere più generale. Organizza dal 1981 a Pordenone “Le giornate del cinema muto” che richiamano ogni anno da tutto il mondo una folla di archivisti, storici, accademici, critici, studenti, in cui presenta una rassegna di opere cinematografiche ritrovate o restaurate. Il sito Internet della cineteca si trova con www.cinetecadelfriuli.org. 9 La Cineteca Comunale di Bologna dal 1987 organizza la rassegna annuale “Il Cinema Ritrovato” riportando alla luce settori sempre più vasti del cinema muto. L’archivio filmico conserva pellicole in 35 e 16 mm, distribuite lungo l’intero arco della storia del cinema (muto e sonoro, di finzione e documentario). Tra le collezioni più interessanti: la collezione di cinema muto italiano di circa 400 titoli, la collezione di cinema sovietico, dai classici degli anni Venti alle opere del disgelo, dai film stalinisti quelli del dissenso degli anni Settanta e Ottanta (oltre 1.000 titoli), il fondo Tortolina (1.300 titoli dei capolavori del cinema classico, di autori europei e hollywoodiani), la collezione dei cinegiornali e dei documentari italiani, dall’inizio del Novecento a oggi, la collezione del cinema “popolare” italiano (dagli anni Trenta agli anni Sessanta). Alla Cineteca di Bologna, il compianto Vittorio Martinelli, uno dei padri della riscoperta del cinema muto e per anni insostituibile collaboratore del “Cinema Ritrovato”, ha voluto lasciare il suo immenso archivio di documenti riguardanti il cinema di ogni epoca e di ogni paese. Lo stesso Martinelli, prima della sua improvvisa scomparsa, ha fatto in tempo a impostare il lavoro di catalogazione del suo archivio.

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in campi diversi, come la sezione Audiovisiva dell’Istituto Regionale “Ferruccio Parri” di Bologna, il Centro di Documentazione Ebraica di Milano, l’Archivio di Cinema e Storia del Museo Storico di Trento, che si occupa della prima guerra mondiale, la Cineteca Comunale di Rimini e le videoteche e cineteche incardinate in alcuni dipartimenti universitari. Non bisogna dimenticare la sezione audiovisiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri, con la sua produzione di documentari dedicati alle diverse realtà dell’Italia del dopoguerra10 e la più recente sezione audiovisiva dell’Archivio Centrale dello Stato di Roma, come pure l’Istituto Sturzo, che recentemente ha preso a studiare in maniera sistematica i documentari politici del dopoguerra promossi dalla Democrazia Cristiana, a testimonianza di una crescita di importanza delle immagini in movimento per enti deputati alla conservazione delle fonti tradizionali del nostro patrimonio di memorie. Alcune di queste strutture possiedono archivi, biblioteche specializzate, più o meno fornite, curano la pubblicazione di importanti riviste di settore e organizzano retrospettive e rassegne organiche attraverso cui fanno conoscere agli studiosi e al pubblico la loro dotazione di materiale audiovisivo. Una sede di dibattito e di ricerca sul tema del rapporto del cinema con la storia è diventata, negli ultimi anni, l’Università degli Studi di Salerno con le molte iniziative sorte sotto la sigla FilmIdea. Incontri universitari di cinema, organizzati dal 2004 all’interno del Corso di Laurea di Scienza della Comunicazione della facoltà di Lettere e Filosofia11. Anche in questo caso si è proposto il cinema come momento 10

Si veda la documentazione riportata nei volumi, stampati dall’Istituto poligrafico dello stato, Trenta anni di cinema, 1976 e Per Immagini. Gli audiovisivi prodotti dalla presidenza del consiglio dei ministri (1952-1995), s. d., contenente la descrizione di oltre 500 filmati. 11 FilmIdea nasce dall’esperienza di due convegni tenuti rispettivamente nel 2002 e nel 2004. Il primo, Le linee d’ombra dell’identità repubblicana, vide la partecipazione di storici, sociologi, esperti di comunicazioni audiovisive e si concluse con l’attribuzione della laurea honoris causa ad Alberto Sordi, prototipo dell’italiano medio, l’attore che ha meglio rappresentato e caratterizzato tutte le “linee d’ombra” della nostra storia più recente (cfr. Pietro Cavallo, Gino Frezza, a cura di, Le linee d’ombra dell’identità repubblicana. Comunicazione, media e società in Italia nel secondo Novecento, Liguori, Napoli 2004). Nel secondo, La televisione e la storia, si confrontarono studiosi, documentaristi, registi e personaggi della televisione e dello spettacolo (tra i tanti Francesca Anania, Pippo Baudo, Gian Piero Brunetta, Nicola Caracciolo, Simona Colarizi, Piero Corsini, Pasquale D’Alessandro, Gianfranco De Laurentis, Paquito Del Bosco, Guido Del Pino, Giovanni De Luna, Daniela Ghezzi, Renzo Rossellini, Pierre Sorlin, Andrea Vianello). La I edizione di FilmIdea si è tenuta nell’ottobre del 2004. Ad inaugurare gli incontri sono stati Paolo Taviani, Renzo Rossellini, Florestano Vancini, Manuel De Sica e Gianni Amelio il quale, proprio in quel periodo, era in nomination per la candidatura all’Oscar con il film Le chiavi di casa. La II

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L’ANTICO AL CINEMA

di discussione tra gli studiosi degli audiovisivi e quelli di storia, con retrospettive su autori o eventi storici, arricchite dalla testimonianza diretta di protagonisti che hanno portato agli studenti il frutto delle loro esperienze e del loro lavoro. Un riflesso di questa impostazione metodologica si trova nel volume La storia sullo schermo. Il Novecento12 in cui sono trattati i modi in cui il pianeta cinema trasmette il suo apporto alla storia contemporanea: la rappresentazione dei film dei principali autori italiani, le modalità dell’utilizzazione delle fonti (audiovisive ma anche tradizionali, come gli archivi cartacei), la divulgazione della storia attraverso il cinema e la prospettiva di nuovi orizzonti interpretativi suggeriti dalla galassia delle immagini in movimento. Da sottolineare il paragrafo Block-notes di un docente, in cui lo storico Pietro Cavallo illustra il suo metodo di usare il cinema per lo studio della storia contemporanea13. Ma l’elenco di enti e iniziative sarebbe troppo lungo da fare in questa sede e rinvio ad altre mie pubblicazioni per ulteriori approfondimenti e per una bibliografia più accurata. In questa occasione è sufficiente mettere in luce una tendenza, una sensibilità, un modo di operare nuovo che sta prendendo piede negli ultimi anni e che coinvolge ambiti scientifici e accademici rimasti fino ad oggi separati. Come si vede, da questi pochi accenni, il tema dell’utilizzazione delle immagini in movimento come fonte storica è ricchissimo di pos-

edizione, tra l’aprile e il maggio del 2005, è stata segnata dalla presenza di studiosi (Gian Piero Brunetta dell’Università di Padova, Pierre Sorlin della “Nouvelle Sorbonne” di Parigi, Giovanni De Luna dell’Università di Torino, Luisa Cigognetti dell’Istituto Parri di Bologna, Guido Del Pino delle “Teche Rai”, Paquito Del Bosco dell’Archivio sonoro della canzone napoletana, Pasquale D’Alessandro vicedirettore di Rai3), di registi (Lina Wertmüller, Giuliano Montaldo, Giuseppe Bertolucci, Folco Quilici, Alessandro Piva, Renzo Rossellini, Ruggero Deodato), da attori come Carlo Croccolo e Alessio Boni. Nella IIIa edizione di FilmIdea, tra l’ottobre 2005 e l’aprile 2006, il campus di Fisciano ha ospitato Franco Battiato, Luigi Lo Cascio, Ennio Morricone, Giuseppe Tornatore, Ettore Scola, Enzo Decaro e Fabrizio Gifuni. La IVa edizione si è conclusa il 24 maggio 2007 con Luis Enrìquez Bacalov. In precedenza erano stati ospiti Luciano Ligabue, Michele Placido, Mario Monicelli, Marco Pagot, Dario Argento. Anche nel 2006/2007 FilmIdea ha curato la tradizionale rassegna “Cinema e Storia”, giunta al quinto anno consecutivo, sul tema: “Il cinema racconta la società italiana”. A “Cinema e Storia” si è affiancata, dal 2006, “Cinema & Musica”, rassegna di film in cui il rapporto immagini-musica è particolarmente significativo. Cinema e storia. Esperienze a confronto è stato infine il tema di una giornata di studio che ha messo di fronte due storici dei rispettivi campi di ricerca: Francesco Casetti e Ferdinando Cordova (Università di Salerno, 4-10-2007) in vista di un ulteriore e più completo approfondimento da svolgere presso la stessa sede. 12 P. Iaccio, (a cura di) La storia sullo schermo. Il Novecento, Pellegrini editore, Cosenza 2004. 13 Ivi, pp. 187-214.

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sibilità e di potenzialità e riguarda sia il versante della metodologia, che gli storici adoperano (o – se vogliamo – adoperano in maniera ancora insufficiente) nei loro studi, sia il fattore della sopravvivenza materiale della fonte stessa, che è tutt’altro che scontato. A questo secondo fattore bisogna aggiungere il problema della circolazione del materiale audiovisivo e la possibilità di accedervi da parte degli storici. Chiunque si può rendere conto che una cosa è l’esistenza di un dato documento cinematografico, custodito in qualche cineteca sparsa sul territorio, ben altra cosa è potersene servire per visionarlo o per studiarlo con l’attenzione necessaria. Questo problema riguarda soprattutto alcune ricerche storiche di carattere generale e tematico che necessitano di una documentazione sufficientemente completa e omogenea (ad esempio i film relativi ad un argomento storico: dalla Resistenza al Risorgimento, dalla la Rivoluzione francese all’antica Roma, ecc.) o riferiti ad un’area geografica: l’Italia, il Mezzogiorno, il settore archeologico di una qualsiasi regione o tanti altri temi di carattere specifico. Per lo storico, a differenza che per il critico o per il semplice appassionato, il cinema è, o dovrebbe essere, una fonte preziosa sia nei rari casi in cui raggiunge picchi di arte eccelsa, sia quando è una semplice espressione di una società, di un’epoca, di un determinato genere di spettacolo o di comunicazione. Lo storico, rispetto al critico, è meno interessato alla qualità artistica del documento che adopera e, per lui, sono altrettanto preziose fonti molto diverse le une dalle altre, (dal cinema popolare al documentario d’autore, dal capolavoro al cinema di genere), per ricostruire la storia e il clima di un’epoca. In questo volume, ad esempio, si vedrà come il cinema storico italiano d’inizio secolo, al di là del valore artistico delle singole opere, abbia contribuito potentemente alla diffusione in America e in tutto il mondo del mito dell’antica Roma. Altri saggi danno un esempio di quante sfumature sia ricca la ricostruzione dell’antico in opere cinematografiche di ogni tipo. Altra problematica importante, connessa con una maggiore utilizzazione del cinema, è quella della divulgazione scientifica e soprattutto la necessità di coinvolgere gli studenti di ogni ordine e grado. In tutte le occasioni che mi sono capitate, ho denunciato la incredibile arretratezza, per non dire in altro modo, del sistema di istruzione italiano che, pervicacemente, continua a rifiutare l’utilizzazione del cinema o delle immagini in movimento in una sistematica e seria programmazione didattica. Altra cosa è, naturalmente, l’iniziativa individuale di singoli professori o di qualche istituzione specializzata che rompe un

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rigidissimo tabù. Il risultato di questa lacuna è sotto i nostri occhi: generazioni di studenti, con qualche rara, fortunata ed eroica eccezione, hanno basato la loro istruzione senza tener conto del cinema e senza aver avuto la possibilità di apprendere un metodo qualsiasi per decodificare, studiare, utilizzare il flusso impressionante di immagini da cui sono quotidianamente sommersi. Il paradosso che ne consegue è che migliaia di studenti, senza alcuna difesa critica, continuano ad essere lasciati in balia delle televisioni commerciali, della pubblicità, di tutti gli altri veicoli che si servono delle immagini e della comunicazione per scopi che non sono di carattere educativo. Un discorso non molto diverso si dovrebbe fare anche per la televisione pubblica italiana che destina alla divulgazione, o a qualcosa che le assomigli, solo una minima parate delle trasmissioni che produce, anche col canone pubblico, e, per il resto, non fa che rincorrere le televisioni commerciali nelle trasmissioni che riguardano lo spettacolo, l’intrattenimento e il “divagamento”. Quel che è peggio è la perdita di importanza e di spessore da parte dello storico (e della storia) all’interno del moderno settore delle comunicazioni, in favore di altre figure: giornalisti o conduttori televisivi che si autopromuovono al ruolo di “storici” e che, disinvoltamente e senza alcuna competenza, trattano grandi avvenimenti del nostro passato. Costoro, in trasmissioni di grande ascolto, surrogano, a modo loro e per fini che con la ricerca scientifica e la divulgazione nulla hanno a che fare, la funzione di “agente di storia” che fino ad oggi era stata riconosciuta a chi, per professione e per preparazione, svolgeva il difficile compito di trasmissione della memoria. Stefano Pivato, uno dei più autorevoli storici italiani, ha denunciato questa deriva in un libro, Vuoti di memoria, che, naturalmente, non ha ricevuto dai mezzi di comunicazione l’attenzione necessaria. Oggi – ha scritto Pivato – i nuovi facitori del senso comune storico scrivono (o fanno scrivere) in poche settimane volumi che in qualche centinaio di pagine condensano decenni di storia italiana. È il caso di Bruno Vespa e del suo L’Italia da Mussolini a Berlusconi, uscito alla vigilia di Natale 2004 e del successivo Vincitori e vinti, strenna natalizia del 2005, nonché dell’ultimo L’Italia spezzata, anche questo uscito alla vigilia di Natale dell’anno successivo. Come dire la storia ridotta a strenna14. 14 S. Pivato, Vuoti di memoria. Usi e abusi della storia nella vita pubblica italiana, Editori Laterza, Bari 2007, p. 65. Il libro di Pivato è del 2007. La tendenza che denunzia è continuata puntuale nei Natali del 2007 e del 2008. C’è motivo di temere che, salvo catastrofi imprevedibili, continuerà nei Natali successivi...

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A fronte di questo scadimento della storia a livello istituzionale e di massa, c’è un movimento in controtendenza volto a valorizzare il cinema come patrimonio culturale. Una maggiore sensibilità verso forme e generi cinematografici, che non riguardano unicamente la produzione dei grandi autori e delle grandi opere, si sta diffondendo, non solo nella cerchia ristretta degli specialisti della materia cinematografica, ma in schiere sempre più vaste di appassionati e di avanguardie di spettatori per la sempre più diffusa consapevolezza che il cinema sia un patrimonio di interesse comune, un insostituibile scrigno della memoria individuale e collettiva. Va aggiunto inoltre che il concetto di “patrimonio” si accompagna sempre più spesso a due aggettivi: “culturale” e “storico”. E cioè il cinema, anche nell’accezione comune, è diventato, oltre che una forma d’arte, o – al polo opposto – uno strumento di intrattenimento delle masse, anche una sorta di patrimonio comune a cui si attribuisce un valore che non gli era riconosciuto in passato. Questo indipendentemente dal fatto che sia stato scoperto e utilizzato dalla storiografia ufficiale. Il cinema viene considerato storico perché è, di per sé, un’espressione della società che lo ha prodotto. Semmai l’opera che ci si aspetta dallo storico è di saperlo utilizzare e di distillare dalle sue pieghe il materiale utile a ricostruire, assieme alle altre fonti, un affresco completo di un’epoca. Cinema quindi come patrimonio comune e territorio aperto a indagini di diverse discipline e di differenti metodologie. La maggiore disponibilità di fonti audiovisive, come si può agevolmente constatare, non si risolve con un mero accrescimento di dati settoriali per gli studiosi di cinema ma contribuisce a legittimare il cinema come fonte anche nei riguardi degli storici di professione. È ciò che sottolinea Gian Piero Brunetta nell’introduzione della sua monumentale Storia del cinema mondiale (Einaudi 1999, vol. I). È opportuno, inoltre cercare di capire come, grazie a questa serie di contributi e di azioni miranti al salvataggio, restauro e possibilità di rimettere in circolazione i frammenti di una civiltà cinematografica scomparsa, il cinema sia riuscito a riguadagnare una maggiore legittimazione come fonte storica e a conquistarsi una posizione ben più visibile e riconoscibile tra i “luoghi della memoria” di questo secolo (p. XXIX).

La conservazione della memoria non può fare più a meno delle fonti audiovisive. Alle soglie di un’era in cui si sta delegando ai computer e agli altri archivi elettronici il potere di conservare la memoria, – è ancora Bru-

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netta che parla – in una fase di collasso di tutti i modelli culturali e ideologici di riferimento, non si può non avvertire in modo urgente, se non drammatico, il pericolo della cancellazione della memoria storica connesso all’irreversibilità di alcuni fenomeni. E non riconoscere agli archivi della memoria cinematografica un ruolo privilegiato di luoghi viventi della memoria collettiva. Lo storico oggi deve saper utilizzare in senso totale le fonti che la civiltà dei mass media gli mette a disposizione e riconoscerne e inventarne, se possibile, di nuove. Deve riuscire a tracciare la curva della perdita e crescita del senso nel tempo. Deve saper spremere le fonti già perlustrate da altri studiosi – come gli storici del cinema ad esempio – per farne emergere significati nuovi capaci di creare collegamenti e relazioni impreviste tra sistemi diversi. Ma anche deve sapere, a sua volta, compiere un movimento di abbandono delle proprie sicurezze e dei propri strumenti più tradizionali e di adozione di nuove fonti e strumenti di indagine per ricomporre e giungere al cuore dei meccanismi di formazione di determinati eventi attraverso ricordi, immagini, parole, suoni, voci, emozioni, segni e sogni della storia di tutti, segni e sogni capaci di lunga durata e dotati di una straordinaria volontà di sopravvivenza (pp. XXXV-XXXVI).

In anni recenti, se non recentissimi, gli storici, in particolare i contemporaneisti, si sono avvicinati alle immagini audiovisive ed hanno cominciato a studiarle, soprattutto come fonte da aggiungere alle altre tradizionali (cartacee, archivistiche, quantitative, statistiche, ecc.) della loro disciplina. Naturalmente, ci sono molte altre possibilità che il “cinema”, in tutte le sue declinazioni, dischiude agli storici, contemporaneisti o meno, per quel che riguarda una quantità di temi che propone e i modi della rappresentazione e della divulgazione attraverso le immagini. Di questo percorso si trova traccia anche nella collana, Cinema e Storia, che ospita la presente raccolta di saggi riguardanti il convegno dell’Università di Salerno. La (relativa) novità di questa iniziativa consiste nel fatto che si è cominciato a riflettere e confrontarsi tra studiosi di cinema e studiosi dell’antichità. Visti i frutti di questo primo incontro, si spera che la collaborazione continui per l’avvenire. [P.I.] *** Le ragioni, vicine e lontane, che sono alla base di questo incontro tra Cinema e Antico sono state esaurientemente spiegate da Pasquale Iaccio permettendomi così di poter svolgere solo alcune rapide considerazioni.

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Negli anni Sessanta tra i giochi preferiti di noi ragazzini non potevano mancare ovviamente i cow-boys e gli indiani. Non so se oggi risultino ancora in vetta alle preferenze, ne dubito, ma all’epoca le epiche battaglie del Far West dominavano incontrastate. Solo molti anni dopo sono riuscito a pormi la domanda sul perché, tra le tante scelte possibili, quel grande mito americano poteva riempire i pomeriggi di un nutrito gruppo di bambini europei di una piccola cittadina della provincia italiana. Le scelte mirate delle pellicole americane diffuse dopo la fine della seconda guerra mondiale, debitamente doppiate per facilitarne l’assimilazione dei contenuti, costituiscono la risposta più immediata a quella domanda ma, a ben vedere, bisogna risalire ancora più indietro. Come è ben noto, infatti, il Circo Barnum e l’altrettanto celebre Buffalo Bill Show hanno creato le premesse tra Otto e Novecento per l’accoglimento in Europa di una nuova cultura popolare di massa che trovava in quegli spettacoli teatrali e di piazza uno straordinario strumento di diffusione. Quel tipo di show portava davanti agli occhi degli spettatori gli eroi dell’epopea americana in carne ed ossa. Accanto agli eroi del Far West si muovevano però anche personaggi di un altro orizzonte storico, evidentemente giudicati assai adatti allo spettacolo ma anche sentiti come portatori di una certa “affinità” con quegli stessi eroi. Emblematica è la rappresentazione di Nerone da parte del Circo Barnum a Londra nel 189915. Il Circo Barnum e il Buffalo Bill Show costituiscono solo uno degli aspetti più evidenti e divertenti di quel processo di “americanizzazione” del mondo16 che, a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, non ha tralasciato neanche la strutturazione di una festa come il Natale17. Il cinema, nemmeno a dirlo, ha lottato fieramente per riuscire a strappare a quelle forme di rappresentazione il monopolio delle immagini in movimento e l’Antico si è rivelato un fedele specchio e compagno di viaggio nell’illustrare i valori e i cambiamenti succedutisi per tutto il corso del Novecento fino ad oggi. Ne è un esempio, tra 15 G. Pucci, Trionfi di celluloide, in E. La Rocca, S. Tortorella (a cura di), Trionfi romani, Electa, Milano 2008, p. 108. 16 R.W. Rydell, R. Kroes, Buffalo Bill in Bologna. The Americanization of the World, 18691922, University of Chicago Press, Chicago 2005 (tr. it. Buffalo Bill Show. Il west selvaggio, l’Europa e l’americanizzazione del mondo, Donzelli, Roma 2006); V. De Grazia. Irresistible Empire. America’s Advance through Twentieth-Century Europe, 2005 (tr. it. L’impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo, Einaudi, Torino 2006). 17 M. Perrot, Ethnologie de Noël, une fête paradoxale, Grasset, Paris 2000 (tr. it. Etnologia del Natale. Una festa paradossale, Eleuthera, Milano 2001).

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i tanti possibili, la rappresentazione cinematografica dell’impero romano-Stati Uniti d’America nelle sue diverse sfaccettature di potenza unita ad una missione biblica, di integrazione di comunità diverse, di decadenza18. Ma Hollywood, almeno fino alla metà del secolo scorso, è stata strettamente unita a Cinecittà e in quest’altra prospettiva, più ristretta ma non meno importante per noi, l’Antico al Cinema ha fortemente contribuito a rappresentare, mascherare e disvelare valori e aspirazioni tra le Due Guerre così come le disillusioni e le speranze del Dopoguerra. Tornando al gioco di cow-boys e indiani da cui siamo partiti, dietro quell’apparente innocuo passatempo di ragazzini agiva un potente modello culturale che ha continuato a funzionare in profondità come grande rito iniziatico del mondo contemporaneo19: da questo punto di vista il western all’italiana di Sergio Leone che si avvale di una raffinata citazione di elementi tratti dall’antichità classica sembra costituire una moderna e felice sintesi di quel mondo di immagini in movimento che dagli ultimi decenni dell’Ottocento è diventato parte insostituibile del nostro modo di vedere e di pensare. Pasquale Iaccio ha già attirato l’attenzione su un altro punto di grande importanza, vale a dire il tema dell’utilizzazione delle immagini come fonte storica. La crescente attenzione ai giacimenti audiovisivi del mondo contemporaneo appare del tutto equivalente ad una progressiva consapevolezza che si è andata affermando anche nel campo dell’antichistica in merito alla possibilità di analizzare le immagini al fine di ricavarne una conoscenza sul mondo antico qualitativamente diversa rispetto a quanto ricavabile da altri tipi di fonti, a partire da quelle letterarie. Con una bella espressione Peter Burke ha definito come “testimoni oculari” il ruolo che le immagini giocano nella ricostruzione storica20 chiarendo peraltro che “le immagini non danno accesso direttamente al mondo sociale, bensì alla visione che di quel mondo hanno i contemporanei”. Un altro tema importante è quello della divulgazione che comprende vari aspetti e livelli. Il gruppo di amici che nel tempo libero si 18 Laura Cotta Ramosino, Luisa Cotta Ramosino, C. Dognini, Tutto quello che sappiamo su Roma l’abbiamo imparato a Hollywood, cit. 19 Ad esempio H. Agel, Le rite d’initiation dans le western, in AA.VV., L’initiation. II. L’acquisition d’un savoir ou d’un pouvoir. Le lieu initiatique. Parodies et perspectives, Publications de l’université Paul-Valéry, Montpellier 1992, 221-229.. 20 P. Burke, Eyewitnessing. The Uses of Images as Historical Evidence, Reaktion Books, London 2001 (tr. it. Testimoni oculari. Il significato storico delle immagini, Carocci, Roma 2002).

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dedica al recupero di improbabili vasi antichi festeggiando l’impresa con un noto amaro liquoroso – così come raccontato in un celebre spot televisivo che di tanto in tanto viene riesumato – non deve essere preso sottogamba: infatti i nostri eroi agiscono esattamente come tombaroli senza che tutto ciò provochi una qualunque reazione da parte del pubblico o dell’organo di controllo della pubblicità. La normalità dei tombaroli amanti dell’amaro liquoroso a caccia di vasi nel week end la dice lunga sulla lunga strada che ancora l’archeologia deve percorrere per spiegare all’opinione pubblica il proprio lavoro quotidiano e le relative premesse scientifiche. Il problema riguarda ovviamente non solo l’archeologia ma le discipline che si occupano del mondo antico in generale. La frequente inadeguatezza da parte degli studiosi a trasmettere e a tradurre i risultati della ricerca in forme più accessibili al grande pubblico è cosa vera e nota, pur in presenza di una crescente consapevolezza in tal senso. D’altro canto bisogna pur dire che il meccanismo della divulgazione è in mano a operatori – soprattutto nel principale campo televisivo ma non solo – che mostrano un indistruttibile e pigro conservatorismo che conduce inevitabilmente all’idea di un pubblico amante solo della consuetudine, della banalizzazione e della semplificazione ad ogni costo. Basti pensare al terrore che produce in gran parte dei programmi televisivi ogni tentativo di ragionamento pacato e razionale che superi i trenta secondi e che tenti di sostituire i soliti misteri dell’Antico con altre prospettive e con altri “misteri” dettati dall’indagine scientifica. Il mio ringraziamento va agli amici e colleghi che hanno accettato il nostro invito e al Dipartimento di Beni Culturali che ha contribuito anche economicamente alla riuscita della giornata di studi. I contributi al volume che qui si presenta sono assai diversi per contenuto e approccio metodologico. Tale risultato è però frutto di una precisa volontà in quanto abbiamo chiesto ai nostri Autori di presentare uno studio assolutamente privo di vincoli, di rintracciare secondo la propria sensibilità anche i fili più disparati che la nostra cultura ha intessuto col mondo antico. Uno di quei fili, tanto per fare un esempio, ci ricorda che, come è noto, una lettura seppur vaga del gran libro di Edward Gibbon sulla decadenza e la caduta dell’impero romano figura tra le fonti di ispirazione della celebre trilogia della fondazione dell’impero galattico ad opera di Isaac Asimov. [M.M.]

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ANTIGONE COME OPERA APERTA E METAFORA D’ARTE CONTEMPORANEA di Mario Franco

Debbo innanzitutto chiarire il perché di questo titolo: “Antigone: opera aperta e metafora d’arte contemporanea”. C’è un antefatto ed un equivoco (o un lapsus, se si preferisce). Ero con Pasquale Iaccio e Vincenzo Esposito nei pressi del Conservatorio, a Port’Alba, quando incontrammo Ettore Massarese. “Allora vieni a Salerno?”, gli chiese Iaccio. “Solo se viene anche Mario Franco”, rispose Massarese. “A fare che?”, gli chiesi. E Massarese: “C’è un convegno, ‘L’Antigone e il cinema’”. Almeno io così capii. In realtà Ettore aveva detto “L’antico e il cinema”, ma io capii “Antigone” e, visto che non ne parlammo più, per me rimase “Antigone”, anche quando Pasquale e poi Mauro Menichetti mi chiesero un titolo per il mio intervento. Ora, tutti sapete che Ettore Massarese non è solo un valido professore, ma è anche – e direi soprattutto – un ottimo regista e attore. Quindi, la sua dizione è perfetta e se c’è stato un equivoco appartiene esclusivamente al mio cattivo ascolto. Ma sappiamo anche che qualsiasi lapsus, nell’ambito di un processo cognitivo automatico si verifica quando vogliamo deviare da una routine o quando l’informazione sensoriale in ingresso coincide con un pensiero preesistente, provocando un errore di attivazione associativa. A me cosa può essere accaduto? Evitare una routine, certamente. Sono anni che mi si chiede di mettere insieme qualche rassegna di film su un tema, uno qualsiasi. Cinema e letteratura, cinema e architettura, cinema e resistenza, cinema e ... di tutto di più. Per una rassegna di “cinema e storia” preparai un cine-collage di film che spaziavano dai primi Dieci comandamenti, a Cabiria, Ben Hur, Messalina, Gli ultimi giorni di Pompei, fino al Napoleon di Abel Gance e al Danton di Dimitri Buchowetzki. Ogni tanto Pasquale Iaccio lo usa ancora nelle sue lezioni. Se avessi prestato più attenzione alle parole

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L’ANTICO AL CINEMA

di Massarese e mi fossi attenuto al tema del convegno, avevo il mio intervento già pronto e con un buon “sussidio” audiovisivo... Ma questa volta ha giocato un ascolto distratto che si è confuso con un pensiero preesistente: una “attivazione associativa”. Antigone era già nella mia testa e aveva deciso di rimanerci. La disgraziata eroina di Sofocle si era presentata nei miei pensieri da quando, cercando qualche pagina da far leggere ai miei studenti, avevo trovato, tra gli aforismi di Theodor W. Adorno (Minima moralia, Einaudi, Torino, 1979), che “il compito attuale dell’arte è di introdurre caos nell’ordine” e che “la produttività artistica è la facoltà dell’arbitrio nell’involontario”. Come spiegarlo? Mi sembrava interessante ricondurre quest’idea di caos all’“aorgico” di Hölderlin, teorizzato proprio a partire dalla sua traduzione – per altro assai contestata dai suoi contemporanei – dell’Edipo e dell’Antigone. Quest’“aorgico” è una sorta di informe conflittuale, un elemento selvaggio, illimitato, al di là della forma, e può essere utile per descrivere l’essenza dell’arte moderna, che all’armonia pacificante del “bello” e del “piacevole” ha preferito il disordine, il dissidio, l’informe, quel caos che poi Nietzsche chiamerà “dionisiaco”. Antigone, già nel nome, anti-gone, incarna l’informe primitivo, senza nessuna legge se non un’energia che sembra provenire dagli dei o dal profondo oscuro, dal regno dei morti. Gli storici della filosofia si dividono sull’influenza che Hölderlin ha avuto su Hegel e viceversa, ma è chiaro che il conflitto, che noi chiamiamo hegeliano, tra stato e individuo, legge e istinto, è presente nell’Antigone di Hölderlin, dall’atteggiamento contrario, avverso, polemico. (Che è poi ciò che piacerà a Brecht, mentre Anouilh non ama la ribelle e parteggia per Creonte). Queste erano le idee che disordinatamente mi passavano per la testa e, debbo aggiungere, forse tutto nasceva dall’intuito di una studentessa che mi proponeva una tesi sulle artiste donne, Cindy Sherman, Marina Abramovic, Annette Messager, Rebecca Horn, Pipilotti Rist, Grazia Toderi, Vanessa Beecroft, eccetera, unite sotto il titolo “Antigone”, riprendendo le considerazioni di Judith Malina sullo spettacolo omonimo del Living e sulle costanti del conflitto nella storia umana: l’opposizione uomo-donna, vecchiaia-giovinezza, società-individuo, ordine-rivoluzione. A questo punto credo d’aver chiarito il lapsus, l’“attivazione associativa” che mi ha fatto scambiare “antico” con “Antigone”. Ma il cinema? Come costruire un intervento sull’“Antigone e il cinema”? I film che ricordavo erano due. I Cannibali (1969) di Liliana Cavani, girato alla vigilia degli anni cosiddetti “di piombo”, molto datato e

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ANTIGONE COME OPERA APERTA E METAFORA D’ARTE CONTEMPORANEA

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circostanziato; ne ho una copia, ma non avevo voglia di rivederlo, il film si sofferma sul motivo dei cadaveri insepolti per le vie di Milano e sull’indifferenza della gente, abbrutita da una guerra civile. La protagonista ha vaghe derive misticheggianti che scaturiscono dall’anomalo cattolicesimo dell’autrice, ma che non sono del tutto estranee all’eroina sofoclea. Almeno alla lettura cristiana che se ne volle dare nel Rinascimento, insistendo sulla “pietà” di Antigone nel duplice significato di devozione e compassione. Poi L’Antigone di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet (1992), una rilettura della tragedia di Sofocle attraverso la traduzione di Hölderlin, bella, molto interessante. Antigone o la disubbidienza, l’insubordinazione, ambientata nel teatro greco di Segesta, sospeso fra terra e cielo; rumore di elicotteri da guerra e cartelli alla maniera di Godard: parole scritte da Brecht “...la memoria dell’umanità per le sofferenze patite è meravigliosamente breve...”. Partendo da Sofocle, Hölderlin e Brecht, i due cineasti esplorano le probabilità della forma epica oggi. Gli Straub avevano già messo in scena la tragedia alla Schaubühne di Berlino all’inizio del 1991, in Sicilia ne hanno realizzato la versione cinematografica nella quale la totale immobilità degli attori, che nemmeno si guardano fra loro, lascia spazio solo alla parola ed ai rumori del vento che agita le foglie di un albero o le tuniche dei personaggi. Un esempio magistrale di cinema di poesia... Ma un film visibile solo per i fan di Straub-Huillet: gli spettatori comuni abbandonano la sala dopo i primi cinque minuti. Cercando su Google ho trovato anche un film greco del 1960 dove Antigone è Irene Papas ed il regista un certo Yorgos Javellas, che su altri siti viene chiamato George Tzavellas. Su YouTube ne ho visto un lungo brano con sottotitoli in inglese: film in bianco e nero, impostazione teatrale, affascinante performance della Papas. Credo che sia difficilissimo trovare il film intero e che non sia mai stato importato, doppiato e distribuito nelle sale italiane. C’è poi una Jean Anouilh’s Antigone del 1972 con Geneviève Bujold, Peter Brandon, Leah Chandler, che credo sia una registrazione di uno spettacolo teatrale diretto da Gerald Freedman, di cui ho trovato che è stato l’assistente director di West Side Story a New York City, nel 1957. Anche qui, nessuna edizione italiana e scarse possibilità di trovare una copia del film. L’idea che sul tema “Antigone e il cinema” addirittura ci fosse un intero convegno mi sembrava folle. Con quattro o cinque film a disposizione non avremmo fatto che ripeterci e girare a vuoto. Potevo invece costruire un intervento sull’Antigone come metafora d’arte contemporanea? Lo proposi a Iaccio e poi a Mauro

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Menichetti. Mi dissero subito di sì. Nessuno dei due tornò sul titolo esatto del convegno e l’equivoco continuò. Mi misi al lavoro. Sull’Antigone e sulle sue infinite versioni, riscritture e interpretazioni c’è una bibliografia immensa. Io che non sono né un grecista né uno storico del teatro, posseggo solo qualche volume: quello, fondamentale, di George Steiner, Le Antigoni (Garzanti, Milano, 2003); Antigone e la filosofia di Piero Montani, resoconto di un seminario universitario, con lunghi brani dei filosofi (Hegel, Kierkegaard, Hölderlin, Heidegger, Bultmann) sulla tragedia, ognuno seguito dal saggio di uno specialista (Donzelli, Roma, 2001) e Antigone, variazioni sul mito, a cura di Maria Grazia Ciani, che raccoglie le versioni di Sofocle, Anouilh e Brecht (Marsilio, Venezia, 2000). Sono i libri ai quali mi riferirò, molto liberamente e con qualche arbitrio, per il mio intervento. Come è noto, la tragedia sofoclea si basa sul contrasto tra Antigone, che vuole seppellire il cadavere del fratello Polinice ucciso da un altro fratello, Eteocle, e lo zio Creonte, tiranno della città, che nega il diritto alla sepoltura per un ribelle morto da nemico. La tragedia disegna l’epilogo dell’epopea dedicata alla dinastia dei Labdacidi (da cui discende Edipo). Antigone è un inno alla disobbedienza. Il suo opporsi alle norme dello stato in nome di una legge più antica e sacra ha aperto un dibattito che dura ancora, all’interno della civiltà occidentale. Le infinite variazioni sul personaggio nel corso dei secoli, da Seneca ad Alfieri, da Brecht al Living lo confermano. Antigone paga con la propria vita la trasgressione, ma non ci sarà pietà neanche per Creonte, per suo figlio Emone, che è il promesso sposo di Antigone, e per sua madre Euridice. La prima rappresentazione della tragedia di Sofocle avvenne nel 442 a.C., dopo di che non ha conosciuto periodi di oblio. Abbiamo accennato alla versione del Living e alla traduzione di Judith Malina, condotta sul testo di Brecht durante un periodo di detenzione nella Passiac Country Jail, nel ’64. Per Malina Antigone è una precorritrice del movimento femminista, anticonformista, antistatalista e anarchica. Lo scontro tra pietà e norma, viene letto come un’allegoria della dualità femminile-maschile. Le donne depositarie di un sentire “viscerale” e gli uomini portatori di una coscienza del dovere e dello Stato. Una visione che in quegli anni aveva un valore provocatorio, ma che non esaurisce la molteplicità dei temi che la tragedia suggerisce. Anche la lettura psicoanalitica di Lacan, che evidenzia nel mito l’essenza del desiderio di morte ed è probabilmente derivata dalla rilettura di Anouilh, per il quale Antigone è una nevrotica, bruttina,

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infantile e egocentrica, ci sembra riduttiva. Nel “desiderio di morte” scompare il conflitto tra leggi non scritte e quelle codificate; siano le prime quelle di una religione arcaica o dettate dal sentimento familiare, siano le seconde quelle di un tiranno o di uno stato democratico. Ma cosa apparenta Antigone all’arte contemporanea? Innanzitutto la sua voglia di disobbedire e trasgredire. Il dadaismo, il futurismo, il surrealismo sono movimenti accomunati dal desiderio di azzerare tutte le ideologie e tutti i valori. A cavallo della prima guerra mondiale ci vuole un’arte nuova, anzi, nessun’arte. L’arte è morta, come è morto Dio, e l’uomo deve trovare in sé stesso la forza di dire no alla follia camuffata da ragioni di stato e da interessi economici. Un no che è rifiuto totale del passato attraverso il rifugio nella follia innocua del nonsenso e dell’ironia. Il Dada, e più tardi il surrealismo, lottarono contro l’ottimismo positivista così come contro la grettezza tesaurizzatrice di ogni tradizionalismo, a vantaggio di un uomo che non vollero accettare mutilato, dimezzato, alienato, ridotto alle categorie del “fare” e dell’“avere”. Contemporaneamente alla psicoanalisi questi artisti andavano scoprendo che l’uomo era soprattutto fatto di desideri, di istinti, di sogni: di qui l’accento posto sulle qualità dell’immaginazione, del desiderio, sulle manifestazioni irrazionali o semplicemente ludiche dei comportamento. “La produttività artistica è la facoltà dell’arbitrio nell’involontario”, come dice Adorno. Il Dada nacque internazionalista e slegato subito da qualsiasi altra “corrente” artistica. In USA con Picabia e Duchamp, a Zurigo, con Tzara e a Parigi con un gruppo di giovani tra cui Aragon, Breton e Soupault, che avevano fondato una rivista chiamata “Littérature”. A Berlino Dada fu più politico e più aspro, faceva seguito all’Espressionismo, che aveva la volontà di fondare una religione laica, l’esigenza di ritrovare un legame autentico tra gli uomini; si unì all’effervescenza rivoluzionaria degli spartachisti, dovette sopportare la repressione socialdemocratica ed il definitivo ostracismo nazista. La nascita delle avanguardie, che ormai chiamiamo “storiche”, fu quindi influenzata dal clima storico e politico. Non diversamente avvenne per le tragedie di Sofocle. Gli storici hanno evidenziato i rapporti tra Sofocle e Pericle: Atene, raggiunto il massimo di potere in politica, nell’arte e nell’economia, si avviava ad una crisi ambigua e contraddittoria. Accanto al persistere di certezze e valori della generazione passata, nascevano visioni del mondo che vanificavano la precedente esperienza religiosa in un razionalismo e relativismo quasi assoluto: Pericle stesso concedeva ampio spazio a queste tendenze. Sofocle nell’Antigone proclama la grandezza

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dell’uomo, essere meraviglioso e tremendo che ha valorizzato fino all’incredibile le risorse del proprio ingegno. Ma ne sottolinea in modo vigoroso i limiti e, contro la nuova visione antropocentrica, afferma la necessità di “seguire le leggi della terra e la giustizia degli dèi” se si vuole far grande la città. Le avanguardie del Novecento giocano sulla valenza polisemica dei significati possibili. Tecniche tradizionali si accostano a ibridazioni insolite, tra linguaggi espressivi che avviano una ricreazione ipertestuale, di rimandi reciproci, di incroci, in una libertà che vede interagire lo sguardo e la mente. L’arte ingaggia un gioco irrealistico con la realtà, trasformata in specchio dell’illusione e del sogno. Il surrealismo, “l’ultima istantanea dell’intelligenza europea” secondo Walter Benjamin, si era liberato dalle iconoclastie dadaiste e aveva liquidato il futurismo come anticipazione della mentalità fascista. In Germania gli incubi tardo-espressionisti erano diventati la realtà hitleriana e le utopie socialiste si erano trasformate, in Russia, nella dittatura di Stalin. Il mondo si preparava a combattere una nuova e terribile guerra. Le avanguardie storiche sentirono la loro affinità con Antigone? Non esplicitamente, ma possiamo notare che il Novecento è il secolo nel quale le rappresentazioni della tragedia sofoclea sono ancora più numerose che nel Rinascimento. E ci sono musicisti d’avanguardia che tentano di dare un suono al coro della tragedia, come Arthur Honegger che scrisse un capolavoro austero e rigoroso, musicando la riscrittura di Jean Cocteau. Quest’ultimo racconta ne Il ritorno all’ordine, (Einaudi, Torino, 1995) un episodio della sua prima messa in scena: Alla vigilia della prova generale di Antigone nel dicembre 1922, ce ne stavamo seduti, attori e autori, nella sala dell’Atelier, da Dullin. Una tela azzurra come le bocce di detersivo faceva da sfondo roccioso di presepe. C’erano aperture a sinistra e a destra; nel mezzo, in alto, un buco dietro al quale è interpretata la parte del coro, attraverso un altoparlante. Avevo appeso intorno al buco le maschere di donne, di ragazzi, di vecchi, dipinti da Picasso e quelle che avevo fatto io sui suoi modelli. Sotto le maschere penzolava un pannello bianco. Si trattava di indicare su questa superficie il senso di una scena di fortuna che sacrificasse l’esattezza e l’inesattezza, parimenti costose, all’evocazione di una giornata di calore. Picasso passeggiava su e giù. Cominciò a strofinare un gesso color sangue sulla tavola che, per la disparità del legno, diventò marmo. Poi prese una bottiglia di inchiostro e disegnò dei motivi di grandissimo effetto. A un tratto annerì dei vuoti e apparvero tre colonne. L’apparizione delle colonne era così brusca, così sorprendente che applaudimmo. In strada, chiesi a Picasso se calcolava quell’arrivo, se era andato verso le colonne o se ne era rimasto sorpreso. Mi rispose che

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ne era rimasto sorpreso, ma che senza saperlo si calcola sempre, che la colonna dorica è, come l’esametro, il risultato di una azione sensibile e che forse poco prima aveva inventato quella colonna nello stesso modo in cui l’avevano inventata i Greci.

Honegger non è il solo musicista a cimentarsi con la tragedia greca. Bisogna almeno citare l’Oedipus Rex di Stravinskij e la monumentale Antigone di Carl Orff, che musica la versione di Hölderlin. Qualche anno fa (1991) il regista Carlo Quartucci mise in scena una Antigone di Sofocle nell’adattamento di Brecht riprendendo le musiche di Orff e Honegger. L’allestimento si avvaleva di un grande artista contemporaneo, Jannis Kounellis, che aveva creato delle scure piattaforme circolari di ferro come pedine di una partita a dama su cui i personaggi recitavano. Nel 1928 Alberto Savinio aveva dipinto un’Antigone che accompagnava un Edipo dal volto informe, mascherato da una rete. Due figure nude e tristi, influenzate probabilmente dall’Antigone di Vittorio Alfieri nella quale la protagonista vive nel costante pensiero di essere un “impuro avanzo” della stirpe dei Labdacidi, serbata in vita unicamente per essere utile al vecchio padre cieco. L’Antigone di Anouilh, scritta nel 1942, durante l’occupazione tedesca della Francia, ha per protagonista un’Antigone disturbata, bruttina e piena di tic, che scruta i fenomeni della natura e parla con la propria cagnetta. Decide di opporsi allo zio e di morire non tanto in nome di un’ideale o di un’azione pietosa, ma perché la morte le offre la libertà di dire “no”. Creonte è un politico, un re che “fa il suo mestiere” in un gioco troppo grande per lui; ha accettato il ruolo del comando, costringendosi così a una serie di menzogne e meschinità. Alla fine tutti muoiono. “Chi credeva in qualcosa – dice il Coro – e chi credeva il contrario... Anche quelli che non credevano in niente e che si sono trovati nella storia senza capirci niente. Tutti morti, stecchiti, inutili, marciti. Da dimenticare...”. Anouilh modernizza la tragedia facendo parlare i suoi personaggi di sigarette, film, automobili, shopping. Ma la vera modernità consiste nel crollo di ogni valore in un mondo privo di senso. L’opera ebbe un’eco dubbio. La Resistenza l’accusava di collaborazionismo: la larvata simpatia per il tiranno Creonte poteva nascondere una disposizione benevola verso l’occupante tedesco. Alla fine della seconda guerra mondiale l’arte non aveva più messaggi da comunicare se non il ricorso all’istinto, l’“aorgico” conflittuale e primitivo che riscopriva il dato fisico della pittura, il caos dell’Informale, il primo movimento artistico che si diffuse a livello

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mondiale pur seguendo percorsi diversi e spesso contrastanti. L’aggettivo sostantivato “informale” prende la gestualità spontanea dalla teoria surrealista della scrittura automatica e la mischia con l’amore per l’impasto cromatico, reso materico, ruvido con l’introduzione di elementi eterogenei: carta, sabbia, gesso, residui industriali. Ebbe il merito di evocare uno stato d’animo, più che un registro estetico, in antitesi con gli ideali di padronanza e di misura dell’astrattismo classico, a favore dell’espressività dell’artista. Suscitò opinioni contrastanti. Sartre, che vi individuò la matrice dolorosa dell’uomo appena uscito dalle atrocità della guerra, fu tra i suoi sostenitori e Georges Bataille chiarì che si trattava di un termine che demoliva “l’idea che gli accademici hanno dell’universo, al quale hanno fatto indossare una redingote matematica. Ma l’universo non assomiglia a nulla se non a qualcosa come un ragno, uno scaracchio, un feto, una vagina, uno sputo” (Bataille, Informe, in Oeuvres completes, vol. 1, Gallimard, Paris, 1970). Il pittore George Mathieu, che aveva elaborato una tecnica fondata sulla velocità di esecuzione del quadro (più rapida era l’esecuzione, meno la ragione prendeva il controllo sull’impulso creativo), calpestò pubblicamente i ritratti di René Descartes, e dei filosofi dell’Illuminismo, Voltaire e Diderot: la ragione era il nemico, bisognava seguire l’istinto e il caso. Jackson Pollock fa sgocciolare colori industriali su una tela posta orizzontalmente a terra. È il “dripping”, una tecnica nella quale la bravura del pittore si equivale al fortuito, all’incidente. Pollock lavora in un lucido delirio, febbricitante, in uno stato di continua eccitazione, la bottiglia d’alcool non attenua l’angoscia e l’ansia del dipingere mentre ascolta musica jazz, Stravinskij e John Cage. Il rapporto innovatore tra la gallerista Peggy Guggenheim e la pittura di Pollock fa da prologo al percorso espositivo che tocca gli artisti dell’Action Painting, dell’espressionismo astratto, del surrealismo morfico: Mark Rothko, Willem de Kooning, Franz Kline, Hans Hofmann, Clyfford Still, Arshile Gorky, Franz Kline. Gesti atletici che sembrano di lotta e sono invece pennellate, come a voler tradurre l’angoscia dell’uomo contemporaneo, ritrovare le energie profonde dell’inconscio. L’arte non rappresenta e non racconta: mostra se stessa negando ogni significato, lavorando sullo scarto di senso, una sorta di pensiero magmatico, che ha bisogno, dello specifico lavoro del fruitore per poter venire alla luce. Anche Brecht vuole che lo spettatore interagisca col testo, la messa in scena e la rappresentazione. Il suo teatro non raffigura mimeticamente la realtà ma è la realtà del teatro. La sua Antigone vuole suscitare la discussione, muovere le coscienze.

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ANTIGONE COME OPERA APERTA E METAFORA D’ARTE CONTEMPORANEA

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Scritta nel 1948, dopo il ritorno in Germania dall’esilio statunitense, si basa sulla traduzione di Hölderlin, ma vuole essere una testimonianza sulla potenza distruttiva della guerra. Creonte è il dittatore, Antigone è l’eroina pacifista e ribelle che vi si oppone, Tiresia è l’osservatore. Ovviamente Brecht non si limita ad una riscrittura politica: “L’uomo è smisuratamente grande quando sottomette la natura, diventa un grande mostro quando sottomette gli uomini suoi simili”. Aboliti dei e oracoli, il drammaturgo priva i suoi personaggi di ogni carisma eroico. Creonte, Polinice, Eteocle, muoiono solo per sete di dominio, in una guerra di rapina per il possesso delle miniere di bronzo. Non c’è più conflitto etico, la durezza brechtiana individua nel moderno imperialismo la fine di ogni nobile contrasto tra tradizione religiosa e legge. Chi oggi detiene il potere è egli stesso un fuorilegge senza scrupoli. A questa versione si rifà il Living. I morti insepolti sono quelli delle nuove, spietate guerre mondiali. Sono anche i morti del Vietnam. Nel 1981, a Marigliano rividi l’Antigone, nella quale lavorava un gruppo di attori provenienti da tutto il mondo, in prevalenza italiani, e intervistai Julian Beck. La sua consapevolezza non solo artistica, ma politica e civile, era di una lucidità straordinaria: Negli anni sessanta avevamo un pubblico in trasformazione, anche un pubblico borghese che stava vivendo una sorta di metamorfosi. Oggi viene a vederci soprattutto un pubblico di giovani, poiché noi parliamo di temi universali come la vita e la morte [...] Vorremmo che il teatro fosse un foro per discutere ogni aspetto della vita e parlare di economia e di psicologia, di pane e di lavoro, di storia e di etica: Antigone si oppone alla violenza istituzionalizzata dello stato, si oppone a quello che allora era il monopolio dei metalli pesanti ed oggi è il possesso delle armi o del petrolio. È contro la cultura della nostra società maschilista e violenta …

Torniamo indietro, agli anni del dopoguerra. In Italia le pratiche dell’informale e gli “straniamenti” brechtiani si opponevano alla rigogliosa fioritura del neorealismo e del realismo socialista. In pittura c’era Guttuso e pochi altri, ma nel cinema e nella letteratura il neorealismo aveva una valenza artistica e politica non indifferente. Anche il mito americano di Pavese e Vittorini era volto in tal senso: l’opera d’arte moderna doveva essere in sintonia con le tendenze di cambiamento della società contemporanea; l’artista doveva uscire dalla contemplazione patologica del proprio io per aderire ai sentimenti dell’uomo comune, meglio se proletario o emarginato. In realtà tale tensione al realismo proseguiva una tendenza già in atto sul finire degli anni

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del fascismo (il primo a parlare di “neorealismo” era stato Libero Solaroli) anche se corretta dalla lezione gramsciana. Se al cinema il neorealismo nelle sue varie sfaccettature fu un fenomeno innovativo che influenzò anche le cinematografie straniere, in letteratura esso fu sostanzialmente conservatore, staccato dalle ricerche di tutte le avanguardie europee del Novecento. Il vero centro delle trasformazioni culturali ed artistiche non era più in Europa. Si era spostato in America e precisamente a New York, città multietnica e multiculturale. Verso la metà degli anni Cinquanta vi fu una reazione alle pennellate disordinate e alle sgocciolature dell’“Action Painting”. Robert Rauschenberg, Jasper Johns, Allan Kaprow, Jim Dine, artisti molto diversi tra loro, sono considerati gli iniziatori del Neodada americano. In Italia è Alberto Burri che costruisce i suoi quadri a partire da scelte materiche, tele di sacco, plastiche bruciate. Rauschenberg ne rimane influenzato: non ritrae più gli oggetti, ma li imbratta di colore dando luogo ad una sorta di doppio senso tra dipinto inteso come quadro, e dipinto inteso come oggetto dipinto, cioè pitturato. Queste opere sono dei “Combine paintings” (combine, “mettere insieme”) e costituiscono una sorta di singolare soglia fra la rappresentazione ordinaria e la realtà. Nel 1953, Rauschenberg cancella con la gomma un disegno di de Kooning ed espone il foglio con un vago residuo di traccia come una sua opera. Il gesto stimolava una riflessione sull’arte, ma si proponeva anche di ampliarne le frontiere percettive. Da una critica radicale all’Informale vengono così a crearsi le premesse per quella rivalutazione delle icone quotidiane che opererà la Pop Art. Le teorie di John Cage, un musicista molto legato al mondo delle avanguardie pittoriche e influenzato da Schönberg come da Duchamp, spingono verso uno sconfinamento delle arti. Si afferma l’uso dell’happening, incontro fra artisti figurativi e ambienti in cui si pratica danza moderna o teatro sperimentale. Cage dà vita, al Black Mountain College, ad una manifestazione mista cui collaborano artisti di varie discipline tra cui il pittore Allan Kaprow che teorizzerà una forma d’arte che si esprime attraverso eventi, oggetti, luoghi. Tutta l’arte contemporanea diviene “opera aperta”, abbandona ogni idea di compiutezza a favore del rapporto con uno spettatore attivo, che deve avvalersi della propria strumentazione teorico-interpretativa per poterla capire e fruire. Non diversamente, come abbiamo visto, Antigone è stata per la filosofia un testo esemplare, dove il tragico e il filosofico possono confrontarsi sulla complessità degli interrogativi sollecitati. Di Antigone, come dell’arte, tutto sembra sia già stato detto, ma tutto resta ancora da

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ANTIGONE COME OPERA APERTA E METAFORA D’ARTE CONTEMPORANEA

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dire. Antigone vive ambiguamente: “né tra i mortali, né tra i morti, straniera agli uni e agli altri”. Sul “limite”, che, nella lettura di Lacan, origina l’esperienza del bello come “sfavillìo scintillante”, ma anche “l’inizio del Tremendo”. L’Antigone sofoclea (“una delle opere d’arte più eccelse e per ogni riguardo più perfette di tutti i tempi”, scrisse Hegel nell’Estetica) si pone straordinariamente tra due prospettive: il conflitto tra individuo e società e il destino che ci plasma e che ci attende. Antigone, come l’arte contemporanea, pone domande che rimarranno senza risposta definitiva, ma questa interrogazione ripetuta mantiene vivo il nostro retaggio culturale, il nostro esercizio critico, la nostra curiosità per il futuro.

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IL FUTURO NELL’ANTICO Metamorfosi d’immagini nel fumetto e nel cinema di Gino Frezza

1. Metamorfosi, immagini, media L’antichità e specificamente la cultura “classica” – greca e romana – si rivela e si manifesta quasi ogni volta che capita di approfondire temi e orizzonti dei media del presente. Nei media – soprattutto in quelli audiovisivi – l’antichità è una “origine” che puntualmente riaffiora, seppure trasformata o modificata. D’altronde, l’attenzione verso l’interconnessione fra i media del presente e le “sopravvivenze” dell’antico (nel senso in cui queste sono intese da uno studioso come Aby Warburg) sta tornando a più riprese, evidentemente perché si tratta di un nodo cruciale. Che, però, non è solo rivolto al passato: la rigenerazione del rapporto fra nuovo e antico è, difatti, segnalata come una condizione necessaria per re-immaginare e dislocare il futuro. L’insieme dei motivi antichi e classici attivi nella cultura moderna (fra Otto e Novecento) e segnatamente in quella cinematografica o dei fumetti, dalle origini a oggi, è assai vasto; per esempio, i poemi classici (greci e latini) si ripresentano – o decisamente mascherati in nuove forme, o rivestiti di abiti ingombranti ma non equivoci – nei fumetti avventurosi (italiani e americani) degli anni trenta o nel cinema d’azione di quel medesimo decennio. O, ancora: il sottile discrimine fra comicità e fantastico che nettamente emerge in varie immagini del cinema americano e italiano degli anni ’40 o degli anni ’60, può essere ricondotto – con gran divertimento – ad alcuni passi del Satirycon di Petronio. Diverse e numerose quindi possono essere le occasioni e gli stimoli per rivisitare (meglio, ritrovare) l’antico nella cultura moderna

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L’ANTICO AL CINEMA

dei media, e specificamente in quelli delle forme narrative audiovisive. Tuttavia, una prospettiva disciplinare come la sociologia della cultura e della comunicazione, che mescola i temi della sociologia dei media con la storia e la semiotica degli audiovisivi, non può non tentare alcune spiegazioni di fondo. Per esempio, quella di trattare, fra tanti, il tema generale della metamorfosi che, in una specifica evoluzione dei racconti visivi e audiovisivi fra cinema e fumetto, si declina significativamente nel campo problematico e inquieto della mutazione. Ma, per giungere a quest’ultima, occorre partire dalla prima, la metamorfosi. S’impone quindi, come necessaria e preliminare, una breve introduzione al tema, per dimostrare l’utilità e, soprattutto, l’interesse teorico a sviluppare pienamente le implicazioni di questa prospettiva, tesa a dissodare rapporti imprevedibili fra antico e moderno. Il tema – non solo poetico ma sostanziale – delle metamorfosi (con l’ovvio richiamo al grande testo di Ovidio) contiene una correlazione necessaria ad un altro tema, sotteso, relativo alla produzione di quell’immagine che ne “traduce”, o ne pone in evidenza appunto visiva, il fenomeno della trasformazione di un campo o dominio in un altro. È difatti metamorfico ogni evento in cui si determini cambiamento delle forme, passaggio da una percezione ad un’altra di diverso grado e consistenza, valicamento di confini, ovvero – ancora meglio – confusione e non-distinzione dei confini fra un campo e l’altro1, da cui derivi l’integrazione problematica di ordini che apparterrebbero originariamente a settori differenti. Per semplicità, vanno menzionate almeno due grandi tipologie di metamorfosi: – quelle di ciascun elemento della natura – organico e inorganico – introdotto e fatto penetrare nell’ambito di altri elementi naturali che, da tale intromissione, sono conseguentemente cambiati: a) il vegetale e l’animale; b) l’umano e il non umano; c) l’aereo e l’acqueo; d) l’etereo e il terrestre; e) l’evanescente e il solido; f) il fluttuante e lo stabile; g) il profondo e il superficiale. Ognuno verso l’altro e viceversa. – Quelle degli elementi riconducibili allo storico e al non-storico; per esempio: a) le forme architettoniche rispetto ai confini materiali 1 Non a caso il breve ma decisivo scritto di Italo Calvino sul grande poema di Ovidio si intitola Gli indistinti confini, in Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, Einaudi, Torino, 1979 [1994], pp. VII-XVI.

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IL FUTURO NELL’ANTICO

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dell’habitat naturale (fiumi, monti, radure, abissi ecc.); b) le costellazioni immaginarie di altri universi diversi da quello umano (dei, dee, demoni, angeli ecc.) rispetto a estensioni cosmiche non facilmente prendibili dai saperi dell’uomo (nebulose, galassie, astri lontani o lontanissimi); c) forze sentimentali e morali che si contendono il bene e il male e che lottano per contrastarsi, ma quasi sempre si mescolano in cristalli che talvolta appaiono indecidibili. Anche in questo caso: ognuno verso l’altro e viceversa. Quando si considera questa serie davvero ampia di passaggi metamorfici, di mutamenti di un ordine nell’altro; e quando si rapporta tutto ciò all’ambito della produzione di immagini, e specificamente, di immagini derivate da processi tecnologici, in grado: – di rappresentarsi come in un moto di scatto interdetto (vedi i fumetti); – oppure di possedere direttamente una dinamica sorgiva e interna, ovvero un’azione e una cinetica propria (come nel cinema), si constata che lo svolgimento metamorfico (che si tratti di immagini integrate e fuse in altre immagini, ma anche, fondativamente, della condizione propria al dinamismo dell’immagine) scatena mut-azioni imprevedibili, eppure in qualche modo originariamente inscritte (sia pure in una zona che potremmo chiamare di “prossimità virtuale” ovvero di “potenza sospesa”) nel grande repertorio della cultura e della letteratura classica. Occorre a questo punto affermare con decisione: le immagini del cinema e del fumetto cambiano seguendo l’identità dei linguaggi visivi di ciascun medium, fatta di variazioni eterogenee: la cornice dell’inquadratura (nel cinema) o della vignetta (nel fumetto) si modifica esattamente assieme al punto di vista dello sguardo (dello spettatore o lettore) e, con questo, muta in corrispondenza l’oggetto proprio dell’immagine; le dimensioni di spazio e tempo vengono sottomesse a calibrature fluttuanti e mobili, mai fisse, anche quando l’immagine e l’inquadratura sono ferme nella loro posizione, per esempio nel rapporto con un fuori campo che è sempre in tensione dinamica, aperto e sfuggente a ogni calcolo predeterminato… E dunque: le immagini del cinema e del fumetto dispongono una energia metamorfica che dalla potenza perviene alla sua conformazione reale, e ciò sia nel senso della figura (la forma che evidenzia il sorgere dell’immagine che si trasforma sotto gli occhi di chi guarda) che del concetto (la figura che rappresenta e rende esemplare lo sconfinamento

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L’ANTICO AL CINEMA

insito nella metamorfosi). Insomma: la trasformazione delle forme dell’immagine è, nel medesimo istante, la modificazione degli universi definiti dall’immagine, che ne esce irrimediabilmente segnata da (se non positivamente assegnata a) tale ordine. Questa energia della metamorfosi dell’immagine – resa possibile, anzi evidente, grazie al regime tecnologico della modernità, nei media del fumetto, del cinema e poi della televisione – a partire dalla fine dell’800 corrisponde a grandi esigenze dell’immaginario e della cultura. Il fumetto e il cinema sanno non solo esprimerla, ma anche adattare, valorizzando e ulteriormente cambiando i precedenti repertori dell’immaginario fiabesco e di quello fantastico. Immagini statiche, disegni stampati sulla carta, fotogrammi fissi che si animano e stagliano universi di forme e di significati visivi, dove le categorie spazio-temporali (il passato, il presente, il futuro) o le scale di grandezza (l’alto, il basso, il piccolo, il grande, il minuscolo e il maiuscolo, il micro e il macro) tras-colorano o meglio si tras-formano secondo linee che stabiliscono una dinamica visiva (ben presto, dal 1927, anno di affermazione del cinema sonoro, questo andamento è insieme visivo e sonoro, quindi multimediale, non solo a forte capacità sinestesica ma appunto composta di interazioni segnico-mediali differenti). La metamorfosi – che ha il regime della rapidità e della velocità nel cambiamento delle forme – è quindi intimamente cinematografica. Italo Calvino lo aveva già ben compreso: al suo interno “tutto deve succedersi a ritmo serrato, imporsi all’immaginazione, ogni immagine deve sovrapporsi a un’altra immagine, acquistare evidenza, dileguare. È il principio del cinematografo: ogni verso come ogni fotogramma deve esser pieno di stimoli visuali in movimento”2. Esiste, peraltro, una zona ben determinata di fusione fra fumetto e cinema che ulteriormente fonde e perfeziona questo livello “interno” dell’energia metamorfica di tali linguaggi audio-visivi dell’epoca moderna e postmoderna: il cinema d’animazione. Già negli anni trenta, un attentissimo indagatore delle forme del cinema – il grande critico letterario, altresì sceneggiatore di film italiani di quel decennio, Giacomo Debenedetti – coglie l’alta valenza dell’energia metamorfica del cartone animato, discutendo, con grande passione e competenza, della figura di Topolino, un “divo” che, secondo Debenedetti, dalla sua nascita nel 1928, mette in opera un efficiente fattore di integrazione dimensionale. 2

I. Calvino, Gli indistinti confini, cit., p. XII.

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Fra cosa? Debenedetti nota – nel saggio3 che redige fra il 1931 e il 1935/6 – che qualcosa di decisivo avviene (nei cartoni disneyani con Mickey Mouse protagonista, vittorioso non tanto sul piano dei racconti, ma per la capacità di interpretare al meglio la qualità potenzialmente più avanzata, sul piano estetico, del cinema sonoro) fra l’universo bidimensionale del disegno – piatto, superficiale, schiacciato sul piano – e quello tridimensionale dei corpi viventi che si agitano nella volumetria spaziale e in quello, quadridimensionale, del tempo (scandito dal ritmo e dalla musica). Debenedetti acutamente sottolinea che tali metamorfosi interdimensionali nell’immagine del cartone producono lo scatenamento dionisiaco del movimento, che penetra e trasforma il fotografico: il movimento del disegno – inizialmente piatto e bidimensionale – è in tal modo elevato alla dimensione del corpo scattante, abile, non più ridotto alla piattezza della superficie, ma efficacemente vivo, attivo. Grazie a un tale processo metamorfico, Topolino è il corpo nuovo che vince su ogni altro attore nell’epoca del primo cinema sonoro. Scatenamento dionisiaco – ossia l’innesco di un’azione audiovisiva che rompe con ogni limite, che non è irreggimentabile ma ha la facoltà di toccare e di cogliere il senso profondo del vivente, nel collegamento segreto con il mortale e l’oltre/umano – è il termine chiave, di valenza concettuale, che sottolinea il delinearsi di un ponte e di un contatto fra antico, presente e futuro. Ecco insomma il cinema d’animazione prospettarsi come un luogo culturale in cui il moderno d’improvviso – ma: non a caso, o senza che lo abbia voluto, piuttosto affermando una esigenza insopprimibile – incontra l’antico, se non addirittura lo reincarna e lo rinnova. I fumetti hanno da sempre restituito nel tipico loro andamento segnico (vignette fissate in sequenza sul supporto statico della carta stampata) le metamorfosi dell’immagine dinamica del cinema e del cartone animato. E ciò sin dalle origini. Lo testimoniano moltissimi esempi che qui non possono essere analizzati interamente, ma soltanto per campioni. Il primo è un gruppo di tavole domenicali della grande serie Upside Downs di Gustave Verbeek [figg. 1-4]. Si tratta di un capolavoro grafico-narrativo che, mirabilmente, combina la percezione “diritta” del foglio e delle figure disegnate con quella “a rovescio” delle medesime 3

G. Debenedetti, La vittoria di Topolino, in Id., Al cinema, Marsilio, Venezia, 1984, pp. 43-58.

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Figura 1

Figura 2

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Figura 3

Figura 4

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figure e dello stesso foglio: la tavola dunque è l’insieme di due livelli che si ricompongono l’uno dopo l’altro, nel senso diritto e in quello a rovescio, e nel mutare della disposizione le figure si trasformano o nella figura contraria o in quella che aggiunge il tassello narrativo in grado di completare una breve storia. Verbeek gioca esplicitamente sul labirinto delle percezioni e delle “apparenze” visive, ponendo in atto un livello specifico della metamorfosi delle immagini. Fra le sue tavole, un particolare rilievo va assegnato a quella intitolata The Fairy Palace, dove i due personaggi, Little Lady e Old Man, entrano in un bellissimo palazzo su un lago. Durante la visita nel modo diritto essi incontrano un genio e tanti graziosi folletti, nel modo a rovescio non solo Little Lady si trasforma in Old Man (e viceversa) ma i folletti diventano spiriti maligni e il genio si trasforma in un toro furioso. Esplicitamente, il testo avverte, nella didascalia iniziale, di un’avventura “a doppio senso” (“the beautiful lake” è “just like a mirror”) ed è soprattutto il disegno di Verbeek a pre-supporre uno scambio d’identità del palazzo e del suo riflesso. In questa tavola Verbeek inscena la metamorfosi della visione dei fumetti, specchiata sia nelle acque cristalline del lago che nel “lavoro segreto” compiuto dallo sguardo del lettore. Questi ha, appunto, la facoltà e la competenza di ri-comporre e fondere, con un senso specifico, il diritto e il rovescio, l’immagineuna e l’immagine-seconda. Il successivo campione è costituito da alcune strisce di un’avventura di Félix The Cat di Otto Messmer [figg. 5-6]. Felix, il gatto nero sognatore, predisposto a confondere realtà e fantasia con la lunare disposizione malinconica propria di un essere costretto a vincere ogni sorta di ostacoli, disinvoltamente trasforma i segni astratti dei punti interrogativi e li ricicla come pattini da neve. La metamorfosi, qui, è forse ancora più sottile sul piano cognitivo di quanto non lo fosse quella di Verbeek. Perché Messmer, grazie alla logica surreale dei linguaggi del fumetto, ritiene immediatamente fungibili come oggetti i simboli astratti con cui viene figurata non la parola bensì la punteggiatura, avulsa da qualsiasi frase concreta. Questi simboli astratti sono considerati alla stessa stregua degli altri oggetti residenti nel regime della rappresentazione. Ma, d’altronde, questo autore compie anche l’operazione inversa, in quanto “libera” quei simboli astratti dalla sola funzione di segno rappresentativo. Se disegnati, tali segni sono, quindi in quanto oggetti vengono da Félix riciclati e riusati come pattini. Messmer scivola, insomma, con grande competenza metamorfica, dal piano della simbolica rappresentativa a quello della simbolica narrati-

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Figura 5

Figura 6

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va-oggettuale: il fumetto ha la proprietà fluida di far trascorrere l’una nell’altra. Dall’oggettuale al simbolico al rappresentativo – e viceversa. Il fumetto eredita questa fantasmagoria delle apparenze visive dalle tradizioni antiche dell’iconografia popolare e la rilancia con spiccata

Figura 7

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forza originale. Il terzo campione è costituito da un gruppo di tavole di una serie più recente, di grande successo generazionale in Italia: Dylan Dog, albo mensile edito da Sergio Bonelli e creato da Tiziano Sclavi, con

Figura 8

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il contributo di molti validissimi disegnatori. Nelle tre tavole disegnate da Corrado Roi [figg. 7-9], tratte dall’albo La Clessidra di Pietra (n. 58, uscito nel 1991, sceneggiato da Claudio Chiaverotti), un uomo che sta ammirando ad una mostra un notissimo quadro di Salvador

Figura 9

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Dalì, vi si ritrova all’improvviso catapultato dentro. Anche il suo orologio al polso subitaneamente acquista la forma degli orologi di Dalì, mentre oggetti e idee assumono le sembianze di esseri parlanti, in grado di esprimere pensieri di grado filosofico. Si tratta di un’avventura bizzarra, che – come spesso succede in questo fumetto ideato da Sclavi – vede i criteri della metamorfosi della visione giungere a forme di riflessione sull’età contemporanea e sullo sconfinamento di quei margini che distinguono la percezione della realtà da quella della follia, l’immagine interna della mente da quella del mondo condiviso con gli altri. I fumetti sanno esprimere sagacemente, spesso anche in anticipo sugli altri media, la metamorfosi inquieta che distingue il vissuto odierno dell’era postmoderna e post-umana.

2. Mutazione e mutanti La rassegna, appena conchiusa, di alcuni campioni dell’ormai vastissimo repertorio delle immagini del cinema e dei fumetti, vuole indicare come la metamorfosi attenga, sotto varie forme e dispositivi, ad un campo vasto ed eterogeneo di produzioni culturali visive ed audiovisive – racconti, saghe, serie che si affermano dagli anni trenta ad oggi, fra gli USA e l’Europa. Qui, invece, intendo ricapitolare una specifica valenza della metamorfosi, ossia quella che attiene al tema e al fenomeno della mutazione dei corpi. Queste mutazioni danno luogo a varie tipologie di cambiamento interno, o di plurima fusione dimensionale, delle immagini. La mutazione, in quest’ottica, pur essendo consequenziale alla metamorfosi, si fa riconoscere come una sua declinazione specifica, riguardando quelle peculiari metamorfosi in cui si formano corpi sovrumani o super-umani. Corpi, cioè, che possiedono diverse nature nel medesimo involucro biologico, varie capacità di specie viventi nello stesso soma, o caratteristiche che integrano funzioni oltre-umane nella performance della carne umana. Anche questa – occorre ricordare – è una declinazione ben presente nel poema ovidiano, dove l’ambito di esistenza degli Dei incontra, si sovrappone e si mescola con quello degli uomini e delle altre specie viventi. Ma, se c’è una forzatura nel nostro richiamo, essa è obbligata dalla perseveranza con la quale la mutazione si afferma nell’immaginario audiovisivo del cinema e del fumetto. Almeno dagli anni sessanta del Novecento fino ad oggi, questo tema si sviluppa in rapporto all’avvento

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di quelle nuove capacità che al corpo umano sono conferite da trasformazioni interne, da eventi irreversibili che ne intaccano lo statuto fisico e l’evoluzione biodinamica; trasformazioni che, a loro volta, hanno a che fare con potenze extracorporee: quelle degli elementi e delle forze della natura visibile o percepibile (terra, acqua, fuoco, vento…) o degli elementi microscopici e non visibili (atomi, entità genetiche, dna…) o, infine, con l’insorgere di varchi fra l’esistenza biovivente del pianeta ed entità aliene, non terrestri, che rigenerano il corpo di uomini e donne, investito da tale intromissione. O, ancora, con le facoltà nuove dispiegate irrimediabilmente da come la tecnologia e le sue rapide innovazioni cambiano i sistemi percettivi umani, gli ordinamenti sociali, le tipologie dell’abitare e del vivere. La forma assunta dal corpo umano nell’era tecnologica avanzata – un’epoca che i media dell’immagine sonora s’incaricano di rappresentare a 360° – è incessantemente sottomessa alle radicali riformulazioni che i mutanti vivono in modo complesso, quasi sempre doloroso e sofferto [figg. 10-12]. La soglia di sofferenza, il tragico orizzonte che pervade l’esistenza di questi personaggi è evidente laddove, nel corpo dei mutanti, le forze universali che modificano il cosmo divengono, in un siffatto corpo, una proprietà singolare, esibita in tutta la potenza

Figura 10

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Figura 11

Figura 12

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carismatica che situa un evento o una possibilità tradizionalmente magica nella realtà della natura o della scienza. Il mutante, mentre conduce a un punto elevato di rigenerazione il rapporto fra individuo e cosmo, dall’altro sposta e modifica quello fra immaginario e realtà. La forma metamorfica del soma del mutante è il cambiamento dell’immagine che ne rappresenta il divenire interno. Si tratta di un livello superiore di metamorfosi. Aperto a diversi rischi e a qualità elevate d’incertezza del vivente (di ciò che è umano) che investono la stabilità di confine, l’identità fra ciò che è vivo e ciò che non lo è. Nel mutante si verificano, in altri termini, aperte contaminazioni della vita con la zona, oscura, della morte. Fra le condizioni della prima e il sopraggiungere della seconda. La relazione morte-vita si raggruma, ed è percorsa da problemi e conflitti di straordinaria intensità emotiva. Nell’esperienza dei mutanti, la Morte è una compagna ineliminabile dal percorso che innalza tali figure a miti contemporanei. Per esempio, nei film o nei fumetti nei quali essi sono capaci di esprimere come, proprio nei media o nelle reti multimediali, si dispieghino nuove sfere percettive-sensoriali, cognitive e affettive. Il mito – un racconto che investe le questioni del rapporto sociale fra gli individui, le soglie fra vivente e non-vivente – nelle storie dei mutanti si reincarna nelle avventure che investono i nuovi parametri percettivi, cognitivi ed emozionali dell’era tecnologica. Talvolta semidei, ma anche personaggi in cui la contaminazione degli ordini ossessivamente è puntata a rintracciare una possibile condizione del senso nell’entropia che contraddistingue il mondo contemporaneo, i mutanti riescono ad essere espressione sincera di questioni (come le relazioni osmotiche fra la tecnologia e il vivente, fra la vita naturale e il sapere tecnologico) che altrimenti resterebbero irrisolte o enigmatiche. Il simbolo rappresentato dai mutanti coglie una impossibile stabilità dell’immaginario del presente e – forse, con alta probabilità – del futuro. La loro inesausta facoltà di rigenerare il corpo pone il problema di quale requisito assicuri il transito dalla forma che sparisce a quella che viene all’orizzonte. Si tratta di un decorso che possiede risvolti dolorosi, tormentati, enigmatici, dai molteplici sensi, che sempre di più illuminano e caratterizzano i generi e le fisionomie espressive dei racconti audiovisivi.

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“…DETTO ANCHE L’AFRICANO”. L’ANTICHITÀ DI ROMA NELLO SGUARDO DI LUIGI MAGNI di Gian Luca Grassigli

1. detto anche… L’invito gentile di Pasquale Iaccio e di Mauro Menichetti a partecipare a un incontro sul cinema e l’antico1, è stata per me l’occasione di riandare con la memoria a una vecchia curiosità, forse un po’ bizzarra, rimasta sempre sospesa. Giovane e non veloce studente alle prese con l’esame di Storia Romana, capitai una notte, probabilmente in cerca di pellicole più emozionanti alla televisione, sul film di Luigi Magni, Scipione detto anche l’Africano2. Forse fu la prossimità dell’esame, forse furono il disincanto di Mastroianni gettato nell’antica Roma, o il Catone di Gassman, sempre felicemente sopra le righe, o la passione mai sopita per la bellezza assoluta di Silvana Mangano, forse fu il senso di silenzio che mi pareva attraversare il film, in ogni caso mi fermai a guardarlo. Non avendo più avuto occasione di rivederlo, quel lavoro si disperse nei miei ricordi, lasciando solo una vaga curiosità insoddisfatta, un’idea di stranezza, di irrisolto, che è ciò che mi ha spinto senza esitazione ad occuparmene in occasione di questo incontro. Che non fosse un capolavoro, o che comunque non fosse ritenuto tale, mi accorsi subito non solo per la difficoltà di recuperare una copia del film stesso, da rivedere con curiosità ed attenzione, ma 1 Ringrazio l’organizzazione non solo per l’occasione di scambio proficuo e interessante, venutasi a creare sia tra colleghi omologhi, sia soprattutto con specialisti del linguaggio e della cultura cinematografica, ma anche del clima felicemente conviviale in cui tutto ciò ha potuto svolgersi. 2 Scipione detto anche l’Africano, di L. Magni, sceneggiatura di L. Magni, Italia 1971.

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anche per la confusione degli studiosi di cinema e di alcuni esperti, a cui mi rivolsi per un qualche scambio di opinioni: “ah, il grande Carmine Gallone”, “certo, il film di Carmine Gallone”, e io, allora inconsapevolmente, mi trovavo a citare una battuta del film, “no, detto anche l’Africano”. I primi dubbi sull’efficacia della mia scelta, da vero dilettante di cinema, mi vennero nel momento in cui, sfogliando le filmografie di Magni, trovai che rispetto al lavoro in questione si potevano dividere in tre gruppi: quelle che lo datavano al 1970, quelle che lo datavano al 1971 e infine quelle che non lo datavano, perché non lo inserivano nemmeno. Il colpo finale me lo infersero il Morandini e il Meneghetti: “verboso, con molti momenti di stanchezza”3, recitava il primo, a cui il secondo faceva eco più o meno sullo stesso tono. Da dilettante, avevo cominciato bene.

2. La storia Anche se certamente non così brutto come scritto, il film non è, diciamo così, e per quello che può significare questa parola, “bello”. D’altra parte non sono uno studioso di cinema, e non sono interessato a questo lavoro dal punto di vista di una riuscita estetica. Lo esaminerò, certo, dal punto di vista formale, del resto come altro si potrebbe guardare?, ma secondo una prospettiva che ha a che fare con lo sguardo del regista sull’antico. L’antico entra prepotentemente in questa pellicola, ne costituisce il contesto temporale, lo sfondo visuale e insieme la struttura narrativa. Come l’antico passa tra le mani (gli occhi) del regista è il dato su cui mi interessa riflettere. Prima, però, occorrono alcune parole sulla storia. La vicenda trae spunto da un fatto vero, ossia il processo intentato, alla fine della guerra vittoriosa contro Antioco di Siria, ai danni di Lucio Cornelio Scipione Africano e di suo fratello, detto l’Asiatico, accusati, tra l’altro, di essersi fatti corrompere dal re nemico4. Si tratta, dicevamo, di un fatto ‘vero’, ma così come possono essere veri i fatti storici: si esplicitano ragioni, si mettono in gioco valori, si dichiarano dei fini, che spesso, tuttavia, sono funzionali a raggiungere ciò che non si dice, ciò di cui nemmeno si parla. La questione, poi, ha effettivamente 3 4

Il Morandini 2009. La fonte principale è Liv. XXXVIII 50 ss.

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“...DETTO ANCHE L’AFRICANO”

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contorni poco chiari, stando anche alle fonti antiche, che rispondevano sempre a interessi in causa, ma che si può definire in generale uno scontro interno alla classe dirigente. Nella sostanza, all’Africano, che per molti anni fu uno dei padroni della repubblica, fu concessa la possibilità di uscire dal processo abbandonando la scena pubblica, e di ritirarsi quindi nella sua villa di Literno, dove concluse i suoi giorni. Dal punto di vista storico l’affare, effettivamente complesso, pare comunque mettere in gioco una questione ricorrente nella storia di Roma antica, ossia la paura da parte di una fetta ampia della classe dirigente della concentrazione di potere nelle mani di un solo uomo, come effettivamente accadde in certi momenti della vita di Scipione, e in particolare la gestione secondo modelli di comportamento orientali, ossia ‘tirannici’ dal punto di vista dei latini, con cui questo potere poteva essere esercitato. E Scipione, senza dubbio, rappresentò nella realtà effettiva così come nell’immaginario antico e poi nella tradizione uno dei paradigmi della figura dell’attitudine monarchica. Nel film la questione viene ridotta necessariamente a una struttura più semplice, ove lo scontro si consuma tra un roboante CatoneGassman, che dietro i valori supremi dello stato e una buona dose di falso moralismo cela in verità un’acre gelosia di tipo personale per il rivale, e uno Scipione-Mastroianni, fedele nella realtà della pratica ai valori fondanti la repubblica, ma superato, ormai, dai giochi di una dialettica politica, che nasconde le misere verità di interessi personali dietro nobili facciate. Una lotta per il potere, dunque, tra il moralista Catone, che chiama in causa virtù civili solo per riuscire a scalzare l’onesto Scipione, che dopo aver creduto in quello stato e averlo gloriosamente servito, guarda con disincanto a questo tempo nuovo, dal moralismo imperante, che prelude senza dubbio alla rovina. In mezzo sta il fratello, Scipione l’Asiatico, interpretato dal fratello di Mastroianni, Ruggero, celebre montatore cinematografico5, che si è impadronito, effettivamente, di denaro pubblico, ma che vive il tutto con l’aria, consapevole e tranquilla, del fatto che si tratti ormai di una prassi normale. La vicenda, dunque, si allontana molto dalla realtà storica, che è ovviamente solo un pretesto, e così per come è scandita, nella sua semplicità, non fa che rimandare, con terrificante immediatezza, alla realtà attuale.

5

Lo è anche di questo stesso film.

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L’ANTICO AL CINEMA

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3. Ricostruire l’antico Per quanto attuale, o meglio attualizzabile, la storia, tuttavia, è antica. Lo sguardo del regista, dunque, e la realtà che fa scorrere dinanzi ai nostri occhi, devono dare una forma all’antichità. Non penso, naturalmente, che Magni e gli altri (pochi) registi che chiamerò in causa abbiano e propongano una teoria dell’antichità. Proprio per questo, tuttavia, agli occhi di un archeologo il loro sguardo diventa ancora più interessante, perché non nasce da una riflessione storica in senso tecnico-disciplinare, ma ha piuttosto a che fare col modo, anzi coi modi, coi quali un dato presente pensa – può pensare – il proprio passato. Se il film funziona, anzi se il film esiste, dunque, possiamo dire che lo sguardo sull’antico che il regista propone, e quindi l’antichità a cui dà forma, è uno degli sguardi possibili per quel presente sull’antico e per l’antico. Sappiamo che il passato, e il suo racconto, la storia, esistono come dati oggettivi, ma insieme anche come operazioni culturali di ricostruzione, reinterpretazione, revisione, che pongono le loro radici nel presente che le produce6. In questo senso, dunque, fare storia antica è anche, sempre, fare storia del presente7. Un regista, perciò, quando realizza un film ambientato nel mondo antico, in qualche modo, fa quello che fanno storici e archeologi, su altre basi naturalmente, (ma forse non sempre), ossia propone un’interpretazione, una lettura, una visione dell’antico. Non parte naturalmente da una prospettiva scientifica, ma prende avvio dalla sua necessità di raccontare e di dare immagine, di plasmare una sua visione dell’antico, benché in alcuni casi ci si sia posto il problema di una resa cosiddetta filologica, aderente quindi alle conoscenze storicoarcheologiche disponibili, in funzione magari della massima verosimiglianza possibile. Ma nel momento in cui l’antichità viene ri-proposta e quindi in qualche modo manipolata, viene anche fatta vivere, riceve una forma, un’identità, una spiegazione. È questo l’aspetto che mi interessa particolarmente.

6 Il che è, tuttavia, cosa ben diversa dal sostenere che ogni storia è possibile, o che non esiste oggettività su cui basarla, posizione frutto sempre e solo di un’ideologia terribile e totalitaria, contro cui si è espresso in maniera splendidamente definitiva Vidal-Naquet 2008a. 7 Canfora 2004; Vidal-Naquet 2008b.

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4. Sguardi sull’antico Ci sono vari modi, naturalmente, per vedere e proporre una visione dell’antichità. Nel cinema ci sono tanti sguardi e quindi anche tante antichità. Vorrei cominciare da quella proposta da un film, che precede di poco il lavoro di Magni e da cui, a mio avviso, Magni è probabilmente influenzato, ossia il Satyricon di Fellini8. Penso a uno dei primi sguardi che Fellini propone, che è anche una dichiarazione, implicita, forse anche inconsapevole, di cosa sia l’antichità o forse, dovremmo dire, di dove sia l’antichità. Encolpio e Ascilto, i due protagonisti, virati in uno schema omossessuale impossibile per l’antichità9, attraversano una Roma sotterranea, popolata di un’umanità varia e decadente, vecchia e disfatta, sulla quale si distaccano per il candore della veste e la luminosità dei capelli, per il biancore dell’incarnato. Si tratta di un mondo buio, privo di ogni luce naturale. Questo percorso sotterraneo, questo lungo attraversamento di un corridoio, in cui si aprono sguardi iterati e compiaciuti su ciò che normalmente definiremmo vizio e depravazione, termina su una via che sale e conduce a un cortile interno, sul quale si affacciano delle abitazioni. Ancora la luce è livida, viola, non naturale. La camera allarga il suo sguardo e comincia a salire: una struttura enorme, un alveare diremmo oggi, su cui si apre un’infinità di porte, di minimi appartamenti, sembra proseguire senza fine. E la camera, in questo grigio violaceo, continua a salire, a inseguire quest’edificio le cui pareti vanno restringendosi verso l’alto, come se fossimo all’interno di una ziggurat o di una piramide, e solo alla fine, come attraverso un compluvium, si esce da questo mondo infero, si percepisce l’azzurro del cielo (fig. 1). Col primo sguardo di Fellini, dunque, ci troviamo di fronte a un’antichità sotterranea, buia, oscura. Un’antichità scavata nelle grotte, ma anche chiusa in se stessa, in questo abitato alveare, compreso sotto una sorta di grande tetto, non sappiamo se sopra o sottoterra, dal cui foro centrale, appena, si intravvede il cielo. Ma è sotterranea anche perché si presenta come una sequenza onirica di pulsioni ossessive e non permesse, che trovano possibilità di esistere, proprio perché agite in un mondo oscuro, nascosto. È sotterranea due volte, dunque, questa antichità, nella sua disposizione spaziale, ma anche nella sua

8 9

Satyricon, regia di F. Fellini, sceneggiatura di F. Fellini e B. Zapponi, Italia 1969. Sulla questione in generale vedi l’ottimo Dupont-Éloi 2001.

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L’ANTICO AL CINEMA

Figura 1 - Fotogramma dal Satyricon: l’abitato-alveare dal cui compluvium entra la luce.

collocazione psicologica, perché contiene e consente di vivere ciò che appare non esprimibile alla luce del sole. Di lì a pochi anni, nel primo manuale di scavo archeologico italiano, non si esiterà a paragonare l’attività di scavo dell’archeologo a quello di scavo ‘metaforico’ della psicanalisi10: la forza incredibile della trama che connette i contesti culturali! Questa antichità sotterranea viene citata da Magni in diverse parti del film, ma diviene particolarmente evidente in una delle scene fondamentali, la cavalcata di Scipione, coperto delle insegne delle sue glorie militari, e celebrato dal lancio di fiori di alcune ragazze, che attraversa Roma, quasi in un trionfo solitario, in un sole abbagliante e applaudito dal buio di terme e abitazioni incongruentemente sotterranee (fig. 2). Vedremo più avanti che esiste anche un’antichità luminosa nel Satyricon, ma sarà un momento molto particolare, che vive, appunto, come eccezione. D’altro tipo, molto più minuziosa e senza dubbio più ‘filologica’, appare la ricostruzione proposta in un film di carattere completamente diverso, di qualche anno più recente, l’acuto e spassoso Brian di Nazareth11. Qui, un gruppo di congiurati prepara il piano per una ‘azione terroristica’: “…girando a sinistra si entra nella fogna commemorativa di Cesare Augusto. Da lì procederemo direttamente all’ipocausto: hanno appena cambiato le piastrelle. Perciò, congiurati, attenti a non sporca10 11

Carandini 1981, 15-30. Life of Brian, di T. Jones, sceneggiatura di G. Chapman, Gran Bretagna, 1979.

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Figura 2 - Fotogramma da Scipione detto anche l’Africano: applauso a Scipione che passa a cavallo da una sala termale sotterranea.

re. Ci troveremo proprio sotto la sala delle udienze di Pilato. E questo è il momento di uscire allo scoperto (corsivi miei)”. Nel produrre il classico buco sotto il pavimento per entrare, appunto, nella stanza, solleveranno la parte centrale di un grande mosaico, che imita strettamente una pittura pompeiana, in cui una prostituta è raffigurata in attività con un cliente: inutile dire cosa sia rappresentato nel punto centrale. Ci troviamo di fronte, dunque, a una voluta giustapposizione di elementi reali, la cui ridondanza, spinta fino al parossismo, funziona essa stessa da elemento comico Anche la sala delle udienze di Pilato corrisponde alla stessa logica di giustapposizione e iterazione parossistica di elementi reali, assolutamente decontestualizzati: il grande scranno, copiato da modelli antichi, sta su un basamento marmoreo, a cui si accede mediante un’ampia scalinata, a cui fa da sfondo un colonnato semicircolare, con capitelli corinzi e una trabeazione coerentemente decorata, che inquadra pannelli con pitture tratte dal ciclo della cosiddetta Sala dei Misteri della omonima villa pompeiana (fig. 3). Di ‘rosso pompeiano’, del resto, sono decorate tutte le pareti della grande sala.

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Generi contrapposti, dunque; in quest’ultimo caso, peraltro, la maggiore aderenza a forme oggettive note dell’antico, per quanto moltiplicate con enfasi quasi inverosimile, rafforza il carattere parodistico, aumentando la differenza tra contesto di rappresentazione, fedele in un certo modo all’antico, e tipo di azione rappresentata, effettivamente assai improbabile. Ma esiste anche la volontà e la possibilità di una rappresentazione ‘filologica’ nel tentativo di aumentare la verosimiglianza della storia, di rendere lo spettatore partecipe in modo profondo, per rendere più acuto il pathos, il coinvolgimento emotivo.

Figura 3 - Fotogramma da Life of Brian: sala delle udienze di Pilato.

Occorre fermarsi un istante a precisare il significato di ‘rappresentazione filologica’. Non significa, infatti, che gli autori abbiano cercato di ricostruire gli ambienti, le situazioni, i costumi, così come erano nella realtà antica, quanto piuttosto che attraverso la riproposizione di una serie di elementi effettivamente realistici e quindi filologicamente ricostruiti, è stata confezionata un’immagine sostanzialmente di fantasia, che potesse però essere percepita dal pubblico come realmente aderente alla verità dell’antico. Si tratta, insomma, di una ‘filologia’ funzionale alle aspettative del pubblico e non alla ricostruzione effettiva di un’immagine per quanto possibile aderente all’antico. È il tentativo messo in atto con i recenti Troia o Alessandro12, ma 12

Troy, di W. Petersen, USA 2004; Alexander, di O. Stone, USA-Gran Bretagna, 2004.

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che risale in effetti ai grandi film del passato, in cui si vuole eliminare la frattura tra il tempo del racconto e quello dello spettatore. E qui ci troviamo di fronte a “Scipione l’Africano” di Carmine Gallone13, un film con cui, inevitabilmente e consapevolmente, il nostro ha a che fare, fin dal titolo naturalmente. Anzi, si potrebbe dire che il film di Magni esiste, perché è esistito il film di Gallone, che parte della sua poetica è rivolta a rispondere allo Scipione ‘fascista’. Non è questo il luogo per ragionare sull’importante film di Gallone, che del resto è stato variamente studiato14. Qui basta sottolineare come il racconto dei successi politici e militari di Scipione potesse costituire una metafora grandiosa nell’idea propagandistica dell’Italia contemporanea di allora15. In questo senso il presunto filologismo del film, marcando apparentemente la differenza cronologica tra passato e presente, finiva in verità col consentire ancora meglio una sovrapposizione, una sorta di identificazione dei due tempi, dal momento che l’antico, poiché presentato in apparenza oggettivamente come tale, funzionava in realtà come garanzia storica di riuscita del presente.

5. L’antichità diruta Magni, tuttavia, non sceglie nessuno di questi tre modi di riproposizione dell’antico. Preferisce – inventa – una strada tutta sua, che forse è anche l’idea più profonda del film. Prima di parlare di questa strada, però, occorre richiamare alla mente il tono generale del film, che è certo commedia, e lo vedremo subito, ma in quanto tale densa di momenti cupi, segnati da una riflessione amara sulla vita. Per capire il tono generale della pellicola, e la sua relazione di opposizione allo Scipione tradizionale, basta vedere come si apre il film con l’entrata in scena di Scipione. Due bambini, una è Cornelia, la figlia, stanno giocando con l’elmo di Scipione nell’atrio di una casa pompeiana. Ma è un atrio esattamente come lo vediamo ora: diruto, scrostato, popolato di erbacce (fig. 4). Passa Emilia, la moglie, la straordinaria Silvana Mangano e li sgrida. E sgridandoli, in romanesco, perché tutto il film è in romanesco, con 13 Scipione l’Africano, di C. Gallone, sceneggiatura di C. Gallone, C. Mariani Dell’Anguillara, S.A. Luciani, Italia 1937. 14 Rimando per tutti a Iaccio, a cura di, 2003. 15 Bisogna, in ogni caso, sottolineare come il film esista comunque prima di tutto come film e quindi, proprio per questo, anche come perfetta opera di propaganda.

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uno scarto notevole rispetto all’idea di solennità connessa al tempo antico o all’aulico linguaggio galloniano, chiude urlando: “Che brutto carattere ’sti Scipioni. Sei peggio de tu padre”.

Immediatamente, in primo piano vediamo il volto di Mastroianni Scipione: “E se capisce! Perché io, Publio Cornelio Scipione detto anche l’Africano, c’ho un brutto carattere. È naturale…”,

ma la camera intanto ha allargato il piano e vediamo che Scipione sta parlando al Senato. Ma, anche in questo caso, è un Senato riunito all’aperto, tra una serie di ruderi, alberi ed erbacce incolte.

Figura 4 - Fotogramma da Scipione detto anche l’Africano: l’atrio della casa di Scipione.

Uno Scipione, dunque, che si contrappone puntualmente e naturalmente a quello di Gallone, come mostra del resto la scelta di Magni di rappresentare il momento della caduta del condottiero rispetto alle vittorie cantate nel film più vecchio, oltre che naturalmente quella della personalità assai diversa conferita al protagonista. In alcuni momenti

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tale contrapposizione è chiaramente ed ironicamente cercata, come appare dalla risposta di Magni alla lunga sequenza del primo film, in cui il generale viene celebrato col (falso) saluto romano da una folla osannante, col braccio destro teso, e a cui risponde, alla stessa maniera, mentre riceve l’appoggio dei reduci “della guerra di Spagna”. Invece, alla legione che spontaneamente, vedendolo passare, in una Roma diroccata e deserta, gli presenta le armi, lo Scipione di Magni risponde: “Sì, bonasera”.

Ma non è il rapporto tra le due pellicole, che pure è un elemento costitutivo del film, che mi interessa approfondire, quanto la visione che apre sull’antichità. E quindi torniamo alla forma dell’antichità in cui scorre il film di Magni, che come appare dai momenti sopra citati, non è l’antichità onirica e visionaria alla Fellini, non propone una ricostruzione con più o meno attenzione filologica come Gallone, ma è un’antichità già in rovina. Magni, dunque, decide di non ricostruire l’antico. Il film, infatti, si muove quasi tutto tra le rovine di Pompei, così come apparivano negli anni ’70, tra erbe alte e incolte, senza nessuna cura. Nelle immagini, dunque, l’autore racconta l’antico sullo sfondo di un’antichità già in rovina. Ciò che mi interessa è che lo ritiene non solo possibile, ma evidentemente anche efficace. In questo modo di raccontare sale in primo piano una frattura profonda; la storia pretende di essere ambientata nell’antichità: antichi i protagonisti, antico il contesto, antichi i costumi, antichi gli oggetti, ma lo spazio, lo sfondo su cui si muovono i personaggi, appare come l’esito contemporaneo dell’antico, ossia come una rovina. Ed è una rovina nel senso effettivo del termine, perché non è curata, ma spuntano le erbe, cresce l’incolto tra i resti cadenti, l’acqua depositata nell’impluvium non più funzionante è putrida. La storia, dunque, e lo sfondo, l’ambientazione, rappresentano così due tempi diversi: la prima parla dell’antichità, ma il secondo ci avverte, in verità, che si parla al presente, che è un antico trascinato, ricondotto fino ai giorni nostri. L’incontro con Giove, uno stanco e sconsolato Turi Ferro, in un santuario ormai consunto nella roccia, da questo punto di vista risulta particolarmente significativo, ed è un peccato non poterlo riproporre per intero:

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“Do’ vai, lupa, che caschi de sotto. Nun te spericola’ ” e ancora “Mercurio ruba, Venere fa la mignotta e Marte nun disarma”, ovvero “Alegro, Scipio’. La vita è bella proprio perché finisce”.

Al di là del tono che cambia di continuo, scivolando dal tasto comico a uno più serio, il discorso di fatto confonde i tempi. Giove parla di lupa, che è insieme l’animale, la Roma antica e ovviamente quella moderna. L’immagine, e lo sguardo di Magni, contengono entrambi i tempi: i personaggi, la narrazione del loro incontro, le loro vesti appartengono chiaramente all’antico, ma lo straniamento della scena che si svolge tra le rovine future di quel tempo stesso, ci proietta immediatamente sul nostro. Ripeto, non penso che Magni avesse una teoria specifica dell’antico, ma senza dubbio ha usato l’immagine e l’idea di rovina con coscienza piena di ciò che essa significa nella cultura moderna dell’Europa occidentale. È un tema a disposizione della nostra cultura, cha la attraversa a diversi livelli, e che egli decide di sfruttare. È tema che, in altro contesto, risulta il medesimo del celeberrimo ‘disturbo della memoria’, che prova Freud nel suo viaggio ateniese, una volta giunto di fronte al Partenone16, o della reazione di Proust di fronte alle sculture della chiesa di Baalbec-le-Vieux, o anche il tema del ‘tempo puro’, così come teorizzato dall’antropologia di Marc Augé, proprio in funzione della percezione del passato attraverso la rovina17. Si tratta, dunque, di una scelta culturale profonda, che caratterizza strutturalmente il film, e che definisce il suo significato in un certo modo al contrario, così come modellano il significato dei film i diversi modi sopra considerati di ricostruire l’antico. Da questo punto di vista il film di Gallone risulta emblematico, ad esempio nella modulazione secondo immagini, e quindi ricostruzioni, assai diverse di tre distinte abitazioni: quella di Scipione, quella di una casa di un membro della classe dirigente e il palazzo della regina africana Sofonisba. Sono tre tipi di ricostruzione che cercano la verosimiglianza, nel senso che manipolano modelli antichi, per quanto li deconstestualizzino, in funzione sostanzialmente ideologica. La dimora di Scipione è caratterizzata da un candore marmoreo, quasi un’architettura razionalista, priva di alcun orpello, tranne che

16 17

Freud 1979. Augé 2004.

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per un fregio d’armi, che evoca l’onore militare del protagonista, un altare e poco altro. Una casa che mentre denuncia potenza, richiama anche rigore morale. Il modello antico non è quello della casa privata, naturalmente, ma piuttosto del palazzo imperiale o ancora meglio dell’edificio pubblico in senso lato, per quanto in questo caso spogliato di ogni ornamento per così dire superfluo. La casa di un romano della classe dirigente che vuole arruolarsi, invece, è modellata sulle abitazioni pompeiane, e contenente scene di vita allegre, serene, e i segni di una ricchezza agiata, ma composta. Qui il modello antico coincide anche con la funzione narrativa. E poi, straordinaria, la reggia di Sofonisba, che nella ricchezza marmorea richiama il palazzo di Scipione, a suo modo una reggia, ma che indulge all’orpello, all’ostentazione del lusso, nel segno di quella mollezza che così come i Greci prima e i Latini poi, anche il fascismo assegnava ai nemici d’Oriente. Il modello è quello di un Vicino oriente antico, in cui si fondono espressioni di epoche diverse. Al di là di un ‘filologismo’ più o meno accentuato, dunque, la ricostruzione è un aspetto assolutamente calibrato e funzionale sia all’efficacia della narrazione, ma anche a suggerire implicitamente qualità morali dei protagonisti. Alla stessa maniera, tuttavia, è calibrata anche la non ricostruzione proposta da Magni.

6. Archeologia dell’oggetto Nel panorama costantemente diruto che propone Magni, ogni tanto, in momenti e in contesti specifici, appare un oggetto integro, sfuggito, dunque, alla consunzione del tempo, che pure caratterizza l’ambito in cui questi oggetti vengono agiti. Coerentemente con questa sorta di sguardo archeologico adottato fin dalla prima scena del film, in questa antichità fatta di rovine, il regista recupera all’improvviso oggetti singoli (il primo è l’elmo di Scipione, o “di Scipio”?, con cui si apre il film), quali unici elementi giunti a noi, ancora vivi e agibili, proprio come in un museo. Ecco dunque che nella progressione a cavallo di Scipione, che giunge al Senato per affermare la propria innocenza e insieme per far valere la propria autorità, in questa sorta di trionfo di un singolo, a cui sopra accennavo, il protagonista quasi non appare per intero, se non da assolutamente lontano. Da vicino la sua immagine è sostituita,

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secondo un’iterata sineddoche, dai primissimi piani dei singoli oggettireperti che lo decorano e che brillano, segni ancora intatti delle sue glorie militari (fig. 5). Questi ultimi, materiali antichi ancora nuovi in un’antichità del resto in rovina, buia, scrostata, e ancora una volta, come in Fellini, sotterranea, contrastano con l’aspetto disfatto, decadente, di tutto ciò che li circonda. Anche in questo caso lo straniamento derivato dai due tempi messi in scena visivamente, concretizzati nel contrasto tra oggetti-reperti, che parlano al presente, e rovine, che parlano al passato, sottolinea l’ambiguità o meglio l’ambivalenza del discorso narrativo.

Figura 5 - Fotogramma da Scipione detto anche l’Africano: le decorazioni sulla corazza di Scipione.

Ma proprio nel Fellini del Satyricon troviamo non solo quell’antichità sotterranea, che qui Magni verosimilmente cita, con queste riprese di interni inopinatamente scavati nel sottosuolo, ma troviamo anche l’esaltazione dell’oggetto-reperto. Non a caso è una delle rarissime scene del Satyricon, in cui la luce cessa di essere crepuscolo, tenebra, ma diventa luce che sa di presente. È la luce di un’antichità risalita in superficie. È, infatti, la luce di un museo (fig. 6). Questa sala

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dalle alte pareti bianche, su cui sono appese pitture di varie epoche dell’antichità, già ridotte a lacerti, a oggetti appunto musealizzati, e dove sono sparsi frammenti di statue antiche in corso di restauro, è il regno del poeta Eumolpo. “Io sono un poeta”, così entra in scena, per declamare la decadenza dei tempi, i tempi della storia del film, naturalmente, ossia della Roma imperiale, ma anche i nostri tempi nell’intenzione del regista: “non ti meravigliare, caro amico, che la pittura sia finita, quando ormai, per tutti noi, c’è più bellezza in un mucchio d’oro che nelle opere di Apelle o di Fidia”.

Figura 6 - Fotogramma dal Satyricon: il Museo.

Anche in questo caso, in questo anacronistico museo felliniano, assistiamo a una moltiplicazione di livelli temporali, sia nel parlato sia nella rappresentazione visiva. Dopo un lungo periodo di oscurità, il film ci porta improvvisamente in una luce candida, che è però luce artificiale, e quindi moderna. L’antichità è riemersa, è venuta alla luce. E moderno è il museo, nelle sue pareti bianche, nel suo ammasso di quadri, anche improbabili, che unisce pitture che per stile e modelli attraversano tutta l’antichità. È una summa della pittura antica, impossibile nell’ambito temporale della storia narrata. Si tratta, infatti, di un museo che vive nel tempo antico, in cui tuttavia l’antichità è già musealizzata. Ma, nello stesso tempo, proprio in quel momento, uno dei personaggi sta rimpiangendo i tempi andati, sta segnalando come la sola vera bellezza appartenga all’antichità. Ci troviamo di fronte, dunque, a un intreccio di tempi proprio del discorso del poeta, che coincide con quello del film, ma che viene confermato e anzi esteso al nostro tempo tramite le immagini, con la discrasia e lo straniamento dato dall’azione di due personaggi antichi

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in uno spazio moderno. Un intreccio di tempi, quello proposto da Fellini che Magni, evidentemente a suo modo, riprende. E Fellini gioca splendidamente con questa idea, nel momento in cui un personaggio vivo del racconto appare già, durante la scena del magniloquente banchetto di Trimalcione, come un oggetto di un museo, come un lacerto di pittura, quasi che in questa rapidissima e immobile immagine fosse già segnata la memoria della morte futura (fig. 7).

Figura 7 - Fotogramma dal Satyricon: viso di fanciullo immobile su sfondo rosso, come se fosse una pittura pompeiana.

7. Uno sguardo contemporaneo Accade, dunque, nel film di Fellini in modo più nascosto, misterioso e sotterraneo, e in quello di Magni in modo esplicito, che la narrazione implichi l’intreccio indissolubile di tempi distanti, non come potrebbe banalmente apparire nelle intenzioni del cosiddetto messaggio, ma in maniera assai più profonda, nel senso stesso della narrazione, come se i due registi non potessero mai dimenticare, che raccontano dell’antico, ma parlano al presente e del presente. Inoltre, questa discrasia cronologica tra immagini e sfondo del film di Magni, contiene l’idea della finitezza, che la rovina porta con sé, topos vivo e acuto della cultura occidentale, del tempo assoluto per ridire con Marc Augè, che naturalmente ha a che fare, in questa poetica, come svela il discorso di Giove, inesorabilmente con la nostra finitezza e la finitezza delle gesta dell’uomo, per quanto eroiche e mirabili. L’antico non ricostruito, dunque, è una sorta di controcanto di morte, che ammonisce

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rispetto ad ogni sorta di gloria, ma anche ad ogni sorta di quotidiana animosità. Diversamente, è ovvio, dallo Scipione di Gallone, in cui passato e presente si sovrappongono senza frattura, in una gloria destinata a non finire, troviamo già il suddetto controcanto di morte nel Satyricon, nel momento in cui, proprio nell’ultima scena del film, attraverso il miracolo della camera che trasforma il corpo vivo di uno dei due protagonisti nella figura di un quadro, e poi sfilando mostra i ruderi in cui i personaggi del film sono figure su lacerti di affreschi, l’antico diventa immagine e l’immagine diviene rovina (fig. 8).

Figura 8 - Fotogramma dal Satyricon: immagine finale, in cui i protagonisti sono divenuti immagini su un edificio in rovina.

La parola, il racconto, dunque, si interrompe e in quel momento la storia si fa insieme immagine e rovina. Ma, a ben pensare, è proprio questa la maniera in cui la storia continua a vivere, si tramanda, perché qualcuno, leggendo le rovine, potrà raccontarla di nuovo.

Bibliografia Augé M. 2004, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino. Canfora L. 2004, Democrazia. Storia di un’ideologia, Laterza, Roma-Bari. Carandini A. 1981, Storie dalla terra. Manuale dello scavo archeologico, Einaudi, Torino. Dupont F., Éloi Th. 2001, L’érotisme masculine dans la Rome antique, Belin, Paris. Freud S. 1979, Un disturbo della memoria sull’Acropoli: lettera aperta a Romain Rolland, in Id., Opere, vol. 11, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 469-481.

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L’ANTICO AL CINEMA

Iaccio P., a cura di, 2003, Non solo Scipione. Il cinema di Carmine Gallone, Liguori, Napoli. Vidal-Naquet P. 2008a, Gli assassini della memoria. Saggi sul revisionismo storico, Viella, Roma. Vidal-Naquet P. 2008b, La storia è la mia battaglia, Utet, Torino.

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MITI SULLO SCHERMO ROMA ALLA CONQUISTA DEL MONDO di Pasquale Iaccio

Il cinema fin dalle origini fu un potente moltiplicatore di immagini e miti che, mutuati da ambiti e contenitori preesistenti, furono fatti risorgere a nuova vita e diffusi in tutto il mondo attraverso la forma di comunicazione (e a volte d’arte) più importante del Novecento. Il mito di Roma antica era uno dei tratti caratteristici dell’identità italiana nella vecchia Europa come nel nuovo mondo, prima ancora che fosse costituito uno stato nazionale italiano unitario. Immaginario e cultura, in questo caso, precedettero l’unità storica e amministrativa del nostro paese. L’Italia in America, ad esempio, era erede di una lunga tradizione, che partiva dal Settecento, di patria dell’arte, della musica colta, dell’archeologia classica, del bello ecc. Un aspetto, questo, che fu innervato nell’Ottocento da un fenomeno di immigrazione, ristretto in quanto al numero, ma di grande richiamo perché riguardava i “nobili figli” dell’Italia espatriati per ragioni politiche. Si pensi all’eroe Giuseppe Garibaldi che fu invitato da Abramo Lincoln a servire nell’esercito dell’Unione. D’altra parte, l’America già subiva il fascino del mondo antico e in particolare il mito della Roma repubblicana soprattutto perché i Romani avevano il merito di aver conquistato un impero dalle dimensioni gigantesche che si estendeva fino ai confini del mondo conosciuto. La suggestione suscitata dall’antica Roma la si trova in molti tratti della storia civile e politica degli Stati Uniti, dalla stesura della Costituzione alla stessa architettura della capitale Washington. In altre parole il mito di Roma non solo fornì un faro ideale ma funse da modello, pur nell’ambito della corrente ideologica dell’illuminismo, per la costruzione del nuovo stato che sorgeva dalla costola ribelle della Gran Bretagna. La circostanza è di un certo rilievo se si considera la lontananza dai modelli che offriva la vecchia Europa dell’ancien régime.

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L’apparato retorico, simbolico e figurativo greco-romano, nell’interpretazione sviluppatasi nel XVIII secolo (dalla politica all’oratoria, dall’architettura alla pittura, dall’araldica al latino) servì quindi come illustrazione, rito e codice – spesso come citazione, tanto accurata quanto decontestualizzata – per avallare la solenne necessità dell’invenzione della patria1.

Tutto ciò spiega l’interesse e il successo che riscuotevano i film storici italiani oltre oceano quando si basavano sulla riproposizione cinematografica della storia romana antica. Sarebbe più esatto dire che la diffusione di questa immagine precorse la stessa invenzione del cinematografo. La storia antica, da fenomeno di élite nel corso della seconda parte dell’Ottocento, aveva poi raggiunto una diffusione che si potrebbe dire di massa attraverso i più importanti strumenti della comunicazione dell’epoca: il romanzo storico, l’antiquaria, la pittura di genere, la fotografia, le cartoline illustrate che portarono a tutti la passione per il Gran Tour. I soggetti storici e gli sfondi archeologici e paesaggistici del nostro paese, così intrisi di storia e di memoria dell’antico, furono tra i temi preferiti di quelle macchine per la visione collettiva, i diorami e i panorami, che si diffusero anche in America prima dell’avvento del cinematografo. Il pubblico americano, soprattutto urbano, venne abituato a quella “scenografia dell’antico” e a quella “messa in scena della storia” che a partire dal 1907 e per buona parte degli anni Dieci vide rappresentata nei grandi film storici prodotti in Italia. La rappresentazione della Roma antica e il suo mito in America si innestarono su un sostrato culturale e spettacolare favorevole ben prima del successo del primo kolossal della cinematografia italiana, Cabiria, che approdò in America alla vigilia della prima guerra mondiale e che influenzò la cinematografia del padre del cinema statunitense: David Wark Griffith. Si può dire anzi che precedono perfino la diffusione di massa della fotografia. La schematizzazione e l’esistenza stessa di generi fotografici – la veduta, la veduta animata, i monumenti, le opere d’arte e i costumi – non sono un’invenzione dei fotografi, ma esistono già nelle botteghe di incisori da cui molti fotografi provengono. [...] Nell’apparato che produce e distribuisce l’immagine fissa, il genere introduce a una fruizione guidata e seriale, consente una distribuzione degli ambiti di attività, anticipa una

1 G. Bertellini, Epica spettacolare e splendore del vero. L’influenza del cinema storico in America (1908-15), in Gian Piero Brunetta, Storia del cinema americano, Einaudi, Torino 2006, vol. I, p. 241.

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MITI SULLO SCHERMO: ROMA ALLA CONQUISTA DEL MONDO

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modalità di produzione e consumo che verrà poi adottata in maniera diffusa dall’industria cinematografica2.

La diffusione dei film italiani in America fu di dimensioni impressionanti, almeno fino allo scoppio della prima guerra mondiale: “A prescindere da distinzioni di genere, i film italiani in America sono 105 nel 1908, 191 nel 1909, 255 nel 1910, 254 nel 1911, 277 nel 1912, 293 nel 1913, 173 nel 1914”3. Oltre all’aspetto quantitativo bisogna considerare la qualità artistica di molte delle pellicole che venivano proiettate nei migliori teatri, invece che nelle sale popolari, con accompagnamento musicale di grandi orchestre e che contribuirono a sviluppare la crescita del cinema americano sia dal punto di vista industriale sia, soprattutto, dal punto di vista della dignità culturale e sociale rispetto ad altre forme di cultura e di spettacolo. Si è già fatto riferimento al filone storico del cinema italiano, quello di qualità elevata e che si basava sul mito di Roma antica. Un genere di successo che spesso serviva ai grandi impresari d’oltreoceano per mettere in piedi dei veri e propri eventi culturali diretti al pubblico colto e benestante ma che, per la diffusione del cinema come fenomeno di massa, arrivavano anche agli spettatori comuni. Il carattere mitico di queste rappresentazioni conferiva alle opere una connotazione astorica che si poneva su un piano diverso da quello della rappresentazione della vita quotidiana e della realtà. Si può ricordare ad esempio Gli ultimi giorni di Pompei di Luigi Maggi del 1908 prodotto dall’Ambrosio, tratto dal romanzo di Edward G. Bulwer-Lytton del 1834, che segnò l’inizio della penetrazione italiana nel mercato americano (e mondiale). Per l’epoca si trattò di un’opera che si imponeva per la qualità delle riprese (gli operatori erano Roberto Omegna e Giovanni Vitrotti, e cioè tra i migliori in Italia), per la concezione della storia e per una serie di innovazioni tecniche e di stile che andavano dall’uso di colori diversi, per scene e situazioni particolari, alle scenografie che rompevano la consuetudine teatrale dei fondali dipinti. Era il momento in cui, nel racconto per immagini del settore della fiction, si cominciava a prendere le distanze dai modi di rappresentazione teatrale di stampo ottocentesco e, con l’intento di dare respiro e profondità alla scena, si usava una combinazione di elementi reali, in primo piano, e sfondi dipinti, ma messi in modo prospettico, in secondo piano. Il 2 3

G. Fiorentino, L’Ottocento fatto immagine, Sellerio, Palermo 2006, p. 107. G. Bertellini, Epica spettacolare e splendore del vero, cit., p. 239.

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finale della storia aveva il suo culmine nel circo in cui i protagonisti venivano dati in pasto ai leoni. Il Vesuvio, protagonista a sua volta, si stagliava sullo sfondo. L’eruzione era il colpo di scena che avveniva nel momento più drammatico del racconto. Tutto si colora di rosso, il vulcano erutta fuoco e altro materiale che viene scagliato sulla città, con mura che cadono, gente che fugge terrorizzata, concitazione collettiva: saranno gli elementi alla base di rappresentazioni simili anche per il futuro. Un impiego massiccio di attori e comparse per scene che cominciano a diventare “di massa”, situazioni in cui abbondano i trucchi cinematografici (oggi si chiamerebbero “effetti speciali”), fuoco, eruzioni e terremoti, diventano elementi caratteristici di questi pirodrammi. L’effetto sul pubblico americano fu enorme, come si ricava dalle cronache del «The Morning Picture World», che recensì l’opera nell’aprile del 19094: Non si può negare il più ampio apprezzamento a questo film; è un modello al quale dovrebbe ispirarsi chiunque sia interessato alla produzione cinematografica. [...] È invece doveroso soffermarci sulla magnificenza della realizzazione, sullo splendore dei costumi, le scenografie e tutto il resto. Non potrebbero essere migliori e lasceranno ammirati per la loro aderenza alla realtà storica non solo chi è interessato alla vita e alla letteratura dell’antichità, ma anche chiunque andrà a vedere questo spettacolo, indipendentemente dal suo livello di cultura. L’eruzione del Vesuvio è realizzata con una tale verosimiglianza che vien da credere sia stata ripresa mentre davvero ne avveniva una, il crollo degli edifici e la fuga della popolazione terrorizzata attraverso le rovine è impressionantemente realistica. Ma una delle scene più suggestive è quella finale, con la galea che mette in salvo Glauco e Jone: il riflesso delle fiamme è chiaramente visibile sulle onde del mare, senza che le fiamme stesse si vedano: un effetto artistico straordinario.

La cronaca della rivista statunitense, con una prosa più sobria rispetto al costume enfatico del tempo, centrava i motivi del successo del film prodotto dall’Ambrosio: la capacità di interessare un pubblico eterogeneo e l’“effetto artistico straordinario”. La caduta di Troia di Giovanni Pastrone dell’Itala film del 1911, prosegue sulla stessa strada e, per quello che si può vedere nelle scene conservate, preannuncia i fasti di Cabiria, il capolavoro dello stesso Pastrone. Gli sviluppi tecnologici e una concezione più matura dello

4

V. Martinelli, Sotto il vulcano, in Riccardo Redi (a cura di), Gli ultimi giorni di Pompei, Electa, Napoli 1994, p. 37.

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stile del racconto portarono nel 1913 alla produzione di altre due versioni de Gli ultimi giorni di Pompei (una terza, progettata da Caserini, fu necessariamente abbandonata) di cui una fu prodotta sempre dall’Ambrosio e diretta da Eleuterio Rodolfi. L’altra si intitolava Jone o gli ultimi giorni di Pompei, era diretta da Enrico Vidali e prodotta dalla Pasquali. Il film di Rodolfi confermava la validità del modello italiano in questo genere cinematografico e traeva profitto dall’evoluzione tecnica e stilistica che si era avuta dall’anno della prima versione. Il racconto si irrobustiva e si evolveva verso uno stile più maturo. Nel 1913 il cinematografo ha compiuto diciotto anni ed è diventato maggiorenne; sono sempre meno i film da una o due bobine, il lungometraggio si è affermato come lo standard ufficiale di produzione ed il racconto cinematografico si è anche notevolmente trasformato: non è più un insieme di piccoli quadri con didascalie che spiegano l’azione. Il suo linguaggio si è articolato, le didascalie da esplicative sono diventate dialogiche, gli attori si giovano di primi piani e le Case li indicano con nome e cognome nei titoli di testa. Sta nascendo il divismo perché gli spettatori, catturati dal nuovo modo di raccontare le storie, operano un inconscio transfert con gli eroi e le eroine dello scherno, tendendo a crearne dei modelli di comportamento5.

L’inizio del film si apriva su una via di Pompei, riprodotta con cura, in cui si vedevano personaggi impiegati nelle occupazioni quotidiane. Era cioè il tentativo di ricostruire, anche nei dettagli, la vita quotidiana del tempo dei romani e di inserire lo sviluppo del racconto in un contesto plausibile. La scenografia, i costumi, gli arredi e il resto erano adeguati all’intento. Tutto ciò non era casuale né improvvisato perché, già in sede di sceneggiatura, si prevedevano appendici con indicazioni dei costumi per i personaggi principali e i totali scene suddivisi per ciascuna delle quattro parti del film6. L’accento posto sulla vita quotidiana in riferimento a Pompei rispondeva ad una caratteristica che accompagnava la rappresentazione della città vesuviana, diversa rispetto a quella di Roma, città maestosa. In questo caso proprio l’esigenza di rispecchiare la verosimiglianza portava gli autori del film a riflettere l’iconografia tipica del quotidiano di Pompei. Gli scavi alle falde del Vesuvio, cominciati nel 1700 in epoca borbonica, 5

Ibid. Si veda S. Alovisio, Voci del silenzio. La sceneggiatura nel cinema muto italiano, Il Castoro-Museo Nazionale del Cinema di Torino, Milano 2005, p. 412. 6

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avevano portato alla luce, e quindi agli occhi del mondo, una classicità più comune e quotidiana rispetto a quella monumentale e ufficiale della capitale di un impero. La dovizia di informazioni e di particolari ricavati dagli affreschi o dagli arredi recuperati dagli scavi archeologici, che tanto avevano interessato studiosi e divulgatori, oltreoceano non meno che in Europa, erano alla base di una più attenta e fedele ricostruzione anche della vita materiale, della moda e dei costumi che si rifletteva nelle trasposizioni cinematografiche dell’epoca. In questo ambito le realizzazioni che riuscivano a raggiungere un buon livello di resa, anche dal punto di vista della qualità e della verosimiglianza storico-artistica, si imponevano su quelle che mantenevano un gusto ordinario e abborracciato. La bontà e la fedeltà delle scenografie, dei costumi e dell’arredamento, aggiunta alla scelta di colori diversi, secondo la necessità del racconto, negli interni e negli esterni, l’ampliamento del numero delle comparse nelle scene di massa, come nelle cerimonie nel tempio di Iside o nel circo delle fiere, un moderato erotismo in un paio di situazioni, (il ballo al tempio o l’immersione nelle acque dell’attrice Eugenia Tettoni nei panni di Jone), conferivano al racconto possibilità nuove sia dal punto di vista della dignità storica dell’opera, sia dal punto di vista della pura spettacolarità. Le didascalie erano usate, non in maniera meramente descrittiva, ma in modo espressivo. A volte denunciavano una tendenza letteraria, non priva di ricercatezze, che preannunciava l’intervento dannunziano in Cabiria. “Ritorna stassera, ti darò un filtro d’amore per Glauco” [il corsivo è mio], riferisce il grande sacerdote alla trovatella cieca innamorata del patrizio romano. Altre volte seguivano i ritmi e la drammaticità del racconto, soprattutto nel finale, quando si alternavano in brevissime pause alla descrizione visiva della catastrofe. “Ma una nuova voce domina il tumulto, guardate il Vesuvio!” (immagini del vulcano che comincia ad eruttare). “L’eruzione. Il panico” (immagini drammatiche della città che va in rovina mentre la folla cerca scampo correndo terrorizzata). “La distruzione di Pompei” (immagini che completano il disastro). Queste sono le poche, essenziali, scritte che accompagnano la successione sempre più concitata dell’accelerazione che porta all’epilogo. Il tutto – come ricordato – con il sapiente e raffinato uso della coloritura delle scene secondo le necessità del racconto. Il culmine si aveva alla fine. Centinaia, se non migliaia, di comparse, assiepate sugli spalti e desiderose di vedere il sangue dei condannati, diventavano un personaggio collettivo che interveniva nell’evoluzione del racconto: “Ai leoni l’egiziano, si salvi Glauco”, grida la folla quando

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si rende conto di essere stata ingannata proprio dal sacerdote orientale devoto al culto di Iside (“l’egiziano”). L’attesa (dal pubblico ma non dai protagonisti del film) eruzione del Vesuvio viene resa in maniera quanto mai spettacolare con la commistione di materiali della scenografia, ricorso a trucchi propri della rappresentazione cinematografica, l’illuminazione artificiale e radente delle scene, l’uso drammatico del movimento delle masse, la scelta degli angoli di ripresa. Il fuoco e la cenere, che cadono sulla folla, i fumi, che l’avvolgono uomini e cose, conferendo maggiore pathos al racconto, e tanto altro ancora che porta alla distruzione di Pompei, dimostrano a sufficienza il grado di padronanza tecnica raggiunto dai realizzatori. Gli effetti scenici non erano fini a se stessi, ma si adattavano alle necessità del racconto: i fumi dell’eruzione, che impedivano di vedere i contorni delle cose, rispondevano all’esigenza di esaltare le capacità di Nidia (l’attrice Fernanda Negri Pouget), la protagonista cieca, di essere l’unica in grado di indicare ai superstiti il cammino verso la salvezza. L’effetto più intrigante però era raggiunto nel descrivere la fuga per mare dei protagonisti e veniva reso dividendo orizzontalmente lo schermo in due campi, col Vesuvio nella parte superiore, e il mare, nella metà inferiore, in cui si muoveva l’imbarcazione che prendeva largo. Un effetto molto raffinato che era il frutto di una grande capacità tecnica. Il tutto colorato di un rosso intenso che accresceva la drammaticità dell’eruzione. Queste poche considerazioni dimostrano facilmente perché i film storici italiani avessero tanto successo anche in America: riuscivano a conciliare l’esigenza di soddisfare il pubblico borghese colto, con un prodotto di qualità, e, nello stesso tempo, rispondere alle attese di spettacolarità del pubblico di massa7. Dello stesso anno, il 1913, era Quo vadis? di Enrico Guazzoni prodotto dalla Cines, la più antica della case di produzione italiane. Guazzoni, un autore ancora poco studiato nella storia del cinema, fu colui che introdusse nei suoi film un collegamento stretto con la tradizione pittorica italiana e avvertì prima di molti altri la necessità di 7 Nonostante il grande successo della versione prodotta dall’Ambrosio, qualche studioso considera superiore la versione della Pasquali, girata in pochi giorni: «Oggi, almeno a conoscenza di chi scrive, è visibile la sola versione Ambrosio, alla quale nuoce una sorta di ieratica compostezza e una maestosità di impianto narrativo che la rende opera statica e poco godibile; probabilmente hanno ragione quei recensori che riconoscevano alla versione della Pasquali una maggiore scioltezza, un più febbrile svolgimento della vicenda. Sappiamo che la lavorazione di quest’ultima si è esaurita in ventotto giorni nel proposito di “uscire” in concomitanza con l’altra. E forse è stata proprio la fretta a darle maggior ritmo». V. Martinelli, Sotto il vulcano, cit., pp. 42-46.

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L’ANTICO AL CINEMA

Ursus (Bruto Castellani) salva Licia.

un’accurata ricerca storica preventiva. Inventò e rappresentò lo spazio cinematografico in funzione prospettica, servendosi delle innovazioni introdotte dai pittori rinascimentali. Per rimarcare la qualità artistica delle proprie opere, curata nei minimi particolari, amava accompagnare il suo nome nei titoli di testa con la qualifica di “pittore”8. I suoi film si distinguevano nettamente dalle altre opere dei contemporanei per la composizione misurata e prospettica della scena, per le tonalità coloristiche di ogni inquadratura, per la cura con cui era 8 È lo stesso Enrico Guazzoni che in un articolo del 1914 descrive il suo metodo di lavoro. Per l’epoca a cui si riferisce dimostra grande innovazione e modernità. “La ricerca dei particolari – perché il cinematografo è un documento crudele per chi non cura il particolare, anche minimo – è tutta una battaglia che si scatena dentro l’anima di un direttore di scena che compia con scrupolo e con amore la sua delicatissima mansione. E per questi dettagli io devo consultare biblioteche intere sugli usi e i costumi dell’epoca che voglio far rivivere, consultare stampe antiche, visitare musei, frugare nei negozi di antiquari, disegnare, sulla scorta di documenti storici, armi ed attrezzi, rintracciare riti, ritrovare modelli di acconciature, e poi di tutto preparare disegni e bozzetti, e curarne l’esecuzione, sorvegliando enormi squadre di scenografi, di carpentieri, di sarti, di attrezzisti, ecc.”. Lo scritto di Guazzoni venne pubblicato dalla rivista “In Penombra” (1914), poi ripreso in “Bianco e Nero”, nn. 7-8, luglio-agosto 1952, p. 126. Il brano citato si trova anche in Stefania Parigi, La rievocazione dell’antico, in Riccardo Redi (a cura di), Gli ultimi giorni di Pompei, cit., p. 74. Su Guazzoni si veda il testo di Aldo Bernardini, Vittorio Martinelli, Matilde Tortora, Enrico Guazzoni regista pittore, La Mongolfiera Editrice, Cassano Jonio (Cosenza) 2005.

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Locandine.

disposto ogni elemento, per la disposizione e i movimenti degli attori che interagivano con l’ambiente in cui recitavano. Questi elementi aiutano a capire perché la cinematografia italiana di carattere storico avesse, agli occhi degli americani, un livello artistico superiore per la composizione della scena, la fattura di costumi e di arredi, la fedeltà nella riproduzione degli interni e degli esterni (spesso girati nei siti archeologici autentici), la qualità visiva della rappresentazione che nessuna altra cinematografia poteva nemmeno avvicinare. Tra le regole scenografiche del film storico viene teorizzata quella della “restituzione”, ossia del rifacimento veridico ed erudito, perseguito attraverso uno studio museale attento e capillare che investe, oltre le strutture, le suppellettili, la decorazione minuta, il vestiario e gli utensili. Dal modernismo internazionale, duro ad attecchire in Italia per le forti resistenze del classicismo accademico, la cultura scolastica che presiede al film storico-romano riecheggia gli elementi più esteriori e d’effetto: decorativismi Liberty delle strutture e degli abiti, florealismi con civetterie rococò. Nel suo procedere ibrido mescolando gli stili, a dispetto del rigore accademico professato, il cinema accoglie gli aspetti più vistosi dell’eclettismo che contraddistingue la cultura artistica italiana tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, in cui goticismi di maniera boitiana convivono con neomedievalismi preraffaelliti e il linearismo Liberty si sovrappone al gusto classicheggiante, mai estirpato, e pronto a risorgere in forme neorinascimentali e neomichelangiolesche9. 9

S. Parigi, La rievocazione dell’antico, in Riccardo Redi (a cura di), Gli ultimi giorni di Pompei, cit., p. 69.

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Nelle cronache del tempo, un altro elemento che colpiva i recensori, e anche gli spettatori, era la capacità che aveva acquisito il cinema italiano di far vedere al pubblico contemporaneo, attraverso le immagini in movimento, la storia di duemila anni addietro. Se il cinema americano aveva come caratteristica principale di riflettere il presente, a quello italiano veniva riconosciuta la capacità di far rivivere il passato. La spettacolarità delle storie, che tanto piaceva agli americani, inoltre, veniva assicurata, come ricordano i titoli prima citati, da scene di massa ricche di effetti speciali e incendi (Pompei, Troia, Roma al tempo di Nerone) che aggiungevano quel quid in più di efficacia alla rappresentazione cinematografica della storia. Anche per questa caratteristica l’Italia divenne, per il pubblico statunitense, il paese dei vulcani e dei terremoti, oltre che dell’arte. Un’immagine mitica ed esotica di una terra lontana nel tempo e nello spazio. Il culmine del successo del cinema storico italiano in America si ebbe con il kolossal Cabiria diretto da Giovanni Pastrone, ma attribuito a Gabriele D’Annunzio dallo stesso regista, con un’abile strategia

Quo Vadis?: I cristiani in attesa del martirio.

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comunicativa che non aveva niente da invidiare alle iniziative pubblicitarie dei promotori d’oltreoceano. Come è noto, questo film segnò una tappa fondamentale per lo sviluppo del cinema, non solo italiano, anche per l’influenza che ebbe nei modi della messa in scena della storia nell’opera di David Wark Griffith. Il carattere colto e la rappresentazione spettacolare degli avvenimenti storici che trasmettevano i film italiani sull’antica Roma non servì, o servì solo in piccolissima parte, a contrastare l’accezione negativa che era contenuta nel filone del cinema statunitense legato all’attualità. In altre parole, il pubblico statunitense non riconosceva nell’emigrante baffuto e “malavitoso” di origine italiana, il discendente di quegli eroi romani che vedeva sullo schermo nei grandi film storici d’importazione. Riferimenti all’Italia, in una forma contemporanea, erano ben presenti in un altro settore della cinematografia dei primi anni che aveva ugualmente una grande circolazione presso il pubblico degli Stati Uniti, come di altri paesi. Ci riferiamo al settore che oggi si definirebbe documentario o documentaristico ma che allora era definito “attualità” o “dal vero” e che godeva di un’attenzione diffusa e interessata. È noto che la prima grande affermazione di un pioniere del cinema napoletano, Roberto Troncone, riguardava l’eruzione del Vesuvio del 1906 ed ebbe grande successo in America. Anche se le immagini di questo precursore del documentario non sono arrivate fino a noi (come di nessun’altra realizzazione dei Troncone, due fratelli fotografi che, come i Lumière, si diedero al cinema), non c’è dubbio che l’impressione suscitata tra il pubblico fu dovuta alla capacità dell’operatore-regista di riprendere l’evento nel momento in cui accadeva. Lo ricaviamo anche da foto che ci mostrano Roberto Troncone, con la sua macchina da presa montata su un cavalletto, mentre è intento al suo lavoro alle falde del Vesuvio. Con una macchina Gaumont caricata sulle spalle, stringendo al petto il treppiedi, Troncone si reca sulle pendici del Vesuvio ed è costretto ad inoltrarsi a piedi perché la ferrovia funicolare è stata raggiunta ed interrotta dalla lava. Il coraggioso operatore filma tutto ciò che vede: case abbandonate che vengono investite e sommerse dalla colata, mura diroccate, alberi inscheletriti, orti divenuti una distesa di roccia lavica solidificatasi. La sera, tornato a casa, sviluppa febbrilmente la testimonianza di questa nuova distruzione dello “Sterminator Vesevo”, come Plinio il Giovane definisce il terribile vulcano. E, vero narratore del ventesimo secolo, usa il cinematografo per raccontare questa tremenda

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sciagura. La sera dopo, tutto il materiale ripreso, montato in sequenza e senza didascalie (il commento lo farà lui stesso sotto lo schermo), viene proiettato in un cinema napoletano, la Sala Iride, che si affaccia sulla piazza della stazione, la prima costruita in muratura qualche anno prima, in sostituzione dei baracconi di legno dei primordi. Troncone batte sul tempo anche la Cines, in nome della quale si è mosso in persona Filoteo Alberini da Roma con tre operatori, e la torinese Ambrosio, che ha inviato Giovanni Vitrotti, tutti indaffarati ad immortalare nel miglior modo possibile l’orrido vulcano in attività. Il documento migliore risulta alla fine quello della Cines, in cui vengono inseriti brani delle riprese di Troncone, e che verrà venduto in tutto il mondo, facendo conoscere ovunque i più tristi effetti del cataclisma che aveva funestato i ridenti comuni vesuviani, l’ignificazione di ogni elemento lambito dalla lava incandescente, l’esodo degli sventurati abitanti, l’opera di salvataggio dell’esercito10.

Il cinema cominciava a dispiegare le immense possibilità che si schiudevano davanti a sé nel momento in cui fissava un evento eccezionale nelle immagini in pellicola e lo mostrava al mondo intero nel giro di qualche giorno. Le immagini dell’evento erano inserite nelle “attualità” che raggiungevano i pubblici dei paesi interessati al cinematografo in maniera quanto mai rapida instaurando una sorta di globalizzazione nella circolazione delle immagini in movimento. Nel 1908 il terribile terremoto che distrusse Messina fu ugualmente ripreso da operatori italiani e stranieri in diversi “dal vero” (alcuni dei quali sono arrivati fino ai nostri giorni, come Tremblement de terre de Messine di produzione francese, della casa Pathé, presentato alla rassegna del Cinema Ritrovato di Bologna del 2008). In questo caso, a differenza del film di Troncone, gli operatori giungono sul luogo a qualche giorno di distanza e documentano ciò che è avvenuto e cioè gli effetti devastanti del terremoto sulla città e sui centri vicini. La vastità del sisma e le terribili distruzioni, in cui si aggirano attoniti rari soccorritori e qualche sparuto gruppo di superstiti, ancora più sconvolti, in attesa di trovare asilo altrove, erano sufficienti a conferire un’eccezionale drammaticità alle immagini rimasta intatta anche dopo un secolo. Altri “dal vero” di produzione italiana, e anche di produzione straniera, ma riferiti ugualmente all’Italia, dovuti alle grandi case cinematografiche dell’epoca, riguardavano soggetti che avevano una stretta relazione con le mete più famose e rinomate del Grand Tour: Venezia, Firenze, Roma, Napoli e i suoi dintorni, alcune località della Sicilia 10

V. Martinelli, Sotto il vulcano, cit., p. 35.

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e altri luoghi conosciuti per le caratteristiche archeologiche, paesaggistiche e artistiche. Un altro “dal vero” della rassegna di Bologna del 2008, dal titolo Visita a Pompei del 1906, è un esempio di come si combina, agli occhi degli spettatori cinematografici, il passato con il presente. L’antica città romana alle falde del Vesuvio, protagonista di tante drammatiche ricostruzioni di carattere storico, veniva mostrata nel presente, a distanza di due millenni dal disastro, durante una visita di un gruppo di turisti. In non più di cinque minuti di riprese documentaristiche (una durata standard per l’epoca) si segue un gruppo di visitatori dal momento dell’entrata negli scavi alla visita ai siti più importanti. Dopo l’ingresso vi è una lunga panoramica in cui l’operatore riprende lo spettacolo della città dissepolta, da destra a sinistra, fermandosi per un momento in corrispondenza del Vesuvio, segno che aveva individuato l’icona che cercava. Poi riprende a ruotare verso sinistra, completando la ripresa dell’insieme del panorama. Si vedono i compunti visitatori di inizio Novecento, le donne con abiti lunghi e ombrelli per proteggersi dal sole, gli uomini col cappello e in vestiti scuri, che si aggirano per le rovine come i turisti di oggi. Oltre all’abbigliamento, l’unica grande differenza con i visitatori attuali è la loro “solitudine”, cioè l’assenza di un turismo di massa. Li guida un custode che – si intuisce – illustra le meraviglie di una città rimasta rappresa dal giorno dell’eruzione. Alcuni guardano in macchina. Un particolare curioso mostra il passaggio tra la rappresentazione di Pompei del passato e l’attimo fuggente che può intercettare il “dal vero” che si sta girando. Un pittore di guaches, vestito in modo non molto diverso dagli altri visitatori, e cioè da borghese in abito scuro, viene raggiunto dal gruppetto dei turisti. Quando si accorge dell’obiettivo che lo sta inquadrando, interrompe il suo lavoro per qualche secondo e guarda istintivamente verso l’operatore. Poi si risiede accanto ad una colonna e riprende a dipingere il suo piccolo quadro con il pennello e i colori. Si intuisce che sta dipingendo la stessa “icona” che qualche attimo prima la macchina da presa aveva colto con la panoramica. L’operatore fa a tempo a riprendere questo particolare, involontario, nell’itinerario dei turisti e ci restituisce un frammento di vita vissuta e – insieme – di storia degli strumenti della comunicazione che si sono occupati di Pompei. Il “dal vero” del 1906 è, ad un tempo, un esempio di documentario turistico delle origini e una eccezionale testimonianza visiva di uno degli artefici all’opera, il pittore di guaches, che avevano illustrato Pompei fino all’avvento delle “immagini in movimento”.

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L’ANTICO AL CINEMA

Nel Grand Tour le immagini funzionano come contenuti spesso inconsci dei luoghi della memoria, contenuti che riemergono a livello conscio attraverso l’esperienza del viaggio. Le immagini governano anche il modo in cui i “grand tourists” vedevano il paesaggio, e giudicavano le vedute. I turisti che si recavano in Italia, terra famosa per la sua arte, definivano le loro destinazioni attraverso le immagini, e se ne appropriavano tramite disegni, schizzi, litografie, fotografie, stampe11.

Visita a Pompei è il momento di passaggio. Il cinema delle origini aveva ereditato una lunga tradizione visiva di immagini fisse e l’aveva inserita nello strumento della comunicazione che si apprestava a dominare il Novecento. Sulla produzione documentaristica (o pre-documentaristica, se ci riferiamo come in questo caso al cinema delle origini), che fino alla definitiva affermazione del cinema narrativo nella prima metà degli anni Dieci, costituiva la maggior parte dei film in circolazione, non sono stati ancora condotti studi sistematici. Rispetto al genere della fiction, ricostruito con cura perfino nei dettagli, la produzione documentaristica è stata a lungo trascurata facendo perdere di vista la reale incidenza che deve aver avuto nella percezione del pubblico di allora. Solo in anni recenti si è cominciato ad avere una qualche disponibilità di materiali che fino ad oggi venivano considerati perduti o, per quel che era sopravvissuto, di difficile accesso12. Dalle prime “scoperte” e dai primi restauri, operati nelle più importanti sedi dedicate alla valorizzazione del cinema delle origini, si è avuta la conferma che il documentario del settore “turistico” o “artistico” riprendeva le linee di una tradizione preesistente e ben radicata che era fiorita nei secoli precedenti negli ambiti della pittura paesaggistica, dell’incisione, della grafica e infine della fotografia. Il cinema delle origini, nel settore documentaristico o dei “dal vero”, aveva accolto 11 E. J. Leed, Memoria e ricordo: il ruolo dei dipinti nel Grand Tour in Italia, in C. De Seta (a cura di), Grand Tour. Viaggi narrati e dipinti, Napoli 2001, pp. 17-18. 12 Si veda il numero monografico della rivista “Cinegrafie” dedicato alla nona edizione della rassegna “Il Cinema Ritrovato” di Bologna del 1995: Un mondo d’immagini. Immagini del mondo prima del cinema documentario, n. 8. Come pure il capitolo La galassia invisibile dell’universo cinematografico, in P. Iaccio, Cinema e storia. Percorsi e immagini, Liguori, Napoli 2008, (terza edizione), pp. 57-102. In questo settore specifico è da ricordare il lungo e meritorio lavoro di ricerca e di classificazione compiuto da Aldo Bernardini che si è concretizzato in tre fondamentali volumi: Cinema italiano delle origini. Gli ambulanti, La Cineteca del Friuli-Arti Grafiche Friulane, Gemona, 2001. Cinema muto italiano. I film “dal vero” 1895-1914, La Cineteca del Friuli-Editoriale Ergon, Gemona, 2002. Cinema delle origini in Italia. I film “dal vero” di produzione estera 1895-1907, La Cineteca del FriuliGraphart, Gemona 2008.

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nell’alveo di un nuovo strumento della comunicazione, il precipitato visivo e culturale di questa tradizione che, in un certo senso, perpetuava e aggiornava il mito dell’Italia patria dell’arte e del bello. Per fare un esempio, non è un caso che il grande pittore impressionista francese Pierre-Auguste Renoir dipinse, nel suo soggiorno italiano del 1881, un celebre quadro (in due versioni) che rappresentava la baia di Napoli con il Vesuvio sullo sfondo (custodito oggi presso il Sterling and Francine Clark Art Institute, Williamstown). È una icona, questa della città e del Vesuvio sullo sfondo, che vediamo ripetuta in maniera pressoché identica in innumerevoli riproduzioni nei differenti ambiti e che arrivò intatta nel cinema delle origini e proseguì per buona parte del Novecento13. Il brano del “dal vero” Visita a Pompei, che abbiamo descritto in precedenza, aveva colto in una ripresa involontaria di pochi secondi, il passaggio dalla pittura (nell’attimo in cui si vedeva l’anonimo pittore con pennello e colori) all’immagine documentaristica in movimento. E – se si vuole – il “dal vero” del 1906 completa l’arco delle possibilità rappresentative di un soggetto, come Pompei, dal cinema di finzione di argomento storico, che aveva prodotto i “pirodrammi”, al documentario turistico. La fioritura di opere sugli “ultimi giorni di Pompei” che si era avuta in quegli anni, aveva favorito la diffusione delle riprese della Pompei archeologica che i turisti amavano visitare. E il soggetto degli “ultimi giorni di Pompei” continuò a mantenere il suo fascino anche negli anni a venire, in Italia come in America e nel resto del mondo; nel cinema di finzione e nel documentario. Anche dopo la Grande Guerra fu utilizzato, con infinite varianti, per riproporre un tema e un meccanismo narrativo che evidentemente continuavano a funzionare dalla messa in scena dei grandi film muti alla stagione del sonoro. Proprio la riproposizione costante contribuiva a mantenere in auge una storia che era stata scritta nell’Ottocento a cui, però, le continue versioni conferivano un fascino particolare. Inoltre alcuni registi riuscivano a sovrapporre l’icona antica, della storia dell’eruzione nel momento in cui avveniva, con la riscoperta archeologica 13 AA.VV., All’ombra del Vesuvio. Napoli nella veduta europea dal Quattrocento all’Ottocento, Electa, Napoli 1990, (prima edizione). Sulla ripresa della precedente iconografia da parte del cinema delle origini, mi permetto di rinviare a due pubblicazioni curate da chi scrive. La prima è il volume collettaneo Napoli e il cinema (1896-2000), numero monografico della rivista “Nord e Sud”, diretta da Guido D’Agostino, n. s., a. XLVII, luglio-agosto 2000 e due edizioni eLearming, sempre a cura di P. Iaccio, Il Vesuvio sullo sfondo. L’icona partenopea nel cinema n. 1 Dal muto al periodo fascista e n. 2 La guerra e il dopoguerra, Liguori, Napoli 2008.

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della città vesuviana, riproposta in tutto il mondo con le immagini dei “dal vero”. Non è certo un caso che un alcuni di questi film, come in Sterminator Vesevo, una realizzazione su cui si hanno scarsissime notizie e tratta da un’opera di Matilde Serao, si utilizzassero inserti “documentaristici” per introdurre la storia vera e propria. Anche il film americano uscito nel 1935 dopo l’avvento del cinema sonoro, prodotto dalla R.K.O. (e riproposto anche dopo la seconda guerra mondiale), fu in qualche modo ispirato dalle rovine della Pompei di oggi. Infatti il produttore Merian C. Cooper, uno dei boss della casa di produzione americana, fu affascinato dai resti archeologici, durante il suo viaggio di nozze in Italia, tanto da mettere in cantiere il progetto appena fece ritorno in America14. Di queste ed altre realizzazioni, in Italia come in America, e perfino di film che, solo nel titolo, richiamavano il mito degli ultimi giorni di Pompei, è piena la cronaca cinematografia fino ai nostri giorni in cui diverse serie tv hanno cercato di far rivivere il mito con cui è iniziato il filone del cinema storico di ambientazione romana negli anni Dieci. Il bel libro curato da Riccardo Redi, Gli ultimi giorni di Pompei, uscito nel 1994 per Electa, in occasione del restauro dell’edizione diretta da Palermi e Gallone nel 1925, contiene notizie e informazioni dettagliate, ad opera di autorevoli studiosi, su tutte le varie trasposizioni nel corso del Novecento. Inoltre, l’ampia e raffinata dovizia dell’apparato iconografico, con fotogrammi, bozzetti e manifesti, dimostra, anche visivamente al semplice lettore, la qualità, non solo cinematografica, delle opere realizzate. Per concludere la carrellata sulla gloriosa stagione del muto italiano faremo una riflessione proprio sulla trasposizione del 1925, anche perché, come disse ironicamente Emilio Ghione, più che degli ultimi giorni di Pompei, si trattò degli “ultimi giorni della cinematografia italiana”15. La ragione di questa affermazione è che nessun film italiano del periodo del muto raggiunse la cifra astronomica di quasi nove milioni di allora (per la precisione 8.986.113 lire e 44 centesimi), superiore perfino a quella che era di dominio pubblico, e che aveva scandalizzato Ghione, di sette milioni16. Se si pensa che il cinema 14

V. Martinelli, Sotto il vulcano, cit., pp. 47-51. La frase di Ghione concludeva un suo scritto apparso su un opuscolo pubblicitario pubblicato su “L’art Cinématographique”, vol. VII, Parigi, Felix Alcan, 1930, pp. 63-68. È stato riproposto integralmente al termine del saggio di Riccardo Redi, Da “Quo vadis?” a “Pompei”, in R. Redi, Gli ultimi giorni di Pompei, cit., p. 34. 16 Ivi, p. 27 e 34. 15

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italiano, dopo la prima guerra mondiale, era in una crisi gravissima e che un film medio costava all’ora non più di 600-800 mila lire, si capirà la dimensione monumentale di un progetto che prevedeva, tra l’altro, l’utilizzo di ben 5.000 comparse. Dopo di allora, per superare un simile spiegamento di costi, di maestranze e di materiali, si dovette attendere Scipione l’Africano, del 1937, diretto sempre da Gallone, il sovvenzionatissimo kolossal dell’epoca fascista. Per non parlare di un’altra grande stagione del filone storico antico nel cinema: quella del secondo dopoguerra. Furono gli Americani a venire in Italia e a girare i loro kolossal in una Roma che divenne la loro “Hollywood sul Tevere” e la base materiale su cui fondarono la “riconquista” dei pubblici di tutto il mondo con film come Ben Hur del 1959 diretto da William Wyler o Cleopatra del 1963 diretto da Joseph L. Mankiewicz che riprendevano, amplificandoli e spettacolarizzandoli ulteriormente, i moduli inventati dagli autori italiani del periodo del muto (si veda la celebre scena della corsa delle bighe nel circo massimo)17. Questa volta gli Americani fecero, in senso inverso, il percorso dei pionieri del cinema italiano degli anni Dieci, attratti da buone condizioni produttive e da una legislazione favorevole presente nel nostro paese18. Ma ancor di più dalla cornice 17 Oltre che per la ripresa dei grandi film ambientati nella Roma classica, un impulso al rafforzamento del mito di Roma in America e nel resto del mondo lo diedero anche i film del filone contemporaneo basati sulla formula della commistione tra il turismo e la commedia sentimentale. Vacanze romane (Roman Holiday) di William Wyler del 1953, ambientato in una Roma solare e spensierata, in cui la principessa-cenerentola interpretata da Audrey Hepburn si aggira in una cornice scenografica unica, inaugura un filone “moderno” ambientato nella città eterna. Nella visita alle bellezze archeologiche, c’è anche una scena semi-documentaristica nel Colosseo con una panoramica dell’interno, come per qualsiasi comitiva di turisti stranieri. 18 Laura Cotta Ramosino, Luisa Cotta Ramosino, C. Dognini, Tutto quello che sappiamo su Roma l’abbiamo imparato da Hollywood, Bruno Mondadori editore, Milano 2004. Per quanto riguarda il cinema italiano, sulla diffusione della storia classica sullo schermo, si veda la documentata rassegna, con schede e notizie varie, che ne fa Gianfranco Casadio, I mitici eroi. Il cinema “peplum” nel cinema italiano dall’avvento del sonoro a oggi (19301993), Longo, Ravenna 2007. Un discorso a parte andrebbe fatto per il film di Roberto Rossellini, Viaggio in Italia, del 1953. In quest’opera, anticipatrice per molti versi del cinema esistenziale degli anni successivi, il regista mostra l’effetto che le vestigia del mondo classico producono su una coppia di turisti inglesi interpretati da George Sanders e Ingrid Bergman. La solfatara di Pozzuoli, l’antro della Sibilla cumana, le statue del Museo Nazionale, gli scavi di Pompei e altre memorie presenti nell’area napoletana, sono riprese con una eccezionale sensibilità per la rivelazione che il mondo classico lascia nell’animo e nella psicologia dei due visitatori. Rossellini si serve dell’antico per operare una raffinata e originale indagine nel percorso emotivo di una coppia di coniugi in crisi. Memorabile la scena in cui i due protagonisti assistono alla “riesumazione” di una coppia (“un uomo e una donna”, dice un personaggio) sorpresa dalla lava, e da una morte atroce, duemila anni

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paesaggistica e dalla “scenografia materiale”, che non poteva esse trovata o riprodotta in America, a cui si aggiunse l’insostituibile sostegno di quel patrimonio di conoscenze e di mestieri tecno-artistici che solo le maestranze italiane erano in grado di garantire. L’omaggio migliore alla Roma cinematografica, che aveva permesso di rinverdire i fasti della Roma antica, e agli artefici che avevano rilanciato il film storico del secondo dopoguerra, lo fece proprio il protagonista di Ben Hur, Charlton Heston, che in una intervista radiofonica al giornalista Lello Bersani volle lasciare, in un eccellente italiano, il suo ringraziamento alla Cinecittà di quell’epoca. Il mito cinematografico di Roma antica viveva così una nuova stagione che ai nostri giorni non si è ancora conclusa.

prima. In nessun altro film, probabilmente, come nel capolavoro di Rossellini, il mondo classico o – meglio – le tracce di questo mondo, rivivono e interagiscono col presente in maniera così incisiva e sconvolgente.

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FRIENDS, ROMANS, COUNTRYMEN La Roma antica tra facce e plasticità marmorea nel Giulio Cesare di Mankiewicz (1953) (con una nota sul coevo allestimento di Giorgio Strehler) di Ettore Massarese

Una consolidata ‘leggenda’ riportata da più cronache del tempo intorno alle vicende della preparazione del Giulio Cesare di Mankiewicz, narra dell’entusiasmo plaudente suscitato nella troupe dalla veemenza e dalla maestria retorica posta in opera da Marlon Brando nel recitare il famoso monologo di Marc’Antonio1. Accanto al giovane Brando nel cast figuravano consolidati attori shakespeariani, primo fra tutti sir John Gielgud (nel ruolo di Cassio). Si può parlare, dunque, di un film in cui il senso del teatro è la tessitura di sostegno della sceneggiatura? Naturalmente, se l’autore del soggetto e dei dialoghi è William Shakespeare. Ma, potere e limiti del cinema, il film è anche ‘costretto’ a transcodificare in visioni realistiche marmi, vie, notturni dell’antica Roma, segni solo evocati nella parola ekfrastica di Shakespeare. La stessa cosa vale per i campi di battaglia intorno a Filippi, dove l’occhio del cinema è chiamato a salvare nella retina di celluloide masse in movimento, fantasmagorie polverose di fragori in armi e di marce estenuanti nell’orizzonte esteso dei ‘campi lunghi’. Ora, e veniamo al punto ‘forte’ di questo mio intervento, che peso ha nell’opera di Mankiewicz il dichiarato senso dell’artificio teatrale così evidente in

1 Julius Caesar per la regia di John Mankievicz, apparve nelle sale il 1953 e fu girato lo stesso anno. Oltre a Marlon Brando figurano nel cast: James Mason (Bruto), John Gielgud (Cassio), Louis Calhern (Cesare), Edmond O’ Brien (Casca), Deborah Kerr (Porzia), Greer Garson (Calpurnia). Cfr. voce in Laura, Luisa, Morando Morandini, Dizionario dei film, Zanichelli, Bologna, 2007.

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tutta la drammaturgia shakespeariana2? Un famoso saggio di Roland Barthes, apparso per i tipi del Melangolo nel 1994, mette in evidenza, in una chiave fortemente ironica, la cura ossessiva con cui venne progettato il make up degli attori al fine di conseguire la ‘romanità’ delle facce; il segno più forte che il semiologo francese evidenzia, è l’accuratezza con la quale i parrucchieri di scena elaborano le “frange” chiamate a restituire agli attori il soma ricorrente nei busti marmorei. Leggiamo: Nel Giulio Cesare di Mankiewicz tutti i personaggi hanno la frangia sulla fronte. Chi arricciata, chi filiforme, o folta, o impomatata, tutti comunque ben pettinata, e non sono ammessi i calvi, per quanto la Storia romana ne abbia fornito un buon numero. Chi aveva pochi capelli non si è sottratto tanto a buon mercato, e il parrucchiere, principale autore del film, è sempre riuscito a tirargli fuori un ultimo ciuffo che ha raggiunto regolarmente l’orlo della fronte, di quelle fronti romane la cui esiguità è stata in ogni tempo a indicare un peculiare insieme di virtù, di diritto e di conquista. Che cosa è dunque legato a queste frange ostinate? Nient’altro che l’insegna della Romanità. Vediamo così operare allo scoperto la molla principale dello spettacolo, che è il segno. Il ciuffo sulla fronte straripa di evidenza, nessuno può mettere in dubbio di essere a Roma, nei tempi antichi. E questa certezza è continua: gli attori parlano, agiscono, si torturano, dibattono questioni “universali”, senza perdere niente, grazie a questa piccola bandiera distesa sulla fronte, della loro verosimiglianza storica3.

Concordiamo con Barthes nel ricordare che “la molla principale dello spettacolo [...] è il segno”, ma il segno, a cinema, e forse anche a teatro, non è solo la frangia sulla fronte, è anche e soprattutto la faccia dell’attore, i segni mobili del suo volto lasciati nella memoria collettiva dal repertorio dei personaggi che hanno attraversato la loro carriera. Prendiamo, ad esempio, Marlon Brando, la sua faccia di determinazione selvaggia e ambiziosa già prestata in Un tram che si chiama desiderio di Williams-Kazan, la stessa faccia che l’anno successivo al Giulio Cesare, sempre per la regia di Elia Kazan, ‘sfonderà’ lo schermo in Fronte del porto4; ebbene quella faccia si fa segno della 2 Sulla dichiarata consapevolezza dell’artificio teatrale nell’opera di Shakespeare si legga il bel saggio di C. Segre, Shakespeare e la “scena en abyme”, in Id., Teatro e romanzo. Due tipi di comunicazione letteraria, Einaudi, Torino, 1984. Di particolare rilievo il concetto di scena en abyme, una sorta di frammento di teatro ‘dichiarato’ che porta gli spettatori alla consapevolezza dell’artificio in atto. 3 R. Barthes, Sul cinema, Il Melangolo, Genova, 1994. 4 Il testo di Tennessee Williams prima di approdare sullo schermo era stato, nel 1951, portato sulle scene di Broadway dallo stesso Kazan con al debutto un sorprendente giovane

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hybris di Marc’Antonio, della sua determinata, astuta, quanto smodata ambizione. A questo punto la frangia è un dettaglio, un orpello d’artificio, certo, ma ciò che resta è un’icona mobile, dinamica che si fa archetipo del personaggio per tutto il secolo. E che dire poi della ‘maschera mobile’ di James Mason? È un attore inglese di formazione teatrale che approda ad Hollywood nel 1947 dove gira Il fuggiasco di Reed, interpretando il ruolo di un terrorista irlandese, un duro dal volto etico nella cui faccia si leggono oscuri riflessi di morte5, e Mankiewicz non può non ricordarsene se gli affida il macerato visus etico del congiurato Bruto. E John Gielgud, poi? Un volto e una storia d’attore interamente plasmata in Shakespeare; è un attore che nasce all’Old Vic (Enrico V nel 1921) e dei personaggi shakespeariani attraverserà tutte le sfumature sino al ‘magico’ Prospero de L’ultima tempesta di Greenaway6. Nel Giulio Cesare è Cassio, lo stoico Cassio, ambiguo e pragmatico la cui intelligenza cupa, seducente, porterà Bruto alla decisione estrema. Il segno che i volti tracciano è dunque quello di una romanità elisabettiana, facce consapevoli d’attraversare un tempo tragico. A questo punto è opportuno citare la fonte cui Shakespeare si ispira, quelle Vite parallele di Plutarco cui lo stesso Mankiewicz ricorrerà nel suo Cleopatra del 19637, inserendovi ancora il frammento della cupa notte dei portenti che precedettero gli eventi delle Idi di marzo. È noto che in Plutarco, al di là della ricostruzione storica, pesa assai più porre in evidenza come ad eventi straordinari corrisponda l’uomo atto a reggerli o a esserne travolto: una mistura dell’Actor’s Studio, Marlon Brando, appunto. È l’inizio di un sodalizio che, oltre ai film già citati nel testo, annovera il coraggioso Viva Zapata!, girato nel 1952 quasi a designare, somaticamente, nella durezza pasionaria di Brando-Zapata, l’imminente assunzione del ruolo scaltro e allucinato di Marc’Antonio. Cfr. Laura, Luisa e Morando Morandini, Dizionario dei Film, voce dedicata a E. Kazan, cit. 5 Ivi, voce “Mason James”. 6 In questo visionario allestimento di The Tempest (rappresentata per la prima volta a corte nel 1611), John Gielgud ha più di ottanta anni e vi fornisce una prova che si destina con forza quale esempio di gestione magica del corpo d’attore. Greenaway lo circonda di 24 libri (Il film s’intitola appunto Prospero’s Books ed esce nelle sale nel 1991) dando luogo a stratificazioni di visioni che si intrecciano man mano che Prospero-Gielgud sfoglia i suoi libri. Sembra quasi avvenire qui il miracolo di una sovrapposizione tra l’attore shakespeariano ed il Bardo stesso. Sull’opera di Peter Greenaway e sul suo particolare rapporto con Gielgud, cfr. la monografia di Giovanni Bogani, Peter Greenaway, Il Castoro cinema, Milano 1995. 7 Il film ebbe, dapprima, come regista Rouben Mamoulian che venne sostituito da Mankievicz quando le riprese si trasferirono a Cinecittà (il nuovo regista volle nei titoli di testa la citazione della fonte plutarchiana). Protagonisti Richard Burton e Liz Taylor, con un memorabile Giulio Cesare interpretato da Rex Harrison. Cfr. Morandini, voce in Dizionario... cit.

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di grandezza e fragilità comunque tragica, in senso stretto, in quanto i protagonisti plutarchiani sono, sì, fattori di storia, ma agiscono contro forze spesso non governabili, irrazionali: la misura della loro grandezza sta nell’affrontarle nonostante il quasi certo destino infausto; così per Alessandro, Cesare, Bruto, Antonio e Cleopatra. Questo è il motivo per cui Shakespeare amava tanto prelevare da Plutarco i ‘suoi’ romani. Leggiamo Plutarco: Noi non scriviamo storie, ma biografie. [...] Come dunque i pittori ricavano le somiglianze dal volto e dai tratti esteriormente visibili, attraverso i quali si manifesta il carattere, così a noi dev’essere concesso di penetrare maggiormente nei segni rivelatori dell’animo e mediante questi dare un’immagine della vita di ciascuno, lasciando ad altri le grandezze e le contese8.

Il “volto”, i “tratti esteriormente visibili” quali “segni rivelatori dell’animo”; Mankiewicz sembra mutuare direttamente da Plutarco l’attenzione alla congruenza espressiva del volto dei suoi attori, perché sa che il cinema, a differenza del teatro, come a volte la letteratura o “i pittori che ricavano le somiglianze [...] attraverso” le quali “si manifesta il carattere”, il cinema, dicevo, esprime la sua incisività comunicativa nel segno forte del volto dell’attore. Che dire, poi, se il volto dell’attore viene tradotto nella fissità marmorea d’una statua? Lungo tutto il film, ma soprattutto nelle sequenze iniziali, le fattezze di Louis Calhern-Giulio Cesare9 giganteggiano in statue e busti marmorei, quasi a testimoniare, contemporaneamente, la verità storica del personaggio e, al tempo stesso, una patente dichiarazione di artificio: l’algida figura in marmo del dittatore recita, visivamente, il distacco e la durezza del potere che Calhern stesso sarà chiamato ad interpretare fin dalla sequenza del corteo trionfale in cui il personaggio Cesare entra in scena. Appare significativo, in questa chiave, annotare come gli unici momenti in cui la figura marmorea assume tratti umani di fragilità sono espressi da Calhern-Cesare nella tragica mattinata delle Idi di marzo: nelle due sequenze del racconto del sogno profetico di 8 Le vite parallele di Plutarco hanno avuto numerose rilevanti edizioni, qui segnaliamo quella in due volumi curata da Antonio Traglia per “I classici greci” della Utet, Torino, 2005. La citazione è tratta dal secondo volume, dall’Introduzione a Alessandro, la cui vita Plutarco pose in parallelo a quella di Giulio Cesare. 9 Louis Calhern (1895-1956), aveva, all’epoca del film di Mankievicz, già interpretato il ruolo dell’avvocato connivente con la mala in Giungla d’asfalto (1950) di John Huston e questo gli procura l’ironico epiteto di avvocato da parte di R. Barthes nel già citato saggio. Cfr. Gianni Canova (a cura di), Garzantina del cinema, Garzanti, Milano, 2008.

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Calpurnia e della caduta spaurita del dittatore sotto il colpo fatale di Bruto che lo fa crollare ai piedi della statua di Pompeo. La postazione simbolica della statua umana abbattuta ai piedi della statua marmorea del suo ultimo nemico riprende, qui, il significato di una nemesi, significato già fortemente sottolineato in Plutarco10, cosi come la stessa immagine statuaria e fluttuante di Calhern-Cesare assumerà, a sua volta, il significato della nemesi che sta per compiersi nel notturno denso di presagi che accompagna Bruto verso la disfatta di Filippi11. A questo punto non si può non considerare la ricorrenza dei simulacri marmorei, nell’architettura visiva del film di Mankiewicz, come una cifra chiamata a significare una sorta di doppio del corpo degli attori; s’è già detto di Cesare-Calhern, ma come non ricordare, nel giardino della casa di Bruto, l’accostamento di James Mason ai chiaroscurali profili marmorei dei suoi lari allorquando evoca l’etica repubblicana della sua gens a sostegno della grave decisione che ormai ha assunto nell’affiancarsi a Cassio e agli altri? E, ancora, lo stesso Cassio misura la determinazione della sua sfida fissando con odio profondo la statua di Cesare, mentre nel sottofondo sonoro della sua invettiva la folla inneggia al dittatore; e, arretrando, infine, ricordo la sequenza iniziale del film: un primissimo piano della statua di Cesare che va poi ad aprirsi nella panoramica di una folla plebea inneggiante e, nella stessa sequenza, la svestizione degli addobbi floreali che ricoprono il busto, compiuto quale gesto di sdegno dai libertari tribuni della plebe. Durezza marmorea del potere, fragilità e instabilità del sentire umano. Ecco, mi pare che Mankiewicz instauri quasi un conflitto fra durezza e mobilità del volto, un conflitto che segna il discrimine tra vincitori e vinti, tra chi persegue il potere o, comunque, vi è più vicino, e chi si macera nell’inquietudine di una qualche forma di emarginazione: per altezza morale inadeguata ai tempi (Bruto-Mason), per livida quanto lucida rabbia d’esclusione (Cassio-Gielgud) o per una pavida volon-

10 “Perciò anche Bruto gli vibrò un colpo all’inguine. E si dice da parte di alcuni storici che, mentre Cesare dagli altri si difese trascinando il suo corpo qua e là ed urlando, quando invece vide che Bruto aveva impugnato la spada, si tirò la veste sul viso e si accasciò, o per caso o perché spinto dagli assassini, presso il piedistallo su cui stava la statua di Pompeo. E il sangue lo inondò, tanto che sembrò che Pompeo stesso guidasse la vendetta contro il nemico, disteso ai piedi e in preda agli spasimi per il gran numero delle ferite ricevute.” In Antonio Traglia (a cura di), Plutarco, Vite parallele, vol. II, Vita di Cesare, cit. 11 Atto IV, scena 3 in William Shakespeare, Teatro completo, a cura di Giorgio Melchiori, Mondadori, Milano, 2001, vol. V, p. 409, nel film vediamo l’immagine fluttuante e oscura di Louis Calhern nei panni di Cesare che appare oltre i tendaggi notturni dinanzi agli occhi di Bruto.

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tà di protagonismo (Casca-O’Brien12). Assai più vicini alla postura statuaria, alla dura determinazione d’un volto marmoreo i ‘vincitori’, coloro che il potere lo perseguono scientemente e con i mezzi adeguati: così va letta la studiata e quasi illeggibile fissità dello sguardo e del volto di Brando-Marc’Antonio che, durante il celebre discorso ai Romani, s’accompagna ad una serie di posture che deliberatamente si richiamano a pose statuarie. Memorabile, ed assolutamente significativa, in questa chiave, la gelida, immobile, fissità con la quale BrandoMarc’Antonio osserva i tumulti che seguono al discorso tenuto dinanzi al cadavere di Cesare: tutto intorno a lui crolla, un intero mondo sta per trasformarsi, le impalcature dei magnifici edifici in costruzione crollano travolgendo tutto tra urla e polvere e il corpo saldo del nuovo potere vi assiste immobile. Quanto possa essere stato efficace scegliere di designare, quale rappresentazione ‘in figura’ del modello plutarchiano, fortemente assunto in Shakespeare, il potere della romanità affidando al corpo degli attori la funzione di doppio vivente dell’archetipo marmoreo, ci aiuta a capirlo la sorprendente identità di scelta compiuta da Giorgio Strehler, nel suo allestimento del Giulio Cesare, andato in scena al Piccolo di Milano di fatto in contemporanea con la lavorazione del film di Mankiewicz13. Le cronache del tempo ci segnalano che in quegli anni, in Italia e a Milano in particolare, i film hollywoodiani d’argomento romano attirano l’attenzione di una gran massa di pubblico14, in parti12 Edmond O’Brien (1915-1985), attore formatosi nei teatri di prosa affianco ad attori di formazione shakespeariana quali sir John Gielgud e sir Lawrence Olivier; un’altra certezza ‘teatrale’, dunque, nel cast di Mankievicz. Da sottolineare la collaborazione con Orson Welles in importanti produzioni radiofoniche degli anni ’40. Cfr. G. Canova (a cura di), Garzantina, cit. 13 La prima ebbe luogo presso il teatro di via Rovello la sera del 19 novembre 1953. Nei ruoli principali figuravano: Mario Ferrari (Cesare), Tino Carraro (Bruto), Arnoldo Foà (Cassio), Giorgio De Lullo (Marc’Antonio), Romolo Valli (Casca), Marina Dolfin (Porzia), Elsa Albani (Calpurnia). Le scene e i costumi (tanto suggestivi quanto improntati alla sobrietà austera di una prevalenza del bianco e nero) recavano la firma di Piero Zuffi. Vedi il ricco archivio Del Piccolo di Milano consultabile anche in rete in link dal sito ufficiale del teatro. 14 “Il teatro di Grassi e Strehler sarà Piccolo, ma il loro Giulio Cesare è grande, questo in breve lo slogan che venerdì sera 20 novembre fece il giro del foyer al primo e al secondo piano, durante l’unico intervallo che vi dicevo. Furbi, Strehler e Grassi. Hanno capito che questo, a Milano, è il momento dei grandi spettacoli in costume romano, la gente fa a cazzotti per andarsi a godere a colori naturali o in Ferrania color (che sono anche più belli dei colori naturali) le masse e i primi piani di Roma latina. Dovete sapere che al cinema Excelsior, il superfavoloso successo del Quo vadis (sic) è tale che la Suvini-Zerboni ha creduto di dover rinviare il debutto della Calindri-Volpi-Zoppelli, per poter far posto alle ultime diecine di migliaia di milanesi e affini che ancora non sono andati a godersi

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colare il Quo vadis? che, sembra non essere un caso, ha in comune col film di Mankiewicz l’attrice Deborah Kerr e, per ragioni di risparmio, il set (non dimentichiamo che la Major che produce è per entrambe le pellicole la Metro Goldwin Major). Paolo Grassi, da imprenditore sì raffinato, ma certo non disattento a ragioni di cassa aziendali, dovette annusare l’aria propizia nel favorire la scelta del Giulio Cesare; Strehler, dal canto suo, si trovò dinanzi l’occasione di restituire al pubblico la rigorosa austerità della Roma shakespeariana, in risposta alla colorata finzione del colosso americano. Lo stesso Mankiewicz, del resto era chiamato a dimostrare le capacità della Major californiana di sapersi districare in un’operazione di taglio culturale (garantita dall’opera di Shakespeare) proposta, non a caso, nell’austerità del bianco e nero. Sta di fatto che tutti questi elementi, ad una prima analisi, paiono arrecare più di un motivo a sostegno della possibilità d’accostare i due allestimenti. Leggiamo, ora, alcuni ritagli di stampa relativi al Cesare del Piccolo, a cominciare dalla recensione di Eligio Possenti sul “Corriere della sera”: Le figure intagliate nel marmo, l’incalzare dei fatti, la solennità togata del clima […] La figura di Cesare monumentale troneggia [...] Mario Ferrari è stato un Cesare maestoso, solenne e statuario quale meglio non si potrebbe desiderare15.

E, ancora, vediamo cosa scrive Orio Vergani sul “Corriere d’informazione”: La prosa marmorea di Shakespeare – quante volte, ieri sera, è accaduto di pensare ai personaggi statuari e persino un po’ marmorei, delle pitture di Mantegna! – è rimasta nei libri e nelle traduzioni, delle quali ultima in ordine di tempo ci arriva questa di Eugenio Montale... Strehler ha dato una progressiva evoluzione allo stile della recitazione, ai gesti, alla plastica monumentale dei personaggi: statue bellissime, all’inizio, nella solennità come di antiche sculture e alla fine insanguinati e sudanti e laceri fanti della vana e tragica insurrezione che si conclude con la sconfitta negli aspri deserti balcanici... Le pause erano giuste, i silenzi il colosso. Auguro a Paolo e a Giorgio, scherzi a parte, lo stesso successo della Metro Goldwyn”. È quanto scrive Luciano Ramo in apertura della sua recensione allo spettacolo apparsa il 2 dicembre 1953 sulla rivista romana “Film d’oggi”. Un divertito approccio di costume (che non mancherà nel seguito della recensione ad assumere la piega di una rigorosa analisi del fatto teatrale) che ci svela non poco sul tipo d’attrazione che la Roma hollywoodiana esercitava sul nostro pubblico. 15 Eligio Possenti, Giulio Cesare di Shakespeare, in “Il Corriere della sera”, 21 novembre 1953.

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necessari e taluni ritmi del gesto che abbiamo definiti “alla mantegna”, plasticamente non meno necessari16.

Ed, infine, Salvatore Quasimodo che, sull’edizione milanese de “Il Tempo”, scrive: Ma restando nei limiti di un’antologia strehleriana, anche questo Shakespeare risulta definito nel gusto dell’intimismo e in una costruzione formale che tende sempre più a dare risalto di bassorilievo al movimento dei personaggi e delle masse17.

Se a questa breve campionatura delle recensioni del tempo aggiungiamo l’analisi delle immagini che il prezioso archivio del Piccolo Teatro18 conserva, ci rendiamo conto di intriganti altre simmetrie tra il film di Mankiewicz e il Giulio Cesare di Strehler. Riandando alla sarcastica sottolineatura di Roland Barthes che sopra ho riportato, si nota che anche nell’allestimento del Piccolo le acconciature riproducenti il ‘ricciolo’ romano sono segno distintivo dei personaggi patrizi, come pure, nella distribuzione dei ruoli, non possiamo non notare un accostamento che va al di là della somiglianza somatica (pure riscontrabile) tra il volto allucinato e mobile di Tino Carraro-Bruto e quello di James Mason nel medesimo ruolo; ancora l’impassibilità cerea di Mario Ferrari-Cesare e il volto da impassibile “avvocato della mala” (come dice Barthes) di Calhern, l’impeto corporeo e giovanile di Giorgio De Lullo-Antonio e la giovinezza tracotante, carismatica di Marlon Brando e, per concludere, la melliflua ambiguità disegnata sul volto di Romolo Valli-Casca e lo stesso marchio facciale costruito sul volto di Edmund O’Brien. A questo punto è evidente che ciò che rende felici e accostabili tra loro le due opere è, da un lato, un’intima fedeltà al testo e alla sua ‘romanità’ elisabettiana, dall’altro, una distribuzione estremamente attenta alla ‘prepotenza somatica’ dei personaggi shakespeariani. ‘Romanità elisabettiana’ dicevo: credo infatti che 16

Orio Vergani, Giulio Cesare di Shakespeare, in “Il corriere d’informazione”, 21-22 novembre 1953. 17 Salvatore Quasimodo, Una storia che finisce bene (comprende anche una recensione a L’allodola di Anouilh), in “Il Tempo”, edizione di Milano, 3 dicembre 1953. 18 Si tratta di 27 immagini di ottima definizione. Molto utili, ai fini di questo lavoro, i primi piani dei protagonisti; in particolare L’immagine di Bruto-Carraro (foto n. 26, fotografo non indicato), quelle di Ferrari-Cesare (n. 1, 7, fotografo Ferruccio Fantini), e, infine, Valli-Casca (foto n. 8, Fotografo Schiffer). Vedi archivio.piccoloteatro.org/eurolab. Nell’archivio sono salvati, oltre le immagini, 18 bozzetti tra scene e costumi, il manifesto e 88 recensioni riprodotte in formato digitale dagli originali ritagli stampa.

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ciò che Barthes chiama “segno degradato” costituisca un meccanismo d’artificio dichiarato, un segno in cui la macchina ‘popolare’ del cinema finisce per apparentarsi alla macchina ‘popolare’ del palco a prua del Globe19: parlo di una Roma dichiaratamente ‘finta’ (basti pensare al richiamo frequente che Shakespeare fa nelle didascalie ai rintocchi dell’orologio20), dove l’unica verità è la persistenza dell’umano, delle sue passioni (ancora una volta l’approccio plutarchiano), attualizzate da attori consapevoli di traghettare busti marmorei provenienti da un tempo lontano e oscuro eppure vibranti di un respiro che la parola poetica “inteatrata”21 trasporta. Rileggiamo un frammento del terzo atto: CASSIO –

Chiniamoci, e bagnamoci. Per quanti secoli a venire questa grandiosa scena verrà rivissuta In paesi ancor da nascere, di idiomi sconosciuti!

BRUTO –

Quante volte Cesare sanguinerà per gioco, che ora giace ai piedi della statua di Pompeo, e vale quanto la polvere!

CASSIO –

E quante volte Ciò avverrà, altrettante noi saremo chiamati Coloro che alla patria han ridato libertà22.

22

I drammi di Shakespeare sono tutti attraversati dalla dichiarata consapevolezza della finzione, anche i più oscuri e sanguinari (basti ricordare il monologo del Macbeth che recita “Spegniti, spegniti breve candela. La vita non è che un’ombra che cammina, un povero atto19

Sul Globe Theater sono stati scritti fiumi d’inchiostro ed orientarsi, in questo lavoro nella sterminata bibliografia sarebbe oltremodo dispersivo rispetto ai fini del lavoro. Qui ci interessa segnalare la stretta connessione tra il cosiddetto palco a prua intorno al quale si riuniva il pubblico dei meno abbienti, dei commercianti e la natura squisitamente ‘popolare’, in quanto a leggibilità, degli allestimenti shakespeariani. Segnalo, tuttavia, per un aggiornamento sia sulle vicende storiche che architettoniche, la recentissima pubblicazione della Cambridge University Press, Shakespeare’s Globe: A Theatrical Experiment published by Cambridge University Press, Ottobre 2008. 20 Atto II, scena 1 (“...battono le ore. Bruto: Zitti! Contate i rintocchi.”) o, ancora, Atto II, scena 2 (“Cesare... Che ora è?-Bruto: son sonate le otto, Cesare”.) in Shakespeare, Teatro completo, cit., p. 305 e p. 325. 21 L’espressione è cara ad Agostino Lombardo che l’adopera nei suoi numerosi saggi e nelle curatele dedicate all’opera di Shakespeare. 22 Shakespeare, Giulio Cesare, atto III, scena 1, in Id., Teatro completo a cura di Giorgio Melchiori, cit., vol. V, p. 341.

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re che si agita per un’ora sulla scena e del quale, poi, non si sa più nulla!”23) ed ecco allora perché la plasticità delle posture è chiamata ad essere la rappresentazione di una persistenza che ha attraversato, ripetutamente, il tempo. Ma poi l’umano emerge, il marmo si sgretola, la fatica dell’attore si impossessa del dolore che la parola teatrale gli ha consegnato. È quanto accade nel film di Mankiewicz, è quanto accade nello spettacolo di Strehler (come ci ricorda Orio Vergani, gli attori si trasformano in “sudanti e laceri fanti della vana e tragica insurrezione che si conclude con la sconfitta negli aspri deserti balcanici”. Il sudore che suscita l’ironia di Barthes... Altro segno di questo Giulio Cesare: tutti i visi sudano in continuazione: gente del popolo, soldati, cospiratori, tutti bagnano i loro lineamenti austeri e contratti in una trasudazione abbondante24

…è il segno, di contro, del lavoro duro di una nascita, è l’umano che trasuda nei pori di una pelle respirante che si è imposta alla gelida fissità della materia inerte: è ciò che accade persino all’algido Cesare quando viene scosso, per un istante, dall’incubo di Calpurnia o, quando, piegato dalla sua morte violenta, pronuncia lo stupore d’un amore tutto umano e non regale nel famoso Et tu Brute?25.

23

Ivi, Shakespeare, Macbeth, Atto V, scena 7, vol. IV. Roland Barthes, Sul cinema, cit. 25 “Cesare: Et tu Brute?... Allora cadi, Cesare!”. In Teatro completo, cit., Giulio Cesare, Atto III, scena 1, p. 337. 24

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FORME, MODELLI, STEREOTIPI E INNOVAZIONI NELLA RI-PRODUZIONE CINEMATOGRAFICA DEL MONDO ANTICO. UNA RICOGNIZIONE di Carlo Modesti Pauer

1. L’intervento, diacronico e asistematico, si fonda principalmente sul cinema popolare di genere storico realizzato dalle principali cinematografie occidentali, prime fra tutte quella hollywoodiana e italiana1. Si cercherà di tratteggiare alcune forme della trasposizione del mondo antico nel cinema e i relativi effetti su un pubblico di massa. Gli spettatori infatti fondano, nella società dell’industria culturale, il proprio immaginario storico su un cinema di genere e con esso contraggono quello che si può definire un debito visuale. Un film storico che si rivolge a un grande pubblico innesta dunque il quadro storico di sfondo proposto su una conoscenza elementare e scolastica del passato e, inevitabilmente, su un’ignoranza diffusa dei problemi della storiografia e della filosofia della storia. Anche da parte della produzione, raramente si afferma la scelta di avvalersi di una qualche forma di consulenza scientifica e specialistica: si preferisce piuttosto affidare tutto alle singole professionalità, prima fra tutte quella dello sceneggiatore. La questione fondamentale è allora indagare le fonti storiche alle quali attinge il cinema e verificarne il loro uso. Da dove e come tragga ispirazione il cinema per realizzare film storici è una questione dibattuta a lungo e fin dalla definizione di “film storico” o “film in costume” (e analoghe varianti) le divisioni tra studiosi hanno contribuito ad accrescere una certa confusione. Qui 1 Mi permetto di rinviare, per una trattazione più ampia dell’egemonia italiana e degli USA in questo ambito produttivo, al primo capitolo di: C.M. Pauer, Romani all’opera, Quasar, Roma, 2009.

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s’intende come “film storico”, una pellicola di finzione nella quale si presenta una ricostruzione del passato che non metta in scena il XX secolo. Il motivo di questa esclusione è appunto legato al fatto che, a partire dal 1895, dell’evento storico cominciano ad esistere riprese “reali” (documentari, cinegiornali, attualità, ecc.). Questo modifica profondamente il significato della “ri-costruzione storica” cinematografica. Tali materiali, come testimoniano oggi molti programmi televisivi, costituiscono una vera rivoluzione per le fonti storiche e nell’ambito della storiografia contemporanea si discute sulla loro importanza e su come utilizzarle2. Posto dunque come limite cronologico l’avvento stesso del cinema, ogni film di finzione che ricostruisce un momento del passato a esso precedente è un film storico3; ciò vale anche se la funzione spettacolare è ridotta al minimo come nel caso della produzione storiografica, unica nel suo genere, di Roberto Rossellini, apertamente orientato a una pedagogia cinematografica, in seguito veicolata dalla tv dopo il suo parziale abbandono polemico del cinema per le sale cinematografiche4. Scriveva nel 1961 il regista di Paisà: “Io credo fermamente che il cinema e il teatro possono essere dei mezzi assai validi per l’informazione, la cultura e il progresso”5. Veniva così fissata un’autorevole pietra miliare nell’acceso dibattito su cinema come cultura o come puro intrattenimento. A prescindere da questa convinzione di un padre del neorealismo universalmente riconosciuto tra i maggiori autori, la produzione cinematografica ha tuttavia come principale obiettivo il successo al botteghino, il rientro economico. Nel caso dei film di genere storico tale aspetto è centrale: questi sono infatti mediamente molto più dispendiosi, quando non tra i più costosi di tutti i tempi come Cleopatra 2 G. Miro Gori (a cura di), La storia al cinema: ricostruzione del passato, interpretazione del presente, Bulzoni, Roma, 1994. S. Bertelli, I corsari del tempo. Gli errori e gli orrori dei film storici, Firenze, Ponte alle Grazie, 1995; P. Iaccio, Cinema e storia: percorsi immagini testimonianze, Napoli, Liguori, 2000; P. Sorlin, Cinema e identità europea: percorsi nel secondo Novecento, Scandicci, La nuova Italia, 2001; A. Sani, Il cinema tra storia e filosofia, Firenze, Le Lettere, 2002. 3 A questo riguardo, per il problema delle fonti, va considerata la parentesi del periodo fotografico (1830-1895). In questo caso la fotografia, si pensi ad esempio a un film sulla guerra civile americana come Via col vento (V. Fleming, 1939), costituisce un limite che retrodata il dovere di verificare taluni dettagli della ricostruzione alla luce di foto d’archivio che documentano i fatti evocati dalla pellicola in questione. 4 Cfr. G. Rondolino, Rossellini, Utet, Torino, 1989. In particolare pp. 258-316. 5 R. Rossellini, Censura, A.I.C., ottobre-novembre 1961, ora in T. Sanguineti (a cura di), Italia taglia, Ancona, Milano, 1999, p. 46.

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costato alla Twentieth Century Fox, dopo tre anni di lavorazione, oltre 40 milioni di dollari6. Il film storico si afferma quindi a partire da una forte capacità di attrarre un vasto pubblico, raccontando un mondo distante che, grazie alla capacità “ricostruttiva” del cinema, sembra rivivere come “vero” sul grande schermo. Tuttavia, proprio questa caratteristica affabulatoria, rende talvolta secondaria la necessità di una piena concordanza storica dei fatti narrati con le conoscenze del periodo affrontato, specialmente in virtù del fatto che, nell’industria del cinema, gli interventi dei produttori non di rado vanificano, per le ragioni più diverse, le buone intenzioni degli sceneggiatori e del regista. Provo allora a passare rapidamente in rassegna, sotto forma di esempi, le fonti principali per questo genere di film, per poi analizzarne gli sviluppi in una breve ricognizione tra muto e presente. In primo luogo ci sono le fonti storiche (fig. 1). In un mosaico proveniente da una villa romana in Germania, dove Polydus è l’auriga e Compressor il cavallo leader, si vede come esso potrebbe essere stato un possibile riferimento per un film come Ben Hur in cui le corse di cavalli avevano un ruolo centrale (fig. 2); questa particolare foto, scattata nella spianata in- Figura 1 - Mosaico dalle terme imperiali di Augusta Treverorum torno a Cinecittà è ancor più significativa (Trier, Landesmuseum): l’auperché mostra emblematicamente, e con riga della factio Russata Polydus qualche ironia, la sintesi che la produ- con la sua quadriga (metà del III sec. d. C.) zione cinematografica opera tra storia e presente. Sullo sfondo si notano infatti gli edifici popolari abitati dai protagonisti del primo cinema di Pasolini, quei “ragazzi di vita” anche frequentatori delle sale di terza visione dove in quel periodo (1958-64) trionfavano proprio i film storicomitologici. Nel caso di un film tratto da un’opera letteraria, come il Satyricon di Petronio portato al cinema da Fellini (1969), la fonte non è più solo una delle tante a cui attingere per i diversi momenti del film, ma diventa il soggetto stesso da cui prendere le mosse per la sceneggiatura. 6 Circa 290 milioni di dollari attuali (2007); con Spiderman 3 (S. Raimi, 2007), costato 300 milioni di dollari, si tratta dei due film più costosi nella storia del cinema (esclusa la trilogia del Signore degli Anelli).

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Analogo è il discorso per quanto riguarda i poemi omerici, più volte tradotti in pellicola, sia l’Odissea, dove spicca la figura di Ulisse7, che l’Iliade, di cui si dirà più avanti a proposito di Troy.

Figura 2 - C. Heston prova una quadriga sul set di Ben Hur (W. Wyler, 1959)

Una base letteraria indiretta, rispetto al periodo rappresentato, è quella ad esempio del ‘Giulio Cesare’ di Shakespeare, oppure quella relativa al fortunato filone dei romanzi popolari dell’Ottocento, che ha come esponenti di punta Edward G. Bulwer-Lytton, l’autore de Gli ultimi giorni di Pompei e Lew Wallace, autore di Ben Hur, più volte portati sullo schermo sin dai primi anni del muto. Tuttavia il caso più frequente è quello di un soggetto originale, dove lo sceneggiatore rielabora e traduce la storia, seguendo un suo percorso nelle varie fonti, mediando con le esigenze della committenza politica e industriale: celebre il kolossal Spartacus di Kubrick con la sceneggiatura del black listed Dalton Trumbo, tratta dal romanzo omonimo di H. Fast. In questo caso una scena in cui il nobile e potente Crasso (Lawrence Olivier) conversa con lo schiavo Antonino (Tony Curtis) durante il bagno, parlando di ostriche e lumache a 7

Su questo si veda qui a seguire l’intervento di M. Salvadori (pp. 111-134).

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proposito di gusti sessuali, è tagliata al montaggio definitivo. Il tentativo di Kubrick (per altro in parziale conflitto con lo sceneggiatore Dalton Trumbo ritenuto troppo ideologico), benché filologicamente ineccepibile nell’evocare la ‘naturalità’ del comportamento omosessuale nel mondo antico, paga il prezzo del clima omofobo dell’epoca e la sequenza sarà recuperata in una riedizione per l’homevideo solo 35 anni più tardi. Anche il regista interviene con le sue fonti: se non è Autore (Fellini, Kubrick, Rossellini, ecc.), caso in cui ricercherebbe il controllo totale dell’opera, è ‘direttore artistico’, ‘artigiano del cinema’, più o meno colto, abile e spregiudicato, di un film di genere o marcatamente popolare. Nel film possono comparire così le invenzioni più strampalate dal punto di vista storico, come nel caso delle produzioni economiche a base di Ercole, Ursus, legioni romane e vendicatori “barbari”, capaci comunque di intercettare l’orientamento del gusto del pubblico del momento.

Figura 3 - Dettaglio del Plastico di Roma al Museo della Civiltà Romana

Ampio spazio per la ricerca delle fonti è riservato allo scenografo (figg. 3 e 4), che nel caso del kolossal La caduta dell’Impero Romano (A. Mann, 1964) alle prese con la ricostruzione del Foro e, sullo sfondo, del colle Capitolino, si avvale del celebre plastico del Museo della civiltà Romana; e al costumista, maggiormente soggetto a con-

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taminazioni nelle sue ricerche più o meno filologiche, quando deve trovare il difficile equilibrio tra la verosimiglianza e le concessioni alle dive (si pensi agli abiti di Cleopatra, sia essa interpretata da C. Colbert nel ’34 o da E. Taylor nel ’63). In altri casi entrambi, scenografo e costumista (ma anche il coreografo perchè come si vedrà più avanti le danze giocano un ruolo fondamentale) devono assecondare le esigenze della produzione e cedere alle contaminazioni neo-barocche (è il caso del Gladiatore di R. Scott, 2000), o ad una semplice adozione della moda d’epoca (emblematico il costume di Calpurnia nel Cleopatra di DeMille che nel 1934 veste l’attrice in stile con le scenografie art dèco).

Figura 4 - Foto di scena da La caduta dell’Impero Romano (A. Mann, 1964)

Al direttore della fotografia spetta il compito di tentare di riprodurre la luce nel mondo antico, notoriamente quasi assente nelle notti e in interni fino al XIX secolo, ed evocare ben altri scenari pur utilizzando l’illuminazione elettrica necessaria ad impressionare la pellicola. La questione della luce è forse la più complessa, sicché l’immaginario complessivo di tutti i film con ambientazione storica è comunque

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sempre assai più luminoso del reale, con pochissime eccezioni quali ad esempio il Barry Lyndon (1974) di Kubrick, il “giovane Casanova” di Comencini o il “Capitan Fracassa” di Scola (volutamente tutto in interni evocati dall’ottima fotografia di Luciano Tovoli)8. Una fonte anomala, almeno nel genere kolossal popolare, è l’attore/divo; il suo volto e la sua gestualità all’interno della messa in scena portano un elemento anacronistico potente e invisibile: la familiarità con il proprio pubblico (che ne segue fra l’altro le gesta esterne ai ruoli interpretati sui rotocalchi scandalistici). La fama e le interpretazioni precedenti, possono, ad esempio, introdurre nel film storico effetti indesiderati ai limiti del ridicolo come un Richard Burton tinto di biondo e più che trentenne nel ruolo del giovanissimo Alessandro Magno9. Il divo e la diva trascendono ogni singolo film e colmano coi loro corpi ampi spazi per la sintesi tra l’auto-rappresentazione sullo schermo e l’idea di rappresentazione del mondo antico, attraverso la loro azione incapace di rinunciare alla loro immanente condizione di star. Su questo si può evocare il caso più celebre, Cleopatra (J. L. Mankiewicz, 1963). La burrascosa relazione tra Burton e la Taylor, avvolta in una nube alcolica nella realtà dei rotocalchi popolari alimentati dai paparazzi, diventò un elemento centrale per il pubblico dell’epoca. La sovrapposizione tra attori e personaggi del film, diventa il principale problema e prospetta quello che in termine tecnico si suole chiamare miscasting. In questa accusa incappò Stanley Kubrick per la scelta di Ryan O’Neal nel ruolo di Barry Lyndon (1974), ritenuto da alcuni critici inadeguato: uno dei motivi della scelta era l’essere il giovane attore reduce dal successo planetario del melò Love Story (A. Hiller, 1970). Il contributo del montatore, sulla base delle sue fonti, ovvero della sua idea di “tempo storico”, sarà quello di conferire il necessario ritmo alla narrazione: nel caso del film storico è affatto accidentale che la durata si protragga oltre lo standard dei 90 minuti e il tempo è determinato dal mutare della capacità dello spettatore di leggere una singola immagine. Si tornerà più avanti su questo aspetto.

8 Il rinvio è rispettivamente a: Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo Casanova, veneziano (L. Comencini, 1969); e a Il viaggio di Capitan Fracassa (E. Scola, 1990). 9 In Alessandro il Grande (R. Rossen, 1956).

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2. Si è visto che le fonti, non soltanto quelle storiche di derivazione accademica (sia quando ad esse attingono direttamente il regista, lo sceneggiatore, lo scenografo, ecc., sia quando la produzione si avvale di consulenti provenienti dall’accademia stessa), possono anche essere ‘alternative’ perchè attinenti allo specifico del film come mezzo (in senso tecnico, linguistico, estetico e industriale). Il caso più evidente è la fonte metatestuale10. Un film, per esempio, sui “barbari scozzesi” girato negli anni ’50 si rifà alla ricostruzione delle stesse situazioni riprese per un film degli anni ’30. In questo caso la produzione anni ’50 ritiene, da una parte, sia di potersi, incautamente, fidare delle ricerche iconografiche degli autori della versione precedente; dall’altra, di non dover compromettere la familiarità che ha quel pubblico con l’immaginario scozzese consolidatosi nelle produzioni cinematografiche. Così si crea la fonte per il costumista che adotterà immancabilmente il celebre kilt. Tuttavia sappiamo che il kilt, nella versione da sempre presente al cinema, con il plaid sulla spalla, è una realizzazione del 1730, mentre Braveheart (M. Gibson, 1995) è ambientato nel 1300, Maria di Scozia (J. Ford, 1936) nel 1550 e Rob Roy (M. Caton-Jones, 1995) nel 1713. Si è scelto questo esempio perchè si tratta di informazioni accessibili con facilità a qualunque costumista; l’immaginario iconografico consolidato si pone tuttavia come un baluardo inespugnabile, forse per non turbare la suscettibilità del pubblico d’origine scozzese. Si tratterebbe, infatti, di identificare un’identità nazionale molto più recente di quella che anacronisticamente si è definita, nell’illustrazione contemporanea, retrodatata di 1000 anni. Il cinema occulta così, con civili abiti tradizionali, la realtà dei feroci highlanders, di origine celtica, non proprio modelli di ‘galateo’ britannico in quanto a comportamento. Proprio a partire dalle suggestioni estetiche del sistema iconografico ottocentesco, vieppiù legato alla letteratura popolare, è possibile mettere in evidenza come la ricostruzione del mondo antico, nel periodo del muto fino alla metà degli anni ’30, sia debitrice di modelli pittorici. Questo cinema sarà codificato dal francese Jacques Siclier che, in un articolo scritto per i Cahiers du Cinema nel 1962, definì il genere Peplum11. 10 11

Ciò che all’interno di un testo parla del testo stesso. J. Siclier, L’âge du péplum, “Cahiers du cinéma”, n° 131, mai 1962, pp. 26-38.

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Si vedrà ora, come esemplificazione tra le tante possibili, il percorso iconografico che conduce ad un classico film del genere: Quo vadis?. Nelle immagini qui riprodotte si può seguire, a partire dall’intreccio delle varie fonti, come sono state brevemente ricordate prima, l’evoluzione e le contaminazioni che portano dal supplizio di Dirce (fig. 5) a quello della martire cristiana Ligia: il soggetto mitico inter-

Figura 5 - Copia romana dell’originale bronzeo (cosiddetto ‘Toro farnese’) opera degli scultori Apollonio e Taurisco (II secolo a.C.), originariamente collocata nelle Terme di Caracalla a Roma e ora conservata a Napoli (Museo Archeologico)

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Figura 6 - Pompei, affresco della Casa dei Vettii (63-79 d.C.)

pretato nel celebre gruppo statuario da scultori di epoca ellenistica, riproposto ancora su una parete della Casa dei Vettii (fig. 6), è contaminato con l’immaginario dei supplizi inflitti ai cristiani (fig. 7), per costituire la materia prima per il romanzo Quo vadis? di Sienkiewicz, la cui uscita coincide casualmente con l’atto di nascita del cinema dei Lumière; il successo del libro, con la sua traduzione della storia e del mito nell’agiografia religiosa, trovano in Polonia immediato riscon-

Figura 7 - Mosaico (particolare) da Roma, via Casilina (ora alla Galleria Borghese): Esecuzione di dannati ad bestias (primi decenni del IV secolo d.C.)

Figura 8 - Varsavia, Museo Narodowym: Dirce cristiana (1897), dipinto del pittore polacco Henryk Siemiradzki ispirato al libro Quo vadis?

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tro nell’illustrazione (fig. 8): qui il pittore sintetizza già nel titolo del suo dipinto quanto detto, e Dirce diventa ‘cristiana’. Mentre il libro estende il suo successo al di fuori dei confini nazionali, sempre nella cattolicissima Polonia la sua fama ispira una mostra di opere d’arte dedicate al libro stesso (fig. 9). Nelle locandine dei film (che, per fortunata coincidenza, saranno girati quasi contestualmente all’uscita del libro), la stessa scena del supplizio del toro è la protagonista e così sarà nelle diverse versioni che si sono succedute fino a oggi, per cui lo stesso epos drammatico (Ursus che mostra Ligia al pubblico) si ripeterà nell’arco di un secolo di cinema, da Guazzoni a Kawalerowicz12.

Figura 9 - Varsavia (collezione privata): gruppo scultoreo in bronzo (1910-1920), ispirato al libro di H. Sienkiewicz

Tuttavia, all’interno di un processo simile, il ruolo delle fonti storiche e del loro uso da parte dei realizzatori di film ha subito delle innovazioni, accrescendo lentamente la considerazione della congruenza con la storiografia accademica. Ad esempio, con qualche decennio di ritardo, il cinema recepi12 Il romanzo di Henryk Sienkiewicz Quo Vadis? è stato portato al cinema da: E. Guazzoni, 1912; Gabriellino D’Annunzio e G. Jacoby, 1925; M. LeRoy, 1951; J. Kawalerowicz, 2001.

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rà il mutamento di paradigma storiografico avvenuto nella seconda metà degli anni ’30, con l’attenzione alla cultura materiale, ai suoi protagonisti, agli oggetti e pratiche della vita quotidiana. Così il corpo di K. Douglas-Spartaco usato dall’allenatore come manichino per illustrare i punti dove i fendenti del gladiatore hanno effetti mortali, resta per qualche minuto sotto gli occhi degli spettatori: non è più compiacimento voyeuristico né ancora ostentazione, fine a se stessa, delle forme di un corpo da Mister Universo: è la novità diegetica dell’informazione storica offerta in chiave spettacolare a un pubblico ormai stanco di martiri e tuniche. Come gli sceneggiatori si tramandano la leggenda pseudostorica di film come Quo vadis?, così si comportano i coreografi per le scene di simposio, di balli e spettacoli del mondo antico da ricreare sul set. In questo caso, per il periodo che va dagli anni Dieci alla fine degli anni Quaranta, la fonte reiterata delle innumerevoli sequenze con balli, presenti in film ambientati in Israele al tempo di David, nella Grecia di Ercole o nella Roma di Nerone, è la visione romantico-estatica di Isadora Duncan. La storicità della messa in scena di sequenze danzanti del mondo antico dipenderà a lungo dalla fusione dell’icona botticelliana ispirata da Seneca, con le movenze corporee scoperte dalla Duncan dopo le forti emozioni ricevute a seguito di una visita del Partenone. Le radicali innovazioni coreografiche furono presto rese celebri e imitabili dalle sue performance sui palcoscenici di mezzo mondo. A sostituire i gesti inventati dalla Duncan, sul finire degli anni Quaranta, sarà una rinnovata visione antropologica del mondo che si avvia alla decolonizzazione post bellica. Il mondo antico al cinema vedrà apparire anche ballerini neri e asiatici e le coreografie attingeranno, molto liberamente, all’India e all’Africa. Si tratta di una ricezione spettacolare, com’è proprio nell’industria culturale, di cambiamenti sociali svincolati dalle implicazioni politiche ad essi connesse. Così lo sfondo di certi film hollywoodiani in costume, propone, con qualche lustro d’anticipo la riscoperta della cultura afroamericana, che troverà solo nel 1967 il riconoscimento esplicito nel cinema mainstream: con Indovina chi viene a cena (S. Kramer, 1967) e La calda notte dell’Ispettore Tibbs (N. Jewison, 1967); in entrambi è protagonista la prima star di colore S. Poitier13. 13 Prima di lui solo W. Strode ha goduto di una discreta notorietà grazie all’interpretazione da protagonista nel classico western I dannati e gli eroi (1960) di J. Ford. Strode è anche l’amico gladiatore di Spartaco nel film di Kubrick.

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Contemporaneamente, la danza nei film storici assumerà un ruolo sempre più meta-storico assurgendo a pretesto per forzare i limiti della censura, con coreografie al limite dello streaptease. Nei peplum italiani, girati a centinaia a Cinecittà a cavaliere degli anni Cinquanta e Sessanta, i balletti, le terme e i bagni nel latte, tra un Sansone e Messalina, un Maciste e Poppea, sono l’attrazione erotica a buon mercato di un paese avvolto nella soffocante cappa censoria di Mario Scelba e Pio XII14. Negli anni 1958-64, in Italia si strappano oltre 500 milioni di biglietti l’anno di media (oggi a stento si superano i 90), anche grazie ai “sandaloni”, il peplum, linea di confine popolare con i successivi “spaghetti western”. Qui gli eroi, fuori dalla declamazione scolastica che li ha allontanati da quello che erano originariamente, tornano ad essere leggendari e più vicini al pubblico delle sale di periferia. Gli spettatori che si entusiasmano e incitano il loro mito muscoloso vociando nel buio della sala, sono forse i più simili a coloro che, qualche millennio prima, ascoltavano le medesime gesta narrate da un aedo. Come per il ballo, il mondo dei gladiatori è anch’esso il prodotto di un intreccio delle fonti. I registi, convinti di offrire una rappresentazione filologica, ma anche altamente spettacolare: sono indirettamente debitori dei mosaici tardoantichi che avevano ispirato il pittore Jean-Léon Gérôme per il celeberrimo dipinto Pollice Verso del 1872 (fig. 10). Nel film Quo vadis? (1912) Guazzoni utilizza la tela dell’artista francese come fonte diretta per la scena finale (unica variante compositiva in quest’ultimo è il rivolgersi del gladiatore all’imperatore piuttosto che alla folla) (fig. 11). Ancora nel 2000, benché assistito dalla latinista Kathleen Coleman di Harvard, Ridley Scott immerge il suo film Il gladiatore in un immaginario cinematografico ormai secolare. Le differenze però sono evidenti e, come anticipato prima, sono legate al tempo della narrazione: alle riprese a macchina fissa di Guazzoni, si è ormai giunti alla maneggevolezza assoluta della steadycam15. Lungo un secolo, il mondo antico è apparso agli spettatori via via sempre più “veloce”. Con il mutare della capacità dello spettatore di leggere una singola 14 Cfr. E. Sallustro (a cura di), Censure. Film mai nati, proibiti, perduti, ritrovati, Silvana Editoriale, Milano 2008, in part. pp. 12-122. 15 La steadycam è una speciale macchina da presa basata sulla fisica del giroscopio che consente riprese in movimento perfettamente stabili. Un primo uso di uno strumento analogo si trova nel film Professione reporter (M. Antonioni, 1975), nella penultima inquadratura. La steadycam viene definitivamente messa a punto dal direttore della fotografia J. Alcott sul set di Shining (S. Kubrick, 1980) per diverse riprese, fra cui la memorabile sequenza dell’inseguimento nel labirinto innevato.

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Figura 10 - Pollice verso (“Thumbs Down”) di Jean-Léon Gérôme, 1872 (Phoenix Art Gallery)

Figura 11 - Foto di scena da Quo vadis? (E. Guazzoni, 1913)

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immagine, acquisita lungo cento anni di cinema e cinquanta di televisione, ma anche, allo stesso tempo, supportata dall’evoluzione parallela delle tecnologie di ripresa e montaggio, il montatore contribuisce a rappresentare l’antico dentro un tempo sempre più moderno. Così, se in Gli ultimi giorni di Pompei (1913) di Caserini il punto di vista è quello dello spettatore in tribuna; dopo meno di un secolo, per Il Gladiatore (2000) di Ridley Scott, il punto di vista è a fianco del gladiatore nell’arena. Indipendentemente dalla coerenza storica delle opere nel loro complesso e dalla validità dei consulenti, come si vede, il cinema traduce la storia in una sua rappresentazione al passo col tempo presente, per cui, man mano che la tecnica evolve, cresce la spettacolarizzazione. Un consulente, come prima cosa, dovrebbe paradossalmente suggerire al regista di ritornare alla macchina da presa immobile e ai lunghi piani sequenza di Caserini, per restituire innanzitutto la dimensione spaziotemporale del mondo antico a noi sconosciuta. Quando, benché in un film ambientato alla fine del XVIII secolo, Stanley Kubrick riuscì nell’operazione con Barry Lyndon (1974), il grande pubblico reagì snobbando il film che non rientrò dai costi (per il desiderio di realismo Kubrick fece comprare alla costumista italiana Milena Canonero degli abiti veri del XVIII sec. che non poterono essere usati perchè la popolazione dell’epoca era molto più piccola). Nello stesso film, il regista aveva anche affrontato il problema della luce: com’è noto, per ricreare le atmosfere del ’700, si fece costruire speciali obbiettivi dalla Zeiss, per non dover usare mai luce artificiale. Il rifiuto del pubblico, in questo caso almeno, è da ascrivere probabilmente anche alla “lunga” durata delle inquadrature, sia fisse che in piano sequenza, con le quali l’autore si proponeva di dilatare il tempo della percezione e condurre lo spettatore in una dimensione appunto più realistica, più verosimile nel rappresentare il “tempo” quotidiano del Secolo dei Lumi. È evidente l’influenza diretta, nel coltissimo regista del Bronx, della lettura di saggi storici degli anni ’50-’70 ben noti ad ogni studioso dove la “vita quotidiana” aveva definito un preciso filone d’indagine scientifica. In questo senso, basandosi su un testo come La Vie quotidienne à Rome à l’apogée de l’Empire (1939) di J. Carcopino che ispirò anche René Goscinny per l’invenzione del rivoluzionario fumetto dedicato ad Asterix e il suo villaggio, l’attenzione di Kubrick alla realtà storica aveva già dato interessanti sviluppi nel 1960 con Spartacus: il suo studio delle fonti aveva consentito la ricostruzione di un’azione tattica dell’esercito romano che nessun disegno o modellino di ricostruzione

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avrebbero mai potuto restituire all’immaginario in modo così efficace e terribile. Nella scena dello scontro finale tra gli schiavi guidati da Spartaco e le legioni romane, la precisione nell’organizzare le masse di comparse, gli consentì anche, con il movimento simultaneo degli scudi, di presentare il gesto collettivo come di uno solo a simboleggiare l’organizzazione perfetta di Roma in contrasto con l’improvvisazione impetuosa dei rivoltosi. Il segreto di un impero svelato in un batter di ciglia al popolo! Chi ci è riuscito? Raro... Facendo un passo indietro e osservando l’uso delle masse in un film di propaganda fascista come Scipione l’Africano (C. Gallone, 1935), l’unico che attinge al mito romano, in ottemperanza ai dettami del regime per celebrare i fasti “imperiali”, è qui evidente l’uso a scopo ideologico del saluto romano; nel Foro romano ricostruito negli studi di Cinecittà inaugurati per l’occasione, Scipione saluta una folla che esulta salutandolo ‘romanamente’, con una chiara allusione visiva alle fatali adunate oceaniche di piazza Venezia; la composizione delle inquadrature e la scelta complessiva della rappresentazione delle masse in rapporto al leader, è chiaramente debitrice all’estetica del cinema sovietico degli Eijsenstein e dei Pudovkin, ufficialmente condannato dal regime fascista nella sua totalità e tuttavia segretamente amato dallo stesso Vittorio Mussolini, il cinefilo figlio del duce, e ovviamente da Gallone. Mezzo secolo più tardi, la descrizione delle navi che giungono a Troia (Iliade, canto II, Catalogo delle navi), è ripresa invece fedelmente in Troy (W. Petersen, 2004), nel tentativo di rappresentare il mito contenuto nell’opera e non già una visione realistica di uno sbarco nel XIII secolo a.C. La svolta tecnologica della computer grafica, vissuta da milioni di spettatori attraverso gli impressionanti dinosauri di Jurassic Park (S. Spielberg, 1993) assiste la Storia come mai prima, offrendo inedite opportunità che neppure i 300 milioni di dollari di Cleopatra avrebbero potuto realizzare. Sul piano strettamente cinematografico, si deve inoltre segnalare un debito metatestuale, non importa quanto consapevole, verso lo sbarco in Normandia ricostruito con precisione per Salvate il soldato Ryan (1998) proprio da Spielberg, affatto casualmente riconosciuto come il DeMille contemporaneo, sia dalla critica, sia dalla nipote del regista de I dieci comandamenti (Cecil B. DeMille, 1958). Un aspetto fondamentale che attraversa trasversalmente ogni film che ri-costruisce il mondo antico è infine quello che riguarda la prossemica e la gestualità degli attori. Gesti e posture sono volutamente

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ostentate in deroga palese alla filologia nell’intento di rendere familiare un passato remoto. Così un Marco Aurelio smemorato schiocca le dita nel cercare invano di ricordare un nome; mentre Cleopatra strizza l’occhio ammiccando a Cesare un’intesa da coppia moderna; oppure un generale che va a trovare Commodo, lascia l’arma all’ingresso nelle mani di un pretoriano quasi fosse la pistola in una di quelle riunioni viste decine di volte nei gangster movie degli anni ’3016. 3. In conclusione, è possibile affermare che accanto alla letteratura e alla musica popolare, affiancata (oggi più che mai) dal mezzo televisivo, il cinema è stato lo strumento più efficace per trasmettere la visione degli eventi storici da un punto di vista che non è quello di chi la storia la fa, ma di chi ne è parte. Questo naturalmente vale, come si è accennato in apertura, per gli eventi di un passato prossimo, non più di un secolo a questa parte. Per la storia più antica, mancando il collegamento visuale tra cinema di finzione e cinema documentario e/o di propaganda (si pensi ad esempio a film come Mussolini ultimo atto di Lizzani (1974) e al rapporto con l’immaginario dei cinegiornali Luce ri-visti in tv), l’operazione è più complessa. Nel cinema che affronta la Storia prima della riproducibilità tecnica, ciascuna immagine e ciascuna situazione mediata dal esso è un frammento di un passato che subisce un doppio trattamento ermeneutico e una duplice ‘sagomatura’: i fatti, i gesti e le forme, come ci sono giunte attraverso le fonti, vengono nuovamente re-interpretati. La narrazione si fa allora metalinguistica: parla di allora e parla di ora e lo spessore dei suoi significati cambia secondo le contingenze storiche e i diversi equilibri (e compromessi) del processo produttivo. La maturazione culturale del pubblico, quantomeno per semplice esperienza, nel secolo di cinema, insieme alle nuovissime disponibilità tecnologiche, consentono di guardare con discreto ottimismo all’incontro tra realtà storica e rappresentazione cinematografica. Certo lo studioso di professione anche nei prodotti del XXI secolo trova agevolmente infiniti anacronismi o veri e propri errori, ma il dialogo, per quanto mediato dai fattori qui brevemente esaminati, c’è stato e lo scambio sembra essere in atto. Se non altro la veridicità storica, lungi

16 Per un approfondimento con immagini, si rimanda a: Carlo M. Pauer, Cecilia Ricci, Immagine/Gesto-Immagine/Movimento: per una semiotica del gesto nel cinema di genere storicoromano, in M. Salvadori (a cura di), Iconografia della comunicazione: per una semiologia dei gesti dall’antico al moderno, Roma 2009.

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dall’essere pienamente realizzata nel cinema di genere, è da tempo parte del dibattito estetico e le produzioni cominciano a farsene vanto al momento del lancio di un nuovo film. Questo non significa che qualche staffa pendente da una sella non faccia più capolino in un film con i faraoni egiziani o una megaproduzione hollywoodiana come Io, Claudio – da Robert Graves – previsto per il 2010 con L. DiCaprio; certo è che l’occhio dello spettatore è oggi attentissimo, supportato da innumerevoli siti web dove si discute a tutti i livelli, accademici o semplicemente cinefili, della verità storica. Ogni regista e produttore è inevitabilmente portato a tenerlo presente, anche solo per il rischio di un flop al botteghino. È questo il frutto del complesso incontro tra consulenti storici e mercato cinematografico. A tutto vantaggio della qualità dello spettacolo.

Bibliografia V. Attolini, Il cinema, in Lo spazio letterario di Roma antica, a cura di G. Cavallo, P. Fedeli e A. Giardina, volume IV: L’attualizzazione del testo, Salerno, Roma, 1993, pp. 431-493. R. Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino, 1974. A. Bernardini, V. Martinelli, M. Tortora, Enrico Guazzoni: regista, pittore, La Mongolfiera, Doria di Cassano Jonio (CS), 2005 . S. Bertelli, I corsari del tempo. Gli errori e gli orrori dei film storici, Ponte alle Grazie, Firenze, 1995. P. Brantlinger, Bread and circuses: theories of mass culture as social decay, Cornell University Press, Ithaca,1983. L’avventurosa storia del cinema italiano (1960-1969), a cura di F. Faldini e G. Fofi, Feltrinelli, Milano, 1979. L. Hjelmslev, I fondamenti della teoria del linguaggio, Einaudi, Torino, 1968. M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino, 1966. P. Iaccio, Cinema e storia: percorsi immagini testimonianze, Liguori, Napoli, 2000. S. R. Joshel, M. Malamud, D. T. McGuire, Jr., Imperial Projections. Ancient Rome in Modern Popular Culture, Arethusa Books, New Haven, 2005. V. Martinelli, Il cinema muto italiano. I film degli anni venti, 1922-23, Centro Sperimentale di Cinematografia, Roma, 1996. La storia al cinema. Ricostruzione del passato e interpretazione del presente, a cura di G. Miro Gori, Bulzoni, Roma, 1994. R. Redi, L’architetto Brasini e la scenografia di ‘Teodora’, in Cabiria e il suo tempo, a cura di P. Bertetto e G. Rondolino, Il Castoro, Milano 1998, pp. 335-341. G. Rondolino, Roberto Rossellini, UTET, Torino 1989. R. Rossellini, Il mio metodo, a cura di A. Aprà, Marsilio, Venezia, 1987. A. Sani, Il cinema tra storia e filosofia, Le Lettere, Firenze 2002. P. Sorlin, Cinema e identità europea: percorsi nel secondo Novecento, Scandicci, La nuova Italia, 2001.

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B. Tavernier, Entetrien avec Vittorio Cottafavi, “Positif”, n. 100-101, dicembre 1968gennaio 1969. H. White, Metahistory: the historical imagination in nineteenth-century Europe, The Johns Hopkins University Press, Baltimore, 1973. M. Wyke, Projecting the Past: Ancient Rome, Cinema and History, Routledge, London, 1997. M. Wood, America in the movies: or “Santa Maria, it had slipped my mind”, Basic Books, New York, 1975. Fellini-Satyricon (dal soggetto al film), a cura di D. Zanelli, Cappelli, Bologna, 1969.

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I ‘RITORNI’ DI ULISSE. LETTURE CINEMATOGRAFICHE DELL’EPOS OMERICO di Monica Salvadori

A fronte della relativa esiguità nella produzione cinematografica mondiale, muta e sonora, dei film dedicati alla rievocazione dell’antica Grecia, si segnala un numero piuttosto consistente di adattamenti filmici dei poemi omerici, in prevalenza legati alla produzione italiana1. In particolare le vicende dell’Odissea e la personalità di Ulisse sono quelle che trovano maggior fortuna nelle versioni cinematografiche dando luogo a due diverse modalità di interpretazione2: da un lato il mito di Ulisse viene trattato in maniera letterale, originando delle parafrasi che si rivelano più o meno fedeli al testo omerico e alle sue rappresentazioni antiche (nei confronti del paradigma antico si opera un riadattamento superficiale con delle imprecisioni rispetto alla realtà del dato storico-archeologico, o si evidenzia piuttosto, nella riproduzione di un determinato episodio, una fedeltà allo schema dell’azione così come viene tramandata dalle fonti), ma che escludono – tutte – una loro rimeditazione che vada oltre la pura sequenza narrativa; dall’altra il personaggio di Ulisse, “dalle molte fisionomie, dalle molte Desidero ringraziare la Cineteca del Friuli di Gemona (Ud), nella persona del direttore Livio Iacob, la Cineteca di CinemaZero di Pordenone e la Zefirofilm per la disponibilità accordatami nel reperire le versioni in VHS e in DVD dei film considerati. Un ringraziamento particolare va al Prof. Franco Piavoli, per la sua squisita gentilezza e per il piacere di conversare con lui di Omero e di cinema. Il testo presentato alla giornata di studio sul Cinema e l’Antico organizzata a Salerno ricalca quello pubblicato in Iconografia 2006. Gli eroi di Omero. Atti del convegno internazionale (Taormina, 20-22 ottobre 2006). 1

Boschi 2005, pp. 15-16; Solomon 2001 (1977), in particolare pp. 103-111. Non stupisce la frequente ripresa cinematografica delle vicende di Ulisse considerando quella che è la fortuna letteraria dell’eroe di Itaca, per la quale si veda Boitani 1992. 2

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identità, multiforme, ambiguo, duttile, imprevedibile, cangiante [...] posto sotto il segno della pluralità e della complessità”3 viene a proporsi come figura emblematica e modernissima, tuttora in grado di essere letta quale “metafora della condizione mortale dell’uomo”. L’itinerario che si propone in questa sede vuole ripercorrere i principali episodi della fortuna filmica di Ulisse non in una prospettiva critico-cinematografica, ma per registrare quanto di significativo in essi permanga nell’ottica di una continuità o sopravvivenza di spunti derivanti dalle fonti classiche, letterarie ed iconografiche. Prendendo le mosse dai film che si propongono come esplicite rievocazioni delle avventure dell’Odissea – e facendo un tuffo in quella che si può considerare l’“archeologia del cinema” – per trovare una prima versione cinematografica delle avventure del ritorno di Ulisse a Itaca si deve risalire addirittura al 1905 con il film L’Île de Calypso. Ulysse et le géant Polyphème, realizzato da uno dei pionieri del cinema francese, Georges Méliès, noto per gli spettacoli immaginifici e fantastici, in cui il suo linguaggio cinematografico si esprimeva con trucchi ed effetti speciali, assai innovativi per il tempo. A questo film seguiranno Le retour d’Ulysse (1908) di C. Le Bargy (fig. 1) e, qualche anno più tardi (1911), L’Odissea di F. Bertolini, G. De Liguoro, film realizzato con notevole impegno di forze finanziarie per il tempo dalla Milano Film. Il prodotto, piuttosto lungo per gli standard dell’epoca (ca. 45 min.), colpisce per l’ambizioso progetto di mettere in scena una narrazione quasi integrale dell’Odissea, con il susseguirsi, anticipate dalle tipiche didascalie del cinema muto, delle più celebri avventure dell’eroe omerico. Per il gusto contemporaneo, nella Odissea di Bertolini la figura del Laerziade appare poco credibile e assolutamente lontana dalla dimensione eroica del personaggio: Figura 1 - C. Le Bargy, Le retour d’Ulysse. basti vedere, nelle prime scene, la Locandina. 3

Nicosia 2003, p. 19.

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I ‘RITORNI’ DI ULISSE

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partenza per Troia di un Ulisse tronfio e dai gesti magniloquenti, tipici del cinema muto, vestito già con la corazza, che prende commiato da una Penelope infagottata da pesanti drappeggi (fig. 2).

Figura 2 - F. Bertolini, G. De Liguoro, Odissea. La partenza di Ulisse per la guerra di Troia, fotogramma.

Nella pellicola, la rappresentazione di una grecità molto generica e pesantemente ‘vestita’ (ad opera dei costumisti del teatro Alla Scala) contrasta con l’idea di nudità e di armoniosa leggerezza, che è associata al mondo ellenico in ragione soprattutto della iconografia neoclassica e che verrà riconfermata dal filone del peplum, così definito con un’espressione vagamente peggiorativa, nata alla fine degli anni ’50, per definire i film di piccolo budget, destinati a un pubblico popolare, in cui la rappresentazione del mondo antico si limita alle scenografie e ai costumi, a discapito di una ricostruzione filologica dei fatti storici4. 4 La critica francese è stata la prima a considerare seriamente questo genere cinematografico (cfr. “Cahiers du Cinéma”, 131, 1961, interamente dedicato ai film di produzione italiana del genere). In generale, si veda il volume monografico di “CinémAction”, LXXXIX, 1998, a cura di C. Aziza, e Bertelli 1995.

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L’ANTICO AL CINEMA

Anticipa per certi versi questo filone, anche se per impegno produttivo e per scelte estetiche è più prossimo ai dettami hollywoodiani, l’Ulisse di Mario Camerini (1954), interpretato da Kirk Douglas e da Silvana Mangano nel doppio ruolo di Penelope e Circe-Calipso, fuse in uno stesso personaggio, coprodotto da The Lux-Ponti-De Laurentis (fig. 3)5. Il film, assai originale per alcune scelte di sceneggiatura (come poi si vedrà), appare molto interessante per quei fenomeni di ‘riappropriazione’ che concernono l’immaginario dell’antico, banalizzato a formule vagamente grecizzanti (se non addirittura ‘egittizzanti’) comprensibili da parte del grande pubblico, ma il più delle volte dai risvolti comici per un pubblico ‘colto’, e sui cui meccanismi si è recentemente soffermato Andrea Rodighiero6. Si vedano non solo il ricorso, già evidenziato dallo stesso Rodighiero, alla statuaria arcaica, che fa da arredo ad una scena ambientata ad Itaca, in cui i pretendenti sono protagonisti7, ma anche l’ambientazione della reggia di Ulisse, connotata da elementi strutturali tipici dell’architettura minoico-micenea (come ad es. le colonne rastremate verso il basso o la riproduzione della tipologia architettonica del megaron), o i costumi dei Feaci, chiaramente ispirati agli abiti di tradizione minoica. In quest’ottica, è esemplificativa la scena in cui si svolgono i preparativi per la vestizione di Nausicaa (una giovanissima Rossana Podestà), che in una semplificazione e abbreviazione del testo omerico diventa promessa sposa di Ulisse, facendo assumere a tutta questa parte della vicenda, che si concluderà con una grande delusione per la principessa dei Feaci, i toni da romanzo ‘rosa’: l’abito della giovane, stretto in vita, con un bustino dalla scollatura molto profonda e con la gonna a balze, ricorda l’abbigliamento tipico della ‘dea dei serpenti’, richiamo che del resto è ravvisabile anche nel copricapo ‘turriforme’, che Nausicaa indossa a completamento della vestizione8. Nella versione elaborata dal costumista del film, G. Coltellacci, l’ampia scollatura dell’abito, che nel caso della dea dei serpenti prevede il seno scoperto, viene ‘castigata’ dall’inserto di un velo che va a coprire il décolleté dell’attrice (fig. 4). Accanto alla principessa dei Feaci, con grande nonchalance nella as5

Boschi 2005, p. 20. Rodighiero 2006, p. 373: “Nella più parte dei casi l’attendibilità, la coerenza filologica delle ricostruzioni e delle riproduzioni e la plausibilità di esse risultano compromesse da più pressanti e immediati interessi, quali la magnificenza, l’incanto delle scene di massa e la grandiosità dei set, e, non ultimo tra i fini da perseguire, la fruibilità da parte di un pubblico duttile e universale, quindi non connotato culturalmente”. 7 Rodighiero 2006, p. 375. 8 Demargne 1988 (1978), p. 156, figg. 212-213. 6

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Figura 3 - M. Camerini, Ulisse. Locandina.

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Figura 4 - M. Camerini, Ulisse. La vestizione di Nausicaa, fotogrammi.

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I ‘RITORNI’ DI ULISSE

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sociazione delle tipologie di costumi, ma con puntuale ricostruzione filologica, la scelta del costumista prevede che la regina Arete indossi una veste la cui decorazione ad elementi quadrangolari si rifà a quella del peplo della cosiddetta Dama di Auxerre, uno dei massimi e più noti capolavori della scultura cretese di età orientalizzante9. È evidente che il richiamo diretto al mondo minoico-miceneo e all’età arcaica viene utilizzato e sentito come indicatore temporale, adeguato a collocare i fatti narrati in un periodo molto antico, ma cronologicamente indeterminato, della storia greca. Nel film di Camerini la grande vitalità fisica di K. Douglas, a volte troppo sfrontata, fa focalizzare l’attenzione del pubblico sulla forza esteriore del protagonista, lasciando del tutto in ombra il dramma interiore di Ulisse, che invece verrà trattato da versioni filmiche posteriori. Significativa fra tutte è la sequenza, ambientata presso la corte di Alcinoo, in cui l’Ulisse-Douglas, per nulla riservato e molto sicuro di sé, si propone autonomamente quale concorrente nelle gare atletiche, invece di essere istigato a parteciparvi dai giovani Feaci; il lancio del disco, in cui si cimenta l’Ulisse omerico, si trasforma nel film di Camerini prima in una lotta greco-romana, tutta esibizione di pettorali e bicipiti (secondo la tradizione del genere del peplum e più consona allo spirito dei film di ambientazione anfiteatrale10), poi in una gara di tiro al bersaglio (fig. 5). Ben diversa è la scena, sobria nei suoi equilibri compositivi, del medesimo episodio (risolto in questo caso in un duello armato di spada), inserito nella versione a puntate realizzata per la R.A.I. da Franco Rossi nel 1969, che costituisce il più raffinato esempio di parafrasi fedele del testo omerico11: interpretato nel ruolo di Ulisse da Bekim Fehmiu, il cui volto si sovrappone con grande coerenza al ritratto dell’eroe di Itaca tramandato dall’iconografia classica, e da Irene Papas nei panni di Penelope, tanto perfetta da divenire agli occhi del vasto pubblico l’immagine per eccellenza del personaggio, il film indubbiamente rappresenta del racconto omerico la migliore 9

Giuliano 2003 (1989), pp. 71-72, fig. 44. Va ricordato che lo stesso K. Douglas interpreterà magistralmente il ruolo del gladiatore, recitando nel 1960 la parte di Spartaco nel film omonimo di S. Kubrick; per una bibliografia sui film ambientati nel mondo degli anfiteatri si veda Rodighiero 2004, p. 10, nota 4. 11 Per alcune riflessioni sulla qualità del film a puntate realizzato da Franco Rossi, si veda Bozzato 2005. 10

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L’ANTICO AL CINEMA

Figura 5 - M. Camerini, Ulisse. Ulisse gareggia con i giovani Feaci, fotogramma.

trasposizione filmica di tipo narrativo. La scena del duello di Ulisse con i giovani Feaci si struttura contrapponendo simmetricamente in due gruppi i membri della corte di Alcinoo, i quali, sullo sfondo di una architettura che richiama piuttosto modelli orientali, fanno da cornice allo spazio che viene ricavato per la scena del duello: la sequenza che vede il susseguirsi degli scontri, fino alla vittoria finale di Ulisse, è filmata con inquadratura dall’alto ed è scandita da ‘fermi d’azione’ che propongono delle geometrie di particolare nitidezza, che evocano le monomachie raffigurate sulla produzione vascolare greca (fig. 6). Nella ricostruzione di un mondo greco arcaico, ruvido e rarefatto, per nulla influenzato dalla tradizione cinematografica precedente, non è forse improbabile cogliere qualche suggestione dell’idea della Grecia ricreata in quegli stessi anni da Pier Paolo Pasolini, prima nell’Edipo re e poi nella Medea12. 12 Per l’idea della grecità secondo P. P. Pasolini, si veda il saggio di M. Fusillo (Fusillo 1996); in particolare per la figura di Medea nell’opera di Pasolini: Ciani 1999, p. 20; Ieranò 2000; Rodighiero 2003, pp. 126-130; Rubino 2004; Salvadori 2006.

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Figura 6 - F. Rossi, Odissea. Ulisse combatte con i giovani Feaci, fotogramma.

Che il film si riveli estremamente aderente al testo omerico è dimostrato da un altro passaggio relativo all’episodio clou di ogni Odissea che si rispetti: ovvero l’incontro con Polifemo e il suo accecamento, del quale si propone il confronto delle versioni dei tre film finora citati. Già una certa ricerca di effetti speciali, nella resa della alterazione dei rapporti dimensionali tra personaggi e tra personaggi e oggetti, si può osservare nel film di Bertolini del 1911, in cui il regista insiste maggiormente sul momento che precede l’azione dell’accecamento, concentrando l’attenzione sull’istante in cui Ulisse concepisce l’idea che porterà i Greci alla provvisoria salvezza (nella esasperata recitazione del cinema muto, si cerca di palesare i passaggi dell’intuizione mentale di Ulisse), e nella fase successiva, soffermandosi sull’estremità appuntita del palo che, più che essere conficcato, è appoggiato sull’occhio del ciclope e lo brucia (fig. 7). Per quanto riguarda il film di Camerini, suggestiva è l’ambientazione realistica dell’antro di Polifemo, con i formaggi e tutti gli oggetti di dimensioni fuori dalla norma (a determinare di conseguenza lo

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Figura 7 - F. Bertolini, G. De Liguoro, Odissea. Episodio di Polifemo, fotogrammi.

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stato di eccitazione dei Greci), ma del tutto distante dal testo omerico è la sceneggiatura adottata. Lo svolgimento della seconda parte della vicenda assume infatti toni quasi satireschi, quando Ulisse offre a Polifemo il vino e, alla richiesta del ciclope di poterne bere ancora, incita i compagni alla pigiatura dell’uva al ritmo sfrenato di una sorta di tarantella. Polifemo, interpretato da un atletico Umberto Silvestri, non è affatto terrificante e la sua vista richiama piuttosto l’immagine del ciclope così come viene tramandata dalla versione ovidiana del libro XIII delle Metamorfosi13, quando nel suo proporsi alla sdegnosa nereide Galatea, dichiara: “[…] Io mi conosco, sai, e poco fa ho visto la mia immagine nell’acqua limpida, ho visto il mio fisico, e mi è piaciuto. Guarda quanto sono grande! Neppure Giove in cielo ha un corpo più grande di questo mio […]”. Il vigoroso, ma poco ‘mostro’, Polifemo di Camerini, fra una risata e l’altra, tra un battimano e l’altro, beve incessantemente il succo dell’uva, spremuta al momento, fino a quando crolla in un sonno profondo e dà modo ai Greci di mettere in atto il loro progetto (fig. 8). Il momento risolutivo dell’accecamento viene concepito adottando una modalità d’azione che ben si allinea con lo schema iconografico consuetamente attestato nell’iconografia greco-romana, ma non è corrispondente alla narrazione dei fatti in Omero. Come già approfondito da Bernard Andreae14, l’immagine omerica del palo che in verticale viene conficcato nell’occhio del ciclope, creando la similitudine con il movimento del trapano che trafora l’asse di una nave15, doveva essere molto difficile da rendere nell’arte figurativa; ciò risulta attestato dal fatto che, sin dalle prime immagini dell’arte arcaica fino alle realizzazioni ellenistico-romane, la soluzione adottata è quella, più semplice, di raffigurare Ulisse e i compagni nell’atto di conficcare nell’occhio di Polifemo il palo tenuto in orizzontale, come se fosse una lancia, o in diagonale con Ulisse che orienta la punta verso il ciclope semisdraiato (tra gli esempi, già considerati da B. Andreae, basti citare un’anfora protoattica da Eleusi, un cratere argivo conservato al Museo di Argo (fig. 9), e il gruppo di Sperlonga). La messa 13

Ovid. Met. XIII, 840-845. Sullo sviluppo figurativo del mito di Ulisse e Polifemo si veda Andreae 1983, pp. 27-32. 15 Sul significato recondito dell’accecamento di Polifemo nell’ottica cartografica della riduzione del mondo al concetto di spazio si vedano le suggestive pagine di Farinelli 2003, pp. 3-5: “Nessuno ci ha mai spiegato che ogni volta che squadriamo un foglio con riga e compasso torniamo come Ulisse ad accecare Polifemo, a ridurre il mondo a spazio. Polifemo, il «mostro dal pensiero illogico», rappresenta il mondo prima di ogni ragione […]”. 14

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Figura 8 - M. Camerini, Ulisse. L’episodio di Polifemo, fotogrammi.

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Figura 9 - Museo di Argo. Cratere con l’accecamento di Polifemo (da Andreae 1983).

in scena del film di Camerini concorda sostanzialmente con questa tradizione: il gruppo dei Greci, con Ulisse in capo a tutti, conficca il palo sorretto in orizzontale. Originale è piuttosto la sequenza finale dell’azione, in cui, anziché mollare la presa, i Greci ritirano con sforzo il palo dall’occhio del ciclope e nell’azione filmica, paradossalmente, il punto di vista che ci viene offerto è proprio quello di Polifemo (fig. 10). Molto più vicina al testo omerico risulta invece la versione del film di Rossi, che propone, con grande tensione, un progressivo avvicinamento dei Greci (quasi una “scalata”) al corpo di un Polifemo, veramente orribile e terrificante, creato con effetti speciali molto ben riusciti per quegli anni da una personalità come quella di Mario Bava, considerato uno dei pionieri e maestri dell’horror

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L’ANTICO AL CINEMA

Figura 10 - M. Camerini, Ulisse. L’accecamento di Polifemo, fotogramma.

italiano16. L’azione dei Greci culmina nel momento del colpo finale inflitto dal palo appuntito tenuto verticalmente, che viene guidato da Ulisse, posto in posizione più bassa rispetto al gruppo dei compagni e più vicina all’occhio del ciclope (fig. 11). Vi è un’unica testimonianza iconografica, attestata in un cratere italiota a calice ora a Londra al British Museum, già segnalata da B. Andreae e peraltro connessa al dramma satiresco Il ciclope di Euripide, in cui si riconosce l’idea di raffigurare i protagonisti della scena secondo lo schema del palo tenuto in verticale: questa immagine, insieme alla sequenza del film di Rossi, costituiscono dunque le versioni più prossime alla tradizione ricordata da Omero (fig. 12). 16

Nei titoli di testa del film di Rossi è espressamente specificato che “la regia dell’episodio di Polifemo è di Mario Bava”. Sull’effetto spaventevole della puntata di Polifemo e su quanto sia ‘entrata’ nella memoria del pubblico di trentacinque anni fa (e del resto, ancora oggi, ho potuto verificare il fascino dell’episodio del ciclope osservando il grado di attenzione con cui le mie figlie, di sette e quattro anni, hanno seguito sullo schermo televisivo la vicenda omerica), sulle soluzioni tecniche e sugli effetti speciali di M. Bava, si veda Bozzato 2005.

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Figura 11 - F. Rossi, Odissea. L’accecamento di Polifemo, fotogrammi.

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Figura 12 - Londra, British Museum. Cratere italiota a calice con l’accecamento di Polifemo (da Andreae 1983)

Se la messa in scena dell’episodio di Polifemo pone diversi problemi dal punto di vista della soluzione del momento dell’accecamento, più coerenti con il testo omerico e con la tradizione iconografica sono le versioni filmiche dell’episodio delle Sirene, con lo stratagemma di Ulisse di tappare con della cera le orecchie dei compagni e farsi da loro legare all’albero maestro della nave per sentire il canto ipnotico

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Figura 13 - F. Rossi, Odissea. L’episodio delle sirene, fotogrammi.

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di questi esseri mostruosi. Entrambe le regie di Camerini e Rossi scelgono di non rappresentare fisicamente le Sirene, al contrario di quanto ovviamente accade nelle versioni figurative, ma di alluderne la presenza tramite le loro voci melodiose e la suggestione dei riflessi e dei movimenti delle onde del mare; la percezione ‘uditiva’ della presenza di questi esseri malefici avviene con più pathos nella versione di Camerini, dove le sirene simulano le voci di Penelope e di Telemaco con un insistito crescendo di tensione emotiva e musicale, e con maggiore sobrietà in quella di Rossi, in cui il primo piano iniziale sull’orecchio di Ulisse sintetizza il meccanismo di svolgimento dell’intero episodio (fig. 13). Divertente, e quasi disneyana, è la versione muta del 1911 di Bertolini, dove le sirene sono fisicamente rappresentate nella forma post-antica di donne-pesce, e non di donne-uccello come vuole la tradizione classica (fig. 14).

Figura 14 - F. Bertolini, G. De Liguoro, Odissea. L’episodio delle sirene fotogramma.

Personalissima è invece l’evocazione dell’episodio delle Sirene riconoscibile in Nostos – Il ritorno, film di Franco Piavoli prodotto in Italia nel 1989; singolare rimeditazione dell’Odissea, in cui l’aspetto narrativo perde rilievo a favore di una dimensione visiva di ipnotica

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Figura 15 - F. Piavoli, Nostos – Il ritorno. L’episodio delle sirene, fotogrammi.

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e coinvolgente costruzione della singola immagine, nel suo scorrere misurato e nella sua autonoma sonorità, che costituisce il motivo-firma dell’opera del regista bresciano. L’Ulisse di Piavoli, intensamente interpretato dal volto di Luigi Mezzanotte, reduce di ritorno dalle violenze della guerra (riprodotte in flashback nelle prime scene del film), naufrago e separato dai compagni, percorre le tappe di un viaggio contrassegnato da angosce, deliri, sogni e acute nostalgie di ritorno in molteplici direzioni: allo stato embrionale, alla natura, alla casa familiare. Il passo del film in cui è possibile leggere il richiamo al fascino esiziale delle Sirene si svolge tutto alla luce rossa del tramonto, in un continuo rimando di riflessi acustici e visivi: dalle onde intorno alla nave, che la cinepresa sintetizza in astrazioni fluttuanti, alle nubi che rapide e impalpabili offuscano il sole, alle dissonanti eppure suadenti sonorità che aleggiano sui marinai. Silenzio, invece, tra gli uomini (fig. 15). Come accade in altri brani del film, forse ancor più significativi per comprendere l’esperimento di Piavoli: quello in cui si assiste all’evocazione del regno dei morti (fig. 16), in cui il solo richiamo di

Figura 16 - F. Piavoli, Nostos – Il ritorno. Il viaggio nell’Ade, fotogramma.

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Ulisse alla madre si distingue nella scabra articolazione di sillabe che compone il linguaggio – sonoramente allusivo e asemantico – creato dal regista per filtrare le espressioni dei suoi personaggi; o quello in cui è ricostruito il ritorno ad uno stato di natura, ambientato in un contesto di acque sorgive e presenze animali edeniche, sempre offerto al nostro sguardo in primissimi piani che eludono con eleganza bressoniana la descrizione, nel quale possiamo riconoscere l’isola di Calipso e che rappresenta uno sviluppo delle sequenze dedicate dall’autore ai gesti dell’eros umano e alle melodie di rigenerazione della natura nel precedente Il pianeta azzurro (1982). L’opera di Piavoli apre dunque la strada a quelle che saranno le interpretazioni cinematografiche del personaggio di Ulisse, nell’ottica più liberamente simbolica condivisa da gran parte dell’arte contemporanea, come figura paradigmatica attraverso la quale è possibile giungere ad una riflessione sull’avventura dell’uomo in senso lato17. In tale prospettiva, mi sembra si possa concludere con la citazione della straordinaria sequenza finale del film Lo sguardo di Ulisse di Theo Angelopoulos, del 1995, in cui il protagonista (Harvey Keitel) compie un viaggio che dalla Grecia, attraverso i Balcani, lo conduce fino a Sarajevo, registrando con uno sguardo apparentemente distaccato, forse disilluso, la condizione di una umanità lacerata dalla guerra e dalla tensione politica18 (fig. 17). È solo con le ultime parole pronunciate dal personaggio che il suo sguardo si lascia leggere apertamente come quello di Ulisse; è solo allora che il percorso compiuto – snodatosi per più d’un tratto lungo vie d’acqua, suscitando inevitabili memorie dei fiumi risaliti, alla ricerca di sé e in un contesto analogamente ferito dalla violenza umana, dal conradiano capitano Willard di Apocalypse now di Francis Ford Coppola – assume esplicitamente la dimensione del νÞστος: Quando tornerò, tornerò indossando i vestiti di un altro uomo. E con il nome di un altro uomo. Il mio arrivo sarà inaspettato. 17 Sulle ‘sopravvivenze’ di Ulisse nell’arte contemporanea si vedano, da ultimi, Ciani 2007 e Dell’Agnese 2007. 18 Il film narra la storia di un regista greco (H. Keitel), che ritorna in patria per presentare il suo ultimo film, destinato ad essere accolto con forti polemiche; il viaggio in realtà diviene l’occasione per ritrovare i negativi del primo film greco girato all’inizio del ’900 dai fratelli Manakias. Inizia così la ricerca che porterà il protagonista in giro per i Balcani, dall’Albania alla Macedonia, dalla Bulgaria alla Romania, lungo il Danubio fino a Belgrado e Sarajevo, dove sono conservate le bobine del film.

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Figura 17 - T. Angelopoulos, Lo sguardo di Ulisse. La sequenza finale, fotogramma.

Se mi guarderai, non mi riconoscerai e dirai: “Non sei tu”. Io ti darò i segni per riconoscermi. Ti dirò dell’albero di limone del tuo giardino; della finestra in fondo dove entra la luna; dei segni del tuo corpo… Segni d’amore. E quando saliremo tremanti alla camera antica, tra una stretta e l’altra, tra un richiamo e l’altro, ti racconterò il viaggio… Per tutta la notte. E per tutte le notti che seguiranno. Tra una stretta e l’altra, tra un richiamo e l’altro. Tutta l’avventura umana, l’avventura che non ha mai fine.

Bibliografia Andreae B. 1983, L’immagine di Ulisse: mito e archeologia, Einaudi, Torino. Bertelli S. 1995, Corsari nel tempo. Quando il cinema inventa la storia, Ponte alle Grazie, Firenze. Boitani P. 1992, L’ombra di Ulisse, Il Mulino, Bologna. Boschi A. 2005, Con il peplo o con la clava. Modelli di rappresentazione dell’antica Grecia nella storia del cinema, in I Greci al cinema. Dal peplum ‘d’autore’ alla grafica computerizzata, “Nemo. Confrontarsi con l’antico”, 6, pp. 15-26.

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I ‘RITORNI’ DI ULISSE

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SCENE DI ROMA ANTICA: DA FELLINI A VILLA ADRIANA1 di Fabrizio Slavazzi

Il tema del rapporto fra cinema e antico gode di un momento di grande favore: incontri e pubblicazioni approfondiscono e rivalutano temi e filoni fino a poco tempo fa inesplorati o trascurati. Questo incontro, che vede la partecipazione di studiosi dell’antichità accanto a esperti di cinema, mi offre l’occasione per presentare il progetto “Scene di Roma antica”, a cui dedicherò la prima parte del mio intervento, mentre nella seconda cercherò di approfondire la lettura dell’antichità che Federico Fellini presenta nei suoi film, a partire da Fellini Satyricon.

“Scene di Roma antica” “Scene di Roma antica: l’antichità interpretata dalle arti contemporanee” è un progetto nato all’interno del corso di laurea in Scienze dei Beni Culturali dell’Università degli Studi di Milano dalla convergenza d’interessi dei docenti di Storia del cinema – Raffaele De Berti – e di Archeologia e storia dell’arte romana – io –, insieme a Elisabetta Gagetti, collega di Storia dell’arte antica della SILSIS Lombardia. L’idea è quella di affrontare alcune opere, oppure temi, o monumenti, legati a Roma antica, dai diversi punti di vista dell’antichista – storico, archeologo, filologo –, oppure dello storico dell’arte contemporanea, del musicologo, dello storico del cinema o del teatro o, più in generale, dello spettacolo, da presentare in giornate di studio 1

Desidero ringraziare Pasquale Iaccio e Mauro Menichetti per l’invito e per l’accoglienza.

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L’ANTICO AL CINEMA

a cadenza semestrale, durante i periodi di lezione, per coinvolgere gli studenti su temi normalmente non considerati nei programmi. Finora abbiamo avuto tre incontri. Il primo tema affrontato, il 6 marzo 2007, è stato il film Fellini Satyricon (fig. 1). L’opera fu presentata alla Mostra del Cinema di Venezia agli inizi di settembre del 1969: siamo riusciti a trovare la copia utilizzata in quell’occasione, conservata presso la Fondazione Cineteca Italiana, e la abbiamo riproposta il giorno prima dell’incontro in un cinema milanese.

Figura 1 - Locandina della giornata dedicata a Fellini Satyricon (6 marzo 2007).

Il film è un’opera difficile, sia nel percorso creativo del regista, dove rimane sostanzialmente isolata, sia per il tema (all’epoca considerato scabroso), sia per la rilettura estremamente libera del romanzo antico. Ora è certamente fra le pellicole meno viste di Federico Fellini e fino a poco tempo fa era quasi impossibile trovare una copia (circolava solo un’edizione spagnola).

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SCENE DI ROMA ANTICA: DA FELLINI A VILLA ADRIANA

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Dal lavoro è nata una rilettura credo originale di un testo artistico sul quale la bibliografia è molto ridotta2. Il latinista Nicola Pace ha affrontato il tema del rapporto tra il testo latino e la lettura che ne offre Fellini, e per l’occasione ha raccolto una intervista di Luca Canali, grande studioso di letteratura latina e all’epoca consulente del regista per la lingua – l’uso del latino e delle altre lingue antiche e moderne nel film rappresenta uno degli aspetti più sperimentali – e per l’intera riproposizione del mondo antico. Emilio Sala ha indagato sulla musica di Nino Rota, attraverso il recupero della partitura originaria (conservata alla Fondazione Cini di Venezia) e i nastri, evidenziando la forte componente etnica che ha ispirato il compositore. Raffaele De Berti ha osservato le reazioni della stampa contemporanea, soprattutto di quella più culturalmente e politicamente impegnata. Per l’occasione, su indicazione di Tullio Kezich abbiamo invitato Gianfranco Angelucci, che ci ha parlato della sua collaborazione con Fellini per il film. Gli altri partecipanti hanno affrontato i temi più legati alle arti figurative: Giorgio Zanchetti ha sondato il rapporto del film con l’arte contemporanea, in particolare con la beat generation, con le esperienze psichedeliche o con alcuni specifici artisti che operavano in quel periodo – Cy Twombly che lavorava a Roma, il Burri dei cretti, Nino Scordia che collaborò direttamente al film realizzando il grande muro ricoperto di graffiti delle scene iniziali –. Elisabetta Gagetti si è dedicata ai costumi, alle acconciature, ai trucchi, per i quali ha trovato straordinari riscontri nella moda contemporanea, lavorando sulle annate di “Vogue” e di “Harper’s Bazaar”: le tuniche alla Mariano Fortuny tornate allora in gran voga, gli abiti cortissimi, i colori e le consistenze dei tessuti e dei trucchi ispirati a costumi etnici ed esotici o hippie, il tutto messo in scena grazie all’arte di Danilo Donati. Ma anche il puntuale riscontro negli esempi antichi – ad esempio la suggestione esercitata dai ritratti del Fayyum –, reinterpretati e reinventati, che si intrecciano pericolosamente (chi imita chi?) con la moda contemporanea. Infine, io ho affrontato, dal punto di vista dell’archeologo, il tema dell’antichità romana così come viene proposto nella pellicola3. 2 Per un inquadramento dell’opera e una bibliografia aggiornata si rimanda a R. De Berti, E. Gagetti, «Fare un po’ come fa, appunto, l’archeologo». L’antichità ambigua di “Fellini Satyricon”, in Federico Fellini. Analisi di film: possibili letture, a cura di R. De Berti, McGrawHill, Milano, 2006, pp. 103-128. 3 Gli atti sono in corso di stampa nella collana dell’ateneo milanese “Quaderni di Acme”.

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L’ANTICO AL CINEMA

Il secondo incontro si è svolto il 29 ottobre 2007 e ha avuto per tema «Villa Adriana come palcoscenico». Il complesso monumentale realizzato dall’imperatore ha fornito lo sfondo e l’occasione per parlare dell’adattamento teatrale delle Memorie di Adriano, tratto dal romanzo di Marguerite Yourcenar, messo in scena nel 1989 proprio nella villa tiburtina e in seguito lì replicato in diverse occasioni, fino al 2007. Giorgio Albertazzi, autore e protagonista assoluto dell’opera, che aveva accettato l’invito, non è potuto intervenire, ma ha affidato un’intervista a Maurizio Scaparro, regista dello spettacolo, che ci ha illustrato la realizzazione dello spettacolo. Sono stati affrontati altri temi legati al testo teatrale: Paolo Bosisio ha analizzato la messa in scena del lavoro; la musica, che vuole recuperare sonorità antiche, è stata studiata da Nicola Scaldaferri; sui balletti si è concentrata Ambra Senatore, che sul tema ha intervistato il coreografo e primo interprete Eric Vu An. Nella seconda parte della giornata ci si è dedicati al monumento, con un intervento della Soprintendenza ai Beni Archeologici del Lazio sulla villa, entrata recentemente nel novero dei monumenti tutelati dall’UNESCO4, e un altro da parte mia sulle soluzioni architettoniche di tipo scenografico adottate nei diversi edifici del complesso per accogliere adeguatamente le epifanie imperiali. Elio Franzini, docente di estetica e preside di facoltà, ha affrontato la figura di Adriano nel romanzo della Yourcenar, nella sua attualizzazione rispetto al personaggio storico. Infine, sono intervenuti due celebri artisti francesi contemporanei, gli scultori Anne e Patrick Poirier, che hanno lavorato a lungo in Italia e la cui produzione degli anni ’70 e ’80, fortemente “archeologica” nei soggetti e nelle tecniche adottate, ha tratto profonda ispirazione dalla residenza imperiale. Uno degli effetti più graditi della giornata è stato il vertiginoso aumento della vendita delle copie del romanzo di Marguerite Yourcenar registrato nelle librerie intorno all’università. Il terzo appuntamento, tenuto il 1 aprile 2008, è stato “Tre femmes fatales dell’antichità: Cleopatra, Zenobia, Teodora”. Protagonista della prima parte è stata la regina d’Egitto, della cui vicenda sono state analizzate le numerose versioni cinematografiche, a partire da quelle più

4 M. Bouchenaki, Cerimonia di apposizione della targa “Sito del Patrimonio Mondiale” in Villa Adriana – Tivoli (13 aprile 2000), in Villa Adriana. Paesaggio antico e ambiente moderno. Elementi di novità e ricerche in corso. Atti del convegno (Roma, Museo Nazionale Romano, 23-25 giugno 2000), Electa, Milano 2002, pp. 13-14.

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SCENE DI ROMA ANTICA: DA FELLINI A VILLA ADRIANA

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antiche, con particolare attenzione alla pellicola di Cecil B. DeMille del 1934, ma anche a Totò e Cleopatra del 1963 (Elisabetta Gagetti, Raffaele De Berti, Giorgio Bejor). Anche il teatro e la musica si sono occupati dell’affascinante sovrana: approfondimenti sono stati dedicati alle messe in scena dell’Antonio e Cleopatra shakespeariano nella seconda metà del Novecento, da parte di Gabriella Cambiaghi, e alla Cléopâtre di Hector Berlioz, ad opera di Cesare Fertonani. La seconda parte è stata dedicata ad altre due regine: Zenobia di Palmira, la cui figura, indagata da Maria Teresa Grassi, invero non ha avuto grande fortuna nell’arte moderna, e Teodora di Bisanzio, variamente rivisitata nelle arti dell’Ottocento e del Novecento e studiata da Fabrizio Conca e Mauro Della Valle5.

Fellini Satyricon: la lettura dell’antico Passerò ora al secondo tema che mi sono proposto di affrontare: l’antico nei film di Federico Fellini. Si tratta di un lavoro ancora in corso di svolgimento, di cui presenterò alcune linee di lettura e qualche risultato preliminare. L’opera più interessante su cui effettuare la ricerca è naturalmente Fellini Satyricon, apparso nel 1969, in pieno periodo di contestazione. Si tratta delle libera resa cinematografica di un romanzo antico, giunto a noi in forma gravemente frammentaria: già questo fatto costituisce un motivo di interesse, perché aumenta la difficoltà della comprensione della trama da parte del lettore moderno, che viene proiettato subito all’interno di vicende di cui non conosce lo svolgimento precedente e delle quali spesso gli sfuggono i nessi. Anche lo spettatore si trova subito immerso in un’atmosfera misteriosa e incomprensibile: l’esordio del film è infatti la sequenza con il muro coperto di graffiti, su cui si proietta un’ombra, che si rivelerà quella di Encolpio, il protagonista. Alla mente dell’antichista affiorano almeno due rimandi, il mito della caverna raccontato da Platone nella Repubblica e il racconto pliniano sull’origine della pittura... ma sono forse rimandi troppo “colti”. Sta di fatto che si genera subito quell’atmosfera indefinibile, cupa e sfumata, visionaria, senza punti di riferimento, che caratterizza tutta l’opera e che i critici hanno definito onirica, che è una delle chiavi di lettura del film e permette, fra 5

Gli atti dei due incontri sono in corso di preparazione.

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l’altro, all’autore di superare le difficoltà generate dalla trasposizione del testo incompleto. Non si tratta dunque di un film “storico”, che si proponga di ricostruire filologicamente gli ambienti e l’atmosfera nei quali si svolgono le vicende dei protagonisti. Nell’edizione della sceneggiatura, uscita contemporaneamente al film6, è riportata una conversazione di Fellini, che dice a Dario Zanelli: Ho veduto e studiato più che potevo [...] ma non perchè abbia preoccupazioni culturali in senso libresco. Non è certo un film storico quello che voglio fare; né mi propongo di ricostruire con devota fedeltà gli usi e costumi dell’antica Roma. Ciò che mi interessa è tentare di evocare medianicamente, come sempre fa l’artista, un mondo sconosciuto di duemila anni or sono, un mondo che non è più. Tentare, cioè, di ricomporlo, mediante una struttura figurativa e narrativa di natura quasi archeologica. Fare un po’ come fa, appunto, l’archeologo, quando con certi cocci, o con certi ruderi, ricostruisce non già un’anfora, o un tempio, ma qualcosa che allude ad un’anfora, ad un tempio, e questo qualcosa è più suggestivo della realtà originaria, per quel tanto di indefinito e di irrisolto che ne accresce il fascino, postulando la collaborazione dello spettatore. Le rovine di un tempio non sono forse molto più affascinati del tempio stesso?7

In realtà, Fellini non fa il lavoro dell’archeologo, che recupera i “cocci” e attraverso questi cerca «di ricostruire con devota fedeltà gli usi e i costumi dell’antica Roma» cioè il passato. O meglio, ne fa solo una parte, quella dello scavo e del recupero dei frammenti, che poi lo affascinano al punto tale che li contempla così come sono. “Le rovine di un tempio non sono molto più affascinanti del tempio stesso?”: chi può dire ciò, se non un uomo imbevuto di cultura romantica, oppure un artista, che nelle rovine legge ciò che vuole? Non certo un archeologo, che mira alla ricostruzione oggettiva e la più fedele possibile. Partiamo dalle architetture. Già gli edifici sono rivelatori dell’atteggiamento del regista: le terme del primo episodio sono colossali e squallide, sembrano una stazione di metropolitana fradicia di umidità e imbrattata di sporcizia, oltre che di turpitudine. Le terme di Roma imperiale non erano così, erano rutilanti di marmi e di bronzi, di statue e di pitture. Questa è la prima delle architetture nude, disadorne, prive di qualsiasi ornamento che nel film sono utilizzate per la 6 D. Zanelli, Dal pianeta Roma, in Fellini Satyricon di Federico Fellini, a cura di D. Zanelli (Dal soggetto al film, 38), Cappelli, Bologna, 1969. 7 Ivi, p. 21.

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rappresentazione degli edifici romani; ma tale visione è agli antipodi rispetto a quella romana dei grandi complessi pubblici, che dovevano esprimere la ricchezza e la potenza di Roma e le conquiste tecniche dei suoi architetti.

Figura 2 - L’insula Felicles.

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L’insula Felicles è gigantesca, una sorta di mostruosa torre di Babele al contrario, tutta proiettata all’interno, uno spazio chiuso e opprimente, buio e grigio, dove il cielo si vede solo da un lucernario (fig. 2). Nella decina di piani che compongono il mostruoso edificio si aprono infinite stanze, loculi di un colombario tutti anonimi e fiocamente illuminati, dove gli occupanti si dedicano alle attività più diverse, possibilmente turpi. L’atmosfera mortifera di una casa-tomba, un inferno dantesco al contrario, si concretizza nel crollo dell’insula, che viene ridotta a rovina seppellendo i suoi abitanti come quelli di Pompei. Non c’è molta differenza con quanto avviene nel lupanare, anch’esso un edificio cupo e squallido, dove ogni stanza lungo il percorso compiuto da Encolpio sembra destinata alle più diverse perversioni. La casa di Trimalcione, invece, è del tutto indefinibile architettonicamente: la cena si svolge all’aperto, in uno spazio racchiuso da una sorta di struttura porticata e su due piani, uno pseudo-peristilio che funziona da limite, ma anche da palcoscenico, così come lo spazio centrale, dove si alternano i cibi, i personaggi, le attività, gli spettacoli. Tutto è uniformato da un colore rosso intenso, pesante, ossessivo, il “rosso pompeiano”. Nella seconda parte del film, seguendo il dipanarsi delle avventure dei protagonisti, ci si allontana dalla città e contemporaneamente dalla sua civiltà: lo dimostrano le architetture, che rimandano a mondi diversi, ad esempio negli episodi del combattimento con il Minotauro e della maga Enotea che deve restituire la virilità a Encolpio. Il Labirinto ha precisi modelli architettonici, in particolare la micenea Tirinto con le sue mura ciclopiche (figg. 3-4) o anche i templi di Malta, mentre il grande muro davanti a cui siede il pubblico richiama costruzioni dell’America centrale, azteche e maya, come è suggerito anche da alcuni rilievi che decorano l’edificio, mentre altri rimandano all’Egitto e all’età del bronzo europea. Il “giardino delle delizie” è un grande giardino zen, come quelli di Kyoto, con le pareti decorate da un affresco indiano, mentre presso l’abitazione della maga Enotea compaiono dei menhir, come nella Bretagna celtica, e perfino una statua ricoperta di chiodi che ricorda opere dell’Africa centrale. È evidente la volontà di rappresentare un mondo non romano, anticlassico nelle forme, anzi il più anticlassico possibile nelle scelte dei modelli culturali di riferimento. L’unica isola tranquilla, classica, è rappresentata, paradossalmente, dalla “Villa dei suicidi”. L’architettura dell’edificio e la sua decorazione ad affresco rispondono pienamente ai canoni romani: il portico

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Figura 3 - Fellini Satyricon: il labirinto.

Figura 4 - Le mura di Tirinto.

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leggero della facciata, il grande atrio luminoso decorato da pitture e caratterizzato dall’impluvio, il cubicolo anch’esso allietato da immagini e colori vivaci, perfino le celle degli schiavi. Lì, infatti, si consuma l’incontro erotico fra i due ragazzi e la schiava, dimenticando la presenza dei cadaveri dei padroni fuori dalla porta, fino a che i bagliori del rogo funebre ripristineranno l’atmosfera cupa e angosciata del film. Un altro filone di indagine è rappresentato dalle opere figurative, che sono disseminate lungo tutto il film. Anche queste sono in frammenti, rotte o screpolate, a cominciare dalla testa colossale che un gruppo di persone trasporta in una delle sequenze iniziali. Si trovano nelle stesse condizioni anche le opere esposte nella pinacoteca, nella quale è rappresentato l’incontro fra Encolpio e il poeta Eumolpo (fig. 5). Nell’ampio e arioso ambiente sono raccolte numerose pitture, diverse delle quali di soggetto erotico, mentre altre sono legate al tema della morte. Pur essendo questa una delle sequenze più luminose, che rischiara finalmente la prima parte del film tutta segnata dal buio della notte, si ha comunque una sensazione di disfacimento, di distruzione: le opere vengono restaurate davanti ai protagonisti e alcune sono ridotte in pezzi, tanto da renderne illeggibile il soggetto. Perfino il colossale e prezioso ritratto dorato si rivela vuoto e mangiato dalla corrosione. Così anche i tesori raccolti nella nave di Lica, che si rivelano mute statue dagli occhi svuotati letteralmente imprigionate nelle funi, talvolta solo frammenti, rapinate e chiuse nel buio della stiva.

Figura 5 - Fellini Satyricon: la Pinacoteca.

Come già rilevato per le architetture, anche fra queste compaiono opere che, seppure possono essere considerate tutte antiche, appar-

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tengono a epoche e a civiltà diversissime: proprio nella stiva della nave del pirata Lica sono stipate una stele della Lunigiana dell’età del Bronzo, una testa sumera, due korai greche di età arcaica, un sarcofago romano-egizio di età imperiale, una testa buddista dell’Indonesia. Anche per il gruppo di opere assegnabili alla civiltà greco-romana, non si è rispettata la delimitazione cronologica offerta dal romanzo di Petronio, ma vi compaiono pezzi dall’età arcaica a quella tardoantica. Appare, inoltre, evidente la precisa volontà di escludere tutte le opere più famose di scultura e di pittura dell’antichità classica, che da Winckelmann in poi hanno costituito il canone di riferimento per lo storico dell’arte antica, ma anche il repertorio e lo sfondo dei film “peplum” degli anni Cinquanta e Sessanta. Quali sono le fonti per le opere d’arte presenti nel film? Zanelli scrive nell’introduzione alla sceneggiatura: Il regista si è documentato, certo: ha visitato gli scavi di Pompei ed Ercolano, ha letto libri di dotti romanisti, ha sfogliato decine e decine di volumi di arte antica; ma lo ha fatto per prendere coscienza non tanto di ciò che potrà mettere nel film, quanto di ciò che dovrà assolutamente evitare. Do un’occhiata ai libri sparsi sulla sua scrivania, allineati con ordine su un lungo tavolo accostato ad una parete. Vedo opere celebri e no, studi ponderosi e volumetti di una allegra, diciamo così, divulgazione: La vita quotidiana a Roma di Jerome Carcopino e I detectives dell’archeologia di C.W. Ceram; The decline of Rome di Joseph Vogt e i venti volumi de Les peuples de l’antiquité di René Ménard e Claude Sauvageot; La questione petroniana di Enzo V. Marmorale e volumetti come Storia dell’amore libero, Erotismo sui sette colli e simili; Roma amor un volume riccamente illustrato sulla pittura e scultura erotica romana, ed altri libri d’arte che Fellini sfoglia con insaziabile curiosità, invitandomi spesso ad ammirare la straordinaria e talvolta sconcertante modernità di certe opere.8

Se ho riportato il lungo elenco di titoli è perché, cercando le fonti iconografiche o almeno quelle che potevano avere ispirato le scelte delle opere da collocare nel film, immaginavo che si trovassero fra queste – il brano è fra i pochissimi nella letteratura critica che riferiscano di libri di cui si sia servito Fellini –. In realtà, ciò non è completamente vero, o meglio, qualcosa c’è; ma c’è anche di più, e di inaspettato. Credo, infatti, di avere individuato i testi di cui Fellini e i suoi collaboratori si sono serviti, pochi libri nei quali si ritrovano 8

D. Zanelli, Dal pianeta Roma, in Fellini Satyricon di Federico Fellini, a cura di D. Zanelli (Dal soggetto al film, 38), Bologna, Cappelli, 1969, pp. 20-21.

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quasi tutte le opere identificabili fra quelle che compaiono nelle diverse scene del film. Vi si annoverano alcuni lavori di larga divulgazione, come una Pittura pompeiana pubblicata da Sadea nel 1965 e venduta a fascicoli in edicola9, da cui sono tratte alcune delle opere che compaiono nella “Pinacoteca” e nella “Villa dei suicidi”. Vi sono poi i due volumi della fortunata serie “Les grand siècles de la peinture” realizzata da Albert Skira con cura editoriale squisita, dedicati alla pittura greca e a quella romana. Il primo, pubblicato a Ginevra nel 195910, è di Martin Robertson e da esso sono tratte una dozzina di opere della “Pinacoteca”, dalla Parisina di Santorini al Teseo della Basilica di Ercolano. Il volume sulla pittura romana, edito nel 195311, è servito per almeno otto opere distribuite fra la “Pinacoteca” e la “Villa dei suicidi”, dalle Nozze Aldobrandini agli affreschi vesuviani.

Figura 6 - Fellini Satyricon: idolo cilindrico presso il Labirinto.

Ma il risultato a mio avviso più interessante di questa piccola ricerca è stato il riconoscimento dell’opera che è servita come fonte di ispirazione per molte delle sculture rintracciabili nel film: si tratta del Musée imaginaire de la sculpture mondiale di André Malraux, pubblicata da Gallimard nel 195212, nel quale si ritrovano otto statue presenti nella stiva della nave di Lica e nel Labirinto (figg. 6-7). L’identificazione appare certa: nel primo volume dell’opera le im9 A. de Franciscis, La pittura pompeiana (Forma e colore, 5), Firenze, Sadea-Sansoni editori, 1965. 10 M. Robertson, La peinture grecque, Genève, Skira, 1959. 11 A. Maiuri, La peinture romaine, Genève, Skira, 1953. 12 A. Malraux, Le musée imaginaire de la sculpture mondiale, I-III, Paris, Gallimard, 1952

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Figura 7 - Cilindro-idolo dall’Estremadura, II millennio a.C. (da A. Malraux, Musée imaginaire de la sculpture mondiale, vol. I, fig. 80)

magini delle sculture riprodotte sono raggruppate in pagine fra loro vicine o addirittura contigue13. Una seconda opera dello stesso autore, Les voix du silence, la cui prima edizione italiana uscì nel 1957 con il 13

Ivi, ad esempio figg. 80-81, 83, 120-121.

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titolo Il museo dei musei14, può avere ispirato la scelta dell’affresco di Ercole che riconosce Telefo, il cui particolare campeggia, colossale, nella grotta dell’ermafrodito15. La figura di André Malraux (1901-1976), scrittore e uomo politico, è quella di un intellettuale affascinante e poliedrico16. Autore di vari scritti sulla filosofia dell’arte, nei due testi ricordati egli accosta opere di epoche e culture lontanissime, considerate tutte di pari valore, mettendole a confronto e rilevandone le analogie; fra l’altro, risulta particolarmente evidente l’idea di fondo dell’anticlassicismo e dell’antiaccademismo, molto simile a quella che sta alla base della scelta delle opere di arte figurativa presenti nel film. Quindi i testi di Malraux potrebbero avere avuto per Fellini e i suoi collaboratori un valore più ampio di quello di semplice repertorio di opere antiche da riprodurre. In una lettura dell’immagine dell’antico nell’opera di Federico Fellini non si può trascurare come viene rappresentata l’antica Roma nell’omonimo film del 197217. La sequenza della scoperta della domus romana durante i lavori per lo scavo della metropolitana sembra rendere concretamente quanto il regista ha dichiarato nel brano citato precedentemente sul lavoro dell’archeologo18: anche qui egli si ferma al frammento e alla rovina, con in più un senso di incapacità nel comprendere il passato che riaffiora, le cui testimonianze – gli affreschi, i volti dei personaggi ritratti sui muri – si dissolvono inesorabilmente. Proprio questo film, Roma, offre lo spunto per una rapida incursione in un campo che non è il mio, ma che amplia la lettura del rapporto delle opere felliniane con l’antico. Un aspetto che mi ha colpito, e su cui ho trovato pochissime tracce negli studi sull’opera del regista, è il rapporto dei suoi lavori con il genere dei film “peplum”. Apparentemente, tale rapporto sembra chiarito dalle scene del film storico Priscilla la vergine di Roma, che compaiono proprio nei ricordi del giovane protagonista appena giunto nella capitale, nella prima parte del film: il filmetto è una creazione di Fellini, in chiave ironica e 14

A. Malraux, Il museo dei musei (Le voci del silenzio), s.l., Mondadori, 1957. Ivi, p. 201. Sulla figura di Malraux si veda, ad esempio, André Malraux entre imaginaire et engagement politique, atti del colloquio internazionale (Roma 2001), a cura di F. Cabasino, Roma, Aracne, 2003 (con ampia bibliografia). 17 Sul film si veda Roma, di Federico Fellini, a cura di B. Zapponi (Dal soggetto al film, 45), Bologna, Cappelli, 1973, che contiene la sceneggiatura e una serie di saggi dedicati all’opera. 18 Si veda supra. 15 16

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SCENE DI ROMA ANTICA: DA FELLINI A VILLA ADRIANA

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nostalgica, ma contribuisce a rievocare tutto un mondo. A quel mondo il regista sembra essere legato, anche se nelle interviste dichiara esplicitamente di tenersi lontano da tale filone cinematografico. I richiami sono numerosi e evidenti, a partire dal titolo di testa del film Roma, reso con quei caratteri capitali epigrafici, e dall’attacco della colonna sonora, soluzioni che sembrano prese dai “peplum” più popolari, per passare alla scelta di Gordon Mitchell – attore divenuto famoso vestendo i panni di Achille e di Maciste19 – per interpretare il predone che organizza il rapimento dell’ermafrodito in Fellini Satyricon, fino ai danzatori neri che si esibiscono durante la cena di Trimalcione, “fratelli” di tanti altri che sono comparsi in numerose pellicole del genere davanti a imperatori e tiranni durante banchetti e cerimonie, oppure la sequenza del crollo dell’insula Felicles che pare discendere da tante scene di distruzione di Pompei durante l’eruzione o di Roma durante l’incendio neroniano. Fra gli indizi nascosti o comunque meno espliciti, mi limito a citare il muro coperto di graffiti: l’ho ricordato nella sequenza iniziale di Fellini Satyricon, ma un simile muro compare anche ne La caduta dell’impero romano di Anthony Mann, del 1964. Diversi sono anche i debiti verso Cleopatra di Joseph L. Mankiewicz (1963), fra i quali ricordo solo la conclusione della sfilata di moda ecclesiastica in Roma, dove l’abito papale viene presentato su un carro che richiama in maniera molto evidente la sfinge semovente su cui la regina d’Egitto entra trionfalmente a Roma; ma anche la sequenza conclusiva di Fellini Satyricon, nella quale il fermo immagine sul volto di Encolpio si tramuta in un affresco screpolato (fig. 8), secondo l’identica soluzione tecnica che chiude i diversi capitoli dell’opera di Mankiewicz (fig. 9).

Figura 8 - Fellini Satyricon: scena finale.

19

L’attore partecipò a diversi film del genere “peplum”, ricoprendo il ruolo di protagonista in L’ira di Achille (1962) e in Maciste nella terra dei ciclopi (1963).

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Figura 9 - Cleopatra: immagine che chiude un capitolo della narrazione.

Sia la scelta del muro della sequenza iniziale, sia la soluzione adottata per la scena finale potrebbe trovare una spiegazione nella presenza di Italo Tomassi, supervisore delle pitture di scena nel film, che aveva lavorato sia nel film di Mankiewicz come pittore di scena, sia ne La caduta dell’impero romano come capo pittore, e che collaborò con Fellini anche in Roma20. Come nel caso già ricordato dei testi di riferimento per documentarsi sull’antica Roma, il regista sembra voler ingannare lo spettatore – e il lettore, ma anche il critico e lo studioso – mettendolo su false piste con dichiarazioni fuorvianti.

20

Informazioni tratte dal sito “The Internet Movie Database” (http://www.imdb.com/), ad vocem. Devo la segnalazione a Raffaele De Berti, che ringrazio.

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LO SPECCHIO ELETTRONICO. LA VIDEOARTE E L’ANTICO di Angelo Trimarco e Stefania Zuliani

Fin dall’antichità oggetto culturale privilegiato, luogo simbolico in cui si gioca la partita, mai conclusa, con l’altro da sé, lo specchio, ricettore e produttore di immagini – lo specchio, è stato notato, “riveste sia la funzione del fare (poiein) che quella del subire (paschein o pathein)”1 – è figura efficace di una conoscenza che si costruisce nello scambio e nell’infrazione. Se, infatti, dinanzi ad “una immagine speculare, noi partiamo sempre dal principio che lo specchio ‘dica la verità’”2, attribuendo allo specchio una singolarissima “natura olimpica, animale, disumana”, capace di restituire senza passione e turbamento il dato visivo, registrandolo con acclarata franchezza, è altrettanto vero che, ad un’analisi più attenta, questa stessa fiducia, assoluta e proverbialmente cieca, si rivela mal riposta perché, lo ha chiarito Umberto Eco, ogni specchio in quanto – fosse pure dissimulata – “protesi” non può che provocare esigui quanto decisivi “inganni percettivi”, sollecitando esperienze che sono in ogni caso di confine, che stanno comunque “sulla soglia fra percezione e significazione”, in uno spazio indefinito che è quello, inquietante e produttivo, del doppio o, forse meglio, di una ripetizione differente. Ed è per questo che, nel voler tentare una riflessione, in parole e, soprattutto, in immagini, sulla relazione che corre, intensa e controversa, fra l’antico, le sue figure e le sue icone, e le contemporanee ricerche artistiche, in particolare quelle che utilizzano in maniera privilegiata i linguaggi del video e le risorse della 1 F. Frontisi-Ducroux, J.-P. Vernant, Ulisse e lo specchio. Il femminile e la rappresentazione di sé nella Grecia antica, tr. it., Donzelli, Roma, 1998, p. 134. 2 U. Eco, Sugli specchi e altri saggi. Il segno, la rappresentazione, l’illusione, l’immagine, Bompiani, Milano, 1998, p. 15.

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multimedialità, proprio lo specchio, uno specchio ora inevitabilmente elettronico, ci si è offerto come opportuna metafora (una catena di metafore, in realtà)3 per dire la natura instabile e felice di un incontro dalle molteplici, e spesso irriducibili, declinazioni. Un transito critico, quello tra gli emblemi e i luoghi delle civiltà del passato e le incerte avventure dell’arte postauratica, che non si pone, naturalmente, nel solco della continuità o di un’impossibile tradizione, ma che si vuole piuttosto consapevole e mai sprovveduto tradimento, un discorso plurale, spesso frammentato, che gli artisti contemporanei costruiscono misurandosi con gli elementi, iconografici e, soprattutto, teorici, che definiscono la costellazione, anch’essa aperta e ogni volta riscritta, dell’antico, riconoscendo ad essi una possibile attualità, una capacità di produrre altri, inediti significati che si manifesta appunto nel confronto con i linguaggi e i rituali del tempo presente, con quelle che Baudrillard ha definito “le tecnologie dell’intangibile” di cui il video, nella sua estrema duttilità, rappresenta un passaggio cruciale e inesauribile. Strumento di documentazione e di (franta) narrazione, ma anche, e più decisamente con l’avvento del digitale, dispositivo in grado di produrre mondi e visioni che sfuggono a qualsiasi tentazione analogica (“No beginning/No end/ No direction/ No duration. Video as mind” è l’inequivocabile affermazione di Bill Viola, pioniere e maestro indiscusso della videoarte)4, il video si offre così come archivio perfetto e, quindi, come una necessaria eterotopia, come “uno spazio assolutamente altro” in cui, ha scritto Foucault, si contestano “tutti gli altri spazi, o creando un’illusione che denuncia tutto il resto della realtà come un’illusione [...] oppure creando realmente un altro spazio reale tanto perfetto, meticoloso e ordinato, quanto il nostro è disordinato, mal organizzato e caotico”5. Nel raccogliere e riposizionare schegge, indizi, reperti e ingannevoli memorie dell’antico la videoarte produce infatti non una definizione ma un intervallo e un attesa, costruisce una nuova temporalità, si offre, proprio come lo specchio che dive3

Su questo punto si veda J. Baltrusaitis, Lo specchio, Adelphi, Milano, 1981. Cfr. B. Viola, Vedere con la mente e con il cuore, a cura di V. Valentini, Gangemi, Roma, 1995. Cfr. anche E. Viola, No beginning/No end/ No direction/No duration. Video as mind, in Camera con vista, uno sguardo sulla videoarte a Napoli, cat. della mostra a cura di A. Rispoli e E. Viola, Electa Napoli, Napoli, 2008, pp. 31-38. Per una prima ricognizione delle differenti voci che animano il dibattito sulla videoarte e le sue trasformazione si veda almeno Il video a venire, a cura di V. Valentini, Rubbettino, Catanzaro, 1999. 5 M. Foucault, Utopie Eterotopie, tr. it., a cura di A. Moscati, Cronopio, Napoli, 2004, p. 25. 4

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LO SPECCHIO ELETTRONICO. LA VIDEOARTE E L’ANTICO

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niva permeabile schermo d’acqua in una memorabile sequenza de Le sang d’un poète di Jean Cocteau, come paradossale soglia da varcare per accedere ad una dimensione altra, in cui è finalmente possibile immaginare inedite, felicemente anacronistiche presenze del passato. Dell’antico, appunto. Dagli anni ottanta del secolo scorso, dopo la fine delle ‘grandi narrazioni’, come le ha chiamato Lyotard, e delle ‘inibizioni’ dell’avanguardia e dell’architettura moderna, secondo le parole di Portoghesi6, il dialogo con l’antico si è posto come dialogo con la storia: naturalmente, con la storia dell’arte e soprattutto con la storia dell’architettura. La fine delle inibizioni ha aperto uno spazio di linguaggio precluso: forse meglio, ha inaugurato una dimensione della storia orizzontale, senza gerarchie e luoghi privilegiati, da cui attingere materiali e frammenti da riutilizzare in un intrattenimento infinito. Così, l’antico è stato assunto come costellazione di segni, di forme e di figure, senza aura né enfasi ideologica, com’era capitato negli anni venti e trenta del Novecento. In questo disegno, lo spazio dell’architettura postmoderna ha incrociato, in un “eclettismo radicale”, come piace dire a Jencks, l’antico, le sue immagini e le sue forme costruttive, con le immagini e i corpi urbani attuali7. La videoarte, in qualunque modo la si voglia interpretare – Rosalind Krauss, sappiamo, l’ha letta come scultura e, del resto, nel 1990, viene installata in uno spazio pubblico a Filadelfia Video Arbor di Nam June Paik, appunto, come scultura –, è distante da questi temi e da queste prospettive. Il suo incontro con l’antico ha un respiro più leggero: non ha conti in sospeso con la tradizione del Moderno. L’antico, per questi artisti, non è il “grembo della storia”, della storia dell’arte e della storia dell’architettura, da recuperare e riutilizzare per dare energia e movimento al corpo urbano o, come accade con Clemente, per legare in un temerario intreccio l’archeologia e l’archeologia foucaultiana, ma è, appunto, un tessuto di parole e d’immagini da manipolare e lavorare senza sosta con la luce, accelerando o dilatando il tempo del racconto, espandendo il suono. La luce e il tempo – una temporalità che mette in questione la linearità progressiva della narrazione televisiva – segnano, d’altra parte, i confini di quest’esperienza 6 J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna (1979), tr. it., Feltrinelli, Milano, 1981; P. Portoghesi, Le inibizioni dell’architettura moderna, Laterza, Bari, 1974. 7 C. Jencks, Verso l’eclettismo radicale, in P. Portoghesi (a cura di), La presenza del passato, Prima mostra internazionale di architettura, Edizioni “La Biennale di Venezia”, Venezia, 1980.

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che gli artisti degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso hanno accolto, praticato e amato. Oggi, la videoarte – lo specchio elettronico –, racconto di luce e di temporalità diversamente scandite, conserva ancora, nella costellazione complessa dello spazio immateriale, quei tratti che ne hanno accompagnato i passi iniziali: anzitutto, la sua capacità di porsi come critica dell’immagine di consumo che ci assedia. Assedio che non è portato soltanto dalla televisione, come, appunto, negli anni Sessanta e Settanta, anni in cui un artista fluxus, quale Vostell, in una furente performance, ha distrutto una serie di televisori accesi, ma dai “miracoli e traumi”, come li chiama Perniola, degli attuali processi della comunicazione8. Non a caso, una nuova generazione è ancora sulle tracce della videoarte, della sua scrittura di luce e di spostamenti temporali, per costruire e riflettere sull’immagine, sul suo rapporto con il suono e con il tempo. Ne sono stata testimonianza i video presentati alla Fondazione Filiberto Menna di Salerno da Alessandro Demma, Maria Giovanna Mancini, Antonello Tolve ed Eugenio Viola, giovani studiosi iscritti al Dottorato in Metodi e metodologie della ricerca archeologica e storico-artistica dell’università di Salerno. Documenti ed opere di artisti internazionali di differente generazione e orientamento che hanno offerto una campionatura, certo non esaustiva ma sufficientemente vasta, degli approcci attraverso cui la videoarte ha incrociato il tema dell’antico: la Cleopatra ironicamente pop protagonista nel 1970 di un celebre film underground di Michel Auder, lo scavo archeologico proposto da Luca Vittone nel cortile del P.S.1 Contemporary Art Center di New York, la passeggiata archeologica per le stanze di Villa Medici di Janet Cardiff, i sontuosi baccanali postmoderni di Eleanor Antin, gli straordinari archi sonori con cui Gary Hill ha trasformato nel 2006 lo spazio e il tempo del Colosseo sono alcuni dei tanti riflessi attraverso cui lo specchio elettronico dell’arte multimediale restituisce, infedele, frammenti e pensieri del mondo antico, una latitudine culturale che per gli artisti del tempo presente non è mai inerte repertorio, certo prestigioso, di visioni e memorie ma orizzonte irrinunciabile di dialogo, di creativa e doverosamente impertinente interrogazione.

8 Sul rapporto videoarte-televisione si v. V. Fagone, L’immagine video. Arti visuali e nuovi media elettronici, Feltrinelli, Milano, 1990, pp. 54 ss. Si v., sui problemi più recenti della comunicazione, M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, Torino, 2009.

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Michel Auder, Cleopatra Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 15/09/2018

di Antonello Tolve Immersa in uno scenario che ristabilisce il contatto con l’antico attraverso la crudeltà e la perversione – equivoci generati dalla parabola aneddotica, che sopprime, spesso, il personaggio reale – la Cleopatra proposta da Michel Auder nel 1970 mostra, seguendo una lunga scia cinematografica e pittorica, ed evocando un “passato abolito” da applicare, “come un cifrario, alla dimensione del presente” (LéviStrauss), ancora una volta i tratti taglienti di una creatura affascinante, provocante, perfida, viziata e libertina, ironica e ipocrita. Ma anche, paradossalmente, delicata e leggera, fragile e debole, incatenata ad un andamento esistenziale patriarcale, preorganizzato e prestabilito. Visitando con acume i segmenti generali delle cleopatre filmiche, Auder sottolinea, dunque – tramite uno spettacolo visionario, ritemporalizzato costantemente al presente, naufragato nel campo consumistico e dell’anonimato metropolitano – i vari archetipi d’una donna che si fa, ben presto, mito, figura sovrastorica e diva hollywoodiana. Riqualificata in chiave pop, la figura di Cleopatra proposta da Auder fa i conti con le maglie del passato, rinnovando ambienti, personaggi, luoghi ed occasioni, per restituire – attraverso processi contraddittori, fortemente estranianti e decontestualizzanti – frammenti d’un discorso archeologico tesi a rifabbricare le tracce d’un filo storico che si sperde nel magico e nel mitopoietico. Metamorfosandosi in mito, la figura di Cleopatra depenna, difatti, i tratti distintivi dell’archetipo reale per addentrarsi nel territorio leggendario di un nuovo personaggio che svolge la propria esistenza nel cuore di un apparato scenico Pop in cui le motoslitte (da poco in commercio), ad esempio, sostituiscono i cavalli, lo spazio di una fabbrica metallurgica si fa vetrina di armamenti, l’antico Egitto muta nella New York anni Settanta, l’ebbrezza delle pomate profumate si fa visione psichedelica evidenziata dall’utilizzo di sostanze chimiche. Sguardo disincantato della società, la Cleopatra di Michel Auder, tra vizi privati e pubbliche virtù (Miklós Jancsó), è, infine, un essere nuovo in cui lo studio di Godard, filtrato dall’addestramento underground del cinema di Andy Warhol, generano un sogno in cui il corpo della protagonista (Viva) si fa prodotto di consumo, frizione sensoriale, riappropriazione e stravolgimento sensibile dell’archeologico in chiave contemporanea, pulsante presente, gustosa carnalità. Michel Auder, Cleopatra, durata 55’ 25’’, USA 1970.

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Luca Vitone, Hole Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 15/09/2018

di Alessandro Demma Come un archeologo Vitone, nei suoi scavi, muove alla ricerca delle radici culturali dei luoghi lavorando con i resti materiali della cultura passata, tracciando un forte legame tra spettatore e territorio. Una pratica, quella dello scavo, che aveva già segnato il percorso di alcuni artisti della Land Art che, negli anni settanta del Novecento, intervenendo sul paesaggio, aprivano nuove riflessione sull’uomo, sulla natura e sul tempo. Partendo proprio dal linguaggio della Land art Vitone sposta l’attenzione al valore concettuale dello scavo inteso come ricerca o meglio riscoperta della memoria e dell’identità dei luoghi. Hole (2000), presentato in occasione della sua personale al P.S.1 Contemporary Art Center di New York, ripercorre la storia della città di New York attraverso uno scavo dal quale fuoriescono suoni e brani musicali legati alla memoria del luogo, brani tratti dalla tradizione popolare delle tribù degli indiani americani Lenape, che un tempo abitavano l’area di Manhattan, e da musiche popolari olandesi del XVII secolo, che rievocano i primi insediamenti di coloni europei nel territorio. Il ‘vuoto’ iconografico dello scavo crea uno spazio dove un’altra forma di ‘pieno’, il suono, si definisce, per stabilire il suo legame con il luogo, legame che l’artista sceglie di rendere ancora più evidente lasciando gli attrezzi (picconi, pale, scale ecc.) sul sito, come se gli operai si fossero allontanati da poco, per creare un’immediata connessione col tempo presente. Nell’opera di Luca Vitone il recupero di frammenti di memoria collettiva e personale e la pratica relazionale diventano strumento di conoscenza, volto alla ridefinizione dei concetti di identità culturale, origine, località. Hole rappresenta la tensione tra la sensazione di perdita d’identità del luogo e la necessità di riappropriarsene. Con i suoi scavi l’artista esplora frammenti di memoria in una operazione di recupero e suggestioni legate al territorio, di una memoria non visibile nel recupero del reperto ma nell’esperienza plurisensoriale che l’astrazione del suono rende percepibile (visibile e vivibile) allo spettatore. Luca Vitone, Hole, P.S.1 Contemporary Art Center, New York 2000, scavo, cd, impianto sonoro, materiali vari, dimensioni variabili, Filmed and Edited by Matteo Fiacchino.

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Janet Cardiff, Villa Medici Walk Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 15/09/2018

di Alessandro Demma Janet Cardiff nelle sue passeggiate sonore muove dalla stratificazione dei tempi e dei luoghi, attraverso l’esercizio dell’abitare lo spazio e i sensi, esplorando la memoria, la perdita, l’intimità, il desiderio, in un’esperienza in cui lo spettatore-attore, invitato a mettersi un paio di cuffie collegate ad un lettore CD portatile, segue istruzioni preregistrate che lo accompagnano all’interno di una narrazione. ‘Cardiff costruisce stratificazioni di suoni e li sovrappone alle percezioni reali che si provano camminando in un ambiente specifico’(Carolyn Christov-Bakargiev). La sua voce sovrapposta ad altre o ad altri suoni – passi, spari, musiche, canti – si fonde con l’ambiente reale in cui il pubblico è immerso. Villa Medici Walk (1998) è una passeggiata sonora, esperienza che crea uno slittamento nella struttura comunicativa dell’arte, che si svolge nei giardini e nei sotterranei della residenza rinascimentale che Ferdinando de’ Medici fece costruire, verso la fine del 1500, sulle rovine di un antico palazzo romano sul Colle Pincio. La stratificazione del luogo è elemento significativo del percorso in cui dal belvedere costruito sulle rovine del tempio di Venere, la protagonista seguendo la voce registrata del suo amante raggiunge i tunnel sotterranei della villa: ‘Entra nel tunnel sulla sinistra. Fa attenzione a non toccare i bordi. Sono stati scavati nel primo secolo a.C. Si vedono ancora i segni degli attrezzi che hanno utilizzato’. Le voci registrate, gli effetti sonori, si mescolano alle infinite percezioni sensoriali e alle suggestioni di questo luogo nel cuore della Roma contemporanea che, isolato da alte mura, ci dà l’impressione che il tempo si sia fermato. Il suono, la parola, il rumore, il fruscio dei passi, attraverso il sistema di registrazione binaurale, di una riproduzione elettroacustica tridimensionale, disegnano la scena di una complessa e ambigua esperienza, in cui l’ambiente artificiale della registrazione si fonde con l’ambiente reale. Le caratteristiche della villa, la stratificazione (dai giardini di Lucullo, al ninfeo di Valerio Asiatico, al tempio ecc.), la presenza del passato (statue, cunicoli ecc.) hanno ispirato la ‘trama’ dell’opera incentrata sull’idea di memoria e sul viaggio nel tempo in uno spazio carico di storia, di ricordi e di desideri. Janet Cardiff, Villa Medici Walk, Villa Medici, Roma 1998, passeggiata sonora, sistema audio binaurale e lettore cd portatile.

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Eleanor Antin, The Last Days of Pompeii Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 15/09/2018

di Eugenio Viola Dalla letteratura all’arte, dalla musica all’architettura, dal teatro al cinema, il mito dell’antica Roma, intramontabile, attraversa tutta la cultura occidentale. Gli ultimi giorni di Pompei, in particolare, è l’esempio di un libro fortunato scritto da Edward Bulwer-Lytton (1834), diventato successivamente prototipo di una lunga serie di riduzioni cinematografiche e di un paio di miniserie televisive. “L’arte contemporanea progetta il passato” ha affermato più volte Achille Bonito Oliva. Una espressione volutamente provocatoria che vuole testimoniare un sistema di relazioni e sconfinamenti, proficuo e talvolta inaspettato, tra il presente dell’arte e l’antico. Un rapporto che può manifestarsi in maniera letterale come semplice espediente formale di citazionismo e che altre volte può essere invece simbolico e intertestuale, altre volte ancora può racchiudere tutte queste istanze insieme, come in The Last Days of Pompeii (2001) di Eleanor Antin. L’artista americana opera un cortocircuito sottile tra storia, memoria e mito, instaura un rapporto col passato dialettico e critico a un tempo, dove il citazionismo diviene un modo di indagare il presente. “Le immagini di Pompei sull’orlo dell’annichilimento, dichiara l’artista, hanno sempre suggerito scomodi paragoni con il mondo contemporaneo: la vita alla luce del sole si trasforma in una luce scura in cui la crudeltà, il dolore e la morte occhieggiano ai margini della coscienza”. Le ambientazioni accuratissime, ai limiti del maniacale, che contraddistinguono questa serie fotografica ispirata ai momenti immediatamente precedenti e successivi l’eruzione del Vesuvio che distrusse la città vesuviana nel 79 d.C., restituisce alcuni tranche de vie di una Pompei immaginaria: Antin si confronta con l’innocenza dei sognatori, con un gruppo eterogeneo di commedianti, con baccanali di ninfe e satiri, con banchetti decadenti, giochi di bambini, esecuzioni capitali e performance teatrali. I protagonisti delle sue ambientazioni sono atteggiati come tableaux vivants che rimandano alle origini stesse della fotografia sullo sfondo di un paesaggio rarefatto e atemporale, emblema di un’arte che almeno sotto il profilo formale tenta di eludere la catastrofe imminente tramite l’esibizione di uno splendore apparentemente apollineo. L’artista restituisce una serie di monumentali

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quadri narrativi della Roma imperiale, sensuale e decadente, evocati attraverso un raffinato sistema di citazioni che dalla pittura classicista dell’Ottocento (Alma-Taddema, Lord Leighton, Puvis de Chavannes) ripercorre la lunga tradizione del cinema ‘peplum’ americano. Il parallelo è evidente: Antin confronta l’esperienza americana con quella dell’antica Roma, imbastisce abilmente un racconto dove le due storie sembrano fondersi in un’unica lunga esperienza ciclica in cui la Roma imperiale diventa quasi il presupposto necessario della successiva preponderanza politica americana.

Gary Hill, Allegorical Resonances di Maria Giovanna Mancini Archi risonanti/Resounding Arches di Gary Hill è una complessa installazione video a cura di Ester Coen e Giuliana Stella negli spazi del Colosseo e del contiguo Tempio di Venere a Roma nel 2005. È la prima occasione, a dire dell’artista, di contatto diretto con l’Antico. Dai recessi bui dei fornici emergevano le proiezioni di figure umane, realizzate con sistemi di motion capture, che avanzavano verso lo spettatore suonando corni che nella progressione del suono crescevano fino ad attorcigliarsi. Il suono ancestrale degli strumenti a fiato sintetici riecheggiava nella rovina attirando l’attenzione del pubblico distratto nel luogo della proiezione. La rovina archeologica come oggetto trans-storico è il luogo dove si produce quel passaggio di scala dal particolare all’universale, per cui l’immagine virtuale degli uomini e delle donne supera la distinzione individuale realizzandosi come immagine dell’umanità intera. Nell’abside del tempio di Venere, invece, sono stati proiettati liminal object, sequenze video in 3D di oggetti che durante l’evoluzione nello spazio astratto della rappresentazione tecnologica si compenetrano senza che la materia opponga alcuna resistenza. Lo spazio del virtuale diventa lo spazio della possibilità e di posizioni inaspettate. L’installazione si chiude con una lunga performance costruita su continui coup de théâtre, attirando l’attenzione del pubblico dall’arena, dove si svolgeva l’azione scenica, alla cavea trasformata dalle proiezioni. La performance termina con il lungo e fragoroso percorso di un carro dalle ruote triangolari mentre gli spalti sono incendiati dalle immagini video. Il carro è spinto da sacerdoti in giacca e cravatta e sul carro, come una divinità della guerra rassegnata

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L’ANTICO AL CINEMA

alla sconfitta, si erge una donna vestita di bianco con un copricapo di pelliccia da cui pendono code di animali: tutti simboli che tacitamente connotano la donna. Il suo canto è un lamento che narra di punizioni. Le immagini video ritraggono la novella Persefone nell’atto di mangiare il melograno, lo strumento dell’inganno e perciò simbolo del suo destino insieme di prosperità e morte. Piovono aeroplanini bianchi che si schiantano nell’arena mentre le immagini video documentano un’aquila virtuale ingabbiata in un traliccio, chiara allusione alla potenza dell’impero, quello romano quanto quello americano, piegato dalla sua stessa condotta. La rovina archeologica frammentata e sottratta al tempo storico che le aveva assegnato un significato diviene l’oggetto su cui l’artista, come allegorista, proietta un nuovo significato. Parafrasando le parole di Benjamin, l’immagine del passato entra nel panorama culturale contemporaneo svuotata irrimediabilmente della sua `verità’. L’artista confisca la rovina, emblema allegorico per eccellenza e ne combina la vaga traccia di senso che proviene dal suo passato con i simboli iconografici e le nuove immagini. L’allegoria, come scrive Craig Owens, è un’attitudine che attraverso l’impermanenza dell’accumulo, l’appropriazione, le procedure discorsive, l’ibridazioni di generi, costituisce un coerente impulso a produrre ‘proposizioni’ sintetiche il cui paradigma è il palinsesto. Gary Hill, Archi risonanti/ Resounding Arches, a cura di Ester Coen e Giuliana Stella, Anfiteatro Flavio e Tempio di Venere, Roma, aprileluglio 2005, proiezioni video e performance, materiali vari.

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INDICE DEI NOMI

Abramovic, Marina 18 Adorno, Theodor Wiesengrund 18, 21 Agel, Henri 14n. Albani, Elsa 86n. Alberini, Filoteo 74 Albertazzi, Giorgio 138 Alcott, John 103n. Alfieri, Vittorio 20, 23 Alma-Tadema, Lawrence, sir 159 Alovisio, Silvio 67n. Amelio, Gianni 7n. Anania, Francesca 7n. Andreae, Bernard 121 e n., 123, 124, 126 Angelucci, Gianfranco 137 Angelopoulos, Theo 131, 132 Anouilh, Jean 18, 20, 23, 88n. Antin, Eleanor 154, 158-159 Antioco di Siria 46 Antonioni, Michelangelo 103n. Aragon, Louis 21 Argento, Dario 8n. Asimov, Isaac 15 Auder, Michel 154, 155 Augé, Marc 56 e n., 60 Aziza, Claude 113n. Bacalov, Luis Enrìquez 8n. Baltrusaitis, Jurgis 152n. Barbaro, Umberto 5n. Barthes, Roland 82 e n., 84n., 88, 89, 90 e n. Bataille, Georges 24 Battiato, Franco 8n. Baudo, Pippo 7n. Baudrillard, Jean 152 Bava, Mario 123, 124n. Beck, Julian 25 Beecroft, Vanessa 18

Bejor, Giorgio 139 Benjamin, Walter 22, 160 Bergman, Ingrid 79n. Berlioz, Hector 139 Bernardini, Aldo 5n., 70n., 76n. Bersani, Lello 80 Bertelli, Sergio 92n., 113n. Bertellini, Giorgio 64n., 65n. Bertolini, Francesco 112, 113, 119, 120, 128 Bertolucci, Giuseppe 8n. Blasetti, Alessandro 5n. Bogani, Giovanni 83n. Boitani, Piero 111n., 132n Bonelli, Sergio 39 Boni, Alessio 8n. Bonito Oliva, Achille 158 Boschi, Alberto 111n., 114n. Bosisio, Paolo 138 Bouchenaki, Mounir 138n. Bozzato, Alessandro 117n., 124n. Bracco, Roberto 3n. Brando, Marlon 81-83 e n., 86, 88 Brandon, Peter 19 Brecht, Bertolt 18-20, 23-25 Breton, André 21 Brunetta, Gian Piero 7-8 e n., 11, 64n. Buchowetzki, Dimitri 17 Bujold, Geneviève 19 Bultmann, Rudolf 20 Bulwer-Lytton, Edward George 65, 94, 158 Burke, Peter 14 Burri, Alberto 26, 137 Burton, Richard 83n., 97 Cabasino, Francesca 148n. Cage, John 24, 26

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INDICE DEI NOMI

Calhern, Louis (pseudonimo di Carl Henry Vogt) 81, 84-85 e n., 88 Calvino, Italo 30n., 32 e n. Cambiaghi, Gabriella 139 Camerini, Mario 114-119, 121-124, 128 Canali, Luca 137 Canfora, Luciano 48n. Canonero, Milena 105 Canova, Gianni 84n., 86n. Caracciolo, Nicola 7n Carandini, Andrea 50n. Carcopino, Jérôme 105, 145 Cardiff, Janet 154, 157 Carraro, Tino 86n., 88 e n. Casadio, Gianfranco 79n. Caserini, Mario 67, 105 Casetti, Francesco 8n. Castellani, Bruto 70 Caton-Jones, Michael 98 Catone il Censore 47 Cavallo, Pietro 7n., 8 Cavani, Liliana 18 Ceram C. W. (pseudonimo di Marek Kurt Wilhelm) 145 Chandler, Leah 19 Chapman, Graham 50n. Chiarini, Luigi 5n Christov-Bakargiev, Carolyn 157 Ciani, Maria Grazia 20, 118n., 131n. Cigognetti, Luisa 8n. Claudio, Chiaverotti 40 Clemente, Francesco 153 Cocteau, Jean 22, 153 Coen, Ester 159-160 Colarizi, Simona 7n. Colbert, Claudette 96 Coleman, Kathleen 103 Coltellacci, Giulio 114 Comencini, Gianni 5n. Comencini, Luigi 97 e n. Conca, Fabrizio 139 Cooper, Merian Caldwell 78 Cordova, Ferdinando 8n. Cornelia, figlia di Scipione l’Africano 53 Corrado, Roi 40 Corsini, Piero 7n. Cotta Ramosino, Laura 2n., 14n., 79n. Cotta Ramosino, Luisa 2n., 14n., 79n.

Croccolo, Carlo 8. Curtis, Tony 94 D’Agostino, Guido 77n D’Alessandro, Pasquale 7-8 e n. D’Annunzio, Gabriele 72 D’Annunzio, Gabriellino 101n. Dalì, Salvador 41 De Berti, Raffaele 135, 137 e n., 139, 150n. de Franciscis, Alfonso 146n. De Grazia, Victoria 13n. de Kooning, Willem 24, 26 De Laurentis, Gianfranco 7n. De Liguoro, Giuseppe 112-113, 120, 128 De Lullo, Giorgio 86n., 88 De Luna, Giovanni 7-8 e n. De Mille, Cecil Blount 96, 106, 139 De Sica, Manuel 7n. Debenedetti, Giacomo 32, 33 e n. Decaro, Enzo 8n. Del Bosco, Paquito 7-8 n. Del Pino, Guido 7-8 n. Dell’Agnese, Fulvio 131n. Della Valle, Mauro 139 Demargne, Pierre 114n. Demma, Alessandro 154, 156-157 Deodato, Ruggero 8n. Descartes, René 24 DiCaprio, Leonardo 108 Diderot, Denis 24 Dine, Jim 26 Dognini, Cristiano 2n., 14n., 79n. Dolfin, Marina 86n. Donati, Danilo 137 Douglas, Kirk 102, 114, 117 e n. Duchamp, Marcel 21, 26 Dullin, Charles 22n. Duncan, Isadora 102 Dupont, Florence 49n. Eco, Umberto 151 e n. Eijsenstein, Sergeij 106 Éloi, Thierry 49n. Emilia Terza, moglie di Scipione l’Africano 53 Emilio, Ghione 78 e n. Esposito, Vincenzo 17

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INDICE DEI NOMI

Fagone, Vittorio 154n. Fantini, Ferruccio 88n. Farinelli, Franco 121n. Fast, Howard 94 Fehmiu, Bekim 117 Fellini, Federico 49 e n., 55, 58, 60, 93, 95, 35-136, 137n., 139, 140 e n., 143144, 145n., 146, 148 e n., 149-150 Ferrari, Mario 86n., 87, 88 e n. Ferro, Turi 55 Fertonani, Cesare 139 Fiacchino, Matteo 156 Fiorentino, Giovanni 65n. Fleming, Victor 92n. Foà, Arnoldo 86n. Ford Coppola, Francis 131 Ford, John 98, 102n. Fortuny, Mariano 137 Foucault, Michel 152 e n. Franco, Mario 17 Franzini, Elio 138 Freedman, Gerald 19 Freud, Sigmund 56 e n. Frezza, Gino 7n. Frontisi Ducroux, Françoise 151n. Fusillo, Massimo 118n. Gagetti, Elisabetta 135, 137 e n., 139 Gallone, Carmine 46, 53 e n., 54-56, 61, 78-79, 106 Gance, Abel 17 Garibaldi, Giuseppe 63 Garson, Greer 81n. Gassman, Vittorio 45, 47 George, Sanders 79n. Gérôme, Jean-Léon 103-104 Ghezzi, Daniela 7n. Gibbon, Edward 15 Gibson, Mel 98 Gielgud, John Arthur, Sir 81 e n., 83 e n., 85, 86n. Gifuni, Fabrizio 8n. Giuliano, Antonio 117n. Gobetti, Paolo 5n. Godard, Jean-Luc 19, 155 Gorky, Arshile 24 Goscinny, René 105 Grassi, Maria Teresa 139

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Grassi, Paolo 86n., 87 Grassigli, Gian Luca 45 Graves, Robert 108 Greenaway, Peter 83 e n. Griffith, David Wark 64, 73 Guazzoni, Enrico 69, 70n., 101 e n., 103, 104 Guggenheim, Peggy 24 Guttuso, Renato 25 Harrison, Rex 83n. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 18, 20, 27 Heidegger, Martin 20 Hepburn, Audrey 79n. Heston, Charlton (nome d’arte di John Charles Carter) 80, 94 Hill, Gary 154, 159-160 Hiller, Arthur 97 Hofmann, Hans 24 Hölderlin, Friedrich Johann Christian 18-20, 23, 25 Honegger, Arthur 22-23 Horkheimer, Max 108 Horn, Rebecca 18 Huillet, Danièle 19 Huston, John 84n. Iaccio, Pasquale 8n., 12, 14, 17, 19, 45, 53n., 76n., 77n., 92n., 135n. Ieranò, Giorgio 118n. Jacob, Livio 6n., 111n. Jacoby, Georg 101n. Jancsó, Miklós 155 Javellas, Yorgos 19 Jencks, Charles 153 e n. Jewison, Norman 102 Johns, Jasper 26 Jones, Terry 50n. Kaprow, Allan 26 Kawalerowicz, Jerzy 101 e n. Kazan, Elia 82 e n., 83n. Keitel, Harvey 131 e n. Kerr, Deborah 81n., 87 Kezich, Tullio 137 Kierkegaard, Søren 20

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INDICE DEI NOMI

Kline, Franz 24 Kramer, Stanley 102 Krauss, Rosalind 153 Kroes, Rob 13n. Kubrick, Stanley 94-95, 97, 102n., 103n, 105, 117n. La Rocca, Eugenio 13n. Lacan, Jacques 20, 27 Le Bargy, Charles 112 Leed, Eric John 76n. Leighton, Frederic, Lord 159 Leone, Sergio 14 LeRoy, Mervyn 101n. Lévi-Strauss, Claud 155 Ligabue, Luciano 8n. Lincoln, Abramo 63 Living Theatre 18, 20, 25 Livio, Tito 46n. Lizzani, Carlo 107 Lo Cascio, Luigi 8n. Lombardo, Agostino 89n. Luciani, Sebastiano A. 53n. Lucullo, Lucio Licino 157 Lumière, Auguste e Louis 2, 73, 100 Lyotard, Jean-François 153 e n. Maggi, Luigi 65 Magni, Luigi 45 e n., 46, 48-50, 53-58, 60 Maiuri, Amedeo 146n. Malina, Judith 18, 20 Malraux, André 146 e n., 147, 148 e n. Mamoulian, Rouben 83n. Manakias, Miltos 131n. Manakias, Yannakis 131n. Mancini, Maria Giovanna 154, 159 Mangano, Silvana 45, 53, 114 Mankiewicz, Joseph Leo 79, 81-88, 90, 97, 149-150 Mann, Anthony 95-96, 149 Mantegna, Andrea 87 Mariani Dell’Anguillara, Camillo 53n. Marmorale, Enzo Vittorio 145 Martinelli, Vittorio 5n., 6n., 66n., 69n., 70n., 74n., 78n. Martoglio, Nino 3n. Mason, James 81n., 83 e n., 85, 88

Massarese, Ettore 17, 18 Mastroianni, Marcello 45, 47, 54 Mastroianni, Ruggero 47 Mathieu, George 24 Medici, Ferdinando I de’ 157 Melchiori, Giorgio 85n., 89n. Méliès, Georges 112 Ménard, René 145 Menichetti, Mauro 17, 20, 45, 135n. Mereghetti, Paolo 46 Messager, Annette 18 Messmer, Otto 36 Mezzanotte, Luigi 130 Miro Gori, Gianfranco 92 Mitchell, Gordon (nome d’arte di Charles Allen Pendleton) 149 Monicelli, Mario 8n. Montaldo, Giuliano 8n. Montale, Eugenio 87 Montani, Piero 20 Morandini, Morando, Laura e Luisa 46, 81, 83 Morricone, Ennio 8n. Moscati, Antonella 152n. Mussolini, Vittorio 106 Negri Pouget, Fernanda 69 Nicosia, Salvatore 112, 133 Nietzsche, Friedrich Wilhelm 18 O’Brien, Edmond 81, 86 e n., 88 O’Neal, Ryan 97 Olivier, Lawrence, Sir 86n., 94 Omegna, Roberto 65 Omero 111n., 121, 124 Orff, Carl 23 Ovidio, Nasone Publio 30 e n., 121n. Owens, Craig 160 Pace, Nicola 137 Pagot, Marco 8n. Paik Nam, June 153 Palermi, Amleto 78 Papas, Irene 19, 117 Parigi, Stefania 70n., 71n. Pasinetti, Francesco 5n. Pasolini, Pier Paolo 93, 118 e n. Pastrone, Giovanni 66, 72

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INDICE DEI NOMI

Pauer Modesti, Carlo 91n., 107n. Pavese, Cesare 25 Pericle 21 Perniola, Mario 154 e n. Perrot, Martyne 13n. Petersen, Wolfgang 52n., 106n. Petronio, Arbitro 29, 93, 145 Piavoli, Franco 111n., 128-131 Picabia, Francis 21 Picasso, Pablo 22 Pio XII 103 Piva, Alessandro 8n. Pivato, Stefano 10 e n. Placido, Michele 8n. Platone 139 Plinio il Giovane 73 Plutarco 83, 84 e n., 85 e n. Podestà, Rossana 114 Poirier, Anne 138 Poirier, Patrick 138 Poitier, Sidney 102 Pollock, Jackson 24 Ponzio Pilato 51 Portoghesi, Paolo 153 e n. Possenti, Eligio 87 e n. Prolo, Maria Adriana 5n. Proust, Marcel 56 Pucci, Giuseppe 13n. Pudovkin, Vsevolod 106 Puvis de Chavannes, Pierre 159 Quartucci, Carlo 23 Quasimodo, Salvatore 88 e n. Quilici, Folco 8n. Raimi, Sam 93n. Ramo, Luciano 87n. Rauschenberg, Robert 26 Redi, Riccardo 66n., 70n., 71n., 78 e n. Reed, Carol 83 Renoir, Pierre-Auguste 77 Ricci, Cecilia 107n. Rispoli, Adriana 152n. Rist, Pipilotti 18 Robertson, Martin 146 e n. Rodighiero, Andrea 114 e n., 117n., 118n. Rodolfi, Eleuterio 67

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Rondolino, Gianni 92 Rosi, Francesco 5n. Rossellini, Renzo 7n., 8n. Rossellini, Roberto 79n., 80n., 92 e n., 95 Rossen, Robert 97n. Rossi, Franco 117 e n., 119, 123, 124 e n., 125, 127, 128 Rota, Nino 137 Rothko, Mark 24 Rubino, Margherita 118 e n. Rydell, Robert William 13 Sala, Emilio 137 Sallustro, Enzo 103n. Salvadori, Monica 94n., 107n., 118n. Sanguineti, Tatti 92n. Sani, Andrea 92n. Sartre, Jean-Paul 24 Sauvageot, Claude 145 Savinio, Alberto 23 Scaldaferri, Nicola 138 Scaparro, Maurizio 138 Scelba, Mario 103 Schiffer, (fotografo) 88 Schönberg, Arnold 26 Scipione l’Africano 46-47, 50 passim Scipione l’Asiatico 46, 47 Sclavi, Tiziano 39, 41 Scola, Ettore 8n., 97 e n. Scordia, Nino 137 Scott, Ridley 96, 103, 105 Segre, Cesare 82n. Senatore, Ambra 138 Seneca, Lucio Anneo 20, 102 Serao, Matilde 78 Shakespeare, William 81, 82n., 83-84, 85n., 86, 87 e n., 88 e n., 89 e n., 90n., 94 Sherman, Cindy 18 Siclier, Jacques 98 e n. Sienkiewicz, Henryk 100, 101 e n. Silvestri, Umberto 121 Skira, Albert 146 e n. Sofocle 18-21, 23 Sofonisba, regina di Numidia 56, 57 Solaroli, Libero 26 Solomon, Jon 111

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INDICE DEI NOMI

Sordi, Alberto 7n. Sorlin, Pierre 7n., 8n., 92n. Soupault, Philippe 21 Spielberg, Steven 106 Stalin, Joseph 22 Steiner, George 20 Stella, Giuliana 159-160 Still, Clyfford 24 Stone, Oliver 52n. Straub, Jean-Marie 19 Stravinskij, Igor Fëdorovič 23-24 Strehler, Giorgio 81, 86 e n., 87, 88, 90 Strode, Woody 102n. Taviani, Paolo 7n. Taylor, Elizabeth 83n., 96-97 Teodora di Bisanzio 139 Tettoni, Eugenia 68 Toderi, Grazia 18 Tolve, Antonello 154-155 Tomassi, Italo 150 Tornatore, Giuseppe 8n. Tortora, Matilde 70n. Tortorella, Stefano 13n. Tovoli, Luciano 97 Traglia, Antonio 84n., 85n. Troncone, Roberto 73-74 Trumbo, Dalton 94-95 Twombly, Cy 137 Tzara, Tristan 21

Valli, Romolo 86n., 88 e n. Vancini, Florestano 7n. Verbeek, Gustave 33, 36 Vergani, Orio 87, 88n., 90 Vernant, Jean-Pierre 151n. Vespa, Bruno 10 Vianello, Andrea 7n. Vidali, Enrico 67 Vidal-Naquet, Pierre 48n., 62 Viola, Bill 152 e n. Viola, Eugenio 152n., 154, 158 Vitone, Luca 156 Vitrotti, Giovanni 65, 74 Vittorini, Elio 25 Vogt, Joseph 145 Voltaire (pseudonimo di François-Marie Arouet) 24 Vostell Wolf 154 Vu An, Eric 138 Wallace, Lew 94 Warburg, Aby 29 Warhol, Andy 155 Welles, Orson 86 Wertmüller, Lina 8n. Williams, Tennessee (pseudonimo di Thomas Lanier Williams) 82n. Winckelmann, Johann Joachim 145 Wyler, William 79 e n., 94 Yourcenar, Marguerite 138

Ulisse, 94, 111 e n., 112-119, 121 e n., 122-124, 126, 128, 130, 131 e n., 132 Valentini, Valentina 152n. Valerio, Asiatico 157

Zanchetti, Giorgio 137 Zanelli, Dario 140 e n., 145 e n. Zapponi, Bernardino 49n., 148n. Zenobia di Palmira 138-139 Zuffi, Piero 86n.

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Cinema e storia Collana diretta da Pasquale Iaccio

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P. Iaccio, Cinema e storia, prefazione di Mino Argentieri (III ed.) P. Iaccio (a cura di), Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato. Un film di Florestano Vancini P. Iaccio (a cura di), Non solo Scipione. Il cinema di Carmine Gallone P. Cavallo, G. Frezza (a cura di), Le linee d’ombra dell’identità repubblicana. Comunicazione, media e società in Italia nel secondo Novecento M. Melanco, Paesaggi, passaggi e passioni. Come il cinema italiano ha raccontato le trasformazioni del paesaggio dal sonoro ad oggi, introduzione di Gian Piero Brunetta C. Montariello, La Napoli milionaria! di Eduardo de Filippo. Dalla realtà all’arte senza soluzione di continuità G. Fusco, Le mani sullo schermo. Il cinema secondo Achille Lauro G. De Santi, B. Valli (a cura di), Carlo Lizzani. Cinema, storia e storia del cinema P. Iaccio (a cura di), Rossellini. Dal neorealismo alla diffusione della conoscenza G. De Santi, Maria Mercader. Una catalana a Cinecittà F. Maddaloni, Cinema e recitazione. Dalla chiassosa arte del silenzio all’improvvisazione televisiva R. Bignardi, Carosello napoletano. Il cinema, la danza e il teatro nell’opera di Ettore Giannini P. Iaccio, M. Menichetti (a cura di), L’Antico al cinema

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