Nuove lettere d'amore al cinema 8817663522, 9788817663526

Raccolta di recensioni cinema­tografiche di Flaiano, per la massi­ma parte non reperibili in volume, che vanno dal 1939

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Italian Pages 368 [364] Year 1990

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Nuove lettere d'amore al cinema
 8817663522, 9788817663526

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NUOVE LETTERE DIAMORE AL CINEMA Queste Nuove lettere d'amore al ci­ nema raccolgono recensioni cinema­ tografiche di Flaiano, per la massi­ ma parte non reperibili in volume, che vanno dal 1939 - la collabora­ zione a «Oggi,., - alle rubriche de­ gli anni Quaranta e Cinquanta su «Bis,., "Cine illustrato,., «Il Mondo,., - ai contributi occasiona­ li degli anni Sessanta: una cavalcata lungo venticinque anni di storia so­ ciale italiana dal tempo di guerra al dopoguerra fino al boom economico; uno spaccato del nostro paese reso con fine ironia dall'autore che, come dice Guido Fink nella prefazione, «ruba sempre qualcosa al tempo, al­ lo spazio, e allo stesso oggetto del di­ scorso per raccontarci, in filigrana, un'altra storia, una di quelle che apparentemente aveva rinunciato a comunicarci». Sfilano in queste pagine attori noti e meno noti, registi, personalità del mondo del cinema, produttori: Totò, Walter Chiari, Gino Cervi, Marie­ ne Dietrich, Massimo Girotti, An­ dré Cayatte, Carlo Ponti, Cari Dre­ yer, Vittorio Gassman, Carmine Gallone, ma anche gli spettatori dei lussuosi cinema delle grandi città come di quelli minuscoli di paese, i quali assistono con grande parteci­ pazione alla proiezione dei loro «so­ gni ,. sullo schermo, ma, sbottano in inesorabili risate a una scena di scarsa autenticità e sono prontissimi a ribattezzare, in irridente italiano, personaggi dai nomi stranieri. Il volume, prosecuzione e completa­ mento di Lettere d'amore al cinema, pubblicato nel 1978, è arricchito da una preziosa appendice bibliografica e filmografica, a cura di Diana Riiesch, che costituisce uno stru­ mento indispensabile per gli studiosi

e gli appassionati di cinema i quali vi troveranno tutti i dati su film che rappresentano il nostro passato re­ cente da Dora Nelson di Soldati a 2001: Odissea nello spazio di Stan­ ley Kubrick.

ENNIO FIAtANO nato a Pescara nel 191 O e morto a Ro­ ma nel 1972, ha studiato architettura, passando poi al giornalismo e alla cri­ tica cinematografica e teatrale. Nel '47, col romanzo Tempo di uccidere (ristampato da Rizzoli nel '73 e nel1'89, anno in cui è apparso il film omonimo diretto da Giuliano Montal­ do) ha vinto il Premio Strega. Dopo anni dedicati al cinema come autore di soggetti e sceneggiature, ha pubbli­ cato due volumi di racconti e di satire: Diario notturno (1956) e Una e una notte (1959). Sono quindi usciti: Il gioco e il massacro (1970), che ottenne il Premio Campiello; Un marziano a Roma e altre farse (1971) e Ombre bianche (1972). Nelle «Opere di En­ nio Flaiano,. sono stati pubblicati, po­ stumi, La solitudine del satira (1973); Autobiog rafia del b l u di Pr ussia (1974); Diario degli errori (1976); Lettere d'amore al cinema (1978); Un bel giorno di libertà (1979); Un giorno a Bombay e altre note di viaggio (1980); Lo spettatore addormentato (1983), e ripubblicate quasi tutte le sue opere precedenti.

Sovraccol"'rta: Ennio Flaiano con il regista Andrea Andermann durante la lavorazione del film Oceano Canada, OP"ra di insolita concezione e realizzazione P"' il particolare carattere della collaborazione tra scrittore e regista. Grafica di Enzo Aimini.

La Scala

Ennio Flaiano

Nuove lettere d'amore al cinema a cura di Guido Fink

Rizzoli

©

Proprietà letteraria riservata RCS Rizzo/i Libri S.p.A., Milano

1990

ISBN

88-17-66352-2

Prima edizione: maggio

1990

Bibliografia e filmografia a cura di Diana Riiesch

Nuove lettere d'amore al cinema

Prefazione

In un'intervista del 1959-60, dopo aver dichiarato di non aver abbandonato il cinema ma di «tenergli il broncio», e di ap­ prezzare particolarmente Bergman e «il vecchio Billy Wilden>­ nonché, fra i registi di casa nostra, «quelli che sanno leggere e scrivere: si danno meno arie» - Ennio Flaiano esce in un' affer­ mazione caratteristicamente spazientita: «Ma perché parliamo di cinemah> . Il cinema non è arte, anche nel migliore dei casi. Nessun film mi ha mai commosso e potrà seguitare a commuover­ mi per tutta la vita ( faccio i grandi nomi, tanto per capir­ ci) come una sonata di Bach, due versi di Leopardi o di Catullo, un ritratto di Raffaello, un capitolo di Tolstoj o di Manzoni . Il film migliore mi commuove per un anno, tre, dieci, poi scopre i suoi limiti, rivela la sua natura, le spurie . necessità che lo hanno prodotto, la permanenza nelle sue immagini di una realtà non trasfigurata . . . che il tempo rende goffa o incomprensibile addirittura. Il film migliore s fida appena la generazione seguen te a quella che l'ha prodotto, poi diventa «documento» . I l cinema, dunque, dura troppo poco; il critico esita se deve re­ censire un film che arriva s ugli schermi a tre anni dal termine d e l l e ripres e : « n e l cinema, tre a n n i sono la decrepitezza» (22.5.1945), e questo benché il film si chiami Ossessione. D'altra parte, il film dura troppo: chi ha la malaugurata idea di andare a vedere Taverna rossa di Mario Bonnard, quasi la prova non fosse di per sé sufficientemente ardua, deve anche subire il «prossi­ mamente» di Rosa di sangue e la spiegazione della carta annona­ ria, fornita dal Film Luce (28.2.1940): il ricordo corre subito a un brano apparso più tardi in L'occhiaie indiscreto, luminosa spie­ gazione flaianea della tanto dibattuta «crisi del cinema» : 7

Se il proprietario di un cinematografo, trovandosi nella necessità (facciamo un'ipotesi disperata) di comprare un libro, entrasse in una libreria, e, dopo aver chiesto il titolo che desidera, si sentisse rispondere dal li braio: «Signore, lei lo avrà, anzi la preghiamo di versarci subito il prezzo del volume, ma prima . . . c ' è qualcos ' altro che vogliamo dirle>> . E se fosse costretto, pena la perdita del denaro ver­ sato, ad ascoltare un estratto del prossimo romanzo di un au tore che egli detesta, o un poema sulla lavorazione del cioccolato, o un sonetto sulla bontà di alcuni detersivi, o una cronaca degli avvenimenti meno in teres santi della settimana . . . e infine un disco con tre canzoni urlate da quattro giovani imbecilli . . . non smetterebbe di frequenta­ re le librerie? Poco sensibile al misticismo del «magico» ingresso nella sala buia, non particolarmente interessato al cinema come soglia e a maggior ragione a tutti quei «dintorni» dell' opera che Gérard Genette definisce peritesto - i provini, i manifesti, le briciole dell' antico rituale oggi tanto celebrate dai nostalgici film di Tor­ natore o di Scola, e un tempo così importanti anche per un Cal­ vino nella sua breve stagione cinefila e adolescenziale - Flaiano si sarebbe certamente meravigliato se avesse saputo che i film di cui settimanalmente doveva occuparsi - i Follie del secolo, i Due milioni per un sorriso, i Cameriera bella presenza offresi avrebbero goduto ai nostri giorni di una forma artificiosa di sopravviven­ za, se non di vera e propria immortalità. Anche in un Paese do­ ve le cineteche funzionano poco e male, ci sono pur sempre le vi­ deocassette, le tv di Stato e private, i convegni, le tesi di laurea, le seduzioni perverse della cinefilia; e accanto ai più modesti fra i film d'antan, tornano in vita, sottratte alla transitorietà del con­ testo giornalistico originario, le pagine che a quei film sono state dedicate . Se la durata di un film si misura per Flaiano in due, tre, dieci anni , che dire della durata media di una recensione? E in particolare delle recensioni dei «letterati al cinema» , che con ra­ re eccezioni - Flaiano appunto, e Banti, e Debenedetti - sono spesso tanto dis tratti e paternalistici? -

Il problema della durata - largamente soggettivo - rifluisce del resto in quello onnivoro del tempo, che come si è visto ha due facce uguali e contrarie. Troppo lento e troppo rapido, il tempo in Flaiano ci inganna, ci illude, ci riserva sempre brutte . sorpre8

se: Maria Corti ricorda nell 'introd uzione alla raccolta degli scritti postumi flaianei «il raccontino, ludico quanto crudele, di Taccuino 1946, dove uno sposo diretto al rito nuziale, essendo in anticipo, allunga un poco la strada, si ferma qua e là, chiacchie­ ra, si distrae, e quando arriva dalla sposa trova al posto della ragazza una vecchia rugosa». E il più delle volte, invece di me­ ravigliarci come forse avevano saputo fare in passato, le imma­ gini filmiche si limitano a farci «passare il tempo>> ( 1 9.6. 1 940) : una colpa gravissima nell ' universo flaianeo, dove il tempo passa già tanto in fretta . Moltiplicate per dieci , per cento, per mille, le due ore di reclusione nella sala cinematografica, le quattro pagi­ nette della «recensione>> , diven tano una trappola per questo nuovo Laocoonte soffocato dalle legioni dell' effimero e dell'in­ concludente: che sia per questo çhe le sue parole, anche quelle più occas ionali, ci sembrano così disperatamente cariche di elettricità, così tese nella guerra contro il Tempo? Citazioni citabili, epigrammi, aforismi: è queS'I:o Flaiano, la sua immagine più consolidata e corrente, quella di cui giornali e riviste, riportando non sempre a proposito parole non sempre autentiche, sembra non possano fare a meno. A questo tipo di immagine non si sfugge, diceva anche Roland Barthes: è una specie di «servizio militare>> da cui non si può né disertare né es­ sere esonerati; oppure - e anche questa metafora a Flaiano sa­ rebbe piaciuta - è una specie di «patata fritta>>: Nella padella l'olio è sparso, piano, liscio, insonoro (appe­ na un po' di vapore) : una specie di materia prima . Gettatevi un pezzo di patata: è come un'esca lanciata ad animali che dormono con un occhio solo, ma in realtà stanno in aggua­ to : tutti si precipitano, circondano, attaccano rumorosa­ mente; è un banchetto vorace . Il pezzetto di patata è ac­ cerchiato : non distrutto, ma indurito, rosolato, caramella­ to; diventa un oggetto, una patata fritta. Così, su ogni og­ getto, il buon sistema di linguaggio agisce, si dà da fare, ac­ cerchia, rumoreggia, indurisce e indora.:. I l linguaggio (altrui) mi trasforma in immagine, come la patata allo stato naturale è trasformata in patata fritta. Se Flaiano non sfugge a questo «accerchiamentm> definito­ rio, è, in parte, colpa sua, o una specie di legge del taglione: le sue definizioni sono troppo lapidarie, troppo precise e pure folle­ mente surreali. A volte, come in queste «recensioni», basta un nome, un nome esotico e lussureggiante:

L'attrice principale si chiama Imperio Argentina e sostie­ ne questo nome, adatto più a una compagnia di navigazio­ ne che ad altro, con due occhi languidi e volubili . . . Una donna simile, in Africa, è peggio di un colpo di sole. Gli at­ tori barcollano al suo apparire, cercano un punto d ' ap­ poggio: ed è un vero miracolo che i ribelli non se la mangi­ no cruda . . . (26.6. 1 940) . Oppure il pretesto può essere appena un oggetto: I guanti di pelle di porco stanno sul volante dell' automo­ bile color crema. Dentro i guanti le mani del giovane Vie­ tar de Kowa fremono nell'attesa della capricciosa Luise Ullrich . . . (3 1 . 7. 1 940) . Ma ancora una volta non è tutto qui. Al di là del diverti­ mento - in negabile, intelligente - la critica di Fl aiano offre spunti e materiali di riflessione d'importanza tutt' altro che se­ condaria. Da un lato, come oss erva Cristina Bragaglia nella postfazione a una precedente raccolta di recensioni flaianee, Lettere d'amore al cinema, c'è il «sotterraneo dissenso al regime» che si esprime nei primi occasionali incon tri di Flaiano con la critica, nel suo stesso «parlar d 'altro», nel rifiuto di quanto c'era di artificiale e di menzognero nella linda irresponsabile routine della nostra produzione di quegli anni; e in questo senso la co­ stante vena polemica e l' attenzione al costume di casa ci accom­ pagnano nella lettura, dagli anni del fascismo e della guerra a quelli della restaurazione, quando «scompare lo sciuscià e ritor­ na Sci pio ne l'Africano>> ( 29. 6 . 1 948) , e oltre. Esiste, in questo senso, la possibilità di utilizzare gli scritti di Flaiano come una testimonianza sempre più «dall 'interno» delle vicende del no­ stro cinema e della nostra cultura, dalle grandi svolte degli anni Quaranta ai compromessi e alle delusioni del dopoguerra . Dal­ l'altro canto, c'è la voce di Flaiano stesso, la sua presenza inimi­ tabile; e lo nota Tullio Kezich a proposito degli articoli apparsi su «Cine illustrato» e in parte firmati con lo pse.u donimo Patri­ zio Rossi: Leggendo Flaiano sembra . . . di essere all' angolo di una via notturna di Roma, fermi a una tappa dialettica fra il cine­ ma e il caffè, con le voci degli amici che nel fervore della discussione si alzano a livelli di litigio sotto i lampioni az­ zurrati dall'oscuramento . .. 10

I critici si dividono in due categorie: quelli che parlano del Cinema - come istituzione, come apparato, come doppio magi­ co o mistificatorio del reale - e quelli che di volta in volta parla­ no dei film. (È molto raro il caso di chi sa fare le due cose insie­ me: in genere si tratta di un' astuta finzione, del ricorso a coordi­ nate pretestuose per giustificare l' amore per un determinato fi l m , o vicevers a . ) Flaiano non rientra, almeno a un primo sguardo, in nessuno di questi due schieramenti: non ha batta­ glie da combattere né pro né contro il cinema, se non in nome di un generico buon senso, della verosimiglianza, delle ragioni di un'intelligenza ormai rassegnata alle sconfitte; ed è raro che si entusiasmi per i singoli oggetti del suo discorso critico, limitan­ dosi se mai a rinviare a entusiasmi precedenti e ad altre ormai remote occasioni . Lontanissimo, a esempio, dalle battaglie rigo­ rosamente verghiane e preneorealiste condotte all'epoca del suo esordio critico, dal gruppo della rivista «Cinema>> , Flaiano nella sua battaglia per il «verosimile>> si sarebbe accontentato di ben poco : basterebbe che il cinema mettesse in pratica più spesso i principi del teatro drammatico dell'ultimo Ottocento: «nient'al­ tro gli si può chiedere>> . Ecco a esempio, in un film che gli piace abbastanza, Dora Nelson di M ario Soldati, la ricerca maliziosa del «pelo nell'uovo» : perché mai «l'antenato scapestrato di Car­ lo Ninchi è rappresentato col ritratto del pittore Celentano di­ pinto da Morelli e conservato a Valle Giulia?» e perché «il sup­ posto Hotel Excelsior è stato indicato col Palazzo Margherita a via Veneto che, se non erriamo, è sede della Confederazione de­ gli Agricoltori?» ( 3 . 1 . 1 940) . Su questo piano, il critico esprime le sue legittime riserve sulla Napoli e la Venezia cartolinesche dei filmetti turistici, sulla «verde Ungheria dell'Agro Romano» che s ' intravede nello sfondo delle commedie budapestine, sul­ l' Africa misteriosa dei film «esotici»; e ci vorrà un po' di tempo, e molta irrealtà dovrà scorrere imperterrita sugli schermi, pri­ ma che il critico si arrenda, e riconosca che a volte, come aveva detto N ietzsche e come avrebbe ribadito Roland Barthes, è pia­ cevole riposare nella non-verità. Allo stesso modo, nel dopo­ guerra, Flaiano mancherà all'appuntamento con la «revisione critica» lanciata dalle riviste specializzate, come dimostra il suo sostanzi.a.re· rifiuto di testi canonici quali La terra trema o Les en­ fants du Paradis; e continuerà un cammino, per certi versi, isolato in un suo pericolante equilibrio. Ma è anche vero che la sua vo­ ce, per quanto distinta e inconfondibile, rifiuta di librarsi negli spazi asettici del tradizionale elzeviro, e resta anzi ostinatamen­ te fedele a una vocazione discorsiva, al dovere professionale di 11

aderire ai testi comunque siano. Non farebbe mai suo, Flaiano, l'eroico dandysmo del Gilbert di Oscar Wilde, quello per cui il critico è il solo vero artista, l'azione non è affatto preferibile alla scrittura, e anzi «chiunque può fare la storia, solo l' uomo dav­ vero grande può scriverla>>. In un brano della sua recensione a Dora Nelson, omesso nella versione pubblicata nella-raccolta Unfilm alla settimana, Flaiano puntualizza una differenza lingu istica fra teatro e film, differen­ za non irrilevante nell'am bito di quel discorso sul Tempo, o contro il Tempo, che ricorre spesso nelle sue pagine. Si sta par­ lando dello scontro fra due Assie Noris, l'una modesta e simpa­ tica, l'altra sprezzante e superba, e si cita il precedente di M ax Linder in Sept ans de réjlexion, poi ripreso dai Marx e da altri : un cameriere rompe inavvertitamente un grande specchio e per na­ scondere questa malefatta imita coscienziosamente tutte le mos­ se del padrone che sta facendo toilette. «Oggigiorno», scrive Flaiano, «i mezzi tecnici permettono, per realizzare un trucco simile, l'abolizione della "controfigura" » : dunque l'immagine si raddoppia, per così dire, in modo del tu tto automatico, imme­ diato, e la verità della commedia o del melodramma, la coinci­ denza fra rappresentazione e ciò che viene rappresentato, non richiedono più alcuno sforzo apparente: un dubbio vantaggio per chi al «reale» guarda con legittimo sospetto. Non si tratta comunque di una riflessione tecnica o stilistica, o magari onta­ logica, sulla natura di quello schermo-specchio: meglio avverti­ re subito i malati di cinefilia e i dilettanti di semiotica che il te­ sto filmico come tale, in queste pagine, non esiste come oggetto di culto o come campo d'analisi, anzi forse non esiste tout court. Alieno da preoccupazioni di tipo teorico o da programmi di poetica, il discorso rifugge dal vago idealismo che a quei tempi era ancora più o meno pacificamente accettato, come pure da ogni tipo di indagine strutturale o formalistica: caso mai, si po­ trebbe parlare di un' anticipazione di quel new historicism che og­ gi si sta affermando in America e che mira a cogliere nel testo letterario o artistico il luogo d' incontro o la parte emersa rispet­ to a un flusso di energie intellettuali, economiche, erotiche, so­ ciali che da un lato determinano quel testo, dall'altro per così dire se ne sprigionano; e a rimettere in discussione al tempo stesso lo statuto del «critico», i condizionamenti a cui volente o nolente ubbidisce. Lo sguardo di Flaiano, in poche parole, si fis­ sa invariabilmente al di qua o al di là della superfici � dello scher­ mo, punta di un iceberg che s'immagina formato di materiali non dissimili. In un primo tempo, si tratterà del pubblico che 12

accanto a lui si trova più o meno rassegnato o impaziente nella sala: il pubblico del cinema rionale, che deride anche un classi­ co di C apra per ,colpa d e l doppiaggio ridicolo e antiquato (7.8. 1 940) ; quello del «cinemetto del paese dove siamo stati a passare qualche giorno» ( 1 1 .9 . 1 940) ; quello che «lotta audace­ mente per entrare in sala» alla prima di La gloriosa avventura ( 2 0 . 1 1 . 1 940) , raddoppiando dunque per così dire le audacie compiute da Gary Cooper e dai suoi compagni sullo schermo . . . Con il film Don Pasquale ( 1 6 . 1 0. 1 940) il critico a quanto pare ot­ tiene per la prima volta il privilegio ( «insieme al nostro Diretto­ re» ) di un invito per una visione privata, riservata evidentemen­ te alla stampa e agli addetti : «sulla porta della sala», il Quiri­ netta, «è il regista M astrocinque che fa gli onori di casa». Ma in genere, si direbbe, le preferenze di Flaiano vanno a spettatori meno «qualificati»: a Totò, per esempio, raccomanda in certo senso di rimanere fedele al suo «vero pubblico, quello della peri­ feria» (26.8. 1 939) . Più tardi comunque, negli scritti successivi al periodo bellico, il critico si mescola anche fisicamente non più soltanto al pubblico ma anche a chi il cinema, di mestiere, lo fa: ormai grazie alle coproduzioni sono «tutti a Roma>> , il giovane regis ta Bresson, René C lair, Becker, Christian-Jaque; arriva, con l ' E s presso del Sempione, M icheline Presle, si attende di giorno in giorno Gabin : «c'è Michèle Morgan - l' altro giorno attraversava la via Due M acelli al crocicchio di Capo le Case e ci siamo urtati leggermente e tutto è finito con un reciproco par­ don» ( 8 . 6 . 1 948) . E quando Flaiano allude, recensendo Lo sciopero dei milioni, alle «pasticche di simpamina» consumate dagli sce­ neggiatori per tenere gli occhi aperti nelle lu nghe nottate ( 2 5 . 5 . 1 948) , si sente che parla con cognizione di causa. D'altra parte, il cerchio minaccia di chiudersi, l'al di qua dello schermo somiglia paurosamente all'al di là, come il cameriere maldestro di M ax Linder si sforzava di somigliare al suo padrone davanti allo specchio, e Assia Noris somigliava ovviamente a se stessa: l'atrio del Palazzo del Cinema al Lido di Venezia, la sera del­ l'inaugurazione della X Mostra, dopo che si sono spenti i riflet­ tori della l nco"), e i signori in giacca bianca reclamano gli om­ brelli prima di affrontare le strade piovose, «appariva non mol­ to dissirgriie, nel suo disordinato fulgore, da quei saloni che le maestranze di Cinecittà costruivano prima della guerra per i film mondani della rinascita» ( 27 . 8 . 1 949) .

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Se tendono a diventare un tutto unico il cinema e il suo «doppio» - e non certo in ossequio a teorie neorealistiche o za­ vattiniane - il cri tico non rimane tagliato fuori dal cerchio, e può anzi inserirsi a pieno diritto in questo gioco di scambi e ri­ specchiamenti, non si riduce a una voce off blandamente sardo­ nica e sostanzialmente comprensiva. Bisogna guardarsi bene dal credere a Flaiano quando asserisce, in polemica con il pro­ fessar Umberto Barbaro e altri docenti a tempo pieno, di anda­ re al cinema non tanto per istruirsi quanto per dimenticare il poco che sa (6.4. 1 948) . Basta invece un'occhiata a una delle sue prime recensioni, quella a Nulla sul serio di Howard Hawks, di cui forse gli sfuggono la cattiveria e la sapienza variantistica nell 'ambito di un «genere)) allora sospetto e sottoval utato, ma non certo i possibili rimandi letterari, se vogliamo le «fonti)) . Mencken, Swift, Twain, Shaw, persino De Quincey, sono tutti idealmente mobilitati, un Olimpo della satira a cui vanamente cerca di ispirarsi Ben Hecht, «manipolatore del soggettm) ; e la satira rimane lontana dall'obbiettivo che, non provvisto del mo­ nocolo di uno Stroheim, si affida all' «incredibile logica del dise­ gno animato)) ( 1 0. 6 . 1 939) . Al massimo, si può attribuire al cine­ ma non d'autore il dubbio merito di saper riciclare i sottoprodot­ ti della letteratura: Il cinema compie nei confronti della letteratura . . . le stesse funzioni di quell'uccello tropicale che vive facendo lo stuz­ zicadenti del coccodrillo: cioè utilizza i residui e compie, nello stesso tempo, una delicata opera di bonifica. Diamo infatti un buon romanzo all'obbiettivo e ne trarrà invaria­ bilmente un film insufficiente; al contrario, una tesi debo­ le, uno spunto mal seguito, si tramutano sullo schermo in storie piene di fascino e ciò proprio per merito di quell'arte di cucinare gli avanzi che è prerogativa del cinema . (23.9. 1 939) . . .

Ma anche su questo piano la curva è ascendente: presto il «letterato al cinema)) si troverà, forse suo malgrado, ad abbatte­ re le pareti divisorie, a proporre singolari abbinamenti: l'ombra di Maupassant si sposa a quella di Murnau ( 1 1 . 1 2 . 1 940) , Poe incontra Clair ( 2 5 . 5 . 1 948) , C h arlot è parente di C andido (7. 7. 1 95 1 ) e di Amleto (29.9. 1 95 1 ) ; nell' esordio di Antoniani, Flaiano considera positivo il fatto che il regista, «che pure dimo­ stra [ . . . ] una profonda conoscenza della giovane narrativa ita/4

liana ( M oravia, Pavese , Pratolini ) , non ha sen tito il bisogno di rifarsi precisamente a qualche opera di questi autori, ma ha preferito un canovaccio fatto in casa)) ( 2 3 . 1 2 . 1 950) . E di fronte all' edizione originale inglese di Stromboli, firmato da un regista che ama molto, Flaiano si entusiasma per il fatto che i perso­ naggi non risultano «contaminati di letteratura e di estetismm) ; tanto che il suo umorismo generalmente implacabile non sem­ bra rilevare i vertici di involontaria comicità delle scene in cui pescatori vecchiette e indigeni assortiti giustificano laboriosa­ mente una decorosa working knowledge della lingua: io ho lavora­ to trent' anni a Brooklyn, io ho la cognata, io ho la zia . . . Perché a ques to punto Flaiano fa del cinema, anzi i n certo senso è il cinema; e ben sa - lo dimostra già nella recensione a u n De Sica 1 945, La porta del cielo- quanto ard uo e accidentato sia il cammino verso l' opera realizzata quando non si voglia ri­ nunciare a un minimo di dignità non soltanto o non più «lette­ raria)) . A dispetto di quanto teorizza, lo scrittore Flaiano non presta a Flaiano sceneggiatore gli scarti o gli avanzi di cucina; lo aiuta, caso mai, a giocare con il personaggio come il gatto con il topo, spostando lo sguardo ora al di qua ora al di là del conte­ sto o della cornice in cui si trova imprigionato, contesto e corni­ ce che spesso risultano in linea con le convenzioni del cinema di genere. Penso a1 ladro, al mancato suicida, alla ragazza povera e al ministro smemorato che si incontrano e si perdono di vista fra i bar, i tram notturni e le s trade deserte di una Roma affet­ tuosa e ammiccante, in quel bellissimo film diretto da Marcello Pagliero che s'intitola La notte porta consiglio (o anche Roma città libera, come i distributori dovevano ribattezzarlo prima di man­ darlo allo sbaraglio nel 1 948) , e che rimane, fra tutti i film pro­ gettati o scritti da Flaiano, il più inequivocabilmente suo . Oppu­ re penso ai goffi turisti romani che sciamano vocianti dalla Gare de Lyon per ingolfarsi in un weekend di figuracce e di disillusio­ ni (Parigi è sempre Parigi, 1 951) : il bottegaio Aldo Fabrizi va alla ricerca di un amico che dovrebbe essere arricchito e non lo è, sua moglif Ave N i n chi trova il coraggio di andare a farsi la per­ manente: sua figlia Lucia Bosè litiga con il fidanzato Marcello Mastroianni, lo perde, lo ritrova; per un ragazzo (Franco lnter­ lenghi) che imbastisce un timido idillio extraterritoriale con la giornalaia Hélène Rémy, troppi Paolo P anelli falliscono mise­ ramente nella conquista di cameriere e di entraineuses. E si po15

trebbero inserire qui i quadri i frammenti e le apparizioni , al­ l'inizio favolosi e poi alla fin fine sempre per una ragione o per l'altra deludenti, in cui si vanifica la fauna di via Veneto e din­ torni in quel La dolce vita ( 1 960) che, senza nulla togliere a Felli­ ni, rimane film d'ispirazione e matrice sostanzialmente flaianea. Dalla struttura apparentemente corriva di episodi e sketches in realtà fin troppo sorvegliati, si scivola senza sforzo in territori più angosciosi e metafisici: del res to, come avverte il Diario degli errori, «ogni film drammatico si avvia lentamente a diventare comico» , e fra le leggi del codice flaianeo la più ferrea è proprio quella della reversibilità. In una pagina dell'Autobiografia del blu di Prussia, ennesima stoccata alle pellicole in cui invariabilmente trionfa la giustizia, sprofonda l'iniquità, le vedove sono protette e i buoni trionfano, si contrappone l' «ordine formale, stretta­ mente imbrigliato dalle leggi della visione)) al disordine della vi­ ta quotidiana, «così affidata al caso ch'io non solo ne ho paura ma anche ribrezzm> . Sugli schermi, si conclude, «tutto si svolge come in un sogno prestabilitm>: non è appunto questa la dimen­ sione in cui vivono quei personaggi affidati da Flaiano a Fellini (o a Emmer, o a Pagliero) , o quelli rimasti sulla pagina, con il Caio e il Sempronio dell'irrealizzato Uno o due miracoli, morti per lo stesso incidente e rimandati provvisoriamente sulla terra con una limitata riserva di tempo e una modesta scorta di miracolo­ se palline di vetro in grado di soddisfare ogni desiderio? E se co­ sì frequente è il contagio fra la casualità del mondo diurno e l'ordine formale del film in cui si rispecchia, questo vuoi dire anche che il sogno, e proprio perché visibilmente «prestabili to» , può diventare a sua volta angoscioso; almeno nei momenti in cui il personaggio sembra diventarne a un tratto consapevole, e rivolgere una silenziosa protesta a chi lo ha voluto così . Non è certamente possibile ripercorrere qui nemmeno per sommi capi il cammino di Flaiano soggettista e sceneggiatore: si tratta di una sessantina di titoli, forse più che meno, e il suo contributo trente!lnale al nostro cinema, non solo per quanto ri­ guarda certe opere particolarmente celebrate ma anche quella «bottega» che scherzosamente pensava di aprire insieme a Suso Cecchi D'Amico, sarebbe del resto difficilmente valutabile . Ma è singolare che questa marcia di avvicinamento verso un cine­ ma da farsi in prima persona, verso una vera e propria author­ ship, si arresti una volta giunta al suo vertice : è il caso di Melam­ pus, la sua novella che lui stesso adatta e sceneggia (in più ver­ sioni) e che vanamente cerca di realizzare come regista. Dal fal­ limento doloroso di quest' impresa ( Flaiano rifiuterà persino di 16

vedere il film, diversissimo dal suo p�ogetto originale, che Fer­ reri dirige con il titolo La cagna) nascono il disamore, la decisio­ ne di abbandonare il «mestiere» , le domande impazienti come «ma perché parliamo di cinema?»: e la sua scomparsa, avvenu­ ta poco dopo, non ci permette di sapere se a questa decisione sa­ rebbe riuscito a tener fede. Non si può fare a meno di pensare, comunque, che anche dal romanzo Flaiano si era allontanato dopo la piena affermazione di Tempo di uccidere; e che il cinema, a quanto egli stesso dichiarava, gli era anche servito a non scrivere altri romanzi : «è stato meglio così . . . ». Sarebbe assurdo, senz'al­ tro, abbandonarsi ai retorici rimpianti del non detto e del non realizzato, delle «pagine strappate» come quella famosa del­ l' Ecclesiaste di cui si parla alla fine di Tempo di uccidere: «inutile citare un autore, quando di un foglio del suo libro abbiamo fatto cartine per sigarette: non è vero johannes?>> . Ma si direbbe qua­ si che cinema e letteratura in Flaiano servano a negarsi e ad an­ nullarsi a vicenda: la «bottega» dei soggetti e delle sceneggiatu­ re impedisce l' uscita di nuovi romanzi , il tacito raffronto fra la perduta libertà dello scrittore e i condizionamenti del «manipo­ latore di sogge tti» - come un tempo Flaiano d efiniva B e n Hecht, non sapendo che di lì a poco n e sarebbe divenuto collega - porterà al disamore e all' abbandono del cinema stesso . È un duplice e parallelo processo di autocancellazione - o forse un doppio alibi? - dove in mancanza dell'Opera totale e definitiva scorrono in mille rivoletti gli aforis mi, le recensioni, i corsivi , le «cartine di sigarette» . . . A questa raccolta, e a gran parte degli scritti occasionali di Flaiano, è possibile senz'altro rivolgersi come a una sorta di giornale impaziente, sempre proteso verso dimensioni rigorose e remote, e sempre invischiato nella commedia non esaltante del quotidiano . Ma inevitabilmente, al momento di chiudere il li­ bro - specie un libro come questo, pieno di rimandi ad altre sto­ rie altre voci altre facce, tutte presenti e stipate nello stesso foto­ gramma come nel più luss uoso all-star-cast mai sognato da pro­ duttore affetto da manie di grandezza - ci si rende conto che non bast il l 8 marzo del l 950. Il cri­ tico che di lì a poco avrebbe cominciato a collaborare attiva­ mente a quel che oggi è noto e celebrato come «commedia al­ l'italiana» (e a livello al to: Emmer stesso, Monicelli, Blasetti) scopre dietro la bonaria facciata dell' umorismo popolare il volto angoscioso di un Paese che al trove definirà una nazione di gio­ catori di totocalcio; quella spiaggia di Ostia, dove si riversano i bagnanti in provvisoria vacanza dalla loro sudata mediocrità di tutti i giorni, gli ricorda i campi di concen tramento più del lido felice di Enea; nei ritorni serali, su biciclette o camioncini stra­ carichi, non fa certo fatica a cogliere una dura condanna. Ma quando il critico rimprovera il regista per non essersi mai vera­ men te appassionato ai suoi personaggi , del resto così in tercam­ biabili e banali - e quando lo assolve, ricorrendo ancora al gioco dei contrari, perché «non poteva umanamente in teressarsi a tutti» - nello specchio di Dora Nelson non vediamo più soltanto una meccanica riprod uzione o il gioco dei doppi . Simili a tante altre figure e figurine intraviste non importa dove - per le strade in tram in trattoria, o perché no in altri film - quei personaggi sembrano assieparsi anche al di qua dello specchio, reclamare e non per rovelli pirandelliani un po' d' attenzione, magari come Caio e Sempronio qualche miracolosa pallina colorata. E chi il cinema invece lo faceva, e si trovava o s' illudeva di trovarsi dal­ l'altra parte di quel medesimo specchio, non poteva non sentirsi infastidito e accerchiato, impotente com'era ad aiutarli ver;i­ men te, al di là della rapida e provvisoria registrazione in ritrat­ tini ironicamente comprensivi o, nel cinema, al di là di qualche improbabile happy end al quale nessuno credeva veramente più, neanche gli interessati . Ecco, il «tutti a Roma» di Flaiano, questo mondo-set dove tutti si urtano e non sempre, come Flaiano stesso in via Due Macelli con madame Morgan, trova­ no il tempo per un cortese reciproco pardon, è una delle più cre­ dibili immagini apocalittiche·.del nostro tempo: un' apocalisse mi niaturizzata, senza dubbio, ma forse per questo tanto più adatta al nostro modesto e quotidiano arrabattarci . Dove l' anti­ ca e confortante immagine dell' artista spettatore, al cinema o al caflè, si trasforma suo malgrado in quella del cronista assediato, e all' invasione di tutte quelle voci e quelle facce, vere o ipoteti­ che, vive o verosimilmente già riconsegnate a quel nemico in­ gannevole che si chiama Tempo, non riesce a opporre che forme sostanzialmente analoghe di nevrosi , di pigrizia e di silenzio . 18

Fra le quali, il rapido e quasi impersonale compte rendu sui film e sulle storie degli altri sembrava offrire le più tranquillizzanti ga­ ranzie; ma tant'è, non ci si può mai fid are . ((Si aggiunga» con­ cludeva Flaiano, a proposito appunto di Domenica d'agosto (> : Guido Fink

Le (molte) citazioni tratte dal Flaiano critico di cinema sono semplice­ mente indicate, nel testo, con un rimando fra parentesi alla data di pubblica­ •

zione originaria. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di scritti riportati in questo volume, tranne i testi raccolti in Lettere d'amore al cinema (Rizzoli, Mila­

1978), a cui qui si rimanda: Ossessione (22.5.45, pp. 67-9); «Pretoriani alla (29.6.48, pp. 107-9); Animali pa;:;;:;i (26.8.39, pp. 29-30); «Tutti a Ro­ ma» (8.6.48, pp. 103-5); «L'attesa del capolavoro» (27.8.49, pp. 134-36); «Sfregiatissima Assunta» (6.4.48, pp. 89-92); Nulla sul serio (10.6.39, pp. 1820); Lo sciopero dei milioni (25.5.48, pp. 100-2); Charlot (7.7.51, pp. 210-12); «Bentornato M. Verdoux>> (29.9.51, pp. 216-18); «Cronache e briganti» (23.12.50, pp. 190-2). Ho citato spesso anche da Opere. Scritti postumi, la rac­

no

porta»

colta di scritti di Flaiano a cura di Maria Corti e Anna Longoni, Bompiani,

8, 302, 338, 462 (ma vedi anche, 1073), 1194. Il soggetto Uno o due miracoli, a cura di Maria Sepa, è apparso in «Paragone>>, XL, 15 giugno 1989. Altre ci­ tazioni: Roland Barthes, «L'immagine>>, in Il brusio della lingua, Einaudi, Tori­ no 1988, pp. 365-6; Cristina Bragaglia, «Tempo di cinema>> , in Lettere d'amore al cinema, Rizzoli, Milano 1978, pp. 236, 240; Tullio Kezich, «Quando Flaiano si chiamava Patrizio Rossi», in Un film alla settimana, Bulzoni, Roma 1988, p. 13; Oscar Wilde, «The Critic as Artist», in Poems and Essays, a cura di King­ sley Amis, Collins, London-Glasgow 1956, p. 299. Il riferimento alla fase «ci­ nefila» di Italo Calvino è in «Autobiografia di uno spettatore>>, prefazione a F. Fellini, Quattro film, Einaudi, Torino 1974, pp. IX e segg.; il concetto di «so­ glie» e di «peritesto» deriva da Gérard Genette, Soglie, Einaudi, Torino 1989. Milano

1988,

e precisamente alle pp. XXI,

per una versione lievemente diversa,

Su Flaiano sceneggiatore, ho tenuto presenti Gian Piero Brunetta, «Flaiano e il ritratto linguistico dell'italiano del dopoguerra>>, e Giacomo Gambetti,

Atti del Convegno Nazionale nel decennale della morte dello s(li;Ù�re: Ennio Flaiano, l'uomo e l'opera, Associazione Culturale Flaia­ no, Pescara 1982, pp. 85-92 e l 05-111. Ho consultato inoltre il catalogo della mostra Omaggio a Flaiano, a cura di G. C. Bertelli e P. M. De Santi, Giardini, Firenze 1987, pp. 40, 69, 131 e segg. La frase da Tempo di uccidere è a pag. 271 dell'edizione Club degli Editori (1968). Mi è stata preziosa, ovviamente, la bi­ ( , «Medi terraneo>> , «Star», «Domenica», « I l Mondo» , ecc . ) e a contri buti occasionati degli anni Sessanta: l a maggior parte mai apparsa i n volume fino a d ora. Fanno ecce­ zione alcuni scritti di «Cine illustrato» già presentati, con una splendida prefazione di Tullio Kezich ma, purtroppo, con qual­ che errore nei testi, in Un film alla settimana ( UFS, Roma 1 988) , e un paio già reperibili in Lettere d'amore al cinema (LA C) , rispetto al quale questo libro vuoi essere non sostitutivo bensì, in certo senso, complementare: quello su Schiavo d'amore (reintegrato qui nella sua totalità) in quanto rivela chiaramente le posizioni di Flaiano nel 1 939 rispetto alla letteratura e al cinema «stuzzica­ denti del coccodrillo», raccoglitore cioè di rifiuti e incaricato di bonifiche (un punto di partenza sintomatico per un letterato al cinema che, anni dopo, arriverà a scegliere come miglior scrit­ tore italiano Rossellini) ; e « I l parallelepipedo di Clarke e Ku­ brick», in certo senso commovente poscritto di Flaiano alla già abbandonata critica cinematografica. I molti scritti finora ine­ diti in volume potranno magari scandalizzare a volte per la loro «cattiveria» nei confronti di odierni miti e oggetti di culto ( Bo­ gart, Hi tchcock, Orson Well es, ecc. ) , men tre ci troveranno d 'accordo la denuncia del «realismo socialista» e l'elogio allora pionieristico dei B-movies; ma anche la cattiveria ci sembra sa­ lutare, oggi che la critica, sull'onda delle difese corporative, del rispetto per gli' ultimi mostri sacri , e del timore di non aver pre­ visto gli i m m ancabili recuperi d el l e p i ù sfacciate fo rme d i «spazzatura>> , non osa più parlare male d i niente e di nessuno: anzi, in un certo senso, non osa più parlare affatto. E in ogni caso 21

non si dimenticherà che nel suo di alogo con le om bre s ullo schermo, che pure non appagano quasi mai il suo ragionato scetticismo, Flaiano fa sforzi eroici per assumere la maschera del Pubblico, «il mite personaggio moderno che chiede di essere ingannato al buim>. •

gf.

' Gli articoli provengono tutti (tranne i nn. 137, 139 e 164) dal Fondo Flaiano della Biblioteca Cantonale di Lugano. Sono stati corretti, rispetto ai testi apparsi in rivista, alcuni piccoli errori o sviste nei nomi , specie stranieri (es. Claude Rayns anziché Rains, ecc.); si è invece rispettata l'abitudine dif­ fusa ancora negli anni Trenta, ma poi abbandonata dallo stesso Flaiano, di «tradurre>> il nome proprio (es. Ettore Malot, Marco Donskoj , ecc.).

1939

Da «Oggi»

7. L'uomo che vide il futuro A tener conto del numero delle società teosofiche costituite allo scopo, ci sembra che in nessuna parte del mondo i fenomeni dell'occultismo vengano tanto seguiti quanto in Inghilterra : for­ se per merito (o colpa, non sappiamo bene) di quella speciale disposizione anglosassone a vedere le cose nelle trasposizioni e nei miraggi della fantasia più che alla luce pratica. Infatti (rea­ zione ad una società troppo preoccupata del presente?) in nes­ sun linguaggio poetico quanto nell'inglese ricorrono le allusioni al Passato e al Futuro, e domina tanto il gusto di investigare i misteri naturali. Gordon Pym e il dottor Jekyll oltre che arric­ chire la modesta mitologia nordica sono da annoverarsi tra i ri­ sultati di una simile disposizione gotica dell' intelligenza di fron­ te alla natura: disposizione aggravata negli scrittori, forse, dalla meteorologia (chi si immagina il primo degli eroi succitati nel Mediterraneo e il secondo a Napoli?) e nei lettori dal bisogno di ritrovare le oscure favole dell'infanzia. Così nei film. Appena le luci dell'Arena Esedra si spensero ed ebbe inizio la proiezione de L'uomo che vide il futuro, ultimo discendente de L'uomo dei mira­ coli, ce ne accorgemmo. La luna che navigava (una luna archeo­ logica, nitida più del solito ) cominciò lentamente ad appro­ priarsi lo schermo, creando ombre squallide che invece di af­ fiancare il sottinteso immaginario del film sembrava volessero scoprirne il punto debole, quasi strappargli la barba finta. E non sarebbe stato possibile, data una tale intromissione astro­ nomica, seguire attentamente le peripezie dell'uomo preveggen­ te; pure capimmo che costui doveva essere un modesto illusioni­ sta, suscettibile, sotto l 'influenza di una volontà inconscia, di predire sia le più atroci sventure agli abitanti della contea di Londra, sia il cavallo vincitore del derby: versatilità prodigiosa che doveva subito deluderci poiché i nostri propositi di conside25

rare il film sotto una specie artistica venivano brutalmente a ca­ dere. Ma non per questo, fedeli al detto che qualcosa di buono può tirarsi anche dal male, ci annoiammo: ché, anzi, seguendo il film nel suo aspetto documentario, là dove il regista, seppure involon tariamente, stava dandoci una graziosa rappresentazio­ ne della società inglese (e impagabile, sotto questo punto di vi­ sta, fu la ripresa di un banchetto per soli gentlemen ) , avemmo modo di spassarci curiosamente. Purtroppo il pubblico, pregustate le più stravaganti bizzar­ rie, non potendo condividere i nostri ripieghi, prese a sflosciare ogni episodio con quei commenti diabolici che ogni volta, in si­ mili casi, ci fanno pensare d'essere in una accolta di annoiati epigra mmisti : sinché un ragazzo, d a l l ' aria particolarmente stanca, non definì la questione accennando ( e non altrimenti i suoi lontanissimi antenati avevano giudicato Cassandra) a cer­ to oscuro potere del protagonista. C'era purtroppo del vero nel­ la sua insinuazione: poiché quest'oracolo nordico non sembrava nemmeno fornito, per le sue previsioni catastrofiche, di quel mi­ nimo senso umoristico che tanto giuoco aveva nelle predizioni degli antichi oracoli: in lui il più innocente tentativo di doppia interpretazione, di confusione di carte, di trucco professionale, insomma, era assente al punto che tanto i personaggi monocro­ mi dello schermo, quanto quelli vivi della platea ne sembrarono disgustati . Pian piano l'uomo del futuro si trovò a lottare contro la doppia incomprensione d'un blocco formato parte dai londi­ nesi, parte dai ((monticiani» •, se così ci è permesso chiamare i frequentatori dell'Arena. E se i primi minacciavano di linciag­ gio il protagonista della favola, l'ottimo Claude Rayns, i secondi non erano meno severi nei riguardi di altri responsabili . Perciò tra l'azione giudiziaria (l' oracolo finisce in tribunale) e l'azione disgregatrice degli spettatori (non mancò chi ad alta voce chiese i numeri del lotto, eccetera) , il personaggio di modesta ispira­ zione wellsiana fu definitivamente smontato, come una bambo­ la fornita di trucchi irritanti . A tale azione, occupando lo scher­ mo, contrastando il proiettore, togliendo le ombre sulle quali il regista aveva fatto maggiore affidamento, contribuì in gran par­ te, come si è detto, la luna. 8 luglio

' Abitanti del rione Monti a Roma.

26

8 . Invito alla musica L'Arena Esedra è il rifugio estivo, la villeggiatura de f Cine­ ma in Roma: vi arrivano timidamente gli ultimi film della sta­ gione, quelli scartati alla prima scelta e che, forse appunto per ciò, possono riserbare la sorpresa di volti nuovi e di vicende in­ genue e riposanti. Film, del resto, che nessuno contraddice; sia perché non erano ormai più attesi e sono offerti quasi in regalo al pubblico estivo, sia perché lo stesso pubbliço si mostra pronto a tutte le transazioni d'ordine artistico quando, al fresco della sera, in un cortile che ricorda un chiostro, può togliersi la giub­ ba, guardare le stelle e meditare, in una parola non seguire af­ fatto ciò che avviene sullo schermo. Nell'ultimo programma, oltre al «varietà» ( tra i numeri del quale si distinse un simpatico pagliaccio, scappato da chi sa che circo in rovina, uno di quei pagliacci, ormai rarissimi , della no­ stra infanzia, col naso rosso, gli occhi segnati a croce e i guanti enormi , figuravano due film, il primo dei quali, La ragazza del porto, passò senza emozionare nessuno, onestamente fedele alla tradizione estiva. Il secondo, invece, Invito alla musica, venne alla fine lunga­ mente applaudito, con nostra piacevole sorpresa. E, dato che i film raramente vengono applauditi , quest' eccezione ci confer­ mò, se già non fosse basta�a la visione.stessa del film, che lo sco­ po perseguito dagli ideatori era stato raggiunto pienamente. L' applauso del pubblico sorprenderà maggiormente i lettori q u ando avranno saputo che quest'Invito alla musica non è un film, almeno nel comune significato della parola, ossia non svol­ ge situazioni drammatiche, né illustra la bella vita o insegna le belle maniere, né tanto meno fabbrica sogni per lo spettatore senza fantasia; ma è soltanto un cortometraggio, anzi, peggio, la pubblicità che il Maggio Fiorentino ha escogitato per le sue ma­ nifestazioni. E per quanto arrivi a festa finita, questo opuscolo primaverile si fa guardare con un interesse che lo scopo partico­ lare non diminuisce: Firenze e il suo teatro vi sono descritti con curiosità «;:.attenzione, i motivi svolti in maniera rapida e visiva, legati da if'n ragionamento non troppo retorico e da un contrap­ punto impeccabile: l'idea del cinematografo insomma nella sua essenza è rispettata. Dinanzi ad un risultato così confortante, sollevare i nostri dubbi sull'abuso delle belle fotografie e delle controluci «artistiche» sarebbe fuori posto, dato che il successo 27

di questo film dice qualcosa di molto importante a volerlo inten­ dere, cioè che la propaganda può servirsi del cinema senza ne­ cessariamente dover annoiare . Per questa sola ragione saremmo tentati di dare a quest'In v ito il valore simbolico di una bandiera (da sventolare, bene inteso, sotto il naso dei prod uttori eccitan­ doli ad una onesta corrid a, invitando al ballo, insomma, più che alla musica) . Poiché, e non vogliamo con ciò esorbitare dal no­ stro compito, l'interesse di costoro per questa attività collaterale del cinema dovrebbe ormai farsi vivo. Non c'è chi non capisca che l ' I talia è il paese d'elezione per simili imprese: arte e storia, volendosi limitare, possono suggerire infiniti argomenti, né v'è città che sia mal fornita di motivi insospettati e curiosi. Se esis tono ragioni che impediscono una così nobile intesa (la nostra imperizia non riesce a precisarle) , esse dovrebbero cadere dinanzi a questa disposizione benevola della nostra ter­ ra, enorme palinsesto che richiede, per essere affrontato, soltan­ to una guida della Cit e un minimo di coscienza. Auguriamoci che l'invito non venga rifiutato : nel nostro candore vorremmo oggi stesso assistere alla vittoria del cortometraggio intelligente sul lungometraggio insulso, così comune nella nostra produzio­ ne. E, per ciò che può interessare la nostra natura di viaggiatori in poltrona, ci si diano documentari sulle città, simili a questo di Francisci e, se non altro, potremmo almeno ripetere l'impre­ sa di quel viaggiatore citato da Stendhal, che visitò cento città italiane spendendo cento scudi soltanto . 15 luglio

1 8 . Schiavo d'amore. Piccolo Hotel Il cinema compie nei confronti della letteratura narrativa le stesse' funzioni di quell ' u ccello tropicale che vive facendo lo stuzzicadenti del coccodrillo: cioè utilizza i residui e compie, nello stesso tempo, una delicata opera di bonifica. Diamo, infat­ ti, un buon romanzo all'obbiettivo e ne trarrà invariabilmente un film insufficiente; al contrario, una tesi debole, uno spunto mal seguito, si tramutano sullo schermo in storie piene di fasci­ no e ciò proprio per merito di quell' arte di cucinare gli avanzi che è prerogativa del cinema. A voler sottilizzare, ciò che s'affida al giudizio degli occhi non deve necessariamente essere logico quanto ciò che si dirige al cervello; perciò una storia che alle prime pagi ne ci si rifiuta di 28

seguire, tradotta in immagini può rivestirsi di grazie insospetta­ te, per l'animazione, la descrizione dei luoghi e una sommarietà inflessibile nei caratteri e negli sviluppi, che, almeno, non an­ noia. Per questo, Atlantide di Pabst e Ombre bianche di Van Dyck conservano tu ttora una sicura superiorità sui romanzi originali; (a patto che questa superiorità non si voglia esclusivamente at­ tribuirla ai rimaneggiatori, cosa che ci condurrebbe fuori del di­ scorso) . Comunque, a questi romanzi, possiamo ora aggiungere Of Human Bondage di Somerset Maugham che, ridotto da Crom­ well, si fa vedere con maggiore interesse di quanto non si faceva leggere, e ciò appunto per l' utile lavoro di condensazione opera­ tovi , per una semplificazione degli sviluppi e dei personaggi che, da immodeste figure «a tutto tondo», sono diventati onesti bassorilievi e votati o al male o al bene; senza eccessive sotti­ gliezze. Per quanto il film sia vecchio di cinque anni e giunga a noi molto tagliato sotto la versione di Schiavo d'amore (un tentati­ vo, come si vede, di «platinare» anche i titoli) gli elementi emo­ tivi sono pressoché intatti e convincenti, ciò che sarebbe azzar­ dato ripetere oggi per il romanzo. Il quale romanzo è una labo­ riosa versione de Il mago , prim� opera dello stesso autore, e qui prende vita principalmente dall'interpretazione di Leslie Ho­ ward e Bette Davis: due attori che si completano e rivelano a vi­ cenda come affettuosi compari. Rispettando le proporzioni, anche per il film italiano Piccolo Hotel s i è verificato lo stesso fenomeno: la realizzazione supera nettamente le intenzioni del soggetto. Questo film è una para­ frasi casalinga di Grand Hotel, con diverse s torie egualmente contrappuntate ma poste in ambienti JJiù modesti e con perso­ naggi meno preoccupanti : un film pieno zeppo di ricordi come un salottino, ma non per questo indegno di considerazione. Il regista Piero Ballerini, che è anche l'autore del soggetto, ha de­ dicato alla sua creatura un'attenzione scrupolosa e commoven­ te, e con ciò mostra di volersi staccare dalla corrente veramente troppo facile in cui naviga la maggior parte dei suoi colleghi an­ ziani. La sua buona fede, il suo entusiasmo si rivelano nei parti­ colari, nel �·guida franca degli attori e delle scene, qualità, que­ ste, che non sfuggono nemmeno ad osservatori superficiali come noi; e se sbagli ci sono, più che all'abitudine sono dovuti al co­ raggio. Davanti a tale conclusione non saremo tanto piccini da voler elencare le mende e consigliare le toppe: ci basta quel che Ballerini regista ha saputo tirar fuori da Ballerini autore per far29

ci tacere: e, pure, di quest' ultimo, l'abilità e la forza, sebbene deviate da un gusto letterario che non può piacerei, esistono e possono essere adoperate molto meglio. Della reci tazione non si può dire che un gran bene; tra gli al­ tri, una buona parte svolge l'attore Checchi , mentre Notari in­ terpreta efficacemente il suo ruolo di pianista; episodi che ci convincono, sempre più, come il problema del nostro cinema non sia precisamente di attori. Con nostro scorno e desolazione, il pubblico che assisteva ai due spettacoli non ha molto gradito le buone intenzioni, ha fatto delle riserve, messo in dubbio ogni cosa. 23 settembre

19. Pa;:;;:;ie Le Follie del secolo, è risaputo, si commettono, oggi , proprio in nome del cinema e, per convincersene, basta seguire con un po' d'attenzione i bollettini pubblicitari delle case; quindi , una curiosa ritorsione diventa un titolo simile applicato ad un film che illustra soltanto le modeste follie del diciannovesimo secolo, del siècle stupide, come certo, seguendo una definizione di Dau­ det, vorrà chiamarlo il regista Palermi; e giustamente, almeno a giudicare dai motivi cari ad una tradizione umoristica che egli, di tanto in tanto, riporta agli onori dell 'obiettivo . Questi motivi, che il suo recente film ripete, sono i cabaret, le divette, i qui pro quo, i gentiluomini in imbarazzo, i piccoli imbrogli risolvibili al terzo atto, insomma tutto il bagaglio della pochade, reso più av­ venente dallo ((sfarzO>) dei costumi e da una particolare recita­ zione degli attori che sarebbe di cattivo gusto non supporre esattamente ispirata all' idea che essi si fanno del sentimento del! ' epoca. Non è, infatti, privo d'insegnamento vedere quanta abilità questi attori, tra i quali non possono mancare Tafano e Falconi, mettono nello sfruttare, pel gusto di una innocente satira retro­ spettiva, i gesti, le battute o meglio ancora i loro stessi baffi, i monocoli e i cilindri di cui si parano invariabilmente. E , per quanto a noi una certa satira (appunto perché inconscia) appa­ re più evidente nei film che gli stessi attori interpretano nei loro panni normali , quando illustrano le follie del giorno d ' oggi, non si può negare che, col tempo, queste dis tratte contraffazioni hanno finito col conquistare i favori di un largo pubblico, il che, 30

forse , è il lato meno allegro della faccenda, se si riferisce alle funzioni di ogni arte. Che, infatti, possa bastare un «mestiere» frettoloso ad accontentare tutti, che si pensi di restare, per sem­ pre, su posizioni così irragionevoli è, diciamolo pure, abbastan­ za sconfortante. {Né si dica che è impossibile fare altrimenti perché, non ammettendo scampo, e presupponendo che ogni ci­ nema rifletta la propria società, si arriverebbe a conclusioni che, per quanto basate su questi ripetuti esempi, nessuno avrebbe cuore di formulare) . Una follia più tranquilla, ma non meno sorprendente {il di­ lettantismo entusiasta) , ha ispirato il realizzatore di Tre fratelli in gamba, film nel quale si dimostrano due tesi indubbie, cioè il valore artistico del Carro di Tespi e la superiorità della vita di paese sulla vita cittadina, che è piena di oscuri pericoli. Appun­ to su un giovane cantante che abbandona i suoi campi di vi­ gne per lo specchietto della gloria è basato l'intreccio: con qua­ le astuzia questo sia stato illustrato non lo dice chiaramente il titolo? Non è azzardato avvertire lo spettatore che davanti allo schermo rimarrà affascinato e incollato alla poltrona, vittima di quella stessa volontà negativa che induce i turisti a sporgersi sull'orlo dell'abisso: ascoltando i frizzi e le barzellette da vec­ chio almanacco, guardando le «trovate>>, tra cui la lunga pas­ seggiata di un tale che ripete una romanza dell'A ida parodian­ done i versi («Un esercito di brodi , da me guidato» , ecc. ) , potrà rendersi conto della buona fede che ha presieduto l'opera, buo­ na fede che ne forma, in fondo, la maggiore attrattiva; e gli ap­ parirà chiaro quanto, nelle riprese, la gioia dei realizzatori da­ vanti al fatto nuovo di girare un film, doveva essere profonda e genuina. I bravi attori tradiscono a malapena il piacere della scrittura, il fotografo e il regista vanno tranquilli contro l'ignoto ricordando, con i loro tentativi, la piacevole imitazione che fan­ no dei grandi i bambini quando giocano a «farsi le visite», sol­ tanto che qui si gioca «al cinematografo» e la spesa è indubbia­ mente maggiore . Tutto sommato, se questi Tre fratelli in gamba sfuggono �d un esame estetico non sono però meno apprezzabili per il me A'to indiscutibile di elencare, come in .u n vero corpo di regole, tutto ciò che i cineasti debbono guardarsi di fare e, in ques to senso, offrono lo spunto, a chi ne avesse voglia, di defini­ re un elogio del cattivo film. 30 settembre 31

20. Amori pericolosi Da Oceano di De Amicis in poi, molta letteratura ha trattato la partenza dell' em igran te, ben poca, invece, il suo ritorno : sul­ l'argomento i nostri confusi ricord i personali si limitano a quelle tele incerate col disegno del ponte di Brooklyn che i fortunati ri­ portavano insieme al gruzzolo e all'intenzione di restare per sempre al paese, quasi la loro lu nga assenza fosse stata logica e doverosa, una specie di servizio mili tare : non altro. Perciò l'ini­ zio del film Due milioni per un sorriso ci dispose a seguire con viva curiosità la storia del signor Perotti (un milionario itala-ameri­ cano di ritorno in patria dopo trent'anni di lontananza) , sicuri di poter dedurre un significato apprezzabile dalla sua non co­ mune avventura. Sin dalle prime scene, però, le nos tre orecchie cominciarono, come si dice, a drizzarsi : poiché i modesti propo­ siti del nos tro personaggio miravano soltanto a ritrovare la don­ na del cuore e, in seguito, visto che la creatura abbandonata trent'anni prima risul tava morta nel frattempo, a rivedere al­ meno «il suo sorrism) . Anzi, il milionario dichiara che sarebbe disposto a dare l'intera sua fortuna (due milioni di dollari , al cambio circa trentotto milioni di lire) pur di rivedere quel sorri­ so amato . E su questa frase oratoria, come si vede, su quest'i­ perbole pienamente giustificata dal dolore e dalla delusione, proprio su questa frase gli autori costruiscono il film mostrando di prendere troppo alla lettera la disperazione dei loro perso­ naggi . Infatti un locandiere fallito suggerisce al milionario di girare un film intorno al patetico episodio, promette di trovare una donna dal sorriso rievocatore, giura che, per risuscitare le illu­ sioni in tutti i particolari, non c'è mezzo più sicuro e moderno del cinema . Il povero milionario, non pratico di certe cose, ac­ cetta: una casa cinematografica viene fondata all 'istante, tecnici di fortuna sono scritturati e, infine, è bandito un concorso per la ricerca «del più bel sorriso)) . E poiché soltanto a questo si vole­ va arrivare , il film seguita confondendo le sue ambizioni alla pubblicità di un dentifricio , e lo schermo, con molto candore, ri­ vela i concetti che informano la scelta delle attrici del nos tro ci­ nema. Giunto qui il film è esaurito : tutto ciò che in seguito vi succe­ de non riesce ad interessare, anche se a tratti l'azione si risolleva faticosamente, come una quaglia ferita . Ma chi resiste alla ba­ nalità? Ciò che tuttavia rimane dubbio ed oscuro, almeno per chi 32

conosce il valore degli autori, è questo: se la satira non prenda talvolta la mano alla buona fede di costoro . Per spiegarci, sarà bene aggiungere che quando il locandiere, nel film, impianta la casa di prod uzione cinematografica, impiega come regista il suo cameriere, per fotografo il barista, mentre per i ruoli di tecnico del suono, truccatore e prima attrice, camuffa il cuoco, il secon­ do cameriere e la sguattera. Se gli autori volevano sottintendere qualcosa (da ciò il nostro dubbio) bisogna ammettere che, via! , l' accenno è u n po' forte. Al contrario del signor Perotti (il quale, dimenticavamo, do­ po aver fatto la felicità di due giovani ritorna in America) il per­ sonaggio principale di Ultima giovinezza prende le cose con la­ mentosa serietà. C ostui è un vecchio coloniale che, dopo tren­ t'anni di lavoro (anche lui) , tornato in patria rimane vittima dell' amore per una donna che, una sera, il caso gli fa incontrare. Amore, gelosia furiosa, incompatibilità di carattere, conclusio­ ne desolata: il tutto svolto con troppo puntiglio forse, o con «sti­ le verista francese», da Jeff M usso. Però il film non è stato fatto in Francia: e il risultato fa cre­ dere che su certe manipolazioni debbono molto influire gli ele­ menti della natura, forse l'aria e la terra, se non proprio l' acqua e il fuoco; poiché, pure essendo gli attori bravi e la preparazione curata, si ha l'impressione che a grattare un poco debba venir fuori il falso. Raimu, comunque, soddisfacendo l'ambizione d'o­ gni comico, ha avuto la sua parte di tragedia; e speriamo gli ba­ sti, così come è bastata a noi . 7 ottobre

Da «Storia di ieri e di ogg i»

22. Il filosofo dei miliardari I miliardari, in America, sono poco meno che eroi nazionali; per crederlo, se non ci fossero una letteratura e una convinzione popolare, basterebbero i film che ogni tanto si imbastiscono sul­ le loro avventure più sottilmente didascaliche. E, poiché ogni epoca ha i suoi Plu tarco, e alla nostra son toc­ cati i produttori cinematografici, dopo Jim Diamond , il Re della Carne e Wordsworth (il proprietario dei magazzini Words­ worth ,' non il poeta) è toccato a un avventuriero ottocentesco dello Stock Exchange, un certo Fisk, ad ammonirci sui pericoli della Ricchezza. Questo Fisk, informa una premessa, sarebbe stato un genio della finanza se non avesse «guardato troppo in alto» . Da tale premessa si comprende quanto la biografia di co­ stui sia servita al produttore per sottilizzare sulle azioni umane, seguendo la falsariga di quei saggi di Emerson sul Potere ed il Successo, che sono stati, e forse sono ancora, il Vangelo dei di­ lettanti arrivisti . Infatti il film inizia mostrandoci Fisk, vendito­ re ambulante con due allegri compari , negli Stati del Sud; scop­ pia la guerra di secessione ed egli, passandosi per inglese, man­ da il cotone nel nord con impensato guadagno: la pratica indul­ genza emersoniana lo accompagna in questa prima avventura che, a una mente europea, non parrebbe, forse, precipuamente patriottica : «l sudisti vendono, i nordisti comprano, e noi gua­ dagniamo: in concl usione il guadagno è di tutti)) , afferma tutto contento. A guerra finita, entra nel grande giro d 'affari . Lo vediamo giocare cattivi tiri legali ai suoi avversari , sempre accompagna­ to dalla simpatia del prod uttore . Fisk, naturalmente, è l' ameri'

L'au tore si riferisce probabilmente ai magazzini Woolworth. Il film di cui si parla è The Toast of New York (A lla conquista dei dollari, 1937) .

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cano aud ace e generoso, appartenente a quel sesso mentale che Emerson chiama, appunto, «attivO>) ed essendo uno che della fi­ ducia in se stesso fa gran conto, un campione di self reliance, è portato a considerarsi come una divinità satellite del Creatore . («Dio è in noi e quindi aver fede nella nostra natura, appoggiar­ si ad essa, non è atto di presunzione))) . Perciò, tutto quanto Fisk combina di rigorosamente immorale, la sua stessa insolente fur­ beria, i suoi trucchi, viene mostrato, d urante la prima parte del film, sotto la luce migliore e con un gusto di particolari comici : insomma Fisk, la di cui figura fisica (l'interprete è il grassoccio attore Arnold) sta per avvalorare lo scherzo del suo machiavel­ lismo finanziario, Fisk deve entrare nelle grazie del pubblico e rimanervi sino a nuovo ordine. I l che è facilmente ottenuto: quale sia il desiderio di ogni spettatore, di quello che va al cine­ ma per dimenticare i disappunti dell' esistenza e le noie giorna­ liere lo dice Ehrenburg: sognare; e niente gli è più grato, come sogno, di una storia in cui l 'eroe possa, per virtù d' intelligenza, mettere nel sacco gli antagonisti. E così agisce Fisk: con studia­ ta eleganza, mentre sconfigge gli avversari aiuta, nel frattempo, i deboli e i poveri . «Ci sono i soliti affamati)) , viene a dirgli il se­ gretario proprio nel momento in cui sta dando un saggio di cini­ smo. «Trattali bene)) risponde, allora, con commovente noncu­ ranza. Ma tutta questa bontà, quest'entusiasmo nel descrivere il protagonista, non riesce a convincere. Ecco , infatti, approssi­ marsi la conclusione e i guai per tutti: il nostro eroe è innamora­ to. E l' amore ha assunto in lui una forma pericolosa e insolita per un finanziere, tanto più preoccupante in quanto egli, per la donna amata, sarebbe ora disposto a combattere ed a vincere il mondo intero, il che vuol dire, per gli americani, New York. Quello che è stato per lui un modo di guadagnare la vita, mi­ naccia di trasformarglisi in un modo d ' i n tenderla. A questo punto, il produttore smette la d ivertente imbonitura e comincia a vendere il «suo articolo)) , facendo della Morale non una stella fissa, ma un pianeta, ossia distinguendo in esso un moto di rivo­ luzione (che riguarda l'individuo e che lui non censura) e uno di rotazione che tocca anche i suoi principi e gli interessi di tutti . Fisk, dunque, per d are, alla donna amata, il senso della sua po­ tenza, gi wa-c he non gli bastano ormai le comun � vitt� ri � e l a ca­ . . . pitolazione di Vanderbilt, ma vuole la Borsa ai suOI piedi con tutta l 'economia nazionale. Per ottenere ciò, accentrerà l'oro in circolazione, per aumentarne il prezzo di vendita, una volta de­ tenendolo. Sarà questo l ' argomento del produttore per abbandonare il 35

suo megalomane personaggio all'ind ignazione del Destino: e, con il produttore, tutti abbandoneranno Fisk, gli amici, il regi­ sta, l'interprete stesso. Il personaggio, di col po, da simpatica canaglia diventa un intollerante superbo con spiccate tendenze dittatoriali : subito arruola un corpo di guardie, lo arma e lo ve­ ste (l ui stesso mette una divisa con grand i risvolti bianchi ) e benché Emerson tenti, per bocca del suo migliore amico, di ri­ portarlo alla Verità Americana, ricordandogli che la morale fi­ nanziaria ha dei confini identificabili con quelli della nazione, egli picchia e persegue il suo proposito. E, allora, faccia pure, tanto finirà male! Fisk inizia la sua operazione tra lo sgomento e il panico: e sarebbe la rovina per tutti se il governo non imponesse un limite alla speculazione, gettando sul mercato l'oro della riserva. Ma sarà soprattutto il suo migliore amico che, dopo avergli rimproverato di attribuire un valore troppo al to alla «bruta superiorità>>, diven terà il suo avversario mortale .. Fisk crolla definitivamente quando sa che anche la donna amata gli si è messa contro: con ciò perde ogni speranza di vincere la partita e di poter rientrare nelle grazie del pubblico. Se anche l'amore gli volta le spalle, è la fine. E, difatti, muore tra la folla indignata, per un colpo di pistola anonimo che fa le vendette personali dello Stock Exchange, così iniqua­ mente tenuto in allarme. L'amico fidato impalmerà la sua don­ na: e per chi intende la morale di Hollywood , sempre applicata con biblica accortezza, queste due disposizioni disciplinari sono il peggior giudizio per un uomo e le sue azioni . 15

novembre

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Da «C ine illustrato»

28. Assia Noris uno e due La trovata dei due sosia che s'incontrano e danno inizio alle più straordinarie avventure è una creatura propria del cinema, poiché soltanto il cinema ha potuto risolvere il problema della rassomiglianza dei due attori necessari. Il teatro dell'Ottocento che, per essere naturalistico, più si avvicina al cinema di oggi , amava sbizzarrirsi, invece, con le trovate dei due sordi, dei due timidi e dei due pazzi: spesso, dall'incontro di due innocenti e disgraziati personaggi scaturivano le più allegre situazioni, i più curiosi qui-pro-quo che abbiano fatto ridere i J?.OStri nonni. Ma quando il primo fotografo burlone ebbe ritratto la stessa perso­ na, in pose diverse, sulla stessa lastra, il più era fatto: il cinema, già grandicello, non tardò a perfezionare il procedimento. Chi, tra le riostre lettrici, ricorda Max Linder? Forse, nessu­ na. Quest'inesauribile comico francese, in un film che aveva per titolo Sette anni di guai, doveva portare la «trovata dei sosia)) , ad altezze insospettate: e, dopo la sua applicazione, ci sembra non si sia raggiunto nulla di più saggiamente umoristico. Quell' atto­ re, nel film, faceva la parte di un cameri�re maldestro che, rotto un grande specchio, si trova a temere le ire del padrone, uomo collerico, che però gli somiglia nei tratti del viso. Ecco che il pa­ drone vuoi radersi la barba. Si avvicina allo specchio o meglio alla cornice e vede riflessa la sua immagine; s' insapona e l'im­ magine esegue la stessa operazione; si rade e l'immagine si pre­ senta sbarbata e sorridente. Tutto va bene per il geniale came­ riere che, però, a un certo punto, non trattiene uno starnuto. I l padrone, allora, s i guarda insospettito e indeciso. M a è un atti­ mo; meccanicamente, ripetendo i gesti della sua immagine star­ nutisce anche lui, in perfetta buona fede. Il film dopo quest' episodio d egno di esser consacrato in un'antologia, correva verso altre avventure che non vale ricor39

dare. Oggigiorno i mezzi tecnici permettono, per realizzare un trucco simile, l' abolizione della , )'«autista>> , il «maggiordomm> : caratteristi nuovi·, facce mai viste prima e simpatiche. Del successo il merito va in gran parte a Mario Soldati : questo giovane scrittore rivendica il cine­ ma all'intelligenza, e - secondo noi - fa bene. La sua regìa è im­ peccabile, studiata, rigorosa e sta a dimostrare che per fare un film non occorre che il regista debba essere proprio illetterato. Detto il meglio, se ci è permessa la ricerca dei peli nell'uovo, vorremmo chied ere perché l ' «an tenato scapes trato» di C arlo Ninchi è rappresentato col ritratto del pittore Celentano dipinto da Morelli e conservato a Valle Giulia. E, ancora, perché il sup­ posto Hotel Excelsior è stato indicato col Palazzo Margherita a via Veneto che, se non erriamo, è sede della Confederazione de­ gli Agricoltori? Al tempo del film muto ripieghi simili erano comicamente usuali. Ricordiamo Francesca Bertini, in un film in cui doveva fare la «signora ricca e intellettuale» , scendere la scalinata della Galleria d 'Arte Moderna (che doveva rappresentare la sua vil­ la) sbandierando una copia del «Petit Parisien» a garanzia dei suoi studi. A quei tempi Petrolini ironizzava gli snobs con quel­ la frase che, forse, tutti conoscono ma che conviene ripetere: «A casa mia» diceva «magari non si mangia, ma si parla francese». ·

3 gennaio 41

32. Polpettone, inven> : se non ci si tacciasse d'esagerazione si potrebbe dire che la Russia è un' invenzione, una trovata della cinematografia francese. La slitta, il samovar, la vers ta, i campanili terminanti a cipolla, i balletti, gli stivali, nitchevo e Katja sono tanti personaggi che soltanto nei film gi­ rati a Joinville-sur-Seine {la Cinecittà francese) hanno diritto di cittadinanza. E ci sono attori che a forza di interpretare ruoli drammatici, in queste mirabolanti invenz ioni, - che partono sempre da uno spunto .storico per finire a Eugenio Sue, - hanno acquistato una specie di sonnolenza russa; per esempio Harry Baur. Costui ci ha fatto sempre pensare ad un leone lebbroso e rincagnato che abbia perso ogni interesse alla vita. Se ne sta in tutti i film cupo e brontolone, quasi a giustificare la fotografia tenebrosa, il sonoro accapponante, i colpi di rivoltella a mezza­ notte e i misteri inviolabili. Lo abbiamo ritrovato in Notte fatale, disgraziato regnante di un «falso regno falso russo» ed è certa­ mente lui che ha incoraggiato il traduttore italiano a cambiare il titolo originale Le patriote in quello più «suggestivo» citato. 42

Con Sette uomini . . . una donna (notate, vi preghiamo, i puntini di sospensione propri di un titolo simile) , siamo in pieno film ro­ sa, spumeggiante e fatto a serie. Ci vuoi poco a immaginare i di­ scorsi dei prod uttori . «Occorre fare un film simile a . . . con un'at­ trice uguale a . . . in un ambiente signorile con mobili e castelli antichi. La vicenda dovrà essere semplice e a lieto fine e il si­ gnor Gravey, che ha firmato oggi il contratto, dovrà avere la parte più simpatica>> . Discorsi simili a questo si tengono ogni giorno, o forse ogni ora, in tutti gli uffici cinematografici del mondo e appena il film, che ogni volta ne consegue, è stato fat­ to , inscatolato e spedito, l' ufficio di pubblicità annuncia che quello veramente è il film «più divertente della stagione» e gli preconizza il successo più vario, il plebiscito nazionale. A noi i film tanto fortunati , con buona sopportazione di chi pensa il contrario, più che non piacere, danno fastidio . Nascono da un vecchio film dimenticato, da una novelletta rifiutata e da uno scandaletto mondano e si portano appresso tante t�re ereditarie di approssimazione e di falseri a . Hanno lo s tesso aspetto di quelle signore che si coprono di gioielli finti, di strass, di grosse perle artificiali; non c'è in essi nemmeno la più piccola disposi­ zione benevola verso la realtà. Tutto è copiato a memoria ed ha uno scopo modesto. Son questi i film che mettono ai giovani il­ lusi la voglia addosso di fare del cinema, poiché il mondo che rappresentano è zuccherato, facile e accarezza ogni fantasia. Ci sono i maggiordomi, la fuga di salotti Luigi Quindici, i banchie­ ri e un numero imprecisabile di vesti da camera. Vera Korène è bella, giovane, ricca (non solo nel film ma anche nella vita) , e questo piace: e qui, in questo film, dopo la delusione di un pri­ mo marito, rimasta vedova, si dà a cercare l'uomo ideale. Natu­ ralmente tutti gli aspiranti alla sua mano (se ne vedono sette) hanno il loro difetto e mirano - in definitiva - più alle sue so­ stanze che al suo cuore. E così la vedova sarà conquistata, co­ m'era previsto, dal signor Gravey, un attore che ha il visetto di un bambino viziato e qui passa per un dongiovanni sazio e sol­ tanto desideroso di pace e affetti solidissimi . Francesco, il personaggio principale di A lba tragica, è un ni­ pote dei personaggi zoliani, un risultato dell' industria e dei principi perduti. Quest'operaio (orfano anche lui) s'innamora di un'orfana e vorrebbe sposarla. C ' è il lavoro, la casa, una pro­ spettiva di vita migliore per tutti e due. Ma poiché dove gli altri film solitamente finiscono questo comincia, ecco un cinico av­ venturiero intromettersi tra i due. Questo sciagurato, assedian­ do la ragazza, fa credere all'operaio prima di esserne lo zio e in43

fine l'amante . Cosicché, durante un battibecco, Francesco, mes­ so alla disperazione, uccide il rivale. Tutto il film descrive il gio­ vane assediato nella sua stanza dalla polizia che vuoi catturarlo: in una livida alba, dopo un riassunto visivo della propria av­ ventura, Francesco si uccide. Alba tragica è l' unico film dei quattro che dica qualcosa di in­ telligente. Su queste pagine, meglio di quanto possiamo fare noi , un critico ne ha ritrovato le fonti metafisiche. Noi vogl iamo soltanto aggiungere a quelle righe, ora che il film sta ottenendo il consenso del pubblico migliore, qualche parola. Perché A lba tragica ci ha sorpreso come una voce amica nel deserto. Infatti questo film riassume tutte le esperienze della scuola «verista)) e, in un certo senso, le conclude: non crediamo, infatti , che qual­ cuno vorrà tentare avven ture simili; e non per paura del censo­ re, ma perché non c'è più nulla da dire sull'argomento . Sui tre­ mila metri di celluloide del film di Marcel Carné c'è tutto il pen­ siero di una generazione d ' artisti, la letteratura d egli hotels meublés, tragedie urbane della pittura di U trillo o del doganie­ re Rousseau (la veduta domenicale lungo la ferrovia, col trenino che sbuffa) e la sconsolata verità della vita passata attraverso intelligenze che, a costo di essere troppo sincere, si fanno po­ chissime illusioni. Per noi , che consideriamo l'ottimismo, specie nel cinema, il peggiore di tutti i mali (e lo dimostreremo, un giorno) questo film va bene. Anche se è stato tacciato di «letterario)) . Anzi, cir­ ca questo, crediamo che un po' di «letteratu ra)) non farebbe ma­ le l'avessero anche i nostri registi . 24 gennaio

34. Giallo-rosa parigino Un lettore ci ha scritto lamentando la severità del nostro giudizio sul film Delirio: diciamogli subito che ha perfettamente ragione di lamentarsi e che nessuno, d' altra parte, si lamente­ rebbe più di noi stessi, seguendo il suo punto di vista. Ma quel giudizio, affrettato e diretto più al «genere)) che al film in sé, noi lo avevamo scritto per due motivi: primo che la recente presen­ tazione di Alba tragica recensita nello stesso articolo aveva posto in secondo piano le romanticherie di Charles Boyer e Michèle Morgan e fattoci per un istante apparire la troppo complessa architettura della loro avventura come falsa, e secondo che il 44

giudizio ci sembrava doversi dire proprio all' orecchio di perso­ ne in telligenti e aggiornate come il nos tro lettore . Tu tte le altre sue considerazioni, se si vuoi tener conto di quanto ora detto, non valgono troppo . Inoltre, una volta tanto che ci permettiamo un giudizio au­ dace ma, in fin dei con ti, giusto, ecco che coloro che meglio po­ trebbero apprezzarlo, lo rifiutano . Vatti dunque a fidare! Fini­ remo con l' annoiarci se non è permesso tirare nemmeno un sas­ solino nelle acq ue stagnanti dello schermo. Del resto pensi il nostro intelligente lettore come accettereb­ be, oggi, i romantici film d' anteguerra, le Fedore, Gli amori miei non muoiono eccetera; e osservi quanta poca diversità di costru­ zione c'è nella storia di quei film con quello che a lui (e anche a noi, si badi bene) piace tanto. Ma, ripetiamo, Delirio si avvia lentamente verso il falso, e un giorno parrà un curi Ò so documento della nostra epoca. Questa eventualità non toglie che oggi piaccia e raduni la folla: ma è forse una colpa desiderare che i film portino con sé, verso la vec­ chiaia, qualcosa di meno contingente, di retorico, di abilmente ruminato di quanto _ imporrà sempre il gusto commerciale? Per restare nel tema dei film francesi, questa settimana dopo un Capitano Mollenard con Harry Baur (film che nessuno potrà indurci a vedere) è stata la volta di un film diretto da Yves Mi­ rande e interpretato da molte stelle della cinematografia france­ se tra le quali, appunto, si notano Erich von Stroheim, austria­ co; Elvire Popesco, rumena; Be tty Stockfeld , inglese e Gaby Morlay, italiana : Non mancavano Jules Berry (ma c'è un film senza quest' attore prezzemolo?) Michel Simon e altri attori fa­ mosi , ma dai nomi difficilmente ritenibili. A noi sembra che a questo film, che s' ispira, senza volerlo nascondere, ai modelli americani tipo Grand Hotel o Pranzo alle otto sia mancata una, più agile e impensata regìa. Yves M irande è sonnolento, tira alle lunghe e finisce talvolta con lo sciupare qualche ottima situazio­ ne fornitagli dagli sceneggiatori e a soffocare in una «normale amminis trazione» attori celeberrimi scritturati apposta. Ma i pochi difetti non guastano Dietro la facciata e non gli tolgono un merito evidente, quello cioè di aver trattato con una certa pene­ trazione psicologica e un divertito umorismo una vicenda spez­ zettata sullo sfondo di un delitto mis terioso. Il film «giallm> appartiene, d i regola, al cinema anglosasso'

In realtà di nazionalità francese.

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ne. Bisogna ammettere che i delitti nei film americani o inglesi diventano uno scherzuccio da quattro soldi che non guastano affatto la digestione dello spettatore. L'ind ifferenza pel «morto» riesce ad essere persino immorale. Mai abbiamo tanto riso co­ me in un film giallo con Powell, dove alla fine, fatti i conti, ben tre risultavano le persone mandate al C reatore. Ques t'indifferenza il cinema l'ha ered itata dalla letteratura poliziesca dei Wallace dove il personaggio designato, nel mede­ simo istante che viene colpito dalla pallottola, diventa una «co­ sa» e non suscita più nessuna emozione. Queste si riversano, in­ vece, sulla vicenda o sulla ricerca del colpevole: la vittima si spazza via, subito, quasi per igiene. Il film francese o europeo non può non avere un concetto di­ verso del delitto. A parte che la censura spesso ne vieta la visio­ ne, quando questa c'è suscita orrore e sgomento. Davanti a noi c'è un morto, con le scarpe e la barba che seguita a crescergli, come nelle fotografie della polizia scientifica, non un pupazzo di stoffa e di cera . Se i delitti , nei romanzi di Van Dine sono elegantemente condotti come operazioni chirurgiche indolori , nei romanzi di Gaborieau vengono fatti a colpi di stiletto nella schiena o con sparatorie a bruciapelo. Si può dire che Saverio de Montepin o Eugenio Sue abbiano molto contribuito a formare questa tecni­ ca delittuosa, losca e brutale, che il cinema preferisce. Nel Ban­ dito della Casbah, l'uccisione della spia - episodio che sembra tol­ to da un vecchio feuilleton - ci fece ritrovare quasi sotto la pol­ trona terrorizzati : eppure nella realtà c'è capitato vedere di peg­ gio. Nel film di Jean Renoir, La bete humaine, gli omicidi si susse­ guono tragici e sanguinolenti come bistecche e si esce fuori dal cinema col desiderio di fare una bella scampagnata, di cogliere fiori o di arruolarsi nell' Esercito della Salvezza. Pure il signor Veber - un critico francese - scrisse che il protagonista uccideva così bene «che se vi fosse stata l' uscita degli artisti, le ammira­ trici dell'ottimo attore si sarebbero lanciate verso di lui e col medesimo timbro di voce col quale avrebbero detto " cantateci qualcosa" gli avrebbero chiesto: "oh, signore, ammazzateci an­ cora qualcuno ! " » . l n Dietro la facciata, con molta abilità, i l corpo della vittima non si vede, ma s' indovina. Ciò per non togliere al film quel ca­ rattere di gaia ricerca e di passatempo. L'uccisa è la padrona di un palazzo, vecchia e sordida avara, inflessibile con gli inquilini morosi e sospetta di mestieri poco puliti . Una sera, il suo corpo vien trovato nell' ascensore da un fattorino telefonico. Le indagi46

ni della polizia costi tuiscono lo scopo del film non tanto per ri­ trovare l' uccisore ( ché anche questo si scopre nella persona del vecchio portiere, una delle tante vittime della tiranna padrona) ma quanto per dar modo allo spettatore di en trare di notte nei diversi appartamenti di un palazzo e vedere cosa può succeder­ vi . Così seguiamo i distinti funzionari prima nella soffitta di un attore di varietà lanciatore di coltelli, poi nell'appartamentino di un vecchio scapolo cleptomane che fa collezione di orologi e portacenere rubati, poi nella stanza di un povero cieco che si crede possessore di una ricca pinacoteca mentre alle pareti non ha che cornici vuote. La trama, ottimamente congegnata, vi fa in seguito entrare a titolo di pura curiosità in un salotto dove Betty Stockfeld e von Stroheim giocano a carte ai danni di un terzo signore; nella di­ mora di una vistosa mondana combattuta tra l' amore e la ne­ cessità di guadagno; e infine nella casa di un tale che ha perso la testa per una ballerina e trascura perciò la famiglia. J ules Berry lo si vede intento a sedurre una rispettabile signora: all 'arrivo della polizia, da perfetto gentiluomo dilettante si farà passare per un ladro salvando la reputazione della compagna. Il film è, dunque, una passeggiata umoristica su per le scale di un caseggiato. Non si pone altri compiti che quello d'osserva­ re ciò che succede alla gente e di riferirlo con una discreta vena umoristica e gentilmente umana. Cosicché alla fine, grato di tante piccole ma oneste intenzioni, il pubblico lo applaude. 7 febbraio

35. Discorsetto ai soggettisti La ricerca dei soggetti si va facendo ogni giorno più preoc­ cupante e accanita pel cinema i taliano. Per quello che ne sap­ piamo ci sono fior di letterati che passano il tempo li bero, ossia tutta la giornata, a rileggersi romanzoni dell'Ottocento france­ se, quei mastodontici feuilleton di tremila pagine con, in media, un morto e un figlio illegittimo ogni capitolo. Li leggono con la speranza di tirar fuori il «soggetto» e quando credono di averlo trovato lo depositano alla Società degli Autori, dove, per cinque anni, rimane di loro proprietà. Chi vuol mettere «picchetti» su Saverio de Montepin e M astriani si faccia coraggio, dunque, perché, oggi, la consegna segreta sembra che sia: «sfruttare i ti47

toli famosi)). Dopo il Ponte dei sospiri, il Fornaretto di Venezia e altre neo-gotiche vicende, che hanno avuto la loro brava trad uzione cinematografica, ecco profilarsi le ombre delle portatrici di pa­ ne, dei fiacres numero tredici e dei fabbri del convento. Si dica quel che si vuole, appare sempre più evidente che Dumas padre e i suoi cinq uecento romanzi hanno sbagliato di secolo e molti soggettisti odierni di mestiere: pure consola in tanto rovistamento di scaffali trovare qualcuno che le storie dei suoi soggetti preferisce inventarsele da sé. Non che siano, - è umano - grandi e sublimi invenzioni create per dare il loro no­ me al secolo, ma sono pur sempre il segno confortante che qual­ che prod uttore ama ancora azzardare l'incerto del «viven te)) per la sicurezza del «trapassato». E, perciò, anche se i film che risultano da questo coraggio danno talvolta torto al prod uttore, noi non possiamo che dargli ragione. Lo spettatore , purtroppo, non ama fare il nostro ragionamento. Per lui non esiste che un solo elemento di giudizio: il risultato. Del resto (delle intenzioni, cioè) poco s'interessa, anzi, nella maggioranza dei casi, dichiara di non voler saper nulla di proposito. In cambio dei suoi soldi vuole uno spettacolo e non fa niente se «storico>> . (Anzi quando i costumi e l 'epoca sono suggestivi, preferisce il film storico che sembra appunto più «grosso» e ammannito del film ordinario . ) S e non c i fosse, dunque, u n po' d i coraggio i n giro, tra poco sa­ remmo di nuovo ai film a dispense. Per la salvezza del nostro cinema, noi non vediamo altra so­ luzione, invece, di un più assiduo studio della realtà da parte di tutti, registi e sceneggiatori e, soprattutto, soggettisti. Verrebbe a salvarsi, senza parerlo, anche il gusto degli spettatori . E qui per realtà s'intendono le avventure della nostra vita quotidiana, le lotte, le vittorie di questo precipitoso secolo e la necessità di alimentare certi moti spirituali . Ma non passate, queste avven­ ture, attraverso le deformazioni pochadistiche o sentimentali; riprese, invece, con occhi liberi senza vetri rosa o azzurri. Si do­ vrebbe poter giungere insomma, ad alcune basilari conclusioni ottimiste passando attraverso anche crudeli , cioè reali, esposi­ zioni della vita . E, tanto per fare esempi, per conclusioni ottimi­ ste noi intendiamo quelle contenute in La folla di King Vidor e persino nel macchinoso Carnet de bal. Poiché dove c'è la visione di una sofferenza c'è anche, non bisogna dimenticarlo, un inse­ gnamento molto preciso e salutare. Questa settimana ci ha portato (tra i film con soggetto di ispirazione attuale) un Ricchezza senza domani, dell'Alfa- Film . È una storia che avrebbe voluto ispirarsi agli stessi concetti che 48

noi abbiamo nelle righe preced enti frettolos amente espress i : cioè riprendere una certa verità d i vita e d i soluzioni . Senonché gli ignoti e coraggiosi soggettisti hanno leggermente mancato la scelta del «punto pros pettico». Si son fatti, vogliamo dire, trop­ po da presso a ciò che volevano raccontare e non ne hanno po­ tuto collegare le parti . Pure le loro intenzioni non sono affatto dozzinal i . Ricchezza senza domani vuole abbinare tre drammi; ve­ diamo un grande industriale, senza figli, meditare sull' avvenire della sua opera, il giorno che non potrà più seguirla . La moglie di costui è una fu tile creatura invecchiata nei salotti e, sembra, preda di adoratori senza scrupoli. Ecco arrivare dalla Francia, in questa casa senza gioia, una giovane nipote: il vecchio indu­ striale finisce per affezionarsi a questa creatura e poiché costei, in seguito, gli confessa d'esser innamorata di un giovane mar­ chese senza soldi, egli le «compra)) il marchesino con una grossa dote che renderà possibile il matrimonio. E, dopo di ciò, l' indu­ striale si ritirerà dagli affari lasciando le officine ai suoi fedeli colla bora tori . Il torto dei soggettisti , secondo noi, è s tato quello di aver considerato i tre drammi (dell 'industriale, della moglie e del marchesino) separatamente, senza cercare una soluzione a tutti e tre nella loro fusione. Per spiegarci : la verità era già abbastan­ za servita con la esposizione dei «tipi)) : si sarebbero dovute ser­ vire anche le ragioni dell'ottimismo. Non avremmo trovato niente di male, per esempio, se il giovane marchesino avesse ri­ solto i crucci c;lell'indus triale, invece di restarsene in ombra alla fine, dopo aver per tu tto il film attirata l' attenzione e la speran­ za dello spettatore . I l dramma, insomma, è già dato nel titolo, più che nello svi­ luppo. E manca, perciò, di sorpresa . Ricchezza senza domani ha però pregi che fanno sperar bene. C ' è un coraggio insolito nel presentare i tipi e non manca una certa ripresa dal vero, uno studio plausibile dei sentimenti umani. A chi dirà che il film è sbagliato potremmo rispondere che sarebbe bene che i produt­ tori sbagliassero più spesso, con serietà e costanza, nell'interes­ se del cinema. Per ottenere, cioè, risultati migliori in seguito. Nella regìa d i F . M. Poggioli abbondano i buoni momenti : la sua descrizione dei personaggi e la proprietà della loro recita­ zione ha qualcosa di consolante. Gli attori sono .parsi a posto lo­ ro , quasi tutti . Paola Borboni ha svolto il suo giuoco accorta­ mente e con molta leggerezza umoristica. Lam berto Picasso troppo abbrutito dalle sventure del suo personaggio e dal truc­ catore ha dato un'efficace, ma talvolta melodrammatica, inter49

pretazione dell '> . L'altra sera al Su percinema, la folla faceva ressa ai botteghini con la stessa soddisfazione che aveva mostrato nei bar, il primo febbraio, alla ricomparsa del caflè. Un pubblico intelligente, insomma, che non ha lesinato gli applausi a nessuno, poiché ha capito che non era il caso, finalmente, d'essere avaro . All'apparire dei titoli, ciascun nome dei collaboratori veniva sottolineato da un caldo battimano. E noi, in piedi, per la grande ressa, portati dalle agi­ tazioni della folla ora a un pa i mo dalle sopracciglia di Falconi , ora a pochi centimetri dal grazioso cappellino di Elisa Cegani, abbiamo fatto i nos tri applausi anche a nome di voi lettori . La recitazione è stata, si può dire, superiore persino al film . Qui bisogna subito dire che Gino Cervi ha reso il personaggio con un gusto e una severità rare: né da meno è stata Rina Mo­ relli nel ruolo della duchessa di Torniano: benissimo addobbata nei suoi abiti velasqueziani, quest'attrice sembra aver assorbito tutta l' esperienza delle grandi sophisticated americane ed aver­ vi aggiunto una sua particolare dote di italiana delicatezza. Lui­ sa Ferida non è stata inferiore e i suoi periodici ruggiti veramen­ te piacevoli. Di Osvaldo Valenti abbiamo accennato . Così an­ che di Umberto Sacripanti, nos tro compagno di posto al cine­ ma. ( Sarà bene avvertire che eravamo seduti su uno scalino . ) Enzo Biliotti molto corretto e così tutti gli altri sino all ' ultima comparsa. Se questo film non fosse servito ad altro che a confor­ tare il pubblico sulla riserva di attori , di comprimari e di generi­ ci del cinema italiano, già sarebbe giustificato . Ma le sue doti sono ben più alte, e le promesse che gli autori implicitamente fanno per l'avvenire ben più confortanti . 21 febbraio

3 7 . Equivoco del tabarin La Taverna rossa a quel che ci è sembrato di capire dal rac­ conto, è un locale notturno della nostra capitale: un locale di ot­ tima architettura, frequentato da gen tiluomini in marsina e da signore in abiti scollati, servito da camerieri educatissimi e pre­ murosi e, soprattutto, un locale dove regna l'allegria. A parte che questo locale si rivela per noi una grande sor­ presa (non tanto per gli elementi frequentatori quanto per la particolare compitezza del personale di servizio) , ci dispiace il 52

fatto che il soggettista, avendolo scoperto, non abbia cred uto opportuno segnalarlo prima d' oggi per lo sviluppo della vita tu­ ristica e mondana di Roma . Una sola volta il caso ci ha portato in un locale notturno romano: e fu mmo, quella vol ta, rapida­ mente circondati da qualche paio di camerieri ironici e occhi eg­ giati da certe distintissime signore che subito dopo la rapida co­ noscenza mostrarono un desiderio sfrenato di bambole; bambo­ le che bisognava acquistare nella sale tta dei giuochi. Questa esperienza c'insegnò, se non altro, a diffidare di tutte le rosee rappresentazioni cinematografiche di tabarin: quelle rappresen­ tazioni che più d'essere riprese dalla realtà sembrano dettate dal desiderio mondano dei realizzatori . Volentieri chiederemmo al regista Bonnard , per esempio, lui che tutte le sere va modestamente a mangiarsi le tagliatelle e a bere mezzo litro al Grappolo d 'oro, come mai gli regge il cuore di mettere sempre tabarin in ogni suo film, di non esser preso, ogni volta che è costretto a rappresentarli, dal disgusto che il falso e l'orpello danno alle persone perbene. La cosa più grave è questa: che certi tabarin nessuno si è mai sognato di vederli . I l prod uttore li chiede per far «ricco e mondano» il suo filmetto, il soggettista li adopra per risolvere le situazioni , il regista spera di imbrogliarci il pubblico, e gli attori di mostrarvicisi in tutta la loro gaia abilità, coi loro abiti più costosi e raffinati. Questo in teoria. In pratica succede che il pubblico alla vista di un tabarin annusa l' inganno e si fa dif­ fidente; che il soggettista non risolve le situazioni, sperando nel diversivo dei numeri di varietà, nelle canzoni, ecc . ; che l ' archi­ tetto disegna il solito salone senza fantasia né sorpresa; e che, infine, il regista vi rimane dentro fino al collo e impaniato con la macchina e gli assisten ti. D' altra parte, mai si studierà ab­ bastanza l'influenza dell'ambiente scenico sul povero attore . Pronto a mimetizzarsi per sua natura, messo in un tabarin non farà che esprimere tutto l' equivoco, gli ideali sbagliati che vi circolano dentro e apparire vuoto e inespressivo come una bottiglia stappata. . È la prima volta che vediamo la signorina Alida Valli nelle sue funzioni di attrice. Prima d'ora l' avevamo vista soltanto co­ me «fotografia» nelle rivendite dei giornali, in questo stesso set­ timanale, nelle vetrine di pubblicità e persino in qualche film . Una rivista pubblicò persino una serie di istantanee nella quale si ammirava la nostra giovanissima «stella» qua in atto di levar­ si dal letto, là in procinto di partire per una gita e via di seguito: intenta ad annaffiare i fiori del suo terrazzo , a pettinarsi, a fare 53

la ginnastica. Si capiva, insomma, che Alida, bene educata e sorvegliata, svolgeva la sua vita intima fra tutte le comodità de­ siderabi li. È indubbio che per migliorare un attore queste co­ modità ci vogliono, ma bisognerebbe anche chiedersi sino a che punto possono ottundere la parte insondabile (diciamo pure in­ tellettuale) l'incontentabile spirito di ricerca di un artista. Ci sembra che il riguardo del mondo cinematografico verso le gio­ vani promesse è simile a quello degli allevatori di cavalli verso i pu ledri. Mille preoccupazioni per ciò che concerne il tono, la bellezza, la messa a punto fisica e pochissime, di conseguenza, per lo sviluppo delle qualità intellettive, per le «reazioni» d'or­ dine più propriamente artistico. Vorremmo sapere quante giovani attrici sanno, dopo tutto, recitare quattro versi senza dare l'impressione di essere scola­ rette o analfabete. Nel caso di Alida Valli questo du bbio non esiste, d' accordo: ma egualmente l'enorme credito che si fa alla sua bellezza fisica finisce col nuocerle. Eccola diventata una perfetta «fotografia», una maschera piacevole ma inespressiva. Essa in questo film ( anche per colpa del regista) resta la bella ragazza delle istantanee, no!! un' interprete e sembra inattacca­ bile dai pensieri come è appunto, mitologicamente, rappresen­ tata Venere. Per finire, un tiro che non esiteremo a giudicare cattivo è stato giuocato, all'attrice, dalla figurinista Titina Rota. Drappeggiata in certi modelli audacissimi e scombinati, Alida ricordava quelle bambine che giocano coi vestiti della mamma a farsi le visite. Non racconteremo, stavolta, il fatterello del film, opera di Gherardo Gherardi. La penna ci preme sotto le dita nella ricer­ ca del giusto aggettivo da apporre alla trama evanescente e sfi­ lacciata . In Taverna rossa tutto accade perché si crede ancora, ne­ gli uffici di certi prod uttori, che il pubblico sia un perfetto creti­ no che va al cinema disposto ad ascoltare tutto pur di essere la­ sciato in pace. Nella Taverna succedono un migliaio di equivoci . Le storie dei tavoli prenotati, Alida Valli che si fa passare per contessa, il conte che si fa passare per ladro, lo zio del conte che li crede marito e moglie, il vero ladro che crede di trovarsi tra colleghi : quanta pazienza occorre a d un povero spettatore, che è co­ stretto oltre tutto, a vedersi il «prossimamente» di Rosa di san­ gue e la spiegazione della carta annonaria, data dal film Luce. Che diremo di Andrea Mattoni se non che ci ricorda la reci­ tazione sufficiente e troppo sicura di molti attori del cinema te54

desco? E di Lilia Dale, anch'essa peggiorata da certi cappelli in­ verosimili e di tutti gli altri attori , incanalati in una regìa (di Neufeld ) lesta e sbrigativa come gli spaghetti al burro? Nessuna lode, infine, possiamo fare allo sceneggiatore, Aldo De Benedet­ ti . Tutti i luoghi comuni, le frasi da manuale, le «botte e rispo­ ste» stavano sulla colonna del film, insieme all 'interminabile tango. Cosicché quando lo «zio» molto candidamente e senza intenzioni parodistiche, afferma che lo «chiamano Mimì ma il suo nome è . . » il pubblico prorompe in un urlo forsennato: «Lu­ cia ! » . E così non sapremo mai, oltre tutto, come si chiama lo «zio Mimì» . Un biasimo particolare merita l'addobbatore. .

28 febbraio

38. Secondo episodio Dopo il successo enorme del primo film la Universal ha cre­ duto bene di dare un seguito alle tre ragazze in gamba. Per ora ci vien fatto sapere che le tre smart crescono e, sembra, abba­ stanza regolarmente. Sarebbe certo il caso di chiedersi se non avremo, col tempo, le tre signore, le tre madri, le tre nonne in gamba, ammesso che le avventure dei personaggi maturi con­ servino il tono sentimentale e spigliato che è richiesto dal cine­ matografo. Il fatto che un personaggio entri nelle simpatie del pubblico è un buon segno dello stato di grazia in cui questo pubblico si trova . Il signor Dumas scrisse, senza troppo credere a ciò che faceva, soltanto per l' amore del guadagno e per placare la fanta­ sia, una storia del signor d' Artagnan non immaginando nem­ meno, scrivendola, che i lettori l'avrebbero costretto a scrivere non uno ma due seguiti . È nota anche la patetica condizione di quell'accanito e, purtroppo, malato lettore che ogni giorno se­ guiva sull'appendice del suo giornale le avventure del visconte di Bragelonne; costui, sentendosi vicino a morire, chiese all'au­ tore del romanzo di sapere come {{sarebbe andata a finire» . E il buon Dumas gli mandò manoscritto, appunti e il resto glielo spiegò a voce. Succederà anche a noi di chiamare d ' urgenza il regista Koster e pregarlo di sviscerarci le sue intenzioni circa la defi nitiva sistemazione della sua eroina, Penelope C raig? O Penny è già destinata a uno stato di eterna puerizia, come Peter 55

Pan, per sciogliere disin teressatamente i nodi futuri della sua distinta famigliola? Il film a episodi, un tempo, era atteso e seguito con maggior interesse dei film comuni . Chi ricorda ormai quelle care ombre che ogni sera vivevano un pezzo della loro avventura frenetica? Verso la fine di ciascun episodio il povero protagonista - che noi «vediamo» sempre nei panni della bruna e gentile Pearl White ­ si metteva nei pasticci allo scopo ben preciso di allarmare gli spettatori e convincerli a ritornare la sera dopo. Erano gli anni facili del cinema, e un film si girava in meno tempo di quanto ne occorreva poi per proiettarlo, tenuto conto delle frequenti rottu­ re della pellicola. Era l' epoca in cui i tentativi «artistici>> non ve­ nivano nemmeno immaginati e sola preoccupazione della trou­ pe era di raccontare nel modo più chiaro e agitato possibile sto­ rie piene di fascino e di ingenua verità. In seguito gli estetismi, i concetti rari, la preponderanza del mezzo sul fine, finirono per produrre, volta a volta, bravi fotografi , superbi attori, ottimi re­ gisti , precisi scenografi ; ma la bella disposizione al racconto s'andò sempre più affievolendo. Vennero fuori film «particolari­ stici» pieni di intenzioni riposte, pericolanti qua e là, ricchi d'in­ gegno e corti di gambe . Il cinema americano, secondo noi, è quello che ha più resi­ stito sulle vecchie posizioni. E, pur con l' avvento del Regista, è riuscito a conservare il gusto per il racconto puro e a non presta­ re all'o biettivo un'intelligenza giudicatrice, ma soltanto un buon colpo d' occhio arguto e sereno e molta facilità di descrizio­ ne. Nel film di cui ci occupiamo questa settimana, le qualità ac­ cennate abbondano, anzi si può dire che non c'è altro. In ga­ stronomia, film simili, hanno un corrispettivo nei souffiés, soffi­ ci , dorati e facilmente digeribili. C'è den tro un po' di tutto ma il vero segreto è nella lavorazione, attenta, cavillosa; quaranta cuochi, insomma, per sbattere un uovo . Penny stavolta non deve ricond urre il padre in seno alla fa­ miglia ma diradare un doppio equivoco che minaccia la felicità delle due sorelle maggiori . Lasciate a loro stesse queste bambi­ ne non ne azzeccano una. La bionda crede d'essersi innamorata di un simpatico giovane e con costui si fidanza : mentre invece è la brunetta la vera innamorata e il giovane non ha parlato sol­ tanto perché incerto nei suoi sentimenti . Quando Penny si ac­ corge che la sorellina soffre, pensa di farle conoscere un altro giovanotto che la distragga . Senonché questo secondo giovane si innamora - ricambiato - proprio della promessa sposa, la biond a. La faccenda minaccia di restare insoluta, per la poca 56

attenzione che i genitori fanno ai casi delle loro figliole; ma Penny vigila e riesce a combinare le coppie con soddisfazione di tutti . La regìa di questo film è impeccabi le. A parte che Deanna Durbin è adoperata con molta parsimonia nelle sue funzioni di cantante, molt' altre sono le qualità della fattura. Prendiamo, per esempio, la presentazione dei personaggi nuovi ; nel caso preciso, il giovane amico di Penny invitato a pranzo per distrar­ re la sorella affiitta . Con una lunga chiacchierata ecco delineato il personiiggio: quando costui si mette al piano per suonare un valzer di Strauss , il pubblico non può fare a meno di pensare che l'irreparabile, nell' animo della biondina, è già accaduto; tanto il giovane si è prepotentemente imposto agli attori e agli spettatori, ed ha convinto di aver un'anima in riscon'tro alle sue qualità fisiche. U n altro personaggio ben ripresentato è il padre di Penny distratto sino all' assurdo. Né si può dimenticare una finissima notazione psicologica molto u tile al racconto : la lettera che la biondina scrive, compiaciuta di se stessa e delle proprie qualità letterarie. Soltanto il finale, per certa assonanza con quello di Accadde una notte, lascia un po' freddi e delusi: ma tutto lo svolgi­ mento del film è condotto destramente e felicemente . Ottima la recitazione di Deanna Durbin, tanto più lodevole se si pensa che questa giovane «stella>> non si lascia sopraffare dalle qualità canore e cerca di entrare nella parte soprattutto da attrice. C harles Winninger, il padre, è qui più vivamente dise­ gnato che non lo fosse nel «primo» episodio. Indicate nelle loro parti le due nuove sorelline, per quanto sorprenda la disinvoltu­ ra di Penny nel cambiare i membri del terzetto : stavolta ha per compagne N an Grey ed Helen Parrish, due attente e delicate at­ tricette. Bravissimi, infine, i giovani fidanzati . 6 mar;:;o

39. Chirurgia drammatica Nei personaggi d'un dramma il contrasto tra amore e dovere aumenta in proporzione diretta alle loro risorse economiche e alla condizione sociale. Più si va in alto con le rendite, più l'ad­ dobbo delle loro abitazioni è ricercato, più le preoccupazioni so­ no bandite, e più il contrasto suddetto si acuisce e diventa insa57

nabile nel cuore dei personaggi . Industriali, uomini di s tato e artisti di grido sono i più colpiti da questo dissidio che mina la pace in famiglia e scava solchi d ' insofferenza. A tali eminenti uomini vanno aggiunti i grandi chirurghi. Nella vita di costoro il dramma, che è sempre alle porte, avanza di corsa non appena le loro giovani e belle mogli si accorgono di essere posposte alle cliniche e alle difficili operazioni. Una gelo­ sia triste, la certezza di star sciupando la vita con uomini troppo legati al loro lavoro, le afferra e da quel momento (si sciolgano pure al vento le fantasie dei soggettisti) il destino del dramma e del film è segnato. A simili casi ci ha abituato il cinema ameri­ cano: il cinema italiano da parte sua non cede, ed ecco che nel Ponte di vetro si riconferma la nera ingratitudine delle mo g li dei dottori . Ma, dicevamo, è degno d 'attenzione notare come certi dissi­ di hanno bisogno di agiatezza economica nei personaggi per ben svilupparsi. Mai a nessuno è passato per la mente di rap­ presentarci contrasti simili tra povera gente, guardiani nottur­ ni, pescatori , operai e rispettive mogli : eppure non ci vuoi molto a dedurre che tra costoro i termini del dissidio esisterebbero peggiorati dal malumore di un'esistenza stentata . E le mogli dei poveri ladri , allora, cosa dovrebbero dire, sempre così in ango­ scia pei loro cari , un' angoscia che potrebbe a ragione disgustar­ le del matrimonio? La tradizione comunque vuole che siano le mogli dei dottori a sentire più dolorosamente l'insostenibilità di certe situazioni. Ma questa parzialità, diciamo pure sindacale, ben si compren­ de se si pensa che il marito-chirurgo potrà alla fine del film mo­ strare la sua alta generosità, salvando da una fine inutile e sfor­ tunata, in quattro e quattr'otto con un' audace operazione, il ri­ vale. Naturalmente data la retorica dell'assunto, non bisogna mettersi a urlare se i personaggi sono anch' essi retorici, fissati da una trad izione incrollabile. Dovremo accontentarci di figure stampigliate, di maschere per drammi borghesi e banali. Il dot­ tore sarà celebre, incipientemente calvo, con gli occhiali d' oro, lo sguardo miope e infelice che hanno i vitelli esposti nelle vetri­ ne dei macellai : e nasconderà nel suo animo provviste di ab­ negazione sufficienti per tutti noi . La moglie, piena anch 'essa di ottime qualità (tra le quali la costanza che metterà ogni sera nell' aspettare il ritorno del marito ascoltando pessimi program­ mi rad io) dovrà essere bella e ottusamente sensibile. Il terzo personaggw, pretesto fornito al dramma per precipitare, sarà 58

un giovane galante con l'orario d' ufficio meno severo di quanto non l' abbia il suo antagonista. Dal canto suo la vicenda, non avendo strade da scegliere, prenderà la più freq uentata. Avre­ mo la presentazione dei personaggi, i primi sussulti bovaryani della moglie, quindi entrerà il giovane, subentrerà la passione febbrile, e appena di tale passione ne sarà al corrente il marito, passeremo all' «incidente» . Il «giovane>> precipita (dalle scale o dall' aeroplano, secondo i film: nel nostro, dall' aeroplano) e pro­ prio al dottore toccherà operarlo. Lo spettatore a questo punto non si domanda nemmeno se il dottore riuscirà o no. Egli che si è visto seppellire più d ' un pa­ rente dagli sbagli di qualche chirurgo, al cinema non ha più dubbi perché sullo schermo i chirurghi sono tutti celebri . Giova aggiungere, per concludere, che dopo la prova di generosità for­ nita dal «marito», la «moglie», trepida e appassionata, ritorna al focolare, disposta ad accettare una vita di sacrificio, tra tutti i comfort moderni. I l ponte di vetro, sospeso tra l' abisso delle in­ comprensioni, non si romperà, dunque, nemmeno stavolta. Il film del regista Alessandrini segue fedelmente la nostra narrazione che è poi quella di un film americano del genere, vecchio di qualche anno: ne peggiora però le emozioni per la mancanza di un dramma aperto e deciso e perché si conduce la­ mentosamente sulle intenzioni liriche degli autori del soggetto. Il giovane perturbatore della pace domestica stavolta è stato in­ carnato in un pilota dell'Ala Littoria, per darci modo di apprez­ zare le benemerenze di questo ente nel campo dei trasporti aerei ed anche per necessità di racconto. Durante un viaggio aereo l'apparecchio nel quale si trova la signora Dorelli (la moglie del dottore) è costretto ad ammarare e a chiedere soccorsi. Questi arrivano, ma sull'apparecchio, oltre al pilota, rimane la signora Dorelli, per un incidente che il regista non tiene a mettere in chiaro, pur essendo di capitale giustificazione. I due passano la notte sull'apparecchio alla deriva e da questa comune avventu­ ra nasce la simpatia e in seguito la passione . ( I l resto è noto . ) Per ciò che riguarda gli interpreti , i personaggi non permet­ teranno di essere rappresentati che così come lo sono stati : uni­ lateralmente. Sono personaggi vittime di una simbologia mora­ listica: può essere divertente stabilire il per cento di protestante­ simo che si trascinano dai loro stampi originali . Isa Pola qui ter­ rebbe la parte della «moglie», sulla falsariga dei modelli ameri­ cani. Mogli inappuntabili che in vesti scollate abitano solitari e sfarzosi salotti : nella pubblicità delle riviste d'Oltreatlantico vantano anche i pregi della zuppa in scatola, e nello stesso tem59

po, così linde e pinte come sono, le scambieresti per presidentes­ se della rep ubblica. Filippo Scelzo, anch' egli fedele alla parte, quindi noioso: la sua rassegnazione monocorde riscuoteva la si­ lenziosa pietà dei mariti e il disprezzo dei giovani. Rossano Brazzi bene ci è parso nei panni del pilota, molto discutibile in quelli del sedu ttore : vestito da boxeur in borghese finiva col da­ re alle sue letterarie battute un divertente tono di satira. Risul­ tato involontario molto apprezzato dal nos tro gusto particolare di spettatori definitivamente corrotti . 13 marzo

40. Protagonista, l 'atmosfera Smarrimento è una storia molto confortante specie per chi, co­ me noi, crede che l' abilità letteraria del soggetto non possa gua­ stare un film ed è convinto che una certa cultura non rovini nemmeno chi di film si occupa per mestiere . Il soggetto è una puntata nel campo della psicanalisi , ma per essere cauta e discreta offre una sol uzione che non rende re­ pulsiva, come si sarebbe potuto immaginare osservando lo svi­ luppo di alcuni personaggi , la scabrosa materia che tratta. La vicenda si svolge quelque part en France durante l' ultima o, me­ glio, la penultima guerra e racconta di un giovane soldato che approfitta della sosta forzata del treno che lo conduce al fronte per chiedere al buon sergente il permesso di un'ora per salu tare la famiglia. Il villaggio è a due passi dalla ferrovia e il giovane vuoi soprattutto sapere cosa ne è della sua fid anzata della quale non ha più notizie. Quando arriva al villaggio , trova che la ra­ gazza - ch'egli aveva affidata partendo ai genitori - è diventata cameriera di una sordida bettola, agli ordini di un losco tipo possessore di un naso che incute timore e reverenza. La ragazza accusa la madre di averla scacciata per gelosia. Ma non poten­ do credere alle sue parole, il giovane torna dai genitori i quali, davanti al suo sconforto, confessano. La madre ammette di es­ ser stata cattiva, di non aver sopportato l'idea di perdere il figlio e di aver costretto la ragazza a lasciare la casa. Ed è. realmente questa confessione ardita, calma, la parte migliore del film . Do­ po di che si avranno nuove spiegazioni con la ragazza e riconci­ liazione. Il soldato trova anche il tempo, prima di raggiungere il treno con un' epica corsa, di dare una lezione al galante e nasuto 60

proprietario della bettola. M a non è che uno scherzo, questa le­ zione, se confrontata col bombard amento di cui poco dopo il io­ sco individuo rimane vittima. Mai, a dire il vero, bomba catlde con più drammatica opportunità e soddisfazione degli stessi bombardati . Ci sono film «grandi>> e «piccoli» . Ma queste distinzioni le intendiamo visivamente; film «grande», per esempio, è Lejour se lève e persino, in un certo senso lo era Squadrone bianco (se il raf­ fronto non sembra eccessivo) : «piccolo» invece ci sembra A buna Messias pur con i suoi milioni di comparse e piccolissimi tutti quei film che si annunciano attraverso le cifre della prod uzione. Quando lo schermo risulta pieno ed equilibrato e il ritmo del­ l'azione mantenuto abbiamo il film «grande», che respira, vive e funziona: è inutile aggiungere che l' aggettivo va inteso per giustezza e non per misura di proporzioni e che naturalmente lo adopriamo soltanto per uso interno. Smarrimento appartiene ai «grandi» pur senza essere un film impeccabile, anzi accusando difetti di lentezza e qualche difet­ tuccio di veniale retorica. L'interpretazione da parte di quella severissima statua che è Corinne Luchaire, del giovane jean-Pierre Aumont e dell' attri­ ce che impersona la madre è parsa fusa, intelligente, giustifica­ ta: né qui bisogna dimenticare il commento musicale di una su­ perba larghezza, dovuto ad Honegger. I l regista del film è Léonide Moguy, nuovo per noi, ma non certo alle prime armi, da quel che si può giudicare.* Tu tta l'u­ mida atmosfera del film, il paesaggio squallido e fangoso, le ba­ racche sconquassate, sono state verseggiate quasi con l' arte consumata di un Carné. I l titolo di questo film doveva essere T'aspetterò, ma i nos tri traduttori non credono di aver mai troppa fantasia e così è ve­ nuto stampato su certi manifesti l'avviso «Smarrimento» e a ca­ ratteri tanto cubitali che sulle prime abbiamo pensato a qualcu­ no che avesse smarrito qualcosa di molto importante e delicato . Si trattava invece, come i miei lettori avranno subito capito, proprio del film di cui ci stiamo occupando. Però questa storia dei titoli è sempre stata curiosa. Settan­ t'anni fa l'editore Perino pubblicava la Vita nova di Dante sotto il titolo La mia vita e i miei amori e vuotava i magazzini in poche set­ timane, dando un saggio luminoso della sua abilità psicologica: ma forse un cattivo esempio ai suoi posteri . ' Arrivato alla regìa nel 1 936, Moguy aveva raggiunto il successo con Prison sans barreaux (Prigione senza sbarre, 1 938} .

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Mai abbiamo capito perché, per esempio, Qualiry Street sia stato a suo tempo cambiato in Dolce inganno o Mr. Deeds Goes to Town in È arrivata la felicità : due titoli generici e banali contro due precise indicazioni della materia che quei film contenevano. Comunque in Smarrimento non c'è nulla che possa nemmeno per ischerzo o per lontana allusione rifarsi a quel titolo: sicché ci sa­ rebbe parso più logico, che una volta su questa china si fosse pensato, perché no?, a Mancia competente che offre almeno un si­ gnificato finanziario molto attraente pel gran pubblico. Per ac­ contentare il quale non è escluso che i nostri bravi traduttori uc­ ciderebbero il buon senso e la logica a colpi di fantasia. 20 marzo

4 1 . Molte ragazze in gamba Essere ottimi artisti e ottimi tecnici è la massima ambizione di molti cineasti; di quanti, cioè, non vedono nel cinema se non un mezzo di divertimento moderno e rimunerativo, senza scopi sociali o filosofici. Per questo ogni giorno ci viene offerta una quantità strabocchevole di drammoni vuoti come lampadine e di commediole fragili e zuccherate; e noi, il pubblico, eccoci co­ stretto ad assaggiarle tutte per mancanza di meglio, come bam­ bini che si sfamino con le caramelle. Il novantanove per cento dei film ha un valore ridotto, un compito euforico e momenta­ neo; e il cinema, senza l'altro uno per cento, ossia se si fosse con­ finato a svolgere un programma di solo passatempo, non avreb­ be mai conquistato le masse come ha fatto . Soltanto il «fatto umanm) portato sullo schermo risponde alle segrete aspirazioni del pubblico. Ma un avvenimento simile è così raro che si fini­ sce per andare al cinematografo spinti dal ricordo di qualche film e dalla speranza di trovarne di simili . Noi, di migliaia di film visti, sforzando la memoria, appena ne ricord iamo il succo di una ventina, forse di quaranta al mas­ simo; e tra questi balzano fuori vivi e precisi, anzi seguitano sempre a «girare» per conto loro soltanto quei film che hanno saputo agganciarsi a una nostra idea o a un nostro pensiero pre­ ciso. Per esempio La folla , Aurora, La tragedia della miniera, Ombre bianche, Acciaio hanno potuto comunicarci quelle soddisfazioni che si provano soltanto nello scru tare il campo del proprio de­ stino. 62

Si guardi del resto come le «stelle» trovino la popolarità e la conferma delle scritture sol tanto in cambio di quelle loro inter­ pretazioni ricche di studio o che mostrano le reazioni del fondo della natura umana davanti ai problemi della vita . Trascinan­ done l'interesse, l' attore ispirato fa partecipare lo spettatore alla sua azione: anzi lo spettatore si trova ad incastrare la propria personalità, e quindi la coscienza, nei conflitti e negli svolgi­ menti: vive il dramma di al tre creature come da solo non gli sa­ rebbe possibile pensare. Quindi è più grato al cinema se questo, in cambio della sua emozione, gli presenta qualcosa che ne val­ ga la pena, un problema sociale, umano, una questione che lo tocchi magari di rimbalzo. La fortuna del teatro drammatico dell'ultimo Ottocento va cercata in questa disposizione a guardare la vita e a volerne in­ dicare gli scogli evitabili; il cinema, per essere come quel teatro, naturalistico, si è trovato ad ereditarne anche i principi e fareb­ be quindi bene a metterli in pratica più spesso. Nient' altro gli si può chiedere, del resto. Riferibili a questo discorsetto sono le Ragazze in pericolo di questa settimana. I l film è di Pabst, ma di Pabst, accanito tecni­ co e regista, poco rimane e invece si rivede con nostro grande piacere l ' acuto moralista di Crisi. Un moralista alleggerito nelle sue batterie analitiche per conquistare la comprensione più lar­ ga, e le simpatie più pronte del pubblico. Tutto il procedimento minuto di quel film, che verteva su una donna in procinto di peccare, qui non gli è servito a nulla: c' era una tesi da svolgere, una tesi piena di nobiltà, e Pabst l'ha svolta cercando di colora­ re in rosa la vicenda, di alleggerire con un racconto molto agita­ to la tristezza del tema: il divorzio. I soggettisti avevano molti esempi a portata di mano e se ne sono serviti con compunzione ed eleganza, facendo i distratti: Tre ragazze in gamba, Ragazze in uniforme, Tramonto ed anche un film di Griffith del quale non ricordiamo il titolo ma che a suo tempo discusse lo stesso problema prospettando le stesse con­ clusioni . Agli esempi, il film odierno resta inferiore per l'interes­ se della vicenda ma superiore per l 'energia che mette nell'entra­ re in argomento. Qui il divorzio è chiaramente combattuto e bandito: ma di tutto il film, veramente convincenti restano il «ricevimento in collegio>>, dove ogni ragazza· si trova ad essere triste proprietaria di due padri e due madri, e il discorso del mi­ nistro che chiude sapientemente la storia. Tipici, questi discorsetti finali, nei film francesi! Finiti i fatti, riaccese le luci, asciugate le lacrimette, rimangono nella mente 63

a gi ustificare l' accad uto nella coscienza dei personaggi e del pubblico. In Occhi neri è un padre che ammonisce, con molto amore e intelligenza, la figlia sventata e inesperta; in Pel di carota pure a un padre è toccato d ' illuminare la coscienza ingarbuglia­ ta del p"vero figlioletto; ne L'isola delle vedove è un marito che di­ rada le nebbie dell 'i ncomprensione coniugale con un apprezza­ bile ragionamento. In Ragazze in pericolo, come abbiamo detto, l'ultima parola spetta ad un minis tro di Grazia e Giustizia della Repubblica francese. Costui ricorderà che le leggi vere ognuno le porta nel cuore e manderà a casa molto soddisfatte le piccole socie della «Lega contro il divorzio» : le quali socie sono, come il lettore avrà capito, le piccole collegiali, stanche di assistere alla rovina delle loro famiglie. Piene di intelligenza e di buona vo­ lontà costoro scrivono le leggi contro il divorzio, lo statuto so­ ciale e, malauguratamente, anche l'ossessionante canzoncina del film, dalla quale si apprende che la «Lecod ipà ( cioè la lega contro il divorzio dei parenti) "sulle mamme veglierà e sui pa­ pà")), Non troppo convinte per quanto volonterose, le piccole at­ trici . Micheline Presle è una Deanna Durbin senza sale né pepe e leggermente indisponente: le altre ragazze, incolori . Tra i «grandi)) la Delubac e la Chantal non ottengono maggiori ri­ ' sultati . La cosa migliore del film, insomma, la tes i . E a questa, al suo profondo significato umano, crediamo andassero gli ap­ plausi commossi del pubblico. 27 marzo

42. Jules Berry e Vera Korène Nei quattrocento film della prod uzione francese del 1 936, secondo una statistica pu bblicata dal «Cartel d' Action M ora­ le)), erano descritti: trecentodieci omicidi, centoquattro furti a mano armata, settantaquattro ricatti , quaran tatré incendi do­ losi, quattordici esempi di truffa, seicentoquarantad ue di omer­ tà, centottantad ue di falsa tes timonianza, centosessantacinque di furto , cinquantaquattro di incoraggiamento allo sciopero, centonovantadue casi di adulterio femminile e duecentotredici di adulterio maschile: un totale di millenovecentonovantatré delitti, con una media - tanto per essere precisi - di cinque de­ litti per ciascun film. 64

Il lettore che trovasse esagerate queste cifre, che Daniel Par­ ker riporta in un suo libretto sulla «responsabilità del film» , ha un modo abbastanza sbrigativo per controllarle, recarsi a vede­ re l' ultimo film di Yves Mirand e, Caffè lnterna::;ionale. Se si tolgo­ no l' incendio doloso e l'incoraggiamento allo sciopero - delitti questi che sembrano trovare la loro piena applicazione artistica soltanto nei film a carattere sociale - tutti gli altri delitti della nostra statistica sono largamente rappresentati nel film parigi­ no di cui sopra, con una certa civetteria, un' eleganza che li ren­ de quasi necessari. «C'est la vie!» direbbe rassegnato de Mau­ passant, anche i delitti debbono campare. In Caffè lnterna::;ionale i delitti campano .b enissimo, anzi scop­ piano di salute. Sono delitti mondani, in marsina, puliti e di­ stinti. Nessun sentimento li accompagna, soltanto una necessità drammatica vagamente sentita . Insomma i soliti delitti «lette­ rari>> che mischiano l'odore del sangue a quello dello spumante . Già altra volta accennammo delle differenti caratteristiche del film giallo anglosassone e del giallo francese. Il primo, ro­ manzato, condotto largamente, con serietà e precisione, verso un solo scopo : la ricerca del colpevole. Il secondo, invece, episo­ dico, si esaurisce lungo il cammino in situazioni secondarie, in battute brillanti, in osservazioni realistiche che tolgono ogni in­ teresse alla scoperta finale, ogni curiosità pel delitto. Noi preferiamo questo genere. A parità di condizioni immo­ rali , ci sembra più arguto, intelligente e meno colpevole. Non vi hanno luogo molti misteri, il lento aprirsì delle porte a mezza­ notte, i castelli scozzesi, le nebbie del Tamigi né tanto meno i soliti noiosi «maggiordomi». Quanto vi manca di atmosfera drammatica è compensato con una tranquilla esposizione dei fatti, con l'umore delle «inchieste», con l 'osservazione precisa e leggera dei caratteri umani. Yves M irande sta a metà strada tra Simenon e Van Dine, vuol conciliare le due opposte tendenze e vi riesce. Letterato e cineasta insieme, più che la pazienza del romanziere ha il gusto del bozzettista. Se ne sta ad orecchie te­ se, d urante tutto il film, ad acchiappare le «autentiche» e le «colte al volo» con la pazienza di un camaleonte. Se il suo Caffè, alla fine, si muove, respira e cammina è grazie. alla serie di rive­ lazioni capillari che riesce a condensarvi . Le piccole miserie dei locali notturni vi sono disegnate non con l' abilità del calligrafo, ma con la matita paziente dell'osservatore. C'è, insomma, una stretta logica tra il padrone, i camerieri, l ' aria affumicata e pro­ fumata del caffè, i clienti e il disgustoso delitto. Non vi sono, in­ vece, personaggi fissi, come succede per i film americani, cioè 65

non vi sono buoni, cattivi , innocenti e colpevoli, nettamente di­ visi. I personaggi sono formati di pasta umana, capaci di tutto e di niente. Il delitto è compiuto da tutti in coro, dal loro incerto modo di vivere, e se uno soltanto lo commette materialmente e va in galera, è certo per necessità superiori, per non annoiare lo spettatore, e, forse, per non affollare troppo le carceri . Sono note le difficoltà che incontra una macchina da presa che vogl ia girare tra i tavoli di un finto caflè notturno: rischia di essere monotona, superficiale e luogo comune. Un recente esempio italiano ci avrebbe sorretto solidamente e per sempre in questa opinione se non fosse venuto il film di Yves Mirande a riproporre il problema nei suoi termini più giusti, che non esi­ stono cioè luoghi difficili , ma soltanto macchine poco agili . Caffi Internazionale si svolge tra quattro pareti , con dieci tavolini, qua­ ranta sedie e altrettanti attori : eppure non si avverte il minimo senso di chiuso e di falso. Seduti in poltrona seguiamo attenta­ mente quanto succede sperando soltanto di non essere sospetta­ ti noi del delitto. La grazia dell'autore e la disinvoltura del­ l'operatore fanno raggiungere al pubblico il suo scopo vero, quello per cui spende, ogni volta, dalle due alle quindici lire: es­ sere «spettatore». È la fine dell'anno. Allo scoccare della mezzanotte, nel caflè internazionale, nella compiacente oscurità, tutti si scambiano abbracci e auguri . Quando si riaccendono le luci, un cliente vie­ ne trovato con la testa poggiata sul tavolo e un coltello nella schiena. Si tratta di un losco ricattatore, di un giornalista: e molti dei presenti avevano interesse che finisse in quel modo. L'inchiesta è condotta molto scioccamente e si sospetta di quasi tutti i clienti . Due personaggi, il galante J ules Berry e la bal­ zachiana Vera Korène, giungono persino, sotto le domande del commissario, ad accusare ognuno se stesso per scagionare l'al­ tro . Quanto ai clienti meno indiziati, avviene per loro come in Souper di Molnar che, tutti credendosi sospettati , cercano le col­ pe altrui, rinfacciano i sospetti e litigano. Alla fine, per caso, si scoprirà il colpevole. Costui avrà tutte le simpatie del pubblico e la festa riprenderà allegramente. La galleria di tipi ordinata dal regista è forse la più completa che si sia vista in film del genere; e gli attori stanno ognuno nel­ la propria cornice con sorprendente naturalezza. Oltre i due at­ tori già citati, che fanno meraviglie, si vedrà il giovane Pierre Brasseur, con le sue mascelle da carpione, e la migliore scelta possibile di caratteristi . L'attore che fa il «commissarim> , per esempio, è l'incarnazione dell'idea che noi abbiamo di un così 66

mitico personaggio. Dopo averlo visto due volte, (la prima in Dietro lafacciata) cocciuto e gloriosamente inconcludente, non ci si venga più a parlare di Maigret e Poi rot. È questo ormai , per la sua decisa aderenza alla realtà, il «tipo» che preferiamo . 3 aprile

43. Connie, la preziosa Recentemente, e forse a proposito di questo film, due critici di cose cinematografiche sono caduti in una graziosa e breve po­ lemica per stabilire perché e quanto Constance Bennett avesse diritto di essere considerata una grande attrice . Gli argomenti dei due cortesi avversarì (il primo ha affermato che Connie è una «cagnetta viziata» , l'altro ha rammentato da quali rami scende l' attrice) sono stati apprezzatissimi: ma, secondo noi, di­ scutere di attori del cinema è un poco perdere il proprio tempo: sono le ombre più care, ma più deformabili del presente. I n qualche caso particolare vien fatto persino di accorgersi che non esistono neppure e chi vuol capirci pensi per esempio alla inglo­ riosa sorpresa di Burgess Meredith nel Povero milionario dopo la perfetta evocazione che in Winterset aveva fatto del figlio del giu­ stiziato. C i si accorge, allora, che l'attore cinematografico non è che il risultato momentaneo di parecchi sforzi convergenti. I quali sforzi debbono ripetersi con la stessa intensità perché l'attore vi­ va ogni volta. Gli occorrono il regista, il produttore, il soggetti­ sta e una pleiade di tecnici senza dei quali rimane un volto qual­ siasi; l' attore di teatro invece può anche da solo mostrare il suo valore e ottenere il successo e le condizioni di tempo di luogo non possono disturbarlo né tanto meno la mancanza d i un «sog­ getto». Ermete Novelli, infatti, riuscì a far piangere i clienti di una trattoria, d eclamando la lista delle vivande . Sere fa la riesumazione d i un vecchio fi l m italiano c i ha mo­ strato su quali basi poggia il giudizio e l'ammirazione comune per l'arte di un attore; colui che sino a ieri veniva ricordato co­ me un tragico - vogliamo dire il grande Giovanni Grasso - lo schermo lo ha implacabilmente documentato per un discreto comico malgré lui. L'obiettivo non abbellisce i suoi ricordi come fa la memoria con noi: tutto quel che ha fissato rimane e il tem­ po non può che aggravarla implacabilmente. Anche Constance 67

Bennett sopporterà questo processo inevi tabile. I suoi cinquan­ ta vestiti a film, che ora interessano, si osservano con ammira­ zione incond izionata, - specie da parte del pubblico femminile ­ tra qualche tempo si riveleranno per cinquanta punti a suo svantaggio, cinquanta appigli all'ironia e al ridicolo dei futuri spettatori . Né da meno potrà essere considerata quella leggera aggressività della diva, quel suo preziosismo stanco e naufraga­ to, il suo modo di torcere la bocca come se tu tto fosse da rifare , anche il pubblico che la sta guardando . Lo spettatore intelligen­ te dovrebbe antici pare il processo del tempo e ri uscire a diver­ tirsi non alla Bennett che è oggi ma a quella che sarà domani quando i suoi film, i suoi atteggiamenti potranno dare il nome ad un' epoca, quando si potrà dire bennettismo come oggi si dice borellismo per indicare un certo gusto floreale degli attori d ' an­ teguerra . Del resto Constance è proprio una Lida invecchiatel­ la, preda definitiva delle sarte e degli istituti di bellezza, grande attrice senza ardori che, appunto per la preoccupazione di supe­ rarlo, ogni volta resta staccata ed estranea al personaggio che interpreta. Servizio di lusso appartiene a quella formula che costringe la realtà ad eseguire un grazioso balletto. Constance Bennett vi ha la parte della proprietaria di un istituto che provvede a tutte le esigenze dei propri clienti . Lo studente sospeso dalle lezioni, il signore che deve sposarsi, il finanziere in imbarazzo si rivolgono all'istituto Davidson e ricevono suggerimenti ed aiuti pratici . La trovata non sembrerà così eccessiva in America dove gli uffi­ ci informazioni hanno già una loro letteratura, e offrono molto spesso argomenti ai disegnatori dei magazines . La signora Da­ vidson ha modo, nel suo ufficio, di conoscere un giovane inge­ gnere e di innamorarsene subito. Quest'ingegnere è alto quanto tutto lo schermo e pensa di costruire una macchina agricola che, per le sue caratteristiche, rivoluzionerà il mercato. Come riuscirà a costruire questa macchina è presto detto . La Bennett lo presenterà ad un ricco ingegnere in riposo - che è da parte sua dominato dal chiodo della gastronomia - e in casa di costui il giovane potrà lavorare disturbato soltanto dalla vol ubile figlia del suo ospite. Per complicare la vicenda, giovane ingegnere e vol ubile «figlia)) correranno il rischio di sposarsi. Miss David­ son col cuore spezzato provvederà, come è suo ufficio, alla ceri­ monia, la quale, come accade ormai nella migliore tradizione ci­ nematografica, si farà soltanto per i due innamorati . La «volu­ bile)) sposerà invece il suo cuoco. Il film può essere meglio definito dicendo che vi ha parte 68

l'attore Mischa Auer. Costui non fa che proseguire, da L'impa­ reggiabile Godfrey in poi, la sua carriera di geniale scroccone eu­ ropeo . In questo personaggio si potrebbe vedere anche una gar­ bata satira, se questa satira non fosse ormai troppo generica e diluita. Una piacevole arguzia è invece nel disegno del ricco in­ gegnere il quale vedendo sua. figlia sposa al cuoco-principe rus­ so, si chiede estasiato se, per caso, avendo ormai per genero un principe, non debba considerarsi re. Film di lusso come questi contano soprattutto sugli attori e il lustro della messinscena: le illustrazioni dell' «House Beautiful>) vi hanno lo stesso peso de­ gli attori che qui, oltre la Bennett e l'Auer, sono gli ottimi soliti caratteristi del cinema americano: Charlie Ruggles , Helen Bro­ derick, ecc. Vincent Price, il giovane ingegnere, si impone più col peso fisico che col suo genio. La regìa, di Rowland V. Lee è, naturalmente, calcolata a serie, brillante e nuova di zecca . IO aprile

44. Cinema e falsa finanza Se per un giudizio ci si può basare sull' esperienza delle cine­ matografie d ' altri paesi, un cinema italiano potrà esistere il giorno in cui comincerà a descrivere la nostra vita, a entrare nei particolari delle nostre abitudini. I nvece spesso ci domandiamo cosa può interessare ad uno straniero , Cioè a una persona che voglia, attraverso un film, farsi un'idea della nostra esistenza, quell ' I talia che di solito vien portata sullo schermo, quelle Ve­ nezie e Napoli zuccherate: quei piccoli conflitti in cui i tenori hanno tanto posto e le ragazze imbambolate così larghe vittorie. Niente, è facile immaginarselo. Per l'obiettivo l ' I talia non esiste che turisticamente: e questo è un preconcetto più dannoso di quanto non sembri a prima vista. Per rispettare quell'idea, nei nostri film, poco succede che non sia troppo rispettabile, troppo insipido, di una normalità raccapricciante. Tutto sembra acca­ dervi in sogno e per di più in un sogno labile, di quelli che appe­ na svegli non se ne ha più il ricordo. Figure scialbe, trame senza energia, attori che non riescono a viverle (e vorremmo vedere chi potrebbe esser capace di tanto) , registi che non sanno dove afferrarsi e scivolano nei luoghi comuni come in un otto volante, a tutta velocità. Quando però si vuoi salvare la situazione, inte­ ressare il pubblico, ecco che si deve ricorrere, per dare un am69

biente al film, ad un ipotetico «estero>> che molto spesso è un paese danubiano. Se poi la trama richiede anche qualche picco­ lo delitto d ' immoralità è la Francia che si presta gentilmente. Nel film Dora Nelson si arrivava persino a un geniale compro­ messo: i personaggi si spostavano a Cannes o a Nizza, giusto il tempo necessario per contravvenire la morale (c'era di mezzo un ricatto) , e poi tornavano in I talia. I danni che un simile sistema può prod urre col tempo sono questi : il disinteresse all' estero per la nostra prod uzione e quin­ di esportazione ridotta. Per il nostro pubblico invece non resta che lo sconforto di vedere insulsaggini o falsità a seconda dei ca­ si. E tutto ciò perché ci si ostina a non guardare in faccia noi stessi e a rifiutarsi di pensare un attimo solo . Il pubblico vuole vita, sentimenti plausibili, anche eccessi, ma non roba in iscato­ la, rimasticature, adattamenti e versioni. Eppure dalla Segretaria privata in poi, i «falsi» seguitano tranquillamente a pullulare e col tempo ci abitueremo a vivere di trad uzioni e a risparmiarci ogni piccola fatica. Questi Centomila dollari di Camerini vengono a darci un altro colpo nel mazzetto di illusioni che conserviamo per le sorti del nostro cinematografo. Camerini è un regista che si è sempre sal­ vato dal mare delle imitazioni e dei lenocini ed ora invece ci ca­ sca anche lui a piedi uniti . Nel suo film si parla di pengos , di dollari, di amore ungherese, ma si capisce che l'Ungheria c'en­ tra per ragioni che col film hanno poco da fare. Vi si vedono at­ tori e paesaggi chiaramente italiani dati per stranieri con una impudenza che consola (e non si capisce che il cinema si diffe­ renzia dal teatro e non può permettersi certi lussi) . Il motivo di questa naturalizzazione in blocco va cercato presumibilmente nel fatto che certe situazioni sarebbero state mal giudicate se date per italiane. Ma siccome resta il fatto che il film è italiano, ci si domanda alla fine, visto che la morale non ci guadagna nul­ la dalla finzione, chi è che può guadagnarci (all'infuori delle ca­ se editrici) : non certo la nostra cinematografia. Di Camerini ci sono piaciuti quei suoi film «fatti in casa», buoni , con personaggi umili e discreti, vaganti in appartamenti di tre camere e cucina, presi in lacci amorosi scioglibili presto e con poca spesa: Gli uomini che mascal;:,oni!, Il signor Max e così via. Perché ora Camerini abbandona la sua vena intimista per cor­ rere l' avventura del comico-sentimentale e del brillante a tutti i costi? Abituato a un amorevole e ironico commento dei suoi personaggi (che erano vivi e che tutti potevano riconoscere nei veri autisti di piazza, nelle c� mmesse, nei ragionieri , eccetera) 70

Camerini in Centomila dollari si trova in im barazzo. La cosci enza gli ha suggerito di fare la satira a un mondo falso (inventato proprio dal cinematografo ) ; al mondo dei-colpi-di-fortuna e del­ le scommesse esotiche. La prudenza gli ha ingiunto di prendere sul serio quel mondo e di fare il film «corrente» . Ne è venuta fuori una cosa molto ben eseguita, perché Camerini conosce il suo mestiere, ma impagliata e fredda . Un C amerini senza Ca­ merini, per intenderei, quindi, almeno per noi, privo d'inte­ resse. Nel suo ultimo film si vede il Miliardario Americano inva­ ghirsi improvvisamente della Giovane Ungherese Onesta. Co­ stei è telefonista nello stesso albergo in cui è istallato il Miliar­ dario, e deve fidanzarsi con un cugino. Il Miliardario pur di averla a pranzo con sé, promette al neofidanzato centomila dol­ lari . Indignazione dei familiari della ragazza, del fidanzato stes­ so: poi , sfumata l' offesa, si pensa di accettare e la ragazza viene spinta verso il Miliardario Americano che, tra un telegramma e una telefonata, riesce appena a farle la corte. Ciò che ne conse­ gue è presto detto: prima diffidenza, poi simpatia, infine amore reciproco. Dopo alcune peripezie comico-drammatiche i due si sposano, sempre nella verde Ungheria dell'Agro Romano. L'interpretazione, se si toglie la finzione cui erano costretti gli attori, è stata molto buona. Assia Noris e Amedeo Nazzari hanno svolto le loro parti con molta circospezione e desiderio di farsi perdonare il falso congenito. Gli altri attori, Maurizio D'Ancora e Gazzo lo in ispecie, comici e discreti . La colonna so­ nora raramente così perfida, specie nelle scene d' insieme. ·

1 7 aprile

45 . Castelli letterari I l Romanticismo ha fatto la fortuna dei castelli e delle loro leggende e, seppure oggi generalmente si dichiari che l' epoca non è romantica, i castelli e le leggende seguitano ad avere tutta la fortuna possibile. Non importa se Oscar Wilde ha scritto un Fantasma di Canterville dove si vede appunto- un povero e inno­ cente fantasma di un castello inglese diventare la melanconica vittima degli scherzi dei nuovi e spregiudicati proprietari; e se René Clair di tale storia ha fatto una brillante parafrasi nel suo film Il fantasma galante. Il pubblico ride, si diverte, ma non si 71

convince. Il fascino delle storie misteriose, che sfociano nel re­ gno dell'impossibile, riprende il vantaggio su di lui e lo mantie­ ne. Confessiamo di amare queste storie che presuppongono una quinta dimensione e una tendenza letteraria del Destino. Poe ha gettato il seme, molti hanno profittato del raccol to . Per restare nel campo cinem atografico, ricordiamo La strana realtà di Peter Standish del 1 932 (con Leslie Howard ) che resta il perfetto esem­ pio di quanto possa farsi con un poco di ingegno e altrettanta abilità usando questo procedimento del «ricordo-di-una-vita­ precedente)) . Quivi era un giovane moderno che, improvvisa­ mente, cambiando città, «rivede)) una sua vita passata e «rivi­ ve)) la storia del suo amore di due secoli prima. Ultimamente Achard nel Corsaro ha tentato qualcosa di simile diluendo la sto­ ria, ma tenendo fermo il tono poetico di queste magiche inven­ zioni ed ha avuto naturalmente un gran successo. Segno che il pubblico non ha che un solo desiderio : quello di credere, e di credere soprattutto all'incredibile . . · Il castello di Daupré, come tutti i castelli che sono in vendi­ ta, ha legato la sua fama ad una leggenda che, per essere recen­ te, non è meno cupa delle antiche. Si narra, dunque, che ogni cent'anni, questo castello è testimone di una sciagurata storia d' amore . Cominciamo col vedere quel che succede nel 1 639, in piena guerra dei Trent'anni . La figlia del castellano deve sposarsi. È giovane, naturalmente bella, ma proprio la vigilia delle nozze, s'innamora di un giovane commediante girovago molto fiero e callotiano. Quest' amore repentino è giustificato anche dal fatto che lo sposo destinatole è un mostriciattolo repugnante. La gio­ vane fuggirà col commed iante, ma verrà riacciuffata (e il rapito­ re ucciso) durante una drammatica caccia notturna che molto tiene presente, per il bellissimo studio degli effetti fotografi ci, quella dipinta da Paolo Uccello e, di questi tempi , depositata nei sotterranei del Louvre . Nel 1 7 39 accadono fatti che la pellicola non registra, mentre un secolo dopo, nel 1 839, siamo alle solite. La giovane castella­ na e un gentil�omo debbono sposarsi, realizzare un matrimonio di convenienza vol uto dalle due famiglie. Il giovane gentiluomo è fiero, pettinato alla coup de vent, di convincentissimo aspetto . A cos tui tocca stavolta d ' innamorarsi, sempre la vigilia delle nozze, di una giovane sartina. L'amore è reciproco ma sul più bello è troncato dai maneggi dei parenti della sposa. Durante la cerimonia dello sposalizio la ·povera sartina che, fedele ad una lunga tradizione letteraria, è stata abbandonata, non resiste 72

al dolore e passa tra le ombre del castello, col cuore spezzato. Nel 1 939 le cose vanno diversamente. Tira aria nuova nelle sale dei Daupré. Il marchesato si è estinto, il castello è stato ac­ quistato da un ricco finanziere. La figlia di costui è la patetica Corinne Luchaire, che proprio in questi giorni è arrivata a Ro­ ma per portare il suo volto di cas ta statua nelle pellicole italiane della prossima stagione. Corinne trova molto piacevole il castel­ lo e pochissimo, invece, l'idea che ha il padre di volerla sposare a qualche rampollo di eminente famiglia. Il rampollo c'è, in cat­ tive acque, e sposerebbe anche un mostro: figurarsi quando ve­ de la sognante Corinne. Però i due giovani, in nome del rapido amore che segue la loro conoscenza, decidono di non guastare la purezza del loro sogno e di non rimanere vittime di un giuoco d'interessi. Amandosi, si sposeranno soltanto quando il padre di Corinne si sarà rovinato col giuoco in borsa. Ma questa non è che una finta disgrazia: quei che hanno rotto il maleficio del ca­ stello con la sincerità del loro amore, avranno ben diritto ai mi­ lioni del finanziere e il regista, in un riuscitissimo finale, volen­ tieri li concede alla coppia felice. Film strano e disuguale questa Cavalcata d'amore, senza una decisa logica drammatica, ma fornito di intelligenza e, come s'è detto prima, di astuzia. La preoccupazione di far partecipare al­ la dis tribuzione delle parti due attrici altrettanto celebri, ha tol­ to al film quel particolare gusto che avrebbe potuto dargli la reincarnazione di tutti i personaggi nei panni degli stessi attori . Quel che si verifica pei personaggi maschili, infatti , non è per i femminili. Abbiamo così che il giovane commediante, il dandy e il rampollo di ottima famiglia sono interpretati dallo stesso atto­ re, C laude Dauphin, con una grazia rara e una bella, imperti­ nente disinvoltura; che il capo dei commedianti, il vescovo del secondo episodio e il finanziere sono resi vivi da Michel Simon , l' attore che accoppia una recitazione furbissima al più ribelle mal di denti dello schermo: men tre le tre giovani eroine cambia­ no volto e sarebbe stato opportuno, invece, il contrario. Janine Darcey, Simone Simon (di ritorno dall'America e abbastanza decaduta) e Corinne Luchaire non riescono che a sopraffarsi a vicenda. Ottimo il fotografo, preoccupato di applicare psicolo­ gia all'obiettivo. Il regista, Raymond Bernard , è d isuguale; ora pieno di genio, ora scioccamente descrittivo e pesante come un conferenziere didattico. 24 aprile

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46. De Sica regista-attore C ' è un genere di film che sfugge alla critica, che disarma i cattivi propositi e riporta il pubblico dei cinematografi al primi­ tivo candore della lanterna magica, molto lontano dal vortice delle discussioni estetiche e morali. Sono film che non contengo­ no nulla di inesatto, non escono dal seminato, non azzardano un' ipotesi e perciò si fanno guardare volentieri senza che il cer­ vello dello spettatore faccia il più piccolo sforzo. Passano impec­ cabili e inosservati come Lord Brummel nelle vie di Londra e perciò si deve ammettere che hanno il pregio raro dell'eleganza, cioè l'assenza di ogni esagerazione in un senso o nell' altro. Sono film onesti, tranquilli, che hanno fatto i conti prima di azzardar­ si e arrivano alla fine col bilancio in pareggio e in perfetto ora­ rio. Nessuno può trovarvi nulla a ridire, se non mettendosi da un punto di vista che finirebbe per essere di cattivo gusto e spro­ porzionato. Non ci azzarderemmo però di affermare che sono questi i film che occorrono alla cinematografia italiana: ancora per un pezzo crederemo che, invece, ci occorrono film partoriti dall'ingegno e non dall'intelligenza, film non importa se mal fatti purché abbiano il segreto potere di scuotere l'emulazione dei cineasti e di arrivare al cuore del pubblico sorpassando la tendenza, che questi ha di volersi esclusivamente divertire. In attesa del loro arrivo, possiamo pure sederci e consumare, inve­ ce del pranzo, tutti gli aperitivi che le case editrici ci offrono. La testa finirà col girarci, e moriremo di fame allegramente, col na­ so a spugna. Rose scarlatte è un film grazioso, al di là del bene e del male, raccontato benissimo senza intoppi e senza scialacquerie, perciò alla fine non gli si porta rancore se omette di risolvere la qua­ dratura del circolo del nostro cinema. Nel suo genere è anzi uno dei più onesti, forse il migliore film che abbiamo visto. La molta misura, l'interpretazione ottima, la regìa accorta, la comicità delle situazioni mantenuta su un piano discreto, ne fanno u n modello: soprattutto se si tien conto che la trama non è stata tratta da una commedia s traniera, ma per la più curiosa delle combinazioni è opera di un nostro autore. Di quanto succede in Rose scarlatte potremmo anche rispar­ miarci il racconto: la commedia è troppo nota perché qualcuno non sappia ancora le avventure della coppia Verani (è questo proprio il nome?) e del terzo personaggio, che invece di essere incomodo si rivela alla fine per comodissimo. Un piccolo equi­ voco dovuto al caso piomba la signora Verani in pieno romanzo 74

e suo marito nei dubbi propri del dram ma. Questo marito so­ gna l'avventura con una sconosciuta che gli ha telefonato per isbaglio, ma soffre tutte le pene quando s' accorge che la moglie sogna anch 'essa l' avventura con uno sconosciuto che ogni gior­ no le invia un mazzo di rose. N aturalmente il marito è geloso soltanto di un'ombra perché è lui stesso che manda le olezzanti rose alla moglie: quindi il tradimento è tutt'al più platonico per quanto san Matteo in proposito abbia un'opinione molto preci­ sa. Il desiderio è già tradimento : occorre qualcosa di più per al­ larmare un marito? La commedia si trascina allegramente su questa situazione finché il castello di sogni e di sotterfugi creato dai due coniugi non precipita vittima della sua stessa fragilità. Dalle inesistenti avventure la coppia imparerà ad amarsi di nuovo e forse a mor­ tificare la fantasia. Nel film molto si parla di evasi�:m e, di amore puro, di sogni e in un tono che partecipa leggermente della caricatura: ancora due righe più in alto e la commediola diventerebbe la satira ad un mondo sfiancato e troppo lontano dalla verità. Ma De Bene­ detti non intendeva fare una satira, né l 'hanno intesa fare il re­ gista e il riduttore. Pensiamo a quello che avrebbero tirato fuori un René Clair o un Lubitsch dalle agitazioni evanescenti della signora, con quali particolari saremmo arrivati a ricostruire il panorama borghese di una società che si affioscia sui divani di chintz, tuffa il volto nei mazzi di rose e si muove soltanto su bas­ se automobili carrozzate fuori serie; una società avvolta nel cel­ lophane e abbronzata dal sole artificiale. Abbiamo già accennato alla regìa: è opera di uno dei più ac­ clamati attori, Vittorio De Sica. È una regìa minuziosa, pulita, niente affatto timida e in certi punti saporitissima. Il nome di Lubitsch ci è appunto passato per la testa nei due brevi quadri del Foro Romano, quando Melnati passeggia sotto l'arco di Ti­ to, sostenuto da una musica gloriosa e pettoruta. Quest'attore ha finalmente trovato in Rose scarlatte il suo tono giusto, l'equili­ brio del gestire, la parsimonia dei sorrisetti e delle furberie. Melnati, che è forse la sorpresa più piacevole di tutto il film, ac­ centra le simpatie del pubblico, provoca largh e risate, regge il suo difficile assunto sino alla fine senza stancarsi. Renée Saint­ Cyr è parsa s biadita senza troppe qualità precise. Vittorio De Sica sicurissimo, pieno di risorse umoristiche e gentilmente in­ stallato nella parte del marito geloso. r maggio 75

4 7 . Pessimismo di }ean Renoir Il nome di Jean Renoir è legato maggiormente, in Italia, a due film non proiettati sugli schermi pubblici: La grande illusion c La bete humaine. La fama che questi due film hanno creata al loro autore è stata per noi,. sino all'altra sera, leggendaria e insonda­ bile come quella che aleggia ancora sul cinema russo . Discussio­ ni di esteti e di moralisti avevano alimentata una curiosità che la certezza di non poter soddisfare serviva a rendere più sconso­ lata. Si sapeva soltanto delle idee dell'autore, molto influenzate da letterarie convinzioni . E questo particolare bastò, ad alcuni, per mettere Rcnoir nella sfera dei registi senza risonanza prati­ ca. C ' è molta gen te, solidamente ficcata nelle cose del cinema, che si allarma non appena ha il sospetto che la letteratura vo­ glia entrare, pur anche di traverso, nel lavoro della macchina da presa. La letteratura equivale, per costoro, ad un delitto bello e buono, un pericolo da evitare con ogni cura, se non altro per la salvezza del pubblico. Così, sugli schermi italiani, si assiste a questo curioso fenomeno: che la letteratura influenza la prod u­ zione cinematografica mai di prima mano, ma sempre di rifles­ so. Infatti, dopo il successo dei vari Duvivier che s'ispiravano ad una letteratura corrente per le loro opere, da noi c'è stata la moda del «verismo» . A qualche scenografo è stato chiesto l' abbiamo inteso con le nos tre orecchie - scenari «veristi» con tutte le macchioline c le ombre necessarie. Nei nostri teatri di posa lo stile si fa degno d'attenzione soltanto quando degenera nella maniera . Per tornare a Renoir null' altro fu dato sapere di lui se non ch' era figlio di Pierre-Auguste Renoir, il grande pittore, e fratel­ lo di quel Pierre che è un po' la salsa d ' obbligo nelle parti dei film francesi. Non ci voleva altro, dato un nome, cioè, celebre per ogni verso , ad aumentare l'in teresse del pubblico più av­ vertito : sicché la «prima» di Verso la vita ha visto nel Supercine­ ma una folla eccezionale e curiosa. La quale, secondo noi, non è rimasta affatto delusa. In Verso la vita , Renoir adatta alle leggi dell'obiettivo una fa­ mosa opera di Massimo Gorkij , L'albergo dei poveri. In quel dramma, che si svolgeva in un ambiente di reietti , è narrata la storia di un giovane ladro. Costui, che avrebbe voluto redimere il suo passato attraverso l' amore per una povera sguattera, si vede chiuso ogni avvenire da un suo delitto, che è però quasi giustificato agli occhi dei lettori . Ma se nel dramma - in cui un 76

senso di inevitabile e di chiuso circola sino a togliere il respiro ­ la fatalità si accolla parte del pessimismo della conclusione, nel film il regista ha fatto posto ad un raggio di sole. È il solito rag­ gio di sole cinematografico, che parte da un sole di cartone do­ rato, ma qui non dispiace, e serve a temperare la crudezza e la precisa verità del racconto . Il giovane ladro, Pepel, qui riesce a sfuggire i rigori della legge, il suo delitto viene dichiarato involontario: può, quindi, iniziare, dopo la breve parentesi giudiziaria, quella vita nuova che tanto ha sognato . È la «vita nuova» di Charlot o dei perso­ naggi di René Clair. Lo vediamo infatti , Pepel, insieme alla sua Natacha, allon tanarsi sul nastro di una strada maestra . Una di quelle strade alle quali una luce di crepuscolo dà il senso di una profonda pace e che sembrano portare gli allegri viandanti ver­ so il loro vero destino . L'arte di Renoir è di un'intelligenza che appare semplice, elementare, e che invece è il risultato di un superamento costan­ te delle posizioni altrui . Non si trova, nel suo stile, niente di gra­ tuito o di accettato ad occhi chiusi. Tutto invece è visto dacca­ po, diligen temente. A noi è piaciuta l' aria che circola in questo suo vecchio film del 1 936. Piaciuta ci è, soprattutto, la trasposi­ zione del luogo dell'azione, seppure soltanto attraverso le figure e i paesaggi , dalla vecchia Russia alla Francia d 'oggigiorno. In­ vece che dare al film il tono falso, quest'accorgimento finisce per potenziarne le conclusioni e renderle attuali . Le sponde della Senna qui appaiono come in À nous la liberté, gravide di una pre­ cisa satira sociale ma chiarissime di poesia nel disordine delle loro baracche di sfrattati . Dalle loro sconnessure la morale di Gorkij esce fuori quasi civilizzata e certo resa più comprensibile ai lettori giovani. Il racconto si snoda ampio, con un respiro che incanta. Tutto è messo a posto per sempre nei luoghi ove passa la mac­ china di Renoir. Ad una cura dei particolari che sembra di­ stratta, egli aggiunge un umorismo efficace nelle pause di re­ spiro. Si veda per esempio tutta la presentazione del tabarin o la scena del ristorante all'aria aperta: sono pezzi che rimango­ no impressi come altrettante tavole di Grosz per la crudeltà della precisione. Gli attori sostengono una gara di buon vicinato. È in questo film che J ean Gabin ha trovato la sua espressione decisiva, quell' aria di pessimista poco convinto che doveva poi portare negli altri suoi film sino a farne la cifra che ormai tutti ammira77

no. J ouvet è un «barone» di una cortesia corrosiva. Suzy Prim e J unie Astor completano, nelle parti femminili, l'insuperabile di­ stribuzione. 8 maggio

48. Bing Crosby e Joan Blondell Che l'America sia un paese dove la parola «impossibile» non esiste nel vocabolario, l'ha dimostrato largamente il cine­ matografo americano. Anche il pubblico più indulgente, per tutto ciò che sorpassa la sua portata di comprensione, ha pronta la definizione di «americanata» . Tale definizione cominciò ad affermarsi verso il 1 923, quando Hollywood prese a produrre quelle commediole sentimentali c bizzarre del cui spirito si sen­ te ancora l'influsso nei film d'oggi. Agli occhi degli spettatori, in quegli anni, cominciava a svelarsi un paesaggio nuovo, che la ragion� rifiutava di tener per buono, per quanto il mezzo mec­ canico convincesse di una certa verità. Ogni film era un passo avanti alla scoperta di un paese lontano, ricco di vita e di umori. Si vedeva, dopo uno scontro di automobili - e non nei film co­ mici soltanto - due esseri saltare fuori dal groviglio delle mac­ chine e innamorarsi reciprocamente. Fatti ancor più gravi, di­ vorzi rapidissimi, ratti pericolosi, avvenivano con la maggior grazia del mondo, e senza preoccupazioni . L' amore si snodava nei film, semplice e con grandi sorrisi. Chi era abituato al cine­ ma europeo, alle sue dive sempre in preda alle più penose tribo­ lazioni, guardava quella gente fresca e maliziosa con un respiro di gran sollievo . Nel cinema si inaugurava una primavera di belle avventure e di imprevisti. Perciò «americanata>> fu detto con simpatia, per riconoscere ad un popolo certe qualità vive, o per definire in blocco le «tro­ vate» della pubblicità; «americanate» seguitano a essere dette quelle paradossali figure apparse sullo schermo da pochi anni , c derivate da una letteratura umoristica anglosassone. Per esem­ pio, «il figlio che ammonisce il padre», «il cameriere gentiluo­ mo» , «il bambino risolutore d'imbrogli» , il «giudice indeciso» e «la famiglia pazzoide»; e forse anche quei gangsters così prepo­ tenti che tengono in scacco la polizia non soltanto sulla celluloi­ de e assaltano le banche all'ora dell' aperitivo. Un'americanata sociale è quella compiuta dagli abitanti di una cittadina del 78

Kansas che hanno eletto ai posti di sindaco, consiglieri e guar­ die municipali altrettante donne; una governativa e gentile, che sembra quasi insospettabile, nel paese degli assassini fatti te­ nendo la pistola in tasca, è l' apertura di uffici postali incaricati di trasmettere soltanto frasi di auguri. Speciali fattorini, reclu­ tati fra i tenori disoccupati , s'incaricano di «can tare>> gli auguri, per telefono o di persona, a qualsiasi destinatario. Questo spun­ to, che inizia l' ultimo film di Bing C rosby, Angolo di cielo, noi l'a­ vremmo cred uto frutto della fantasia del soggettista se una vi­ gnetta di «Esquire» non ci avesse informato che certi uffici esi­ stono realmente. Nella vignetta, infatti, è rappresentato un pal­ coscenico e quivi un nomero esorbitante di tenori , soprano e comparse vestiti per l'A ida interrotti sul più bello da un fattori­ no tenore che deve cantare gli auguri al baritono. Bing Crosby è il cantante popolare, l ' eroe della radio ame­ ricana: sono ormai dieci anni che i suoi successi si seguono uno dietro l' altro col fragore che fanno i successi oltre oceano. Ma dei suoi film soltanto questo, i ii cui il cantante sostiene la parte di un tenorino delle regie poste, ci è arrivato. Bing Crosby ri­ guarda più la colonna sonora che l'obiettivo e perciò lo si ascolta parecchie volte, nel corso dei d uemila metri, in canzoni abbastanza scialbe e diluite: come attore i suoi meriti sono contati , ne ha giusto quel tanto che occorre per finire il film senza che lo spettatore si accorga di qualcosa. Bing si aggira grassoccio e intontito, poco convinto di doversi sposare, per esempio, Joan Blondell, la quale stavolta appare senza il buio delle sue precedenti interpretazioni, molto appassita. (Né a mettere allegria basta Mischa Auer sempre più russo e scroc­ cone, con le sue stupefacenti scemenze. ) Il trionfatore del film è Baby Sand, un bambino di pochi mesi, allegro, pieno di fidu­ cia nel cinema e curioso di tutto . Il pubblico delle signore tre­ pidava di gioia e le invocazioni soffocate dilagavano nella sala all'indirizzo del «pupo» così caro e buono . Baby Sand è il bambino che si vede sui barattoli del talco, pieno di salute e centro di tutte le attenzioni . M a qui più che i sonni della balia scioglie in bocca come una pasticca e per un momento fa cre­ dere alle cose buone di questo mondo: il che compensa la spe. sa del biglietto. · 15 maggio



Questa ultima frase è riportata così in «Cine illustrato».

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50. Cinema da guerra Giorno di festa: un signore prende i suoi figlioletti per mano e dice: «Andiamo alla curva a vedere gli incidenti d' auto» . Quando Henry Strom disegnava questa battuta non pensava di anticipare quei veri signori che sino all'altrieri in Svizzera o nel Lussemburgo passavano il pomeriggio della domenica in certi luoghi di confine, avidi di «vedere la guerra», ma forse rigirava a suo modo la frase di Coleridge a proposito di un incendio pre­ sto vinto dai pompieri . « È finito così male che l'abbiamo ripro­ vato all'unanimità .» Lo scrittore parlava da esteta deluso e da esteti inconsci pensavano i neutralisti citati : se il male è irreparabile se ne trag­ ga almeno un utile; se la guerra è (malauguratamente) scoppia­ ta, che almeno accontenti l' occhio. Questo concetto della guerra come spettacolo (condiviso del resto dai popoli semplici , se si deve credere a quelle donne abissine che, al sicuro sulle alture, osservano la battaglia e si additano a vicenda le evoluzioni dei loro beniamini) è stato ripreso dal cinema con magnificenza di sviluppi. Fedele ad un impulso naturale, il cinema, per la guer­ ra, si illanguidisce di curiosità: di una curiosità superficiale ed emotiva, ma comunque discreta perché non s'interessa ai lati sociali e politici della questione, ma preferisce rappresentare i bei fatti , la vita maschia, gli stadi della sublimazione di un indi­ viduo normale in eroe e, soprattutto, preferisce superare il mo­ dello nella messinscena e nella coreografia. Dell' ultima guerra, in questo senso, il cinema americano può ritenersi l'illustratore . In un primo tempo il nemico era rappresentato in caricatura: il Kaiser lo si vedeva nell'atto di sparare personalmente col cannone e tagliare i bambini a pezzi. Poi, col placarsi delle passioni, si ebbero dei «nemici>> presenta­ bili: ma l' armistizio tra Imperi C entrali e Stati Uniti doveva es� sere firmato soltanto nella Grande Parata di Vidor (che è appun­ to la guerra vista dal neutrale : il protagonista si arruola per am­ mazzare la noia e vivere un' avventura nuova) . Nei film che seguirono, se si toglie À l 'Ouest rien de nouveau, la guerra, spogliata di ogni intenzione, entrò soltanto come giuoco di fondo: anzi, perd uto man mano l' interesse ai fatti, esaurite le com binazioni, furono trovati il film «coloniale>> (dove la guerra si fa contro generici ribelli) e il film retrospettivo che permette l' uso dei costumi e l'intervento deciso del melodramma. In con­ clusione, dell' ultima guerra, pochi film hanno azzeccato il ca­ rattere . meno evidente e quei film sono comici . 80

Ecco , ad esempio, l' ind ivid uo di fronte ad un fatto che scon­ fina dalla sua com prensione ( B uster Keaton in lo e la guerra) , il soldato che agisce da ingu aribile borghese c combatte senza astio un nemico che non ha mai conosciuto e che, finita la guer­ ra, non vedrà più . «Sal tarello» d anza nei ricoveri , mette nei pa­ sticci i superiori , si innamora, ma fa anche sal tare i reticolati con un comico coraggio che gli autori di simili im prese non tro­ vano affatto offensivo. E infine Charlot di Vita da cani. Qui il protagonista è addirit­ tura l'Antieroe, il poveraccio che non si è reso conto e tutto som­ mato in trincea si trova bene. Abituato ad una vita precaria e piena di pericoli, ogni piccola comodità, ogni diritto che gli offre la sua nuova situazione gli pare una graziosa concessione del destino. Senza intonazioni umoristiche, un soldato diceva, a chi scrive queste righe, che in guerra si trovava bene, perché man­ giava, beveva, lavorava ed era pagato . «Cosa può desiderare di più un tipo pacifico come me?)) Ispirato forse dalla stessa logica, C harlot si mostra valoroso e ubbidiente ed è sempre primo alle adunate comprese quelle che fa il furiere [quando distribuisce la posta, lui che f non ha nessuna probabilità di riceverne. Cosic­ ché quando il furiere, in premio della sua costanza, gli dà un pacco disperso, ne viene fuori un form aggio pestilenziale che Charlot è costretto a gettare nelle linee nemiche, come una ter­ ribile bomba. I n questo campo il cinema non ha dato nulla di meglio e, poiché una delle particolarità dell' ultima guerra è di essere sta­ ta combattuta da popoli interi, da masse di borghesi, dalle quali sarebbe sorto un nuovo tipo di eroe, con attributi molto diversi da quelli mitologici, un eroe spesso debole fisicamente e meravi­ gliato del 'suo stesso coraggio, per questo i film comici con i loro protagonisti hanno indicato un lato nuovo e curioso della verità. Altrettanto comici ci sembrano quei film seri che trattano uno spionaggio all' acqua di rose . Le povere Mata Hari seguita­ no purtroppo a darsi il cambio sullo schermo con una tenacia degna di causa migliore . Dopo Greta Garbo e Dita Parlo è la volta di Vera Korène in un film fatto evidentemente dalla pro­ paganda francese per togliere ogni velleità alle spie dilettanti e romantiche. Vera Korène in Perdizione non fa nulla di male, non ' Nell'originale manca questa parte, apparsa però in un'altra versione di uesto stesso articolo in (30.10.1939) . Fra i film citati, q

A l 'Ouest rien de nouveau è l'americano A lt Quiet on the Western Front, allora inedi­ to in Italia; lo e la guerra dovrebbe essere Come vinsi la guerra ( The Generai, 1926); e anziché Vita da cani Flaiano intende Charlot soldato (Shoulder A rms, 1918) .

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svela il più piccolo segreto militare, pure per aver favorito qual­ che nebulosa conoscenza nelle alte sfere diplomatiche finisce davanti al plotone d' esecuzione. La nostra attrice, brava e bal­ zacchiana, del tipo sui trent' anni per intenderei, appare come ballerina. Un a ballerina del peso di novanta chili a dir poco. Le scene più gustose del film sono q uelle in cui Vera, sacerdotessa di Talia, si abbandona a saltelli ed a corse precipitose sul palco­ scenico sollevando piccole nuvole di polvere. Per il resto i sog­ gettisti non hanno fatto nulla per rendere viva l' azione. La terza Mata Hari convince così meno delle due precedenti. Soltanto nella bella scena finale c'è un piccolo squarcio di luce sulla triste amminis trazione della regìa, opera di Jean-Paul Paulin . 29 maggio

5 1 . Personaggi restaurati

È per il bisogno, forse, di creare anch' esso leggende popola­ ri , che nel cinema è tanto radicato il gusto di ritoccare il perso­ naggio storico : quindi se lo stesso gusto di perfezionamento che il popolino apportava, un tempo, alle incerte figure di Nerone o del Prete Gianni, il cinema lo applica ora a figure assai più con­ trollabili, non bisogna credere a malafede, ma soltanto a deside­ rio di idealismo che sfoga come può. Perché le biografie non so­ no rifatte, a guardare bene, per favorire la morale o compiacere un gusto letterario come nei film di Korda o nei romanzi di Er­ skine che, descrivendo antichi eroi forniti di una mentalità mo­ derna, ottengono un risultato piacevole per virtù di contrasto, ma soltanto per correggere le ineleganze della verità, per «inte­ ressare alla storia come ad un romanzo». ( Sono, queste, parole di Ceci! B. De Mille . ) Del resto è l' ottimismo che regola certe correzioni, un ottimismo facile e sentimentale, persino commo­ vente nella sua ingenua furberia. Il nostro Dante Alighieri - la cui vita fu divulgata nei paesi anglosassoni dai rossettiani insie­ me ai falsi Botticelli e ai cuoi sbalzati di Firenze - ne ha subìto i rigori . Una curiosa eco della sua popolarità si ebbe in un film americano di qualche anno or sono : Dante, dopo essersi presa generica vendetta dei suoi nemici , manca un pelo che si sposi Beatrice. Quanto a Marco Polo, la sua avventura cinematogra­ fica è troppo recente per accennarla: ma quel suo compagno di prigionia che, al racconto delle sue gesta, sbuffava ironicamen82

te, cosa potrebbe aggi ungere, se rinascesse, davanti alle inven­ zioni del film? Di Benven uto Cellini ci siamo occupati anche recentemen­ te. ( I l fiero scultore toscano veniva, in un film hollywoodiano, dato per amante della granduchessa di Toscana . ) E non di­ mentichiamo, d' altra parte, l'Annibale di Carmine Gallone, grasso sbuffante, sentimentale e italofilo avanti lettera e a sua insaputa. Un altro personaggio ricostruito è l' ingegnere De Lesseps , il costruttore del canale di Suez. Di ciò c'informa un foglietto pub­ blicitario del film Suez che abbiamo per l'appunto sott'occhio. (Sue;:;, «produzione miracolo>>, è il più recente risultato dell'inte­ resse che il cinema americano dedica all'alta idraulica. ) Come da immaginarsi, nel film, sparito il grave e furbo Monsieur De Lesseps, al suo posto è fiorito un giovane ingegnere di ral;a pre­ stanza fisica (l'attore Tyrone Power) che si slancia all' assalto dell'istmo con la foga e l'incoscienza dei giovani sorridenti che indossano, nei film, una camicia «alla Robespierre». Questo perfezionatissimo Ferdinando, dall' aspetto che mal si lega al­ l'idea degli studì estenuanti e dell'abilità diplomatica, appare soprattutto come un favorito di Venere, uno scapolo invaghito e desiderato da due donne nello stesso tempo . Le due muse inci­ tatrici (sì, perché il canale sarà frutto di tanta passione) pur es­ sendo di condizione e razza diverse, appartengono ambedue a quel tipo « romantico superiore» che i grandi uomini dello schermo si vedono costretti a preferire: e sono, una giovane ara­ ba pronta a tutti i sacrifici e l'imperatrice Eugenia in persona, la moglie di Napoleone I I I , per intenderei . Così avviato, il grazio­ so ingenere, dovrà, nel film, oltre che imporre il suo sogno au­ dace e i suoi progetti, anche combattere il simun , «vento insi­ nuante e distruttore>> e inoltre (è quanto leggiamo) .lasciarsi «guidare dall'amore per le due donne>> se vorrà «dividere i due continenti; unire i due mari e far navigare le navi nel deserto» . Giammai lo schermo, seguita il bollettino, ha captured, cattu­ rato, nulla di meglio. E bisogna credergli anche conoscendo la pacata vita sentimentale del vero De Lesseps che, da buon bor­ ghese, presa per moglie una brava donna, a quella fu ostinata­ mente fedele. (Se si deve, per azzardare un giudizio simile, tener conto dei diciotto figli che ne ebbe . ) , Anche nell'odierno Napoleone e Giuseppina Beauharnais, di Jack Raymond , i personaggi storici sono trattati con quella lar­ ghezza di vedute che giustificano i romanzi di Dumas e M ichele Zevaco. 83

Non è stata per noi una sorpresa trovare nei panni del l ' I m­ peratore, l'attore Pierre Blanchar, eternamente sudaticcio e sconvolto da piccoli du bbi romantici . C ' è nel destino di ogni at­ tore un punto d 'arrivo segreto, il personaggio ideale da rappre­ sentare. Tu tte le interpretazioni di Pierre Blanchar, a pensarci bene, vertevano verso la figura che oggi finalmente è riuscito a mettere in campo, con un risultato molto discutibile. A tutti i Napoleoni del palcoscenico, nervosi , ecci tabili, pieni di tic e borbottoni ma, al momento giusto, «umani)), Pierre Blanchar aggiunge anche il suo. La collezione si ingrossa! Giuseppina la perfida creola, è qui rappresentata da Ruth Chatterton , anzianotta e brava attrice americana. La storia del film è inutile raccon tarla. Sulla vita di Napo­ leone non c'è lettore, ormai , che non sia sin troppo documenta­ to. Qui gli avvenimenti principali del celebre ménage sono ri­ portati con uno stile ed una grazia che ha fatto ricord are a qual­ cuno i film comici sentimentali che si fabbricano da noi . La messinscena cade nell'operetta, la recitazione nella tragedia, la noia degli spettatori è confortata dallo spettacolo di varietà che segue. Raccontate in maniera simile, anche le biografie più scialbe possono entrare nella biblioteca romantico-economica e restar­ vi . Si accusa, da più parti , la Fotografia di uccidere il Mito ed ecco invece che se ne creano di affascinanti e curiosi; eccola in­ dicare alla storia e alla vita le loro lacune e parvi riparo con la sua fantasia. 5 giugno

5 3 . Lanterna magica

I «cartoni)) a colori sono la tenuta leggera del cinematografo o, se vogliamo, il cono gelato offerto in queste serate es tive al fe­ dele spettatore dagli eredi del signor Lumière. Avanza il caldo, si diventa insofferenti del cinema, e si sente il bisogno di vedere sugli schermi, invece delle complicate e nebulose avventure, la chiara compagnia di W alt Disney o quella più artefatta di Max Fleischer. E un bisogno che diventa fisico per chi, specialmente, considera l' andare al cinematografo una fatica bella e buona. Noi siamo di questi . Non, come potrebbe sembrare, perché ob­ bligati dal compito settimanale, ma per la ragione ben più pro­ fonda che lo spettacolo cinematografico tende ogni giorno di più 84

a farsi tetro e amministrativo . Le solite pellicole continuano ad avvicendarsi sullo schermo, amoros e, storiche, avventurose e didattiche: non fanno che cambiare di titolo e di attori e ritorna­ re sugli schermi camuffate da un sottile strato di nuova vernice . Andare al cinema comincia dunque col diventare più che un vi­ zio piacevole (uno di quei bei vizi di cui parlava con nostalgia Anatole France) un' abitudine fastidiosa della quale molti si li­ bererebbero se potessero sostituirla con un' abitudine altrettan­ to spensierata. Questo succede perché ormai il cinema non cura più come una volta il piacere e il gusto della sorpresa, la varietà dello spettacolo: non è più · la realizzazione delle cose impossibili . Quel certo «grano di pazzia» che ha fatto la fortuna del cinema, oggi manca o si è esaurito nel meccanico . Tutte le case produt­ trici si fissano gentilmente verso un genere narrativo di un reali­ smo molto verosimile e romanzesco e mortificano invece le ra­ gioni della fantasia. I film diventano ricettari di belle maniere, di saper vivere, di moda, di fatterelli emozionanti che hanno l' effetto di piècoli lassativi mentali . L' animo dello spettatore si libera seralmente del suo piccolo complesso di desideri, ma il suo cervello resta inattivo, l' entusiasmo non scoppia, la reazio­ ' ne non si verifica. Il cinema si confonde nelle tavole della farma­ copea, rientra tra le cose utili . I cinematografi diventano piccole «fabbriche di sogni>> come scrive Ehrenburg, o meglio delle bi­ blioteche circolanti, dove, col tempo, la clientela finisce per uni­ ficarsi, suggerire il gusto ai direttori e limitare il campo della scelta ad un genere di letteratura facile, rosata, sovrumana. È triste ma è così : il cinema da qualche anno non ci regala più un'idea, non si batte più, non si scomoda dal suo seggiolone di capotavola e si lascia cadere le occasioni di mano accontentan­ dosi di rivangare i successi d'un tempo, vivendo, insomma di pensione. Questa settimana i film nuovi obbedivano in tutto e per tu tto a questa legge di risparmio che ha finito per sostituire la noia dove prima era l'imprevisto. Si gira pei cinema, si guar­ dano le fotografie esposte, si vorrebbe entrare. Ma i titoli fanno trasalire, corrugare la fronte. Quanti ne abbiamo visti dello stesso tipo come Trappola d'amore, Fuori servizio, La donna dello scandalo, i tre film più recenti della settimana? Erano forse Fuori la trappola, La donna di servizio, Lo scandalo dell'amore, ma che importa? Si. vede bene che i registi, i soggetti­ sti, gli attori , non hanno risolto problemi nuovi . Una bella ra­ gazza, segretaria di un Lord , e un falso poliziotto sono gli eroi 85

del film di Matarazzo, La trappola citata. Film comico-sentimen­ tale, di ambientazione vaga, che vorrebbe essere inglese, anzi che deve esserlo per forza, per colpa di certi falsi ladri da com­ media. Al tri lad ri , ladri veri, francesi, si vedono in Fuori servizio. Ma anche questi sono ladri da pochade che perdono tempo, s' innamorano e perdono la voglia di lavorare. Ladri americani si possono trovare, appena acquistando un biglietto del cinema Corso, nel terzo film citato. Qui giornalisti e biscazzieri fanno di tutto per portare avanti la curiosità del pubblico e vi riescono felicemente sino alla fine. Con la vecchia lanterna magica che faceva rimanere, come si vede ancora in qualche illustrazione, tutti a bocca aperta, gli industriali del cinema, accomodanti e pratici hanno finito per fare un paio di occhiali rosa a stringinaso. Ciò che prima me­ ravigliava ora fa passare il tempo: traducendo, il cinema «amenO>) si condanna da se stesso ad una morte dolcissima e indolore . Tutti i giovedì nei due cinema principali di Roma i bambini che in fatto di cinema restano gli unici a capirci ancora qualco­ sa, si radunano tutti per gli spettacoli riservati a Topolino e so­ ci. In tanta grigia routine quelli che riescono a mettere una nota nuova, impertinente, a svegliare l'interesse e gli appetiti restano le creature di Walt Disney, brave, abili, sempre vive . Arrivano quando tutto è stato fatto, quando duemila metri di pellicola hanno girato per ripetere quello che tutti più o meno già sape­ vano, e fanno l'effetto di un colpo di grancassa in un dormitorio. Chi sta per andarsene si rimette a sedere, tutti si preparano a sorridere. I bambini dei «giovedì)) battono le mani, con simpa­ tia e calma, ogni volta che appare la figura di Topolino, questo mitico eroe all'acquerello. Nel suo ultimo filmetto, in veste di cacciatore, il nostro eroe fa miracoli di abilità. Ma miracoli ancora più fumisti fanno due alci innamorati di una falsa alce . Tra tutte le lotte e le partite di pugilato viste al cinema, quella che ingaggiano i due alci è certo più decisiva . Anche il paesaggio vi partecipa coi suoi terremoti. " Topolino cacciatore ha ottenuto un successo enorme. Non ci resta che ringraziare mentalmente l'autore, che ancora crede ·a lla fan­ tasia . 19 giugno

' Si tratta del cortometraggio T/re Moose Hunurs ( 1937) . 86

54. Mal d'Africa Prima assai che il cinema se ne occupasse con la nota lar­ ghezza di vedute, l'idea del «favolosm> s' era già accoppiata al Continente Nero per merito dello scrittore Salino, che a buona ragione può essere ritenuto il nonno degli inviati speciali. Co­ stui nelle Cose meravigliose del mondo, un libro che apparve verso la fine dell'impero romano per smascherare definitivamente tut­ te le invenzioni sul conto dell'Africa, descrisse tali meraviglie di draghi, fontane sonore, fuochi, basilischi e ciclopi da impensie­ rire chiunque avesse voluto prendere alla leggera i misteri di quella terra. Tra l' altro Salino abbozzò uno studio psicologico sulla natura dell'elefante (studio che, forse, il regista Gallone conosce) nel quale è dimostrato che quelle care bestie accettano di buon grado di partire per la guerra a patto che venga loro promessa la libertà, dopo. Non è quindi da stupire se gli scrittori che seguirono presi nel giro di un labirinto romantico convalidassero il concetto di un'Africa a sorpresa: infatti, col tempo, le immaginazioni au­ mentarono a tal punto che, nel dopoguerra, alcuni romanzieri europei di grido, per riaccendere le fantasie viziate, dovettero esagerare, sia detto con tutto il rispetto possibile. Così l'Africa che nell'ultimo Ottocento, (in virtù dell'Aida e dei quadri di ge­ nere del pittore Parini che rappresentavano sempre vorticose cavalcate arabe o harem immaginari) veniva quasi identificata con l' Egitto e l'Arabia, riacquistò il suo antico sapore e significò di nuovo: avventura, miraggio e, soprattutto, mistero. In quel­ l'epoca fiorirono le gite nel Sahara coi primi torpedoni turistici; dalle canzonette fu affermata la popolarità degli sceicchi e com­ parvero nei villaggi algerini le prime signorine inglesi (apparte­ nenti ad ottime famiglie, ad onor del vero) che dovevano essere portate, da infrenabili crisi di coscienza, alle massime dignità di certe tribù nomadi del deserto. Ma il coronamento di un tale edifizio di favole, il compito supremo sarebbe spettato al cinematografo. Quando questi rac­ cogliendo il richiamo degli amori imprescindibili e del fascino, si decise ad entrare in campo, ebbe a creare subito una simpati­ ca confusione tra Oriente Palestina e Marocco, per esempio, o tra beduini e baj adere sino al punto che certi passi di Salino parvero pieni di buon senso e di misura. Col cinema, colle av­ venture che si venivano inquadrando sullo sfondo di questa nuovissima Africa, fu oscurato persino l ' arduo lavoro dei ro­ manzieri. In perfetto contrasto con l ' «Affrica» degli studiosi, 87

nella patria di Cam si affratellarono lo stile moresco, la bella Sheherazad e, le avventuriere del periodo Liberty e gli ultimi uf­ ficiali degradati; mentre le spese musicali venivano fatte da Grieg e Ketelbey, dalla Serenata di Frontini e dai pezzi caratteri­ stici . I n seguito il cinema si distolse da questo concetto per corre­ re alla ricerca di una verità darwiniana. Perché non ricordare quei film didascalici , il buon Trader-Horn e i suoi pigmei «ghiot­ tissimi di sale»? E le favole degli uomini-scimmia, dei Tarzan e simpatizzanti, che rischiarono di far finire nel ridicolo che spet­ ta alle invenzioni stentate, tutte le testimonianze degli esplora­ tori? Ma non fu tutto. Il «romanzo verista coloniale» ebbe i suoi buoni momenti e il cinema subito se ne fece illustratore. Tutte le avventure metafisiche lasciarono il posto agli sviluppi del mal d'Africa. Eccoci ai torbidi «insabbiamenti», alle lotte tra istinto e coscienza . Problemi morali e sessuali di terza classe vennero sciorinati ogni tanto sulla celluloide: e tuttora l'Africa , giorno per giorno, soccombe sotto il peso della «psicologia» dominata dalle allucinazioni, dai desideri repressi e, soprattutto, dalle be­ vande alcooliche. I personaggi delle nuove vicende, vittime di un destino sornione usano confortarsi bevendo a tutte l'ore . Fu certo assistendo ad uno di tali film che al professar Pitkin è ve­ nuto in mente di scrivere che, al tramon to, tutta l'Africa è ubriaca, sotto il tavolo. Pochi giorni fa abbiamo visto un film che portava Bar del Sud come titolo. Ci attendevamo da questo vecchio filmetto le più riuscite e lucide sbornie, qualcosa che avrebbe oscurato tutto ciò che in fatto di ubriachezza molesta e sentimentale c'era stato dato per definitivo dai film precedenti. Non è a dire con quanta incred ulità abbiamo visto passare il film senza che, non diciam ò la catastrofe, ma neppure la più innocente confusione venisse provocata dall'alcool. L'attore Vane!, nei panni di un solido e attivo ufficiale fu singolarmente astemio, si comportò come se l'Africa non esistesse. I generici e le comparse stettero a lungo nel bar davanti a bibite incerte senza traspirare né rompere i bicchieri . I nfrangendo una tradizione che risale a Za la Mort, persino nel capo dei contrabbandieri ( poiché nel film c'è una storia di contrabbando) osservammo una rigorosa sobrietà. Questo film, dal titolo così abbagliante, è stato per noi , tutto sommato, una delusione . A risollevarci nella sfera degli ottimismi è valso il film Ma­ rocco di Florian Rey, film spagnolo di propaganda sentimentale a favore delle truppe coloniali . Non c'è qui il Marocco di von 88

Sternberg, né la livida e afosa aria che circolava attorno a Mar­ lene e al dinoccolato Gary Cooper. Qui il Marocco è smagliante di colori e di belle avventure, col sole che dà alla testa e percorso da eroi vestiti con sfarzo. C ' è anche quell' abbondanza di man­ telli bianchi che ricorda l'A tlantide di Benolt, la legione straniera e la povera Mimì Bluette in cerca delle illusioni perdute. Le cavalcate dei ribelli danno al film il respiro dei western : i piccoli tradimenti, i ratti, i colpi di pistola, i baci lunghissimi con rovesciamento della testa amata, riportano invece la trama sui binari del film commerciale con pretese oneste. L'attrice principale si chiama Imperio Argentina e sostiene questo nome, adatto più ad una compagnia di navi g azione che ad altro, con due occhi enormi languidi e volubili. E magnifica, con gesti di leopardo ingrassato, e si capisce bene che tanta gente si batta per lei; una donna simile, in Africa specialmente, è peggio di un colpo di sole. Gli attori barcollano al suo apparire, cercano un punto d' appoggio: ed è un vero miracolo che i ribelli non se la mangino cruda. Ci è passato per la testa, uscendo dal cinema Corso, che pochi sospettano (almeno tra coloro che se ne interessano at­ traverso il cinematografo) che l'Africa è soprattutto abitata da gente onesta, rispettosa delle leggi e della morale, che vive or­ dinariamente lavorando e, q uando può, frequenta i cinemato­ grafi. 26 giugno

55. A ttori brutti Sere fa, assistendo alla visione del film di J ulien Duvivier, Il giglio insanguinato, molti spettatori di un locale del centro dimo­ stravano la loro compassione e il loro crudele disappunto con starnuti di impazienza, comici lamenti, invocazioni al prezzo del biglietto e, peggio, con approvazioni esagerate che trascina­ vano tutto il pubblico in un baccano goliardico. Una particola­ rità del pubblico misto, cioè di quel pubblico che frequenta in genere i ' cinematografi, è di rifiutare ogni attenzione a ciò che non lo «diverte»: quando un disgraziato caso simile si verifica, una sua convinta superiorità di giudizio gli suggerisce di tra­ sportare altrove lo spettacolo, in se stesso . Eccolo, allora, forza­ re la fantasia e tirarne fuori il commento preciso e spiacevole e, così, divertirsi. 89

Quando la piccola attrice Madeleine Renaud appariva sullo schermo nella parte di Marie Chapdelaine, i sorrisetti toccava­ no il soffitto . A vederla così timida, dimessa, rustica e col solo bagaglio di due grandi occhi spauriti, il pubblico l'aveva ribat­ tezzata «M aria sciarpa di lana» ; gli amici burloni { che sono quegli stessi spettatori che vi poggiano le ginocchia sulla schie­ na, si raccontano il film a vicenda e im parano in un attimo le canzonette del film) minacciavano di regalarsela a vicenda. «Se fai il buono te la faccio sposare! » si udiva ogni tanto nell'oscuri­ tà. Sarebbe stato molto difficile convincere della loro maleduca­ zione chi diceva frasi simili. Il nostro vecchio progetto di esame preventivo per essere ammessi agli spettacoli ci ritornava in mente. Anche le signore non capivano, nell'attrice, le sue grosse calze di lana bianca, le scarpe contorte come vascelli naufragati, il trucco sommario del viso. Fosse stata almeno, Madeleine, quello che si dice una «bella ragazza», un «bel pezzo di ragaz­ za» cioè solida, sana, viva! Ma così, allora, tutte potevano esse­ re attrici , anche la «serva»! Si deplorava, infine, la scomparsa di jean Gabin, prim'atto­ re, a metà del film. J e an Gabin faceva la parte di François Para­ dis, un rude cacciatore canadese, abile e simpatico: la morte di questo personaggio, toglieva ogni interesse alla vicenda. Ora a tirare avanti il film restavano la timida e brutta protagonista, suo padre, sua madre, il generoso vicino di casa e qualche altra figura incerta. Ma la storia di una famiglia in lotta continua con la terra e la vita, di una famiglia che riassumeva il destino delle emigrazioni umane, non poteva toccare un pubblico affiuito per il ricordo di Pépé le Moko. Venuto per le emozioni, magari per rivedere, sotto altra forma, le sguscianti avventure del pensiero­ so attore, aveva trovato invece di che riflettere . Questa certo è l'idea più grossolana che un film possa permettersi. Così alla fi­ ne furono fischi. Qualcuno però non avrà tanto presto dimenticato la tran­ quilla eroina di Louis Hémon, né il film dove tutto è stato sa­ crificato ad un risultato superiore. Dopo centinaia di pellicole uscite da un' atmosfera di facilità, di lusso e d ' intrighi editoriali, ci si può confortare di una vicenda ingrata, di attori che non chiedono simpatie immediate e che forse sarà difficile rivedere in altri film . Soltanto il tempo, del resto, fa accettare gli episodì e il linguaggio di un'opera che siano duri come la vita stessa. Duvivier ha girato questo film cinque anni fa e qui ci è sem­ brato migliore, non ancora preoccupato del «romanzesco», fe­ dele agli occhi più che all'obiettivo. Potrebbero dimostrarlo le 90

scene «esterne» del fil m ; come è stata resa l'atmosfera di noia, di astio, che lega i componenti della famiglia C hapdelaine, il trasporto di François Parad is, morto sulla neve gelata, o la sce­ na in cui la povera madre di Marie muore maledicendo la terra ingrata. Oppure la predica del parroco nel piccolo villaggio ca­ nadese, predica che arriva semplice e desid erata giustificando tutto il film. Forse, pensavamo, film come questi trovano il loro pubblico nei cinema di paese. Dovunque il bisogno di sopportare l'ingra­ titudine della terra è necessario; e dove pure nel volto di una brutta attrice si riesce a vedere sempre una donna. [ . . . ] 3

luglio

56. Giallo carico Un giorno Edgar Poe, stanco e curioso di tutto si mette a ta­ volino a risolvere crittogrammi . Avvisa i lettori della sua rivista che passerà un anno intero a indagare i misteri dei rebus e degli affari giudiziari: scoprirà i falsi, gli inganni, eccetey a. I lettori gli riempiono la casa di lettere e di domande. Dopo un anno, aven­ do assolto tutti i suoi impegni, Poe smette e ritorna alla lettera­ tura. Ma ha acquistato un occhio infallibile per quei problemi e si trova a scrivere un racconto di nuovo genere. È la storia di due donne assassinate in condizioni singolarissime. Il suo pro­ tagonista, il giovane Dupin, per la prima volta in un racconto, scopre il colpevole, un gorilla, seguendo il filo di un suo serrato ragionamento. Quel gorilla è il padre di tutti gli assassini ospi­ tati nella letteratura gialla. Anche in questo campo l 'uomo deri­ va dalla scimmia. Dupin ragiona sempre, arriva alle conclusioni più azzardate senza alzarsi dal tavolino e questo si spiega perché è uno studio­ so di matematica e di astrologia. È un calcolatore. Tutto il suo sistema psicologico si riduce a ben poco: « I ndovinare ciò che pensa l 'altro» . Quando due ragazzi giocano a pari e dispari vin­ ce chi riesce a ingannare l'altro sulle proprie intenzioni. Anche Dupin, il giovane melanconico e dis tratto Dupin, usa lo stesso sistema coi rivali che Poe gli trova nei racconti seguenti . Senza dar importanza alla cosa, Poe ha creato il poliziotto dilettante . E gli dà un marchio di nobiltà che tutti i suoi discendenti messi 91

insieme non raggiungeranno. Dupin è l'es�enza, la formula . Quelli che verranno dopo, i Philo Vance, gli Sherlock Holmes, banali applicazioni. Gaborieau è il francese che primo raccoglie l' ered ità di ' Poe. Ma la sciupa male. È maldestro, sanguinolento, pletori­ co, pieno di lunghe descrizioni . I suoi assassini sono privi di genio, l'occhio fisso e la fronte bassa, ammazzano per quattro soldi, per gelosia, per impulso, senza uno stile definito. S'im­ brattano di sangue regolarmen te. Da tutti i romanzi di Gabo­ rieau si coglie soltanto un certo lato cronofotografico della Pa­ rigi 1 860, con le donne ves tite come nei «Couriers pour da­ mes>>, gli zerbinotti che vivono di rendita e portano guanti odorosi di zibetto. Ma appena si esce dai salotti è la sordida banlieue, la feccia dei bassifondi che si fa incontro al lettore. Strade buie, mamme scapigliate che bastonano i figli della col­ pa, loschi figuri che si ubriacano prima di com mettere il delit­ to serale. Leggendo, si arriva con il fango alle ascelle e quando lo sciagurato colpevole sale il palco della ghigliottina, viene spontaneo un oh! di soddisfazione. Ma anche questa è una soddisfazione di seconda qualità. E ci si accorge che durante la lettura il nostro cervello se ne andava a spasso per conto suo: soltanto una infantile curiosità ci impegnava gli occhi sul­ le pagine del libro. Dopo Gaborieau il romanzo poliziesco precipita nella bana­ lità. Ogni cronista ne sa scrivere uno, gli editori, all' atto del contratto, specificano bene il numero dei morti che vogliono, il loro sesso, età e condizione. C ' è la «richiesta» da accontentare. Nascono i romanzacci d 'appendice farciti di vittime, di ricatti , di sorprese ingenue. Molto spesso, alla fine di un romanzo, tutti i protagonisti si scoprono parenti, si abbracciano commossi e vanno ad abitare lontano da Parigi , in campagna, dove si è più SICUri . I l mondo conosce, dopo la guerra del 1 8 70, il suo più lungo periodo di pace . I pensionati, le zitelle, i sanguigni non digeri­ scono più se non hanno la loro piccola emozione quotidiana, quella che soltanto riescono a dare gli scrittori di terz'ordine. Un edi tore chiama Sue e gli promette dieci franchi in più per ogni morto che metterà nella sua «appendice» . Sue fa subito af­ fondare una nave con mille persone. I n Zola queste pessime esperienze prendono una forma nobile: ma Zola fa il romanzo sociale e non ha tempo da dedicare ai delitti fine a se stessi . Pure nella Bestia umana un particolare è degno di nota. I due amanti, 92

in attesa di ammazzare il capostazione, che si spogliano nudi, nella stanza buia, per non sporcarsi di sangue durante la collut­ tazione che «avverrà». Gli scrittori polizieschi possono sommariamente dividersi in amanti del pugnale e amanti della rivol tella. Quelli dell' ultima variante sono i più . È la variante rapida, moderna, indolore, che non macchia, come certe tinture per capelli. Sono perfezio­ namenti tecnici che hanno una loro importanza. Anche le signo­ rine possono leggere senza provare orrore romanzi in cui i pro­ tagonisti si sparano elegantemente. Il morto, spesso, ce lo tro­ viamo davanti aprendo una porta, seduto in poltrona, con la si­ garetta spenta nella mano che ciondola. Raramente assistiamo all' esecuzione. Il romanzo poliziesco si popola di signorine che aiutano il giovane poliziotto nelle ricerche e alla fine se lo sposa­ no di prepotenza. Sherlock Holmes fu ma la pipa, procede coi piedi di piombo (metodo scientifico) , raccoglie le cicche, ricostruisce il delitto. N egli intervalli, come l ngres , suona il violino da buon dilettan­ te. Ma è un Dupin imborghesito, senza genio e senza sorprese. Le sue qualità di buon funzionario portano all'inflazione di Ed­ gar Wallace. Nel romanzo poliziesco inglese non si alza mai la voce, si prende il tè alle cinque e l ' assassino, quando è scoperto, cerca d'inghiottire una pillola di veleno. L'autore non vuole n me. Abbiamo cominciato centinaia di libri gialli e dopo cinquan­ ta pagine il libro non ci nascondeva più niente . Sono, per la maggior parte, frutto di una meccanica che scopre subito le bat­ terie ed è questa forse la ragione più vera della loro fortuna. Il lettore non si sforza, «vede>> le cose invece di ricostruirle e legge come se facesse un esercizio fisico . C ' è anzi qualche scrittore che ha detto appunto questo: che i libri gialli tengono il cervello sve­ glio, lo abituano al ragionamento sottile. Sarebbe come dire che le sigarette aiutano a respirare e tengono i polmoni in moto . I li­ bri gialli contengono anche loro una certa nicotina che istupidi­ sce, sforma il senso delle cose, combatte la logica. La fantasia degli assassini comincia a esaurirsi . Gaborieau nell'unico suo racconto intelligente, L'uomo mancino, scopre le cause del delitto con un sofisma. Da allora i sofismi non si sono più contati ; Agatha Christie è ricorsa persino all' assurdo, facendo commettere il delitto al re­ latore del racconto, che alla fine, dopo le inutili indagini, dice: «Sono stato io» . Che faccia tosta! Sono mezzucci che una volta usati si scaricano e non servono più, vittime della loro stessa ori93

ginalità . Cosicché non vedremo più un film - è augurabile - in cui l'assassino sarà lo stesso assassinato, come succede appunto in Tu m 'appartieni. Il congegno di questo film è il solito. Gli indizi accusatori si accu mu lano vol ta per volta su tutti i protagonisti. È strano che nei li bri e nei film gialli non ci siano mai al tri protagonisti che non abbiano il massimo interesse a veder scomparire il «mor­ to» . In Tu m 'appartieni a un certo punto si ri uniscono tutti in un salone per ripetere la scena del delitto: e allora si viene a scopri­ re che il colpevole è il morto, lo stesso fantoccio che giace disteso e composto, con le sue scarpette rigide. Egli voleva avvelenare un suo rivale in amore. Per uno sbaglio degno di Charlot, ha be­ vuto lui nel bicchiere fatale. Ed è ' morto, come si vede, per la­ sciare nell'imbarazzo, durante due ore, i salutari di enimmistica poliziesca che affollavano il cinema Barberin i . I l film è elegante, di quell'eleganza che s i ritrova sempre nei film del genere . Vasti saloni, camerieri, biblioteche, biliardi, fiu­ mi di liquori, comparse di prima categoria. I n mezzo a tanto spreco la severa maschera di Dorothea Wieck, la stessa di Ra­ gazze in uniforme, fa un curioso stacco. E questa fine ingloriosa della brava attrice tedesca non è il mistero meno affascinante del film. 10 luglio

5 7 . Destino delle bisbettche

Certi motivi , per esempio quello della ragazza bisbetica vin­ ta dalla forza di carattere del giovanotto, sono universali ed eterni, fanno presa anche sul pu bblico più sbadato ed estivo del mondo, che è, supponiamo, il pubblico del mese di luglio a Ro­ ma. I nsolitamente pieni i cinema, quest'anno, di gente che non va in villeggiatura, non va al caflè e non sa perciò dove sbattere la testa. Cos icché anche il richiamo di quattro visi sconosciuti, mai visti nemmeno nelle fotografie dei settimanali , può bastare. Anche se aggravato da un titolo anodino e dalla firma di un re­ gista che non può nascondere la sua discendenza spagnola. I registi spagnoli ci convincono poco: quando si chiamano Manuel Romero ancora meno. Un nome simile fa pensare a quegli attori violenti e predestinati che nei film western hanno la parte del «cattivo)), portano baffi e frustino e poi, sul più bel­ lo, vengono spediti al Creatore, a saldo delle loro prepotenze. 94

Manuel Romero è certo un bel dubbio da risolvere per chi ama vedere spettacoli a colpo sicuro, e vuole nomi che siano di una certa garanzia . Noi, perché negarlo?, apparteniamo per mag­ gior disgrazia a quella specie di innocui esperti che deducono il valore di un film dalle fotografie esposte nell 'atrio del cinema. È una passione lombrosiana, dilettantesca, che riempie di fiducia verso se stessi coloro che ne sono posseduti. Del resto non c'è piccolo scrittore d' avventure che non cada in tranelli simili ., Persino nel pessimo romanzaccio che stiamo leggendo per am­ mazzare il tempo, l' autore non può fare a meno di farci osserva­ re che quel tal personaggio denota, dalla piega delle labbra, una non comune forza di carattere e, dagli occhi, uno spiccato spiri­ to d'avventura. Davanti alle fotografie esposte nell'atrio, il gu­ sto di ispezionare, di trovare quel punto debole che infirma la scena più complessa, ci afferra senza possibilità di scam po. Co­ me veste la diva, come si muovono le comparse, com' è arredato il salone sono tutti motivi di solito sufficienti per farci presume­ re il risultato finale. Ma stavolta dinanzi alle fotografie di La bionda della strada sentivamo - come si dice - la mancanza di qualche elemento. Non saremmo mai venuti a capo del nostro giudizio se, dopo essere entrati regolarmente nella sala, non ci fossimo accorti che il film era di produzione argentina. Questo particolare aveva la sua importanza. Per la prima volta in vita nostra ci trovavamo faccia a faccia con un film ar­ gentino, girato cioè nella Repubblica Argentina con attori locali e una trama locale. Tenuto conto del caso eccezionale, anche il signor Romero, che diventava immediatamente argentino an­ che lui, ci sembrò più degno di fiducia. È la novità che dà il sale alle cose. La bionda della strada è un filmetto che non scopre davvero l'America, nemmeno quella del sud. Ma c'è modo e modo di non scoprire l'America e il modo adoperato dal nostro amico Romero e dai suoi solerti soggettisti ottiene dei risultati abba­ stanza onesti. Dopo aver letto Shakespeare, o meglio dopo aver visto la Bisbetica di Douglas e Mary Pickford (il che è più verosi­ mile) dalle parti di Buenos Aires si è pensato bene di fare una versione sudamericana con La bionda della strada . Abbiamo così Caterina e Petruccio in un'avventura edulcorata, gentile, col fi­ nale che c'era d'aspettarsi, cioè positivo, raggiante. Elisabetta Costa è una ricca ereditiera. Passa le sue vacanze su certi monti delle Ande che sono pur sempre legati al nostro ricordo delle prose deamicisiane. È una ragazza, Elisabetta, an­ zi Betty, s controsa, viziata, con la testa piena di pazzie colorate. 95

In una sola serata pianta due fidanzati e fugge sola verso Bue­ nos Aires in automobile. Sulle pessime strade del paese ha mo­ do di vivere qualche avventura. Un giovane che fa servizio di corriere tra la capitale e i paeselli d'oltre montagna, la porta con sé, le dà lezioni di galateo, la tratta male. Il segreto di questi giovani consiste in questo, che trattano sempre male le donne che vanno a capitare tra i loro piedi. E le donne non aspettano altro per cadere innamorate . Anche Betty si innamora e porta a casa sua, nei grossi saloni di gusto sudamericano, il bel corriere. Naturalmente la vita elegante sta al giovane come un paio di guanti stretti in un giorno di scirocco . I l poveretto geme, sospira e alla fine, quando vede che la sua fidanzata non ha perso il vi­ zio di trattenersi con gli ex fidanzati in giardino e di notte, se ne ritorna alla montagna col cuore sotto i tacchi. Fino a questo punto la verità si afferma egregiamente. I l se­ guito viene a patto con quel complesso di placide accettazioni che si chiama «lieto fine» . Betty raggiunge il suo uomo in piena pampa e insieme a lui se ne va cantando verso la felicità. Di quanta durata questa felicità? I l signor Romero non ce lo dice, ma basta guardarlo negli occhi per capire- che nemmeno lui cre­ de in quel che ha fatto. Un vecchio film americano, che ha attratto persino l' atten­ zione di Pudovkin nel suo trattato di sceneggiatura cinemato­ grafica, portava lo stesso eterno argomento con una conclusione però opposta. Si intitolava, cred iamo, Doppia partita . · Ricordia­ mo quel film con una certa nostalgia, appunto per l' audacia e la tristezza delle sue conclusioni. Che sono poi , a pensarci bene, più morali di quanto non sembrassero a prima vista. Nel film in questione (vecchio del 1 925 a dir poco) due coppie di diversa condizione sociale si mischiano. L'autista sposa la miliardaria, il miliardario sposa la lavandaia. Attraverso quali plausibili av­ venture le quattro persone si trovano scontente del loro d estino e decidono due divorzi e due nuovi matrimoni non è il caso di accennare. Soltanto quel film metteva una pietra abbastanza pesante sui domatori di bisbetiche, chiedendo loro, come prima condizione, una situazione economica pari almeno a quella del­ le donne che avrebbero domato. I l film al quale si riferisce Flaiano si intitolava in realtà Coppia ide�le, versione italiana di Saturday Night ( 1 922) di Ceci! B. De Mille, scritto dajeanie Macpherson e interpretato da Beatrice joy e Conrad Nagel. Vsevolod Pudov­ kin ne parla nel libro La settima arte, a cura di Umberto Barbaro, Editori Riu­ niti, Roma 1 96 1 , pag. 94 [da Unfilm alla settimana, a cura di Tuili o Kezich con la collaborazione di C inzia Romani, Bulzoni, Roma 1 988, p. 1 1 5). •

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La nostra Betty, invece, ricca a milioni, con tre automobili folgoranti e una serie di parenti bonaccioni si decide per il pane e formaggio là nelle Ande im pervie. Non si dica che l' ottimismo cinematografico non vinca l ' esperienza più incallita. C iò che porta il film in una certa zona di verità è lo svolgi­ mento della parte centrale, la lunga corsa attraverso la pampa su un macinino parlante. Anche l'episodio risolutivo, quello che dovrebbe mostrare il cambiamento di carattere della bisbetica è scelto con sicura mano. I n una casetta sperduta, una povera donna sta per partorire senza nessun aiuto ed è proprio la no­ stra milionaria, bizzarra tiranna di cameriere, che si presta alla delicata impres a. Anche la poesia scatenata di certe zone argen­ tine, con le strade paurose, i classici briganti evasi, che fanno parte del paesaggio, è resa con attenzione. Gli eroi di questa av­ venturetta utilitaria sono Pauline Lingerman ed Enrique Serra­ no. Pauline ha l' aria invecchiatella, caparbia, naviga verso i quarant'anni : ma è forse proprio questa l'età cruciale delle bi­ sbetiche milionarie che, così , ad un tratto, improvvisamente, decidono di emendarsi. Enrique è un ragazzo bonaccione, con tendenze nordamericane ma, in segreto, tenore e chitarrista. Del resto, questa della tendenza nordamericana è la qualità più curiosa degli attori del film. Basta vedere le ricche comparse at­ teggiate al gusto anglosassone, i balli, dati con lo splendore pu­ ritano, i baffi a spazzola e le parrucche bionde profuse da mano maestra sui componenti della famiglia Costa per farsi un'idea di certe segrete aspirazioni argentine e dello spirito d'imitazione che anima la cinematografia così brillantemente rappresentata dal signor Romero. 1 7 luglio

59. A vventure canicolari Dimmi di sì, filmetto di stagione come i cocomeri e la villeg­ giatura, riprende tutti i temi della tradizione avventuristica­ sentimentale di Oltreoceano e li sfrutta a modo suo, con molta allegria. Ma che cosa rimane dell'innocenza originaria di quei motivi , quando vengono trasportati dalle piaghe felici del medio West, sulle rive del Danubio, nei castelli della Slovacchia o del Reno? In quei luoghi che sembrano avere un secondo volto nelle canzoni schubertiane, nei costumi pi ttoreschi, nel tono di vita civile e brillante e operettistico e che, nello stesso tempo, sono 97

sotto il segno di un edonismo di seconda mano? Quest'edoni­ smo si rivela più che nelle intenzioni di chi prepara i soggetti e li dirige, nella scelta degli attori o nel particolare gusto con cui so­ no addobbati . Le attrici sono di una bellezza egoistica, quasi fri­ gida, regolate da un'igiene morbosa. Sempre messe dentro parti di ragazze capricciose e volubili, vi stanno perfettamente a loro agio, si direbbe che quella è la loro pelle. Gli attori, nel vestirsi, mostrano una forte predilezione pei vestiti chiassosi, le tinte pa­ stello, i morbidi cappottoni di pelo, le cravatte aggressive. Odo­ rano, si può dire, di lavanda al punto che le mosche fuggono ter­ rofizzate dai luoghi -che percorrono. Amano frequentare gli al­ berghi di montagna e bere spumante nei ritrovi notturni in finto stile tzigano. All 'improvviso un violinista si affaccia dietro le lo­ ro spalle e suona un tango berlinese. Non si può in ques ti benedetti film, guardare le teste dei comprimari senza dover ammettere che sono rigorose e lucide. I monocoli, dal canto loro, s'incastrano nelle orbite, le sciarpe da collo (che «fanno» l' aria vissuta) si avvolgono con studiata ne­ gligenza, le pipe si tengono fra i denti con molto impegno . Cosa c'è nel cuore dei nostri eroi se non un indefinibile desiderio di vivere nelle gioie più costose e alla moda? I guanti di pelle di porco stanno sul volante dell'automobile color crema. Dentro i guanti le mani del giovane Viktor de Kowa fremono nell' attesa della capricciosa Luise Ullrich. Sono questi i film in cui i protagonisti fanno sempre le valige in fretta e con comica disinvoltura pigiando tutta la biancheria in una volta. Resta fuori uno spazzolino da denti che, tra le mat­ te risate del pubblico, vien gettato fuori della finestra. «Come vivono, questi signori, dove vanno, donde vengono?» verrebbe voglia di chiedersi parafrasando un titolo di Sanguin . Nessuno può rispondere con certezza. Sono creature che a furia di esser immaginate hanno finito col prendere corpo anima e abitudini. Iscritti allo stato civile della cinematografia prosperano sensi­ bilmente e continuamente . Al principio del film tanto l'Uomo che la Donna sono an­ noiati , fanno dello sport senza convinzione. È lo spleen del mil­ lenovecentodieci che circola nel loro sangue . I loro parenti, da quel che s' indovina, sono ricchi a milioni, gente per bene. Per una combinazione qualsiasi «i due» s'incontrano e cominciano subito la serie dei dispettucci reciproci, delle ripicche, delle cor­ se attraverso l'E uropa centrale in vagone letto in automobile e in aeroplano. Dice Emerson che è l' abitudine, la continua appli­ cazione che fa le cose di questo mondo perfette. I tramonti sono 98

così belli e ammirati perché la Natura è da migliaia di secoli che insiste ogni giorno a farli . Si può applicare la sentenza anche' a questi personaggi? Purtroppo no. Ogni volta che sono ripresi e riportati sullo schermo convincono meno della preced ente. Questa volta con Dimmi di sì , titolo profumato, si rinnovano le scorribande dei film senza conseguenze. È la storia solita. L'innamorato freme di quell'amore noioso che tutti conoscono, l'amore delle scommesse per un bacio, dei qui pro quo, degli in­ seguimenti in tassì . La vittima è invece seccata, ferma nel suo «no>>. È il «no» retorico richiesto d alla trama per fare andare avanti la baracca. Il giovane fatuo s'ispira allora alla tecnica dei racconti gialli e commette una serie di impensati rapimenti con cloroformizzazione. La giovane, appena sveglia, si ribella e cer­ ca di fuggire. Rompe un certo numero di vasi con la tecnica fri­ vola cara a Danielle Darrieux e a tutte le «vivaci» del cinema. Ingaggiata così, la lotta corre s u due binarì di velluto sino alla sua logica conclusione. L'eterno ottimismo di Viktor de Kowa infrange le resistenze di Luise Ullrich . Costei è baciata, vinta, sposata negli ultimi trecento metri del film. Dal matrimonio di costoro nasceranno altri personaggi per le solite commediole . Siamo da capo. Luise Ullrich è una bionda graziosa, con la pelle dorata di chi ha preso il sole all'albergo diurno. Sul suo viso si ritrova l'in­ cosciente paganesimo della pubblicità per le creme contro gli eritemi solari. Ma, oltre ciò che dicono chiaramente le sue membra di gastrosessuale, quest'attrice non ci racconta nulla di interessante. E ancor meno ci racconta il suo antagonista che è pieno di compiacenza verso se stesso. Ne La Signora del terzo piano ritroviamo tutta intera la tecnica di Yves Mirande del film Dietro lafacciata. Si tratta di un filmet­ to prudente e timorato di Dio. Qui non c'è nemmeno il delitto a giustificare le copiose indagini dei poliziotti. Una signora, la stessa del titolo, è ferita in condizioni miste­ riose. L' assalitore non si trova. ,Tutti gli inquilini , allora, vengo­ no sospettati. Si sa come sono le faccende intime degli inquilini che abitano il palazzo del delitto . Tutti si prestano a malintesi. Ognuno può essere stato l'assalitore. Ma costui, per comodità spettacolare, è sempre il meno sospettabile. Film del genere valgono soltanto per la grazia con la quale vengono raccontati. Ci si ferma a curiosare sul luogo del delitto con gli agenti, si assiste allo sciorinamento dei lati > ) e provoca così i ricatti del ballerino, perché la brava moglie vor­ rebbe tener nascosta la sua seconda edizione matrimoniale . U n brav' uomo l'aiuterà nella bisogna. Kronsky, alla fine, muore e allora il brav'uomo, tolto di mezzo il ballerino, porterà all' altare la signora Kronsky, non nuova, come si è visto, a queste cerimo­ nie. L'interpretazione è buona, affettuosa, da parte di tutti, Ka­ te von Nagy è la signora Kronsky, Jean Murat, l'ottimo aiutan104

te. Degli altri due personaggi il nome si è perso nelle pieghe del nostro taccuino. 14 agosto

6 5 . Quattro intrecci, un soldo

Quanti sono i film che sono nati prendendo per spunto la vi­ ta collettiva delle ragazze non siamo più capaci di contarli. La colpa non è della nostra capaci tà aritmetica: l' argomento «ra­ gazze)) è così passibile di variazioni che, certo, sino all' infinito la cinematografia potrà occuparsi di ragazze in collegio, in angu­ stie, in pieno sviluppo, senza timore di ripetersi o di annoiare il pubblico. Già per annoiare il pubblico ce ne vuole! Un feroce osserva­ tore del secolo scorso si domandava quanti imbecilli occorrono per formare un pubblico; oggi bisognerebbe chiedersi quanti entusiasti. Nel cinemetto del paese dove siamo stati a passare qualche giorno, abbiamo capito quanta passione il cinemato­ grafo fa nascere nell' animo delle persone per bene. In città, spe­ cie nelle grandi città, il cinema finisce col diventare un vizio o, alla meno peggio, una prepotente abitudine. Ci si va ogni gior­ no, si consultano affannosamente i programmi nei giornali, e così , col tempo, tu tto quel mondo posticcio di celluloide che esce dalle «fabbriche di sognm) agisce come una droga che esal­ ta, ma vuole, dopo, altra droga , fino a procurare un intossica­ mento. Chiedere alle om bre dello schermo un surrogato di vita significa voler cambiare il divertimen to in fissazione e procurar­ si più fastidi che gioie. Nei paesi , o almeno nel paesetto cui abbiamo accennato, il cinema è invece il premio settimanale, la torta della domenica per tutti e diventa perciò qualcosa di affascinante e di atteso. La sua forza è nel semplice fatto che esiste e si ripete ogni volta, co­ me un miracolo. Il pubblico è già contento di veder muovere gli attori o di sentirli parlare e non guarda troppo alle sottigliezze tecniche ed estetiche. Così tutto gli piace, tutto trova una gius ti­ ficazione umana ai suoi occhi, anche il filmetto estivo rifiutato dalla grande città. Piacciono soprattutto i film cantati, i film av­ venturosi, storici, gialli e rosa. Fuori la porta del cinema i ragazzi aspettano che il custode li faccia entrare gratis e, intanto, famiglie al completo s'ingorga­ no nella sala come un torren te vestito a festa. Qualsiasi cosa 1 05

esca dal fiotto di luce della cabina e si definisca sullo schermo, viene accettata con riconoscenza da gente così ben disposta. I vecchi film di Beniamino Gigli riacq uistano di colpo la loro pri­ mitiva freschezza, le avventure di Ken Maynard sembrano gi­ rate l' altro ieri, le lente storie della cinematografia francese infe­ riore, anch'esse trov à no le loro lagrimucce di assentimento. È il trionfo del produttore, di colui che sa i gusti del pubblico, dello specialista in «trovate», dei puri di cuore, insomma. L'attor co­ mico fa una smorfia e le più belle, esagerate risate lo accolgono. L'ultima delle ingenuità trova dei gustatori . Niente si spreca o passa tra l' indifferenza. Il cinema funziona come un tonico, ren­ de felici, è la vita stessa che scorre tra le poltrone, una volta la settimana. Un film di Edward Robinson, poliziotto che combatte certi farabutti di gangsters, lo abbiamo «vista>> per la prima volta co­ sì come va «veduto» (cioè prendendo parte attiva e facendo an­ che poi commenti di bellissima buona fede) nel cinemetto di paese, tra ragazzi che urlavano di gioia ai colpi del brutto attore e persone grandi che non si cura vano affatto di celare la propria emozione. La settimana seguente ci portò un film di Edwige Feuillère, dedicato alle persone di ottimi sentimenti ; il film ri­ scosse tutte le approvazioni possibili e, poiché la protagonista «moriva>> per eroismo e per sbadataggine, le mamme sospiraro­ no, alla fine, guardando sgomente le proprie figlie. E così, gli app lausi del pubblico, ci hanno insegnato che i film «tristi e la­ gnosi» sfortunati nelle sale cittadine, hanno anche loro giorni belli. La terza domenica, noi che di solito andiamo con rilu ttanza al cinema, eravamo al nostro posto prima dell'ora fissata, già presi nel giro di una magia che, in cjttà, non avvertiamo nem­ meno. Il film in programma era Ragazze sole delle quali appunto avremmo parlato subito se la parentesi non ci avesse preso . La regìa di questo film è di un signor Krueger; l'interpretazione della signorina Danielle Darrieux con contorno di belle ragazze francesi . Un solo attore prende parte al film ma, per la estrema delicatezza dei suoi lineamenti e anche perché in una scena ap­ pare vestito da donna, possiamo non tenerne conto e credere al­ la sinceri tà del titolo. Ragazze sole è un film che riprende la tecnica cara a Vicky ' In realtà di J. Deva! .

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Baum per i suoi romanzi, ossia impernia la sua vicenda in un ambiente corale. Alla fine, tutte le storie dei singoli personaggi risultano integrate una dall'altra . Si vede così in questo «circo­ lo» per ragazze sole, fondato da una benefattrice e dirètto da due ottime signore che curano di togliere alla «città tentacola­ re» più prede che possono, sfilare la storia segreta e palese di ogni ragazza . Naturalmente di quattro ci parlerà più a lungo il regista. La prima è una giovane danese, che arriva a Parigi per studiare pittura e poi attraverso oscure avventure riesce a fidan­ zarsi con un vecchio milionario. La seconda, telefonista del cir­ colo, persona ambigua e cattiva consigliera delle ragazze meno esperte della vita, sconterà i suoi peccati per intervento della terza ragazza, una dottoressa dal carattere sibillino ma abile av­ velenatrice. L'ultima, Danielle Darrieux, è la nota gaia, per cui il film fatti i conti, sembra più rosa che grigio. Danielle è qui nelle vesti di una giovane ballerina di varietà innamorata di uno studentino. Come fare a vedersi se nel «circolo>> gli uomini non possono entrare? È a questo punto che la furbissima protagoni­ sta trucca il fidanzato da ragazza. Il risultato di questo espe­ diente si vedrà alla fine del film, sotto forma di un marmocchio che mette la rivoluzione tra le dirigenti ma afferma i diritti alla vita. Ragazze sole è un film di cui non ci si spiegano facilmente gli scopì. Propaganda, forse? Se vuoi essere di incoraggiamento al­ la fondazione di circoli per ragazze, si deve dire che ha scelto gli argomenti meno abili. Ma non crediamo che il regista si propo­ nesse tanto. Il racconto, lungamente particolareggiato dei quat­ tro «casi» lo ha interessato molto di più e, infatti, egli lo ha svol­ to con molta attenzione e abbastanza fortuna. Il pubblico del ci­ nema paesano, che si trovava a vedere quattro o forse più film in un solo film, ha applaudito più del solito. E a noi cosa rima­ neva da fare? 11 settembre

67. Un mostro a puntate La cinematografia americana è piena di cidi, come del resto la letteratura classica. Il ciclo delle tre ragazze in gamba, quello di Jeanette MacDonald, del cavallo Tony (proprietario Tom Mix) sono però ben poca cosa confrontati alla straordinaria se­ rie di avventure dell'attore Boris Karloff che, sugli schermi, può 107

essere considerato l'Ulisse dell ' I nverosimile. Specialista in truc­ cature orripilanti , cos tui sta dedicando tutta la sua vita all'alle­ vamento cinematografico di mos tri-fantasma. Nel suo «genere» non hanno posto le storie semplici o che non s' ispirano comun­ que a un gusto denso, appiccicoso e macabro ad ogni costo. La sua faccia malinconica, piena di avvallamenti, di pieghe e di ri­ succhi ha portato la fantasia degli au tori wellsiani alle più scia­ gurate invenzioni, ha incoraggiato gli incubi del pubblico, il sa­ dismo dei registi e la temerità dei prod uttori . Boris, ormai , è una maschera, uno «zanni>> spaventoso for­ nito di una malizia grossolana e troglod ita ma potente come uno schiacciasassi: una maschera, s'intende, che ha il suo bravo posto nella mitologia cinematografica contemporanea. Strucca­ to, con la sua faccia di canonico tormentato da dubbi teologici , Boris Karloff ispira una certa simpatia mista a compassione, ma appena può mettersi quattro peli falsi e un po' di cerone sul viso, tutta la sua tristezza si cambia in una specie di ottusa mal­ vagità, le sue mani diventano quelle di uno strangolatore pro­ fessionista, la sua scatola cranica «respira)> come un grosso ro­ spo e la bocca fa pensare all'odio naturale verso gli uomini che c'è in quella del coccodrillo. I suoi occhi, d'altra parte, chiedono una vittima qualsiasi , magari una spettatrice delle prime file. I film in cui appare quest' attore sono un' elementare sfida al­ la logica, vi si parla almeno di raggi infernali e di ricerche scien­ tifiche arditissime : tutte cose che i tecnici del trucco ottengono poi con una presa di corrente e un po' di bicarbonato. Il tono misterioso dei racconti di Hoffmann finisce per confondersi con le «puntate» dei giornaletti per ragazzi. L' elettricità vi ha un gran posto, come motore dell'azione. È l' elettricità che si ritrova nei racconti dell'Ottocento, ancora opera di Satana sconsacrata e temuta dalle persone per bene. Negli apocalittici gabinetti si facevano ricerche di gusto mesmeriano, piene di intenzioni me­ tafisiche non certo industriali. La mis teriosa sorgente serve ai registi di Boris per risusci tare cadaveri , colpire a distanza e dare soprattutto al film un diabolismo scientifico molto scenografico . Grossi tubi luminosi, lampi lunghi un metro, manovelle, com­ mu tatori e fili arricciati danno allo spettatore lo sgradevole ri­ cordo delle prime «scosse» prese da bambino nel toccare le lam­ pade� In questo sgradevole ricordo le immagini seguenti scava­ no, si fanno una base per far accettare al nostro animo preoccu­ pato tutte le altre meraviglie del film. Ma le creature che quest' elettricità hollywoodiana riesce a evocare hanno in compenso la vita corta e difficile e muoiono 108

anzi improvvisamente come, al risveglio, i fantasmi del sogno. Anche Boris Karloff è costretto a morire ogni volta senza nem­ meno redimersi e a far male al suo prossimo senza essere perdo­ nato. Né si parla mai di dargli una fidanzata, una ragazza qual­ siasi, segno, questo, della riprovazione della censura americana per gli esseri sprovvisti di sentimento. Persino a King Kong si permise un amore che a Boris si nega. King Kong con le sue grandi zampe, prima di morire, sollevava lentamente Fay Wray e, con infinito amore, la sbucciava degli abiti come una banana. Boris invece è il maledetto, l'inaccostabile, creatura artificiale, l'essere contro cui non la spuntano nemmeno le rivoltelle e figu­ rarsi poi la polizia! Cosicché dovrà morire in maniera totale, per esempio arros tito in una sorgente di zolfo a 800 gradi di calore, come appunto succede nel suo ultimo film. Non deve restare nemmeno la speranza di poter recuperare il cadavere. Dopo il film, Boris si strucca e si fa fotografare a casa sua. Lo si vede nella stanza di soggiorno bianco come un clown , con un sorriso da cane buono e sempre melanconico . Vicino gli è la moglie, vispa donnetta americana, tutta presa nella confezione di un grosso dolce . Così vivono, in privato , i fantasmi d'Oltreo­ ceano . Il figlio di Frankenstein riprende la trama del primo film del genere che si intitola, appunto, Frankenstein e fu , se non sbaglia­ mo, una specie di eco alla nascita del Dottor Jekyll. Lo spettato­ re viene subito informato che la trama è ricavata da una novella scritta nel 1 8 1 6 dalla signorina Mary Wollstonecraft . * (Quando consigliamo le nostre lettrici di non scrivere novelle, per nessun motivo, è forse un angelo che c'ispira.) Il figlio del celebre dottore ritorna nel castello avito dopo una lunga assenza. Subito s'imbatte nell'ostilità dei suoi concit­ tadini poiché molti mis teriosi omicidi sono stati attribuiti dalla fantasia popolare al fantasma del castello, anzi al fantasma del­ la creatura di Frankenstein senior. Ben presto Frankenstein ju­ nior si accorge che invece di esser morto il mos tro è tuttora vivo, per una deplorevole dimenticanza del regista del primo film. Però il morto è paralizzato dall'effetto di un colpo di fulmine. Subito il giovane per amore scientifico tenta gli esperimenti elettrici del caso sul suo corpo. Gli avvenimenti del film ci mo­ streranno il mostro redivivo in tutta la sua macabra attività, si­ no alla fine dei suoi giorni. La quale, bisogna dirlo, viene accol­ ta con un certo sollievo da tutti i presenti . ' Lo spettatore in questo caso è stato male informato: il classico di Mary Shelley è un romanzo (nove!) . 109

Gli attori di questo film, diretto da Rowland Lee con bravu­ ra, stanno tutti a posto loro. Basil Rathbone, il perfido per ec­ cellenza, col suo naso da pessimista senza scrupoli qui fa la par­ te del giovane dottor Frankenstein e mostra un volto nuovo, più calmo del solito, capace di buoni sentimenti paterni. Né potreb­ be farne a meno avendo per moglie la liliale Josephine Hut­ chinson che precedentemente fu moglie anche del dottor Pa­ steur nel film omonimo con Paul Muni. Lione! Atwill ritorna, dopo parecchio tempo, anche lui. Ha una parte di ispettore di polizia, abbastanza curiosa. Atwill ha una grossa tendenza al frappant: si vede, qui, cosa sa combinare con un suo braccio di legno, quante acrobazie gli fa fare, come lo impone al rispetto e all' ammirazione del pubblico. 25 settembre

70. Ritorno all 'opera buffa

Insieme al nostro Direttore, questa volta, abbiamo sceso la scala del cinema Quirinetta. In questo cinema, dove solitamen­ te si viene per guardarvi le novità in edizione originale, ogni tanto è possibile esercitare un certo diritto d'indiscrezione - be­ ninteso, su invito - intorno agli ultimi prodotti della cinemato­ grafia nazionale. Questa volta è per Don Pasquale che ci si è mossi: un film del quale negli ambienti bene informati si dice un gran bene. Aria di festa, dunque. Sorrisi, complimenti, e quella piacevole atmo­ sfera di attesa che precede l 'a.rrivo sul palcoscenico del fanciullo prodigio che suona Bach a quattro anni. Sulla porta della sala, invece, è il regista Mastrocinque che fa gli inviti di casa, un re­ gista che, per quanto giovane, nessuno si sentirebbe più di chia­ mare bambino. Prima di entrare, il nostro Direttore, alla maniera di Virgi­ lio, ci fa osservare che sulla porta di un andito è scritto quest'in­ vito accogliente: «Chi vuoi bevere, chi vuol bevere, chi vuoi be­ vere venga qui» . Sono gli ultimi resti di una decorazione fantastica fatta ai lo­ cali della Quirinetta intorno al 1 92 7 , in pieno trionfo di capelli corti e di gioia di vivere. Si veniva, allora, alla Quirinetta, per passare allegramente le nottate e non i pomeriggi all'oscuro co­ me succede ora. Tempi beati e certo un po' facili, quelli: gli stu­ denti fermavano i tramvai, frugavano tra le rotaie e alla folla ac110

corsa spiegavano di star cercando la Titina . • Tempi in cui il mondo si avviava ad esser fatto commendatore, si moltiplicava­ no le conferenze sul disarmo, i giornalisti si battevano in duello, a New York veniva fondata la lega delle vedove di Rodolfo Va­ lentino, e in I talia il cinematografo tentava un' altra delle sue ri­ nascite. La Quirinetta era un locale alla moda dove i signori in mar­ sina e monocolo e le belle dame andavano ad ascoltare i primi virtuosi di j azz-band , a bere i primi cocktail e a tirarsi le ultime palline di ovatta colorata per far festa: cose che succedono, oggi, soltanto nei film dove il regista crede prudente mettere un taba­ rin per animare la storia. Da qualche anno la Quirinetta è di­ ventato quel cinema elegante che tutti conoscono, una specie di salotto educato e tranquillo. M a non per questo il triplice invito al bere può considerarsi inutile. Considerando anzi il gran nu­ mero di «invenzioni>> contenute nei film, ci sembra di maggiore verità oggi che allora. Bellissime, comode le poltrone della Quirinetta: e il pubbli­ co degli invitati altrettanto comodo e bellissimo. Belle signore che si conoscono tutte tra di loro; gravi capitalisti che in attesa di vedere un film che sperano cattivo mettono le basi ad un altro film sicuramente pessimo; giovani annoiati e ragazzi che invece ballano sulle poltrone per l'attesa; e infine, critici, come noi , senza nemmeno un lapis e un pezzo di carta per segnare i nomi dei «realizzatori» man mano che passeranno sullo schermo. Ma si comincia egualmente. È il Don Pasquale di Donizetti, naturalmente. Don Pasquale è Armando Falconi, un Falconi fatto vecchio e scontroso dal truc­ catore. È un avaro terribile, questo don Pasquale, tutto l'oppo­ sto di suo nipote ( M aurizio D'Ancora) che è prodigo e fatuo. Costui ama, riamato, una bella attrice ( Laura Solari) e con que­ st'amore indispone lo zio che vorrebbe invece accasarlo con qualche zitella ricca. Il dottor M alatesta suggerisce al vecchio di prender lui moglie per diseredare il nipote e gli propone (poi­ ché si tratta di uno scherzo soltanto) proprio la bella attrice. Ciò che segue, gli sviluppi di questo piccolo equivoco roco­ cò, tutti lo conoscono, almeno tutti quelli che hanno un certo amore pel melodramma. La sposina diventerà subito una pre­ potente signora; altri metteranno Don Pasquale nei pasticci, in modo ch'egli sarà ben felice di sapere che il matrimonio era fin­ to; e più contento ancora quando il nipote, furbo, verrà a to•

L'autore fa riferimento alla canzone dei primi anni Trenta Io cerco la Ti-

tina.

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glierlo melodrammaticamente dai guai . L'opera è stata rispetta­ ta per in tero, se si eccettua qualche variante e qualche aggiunta, necessaria a dar vita all 'azione. Sicché il film, agile, scorrevole e melodioso, si annuncia per un successo. Successo in tutti i sensi: buon fiuto nella scelta del soggetto e degli in terpreti e nella manipolazione. Mastrocinque sem bra aver avuto dei momenti felici , ed ha condotto avanti l'avventura con un piglio originale, vaudevillesco, facendolo denso di av­ venimenti e riservando una parte di commento alla musica e due particine di riposo alle due romanze, che sono, se ben ricor­ diamo, le migliori dell'opera . Forse piccole scene movimentate (quella del doppio schi affo nel corridoio del teatro) lo spettatore non più giovanissimo, ricorderà di aver visto nel Milione di René Clair, ma che importa? Tutto può servire, se non guasta, e non si diceva, forse, un altro francese pronto a prendere il «suo be­ ne» dove l'avesse trovato? E qui in Don Pasquale le trovatine non guastano davvero anche se talvolta un po' troppo osseq uenti al testo. Per esempio, il «raffreddore» di Don Pasquale può an­ noiare. Quando si vedono starnu tire gli attori sullo schermo, si pensa fatalmente a quei cattivi comici che, per far ridere il loro pubblico, finiscono col ricorrere ai mezzi meccanici . Resterebbe a parlare degli attori , ma come si fa a nominarli tutti? Laura Solari, naturalmente, non la lasceremo nella pen­ na; è brava, di una vivacità piacevole e sa essere persino inge­ nua. D'Ancora è il solito bravo ragazzo che sa il suo mestiere e non pensa che a fare il «giovanotto)), da Figaro e la sua grande giornata in poi, cioè da quasi dieci anni . Coop appare migliorato sotto la parrucca del dottor Malatesta; Greta Conda piace nelle vesti di Arianna e di più quando quelle vesti si toglie dietro un paravento; Nico Pepe, Elio Steiner, Sabbatini e Perozzi comple­ tano il quadro. Aggiungasi a questo una vera folla di ottimi ca­ ratteristi (che migliorano sempre più, nei nostri film) e si com­ pleti, infine, con Armando Falconi, in piena forma, per immagi­ narsi il peso che all'interpretazione è stato dato a questo Don Pasquale. Abbiamo detto di Falconi fatto vecchio dal truccatore . Alla fine del film, col riaccer;tdersi delle luci , dovevamo invece veder­ celo a quattro passi, giovanotto incorreggibile, con la camicia aperta sul collo, il volto abbronzato dal sole (o da un truccatore più arrendevole) e le sopracciglia inalberate . Le «sue)) sopracci­ glia, quelle che Falconi pettina prima di mettersi a letto e il giorno porta a spasso come una coppia di costosi e minuscoli ca­ gnolini pechinesi . 1 12

Molto «pulita» la regìa. È azzeccato, benché guasto in par­ te dalla cattiva colonna sonora, il principio del film, con le in­ quadrature di Pasquino e la piazza Navona in pieno mercato . Ottime le rievocazioni goldoniane, le mascherate, la serenata, eccetera. Circa i costumi, non sappiamo con certezza se nel l 790 si portassero tube «alla direttorim> con fibbie d' argento e abiti à l 'incroyable: ma che importa, non è forse il cinema l'unica fonte di miracoli che ci resti in tempi di così incallito positivismo? 16

ottobre

7 1 . Ritorno di Oliver

Non si sentiva parlare più dei due mattacchioni, il grassone e il magrolino, Stanlio e Ollio come il pubblico aveva preso a chiamarli. Dopo la lunga serie dei film fatti insieme, u n bel gior­ no ecco la notizia della separazione: ma cosa possono fare due amici (per la pelle) dello schermo il giorno che decidono di non esser più inseparabili? Un a certa tristezza gira attorno a queste decisioni : tristezza per un mondo che decide di sparire da se stesso. I noleggiatori di film per mettere qualche riparo alla si­ tuazione avevano tirato subito fuori vecchi filmetti dei due atto­ ri alle prime armi . «Scene comiche finali» d ' un tempo : doppiate a ven t'anni di distanza, scuri e magici, e con quella fotografia che fa pensare ai documenti delle sedute spiritiche. Annegati nel grigio gli attori vestiti in vecchie fogge non sembrano nien­ te di più di qualche materializzazione, e la pioggia che riga lo schermo riporta al naso l'odore dei vecchi pianoforti che sin­ g ? io � zavano Chopin a ogni occasione, nelle sale buie di pro­ vmcia. Odore di vecchi film ci è venuto dalle piccole farse di uno Stanlio più giovane e più secco, e tetramente truccato. Ollio, in­ vece, meno imponente di quanto lo sia ora, con l ' aria di un ra­ gazzone che, cresciuto troppo, abbia messo i calzoni del babbo, esprimeva tutta la sua arte in terribili cadute, anzi in violentissi­ me «sedute», poiché si trattava soltanto di colpi dati .s ul pavi­ mento col poster1ore. Tranquillo, con l ' aria di. chi sopporta tutto per amore di pace Ollio, dopo il colpo, guardava gli altri attori, tra le matte risate del pubblico. Con Zenobia è tornato a noi un Oliver nuovo di zecca e in113

vecchiato, cioè più riposato e meno estroso: un signore di animo e di maniere: ecco un comico, per capirci , che ha fatto una cura di educazione morale e nello s tesso tempo, d urante la sua assen­ za dallo schermo, ha frequen tato le scuole di contegno e belle maniere. Che cara sorpresa rivedere un grassone dalla comicità elementare , cambiato in un pacifico e dignitoso tipo di umoristi­ che disposizioni! È questo forse il merito più grande di Hai Roach, il prod uttore di questo film: l' aver saputo «riprendere» da capo il suo vecchio attore e avercene dato un altro che ricor­ da l'antico esteriormente ma sembra più fornito di gusto e di mezzi . Dalla farsa, Ollio, insomma, anzi il signor Oliver Hardy, è passato alla ricerca di personaggi umani : e chi, più che ridere, ama sorridere, non se ne troverà male affatto. Oliver ha in Zenohia la parte di un calmo dottore di una cit­ tadina del W est; dottore che, sotto un bello strato di grasso luci­ do, nasconde un cuore ottimo e generoso. Visita i poveri senza chiedere compensi, rifiuta le visite alle signore ricche e malate immaginarie, quelle che hanno la malattia di star troppo bene. È, insomma, un uomo onesto, innamorato del suo dovere; quando può dà un'occhiata alla dichiarazione dei diritti del­ l' uomo, per ricordarsi che quaggiù tutti siamo uguali e tutti allo stesso modo degni di rispetto. Ma sua figlia è fidanzata con l'e­ rede della più ricca e antica famiglia della città e la signora Car­ ter, madre del fidanzato, non vorrà ammettere un matrimonio così poco vantaggioso. Ad aiutarla nel suo pessimo proposito arrivano a buon punto i guai che combina Zenobia. Gli sviluppi di una trovata sorprendente occupano la storia di questo delizioso filmetto: Zenobia non è che un' elefantessa, la quale si ammala e viene guarita dal nostro Oliver, con un si­ stema molto semplice, sciogliendo il nodo che la bestia s'era fat­ to alla coda nell'agitarla. L'elefante è, come è noto, un animale molto riconoscente . Zenobia non sfaterà la leggenda e così la vedremo pian tare il padrone e seguire docile e innamorata il dottore. Il dottore non può quindi più entrare in casa pel timore di vedersela ridotta in macerie. È inoltre minacciato di espulsio­ ne dall'ordine dei medici, per la sua stravagante condotta, e su­ bisce, infine, un processo per «alienazione d'affetto>> da parte del proprietario di Zenobia. Quando le cose sem brano mettersi molto male, il giovane fidanzato le accomoderà con la sua ener­ gia. Decide anche lui di dare ascolto al testo della dichiarazione dei diritti dell' uomo e, sormontate le prevenzioni, sposare la fi­ glia del povero dottore. Hal Roach è il produttore . Per chi non ne ricorda l'opera, 114

basti dire che a lui spetta il merito di aver capito Stanlio e Ollio per primo, e averli lanciati insieme nel Fra Diavolo. Un portento, questo Hai Roach, dell'intuizione comica e soprattutto degno di rispetto per questo motivo: che dopo troppi film di una facilità desolante (piacevano però al pu bblico . . . ) ha saputo risollevarsi di colpo con questo Zenobia . Non vi staremo a dire con quanta grazia è, per esempio, raccontata la visita di Oliver all'elefan­ tessa malata; il progetto di dividerla in zone col gesso per poter­ la visitare scrupolosamente. Spesso la comicità scaturisce dal­ l' uso normale di un oggetto straordinario (come nel caso della medicina versata nella proboscide quasi questa fosse un imbu­ to) o dalla difficoltà di un compito semplicissimo (quando, car­ poni sotto la bestia, dottore e proprietario «cercanm> il cuore con lo stetoscopio) . Ma - dicevamo - che qui Oliver h a saputo trovare altri ac­ centi, oltre quelli che ben gli si conoscono. Per convincersi il let­ tore ricordi la scena tra lui e la figlia, nello studio, scena portata avanti a sorrisi, affidata ad una recitazione sobria e nobilissima. E, infine, nelle scene dell'implacabile inseguimento di Zenobia, come Oliver rimane a posto suo, nuovo, perfettamente umano e senza cadere nella farsa. Un'eccellente corona di attori gli ha reso, del resto, facile e gradevole l'impresa. Ci sono le due «svaporate», Billie Burke e Alice Brady, invecchiatelle ma sempre tenaci . Si rivede Jean Parker magrolina ma più simpatica. Ma la migliore sorpresa re­ sta Harry Langdon,* un caratteris ta nuovo, che ha la parte del­ l'imbonitore e anche al processo vorrebbe «piazzare» il suo pro­ dotto. Resta a parlare di Miss Zenobia: ma tutti capiscono che questa brava bestia non ha potuto che far miracoli in mezzo a una compagnia così scelta. 23 ottobre

72. Mito del dottore maledetto I n aggiunta al poeta e al castello maledetto, figure nate col gusto medioevale venuto di moda coi romantici del secolo scor­ so, non poteva mancare, nella mitologia del luogo comune, il dottore maledetto: ed ecco la letteratura a buon prezzo e più anLangdon ( 1 884- 1 944) era già sta to un comico famoso, con Sennett e, ali � fine degli anni Venti, in una serie di film di Frank Capra. •

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cora il cinematografo procurarcene subito degli esemplari ma­ gnifici . I quali, se destano, presi uno per uno, un certo interesse spesso umoristico, visti tutti insieme - e tenuto conto che divi­ dono coi conigli il dono della prolificità - possono persino spa­ ven tare . Troppi dottori maledetti ! Dovunque si spingano i nostri ri­ cordi, ne incontriamo. Il dottor Caligaris, lo schizofrenico dot­ tor Mabuse, i tremendi scienziati di Wells chiusi nelle loro isole a fabbricare scimmie umane, il pover dottor Jekyll, il dottor Frankenstein (il quale, ultimamente, ha varato persino «un fi­ glio») : e questi non sono che gli eminenti. Una folla di oscuri dottoretti, ormai persi di vista, li attornia: e a tutti si potrebbero aggiungere anche i bravi laureati che nei film americani pren­ dono la peste nera per provare poi la bontà del siero. Da un bre­ ve panorarpa si può dedurre che il dottore maledetto, come figu­ ra poetica, stia guadagnando punti nella classifica dei motivi che non si esauriscono facilmente. Un sentimento misto di scienza popolare, di credulità e di rispetto s'impadronisce dello spettatore allorché, sullo schermo, uno di questi dottori tormen­ tati viene a farne una delle sue. Si parla di raggio infernale che pietrifica a distanza, di scosse che fanno perdere la memoria e di ancor più strani fenomeni. Ma, generalmente, il chiodo di que­ sti ambiziosi scienziati è la lotta diretta contro la morte, o, al­ meno, lo sforzo di aggirarla imitando la vita . Carrel e Lind­ bergh in vent'anni sono riusciti a spese di non so quale istituto, a far funzionare un cuore di pollo, senza, beninteso, il pollo: ma cos'è questo formidabile risultato se si confr-onta a quello che, in poco tempo , il più mal fornito e facilone dei dottori cinemato­ grafici riesce ad ottenere? Pezzi di giovanotti in carne ed ossa, mostri audacissimi inattaccabili dai colpi di rivoltella, gente che pensa e può essere utilizzata lugubremente. E , di preferenza, macchine che farebbero venire la nostalgia a quel feroce re orientale (forse Gengis Khan) che prospettò l' idea di riunire tutti gli abitanti del mondo in una sola persona per poter taglia­ re la testa a tutti con un sol colpo di scimitarra. Il bello è che il pubblico si guarda bene dal dubitare dei dot­ tori dello schermo . E così quello stesso spettatore che al più pic­ colo difetto di verosi miglianza in un film normale comincia a smaniare nella poltrona, davanti alle lucide macchine di . un qualsiasi utopista tacerà ammirato e sognante. Una volta entra­ ti nel regno del fantastico, ogni metro comune di misura va di­ menticato: o accettare tutto o lasciare; e il pubblico accetta vo­ lentieri . 116

Ultimo dottore maledetto in ordine di tempo è j ean Durand nel film Il mondo crollerà . Costui ha inventato una macchina che predice con estrema esattezza la data di morte di un qualsiasi individ uo: studi severissimi lo hanno portato al risultato finale e ora non gli manca che un elemento per collaudare la sua inven­ zione, cioè che qualcuno si sottoponga alla «misura» . L'occasio­ ne si presenta più presto che non s'immagini e la macchina di­ mostra di avere ottime qualità . Il nos tro dottor Durand nutre, di conseguenza, ambizioni grandiose: e, invano, un suo amico, il dottor Gallois (che i doppiatori, per un mistero fonetico, pro­ nunciano proprio come si scrive) cerca di sconsigliarlo e indurlo a distruggere la sua tremenda invenzione. «Quando tutti» egli dice, con un certo buonsenso «potranno sapere l' epoca della propria morte non ci sarà obbedienza, lavoro, società organiz­ zata, eccetera. Il mondo crollerà .» Durand pensa invece che la sua macchina potrà procurargli parecchie soddisfazioni . Succe­ dono altri incidenti, altri decessi controllati, finché un grande fi­ nanziere - prendendo esempio da Sansone - decide, giacché la macchina gli ha predetto che presto dovrà lasciare questo mon­ do, di rovinare con la sua caduta più gente che può. Si avranno crisi finanziarie, file di dimostranti percorreran­ no le strade di Parigi con curiosi cartelli (su uno dei quali si leg­ ge la frase: «Noi vogliamo vivere» ) . Spettacoli che però non rie­ scono ad addolcire il cuore di Durand : né tanto meno ci riesce la fidanzata. Finisce che Durand , preso nel suo stesso giuoco, vuoi conoscere il suo destino e il responso della macchina non gli ac­ corda che pochi giorni . Così è, infatti . La previsione si avvera drammaticamente proprio per opera del suo amico Gallois. La macchina infernale sarà fatta saltare in aria. Lo spirito di Du­ rand, ormai pentito, va a raggiungere le ombre di tutti i dottori maledetti che l' hanno preceduto. È un film, questo, che spaventa più a raccontarsi che ad es­ sere visto : c'è qualcosa che non ingrana e una certa facilità sca­ rica gli effetti. La macchina che predice il destino, per esempio, ricorda un tassametro di automobile o un registratore di cassa. Il titolo originale del film doveva essere Tempesta su Parigi. Pove­ ro prod uttore che non immaginava quali altre tempeste si sa­ rebbero abbattute su Parigi, guas tandogli la sua magnifica idea pubblicitaria. Tra gli attori si ritrova Erich von Stroheim, il quale ricalca anche qui la parte di losco individuo dai modi perfetti che negli ultimi film ha di prevalenza impersonato . Grasso, col naso po­ tente come un aspiratore elettrico e il colletto della giacca che 117

gli tocca le orecchie, Erich si mette su bito in vantagg� o sugli al­ _ tri attorel li, che manca poco non facciano la figura d1 filodram­ matici . Claude Dauphin è il dottore maledetto. Roger Duchesne l'altro dottore, Gallois. Madeleine Sologne la «fidanzata�� . Il soggetto del film - diretto da Pottier - è stato tratto da un ro­ manzo di Carlo Al berto Dumas. Ricordando i due Alessandro, si pensa che a decidere la vocazione del nostro C arlo Alberto il nome deve essere parso una garanzia sufficiente. 30 ottobre

74. Un « Camerini» sincero

Il diciannovesimo è un secolo che piace al cinema: oggi in special modo che l'arredamento dopo le prime follie del com­ pensato e dell'impiallacciatura ritorna verso forme ottocente­ sche e la gente comincia a sentire la nostalgia delle porte che chiudono bene, delle coperte che tengono caldo e dei sentimenti che non cedono, questa predilezione è più viva. Invece appena pochi anni fa le epoche preferite erano senz'altro l'alto medio evo (con il gotico imperante nella messinscena) e ancor più il Settecento, secolo facile, pieno di abili ardori e orecchiabile co­ me una sonata di Pergolesi. L' Ottocento faceva sorridere: ed era fatto apparire appunto per poterne sfruttare le sue arie ingenue commoventi e un tantino ridicole. Non c'è stato film del genere che non abbia fatto vedere tube altissime, baffi arricciati, bicicli immensi, larghe gonne, cappelli a fettucce e panciotti vistosi, accoppiandoli, beninteso, ad una recitazione buffa e timida. La timidezza sembra essere, secondo certi registi, l'essenza stessa dell'O ttocento, unita come va alle belle maniere e alla sincerità. Quando sullo schermo la giovane coppia ottocente­ sca, imbarazzata e educatissima, stentava a dichiararsi amore, il pubblico sorridendo trovava che la verità era rispettata in pie­ no. Si facevano insomma a un secolo appena tramontato tutte q!-lelle qualità che nel nostro non trovavano più modo di attec­ chire: generosità, rispetto dell' amicizia, slancio, cuore, abnega­ zione, tutte cose che oggi, se proprio si vogliono avere, bisogna almeno saperle dissimulare . Gli americani hanno puntato con maggiore serietà su questa carta e qui è inutile ricordare Via Be/garbo (Dolce inganno) , Piccole donne, Davide Copper.field e simili innumerevoli film da cui sem­ brava sortire un buon odore di lavanda e che mandavano a casa 1 18

lo spettatore con una lagrima posata sulla cravatta come una spilla, una lagrima buona e necessaria che, tutto sommato, era il migliore applauso possibile. I registi italiani più scaltriti o, come si dice, scanzonati, dovevano scoprire invece soltanto l' al tro lato e i film che furono preparati, come Figaro e la sua gran giornata o Follie del secolo ( tanto per citare quelli che ci vengono in mente) vertevano principalmente sull'idea caricaturale dell'O ttocen to, sulle sue apparenze strane. Per quei registi tutto quello che era «Novecentm) ( non conteneva cioè quegli elementi come tabarin, equivoci comico-sentimentali , eccetera, che sono passati sotto il nome generico di elementi «Cines))) era «strano» e si trovavano perciò a combattere con un numero enorme di stranezze. Bene ha fatto dunque Mario Camerini a dare un taglio netto a quell' abitudine, che lui stesso, del resto, aveva messo di moda intorno al 1 93 2 . Il suo ultimo film, Una romantica avventura, ci sembra un atto di omaggio, un voler rivedere con occhi nuovi una materia abusata e ridotta in frantumi. Diciamo subito che il suo film è degno di stare a fianco ai migliori; e il difetto maggiore, che è una eccessiva semplicità di trama, finisce per farcelo amare di più. Non ci piacciono le cose molto complicate e intrigate: meglio, come in questo caso, una idea, anche piccola, ma portata sino in fondo con il cuore in ma­ no e una enorme voglia di non tradirla né renderla più bella. Una romantica avventura ha la trama ingrata dei primi romanzi di Gide (intendiamo La porta stretta) e il tono dolce della letteratura per signorine, di quelle che una volta leggevano Gozzano e oggi lo rileggono di nascosto per non parere sentimentaJi. Anche da questo film esce l'odore di un vecchio cassetto di secrétaire in­ sieme a mazzetti di fiori appassiti, vecchie lettere e miniature. E la melodia di un vecchio valzer piglia tutte queste cose, le impo­ ne al rispetto del pubblico, le «versifica)). Ricorda troppo questo valzer, suonato anche con molta insistenza, quello celebre di Carnet di ballo? Ad ogni modo non guasta e ci sono scene, nel film, specie la sequenza del ballo, che si alzano magnificamente sino al ricordo del film citato. C ' è una trama così ·lieve che a raccontarla perde l'oro come a toccare le farfalle. Anna, una melanconica signora, una sera (poiché sua figlia è scappata di casa per sposarsi con l' uomo che ama ) , ripensa alla sua giovinezza, al suo amore andato a male, alla sua vita sciupata. I ricordi si susseguono, si completano e fanno il film. Alla fine di questa evocazione Anna perdonerà la figlia e troverà la forza di restare sino alla fine vicino all' uomo generoso che l'ha sposata. 119

L'in terpretazione è molto buona, aderen te, fluida, così la sce­ neggiatura. Assia Noris è la protagonista. Quest'attrice (che ri­ corda sul viso la dolcezza delle buone caramelle viennesi) e Gino Cervi hanno reso benissimo i loro personaggi . Meno a posto, co­ me fatale sedu ttore, il giovane e volonteroso Leonardo Cortese. Benissimo le dis tribuzioni minori, la fotografia, eccetera. 13

novembre

75. I « Tre lancierù) alle Filippine

Il ritorno di Gary Cooper sugli schermi italiani è stato salu­ tato con un entusiasmo che dovrebbe far pensare se questa pra­ tica, in cinematografo, non fosse qualche volta pericolosa e, per il resto, sempre inutile. C'è, naturalmente, chi crederà quest'en­ tusiasmo come provocato soltanto dalla presenza del divo, dal suo nome e dalla sua fama; quanto a noi, molto merito lo faccia­ mo all' atmosfera di avventura che ogni volta, il nostro spilungo­ ne, riesce a portarsi appresso. Più il tempo passa, in cinema passa prestissimo, e più ap­ pare evidente che il pubblico - e vogliamo dire tutto il pubbli­ co anche quella percentuale di esso composta di persone serie e d' età - ama l' avventura. Ma, beninteso, soltanto quando questa, oltre ad avere pregi visivi e procurare emozioni, esalta virtù umane e «parla al cuore)) , come si dice ancora nelle can­ zonette . La gloriosa avventura eredita tutte le belle qualità del western, è emozionante, rompicollo, lascia col respiro a mezzo, dà modo alla vostra sigaretta di bruciacchiarvi i pantaloni , eccetera; ma a queste doti aggiunge altre ancora più decisive. Appartiene, per capirci subito, a quel genere di capolavori di cui fan parte I cavalieri del Texas, I lancieri del Bengala, La conquista del West; film, come tutti ricorderanno, «romanzati», che si distinguevano per la grande abilità e il tono alto del racconto, minuto sino al pun­ to da toccare i confini della psicologia. Di queste piccole I liadi gli americani si servono per tener desti nei grandi e svegliare nei piccoli certi sentimenti che non sono indispensabili ma sarebbe meglio che lo fossero: la cordia­ lità, l' amicizia, il senso del dovere e delle proprie responsabilità, la pratica quotidiana della giustizia, il disprezzo per la paura, eccetera . A queste visioni , fanciullesche quanto si vuole, non si 120

può non fare ottima accoglienza. I l pubblico del Su perci nema di Roma, che lottò aud acemente per entrare nella sala il giorno della «prima>> (ed è quindi da considerarsi abbastanza buon giudice in fatto di audacie) , scoppiò alla fine del film nel suo più caldo applauso. Bastava del resto guardare in viso i ragazzi o le persone che li accompagnavano, le signore e persino i carabinie­ ri di servizio, per capire che un fenomeno quasi dimenticato si riprod uceva negli animi: la passione per l' argomento, l 'entusia­ smo per la conclusione, alla quale il regista aveva portato tutti con una grad uazione precisa degli elementi. Gary Cooper è qui un tenente medico dell'esercito america­ no. L' azione del film si svolge nei primi anni del nostro secolo, in quelle isole Filippine che gli americani avevano tolto proprio allora alla Spagna. I s truttori militari sono all 'opera: si tratta di costituire, nelle isole, vari nuclei di un esercito indigeno che avrà poi l 'incarico di difendere il proprio paese. Ma il compito non è facile: nel paese i briganti abbondano e il più terribile di essi, J apalang, è deciso ad avere la pelle dei sei ufficiali america­ ni che comandano il presidio di Mysan . Tra i sei ufficiali è ap­ punto il nostro Gary Cooper che, per essere medico, ha minor voce in capitolo dei suoi colleghi. In compenso, a quel che subi­ to si vede, ha le idee più chiare di tutti sul modo di cos tituire questi nuclei indigeni. È lui che insegna ai nuovi soldati a non aver paura dei nemici e tiene alto il morale della cittadella asse­ diata, dimos trando sangue freddo ad ogni occasione. Il film, come tutti quelli che ha girato il regista Hathaway, comincia con una descrizione dei luoghi, dell'ambiente e dei personaggi e, soltanto allorché questi sono familiari allo spetta­ tore, passa all ' azione vera e propria. In Gloriosa avventura, l' azio­ ne finale è tra le più travolgenti e riuscite; anche se - come dice­ va qualcuno - il capo dei ribelli (pur non sorpassando i risultati di Alida Valli in certi film) è vestito in maniera ridicola. Resterà solo il tenente medico a tener testa ai briganti : e vi ri uscirà. Ed alla fine vedremo che lo scopo della missione mili­ tare è riuscito, e i bravi soldati filippini, pur con i loro berrettuc­ ci bianchi da colonia marina, sono ormai capaci di sbrigarsela da soli. Oltre tutto, il film è un vero trattatello di psicologia co­ loniale e giustamente ha trovato posto - ci sembra - nei numeri della limitata importazione americana. Gary Cooper è il trionfatore della situazione : a lui, semplice figurante che s tazionava tutto il giorno dietro i cancelli della Pa­ ramount, nessuno avrebbe predetto una parte così decisiva nel cinema americano, e, tanto meno, che avrebbe aggiunto un ca121

pitoletto alla filosofia dell'attore. La grande qualità di Gary Cooper è la calma, l'apparente indifferenza in cui si chiude, l'i­ gnoranza per l'obiettivo e, sem brerebbe, per i suoi stessi senti­ menti di personaggio. Ma, con lui, si rischia di cadere nel melo­ dramma: e per questo piace. Quando, scoperto il cadavere del­ l'amico assassinato, il tenente medico vuota la bottiglia di birra che ha in mano, il pubblico non trova nulla da ridire: «dev'esse­ re così»; soltanto dal gesto che ha di rompere poi la bottiglia, si capirà la giustezza del suo contegno. È pieno il film ç:li queste piccole notazioni che non cadono però nel campo della retorica contraria e il lettore non ha che cercarsele. I nsieme a Gary Cooper, recitano David Niven e la bella An­ drea Leeds: bella e matura attrice che ricorda troppo quelle or­ chidee di cui nel film spesso si parla. 20 novembre

78. Western, primo amore

Nel cinema americano la tradizione del western non accen­ na a spegnersi: anzi non perde occasione per affermarsi sempre viva e brillante. Con gli ultimi tempi, quella attenzione - dicia­ mo affettuosa e primitiva - verso i ricordi della s toria nazionale, che si trovava in tutti i film a carattere avventuroso, si è nobili­ tata di un gusto nuovo, che scava in profondità. Pur rispettando la buona retorica dell' «aria aperta>> , si sono aggiunte ai film re­ centi , delle intenzioni più sostanziose. Chiamiamole pure lette­ rarie se non c'è altro aggettivo che indichi quel contributo di sa­ le dato alle storie e se così vanno indicate le prospettive profon­ de che queste acquistano, prospettive che una volta non tocca­ vano un tal genere di cinematografo e entravano soltanto nel giuoco dei romanzieri . Romanzo, senza dubbio, con tutti i suoi caratteri di ricerca psicologica e letteraria, può dirsi Ombre rosse, il nuovo film di John Ford . Eccoci davanti ad un film in cui l'ombra di de Mau­ passant si sposa a quella di un M urnau ( per parlare di trapassa­ ti) , o meglio, ad un film in cui allo stile di un Roberts si aggiun­ ge quello di un Vidor. Sposalizio felice, diciamolo subito: tanto felice che vien voglia di togliersi il cappello. Naturalmente per Ombre rosse si è ricordato I cavalieri del Te­ xas, Buffalo Bill eccetera: forse col desiderio di fissare il film nei limiti dell' evocativo avventuroso. Per conto nostro i nomi da fa122

re sono ben più grossi. Si può cominciare col narratore francese già citato, de Maupassant, del quale «rivediamo» in Ombre rosse la più tipica delle figure, Boule de suif, la donna di facili costu­ mi, che è disprezzata dai compagni di viaggio e che salva poi tutti col suo sacrificio; e si potrebbe finire col citare Anderson (quello di Solitudine) e persino Wilder, se si tien conto che in Om­ bre rosse la ricerca più sentita dal regista è quella che si svolge in­ torno alle sei persone che viaggiano nella carrozza di posta. Una ricerca che indaga nel loro passato, nei «fatti umani)) . Su una diligenza che fa servizio tra due località del West americano s'imbarcano: l ) la moglie di un ufficiale dell'esercito; 2) una donna che la lega della morale dichiara «indesiderabile» ; 3 ) un dottore ubriacone, scacciato dalla padrona di casa; 4) un commesso viaggiatore in liquori (che subito diventa docile vitti­ ma del n. 2) ; 5) un gentiluomo rovinato dal giuoco. Durante il viaggio saliranno anche un cassiere che fugge con la cassa e un giovane evaso dal carcere, che si arrende alla scor­ ta armata della diligenza. La carrozza inizia il suo viaggio nel deserto, in un'atmosfera di pericolo imminente, poiché una banda di briganti scorrazza per la regione e, per di più, una tribù di indiani si è ribellata. La prima parte del viaggio è dedicata alla conoscenza di questi personaggi, li vediamo come sono, alcuni impariamo ad amarli, altri a tenerli in sospetto. Un tenero amore, frattanto, s'intreccia tra la donna «indesiderabile)) e il giovane evaso. Ma costui ha un dovere da compiere: vendicarsi degli assassini di suo padre, gli stessi che con una falsa testimonianza l' hanno fat­ to mettere in prigione. Questo giovane dagli occhi azzurri, dalla bocca chiusa e sec­ ca, alto e lento, vi piacerà subito: c'è qualcosa di indefinito nella sua persona, che sembra spinta da un piccolo destino da trage­ dia verso la sua avventura. Ma intanto le cose si complicano. La moglie dell'ufficiale rriette alla luce una bambina, curata pro­ prio da quel dottore sulla cui abilità nessuno avrebbe puntato un soldo: e notizie sempre più gravi giungono ai viaggiatori cir­ ca l'attività dei ribelli. La situazione precipita con l'inseguimen­ to della carrozza da parte di questi ribelli. È l'andante mosso del film, una travolgente cavalcata che si chiude con la vittoria dei nostri. Come se nulla fosse successo, il film, dopo questa precipito­ sa parentesi ( che in altri tempi avrebbe segnato la fine dell' av­ ventura) riprende il suo racconto. I viaggiatori vanno ancora osservati. Uno soltanto è morto, il gentiluomo rovinato, quello 123

che era salito in carrozza per un atto di galante donchisciotti­ smo, per difendere in caso d 'attacco dei briganti la moglie del­ l' ufficiale . Gli altri avranno ogn uno la sua sorte. Coraggiosa conclusione questa di john Ford . Il giovane eva­ so ammazzerà i tre avversari, la donna di facili costumi si spose­ rà (è facile immaginare con chi ) , il bravo dottore seguiterà a ubriacarsi. Finalmente un lieto fine che non delude. Se il giova­ ne avesse rin unciato ad ammazzare i suoi rivali o se il dottore avesse deciso di esser sobrio in avvenire il pubblico dal canto suo avrebbe staccato le poltrone in segno di protesta. Per la prima volta in un film americano non si lasciano a Dio le cure della vendetta morale . Ogn uno fa quel che può, se la cava come gli detta il cuore. Ed è questa «intonazione>> la più giusta, la più apprezzabile del film. Non ci stancheremmo di parlar bene di queste Ombre rosse, anche perché arrivano dopo tante ombre pallide ed evanescen ti, ombre di filmetti, di commediole, di rifriggiture. È un film di quelli che si rivedono . John Ford è il regista di Traditore, di Pat­ tuglia sperduta, due film precisi e allucinanti. Ma è anche il regi­ sta di un vecchio western, Il cavallo d'acciaio . Chi ricorda questo «colosso» del ' 24, in cui per la prima volta appariva George O' Brien? Lo spettatore non più giovane confronti i due film, os­ servi come il nuovo è una perfezione dell'antico, come certe au­ dacie di quello si sono conservate e accresciute nel frattempo. Una parola sulla fotografia che è perfetta, tenuta, secondo il costume di Ford , a contrasti di luci e ombre e sempre campeg­ giante su paesaggi straordinari, lunari . Il fotografo è Bert Glen­ non; il montaggio di Walter Reynolds. E il soggetto di Ernest Haycox. Parlare degli attori? Ce ne sarà bisogno? Sono John Wayne (l'evaso) , Claire Trevor (la mondana) , John Carradine, Louise Platt. E, nuova conoscenza, Thomas Mitchell, il buon dottore ubriacone, un personaggio i cui cari sorrisi e l' aria affettuosa non si dimen ticano subito. I I dicembre

79. Ritorno di /sa Miranda Nell' atrio del cinema Corso ; la sera che vi siamo entrati per la prima di Senza cielo, c' era una folla elegante e spazientita dal­ l'attesa. «Tutto pieno» badava a gridare un custode dell' ingresI24

so e « Pezzo d' imbecille! Guarda almeno con chi parli» rispon­ deva un giovane alto e quadrato che subito riconoscemmo per uno degli interpreti del film. «Qui si mette male», ci venne fatto di pensare involontariamente. Invece, subito dopo le porte si aprirono ed entrammo. Gli altoparlanti emettevano una musica di quelle che si sogliano definire «suggestive» : accord i di sasso­ foni e ritmo di tamburi, insomma un'aria esotica che doveva certamente trasportare la fantasia degli spettatori nel mondo vi­ scido delle foreste vergini e delle tribù, almeno di quelle cinema­ tografiche. Senza cielo era atteso: l' accorta pubblicità, il titolo scelto be­ ne, il ritorno di una delle nostre migliori attrici sono infatti ele­ menti irresistibili. Si era tanto parlato e scritto della Mirand a, e le fotografie arrivate dall'America ce l' avevano mostrata così di­ versa da quella conosciuta che la curiosità era diventata legitti­ ma. Erano quelle fotografie, lisce e lucide, con una lsa ancor più lucida, curata, addobbata, resa innocua e senza quella persona­ lità angolosa ma accesa che la distingueva da tutte le altre no­ stre attrici : a vederla, i nomi della Garbo, della Dietrich , della Hepburn venivano spontanei alle labbra . Era chiaro che gli americani avrebbero voluto farne una stella che, sommando le caratteristiche delle loro beniamine, potesse essere «lanciata» eventualmente in sostituzione di qualche altra: restava a vede­ re, quindi, come i nostri cineasti avrebbero rimesso in luce le qualità innegabili della nostra attrice. La musichetta esotica, già da se stessa ci diceva, l' altra sera, che la maniera per giungere ad un buon risultato non era stata tentata in pieno. Le musiche esotiche partono sempre da un fal­ so presupposto, illustrano un mondo che è più della immagina­ zione corrente che della realtà. Sarebbe caduto in questo errore di gusto anche il film che tra poco avremmo visto? Senza cielo ricorda mol te cose, cui l'orecchio ha già fatto abi­ tudine. Ricorda l'A tlantide di Pabst, il Trader Horn di Van Dyke e soprattutto La figlia della jungla, il primo film che rivelò Dorothy Lamour. Appunto tra questi tre ottimi film, Senza cielo cerca di trovare una via d ' uscita all'aperto e, in questo, il titolo ci sem­ bra molto azzeccato . lsa Miranda vi ha la parte di una giovane, raccolta bambina da certi «indios» del Mato Grosso e diventata: quindi una specie di regina e sacerdotessa della tribù . Con lei, a dividere il regno, c'è un certo Martin, un dottore criminale scappato dalla Cayen­ na, Ghe, da quel che si capisce, è anche l'amante della ragazza. Intanto una spedizione geografica parte alla ricerca di tre pre125

cedenti spedizioni . Giovani e brillanti italiani la compongono. Al limite della foresta i portatori ( com 'è d ' uso tra i portatori) si rifiu tano di proseguire; si presenta allora il Kegeir-ben-Sheik della situazione, un certo Zago, che si incarica lui di guidare la spedizione. Naturalmente di questa, dopo varie avventure, sol­ tanto tre componenti si salvano: il capo ( Giachetti) , un giornali­ sta (Carlo Romano) e un giovane (Andrea Checchi) . Giunti nel luogo ove la tribù ha sede, i tre vengono condotti alla presenza dei bianchi : Martin in un primo tempo li conside­ ra prigionieri, poi , quando s'accorge che Regina ha un debole per i nuovi arrivati e in modo speciale per Giachetti, cerca di sbarazzarsene. Ma cosa può un tiranno geloso contro i diritti della giovinezza e, ci pare di aver capito, della razza? Cosicché Regina lascia la foresta, i succinti costumi disegnati da Bilinsky, e ritorna alla civiltà, felicemente ricambiata nel suo amore. Il film, se si eccettua ciò che si è detto in principio, corre con buona logica cinematografica, è fotografato ottimamente e ben sorretto dalla regìa di Guarini. Un poco più di attenzione alla > passerà mai per la testa che au tori come Coward o Priestley val­ gano meno di quelli citati . Un a massa di lettori incredibilmente forte come quella inglese ha bisogno di un nutrimento costante, di curiosità nazionale, un nutrimento ottimista, di fiducia e pre­ vedibile. Il romanzo medio, quello che si toglie a caso dagli scaffali di un living-room londinese, tratta sempre di amore; ma, attenzio­ ne, è amore-standard , senza psicologia, in trugli, delusioni, con­ fessioni intime o altro. L' amore , il rispettati ssimo Iddio del buon lettore, come tutte le cose rispettate, guadagna soltanto se attribuito a personaggi di buoni costumi e di ottima condizione economica. Gli antichi trattatisti d ' arte drammatica reputavano che non ci potesse essere tragedia se non originata dal moto di gran­ di personaggi, re e regine, condottieri e principi . La forza di una tragedia, il suo insegnamento, risiede nel fatto che i personaggi animatori di essa non hanno preoccupazioni materiali , sono cioè simbolici, e possono quindi dedicarsi al loro compito inte­ ramente. Obbedendo a questo principio, la maggior parte dei romanzi inglesi (molti ne troverà il lettore tradotti nelle varie collezioni per famiglia) fa dell'Amore un monopolio délla buona società. Per innamorarsi e aver diritto a su bire le conseguenze di questa passione, il grado richiesto ad un personaggio è spesso quello di baronetto, la sua fortuna privata dev' essere in ogni ca­ so vistosa, e le sue preoccupazioni d'ordine pratico inesistenti. L'amore dei poveri o dei semplici cittadini, per il suo accostarsi all' uso comune, per il suo mischiarsi agli in teressi dell 'esistenza quotidiana, non potrebbe in teressare che un altro genere di let­ tori : quelli che nel libro non cercano uno svago , ma una verità qualsiasi : genere, per il vero, così poco folto, da non compensare che raramente le spese della stampa. Tanto bene ha capito queste cose Daphne Du Maurier che il suo romanzo Rebecca è il catalogo generale del romanzo anglo­ sassone per letture da caminetto, da parca e da picnic. Tu tti gli elementi fissi del romanzo-tipo vi sono ripresi con quel cinismo abile di cui spesso soltanto le donne scrittrici sanno dar prova; ci descrive, cioè : il gen tiluomo appartenente alla gentry ( alla nobiltà terriera) , colpito da un recente dolore; la povera e bella ragazza che ha il dovere di sposare questo gentiluomo (è Cene136

rentola, state tranquilli! ) ; un castello in riva al mare, con saloni Tudor e squadre di camerieri; una perfida nemica delle felicità altrui; un mis tero svelato , eccetera . L'abilità di Daphne è tutta nel suo aver saputo rinnovare questi elementi, nell 'averli tra­ dotti nel linguaggio dell'attuale gran mondo. Nessuno altrimen­ ti avrebbe preso sul serio figure che erano da tempo ferme al­ l' inizio del secolo, con le loro passioni genuine e infantili, coi lo­ ro matrimoni avversatissimi e le loro candide colpe. Romanzo e film, per questi meriti d' aggiornamento, per il loro suonare al pubblico dei lettori e degli spettatori vecchie arie giovanili non dimenticate ma, d ' altra parte, messe in disparte, hanno avuto quel gran successo che era logico avessero. La si­ gnora che oggi si guarderebbe bene dal farsi sorprendere con Elinor Glyn, riversa le sue tenerezze su Daphne Du Maurier: ma non ditele, per carità, che sono la stessa cosa, non vi crede­ rebbe. Faremo grazia al lettare di questa rubrica di quanto narra il film . I l suo contenuto è ormai preda comune. Periodicamente, con la sua onnivora capacità che lo distingue, il pubblico sceglie i suoi amori: lo scorso anno non si poteva salire in un tram o en­ trare in un caffè senza sentire le due amichette o i due signorini che si rivolgevano di colpo e contemporaneamente la stessa do­ manda editoriale: «Hai letto Furore?» . Quest'anno è Rebecca che bisogna aver letto. gennaw

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Da «Domenica))

1 1 2 . Abe Lincoln o la storia

Lo studio della storia non è il forte delle nuove generazio­ ni, e tanto meno l' amore per le indagini biografiche sui grandi uomini . Questo è il parere del preside di un liceo romano, che un giornalista giorni fa interrogava per illuminarsi sul livel­ lo della cultura scolastica. Le grandi figure dell' antichità, del­ l'evo medio o del moderno esercitano ormai un'assai scarsa at­ trazione sulla fantasia dei giovani e non ne stimolano affat­ to lo spirito emulativo. Quanto alle Vite di Plutarco, i giovani le considerano archeologiche e n e s s u n o vorrebbe leggerle se non per trarvi qualche motivo umoristico, di quel triste ge­ nere che rese famoso, appunto nei nos tri licei, Mosca e il «Bertoldo>> . Tanto per spiegarsi con un esempio, il preside aggiunse que­ st'episodio: un privatista, che s ' era presentato agli esami d'am­ missione al liceo, sosteneva che Carlo V si legge Carlo vu. Per conto nostro sappiamo di uno studente il quale invitato a parla­ re di Annibale, disse ch' era grasso e orbo di un occhio (si riferi­ va ad un Annibale interpretato dall' attore Pilotto nel film Sci­ piane l 'Africano) . Potremmo citare altri fatterelli del genere: ma tutti tende­ rebbero a dimostrare che se lo s tudio della Storia ha fatto qual­ che passo indietro nelle scuole medie, ha invece molto progredi­ to nel cinematografo. Forse non si esagera dicendo che quel po­ co di storia che i giovani sanno l ' hanno appresa dagli schermi. Cristina di Svezia, Pasteur, Bismarck, Napoleone, Koch, Pie­ tro il Grande, e persino Pietro Micca, sono ormai figure evo­ cate pubblicamente dal grande deposito degli immortali, ap­ punto per servire alla curiosità emotiva, futile ma riconoscente del grande pubblico . Anche Maurois, assistendo a New York ad una visione del film su Zola, dovette convincersi che il ci141

nema forma, tra le altre opinioni, anche l'opinione storica del­ la massa: e colse l'occasione per alcune amare · consiçlerazioni sul cinema. Ma io non credo che l' interferire del cinema negli affari di Clio possa arrecarle più danni di quanti non gliene abbia sinora arrecati quel genere di storie e biografie romanzate nel quale s'è affermato lo stesso Maurois . Ammesso che della storia occorre cogliere il senso universale attraverso le contraddizioni della cronaca, lasciamo che il cinema partecipi alla gara coi suoi mez­ zi obbligati e romanzeschi ma pure efficaci . Im magino che un giorno anche il cinema ci darà i suoi saggi di storia o addirittura di filosofia della storia; ma non c'è fretta. Il Lincoln presentato questa settimana a Roma è intanto un esempio abbastanza chiaro di biografia cinematografica. Il film è ricavato da un dramma di Robert Sherwood che ebbe il Pre­ mio Pulitzer e narra la vita di Lincoln dalla giovinezza sino alla sua elezione a presidente degli Stati Uniti: Un raccontare per aneddoti, spesso umoristici , che aggiunge il necessario calore al­ la vicenda di un uomo non molto celebre per le sue avventure erotiche o poliziesche ma piuttosto per le sue lettere, per i suoi discorsi e per la sua politica. Il primo amore di Lincoln, il suo distratto e tenace partecipare alla cosa pubblica, l'incontro con colei che sarebbe stata poi sua moglie, i suoi dubbi sulla missio­ ne di un uomo politico, la vittoria sull' avversario conservatore, quindi la candidatura a presidente e la conseguente elezione: ecco le tappe di un racconto piano ma sostenuto anche nelle sue inevitabili convenzionalità. Il cinema ha prestato al regista l'o­ biettivo e l' altoparlante, ma nessuna di quelle fervide illumina­ zioni che lo nobilitano talvolta a forma d'arte . Il regista Crom­ well non ha fatto altro che seguire fedelmente lo schema traccia­ togli da Sherwood e da Gordon, schema che inoltre Raymond Massey ha animato della sua lunga e convincente presenza . Insomma, un film chiaro e ben stampato, una pubblicazione di propaganda: che vuoi essere l' elogio dell'homo americanus, quest'impasto di realismo e di fantasia, di umorismo e di prati­ cità, ma vivo e pronto a battersi per gli ideali più nobili e fatico­ si. I punti più drammatici del film sono appunto i discorsi che svelano questa psicologia nazionale e la spiegano al popolo. Un film, per finire, del quale non ricorderemo forse un solo foto­ gramma, ma qualche battuta. «Perché applaudono?» chiede a Lincoln sua moglie, indicando la folla impazzita. E Lincoln : >, oppure: «Gli uomini sono tutti uguali e quelli che sono diversi sono peggiori», allora bisogna considera­ re con una certa indulgenza i difetti tecnici di un film che ha al­ tri meriti da far valere, ed abbiamo già detto quali. 29 aprile

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1 2 7 . Ribalta di gloria

È ormai accertato che i nostri rid uttori cinematografici han­ no il complesso della gloria : essi la mettono dappertutto, e spe­ cialmente dove l' originale non ne contempla l' uso retorico . For­ se che il pubblico apprezza tale astrazione più delle altre? Più dell' amore, per esempio? Sarebbe utile assodarlo. Poche setti­ mane fa, di un film che s'intitolava The Wl!)' ahead, il rid uttore fe­ ce Le vie della gloria ; adesso il semplice Yankee Doodle Dandy diven­ ta Ribalta di gloria . Ma sui titoli che gli esercenti delle sale cine­ matografiche preferiscono ci sarebbe tutto un discorso da fare; essi forse rispecchiano il gusto approssimativo del tempo. Ribalta di gloria è l' ultimo dei film di propaganda che ci arri­ vano dagli Stati Uniti : tu tto sommato, non è neanche il peggio­ re, poiché si affida ad una formula nella quale le esigenze spet­ tacolari non la cedono alle patriottiche. Il film narra la vita, dal­ la nascita, sino a pochi mesi prima della morte, di un celebre autore-attore di varietà americano, George M. Cohan . Tale è la fama raggiunta oltre oceano da questo mimo, da far ritenere ne­ cessaria all' ufficio di propaganda dell'esercito la pubblicazione di un libretto ad uso delle truppe sulla sua vita e i suoi successi : libretto che i n copertina c i mostra un simpatico vegliardo, l o s i direbbe un dottore di fiducia. George Cohan nel '4 1 , dopo una pausa di molti anni, ritornò alle scene in uno spettacolo che im­ plicava un' allegra presa in giro del Presidente Roosevelt. Fu in quell'occasione che lo stesso Presidente volle concedergli la me­ daglia d'oro di benemerenza nazionale, che non era mai stata prima con cessa ad un attore. Il film prende le mosse appunto dalla visita che Cohan fa in quell'occasione al Presidente: e il re­ gista immagina che Cohan racconti la sua vita al primo cittadi­ no dell' Unione. La vita d i Cohan è quella di un «figlio d' arte». Nato sul pal­ coscenico, vi trascorre la vita, formando col padre, la madre e la sorella un quartetto sempre più applaudito. Da piccoli teatri di provincia, Cohan arriva a Broadway e qui s' afferma. Soprattut­ to piace al gran pubblico perché sa esaltare la storia, le fortune, l'avvenire degli Stati Uniti. Le sue canzoni sulla bandiera fanno epoca. Egli esalta esattamente l'ingenuo ma vivo orgoglio di un popolo giovane e nello stesso tempo esprime benissimo l'hu­ mour nazionale, prepotente e acceso, nei suoi spettacoli di va­ rietà. Nel 1 9 1 7 , all'ingresso degli Stati Uniti nel conflitto mondia­ le, Cohan compose quella canzone Over there dilagata poi in Eu147

ropa per merito delle truppe americane e che divenne quasi il loro inno ufficiale. Diventato quasi un eroe nazionale, Cohan si dedica negli anni del dopoguerra ai suoi spettacoli, ch'ebbero immenso successo. Rimasto solo , dopo la morte del padre, si ri­ tira dalle scene. Senonché un giorno, mentre gode del suo meri­ tato riposo in una sua villa di campagna - e l' episodio risulta auten tico - si accorge che nessuno più si ricorda delle sue ope­ rette e che i giovani non sanno nemmeno chi egli sia. Il tempo è trascorso rapido, altre mode sono sopravven ute, altri attori lo hanno oscurato . Decide allora di riprendere il suo lavoro . È or­ mai vecchio ma ottiene un enorme successo. Ci si ricorda di lui e di Over there. Per premiare dunque la sua fedeltà ad un'imma­ gine robusta benché cromolitografica della Patria, gli viene con­ cessa la nota medaglia. « È d 'orm> gli dice il Presidente conse­ gnandogliela «perché il ferro adesso serve.» Cohan tranq uillo: «Siete sicuro di non sbagliarvi con qualcun altro?» . Sono le battute di questa specie che fanno la fortuna del dia­ logo e tolgono al film il tono ufficiale e commemorativo . Forse Ribalta di gloria non sarà piaciuta alla nostra critica e nemmeno troppo al nostro pubblico - trattandosi di una storia alla quale restiamo tuttora estranei e perché i personaggi di essa non ci ri­ cordano nulla - ma io credo che resti un bell'esempio per chi , da noi, sarà tentato di mettere in scena o sullo schermo qualche pe �sonalità contemporanea. Gli americani hanno il gusto e l'a­ bilità delle contaminazioni umoristiche ma ciò non esclude af­ fatto ch'essi sappiano, appunto in questa maniera, creare i miti di sana pianta e farli accettare anche alle coscienze più pruden­ ti . Alla fine dello spettacolo, un amico che ci stava vicino disse che, in fin dei conti, con una sola persona egli avrebbe amato in­ trattenersi a far quattro chiacchiere , e precisamente col Presi­ dente Roosevelt. Certo, poche volte un personaggio vivente - al tempo in cui il film veniva realizzato il Presidente era ancora al suo posto - è balzato tan to vivo e tanto affettuosamente da uno schermo . Ma guardate come il regista ha saputo riflettere persi­ no nei domestici della Casa Bianca la personalità e il fascino di Roosevelt. Si può dire che non c'è in questo film un solo partico­ lare che sia stato trascurato. Del resto Michael Curtiz - au tore di quell' indimenticabile Maschera di cera - era una seria garanzia a questo proposito. Tutte le sequenze della vita di Cohan sono espresse con grande puntualità e sapienza coreografica. I mi­ gliori quadri riflettono - pel nostro gusto - quei poveri teatri di provincia e quegli stentati numeri di varietà di Cohan alle pri­ me armi. Le scene familiari, più intrise di un sentimentalismo 148

da convenzione, lascerebbero freddi se non fossero, come sono, interrotte a tempo e risolte con un' allegra battuta: poiché gli an­ glosassoni tengono molto in sospetto la commozione. Interprete del personaggio Cohan è l' attore James C agney . I l suo viso scialbo e rincagnato ricorda i cani poliziotto come so­ no disegnati dal pittore C hiostri nell' edizione Salani del Finoc­ chio . Pure, questo mimo possiede una vitalità e un senso delle proporzioni c;he alla lunga non dispiacciono. I nsieme a Cagney, ritorna W alter Huston e compare per la prima volta Joan Le­ slie. 22 luglio

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Da «Bis»

14 7. Pornografia sentimentale

È riuscita la traduzione cinematografica (A manti senza amore) di questo romanzo di Tolstoj ? Era, inoltre, necessaria? Se alla prima domanda si può rispondere : forse, alla secon­ da bisogna rispondere: no. Il tema indagato da Tolstoj e che verso la fine del secolo scorso s uscitò tante discussioni , oggi la­ scia indifferenti: altri temi più vasti e universali impegnano le coscienze, altri fatti chiedono attenzione. Sfogliando una vec­ chia annata di settimanale umoristico - non credo che ci sia im­ presa più sconfortante - si rimane soprattutto colpiti dal gran numero di vignette e di battute sul cocuage, segno che i lettori annettevano un'estrema importanza al tradimento�e all'infelici­ tà coniugale. Oggi, no. È passato quasi un secolo da quando Dumas figlio sentenziò : «Tuez-la»; e noi assistiamo quotidiana­ mente al trionfo della nuova tesi: i mariti che uccidono le mogli non sono mossi dal desiderio della vendetta ma soltanto dal de­ siderio (forse male espresso) di liberarsene. Esiste dunque un dramma contemporaneo della vita coniu­ gale, ma disertato dalle passioni di un tempo e condizionato a quelle di oggi, principalmente all'evasionismo dalla vita medio­ cre . Nelle vecchie annate umoristiche si vedrà che altro argo­ mento volentieri trattato sono le callosità agli arti inferiori . Per­ ché non doveva far ridere e in teressare un callo qualsiasi in un'epoca in cui tutti avevano calli, ostinandosi la umanità a cal­ zare scarpe eccessivamente strette? Quindi un tema è tanto più attuale, quanto più colpisce con la sua improrogabilità l'interes­ se generale. Quando Tolstoj scrisse La sonata· a Kreutzer i mariti uccidevano le mogli rigorosamente, sentendosi altrimenti inca­ paci di affrontare il giudizio del prossimo, confortati nel loro ge­ sto dall'appoggio della società. Oggi la società ha altro a cui pensare che ai mariti traditi: il problema della sua stessa salvez153

za, del suo avvenire, la preoccupa a ragione molto più: e il cine­ ma, la letteratura, l' arte e il teatro ci offrono ampia testimonian­ za di questa convinzione. Perciò sorprende la riesumazione di questi Amanti senza amore, che noi veramente siamo disposti a ri­ tenere senza in teresse. Sorprendono per quel che dicono e per quel che fanno. Le loro mediocri passioni avrebbero trovato for­ se una giustificazione nella consueta cornice della vecchia Rus­ sia. Ma sulla Riviera di ponente, ai giorni nostri ! Suvvia, un so­ lo samovar avrebbe salvato tutto: avrebbe perlomeno giustifica­ to l'ansioso racconto del protagonista, i nobili ma troppo evi­ denti sforzi degli sceneggiatori , le cure del regista, Gianni Fran­ ciolini. Tutti parlano bene di Perdutamente. Alle tre, le porte del cine­ ma sono già piantonate da rappresentanti di quella particolare umanità che si chiude nei cinematografi dopo colazione e ne esce quando le prime luci nelle strade annunziano il tramonto. È per quest'umanità fotofoba che film come Perdutamente vengo­ no concepiti e realizzati . Qui non siamo alle idee sbagliate o ai temi inattuali, ma ai sogni freddamente premeditati per soccor­ rere chi manca di immaginazione e non scorge nella vita di ogni giorno motivi abbastanza romantici e degni di essere indagati. Siamo al cinema delle belle maniere, del successo, che ci dice: «Se voi sapete spgnare, sapete vivere)). Siamo alla pornografia sentimentale. Anzi, ci si consenta di pensare che l'unica porno­ grafia è quella sentimentale: cioè la pornografia rosa - non sa­ prei chiamarla altrimenti - che rappresenta la vita come un so­ gno agevole, sogno che dovrebbe apparire tanto più avventato se si avessero occhi per guardare la real tà. Madame Bovary (la protagonista di questo film appartiene alla categoria delle in­ soddisfatte) si fece una idea sbagliata della vita e del mondo leg­ gendo W alter Scott e collocando i suoi moralissimi sogni in gra­ ziosi scenari medievali all'italiana. Ebbe poi le note delusioni . Se Madame Bovary avesse letto Madame Bovary ( libro processa­ to per immoralità) , si sarebbe composta una diversa immagine dell 'esistenza. A parte ogni considerazione di ordine estetico, fa più danni il romanticismo di scrittrici come Elinor Glyn - ro­ manticismo approvato dalle madri - che il crudo romanticismo di un Lawrence o di un Miller, condannati dalla censura. Come in Amanti senza amore, in Perdutamente si parla a lungo di un violinista: sono i due violinisti più fastidiosi che ci sia mai capitato di ascoltare, in tutto ris pondenti all' idea convenzionale che molti si fanno dell'Artista. Giacché abbiamo citato Flau­ bert, quest'ultimo violinista di Perdutamente avrebbe potuto ser154

vire di modello a Bouvard o a Pécuchet, se i due amabili perso­ naggi si fossero fitti in testa di suonare il violino: e allora avrem­ mo riso vole � tieri . Perdutamente è concepito sulla falsariga del vecchio film E nata una stella : non manca nemmeno il suicidio fi­ nale della sfortunata creatura che sacrifica la sua vita all' arte del compagno. È un film implacabilmente pulito, con i dialoghi scritti da una persona di spirito, ma decisa a dimostrarlo e ad arricchirci di aforismi . Quando si esce dal cinema ci si accorge che un paio di appuntamenti sono saltati . Si è rimasti nella pol­ trona, incapaci di andarsene, incapaci di prendere sul serio ciò che avveniva sullo schermo. La scatola delle sigarette è vuota. E per unico conforto resta l ' i nterpretazione di Joan C rawford , brava come sempre, un vero e prezioso animale cinematografi­ co, che gli anni non offendono. Dice Hemingway : «Mi sono sforzato di apprendere l' arte dello scrivere cominciando dalle cose più semplici e una delle cose più semplici e più fondamentali di tutte è la morte violen­ ta)) . Sarà bene tener conto di questa ammissione per capire uno scrittore che passando attraverso la prima guerra mondiale, ap­ passionandosi poi alla tauromachia, dedicandosi quindi alla caccia grossa e infine prendendo parte alla guerra civile spagno­ la sembra aver voluto inseguire le sue dimostrazioni, fissare un canone alla sua arte e per essa profondere un'energia e un impe­ gno non comuni. Non sapremmo definire altrimenti Heming­ way che «un romanziere all'aperta>) , un artista che non teme le intemperie ed esalta la sua ··concezione dell' arte al contatto della natura e degli uomini. Lo abbiamo visto, in questi ultimi anni, seguire la seconda guerra mondiale con l'occhio di un clinico che ammira la bellezza e la vitalità di un tumore insolito: lascia agli altri le considerazioni storiche o morali , egli si appaga di quelle biologiche. Nessuna sorpresa che la guerra civile di Spa­ gna gli abbia dettato un romanzo, un film, una serie di corri­ spondenze e un dramma; che lo abbia, cioè, completamente soddisfatto. Non s taremo a sottolineare quale importanza abbia avuto per la giovane letteratura americana e per il cinema, l' arte di uno scrittore così apertamente cruqo, talvolta preoccupato di choquer le anime puritane e sensibili di laggiù , ma più spesso in­ tento a ritrarre dalle sue esperienze una verità, l'arcana bellezza della lotta dell'uomo contro la morte, l'apologia del coraggio vi­ rile, della vita che diventa una arabesca gimcana con ostacoli 155

posti dalla fatalità. Buon lettore della Bibbia, Hemingway non ha certo dimen ticato il freddo arazzo delle stragi e le impassibili crudeltà del Vecchio Tes tamento: e la stessa oculata compostez­ za si ritrova nelle sue descrizioni belliche, dove è impossibile isolare l' uomo dalle sue radici terrene e celesti dove tutto con­ corre ad una dimos trazione e il dialogo stesso si li bera di ogni impaccio romantico per diventare quello della vita, chiaro, effi­ cace, senza reticenze e cortesie. Il film che Sam Wood ha tratto dal migliore romanzo di He­ mingway è un ottimo western; alla fine ci troviamo tutti in pie­ di, in attesa di un soccorso che sappiamo impossibile. Ma, per il resto, lo schermo appesantisce Per chi suona la campana . Difatti la pagina del romanzo permette l'insistenza banale e veristica, che lo stile può riscattare; laddove lo schermo, che offre alla vista i dettagli in tutta la loro minuta invadenza, necessita di un rigore chiuso, essenziale. N o n per semplice crudeltà agli attori della tragedia classica era vietato sedersi. Sam Wood concede ai suoi attori riposi che Hemingway non ha concesso ai suoi personag­ gi ; ma non sarà facile dimen ticare, tuttavia, il volto di l ngrid Bergman. E le lunghe scene nella caverna risolte con ottima tecnica, senza carrelli e senza panoramiche. 16 marzo ·

1 48. Il nostro dolore sullo schermo Mi domando spesso se il cinema sia ancora la fabbrica del «brivido»: in questi ultimi tempi, confesso, due volte mi sono addorm entato nella poltrona di un cinema e non ero affatto stanco, ma soltanto annoiato. Eppure sullo schermo non faceva­ no che sparare . Una volta andavo al cinema per sgranchirmi l'immaginazione e la visione morale del mondo. Dopo aver visto quelle scene violente, k uccisioni a bruciapelo, i furti , i disastri ferroviari e i divorzi, io (come ogni altro spettatore) , rientravo nella mia vita di tutti i giorni con l'animo rafforzato e rasserena­ to. Il cinema era un tonico, risvegliava la fantasia e placava in­ vece i desideri, dando l' illusione di averli soddisfatti . Per questi motivi il cinema americano e poi quello francese ebbero tanta fortuna. Il pubblico chiedeva ad essi un poco di inferno nel quo­ tidiano purgatorio. Pigliamo ad esempio l ' anno 1 9 3 6 , un anno di pace. N e i quattrocento film d i produzione francese di quell'anno (prendo 156

questi dati da Puissance et responsabilité du film di D ani el Parker) erano descritti centodieci omicidi, centoquattordici furti sempli­ ci, centocinquantacinque a mano armata, settan taquattro ricat­ ti, qu arantatré incendi dolosi , quattordici truffe, sessantadue esempi di omertà, centottantadue di falsa testimonianza, cento­ novantadue adulteri femminili e duecentotredici maschili: un totale di milletrecentotrentanove crimini e delitti , con una me­ dia di tre, quattro per film : Suvvia, non c'era da annoiarsi. I l cinema - qui calza un pa­ ragone meccanico - si comportava come la ruota esterna di un' auto in curva, che aumenta i suoi giri in proporzione diretta al diminuire dei giri della ruota interna . Il cinema pres tava alla vita quei delitti che sono tanto necessari alla società come le buone opere. E la società andava a commettere i suoi peccati al cinema. Tutti ricordiamo quel film in cui Charles Laughton, nei panni di un povero impiegato che riceve notizia di una grossa eredità, si reca dal capufficio - dal terribile capufficio che gli ha amareggiato anni di vita - e lo saluta con un gesto che il dizio­ nario Petrocchi definisce «pernacchio>> . Quel gesto maleducato sciolse a suo tempo migliaia di complessi vendicativi negli ani­ mi di migliaia di impiegati che risero come se essi stessi avessero fatto quel gesto. Dunque il cinema ci faceva credito . E , uscendo da una sala di proiezione, in una troppo placida sera del '33 o del '36, dopo aver assistito a quei crimini quasi regolamentari, ci sentivamo soddisfatti come palombari che riassommano alla superficie do­ po aver lottato con la piovra : la strada era un'oasi di pace, la ca­ sa un angolo di paradiso, i giornali una lettura rosa. Oggi, tutto il contrario: cinema e vita si sono scambiate le funzioni. Si va al cinema per annoiarsi piacevolmente e la vita . . . l a vita fuori è terribile, quasi affascinante per i l numero d i inco­ gnite e di avventure che ci propone. Il Lieto Fine è sempre me­ no probabile. Il signor Daniel Parker rimarrebbe sorpreso, per esempio, sapendo che le aggressioni serali (semplici o a mano armata) , che si verificano in una sola delle nostre grandi città superano la media dei delitti per ogni film francese dell'anno 1 936. Oggi , «fuori» avvengono i grossi disastri, i delitti racca­ priccianti, i furti e gli scandali: «fuori» c'è l'incendio doloso, la truffa e la falsa testimonianza. «Dentro», invece, ti può capitare di assistere ad una lunga scena d 'amore tra un ballerino e una ballerina. Ti accorgi che qualche film si basa su uno scambio, ' Qui Flaiano riporta - e, curiosamente, modifica - una statistica desun­ ta da Parker e già utilizzata nel 1940 (cfr. p. 64) . 157

assai innocentemente condotto, di persona. Al tri film parlano di vacanze nelle isole del Sud, altri ancora narrano cosa succede alla ragazza che si è messa in testa di fare l' attrice e che, alla lunga, ci riesce . Oggi , infine, la realtà ha superato la fantasia: cerchiamo quindi di stabilire un certo equilibrio seguitando ad andare al cinema, anche se i suoi messaggi ci sorprendono come ci sorprenderebbero i messaggi sbagliati di un mondo ormai lontano ma del quale conserviamo un impreciso e melanconico ricordo. Gioventù perduta in questo senso è un film eccezionale. Com bacia a tal punto con la realtà da !asciarci pensosi. Esso non vuole darci nemmeno il «brivido)) segno che l'autore crede ' a ciò che fa. Qui siamo chiamati ad assistere a fatti che si svol­ gono realmente, anzi che si stanno svolgendo daccapo, mentre scriviamo, tanto che il film tralascia volentieri le seduzioni arti­ stiche per darci le verità statistiche e documentarie. Non è tanto un film quanto un segnale d'allarme. E ci si sorprende ricordan­ do che il film stava per essere vietato dalla censura. A proposito di questo veto sono stati scritti molti articoli e firmati manifesti di protesta; e noi, che in quei giorni frequentavamo il famoso pianterreno della Lux, in via Po, abbiamo visto Mario Soldati scrivere una lunga lettera ai giornali, che poi dimenticò di im­ bucare. Ma di tutto ciò che è stato scritto su Gioventù perduta niente supera per arguzia e buon senso quanto ne scrisse lo stes­ so autore, Pietro Germi, in una «lettera aperta)) all'an . Andreot­ ti. In questa lettera Germi sosteneva a ragione la moralità del suo film: ind icava nel giovane poliziotto l ' unico personaggio simpatico (ed è vero) : sottolineava l'orrore per il delitto che su­ scitano i delitti commessi nel film dai suoi giovani personaggi (ed anche questo è vero) ; e concludeva affermando che il suo film, per quel manifesto rispetto della legge e dei buoni costumi che propagandava, poteva benissimo intitolarsi Viva Scelba! Dopo ciò, il veto fu tolto. Pietro Germi è un giovane al suo secondo film. Il primo, Il testimone, ebbe un discreto successo di pubblico e maggior successo di critica. Il terzo, che sta prepa­ rando, si annuncia già migliore dei precedenti; il che non è po­ co. Germi ha studiato per diventare capitano di lungo corso e , s e volesse, potrebbe ottenere un imbarco oggi stesso: ma il cine­ ma ormai è la sua strada. Approfittando di un mese di vacanza, farà una parte nel film che Mario Soldati sta girando in Pie­ monte c che si chiama Fuga in Francia. Dicevamo che i fatti narrati in Gioventù perduta sono tanto ve­ ri che si stanno svolgendo daccapo. La sera stessa della «prima)) -

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al cinema Metropolitan , tornati a casa, una sparatoria ci fece correre prima alla finestra e poi in istrada: là, vicino al nostro portone, sul marciapiedi, un giovane colpito a morte giaceva muovendosi sempre più stancamente, quasi tentasse di risve­ gliarsi da un sonno definitivo. Altri due giovani venivano am­ manettati, tra una folla convulsa, che si rivolgeva domande, ri­ deva nervosamente, urlava e tentava di picchiare gli arrestati . I due giovani che porgevano i polsi alle manette non avevano an­ cora vent'anni, il morente solo sedici : e tutti e tre erano stati tratti a quella fatale conclusione da.l miraggio di una rapina. E tutti e tre erano studenti, di buona famiglia, personaggi di que­ sto tempo disordinato, come scrissero i giornali il giorno dopo. Ai tre giovani studenti di Gioventù perduta non tocca sullo schermo sorte migliore, anzi la stessa. Chi vuoi vedere in questa identicità una perfida influenza del cinema sul costume, poiché soltanto dal cinema milioni di spettatori traggono seralmente una immagine e un suggerimento, faccia pure; ma non dimenti­ chi che la maggior parte degli abitanti del pianeta aspira oggi a recitare una parte difficile . Il cinema non può non registrare queste aspirazioni romantiche. E film come questo di Germi so­ no, semmai, antiromanzi che intendono ricondurre alla realtà. 23

marzo

1 50. O stupidi o niente Trovandomi, giorni fa, in viaggio con Ponti e Lattuada, il discorso cadde sul cinema. La s trada da Roma a Torino è lun­ ga, ed era fatale che verso Grosseto si finisse col parlare di cine­ ma, anzi di film stupidi. «Sembra» dissi «che i film stupidi siano necessari quanto quelli intelligenti, se è vero che il film sulla canzone di Zazà è molto piaciuto al pubblico. Sotto, dunque. » « M a i film stupidi)) disse Ponti sospirando «non sono facili a farsi come si crede, né esiste una formula sicura. )) «Oppure se esiste)) aggiunse Lattuada «la formula del film stupido è certamente più inafferrabile, varia e ingannevole delle altre, come inafferrabile, vario e ingannevole è il gusto del pub­ blico. Ossia: l'intelligenza è un traguardo sicuro . Parlo, natural­ mente, dell'intelligenza tra virgolette, che varia con la moda. 159

Un film psicanalitico o esistenzialista avrà tutti i caratteri del­ l'intelligenza, presso un certo pu bblico, ma niente ci vieta di pensare che si tratti soltanto di film stupidi ben mascherati . >> . Ne convenimmo . Lattuada tirò fuori dal taschino due grossi sigari e me ne offrì uno. Per qualche chilometro tacemmo, im­ mersi nella felicità del fu mo. Ponti guid ava a grand e velocità, a occhi socchiusi come se stesse continuamente sul punto di ad­ dormentarsi. Invece era sveglio e a un certo punto disse: «Ogni tanto un prod uttore decide di fare un film per il pubblico, di ar­ ricchire se stesso e il pubblico e crede di ottenere lo scopo invo­ cando la stupidità . Ebbene, nella totalità dei casi , se ne pente e riesce a dimostrare una cosa sola: che lo stupidb è lui, non il pubblicm> . Poi aggiunse: «La parola pu bblico, come tanti nomi collettivi , si presta fa talmente all' equivoco. C rediamo che si tratti degli altri e invece siamo noi» . Ponti ha prodotto venti film e, tra questi, Vivere in pace, un successo mondiale. Cominciò a occuparsi di cinema con Giacomo l 'idealista, che Lattuada diresse. È milanese, un uomo calmo e quasi indolente, che pare stia sempre per addormentarsi , cosa niente affatto piacevole per chi gli sta vicino quando è al volante di una macchina che va a cento miglia per le strade della Ma­ remma. Ma Ponti è invece un grosso gatto che finge di dormire per essere lasciato in pace. Lattuada è tutto l'opposto, sempre sveglio, direi eccessiva­ mente sveglio. Non gli sfugge nulla. «Io sono più propenso» dis­ se dopo un lungo silenzio «a parlare di semplicità che di stupidi­ tà. Più propenso a riconoscere nel film cosiddetto stupido, ma riuscito, un movente felice, necessario, universale.» «L'età media dello spettatore» aggiunse Ponti «è ormai sta­ bilita in tredici anni. Il torto è però di credere che uno spettato­ re di tredici anni sia meno esigente di uno spettatore di ventisei o di trentanove .» «Certo» disse Lattuada «lo spettatore medio di tredici anni è sensibile ad una poesia semplice e risoluta.» «Un passo indietro» dissi io «e conveniamo almeno che, a parte l'età dello spettatore, la stupidità ha un suo fascino. Si suoi dire persino che è riposante. Difatti succede che le persone e i libri più sciocchi sono quelli che ci tentano maggiormente ad un esame diffuso, quasi togliendoci ogni forza di pregiudizio. L'esperienza quotidiana mi porta anzi a credere che la stupidità sia lo stato perfetto, originario dell' uomo, il quale trova buono ogni pretesto per riaccos tarsi a quello stato felice. L' intelligen160

za>> aggiunsi «è una sovrapposizione, un deposito successivo : e soltanto verso quel primo stato dello spirito noi tendi � mo per gravità o per convenienza>>. «La stupidità . . . >> disse Lattuada. «Un momentm> lo interruppe Pon ti, im provvisamente sve­ glio , ma lasciando il volante. «Un momento. Quando al pro­ prietario della . . . (e qui nominò un diffuso e popolarissimo setti­ manale) , un tale fece notare che il suo periodico era troppo stu­ pido e che sarebbe stato opportuno cambiarne il direttore, que­ sti rispose : " Se vi sentite di farlo pi ù stupido di così vi nomino direttore da questo momento. Ma vi avverto che non vi riuscire­ te" . >> «Allora, se non sbaglio>> dissi «la stupidità ha un limite. Ol­ tre certi confini la mente umana si rifiuta di procedere. Ad un certo punto la Stupidità ( forza attiva) , diventa Idiozia (forza negativa) , e non si vende più. Raggiungere quel limite, senza ol­ trepassarlo, è anche il segreto del Cinema.>> «Esattm> disse Ponti e chiuse gli occhi. Oltrepassata la Ma­ remma, filavamo ormai verso Livorno. « M a quel limite>> insisté Lattuada «ha un nome . Non mi stancherò di ripeterlo: Semplicità . E raggiungere la semplicità è non soltanto il segreto del successo, ma anche il segreto del­ l' arte.>> A questo punto una ruota dell'automobile si affiosciò e tutti scendemmo per cambiarla. Risalimmo e il discorso cadde su al­ tri argomenti e fu quasi senza accorgercene che arrivammo alla torre di Calafuria. Qui un tempo bazzicavano i pirati , oggi c'è un'ottima trattoria. Lattuada volle fermarsi: «Voglio vedere>> disse «cosa c'è rimasto del camion». «Quale camion?» chiesi. «Il camion che abbiamo fatto cadere sulle rocce, laggiù, per una scena del mio ultimo film. » Giunti sull'orlo della strada, che è a strapiombo sul mare, invano figgemmo lo sguardo sulla scogliera. Del camion preci­ pitato non si vedeva nemmeno un bullone. «Forse» dissi «non è proprio questo il punto.» «No» disse Lattuada «è questo. Il camion andò a finire lag­ giù , tra quegli scogli . Avevo piazzato tre operatori a riprendere la scena.» Ancora guardò la scogliera battuta dalle onde e poi sorridendo aggiunse: «Ecco, sempre a proposito di semplicità, la buona arte come la buona combinazione chimica non lascia tracce o depositi. Anche il camion è sparito, finita la sua parte.» 161

Dovetti convenirne, e con me anche Ponti: il quale aggiunse che il camion aveva infatti recitato benissimo. 6 aprile

1 52 . Caino persuade A bele annoia

Parlando di Monsieur Verdoux, la scorsa settimana,* ho di­ menticato di riferire quest'episodio, ora utilissimo per il film di cui dovrò occuparmi. Mi trovavo dunque a vedere il film di Charlot e vicino a me sedeva una matura e impassibile signora, che non mostrò minimamente di gradire quelle amenità.: anzi, non mos trò nemmeno di sgradirle, restava del tutto indifferente. Non perdeva un quadro o una battuta, ma non rideva né azzar­ dava commenti; e quando il pubblico scoppiava a ridere, dia volgeva lo sguardo attorno, cercando il motivo dell'ilarità., non sospettando nemmeno che ne fosse causa la pellicola. Riaccesesi le luci, il severo marito della signora osservò che, dopotutto, il protagonista della vicenda era un cinico e volgare assassino e la sua fine, dunque, meritatissima. Soltanto allora la signora fece sentire la sua voce. Era una vocetta da gallina casalinga, di quelle che vivono sul terrazzino della cucina. Scuotendo il capo, rispose al marito: «Perché? Dopotutto non faceva mancare nul­ la alla famiglia>> . Ecco, quest'episodio m'è tornato alla mente ved endo il film I prigionieri dell 'oceano. Si tratta di un film tratto da un romanzo di Steinbeck, un film girato nel periodo della guerra, quindi un film di propaganda antitedesca, pieno di effetti e di sorprese, drammatico e forse commoven te. Eppure io mi sentivo nella poltrona come la brava gallina di cui ho riportato la battuta: estraneo a ciò che succedeva sullo schermo, deplorevolmente in­ sensibile a quella parata di buoni sentimenti , e di giuste ragioni. Anzi, debbo precisare: simpatizzavo un pachino per il perso­ naggio «cattivo>> , e mi spiace che questo personaggio risultasse di nazionalità. tedesca . Perché, mi chiedevo, questa parzialità.? Forse perché il tedesco, bene o male, «viveva» . Tutti gli altri non riuscivano a convincermi della loro esistenza o forse aveva­ no un solo torto, quello di essere dalla parte della ragione e di esserne fieri . Il tedesco si macchiava di misfatti , ma «non faceva ' In LA C, ((Sfregiatissima Assunta», p. 9 1 ; v. anche sul medesimo film e nello stesso volume, ((Bentornato M. Verdoux», pp. 2 16-2 18.

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mancare nulla alla sua famiglia» , cioè alla sua natura di perso­ naggio subdolo e spietato. Caino eccita la fantasia, Abele la de­ prime. E i film di propaganda di Abele sono molto meno inte­ ressanti dei delitti di Caino. C'è di più. Sembra che l' italiano non sia lo spettatore più adatto pei lavori di propaganda, benché gli si muova l' accusa di faziosità e lo si rimproveri di affezionarsi tanto ad un'idea da non essere più capace di giudicarla. Tutto lascia credere che la colpa di questa indifferenza non è della sua scarsa immagina­ zione o dei s uoi spesso vaghi ideali politici , ma piuttosto della sua ben nota incapacità ad accettare qualsiasi affermazione sen­ za essere tentato di discuterla. Sensibile a tutto ciò che è umano - pregi e difetti, eroismi e viltà - resta freddo coi personaggi di­ mostrativi . Non ama i bassorilievi , ma le statue a tutto tondo, vuoi girarci attorno. Egli sa che in ogni eroe sonnecchia la cana­ glia, e che ogni canaglia ha una mamma. Il ladro non è mai irri­ mediabilmente colpevole se fa tanto di portare un fiore alla fi­ danzata. L' Assassino non è mai perduto se all' ultimo momento trova il gesto nobile. Anzi, all'Assassino si chiede proprio que­ sto. Se il Traditore sa affrontare con fermezza il plotone d'esecu­ zione, la simpatia dello spettatore lo raggiungerà assieme alle pallottole. La Critica, diceva Oscar Wilde, è autobiografia. Lo spettatore italiano vuoi vedersi com ' è o immagina di essere. Quel che vale per i personaggi cattivi vale per i buoni. E di qui, ci sembra, le difficoltà che incontrano i lavori di propagan­ da, perché essi in genere si servono di personaggi dimostrativi , precisi , buoni o cattivi, anzi di tipi. Detto ciò, poco resterebbe da aggiungere su I prigionieri del­ l 'oceano. Ma il film di Hitchcock è notevole per altri versi. È un capolavoro di precisione, il frutto di un'organizzazione implaca­ bile e di una sapienza cinematografica che potrebbe sbalordirei, se avessimo tempo. La trama del film è molto semplice: una na­ ve americana diretta in Europa viene silurata da un sottomari­ no tedesco. Si salvano poche persone: una giornalista, un gran­ de industriale, tre marinai, un negro, una crocerossina. Si salva anche una donna col suo bambino: ma questo muore e la donna quindi si annega. Per ultimo, si salva anche il capitano del sot­ tomarino tedesco che è affondato nello scontro. E su questo ca­ pitano si accentra l'attenzione di Steinbeck. Cosa rappresenta­ no gli otto naufraghi se non l'umanità in guerra? Ci sono tutti, approssimativamen te. L' industriale e il marinaio comunista, che si odiano cordialmente e finiranno per giocare a poker. La crocerossina che si innamorerà di un altro semplice marinaio. 163

La giornalista che rinnegherà il suo passato mondano per unire il suo destino a quello del marinaio comunista. Tu tta brava gen­ te, insomma. Il tedesco, invece, è un vero e proprio tedesco. Gli scampati sulle prime vorrebbero gettarlo in acqua: finiscono poi per subirlo, per ubbidire ai suoi ordini: è difatti l' unico che sa cond urre una barca e conosce le regole della navigazione. Ma quando si macchia dell'ultimo nefando delitto (l' uccisione di un ferito, che egli reputa ormai inutil e) , gli altri lo linciano . Cosa faranno ora, senza guida, nell' oceano? Per fortuna, a questo punto arrivano soccorsi. È evidente che Stein beck , non a·v endo provato gli orrori di cui narra, scivola nell'accad emia e la sua fa tica appare pro­ grammatica, nient'affatto suggerita da un' urgenza poetica: ep­ pure la «situazione» poteva offrire molti appigli. Steinbeck è lo Hemingway dei pigri, uno scrittore che nasconde assai bene la sua pigrizia sotto il manto di uno zelo eccessivo e pun tualissi­ mo. Egli ha lavorato per la propaganda, ma ad orecchio, per un pubblico dozzinale. Ha scritto La luna è tramontata senza farci ve­ dere la Norvegia, senza credere alla sua esistenza, come invece Hemingway seppe fare a proposito della Spagna. Sarei curioso di assistere ad una rappresentazione de La luna è tramontata in un teatro norvegese. Probabilmente gli spettatori norvegesi non riuscirebbero a chiudere in quello schema gentilmente predi­ sposto a loro gloria e per la loro commozione un bagaglio pesan­ te e vivo come la loro esperienza, forse ancora inadatto alla ma­ nipolazione artistica. Ricordiamo qui per inciso come, a descri­ vere con più disinvolto distacco la prima guerra mondiale sullo schermo, furono proprio gli americani, che gli orrori della guer­ ra avevano sofferto molto meno degli europei. I prigionieri del­ l 'oceano ( titolo originale: Liftboat) , è stato tratto da u n romanzo.* Steinbeck scrive i suoi romanzi tenendo già presente la versione cinematografica e la versione teatrale. Non vuoi perdere un mi­ nuto di tempo, né una lira di diritti d' autore . In questo caso la versione teatrale era esclusa, per colpa dell'oceano che è un per­ sonaggio indispensabile. In compenso la versione cinematogra­ fica ha risentito molto del romanzo, ed è questo il suo massimo torto. Steinbeck, stavamo per dire la Ditta Steinbeck, non ha fornito a Hitchcock che della cattiva letteratura, che dei surplus di guerra. Hitchcock (si scrive proprio così?) , glieli ha restituiti molto ben cotti, ma senza assumere responsabilità. Melanconi' In realtà da un soggetto originale.

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co destino di questo regista veramente sottile e beneducato, ch e si trova sempre a dover scusare le grossolanità altrui . 20 aprile

1 56 . Western italiano Assistendo alla visione del film Lafiamma dell 'Ovest mi è tor­ nato alla mente che un paio d'anni fa due ragazzi ammazzarono un povero scenografo, che frequentava talvolta il Caffè Greco, battendogli un pezzo di legno sulla testa. Quando furono presi e interrogati, i due ragazzi dissero che non avevano avuto nessu­ na intenzione di uccidere lo scenografo, ma soltanto di spaven­ tarlo. Anzi, il più giovane aggiunse: «Come si può ammazzare un uomo con un pezzo di legno?)). E sorrise anche, sembrando­ gli di aver detto cosa assolutamente ovvia, senza tener conto che lui perlomeno c'era riuscito. Quel giovane risultò un assiduo frequentatore di cinema. Preferiva, ad ogni altro genere di film, il film western. Amava la prateria e i racconti della prateria. Gli sarebbe piaciuto fare il cow-boy, andare a cavallo, sparare, sal­ vare fanciulle imprudentemente cadute nelle mani di esseri ab­ bietti , e sfasciare sedie o sgabelli sulle teste dei rivali. Il guaio è che certe gesta, trasferite dal territorio del W est al centro di Ro­ ma e dalla seconda metà del secolo scorso alla prima metà del secolo attuale, perdono lo slancio epico che le salverebbe dai ri­ gori del codice. Uscendo dal cinema dove si proietta La fiamma dell 'Ovest, chi incontro se non il regista Marcellini? Anche Marcellini ha un debole per il western e, in attesa di girarne uno, fa dei bei docu­ mentari : persino su soggetti forniti da me. Marcellini subito mi dice che è tempo di fare dei westerns italiani. Siamo d'accordo nel ritenere che il film western sostituisce in America quella che fu la letteratura cavalleresca in Francia e in !spagna, o quella che nell' l tali a del Sud fu la letteratura popolare sul brigantag­ gio. Come i cow-boys e i cavalieri, anche i briganti, se volevano campare a lungo senza essere infastiditi dovevano mostrare un debole per la filantropia: soccorrere la vedova, il debitore, e l'or­ fano. E se volevano addirittura aver fama di gentiluomini non avevano che a mostrarsi corretti con una dama caduta nelle loro mani . Un bel soggetto per un western italiano potrebbe essere fornito dalla vita di Angelo Duca, detto Angiolillo (non si con165

fonda col senatore Angiolillo, eletto recentemente nella circo­ scrizione di Foggia) . Angiolillo era filan tropo (anche il senatore, per la verità, ha fondato il Cuore di Rom a) , non amava che i ricchi godessero e che i poveri soffrissero. Col ricavato delle su� imprese dotava le zitelle bisognose, se la prendeva spesso cogh usurai , fissava i prezzi del grano a suo piacere e bastonava i pre­ potenti. Insegnava anche la morale ai preti : e a questo punto i caratteri che il valoroso brigante ha in comune col valoroso se­ natore minacciano di diventare troppi e di togliere ogni parven­ za di serietà alla mia proposta. Resta però inteso che l'idea di un soggetto su Angelo Duca l'ho avuta io per primo. L'unica osservazione che si può fare contro il western italia­ no è che nel western americano c'è qualcosa di più delle buone intenzioni e dei bei sentimenti . Il pubblico infatti apprezza nei cow-boys le qualità dei nostri briganti e degli antichi cavalieri, ma alla lunga ci si annoierebbe se i cow-boys non mostrassero un'eccezionale resistenza fisica ai corpi contundenti, ai pugni e ai colpi di pistola. Ed è per questo che ho raccontato l 'episodio del giovane assassino che si meraviglia di aver ucciso lo scena­ grafo con un pezzo di legno. Scommetto che quel giovane avrà riso vedendo cos'è capace di fare un cow-boy in una rissa, senza sgualcirsi la camicia. Avrà riso, ma il sospetto che l'arte supera la realtà, che ruba sul Vero, non l 'avrà nemmeno sfiorato. Cosa non è infatti capace di fare un cow-boy? Vibrategli una bottiglia di birra in testa ed egli si volterà verso l'obiettivo, più preoccu­ pato che stordito, cercando con lo sguardo calmo e melanconico l'assalitore. Afferrate con le due mani un tavolo e frantumatelo sulla testa di un secondo cow-boy . Lo vedrete proseguire bron­ tolando verso il centro della mischia . Succede a volte che il cow­ boy è ubriaco: in questo caso il tavolo otterrà il beneficio di ri­ donargli una certa lucidità mentale. Niente di più. In un film che si intitola Dodge Ciry vedrete una banda di cow-boys scazzottarsi sino al punto di sfondare la parete di un bar, attraversare la strada, sfondare la parete della casa dirim­ petto e seguitare la zuffa coi mobili a disposizione. Il tutto, sen­ za un ferito. N el film Notte senza fine la forza che Robert Mit­ chum impiega per sferrare pugni a quell' attore che somiglia a Luigi Barzini jr. potrebbe, se convertita, fornire la luce a una cittadina di cinquemila abitanti . Nel film La fiamma dell 'Ovest l' attore Rod Cameron riceve un calcio sotto il mento e di tale potenza che lo si vede volare: eppure Rod Cameron, nella scena seguente, ha soltanto un occhio pesto : e siccome il film è in tech­ nicolor, tutto si riduce ad un occhio blu marinaio . Ora, non 166

dobbiamo più stupirei se quel giovane assassino si chiederà tal­ volta come ha potuto ingannarsi a tal punto circa la resistenza del cranio umano. Ma il segreto del western è appunto l'iper­ bole, e questa è tanto più avvincente quanto più riesce a sem­ brare credibile. Niente di più iperbolico e di surrealista di una rissa tra cow-boys , eppure niente di più apparentemente vero. L'iperbole è dunque il segreto della cavalleria, del western, del brigantaggio: ed è anche la meravigliosa menzogna che ci ripor­ ta l' eco - a noi, che viviamo nell' epoca degli esaurimenti nervosi - l'eco dei tempi mitici, dei tempi in cui gli uomini lottavano coi giganti e sopravvivevano. Spero, dopo queste considerazioni, di non essere sospettato unicamente di gusti grossolani se confesso che i film westerns non soltanto mi piacciono ma mi sono utili. Il western ci libera dal rimorso, dal complesso di neutralità. Il western lavora per noi, mentre noi riposiamo. Si tratta, è vero, di un riposo partico­ lare, poiché non a torto Péguy ha detto che gli avventurieri del tempo presente sono i padri di famiglia. La fiamma dell 'Ovest narra le fasi di un aspro amore tra una cantante bisbetica-dom i bile e un generoso cow-boy . I l contra­ sto dei loro caratteri sarà appianato da una figlioletta molto brava e, oso sperarlo, anche dalle faticose avventure che i due protagonisti debbono sopportare . Coi cavalieri del West non è davvero possibile annoiarsi. I l cow-boy è Rod Cameron : che sappia «incassare>> lo abbiamo detto. La cantante è Yvonne De C arlo, appartiene alla categoria degli animali cinematografici : cioè, messa davanti alla macchina da presa con un vestito scol­ lato si rende sopportabile e forse desiderabile per le sue non po­ che attrattive. Grazie al technicolor sappiamo che i suoi occhi sono verdi. 18 maggio

1 63. Proibito rubare Poche ore prima che fosse inviato a Locarno per un festival cinematografico, ho visto Proibito rubare, il primo film di Luigi Comencini. C ' era molta curiosità per questo esordio, reso certa­ mente più difficile dalla materia che il trentaduenne regista ave­ va voluto indagare: la delinquenza minorile a Napoli. Ora io non so se questo film grigio, ben fatto, patetico, pieno di stracci e alla fine ottimista piacerà agli svizzeri: sono però certo che 167

non piacerà ai napoletani - come ai romani non è piaciuto Sciu­ scià. Piacerà forse agli svizzeri perché vi vedranno documentata' un'esistenza che non è la loro, una vita disperatissima (la vita dei quartieri poveri di Napoli) , e perché sulle negre leggi dei mi­ serabili ved ranno trionfare le loro leggi , quelle dei benpensanti e degli igienisti, nonché delle persone di cuore. Non piacerà ai napoletani per altri motivi , o forse per gli stessi motivi : ma Co­ mencini non intendeva piacere ai napoletani e del resto il suo film potrebbe svolgersi ovunq ue, in una qualsiasi città dove la guerra abbia calcato la mano, lasciando nuova miseria sullo strato originale, lasciando ragazzi abbandonati e quel senso di provvisorio che fa prosperare l'idea del furto come una delle arti applicate, necessaria e incoraggiata dalla società. I titoli di testa di Proibito rubare ci dicono che questo film su Napoli è opera di milanesi. Milanese il prod uttore (Carlo Pon­ ti) , il regista, l'aiuto-regista (Aldo Buzzi) , la direttrice di prod u­ zione (Bianca Lattuada) ; milanese persino chi ha fornito l'idea del soggetto, Gigi Martello: nobile smentita, questa, a quanti vanno dicendo che tra i milanesi e le idee non corrono ottimi rapporti. Ora, da questa calata di milanesi a Napoli è venuto fuori un film sotto molti riguardi pregevole, ma un film nient' af­ fatto napoletano. Comencini ha visto di Napoli ciò che gli ha giovato per le sue dimostrazioni ( talvolta solo moralistiche) , senza chiedersi se in qualche caso non potessero essere smentite dalla realtà. Comencini viene dai documentari e, come tutti i re­ gisti che hanno cominciato con un pathé-baby, conosce il valore dellç immagini. Molto spesso soccombe al peso di esse, come un voyeur. Riesce cioè a vedere le cose con estrema semplicità e chiarezza, ma rischia di intendere soltanto il loro linguaggio. Ci sono alcune scene nel suo film che sembrano girate a insaputa degli attori e sono certamente tra le più efficaci . La lunga scena del «pazzariello» che invita i bambini a seguirlo è, per esempio, un brano bellissimo, ma cosa si viene a sapere? - che per co­ glierlo con tanta efficacia l'operatore s'è nascosto con la macchi­ na da presa in un carretto. C ioè Comencini si è affidato al caso, che a Napoli è sempre benigno, perché la strad a napoletana ser­ ve più da palcoscenico che da via di comunicazione . Proibito rubare narra l' immaginaria avventura d i un missio­ nario che deve raggi ungere il Kenia, va a Napoli per imbarcarsi e ci resta, convinto che vi potrà operare con maggiore profitto . Al � ro che redimere selvaggi ! Bisogna prima pensare agli scu­ . gmzzi. Ecco, già in questo breve programma spunta la polemica 168

contro Napoli, che nel film troverà modo di svilupparsi in qual­ che dialogo, in qualche macchietta ( ingenue quelle del Sindaco, del Vescovo, del direttore del giornale: ingenue e soltanto dimo­ strative, mai artisticamente centrate o inventate) , e che si con­ cluderà con un' accusa di mancanza di solidarietà rivolta ai na­ poletani. È questo, a mio avviso, l' errore più evidente, che nuo­ ce molto al film, portandolo talvolta all'altezza di quelle discus­ sioni che non è raro sentire in seconda classe tra commessi viag­ giatori : se le regioni a mezzogiorno del Po appartengano o no al­ l ' I talia. O, se volete, a quelle lu nghe chiacchierate tra coscritti, nelle quali gli epiteti di «terrone» e «polentone» vanno avanti e indietro come palle da tennis . È qui che Comencini ha zoppica­ to, ma è proprio qui che molti cadono addirittura, perché il pre­ giudizio vuole giustamente le sue vittime. Proibito rubare è un film coraggioso - a parte tutto. È certo un film che fa pensare e commuove benché talvolta quando meno il regista se lo aspetta. Noto infatti che le scene calcolate per otte­ nere la commozione o l' edificazione dello spettatore non sono le più efficaci : quando gli «scugnizzi» da perfidi diventano buoni e trascurano di mangiare la zuppa per pensare al loro benefatto­ re, restiamo soddisfatti ma insensibili. Invece, le scene indimen­ ticabili sono quelle che Comencini ha captato sul posto, pren­ dendo conoscenza dei luoghi e cedendo al loro fascino : scene che hanno lievitato per gratitudine. La scena del «basso» - gira­ ta da maes tro - o l' inseguimento nei vicoli, dove avvengono gli incontri più impensati e napoletani del mondo . È la rivincita del documentarista, tanto più notevole se si pensa che Comencini non crede più come una volta all'obiettivo . Ma restiamo intesi che Proibito rubare resta un film pieno di notazioni poetiche, di passi eccezionali, un film insolito, che ha acquistato al cinema italiano un vero regista: tutto lascia supporre che il cinema ita­ liano ne aveva bisogno. Una delle sorprese del film è di trovarvi lo scrittore Carlo Barbieri nei panni del Vescovo: e bisogna riconoscere che Bar­ bieri recita come scrive, con una misura e una calma settecente­ sca. Dice però Comencini che nel suo film si� il Vescovo che il Sindaco sono simboli. 13 luglio

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Da « I l Mondo))

1 66 . Sipario di ferro I l caso dell'impiegato Gruscenko, che sottrae certi docu­ menti dall' archivio dell'ambasciata russa di Ottawa e, a conclu­ sione di una crisi ideologica, li consegna alla polizia canadese per smascherare un gruppo di agenti del Cremlino, è stato diffu­ so a suo tempo dalla cronaca; e con tanto successo da sembrare un ottimo pretesto al prod uttore americano Zanuck per un film che trattasse il tema della scelta della libertà . Questo tema è og­ gi così vivamente attuale da indurre a qualche considerazione sui sistemi di propaganda, per lo studio deì quali è da supporre che in America esistono facoltà universitarie. È dubbio intanto che i produttori abbiano raggiunto lo scopo che si prefiggevano. I l film è scialbo . Si esce dal cinema dove si proietta lasciando nelle poltrone qualche spettatore addormentato e forse in preda a sogni spiacevoli : spettatori che di certo vacilleranno quando si cercherà di interessarli ulteriormente alla causa della democra­ zia con racconto di fatti «realmente successi». Perché nulla co­ me la cronaca romanzata risulta arbitraria; e se è vero che con i buoni sentimenti si fa in genere la cattiva letteratura, è anche vero che ogni «fatto» può essere interpretato a favore di tesi op­ poste. La propaganda che il pubblico è più propenso a gustare sullo schermo è quella vaudevillesca che ispirò Lubitsch per Ni­ notchka, : là tutto si risolveva in commedia e la Democrazia cri­ stiana, a proiezioni ultimate, traeva dalle provincie e portava a Montecitorio la maggioranza assoluta dei rappres entanti del popolo. La propaganda seria, invece, non può che riservarsi i tasti della paura e della fame: l' uomo delle caverne si risveglia e prende nota. Ma ogni altra considerazione mette in allarme e annoia; ed è inutile, anzi dannoso, insistere. È ancora vivo in noi tutti il ricordo della propaganda sbagliata per poter apprez­ zare quella giusta. 173

L'impiegato Gruscenko, inoltre, portato sullo schermo sog­ giace a quelle leggi che gli spettatori hanno imparato a rispetta­ re, anzi che desiderano veder rispettate: le leggi dell'onore, della fedeltà, eccetera. Cosa resta in questo film del dramma che pure Gruscenko visse? All'eroe che ci aspettiamo d'incon trare succe­ de un impiegato che abusa della fiducia e mette nei guai il suo ambasciatore. L'idilliaco paesaggio del Canada, le tudoriane vi­ sioni dei palazzi governativi di Ottawa (dove il film è stato gira­ to) , non bastano a giustificare nemmeno il furto di una matita. Né si può credere che un addetto d'ambasciata fosse all 'oscuro dei servizi di spionaggio e, scoprendone per la prima volta l'esi­ stenza, ne rimanga turbato a tal punto da volerli cancellare dai sistemi della diplomazia. Capovolta, cosa rappresenta l'avven­ tura del Gruscenko? Una protesta sentimentale. M ettete nei suoi panni un cassiere che sappia il denaro della sua banca de­ stinato ad una bassa speculazione: non risolverebbe nulla por­ tando la cassa negli uffici di un' altra banca. E quale triste finale ci riserba il film: Gruscenko e la sua famigliola nei vasti campi del Can;;�.da, protetti o sorvegliati (la differenza è impercettibi­ le) , dagli agenti della polizia canadese. Ecco forse la sola morale che scaturisce dal film. Il tono è volutamente cronistico, ma la mano del regista s'è rivelata pesante nel tratteggiare i caratteri dei personaggi russi; e bisogna dire, suo malgrado, che l'intenzione era di volerei mo­ strare dei perfetti gentiluomini, per non cadere appunto negli eccessi del luogo com une. Particolarmente inu tile risulta u n vecchio personaggio che Steinbeck aveva utilizzato nel s u o ro­ manzo sulla resistenza norvegese (La luna è tramontata) : il soldato che beve per dimenticare e diffonde nei suoi subalterni la sfidu­ cia nell' avvenire. Nel cinema romano dove questo film è stato in programma, alcuni spettatori dissenzienti hanno arrecato danni ai tend aggi e alle poltrone, tagliuzzandole con lamette da bar­ ba. C'è toccata una di queste poltrone, del resto già rattoppata. 26 febbraio

1 67 . Un pittore molto noioso Non è la prima volta che il protagonista di un film fa di pro­ fessione il pittore; e non è dunque la prima volta che al cinema ci si diverte indipendentemente dalla storia narrata nel film. La 174

professione delle arti figurative è certo una delle più allettanti, per un interprete, ma anche la più ricca di tranelli : guardate, ad esempio, il buon Mario C avaradossi che nel primo atto della Tasca tiene generalmente la tavolozza a rovescio . Ora, il Cava­ radossi è un pittore senza molte pretese: ma che dire di quei suoi colleghi che al dramma di una sommaria conoscenza delle cose artistiche aggiungono le complicazioni della loro abnorme psicologia? L'antagonista del film La seconda signora Carroll, ossia God­ frey Carroll, è proprio uno di questi pittori, più sciagurati che colpevoli . Si sospetta che la lettura di quel breve racconto di Poe che ha per titolo Il ritratto ovale (e che tanti danni ha arreca­ to agli scrittori di storie misteriose) gli abbia rivelato la sua se­ conda natura di artista-vampiro . Infatti Carroll, come pittore, ha la pericolosa tendenza a saturarsi del modello: sino al punto da doverlo sopprimere quando l'opera è compiuta, e prima di passare ad un'altra opera. Ora, se C arroll dipingesse nature morte, o quei magici cocomeri che De Chirico fa partecipare ai «silenzi)) delle sue composizioni, la soppressione del modello rientrerebbe nell'uso. ( E a questo punto vorremmo ricordare che il pittore Orfeo Tamburi, incaricato di dipingere una natura morta con un tacchino, batte Carroll sul suo stesso terreno sop­ primendo il modello alle prime pennellate . ) Il guai'o è che Car­ roll non dipinge nature morte. Al contrario di Renoir il quale sosteneva che il quadro è finito quando ci si accorge che il mo­ dello è una donna ( anzi, con frase meno elusiva: quand on couche avec le modèle} , il signor Carroll comincia il quadro proprio quan­ do si accorge che il modello è la donna che gli piace : e perciò ri­ trae di preferenza le sue «signore)) . La prima «signora)) Carroll muore dunque misteriosamen­ te, poche settimane dopo che il suo singolare marito ha dato la vernice al quadro L'angelo del crepuscolo, opera, diciamolo pure, tanto mediocre che il regista del film ha cura di non farcela mai vedere se non di sbieco. Il vedovo pittore sposa subito dopo la deliziosa quanto incauta Barbara Stanwyck; e da questo punto la narrazione si fa complessa e noiosa, da non poterla infliggere ai nostri lettori. Diremo soltanto che a quadro ultimato il pitto­ re non riesce a sopprimere la seconda moglie e diventa anzi paz­ zo: brillante soluzione se si tien conto_ che oggigiorno la pittura dei bambini, dei dentisti e dei pazzi ha conquistato il favore del­ la critica e si avvia ad essere riconosciuta dallo S tato come arte ufficiale. Il signor C arroll avrà l'onore di una monografia con tavole fuori testo? Non lo sapremo mai . Il regista, se non cono175

sce l'arte del cinema, conosce l' arte della discrezione ed evita di farcelo sapere, troncando il film sulla rivelazione della pazzia di Carroll. La noia che questi film susci tano è forse dovuta al loro mal­ celato desiderio di spaventare il pubblico, senza fare nessun cre­ dito alla sua intelligenza. Perché il pubblico accetta il giuoco quand'è scoperto (e ciò spiega il successo della terrificante serie Frankenstein) , ma lo rifiuta se il gi uoco vuoi apparire letterario, ben informato, à la page . E ogn i scena, in questo film, tradisce la presunzione delle buone letture: ad un certo punto vi si cita persino Van Gogh . Si aggiunga che l'attore Humphrey Bogart vi si rivela, nella parte del pittore, per il più fastidioso gigione che lo schermo ricordi. Le sue mani da sadico compiaci uto van­ no su e giù, vorrebbero recitare da sole, ripetere il successo della Foresta pietrificata, e non vi riescono. Altro elemento di comicità involontaria è il desid erio dei realizzatori di fare un film da esportare in I nghilterra: la scena è appunto nei dintorni di Londra. E trionfa il poncif inglese. C ' è l a domestica che dà l e risposte argute, i l medico di paese che ama il whisky, i vicini che coltivano rose, eccetera . Tutto per sentito dire, naturalmente. Così qualche volta ci accade di vede­ re un film americano che si svolge in I tali a e di vedere uomini e città che esistono soltanto in un dizionario dei luoghi com uni sul nostro paese. 5 marzo

1 72 . Due racconti

Sogni proibiti è un fil,m tratto da un racconto di J ames Thur­ ber, La vita segreta di Walter Mitry James Thurber viene conside­ rato in America l' erede abbastanza legi ttimo di M ark Twain; eppure, all' opera omnia del suo M aestro, non può contrapporre che un volume di storie, di articoli e di disegni presi dalle anna­ te del «New Yorker» , dove li aveva pubblicati . Questo volume, il Thurber 's Carnival, è stato tradotto anche in italiano, con lo sti­ le esatto e indifferente delle «istruzioni per l' uso», e manca del racconto citato, che ha invece il merito di rivelare il personag­ gio-chiave del mondo umoristico di Thurber, quell ' U omo della strada di cui sempre si parla prestandogli medie qualità di intel­ ligenza, di buonsenso e di ironia. L' Uomo della strada scoperto .

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da Thurber è «l' eroico, imperscrutabile)) Walter Mitty, certa­ mente il personaggio più notevole del nostro tempo, se si eccet­ tua Charlot, che del resto è suo padre. Walter Mi tty ha questo di particolare, che ha ormai ripudiato la vita reale, ricca soltan­ to di difficoltà, di sgradevoli compagnie e di mortificazioni, per la vita che sa offrirsi con l'immaginazione, momento per mo­ mento. Egli ha sceso l' ultimo scalino della degrad azione roman­ tica e non ha altro conforto che di vedersi vivere : però sotto altre spoglie e in ben altre circostanze che non siano quelle della sua mediocre esistenza. Soltanto in sogno Walter Mitty si concede la forza, l'intelligenza, la bellezza e l' audacia che pure sa di pos­ sedere . E, come Madame Bovary che legge Walter Scott e non sa immaginarsi l' amore se non in meravigliosi scenari gotici al­ l' italiana, così Walter Mitty [ . . ] non può immaginarsi la vita se non negli scenari che gli suggerisce ogni sera il Cinema: per­ ché W alter Mitty è il vero uomo nuovo del secolo, la dolce vitti­ ma del Cinema, e tutta la sua immaginazione è incatenata �i modelli eroici che ormai lo schermo ha proposto all'umanità. Nella sua vita segreta, che si svolge parallelamente a quella rea­ le, Walter M itty è un vero Ercole, passa da una fatica all' altra affrontandole con quella bonomia e quel senso d'umorismo che è proprio delle persone forti . Anzi ha su di Ercole la superiorità che è data dal disinteresse: non aspira a nessun Olimpo, ama l'azione per l'azione, e non importa se qualche volta soccombe: rifarà tutto daccapo . Come rifiutare una vita di cui si può rego­ lare il corso, o troncarlo? È imprudente amare, è imprudente odiare, agire, parlare, tacere, vivere . È prudente morire. Così dice, pressappoco, un personaggio di Shaw. W alter M itty non si lascia incantare da questa pavida filosofia. Egli sa che è pruden­ te sognare, e perciò ama, odia, agisce, parla, tace soltanto in so­ gno . Quanto alla vita quotidiana, quella di tutti, egli la trascor­ re in un isolamento implacabile, mal tollerato da un prossimo che, dopotutto, non s' accorge della sua presenza se non per metterla in dubbio o per rifiutare il suo amore. Togliete a Wal­ ter M itty la facoltà di sognare e ne farete un au tore di lettere anonime. Quel po' di morale che lo aiuta a vivere, W alter M itty l'ha imparata al cinematografo. È nei film che ha visto trionfare il Giusto e sprofondare l ' Iniquo, premiare il Buono e proteggere la Vedova: ma questo sarebbe assai poco se non vi avesse anche visto la vita assumere un ordine strettamente imbrigliato dalle leggi della visione. È dunque sugli schermi che la vera vita si svolge, le filosofie si illuminano in esempi prestabiliti e tutto .

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procede come Walter Mi tty vorrebbe. La vita quotidiana è tan­ to affidata al caso che non sempre la morale può regolarla e quindi insegnarci qualcosa. Da un altro racconto americano, di John Steinbeck, è stato tratto il film La perla. Qui le intenzioni sono estremamente serie e retoriche. L'azione si svolge in un villaggio della costa messi­ cana e narra l' avventura di un povero pescatore che, trovata una perla enorme, perde con questo possesso la pace e la gioia di vivere, propria dei nativi . La perla attira infatti la cupidigia di alcuni trafficanti, e ne seguono lotte mortali , un lungo inse­ guimento, un agguato, e infine la morte del figlio del pescatore. Così il pescatore decide di gettare nel mare la perla nefasta; e probabilmente si darà ad un al tro genere di pesca. Il film è fatto di belle fotografie e alcuni episodi, i più movi­ mentati, sono eccellenti; ma si ricord a la forza di Tabù, la grazia e la malinconia di Ombre bianche e si avverte il posticcio, la deci­ sione degli autori di riecheggiare climi e favole che richiedono indubbiamente penne e obiettivi meno astuti . 9 aprile

1 80. Cagliostro Cagliostro, diretto da Gregory Ratoff e interpretato da Orson Welles , è un grosso film d'appendice assolutamente privo d' in­ teresse. Non sarebbe il caso di menzionarlo, se non rappresen­ tasse il primo «sforzo>> di collaborazione cinematografica italo­ americana; sforzo che tenne occupate le cronache due anni fa, quando l' arrivo dell'attore-prodigio fece di Roma la «vera» ca­ pitale del cinema d' arte e accese le speranze di quella piccola società che vive la maggior parte dell'anno sui. marciapiedi di via Veneto. Può sorprendere che in un paese dove il problema che appassiona tutti è il problema delle colonie, vi sia tanta di­ sposizione al colonialismo, cioè tanta disposizione ad accettare con entusiasmo le mode e le indicazioni che vengono da paesi di più elevato tenore di vita . Forse spaventati all'idea di passare da provinciali, accettiamo tutto con riconoscenza. Siamo più esistenzialisti di Sartre e più surrealisti del re; il futurismo ci fa ridere quando lo propone Marinetti , e ci incanta quando ritor­ na truccato da astrattismo. La verità è che molti italiani sono soltanto degli ottimi e incondizionati ammiratori: e questa loro tendenza è aggravata da quell'altra tendenza mirabilmente in178

tuita da Bruno Barilli con queste parole che ricaviamo da un suo vecchio scritto : «Gli italiani volano in soccorso del vincito­ re» . Per due anni la stampa italiana non si è interessata che di Orson Welles e dei suoi film artistici: molto discutibili , per il ve­ ro, se stiamo ai due esempi che sinora ci ha offerto : Citizen Kane e Cagliostro: tanto barocco, truculento, di alta e inutile precisio­ ne il primo, quanto sciatto e pagliaccesco il secondo. ( Ma tutti e due dettati da una stessa esigenza «artistica>> . ) Orson Welles di­ mostra una particolare predilezione per le grosse parti : ha inter­ pretato Macbeth, facendone un capolavoro di umorismo involon­ tario, si appresta a interpretare Otello e non possiamo escludere che arriverà a Enrico V I I I , a Quasimodo, al dottor Mabuse. Poiché i suoi personaggi appartengono a quella categoria che mangia il pollo con le mani non per maleducazione, ma per ec­ cesso di carattere, per prepotenza di immaginazione e di volon­ tà! Proprio il genere di personaggi che riescono ad annoiarci , tanto da ritenere che le loro intemperanze non provengono da un dibattito aperto col Destino, ma da un eccessivo sviluppo (curabile) della tiroide. Acconciato nei panni di Cagliostro, Or­ san W elles prova, in fin dei conti, le stesse soddisfazioni artisti­ che di quando si acconcia nei panni di Macbeth: non gli interes­ sa che cosa dice e quale dramma sta vivendo, gli preme meravi­ gliare il pubblico: come quei cantanti che non fanno differenza tra Mozart e Leoncavallo, anzi preferiscono il secondo per far crollare il lampadario éon gli acuti. Questo film è anche interessante perché girato in vecchi pa­ lazzi romani. Era l ' anno delle difficoltà per la nuova Repubbli­ ca. De Nicola, angosciato dai dubbi, abitava in quattro stanze a palazzo Giustiniani, si lagnava di non avere il mare sotto casa come a Torre del Greco, e il Quirinale era stato affittato agli americani che vi giravano, appunto, Cagliostro . Nella sala del trono sonnecchiavano le comparse, altre comparse passeggiava­ no in giardino truccate da cortigiani di Luigi XV. Il '47 è stato un anno difficile, ed è tutto qui: Togliatti e Nenni che preparano il colpo decisivo per onorare il centenario del Manifesto comunista; gli americani che colgono fiori nel giardino del re; la buona pic­ cola società romana che ammira Orson Welles, mentre le signo­ re ricominciano a mettersi penne in testa e a organizzare balli di beneficenza. Ma il film non si svolge soltanto nei saloni del Quirinale. Tocca la Villa d ' Este a Tivoli "e si conclude nel palazzo della Sa­ pienza, alla base di quella «lumaca» che Borromini mise a coro179

na della chiesa. Qui, a quaranta metri d' altezza, Caglios tro e il suo an tagonista si battono nel più scomodo duello della storia del cinema. Muore infine Cagliostro, precipitando nel sotto­ stante cortile. Questa soluzione non è il solo arbitrio dell'autore del soggetto. Ma, quando fecero osservare al regi sta Ratoff che nel film le incongruenze, e gli anacronismi e gli anatopismi era­ no troppi, qu.e sti rispose che le persone in grado di accorgersene non sarebbero certamente andate a vedere il suo film. Saggia ri­ sposta. Oltre a questi, il film ha difetti da vendere anche per gli spettatori poco esigen ti, nel num ero dei quali ci mettiamo. Al cinema noi chiediamo pochissimo, siamo sempre pronti a com­ muoverci , ci ribelliamo soltanto quando la commozione vuoi es­ sere ottenuta contro di noi, come una prova di forza. 4

giugno

1 8 1 . Duvivier Graham Greene sostiene che un film ha maggiori probabili­ tà di buona riuscita se tratto da un romanzo che da un soggetto di poche righe: poiché mentre in un soggetto non c'è che l'idea del film, in un romanzo tutto è concluso e può servire al regista: caratteri , scene, dialoghi. Probabilmente lo scrittore inglese s'è lasciato andare a questa affermazione pensando ai romanzi che scriverà . Se la sua regola fosse giusta, dovremmo credere che i romanzi di Tolstoj sono mediocri , perché sempre mediocri risul­ tano i film che se ne traggono. E anche Flaubert non sapeva scrivere un romanzo, se dobbiamo cred ere al cinema. E che pensare di Stendhal? I suoi romanzi vengono così travisati che non possiamo ricordare senza amarezza ciò che egli stesso dice­ va per consolarsi dell' indifferenza dei suoi contemporanei : «Mi capiranno tra un secolo». Egli non sospettava che «tra un seco­ lo» ci sarebbe stato il cinema. La verità è che il cinema non è brutto come credono i ro­ manzieri, e nemmeno così bambino . Innanzi tutto, bisogna ri­ spettarne l' autonomia. Siamo convinti, per restare a Stendhal, che l'opera di questo scrittore più adatta ad essere trasportata sullo schermo sono le Promenades dans Rome, senza trama né dia­ loghi. Ladri di biciclette è un esempio probante . Per un qualsiasi regista, un' opera arida e senza fu tti ha dunque più pregi di un'opera già drammaticamente conclusa. Questa superiorità è 180

data dalle prospettive curiose e impreved ibili che un riduttore può essere portato a intravedere nell'opera arid a; e anche dal fatto che questa, mutata in film, vi rivela infal libilmente doti drammatiche che non sospettava di possedere . Ossia, il ridutto­ re, messo di fronte ad uno schema è costretto a rives tirlo; men­ tre dategli un romanzo, e il suo compito si limiterà a rid urre in schema un' opera letterariamente vitale, spogliandola. L'espe­ rienza dovrebbe averci insegnato che il codice, il regolamento di P. S . , l' elenco degli abbonati al telefono, il bollettino dei protesti cambiari sono ottimi soggetti per un regista che ha delle idee. Petrolini, senza volerlo, sosteneva la stessa tesi quando afferma­ va di voler mettere in n;tusica l'orario delle ferrovie: difatti que­ sto è uno dei pochi «libretti)) che non potrebbero influenzare con una loro prepotenza narrativa l' ispirazione di un composi­ tore. La lezione dell' arte astratta è questa, e va accettata per i frutti che darà: una decantazione della visione. Se J ulien Duvivier si fosse ispirato ai sani concetti di Petroli­ ni, invece di rifarsi alla storia di Anna Karenina, ci avrebbe ac­ conciato a film, dello stesso Tolstoj , quel noioso panfletto sul­ l' arte che s'intitola appunto: Che cos 'è l 'arte. Si sarebbero diverti­ ti di più gli spettatori, e anche il regista. Anzi, questi avrebbe dovuto mettere in moto la sua immaginazione, che oggi sembra del tutto intorpidita. Perché Duvivier è caduto nella trappola del grande romanzo classico? Egli che nei suoi migliori anni aveva saputo tènersi ai romanzetti da tre soldi, come Pépé le Mo­ ko e La Bandéra, e farne due film pieni di un loro indiscutibile fa­ scino? Forse succede ai registi il contrario di quel che succede agli artisti in genere, che andando avanti con gli anni affinano mezzi e sensibilità, e diventano sempre più severi con se stessi. I registi del cinema sostengono strenuamente che il cinema è arte, ma approfittano raramente di questa possibilità: si lasciano vin­ cere dal timore dell'insuccesso, dalla necessità di «essere com­ merciali)), dalla noia dei copiosi guadagni e dalla routine del mestiere. Un bel giorno si accorgono che esiste il pubblico, deci­ dono di farlo felice: ed allora salu tateli . Non hanno più nulla da dirvi. Anna Karenina è dunque, più che un film sbagliato, il film della prudenza senile di Duvivier. I l romanzo di Tolstoj è diven­ tato un dramma di Sardou, inutile and are tutti a Pietroburgo, bastava restare a Parigi, e inutile anche sacrificare l 'eccellente Vivien Leigh . Trascurati dal riduttore tu tto lo sfondo del ro­ manzo e quei moti, quelle osservazioni che dettano l'azione, ne segue che Anna Karenina diventa l'ovvia eroina di un' avventuJBJ

ra abbastanza noiosa. Il regista non ha inventato nulla, limitan­ dosi a rendere sciocchi i personaggi; forse per attutire la trage­ dia? Il rigido funzionario Karenin, più preoccupato della socie­ tà in cui vive che della colpa di sua moglie, diventa un bonac­ cione da commedia intimista, tutto casa e ufficio, un personag­ gio preso in prestito da Achard . Il tenente Vronskij è anc� e lui un povero diavolo, ed Anna rimane così senza appoggi . Manca soprattutto nel film l' aria che circola nel romanzo; e non è ba­ stata l'ottima fotografia di Alékan a darci la sensazione di quel­ l'ambiente che Tolstoj ha disegnato con tanta minuzia, non a caso e non certo per perder tempo. Il giugno

1 82 . Donnine d'America Per la sua tendenza a complicare in modo romantico la vita di tutti i giorni e a vedere nelle semplici persone che la circonda­ no tanti eroi da film, una bambina mette la sua famiglia nei guai . Ecco il soggetto di Donnine d'America, film di categoria B . Quando u n produ ttore americano vuoi spendere poco, utilizza­ re attori sconosciuti, saggiare le possibilità di un regista, disfarsi di un soggetto che le «stelle» rifiu tano, fa un film di categoria B , senza aspettarsi u n grande successo. Questi fi l m sono, invece, tra quelli che vengono da Hollywood, i soli che abbiano un cer­ to interesse per noi . Aggiungiamo che sono i film migliori, per­ lomeno privi di quello sfarzo che è la sola giustificazione degli altri, e che tanto scivola nella pacchianeria. Alla ricchezza, i film B sostituiscono spesso una grazia discreta; all'assenza di te­ mi drammatici, una bonaria osservazione della vita quotidiana. Si arriva alla fine ammirando i particolari , ma senza sentirsi stanchi, senza il sospetto di esserci degradati a seguire una delle tante storie che non ci riguardano. Donnine d'A merica è s tato di­ retto da George Seaton. L'interesse maggiore è offerto dalla pro­ tagonista, la piccola attrice che ha in terpretato Un albero cresce a Brook lyn. A costei fa corona una folla di attori sconosciuti che qui non intendono sciupare la buona occasione per farsi cono­ scere e recitano con quell'impegno che i vecchi astri non riesco­ no più nemmeno a fingere. Donnine d'America è dunque un film minore, ma ha il merito di darci un quadro abbastanza vivace (roseo, tuttavia) di quella generazione che allo scoppio della guerra frequentava i giardini 182

d'infanzia. Come pensano, quali ideali nu trono queste fanciulli­ ne americane supernutrite, educate alla franchezza nei rapporti coi coetanei dell'altro sesso, avviate alla cultura dal «Reader's diges t » , innamorate della voce di Sinatra, invidiose del seno della Hayworth , turbate dall' ingegno di Orson Welles e soprat­ tutto avide di «romanzo»? Cosa vogliono e che cosa si aspettano dalla vita? Il film non risponde a queste domande che sono indi­ screte e riguardano semmai i sociologhi. Se recenti statistiche possono dirvi che il maggior numero delle ragazze-madri ameri­ cane non hanno superato l' età consacrata al primo amore, i se­ dici anni; e se Kinsey (che sta certamente preparando il suo rapporto sul comportamento sessuale della donna americana) arriverà a conclusioni allarmanti sulle abitudini delle adole­ scenti, poco importa. Questo film non è l 'altra faccia della luna. Certi risultati «veristi)) li avremmo trovati nei film americani se l'America avesse perso la guerra. Ma l ' ha vinta e vediamo in Donnine d'America l'aspetto più lieto della questione. Poiché le bambine che animano questo film sono sagge e tradizionali nel­ la loro apparente anarchia. Sottopongono la loro spregiudica­ tezza ad un concetto romantico dell'esistenza, quale non dispia­ ce al filosofo Panfilo Gentile, che ci ha appunto consigliato di vedere il film, di ammirarne l 'educazione dei sentimenti, il giuo­ co vivace delle scene, i caratteri e le conclusioni. Ora, se il filo­ sofo Panfilo Gentile non fa testo in materia cinematografica, il suo giudizio è quasi inappellabile in materia cinologica. E il suo giudizio si apprezza meglio quando si pensa che Donnine d'Ame­ rica è stato proiettato proprio nei giorni che a Villa Borghese fer­ veva i l concorso canino. Probabilmente il nostro amico ha senti­ to nei due spettacoli lo stesso fascino scaturire dalla forza disar­ mante della natura. Le ragazze del film agiscono infatti con la disinvoltura propria dei cuccioli, e allo spettatore non resta che approvare, e anzi meravigliarsi. È certo che gli animali non co­ noscono gli artifizi della recitazione, eppure sono chiari e con­ vincenti se si intestano a farci capire qualcosa. Da un film simile non avremo mai la sorpresa, rivedendolo tra molti anni, di no­ tare una recitazione legata ad una moda, e quindi falsa. La na­ tura ha orrore non solo del vuoto, ma del ridicolo. E di qui la .spontaneità che regna in Donnine d'America. Tuttavia se il film avesse soltanto questo pregio forse alla lunga annoierebbe. C'è invece dell'altro. Per esempio, una ben studiata scelta dei tem­ pi, che dà a certe scene la vivacità di una pantomima e giustifica certi personaggi (i numerosi corteggiatori) . E che toglie al film, soprattutto, un po' dd suo languore. 183

Ad un certo momento, Donnine d'America minaccia di pro­ mettere qualche conforto alle statistiche di Kinsey; ed è quando accenna a far suo il tema del Pélerin di Vild rac ( lo zio che torna a casa dopo anni di assenza e fa innamorare la nipote) . Ma su­ bito si scosta da questo tema e prosegue nella migliore delle strade immaginabili, quella del lieto fine. Sembra così di parte­ cipare a una scampagnata. 18 giugno

1 83. Peccatrici Il film Peccatricifolli è pieno di avvenenti attrici , a comincia­ re dalla Crawford per finire alla Hayworth . C ' è anche Fred ric March, la regìa è di George Cukor, mentre la sceneggiatura è di Anita Loos. Da questi «nominativi» commerciali ci si aspetta dunque un film onestamente drammatico, con incursioni mon­ dane e qualche dottore psicanalista: uno di quei film ovvi, frutto comunque di una saggia manipolazione. Si rimane scossi quan­ do ci si accorge che il film è semplicemente stupido. Tale sco­ perta avviene dopo un quarto d'ora che le numerose attrici in abito da sera riflesse sullo schermo hanno detto molte battute, delle quali la più profonda è: «Solo attraverso l'amore per il prossimo acq uisteremo la forza dello spirito» , e la più dedutti­ va: «Cos'è questo rumore? Dev'essere il motoscafo». Allora, si fa strada nell' animo dello spettatore cinematografico, di questo mite personaggio moderno che chiede di essere ingannato al buio, che il vero titolo del film potrebbe essere Seccatrici folli. Una simile scoperta, fatalmente riferibile a tutte le attrici dello schermo, può salvare un'anima, allontanandola per qualche tempo dai piaceri del cinema, che cominciano a farsi troppo ar­ dui e richiedono ogni giorno una maggiore rinuncia all'intelli­ genza, al giudizio, al gusto. Ma, per tornare al film , da che pro­ viene questa noia che i prodotti americani cominciano a sparge­ re nelle platee? Diventiamo dunque insensibili alle complicazio­ ni sentimentali di un popolo al quale siamo pur legati da un patto di assis tenza politica e militare? Non ci interessa quel che succede in quei salotti così confortevoli della California, oppure laggiù hanno esaurito l' argomento e insistono in ripetizioni su­ perflue? Non vorremmo aver l' aria di enunciare una verità di­ cendo che il cinema americano è entrato in quello stesso vicolo cieco che il cinema europeo imboccò all'inizio dell' altro dopo184

guerra: ma è chiaro che la fantasia sta disertando gli studi di Hollywood , come trent'anni fa disertava gli studi italiani, ben­ ché fossero quasi tutti intitolati a imperatori dell' antica Roma o ai Sette Colli. E proprio in quegli anni la fantasia si trasferiva in America, e ci rivelò un paesaggio nuovo, pieno di im previsti a tal punto che la ragione avrebbe rifiu tato di accettarlo se l'o­ biettivo non avesse convinto che ciò che vedevamo era geografi­ camente vero, che esisteva una terra vergine di sentimenti e im­ mune da pregiudizi drammatici . Ogni film americano rappre­ sentava un passo avanti nella scoperta di un paese ricco di vita, di avventure, di umori . Si poteva vedere (e in un film realmente si vide) , dopo uno scontro di automobili, due esseri di sesso di­ verso saltar fuori dal groviglio delle macchine e innamorarsi re­ ciprocamente, senza perdere tempo . Fatti ancor più gravi, inon­ dazioni, divorzi, nozze decise in un minuto, ratti consenzienti avvenivano in quei film con la maggiore grazia possibile. Un piacevole amore anglicano, fatto di buoni propositi e di igiene personale forniva il pretesto alle vicende. Chi era abituato al ci­ nema europeo d'allora, alle sue dive sempre preda delle più pe­ nose tribolazioni, guardava quella gente nuova e il loro nuovo modo di ingannare la noia con un sospiro di sollievo. Nel mon­ do si inaugurava una primavera di belle avventure e di pazzie, avremmo avute sempre nuove sorprese!* Ed ora, il ciclo s'è con­ cluso. Le eroine americane, come quelle che sostituirono, si tor­ mentano più del lecito, posano a peccatrici europee, diventano illustrazioni di una cattiva letteratura, di un teatro corrente, di una psicologia sommaria. Riveriscono il luogo comune e non si difendono più dal ridicolo di una posa portata agli estremi limiti della monotonia. Dunque, l'imprevisto lascia Hollywood . I suoi film fatti a macchina, di un estremo e puntuale standard, sommergono quel po' di vivo che i registi indipendenti si ostinano ancora a proporci . E si aggiunga che la rarità di opere come La città nuda, o i film di Kazan, lo stesso profondo insuccesso riportato da Monsieur Verdoux fanno pensare che il pubblico sonnolento non ama le eccezioni e preferisce il già fatto, il prevedi bile: che vuole annoiarsi rispettando la «sua» tradizione. I nsomma, i pionieri mettono su pancia, il cinema è ormai un affare come un altro . E se per caso una sera entriamo in un cinema dove danno una vecchia comica di Charlot, o si ha la ventura di rivedere un film di Dreyer, di Ford, di René Clair, o anche un film di gangsters Qui Flaiano riproduce quanto già osservato a proposito del cinema americano nella recensione a Un angolo di cielo (p. 78). •

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della prima maniera, ci si accorge che il «pane dei sogni» è di­ ventato sciapo, che l'intelligenzi;l e la fantasia sono state caccia­ te a pedate dal cinema, e con tale brutalità che non oseranno tornarvi per molto tempo. 25 giugno

1 84. L'educazione dei sentimenti Non è stato certamente l'autore di Madame Bovary a suggeri­ re il titolo di questo film russo che pure è ce que nous avons eu de meilleur dal cinema sovietico del dopoguerra. Per Flaubert l'edu­ cazione sentimentale è quella che l'individuo si impartisce at­ traverso Je esperienze del cuore, mentre i sentimenti che la pro­ tagonista del film di Marco Donskoj coltiva di preferenza sono «collettivi)) ' hanno sempre un valore edificante o, nel peggiore dei casi, didascalico. Questi sentimenti sono molto apprezzati dallo spettatore che considera il cinema come uno s trumento ef­ ficace della lotta di classe, ma possono risultare ovvi, anteriori comunque al Manifesto di Marx, per l' altro spettatore che non si accon tenta d i enunciazioni e che nella moltiplicazione d egli esempi positivi è tentato di vedere più il trionfo dell'ottimismo conformista che dei sentimenti. Le reazioni che questo film su­ scita sono infatti diverse e vanno dalla commozione al fastidio. Anzi, precisiamo, la commozione iniziale cede man mano al fa­ stidio: e alla fine resta la noia delle facili previsioni, la routine d i u n film statale che procede egualmente verso l a s u a destinazio­ ne, come un treno senza passeggeri , soltanto perché c'è un ora­ rio da rispettare. La protagonista del film è una maestrina appena diplomata che lascia Pietroburgo negli anni del suo massimo splendore mondano per chiudersi ad insegnare in uno sperduto villaggio della Siberia. Tolstoj , Cechov e Dostoevskij hanno influito non poco in questa sua vocazione umanitaria, benché il regista non ne faccia parola e si accontenti di mostrarci la ragazza fidanzata ad un giovane comunista. Spinta dal suo impulso neocristiano, la maestrina affronta d unque il duro viaggio, e poi la diffidenza degli indigeni, ma riesce infine a raccogliere i primi ragazzi nel­ l'abbandonata scuola del villaggio. E qui comincia la sua edu­ cazione dei sentimenti altrui. La natura del luogo, il carattere dei suoi discepoli le sono di aiuto, ma le difficoltà non mancano e si complicano con l'ostilità della scuola statale del capoluogo, 186

che rifi uta di accettare gli allievi della maestrina, soltanto per­ ché pov�ri e di condizione sociale inferiore . Scoppia poi la pri­ ma guerra mondiale, segue la rivoluzione e le cose cambiano. Al posto della scuola sorge ora una bella costruzione: e qui il film potrebbe finire e siamo invece soltanto alla metà. Il resto è un'e­ saltazione pedante del nuovo spirito sovietico, delle «realizza­ zioni», dello stalinismo e del patriottismo. Cosicché il film sfugge di colpo alla nostra competenza. Do­ ve un accenno sarebbe stato sufficiente per scatenare l'immagi­ nazione nei vasti panoràmi delle riforme sociali sovietiche, Donskoj ha creduto opportuno ( forse per non essere accusato di tiepida fede) di far seguire un catalogo di bei propositi, di virtù rivoluzionarie. Lo sforzo si avverte . Ciò che doveva essere la­ sciato intendere viene dimostrato sino all'eliminazione dell' ulti­ mo dubbio. Erano poveri i siberiani , prima? Ora sono benestan­ ti . Erano disperati i russi di partire per la prima guerra mondia­ le? Bene, per la seconda guerra partono felici, sorretti dalla co­ sciente calma delle madri . Una festa da ballo nella vecchia Pie­ troburgo era noiosa? Nella nuova Leningrado è animata, giova­ nile, costruttiva. Si è portati a credere che l' illustrazione del «trionfo>> non sia il coronamento del dramma, ma il dramma stesso e che il tema iniziale del film, così piano e armonioso, sia stato un pretesto per l'interminabile fuoco d 'artificio di propa­ ganda che conclude il film. Tutto è detto, conclamato, urlato. La protagonista riceve l' Ordine di Stalin. I suoi ex allievi diven­ tano tutti professori o ingegneri e si battono egregiamente al fronte. E ritornano ad intervalli regolari a salutare la «maestri­ na» e a ricordarle i duri tempi della lotta. E si arriva alla fine co­ me in un racconto di De Amicis, respirando l' aria dell'ultimo giorno di scuola, senza nemmeno il conforto del cattivo scolaro che d iventa buono, perché qui sono tutti buoni sin dall'inizio: non sono forse della nuova generazione? C ' è un'attenuante: che i film russi sono fatti per essere visti dai russi, i quali forse in trent'anni di propaganda hanno perdu­ to il senso d ell'illusione, quel divino e prezioso senso che per­ mette all'artista di liberare il disegno d alla geometria, la musica dai rumori, la poesia d al dizionario dei luoghi comuni e dalla politica. Gli applausi che hanno accolto questo film potrebbero definirsi: di partito. Il calore che li dettava era in parte obbliga­ torio. E gli applausi sinceri, tra i quali i nostri, erano evidente­ mente diretti alla fotografia, alla recitazione della protagonista Vera M arezkaj a , alla calma di Marco Donskoj nel proporre i 187

vasti paesaggi siberiani, nell'illus trare il villaggio, ì ragazzi, la vecchia scuola. 2 luglio

1 86. Sette registi Con l'estate cominciano ad arrivare sui nostri schermi vec­ chi film americani che anche i mercati orientali ormai rifiutano. Spesso questi film portano firme di eccellenti registi e allora è difficile non cadere nella trappola; diventa impossibile quando il film è addirittura avallato dalla firma non di un solo regista, ma di sette: e questo è il caso della pellicola che s'intitola Per sempre e un giorno ancora . I sette registi sono in ordine alfabetico: René C l air, Edmund Goulding, C ed r i c Hardwicke, Frank Lloyd , Vietar Saville, Robert Stevenson , Herbert Wilcox. I sog­ gettisti, per contro, sono ven titré . Gli attori , i grandi attori , cir­ ca sessanta; volendo contare i caratteristi di una certa fama si arriva al numero di centoventi. Bene, possa il Cielo concedere a tutti quel perdono che a noi il cuore non suggerisce. Poiché il film così tumultuosamente redatto è soltanto un film di propa­ ganda e arriva con un ritardo di nove ann i . Vi si tratta il tema della resistenza londinese ai bombardamenti aerei e ci si sor­ prende che un tema così vivo non abbia saputo suggerire a tante persone uno svolgimento meno asmatico, una storia più avvin­ cente, un qualsiasi colpo d'ala. Siamo persino lontani dal clima delle signore Miniver, abbandonati alla fantasia amministrati­ va degli uffici Rko che hanno voluto forse arricchire gli spettato­ ri organizzando un nuovo genere di film, il film di beneficenza, cui è doveroso prender parte e applaudire. La tenacia anglosas­ sone è simbolizzata nella casa, anzi nella home. Una casa viene costruita ai primi dell'800 e le fortune di essa variano col variare dei proprietari, due famiglie in eterna lotta. Assistiamo così ad una Cava/cade domestica ricca di allusioni benché povera di fat­ ti. La casa, infine, verrà distrutta nel '40, dagli aerei tedeschi , m a i proprietari s i troveranno d ' accordo n e l ricostruirla. Di tut­ to il film, macchinosamente simbolico, si salva una breve scena in cui riappare Buster Keaton, nei panni di uno stagnino. Trop­ po poco per assicurare al film dei sette registi quell'immortalità auspicata dal ti tolo ai focolari inglesi. Anche Obiettivo Burma è un film di guerra, che arriva troppo tard i per in teressarci alla seconda guerra mondiale e troppo 188

presto per spaventarci con l'ipotesi della terza. [ . . . ] Tante sono le pellicole che hanno illus trato la guerra che vien voglia di chie­ dersi se anche in questo campo la Natura non ha sentito il biso­ gno di copiare l'Arte e se non ci siamo trovati , noi di queste ge­ nerazioni, nelle più terribili guerre mai immaginabili anche per colpa del cinema. È un'ipotesi che non manca di fascino. Ma non ci illudiamo che il pubblico abbia imparato a diffi­ dare dei film di guerra : anzi sembra persino avvezzo a conside­ rarli indispensabili. D' altro canto le case cinematografiche non hanno mai badato a spese per raggiungere qualche risultato e sempre si sono preoccupate di mostrare la guerra come una ne­ cessità ineluttabile e, dopotutto, romantica . Sino al punto che pacifismo ha potuto significare viltà nella coscienza del ben am­ maestrato spettatore. Servendo un impulso naturale dell' uomo, il cinema dunque ha mostrato un' eccessiva curiosità per la guerra; eppure, una curiosità superficiale: preferendo rappre­ sentare le belle gesta, la vita rude, i vari stadi della sublimazio­ ne dell' uomo in eroe. Soprattutto ha cercato di superare il mo­ dello nella messinscena e nella coreografia. Poco a poco, il pub­ blico abituatosi alla guerra-spettacolo, non si è meravigliato troppo vedendo quelle fantasie tradursi nella realtà e riversarsi su uomini e paesi veri . Ma come potrebbe lo spettatore medio farsi un altro concetto (non romantico) della guerra (e quindi detestarla) , se alle centinaia di pellicole che esaltano la forza si possono contrapporre soltanto un paio di film che la condanna­ no o perlomeno la mettono in du bbio? 9 luglio

1 8 7 . Il maggiore Barbara Il maggiore Barbara, dopo Pygmalion e Cesare e Cleopatra, è il terzo film che il produttore Pascal ha tratto dalle opere di Shaw. Per questo film Pascal s i è assunto anche il peso della regìa, di­ menticando ciò che il suo grande omonimo diceva dell 'infelicità degli uomini, che dipende «dal non saper restare chiusi nella propria stanza>>, cioè in questo caso nel voler oltrepassare i pro­ pri limiti . Ne è venuto fuori un film abbastanza lento e disconti­ nuo, di cui si salvano solo poche scene, ma per merito del dialo­ go. Si s alvano insomma le qualità brillanti di Shaw. Il maggiore Barbara è una delle tante commedie che Shaw ha scritto per sconvolgere le idee dei suoi spettatori del XIX seco189

lo, dimostrandovi questa tesi: è inutile parlare di Salvezza alle turbe affamate, è preferibile parlarne alle masse evo l u te, co­ scienti e organizzate. In utile predicare nei bassifondi quando ci sono le officine. Oggi questo paradosso non turba nessuno; ma ai tempi in cui la com media fu scritta, tempi che videro anche la massima fortuna della Salvation Army e il fiorire delle sette neocristiane anglosassoni, la tesi pu zzava di zolfo. La buona so­ cietà vedeva nella Beneficenza uno dei massimi compiti, il più ricco di soddisfazioni. Del Vangelo si apprezzava principalmen­ te il miracolo della moltiplicazione dei pani, cioè la zuppa calda agli uomini disposti a credere. Il Cielo, eseguito su disegni di Dante Gabriele Rossetti, era gentilmente riservato ai poveri ; e le acciaierie di Sheflield non facevano ancora aghi tanto grandi che vi potessero passare i cammelli progressisti. Ma il destino di Shaw è stato di sopravvivere ai propri paradossi. Nato otto anni dopo la redazione del Manifesto di Marx, questo fenomeno lette­ rario ha vissuto abbastanza per vedere la rivoluzione comunista farsi grandicella, trionfare in mezza Europa e diventare confor­ mista. Shaw si è fatto idolatrare per l' abbondanza e la qualità dello spirito, per la straordinaria capacità di ridurre ogni pole­ mica nei tre atti di una commed ia, ma è rimasto fermo alla sua prima concezione del mondo e della società. I l titolo di uno dei suoi primi romanzi, Il socialista insocievole, potrebbe figurare nel suo biglietto da visita, sotto il nome. Ad un giornalista che gli chiese quali erano state le tappe della sua evoluzione, rispose: «lo non mi evolvo. Sono un uomo, non un' ameba». Così, in po­ litica è rimasto fabiano, con tendenza all'opposizione, anche ora che all'opposizione ci sono i conservatori ; in letteratura ha con­ tinuato il discorso di Butler, prendendo apertamente di mira l a società vittoriana che, morendo, ha unito i suoi applausi a quelli del loggione. Sin dalle sue prime opere Shaw s'è fatto un marchio intellet­ tuale che applica rigorosamente a tutto. È un marchio che egli chiama «realista», e qui il realismo vale per buon senso. Ma co­ me il buon senso di tutti gli scrittori satirici , anche q uello di Shaw s'è formato sull'intelligenza: e per una buona battuta Shaw ha sempre sacrificato volentieri la realtà. Il maggiore Barbara è un personaggio, anzi un'idea che a Shaw piace particolarmente, se dobbiamo dedurlo dalle versio­ ni che ce ne ha dato : la troviamo in Androclo e il /eone, nelle vesti della patrizia che si converte al cristianesimo e poi ritorna sui suoi passi; la troviamo nelle Case del vedovo, la troviamo persino nelle vesti di Santa Giovanna: è sempre la stessa idea o creatura 190

sensibile, umanitaria, animata da una fede cristallina, fede sulla quale il fiato del dubbio lascia i suoi vapori , appena si trova a dover sopportare i rigori del possibilismo . A Barbara non inte­ ressa soltanto il fine, ma anche i mezzi: e potrebbe essere un au­ toritratto molto giovanile dello stesso Shaw, uno di quei rimorsi che i grandi au tori si trascinano poi malvolentieri in tutte le loro opere . Per camuffarlo meglio, Shaw gli ha cambiato sesso, ma la sua voce tradisce accenti baritonali. Fa eccezione, appunto, il giovane protagonista delle Case del vedovo, preso anche lui dai corni di un dilemma morale e sociale. Come se la cava questo giovane? Cambia le sue opinioni in una battuta, proprio alla Shaw. Del film, d unque, si salvano le scene in cui il dialogo si fa apertamente polemico nei riguardi della società. Quello scam­ bio di battute tra il padre realista e il figlio confusamente ideali­ sta e incerto sulla carriera da abbracciare conserva ancora una piacevole vivezza. Se tutto il film fosse all' altezza di questa sce­ na, potremmo parlare di capolavoro. Ma alle lentezze dell'ini­ zio e alle assurdità da cortometraggio industriale della fine non c'è rimedio . Pascal ha fallito la sua prova, questa volta, lascian­ doci per unica consolazione il ricordo di una brava attrice, Wendy Hiller, che fa la parte di Barbara. 23 luglio

1 88. L'urlo della città Gli autori polizieschi hanno capito una grave malattia della vita contemporanea, la fretta, e se ne stanno facendo illustrato­ ri. I protagonisti degli antichi poemi o romanzi viaggiavano, gli eroi moderni fuggono. Alla conoscenza del mondo preferiscono la ricerca di un rifugio. Ciò si verifica soprattutto nelle storie e nei film criminali ( anche in quest' ultimo di Siodmak L'urlo della città ) , dove i protagonisti, spinti dal loro piccolo dèmone esi­ stenzialista, corrono dal principio alla fine, soltanto per rag­ giungere la Morte. Gli autori polizieschi sono spesso rozzi e in­ clini ai meccanismi narrativi ma esprimono sempre il loro tem­ po e forse domani chi vorrà farsi un quadro vivace delle psicosi che oggi ci affliggono dovrà consultare le cineteche. Sarà con­ servato negli archivi L'urlo della citta? Ne dubitiamo, i suoi meriti non sono enormi. Comunque, il film di Siodmak può interessar­ ci per un altro motivo: a distanza di pochi mesi dal Bacio della 191

morte di Hathaway, è il secondo rapporto americano sulla ma­ lavita italiana di New York . Per le notizie che dà incidentalmente sugli emigrati , il film attrae come la lettura di un numero del «Progresso italo-ameri­ cano»: La macchina da presa entra in certe case dove, nella stanza da pranzo, tra Mazzini e la Madonna della Seggiola, tra bandiere e mandoli ni, c'è un Crocifisso e una carta geografica dell ' I talia. I cognomi che escono dall'a ltoparlante sembrano presi dal nostro libro del telefono e sorprendono come una tra­ duzione arbitraria. E i personaggi non sorprendono meno, a ve­ derli tra quei grattacieli: vecchi nonni con la scoppoletta, bam­ bini bruni e ricciuti, mamme sempre in pena per il figlio scape­ strato, padri che non hanno di menticato le vecchie leggi del­ l'onore familiare e non sanno adattarsi alle manie spregiudicate dei figli . C'è il primogenito, amato e viziato da tutti, che finisce male. C'è anche il paesano che ha fatto carriera nella polizia ed è quindi costretto a vedersela col compagno d'infanzia che ha fatto carriera coi gangsters . L'ambiente è dunque vivo, ma Siod­ mak ne ha colto gli aspetti più appariscen ti , anzi obbligatori, senza curarsi di approfondire né i caratteri né la questione . Siodmak è un bravo seguace di Fritz Lang e sembra più preoc­ cupato di dare una tensione drammatica alle sue storie, che d i indagarne i motivi . Dei suoi film, appunto perché troppo stu­ diati per sorprend ere, niente si aggancia alla memoria d ello spettatore: anzi spesso i suoi trucchi sono così complessi da infa­ stidire. Siodmak dunque non ci fa capire (al contrario del regi­ sta di Scarface) perché ha scelto per il suo film un ambiente ita­ liano invece di un ambiente cinese. Forse quest'interesse im­ provviso del cinema americano per la vita di Brooklyn deriva dal successo di alcuni nos tri film del dopoguerra, dalla certezza di trovare tra gli emigrati nuova materia narrativa, nuovi casi umani? Se è così , l' occasione è stata sciupata . Anche se il rac­ conto è buono, le formule psicologi.he dei personaggi sono an­ cora quelle dei film di Giovanni Grasso. Il regista non «condivi­ de» i suoi eroi, si limita a fornirgli sommarie caratteristiche. CoCuriosamente Flaiano non si accorge che i gangsters del film non sono più italiani nella versione diffusa nel nostro paese, ma grazie al doppiaggio so­ no diventati polacchi (Martino Roma, a esempio, si chiama Martino Rosky) : evidentemente il prudenziale sciovinismo dei nostri doppiatori ( o della censu­ ra?) non veniva nemmeno recepito e il film, per così dire, esprimeva da sé le proprie caratteristiche > è gaia, terribile, piena di incognite e di avventure, affascinante perché non sappiamo nemmeno se continuerà. Eccoci tutti pro­ tagonisti, nessuno vuoi fare la comparsa . Oggi «fuori>> avvengo­ no i grossi disastri, i delitti più estrosi, i fatti strabilianti . C ' è l' angoscia per i l domani e c ' è anche un' estrema fiducia nella magìa della fortuna, che può risolvere di colpo tutti i nostri guai . È inutile fare programmi. «Den tro>>, invece, può ancora capi tare (cfr . La grande fiamma, che abbiamo visto questa setti­ mana) , di assistere a lunghe e maldestre scene d ' amore tra l' at­ trice joan Crawford e l' attore john Wayne: Il pubblico guarda, ' Flaiano riprende q u i una considerazione già fatta i n altro articolo ( cfr. p. 1 5 7) .

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senza nemmeno annoiarsi. I l cinema non è più la fabbrica dei sogni. I film più furbi, per non restare indietro, sono costretti a copiare la vita. La fantasia è nei documentari. Cred evamo che non ci fosse limite alla fantasia cinematografica e invece è nella realtà. Guardate i film polizieschi: piacciono se i fatti narrati so­ no veri , già accad uti. C ' è di più: il pubblico non esige nemmeno le soluzioni obbligate, il lieto fine, l'amore tra il protagonista maschile e quello femminile: non crede alla indispensabilità di questi provati fenomeni . Il pubblico ormai va al cinema per ve­ dersi com'è: ossia affascinante . Il realismo cinematografico sal­ va così la vita a Narciso, che non si trova tanto bello da cadere nello stagno (cioè, niente cinema come evasione) , ma si trova tuttavia unico, insostituibile, migliore delle ombre che gli hanno proposto a modello per tanti anni. Il dopoguerra ha fatto il mi­ racolo, e il lato morale del realismo è tutto qui, ci sembra. Le applicazioni, poi, sono infinite. Abbiamo letto, a proposito di un recente film sulla vita di una santa, che il realismo può essere anche agiografico. r ottobre

1 98. Elettra �Elettra di O'Neill, che aveva già avuto ottime accoglienze in tutto il mondo, è stata rappresentata in I talia, per la prima volta, otto anni fa . Adesso ritorna sullo schermo, in una edizio­ ne abbreviata e irreprensibile. Ma otto anni sono forse già trop­ pi per un lavoro di ordine tanto composito, il cui successo era le­ gato alla moda letteraria del «suo» momento, un lavoro sor­ prendente per l'insolita lunghezza. Rivista sullo schermo, oggi Elettra tradisce il difetto principale del suo autore, la mancanza di allusione, difetto che scopre il meccanismo drammatico e to­ glie forza umana ai personaggi, lasciandogli l'energia troppo vi­ va e scattante degli automi . O' Neill, scrivendo i tredici atti di Elettra non nascondeva l'intenzione di voler restaurare la trage­ dia greca con le ultime conquiste della scienza psicanalitica: e il suo errore è stato proprio quello di aver lasciato che lo schema psicanalitico dettasse le azioni ai suoi personaggi , senza conce­ dere loro nessuna autonomia. Il suo errore è stato di credere che esistano intenzioni e schemi poetici, anzi di ritenere la tragedia un genere poetico. E d a ciò sono derivati gli altri errori : la ten199

denza al discorso sovraccarico, la tendenza ad accumulare pa­ ralleli, a dare una mano di tinta simbolica anche ai personaggi minori (ved i il Giardini ere-Coro ) , e soprattutto la certezza di poter trasferire la Grecia nello Stato di New York, pietra su pie­ tra, come il castello scozzese di René Clair, lusingandosi che gli antichi fantasmi seguirebbero le pietre. O ggi constatiamo che i fantasmi sono rimasti in Grecia e che O' Neill si è servito di am­ biziose contaminazioni eschilo-elisabettiane, dando grande va­ lore ai simboli che i personaggi vogliono rappresentare, insi­ stendo sulla superiorità scientifica del suo in treccio garantito da Freud. Ne risulta il progetto di una tragedia, che il passare del tempo rende sempre più irrealizzabile, per il sopraggiungere di altre mode letterarie che non hanno un momento da perdere . E anche il dialogo di O' Neill , che parve così sostenuto e carico di umori, appare oggi più dettato da una necessità dimostrativa che da un'urgenza poetica . Sembra anzi che lo schermo si sia preso l' incarico di mostrarne i punti deboli, le malcalcolate in­ genuità. Perché durante la visione di questo film la memoria corre ad un altro film, all'Amleto di Olivier? Proprio per la prete­ sa di O'Neill di imprimere alla sua azione, nelle scene madri, una violenza scespiriana che la sua penna è incapace, una volta scatenata, di controllare. Così la risata del pubblico si fa aperta quando il giovane Orin dice il suo «forte» monologo davanti al cadavere del padre ma, sorpreso dalla sorella Lavinia, viene rimproverato con un familiare: «Perché parli così al babbo?)) . Tutto O' Neill è q u i : voli audaci che lasciano il cuore in sospeso perché si aspetta la caduta altrettanto audace . Come accoglierebbe oggi il pubblico questa tragedia in tea­ tro? Forse ciò che alcuni anni fa formava la maggiore attrazione di Elettra, cioè la sua invadenza alluvionale, oggi si rivelerebbe per prolissità, per una concessione al gusto del mastodontico di un pubblico che si annoiava con le commedie in tre atti . Il pub­ blico si recava allora a teatro, portandosi la cena, convinto di partecipare più ad un rito che ad una recita. O' Neill, così pun­ tuale conoscitore di miti, aveva fatto leva anche sul complesso delle ad unate. E fu l'adunata di quel pubblico d'anteguerra che cercava avidamente cibo e si buttava su tutte le trad uzioni, e co­ sì leggeva i suoi au tori . O'Neill piacque per i suoi modi «moder­ ni)) per quella sua rude invadenza che fece credere a molti gio­ ' vani che la forza teatrale fosse soprattutto una questione di mu­ scoli cerebrali. Si potrebbe adattare ad O'Neill la definizione che Malraux dette di Faulkner: «Un tentativo di innestare il ro200

manzo poliziesco nella tragedia greca» . Ma nei romanzi di O' Neill l' assassino, ahimè, è presto scoperto. Elettra è stata tradotta in film da Dudley Nichols , sceneggia­ tore e regista: ed è un film pulito, obbediente, senza voli cine­ matografici . Anzi , se O' Neill nella sua tragedia ha volentieri adottato soluzioni cinematografiche, Dudley Nichols ha preferi­ to le soluzioni teatrali. La recitazione degli attori (Rosalind Russell, Katina Paxinou , Michael Redgrave) , è fedele alle am­ bizioni di O' Neill : una recitazione impavida, aggressiva talvol­ ta, sempre tormentata, una recitazione che lo schermo difficil­ mente sopporta. Per meglio comprendere le incertezze del pub­ blico, si aggiunga che Rosalind Russell era conosciuta sino ad oggi come attrice brillante. 15 ottobre

1 99. Manon

Manon è il terzo film di Henri Clouzot; ed è forse il più ambi­ zioso, ma anche il peggiore. Viene dopo Il corvo e Quai des Orfi­ vres e delude come tutte le opere che alla profonda inutilità ac­ coppiano la smagliante ricchezza del mestiere e la testardaggine di una contaminazione letteraria. Si direbbe venuta per testi­ moniare di un autore di talento, ma anche per darcene la defini­ zione più esa'tta: un calligrafo truccato da realista . La bravura di Clouzot è forse inguaribile . E appunto perché si tratta di una bravura precoce non arriva mai a creare un clima sensibile alle sue tragedie. È una bravura che abbocca alle idee allettanti, avida di svolgimenti superflui, estremamente precisa ma sprov ­ vista di u mori . Si sente che Clouzot ha fatto le sue ossa sulle du­ re esperienze degli altri : su quelle di Duvivier e di Carné princi­ palmente, senza tuttavia sospettare che il romanticismo di que­ sti due registi è sempre riscattato dalla loro vivissima partecipa­ zione, dalla loro buona fede di pionieri sentimentali. Clouzot è l'allievo modello, ancora troppo contento di se stesso per badare ai suoi personaggi e sempre pronto a darci la borsa invece della vita. Con Manon ci ha d ato anche la borsa dell' abate Prévost, ma dopo averla vuotata. E ci ha dato un film lungo, molto pre­ vedibile, con un ultimo atto di cui il meno che si può dire è che il compiacimento per la soluzione d rammatica è pari alla fredda inutilità del dramma. Clouzot non ha nemmeno simpatia per i 201

suoi personaggi , per questa Manon specialmente, che egli si ostina a prom uovere eroina sul campo. Se C louzot fosse rimasto fedele alla sua giovane concezione del mondo attuale, ci avreb­ be dato l'unica Manon possibile, una Manon à suivre, cioè in­ canagli ta nella sua mediocre attività di prostituta esistenziali­ sta; e forse avremmo avuto un film coraggioso. Accettando la soluzione espiatrice di Prévost, Clouzot ne ha fatto risaltare l'arbitrarietà. Manon muore nel deserto palestinese, per mano di un arabo abbastanza sprovvisto di letture, e muore proprio in vista della salvezza: ma la traged ia resta insoluta perché si svol­ ge esternamente, non è provocata ma soltanto subita dai perso­ naggi . Immaginiamo che Anna Karenina invece di gettarsi sot­ to quel treno merci finisca per una tegola che le cade sul capo : resteremmo addolorati dalla disgrazia, ma poco convinti che il Fato abbia voluto scegliere una soluzione così casuale per puni­ re un adulterio . Il peccato trova la sua punizione nel peccatore stesso. Ma il peccato esige una coscienza. Ora la Manon cine­ matografica appare non immorale, e quindi peccatrice, ma sem­ plicemente amorale, incapace di giudicarsi e persino ind egna di finir male. La tragedia è riservata alle coscienze, non agli istinti, per i quali c'è al massimo l'impotenza. Se dunque questa Ma­ non così vibratile e vuota avesse attraversato senza danni il de­ serto palestinese e aperto un bar a Tel Aviv, mettendo alla cassa il suo Des Grieux, saremmo rimasti ammirati non solo del ta­ lento di Clouzot ma anche della sua perspicacia nell'interpreta­ re i capolavori della narrativa. Ogni tempo ha le sue eroine e le Manon di oggi muoiono nel loro letto. Quanto ai rapporti di questa Manon con Des Grieux lasciamo la parola a Gide (vedi il suo ultimo libro Feuillets d'automne, pagina 46) che parla ap­ punto di un caso cinematografico simile: «Bien plus que la mé­ diocrité, m' affecte certaine complaisance dans la veulerie, et l' art de lui trouver dans l'amour une excuse)). Ecco il punto: giustificare con l' amore una serie di mediocri incidenti porta a credere che Clouzot voleva salvare il suo cavolo letterario ma anche la capra del pubblico, sempre sensibile a queste scuse. E la malafede non si perdona volentieri ad un autore di talento, appunto perché i suoi mezzi gli permetterebbero di farne a me­ no e raggiungere egualmente il successo. Abbiamo detto che questa Manon è preved ibile dalla prima all'ultima scena: chiede soltanto lo sforzo di una traslazione. Conosciamo Manon amante di soldati tedeschi ( siamo in Fran­ cia nel '44) , e Des Grieux partigiano che diserta per salvarla. 202

Poi Des Grieux si dà al mercato nero, Manon a frequentare le case di appuntamento. Infine M anon vuoi lasciare Des Grieux per sposare un maggiore dell' esercito americano e così far quat­ trini, consigliata a questo passo da un fratello senza scrupoli . Des Grieux uccide l' incauto fratello , è costretto a fuggire e qui Manon lo segue, sino in Palestina, cioè sino alla morte . Che si­ gnifica questa storia? Forse C louzot è stato attratto dal parallelo tra la vita settecentesca e la vita attuale. Ma il minuetto di Ma­ non diventa sotto la sua bacchetta un ballo sfrenato, privo di grazia e più s uggerito dall'ubriachezza che dalla vivacità. La Manon di Prévost è un diavolo che si redime, questa di Clouzot un diavolo sfortunato: l'inferno ne è pieno. 22-29 ottobre

20 l . Giannina o la fede a colori Tra i soggetti «indecenti» come la Morte e la Vergine, Pau) Valéry metteva anche Giovanna d'Arco . Poche figure come questa eccitano al lavoro quegli autori drammatici che confon­ dono la commozione col sentimento, il lirismo con la poesia. L' avventura terrena della Pulzella è un tema che dà purtroppo la certezza del successo, la tragedia sembra già fatta, non aspet­ ta che le parole definitive del «poeta» . E le parole vengono, tre­ molanti, rivelatrici, allusive. Da quando C arl Dreyer sulla Pas­ sione della santa fece un film, indimenticabile per la bellezza e la sobrietà delle sue immagini, vengono anche i film . È venuto un film di De Mille,· un altro di Ucicky, quest' ultimo di Vietar Fleming, interpretato da lngrid Bergman . Ne verranno altri. I l film d i Fleming può sembrare un orario ferroviario delle gesta d ella santa: un orario al quale mancano però tutte le fer­ mate interessanti, quelle che hanno spinto Shaw a occuparsi con tanta intelligenza dello stesso personaggio per darcene una spiegazione non catechistica, ma storica, politica, religiosa, umana e poeticamente attendibile. Questa spiegazione è il mi­ nimo che si chiede ad un autore quando affronta una figura di tanto peso. Limitarsi ai fatti per un personaggio letterariamente assodato come la Pulzella, credere che una biografia possa esse­ re un seguito di episodi storicamente quasi esatti è una morale In effetti }oan the Woman ( 1 9 1 6) di De Mille è precedente alla Giovanna di Dreyer ( 1 928). •

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da cantastorie che vorremmo adottata meno di frequente dagli autori cinematografici . È significativo che per questa Giovanna d'Arco il racconto sia stato chiesto a Maxwell Anderson, autore di un pretenzioso dramma sullo stesso argomento: e che Max­ well Anderson, dopo avere sulle scene versato un po' della poe­ sia teatrale corrente in una situazione pirandelliana, abbia per lo schermo limitato le sue ambizioni sino a darci una infantile cronistoria. Per il teatro, il pensatore Anderson ha adottato il play within the play, narrando il caso di un'attrice che interpreta Giovanna d'Arco e si id e n tifi ca m an mano col personaggio. Per il cinema, ha narrato la vita della santa ai bambini, implacabil­ mente, con molta unzione e molti luoghi comuni . All 'inizio del film, tanto per dire subito di che si tratta, Giovanna d'Arco vie­ ne chiamata dai familiari Giannina. Questo vuoi essere, credia­ mo, un atto di fede nel personaggio . Ma se questa fede muove le montagne non riesce a movimentare un solo fotogramma di una così lunga pergamena a colori . Malgrado tutti gli sforzi della produzione (o forse appunto per quelli) il film risulta scolasti­ co senza essere edificante, esplicativo sino alla pignoleria, in­ somma una gara di inutili ricerche storiche. Per una certa par­ zialità verso le armature del XV secolo potrebbe essere ciò che l'ha dèfinito un critico inglese: il film delle casseruole; e non dobbiamo meravigliarci se il diavolo s'è rifiutato di farne i co­ perchi. I l peso maggiore di questo film è sulle spalle dell ' interprete. Ma se è vero che Giovanna sprona gli autori drammatici è an­ che vero che rivivere la sua traged ia è tra le massime aspirazioni delle attrici molto sensibili . Purtroppo non c'è personaggio più infido e più complesso, nella sua semplicità. Non basta guarda­ re in alto per parlare con i santi , non basta apparire dimessa per rappresentare l' umiltà, non basta sgolarsi alla presa di Orléans per far credere che l' armata li beratrice è guidata da un inviato del Cielo. Giovanna non ha antagon ista, la sua passione è un lungo monologo, appena ravvivato da qualche incidente: e se è Shaw che parla per bocca sua c'è almeno l'imprevisto che illu­ mina il dialogo, la santa si fa vera, testarda, contadina, piena di uno spirito forte e semplice, vittima necessaria della sua stessa intransigenza. Quando parla Maxwell Anderson, Giovanna di­ venta Giannina, una vittima molto comune, una brava signori­ na che è scappata da casa e si è messa nei guai. Si noti che in questo film s'è sentito il bisogno dei «felloni», di caricare le tinte sul vescovo Chauchon e sui Borgognoni, facendoli apparire dei traditori ; quasi essi potessero non diciamo condividere ma sol204

tanto capire il nazionalismo di Giovanna. Ciò che convince nel­ la Santa Giovanna di Shaw e aiuta così potentemente il personag­ gio a fuggire la banalità, è che il deli tto non viene commesso da «felloni» ma appunto da persone dabbene, che credevano di fa­ re il loro dovere mandando la Pulzella al rogo . I nvece i perso­ naggi del film parlano e agiscono come se avessero coscienza del loro tempo attraverso la critica storica dei secoli successivi . For­ se, questo non è il miracolo meno sorprendente di santa Gio­ vanna . 1 2 novembre

204. Pearl White È ormai accertato che il tempo rende giustizia ai film comi­ ci. Critici che trent'anni fa sdegnavano C retinetti e Polidor oggi onorano le loro «scene comiche finali» di saggi in cui Bergson viene citato. Però a questi stessi critici non dite che La storia di Pearl White di George Marshall è un film divertente : li addolore­ reste. È ancora troppo presto per d irlo; e la parola «divertente>> non ha un suono sospetto? E come inquadrare questa comicità, dove collocarla se non nello scaffale del genere ibrido? La storia di Pearl White, metà farsa e metà commedia (con incursioni mu­ sicali ) , vuole essere infatti anche la biografia di un'attrice un tempo celebre . Ma quale materia di divertimento può trovare lo storico i n una biografia dove la verità viene sacrificata agli inte-· ressi del lieto fine? Nessuna, è chiaro. Se il pubblico si ostina a ridere è probabile che il film «diverta» , cioè devii la sua atten­ zione dai problemi contemporanei, che il cinema si è impegnato a illustrare. Ecco , non riusciremo mai a immaginare di quante colpe può macchiarsi un film, quando fa ridere. Ora, La storia di Pearl White fa soltanto ridere . È un film al­ legro, che può ricordare Il silenzio è d'oro di Clair perché rievoca i primi tempi del cinema e le sue ingenuità. Ma se René Clair ha fatto un' apologia di quei tempi , George Marshall si è limitato ad una satira molto discreta e perciò i due film sono inconfron­ tabili. Quel che c'è di buono nel film di Marshall non prende le vie segrete della memoria ma salta subito agli occhi ed è in mas­ sima parte affidato alla recitazione di Betty Hutton , che è sullo schermo dal primo all 'ultimo fotogramma, portandovi una vi­ vacità e un senso umoristico abbastanza rari . Ma chi è Pearl White? Negli anni della prima guerra mon205

diale Pearl White fu la pietra gettata dagli americani nello sta­ gno del divismo cinematografico europeo. Le nostre attrici sof­ frivano, (non riamate o troppo amate) , quando, a sconvolgere il concetto di femminilità, arrivò quest' eroina del Nuovo Mondo, di carattere semplice, suffragetta, libera, con le prime scarpe Walk-Over e la resistenza fisica di un pioniere . Le sue avventu­ re proposero al pubblico un nuovo sadismo, quello avventuroso e a lieto fine, non più granguignolesco o storico, un sadismo che si prendeva in giro da se stesso: il sadismo degli equilibristi. Pearl White visse sullo schermo una lunga vita di pasticci, di congiure, di attentati, di pericoli. Insidiata ogni sera nell'onore e nella vita da oscuri e tenaci malviventi, riusciva a cavarsela, dimostrando che la triste esperienza dei popoli poteva essere temperata dall'ottimismo americano. Pearl White fu così l'attri­ ce che il pubblico sognò di salvare dalle rapide del Niagara o dal complotto cinese. Preparò il terreno a Mary Pickford e a Ed­ na Purviance, tutte e due di carattere più casalingo, e rivelò ai produttori americani che il pubblico ha una età che si aggira sui tredici anni . Oggi le storie di Pearl White, i suoi «pericoli)), si ri trovano negli album illustrati per ragazzi, in quegli incredibili album che ci danno un'idea del futuro, quando la terra sarà abitata da uomini-razzo e allietata da donne-pantera, in quegli album do­ ve il surrealismo si mischia al razzismo e l'innocenza alla sen­ sualità. Si può persino credere che Pearl White abbia ceduto a Tarzan il suo tallone d'Achille e che le sue avventure protestan­ ti, per sopravvivere in un mondo più scaltro, siano diventate pa­ gane. È chiaro che con un personaggio così «vitale)) non poteva essere difficile fare un film che tenesse desta l' attenzione. Il me­ rito maggiore di Marshall ci sembra però questo: di aver curato che il clima dell' epoca non venisse evocato solo dai costumi e dalle scene. In qualche punto la sua satira si fa sottile, felice; per esempio nelle recite teatrali, in quel dopoguerra americano dato con la commedia «di pensierm) o in quella garbata caricatura del teatro coloniale di Somerset Maugham . Non è poco . Chi fre­ quenta il cinema arriva alla conclusione, forse amara, che agli sforzi artistici mal riusciti sono da preferirsi le sagge prodezze del mestiere. La storia romanzata di Pearl White è un film che conforta in questa ipotesi e che, lungi dal portare il cinema sul piano dell' arte, lo affianca ai comforts moderni . Ma qui rag­ giunge una perfezione degna di essere esaminata se non altro perché scaturisce da uno standard di organizzazione e di abilità che è dettato dal rispetto per il denaro del pubblico . (Questo ri206

spetto, per esempio, i nostri cinematografari sono ancora lonta­ ni dal possederlo. I film italiani, eccetto quei pochi che sono no­ bili opere «personali» , sembrano fatti solo per mostrare l' igno­ ranza di chi li fa; e son quindi del tutto inutili, visto che nessuno si sognerebbe di metterla in dubbio. ) 3 dicembre

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Da « I l Mondo»

2 1 O. Il terzo uomo La storia del Terzo uomo è di una semplicità allarmante: co­ me tutti i buoni soggetti cinematografici dà la certezza che può essere scritto su una cartolina postale. Ma sarebbe una certezza molto infida. Il regista Palermi, che usava il sistema della carto­ lina, perdette una volta il suo soggetto in mare, mentre girava una scena dell' arrembaggio, ma non per questo il film si fermò. Se un incidente simile fosse invece capitato a Carol Reed , regi­ sta del Terzo uomo, il suo film avrebbe subìto un arresto definiti­ vo. Il terzo uomo è difatti un piccolo capolavoro di contrappunto, un oggetto di precisione, che non andrebbe avanti senza la più modesta delle sue rotelle. Apparentemente, è la s toria di un malvivente che si fa credere morto per sfuggire alle ricerche del­ la polizia. In un altro senso, applicando la morale cattolica che ispira Graham Greene, può essere la storia di una coscienza che si finge addormentata. Ma non ci interes�ano i significati recon­ diti . Il malvivente ha commesso un grave errore, prima di «ad­ dormentarsi>> : ha chiamato presso di sé un suo amico di infanzia (l'Innocenza?) . Questi, per riabilitare la memoria del «morto» , svolge un'inchiesta e scopre che il «morto» vive e medita altri assassinì. Conclusione: l' amico di infanzia, il candido soprav­ venuto, farà da giustiziere. Si potrebbe dire degli autori del Terzo uomo, Graham Greene e Carol Reed, che, non possedendo i quattro sensi dell'arte, cer­ cano di capire tutto col quinto senso, che è il meno sottile : il sen­ so drammatico. Ma questo giudizio non è anche una definizione del cinema? Non si rimprovera al cinema di vedere tutto in fun­ zione drammatica, di concludere sempre, di far quadrare i bi­ lanci? E soprattutto di dividere l'umanità dei suoi personaggi in buoni e cattivi, come in un anticipato giudizio universale? Sono rimproveri incontestabili , ma se le parole «tensione» e «sospen21 1

sione>> sono tornate nel vocabolario dei narratori ( con qualche sollievo per i lettori comuni, al nu mero dei quali tutti vogliamo appartenere) , il merito è del cinema. Il cinema ha rimesso in onore le antiche regole del racconto, ha ricordato il mestiere (l' Arte, l' invocata Arte del mediocre esercito che ha riempito gli scaffali con ricordi di infanzia, memorie, figure e paesaggi non è qui in discussione) , si è rivelato un'ottima scuola di avviamento letterario. Graham Greene di questa scuola è probabilmente l'allievo più attento. Egli non «crea» , ma scrive portando nei suoi racconti la velocità visiva del cinema. «Naturalmente» , ha scritto egli a questo proposito, «il metodo di comporre un' azio­ ne per il cinema è mol to differente da quello di un romanzo; il che non significa che il romanzo non abbia subìto l'influsso del cinema . . . Nel secolo XIX e nei primi anni del XX alcuni scrit­ tori subirono, nello scrivere romanzi, l' influsso del teatro e si potrebbero dividere i romanzieri di quel periodo in due catego­ rie: quelli che scrivevano un'azione continua e quelli che la divi­ devano in scene. Allo stesso modo io credo che parecchi di noi adattino il metodo scenico del cinematografo al romanzo. Tut­ tavia restano sempre delle profonde differenze fra le due tecni­ che.» Questa differenza tra le due tecniche è meno sensibile nel Terzo uomo, che Graham Greene ha scritto espressamente per il cinema: anzi, Il terzo uomo è il punto d' incontro tra le due tecni­ che, un punto d'incontro molto soddisfacente se si considera che tanto il romanzo che il film sono opere riuscite che si completa­ no a vicenda. Forse il film è superiore al romanzo perché si ar­ ricchisce di uno scenario vivo, la Vienna dell'occupazione al­ leata, una Vienna che appare umida e sconfitta, coi suoi monu­ menti barocchi che la fanno somigliare ad una torta nuziale sformata dallo scirocco . Caro! Reed con questo film ha completato i suoi studi cine­ matografici . Nel suo obiettivo c'è la presenza continua di altri registi, ma questa presenza che in molti suoi colleghi è insop­ portabile, è temperata in lui da una capacità digestiva forse uni­ ca nella storia del cinema. Caro! Reed ha fatto sue le esperienze degli altri , raggiungendo uno stile di meravigliosa sicurezza , utilitario, confortevole. Praticamente non commette errori, an­ che se non sfiora mai la poesia con quelle subitanee illuminazio­ ni che hanno altri registi (De Sica, per esempio, o il suo modello prediletto, Ford) . Narratore quadrato, senza debolezze, C aro! Reed , sa sempre dove può arrivare . Nel Terzo uomo ha raggiunto forse il massimo della sua sapienza nelle scene allucinate della 212

caccia all' uomo nelle fogne: o in quelle visioni notturne di Vien­ na, che superano magnificamente i limiti del documentario. 21

gennaio

2 1 1 . Lupi accademici La passione rude e l'urto dei sentimenti hanno avuto sempre un buon posto nel cinema italiano, esprimendosi in film che trattano questioni di onore e di gelosia. Sono film che si svolgo­ no in aperta campagna e richiedono molti fucili da caccia. Le fonti erano una volta il teatro d 'arena, ì cantastorie, i romanzi popolari; oggi , in mancanza di quelle, sono le cronache dei setti­ manal i . La varietà e, diciamo pure (ma non ci si accusi di nazio­ nalismo) , la qualità dei delitti che si commettono in questo pae­ se pongono d' altra parte i direttori di film in un imbarazzo qua­ si crudele. C ' è troppa scelta. Rassegnati a non poter superare la realtà, che propone trame per lettori assolutamente esistenziali­ sti, alcuni direttori sono inclini a mischiarla con la più calma letteratura dei naturalisti italiani principio di secolo . Sullo schermo, la verità ha non solo un limite ma delle calme abitudi­ ni. Si è fatta l'orecchio a certi personaggi e ne subisce i modi, i dialoghi, la cupezza. Per seguire il processo di trasformazione di un fatto reale in un fatto cinematografico, è abbastanza indicato il film Il lupo della Sila, d i Duilio Caletti . Avvertiamo che il film si stacca dalla schiera dei facili film italiani di questi ultimi tempi per la sem­ plicità, per la correttezza della narrazione cinematografica, e per le qualità della fotografia. Ma, a sbarrargli la strada del ca­ polavoro, è stato appunto questo accomodamento con la realtà, che si traduce sempre in un poncif ormai freddo, prevedibile, che le catastrofi non riescono ad animare . Le tragedie non rie­ scono bene, non «gonfiano» quando sono fatte con le polverine letterarie, non d anno grandi emozioni e nemmeno ispirano grandi pensieri. C he, d unque, il film passionale sia maturo per l'accademia? Il lupo della Sila lo fa credere . Il fatto a cui questo film si è ispirato (narrato anni fa dal cronista di un settimanale) è molto più drammatico, concluso del suo gemello cinematogra­ fico: il D estino vi fa una parte di grande ironista. Raccontiamo­ lo: è la storia di un giovane calabrese accusato di assassinio. L' unica persona che può testimoniare in sua difesa, una donna 213

con la quale egli ha trascorso la notte in cui avvenne il delitto, non ' parlerà . I fratelli le impediranno di rivelare il «loro» diso­ nore e mandano così in galera il giovane che, naturalmente, qualche anno dopo evade e uccide i fratelli della donna, dandosi poi al brigantaggio. Vive qualche anno nei boschi della Sila con una seconda donna che alla fine, stanca di pericoli e per in tasca­ re la taglia, lo fa catturare . Di nuovo in galera, il brigante fugge nel '43, all' arrivo delle truppe alleate e, nella confusione che se­ gue, diventa il padrone del suo paese. Non è possibile riprender­ lo, sfida le autorità, aiuta i poveri , conosce un' epoca di splendo­ re. Commette un solo errore tecnico: quello di legarsi d' amicizia con uno sconosciuto. Questo sconosciuto, che ha saputo ispirar­ gli tanta fiducia, si rivela alla fine per il carabiniere che ha il compito di catturarlo e che infatti lo cattura. La storia di un tal melanconico brigante, deluso anche nel sentimento dell 'amicizia, non starebbe male in una ristampa di quel bellissimo saggio che l'an. Nitti scrisse nel 1 899 e in cui il brigantaggio viene giustamente definito «un mezzo di salvezza e di riabilitazione». Scriveva Nitti : «Al marito oltraggiato, all' uo­ mo perseguitato.- il brigantaggio rende quasi sempre la stima del pubblico, qualche volta la tranquillità dello spirito, la gioia di vivere» . È un vero peccato che l'an. Nitti non scriva soggetti cinematografici, perché il cinema ha più che mai bisogno di così saldi paradossi. Infatti, nel Lupo della Sila, la singolare lotta del brigante con­ tro il suo ottimismo è appena accennata e forma anzi l'antefatto del film. La sua vendetta viene compiuta da una terza donna, sua figlia. Costei, dopo l'ingiusto arresto del padre, scompare dal paese e ritorna dopo molti anni nelle fattezze di Silvana Mangano. Al suo fascino non restano insensibili né il colpevole dell' arresto (il fratello geloso dell'onore) e nemmeno suo figlio . Tra Amedeo Nazzari e il giovane Sernas , tra un Lazzaro di Roj o e u n Aligi, Mila d i Codra non avrà dubbi e si vendicherà con i mezzi di cui sfortunatamente dispone. Sciolta e agitata la posi­ zione tragica dannunziana, il film procede per cupi scorci sino alla sua conclusione migliore . E stavolta morirà Lazzaro di Ro­ jo. Perché il bello di certi film, che s'ispirano alla frivola realtà ma non perdono d'occhio la solida letteratura, è che i personag­ gi muoiono a turno, secondo le esigenze del lieto fine o l' impor­ tanza degli attori . 28 gennaio

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2 1 6 . Il fantasma e il pittore Ogni tanto, in quei me1anconici tornei per letterati si ripete la domanda: Quali au tori salvereste? oppure: in quale epoca vorreste vivere? Le opinioni dei letterati sono varie, oscillano da Dante a Panzini, dal Settecento al 1 9 l 0, ma il pubblico del cine­ ma ha già scelto: salverebbe i «romantici», vorrebbe vivere in quell' epoca felice che è il «sogno» . Così si spiega l'insuccesso che ottengono da noi i nostri migliori film realisti ci ( « . . viviamo già fra tante brutture che . . . >> ) e il successo di libri e di film come Ritratto di Jennie, dove la Delicatezza vince la logica e dove i Di­ ritti dell'Anima, sostenuti con scarso pudore, s' impongono per­ sino su una platea romana in piena digestione. È inutile farsi illusioni: il nos tro pubblico tiene i piedi forte­ mente poggiati sulle nuvole. I moralisti si ostinano a reputarlo cinico : e invece al cinema possiamo constatare che è avido di Poesia. Resta da mettersi d' accordo sul significato di questa pa­ rola, ma tant'è: abbiamo visto cuori di sasso commuoversi per un gregge di pecore in controluce sulla via Appia al tramonto. Non è un quadretto poetico? E che dire di jennie? Ci domandia­ mo se è possibile non versare lacrime sulla molto poetica storia di questa fanciulla morta che, en Jantome, va in cerca del suo amore. Questa ricerca si svolge al giorno d'oggi, nello Stato di New York, ed è giustificata da quanto Robert Nathan (l'autore del romanzo che ha ispirato il film) , ci rivela. «Tra gli uomini e le donne . che sono vissuti dal principio alla fine del mondo» , scrive N athan, «una creatura esiste che devi amare, che devi cercare finché la troverai . >> Il Tempo, dunque, è un fiume o un deposito di oggetti smarriti . Risalire la corrente di quel fiume, frugare nel deposito, è doveroso, visto che i progressi della scienza metapsichica e il cinema rendono l'impresa facile e, ap­ punto, poetica. Le anime sensibili, gli amanti immortali hanno una così vasta possibilità di scelta, che il materialismo in cui ci ostiniamo non offre. Seguiremo affettuosamente gli sviluppi ci­ nematografici di questa ricerca delle mezze mele, ormai estesa all ' E ternità. Non vogliamo con ciò mettere in dubbio che la copiosa lette-· ratura anglosassone sui fantasmi possa suggerire qualche capo­ lavoro per lo schermo. Ricordiamo anzi La strana realtà di Peter Standish, interpretato da Leslie Howard nel 1 933', che resta an­ cora oggi un esempio di come tale incontrollabile e scottante materia possa essere trattata con gusto e senso della misura. Nel .

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Ritratto dijennie, ci sembra tra l'altro che gli autori non abbiano sufficientemente valu tato il pericolo di fare del protagonista un pittore e che siano perciò cad uti nel solito equivoco «artistico». E ben (così si chiama l' incauto personaggio ritrattista) si inna­ mora dunque di jennie, il fantasma inquieto, la fa posare per un quadro e con questo quadro alla fine diventa anche celebre. Non sem bra di sfogliare le cronache dei Salons del 1 890? Allora la Gloria arrivava di colpo sulle spalle dell'artista per un s uo Nudo: e i critici si affollavano attorno al capolavoro pestandosi i piedi a vicenda, come comparse in un film di Charlot, parlando di modello ben scelto, di rassomiglianza, di finezza, di colorito. Forse William Dieterle (il regista) avrebbe fatto meglio a vestire i suoi personaggi coi velluti del primo romanticismo, celandoci così la sua patetica ignoranza degli indirizzi della pittura mo­ derna e, in particolare, del mercato artistico newyorkese. C ' è ancora qualche pittore, oggi , che insegua l a Bellezza nelle sue forme tradizionali , quella femminile? O non viviamo tra artisti decisi a «emancipare la geometria>> e che alla Fornarina preferi­ scono le equazioni per il calcolo della resistenza del vento sulle superfici curve? Paul Valéry, che in questo campo la sapeva più lunga di Dieterle, suggeriva ai pittori di lavorare coi guanti di gomma e in camice bianco, in un laboratorio, non in uno studio pittoresco1 tra il quadro incompiuto e la maschera di Beetho­ ven. Inutile dar torto ai pittori che hanno seguito questo consi­ glio . Essi possono rispondere che dipingono sempre ciò che ve­ dono, ossia il mondo d'oggi , disastri , trionfi e problemi inclusi; che sono degli ottimi testimoni, spesso soltanto dei fotografi, ma qualche volta anche dei profeti . Insomma, i buoni pi ttori mo­ derni non aspettano l' ispirazione, sanno che il genio è pazienza, che l'Arte va tenuta in continua riparazione. Dieterle ha invece conservato sull'Artista tutte le idee con­ venzionali della buona società del secolo scorso, e perciò il suo personaggio è fallito in partenza. Cqme i suoi eroi, anche egli vi­ ve fuori del Tempo. E non vale a risollevare il suo film la troppo dolce e appassionata interpretazione di Jennifer Jones e di Jo­ seph Cotten . 11 marzo

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2 1 7 . Tristezze al bagno Domenica d'agosto, film italjano di Luciano Emmer, è proba­ bilmente un esempio di neorealismo estivo : si svolge tutto ad Ostia, in poco tempo, con molta disinvoltura. Se non fosse ap­ pesantito da una certa indulgenza per l'umorismo popolare ro­ mano, che assume spesso toni di un desolato qualunquismo, sa­ rebbe anche un buon esempio da seguire . La nostra prod uzione ha infatti bisogno di film mentalmente agili, arguti, illustrativi e di facile realizzazione: e bisogno di registi che sappiano vedere le cose senza eccessivamente giudicarle. Emmer sembra essere della partita: è un regista molto giovane, ha fatto degli ottimi documentari e arriva a questo suo primo film preparato filologi­ camente . Che cosa gli ha dunque impedito di fare del suo film un'opera perfetta? Forse l' eccessivo distacco che ha messa- nel­ l' affrontarlo, un distacco che vuol essere ironia, e si rivela invece per desiderio di lasciare gran parte delle responsabilità alla sto­ ria, ai personaggi, agli interpreti, al particolare clima di una cit­ tà che ha già la sua retorica e che egli guarda con l'occhio del vi­ sitatore divertito a priori, che va in cerca di tipi ameni, di episo­ di facili, «colti a volo>> . Così il suo film è un contrappunto di quattro o cinque storie, con otto o dieci personaggi principali i quali hanno il grave torto di avere delle facce che, una volta vi­ ste, non te le ricordi più. Emmer non poteva umanamente affezionarsi a tutti e si è quindi accontentato di raccontarci con estrema brevità le loro storie: le quali, dal canto loro, non sono nuove come avremmo desiderato. C ' è infatti la storia del giovane e della ragazza che si fingono entrambi aristocratici per far colpo l' uno sull'altra: e sa­ rebbe, anche se nota, la storia migliore, la più candida. Ma Em­ mer non ha saputo vederla compiutamente daccapo, né toglier­ le quel sapore di favoletta ungherese per film Cines . O l' altro episodio dell' agente del traffico che va al Pincio con la domesti­ ca (in stato interessante) : episodio che promette molto per risul­ tare, infine, un'idea non portata a termine. Emmer cede anche alla tentazione di descrivere il mondo «ricco» che frequenta la spiaggia, mondo frivolo e imbecille, in contrasto con quello «po­ vero», disordinato ma sano. M anca poco che i suoi «ricchi» non facciano il bagno in tuba. E qui risulta che se i nostri registi rie­ scono ormai a vedere con molta approssimazione il mondo po­ polaresco, rivelando spesso una notevole capacità di afferrarne i disco �si, il tono e il carattere, si trovano ancora disarmati quan217

do vogliono descrivere un mondo borghese meno esplorato e ri­ corrono allora alle convenzioni, al dialogo e ai personaggi da commed ia. Non vorremmo che i benefici del neorealismo fosse­ ro riservati alle classi meno abbienti . Vorremmo anzi che i no­ stri giovani registi si abituassero a «vedere» con occhi nuovi ogn i ambiente, ogni classe. Limi tare l'impegno alla strad a, ai poveri , ai diseredati può far sorgere il sospetto che la forza di certe rappresentazioni non sia nell'obiettivo che illustra la ma­ teria, ma nella materia stessa e che quindi al fotografo ne vad a ben poco merito. Dove infine Emmer vince la partita con tutti gli onori, è nel­ la descrizione della spiaggia, che appare evidente, minuta, im­ placabile con quei bagnanti carichi di fagotti come nelle vignet­ te dei settimanali umoristici, coi bambini e le grasse matrone portatrici di spaghetti, con quegli altoparlanti che innaffiano di canzonette stupide una folla già abbrutita dal caldo; Ostia, in­ somma, col suo milione di bagnanti domenicali; ed è una descri­ zione felice, che segue fotograficamente il corso del sole e arriva infine a produrre nello spettatore il disagio fisico per la stan­ chezza dei protagonisti e del coro . E che preoccupa per la volga­ rità, il tono provocante e realistico di certi particolari coi quali l'autore continua a divagarsi come se non fossero i tragici avvisi di un collettivismo balneare che il futuro sempre più ci riserva, anche in pieno inverno. Ostia, nell' implacabile fotografia di Emmer, ricord a più i campi di concentramento che il lido felice dove sbarcò Enea: e in quel correre furioso dei bagnanti verso la spiaggia, in quello sfiancato ritornare alla città c'è già il pauroso avvertimento di una condanna, tanto più grave perché sollecitata come un pre­ mio dagli imputati stessi. Forse anche il film comico segue i tempi, e i bagnanti di Mack Sennett passano sotto la giurisdi­ zione di Sartre ! Siamo certi , tuttavia, che tutte queste cose Emmer ha voluto sottolinearle per farci sorridere : è riuscito invece a metterei ad­ dosso qualche malinconia. Si aggiunga che la pubblicità avver­ tiva: «è un film al quale avete collaborato anche voi>> . Non si po­ teva davvero essere più spietati . 18 marzo

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2 1 9 . La macchina della violenza I moralisti che lamentano i distruttivi insegnamenti del ci­ nema sulla gioventù non si rendono forse conto che la potenza suggestiva dello schermo mette oggi il delitto alla portata di tut­ te le immaginazioni , diminuendone il fascino e il valore. E poi­ ché d' altra parte è ormai accertato che gli spettacoli violenti , in­ vece di eccitare, scaricano gli istinti aggressivi dello spettatore, dobbiamo considerare alcuni recenti film americani nel quadro di un metodo educativo che ci porterà diritti alla quiete e forse alla fratellanza universale. L'abbondanza- degli esempi dice che questo scopo vuol essere raggiunto al più presto, prima almeno della terza conflagrazione mondiale . E rivela che gli scrittori ci­ nematografici americani non temono di sottoporsi a sforzi ec­ cessivi pur di variare le regole del film crudele e di rinnovarne il prestigio agli occhi di un pubblico che si fa ogni giorno più esi­ gente. Sarebbe difatti un bel guaio se il pubblico si distornasse da questo genere per riscoprire le grazie della commedia senti­ mentale, foriera - come già abbiamo visto nel passato - di av­ venimenti eccessivi. Per mantenersi in linea, gli scrittori cine­ matografici americani hanno ricorso persino al grand guignol (vedi Il terrore corre sul filo) , portando gli accoltellatori di Gabo­ rieau, più avvezzi alla periferia della vecchia Parigi , nel centro della moderna New York. Ma è un esempio limite. In genere quegli scrittori attingono oggi alla casistica dei manuali di cri­ minologia o agli archivi giudiziari. Hanno scoperto che il Caino del nostro tempo è il delinquente puro, che considera il delitto non più un'arte (l' estetismo di De Quincey ha fatto il suo tem­ po) , ma l'unica soluzione del dilemma contemporaneo. Dormi­ re, sognare, uccidere forse. È il delinquente che sboccia nelle grandi città e partecipa di quella malinconia moderna che ha scoperto la nebbia, · la pioggia sui docks , il bar di infimo ordi­ ne, la prostituta invecchiata, l'alcolizzato del quartiere, il fana­ le, il bidone della spazzatura e il policeman che passeggia co­ me un angelo bonaccione tra tutti questi elementi di una nuo­ va poetica. Nel film Egli camminava nella notte, diretto da Alfred Werker e interpretato dall'attore Basehart, il «nuovm) delinquente senza passioni ha toccato il suo culmine, indicandoci un lato nuovo della sua personalità, anzi la chiave . Il protagonista risulta di­ fatti «inafferrabile)) sol perché ha fatto parte della polizia, ne co­ nosce i sistemi e li attua a suo vantaggio. Si può andare oltre, su questa strada? All'assassino romantico e casuale, si sostituisce 219

l' assassino che ha fatto i suoi studi e lavora con serietà profes­ sionale, e con una punta di spirito polemico; al poliziotto dilet­ tante su bentra la squadra mobile, col suo apparato scientifico, i suoi schedari, la sua rete di informatori . La lotta è portata su un piano tecnico, quasi sportivo, dove colpa e giustizia diventano parole quasi prive di significato. Scompare anche quell' elemen­ to che un tempo era riten uto il movente: la donna. Inutile cerca­ re la donna: non ha più nulla da dire in queste vicende narrate in uno stile da rapporto, vicende che si limitano ad un dialogo tra inseguito e inseguitore . Il film poliziesco poteva rinnovarsi soltanto così , abbandonando i trucchi della fantasia, riducendo la sua macchina agli ingranaggi essenziali. Un'altra strada che gli scrittori cinematografici sembrano decisi a percorrere sino in fondo è la strada che potremmo chia­ mare delle Erinni . La inaugurò quindici anni fa John Ford col suo Traditore; i passaggi successivi l' hanno fatta diventare un co­ modo boulevard senza sorprese panoramiche. L' ultimo passag­ gio (dopo Il bacio della morte) , è del regista Fred Zinnemann con il film Atto di violenza. Anche qui un uomo, un povero Oreste qualsiasi, ha commesso una colpa infamante e aspetta di essere raggiunto dalla vendetta, senza osare appellarsi o chiedere aiu­ to. I nfine cadrà volontariamente nella trappola che aveva pre­ parata per il suo nemico mortale, «redimendosi». La tensione dell' attesa tocca il limite della resistenza dello spettatore, che soggiace al mes tiere del regista, ammira la sua fatica, i bei risul­ tati formali, ma resta freddo al tema. È noto che lo spettatore si identifica volentieri col protagonista; e se la conclusione di A tto di violenza non lo commuove, ciò significa presumibilmente che lo spettatore non ammira più il sacrificio di se stesso, nemmeno su uno schermo. La parola d'ordine è salvarsi. L' arte di vivere è già offuscata da una nuova arte, quella di sopravvivere . 1° aprile

22 1 . Spettatori «ideali)) Un prod uttore americano ha fissato l ' età dello spettatore ideale: tredici anni. Non è molto . Pure, da qualche tempo la in­ dicazione pecca di ottimismo, altri prod uttori in cuor loro deb­ bono averla ritenuta eccessiva. Ecco spiegati certi film che dan­ no della vita attuale (vedi Le schiave della città) , u n ritratto simile 220

a quello offerto dai giornali per la infanzia, film che disarmano ogni giudizio e accendono una sola curiosità: conoscere l' età del produttore ideale . A questa categoria appartengono anche Arci­ pelago in fiamme e For.> , la descrizione minuta di ambienti e personaggi ormai trattati da tanti direttori e di­ ventati una cifra, uno spolvero privo di verità e di acutezza di osservaziOne. La vicenda di Vogliamoci bene è basata su una corrispondenza da Roma della rivista american a «Time» e vuoi essere una al­ legra satira della lotta politica come si svolge in un paesino tipi­ co italiano. Il regista sembra aver avuto una sola preoccupazio­ ne; quella di presentare un paese e dei personaggi abbastanza convenzionali, forse per non urtare le cognizioni acquisite sul­ l'I talia dai redattori dell'ironica e ben informata rivista. Così vediamo il prete, l'agitatore comunista, il sindaco, il brigadiere dei carabinieri, il reazionario, e donne, bambini, reduci, pas­ santi , tutti interessati ad una questione locale, la questione del­ l'orologio. Il prete ha promosso una sottoscrizione per far ripa­ rare l 'orologio comunale, e pensa che il denaro sovrabbondante potrà utilizzarlo in opere di carità. Non così la pensano i comu­ nisti, che per tanto fanno deviare la questione sulla necessità di non far riparare l'orologio fuori del paese, per non togliere lavo­ ro all' artigianato locale. Spinti dalla necessità di mettere l'opi­ nione pubblica di fronte al fatto compiuto, i comunisti rubano addirittura l'orologio, per disfarsene quando le ·a utorità si rivol­ gono ai carabinieri. Un artigiano locale riparerà l'orologio, che verrà inaugurato dal sindaco e dai personaggi principali della storia. Nell'orazione finale il sindaco si rivolge ai suoi concitta­ dini proclamando la necessità di «volersi bene», cioè di dimenti223

car è le lotte faziose ora che l'orologio fu nziona e può daccapo regolare la vita del paesello . Ahinoi , le parole del sindaco ci ri­ portano a quella mattinata di giugno del '44, quando il principe Doria, eletto dalle autorità alleate sindaco di Rom a, si affacciò alla balaustra del palazzo capi tolino e volto ai romani che lo ap­ plaudivano, disse appunto: «Vogliamoci bene» . Belle parole, ma il principe Doria le pronunciò con accento nasale, nel dia­ letto della buona società papalina e aristocratica romana: «Vo­ lemose bene» , senza ri uscire a togliere a questa semplice pro­ posizione un sospetto di bonaria ipocrisia e di qualunquismo. Infatti quella frase diventò lo slogan dei sentimentali che vole­ vano soltanto mettere una pietra sul passato per ricominciare daccapo . 3 giugno

232. Due libri «Creare un mondo fittizio, col cinema, può essere talvolta un sistema educativo, una politica sociale .)) Queste parole sono del moralista Daniel Parker, autore di un opuscolo, Puissance et responsabilité du cinéma, stampato nel '39 e soltanto oggi arrivato, presumibilmente con la sua ultima copia, ai carretti di libri usa­ ti di piazza Fontanella Borghese: Sfogliandolo, troviamo un elenco dei millenovecentonovantatré crimini descritti nei quat­ trocento film della produzione francese dell'anno precedente e una casistica della triste influenza che il cinema esercita sui gio­ vani. L'autore vorrebbe, anzi chiede, un cinema ottimista, sano, edificante, «poiché il cinema» aggiunge, «possiede il potere ma­ gnifico e terribile di far accettare senza sforzi, all'insaputa degli spettatori , il modo di vita che descrive». E conclude: «Nei film italiani è vietato rappresentare le mosche (che sono una delle piaghe dell ' I talia del sw d) , gli ubriachi, i ragazza cci di strad a, lesfilles dejoie, ecc. Quale sarà il risultato di quest'interdizione? Il popolo italiano si abituerà all' idea di un mondo senza mosche né ubriachi e, per virtù di sugges tione, tenderà a realizzarlo». Questo scriveva un moralista nel '39. Ed era l' anno in cui sui nos tri schermi non volava davvero una mosca, né cantavano ubriachi. Tutto era in ordine. Il cinema proponeva agli italiani ' Ultimo incontro di Flaiano con il libro di Parker (cfr. pp. 64 qui peraltro appare in luce più sospetta.

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e

1 57 ) che

lo specchio di una vita abbastanza inverosimile, che i suoi per­ sonaggi vivevano tra il telefono bianco, il bar portatile e la pol­ trona, occupati nelle loro scadenti controversie sentimentali. Pochi anni dopo, il neorealismo sarebbe nato come reazione a questa menzogna di Stato, come lotta al programma generico di un' arte che trascurava la verità per ignorarne l'esistenza. E il popolo italiano piantato a metà del suo sogno di un mondo sen­ za mosche, né problemi sociali , avrebbe nutrito per il nuovo ci­ nema un'ambivalenza di sentimenti : sarebbe stato fiero dei suoi successi all' estero, e offeso che venissero ottenuti con la descri­ zione della «miseria nazionale» . Neanche oggi l'equivoco è stato chiarito: lo sentiamo in certe interpellanze alla Camera, nei campanili risentiti, nelle regioni che protestano per il ritratto che il cinema fa di esse, dimenticando che il cinema non inventa la realtà anzi soggiace a una legge di censura preventiva, che la vita non osserva ancora, nemmeno nei paesi dove l'ordine regna a spese della libertà. Nel suo apparente immoralismo, oggi il ci­ nema in I talia è una forza morale, una voce in difesa dell'uomo, un monito antinazionalistico e antitotalitario. (Se ci chiedesse­ ro, ad esempio, chi è lo scrittore che preferiamo, risponderem­ mo: Rossellini . ) Con u n a certa opportunità è uscito dunque Cinema italiano oggi ( Edizioni C arlo Bestetti, Roma) , un volume che si propone di offrire un quadro completo del nostro cinema dal '44 in poi. Forse il difetto di quest'opera è nella sua grande ricettività, nel­ la sua ind ulgenza verso registi o film che il tempo ha già ridotto a inevitabili fenomeni di costume: ma pensiamo che il lettore dovrà servirsi del libro come un aiuto per la memoria, anche per ricos truire la genesi di quei fenomeni e darsene una spiegazione. Probabilmente l'editore non intendeva fare un lavoro critico, ma offrirne i mezzi. Le sue preferenze vanno tuttavia ai registi più meritevoli : e anche se i titoli di certi capitoli possono sor­ prendere ( ad es. : «Gli stranieri in I talia», un elenco degli artisti stranieri che hanno lavorato in I talia dal '44 in poi ) , è chiaro che bisogna mettere tutto in conto alla volontà editoriale di illu­ minarci anche sulle questioni inutili. Così il volume prende a volte il tono di numero unico, a volte il tono di un Chi è?, a volte il tono statistico che la Società degli autori dà alle sue pubblica­ zioni. Tuttavia, la ricchezza e la scelta del materiale fotografico rendono il volume interessante, senza contare un «frammento» delle memorie di Blasetti, pieno di notizie curiose e di giudizi molto affettuosi. Dalla prefazione di Zavattini trascriviamo infi­ ne queste righe: « I l neorealismo ci ha liberato dall'incubo eroi225

co dei grandi fatti, ha preferito il concetto di storia al concetto dell'in treccio, moltiplicando all'infinito il numero delle cose e degli uomini degni di racconto» . Definizione che potrebbe indi­ care, in quella «moltiplicazione all'infinito», le ragioni per cui il neorealismo tende a scendere nella cifra quando è ritenuto uno «stile», non una poetica. 15 luglio

236. Noi artisti Se vogliamo distinguere un lato puramente tecnico e forma­ le nel sogno dobbiamo ammettere che negli ultimi anni, sotto quest'aspetto il sogno ha trovato modo di migliorarsi, di stabili­ re le sue leggi stilistiche, di inaugurare il suo piccolo Rinasci­ mento. A questo progresso è fin troppo chiaro che ha contribui­ to il cinematografo; anzi , si può affermare che prima della in­ venzione del kinetoscopio di Edison gli uomini non sognavano abitualmente con quella finezza di sintassi, eleganza di stile, lo­ gica e senso drammatico a cui oggi è allenato chiunque va al ci­ nema almeno una volta la settimana. Non ci sarebbe da meravi­ gliarsi se qualche incallito spettatore affermasse di essere arri­ vato abitualmente al sogno a colori . E anche se non vogliamo dar credito a fantasie lusinghiere ma poco controllabili (sappia­ mo per esempio di un tale che al sogno normale aggiunge un breve documentario) , è invece certo che i piccoli effetti tecnici della scrittura cinematografica ( e quindi le cosiddette dissolven­ ze, carrellate, primi piani, panoramiche e sovrimpressioni) sono ormai patrimonio della tecnica onirica della maggioranza, allo stesso modo che nel '500 il più semplice dei pittori, senza aver passato i triboli di Paolo Uccello, sapeva tracciare una prospet­ tiva qualsiasi, per virtù imitativa inconscia. Il cinema oggi alimenta e modella la nostra fantasia. Il suo naturalismo perfezionato può dare l'illusione della vita s tessa specie a chi nella vita non vuoi cercare nulla di meglio. Perciò ogni sera, nelle sale cinematografiche si assiste alla vendetta del desiderio sulla rinuncia e alla vittoria dell'ottimismo sull' espe­ rienza. Fra l'enorme assortimento di vite vissute e immaginate che il cinema offre, lo spettatore non ha che da fare la sua scelta e progettare con calma una migliore soluzione ai suoi disappun­ ti quotidiani . Un film, quando non si limita ad essere un ricetta226

rio di belle maniere, svolge questa funzione stimolante e lassati­ va della coscienza. E non soltanto certi atteggiamenti collettivi e certi ideali ci vengono suggeriti dal cinema, ma anche un certo genere di let­ teratura e persino (qui volevamo arrivare) , un certo genere di cinematografo . Si veda, a d esempio, i l genere «artistico>>, quel genere che comprende film dove pittori, scultori e musicisti vengono chia­ mati a vivere drammi d'anime, simboliche e profonde avventu­ re non adatte ai personaggi comuni . Gli autori di questi film non hanno tutti i torti . Prima di tutto sognano anche loro; e poi, perché ostinarsi a guardare quello che succede intorno quando è meno doloroso copiare lo schermo, riproporre vecchi problemi risolti? Chi pensa di strofinare ogni giorno due pezzi di legno per accendere il fuoco quando è possibile procurarsi dei fiammi­ feri con poca spesa? E il cinema non è forse una centrale di ispi­ razione colletti:va che elimina appunto tutti i fastidì dell'ispira­ zione personale? A favore di questa tesi sembra concepito il film intitolato In estasi, del regista Goffredo Alessandrini. Tenuto a battesimo da due film famosi (Estasi di M achaty e Cantico dei cantici di Ma­ moulian) , In estasi risulta un catalogo di temi e di personaggi che ormai conosciamo ad occhi chiusi (in sogno, appunto) e sot­ to quest' aspetto merita qualche attenzione. Accennandone la trama avremo poco da aggiungere. Si tratta, dunque, di un gio­ vane scultore che sorprende una ragazza bagnarsi nuda in un lago, ne resta colpito e ne modella la statua, ma senza volto, perché l'oscurità non gli ha permesso di riconoscere la bagnan­ te. Crede di riconoscerla in una ragazza malata che vive a poca distanza dal suo eremo ma in realtà l'ispiratrice è la sorella di costei, donna perfettamente sana. La ragazza malata si innamo­ ra del tormentato scultore, non sopporta il di lui equivoco e infi­ ne si uccide. I l dialogo di questo film è all'altezza del tema. Sentiamo un vecchio scultore rimproverare il giovane protagonista ( disamo­ ratosi della sua arte dopo l'episodio della statua alla quale non sa che testa mettere ) : «Amico mio, tu non ami più la pietra!». Oppure sentiamo lo stesso vecchio scultore {impersonato per una perdonabile civetteria d al regista) , sospirare: «Eh, noi arti­ sti ! » . E vediamo poi questi artisti riunirsi in un locale caratteri­ stico romano, fumando molte pipe, abbracciando modelle, dan­ dosi colpi amichevoli sulle spalle, contenti di essere artisti, di vi227

vere avventure così fuori dell'ordinario, pronti ad entrare in un altro film che, conciliando alti temi psicologici a scene di lirismo pornografico mitteleuropeo, si dimostri particolarmente adatto all'esportazione, o perlomeno alla confusione. 26 agosto

237. Una vita Tra le vite esemplari che il cinema americano va raccoglien­ do, quella di Al jolson è degna di nota se si pensa che il protago­ nist� è tuttora vivente. Questo è il quinto caso, se non erriamo, dopo la signora Curie, il pittore U trillo, Pio XI I e Stalin, di una biografia cinematografica che precorra il giudizio dei posteri e celebri una fama che il tempo non ha offuscato e gli storici non hanno ancora messa in dubbio. Le apologie dei trapassati sono forse più spettacolari, per il soccorso dei costumi dell'epoca, ma quelle dei vivi hanno di buono che servono di specchio ai con­ temporanei e promettono ai migliori l'ingresso nella leggenda cinematografica, che ha sostituito la leggenda aurea. Per i nostri gusti, diciamolo pure, una ben triste promessa. La prudenza di chi fa queste apologie dipinge i personaggi esaltati come altret­ tanti pierini, animati da buoni ideali e affatto incorporei, con quella falsa bonomia e quel sudaticcio colore che hanno le sta­ tue di cera, tanto più agghiaccianti perché fingono la vita . L'Al Jolson che ci viene presentato dal regista Alfred E. Green lascia il sospetto che assieme all 'eroe si voglia esaltare l'esibizionismo come virtù attiva. A nessun personaggio cine­ matografico era stata mai permessa una tale fiera di vanità, un così ampio uso della voce e dei gesti per un lecito, anzi meritorio possesso del pubblico. I nostri tenori, che del resto sono sempre apparsi sullo schermo come in terpreti di modeste storie inven­ tate, fanno al confronto del cantante americano la figura di tan­ te mammolette e possono essere ammirati, d'ora in poi, per un certo riserbo che dà ai loro volti sentimentali e paffuti un sospet­ to di melanconia e di buon gusto. Il film racconta molto pianamente, o piattamente, la vita di Al jolson : infanzia, ambiente familiare, la fuga da casa, i primi passi, il successo, il trionfo, l'incontro con la Donna, il ritiro dal­ la scena (l'Arte sacrificata all'Amore) , e infine il ritorno sulla scena. Al Jolson divenne famoso nel mondo intorno al 1 929 quale interprete dei due primi film sonori , Il cantante di jazz e Il 228

cantante pazzo . Si trattava di due film med iocri, con molte canzo­ ni e alcune scene patetiche. Il loro successo decise il tramonto del cinema muto, in favore del quale invano si levarono Cha­ plin, Ej zenstej n , Pudovkin. Cantando e piangendo Sonny boy, Al Jolson aprì la serie dei film musicali, che è ancora lontana dal concludersi. Prima di allora, Al Jolson era famoso in Amer.ica per aver rivoluzionato la canzone. In che cosa consista questa rivoluzione, il film di Green lo dice chiaramente: Al Jolson in­ trodusse il j azz negro nella melodia commerciale e ne fece un genere in cui i caratteri preminenti furono il sentimentalismo e l' eccitazione. Egli è forse il maggiore responsabile, assieme a Paul Whiteman e al musicista Gershwin, di quell'equivoco che ha prosperato attorno al j azz e alla musica negra, sino a che i fi­ lologi della N uova Orléans non rimisero le cose a posto e Arm­ strong non riebbe il tronetto u surpato . Già nel fatto che Arm­ strong abbia la faccia di color nero e Al jolson se la debba tinge­ re col nerofumo ogni volta che canta, c'è un giudizio naturale che ci risparmia ogni altro sforzo. Probabilmente il successo di Al J olson può essere spiegato con la sua straordinaria vitalità e le sue abili virtù di divulgatore. Nelle sue canzoni, l'accorato sentimento del negro diventa però patetica impudicizia (i temi preferiti sono la mamma mummy il bambino·) e la naturale forza esplosiva del negro diventa la frenesia, la scompostezza del bianco, appena frenata, ma non sempre, da un tentativo ca­ ricaturale. Le sue canzoni oggi si ascoltano volentieri soltanto perché rievocano il clima di quegli anni che videro la nascita del char­ leston , anni di pace durevole, coi primi voli transoceanici, con l' affermarsi del cinema e del costume americano: tempi che già emanano un loro fascino forse perché legati alla gioventù di chi ascolta le canzoni . Questo clima, nel film di Green non è poeti­ camente evocato. Il regista preferisce insistere sui casi familiari di Al Jolson, sul papà e la mamma, dando in certi momenti l'impressione allo spettatore di essere capitato in casa jolson in un giorno di festa, quando tutti sono buoni e si scambiano rega­ li. Le scene migliori ci sembrano quelle dei piccoli varietà di provincia, con quei fondali stinti e quei menestrelli troppo tinti, che perlomeno giustificano l'uso del technicolor in questa torta biografica. 7 ottobre -

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' Così nel testo.

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245 . La speranza in cammino Tra i giovani registi del dopoguera, Pietro Germi si è impo­ sto per la sua ragionevole tendenza al racconto, con modeste «denunce» e com unque senza messaggi troppo ambiziosi. I suoi tre primi film (Il testimone, Gioventù perduta, In nome della legge) , hanno conosciuto il successo più per il loro equili brio e la loro agilità narrativa che per il loro tono di inchiesta polemica. Ger­ mi vi aveva applicato l'insegnamento di john Ford per una poe­ tica cinematografica risultante dalla densità dei personaggi e dell 'azione, abolendo i colpi di scena, i compiacimenti di stile e puntando sulla ricerca di una verità intima. La sua principale qualità di regista ci è parsa in un certo disdegno per il ricamo e per quelle circonvoluzioni che i suoi più astuti colleghi scambia­ no per prodezze artistiche, e che sono il frutto di quegli estetismi accumulatisi ormai sul cinema dopo aver deliziato le altre arti quarant'anni fa. In nome della legge segnò veramente il momento migliore di questo disdegno in Germi per la falsa letteratura e il falso stile. Ci trovammo di fronte ad un film che narrava una storia intensa e descriveva un personaggio vivo e malinconico: un film che traeva la sua forza dal tono pacato, giornalistico, del racconto e che sorprendeva lo spettatore per la sua generosa sincerità. Il pubblico applaudì; e forse troppo a lungo . Si può anche aggiungere che fraintese le conclusioni del film e applau­ dì l'ingresso romantico della mafia nel cinema e l'equivoco ri­ chiamo alla Legge. Trascurò forse di applaudire quei personag­ gi minori che sono il sale del racconto, la descrizione del misero paese, la sua secolare diffidenza per l' autorità. Niente da eccepi­ re che Germi, insospettito dal successo, abbia voluto frugare più attentamente in quella materia e riprendere il suo discorso sici­ liano da un altro punto di vista. Eccoci pertanto al Cammino della speranza, quarto e più ambizioso film del nostro autore. È un film, diciamolo subito, che si stacca dai precedenti per un deciso abbandono dello standard narrativo, per un misto di audacia e di prudenza, di poesia e di pompierismo che lo rendono scon­ certante. Germi vi ha raggi unto i suoi momenti migliori e anche i suoi momenti peggiori, dandoci però nell'insieme un'opera che si stacca dal grossolano panorama corrente e chiede perlomeno ammirazione. È un' ammirazione soltanto a tratti velata dal pic­ colo attacco di «stile>> che Germi sembra aver sofferto. ( Perché è con una certa sorpresa che in questo film vediamo talvolta delle comparse atteggiate secondo un criterio doloristico più aderente all'estetica del balletto mitteleuropeo . ) 230

Il film ha forse il torto di una partenza superba che nessuna invenzione successiva potrebbe eguagliare: e si nota che proce­ de rallentando, chiedendo soccorso a incidenti sempre più nor­ mali e trascurabili. Ma la prima parte è indimen ticabile e com­ pensa le reticenze della seconda. Quei disoccupati siciliani che raggirati da un impresario vendono i loro averi per espatriare clandestinamente in Francia e iniziano il loro viaggio in un' Ita­ lia sconosciuta e ostile, sono personaggi di una statura davvero insolita per lo schermo. Germi non soltanto li ha capiti e de­ scritti fedelmente ma anche amati . È questo forse il suo torto.? Si ha certo la sensazione che non abbia saputo abbandonarli al lo­ ro amaro viaggio ed abbia forzato la loro avventura nei binari di una soluzione soddisfacente. La tragedia iniziale ne esce dimi­ nuita; ma, ripensandoci, c' era poco da fare . Il destino di certi film è di nascere da un'idea che li schiaccia. Così vediamo che i momenti migliori Germi li trova nella realtà (la partenza dal paese, il cimitero visto dalla corriera, il viaggio, l'arrivo a Ro­ ma) e i peggiori li chiede alla sua immaginazione (la bimba feri­ ta, il duello rusticano sulla neve, il ragioniere che attraversa le Alpi, ecc.) . Queste disuguaglianze non riescono tuttavia a rom­ pere l'unità del film, anche se lo indeboliscono: si resta infine convinti che per Germi lo «stile>> non sarà mai un freno alla comprensione del mondo che vuoi descrivere. I suoi personaggi non sono mai fantocci e non agiscono per dimostrare qualcosa oltre la loro disperata umanità. Così vediamo che questa certez­ za egli è riuscito a comunicarla anche agli interpreti, special­ mente a Raf Vallone ed Elena Varzi e a tutta la piccola schiera degli emigranti: volti nuovi che colpiscono e che speriamo di non vedere trasfigurati in qualche inevitabile contraffazione. 9 dicembre

24 7 . L'edera illustrata Di Augusto Genina noi ricordiamo con particolare interesse due film che egli diresse in Francia intorno al l 930: Les amants de minuit e Prix de beauté. I l bello, ci sembra, è che con altrettanto interesse questi due film furono poi ricordati dai registi francesi del periodo romantico-veristico, periodo che fu inaugurato qualche anno dopo e turbò soprattutto gli italiani. Genina in quei due film aveva trovato un punto d 'incontro tra il cinema e 231

la cronaca dei fatti diversi. Una formula che forse avrebbe potu­ to approfondire, invece di !asciarne il merito agli altri. Prix de beauté narrava la storia di una ragazza che vinceva un concorso di bellezza, finiva nel cinema e vi lasciava le penne. Una storia secca, con un finale superbo: se ben ricordiamo, la ragazza veni­ va uccisa da un innamorato respinto proprio mentre sul piccolo schermo di uno studio si proiettava il suo «provino» . E così re­ stava sullo schermo il suo sorriso melanconico, nel giuoco di una vita ormai fittizia. Questo finale ha forse gusto di allegoria: è il cinema stesso, così crudele raccoglitore di immagini che in­ vecchiano e muoiono nell'attimo stesso in cui vengono fissate. Genina, comunque, di questa spaventosa prerogativa del cine­ ma ha fatto buon uso: molte sue immagini vivono ancora grade­ volmente nel nostro ricordo a tanto tempo dalla scomparsa dei modelli. Genina è quel che si dice un maestro: non ha mai sba­ gliato tecnicamente un film, ha del racconto un concetto nobile, guida il suo obiettivo con uno stile composto e nello stesso tem­ po disinvolto, che è lo stile di chi guarda le cose con la mente sgombra di preconcetti letterari. Il suo quadro risulta sempre dosato con rigore, ed è perciò che i suoi film danno la sensazione di essere più «grandi» del normale, poiché l'obiettivo coglie sempre l'essenziale di ogni immagine. È con vera sorpresa che in Edera questa sensazione si attenua sino a sparire del tutto in certi momenti. Abbiamo visto quest' ultima opera di Genina nelle peggiori condizioni, cioè tra un pubblico di senatori e deputati ; e forse dobbiamo all'atmosfera governativa di questa eccezionale pla­ tea se L'edera ci è parso un film di Stato, una opera pubblica, vo­ gliamo dire corretta, posata, forse utile, ma senza slanci, con un piede nel folclore e un altro nella migliore tradizione. Un tenta­ tivo, insomma, di film ufficiale, per commemorazioni e centena­ ri, tanto sembra ispirato a quel concetto monumentale dell' arte che è stato sempre, dal tempo delle esposizioni nazionali , il con­ cetto dell'arte dei nostri uomini di governo. L'edera sembra vo­ glia concludere il ciclo sociale-regionale della nostra cinemato­ grafia, lasciando da parte le inchieste e richiamandosi alla sana narrativa dei moeurs di provincia, così ricca di dissesti finanziari, sacrifici familiari, giacche di fustagno, doppiette, parroci e cara­ binieri: un panorama che, salvo qualche eccezione, ci ha sempre interessato mediocremente per gli equivoci che avalla e per quella falsariga che ha fornito a generazioni di narratori picco­ lo-possidenti . Il mondo di Grazia Deledda non è qui in causa, ma piuttosto le sue imitazioni, che hanno dato un tono così pro232

vinciale, limitato a tanta nostra narrativa . La scrittrice sarda vedeva oltre il folclore. I caratteri e le passioni da lei descritti raggiungono il clima universale della buona letteratura, nasco­ no da un'osservazione diretta, sono dunque il risul tato di uno sforzo inteso a rompere gli schemi narrativi e psicologici allora in voga. Avremmo preferito che un identico sforzo si fosse pro­ posto il direttore di questo film. L'edera è invece, più che un rac­ conto rivissuto, un'illustrazione del racconto . ( I l cinema italia­ no è già maturo per rifare I promessi sposi, per ricominciare coi suoi classici in edizioni corrette e noiose?) Ora, bisogna dire che Genina esegue le sue illustrazioni con rara maestria, ma senza parteciparvi continuamente. Il suo giuoco sfocia spesso nella decorazione. Vien fatto di' chiedersene il motivo, perché quando Genina partecipa al racconto, e lo fa suo, allora ci dà bellissimi squarci (la fuga di Annesa e il suo ritorno al paese col parroco) , che sorprendono per i l modo narrativo, lento e intenso. Allora anche il paesaggio sardo (non ultimo pretesto di questo film) , acquista quel significato e quella forza poetica che liberano la sua rappresentazione dal sospetto di compiacimento turistico. Il brano che abbiamo citato arriva purtroppo quando il film volge alla fine e una recitazione teatrale ha indebolito l'interesse per le azioni dei personaggi. Così Annesa, nella galleria dei ri­ tratti che ci ha dato Genina, resta una figura incompiuta, alla quale ha prestato un volto attento e sensibile l'attrice messicana Columba Dominguez. 16 dicembre

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Da « I l Mondo»

249 . Il dittatore Questo film di Robert Rossen ( Tutti gli uomini del re, tratto da un romanzo di Robert Penn Warren ) è l' avventura di un ditta­ tore d'acqua dolce americano, le cui soperchierie se confrontate con quelle di personaggi vissuti sino a pochi anni fa possono ap­ parire illegalità di poco conto e quasi divertenti nella loro mode­ stia. Tuttavia dal film scaturisce la stessa morale che la storia ha tratto dalla parabola di un M ussolini o di un Hitler: che cioè è imprudente arrogarsi l'amministrazione della felicità del pros­ simo. Il potere abitua a disprezzare il prossimo, a considerarlo come una massa governabile con slogans, atti demagogici e alla meglio, con inaugurazioni di opere pubbliche. Abitua a trasferi­ re in conto al prossimo le proprie ambizioni e il proprio cinismo. La narrazione di Penn Warren è l'indagine di questo processo corruttiva in un cittadino onesto, ed ha biologicamente valore proprio perché l'oggetto esaminato è di media entità, senza doti singolari. È il dittatore come lo diventeremmo tutti noi, non in­ viato dalla Provvidenza e nemmeno creato da un iniquo Diktat, un dittatore insomma ragionevole, con un piede nell' alta indu­ stria e uno in questura. Willie Stark, il piccolo dittatore del film, si presenta all'inizio per un coraggioso che vuol combattere la frode e l 'ingiustizia della pubblica amministrazione; diventa in­ fine il «capo» , che si allea con l'antico nemico, trae partito dalla paura e dall'indifferenza degli amminis trati e si libera di chi gli dà noia col ricatto o con la violenza. La fine di questo dittatore è ingloriosa e puramente incidentale: viene ucciso dal fratello del­ la sua amante e nemmeno per motivi politici; Per motivi d'ono­ re . Che è la fine più inaspettata che un dittatore possa augurarsi e comunque la più comica. Ma, tolta questa curiosità, la rico­ struzione del processo è attendibile. Nella corrente produzione cinematografica americana, un po' immelensita dal technicolor 237

e soprattutto dalle esigenze esportative, il film di Rossen si stac­ ca fortemente. Gli americani ci hanno dato col cinema eccellenti biografie di statis ti, inventori, cantan ti, avventurieri, sempre però rispettando un concetto lapidario della biografia, mai scendendo come in questo caso a indagare le grandezze e le mi­ serie di un personaggio. È prevalsa la tecnica del bassorilievo, non quella del tutto tondo e l'unico torto che rimproveriamo a tante vite celebri è di volerei ammonire positivamente con la somma delle loro azioni virtuose, forse irripetibili . La biografia di Willie Stark ha invece il merito del processo inverso: non è la storia di un buono che diventa ottimo, ma quella di un mediocre che diventa pessimo. Siamo insomma nel campo delle nos tre modeste possibilità . Questo aiuta lo spettatore a riconoscersi in qualche tratto del protagonista. Willie Stark non è fondamentalmente cattivo, ha del tiranno solo il disprezzo per gli altri e la certezza di poter comprare ogni cosa. Willie Stark muore chiedendosi perché mai l'abbiano ucciso: voleva il «bene» del «suo» popolo, avrebbe fatto strade, ospedali, campi sportivi, e qualche imbroglio: tu tte cose che il popolo adora . Perché l'hanno ucciso? La sua doman­ da suona sincera, come un rimprovero al destino che gli toglie tutto scherzando: il popolo, gli applausi, il piacere di ammini­ strare. Forse la più decisa conquista di Rossen in questo film è di aver rivisto il protagonista e gli altri caratteri con una nuova impassibilità, sicché il film non sembra derivare da un'opera narrativa ma nascere da esigenze veramente cinematografiche. Non bisogna dimenticare che Rossen è arrivato alla regìa facen­ do l'operatore, e che è stato anzi operatore di von Stroheim." Se dobbiamo dunque fare un nome per la precisione che si riscon­ tra nel disegno dei caratteri , è proprio quello di von Stroheim. Vediamo nel film personaggi illuminati e resi vivi con un solo tratto: la madre e il padrigno del giornalista, la guardia del cor­ po di Willie Stark, e infine tutto il minuto contorno del dittato­ re. Rossen conosce anche il segreto di mantenere densa la nar­ razione senza ricorrere a colpi di scena, procede anzi con una lentezza che pochi registi potrebbero permettersi impunemente. Ma nel corso del suo complesso racconto si ricorda di notare persone, paesaggi , angoli di strade, dandoci, per il tempo che ci prende, il quadro di una terra americana come possiamo soltan­ to immaginarla leggendo Faulkner. Si aggiunga che per l'inter­ pretazione si è valso di attori esercitati, che hanno sempre cariFlaiano è in errore: Rossen è arrivato al cinema nel 1937 e come sce­ neggiatore: non ha mai lavorato con Stroheim. •

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cato giustamente le dosi. Nell'ultima scena, l'uccisione del pic­ colo C esare sulle scale del Campidoglio, Rossen fa addirittura meraviglie. E con lui, gli attori Broderick C rawford e J oh n lre­ land , il tormentato giornalista. 13 gennaio

255. Ritorno alla vita Il film francese Ritorna la vita è stato diretto da quattro regi­ sti: Lampin, Clouzot, Dréville e Reitfeld ,* e tratta, in quattro episodi, il ritorno in patria dei prigionieri dopo la disfatta tede­ sca. Per antica tradizione, che risale a quel film americano (Se avessi un milione) diretto da sette registi, nei film ad episodi vince sempre l'episodio «ironico>>; e in questo film francese, difatti, l'episodio migliore è il terzo, pieno di garbata ironia sui prigio­ nieri e sui «resistenti>> . Ne è interprete l' attore Noel-Noel, sco­ nosciutissimo sui nostri schermi, forse perché la sua recitazione è tutta di mezzi toni, semplice e comoda, ravvivata da sguardi indulgenti che ricordano Charlot. Quando il protagonista, tolti­ si i goffi abiti da prigioniero, rimette il suo completo grigio e ap­ pare per quel che è, un bravo modesto borghese con tendenze di collezionista, gli autori del film raggiungono il loro scopo, fanno cioè diventare simpatico anche questo personaggio scontento del dopoguerra, il «reduce», destinato in tanti altri film a non capire e a non essere capito. Che cosa permette ai francesi di affrontare allegramente un tema così spinoso come quello del reducismo, se non una loro dichiarata tendenza a superare il sentimento di nazionalità, e quindi di guerra, una loro abitudine alle idee, e quel sospetto in cui tengono i loro stessi luoghi comuni? L' estate scorsa, percor­ rendo la Francia nei giorni dell'anniversario della libération una cosa ci colpì più di tutte: nella piazza di un piccolo villaggio, ac­ canto all'albero della libertà, un grande striscione con queste parole: Hommage aux étrangers. Il fatto importante non era in quelle parole, che potevano anche essere un tocco retoriche, ma che fossero scritte nella piazza di un piccolo villaggio. Se una re' Altra svista : Reitfeld è il produttore del film che è in cinque episodi, fra i q uali uno, diretto da André Cayatte, non proiettato in I talia. Gli altri registi sono Lampin, Clouzot e (per due episodi) Dréville. Per l'ordine di successione degli episodi si rinvia alla filmografia.

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torica qualsiasi arriva e si ferma in provincia vuoi dire perlome­ no che nelle città la stessa retorica è già un'idea acquisita alla maggioranza, un'idea che ha la forza dell'ovvio . Pensiamo che sia con questo animo che bisogna vedere Ritorna la vita, film in cui le pu nzecchiature sono riservate non aux étrangers ma proprio ai nazionalisti, ai patriottardi, agli eroi dell' ultima ora . Il quar­ to episodio, in questo senso più impegna tivo degli altri, raccon­ ta addirittura la storia di un red uce che si riporta dalla Germa­ nia una moglie tedesca; e in qual modo tu tti i paesani cercano di rendere difficile la vita a questa donna, finché la costringono a tentare il suicidio. Ma chi salva la tedesca dallo stagno nel qua­ le s'è gettata per «punirsi)) della sua nazionalità, è proprio la massima autorità del paese, il sindaco. Forse è pres umere trop­ po che con questo salvataggio il sindaco voglia aggiungere sim­ bolicamente, sotto il nostro striscione : meme aux allemands? È da notare che lo stesso tema è stato trattato in un film inglese del '47, Frieda . Anche qui una donna tedesca veniva indotta al sui­ cidio dalla cattiva accoglienza dei concittadini del marito, un pilota inglese, e anche qui veniva salvata da sicura morte per annegamento. Ci sono dei temi, evidentemente, che possono es­ sere svolti in un solo modo, ma quel che importa è che vengano svolti. La stessa musica del resto viene suonata, in modo ben più drammatico, da Clouzot, nel secondo episodio: che mette di fronte un tedesco torturatore e un red uce rovinato dalle torture. Anche qui, l' ultima parola non è di odio, ma di pietà verso il ne­ mico, anche se si tratta di una pietà che non vuoi essere com­ prensione, ma distacco. Quest' episodio (e gli altri citati ) si reg­ ge sulla precisione del dialogo, sul taglio delle scene . Vi si sente la mano di Spaak, la sua capacità di trattare gli argomenti gravi senza pedanteria, quel lasciare allo spettatore il compito di trar­ re una conclusione. Oggi il film francese ritorna alla vita per virtù dei suoi autori e scrittori , con calma, vincendo una batta­ glia alla volta. È un esempio che i nostri autori e scrittori do­ vrebbero meditare, se avessero tempo . Leggevamo giorni fa su «Combat>> di un incontro tra Cayatte, l'autore di justice estfaite, e De Sica. Il regista italiano, parlando di cinema, divideva il film in tre generi : il film di sensazioni, il film di sentimenti e quello di idee; dando rispettivamente agli americani, agli italia­ ni e ai francesi la palma per ciascun genere . Anche in una defi­ nizione generica come questa c'è del vero . De Sica ha dimenti­ cato però di notare che, oltre che nel film di sentimenti, gli ita240

liani eccellono nel film a mancanza di sensazioni e nel film di idee confuse, ma questo è un altro discorso. 3

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256. I comici b radi Ogni volta che vediamo un film comico ci ritorna il sospetto che il nos tro paese è molto triste. Soltanto un paese molto triste, arrivato al cinismo per insufficienza, può divertirsi con dei film così desolati, nemmeno dialettali , ma «locali», impastati di un gergo che è lettera morta per lo spettatore tanto incauto da non tenere a casa una radio sempre aperta alle rubriche umoristi­ che, da non interessarsi di sport, di concorsi di bellezza, di lotte­ rie. Cominciamo dai titoli: ci sono titoli che non si scrivono sen­ za fastidio: lo sono il Capata:;., per esempio, che è il titolo di un film ( uscito questa settimana) diretto da Simonelli e interpreta­ to da Rascel . Non occorre essere psicologo per scoprire in certe parole un' allitterazione che soddisfa profondamente il solo sen­ so umoristico di cui molti spettatori si mostrano provveduti. Ma poiché la sana scurrilità viene intesa come un segno di forza, la­ sciamo correre e veniamo al film. Che cosa succede in questo film, la cui azione si svolge in un' America del Sud di maniera? Ecco, in brevè : un generale ( Rascel) conquista il potere, ma si fa prendere la mano dai suoi biechi ministri che instaurano una pesante dittatura. Quando, per caso, il generale viene a scoprire la verità, si fa passare per un fratello gemello, rivoluzionario; e, giocando la doppia parte, riesce a imprigionare i ministri e a ri­ dare la libertà al suo popolo. Non sarebbe, dunque, una cattiva idea (per la prima volta, in un film comico, la libertà non viene derisa) , ma lo svolgimento ci informa che siamo alle solite: i ge­ melli di Plauto restano ancora la più alta conquista letteraria dei nostri soggettisti e non c'è ormai attore comico (restava ap­ punto Rascel) che non abbia interpretato una «doppia parte» . Quanto all'America d i maniera, possiamo immaginarcela, è quella delle riviste: sombreri , baffi, dinamitardi, danzatrici mu­ latte e ogni tanto qualche giuoco di parole in quell' approssima­ tivo spagnolo dei teatri di varietà, fonte inesauribile di riso per le platee, che consiste nell'aggiungere una «S» finale ad ogni pa­ rola. Ci si può chiedere perché i nostri comici , quando debbono scegliere un paese straniero dove collocare le loro storie, pensa­ no all'America del Sud, o alla Spagna, o talvolta persino al241

l' Oriente (con particolare riguardo agli sceicchi) , ma confon­ dendo il Marocco con l ' I ndia. La spiegazione è forse nel fatto che essi non osano rappresentare altri paesi, nei quali gli ele­ menti comici di maniera sono più sottili, richiedono anche uno sforzo di immaginazione e si limitano perciò alle parodie già scontate. Per la veri tà, essi ci danno ogni volta un Oriente, una Spagna, un'America del Sud aggravate dalla illustrazione dei nostri «complessi» nazionali . Noi ci rifiutiamo di credere che in una qualsiasi parte del mondo le cose che fanno ridere gli spet­ tatori di questo film possano essere, non diciamo apprezzate, ma sol tanto capite. Non è in discussione la comicità, ma le sue premesse, i pensieri dominanti che la promuovono, motivi che non sono nemmeno plebei, cioè naturali, o tanto meno popolari, ma desolatamente pretenziosi. Non è raro il caso che qualcuno parli anche di surrealismo. Ci si sente dentro, invece, le vendite a rate, l'eleganza domenicale, il tono dei settimanali umoristici . Ci d omandiamo che cosa c'è da ridere. Si aggiunga che questa comicità è svolta, cinematograficamente, con sistemi da barac­ cone, senza nessun ritmo, senza nessuna allusione, senza un mi­ nimo di humour. Trovata una cosetta che fa ridere, il comico ci insiste fino alla fine, pestando le aiuole. Arriva un tale con una barba lunga e Rascel dice: «To', il conte di Montecristo» . Non contento, aggiunge: «Il conte di Montecompatri». ( Montecom­ patri è un paese dei Castelli romani . ) E il pubblico ride . E la battuta viene ripetuta. Non c'è d unque limite a questa comicità. Rascel infatti giuoca su capataz e cavatappi , su Poncho (un per­ sonaggio che si chiama così) e punch . È la comicità degli scola­ retti che si divertono per una intera mattinata al lapsus del maestro, una comicità fatta di sberleffi , di mossette sgraziate, quella comicità che ci si ostina ad attribuire con un certo orgo­ glio ai comici della Commedia dell'Arte. L'attore strabuzza gli occhi , finge una esagerata fame o una esagerata paura, aspira esageratamente al possesso della bella comprimaria, si muove senza risparmio, ed è tutto. Aggiungiamo che di questi comici, Rascel non è il peggiore. Ma, quando ricordiamo attori come Petrolini o Museo, che osservavano la vita, studiavano i caratte­ ri , avevano un sacro senso del ritmo, abbiamo l'impressione di aver conosciuto dei colossi letterari e che i nostri comici di oggi vivano allo stato brado, in attesa di domatori . IO

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marzo

259. Torta Galsworthy Ci sono dei film che, come tanti altri spettacoli, non escluse le enormi uova pasquali che occupano certe vetrine in questi giorni, dovrebbero colpirci almeno per l'assoluta e spesso per­ fetta inutilità del loro addobbo. Senonché, la pacifica insistenza delle loro apparizioni, la certezza che in questi film si dibatta un dramma d' anime tra benestanti della seconda metà dell 'Otto­ cento e infine il sospetto che simili manifestazioni siano da met­ tere in conto a un bisogno di monumentalità quotidiana, molto sentito dalle classi medie, hanno ottuso il nostro interesse. Uno di questi film è La saga dei Forsyte, tratto dal notissimo romanzo­ ciclo di Galsworthy e «realizzato)) confortabilmente a colori . Il film, per il vero, abbraccia soltanto la prima parte del romanzo, ma è già abbastanza: se ne esce come dopo una visita ai labora­ tori di una pasticceria, sopraffatti dalla vaniglia. La seconda metà dell' Ottocento è un periodo che beneficia di un suo spolvero cinematografico, di un suo gergo e, per quan­ to riguarda gli attori, di una sua recitazione particolare, fatta di comiche reticenze, di gravi cipigli, di tensione . Questo periodo, nel cinema d'oggi, è un genere che ha i suoi canoni, anzi il suo preciso statuto che limita la varietà dei personaggi e delle com­ binazioni drammatiche, regola l'amore-sacrificato-al dovere e il suicidio-per-debiti-di-giuoco . S arebbe bene che queste parole fossero scritte con la maiuscola, Amore, Sacrificio, Dovere, poi­ ché assieme ad altre nobili astrazioni il pubblico è incline ad at­ tribuirle ad un'epoca che non è più la nostra, forse non le rim­ piange, ma comunque le ammira. Virtù troppo faticose a por­ tarsi tutti i giorni. Ossia, il pubblico d'oggi guarda questi film di bucato come una volta ascoltava le chansons de geste, compiacen­ dosi di eroismi che non gli erano più richiesti dalle circostanze; o forse pensando che il passato purifica ed esalta i concetti . Tra un secolo, forse, il periodo storico in cui viviamo sarjl. fonte ine­ sauribile di melodrammi e ci saranno attribuite delle virtù che oggi noi preferiamo ammirare nei nostri antenati . La fortuna del film in costume è anche, crediamo, nella sua maggiore capacità di «sognm) sul film in giacchetta. Alle lusin­ ghe della evasione nello spazio, il film in costume aggiunge le lusinghe della evasione nel tempo. Notava Priestley che nessu­ no, pensando di essere vissuto in un secolo trascorso, si immagi­ na di condizioni sociali peggiori di quelle attuali, ma anzi molto migliori . Ubbidendo probabilmente a questa suggestione collet­ tiva, i film in costume mostrano dunque la vita dei «signori)), e 243

anche i poveri , quando raramente vi appaiono, hanno quell'aria dignitosa, amabile, inodora e soprattutto umoristica (sono così contenti del loro stato) che appunto fa difetto ai poveri della realtà di questo secolo . Ma veniamo al film ispirato dal roman­ zo di Gal sworthy. È così bene eseguito da lasciare perplessi sul­ la necessità di dirne male . Il romanzo, naturalmente, come suc­ cede in simili casi , ne esce squadernato, ridotto all'essenziale. I giuochi psicologici (peccato non ricordarsi se nel romanzo ce n' erano) scompaiono e tutto si riduce a tagli netti. I puri da una parte, i sospetti di impurità dall' altra . Il dialogo è un fuoco cre­ pitante di battute e di risposte, senza esitazioni: un dialogo da paladini di Francia. Non resta allora che il conforto di guardare le attrici, i capelli rossi di Greer Garson, o le formidabili case del periodo vittoriano, ricostruite con estrema fedeltà e vastità. Si sente insomma che gli stabilimenti di Hollywood sono attrez­ zati per fare ogni cosa, anche la nebbia di Londra, e che ogni co­ sa la fanno con una precisione che non lascia campo all'estro o all' avventura. Tutto previsto. Se ne riporta un senso di lanterna magica, cioè di fisso, più che di mobile e di vivo . Ma film come La saga dei Forsyte non sono, e non crediamo che pretendano di esserlo, opere d'arte, ma puro genere di conforto, accessori ai quali ci siamo ormai abituati e che accettiamo ·senza discutere. Il loro valore illustrativo è indubbio, il loro successo anche. Chi ha letto il libro, controlla; chi non lo ha letto, si risparmia un la­ voro che forse riteneva indispensabile alla sua «cultura» . E non dimentichiamoci che in ogni film c'è un minimo di onestà. Alla fine della Saga dei Forsyte ci si accorge che da Galsworthy non si poteva tirare di più : bei sentimenti e arredamento: anche il suo romanzo è a colori, e i capitoli chiudono col soffio, come i cas­ setti dei mobili fatti bene. 31 marzo

260. Il coniglio invisibile Harvey è il nome di un coniglio invisibile, alto 1 .8 7 , che se­ gue dappertutto il signor Dowd , lo distrae e lo protegge dalla noia quotidiana col calore della sua amicizia. La signora Mary Chase, immaginando questo fortunato personaggio, non ha vo­ luto rifare, seppure inconsciamente, il corvo di Poe in rosa, ma ha ceduto piuttosto alla suggestione di certi disegni umoristici di James Thurber, dove appunto animali immaginari, uomini 244

deboli, donne e psichiatri hanno una parte rilevante. C'è ap­ punto un disegno di Thurber (forse il migliore della sua raccolta Men, women and dogs) che illustra un caso simile a questo del si­ gnor Dowd . Dietro un tavolo vediamo un dottore con la testa di un grosso coniglio che chiede al paziente, spaventato, quand'è, precisamente! che gli succede di veder conigli . Non vogliamo di­ re che il germe, la trovata di Harvey sia tutta in questo disegno, ma potrebbe essere interessante stud iare quale influsso esercita Thurber nella commedia di costumi e di caratteri, quanto fumi­ smo ironico ha saputo comunicare agli autori del teatro comico americano, allontanandoli dai vecchi motivi farseschi e portan­ doli a vedere con occhi nuovi quella commedia umana minore che è la commedia dei rapporti sociali in un' epoca dove l' uomo medio soccombe alla mitologia del successo e cerca perciò di ri­ fugiarsi nella rinuncia, nello hobby (diari, pittura domenicale, pesca) o più semplicemente nella pazzia. Harvey, comunque, ha il merito di aver precisato un sentimento molto diffuso, ripor­ tandoci, dopo tanti personaggi interpretati in chiave psicanaliti­ ca, un personaggio semplice, che ridà ai pazzi tranquilli del tea­ tro il loro diritto a vivere al di fuori di ogni considerazione clini­ ca. Harvey sostiene che ognuno può uscire dalla realtà, per i mo­ tivi che più gli aggrada, senza doverne rendere conto a quei Ba­ lanzoni della nuova Commedia dell'Arte che sono gli psichiatri, senza cioè che la sua rinuncia alla vita quotidiana debba essere interpretata come impoverimento dello spirito, ma anzi come arricchimento. Siamo al monologo di Amleto tradotto per i pic­ coli e interpretato da una signora ottimista, ma il suo successo ci dice che i conigli-ombra sono molto più numerosi di quanto non si crede e che un giorno o l ' altro, dovranno essere regolar­ mente «riconosciuti» dalla scienza ufficiale. Harvey è un tipico caso di letteratura amena, nel filone sco­ perto da J . M. Barri e con Peter Pan, senza tuttavia rievocare di questa opera la leggerezza e l' incanto . Del resto, la forma molto piana che l'autrice ha adottato per la sua commedia, la sua ob­ bedienza a certe vecchie regole (situazioni che si capovolgono, doppio matrimonio finale, la presenza di una coppia sentimen­ tale e di una coppia comica, come nelle operette) fanno capire che la sua battaglia voleva restare nei limiti di una commedia a s u ccesso garantito, una di q u elle commedi� dove la parola «poesia» serve a indicare un vasto e confuso complesso di medi sentimenti e di aspirazioni. Così accade che lo spettatore trova «poetico» il signor Dowd appunto perché vago e confuso, anche se a volte la sua insistenza in un giuoco già scoperto dall'inizio, .

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può generare un po' di noia. Manca infatti al signor Dowd qual­ cosa che lo renda immortale, come personaggio, gli manca, vor­ remmo dire, un grano di pazzi a, un'ottima discendenza lettera­ ria. Si ha l'impressione che sia nato in funzione del coniglio, non prima; che sia frutto di una trovata o di qualche ricordo cine­ matografico (confrontare, per esempio, con i personaggi dei film di Capra) . Obbedendo alle stesse premesse dell'autrice, il regista Hen­ ry Koster (quello di Tre ragazze in gamba) ha tratto dalla comme­ dia un film dove il palcoscenico è sempre presente e dove tutti gli sviluppi cinematografici, che l'idea del coniglio invisibile po­ teva suggerire, vengono accantonati per non defraudare lo spet­ tatore di una sola battuta. Questa preoccupazione pone il film tra le opere senza vita propria, nella categoria molto vasta delle semplici traduzioni. Ma non si voleva ottenere che questo, dato appunto l'enorme successo della commed ia sui palcoscenici di tutto il mondo. Bisogna riconoscere che nel film è molto curata la recitazione del protagonista, James Stewart, ma il maggior successo è tuttavia di Josephine Hull, nella parte della anziana sorella del protagonista. Quest'attrice appartiene alla vecchia scuola comica, ha vivo il gusto per le parodie delle signore della buona società organizzatrici di feste, distratte e di buon senso, come ce le descrivono le vignette del «New Yorken>. Per que­ st'attrice lo schermo è veramente un vantaggio, permettendole un giuoco mimico di buona comicità e finezza. 7 aprile

26 1 . Un film proibito Giorni fa, su «Lettres Françaises», leggevamo una notiziola che, sunteggiata, perderebbe. Era questa: «Il film di guerra Un homme marche dans la ville, che descrive sotto una luce ignobile i portuali (di Le Havre) , doveva essere proiettato in un cinema di Villeparisis . Di fronte alle proteste della popolazione, della mu­ nicipalità e dei sindacati , il cinema ha cambiato programma, dando il film sovietico Tarass l 'indompté» . La notiziola aveva per titolo: «Voce di popolo». Non era la prima volta che questo film, in altre città francesi, di fronte alle proteste della popolazione, della municipalità e dei sindacati, doveva essere tolto dal pro­ gramma e sostituito con un altro film, generalmente sovietico; e quindi la notizia non ci ha del tutto sorpresi. Ci ha sorpresi, in246

vece, la qualifica di film di guerra dato ad un film di pretese pa­ cate, nel tono di quella narrativa prepopulista alla Simenon, che può essere accusata di stanchezza, di insistenza ma non di bellicismo. Né ricordavamo che il film contenesse accenni a bat­ taglie e nemmeno i motivi di una qualsiasi propaganda borghe­ se. Uno scambio di titoli? No, si trattava proprio del film di Marcello Pagliero . E allora ci spiegammo la faccenda con l' uso che i comunisti fanno oggi della parola pace, al monopolio che ne intendono instaurare, e alla condanna generica di tutte le opere non gradite al partito, condanna che non può essere me­ glio espressa se non sospettando quelle opere di essere dirette contro il partito s tesso, per scatenare, naturalmente, «la)) guer­ ra. Questo triste insis tere in una fraseologia che ha perduto gran parte del suo fascino, per un film come Un homme marche dans la ville, ha finito per farci sorridere. Vedrete dove si va a cacciare, talvolta, lo zelo della propaganda. Perché a noi il film c'era parso, semmai, un film di dopoguerra, intriso di quei temi e di quei problemi che vengono appunto spolverati e ricalcati quando la società esce sconnessa da una guerra e l' attenzione dello spettatore viene attratta dai quadri realistici del mondo in cui vive, quando l'artista si fa moralista e accusatore, e per rag­ giungere il suo scopo non ha da fare altro che riprendere la real­ tà, sottolineando ciò che gli fa comodo, spingendo il suo pessi­ mismo sino ai limiti del cinismo. Tutto il nostro sistema di sini­ stra, o simpatizzante, da Visconti a De Sica, da De Santis a Germi, da Vergano ad Antonioni, ha vissuto in questi anni de­ scrivendo una società che esiste, ma interpretandola con animo da riformisti, portando accuse spesso gravi e apodittiche e sof­ fermandosi su dei casi particolari per farli apparire generali. È un giuoco di cui il tempo si incarica di mettere in luce i motivi artistici o soltanto politici che l'hanno suggerito, ma è un giuoco lecito: non permettendolo si viene a impedire il giuoco stesso dell'arte, che dev'essere libero. Ma è curioso notare che ciò che piace ai comunisti italiani dispiaccia ai comunisti francesi. Mesi fa, a Parigi, Marcello Pagliero ci parlò delle difficoltà che incon­ trava il suo film ad essere proiettato e se ne doleva, non dando­ sene una spiegazione, come quel povero eroe di Koestler che non si spiega il rigore dei suoi amati capi e vede buio a mezzo­ giorno in punto. Pagliero ci invitò ad una proiezione, voleva ca­ pire, attraverso il giudizio di un estraneo, come e perché il suo film diffamasse i�portuali di Le H avre, che egli aveva cercato di riprendere senza retorica, vivendo tra di loro. Ci trovammo di fronte ad un film di oneste intenzioni, diretto con quella sobrie247

tà che i francesi ammirano nei migliori registi italiani, un film senza lenocini, amaramente docu mentato . Per molti aspetti (soggetto, dialogo, uso di atmosfera portuale) il film si riallac­ ciava anche alla scuola dei realis ti-romantici francesi tra le due guerre, la scuola di Carné e di Duvivier, nelle opere dei quali il nero paesaggio della periferia parigina serve da sfondo a quegli eroi con le mani in tasca, che derivavano un certo patetlsmo dal fatto di essere delle buone canaglie rovinate dalla letteratura e destinate alla sconfitta. L'esistenzialismo orecchiabile del Café Flore era già nell' aria, e quei personaggi ne canticchiavano i motivi. Ora, ciò che Pagliero aveva voluto evitare nel suo film, era appunto di compiacersi letterariamente di una moda già troppo affermata . Le Havre, egli ce la descrive senza indulgenze teatrali; e i lavoratori del porto sono quel che sono, brava gente che imposta la maggior parte dei suoi problemi al bar, sur le zinc, ma che non perciò intende risolverli in chiave zoliana o tanto meno sartriana. La vera vita spiace però ai comunisti. Essi ne pretendono una falsificazione utile. Pagliero credeva che la co­ noscenza dell' uomo, della sua quotidianità, potesse servire il progresso, e invece serviva la guerra . Tarass l 'indompté, i sani, co­ struttivi film di guerra sovietici stanno a ricordargli la lezione, che il comunismo può essere spesso un atteggiamento del cuore, ma è più spesso un modo di seguire a tempo e a luogo le diretti­ ve. La musa progressista dirama circolari , non ispirazioni. 14 aprile

262. Il Cristo Per il suo primo film, Il Cristo proibito, Curzio Malaparte si è servito di un elicottero, probabilmente lo stesso che annaffia con tanto successo gli acquitrini malarici in Sardegna e Maremma. Si è servito anche di una macchina da presa e l'occasione era troppo bella perché Malaparte non la usasse con generosità, avan ti e indietro, rincorrendo attori e paesaggi , riscoprendo il cinematografo, adottando il carrello come un automobilina da fiera, che è troppo divertente per )asciarlo, se non alla chiusura dei giuochi. Alla fine del film si scende dalla poltrona barcollan­ do, un po' pallidi, ma la traversata è fatta, abbiamo resistito ad uno dei più forti uragani di idee sbagliate e di immagini leziose che si ricordi. 248

Ci sono poche cose, per i personaggi di questo film, che non sono sporche. Sporco è il sangue. La guerra è sporca e anche la pace. Non parliamo della Libertà e della Giustizia, che non esi­ stono; ma che, se esistessero, sarebbero sporche. Le mani di tut­ ti sono, naturalmente, sporche, passato presente e avvenire sporchissimi. Poi c'è la sporca paura, lo sporco tradimento e la questione sociale, sporca e ingarbugliata . Di pulito non c'è che la mamma, ci è sembrato di capire, e Cristo, di cui nessun uomo tuttavia vuoi seguire la strada, per salvare daccapo i colpevoli col suo sangue innocente. Il tema del film è infatti questo, urlato alla fine dal protagonista. Perché gli innocenti debbono sempre pagare per i colpevoli? La stessa domanda si poneva Dostoev­ skij alla fine dell'Idiota, ma di certe domande quel che conta, ci sembra, è l'intenzione che le muove, la carica cristiana dell' in­ terrogante che, se molto forte, può anche aggiungere fascino al­ l'ingenuità apocalittica di certi irresolvibili quesiti, e far pensa­ re. Quando, invece, è soltanto la retorica a dettarle, lasciano ad­ dosso il freddo delle discussioni tra incompetenti. In questo ca­ so, si pensa che C risto venga nominato invano, per avallare una tesi di dubbio gusto; ma mischiare C risto ad ogni vicenda è di-, ventato ormai un vezzo: C risto uccide, è tradito, è tra i murato­ ri . Un pittore socialista alla Pelizza da Volpedo fece, parecchi anni fa, una serie di disegni dove C risto lo si vedeva, con la sua aureola, un po' dappertutto: in tram, a teatro, nelle officine, nei tribunali. L'effetto era solenne, propagandistico e abusivo: ma le intenzioni del pittore erano perlomeno sentimentali . Nel film di M alaparte c'è alla base lo stesso trucco: più desiderio di col­ pire l'immaginazione dello spettatore che di salvare il mondo, più voglia di mettersi dalla parte della ragione, invocando Cri­ sto, che di aprire una discussione. C'è, si direbbe, l'astuta orato­ ria dei comizi che può essere scambiata per letteratura engagée, ma resta qualunquismo, perché cerca l'approvazione negando ogni cosa, dubitando e sporcando alcune troppo facilmente risi­ bili conquiste dell 'uomo: tra le quali, appunto, la libertà e la giustizia. Quando Malaparte (e qui forse si spiega l' elicottero) vuol mettersi al di sopra della mischia, e considera gli uomini e le na­ zioni in lotta tra di loro come termìti in guerra, per le quali l'u­ nica morale è la sopravvivenza, che si osserva mangiando il ne­ mico, egli commette un peccatuccio d'orgoglio, o di neo-orgo­ glio . Malaparte rinuncia a distinguere, per commuovere; e de­ via la discussione su un piano che la decenza permette solo ai geni. Si appella ad un perdono universale, che è un'implicita 249

condanna dell'operato di tutti, vittime e carnefici . Troppo sem­ plice, benché allettante, come tutte le proposte che vengono ur­ late e chiedono l'applauso del sentimento. Da una partenza tan to ambiziosa e moralmente inesatta non poteva derivare, artisticamen te, che un film inesatto e am­ bizioso. Molti errori del Cristo proibito si spiegano. Malaparte è al suo primo film ed ha voluto generosamente arricchirci, dan­ doci di suo non solo il soggetto e la regìa, ma la sceneggiatura, i dialoghi e la musica: colpo che è riuscito sinora a Charlot. Altri errori si su biscono soltanto: così si resta disarmati dalle palesi in g enuità drammatiche, dalle ripetizioni e dalle lungaggini, dai motivi folcloristici che l'autore, ritenendoli forse nuovi per lo schermo, ha messo a sfondo dell'azione. Si res ta anche sorpresi che l'autore abbia ced uto al fascino cinematografico delle fiere di paese e delle feste. sacre: qui il proposito di servire l'esporta­ zione gli ha fatto calcare la mano sulla cosiddetta fantasia degli italiani (la mascherata, la morte , la giostra della croce) . Si resta annoiati, infine, dalla recitazione monotona, ieratica di quasi tutti gli interpreti; e dai dialoghi interminabili in cui le frasi vengono prese e respinte dagli interlocutori sino ad ottenerne un rumore che sostituisce il senso. 21 aprile

264. In corsa C'è un'arte del film di categoria che gli americani conoscono bene: per il vero, sono stati i primi a praticarla, quando in Euro­ pa si facevano ancora film genericamente romantici e i protago­ nisti non accusavano una professione definita dalla quale traes­ sero un certo orgoglio di casta o perlomeno una soddisfazione sindacale. Gli americani cominciarono, verso il '28, a interes­ sarsi dei ferrovieri e dei poliziotti ( i nterprete, Lo n C haney) , quindi passarono ai pompieri, ai giornalisti, agli aviatori , pro­ muovendo man mano al rango di eroe la brava gente, gli impie­ gati e persino i sedentari. Ottennero successo. A parte che ogni film fosse un elogio del «dovere compiuto», quindi tanto più grad ito ai milioni di pompieri , ferrovieri , poliziotti , eccetera, che avrebbero continuato a compiere il loro dovere, vedendovi ormai qualcosa di avventuroso e di soddisfacente, la novità ci­ nem atografica era nella documentazione dei vari ambienti. Quel poco che sappiamo degli usi e costumi altrui lo abbiamo 250

dunque imparato al cinematografo, superando anche il fastidio provocato da storie pressoché simili, attratti dalla tangibilità dei luoghi, dall'illustrazione di quelle vite che, paral lele alle no­ stre, non avremmo mai intersecato. Coi film di categoria siamo adesso (Indianapolis, diretto da C larence B rown ) , ai corridori d' automobile, che ci vengono presentati come gente di molto fegato e tuttavia non insensibile ai sentimenti sportivi e umanitari (sacrificio della propria per­ sona per la salvezza del rivale, durante una gara) , se questi sen­ timenti sono opportunamente sollecitati dall' Amore. Interpreti del film (che si segue puntando i piedi sulla poltrona dirimpet­ to, in cerca di un pedale del freno che non c'è) , sono Clark Ga­ ble e Barbara Stanwyck . In questi due leoni cinematografici, or­ mai al sommo di una carriera ventennale, c'è qualcosa di com­ movente per l'attaccamento che dimostrano alla loro parte di seduttori . Essi la svolgono con un gusto un po' vecchiotto, tanto più sorprendente se si pensa che ai tempi in cui l'inaugurarono dava la sensazione inebriante di un realismo affrancato dalle buone maniere, e ora d ' altra parte consolante perché porta un ricordo di giovinezza, una nota di immutabilità nei nostri diver­ timenti serali. C lark Gable, se non erriamo, si impose all' atten­ zione delle platee sin dal suo primo film con un formidabile schiaffo alla primadonna (forse Joan C rawford?) , uno schiaffo che venendo dopo i bei sorrisi di John Gilbert e i begli sguardi di Valentino, rivoluzionò la tecnica dell'amoroso, riportando in onore il concetto dell'uomo padrone, della simpatica canaglia, del dongiovanni pesante. Anche in quest'ultimo film Clark Ga­ ble non rinuncia allo schiaffo, che è il do di petto, la filigrana della sua recitazione e la distingue da tutte le altre, perché è uno schiaffo sempre condiviso dal pubblico, anzi sollecitato . Lo schiaffo stavolta va a colpire la guancia di Barbara Stanwyck, giornalista di grande fama, e la scintilla che ne sprizza incendia gli indomiti cuori dei due cari personaggi . Tutto ciò che segue, nel film, ubbidisce alle leggi della commedia a dispetto: i due si prendono e si lasciano, alternandosi scene di corse, molto inte­ ressanti, a scene d 'amore, nelle quali Clark Gable chiama la sua partenaire «pupa», e come tale la tratta, non lesinandole quei larghi sorrisi che lo fanno assomigliare a un grosso gatto batta­ gliero ma stanco. Forse storie simili non reggerebbero dieci minuti se non si svolgessero sullo sfondo di un mondo poco noto, come appunto questo dei campi di corse americani. I tre quarti del pubblico era formato, la sera della prima, da soci dell'Automobile Club, 251

tanto insensibili alle vicende amorose dell'eroe, quanto intrigati dalle sue auto da corsa, dalle medie raggiunte, dagli incidenti di gara. Il cinema ha certo, tra gli altri, anche questo scopo, di tra­ sportarci sui luoghi che non vedremo mai, mettendoci in prima fila. Quando poi ha il concorso di un direttore come C larence Brown , che è preci so, pulito, senza sorprese, che fa dei film co­ me il poligrafico dello Stato fa i suoi biglie tti, onestamente, esso spinge i suoi buoni servizi sino ad annullarsi com.e arte per of­ frirei delle precise e valide illus trazioni . Bisogna aggiungere che Clarence Brown, direttore di drammi psicologici e sentimentali, non ha cercato di sottrarsi ai doveri particolari di questo film e che tutte le scene sportive sono perfette, senza trucchi irritanti. Se si pensa alla tristezza dei nostri documentari, che non docu­ mentano mai nulla! 19 maggio

266 . La parata dei seccatori Forse questo film di Noel-Noel (La parade du temps perdu) , che da quattro settimane ottiene successo in un cinema romano nel­ la versione originale, ma che tuttavia non verrà doppiato; non ha precedenti nella storia del cinema. Si tratta di una coraggio­ sa conferenza sui seccatori, lunga quanto un film normale, ar­ ricchita da una casistica impressionante e soprattutto da una comicità di vecchio stampo, casalinga, onesta. Questa comicità può darci davvero la malinconia del temps perdu , portandoci a ri­ cordare quelle brevi comiche di Charlot e di Max Linder che or­ mai si proiettano soltanto nei cine-clubs, ad uso dei filologi , op­ pure si possono vedere negli automat di qualche stazione svizze­ ra, introd ucendo una monetina da dieci centesimi; e restano an­ cora ciò che di più felice (vien voglia di dire: di più serio) ha da­ to il cinema comico, oggi ridotto sull'orlo della scemenza e della pornografia, avendo già perd uto la forz a, il ritmo, la libera gaiezza che gli davano i clowns, gli acrobati e i mimi dai primi anni del secolo fino all' invenzione del film sonoro. Noel-Noel, autore e attore, è un signore di media età, per il quale conviene l' epiteto «distinto» : con le sue tempie grigie, il suo sorriso amabile, la sua pazienza, sembra davvero capitato ' Il film circolerà anche doppiato, nell'anno successivo, con il titolo Gli scoccia tori.

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per caso nel cinema . Buon borghese di in telligenza fine, un vi­ vo senso del ridicolo e un occhio allenato a cogliere, con spirito di letteraria tolleranza, i minimi difetti altrui, ha potuto per­ mettersi questo lusso di un film senza una stori a, giocando sul motivo dei seccatori, che sono (ne avevamo il sospetto) una vasta famiglia, ma di varia indole e ascrivibili a molti gruppi. Il film quindi si svolge come un documen tario a sezioni e in quasi tutti gli sketch , meno l'ultimo, Noel-Noel fa la parte del­ la vittima. Nel primo sketch ( che è purtroppo anche il più riuscito) , lo vediamo vittima della «Signora che non sa guidare l'automobi­ le)) . Sono un duecento metri di vero cinematografo, una difficile passeggiata parigina, che ha gli «scatti» di una vecchia farsa, ma in più una grazia nuova che sprigiona dalle trovate margi­ nali, quelle che si afferrano rivedendo il film. Esse spiegano in fin dei conti perché questo film non verrà tradotto, gli esercenti negano infatti che possa avere buone accoglienze da un pubbli­ co ormai abituato al linguaggio cinematografico infantile, in cui i motivi sessuali debbono fondersi, in vista del successo, a quelli gastronomici . L'occhio di Noel-Noel è invece attento a certi ef­ fetti discreti della recitazione, a talune reticenze incantevoli: si veda, in questo primo sketch, l'auto mal guidata che va a fer­ marsi accanto al triciclo che trasporta il lampad ario di cristallo: che attimo di finta calma! L'ospite della signora che guida male spinge il suo ottimismo sino a toccare uno dei pendagli del lam­ padario. E subito, la partenza improvvisa, col lampadario che resta fermo a tintinnare . Oppure, notate la serietà del sergent de ville che non sa nulla della signora che guida male e che tuttavia viene urtato dall'automobile: un tni.scurabile incidente, che di­ venterebbe enorme ai s uoi occhi, se avesse assistito a tutti gli al­ tri trascurabili incidenti . Soltanto a patto di tanta discrezione un film simile era possibile, essendo altrimenti eccessiva la pre­ messa dell'autore di interessarci scientificamente ai seccatori e ai loro metodi, senza cadere egli stesso nel tranello della noia. Noel-Noel ha disegnato invece dei tipi di seccatori che resteran­ no. Il seccatore poussif, che vi spinge mentre parla, o il bla­ gueur, per il quale tutto è motivo di burla ai vostri danni, anche la dominazione tedesca. Sono caratteri che hanno una loro umoristica carica di verità, ma anche un loro pudore. Un secca­ tore tra gli altri, per la sua assoluta gentilezza e bontà, per il suo dichiarato desiderio d i esserci utile, è indimenticabile: quegli che, vestito all'artista, grande, grosso, cordiale, disposto alle 253

lunghe attese, appare più una persona conosciuta che un perso­ naggio inventato e può essere iscritto nella lista delle belle intui­ zioni, dopo il ((miliardario infelice» di C harlot. È chiaro che un film simile, un grazioso divertimento di re­ lativa importanza, vale anche perché ci dà la misura, il tono di un cinema, come quello francese, per il quale il problema dei particolari non è stato risolto frettolosamente. Nel cinema fran­ cese le invenzioni, i caratteri, il dialogo, la recitazione, la regìa conservano ancora il loro peso. L'improvvisazione, il ((genio», non ha fatto danni irreparabili e questo spiega perché anche i film minori ricevano cure così precise e intelligenti. 2 giugno

268. I sogni e il prigioniero Curioso il tempo trascorso per un film come Sogno di prigio­ niero, di Henry Hathaway , che impressionò al suo apparire ( 1 935) per la fabulosità, lo sfumato, l'audacia del racconto cine­ matografico e che oggi suscita nello stesso pubblico che l'ap­ plaudì reazioni del tutto diverse: un impaccio anzitutto nel giu­ dicare quei sentimenti, poi una bonaria ironia, infine un'educa­ ta stanchezza. Sedici anni nel cinema sono la vecchiaia quando un film riflette soltanto la modesta aspirazione letteraria di un periodo, e quest'aspirazione vuoi essere un correttivo alla «bru­ talità» quotidiana e si veste perciò delle leggiadrie del buon tempo antico, lanciato alla ricerca di una perfezione da leggen­ da. Le passioni vi appaiono tutte di un pezzo, disumane nella loro rotondità, troppo esemplari per non essere convenzionali. ((Contessa, cos' è mai la vita?)) Dove il pubblico vedeva uno sfor­ zo poetico che poteva servire di modello ai suoi sogni, oggi vede un abito smesso, una moda sentimentale che lo infastidisce per la sua chiara origine autopunitiva, masochistica, propria dei tempi senza guai. Il racconto di questo film è tratto da un ro­ manzo di George Du Maurier, padre di Daphne, l'autrice di Re­ becca, anch 'essa eccellente nel genere . Siamo dunque nel York­ shire, o dintorni, patria di queste storie spinte, eroiche, che si svolgono sotto l'ala di un Fato buon conoscitore di romanzi go­ tici , un Fato che predilige le coincidenze sottili, i manieri in stile Tudor e, quanto ai personaggi , limita la sua scelta a duchi e ba­ ronetti, facendo eccezione per qualche artista. 254

Peter l bbetson, il protagonista di questa storia, è infatti un artista, un architetto . C hiamato a restaurare le scuderie di un duca, si innamora di sua moglie, e questa di lui: sino a che i due scoprono di essersi sempre amati (essendo stati compagni di in­ fanzia) , di un amore che gli anni non potranno intaccare, uno di quegli amori indiscutibili che possono portare soltanto alla tra­ gedia. E la tragedia scoppia quando il giovane architetto, aggre­ dito ingiustamente dal duca, è costretto ad ucciderlo. Quel che segue è il «sogno», lo sforzo letterario di Du Maurier e, nel film, il pezzo forte di Hathaway. Dal fondo della sua prigione l' archi­ tetto evade ogni notte, in sogno, per raggiungere la duchessa. Assieme ( poiché il sogno è reciproco) , vanno per campi fioriti, o nel giardino dove trascorsero la loro infanzia. È la loro rivincita sulla realtà. Purtroppo, questi sogni sono sempre interrotti da funesti presagi, da catastrofici incidenti. Si pensa a Poe, alla sua Ulalume, a quella poetica che i freudiani hanno così tenace­ mente sezionata per cavarne un certificato di impotenza del poeta. E si pensa che Du Maurier doveva ammirare Poe con tutte le sue modeste forze per sentirsi spinto ad annacquarlo tanto educatamente, trasferendo la sua «maledizione>> in un ro­ manzo dove la parte più debole è appunto nella radice, nell' an­ tefatto, che avrebbe dovuto invece giustificare l' apocalisse oniri­ ca della seconda parte. Tutta «l'infanzia» è convenzionale, un pachino petulante, e si teme che i protagonisti andranno incon­ tro al loro destino come scolaretti che eseguono il loro penso di malavoglia, per timore del peggio. A sedici anni di dist;:tnza, dunque, Sogno di prigioniero mostra non soltanto le sue falle drammatiche, ma l 'ambizione letteraria che lo dettò incompiu­ tamente. Sogno di prigioniero è contemporaneo di altri film che ancora resistono, del Traditore e di Tutta la città ne parla (Ford) , della Tragedia del Bounty ( Frank Lloyd ) , per !imitarci alla produ­ zione americana. In Francia, allora, Feyder girava Kermesse eroi­ ca, e Duvivier La bandéra. Tutti questi film derivano forse la loro costante attualità da una narrativa semplice, che non intendeva superare la realtà del momento, anzi vi cercava un appoggio. Persino i due film in costume riflettevano, nel loro travestimen­ to, quella realtà. Sembra s trano che il cinema, inventore di truc­ chi e di miraggi, che si direbbe per natura portato all'ibrido e alla confusione, denunci con tanta freddezza i suoi ispiratori , quando sono appena insinceri, letterari. Ma questa lezione è be­ ne tenerla presente. Il cinema ama più i modesti fatti che le grandi invenzioni, è più portato al racconto che al romanzo: è 255

un segno che intende vivere per conto suo e che finirà per riu­ scirei . Quanto al Sogno di prigioniero, ciò che resta di questo film è l'interpretazione di Gary Cooper, una delle più sobrie che l'at­ tore abbia fornito; e restano anche certe immagini dagherrotipe di una vecchia Parigi , un giardino Luigi Filippo e qualche com­ parsa che sembra tolta da un album del fotografo Bayard . 16 giugno

27 1 . I gradi della noia Non avevamo mai visto un film tratto da una storiella. Film tratti da romanzi e da racconti sì , anche troppi, ma da storielle non ancora; e questo pensavamo fosse dovuto all' economia nar­ rativa di un film che non può accontentarsi di uno scherzo o di una battuta. I nvece sulla storiella di quel tale a cui l ' amico do­ manda come abbia fatto ad arricchirsi in così breve tempo («Nascondo in casa un ricco ebrem> . «Ma se la guerra è finita! » «Sì, m a a l u i non gliel'ho ancora detto» ) , s u questa storiella che circolava negli spettacoli di varietà verso il '46, il regista tedesco Stemmle ha fatto il suo primo film italiano. È noto che le storiel­ le migliori sono le più corte. Eccoci invece di fronte ad una sto­ riella di duemila metri, arricchita di ripetizioni e narrata con uno stile drammatico che non conserva nemmeno quell'inven­ zione surrealistica e quell'osservazione cronistica che formava­ no i pregi di Ballata berlinese. Questo film, a cui si potevano rim­ proverare molti difetti, ma non mancanza di garbo o povertà di intelligenza, ubbidiva perlomeno ad un ritmo interno, strofa e ritornello, che aveva un sapore di novità. A bbiamo vinto! è invece un patetico in crocio tra il qualunquismo cinematografico teuto­ nico e quello nostrano, aggravato dal solito appello alla com­ prensione universale. L'ebreo della storiella è diventato un antifascista che si rifu­ gia in casa di amici e che viene ingannato nel modo che sappia­ mo per necessità econom iche. E quando viene a conoscenza del­ l'inganno, come se la cava? Vestendosi da gerarca fascista e pro­ vocando un piccolo pandemonio casalingo, del quale non ab­ biamo capito la necessità e nemmeno la comicità . Probabilmen­ te questo film chiuderà la serie delle camicie nere sullo schermo, il triste tentativo di satira da rivista musicale che ebbe, subito 256

dopo la guerra, un successo sproporzionato al gusto che la det­ tava. Una camicia nera sullo schermo non riuscirà mai a farci ridere, forse perché quell'oggetto tocca più la nostra capacità di disgusto che il nos tro senso umoristico; né riuscirebbero a diver­ tirci gli altri emblemi necrofili che il fascismo distribuiva ai suoi poveri diavoli perché se ne adornassero abbondantemente. Pro­ babilmente tale disgusto è aumentato dal ritorno sugli altari di questi emblemi, dal constatare che quella satira del dopoguerra non scatu riva da una profonda esigenza morale, ma da una semplice tendenza al divertimento. Non riusciremmo nemmeno a contare gli attori che nel '45 «rifacevanm) Mussolini; ma uno di questi attori, forse il più bravo della parodia, ci colpì per la sua fede fascista. Egli non sapeva spiegarsene i motivi, riusciva in una perfetta caricatura del suo idolo, una caricatura che era un giudizio, e gravissimo, ma seguitava ad adorarlo. Tornando a Stemmle, è giusto notare la sua capacità, la sua pulizia fotografica e qualche felice soluzione: troppo poco tutta­ via per rendere interessante un film così stranamente ritardata­ rio. La recitazione .teatrale degli attori, tra i quali il comico Walter Chiari in una parte infelice, ha contribuito alla noia di questo spettacolo estivo. Di ben altra noia si veste il film sovietico La giovane guardia, di Gerasimov, tratto dal romanzo di Fadeev; la noia che scaturi­ sce dall' eccessiva prolissità delle spiegazioni. La produzione russa, a giudicare da quei pochi esemplari che ci vengono offerti in visione, è preda della musa burocratica. Non sembra possibi­ le agli uffici della Sovietkino una rapida intesa tra regista, attori e pubblico, ma soltanto un ragionato patto . Ogni scena, ogni battu ta deve ribadire certi noti concetti, non importa se a scapi­ to dell'agilità drammatica. Si arriva alla fine con la sensazione di aver visto un opuscolo di propaganda. Si ha anche la sensa­ zione che i protagonisti esternino i loro sentimenti per non esse­ re tacciati di tiepida fede: perché ogni volta ricominciano dacca­ po, come chi voglia ben convincersi dell' esattezza delle proprie cognizioni scolastiche e le ripassa avanti di dar l'esame. Ci sono in questo film, che narra un episodio della resistenza giovanile sovietica all'invasione tedesca, delle scene di profonda bellezza (la fucilazione, ad esempio) , isole in un mare di conformismo dialogato e attaccaticcio. Tutta la spiegazione finale è inutile ma evidentemente vale il principio che lo spettatore non deve mai essere abbandonato solo con le sue emozioni . Non conta che egli si emozioni, ma che impari qualcosa. I russi sono così 257

bravi in questo gioco, che anche Sciostakovic è riuscito a. mette­ re qualche didascalia edificante nel suo commento musicale. 28 luglio

278. Inizio A due mesi dall' inizio della stagione cinematografica, la produzione italiana si presenta così : un folto gruppo di film co­ mici, una commedia brillante, una com media di De Filippo e un film di Germi. Dei film comici ormai non sappiamo più cosa dire. Il film comico, da noi , è diventato un genere che sfugge non solo alle esigenze della critica ma anche a quelle delle buo­ ne maniere: bastano i titoli per capire che tra noi ed essi si sta alzando sempre più un muro di irrispettosa e mutua incom­ prensione. Non si arriva impunemente a titoli come Porca mise­ ria, Auguri e figli maschi, Accidenti alle tasse, o, peggio ancora, Era lui . . . sì . . . sì . . . , titoli che alla debolezza dell'ispirazione accoppia­ no un qualunquismo da mezza festa. L' unico vantaggio che of­ frono questi film è che gli attori urlano e gesticolano in modo ta­ le da non lasciar capire assolutamente che cosa vogliano dire e quale è la storia che stanno raccontand o . Se ne riceve così un'i mpressione di ressa tranviaria che sconcerta, umilia e fa pensare ai diritti dell' uomo, dell 'intelligenza e, soprattutto, al curioso destino dei nostri comici che non riescono ad ottenere mai successo senza avvilire le loro qualità sino al grado della buffoneria. E si resta poi sorpresi quando, nella pubblicità di uno di questi film, si trova proprio un accenno all'intelligenza, segno che anche chi li fabbrica comincia a sospettare la necessi­ tà di questo coefficiente per fare un film . Ahinoi ! Troppo tardi. Non sarà tanto facile convincere l'intelligenza a ritornare in cer­ te teste. Cameriera bella presenza offresi è il titolo della commedia bril­ lante interpretata da Elsa Merlini . Scopo del film è appunto il ritorno allo schermo di quest' attrice, che però viene usata come pretesto per legare vari episodi. Le sorti della commedia bril­ lante non sono ancora chiare, da noi. È forse il genere che meno s'improvvisa e che chiede il maggior concorso di attori intelli­ genti, di scrittori di garbo, di registi preparati e anche una visio­ ne umoristica dell'esistenza: visione che non ci si regala da un 258

giorno all'altro. Quando i produ ttori del ventennio vollero rega­ larci questo umorismo imitarono un po' gli americani, e molto i tedeschi. La Cines di Pittaluga cominciò proprio con la trad u­ zione delle commedie brillanti tedesche, Segretaria privata, La te­ lefonista, Rubacuori. E fu l'epoca dei telefoni bianchi , dei «saloni», dei tabarins disegnati e costruiti dalle nostre brave maestranze e abitati dal Sind acato Generici in abito da sera. La commedia brillante è legata dunque a squallidi ricordi. Chi ha diretto que­ sto film, Pàstina, ha avuto il merito di farceli in parte dimenti­ care, con due buoni episodi, quelli interpretati da Fabrizi e da De Sica. I l film di De Filippo, Filumena Marturano, è un'onesta traspo­ sizione cinematografica della commedia che ormai sta ottenen­ do successo da tanti anni . È ovvio aggiungere che noi preferia­ mo la commedia al film . Quell'emozione che l'interprete, Titina De Filippo, riusciva a suscitare sul palcoscenico, soprattu tto con l' ausilio della sua voce, non si trasferisce sullo schermo, evi­ dentemente perché la poetica teatrale è molto diversa da quella cinematografica. Lo schermo ci ha abituati ad una verità che non si chiede al palcoscenico: una verità di mezzi e di forme che condizionano il dramma. Un po' di cinema, se vogliamo trovarlo, non resta che cer­ carlo nel film di Germi: Ma qui il piacere di un simile ritrova­ mento è guàstato dalla tendenza al sentimentalismo che il gio­ vane regis ta denuncia sempre più viva. Ne segue che i suoi per­ sonaggi si autocompiangono durante il corso della loro avventu­ ra, quasi ne avessero già una visione totale e non la stessero vi­ vendo. Tutto l'episodio dell'operaio che si unisce alla banda dei rapinatori perché disoccupato, con moglie e figlioletta a carico, è lamentoso e doveva invece essere incisivo: e ciò per le lunghe pause, le meditazioni, ostinatamente sottolineate dal commento musicale, che i protagonisti si regalano. La vena sentimentale di Germi si va facendo in ogni film sempre più impetuosa, e non vorremmo che, col tempo, annullasse i pregi indiscutibili di questo regista, che sono la chiarezza, la carica drammatica ed una forte partecipazione ai casi che ogni volta ci narra . Se Ger­ mi avesse controllato i suoi personaggi, che erano comunque ben scelti, se li avesse trattati con maggior secchezza, con quel distacco che distingue la prosa di uno scrittore dalla prosa di un cronista superficiale e «sensibile», ci avrebbe indubbiamente of·



Il film è La città si difende ( 1 95 1 ) .

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ferto il suo film migliore: alcune scene (le visioni di periferia e tutto l'inizio) lo provano ampiamente. }0 dicembre

279. Serie nera

La città è salva è uno dei tre film neri proiettati in questo mese a Roma. Gli altri (per vederli bisogna ormai rivolgersi a qual­ che cinema della periferia) , sono La via della morte e L'ultima pre­ da, tutti e due ottimi, a nostro avviso, anche perché man tengono più di quanto non promettano dalle facce degli attori e dai no­ mi, poco noti, dei registi. Questi film appartengono alla serie americana che potrebbe chiamarsi poliziesca, ma la denomina­ zione è ormai inadeguata ad un genere che conta capolavori co­ me La città nuda e Boomerang . Il segreto di tutti questi film è che sono scritti con un estro vivissimo e accoppiano la tensione alla misura, la violenza allo stile. Intanto hanno il merito di non pe­ scare nel vago: ogni storia è di limitate proporzioni ma precisa, ossuta; e, benché non si discosti mai dal tema generale ( la ricer­ ca di uno o più delinquenti da parte di uno o più poliziotti ) , ri­ sulta sempre nuova. A dare questa sensazione concorre l' uso di attori non famosi, e la precisione illus trativa nel metodo che ogni volta si adotta per la cattura del delinquente. Lo spettatore è messo in grado di partecipare al giuoco . La scena finale (si tratta spesso di un inseguimento) è svolta in luoghi inediti : sui piloni del p�nte di Brooklyn, in una cloaca, in una ferrovia sot­ terranea; e così cediamo volentieri ad uno degli inganni del ci­ nema, che è di far credere nel fim come in un avvenimento reale che si sta svolgendo in quell'istante . Abbiamo notato che queste storie esercitano il loro fascino non solo nel pubblico facile ma anche su quelle persone che le rifiuterebbero a teatro o in un li­ bro: ed è perché sullo schermo acquistano la precisione, la tan­ gibilità dei documenti . Il regi sta si limita quasi sempre ad esporre il suo caso come farebbe un testimone, il suo discorso impassibile prende verità dall' assenza di ogni accessorio lirico o sentimentale. In questi film, pochissimo amore, quel tanto che basta per non escludere le donne dalla festa. E, invece, un' ab­ bondanza di paesi nuovi , di ambienti, di vi'ta spicciola america­ na. Nella Via della morte, per esempio, che è certamente il miglio­ re dei tre, l' inseguimento si svolge in una Wall Street assoluta­ mente deserta, un mattino di festa: bene, quell 'impagabile sce260

nografia è usata con tanta abile discrezione da restare nella me­ moria come una nostra immaginazione o, perlomeno, da legarsi al ricordo di qualche pagina dell'A merica di KafKa. ( Nota: è col­ pa dello spettatore se aggiunge un po' di letteratura a immagini che il regista ha inteso dare semplicemente, ma la forza della semplicità è proprio questa di evocare la compiutezza dell'arte . ) Chi voglia poi discutere questi film sul piano morale, abbia la bontà di notare che essi, coi loro eroi, sostituiscono ormai le storie dei Paladini di Francia, sono le gesta di una cavalleria non più libera ma statale. Il colpevole vi è sempre punito, il giu­ stiziere agisce sempre legalmente. Il delinquente (ce n'è di tutti i tipi) suscita orrore, le sue azioni sono ingiustificabili, vuote, senza riscatto, riportano la concezione del Male ad un giudizio preromantico. Niente sottigliezze. E l'eroe, d'altra parte, non tende a passarsi per un salvatore dell'umanità, è un impiegato che fa il suo dovere. Anche L'ultima preda è un modello di racconto nero. Tutto concorre a renderlo perfetto, persino la sua mediocrità. Intanto la storia (la cattura di tre vilains che hanno rapito una ragazza cieca per ricattarne il padre) , e l 'ambiente ( una stazione di New York) ; poi la veloce procedura, la calma di una lotta che si svol­ ge, senza incertezze, tra gente del mestiere. (Questo è il segreto, gente del mestiere: oggi non si ammettono più eroi indifferen­ ziati e dilettanti . Vogliamo che il lavoro sia fatto bene, tanto dai ladri che dalle guardie . ) L a città è salva, che per l a fama del protagonista, Humphrey Bogart, avrebbe voluto essere, e così è stato lanciato, come il più importante di questi film, soffre invece di una aggrovigliata nar­ razione (a rievocazioni successive) che smorza l'effetto iniziale. C ' è poi una certa indulgenza pel melodramma «duro>> e la tipo­ logia dei delinquenti è eccessivamente variata: il Lombroso non avrebbe fatto meglio. Come al solito, il film si salva alla fine as­ sieme alla città. 29 dicembre

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Da « Panorama»

28 1 . Cinema e dialetto

Ogni tanto leggo qualche rimprovero fatto al cinema italia­ no di favorire un linguaggio dialettale, con un copioso reperto­ rio di accenti spesso volgare anche se efficace. Si fanno, è vero, molti film parlati «in lingua>>, cioè in quella convenzione che è l'italiano bonario e un po' ibrido delle commedie, ma la mag­ gior parte dei film vive su personaggi che si esprimono in una specie di sottolingua, dove il dialetto romanesco predomina, in­ sidiato dal napoletano, dal veneto, dal siciliano, dal lombardo, cioè dai dialetti più diffusi. Insomma, il cinema cede volentieri alle esigenze regionali degli attori, e ci si domanda perché. La verità è che il cinema è una rappresentazione artistica della realtà ottenuta con mezzi veristici e non può fare a meno di riprodurre la nostra comme­ dia quotidiana senza il peso datogli appunto dai dialetti . Un'al­ tra considerazione è che non a caso questi dialetti hanno una tradizione letteraria che si è mantenuta sempre viva oltre un certo folclore, che hanno i loro poeti e infine un teatro, derivato dall'antico teatro delle maschere. È una tradizione che la lingua italiana, anche dopo l'Unità, non ha potuto mai annullare o as­ sorbire appunto per il distacco semantico che si è andato sem­ pre più accentuando tra la lingua colta e le necessità della rap­ presentazione. Quando si parla di lingua italiana (e se ne parla spesso ) , di darle un assetto limpido e rispondente alle esigenze del nostro tempo, si dimentica che una lingua riflette la condi­ zione del suo popolo. È lo specchio non soltanto del suo passato, ma anche del suo carattere, della sua morale, delle sue aspira­ zioni : diciamo meglio, del suo grado di inserimento nel mondo moderno. In I talia continuano dunque a coesistere diverse lin­ gue, tutte in un certo senso s ubordinate ai dialetti, che sono la realtà quotidiana. C'è la lingua della legge, aulica e borbonica 265

secondo i casi, c'è anche una lingua per il commercio, che si ar­ ricchisce ogni giorno di nuovi apporti mostruosi . Quando ho dovuto cambiare l'automobile mi hanno informato che la mia vecchia automobile sarebbe stata «rottamata�� e che la nuova era alla «tolettatura��, cioè la stavano lavando . La lingua colta dei letterati, così perfetta sulla pagina, serve ben poco nei rap­ porti sociali ad altri livelli , dove i vari gerghi professionali e bu­ rocratici l' hanno resa pomposa e ridicola, a volte addirittura in­ comprensibile . Ogni italiano continua perciò a pensare nel suo dialetto ed è qui, in questa specie di sotto-volgare economico (che esprime nel minor numero di parole i sentimenti e le passioni) , che egli trova il veicolo necessario e sufficiente al dialogo . Il cinema, proprio in virtù della sua adesione alla realtà, non può non te­ nerne conto, anzi deve limitarsi a una registrazione la più possi­ bile viva (e quindi spesso comica) dei vari linguaggi . Oppure succede come nel bel film di De Seta, Banditi a Orgosolo, che la verità dei personaggi viene falsata appunto dalla sostituzione della lingua al dialetto sardo: e si assiste al caso di gente che pensa e agisce intensamente secondo una realtà dialettale ( e ap­ punto perciò sorprendente) ma si esprime in un italiano perfetto che, nella sua freddezza, sembrerebbe proprio smentire quella realtà. Quando diciamo cinema italiano, intendiamo quelle opere che vengono raggruppate sotto l'etichetta del neorealismo e del neodecadentismo: diciamo insomma Rossellini, De Sica, Felli­ ni, Pasolini, Germi, Rosi, ecc. Per Antoniani il discorso è diver­ so: il suo tentativo di ritrarre una certa borghesia intellettuale, sfociato in quella filosofia che è l' incomunicabilità, verrebbe in appoggio alla nostra tesi, se riuscissimo a stabilire che questa mancanza di comunicazione è dovuta non tanto all' inerzia o povertà dei sentimenti quanto all'inesistenza di una lingua «borghese» possibile. E con ciò arriviamo al paradosso (ma non tanto) che l'inesistenza di una lingua prova l'inesistenza di una classe, come del resto si sta verificando. Per assurdo, se Antoniani provasse a far parlare i suoi personaggi nei loro ri­ spettivi dialetti è probabile che il muro dell'incomunicabilità crollerebbe. Niente mi diverte come sentire una commedia inglese recita­ ta da attori italiani. L'attore italiano, quando fa l' inglese, si ve­ ste come l'inglese della convenzione caricaturale: giacche a scacchi, foulard al collo, pipa tra i denti, si muove con le spalle rigide, parla come in ipnosi, sente, insomma, di essere entrato 266

in uno schema linguistico . La traduzione del testo aggrava tal­ volta la situazione. «Caspita ! » , dice l' attore inarcando le so­ pracciglia. Non è vero niente; a casa sua, in una circostanza si­ mile, non esiterebbe a dire l'equivalente che sappiamo, batten­ do magari un pugno sul tavolo; e questo sempre ammettendo che sia di buon umore . E perché il teatro «in lingua.» non fa né ridere né piangere? Perché da noi la realtà della vita supera sempre la fantasia dei commediografi e la realtà, così com'è, non può essere portata sul palcoscenico se non in dialetto. Fate­ mi una scena, se vi riesce, in cui la contessa racconta storielle sporche, in italiano, e che non sia volgare. Nella vita, quando le racconta, la contessa, coi dolci accenti dialettali, non scade mai di rango. Fatemi una scena di seduzione, in italiano, che non sia comica. Nella vita riescono benissimo: i protagonisti non av­ vertono il ridicolo, appunto, della finzione linguistica. Fatemi infine parlare un poeta senza farci sospettare della sua serietà, o di fanatismo esibizionistico. Ecco, non possiamo far parlare i nostri eroi, perché ci farebbero sempre sorridere per l 'inevitabi­ le décalage che risulterebbe tra lingua e sentimento. Non li sti­ meremmo mai capaci di grandi azioni, di soluzioni tragiche, di «profondità», mentre nella vita spesso lo sono . A teatro ci an­ diamo convinti di rappresentare, noi pubblico, una società che agisce «in italiano», mentre in realtà pensa in dialetto. Quanto al teatro di idee . . . la simpatia che ispira l'italiano medio non è forse nel fatto che ha poche idee ma confuse? Lo vogliate o no, mai nella sua storia l'italiano è stato messo in grado di conoscersi tanto profondamente come oggi , attra­ verso il cinema. La terra dei canti e dei fiori, di Graziella, dei pastorelli e delle ninfe arcadiche, dei dolci costumi e della vita gaia favorita dal perenne sorriso del sole, si è rivelata meno idil­ lica, spesso rude e spietata proprio attraverso le lenti del cine­ ma. Tutti quegli stravaganti personaggi che noi ritenevamo frutto di una spietata indagine letteraria, o di una particolare condizione storica fortunatamente tramontata, i personaggi del M achiavelli e dell' Aretino, quelli dei racconti del Boccaccio o del B andella, per tacere dei minori, eccoli tutti ancora vivi, tra noi, come se i secoli non fossero trascorsi. Anzi, la lunga com­ media italiana non accenna nemmeno a finire. Ecco, i ladri, i servi, gli spacconi, gli infingardi, i semplici, i furbi, gli eroi loca­ li, cioè le maschere della Commedia dell'Arte, finite poi in Francia come genere d 'esportazione, edulcorate e sistemate per­ sino nei balletti, entrate nel mondo soave e melanconico di un Watteau o di un Verlaine, eccole, dicevo, da noi ancora vive in 267

abito civile. E vivono nel cinema, che è un teatro come lo vuole oggi l'economia, ma come lo pretende anche il linguaggio. Que­ sta gente, infatti, o si esprime nei suoi dialetti o è meno che niente. Diciamolo pure: i personaggi che più ci divertono, per­ ché sono un riflesso della nostra realtà, restano sempre quelli che una volta animavano il sottobosco della com media, i fa mi- . gli, la canaglia variopinta . Anzi, da personaggi secondari sono diventati i personaggi principali, il servo è ormai l'eroe, vive e racconta esclusivamente la sua storia. Resta da vedere se ci è di­ ventato per mancanza di protagonisti , per volere del pubblico o per tutte e due le ragioni . I o sospetto che i servi - chiamiamoli così - abbiano sopra­ vanzato i padroni quando il linguaggio di costoro si è allontana­ to dalla realtà italiana, diventando aulico, fingendo in teressi e filosofie che presupponevano non soltanto una coscienza indivi­ duale, ma una coscienza nazionale. I servi, invece, fedeli alla lo­ ro mancanza di principi, seguitarono a raccontarci le loro storie nel teatro dialettale. Il successo di Goldoni è tutto nella società da lui descritta, dove servi e padroni convivevano ancora sullo stesso piano ideologico, sì «capivano» . Scomparsa con Venezia l'ultima società aristocratica, che cosa restava ai servi se non languire in una specie di ibernazione, aspettando il cinema che li avrebbe rimessi a nuova vita? Guardate Vittorio Gassman. Si scopre una vena comica da grande maschera, parla tutti i dia­ letti, e diventa finalmente «popolare)) . Guardate Nìno Manfre­ di. Buon attore di prosa, inizia con Shakespeare, ma sente che il suo successo potrà restare legato all'equivoco dell 'autore. Deci­ de allora di ricominciare, prende la strada del varietà, trova nel fondo del suo carattere la disposizione alla realtà e il grande successo gli arriva quando sì decide a parlare il dialetto della Ciociaria. In definitiva, Manfredi si toglie la maschera d' attore e resta con la maschera naturale, viva, non ha più bisogno di spiegarsi in lingua, basta che esprima col suo volto un dialetto decifrabile. E non parliamo di Alberto Sordi, di Totò, di U go Tognazzì, che saltano le premesse perché sono già naturalmente nelle con­ clusioni. Ma chi vorrà negare che costoro, assieme ai grandi fra­ telli De Filippo, sono i migliori attori che abbiamo, i portavoce di una vaga sentimentale incoscienza nazionale, anzi un rifiuto della coscienza in favore della rappresentazione? Un teatro sen­ za coscienza non può essere che disperatamente comico. Ed ec­ co che il nostro cinema (nella maggior parte dei casi, un teatro filmato) resta di impegno «volgare», divertente per una smacca268

ta, astuta abiezione che è il suo limite, d' accordo, ma anche il suo fascino . Le possibilità che questi attori hanno di cogliere una certa realtà nella quale siamo immersi sino al collo sono quasi infinite, tanto da poter pensare che i «servi» sono la no­ stra vera, continua au tobiografia . Noi ridiamo dei loro vizi e di­ fetti, dei loro guai e disastri perché sono tutti nostri , li ricono­ sciamo, e il riderne finisce per farceli vedere sotto una luce non soltanto accettabile ma persino lusinghiera. Il riso, nel peggiore dei casi, assolve : e noi abbiamo bisogno di una ininterrotta as­ soluzione . La denuncia (sì, perché in molti casi lo scherzo è spinto sino alla denuncia moralistica) inorgoglisce. Voi scrivete, per esempio, una commedia o un film sui fannulloni, sui figli di papà (diciamo, in una parola, I vitelloni) e siete colti d al sospetto che la satira sarà rifiutata dagli innumerevoli modelli che ve l' hanno suggerita. Scoprite invece che la satira, appunto perché feroce, li ha resi fieri , come se gli avesse concesso uno stato civile artistico, un riconoscimento che li solleverà dal grigiore dell'i­ gnoto . Questo spiega il piacere che un italiano prova nel rac­ contarvi le avventure che gli succedono, spesso atroci, e che lo mettono in dubbia luce morale. Quel che importa non è la con­ clusione morale ma il fatto, che sia avvenuto e che risulti diver­ tente. Nessuna denuncia, quindi, per quanto dura, esorbita dai limiti del nostro «teatrino>> comico . L'inferno italiano è popolato di peccatori che al rifiuto del concetto di colpa e di peccato uni­ scono la capacità di ridere del guaio in cui si trovano. E poiché il diavolo laggiù incarna il padrone, ne deriva la necessità di im­ brogliarlo. La nostra commedia è tutta qui. La verità è anche questa: che tra diavoli e maschere c'è ap­ punto un abisso filologico: le stesse parole significano concetti differenti e, spesso, non significano, per le maschere, niente. Per esempio: il diavolo non ama, odia sempre tenacemente lo stesso oggetto . Per la maschera l'odio è un'occasione, ma anche l'amo­ re è «l'occasione» , quella che bisogna cogliere continuamente al volo (e qui sarebbe interessante ipotizzare che il vero don Gio­ vanni era il suo servo Leporello, se non altro per l'identità dei loro metodi) . Quello che noi chiamiamo cinismo è la sola filoso­ fia accettabile dalle maschere, perché nei dialetti non esistono parole per designare i valori contrari. Il cinismo non solo ignora i concetti astratti, ma permette, se è il caso, di diffidarne. Ov­ vero, questi concetti esistono, ma per una categoria di persone stravaganti e innocue, facilmente raggirabili, che sono infine abbastanza ricche per poterli adottare come norma di vita sen­ za rimetterei . Queste persone sono i padroni, che parlano in 269

lingua, giudicano e condannano. Essi non hanno niente da spartire con la realtà brutale, piena d i trappole, di botte, di fa­ me, di galera , di rapidi incontri erotici, di incertezza e di dispe­ razione che è la realtà dei servi : e che li modella accid iosi, furbi, spacconi, violenti, ingordi, allo scopo biologico di conservarne la specie. Ci si può chiedere perché si continuano a fare film tanto in­ trisi di dialetto, anzi di filosofia dialettale. La risposta prima è che il dialetto, qualunque esso sia, esprime la sfera reale, men­ tre la lingua è una convenzione accettata sul piano nazionale, che serve non tanto a rivelare il pensiero ma a nasconderlo o a truccarlo. Per il popolo è inoltre la lingua della legge ( Moravia giustamente dice: «lo rubo in dialetto e tu mi condanni in italia­ no» ) , la lingua con la quale si esprimono sentimenti elevati, propositi nobili, ma quasi sempre impossibili a mantenersi. Si­ no al Seicento l'italiano non piaceva ai dotti, che gli preferivano il latino, mentre in Francia, per esempio, la lingua diventava nazionale, unica, codificata, e serviva a tutti, al giudice e al la­ dro. Da noi la mancanza di una corte centrale impediva il pro­ gressivo rammodernamento di una lingua valida sia per gli usi letterari e scientifici che per quelli sociali e politici, cioè per la sfera quotidiana. La verità pertanto trovava rifugio nei dialetti, dove la quotidianità era sempre sofferta e gioita. La «rappresen­ tazione>> restò dunque sempre un fatto dialettale. Era fioren tina al tempo di Machiavelli, veneziana con Goldoni, divenne roma­ nesca con il Belli e milanese con il Porta, due poeti «teatrali» : perché ebbero sempre vivo l'impegno di spiegare e persino di catalogare la verità «drammatica» , quella di tutti i giorni, la ve­ rità contemporanea. E questa verità soltanto attraverso il dia­ letto può essere espressa senza veli. Se si vuole quindi avere un'idea di quel che pensa un italia­ no medio, realmente, della vita e delle sue relazioni con la socie­ tà, dobbiamo fare una costante opera di traduzione. Allora ci accorgeremo, tanto per fare un esempio, che di certe parole tan­ to usate «in lingua» , non esiste nella «sua» realtà il concetto, il corrispettivo. Prendiamo la parola onestà: non esiste in nessun dialetto, o almeno non esiste il concetto astratto di onestà, ma quello particolare di persona onesta. Che non significa tuttavia quel che in lingua indica il vocabolo, ma piuttosto uno strano animale che non partecipa ai giuochi della sua società. Questo significa estraniato, o indifferente. Si è onesti perché possiamo permettercelo, per non avere noie, o per balordaggine. Così il ladro è, nell' accezione volgare, il ladro di biciclette (ora, di au270

tomobili) , o di polli (ora, di borsette) . Tutti gli altri ladri, quelli che in lingua sono definiti come prevaricatori, concussori, am­ ministratori disonesti, profittatori , eccetera, nei vari dialetti so­ no indicati piuttosto come persone furbe, o che sanno fare i pro­ pri interessi, o che sanno fregare entità (astratte) come lo Stato. Questo potrebbe spiegare l'ammirazione che circonda ogni per­ sona la quale si renda responsabile di rubare il pubblico denaro. I nsomma, la lingua non è che un mezzo, il più economico, di co­ municare agli altri la propria concezione del mondo. Quando la lingua nazionale, per varie ragioni storiche o di costume, non si adegua più alla realtà, . il suo compito è svolto dai dialetti . Il che spiega, o almeno pretende di spiegare (sommariamente) , la for­ tuna di un certo cinema con i suoi personaggi dialettali. E per riflesso spiega come il nostro teatro non dialettale sia sempre co­ sì poco divertente e quasi inventato. maggio

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Da «Video»

282. Sì, lo so, ma sa . . . Nella primavera del '52 Roberto Rossellini mi chiese se vole­ vo aiutarlo a rivedere i dialoghi di un film che doveva fare con Totò. Il film si chiamava Dov 'è la libertà, e l'ho rivisto di recente alla televisione; non è tra i migliori di Rossellini, benché ogni tanto esca fuori la zampa del leone, e nemmeno tra i peggiori di Totò, anzi può dirsi un'introduzione all' altra faccia della luna dell'attore. Per la prima volta egli si staccava dai suoi modi di­ rettamente comici per un s aggio d ' i n terpretazione realistica, che tuttavia il pubblico rifiutò. M a quel che il regista e l'attore avevano voluto dire nel film mi sembra che resista: una certa demistificazione del buon cuore romano, «er core�� , in una Ro­ ma gretta e sfasciata, in cui Totò uscito di galera si aggirava co­ me l ' U rone o l ' I ngenuo di Voltaire, cercando una solidarietà, una verità umana e trovando solo la frode e il tornaconto, la ba­ raonda imitativa delle grandi città e infine una galera filosofica più losca, che lo spingeva a ritornare in carcere tra i suoi com­ pagm . Dicendo di sì alla proposta di Rossellini ubbidivo ad un cer­ to gusto per l'avventura, ma non immaginavo di entrare in un vortice che sarebbe durato due mesi. Mi sembrava un lavoro fa­ cile, la sceneggiatura esisteva, ma dandomene una copia Ros­ sellini mi disse di non buttarla via, perché durante la lavorazio­ ne avrebbe potuto servire. I ntanto, il dialogo della prima scena, abbozzato da Rossellini sul rovescìo di una busta doveva essere da me riveduto e battuto a macchina, in cinque o sei copie. Quando? M a subito. I l film cominciava quel giorno stesso, anzi la troupe era già pronta, e gli attori si stavano truccando, e tutti ci aspettavano «in esterno��, in quello scempio architettonico che viene chiamato piazza Augusto Imperatore, con il vecchio Augus teo ridotto come un osso e servito tra cipressi romanisti in 275

un vassoio di parcheggi, là dove una volta c' era la nobile via de' Pontefici e un reticolo di strade piene di artigiani, trattorie, caflè e biliardi. Così conobbi Totò e, nei limiti delle nostre due timidezze, diventammo quasi amici . Totò era un «signore>>, perlomeno del signore meridionale aveva la calma, la tolleranza, la cortesia. Questa fu la prima impressione . Salu tava togliendosi il cappel­ lo, non faceva mai circolo attorno a sé, non raccontava storielle, né cadeva preda di quelle concitate allegrie o depressioni che, nel lavoro del cinema, sono il prodotto delle lunghe e inspiega­ bili attese. Dagli uomini della troupe veniva chiamato principe. Anche il duca Caracciolo, che era l'aiuto regista, lo chiamava principe. Prima di iniziare una scena, sen tii una volta l'operato­ re Tonti che implorava: (( Per favore, le Altezze mantengano un dignitoso silenzio». Totò era infatti S. A. I. il Principe Antonio Focas Flavio Comneno de Curtis di Bisanzio, Conte Palatino, Cavaliere del Sacro Romano Impero. Mi chiesi allora perché quest' attore era così diverso da tutti gli altri e, direi , così lonta­ no. Sorrideva quasi sempre e con un tratto di ironia indefinibile. Quando gli consegnavo il foglio delle sue battute (di solito scri­ vevamo i dialoghi un'ora prima di girare, sul tamburo) egli lo leggeva assumendo un'aria serissima, ma ad ogni parola, con una sorpresa sempre nuova, il suo volto cominciava a scomporsi in una reazione continua, apparentemente comica, e di una in­ tensità infantile. Un re da favola, che avesse letto il discorso preparatogli dal ciambellano, non avrebbe espresso in altra for­ ma la sua contenuta meraviglia. Un minuto dopo era pronto a dire nel migliore dei modi le povere cose da noi scritte. Mi chiedevo quale fosse il segreto della sua calma e della sua sottile capacità di interpretazione. Mi sembrò di trovarlo pro­ prio nella sua disposizione surreale di fronte alla vita e alla rap­ presentazione italiana, cioè al realismo che è la piattaforma del nostro teatro, e ora del nostro cinema. Egli poteva rappresenta­ re soltanto se stesso, non era un tipo o un carattere proveniente dalla Commedia dell'Arte, un Pulcinella, un Brighella, un Pan­ talone, un Arlecchino, anche se poteva improvvisarne i mod i , m a una formazione autonoma, un'invenzione che riassumeva quei caratteri e li spostava sul piano della caricatura assoluta, senza legami col resto, la società, il tempo: pura astrazione co­ mica. Insomma, Totò non esisteva in natura, non era «vero» . I n questo senso egli s i distacca da tutti gli altri attori comici, che 276

sono derivati dalla commedia popolare. Diciamolo pure: i per­ sonaggi che più ci divertono, perché riflesso della nostra realtà, sono quelli che una volta animavano il sottobosco della comme­ dia, la variopinta canaglia dei semplici, degli infingardi, degli spacconi, dei ladri, in una parola dei servi : i famigli . Anzi, da personaggi secondari sono diventati i personaggi principali, il servo è ormai l' eroe, vive e racconta esclusivamente la sua sto­ ria. Resta da vedere se ci è diventato per mancanza di protago­ nisti, per la scomparsa della società che servivano e truffavano nello stesso tempo allegramente, o perché alla lunga le loro sto­ rie si sono rivelate più «vere» . Certo è che appena Gassman si scopre una vena comica da grande maschera diventa «popola­ re>> più del suo teatro . E non parliamo di Sordi, Manfredi, To­ gnazzi, che studiano un certo tipo di italiano-maschera, lo inda­ gano nel suo mammismo, nella sua viltà, nella sua irrecuperabi­ lità, insomma nel suo antieroismo. Non parliamo di Peppino De Filippo che arriva al fondo addirittura filologico del «servo», al­ la sua bertoldesca sciocchezza. Tutti i personaggi di questi co­ mici esistono, ma direi che basano la loro consistenza su una certa miserabilità umana, troppo umana. Le possibilità che hanno di cogliere una scadente realtà, nella quale siamo immer­ si fino al collo, sono quasi infinite, tanto da poter pensare che i «servi» sono la nostra vera, continua autobiografia. Noi ridiamo dei loro vizi modesti, della loro eterna fame di denaro e di donne (non di amore, ma di possesso) , dei guai e dei disastri in cui si cacciano, perché sono tutti nostri e il riderne finisce per farceli vedere sotto una luce non soltanto accettabile, ma persino lusin­ ghiera . Perché il riso, nel peggiore dei casi assolve, e la denuncia inorgoglisce. Ora Totò era lontano da tutto questo, e si può fare l'ipotesi che egli nella commedia italiana rappresentasse la zona metafi­ sica, non i caratteri, ma l'imponderabile, il grottesco, l'inverosi­ mile, i piccoli personaggi e i fatti diversi di cui è ricca la nostra cronaca e che sorprendono sempre per quella loro aria inventa­ ta eppure plausibile, il morto che si rifà vivo dopo vent'anni e mette nei guai la giustizia e il paese, un consiglio comunale che gioca al totocalcio per pareggiare il bilancio, il maiale che cade dal terzo piano e accoppa un passante, la famiglia distrutta da­ gli errori dell'ufficio anagrafico, quel sottomondo che dal Novel­ lino al Pirandello delle novelle paesane non sembra essere affat­ to cambiato; infine, un' I talia minuta, le cui leggi biologiche re277

stano es tranee al corso della società in progresso di cui pure fa parte. Per questo Totò va cercato nel suo centinaio di film, non in uno solo, nella continua follia di una maschera che non fa della satira o tanto meno della sociologia ma propone esclusiva­ mente se stessa. Totò ha potuto essere lo j ettatore che vuole una patente per esercitare meglio la sua funzione (appunto, Piran­ dello) o il «morto» professionista utilizzato per sviare le indagi­ ni dei doganieri , o il padre di numerosa prole che «cerca casa» , e la trova persino in una ex-casa-chiusa. Ha potuto fingersi gen­ tiluomo, ladro, generale, soldato, mondano, spia, ballerino, av­ venturiero, dottore, pazzo, uomo d'affari , sonnambulo, eccete­ ra, proprio perché la sua sola presenza caricaturale smentiva tutte le possibili attribuzioni . Nella frantumazione della Com­ media dell'Arte, mentre i «servi» Brighella, Arlecchino e Pulci­ nella (come abbiamo visto) si sono dati a rappresentare il mon­ do possibile nelle vesti dei loro padroni, Totò si è dedicato a illu­ strare, come in una striscia comica, dunque sempre à suivre, l'as­ surdo della sua presenza in quel mondo . Una trovata in fondo letteraria, di confutazione della realtà fatta servendosi dei suoi propri mezzi, con una sicurezza e un disegno aristocratico, che conferma almeno il titolo bizantino del suo inventore. I film di Totò restano (la televisione ne ripropone alcuni in questo mese, un Tutto-Totò in otto puntate) e potremo quindi meglio ritornare a discutere sulla natura di questo fenomeno unico. Quello che purtroppo non resta è il Totò di cui ero un fer­ vente ammiratore, il Totò dei palcoscenici di quartiere, nei lon­ tani anni Trenta, quando il suo solo apparire e quello slogan dubitativo: Sì, lo so, ma sa . . . destinato a diventare famoso, met­ teva in dubbio le certezze mussoliniane e la rivoluzione fascista. Allora Totò ci appariva come lo scolaro in castigo che facendo cenni alle spalle del maestro tiranno ridava una speranza di fol­ lia alla scolaresca umiliata e annoiata. giugno

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Da «L' Euro p eo»

283. 2001, un 'odissea al parallelepipedo Ci sono ormai poche cose che gli uomini non farebbero per festeggiare il Natale: tagli di foreste di abeti, acquisti di libri, in­ gorghi di traffico. Il progetto Apollo si realizza esattamente nei giorni del solstizio d'inverno, per rassicurare Santa C laus del Benessere, in omaggio al «Sole invitto>>, al Sole che comincia ad anticipare le sue levate e a ritardare i suoi tramonti e rincuora gli uomini delle caverne. È una C hristmas-card inviata ai russi, molto costosa, ma del resto prevista da Giulio Verne, che pro­ prio dalla Florida il 30 novembre di cent'anni fa mandava il pri­ mo proiettile verso la Luna, con tre cosmonauti a bordo. Rileg­ gasi Dalla Terra alla Luna per queste stupefacenti anticipazioni . Il proiettile di Verne ricadde poi puntualmente nel Pacifico, fu ricuperato dall'incrociatore Susquehanna e, una volta salvati, i tre circumnavigatori fondarono una Società Nazionale per le Comunicazioni lnterstellarì, eccetera. Sempre «sotto Natale», con un impulso che non può essere che religioso, il cinema fa uscire i suoi colossi: e stavolta, tra questi, in subdola armonia col progetto Apollo, il film di Stan­ ley Kubrick: 2001, odissea nello spazio . Preparato anch'esso per cinque anni e dunque impeccabile. Ci lavorano tecnici e scien­ ziati e, come sceneggiatore, Arthur C. C larke, autore di science­ fiction tra i più severi, non della forza scientifica di un Fred Hoyle, ma intrigato da problemi religiosi. I lettori delle Meravi­ glie del possibile ricordano di lui certi brevi e densi racconti come La nube, La stella, I nove miliardi di nomi di Dio: si spiega così la presenza nel film di un misterioso e ubiquo panillelepipedo che ieri le scimmie antropomorfe e domani i cosmonauti si ritrovano sempre tra i piedi . E che turba gli spettatori . Vedere a Roma il film di Kubrick diventa anche un'impresa temeraria. Porta a concludere che pochi hanno idee precise sul281

lo spazio e sul tempo, soprattutto i gestori di cinema. Nel nostro cinema c'è più gente di quanto il suo spazio non consenta e gli intervalli di tempo tra uno spettacolo e l'altrò sono incolmabili ma non perciò meno irritanti. Nessuno sembra curarsene. In più, una certa delusione serpeggia tra il pubblico domenicale. Chiamati a una festa di fantascienza, forse con punte di spio­ naggio spaziale ed erotico, si trovano davanti ad un film che dispiega una certa ironia swiftiana sulle sorti umane e progres­ sive in relazione alla conquista dello Spazio. A una componen­ te poetica, che ricorda Poe, per esempio Gordon Pym nel suo interminabile viaggio verso il mostruoso Nulla, si aggiunge quella tecnologica della Nasa, stazioni, veicoli, organizzazioni spaziali, il tutto già largamente ipotizzato anche dai fabbrican­ ti di giocattoli, ma mai visto come ora nella loro solenne, preci­ sa inutilità. Le conclusioni di Kubrick sono scoraggianti, tant� vale dire reazionarie. Non vi aspettate molto dallo Spazio, è praticamen­ te vuoto. Le possibilità turistiche sembrano limitate. Se imma­ ginate la Terra come un punto e mettete la Luna a un centime­ tro, il Sole sarà a cinque metri e, per appendere la prima stella del vostro presepio, l' Alpha Centauri , dovete andare a duemila chilometri da qui. Ecco le proporzioni. Quanto al resto, meglio non parlarne. La natura va per conto suo, l ' Universo è insensi­ bile al pensiero umano, non conosce l'Uomo, né la vita è il suo scopo. L'eterno e l'infinito non possono avere altri scopi che quelli che li definiscono. La prima conclusione di Kubrick è dunque che il mistero dell ' Universo non verrà mai risolto . Chi ha messo su quest'imbroglio, nel quale siamo sì orgogliosamen­ te immischiati , non lo sapremo mai. Si può, attraverso equazio­ ni e congetture, stabilire come funziona l'imbroglio (o come do­ vrebbe funzionare) ma non chi l'ha fatto e perché. L' uomo si ri­ troverà sempre di fronte un ostacolo (nella fattispecie un paral­ lelepipedo ben temperato) inspiegabile. Tanto vale allora affi­ darsi all'idea di un ente dai fini imperscrutabili e dalle vie infi­ nite. Einstein diceva appunto che la malattia professionale dello scienziato è la fede, come quella del minatore è la silicosi. Nella evoluzione del pensiero scientifico un fatto è chiaro, che non c'è mistero del mondo fisico il quale non conduca a un mistero che è al di là di noi stessi. Tutte le strade dell'intelligen­ za, tutte le scorciatoie delle teorie e delle ipotesi portano fatal­ mente ad un abisso, o ad un ostacolo (il parallelepipedo di Clar­ ke & Kubrick) che la natura umana non può s uperare. Perché l' uomo è incatenato dalle condizioni stesse del suo essere, dal 282

suo inserimento nella natura . Più allarga i suoi orizzonti , più ri­ conosce, come ha detto Niels Bohr, che «noi siamo al tempo stesso attori e spettatori nel dramma dell' esistenza». È utile, allora, andare nello Spazio, beninteso in quello ridi­ colmente prossimo alla Terra? Secondo Kubrick, i viaggi spa­ ziali diventeranno ben presto noiosi come le transvolate atlanti­ che, che i passeggeri ingannano dormendo. E per quanto sia ar­ duo immaginare di peggio, il cibo sarà ancora più scadente di quello servito sui j et. Elaborato chimicamente, si succhierà da cannucce. Gli oggetti lasciati liberi flotteranno nella cabina del Pan Am, fornita, ahimè, di un televisore a testa. Prima di usare il gabinetto, il passeggero dovrà leggersi un manifesto di norme, e attenervisi, per non trovarsi poi circondato dalle sue proprie feci. Le hostess saranno molto belle e destinate come sempre ai piloti . La Hilton e la Howard Johnson, le due più importanti catene di alberghi e di ristoranti degli Stati Uniti, avranno i loro appalti nelle stazioni spaziali tra la Terra e la Luna. I russi coe­ sisteranno di buon grado. L' uomo infine resterà quello di sem­ pre. Invischiato dalla burocrazia, dai pregiudizi nazionalistici , dall'abitudine. Questa, lo porterà a considerare routine ogni impresa straordinaria. Ulisse insomma si annoierà «viaggian­ do» . Una volta sulla Luna telefonerà a casa, grazie alla Bell Sy­ stem C o . , e a rispondergli non sarà nemmeno Penelope, in giro per lo shopping, ma la figlioletta smancerosa e già vittima dei vezzi televisivi. I suoi genitori saranno ancora più ovvi. Gli di­ ranno che sono fieri di lui (in viaggio verso Giove) e gli cante­ ranno Happy birthday to you, la stessa scema canzoncina che non potrete evitare quattro o cinque volte durante lo stesso pasto in ogni ristorante di New York e dintorni. Così un rapporto straordinario, il rapporto di un uomo nello Spazio con i suoi congiunti, che si immagina dantesco, sarà re­ golato dalle più melense convenzioni. Niente sgomenti o clamo­ rose intuizioni, niente perdite o acquisti di coscienza, ma solo salamelecchi. Quando Gagarin fu per la prima volta messo in orbita e i poeti, anche nostrani, si produssero in inni alla Vin­ cenzo Monti, successe almeno che egli espresse la sua devozione al partito comunista sovietico, di cui si dichiarava inviato e fun­ zionario. Avemmo allora il sospetto che l ' I nfinito, così ben can­ tato dal Leopardi, si sarebbe schiuso soltanto ai funzionari di partito . Kubrick ipotizza invece che lo Spazio sia riservato a una categoria di tecnici, lo space-set, una congregazione chiusa e, come il j et-set, governata da leggi un po' snobistiche e da nes­ suno scopo, eccetto quello di «esserci». 283

L'ironia di Kubrick resta sempre fredda, il suo umorismo se­ reno, forse perciò più toccante . Si limita a prospettare l'eccezio­ nale come raggi unto e quindi divenuto usuale, quotidiano, fine a se stesso . Per il cosmonauta si aprono abissi di noia e di solitu­ dine totale. Per ingannare il tempo, farà del footing nel vascello spaziale o prenderà bagni di sole con lampade di quarzo. Forse leggerà qualche romanzo poliziesco che, come dice Edmund Wilson, è una via di mezzo tra il vizio del fumo e le parole in croce, senza complicazioni letterarie e filosofiche . Infine l' uomo dovrà ben mettersi in testa che l ' unico suono che gli terrà com­ pagnia nei suoi viaggi spaziali è l'ansito del suo proprio respiro . O, se lo sciagurato li preferisce, i programmi della filodiffusione . Niente cascatelle d'acqua o cinguettio d' uccelli, o il grido del­ l'ombrellaro o del venditore di scope. Niente treni nella notte, o la serranda del garage del vicino, o lo zampettio del cane nel­ l'appartamento di sopra. Niente gatti in amore o ubriachi che tornano a casa o il risonante mar lungo la riva . Solo il proprio respiro, che lo avvertirà di essere ancora in vita. I pesci rossi nelle loro vaschette devono sentirsi altrettanto fieri di essere riu­ sciti a conquistare la Terra. Sistemato l' uomo, Kubrick e Clarke passano alla ciberneti­ ca. I calcolatori del futuro prossimo saranno perfetti. Ma sicco­ me per l'uomo la perfezione non può essere che umana (tant'è vero che ha fatto Dio a sua somiglianza e il massimo elogio che può fare ad un animale è di trovare che gli manca la parola) quei calcolatori acquisteranno, per la loro eccessiva informazio­ ne, un comportamento antropomorfico, saranno cioè portati a prevaricare sull' uomo che li ha costruiti e vuole usarli . Fran­ kenstein e compagni la sanno lunga su questo inconveniente. I l merito d i Kubrick è d i darne una versione tecnologica. È l'apo­ logo di Berkeley, se vogliamo dargli un nome. Durante la rivolta nell' università di Berkeley, gli studenti agitavano infatti come segno di protesta i cartellini dei calcolatori lbm. Che cosa sarà dell' uomo se seguiterà a perfezionare i suoi calcolatori? Riuscirà poi a liberarsene? Affidata ad un calcolatore, la costruzione del­ la Torre di Babele sarebbe riuscita? Ecco ciò che Kubrick mette in dubbio. Il calcolatore ingannerà, non perché costruito male, ma per effetto della sua stessa perfezione «umana)) . Gli insuffie­ ranno persino un coefficiente di emotività. E allora si crederà insostituibile, e sarà portato fatalmente all' inganno e alla rivol­ ta. Questo nel film accade appunto nel 200 l , durante il primo 284

viaggio verso Giove. L'emotivo calcolatore Al 9000, che sa an­ che giocare a scacchi e far conversazione, si macchia di fellonia. Segnala un guasto immaginario, costringendo un cosmonauta ad uscire dalla nave spaziale per ripararlo e !asciandolo fuori ; ne uccide altri tre che viaggiavano ibernati, per essere tenuti in stato di freschezza mentale e fisica e pronti per lo sbarco su quel pianeta. Dovrà però subire la vendetta dell' unico astronauta so­ pravvissuto. Forse questo è il punto più polemico e imbarazzan­ te del film . Uccidiamo il calcolatore? E dove va a finire il gap tecnologico e la sfida americana? Bene, l' astronauta gius tiziere diventa Ercole che uccide l' Idra e Sigfrido che si sbarazza del Drago: un eroe. Tanto più che sa di precludersi la via del ritor­ no. L'esecuzione del calcolatore è lenta, meccanica, eseguita con un comune cacciavite. E il calcolatore ha paura, si perde in pro­ messe, in giuramenti di fedeltà. Con quel cacciavite, implaca­ bilmente, come il beccaio che cerca nel collo del maiale la vena giugulare, il cosmonauta esclude dalla Bestia prim4 la memo­ ria, poi la logica, la riduce a un balbettio infantile e grottesco. In un'epoca di film sadici e violenti, ecco la prima scena in cui sadismo e violenza riacquistano un senso, una giustificazione classica. L' uomo esclude dalla sua esistenza la Macchina. Do­ podiché (in viaggio verso Giove e l'infinito) non gli resterà che accettare le leggi di uno spazio che egli pensava di dominare. E si ri troverà alle prese col parallelepipedo. La verità sulle macchine è forse un' altra. L' errore è di crede­ re che la macchina dominerà l' uomo con la sua indispensabile capacità di intelligenza. Le macchine un giorno vinceranno (a Roma hanno già vinto, e una guerra contro le macchine mi la­ scerebbe scettico come una guerra còntro le mosche) vinceran­ no, dicevo, per la semplice forza del numero, per la loro prolife­ razione incessante, che l' uomo non può arrestare, perché sem­ bra ormai evidente che il suo scopo principale è fare macchine. Resta ora a Kubrick il compito di spiegarci il comportamen­ to dell' uomo nello spa.z io-tempo, cioè nella sua deriva verso l'in­ finito. Secondo Minkowski, sappiamo che «lo spazio e il tempo concepiti separatamente sono diventati ombre vane, e solo una combinazione dei due esprime una realtà» . Per Kubrick questa realtà non può essere che una manifestazione allucinogena, qualcosa che ricordi i «viaggi» Lsd, confortata dunque da una tavolozza psichedelica. Se è vero, i pittori hanno previsto tutto. Per una decina di minuti quest'orgia cromatica ci avvince, e po285

trebbe durare indefinitamente. Ma purtroppo sem bra che lo spazio sia curvo e qui il tempo torna sui propri passi. Se la teo­ ria dello spazio curvo è giusta, noi ( a patto di possedere una vi­ sta ottima; anzi, di essere molto presbiti ) potremmo teorica­ mente vederci la nuca. Il cosmonauta di Kubrick si vede invece invecchiare e morire, per poi rinascere in embrione e ricomin­ ciare daccapo. È, se vogliamo, una proposta di lieto fine, con una complicata ipotesi di immortalità. Per il principio di Ein­ stein, dell' equivalenza della massa e dell' energia, è possibile in­ fatti immaginare le radiazioni diffuse dello spazio che si conge­ lano, una volta ancora, in particelle di materia, che potrebbero combinarsi per formare daccapo larghe unità, le quali a loro volta potrebbero riunirsi per la loro propria influenza gravita­ zionale in nebulose, in stelle e finalmente in sistemi galattici e ridare il via al «grande ritorno», con la vita che riappare su mi­ liardi di pianeti, eccetera. Occorre soltanto molta pazienza. Da­ re tempo al tempo. E sapere prima di tu tto con una certa chia­ rezza che cos 'è il tempo. Come dice j. R. Wilcock nella sua au­ rea raccolta di versi Luoghi comuni che stavo proprio rileggendo in questi giorni: « . . . La nostra idea del tempo è ineffabile l e quella che viene proposta è quasi sempre puerile, l sia il tempo statico che quello misurabile, l quello che scorre all'inverso o il se111, p lice tempo civile; l nessuna di queste ipotesi riesce abba­ stanza universale l se si pensa, per esempio, a un morto o a un animale» . 2 gennaio

Bibliografia

Abbreviazioni·

LAC UFS

Lettere d'amore al cinema, Rizzoli , Milano 1 9 78 Un film alla settimana, Bulzoni, Roma 1 988. Per i testi raccolti in UFS si consulti la Scheda per (( Un film alla setti­ mana», «Autografo», n. 1 6, 1 989, pp. 43-5 7 .

Le s �gle ri � andano ai volumi, � ei c;� uali sono già stati riprodotti gli arti­ coli di Enmo Flaiano a volta a volta mdicati. • .

.

l.

Le ispirazioni sbagliate, «Cinema», a. IV, vol . I , fase. 6 1 , 1 0 gen­

naio 1 939, 1 0- 1 1 [ripubblieato parzialmente in Massimo Mida-Lorenzo Quagliet­ ti, Dai telefoni bianchi al neorealismo, Laterza, Bari 1 980, 1 46- 1 4 7]

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9. L'isola delle vedove, «Oggi», a. I , n . 8, 22 luglio 1 939, 1 5 Siglato: E . F. [Ree. a L'ile des veuves ovvero Lost on the Western Front (L'isola delle vedove) di Mauriee Elvey e Claude Heymann, 1 937]

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Siglato: E . F . [Ree. a The Big Parade (La grande parata) d i King Vidor, 1 925; a . The Generai ( Come vinsi la guerra) di Buster Keaton, 1 926; Shoulder A rms (Charlot soldato) di Clyde Bruckman e Ch arlie Chaplin, 1 9 1 8) [cfr. 50) 22. Ilfilosofo dei miliardari, «Storia di ieri e di oggi», a. I, n. 9, 1 5 no­ vembre 1 939, 26 [Ree. a The Toast of New York (A lla conquista dei dollari) di Rowland W. Lee, 1 937) 23. ((Romanzi rosa» sullo schermo, «Cine illustrato», a. X I , n . 50, 13 di­ cembre 1 939, 6-7 Firmato: Patrizio Rossi [Ree. a She 's Got Everything ( Una ragazza fortunata) di Alfred San­ tley, 1 938) [ripubblicato parzialmente in UFS, 1 7- 1 9) 24. Restauri al personaggio, «Storia di ieri e di oggi», a. I , n. 1 1 , 1 5 di­ cembre 1 939, 28 Siglato: E. F. [Ree. a Suez di Allan Dwan, 1 938) [cfr. 5 1 e 92) 25. Un nuovofilm comico italiano, «Cine illustrato>>, a. X I , n. 5 1 , 20 di­ cembre 1 939, 6-7 Firmato: Patrizio Rossi [Ree. a Bionda sotto chiave di Camillo Mastrocinque, 1 939) [ripubblicato parzialmente in UFS, 20-23] 26. L'uccello del paradiso, «Cine illustrato», a. X I , n. 52, 2 7 dicembre 1 939, 6 Firmato: Patrizio Rossi [Ree. a Hitting a New High ( Una donna in gabbia) di Raoul Walsh, 1 937) [ripubblicato in UFS, 25-27) 27. L'attrice brutta. * Effetti del cinema, * * «Storia di ieri e di oggi», a. I, n . 1 2, 30 dicembre 1 939, 2 7-28 Siglato E. [ * Ree. a Marie Chapdelaine (Il giglio insanguinato) di Julien Duvi­ vier e Charles Spaak, 1 934] [ *cfr. 55 e 96) [ * *cfr. 89] 28. Assia Noris uno e due, «Cine illustrato», a. X I I , n. l , 3 gennaio 1 940, 6 Firmato: Patrizio Rossi [Ree. a Dora Nelson di Mario Soldati, 1 939) [ripubblicato parzialmente in UFS, 28-30)

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29. Da Metz a Macario, «Cine illustrata»>, a. X I I , n. 2, 1 0 gennaio 1 940, 6 Firmato: Patrizio Rossi [Ree. a Lo vedi come sei? di Mario Mattoli, 1 939] [ripubblicato parzialmente in UFS, 3 1 -33] 30. Soggetto, sceneggiatura e film, «Cine illustrato», a. X I I , n . 2, lO gen­ naio 1 940, 8 Siglato: P. R . . [risposta a una lettera di Cesare Zavattini a proposito della ree. a Bionda sotto chiave: cfr. 25] [ripubblicato in UFS, 23-24] 3 1 . Interpretazioni di Cellini, «Cine illustrato», a. X I I , n. 3 , 1 7 gennaio 1 940, 6 Firmato: Patrizio Rossi [Ree. a Sei bambine e il Perseo di Giovacchino Forzano, 1 9 39] [ripubblicato in .UFS, 34-36] 32. Polpettone, invenzione, film rosa, e verista, «Cine illustrato», a. X I I , n. 4 , 2 4 gennaio 1 940, 6 Firmato: Patrizio Rossi [Ree. a Le jour se lève (Alba tragica) di Marcel Carné, 1 939; Le pa­ triote (Notte fatale) di Maurice Tourneur, 1 938; Sept hommes, une femme (Sette uomini . . . una donna) di Yves Mirande, 1 936; Orage (De­ liria) di Mare Allégret, 1 93 7 -38] [ripubb1icato parzialmente in UFS, 3 7-39] 33. Appunti di vita moderna, «Cine illustrato» , a. X I I , n. 5, 3 1 gennaio 1 940, 6 Firmato: Patrizio Rossi [Ree. a Frenesia di Mario Bonnard, 1 939] [ripubblicato parzialmente in UFS, 43-45] 34. Giallo-rosa parigino, «Cine illus trato» , a. X I I , n. 6, 7 febbraio 1 940, 6 Firmato: Patrizio Rossi [Ree. a Derrière la façade (Dietro la facciata) di Yves Mirande e Georges Lacombe, 1 939) [ripubblicato parzialmente in UFS, 40-42) 35. Discorsetto ai soggettisti, «Ci ne illustrato», a. X I I , n. 7, 14 febbraio 1 940, 6 Firmato: Elio Flaiano (già Patrizio Rossi) [Ree. a Ricchezza senza domani di Ferdinando Maria Poggioli , 1 939) [cfr. 94) [ripubb1icato in UFS, 46-48) 36. La primula «rosa n , «Cine illustrato», a. X I I , n . 8, 2 1 febbraio 1 940 , 6

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[Ree. a Un 'avventura di Salvator Rosa di Alessandro Blasetti, 1 940] [ ripu bblicato in UFS, 49-5 1 ] 3 7 . Equivoco del tabarin, «Cine illus trato>> , a. X I I , n . 9, 28 febbraio 1 940, 6 [Ree. a Taverna rossa di Max Neufeld , 1 940] [ripubblicato in UFS, 52-54] i 38. "secondo episodio, «C in e illustrato>>, a. X I I , n. l O, 6 marzo 1 940, 6 [Ree. a Three Smart Girls Grow Up (Le tre ragazze in gamba crescono) di Henry Koster, 1 939] [ripubblicato in UFS, 55-57]

39. Chirurgia drammatica, «Cine illus trato» , a. X I I , n . I l , 13 marzo 1 940, 6 [Ree. a Il ponte di vetro di Goffredo Alessandrini, 1 940] [ripubblicato in UFS, 58-60] 40. Protagonista, l 'atmosfera, «Cine illustrato», a. X I I , n. 1 2, 20 marzo 1 940, 6 [Ree. a je t 'attendrai (Smarrimento) di Léonide Moguy, 1 939] [ripubblicato in UFS, 6 1 -63] 4 1 . Molte ragazze in gamba, «Cine illustrato», a. X I I , n . 1 3 , 27 marzo 1 940, 6 [Ree. a Jeunes fil/es en détresse anche La lo i sacrée (Ragazze in perico­ lo) di Georg Wilhelm Pabst, 1 939] [ripubblicato in UFS, 64-66] 42. Jules Berry e Vera Korène, «Cine illustrato», a. X I I , n. 1 4, 3 aprile 1 940, 6 [Ree. a Café de Paris ( Caffè Internazionale) di Yves Mirande e Georges Lacombe, 1 938] [ripubblicato in UFS, 67-69] 43. Connie, la preziosa, «C in e illustrato», a. X I I , n. 1 5 , l O aprile 1 940, 6 [Ree. a Service de luxe (Servizio di lusso) di Rowland W. Lee, 1 938] [ripubblicato in UFS, 70-72] 44. Cinema e falsa finanza, «Cine illustrato», a. X I I , n . 1 6, 1 7 aprile 1 940, 6 [Ree. a Centomila dollari di M ario Camerini, 1 940] [ripubblicato in UFS, 73-75] 45 . Castelli letterari, «C in e illustrato» , a. X I I , n . 1 7, 24 aprile 1 940, 6 [Ree. a Cavalcade d'amour ( Cavalcata d'amore) di Raymond Ber­ nard, 1 939] [ripubblicato in UFS, 76-78] 46.

De Sica regista-attore, «Cine illustrato» , a. X I I , n. 1 8, 1° maggio 1 940, 6

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[Ree. a Rose scarlatte di Vittorio De Sica, 1 940] [ripubblicato in UFS, 79-8 1 ] 47. Pessimismo di jean Renoir, «Cine illus trato», a . X I I , n . 1 9, 8 mag­ gio 1 940, 6 [Ree. a Les bas-fonds ( Verso la vita) di Jean Renoir, 1 936] [ripubblicato in UFS, 82-84] 48. Bing Crosby e Joan Blondell, «Cine illus trato))' a. X I I , n. 20, 1 5 maggio 1 940, 6 [Ree. a East Side of Heaven (Angolo di cielo) di David Butler, 1 939] [ripubblicato in UFS, 85-86] 49 . Maglioni a righe, «Cine illus trato))' a. X I I , n. 2 1 , 22 maggio 1 940, 6 [Ree. a È sbarcato un marinaio di Piero Ballerini, 1 940] [ripubblicato in UFS, 87-89] 50. Cinema da guerra, «Cine illustrata»), a. X I I , n. 22, 29 maggio 1 940, 6 [Ree. a La danseuse rouge (Perdizione) di Jean-Paul Paulin, 1 93 7 ] [cfr. 2 1 ] [ripubblicato parzialmente in UFS, 90-92] 5 1 . Personaggi restaurati, «Cine illus trato))' a. X I I , n . 23, 5 giugno 1 940, 6 [Ree. a Suez. di Allan Dwan, 1 938; A Royal Divorce (Napoleone e Giuseppina Beauhamais) di J ack Raymond, 1 938] [cfr. 24 e 92] [ripubblicato in UFS, 93-95] 52. Wallace, il giallo, «Cine illus trata»), a. X I I , n . 24, 1 2 giugno 1 940, 6 [Ree. a The Gaunt Stranger ( Ossessione) di Walt Forde, 1 939] [ripubblicato in UFS, 96-98] 53. Lanterna magica, «Cine illus trato))' a. X I I , n. 25, 19 giugno 1 940, 6 [Ree. a Trappola d'amore di Raffaello Matarazzo, 1 940; The Moose Hunters ( Topolino cacciatore) di W alt Disney, 1 93 7] [ripubblicato in UFS, 99- 1 0 1 ] 54. Mal d'Africa, «Cine illus trato)) , a . X I I , n . 26, 2 6 giugno 1 940, 6 [Ree. a Bar du Sud (Bar del Sud) di Henri F escourt, 1 938; La can­ cion de Aixa anche Marocco (Marocco) di Florian Rey, 1 938] [cfr. 4 e 95] [ripubblicato in UFS, 1 02- 1 04] 55. Attori brutti, «Cine illustrata»), a. X I I , n . 27, 3 luglio 1 940 , 6 [Ree. a Maria Chapdelaine (Il giglio insanguinato) çli julien Duvivier e Charles Spaak, 1 934; a Kate Plus Ten (Il treno scomparso) di Regi­ nald Denham, 1 938]

294

[cfr. 27 e 96] [ripubblicato in UFS, 1 05- 1 07] 56. Giallo carico, «Ci ne illustrato», a. X I I , n. 28, I O luglio 1 940, 6 [Ree. a Dein Le ben gehort mir ( Tu mi appartieni) di J ohannes Meyer, 1 939] [ripubblicato in UFS, 1 08- 1 1 1 ] 5 7 . Destino delle bisbetiche, «Ci ne illustrato» , a. X I I , n. 29, l 7 luglio 1 940, 6 [Ree. a La rubia del camino (La bionda della strada) di Manuel Ro­ mero] [ripubblicato in UFS, 1 1 2- 1 1 5] 58. Attualità calda, >, a . X I I , n . 52, 25 dicem­ bre 1 940, 6 [Ree. a Ritorno di Géza von Bolvary, 1 940] [ripubblicato in UFS, 1 82- 1 83] 8 1 . Alessandro e la farsa, «Mediterraneo», a. XI, 25 gennaio 1 94 1 , 1 3 [Ree. a Alessandro sei grande! di Carlo Ludoyico Bragaglia, 1 94 1 ] 82. L'eterna illusione, «Documento», a . I , n . 2 , febbraio 1 94 1 , 38 [Ree. a You Can't Take /t With You (L'eterna illusione) di Frank Ca­ pra, 1 938] [ripubblicato in LA C, 34-36] 83 . La reginetta delle nevi, «Mediterraneo» , a. X I , 1° febbraio 1 94 1 , 1 4 [Ree. a Winter Carnival (La reginetta delle nevi) d i Charles F. Riesner, 1 939] ·

84. L'eterna illusione, « Mediterraneo», a. X I , 8 febbraio 1 94 1 , 1 4- 1 5 Siglato: E . F .

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[Ree. a You Can 't Take /t With You (L'eterna illusione) di Frank Ca­ pra, 1 938] 85. Il vagabondo dell 'isola. Una inebriante notte di ballo, > o trovata . La facile storia, «Mediterraneo», a. X I , 1 5 marzo 1 94 1 , 1 4 Siglato: E . F. [cfr. 1 0 l ] 92. Restauri al personaggio. * Tutti romantici, «Mediterraneo» , a . X I , 29 marzo ' l 94 1 , 14 [* cfr. 24 e 5 1 ] 93. Marco Visconti. Fanti e piloti nel deserto sirtico, «Documento», a . I , n . 4, aprile 1 94 1 , 20 Contrassegnato: * * * [Ree. a Marco Visconti d i Mario Bonnard , 1 94 1 ; a u n documenta­ rio di Romolo Marcellini] 94. A caccia del soggetto. La «vita moderna», «Mediterraneo» , a. X I , 5 aprile 1 94 1 , 1 4 Siglato: E. F . [Ree. a My Man Godfrey (L'impareggiabile Godfrey) di Gregory L a Cava, 1 936; a Danger - Love a t Work ( Quei cari parenti!) di Otto Preminger, 1 93 7 [cfr. 35]

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95. Mal d'Africa. * Vita difficile del caratterista, «MediterraneO>), a. X I , 1 2 aprile 1 94 1 , 1 3 [* cfr. 4, 54 e 69) 96. Attori brutti, «MediterraneO>) , a. XI, 19 aprile 1 94 1 , 1 4 [cfr. 2 7 e 55) 97. Piccolo mondo antico, «DocumentO>) , a. I , n. 5, maggio 1 94 1 , 38 Contrassegnato: * * * [Ree. a Piccolo mondo antico d i Mario Soldati, 1 94 1 ] [ripubblicato i n LA C, 38-39) 98. Farsa alla crema, «Documento))' a. I, n. 6, giugno 1 94 1 , 42 Contrassegnato: * * * [Ree. a Wiener Geschichten ( Caffi viennese) di Géza von Bolviiry, 1 940) [cfr. 77] ·

99. De/ fondale, «Documento)), a. I , n . 7, luglio 1 94 1 , 26 Contrassegnato: * * * [cfr. 90, 1 29) [ripubblicato LA C, 39-42) 1 00. Un mostro a dispense, «DocumentO>) , a. I, n. 8, agosto 1 941 , 39 Contrassegnato: * * * [Ree. a The Man They Could Not Hang (L'uomo che non poteva essere impiccato) di Nick Grinde, 1 939) [cfr. 67) [ripubblicato in LA C, 42-44) 1 0 1 . Taglio e trovata, «DocumentO>), a. I, n. 9, settembre 1 94 1 , 36 Contrassegnato: * * * [cfr. 9 1 ) [ripubblicato parzialmente i n LA C, 44-45) 1 02. Qualcosa di nuovo *. Nessuna novità, «Documento))' a. I, n. 1 2 , di­ cembre 1 94 1 , 42 Contrassegnato: * * * [ *ripubblicato i n LA C, 46-47) 1 03 . Letture rosa, «Documentm), a. I I , n. l , gennaio 1 942, 38 Contrassegnato: * * * [Ree. a Rebecca (Rebecca, la prima moglie) d i Alfred Hitcheoek, 1 940) 1 04. Romanzo e schermo, «Documento))' a. I l , n. 2, febbraio 1 942, 22 Contrassegnato: * * * [Ree. a I promessi sposi di Mario Camerini, 1 94 1 ] [cfr. 1 221 [ripubblicato in LA C, 47-50) ·

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1 05. Abbonàti al sogno. * Particolari, «Documento», a. I I , n. 4, aprile 1 942, 2 1 Siglato: e . f. [*ripubblicato in LA C, 50-52] 1 06. I piedi sul piatto, «Cinema)) ' a. V I I I , n. 1 65, IO maggio 1 943, 268269 [ ripubblicato in Orio Caldiron, l/ lungo viaggio del cinema italiano. Antologia di ((Cinema>> 1936-1943, Marsilio, Padova 1 965, 27 1 -272] 1 07. Cartoline senza destinatario, > , a. I I , n. 1 5 , 1 5 aprile 1 945, 5 [Ree. a The Foreman Went to France (Audace avventura) di Charles Frend, 1 942] 1 1 6. Ossessione, «Domenica)) ' a. I I , n. 1 6 , 22 aprile 1 945, 5 [Ree. a Ossessione di Luchino Visconti, 1 942-43] [ripubblicato in LAC, 67-69] 1 1 7. La signora in nero, «Domenica)> , a. I I , n. 1 7 , 29 aprile 1 945 , 7 [Ree. a La signora in nero di Nunzio Malasomma, 1 943-44] 1 1 8. La porta del Cielo, «Domenica)> , a. I I , n. 1 8, 6 maggio 1 945, 5 [Ree. a La porta del cielo di Vittorio De Si ca, 1 944] [ ripubblicato in LA C, 69-7 1 ] 1 1 9. I ((docum-enti» dello schermo, «Domenica>), a . I I , n . 1 9 , 1 3 maggio 1 945, 7 [Ree. a La grande illusion (La grande illusione) di jean Renoir, 1 93 7 ; a Al/ Quiet o n the Western Front (Niente di nuovo all'Ovest) d i Lewis

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Milestone, 1 930; a The Generai ( Come vinsi la guerra) di Buster Keaton e Clyde Bruckman, 1 926; Shoulder Arms ( Charlot soldato) di Charlie Chaplin, 1 9 1 8] [cfr. 1 43 e 1 44] [ripubblicato in LA C, 83-85] 1 20. L'incubo. Sette ragazze innamorate, «Domenica» , a. I I , n. 2 1 , 27 maggio 1 945, 5 [Ree. a Nightmare (Incubo) di Ti m Whelan, 1 942 ; a Seven Sweet­ hearts (Sette ragazze innamorate) di Frank Borzage, 1 942] 1 2 1 . Due nella timpesta. * Volo senza ritorno, «Domenica» , a. I I , n. 22 , 3 giugno 1 945, 5 [Ree. a Millions Like Us (Due nella tempesta) di Frank Launder e Sidney Gilliatt, 1 943 ; a One of Our Aircraft is Missing ( Volo senza ri­ torno) di Michael Powell e Emeric Pressburger, 1 942] [* ripubblicato in LA C, 7 1 -73] 1 22 . E le stelle stanno a guardare, «Domenica» , a. II, n . 23, 10 giugno 1 945, 5 [Ree. a The Stars Look Down (E le stelle stanno a guardare) di C arol Reed, 1 940] [cfr. 1 04] 1 23 . Nostra città, «Domenica», a. I I , n. 24, 1 7 giugno 1 945, 5 [Ree. a Our Town (La nostra città, anche Piccola città) di Sam Wood, 1 940] [ripubblicato in LA C, 73- 76] 1 24. Le vie della gloria, «Domenica>> , a. I I , n. 25, 24 giugno 1 945, 5 [Ree. a The Way Ahead (La via della gloria) di Carol Reed, 1 943] 1 25 . Amanti sen;:;a domani. Il grido interrotto, «Domenica», a. I I , n . 26, l o luglio 1 945, 5 [Ree. a Histoire de rire (Amanti sen;:;a domani) di Marcel L'Herbier, 1 94 1 ; a Rislcy Business (Il grido interrotto) di Arthur Lubin, 1 939] 1 26. Quartieri alti, «Domenica», a. I I , n. 28, 1 5 luglio 1 945, 5 [Ree. a Quartieri alti di Mario Soldati, prod . 1 943, ed. 1 944-45] [ripubblicato in LA C, 76-77] 1 27 . Ribalta di gloria, «Domenica», a. II, n. 29, 22 luglio 1 945, 5 [Ree. a Yankee Doodle Dandy (Ribalta di gloria) di Michael Curtiz, 1 942] 1 28. Viaggio sen;:;a fine, «Domenica», a. I l , n. 30, 29 luglio 1 945, 5 [Ree. a The Long Voyage Home ( Viaggio sen;:;a jìne, poi: Lungo viaggio di ritorno) di John Ford, 1 940] [ripubblicato in LA C, 7 7-79] 1 29. Il be/fondale, «Domenica», a. I I , n . 32, 1 2 agosto 1 945, 5 [cfr. 90 e 99]

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1 30. I Dieci Comandamenti, «Domenica)), a. I I , n. 33-34, 26 agosto 1 945, 5 [Ree. a I dieci comandamenti di Giorgio W. Chili, 1 945] [ripubblicato in LA C, 79-8 1 ] 1 3 1 . Viviane, «Domenica», a. I I , n . 35, 2 settembre 1 945, 5 [Ree. a Cartacalha di Léon Mathot, 1 942] 1 32. Frutto acerbo, «Domenica)) ' a. I I , n. 36, 9 settembre 1 945, 5 [Ree. a Between Us Girls (Frutto acerbo) di Henry Koster, 1 942] 1 3 3 . Alle 6 di sera dopo la guerra, , a. I I , n. 3 7 , 16 settembre 1 945, 5 [Ree. a V sest ' casov vecera posle vojny (Alle sei di sera dopo La guerra) di I van Aleksandrovic Pyr' ev, 1 944] 1 34. Cinematografia internazionale al festival romano. The Thief of Baghdad. Les enfants du paradis. * Città aperta, • • «Domenica», a. I l , n. 39, 30 settembre 1 945, 5 [Ree. a The Thief oJ Baghdad (Il ladro di Bagdad) di Michael Po­ well, Ludwig Berger, Tim Whelan, 1 940; Les enfants du paradis (Amanti perduti) di Marcel Carné, 1 945; Roma città aperta di Ro­ berto Rossellini, 1 945] [* e * * ripubblicati in LA C, 8 1 -82] 1 35 . Lenin e Mr. Gibbons, «Domenica», a. I I , n. 40, 7 ottobre 1 945, 5 [Ree. a Lenin v 1918 godu (Lenin nell'anno 1918) di Michail ll'ic Romm, 1 939; a Celovek N' 217 (Il n. 217) di Michail l l'ic Romm, 1 944; a Blithe Spirit (Spirito allegro) di David Lean , 1 944] 1 36. Les visiteurs du soir, «Domenica», a. I I , n. 4 1 , 1 4 ottobre 1 945, 5 [Ree. a Les visiteurs du soir (L'amore e il diavolo) di Marcel Carné, 1 942] 1 3 7 . Partenze e ritorni, «Domenica», a. I I , n. 43, 28 ottobre 1 945, 5 1 38. Giorni di gloria, «Domenica», a. I I , n. 44, 4 novembre 1 945 , 5 [Ree. a Giorni di gloria di Giuseppe De Santis , Marcello Pagliero, Mario Serandrei e Luchino Visconti, 1 945] 1 39. Si ricomincia, «Domenica», a. I I , n. 45 , 1 1 novembre 1 945, 5 1 40. Allucinazioni per tutti, «Cinelandia», a. l , n . l O, 7- 1 4 aprile 1 946, 3 Siglato: E. F. [Ree. al volume di Parker Tyler, Hollywood Hallucination, McLel­ land , Toronto 1 944; ree. a Goupi-Mains-Rouges (La casa degli incu­ bi) di J acques Becker, 1 943; a Die letzte Chance, anche: La dernière chance (L'ultima speranza) di Leopold Lind tberg, 1 945] 1 4 1 . I sogni del pomeriggio, «Cinelandia», a . l , n . l O, 7- 1 4 aprile 1 946, 7 Firmato: Carlo Patrizi [cfr. 1 05]

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1 42 . Tabacchiera, «Film Rivista» , a. I I I , n. 9, 1 5 giugno 1 946, 6 1 43 . La macchina per fare gli eroi, «La Voce repubblicana», a. XXVI I , n . 250, 2 6 ottobre 1 94 7, 3 [cfr. 1 1 9 e 1 44] 1 44. La natura copia l'arte e la guerra il cinematografo, «Corriere di Mila­ no» , a. I I , n. 269, 1 3 novembre 1 94 7, 3 [cfr. 1 1 9 e 1 43] 1 45 . Diogene e Charlot nella stessa botte. «Saggio di storia dell 'ottimi­ smo>>, «Corriere di Milanm> , a. I I , n. 275, 20 novembre 1 947, 3 [cfr. 1 1 1 e 270] 1 46. Il morto risuscitò due volte, , a. XXVI I I , n . 46, 22 febbraio 1 948, 3 1 4 7 . Pornografia sentimentale, «Bis>>, a. I , n. l , 1 6 marzo 1 948, 1 5 [Ree. a A manti senza amore di Gianni Franciolini, 1 947-48; For Whom the Beli Tolls (Per chi suona la campana) di Sam Wood , 1 943; Humoresque (Perdutamente) di Jean Negulesco, 1 946-4 7] 1 48. Il nostro dolore sullo schermo, «Bis>>, a. I, n . 2, 23 marzo 1 948, 1 4 [Ree. a Gioventù perduta di Pietro Germi, 1 947-48] 1 49. Capra o la macchina dei nodi alla gola, «Bis>>, a. I, n. 3, 30 marzo 1 948, 1 4 [Ree. a Ninotchka d i Ernst Lubitsch, 1 939 e a lt 's a Wonderful Life (La vita è meravigliosa) di Frank Capra, 1 946] [ripubblicato in LA C, 86-89] 1 50. O stupidi o niente, «Bis» , a. I, n. 4, 6 aprile 1 948, 1 3 1 5 1 . Sfregiatissima Assunta, «Bis», a . I , n . 5, 1 3 aprile 1 948, 1 4 [Ree. a Assunta Spina di Mario Mattoli; 1 947-48; a Monsieur Ver­ doux di Charlie Chaplin, 1 947; e a Le silence est d'or (Il silenzio è d'oro) di René Clair, 1 94 7] [ripubblicato in LA C, 89-92] 1 52 . Caino persuade Abele annoia, «Bis» , a. I, n. 6, 20 aprile 1 948, 1 2 [Ree. a Liftboat (Prigionieri dell 'oceano) di Alfred Hitchcock, 1 94344] 1 53 . Gli anni migliori, «Bis», a. I , n . 7 , 27 aprile 1 948 [Ree. a The Best Years of Our Lives (/ migliori anni della nostra vita) di William Wyler, 1 946 e a The Petrified Forest (La foresta pietrificata) di Archie Mayo, 1 936] [ripubblicato in LA C, 92-95� ·

1 54. 'A Madunnella, «Bis», a. I , n . 8, 4 maggio 1 948 [Ree. a Sea of Grass (Il mare d'erba) di Elia Kazan, 1 947; 'A Madun­ nella di E. Grassi] [ripubblicato in LA C, 95-98]

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1 55. Cappelli volanti, «Bis��, a. I , n. 9, I l maggio 1 948, I O [Ree. a Vormittagsspuk di Hans Richter, 1 928; a They Mel in Bom­ bay (A vventura a Bombay) di Clarence Brown, 1 94 1 ] [ripu bblicato in LA C, 98- 1 00] 1 56. Western italiano, «Bis», a. I, n. IO, 1 8 maggio 1 948, 9 [Ree. a Frontier Gal (La fiamma dell 'Ovest) di Charles Lamont, 1 945] 1 5 7. Lo sciopero dei milioni, ��Bis��, a. I, n. l l , 25 maggio 1 948 [Ree. a Lo sciopero dei milioni di Raffaello Matarazzo, 1 948] [ripubblicato in LA C, 1 00- 1 02] 1 58. Gli abissi del subcosciente, �, a. I I , n. 4, 28 gennaio 1 950, 1 5 [Ree. a Il lupo della Sila di Duilio Coletti, 1 949-50] 2 1 2. Ritratto involontario, «11 Mondo», a. I I , n. 5, 4 febbraio 1 950, 1 5 [Ree. a L'imperatore di Capri di Luigi Comencini, 1 949-50] [ripubblicato in LA C, 1 53- 1 55] 213. È primavera, , a. I I , n. 1 5 , 1 5 aprile 1 950, 1 5 [Ree. a Air force (A rcipelago in fiamme) di Howard Hawks, 1 943; Stand by for Action (Forzate il blocco) di Robert Z. Leonard , 1 943] 222. l piaceri, «Il Mondo», a. I I , n. 1 6 , 2 2 aprile 1 950, 1 5 [ripubblicato in LA C, 1 64- 1 65] 223. Campane difficili, «Il Mondo», a. I I , n. 1 9 , 1 3 maggio 1 950, 1 5 [Ree. a A Be/l for Adano ( Una campana per Adano) di Henry King, 1 945] [ripubblicato in LA C, 1 66- 1 67]

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224. Onesti ritorni, «Il Mondo», a. I I , n. 20, 20 maggio 1 950, 1 5 [Ree. a jour de flte ( Giorno di festa) d i Jacques Tati, 1 949] [ripubblicato in LA C, 1 6 7- 1 69] 225. Perdutamente, , a. I I , n. 22, 3 giugno 1 950, 1 5 [Ree. a Vogliamoci bene di Paolo W . Tamburella, 1 950] 227. Gli occhi e i ricordi·, «Il Mondo», a. I I , n. 23, l O giugno 1 950, 1 5 [Ree. a Aux yeux du souvenir ( Con gli occhi del ricordo) di J ean Delan­ noy, 1 948] [ripubblicato in LA C, 1 69- 1 7 1 ] 228. Francis. La terra trema,* «Il Mondm>, a . I I , n . 24, 1 7 giugno 1 950, 15 [Ree. a Francis (Francis, il mulo parlante) d i Arthur Lubin, 1 950; La terra trema di Luchino Visconti, prod . 1 948-49, ed . 1 950] [ * ripubblicato in LA C, 1 7 1 - 1 72] 229. Ballata berlinese, «Il Mondm>, a. I I , n. 25, 24 giugno 1 950, 1 5 [Ree. a Berliner Ballade (Ballata berlinese) di Robert Adolf Stem­ mle, 1 948] [ripubblicato in LA C, 1 72- 1 74] 230. Dannunziana, «Il Mondo», a. I I , n. 26, 1° luglio 1 950, 1 5 [Ree. a Gli amori di Emone e Antigone di Mario C aserini, 1 908; a La donna nuda di Carmine Gallone, 1 9 1 4; a Cenere di Febo Mari, 1 9 1 6 [ripubblicato i n LA C, 1 74- 1 76] 23 1 . Douglas e C. , «Il Mondo», a. I I , n. 27, 8 luglio 1 950, 1 5 [ripubblicato i n LA C, 1 76- 1 7 7 ) 2 3 2 . Due libri, «Il Mondo», a . I I , n. 28, 1 5 luglio 1 950, 1 5 [Ree. a due volumi sul cinema: Daniel Parker, Puissance et respon­ sabilité dufilm, Editions de Ciné-France, Paris 1 939; Cinema italia­ no oggi, ed . Carlo Bestetti, Roma 1 950] 233. Il traditore e ifuorilegge, «Il Mondo» , a. I I , n. 29, 22 luglio 1 950, 1 5 [Ree. a I fuorilegge d i Aldo Vergano, 1 950] [ripubblicato in LA C, 1 78- 1 79] 234. 5 documentari, «Il Mondo», a. I I , n. 30, 29 luglio 1 950, 1 5 [Ree. ai cinque documentari di Giorgio Moser] 235. Romanzi in scatola, «Il Mondo», a. I I , n. 32, 1 2 agosto 1 950, 1 5 [Ree. a Of Human Bondage (Schiavo d'amore) di Edmund Goulding, 1 946] 236. Noi artisti, «Il Mondm>, a. I I , n. 34, 26 agosto 1950, 1 5 [Ree. a Rapture (In estasi) di Goffredo Alessandrini, 1 949]

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237. Una vita, «Il Mondo>>, a. I I , n . 40, 7 ottobre 1 950, 1 5 [Ree. a The }olson Story (Al jolson) di Alfred E . Green , 1 946) 238. Napoli e dintorni, «Il Mondo» , a. I I , n. 4 1 , 1 4 ottobre 1 950, 1 5 [Ree. a Napoli milionaria di Eduardo De Filippo, 1 950] [ripubblicato in LA C, 1 79- 1 8 1 ) 239. Anselmo e gli altri, «Ii Mondo», a . I I , n . 42 , 2 1 ottobre 1 950, 1 5 [Ree. a La sposa non può attendere già: Anselmo ha fretta d i Gianni Franciolini, 1 950) 240. In ritardo o quasi, «Il Mondo», a. I I , n. 43, 28 ottobre 1 950, 1 5 [Ree. a Domani è troppo tardi di Léonide Moguy, 1 950) [ripubblicato in LA C, 1 8 1 - 1 83) 24 1 . Un cielo per tutti, «Il Mondo», a. I I , n . 44, 4 novembre 1 950, 1 5 [Ree. a E più facile che un cammello . . . ovvero Pour l 'amour du ciel di Luigi Zampa, 1 950) [ripubblicato in LA C, 1 83- 1 84) 242. Cristo a Brooklyn, «Il Mondo», a. I I , n. 45, I l novembre 1 950, 1 5 [Ree. a Give Us This Day ( Cristo fra i muratori) di Edward Dmy­ tryk, 1 949) [ripubblicato in LA C, 1 85- 1 86) 243. ·Prima comunione, « I i Mondo», a. I I , n. 46, 18 novembre 1 950, 1 5 [Ree. a Prima comunione di Alessandro Blasetti, 1 950) [ripubblicato in LA C, 1 86- 1 88) 244. Realismo o retorica, «