La Scena Dell'Inganno Finzioni Tragiche Nel Teatro Di Seneca [1° ed.]
 9782503554822, 2503554822

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La scena dell’inganno Finzioni tragiche nel teatro di Seneca

monothéismes et philosophie Collection dirigée par Carlos Lévy

La scena dell’inganno Finzioni tragiche nel teatro di Seneca

Francesca Michelon

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Questo libro è stato pubblicato grazie al contributo dell’Istituto Italiano di Scienze Umane di Firenze e dell’Université Paris Sorbonne - Paris IV.

©2015, Brepols Publishers n.v., Turnhout, Belgium All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording, or otherwise, without the prior permission of the publisher.

D/2015/0095/168 ISBN 978-2-503-55482-2 Printed on acid-free paper.

INDICE

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Introduzione

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PARTE PRIMA. LESSICO E MORFOLOGIA DELL’INGANNO 15 Capitolo I. L’inganno nel teatro di Seneca: lessico, personaggi, situazioni 17 1. La macchinazione dell’inganno: fraus e dolus 22 Ulisse, Andromaca, Elena in Troades 22 L’inganno, crimen endogeno: Thyestes e Phoenissae 36 Thyestes 36 Phoenissae 45 Agamemnon, Medea e Phaedra 46 Il rapporto con la tradizione 46 Il rapporto con l’azione 50 2. Gli strumenti dell’inganno 54 La dissimulazione del sentimento 54 Il nascondiglio 59 3. Le fallaces umbrae dell’Oltretomba 61 4. Falsa pro ueris uidere: fallere, fallax, falsus e il contrasto tra verità e apparenza 64

INDICE

PARTE SECONDA. GLI SCENARI DELL’INGANNO: AULA E NATURA 73 Capitolo II. Il rapporto tra finzione e potere nella cornice dell’aula 75 1. Il rapporto tra finzione e potere nel quadro storico del principato 82 Tiberio dissimulatore 82 Seneca e gli anni neroniani 91 2. Il rapporto tra finzione e potere nel teatro senecano tra letteratura e realtà romana 108 Quanti constant regum amicis bona consilia: la pericolosità del consiglio sincero 110 Laus falsa e adulatio 125 Veritas e securitas all’interno dell’aula 137 Fides e fraus nel sistema di valori del regno tragico 146 Capitolo III. L’ambiente naturale: insidie e artifici 159 1. Le insidie della natura: ambiguità del paesaggio di Ippolito nella Phaedra 162 Il paesaggio naturale descritto nel prologo (v. 1-84) 163 La natura ostile nella rhesis della morte di Ippolito (v. 1000-1114) 176 Fraude remota: l’innocenza dell’aurea aetas (v. 483-564) 178 2. Paesaggio naturale e natura artificiale nel Thyestes: la forza di alterazione del potere sull’ambiente 188 La scenografia ‘esterna’ al dramma: l’autenticità della vita silvestre e lo spazio sine arte della casa (v. 412-419; 446-453) 190 La scenografia ‘interna’ al dramma: l’alterazione dell’ambiente naturale e lo spazio del potere (v. 455‑467; v. 641-664) 200 Tabelle del lessico della finzione e dell’inganno nel teatro di Seneca

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Bibliografia

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Indice delle opere di Seneca e dei passi citati

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Indice degli autori antichi e dei passi citati

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Indice degli autori moderni citati

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AVVERTENZA

La scena dell’inganno. Finzioni tragiche nel teatro di Seneca è il frutto di una rielaborazione per la stampa della tesi di dottorato da me discussa presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane di Firenze (ora Scuola Normale Superiore), in cotutela con l’Université Paris Sorbonne-­Paris IV, istituzioni che, con il loro contributo, hanno reso possibile questa pubblicazione e alle quali va la mia gratitudine. Nel corso della mia formazione ho avuto la fortuna di incontrare docenti che univano al grande spessore scientifico qualità umane straordinarie e che mi hanno sempre sostenuta e incoraggiata con consigli validi e preziosi. Ciò ha contribuito in maniera determinante non solo a rendere più proficua e ricca la mia ricerca, ma anche a dissipare dubbi, rinnovare entusiasmi, affrontare incertezze e difficoltà. A tutti loro va il mio più sincero e affettuoso ringraziamento. Desidero ringraziare in modo particolare il Prof. Carlos Lévy, che ha accolto questo volume nella prestigiosa collana da lui diretta e ha seguito ogni fase del mio lavoro con scrupolo e precisione, credendo − fermamente e da subito − nella sua pubblicazione e prodigandosi non poco perché questa si realizzasse. Un ringraziamento sentito alla Prof.ssa Rita Pierini, che ha seguito i miei studi senecani con acute e rigorose osservazioni, guidandomi nel labirinto di una bibliografia sterminata e manifestando disponibilità costante al dialogo e al confronto. Grazie ai Professori Giusto Picone, Hélène Casanova-Robin e Gianpiero Rosati, membri della commissione esaminatrice, che hanno fornito spunti e suggerimenti per ampliare e migliorare la ricerca. Voglio anche rivolgere un pensiero particolare alla cara memoria della Prof.ssa Jacqueline Dangel, con la quale ha avuto inizio − nel mio

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primo soggiorno parigino − il percorso senecano. Ricordo la sua bella intelligenza, la sua grande forza e la dedizione allo studio e agli studenti: molto di ciò che è confluito in questo volume risente delle discussioni e degli stimoli ricevuti nel dialogo con lei. Un ringraziamento di cuore va al mio Maestro, il Prof. Giancarlo Mazzoli, che ha seguito il mio cursus studiorum fin dai primi anni universitari a Pavia e che, in tutto questo tempo, attraverso Firenze e Parigi, è sempre stato un punto di riferimento imprescindibile: il suo vivace ingegno, l’incomparabile conoscenza senecana e le sue eccezionali doti umane rimangono per me gli insegnamenti più preziosi. Grazie alla mia famiglia, che mi ha sempre lasciata libera di scegliere, senza mai far venir meno il supporto e l’incoraggiamento. Ringrazio infine Daniele, per esserci sempre stato e per l’aiuto fondamentale: queste pagine sono anche un po’ sue. Di ogni menda o mancanza sono da considerare, naturalmente, la sola responsabile.



INTRODUZIONE Only animals who are below civilisation and the angels who are beyond it can be sincere. Human beings are, necessarily, actors who cannot become something before they first pretended to be it; and they can be divided not into the hypocritical and the sincere, but into the sane who know they are acting and the mad who do not. W. H. Auden, The Age of Anxiety

Questo studio è dedicato all’analisi delle situazioni di inganno e finzione presenti nel corpus tragico di Seneca. Si è dunque scelto di approfondire una tematica la cui rilevanza si percepisce anche solo considerando la dinamica stessa della messa in scena teatrale, già di per sé luogo di maschera e travestimento, di fittizia rappresentazione e di momentanea illusione. Del resto, nell’ampio bacino comune della composizione drammatica, tragica e comica, l’inganno si inserisce come tratto condiviso, per quanto diversamente declinato e necessariamente animato da intenti differenti. Elemento fondamentale dei miti teogonici e cosmogonici, simbolo di astuzia e di scaltra intelligenza1, nel corso della storia del teatro antico l’inganno si fa prerogativa sempre più umana: al dio che inganna si sostituisce l’inganno unicamente e interamente umano, che si realizza come meccanismo fondamentale dell’intrigo drammatico o come lacerante forma di errore interpretativo, che agisce sull’individuo deformandone le percezioni e distorcendone la realtà2. Entrambe le tipologie sono presenti nei testi senecani, il cui esame si rivela tanto più interessante se si ricorda la loro collocazione all’interno della produzione letteraria latina. Com’è ben noto, infatti, ricostruire la storia del genere tragico a Roma è estremamente difficile, sia per la condizione di lacunosità in cui versano i testi d’età arcaica, sia per il vuoto pressoché totale dell’età augustea, nonostante si conosca, per questo periodo, il coinvolgimento di nomi di un certo rilievo come Vario Rufo, Asinio Pollione, Ovidio3. Certamente, l’opera poetica di Seneca si inserisce in un momento di grande È di riferimento per questi aspetti Detienne-Vernant 1974. Si veda a riguardo Petrone 1983, passim. 3 Cfr. Della Corte 1983. 1 2

Introduzione

e nuova vitalità per la produzione tragica a Roma, che vede coinvolti in prima fila esponenti della classe senatoria: la composizione drammatica resta, almeno fino all’età flavia, una delle forme letterarie in cui si esprime l’opposizione al nuovo ordine politico, prima di avviarsi a una completa trasformazione nelle forme e nel linguaggio che la porterà a confluire − oramai solo come repertorio mitico cristallizzato − in altri tipi di spettacoli (primo fra tutti il pantomimo4) e nella letteratura di consumo dell’età antonina. Da questa più vasta prospettiva si capisce come, trattandosi delle uniche tragedie romane conservatesi integre, gli scritti di Seneca siano la sola via attraverso la quale svolgere un’indagine completa ed esaustiva, in grado cioè di fornire un quadro sul punto, ancorché limitato esclusivamente a un autore e viziato delle incertezze relative alla fruizione del teatro senecano, vexata e longa quaestio, ancora intensamente dibattuta. Già oggetto di ricerca per quanto attiene il mondo greco e la commedia romana, in particolare plautina5, la tematica dell’inganno è rimasta invece del tutto marginale nella pur ricchissima bibliografia sulla tragedia senecana, dove si riscontra solo qualche contributo − incentrato su un singolo personaggio e su una scena particolare − o si scorrono semplici accenni, sparsi all’interno di studi ad altro intitolati6. Ne deriva, dunque, la mancanza di una sintesi globale che descriva la presenza e le caratteristiche dell’inganno senecano, mettendone in evidenza l’originalità e le peculiarità. La tematica costituisce un asse molto importante nella struttura del mondo tragico delineato da Seneca, che non si limita a riprendere un motivo della tradizione letteraria e drammatica, greca e romana, ma lo riveste di nuovo significato anche nel contesto di una riflessione più ampia, che guarda alla realtà contemporanea all’autore, cui è dedicata la seconda parte di questo volume. Certo, il rapporto con i modelli resta fondamentale, e lo dimostra lo spazio riservato dalla critica degli ultimi decenni a questo aspetto: si è assistito a una copiosa fioritura di articoli e di contributi, oltre che di commenti alle singole opere, dedicati proprio ad approfondire la conoscenza del rapporto tra la poesia del Cordovese e i suoi modelli greci e, appunto, grazie a tali ricerche, è stato possibile scoprire anche, almeno parzialmente, l’influsso della tragedia arcaica sulla composizione Gianotti 1991. Almeno Brotherton 1926 e Petrone 1983. 6 Soprattutto: Biondi 1984, p. 23 s.; Caviglia 1981; Corsaro 1991; Croisille 1964; Garbarino 1982; Grimal 1963; Guastella 2001, passim; Picone 1984, passim; Tarrant 1985, passim. 4 5

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Introduzione

drammatica senecana7. La posizione critica di Seneca nei confronti della letteratura arcaica è ben nota: l’analisi delle citazioni poetiche presenti o, al contrario, assenti nell’opera in prosa di Seneca, ha dimostrato l’atteggiamento non proprio indulgente del filosofo nei confronti della triade tragica latina, considerata canonica già da Cicerone in De or. 3, 7, 27 e paragonata a quella greca, formata da Eschilo, Sofocle ed Euripide. «Ennio è il principale bersaglio polemico di Seneca, Pacuvio non è affatto menzionato e Accio è presente nella prosa del filosofo in virtù d’un solo verso»: e, tuttavia, nonostante sembri manifestare «ben poco interesse per l’antica tragedia nazionale», in quanto autore di opere tragiche aventi come soggetti miti e tematiche già trattati dagli antecedenti romani, «come nel caso dei tragici greci, l’esistenza della sua produzione drammatica impedisce di credere che egli ne avesse scarsa conoscenza8». Inoltre, è interessante ricordare che il motivo dell’inganno appare nel teatro tragico romano fin dalle prime testimonianze a noi note − si pensi all’episodio che dà il titolo all’Equos Troianus di Livio Andronico − in alcuni casi proprio come tratto di originalità e di innovazione rispetto ai modelli greci. In tal senso si spiega il riferimento al dolus presente nel prologo della Medea di Ennio (208-216 Joc. [205-213 R.3]), ma del tutto assente nel testo euripideo dal quale l’autore latino sembra prendere le distanze. Il nesso per dolum non costituisce, come noto, una semplice innovazione sul piano linguistico, ma veicola anche una differente caratterizzazione dell’impresa argonautica, spostandone il baricentro. Il poeta greco aveva inteso presentare in maniera positiva la spedizione guidata da Giasone, attraverso il ricordo della conquista del vello d’oro e, soprattutto, del volo attraverso le rocce, che fa leva sull’aspetto divino, quasi miracolistico, delle gesta di uomini aristoi9. Nella rielaborazione Si ricordino almeno alcuni tra gli studi più significativi: per una prospettiva d’insieme sul teatro senecano e i modelli precedenti Canter 1925, p. 20-22; Runchina 1960, p. 3-17; Tarrant 1978; Aricò 1981; Dangel 2004 e 2004a; sulle affinità dei procedimenti stilistici tra Seneca e i tragediografi arcaici De Rosalia 1981 (con un buon panorama sulla bibliografia precedente) e De Rosalia 1988-1989. Per un confronto su singoli passi o su singoli drammi molto si ricava, passim, dai principali commenti: i testi più interessanti per il tema che è al centro di questo lavoro sono citati nei vari capitoli. 8 I passi sono citati da Mazzoli, (G.) 1970, p. 194 s. e n. 46, p. 195. Lo studio è di riferimento per ricostruire il giudizio di Seneca nei confronti di Ennio, p. 189-194 (oltre al quale sono imprescindibili le pagine di Prinzen 1998, p. 346-361) e di Accio, p. 194-198, unitamente a Degl’Innocenti Pierini 1977, p. 27-33 e Dangel 1990. Utili considerazioni sull’atteggiamento di Seneca nei riguardi degli autori arcaici sono presenti anche in Setaioli 1991. 9 Jocelyn 1967, ad loc. p. 351; Mastronarde 2002, ad loc. p. 162. 7

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Introduzione

enniana nel mito, invece, il riferimento all’inganno contribuisce a svilire la natura eroica di tale impresa e dei suoi protagonisti, quei delecti uiri risultati vincitori non grazie alla nobile uirtus, ma alla ben più umile arma del dolus10. A ciò si aggiunga che, nonostante le difficoltà di ricostruzione testuale e di attribuzione, che rendono arduo sia ricomporre la trattazione di questa tematica nel teatro arcaico, sia cogliere sfumature linguistiche o semantiche in singoli frammenti di incerta collocazione, la presenza di un vocabolario riconducibile a forme di finzioni o inganni di molteplice natura appare significativa già nella tragedia latina delle origini. Forme verbali che richiamano un inganno fondato su un linguaggio ambiguo, insidioso, seducente o su un fraudolento tergiversare (calui, lactare, frustrari, uanare), il lessico della finzione, del nascondere o del tacere, (fallere, clepere, clam, occulte, tacite) o ancora dell’astuzia e dell’accortezza connessa al pericolo di una macchinazione (astus, caute/cautim, machinari), in alcuni casi permettono altresì interessanti confronti con l’opera di Seneca, sia in riferimento a specifici personaggi o momenti drammatici, sia dal punto di vista più strettamente linguistico. Questo studio si articola in due sezioni: nella prima sono prese in esame la terminologia dell’inganno e della finzione e la loro morfologia, attraverso una classificazione del lessico, dei personaggi e dei loci drammatici. Si è cercato di far emergere sia le scelte lessicali dell’autore, sia i tratti attraverso i quali viene costruita l’azione fraudolenta, prima ideata, poi progettata con l’aiuto di personaggi minori, quindi messa in atto e infine svelata. Il confronto tra Ulisse e Andromaca ci guida a scoprire le strategie del dolus di successo, quello dell’Itacese, e ci svela l’illusorietà del progetto doloso immaginato dalla troiana come ultima speranza di salvezza per il popolo di Ilio; la frode si incarna nelle stirpi pelopide e labdacide come elemento genetico della domus, che, trasmesso di generazione in generazione, diventa tutt’uno con la lotta fratricida per il potere e per la conquista del regnum; in Agamennone, Medea, Fedra − opere in cui si avverte più forte il dialogo con i modelli − l’inganno diventa elemento allusivo, richiamo metateatrale, componente di quella fitta rete di colti rimandi e di evocative insinuazioni, con cui Seneca si rivolge ai dotti destinatari delle sue opere, ricordando il passato letterario e i precedenti tragici attraverso figure mitiche già pienamente consapevoli della loro identità e del loro ruolo. In appendice al testo, inoltre, sono riportate delle tabelle che sintetizzano i termini presi in considerazione e da cui Desbordes 1979, p. 57; Biondi 1980; Fantuzzi 1989, p. 124 e p. 127; Nosarti 1999, p. 58-61; Vogt-Spira 2000, p. 270; Rosato 2005, p. 56. 10

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si evince, anche visivamente, l’incidenza del motivo che qui si tratta. Del resto, basta scorrere il numero di occorrenze in ogni opera, indicato tra parentesi, cui si accompagna l’indicazione dei versi, per notare con chiarezza la densità del lessico dell’inganno tout court (trenta casi solo per dolus, ventisette per fraus) e di un corredo di altri vocaboli riconducibili a finzioni o a varie situazioni decettive (ad esempio, dodici occorrenze di decipere/deceptor, mentre vi sono addirittura ventidue casi di uso dell’aggettivo falsus e diciannove di fallax e del verbo fallere). La seconda sezione del volume si sposta invece su un altro aspetto: lo studio del tema da una prospettiva diversamente orientata, che poggia cioè sulla scenografia drammatica, sfondo dei dramata senecani, il regnum, da un lato, e l’ambiente naturale, dall’altro. Come si vedrà, non siamo qui di fronte a semplici cornici esterne, che contornano le vicende dei ghene mitici inquadrandoli in un peculiare quadro scenico, ma rappresentano anche e soprattutto elementi connotativi, in diretto e attivo rapporto con gli avvenimenti e con i personaggi. Nel primo caso, relativo cioè allo spazio del regnum, si è inteso indagare il rapporto tra finzione e potere, problema che si inserisce, come tratto rilevante, tanto nel mondo tragico immaginato dall’autore − dove al regno e alle dinamiche di conquista e conservazione del potere viene dato grande (e negativo) risalto − quanto nel mondo reale, oggetto delle riflessioni del filosofo e delle esortazioni rivolte a se stesso e ai contemporanei nei Dialogi e nelle Epistulae. Per meglio approfondire le implicazioni del problema è stata inserita una sintetica indagine, atta a ricostruire, a grandi linee, lo stato della questione negli anni del principato, quando, in concomitanza con gli importanti cambiamenti politici in corso nella struttura politica e sociale di Roma, il rapporto tra finzione e potere assume un nuovo significato. Dalla ricerca condotta sui testi tragici e dal costante confronto con le altre opere di Seneca, indispensabile per una visione d’insieme e per comprenderne fino in fondo anche l’esperienza poetica, sono emersi sia gli elementi di continuità del suo pensiero, sia le componenti più squisitamente drammatiche, esclusive ma esemplari prerogative del monde à l’envers del mito. L’analisi dei testi ha permesso di mettere in luce alcuni nuclei attorno a cui, soprattutto, si svolge la riflessione senecana, quali la pericolosità del buon consiglio rivolto al potere, il rapporto tra falsità e adulazione o tra verità e securitas; in tali tematiche, come si vedrà, troviamo sì le tracce della tradizione retorica e di una piena adesione al codice letterario tragico, ma al tempo stesso riconosciamo una forte sintonia con le preoccupazioni di Seneca filosofo, alla luce delle condizioni, ben più cogenti e drammaticamente vicine, della Roma storica.

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Anche trasferendosi sul piano del paesaggio naturale, attraverso una lettura di Phaedra e Thyestes, si può constatare lo stretto legame che unisce i personaggi, e le loro vicende, allo spazio che occupano. La natura di Ippolito, dall’aspetto dolce e idilliaco, già in filigrana nel testo si rivela, al contrario, insidiosa e ambigua, rendendosi infine attivamente partecipe dello scempio corporale, vero e proprio sparagmos, invocato da Teseo per il figlio. Ugualmente, la natura del regnum, ben lontana dalla semplice autenticità dell’ambiente silvestre rimpianto da Tieste, appare come prodotto dell’artificio e della perversione umana − non senza paralleli con altri passi della prosa senecana, rivolti alla società romana contemporanea − che porta su di sé le tracce dei doli consumati dalla stirpe, perenne monumentum dei nefas e degli scelera del potere. Dall’asse paradigmatico si è dunque passati all’asse sintagmatico, in cui le dinamiche dell’inganno e della finzione, lungi dall’essere riducibili a mero omaggio nei confronti della tradizione o del repertorio mitico, diventano tratti costituitivi ed elementi strutturali del teatro senecano, che concorrono profondamente, per così dire, ‘a far tragedia’.

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PARTE PRIMA LESSICO E MORFOLOGIA DELL’INGANNO

CAPITOLO I L’INGANNO NEL TEATRO DI SENECA: LESSICO, PERSONAGGI, SITUAZIONI Thy. Errat hic aliquis dolus […] Ta. Quam tamen fraudem times? Thy. Omnem Sen. Thyest. v. 473, v. 482 s. Th. O vita fallax, abditos sensus geris animisque pulcram turpibus faciem induis Sen. Phaedr. v. 918 s. La rilevanza del tema dell’inganno nella drammaturgia di Seneca si comprende considerando innanzitutto la ricchezza del lessico dell’inganno e la presenza di un’ampia gamma di termini che lo definiscono o lo qualificano. Meccanismo fondamentale dell’azione teatrale, l’inganno costituisce la sfera d’azione dei personaggi che vi si trovano coinvolti in senso attivo, come ideatori, esecutori o complici, o in senso passivo, come destinatari inconsapevoli. Pur trattandosi di un motivo dalla lunga e mutevole tradizione, che dal mondo greco approda gradualmente a Roma, sul tentativo di ricostruirne la storia nella produzione teatrale latina incide negativamente lo stato frammentario della letteratura tragica prima di Seneca, per la quale, tranne qualche caso fortunato, in cui è consentito svolgere analisi più approfondite di singoli vocaboli o di situazioni drammatiche1, è possibile solo avanzare ipotesi interpretative, che non È il caso, ad esempio, del prologo della Medea di Ennio (Enn. 208-216 Joc. [205213 R.3]), dove compare l’espressione per dolum, che, per quanto ci è dato sapere, in questo momento entra, con una precisa funzione e con uno specifico rilevante valore, nella lingua tragica latina. Si tratta, infatti, di una vera e propria innovazione rispetto al modello greco della Medea euripidea, in cui non compare alcun riferimento all’inganno. La dimensione «interamente umana dell’impresa argonautica», su cui Ennio sembra invece porre l’attenzione, è rilevata da Desbordes 1979 e soprattutto dal bel contributo di Biondi 1980. Per lo status quaestionis sui problemi interpretativi posti dal passo, e per una discussione critica delle ipotesi avanzate dagli studiosi è di riferimento Fantuzzi 1989. Interessanti sono anche gli usi dei verbi calui, lactare, frustrari, uanare 1

PARTE PRIMA.  LESSICO E MORFOLOGIA DELL’INGANNO

definiscono comunque un quadro preciso del punto. D’altro canto, fortunatamente, la copiosa raccolta di testi plautini rappresenta una vera e propria miniera linguistica e ‘artistica’ per l’invenzione, l’esecuzione, il successo di doli e finzioni di varia natura, a opera di personaggi brillanti e astuti, che fanno dell’inganno un’ars da praticare con scaltrezza, esperienza e ingegnosità2: la commedia del Sarsinate, attraverso l’influsso del dramma a intrigo euripideo3, diviene in questo senso un precedente illustre, un modello imprescindibile cui, superando i confini e i codici di genere, neppure il Cordovese non può non guardare4. Queste pagine prendono in esame una selezione dei passi più interessanti: costituiscono una sorta di corpus che raccoglie e, per così dire, classifica, le situazioni e gli inganni tragici di Seneca. In primo luogo, dunque, si è scelto di riconoscere e mettere in evidenza i riferimenti espliciti all’oggetto dell’indagine, soffermandosi sui personaggi e sul contesto drammatico, ferma restando la presenza, nei testi, di numerosissimi casi di anfibologia, il ricorso cioè a quella forma di ambiguità nei frammenti di Pacuvio e Accio (Medus 240 R.3, Dulorestes 137 R.3, Eurysaces 353 D., Iliona 211 R.3, Medus 241 R.3, Alcmeo 614 D., Medea siue Argonautae 493 D.). Si tratta di vocaboli che ci riportano alle origini di inganni dalle diverse etimologie e accezioni, ossia rispettivamente: una falsa accusa, una parola seducente e lusinghiera, un fraudolento tergiversare, un insidioso parlare a vuoto, espressioni di un inganno nascosto tra le pieghe di un linguaggio che seduce e incanta, sulla cui ammaliante musicalità sembra insistere soprattutto Accio, come si evince anche da La Penna 1979, p. 96. Su alcuni di questi verbi, cui è da aggiungere l’arcaico clepere, avrò modo di tornare in seguito, nell’analisi del loro utilizzo da parte di Seneca. 2 Cfr. sul tema Gavoille 2000 e 2001. 3 Su questo aspetto ampiamente Petrone 1983. Si ricordano qui, in particolare, le considerazioni della studiosa sul ruolo del monologo preparatore dell’intrigo, p. 121 s.: l’innovazione euripidea sul piano di una umanizzazione dell’inganno («l’azione drammatica non rievocava tanto un mito nel suo significato e svolgimento quanto un inganno umano inserito in una cornice mitica») comporta la nascita di un «tipo di monologo in cui un personaggio sospende il decorso della rappresentazione in una pausa temporale per ‘meditare’ […] su quale decisione debba prendere per realizzare i suoi scopi, esamina varie possibilità, ne scarta alcune, si risolve infine per un intrigo, dove menzogna e inganno sono i mezzi, e rivela i particolari del piano ideato: è la ‘meditazione’ drammatica, che trasforma il personaggio nel drammaturgo di sé stesso». E in questo schema inserisce anche l’azione dei servi plautini, nella simile tipologia dei monologhi di Crisalo o Pseudolo, giungendo ad affermare, p. 124: «le meditazioni dei servi plautini, incerti sul da farsi, ma fiduciosi nelle proprie capacità di menzogna, passano attraverso lo schema elaborato dal versante tragico del teatro antico e derivano dalla trasformazione di una parte di sostegno alle ‘macchinazioni’ euripidee. Se allora il modello è valido per tragedia e commedia, e questa forma è un contenitore vuoto atto a essere riempito di contenuti vari, la parodia diverrà il prezzo che il genere secondo, la commedia, deve pagare alla tragedia da cui la riceve, ed evitare la confusione delle lingue». 4 Cfr. Beare 1965; Grant 1999; Picone 1984, p. 23-27 e passim.

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Capitolo I.  L’inganno nel teatro di Seneca: lessico, personaggi, situazioni

linguistica, condivisa da entrambi i generi, tragico e comico, che contribuisce alla ‘costruzione’ dell’inganno. Filo comune tra l’ingannatore e il pubblico onnisciente, nel suo double entendre lega le due parti in un rapporto di stretta complicità, da cui è esclusa la vittima, limitata a un livello di comprensione ‘letterale’ delle parole e, quindi, dei fatti. Si è scelto inoltre di escludere dall’analisi proposta il campo semantico legato a error, assimilabile al tema dell’inganno nel valore di ‘allontanamento dalla verità5 ’, per il quale si rimanda alle valide osservazioni della Borgo, che ha distinto le differenti accezioni del termine nella prosa e nella poesia di Seneca, supportandole con un ricco corredo di riferimenti ai testi. Dalle conclusioni a cui giunge la studiosa, emerge un duplice utilizzo del termine, più sfumato nella riflessione filosofica, dove compare in senso proprio e figurato, a indicare «il valore concreto di errore di direzione, non senza un rapporto con l’errore dell’anima, del quale diventa riflesso e conseguenza», come aspetto della fragilità umana da cui è esente il saggio e che si manifesta «come sconsideratezza, incapacità di valutare le situazioni con obiettività […] e come debolezza di carattere, che ci fa soggiacere all’opinione comune», più monolitico nella sfera tragica, in cui, per lo più, designa «il fato che incombe come una maledizione sui personaggi spingendoli al delitto: è la follia omicida di Ercole contro la sua stessa famiglia, 1096, l’incesto inconsapevole commesso da Edipo (Phoen. 539; cfr. v. 554), senza però configurarsi come colpa cosciente, come ricorda Giocasta nell’esortarli a deporre le armi (Phoen. 451 s.)6 ». 5 Un rapido sguardo all’origine del vocabolo e ai suoi significati: E.-M., p. 201, ne evidenzia il primo valore di «errer, aller à l’aventure», seguito dal senso morale di «s’ecarter de la vérité, se tromper». Il ThLL, V/2, 814-820, distingue un primo ambito, V/2, 814, 83 s., de corpore et de loco e un secondo, V/2, 815, 816, 24 s., de animo. Nel secondo rientrano le accezioni di A. nutatio, dubitatio, incertitudo, nelle quali sono comprese tanto: ea condicio animi designatur, qua quis affectus nescit quid faciat vel iudicet vel dicat, cum animus huc illuc erret (si riportano qui alcuni esempi in ambito teatrale: Plaut. Merc. 347; Rud. 215; Pacuv. 275 R.3; Acc. 371 D.), quanto: de gravioribus animi motibus (dementia, furor, nimius amor) e una seconda accezione come B. opinio falsa, ignoratio veri con significato proprio 1. proprie de opinione ipsa (Plaut. Amph. 470; Ter. Hec. 792; Pacuv. 78 R.3; 211 R.3) e traslato 2. metonymice de actione perversa ex ignoratione recti orta (culpa, peccatum, interdum prorsus i. q. crimen), su cui, appunto, H. F. v. 1237. Così anche l’OLD, che segue il percorso del termine dal suo significato letterale a quello metaforico, dapprima come wondering about, roaming, poi come uncertainty of mind, doubt, infine come derangement of the mind e mistake or mistaken condition, error (in thought or action). 6 Borgo 1998b, p. 67-70. A questi esempi vanno aggiunti H. F. v. 1237, con la domanda di Anfitrione sulla distinzione tra colpa ed errore (Quis nomen usquam sceleris errori addidit?), e la risposta dell’eroe (v. 1238: Saepe error ingens sceleris obtinuit locum). In tutta la tragedia sembra dunque valere quanto la Borgo rileva per i personaggi di Ercole e Deianira, i quali «tendono a concentrare sul termine, che esprime in sostanza lo

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PARTE PRIMA.  LESSICO E MORFOLOGIA DELL’INGANNO

Nel complesso, tutto il lessico della finzione nel teatro senecano è riconducibile a due grandi tipologie di inganni: l’una identificabile nella vera e propria mechané, l’altra in quella forma di errore interpretativo che genera una visione distorta dei fatti, sostituendo alla realtà l’illusione dell’apparenza, e che colpisce innanzitutto gli stessi personaggi ingannatori. Al primo ambito si ascrivono fraus e dolus, nel significato di «ruse, tromperie, fourberie» (E.-M.), parole di per sé evocative in ambito teatrale, e consacrate dall’uso plautino a vocaboli tematici della finzione comica7. Il ripetersi di questi termini si riscontra con una certa frequenza nelle tragedie, dove spesso sono affiancati o associati, anche all’interno di un medesimo passo. Dall’esame complessivo delle occorrenze, il loro impiego risulta finalizzato a definire l’inganno frutto di macchinazione, inteso sia come il piano che il personaggio o i personaggi in scena ideano, progettano e si propongono di portare a compimento nel corso del dramma, sia come l’inganno di cui i medesimi personaggi si considerano vittime, causa prima di un torto che merita di essere vendicato e che si inserisce, con nuove dinamiche, nella lunga catena di delitti di generazioni mitiche. Quali meccanismi dell’azione teatrale, fraus e dolus svolgono un ruolo essenziale nei dramata, determinano lo sviluppo dell’azione e ne costituiscono il motore intrinseco8. Tale funzione risulta evidente soprattutto nei testi in cui l’inganno ricopre una posizione cruciale nello svolgersi della fabula tragica, comprovata dalla maggiore frequenza dei suddetti vocaboli, come in Thyestes, Agamemnon, Phaedra, Medea e nell’importante agon tra Ulisse e Andromaca nella sezione centrale di Troades. Nei casi citati, il tema dell’inganno si snoda lungo tutto lo svolgimento drammatico: dal momento della sua macchinaziostesso nucleo drammatico, un forte senso di responsabilità». Altrove nel teatro senecano, ritroviamo per questo vocabolo quella duplicità di piani che ne richiama l’accezione etimologica, come per «il gioco semantico offerto dall’Oedipus, che in sei versi propone il termine nelle sue due accezioni fondamentali: a Edipo che le chiede di risolvergli i terribili dubbi che si presentano sulla morte di Laio (v. 773), Giocasta risponde ricordando come il marito fosse rimasto praticamente solo al momento dell’assassinio, essendo stato il suo seguito ingannato da una biforcazione della strada (v. 778)». Sul rapporto tra error e culpa sono da vedere anche le riflessioni in Pack 1940, che insiste, per tale aspetto, sul condizionamento delle formulae retoriche, oltre che della speculazione filosofica, sulle pagine tragiche di Seneca; più di recente su questo tema anche Mazzoli, (G.) 2010a. 7 Da vedere in questo senso Brotherton 1926, che per fraus, p. 9, parla di «general notion of ‘deceive’ or perhaps ‘harm through deception’», e per dolus, p. 14, sottolinea che «it possesses the fixed notion either abstract guile or concrete means of guile». Sulla terminologia dell’inganno comico, soprattutto in rapporto con il dramma a intrigo euripideo (machina-mechané) si veda anche Petrone 1983, p. 94-98. 8 Così anche Picone 1984, p. 12.

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ne − articolata in più tappe, ovvero il confronto del personaggio attore e autore dapprima con se stesso, poi con un personaggio di rango inferiore, come la nutrix, il satelles, il senex, in uno scambio dialogico che spesso contribuisce a fissare i termini di quanto verrà compiuto − alla sua realizzazione ai danni dell’antagonista, fino al successo − o, più raramente, all’insuccesso, come nel caso di Andromaca − con lo svelamento conclusivo. Diversamente, in Oedipus, Phoenissae e Hercules Furens, pur rappresentando un motivo dalle implicazioni significative, tale tipologia di inganno resta circoscritta a singoli episodi, non giocando un ruolo di primo piano, ma rimanendo sullo sfondo delle vicende rappresentate. In questo primo grande contenitore è stato possibile operare ulteriori distinzioni, non solo sulla base del singolo contesto o del singolo personaggio coinvolto, ma anche nel più ampio e complesso rapporto con la tradizione mitologico-letteraria a cui i protagonisti si ispirano, individuandovi un modello da emulare e superare. Talvolta, addirittura, sembra che alla tradizione si richiamino, svelando una sorta di coscienza ingannatrice metateatrale, dietro la quale è forse possibile cogliere il gioco raffinato dell’autore verso destinatari ben consapevoli di un repertorio tragico da tempo affermato e codificato. Altrettanto proficua si è dimostrata l’indagine relativa alla terminologia della finzione più strettamente legata alla performance vera e propria, che ha rivelato un insistito ricorso, da un lato, al lessico della dissimulatio affectuum9, strumento di realizzazione dell’inganno, dall’altro, al lessico del nascondersi, strumento di fuga e, quindi, di salvezza dallo stesso.

9 Piuttosto scarsa, nel complesso, la presenza di riferimenti alla simulatio, che, a parte le eccezioni segnalate nelle pagine seguenti, non risultano particolarmente rilevanti nel caratterizzare l’inganno tragico: si tratta infatti di casi che non appaiono né molto significativi, né incisivi sulla struttura del dramma o sulla caratterizzazione dei personaggi. In questo senso, mi pare possano essere letti i diversi loci tragici sulla natura simulatrice dei Parti: nel secondo coro di Thyest. v. 381-387: nihil ullis opus est equis | nihil armis et inertibus | telis, quae procul ingerit | Parthus, cum simulat fugas, | admotis nihil est opus | urbes sternere machinis | longe saxa rotantibus (a riguardo si vedano Cattin 1963, p. 694-696, con riscontri nella letteratura latina d’età augustea e con una lettura della relazione tra quest’ultima e la situazione militare dell’impero, dove il problema dei Parti viene avvertito con forza, e, per il passo del Tieste, Tarrant 1985, ad loc. p. 145); nel primo coro di Oed. v. 118 s., ancora si accenna alla falsità di questo popolo, uidit et uersas equitis sagittas | terga fallacis metuenda Parthi. Il vocabolo è utilizzato in riferimento all’adozione di un aspetto simulato per sembrare qualcun altro in Troad. v. 447, nel racconto dell’uccisione di Patroclo, ritenuto Achille, per mano di Ettore: uera ex Achille spolia simulato tulit, e in Oed. v. 419 s., nel canto in onore di Bacco, creueras falsos imitatus artus | crine flauenti simulata uirgo.

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Seconda e diversa tipologia di inganno, invece, è quella che vede un personaggio cadere nella trappola della mistificazione generata da un’immagine dei fatti che non corrisponde al vero, incapace pertanto di valutare correttamente le situazioni e limitato a una visione falsata della realtà. Se fraus e dolus indicano una forma di inganno che si consuma al di fuori del personaggio e per opera di terzi, la seconda categoria coinvolge in primo luogo l’interiorità stessa del personaggio tragico, troppo esposto all’influenza delle passioni, alla facies speciosa di ciò che lo circonda, al desiderio smisurato dei beni materiali, primo fra tutti il potere. Siamo di fronte a una tematica che, come noto, supera i confini della scrittura drammatica e si afferma quale motivo costante della riflessione senecana, polo antitetico a quel percorso di avvicinamento alla sapientia, a quel messaggio dell’interiorità come possesso e come rifugio che è la cifra fondamentale e innovativa del suo pensiero.

1. La macchinazione dell’inganno: fraus e dolus Ulisse, Andromaca, Elena in Troades In Troades, fraus, dolus e astus ricorrono in più occasioni, per lo più concentrati in due momenti, nel dialogo tra Ulisse e Andromaca e nell’incontro tra Andromaca ed Elena. Nel primo caso, l’agon tra Ulisse e Andromaca, che occupa una parte davvero rilevante nell’economia della tragedia (v.  524-813)10 vede confrontarsi i personaggi nella messa in scena di un duplice, reciproco inganno. Da un lato, Andromaca − inedita femme virile straordinariamente intraprendente e audace11 − tenta di salvare il figlio Astianatte, nascondendolo nel sepolcro paterno12 e 10 Per uno sguardo d’insieme alla struttura dell’opera si vedano Schetter 1965, Caviglia 1981 e Fantham 1982. Sul tema dell’inganno come elemento portante e originale delle Troades di Seneca rispetto alle Troiane di Euripide insiste anche Albini 1990, p. 93. 11 Cfr. Widal 1984, p. 32. Sull’attivismo di Andromaca e sulla connessione etimologica dell’antroponimo con il concetto di virilità anche Corsaro 1991, p. 64 s. 12 Sul modello dell’Andromaca euripidea con l’episodio di Molosso, Schetter 1965, p.  418. Una derivazione, invece, dall’Astyanax di Accio è sostenuta da Scafoglio 2006, p. 67 s., che ipotizza di leggere nello scolio del Serv. Auct. ad Aen. 3, 489 una sintesi della fabula del tragediografo arcaico, in cui si dice che hunc (scil. Astianatte) Ulixes occultatum a matre cum inuenisset, precipitauit e muro, et ita Graeci Troia profecti sunt. L’A. nota inoltre che (p. 719): «una trama così movimentata e avventurosa (con l’occultamento del bambino come nodo centrale e fulcro emotivo) è congeniale alla tragedia ellenistica, ma rispecchia una tendenza avviata già da alcune pièces euripidee e dalla

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simulandone la scomparsa, nell’illusione di poter concedere una via di scampo all’erede di Ettore. Tuttavia, l’ultima possibilità di riscatto per la città di Troia di fronte alle ineluttabili dinamiche della guerra e alle leggi dettate dal tumidus uictor, svanisce subito in un impossibile stratagemma utile solo a ritardare, non a evitare, la morte del giovane troiano. Dall’altro lato, infatti, si colloca Ulisse, voce di quella ragion di stato che impone l’eliminazione del vinto per garantire la sicurezza del popolo greco e la cui rappresentazione come abile smascheratore si colloca in perfetto accordo con la tradizione mitico-letteraria13. Nel momento che precede l’arrivo dell’Itacese, Andromaca racconta al senex la fugace e fallace apparizione notturna del marito Ettore, che la invita a portare al sicuro il figlio (v. 452 s.: natum eripe, | o fida coniunx: lateat), fornendo il primo suggerimento per la realizzazione del dolus14. Il successivo scambio di battute con il senex diviene così il momento drammatico che determina il luogo e le modalità del nascondiglio di Astianatte: le perplessità relative alla possibilità di un tradimento che sveli l’inganno (v. 49615: quid quod latere sine metu magno nequit, | ne prodat aliquis?) sono fugate dalle pratiche osservazioni del vecchio sulla necessità di allontanare ogni possibile testimone16 (v. 492, amoue testes doli). Interrogandosi sul luogo più adatto a tenere al sicuro il figlio, Andromaca definisce inganno la propria Commedia Nuova». Diversamente da Seneca, i frammenti della tragedia acciana lascerebbero intendere che «il bambino doveva essere nascosto in un luogo aperto, come un bosco, da cui poi usciva e incontrava i soldati, che lo stavano cercando». 13 Per l’immagine di Ulisse nel mondo antico si segnala lo studio di Stanford 1954; nell’ambito della critica più recente, per il contesto romano sono da vedere Setaioli 1998, che prende in esame l’immagine dell’eroe greco nell’Eneide e, più ampiamente, Perutelli 2006, con un ulteriore e generale apparato bibliografico di riferimento, p. XI. 14 Amoroso 1984, ad loc. p. 151, parla di «fatto squisitamente teatrale», in cui «latere, poiché nell’oscurità meglio si sviluppa l’intrigo, è termine che si collega strettamente con le tematiche dell’inganno». 15 Sui problemi di collocazione dei v.  489-498, in relazione alla distribuzione delle battute, si segnalano almeno lo studio di Palma 1971, seguito dai commenti di Fantham 1982, ad loc. p. 285 e, più recentemente, di Keulen 2001, ad loc. p. 324 s., entrambi utili per un punto sulla bibliografia precedente e sulle differenti ipotesi interpretative. 16 Sul passo Amoroso 1984, ad loc. p. 154, nota: «Il vecchio dà consigli per la migliore riuscita dell’inganno, del dolus. Nel teatro comico i creatori degli inganni spesso hanno degli ‘aiutanti’, adottando la definizione di Petrone 1983 (p. 39), secondo la terminologia di Propp; anche i personaggi tragici che tramano inganni hanno spesso degli ‘aiutanti’, da Egisto a Pilade, ai personaggi minori del teatro senecano, come il vecchio delle Troiane, che così assume delle funzioni drammatiche ben più importanti di quelle che abitualmente la critica riconosce a questo personaggio e ai suoi corrispettivi».

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azione, quem locum fraudi legam?17 (v. 482), e a questa medesima fraus, in un gioco di corrispondenze interne, fa riferimento Ulisse che, dopo aver colto sul volto materno i segni della paura, interpretati come simbolo inequivocabile di menzogna, rivolge ai soldati l’ordine di scovare il figlio nascosto, svelando apertamente il tentativo doloso di Andromaca: ite, ite celeres, fraude materna abditum | hostem, Pelasgi nominis pestem ultimam, | ubicumque latitat, erutam in medium date18 (v. 627-629). Nell’opera, inoltre, fraus e dolus vengono più volte accostati soprattutto nel delineare la figura di Ulisse, eroe intelligente e astuto, abile osservatore delle sfumature dell’animo umano, manipolatore del linguaggio e delle parole, che non solo si rivela pienamente consapevole del proprio ruolo e delle proprie capacità, ma appare, anche agli occhi degli antagonisti, come pericoloso conoscitore della subdola arte dell’inganno19. In uno studio dedicato alla figura dell’eroe di Itaca nella cultura romana, Perutelli20 ha sostenuto una caratterizzazione non unitaria del personaggio Ulisse, esposto a sentimenti e atteggiamenti contraddittori. Non mi sento tuttavia di condividere pienamente l’opinione dello studioso, per il quale «nella prima parte del suo scontro con Andromaca si percepisce una natura saggia di Ulisse, che lo mette in grado di sostenere le motivazioni di un delitto bieco come l’uccisione di un bambino. Sembra conservare qualcosa dell’Ulisse a cui si fa riferimento in una meditazione filosofica, accoglie in sé in qualche misura il sapientissimus che compare in parecchi testi di discussione etica e viene richiamato come esempio assoluto21». Tuttavia, i due casi citati dal Perutelli a supporto della propria tesi, ovvero l’inizio del discorso di Ulisse, v. 524 s., che rappresenterebbe positivamente l’eroe greco al pari del benevolo Taltibio euripideo, e il resoconto della morte di Astianatte, v. 1088 s., in cui si fa riferimento alla commozione dell’Itacese, mi sembrano da interpretare 17 Cfr. Fantham 1982, ad loc. p. 284, che nota la connessione («a change of perspective») tra il locum fraudi nella domanda di Andromaca e il precedente v. 476 s., in cui la donna si chiede quale sia il luogo più affidabile per nascondere il figlio, simulandone la scomparsa: quis locus fidus meo | erit timori quaue te sede occulam? 18 Ibid. L’A. sottolinea che: «Ulysses’ words convey the deceit: at 630 he suggests that the little boy is found and he commands […] a subordinate to bring him». 19 Il personaggio di Ulisse in Seneca è analizzato da Stanford 1954, praec. p. 144 s., con un confronto tra l’interpretazione tragica e quella stoica. Sul piano drammatico si vedano Mazzoli (L.) 1961, che ne sottolinea il carattere umano e la pietà e Corsaro 1991; per la struttura retorica del discorso di Ulisse Caviglia 1981, p. 60 s., e per un esame valido e accurato del dialogo con Andromaca, Id. 1981a. 20 Perutelli 2006, p. 79-88. 21 Ivi, p. 81.

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diversamente. Credo, infatti, che il primo episodio debba essere letto nel segno di una captatio benevolentiae, apertura ideale per una suasoria particolarmente impegnativa − Andromaca non si lascerà convincere facilmente − e importante (date la posta in gioco e le implicazioni politiche relative alla distruzione o alla sopravvivenza della stirpe troiana). Nel secondo caso, invece, il punto di riferimento del passo va individuato in Astianatte, personaggio su cui converge l’attenzione dell’autore: senza ricorrere alla sapientia22, l’allusione alla commozione di Ulisse (‘perfino Ulisse si è commosso’, lo stesso Ulisse che ne aveva voluto la morte) non fa che confermare la caratterizzazione positiva del figlio di Ettore (v. 1090-1093: nec gradu segni puer | ad alta pergit moenia. Ut summa stetit | pro turre, uultus huc et huc acres tulit | intrepidus animo), che si sacrifica ‘stoicamente’ manifestando ferocia e superbia di fronte allo sguardo scosso e attonito della turba astante (v. 1098). Il punto di vista dei vinti sull’Itacese è comunque evidente già nel prologo, dove, di fronte alla città divorata dalle fiamme, Ecuba nomina Ulisse come cautus Ithacus23 (v. 38), per sottolineare, nel confronto con le astuzie del greco e con le parole ingannevoli di Sinone (fallax Sinon), la propria responsabilità di madre (meus ignis iste est, facibus ardetis meis) 22 Per un’ulteriore prospettiva su questo personaggio si segnala lo studio di Föllinger 2005, praec. p. 113, che si sofferma sulla discrepanza tra la raffigurazione mitico-poetica di Ulisse e la sua caratterizzazione filosofica. Tuttavia, forse voler cercare a tutti i costi una corrispondenza − sia essa per affinità o per differenza − con l’immagine stoica dell’eroe greco, rischia di essere fuorviante per l’interpretazione di un personaggio di cui si sottovaluta la caratterizzazione tragica e, più genericamente, teatrale. Del resto, a ben vedere, quest’ultima è percepita, già nel mondo antico, come meno edificante rispetto a quanto emerge dalla poesia epica e, si potrebbe aggiungere − guardando in particolare al pensiero senecano − certamente anche dalla riflessione filosofica stoica. Pur non essendo questa la sede per affrontare la questione dell’esegesi filosofica della figura di Ulisse, si segnalano almeno Buffière 1956, p. 374-377, Whitlock Blundell 1987; Brancacci 1990, p. 46-60; Motto-Clark 1991 (interamente concentrato su Seneca e sullo stoicismo); Goulet Cazé 1992. 23 Medesima caratterizzazione in Ov. Trist. 1, 2, 9. In realtà, astuzia, circospezione, accortezza, prudenza sono qualità dell’Ulisse tragico latino già in Accio, se all’eroe di Itaca sono da riferire i brani di Neopt. 184 D., satin astu et fallendo callet? e Phil. 227 D., contra est eundum cautim et captandum mihi, come sostiene Dangel 1995, ad loc. p. 307 e 312. Nel caso di quest’ultima tragedia, in particolare (si veda Bucalo 1977, p. 38) le figure di Filottete e di Ulisse vengono a delineare due ritratti contrapposti: se l’uno, infatti, come sottolinea Degl’Innocenti Pierini 2007, p. 155 e p. 159, appare «votato a un inevitabile e sofferto imbarbarimento […] regredito a uno stadio di primordiale ed estranea ferinità», l’altro, al contrario, si erge a campione antagonista, vincitore grazie all’abilità e alla vivacità del suo ingegno. Il riferimento alla prudente cautela, quindi, viene in questo caso a connotarsi non semplicemente in opposizione all’uso della forza, ma anche come forma di astuta e poliedrica intelligenza, espressione di un’umanità in grado di avere la meglio sulla ferinità e l’imbarbarimento.

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e il rimpianto per la profezia sulla nascita di Paride rimasta disattesa (uana uates ante Cassandram fui). Anche Andromaca, introducendo l’entrata in scena di Ulisse, ne descrive innanzitutto la grande scaltrezza, con una rapida notazione che non sembra tanto finalizzata alla presentazione del nuovo personaggio, quanto un avvertimento rivolto a se stessa, nella consapevolezza di dover affrontare un avversario difficile da vincere: adest Ulixes, et quidem dubio gradu | uultuque:24 nectit pectore astus callidos (v. 522 s.). Amoroso ha infatti ragione di osservare qui la giustapposizione tra i due temi ingannatori, in cui: «Seneca già chiarisce che quello di Ulisse è più forte, caratterizzandolo con un vocabolo, nectere, che appartiene alla metafora dell’inganno nel teatro comico e tragico precedente25». Non solo: a conferma di questa interpretazione, che evidenza una specifica caratterizzazione di Ulisse, mi pare possa essere ri24 Sulle implicazioni dello sguardo e della descrizione di Andromaca si veda la lettura proposta da Garelli-François 1992, che insiste sugli aspetti di «théâtre dans le théâtre», notando per il passo in questione come, p. 400, «Ulysse est reconnaissable à la duplicité de son pas et de son visage […] Gradus, uultus, constituent les indicia qui permettent au personnage-spectateur d’atteindre le pectus ou l’animus de l’autre». In generale, sul ruolo delle descrizioni nel teatro senecano e il rapporto con il teatro greco, Tietze Larson 1994 (per la «description of physical appearance», praec. p. 29-31). Da vedere anche il più recente Aygon 2004, p. 50, che classifica questa descrizione di Ulisse tra quelle in cui «l’attitude du corps et l’expression du visage sont décrites conjointement», con la funzione di «déterminer le caractère permanent du personnage, en action». Secondo lo studioso, «le texte qui décrit Ulysse est construit selon une progression significative: démarche, expression du visage, pensées secrètes mais qui se lisent sur son corps. Le mouvement de la présentation suit le regard d’Andromaque qui scrute et déchiffre l’âme d’Ulysse et ses intentions à partir de signes extérieurs». Più in generale, sul rapporto tra la fisionomia dei personaggi e la filosofia stoica è ancora valido il lavoro di Evans 1950. Sul brano, Perutelli 2006, p. 80, ha rilevato che «lo stesso uso dell’aggettivo dubius, una sorta di perno linguistico di tutto il passo, sembra fin dall’inizio sovrapporre, tramite il nesso con uultus, la nozione di stato d’animo a quella del movimento fisico. Andromaca, è chiaro, interpreta male l’esitazione nel passo di Ulisse: egli è incerto perché sa di dover portare una richiesta terribile. Ma il fraintendimento della donna si avvale anche di un gioco linguistico, là dove per la sposa di Ettore dubius evoca l’ambiguità e la doppiezza, non l’incertezza». Forse è proprio sull’ambiguità e sull’astuzia di Ulisse che Seneca vuole da subito insistere, più che sul suo essere «dubbioso, perplesso, turbato»: concordo pertanto con Amoroso 1984, ad loc. p. 158, quando afferma che: «Nell’Ecuba di Euripide, Ulisse, venuto a prendersi Polissena, si avvicina con passo frettoloso (v. 218). Qui invece l’aggettivazione tende ad anticipare il carattere di doppiezza e falsità del personaggio di Ulisse (v. 518, gressus nefandos). L’indicazione di tale atteggiamento è chiaramente registica, secondo il costume dei testi greci, fatto proprio da S.». L’A., inoltre, porta a sostegno di tale interpretazione, che lega «l’indicazione dell’atteggiamento delle persone» alla «descrizione del loro camminare», il confronto con Troad. v. 616, v. 674, v. 1088, v. 1090 e con l’arrivo del nunzio in Phaedr. v. 989. 25 Amoroso 1984, ad loc. p. 158, con riferimento a Petrone 1983, p. 107 s. e p.  193-199. Un approfondimento sul rapporto tra l’inganno e il lessico del tessere in Plauto in Palmieri (D.) 2004, praec. p. 165.

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levato che l’associazione dolus-nectere ricorre emblematicamente anche in altri testi, dove designa la mostruosità dell’enigmatica Sfinge, alla cui capacità di tessere inganni e di tendere tranelli va attribuita la responsabilità di tante morti26, in Phoen. v. 119 s.: ubi sedit alta rupe semifero dolos | Sphinx ore nectens, e ancora in Oed. v. 92 s.: nec Sphinga caecis uerba nectentem modis | fugi. È inoltre, di grande rilievo e di notevole interesse che lo stesso verbo nectere, associato al linguaggio, venga utilizzato da Seneca nelle opere in prosa proprio per evidenziare la pericolosità e il potere ingannevole della parola27, tema su cui avrò modo di tornare e di cui, come è noto, l’eroe greco è tradizionalmente considerato il campione per antonomasia. L’Ulisse di Troades non stupisce affatto per originalità rispetto all’immagine tradizionale: dolus, fraus e astus sono caratteristiche che ne sottolineano l’intelligenza astuta, la capacità di non cadere in inganno, ma di ingannare a sua volta, l’attitudine alla mistificazione, la padronanza di un linguaggio ambiguo, tutte qualità che caratterizzano questa personalità polimorfica fin dall’epica omerica28. In tal senso, l’affermazione rivolta alla troiana, (v.  568-570) simulata remoue uerba: non facile est tibi | decipere Ulixem: uicimus matrum dolos | etiam dearum, gioca sulla contrapposizione tra la debole posizione dell’interlocutrice, definita dal tibi che sfuma in un generico anonimato, e la forza simbolica del nome proprio: il nome Ulisse è sufficiente di fatto a evocare un lungo reper26 L’ambiguità della sfinge si caratterizza in modo particolare: mentre l’inganno di Ulisse si potrebbe definire inganno ‘aperto’, nel senso che lascia il posto a un’inventiva senza fine nell’escogitare stratagemmi con la forza dell’astuzia, l’inganno ordito dalla sfinge appare riprodurre, secondo una modalità ‘chiusa’, l’alternativa ‘o rispondi o ti uccido’, seguendo una dicotomia che appartiene, di regola, al mondo ‘chiuso’, della verità, dove non c’è spazio per sfumature ambigue, altre rispetto all’alternativa ‘vero o falso’. 27 Cfr. Ep. 45, 5: Nectimus nodos et ambiguam significationem uerbis inligamus ac deinde dissoluimus. […] Tota illo mente pergendum est ubi prouideri debet ne res nos, non uerba decipiant e Ep. 82, 23: uerba mihi captiosa componis et interrogantiunculas nectis? Va segnalato, inoltre, il brano di De ben. 3, 26, 2, nel quale riscontriamo l’espressione nectebantur insidiae nel contesto di un conuiuium regale, luogo per eccellenza di insidie e pericoli, durante gli anni di Tiberio, quando, afferma Seneca, nihil erat tutum. Per gli altri loci testuali relativi all’immagine di noeud (nodus, nodosus, nectere, soluere) Armisen-Marchetti 1989, p. 143. Un confronto tragico offre il frammento dell’Alphesiboea di Accio, Fr. 625 D. − quid tam obscuridicum est tamue inenodabile? − in cui il composto, che è hapax acciano, richiama la metafora del nodo da sciogliere, con un aggettivo «usato in senso traslato con il valore del nostro ‘inesplicabile’ solo in Accio e in Cic. Fat. 18», come rileva Degl’innocenti Pierini 1977, p. 14. Del medesimo passo Aygon 2004, p. 408, mette in risalto l’associazione tra le nozioni di oscurità e di destino, discutendo anche altri brani, drammatici e non, di Seneca. 28 Fondamentale sul tema Detienne-Vernant 1978. Brevemente, sul piano retorico, anche Pernot 2000, praec. p. 15-18.

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torio di brillanti successi su nobili madri29, atto, da un lato, a distogliere Andromaca dal proposito di un ingenuo dolus30 che può solo ritardare l’esecuzione del sacrificio, ma non incidere realmente sull’esito degli avvenimenti, dall’altro, a guidare il pubblico, ben consapevole delle doti e del profilo tragico dell’eroe greco31, nell’interpretazione del dialogo in corso e dell’intero episodio. Questo ritratto sembra confermato anche da un frammento del Neoptolemus di Accio (Fr. 184 D.) Satin astu et fallendo callet?, dove la scelta di caricare semanticamente il verso con il lessico dell’inganno, sottolineata da un’abile variatio lessicale e sintattica, sembra adattarsi perfettamente al personaggio di Ulisse. Proprio nella fase conclusiva della guerra di Troia l’Itacese si distingue particolarmente in virtù di queste sue caratteristiche, come nota Dangel nel ricco commento al passo: «Alors que sont morts les combattants d’élite (Patrocle, Achille, Ajax), à la supériorité dans l’art du combat va succéder une guerre psychologique (batailles d’oracles, stratagèmes, sophistique de la parole), dont Ulysse devient la figure centrale32». Solo in un altro locus testuale di Troades, l’antroponimo Ulisse viene pronunciato con una funzione non molto dissimile: dopo l’ambiguo giuramento di Andromaca, l’eroe greco medita sul da farsi in un ‘a parte’ di grande rilevanza drammatica, nel quale valuta la strategia migliore con cui svelare le reali intenzioni della donna. Secondo un modulo tipico 29 Un riferimento al travestimento di Achille e all’inganno di Teti svelato da Ulisse, è già nelle parole di Pirro in Troad. v. 213 s.: exuit matris dolos | falsasque uestes. Sul confronto con Ov. Met. 13, 162 s., nel discorso di Ulisse in risposta alle accuse di Aiace insiste Danesi Marioni 1999, p. 486 s. 30 Commentando il verso nota Caviglia 1981, ad loc. p. 263: «l’enjambement determina un ‘rallentamento’, che prepara efficacemente l’improvviso scatto dell’orgogliosa minaccia di Ulisse», in antitesi appunto alla debolezza della donna troiana. 31 Di una sorta di contrapposizione tra l’eroe epico della tradizione omerica e l’immagine meno virtuosa delle rappresentazioni tragiche (confortata da una citazione probabilmente del tragediografo pesarese), ci informa anche Cicerone, in merito al comportamento tenuto da Ulisse in occasione della follia simulata per evitare la guerra, De off. 3, 97-98: Utile uidebatur Ulixi, ut quidem poetae tragici prodiderunt (nam apud Homerum, optimum auctorem, talis de Ulixe nulla suspicio est), sed insimulant eum tragoediae simulatione insaniae militiam subterfugere uoluisse. Non honestum consilium, at utile, ut aliquis fortasse dixerit, regnare et Ithacae uiuere otiose cum parentibus, cum uxore, cum filio: ullum tu decus in cotidianis laboribus et periculis cum hac tranquillitate conferendum putas? […] Quid enim auditurum putas fuisse Ulixem, si in illa simulatione perseuerasset? Più ampiamente a riguardo ancora in Perutelli 2006, passim. 32 Dangel 1995, ad loc. p. 307. Sulle implicazioni del verbo callere, presente nel frammento e denso di implicazioni dal punto di vista teatrale si ricorda lo studio semantico di Crampon 1999, dedicato all’analisi di callum, calleo, callidus nell’opera del Sarsinate.

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Capitolo I.  L’inganno nel teatro di Seneca: lessico, personaggi, situazioni

del teatro senecano, nell’Anrede il personaggio rivolge un’apostrofe al proprio animo, cercando la forza per agire ed esortandosi a compiere qualcosa di inedito e di straordinario (ingenio est opus, v. 618)33: qui Ulisse, in dialogo con se stesso, sembra volersi ‘scuotere’ dalla situazione, con una serie di interrogative che preparano la pianificazione dell’inganno, svelando, dal suo punto di vista, lo spergiuro di Andromaca nell’uso del verbo fingere, che esplicita il ricorso alla finzione34, v. 607-609: quid agis, Ulixe? Danaidae credent tibi: | tu cui? Parenti: fingit an quisquam hoc parens, | nec abominandae mortis auspicium pauet? Appare dunque molto netta la distanza che lo separa sia dagli altri Greci che dall’interlocutrice, distanza enfatizzata dal poliptoto del pronome di seconda persona che ‘esorcizza’ il pericolo quasi ossimorico di un credulus Ulixes. Diversamente dagli altri personaggi del teatro senecano, Ulisse non ha bisogno di una figura con cui confrontarsi nel valutare e discutere le forme delle proprie azioni: nei dialoghi e nelle antilabai tra la nutrix e Fedra, tra il satelles e Atreo o tra il senex e la stessa Andromaca in Troades, l’organizzazione del ‘da farsi’ viene sviluppata gradualmente con interventi che definiscono poco alla volta i termini della complicità, per arrivare, nel caso di Phaedr. v. 272, alla proposta di completa sostituzione nel ben noto meus iste labor. Per ottenere lo scopo è dunque sufficiente che Ulisse sia pienamente se stesso, in un certo senso ha bisogno solo di attingere alla propria indole e alle proprie abilità: nel contesto tragico, egli è già di per sé sinonimo di inganno, anzi, Ulisse è l’inganno, la cui essenza è rappresentata e racchiusa già nel suo stesso nome. Bastano, infatti, poche parole a sintetizzare la natura e le qualità che lo contraddistinguono, per mezzo di un accumulo di termini, che si conclude con l’appello all’interezza stessa della propria identità: nunc aduoca astus, anime, nunc fraudes, dolos | nunc totum Ulixem (v. 613 s.). È stato notato35 che in questa formula Seneca dimostra «un impiego non Nota Aygon 2005, p. 403, che questo appello del personaggio alla sua intelligenza ha anche una diversa funzione drammatica: quella cioè di immaginare uno stratagemma di cui lo spettatore non viene subito informato: «ce qui produit l’effet de suspense dramatique puisque sa ruse ne sera comprise qu’au fur et à mesure qu’il la mettra en œuvre». 34 ThLL, VI/1, 776, 50 s., excogitare, inuenire, sensu malo, fallendi causa; OLD, a. v. 9b: to make pretence of (doing or feeling something), feign, simulate. 35 Petrone 1988, p.  62 s. Sul passo anche Garelli-François 1992,  p.  404, che interpreta, nell’apostrofe di Ulisse e nel nunc anaforico, un richiamo dell’attore a se stesso, a recitare bene il proprio ruolo. Risulta inoltre molto efficace sul piano retorico la contrapposizione tra l’accumulo di sostantivi che rientrano nella sfera semantica dell’inganno e il semplice e nudo riferimento alla ueritas. Proprio al centro del medesimo verso, v. 614, il nome Ulixem, che, come si è detto, è così semanticamente – e tragica33

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primario ma secondario del nome proprio, secondario alla conoscenza ormai radicata che i destinatari hanno del complesso di proprietà che caratterizzano i personaggi e alla loro ‘competenza’, per la quale il nome mitico era divenuto paradigma semantico. […] Ulisse rivolgendosi a se stesso e richiamando le proprie doti di astuzia e di intelligenza si dice nunc totum Ulixem, invocando, per così dire, la pienezza del suo essere: totus significa infatti l’interezza, il pieno possesso delle sue note qualità. Ora qui semanticamente il nome di Ulisse presenta il contenuto concettuale di ‘uomo astuto’, ‘abile artefice di inganni’». Il riferimento all’astuzia, inoltre, definisce in maniera specifica la natura e la tipologia di fraus e dolus, li contraddistingue come inganni messi in atto da un’intelligenza sottile, capace di adattarsi alle situazioni e di ingegnarsi abilmente a seconda delle necessità per ottenere lo scopo prefissato, raggirando l’avversario. Le più usuali rappresentazioni della personalità e della metis di Ulisse, ereditate dal mondo greco, sembrano pertanto intrecciarsi sul piano drammatico con la versatilità dell’inganno comico, codificata in termini pienamente romani dal teatro plautino in cui, peraltro, l’immagine stessa dell’eroe di Itaca viene assunta a modello di geniali trovate (Pseud. 1063: Sim. Visso quid rerum meus Ulixes egerit; 1244 s.: Sim. Nimis illic mortalis doctus, nimis uorsutus, nimis malus. | Superauit dolum Troianum atque Ulixem Pseudolus)36. Nel commento al passo e all’apostrofe, lo stesso Caviglia insiste su questo aspetto, valutando in tal senso anche le scelte formali: «Il triplice nesso allitterante, il tricolon in clausola (con asindeto) ricordano la tecnica scenica arcaica, nel vasto spazio comune tra commedia e tragedia; cfr. ad esempio Plaut. Mil. 1153 s., nunc quam maxime opust dolis; Epid. 375, meis dolis astutiisque. Il personaggio e la situazione fanno parte del mondo tragico, ma il motivo dell’astuzia, mente – carico di significati, viene contrapposto in maniera antitetica alla ueritas. Il testo sembra suggerire che, se alla voce Ulisse associamo come sinonimi astus, fraudes, doli, alla voce contraria è sufficiente un unico, denso, vocabolo: ueritas. 36 Va ricordato anche il lungo discorso pronunciato da Crisalo in Bacch., v. 925978, nel corso del quale il seruus ricorre a una serie di paragoni mitologici tra cui spicca, ancora una volta, il confronto con l’ingegnoso Ulisse, la cui abilità, da tutti riconosciuta come riferimento imprescindibile per ogni iniziativa (v. 940, Ego sum Ulixes, cuius consilio haec gerunt), viene ambiguamente collocata tra l’audacia e la malizia (v. 949, Nam illi itidem Ulixem audiui, ut ego sum, fuisse et audacem et malum). Campione di blandizie e capace di una parola subdolamente persuasiva con cui districarsi nelle situazioni più difficili (v. 964 s., Cognitum ab Helena esse proditum Hecubae. Sed ut olim ille se | blanditiis exemit et persuasit se ut amitteret), diventa l’esempio da cui il protagonista trae ispirazione per realizzare il proprio, personale, cavallo di Troia (v. 965, Item ego dolis me illo extuli e periclo et decepi senem), nuovo originale dolus, con cui procedere al comico assalto non in arcem, uerum in arcam (v. 943).

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Capitolo I.  L’inganno nel teatro di Seneca: lessico, personaggi, situazioni

dell’inganno favorisce collegamenti con la tradizione ‘comica’37». L’Ulisse callidus e astutus sembra in qualche modo debitore nei confronti del repertorio lessicale fissato dai protagonisti, meno dalle situazioni, della commedia plautina, dove questi vocaboli si riscontrano frequentemente, proprio per indicare un’abilità e un’intelligenza particolari, come rileva uno studio specificamente dedicato al lessico della finzione e dell’intrigo nel teatro del Sarsinate: callidus «does occur in bonam partem in the sense of general keenness in Plautus and Terence, but far more often it has a tricky connection» e, analogamente, astutus «may denote a desiderable mental keenness but, like callidus, possesses also a tricky force. […] A plan or a trick which is considered clever (and thus ‘tricky’) is astutus, Cas. 860, or managed cleverly, astute, Cas. 48838». Sull’insistita terminologia dell’inganno, con riferimento all’elemento plautino, si è soffermato recentemente anche G. Mazzoli, per il quale «l’espediente di celare Astianatte nel sepolcro paterno reca più volte le marche lessicali dell’inganno: fraus, già s’è visto (v.  482), dolus (v.  492), furtum (v.  501); e, ripetutamente, il verbo-chiave latere39 già usato dall’umbra (v. 482, 494, 496)  […]. Di Caviglia 1981, ad loc. p. 266. Brotherton 1926, p. 30-31. La critica ha poi precisato e delimitato la sottile differenza tra termini che apparentemente sembrano sinonimi, Crampon 1999, p. 287: «Callidus définit la qualité de celui qui est prêt à utiliser tous les moyens de la ruse. Le suffixe en -do n’est d’ailleurs pas étrange à cet aspect virtuel. Astutus, lui, avec son suffixe en -to n’implique pas une telle virtualité, il contient l’élément ruse, un point c’est tout». 39 Concordo con la lezione A latet, accettata qui dallo studioso in sintonia con «Brugnoli, Caviglia, Amoroso contro E perit, accolta in massima parte dagli editori […]». Mi sembra peraltro significativa l’assonanza con Oed. v. 825-827, dove il verbo latere è associato, come in questo caso, alla ueritas: siue ista ratio siue fortuna occulit | latere semper patere quod latuit diu: | saepe eruentis ueritas patuit malo, su cui Töchterle 1994, ad loc. p. 545, «Iocasta versucht ihren Gatten wie bei Sophokles, OR 1056 ff. von der letzten Erkenntnis abzuhalten [...] Vorher werder in für Seneca typischer Manier Sentenzen ausgetauscht». Diversamente da quanto ritiene Keulen 2001, ad loc. p. 364, che, a favore della lezione perit – in cui il verbo «better motivates Ulysses’ determination» – sottolinea la differenza di contesto con i versi dell’Edipo («in a quite different context!»), credo infatti che i due passi si prestino a un confronto anche per la non secondaria presenza del verbo eruere, utilizzato in senso metaforico con il significato di ‘scavare’ alla ricerca della verità non solo da Giocasta ma anche da Ulisse, v. 580, et pectore imo condita arcana eruet. Lo stesso Ulisse giocherà poi con il significato letterale del termine, nell’ordinare ai soldati di cercare Astianatte ovunque, appunto (!), si nasconda, v. 627-629, ite, ite celeres, fraude materna abditum | hostem, Pelasgi nominis pestem ultimam | ubicumque latitat, erutam in medium date. Un breve accenno va fatto anche a H. F. v. 995: siamo nell’importante momento drammatico in cui Ercole, in preda al furor che lo porterà a sterminare la sua famiglia, di fronte a un Anfitrione che, a mo’ di didascalia, ne riferisce i gesti e le azioni (v. 991-994), dichiara il proprio intento, v. 995 s.: Ceteram prolem eruam | omnisque latebras. Ancora una volta, dunque, viene ribadita l’associazione tra l’azione di eruere e le latebrae. Aygon 2005, p. 400, mette giustamente in evidenza come le 37 38

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questo Ulisse così Senecano more autoreferenziale interessa soprattutto il momento clou dei v. 613 s., in cui per la prima volta sente di aver in pugno Andromaca e parla ‘omericamente’ a se stesso: nunc aduoca astus, anime, nunc fraudes, dolos | nunc totum Ulixem; ueritas numquam latet, la verità non può rimaner nascosta nel luogo degli inganni, quel sepolcrale ‘cavallo di Troia’ tentato dall’infelice avversaria con modalità ‘teatrali’ destinate all’insuccesso. Andromaca non è Crisalo… ; e, soprattutto, dice sempre il vero al suo perfido antagonista. Se, preso per sé, l’intero agone tra lei e Ulisse – per il ricorso spinto al ‘gioco delle parti’, al rovesciamento dei ruoli, ai soliloqui, all’ambiguitas verbale e concettuale – si potrebbe anche assumere sotto le beffarde sembianze d’un Plautinisches im Seneca, ben presto ci avvediamo di quanto, nel paesaggio tragico delle rovine, la consapevole manipolazione dei codici letterari sortisca l’effetto d’un potenziatore di drammaticità40». Anche nel terzo coro di Agamemnon, tragedia su cui la critica ha già avuto modo di rilevare elementi di «continuity and sequence41» con Troades, le prigioniere troiane rievocano la caduta della propria città, ricordando il momento funesto della presa di Troia e rimpiangendo, oramai rassegnate, la credulitas del popolo troiano: non può dunque mancare un riferimento all’astuzia e all’ingegno del parole che l’Itacese rivolge a se stesso ai v. 625 s. (hac, hac parte quaerenda…) possano essere accostati alla metafora cinegetica che si riscontra anche in Phaedr. v. 6 s. e Thyest. v. 497-499: mi pare che il paragone sia del tutto calzante, ma non si vede allora perché l’A. preferisca la lezione E perit in luogo di A latet, che, nel richiamo al nascondiglio, ben si adatterebbe anche all’immagine venatoria (infatti, anche il confronto con Lucr. De rer. nat. 1, 404 s., proposto dallo studioso, lascia intendere un rapporto con questa sfera di significato, nel riferimento alle latebrae, specialmente v. 408 s. caecasque latebras | insinuare omnis et uerum protrahere inde). La discussione della scelta alle p. 401-402 non mi risulta del tutto convincente: Aygon porta a supporto della propria tesi un confronto con Terenzio, Andria, v. 68, ueritas odium parit, ipotizzando un gioco di parole parit/perit in Seneca, fondato sulla ripresa dello schema metrico e sintattico del secondo emistichio, per un passaggio comico ben noto attraverso il commento ciceroniano, De amic. 89, mentre sembra dare minor peso ad altre occorrenze interne all’opera del tragediografo o al ricorso di alcune corrispondenze semantiche su cui, invece, ci si dovrebbe maggiormente soffermare. In questo senso, pertanto, mi pare si debbano leggere anche altri esempi riportati dallo studioso che, nel trattare i termini generali del passo e il valore di vocaboli quali uerum e ueritas in Seneca, richiama altri passaggi su questo tema nella prosa del Cordovese, tra cui De ben. 7, 1, 5, non multum tibi nocebit transisse, quae nec licet scire nec prodest. Inuoluta ueritas in alto latet. Vale la pena ricordare, infine, l’associazione tra ueritas/eruere/latebrae in un passaggio di Quintiliano, Inst. 12, 9, 3 in relazione all’oratio: at si iuris anfractus aut eruendae ueritatis latebras adire cogetur… 40 Mazzoli (G.) 2010b, p. 363. Sul confronto tra il personaggio di Ulisse e il teatro comico nelle modalità di preparazione dell’inganno tragico già Amoroso 1984, ad loc. p. 165. 41 Richiamo qui il titolo del noto studio di Fantham 1981-1982.

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subdulus Itacese, che ha guidato i Greci alla vittoria, con la conquista e la distruzione di Troia, v. 625-636: Vidimus simulata dona | molis immensae Danaumque | fatale munus duximus nostra | creduli dextra tremuitque saepe | limine in primo sonipes cauernis | conditos reges bellumque gestans. | Et licuit dolos uersare ut ipsi | fraude sua caderent Pelasgi: | saepe commotae sonuere parmae | tacitumque murmur percussit aures | ut fremuit male subdolo | parens Pyrrhus Ulixi42. In Troades, fraus, dolus e astus, vengono utilizzati per ritrarre l’indole e la natura di Ulisse in altre due occorrenze43, entrambe in battute attribuite ad Andromaca. Il primo episodio si colloca nel momento immediatamente successivo alla scoperta del nascondiglio, quando, fallito ogni tentativo di implorare pietà per la vita di Astianatte, la donna si scaglia contro l’avversario, accusato, ora davvero apertamente, di essere un abile macchinatore di inganni, riprendendo il motivo già virgiliano, poi ovidiano, di un Ulisse che agisce di nascosto con astuzia, del tutto privo di valore militare, incapace di combattere lealmente e di vincere senza fare ricorso alla frode44: O machinator fraudis et scelerum artifex, 42 Constatano per questi versi la martellante insistenza sulla tematica dell’inganno, con la quale vengono sottilmente messe in relazione la fine di Troia e la tragica fine del vincitore Agamennone, prima Giomini 1956, p. 143, poi Aricò 1999, p. 106 (al cui precedente studio del 1990 si rimanda anche, più in dettaglio, per la dinamica dell’uccisione dell’Atride, tra fedeltà alla tradizione e originalità senecana). 43 Sulla scia di una sorta di sympatheia tra personaggi e paesaggi, peraltro comune nel teatro senecano, anche il breve riferimento all’isola di Itaca, inserito nel finale del terzo coro tra le probabili destinazioni greche delle prigioniere troiane, è occasione propizia per ribadire la natura ‘dolosa’ di Ulisse attraverso la descrizione dell’altrettanto pericolosa patria, v. 857, et nocens saxis Ithace dolosis (cfr. Od. 9, 27 e Verg. Aen. 3, 272). Un’altra notazione geografica sulla natura ingannevole di un luogo si trova in Ag. 558 s., in relazione alle insidie del promontorio Cafereo, nell’ambito della lunga rhesis del nostos: Est humilis unda, scrupeis mendax uadis, | ubi saxa rapidis clausa uerticibus tegit | fallax Caphereus. Sulla retorica del paesaggio tragico di Seneca, considerato «come scenografia interna al testo», valide osservazioni nel bel contributo di Rosati 2002, che giustamente sintetizza, p. 228: «Un paesaggio è legato ai vari personaggi, alla loro natura, alla loro responsabilità morale». A tutti gli aspetti citati e, segnatamente, al legame tra natura e inganno, è dedicato l’ultimo capitolo di questo lavoro, cui si rimanda per ulteriori notazioni. Sul motivo, in relazione ai fenomeni astronomici, Owen 1968, p. 296, mostra chiaramente che non si tratta affatto di un luogo comune: lo stravolgimento della natura celeste diventa un «major fact of the play’s action». 44 Fantham 1982, ad loc. p. 314, interpreta le parole di Andromaca nel senso di «a blend of traditional invective techniques, and phrases and characteristics already established as a part of the persona of Ulysses in Virgil and Ovid». La studiosa nota altresì che «machinator as an abusive term goes back to Ciceronian invective (S. Rosc. 132), but is probably older; the verb machinari is associated with trickery at Pl. Bacch. 232 and Capt. 530». Con riferimento alla drammaturgia euripidea, Petrone 1983, p. 94, parla per

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| uirtute cuius bellica nemo occidit | dolis et astu45 maleficae mentis iacent | etiam Pelasgi uatem et insontes deos | praetendis? hoc est pectoris facinus tui. | nocturne miles, fortis in pueri necem | iam solus audes aliquid et claro die (v. 750-756). Il secondo episodio, invece, rientra nel dialogo tra Elena e Andromaca, già significativo per la menzogna sulla sorte di Polissena, a cui Elena anticipa false nozze con Pirro46: nel ‘a parte’ dei v.  867 s., Elena gioca un ruolo in un certo senso analogo a quello che era stato di Ulisse, tentando di mascherare con l’inganno l’uccisione della figlia di Priamo. Il racconto di Taltibio all’inizio della tragedia aveva indicato nella giovane la vittima prescelta dall’ombra di Achille, che può vedere così soddisfatto il proprio desiderio di sangue: su questo ulteriore tassello Seneca costruisce la contrapposizione tra il Pelide e il nemico Ettore47, il cui tentativo mechané di «macchinazione astuta, trovata dell’ingegno, abilmente costruita finzione che un personaggio crea per avere ragione dei suoi nemici», che rappresenta infatti quanto ha subito Andromaca da parte di Ulisse. Mettendo a confronto l’uso euripideo e quello plautino del termine, la studiosa nota che «la coincidenza machina-mechané non è solo questione di vocabolario, ma segna una linea di tendenza, nata con Euripide e trasmessa poi alla successiva tradizione comica, sviluppatasi su e dentro le fondamenta tecniche della tragedia euripidea, secondo la quale l’azione drammatica è soprattutto intrigo, ovvero costruzione di una ‘macchinazione’ da parte di un personaggio, che intende imporre la sua volontà agli antagonisti». Poche le occorrenze del termine in Seneca tragico: si inserisce pienamente nell’uso drammatico tradizionale la definizione di machinatrix per Medea, v. 266; rientra nell’invettiva lanciata da Teseo a se stesso nel finale della Phaedra, v. 1220-1222, [...] crudus et leti artifex | exitia machinatus insolita effera, | nunc tibimet ipse iusta supplicia irroga. Affinità tra il personaggio di Medea e quello di Ulisse («Médée joue en quelque sorte le rôle d’Ulysse») in Garelli-François 1996. Considerazioni sull’origine del termine machina (di uso concreto e tecnico, prevalentemente ma non esclusivamente bellico, cfr. ThLL, VIII, 12-13) e sulla sua successiva facies drammatica in Marchis 1998. 45 Cfr.  Verg. Aen. 2,  164, scelerumque inuentor Ulixes; Ov.  Met. 13,  103 s., Quo tamen haec Ithaco, qui clam, qui semper inermis | rem gerit et furtis incautum decipit hostem? 46 In generale, sul binomio nozze-funerale, di lunga e ampia tradizione letteraria, si veda almeno Szepessy 1972. In particolare, sul personaggio di Polissena, Fontinoy 1950, mentre Aricò 1995 analizza la rielaborazione drammatica senecana «alla luce delle motivazioni letterarie e simbolico-religiose». 47 Si segnala a riguardo Amoroso 1983, che mette a confronto la narrazione dell’apparizione di Achille da parte di Taltibio e il racconto del sogno di Andromaca, assimilato dallo studioso a un logos angelikos, p. 89: « À la narration qui, dans un certain point de vue, a le caractère d’un logos angelikos, comme dans l’affirmation de l’autopsie (vidi, ipse vidi), correspond en effet le songe d’Andromaque où apparaît Hector, le grand adversaire d’Achille. Même la courte scène du récit d’Andromaque est jouée selon la technique théâtrale d’une scène d’annonce ». Ha trattato il passo anche Schetter 1965. I due eroi vengono descritti specularmente: da un lato Achille, ricordato ‘in positivo’, v. 178-189, attraverso l’uso dell’aggettivo qualis, v. 182, che accompagna il racconto delle più belle

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Capitolo I.  L’inganno nel teatro di Seneca: lessico, personaggi, situazioni

di salvare la paruula stirps non ottiene il risultato auspicato. Astianatte e Polissena appaiono così segnati da una sorte tragicamente simile, anche nelle modalità con cui vengono prelevati in vista del sacrificio: l’uno, scovato dal nascondiglio grazie allo stratagemma dell’Itacese e consegnato al proprio destino, l’altra, accompagnata alla morte attraverso l’inganno del talamo funesto, secondo quanto è, almeno inizialmente, nelle intenzioni di Elena48, arte capietur mea | meaque fraude concidet Paridis soror | fallatur. Anche l’uso della parola ars, qui associata semanticamente a fraus, sembra rievocare l’accezione comica del termine, dove è stato notato che denota «intelligence, excellence et séduction», quella forma di ingegnosità, quella capacità di adattarsi alle situazioni, in breve quell’abilità a raggirare gli altri, che si manifesta soprattutto attraverso la parola menzognera e che sembra qui confermare una certa, iniziale affinità tra Elena e l’eroe di Itaca49. Ma Elena non è Ulisse: di fronte alle motivazioni dell’interlocutrice, Andromaca svela le reali intenzioni dei Greci, chiamando in causa ancora una volta la figura del Laerziade, poiché alla sua capacità di ideare inganni e progettare delitti viene attribuita la responsabilità di questa ulteriore morte. Elena stessa, dunque, non è più tenuta a falsificare la realtà, come dimostra l’uso dell’imperativo che invita a non mentire, fare quos Ithacus dolos | quae scelera nectat (v.  927 s.)50. Giustamente, Caviglia nota che «non esiste frattura tra il ‘terzo’ e il ‘quarto atto’: l’Andromaca che ora parla è la stessa che si è appena vista rapire Astianatte dalla violenza di Ulisse». Lo conferma il aristiai, e dall’altro Ettore, v. 444-450, definito in negativo dall’essere non qualis, dove l’uso della negazione caratterizza l’immagine di un guerriero che non c’è più, svanita e sfumata nell’apparizione onirica di una fallax umbra, v. 460. Del sogno di Andromaca, è interessante la lettura di Pasiani 1976. Sui modelli poetici e i riferimenti letterari di Virgilio e Ovidio Danesi Marioni 1999: l’A. propone anche un’originale lettura properziana (4, 7), che si inserisce in una serie di altre situazioni elegiache in Seneca tragico su cui Ead. 1995. 48 Cfr.  Amoroso 1984, p.  183 che sottolinea la consapevolezza di Elena per le proprie arti ingannatrici, al pari di Ulisse, e propone un confronto con Verg. Aen. 6, 511 s. Anche Corsaro 1991, p. 89, mette bene in evidenza la vicinanza tra i due personaggi, autori di inganni, e raffronta anche le due figure femminili: «Elena, a sua volta, con questo imbroglio, riuscito, risulta il pendant straniato di Andromaca, il cui pietoso stratagemma sortisce esito negativo». Ma nel passo in questione, ovvero nel momento in cui si confronta con la moglie di Menelao, ben diversamente dall’agon con Ulisse, Andromaca apparirà pronta a riconoscere e rivelare l’inganno. 49 Gavoille 2001, praec. p. 773-775. 50 Cfr. Fantham 1982, ad loc.: «She interprets Helen’s message in terms of her own loss […] and a death by precipitation like that of Astyanax»; su questo aspetto anche Caviglia 1981, p. 90, «Andromaca […] prevede per Polissena una morte simile a quella che è stata riservata al suo Astianatte».

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fatto che, nel descrivere l’abilità del nemico greco, l’eroina troiana usi l’espressione nectere dolos, richiamando alla mente del pubblico, e alla nostra attenzione di lettori, il nectit astus callidos (v. 523), con cui aveva anticipato l’arrivo dell’Itacese sulla scena. Cambiato il contesto di riferimento e mutato il grado di consapevolezza, dopo l’esperienza diretta e il fallimento del tentativo di salvare Astianatte conclusosi come sappiamo, le parole di Andromaca hanno perduto l’originaria sfumatura di avvertimento e sembrano piuttosto aver assunto il tono amaro e disilluso di chi, in una lucida analisi della situazione, ha perduto ogni speranza e non può che rassegnarsi a voler affrontare una drammatica verità, v. 935-937: fare, quam poenam pares | exprome et unum hoc deme nostris cladibus | falli: paratas perpeti mortem uides. L’inganno, crimen endogeno: Thyestes e Phoenissae Thyestes Nel corpus drammatico di Seneca, il Thyestes è per eccellenza la tragedia dell’inganno, tema la cui centralità può essere ricondotta ad almeno due grandi ambiti. In primo luogo, è motivo dominante l’intero svolgersi dell’azione, come risulta evidente dalla struttura stessa della fabula drammatica, articolata nella macchinazione di un inganno, illustrata nelle diverse tappe dell’ideazione, della pianificazione e della realizzazione da parte di Atreo ai danni del fratello Tieste. Ciò spiega la presenza di un lessico della finzione che si distingue per ricchezza e varietà, assumendo funzioni differenti a seconda del contesto, per mezzo di riferimenti che possono essere colti e interpretati a più livelli e comportare molteplici implicazioni. In secondo luogo, sul piano mitico, fraus e dolus sono due elementi costitutivi delle vicende, patrimonio genetico della domus Pelopia51, che si tramanda insieme al sacrificio empio come 51 Sul lessico e sulle chiavi tematiche della saga familiare dei Pelopidi, Molero Alcaraz 2006, p.  322, ben evidenzia la centralità dell’inganno nelle vicende della stirpe: «El crimen de familia en las formas del incesto o del adulterio, muchas vece unidos, se comete en la temática tradicional del mito de los Pelópidas, por medio del engaño o de la traición alevosa, desde las acciones del fundador de la estirpe, Tántalo, y las de su hujo Pélope, lo cual designa en el corpus con los sustantivos dolus, fraus, furtum, plaga […]». Insiste su questo aspetto anche Guastella 2001, p. 39, che riconosce nell’inganno un elemento fondamentale della storia tantalide: mi pare inoltre interessante il richiamo al commento del Trevet (n.  30, p.  39), che già aveva individuato in questo uno dei temi cardine della tragedia, come si ricava dal commento al v. 661, uictae falsis axibus pendent rotae, così articolato: axes false dicte sunt ad similitudinem hominum qui decipiunt illos qui confidunt in eis et eodem modo axes dum franguntur decipiunt eos qui eis innituntur.

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Capitolo I.  L’inganno nel teatro di Seneca: lessico, personaggi, situazioni

«segmento essenziale della rete connotativa della colpa della stirpe». L’inganno coinvolge gli esponenti del genus senza soluzione di continuità, secondo un modello sintetizzato con acume nell’immagine di Rivoltella52: «Le vicende del regnum non conoscono un autentico divenire, ma solo un’incessante ricapitolazione del passato nel presente: unica differenza tra questi è il crescendo di efferatezza che si manifesta nella riproposizione del medesimo scelus. Un moto circolare e insieme in ascesa, cioè una specie di moto spiraliforme, anima la catena di crimini endogeni che funesta la vita delle corti, tendendo a esiti di sempre maggiore abnormità». Riconducibile al remoto passato dell’empio antenato Tantalo e lasciato in eredità dal padre Pelope, come elemento congenito e come testimone di famiglia da tramandare attraverso le generazioni, esso si attua nel presente della messa in scena tragica, con seguito nell’immediato futuro profetizzato dalla Thyestis umbra nel prologo dell’Agamemnon53. Come punti di riferimento e di confronto con il momento mitico oggetto del racconto drammatico, le vicende e gli scelera compiuti dai Tantalidi sono ripercorsi attraverso il ricordo di tutti i protagonisti della lunga scia di sangue54; ricordo in cui non mancano frequenti riferimenti agli inganni di cui tutti sono stati e continuano a 52 Rivoltella 1993, p. 128. Sul punto si ricordi inoltre Narducci 2007, che ha brevemente ma efficacemente ripercorso la storia del tema «la lunga catena dei misfatti» partendo proprio dalla sua origine nella tragedia arcaica. L’A. propone altresì rilevanti considerazioni sul suo riutilizzo nella scrittura ciceroniana e sulle evoluzioni manieristiche del motivo in Seneca e Lucano. 53 Cfr. Tarrant 1976, p. 157-161. Tieste anticipa l’allungarsi della catena di delitti della stirpe attraverso il ricorso all’inganno, alla morte, al sangue, Ag. v. 47 s.: iam scelera prope sunt, iam dolus caedes cruor | parantur epulae. Causa natalis tui, | Aegisthe, uenit. Egisto è degno erede del padre, anche per Clitennestra, v. 292-301, che non trascura un riferimento all’adulterio, inganno d’amore, che accomuna Tieste (unitosi a Erope moglie di Atreo) al figlio Egisto : Ae. Et cur Atrida uideor inferior tibi | gnatus Thyestae? Cl. Si parum est, adde et nepos. | Ae. Auctore Phoebo gignor, haud generis pudet. | Cl. Phoebum nefandae stirpis auctorem uocas | quem nocte subita frena reuocantem sua | caelo expulistis? Quid deos probro addimus? | Subripere doctus fraude geniales toros | quem Venere tantum scimus inlicita uirum | facesse propere ac dedecus nostrae domus | asporta ab oculis: haec uacat regi ac uiro. Sul modello elegiaco dell’amore ‘irregolare’ cui è dedito Agamennone Rosati 2006, p. 98. L’A. insiste anche, con implicazioni particolarmente interessanti per la tematica che qui si tratta, sull’analogia tra libido regnandi e libido amandi nel mondo tragico senecano, proponendo un confronto tra fraus quale strumento essenziale del regnum e fraus quale strumento essenziale dell’eros (evidente soprattutto nell’esplicito accostamento dei due motivi in Thyest. v. 222-224), p. 103 s.: «accomunati sotto il segno della fraus, amore e regnum appartengono alla vita di città […] Potere e amore sono i tratti che identificano la civiltà e il terreno in cui si scatena il furor che la caratterizza […] quella fraus che è il tratto comune della reggia e dell’eros». 54 Sul tema e sulle sue implicazioni nella tragedia dell’età repubblicana e imperiale si veda l’analisi di Dangel 1987.

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essere protagonisti, ascrivibili per lo più al campo semantico di deceptio/decipere55. Il capostipite Tantalo, che ha cercato di ingannare gli dei, è ora costretto nell’Ade a subire l’ingannevole e perenne illusione del mangiare e del bere, pena senza fine descritta dal primo coro in Thyest. v. 159-16156. Deceptus totiens tangere neglegit | obliquatque oculos oraque comprimit | inclusisque famem dentibus alligat, e v. 165-167 accenduntque famem, quae iubet irritas | exercere manus – has ubi protulit | et falli libuit. Presente nel racconto della katabasis agli Inferi di Teseo in H. F. v.  752-755: in amne medio faucibus siccis senex | sectatur undas, alluit mentum latex | fidemque cum iam saepe decepto dedit | perit unda in ore, è brevemente evocata dall’immagine del supplizio interminabile anche dall’ombra di Tieste, nel momentaneo ritorno in terra dagli opaca loca Ditis in Ag. v. 20: aquas fugaces ore decepto appetit57. Pelope, figlio di Tantalo e strumento dell’inganno paterno, riportato alla vita per volontà degli dèi, è a sua volta figura agente − il cui ruolo è sottolineato dall’uso del sostantivo deceptor − che si rende colpevole di inganni nei confronti di altri mortali, uccidendo Enomao, con l’aiuto di Mirtilo, per poi liberarsi dello stesso complice, in Thyest. v. 139 s., proditus occidit | deceptor domini Myrtilus. Nella generazione successiva, la competizione tra i fra Interessante l’originale valore come vocabolo venatorio, metafora di grande rilevanza in tutto lo svolgersi del dramma tiesteo, cfr.  E.-M., p.  96, s. v. terme de chasse (cf, dēcipula, ‘rêtes, piège à oiseaux’): ‘prendre en faisant tomber dans un piège, prendre par la ruse’, d’où ‘tromper, duper’. Sul valore propriamente decettivo ThLL, V/1, 174, 61 Gramm. suppl. 289, 1, inter capere et decipere hoc interest, quod capimus etiam merentes, decipimus innocentes, aut capimus arte, decipimus insidiose, glossato quindi come seduco, fallo, circumuenio. 56 Sulle figure dei ‘dannati infernali’ in Seneca tragico si segnala Mantovanelli 1993 (con classificazione dei canoni tradizionali del topos e analisi degli elementi innovativi introdotti dal Cordovese); per quanto riguarda Tantalo, p. 142, parla di «circuito espressivo che attiene alla psicologia del frustrato», da cui fa derivare il motivo dell’inganno già properziano (4, 11, 23 s.). Il meno convincente Erasmo 2006, p. 186, presenta la figura mitica come «an unrequited lover» e propone «a sexualized reading of Seneca’s ode» attraverso un rovesciamento di ruoli tra sedotto e seduttore. Mi sembra anche poco appropriato parlare per questi versi di, p. 188, «underlying comic tone». 57 Scrive di «numerose analogie col prologo del Tieste» Caviglia 1979, p. 246. Il confronto con Od. 11, 582-592, a mio avviso, svela una maggiore insistenza del Cordovese proprio sul tema dell’inganno, evidenziato in Tantalo dal contrasto tra, da un lato, l’illusione del ‘toccare’ il cibo e l’acqua e, dall’altro, la perenne disillusione: come si ricava da H. F. v. 754, lo spazio infernale stringe emblematicamente una connessione molto forte tra l’inganno e la perfidia, non lasciando spiragli (in sintonia con la rappresentazione tragica di questa tematica in Seneca), per una fides positiva, incorniciata nella cristallizzazione di un movimento, e quindi, appunto di un’illusione, di uno scarto tra realtà e apparenza, che si ripete senza sosta e che proprio in questo incessante manifestarsi si fa exemplum di quanto accade all’intera stirpe tantalide. 55

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Capitolo I.  L’inganno nel teatro di Seneca: lessico, personaggi, situazioni

telli Atreo e Tieste invera il rapporto di parentela nel riproporre le epulae come «trasgressione primaria58» proprio nel finale del Thyestes, dove simbolicamente (e ciclicamente rispetto all’incipit del dramma) ritroviamo importanti analogie tra la descrizione dell’orrido pasto di Tieste e la pena infernale dell’antenato Tantalo, Thyest. v. 987 s., admotus ipsis Bacchus a labris fugit |circaque rictus ore decepto59 fluit. È questo il segno definitivo della completa sovrapposizione tra la terra e l’Ade, peraltro già evocata nel prologo60: la casa di Dite, che l’Hercules Furens colloca nel locus horridus dello spartano Tenaro, si è trasferita nello spazio della domus Pelopia, mimetizzata e nascosta dall’apparenza splendente, ma ingannevole, delle Argolicae opes. Riferimenti a dolus e fraus si riscontrano soprattutto nella prima parte della tragedia61, nel dialogo tra Atreo e il satelles e nel dialogo tra Tieste e il figlio Tantalo, successivo al secondo canto corale. La contrapposizione tra i due fratelli è costruita infatti anche sulle accuse reciproche per comportamenti e intenzioni, nel considerarsi autori e vittime di macchinazioni fraudolente che incidono, in aggiunta al patrimonio di scelera ereditati dalla famiglia, sul corso degli eventi. Il rapporto tra le colpe dell’impia progenies e la drammatizzazione è molto stretto, ben comprensibile nell’asserzione che «la maggior parte dei drammi senecani si fonda su complessi miti di famiglia, resi ambigui e scellerati da colpe originarie quali l’incesto, soprattutto, ma anche l’adulterio che ne minano dalle basi la stabilità rendendone incerti i contorni. Lo sviluppo stesso dell’azione ne viene profondamente condizionato: si pensi ad esempio alle motivazioni remote addotte da Atreo, indipendentemente

Caviglia 2000, p. 62. Importante sul tema Mazzoli (G.). 1989, che visualizza, p. 336, «in una rappresentazione stemmatica la recensione dei tratti denotativi o connotativi del sistema antropofagico che, quasi per legato cromosomico, si trasmettono, in realizzazioni più o meno forti o deboli, attraverso le cinque (e più) generazioni del fatale ghenos. In estrema sintesi […] almeno l’assassinio (progressivo, poi anche regressivo nei confronti della stirpe), il sacrificio umano, l’endocannibalismo, la frode, la turbatio sanguinis mediante l’adulterio o, più drasticamente, l’incesto». Sul Tieste soprattutto Boyle 1983; Picone 1984; Caviglia 2000 e, per quanto concerne il rapporto con la tradizione letteraria, Aygon 2003. 60 Picone 1984, praec. p. 16 s. 61 Così anche Tarrant 1985, p. 110, ad loc.: «deceit is a recurrent theme of the first part of the play, cfr. 47-48, fides … pereat, 159 deceptus, 223-224 furto … fraude … 235 perfidus, 312 fraudis vias, 318 dolos, 320-321 fallere falles, 473 dolus, 482 fraudem, 486 decipi times». 58 59

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dal suo desiderio di conservare il potere politico, durante la preparazione del tragico banchetto62». Nel primo dei due momenti, Atreo presenta se stesso come vittima dei crimini fraterni, ripercorre i torti subiti in una sorta di climax che incita alla vendetta, (v. 176-179), ignaue, iners, eneruis et (quod maximum | probrum tyranno rebus in summis reor) | inulte, post tot scelera, post fratris dolos | fasque omne ruptum, valida giustificazione per il compimento di un nefas inaudito63 (v. 220-224) fas est in illo quidquid in fratre est nefas […] Coniugem stupro abstulit | regnumque furto: specimen antiquum imperi | fraude est adeptus, fraude turbauit domum. L’insistenza, evidenziata dall’anafora fraude, sulle modalità con cui il fratello si è impadronito dell’ariete, simbolo di potere, e ha corrotto il talamo, lascia intravedere, anticipandole, le dinamiche di una vendetta che, portata all’estremo, ricambi con le stesse armi il dolo subito. La rievocazione degli inganni di Tieste che lo hanno colpito personalmente sia nell’esercizio del proprio potere tirannico (imperi quassa est fides, v. 239), sia all’interno della famiglia, contaminando l’integrità della discendenza (domus aegra, dubius sanguis est, v. 240), diviene così funzionale all’aemulatio degli exempla familiari di Tantalo e Pelope che apre la strada all’effettiva organizzazione della vendetta attraverso lo studio delle sue modalità (v. 245-259). Come nota Guastella: «la frode di Tieste ha effetti permanenti: la rottura della fides, su cui doveva basarsi tanto il rapporto fraterno quanto quello coniugale, ma soprattutto lo sconvolgimento totale delle certezze della casa regnante. Non c’è nulla di certum, tutto è dubium64». Il motivo della frode scandisce così questi versi, con una ridondante successione ben evidenziata dallo studioso: «I v. 222-224 […] condensano la presentazione della colpa in un’elaborata struttura retorica. Una complessa figura chiastica propone e poi rovescia l’ordine dei misfatti di Tieste, presentandoli sotto l’etichetta comune della fraus […] Abbiamo dunque la sequenza stuprum-furtum/ furto-adulterio, la cui seconda metà distribuisce a sua volta chiasticamente gli accusativi e i verbi che li reggono (specimen antiquum imperi – fraude est adeptus – fraude turbauit domum). Da un lato, è dunque definito fraus, il furtum che consente a Tieste di impadronirsi dell’ariete, dall’altro – ed è questo l’elemento su cui si insiste di più – è fraus anche il fatto che Borgo 1993, p. 11. Cfr. Picone 1984. Nell’ambito del delitto endogeno Rivoltella 1993 in merito al Thyestes segnala, p. 126: «Il tiranno attinge a questa fosca vicenda familiare in cui si mescolavano potere regale, frode e antropofagia, per aggiungere un elemento di ulteriore ferocia alla saga dei Pelopidi». 64 Guastella 2001, p. 46 s. 62 63

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Capitolo I.  L’inganno nel teatro di Seneca: lessico, personaggi, situazioni

egli si sia unito alla donna di Atreo, commettendo adulterio con lei65». Il motivo dell’inganno doveva essere presente, con una certa risonanza, anche nell’Atreus di Accio66: da un confronto con un frammento relativo al furto dell’ariete − 37-41 D. − sembra infatti che ne restino tracce, non senza alcune analogie con il brano senecano nell’insistenza sulla natura dolosa dell’atto di Tieste: Addo huc quod mihi portento caelestum pater | prodigium misit, regni stabilimen mei | agnum inter pecudes aurea clarum coma; | quem clam Thyestem clepere ausum esse e regia! | qua in re adiutricem coniugem cepit sibi! L’azione viene indicata con una terminologia differente rispetto a quanto si legge nel testo di Seneca, già notata da chi ha evidenziato la preferenza nel Pesarese per termini che sottolineino la segretezza del furto: «al grecismo clepere, uno dei tanti usati da Accio contro i pochissimi di Seneca, e qui preferito perché, allitterando con clam, evidenzia il fatto che il furto è stato perpetrato subdolamente, in segreto nella stessa reggia, carpendo la buona fede dell’ospitante, Seneca sostituisce con un auehit, che meglio s’accorda con il transfugamento dal recinto67». Nell’interpretazione del Cordovese, tuttavia, l’episodio viene Ivi, p. 51. Sulla controversa questione del rapporto tra Seneca e la tragedia latina arcaica, cui già si è fatto cenno nell’introduzione a questo volume, esiste una ricchissima bibliografia. Mi limito a segnalare qui gli studi più rilevanti: un quadro generale sul teatro senecano e i modelli precedenti Canter 1925, p.  20-22; Runchina 1960,  p.  3-17; Mazzoli (G.) 1970, p. 182-214, praec. p. 182-198; Degl’innocenti Pierini 1977; Tarrant 1978; Aricò 1981; Dangel 2004 e 2004a. Sulle affinità dei procedimenti stilistici tra Seneca e i tragediografi romani arcaici De Rosalia 1981 e 1988-1989. Per il commento su singoli passi o su specifici drammi molto si ricava, passim, dai principali studi citati in bibliografia. Sul mito dei Pelopidi, in particolare, numerosi sono i lavori che confrontano l’Atreus acciano e il Thyestes: tra questi i più significativi sono, a mio avviso, Lana 1958-1959, Cipriani 1978, La Penna 1979, p.127-141, Monteleone 1980 e 1989, Tarrant 1985, p. 16-17 e p. 40-43; Dangel 1990, Baldarelli 2004, p. 149 s. 67 De Rosalia 1981, p. 229 s. Lo studioso sostiene una dipendenza diretta del Tieste senecano da Accio, ma riscontra nelle parole dell’Atreo di Seneca una maggiore durezza di toni: «C’è accordo nell’accusare la complicità della moglie adultera […] ma Seneca con l’uso dei termini un po’ più pesanti – a parte il confermato ausus – carica il gesto di Tieste, nella versione di Atreo, di più fosche tinte: ingens facinus et scelus contro il semplice res fanno anche pensare a una sorta di coercizione della volontà di Aerope da parte dell’ambizioso cognato (assumpta in scelus contro coepit adiutricem), né si trascurano le implicazioni d’ordine affettivo e morale: consorte nostri thalami contro l’asciutto coniugem, nonché a sintesi del dispregio, perfidus. Ancora una volta la gravità del tono tragico mi sembra accresciuto in Seneca». Da vedere a riguardo, altresì, il precedente La Penna 1979, praec. p. 129 s. e Aricò 1981. Per una discussione, anche bibliografica Dangel 1995, p. 276. L’unico caso in cui Seneca utilizza il verbo clepere si trova in Med. v. 156, dove, riferito al dolore, assume il significato di dissimulare, Leuis est dolor qui capere consilium potest | et clepere sese: magna non latitant mala. A rigore, 65 66

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PARTE PRIMA.  LESSICO E MORFOLOGIA DELL’INGANNO

‘sdoppiato’ in due momenti, con un primo generico riferimento alla fraus di cui si è detto (v. 223-224) e il successivo dilungarsi nel racconto del furto (v. 225-235)68, dove il richiamo all’inganno si coglie nell’uso dell’aggettivo perfidus, v. 235, e nel ribadire il tradimento della fides, v. 23969. Su e attorno a ciò, infatti, Atreo costruirà la messa in scena della finta riappacificazione, praestetur fides, v. 507, della cui mistificazione siamo a conoscenza dopo l’affermazione che ne sancisce l’incompatibilità sia con il personaggio sia, più genericamente, con il suo ruolo di rex70, v. 217 s. (sanctitas pietas fides | priuata bona sunt; qua iuuat reges eant). Sul piano della struttura drammatica, l’esecuzione della vendetta è resa possibile dal desiderio di un’apparente riconciliazione, con cui favorire il ritorno di Tieste ad Argo71: partendo dall’inganno si costruisce l’intreccio, nel momento del dialogo tra il protagonista e il personaggio secondario, che fissa i termini della piena complicità tra il pubblico onnisciente e l’ideatore del dolus, anticipando quanto sta per accadere ai danni di una vittima inconsapevole. La pianificazione della fraus è descritta secondo la tradizionale metafora della caccia, già ampiamente consolidata nel repertorio tragico antico72, nel botta e risposta tra il satelles: sed quibus captus dolis | nostros dabit perductus in laqueos pedem? e Atreo: non poterat capi | nisi capere uellet (v. 286-289), secondo un modulo con cui lo stesso Atreo rappresenterà anche successivamente (v.  491-502) l’incontro con il fratello attraverso l’immagine della preda caduta in trappola, v. 491, plagis tenetur clausa dispositis fera73. va citato anche il verso di H. F. v. 799 al centro di un complicato e dibattuto problema testuale, che vede contrapposte le lezioni clepit di A e tegit dell’Etruscus, già discusse dal Pasquali 19522 , p. 128 e dal Timpanaro 1981, p. 132, entrambi propensi ad accettare la lectio difficilior dell’arcaico clepit. Tra gli editori e i commentatori si segnalano le scelte opposte di Zwierlein 1986, p. 141, a favore di A, e Fitch 1987 ad loc. p. 327, risoltosi per tegit. 68 Sulla scissione in due momenti della fraus di cui è accusato Tieste anche Guastella 2001, p. 51. 69 Una ricca e accurata trattazione delle analogie e delle differenze tra perfidia e fraus in Freyburger 1986, p. 84-94. 70 Per questo aspetto si rimanda alle acute riflessioni di Picone 1984, p. 62. 71 Cfr. Monteleone 1991, p. 331-335. 72 Sullo sviluppo tragico di questo tema nel teatro greco è imprescindibile lo studio di Vernant – Vidal-Naquet 1972, p. 133-158; per il lessico della caccia nella commedia romana almeno Brotherton 1978, p. 59-61. 73 Cfr. sul passo Schiesaro 2003, p. 112 e p. 156 s. L’A. legge nell’uso del verbo capio la chiave dell’ambiguità linguistica in cui Atreo coinvolge e travolge il fratello, fondata sui due diversi livelli di consapevolezza linguistica dei personaggi («capio is used many times by both brothers, and it soon establishes itself as a keyword which precipitates

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Capitolo I.  L’inganno nel teatro di Seneca: lessico, personaggi, situazioni

Nella discussione relativa alle modalità e alla tempistica di attuazione dello scelus subentra poi l’argomento ‘politico’: la realtà del regnum, infatti, non costituisce la semplice scenografia sul cui sfondo si muovono i personaggi, ma una dimensione intrinsecamente legata alle loro parole e azioni. Nel mito regale dei Pelopidi l’inganno si manifesta anche come elemento imprescindibile di conquista e di conservazione del potere, come strumento che qualifica la regalità ben oltre la particolarità del microcosmo argivo, per insediarsi nell’universalità atemporale e aspaziale di ogni regno. Diversamente dalla riflessione filosofica che apre uno spiraglio, per quanto effimero, alla possibilità di un princeps positivo, nella raffigurazione tragica, fatta eccezione per l’Agamennone di Troades − che finisce comunque per apparire perdente a fronte delle motivazioni di Pirro − non esiste alternativa all’inscindibilità del rapporto tra fraus e regnum74, premessa indiscutibile di ogni vicenda mitica, ribadita esplicitamente altresì in Phaedra, v. 982, fraus sublimi regnat in aula e in Oedipus, v.  241, ne sancta quisquam sceptra uiolaret dolo. Nell’elaborare la propria riflessione teorica sul potere, Atreo fa suo questo principio di validità universale: il motivo della pericolosa natura del regno, di qualsivoglia regno, viene rielaborato nella specificità dell’esperienza individuale e nella singolarità del racconto mitico, in cui si unisce al tema dell’ereditarietà della colpa75. Discutendo sulla possibilità di coinvolgere i giovani figli nell’esecuzione del piano, si accenna all’attitudine al crimine e alla finzione che si acquisisce con la consuetudine e con l’esperienza. Partecipare o trovarsi coinvolti, più o meno direttamente, nelle leggi e nei meccanismi che regolano il regno, significa non potervi rinunciare o rimanervi immuni, v. 312-314 ut nemo doceat fraudis et sceleris uias | regnum docebit. Ne mali fiant times? | nascuntur. A motivi di «convenienza politica76» fa riferimento anche il satelles, timoroso che la troppo giovane età dei complici non garantisca quella abile e matura capacità di fingere, indispensabile per il successo della frode, contraddistinta dall’esercizio di un pieno automany of the central themes of the play»), citando e commentando i numerosi passi in cui tale situazione si verifica (v. 288-289; v. 299-302; v. 449-451; v. 520-521; v. 982-984; v. 1021-1022; v. 1040). 74 Nota finemente Picone 1984, p. 46, a proposito del Tieste: «Il fatto che la difesa dei principi del buon governo sia delegata a un personaggio di rango inferiore, come il satelles, è evidentemente determinata dall’intenzione dell’autore di dimostrare che tali principi non hanno alcuna possibilità di affermarsi». 75 Così in Tarrant 1985, ad loc. p. 134. 76 Monteleone 1991, p. 333.

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PARTE PRIMA.  LESSICO E MORFOLOGIA DELL’INGANNO

controllo, dalla necessaria accortezza per affrontare rischiose situazioni e dal silenzio: forse, dunque, si imporrà l’obbligo di ingannare quegli stessi individui di cui Atreo vorrebbe servirsi nel costruire l’inganno, tenendo loro celata la verità, v.  316-321: Hanc fraudem scient | gnati parari? | tacita tam rudibus fides77 | non est in annis; detegent forsan dolos: | tacere multis discitur uitae malis. | Ipsosne per quos fallere alium cogitas | falles? Nel secondo momento, ovvero il dialogo tra Tieste e il figlio Tantalo78, il tema dell’inganno si inserisce nella più ampia contrapposizione tra la consapevolezza che viene dall’esperienza79 (expertus loquor, v. 453) e l’ingenuità che suscita l’illusoria fiducia di chi ancora non ha conosciuto il potere. Il motivo, introdotto già da Atreo nella pianificazione della vendetta, quando il tiranno fa riferimento alla possibilità di servirsi dei figli di Tieste come strumenti del dolus − proprio perché ancora inesperti e non modellati dalle aspre regole del regnum (v. 299-302: si nimis durus preces | spernet Thyestes, liberos eius rudes | malisque fessos grauibus et faciles capi | praece commouebo) − si concretizza nello scambio tra l’atteggiamento guardingo del padre e quello, rudis appunto, di Tantalo. Forte del periodo trascorso lontano dal regno, di cui conosce pericolosità e rischi, Tieste cerca inutilmente di guidare il figlio a una lettura più attenta degli avvenimenti, che legga al di là delle apparenze di una improbabile pietas80 per cogliere i segni, almeno fin qui per 77 Tarrant 1985, ad loc., «keeping silent, discretion», con riferimento a Oed. v. 799, in cui il silenzio si qualifica come una forma di finzione. Al tema della dissimulatio, con particolare riguardo alle implicazioni politiche, è dedicata una sezione del secondo capitolo di questo lavoro. 78 Per il quale Monteleone 1991, p.  237: «risulta chiaro che il contrasto tra Tieste e il figlio si gioca sull’asse semantico introdotto e recepito attraverso il secondo corale: Alétheia/doxa, vero/falso, realtà/apparenza, interiorità/esteriorità. Tieste, per lo meno per il possesso della scienza dei veri valori, si adegua al ‘canone’ del sapiente stoico. Il figlio, un adolescente, se non un puer (cfr. v. 523, 685, 719) […] − nella topica cinico-stoica i pueri, incapaci qual sono di ragionamento e di scienza, proprio perché si fermano alle apparenze, alle ‘maschere’ delle cose, sono assunti a simbolo dell’anima dell’uomo priva di saggezza e afflitta dalle passioni – è portavoce dell’opinio omnium (o falsa opinio) che giudica il potere un bene, anzi il bene supremo». Su Seneca e i giovani si veda Lana 1997, in cui praec. Villa, p. 123- 155 e Rota, p. 157-196. 79 L’esperienza è sempre disillusione, come dimostra il caso di Andromaca esaminato supra, p. 28. 80 Cfr. le parole di Atreo v. 249 s.: At. Excede, Pietas, si modo in nostra domo | umquam fuisti. Sul passo Henry 1985, p. 73-74, propone un parallelismo con la situazione storica, spingendosi, forse un po’ esageratamente, ad affermare che: «The detachment, even satisfaction, with which Nero saw Britannicus die, was not far from the spirit of Atreus ‘setting things in order’ […] Nero destroyed Britannicus, Agrippina, and Octavia because they continually irritated and frustrated him, and he did so after considering, and toying

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lui inequivocabili, della mistificazione e della subdola trama che sta per consumarsi, v. 472 s.: Ta. Frater ut regnes rogat. Th. Rogat? Timendum est. Errat hic aliquis dolus. […], v. 483 s. Ta: quam tamen fraudem times? Th. Omnem […]; v. 486 s.: Ta. Decipi cautus times? Th. Serum est cauendi tempus in mediis malis. Phoenissae I motivi della lotta per il potere e della contaminazione della stirpe sono centrali anche nelle Phoenissae, quel «torso di tragedia» in cui, come ha ben evidenziato Barchiesi, «le due grandi forze coesive che la cultura romana riconosce nella famiglia si sono inquinate all’origine. Si deve pensare da un lato al sangue – che con la sua purezza garantisce una continuità genealogica – dall’altro all’influsso modellizzante degli antenati sui discendenti, la forza persuasiva dell’exemplum, che omologa alla tradizione i nuovi nati81». Le parole di Edipo sintetizzano questo concetto nel ritratto dei figli, degni esponenti della maledetta stirpe dei Labdacidi, desiderosi di sangue, crimini, potere e inganni, in un’affermazione che sancisce, una volta di più, sia la connessione fisiologica tra il regnum e la frode, sia l’ineluttabile catena di delitti ereditati dalla discendenza, v. 295-297, Illi parentis ullus aut aequi est amor, | auidis cruoris imperi armorum doli | diris, scelestis, breuiter ut dicam, meis? Le accuse mosse da Edipo ai figli sembrano infatti riflettere specularmente la medesima ambizione regale già paterna: nella tragedia omonima, Edipo non crede alla visione di Tiresia, fautrice della duplice accusa di omicidio e di adulterio, ma preferisce pensarsi vittima di un complotto. Nella persona dell’indovino, che agli occhi del protagonista altro non è se non l’aiutante del rivale nell’esecuzione del piano, la profezia menzognera celerebbe dunque un astuto progetto, concepito con lo scopo di sottrarre il regno al figlio di Laio per vie fraudolente, in modo da soddisfare, così, le ambizioni regali di Creonte,  Oed. v. 667-670, Falsusne senior an deus Thebis grauis? | Iam iam tenemus callidi socios doli: | mentitur ista praeferens fraudi deos | uates, tibique sceptra despondet mea. Nel dialogo tra Giocasta e Polinice, che mostra «in una sorta di rarefazione che mira all’essenziale […] le parole di due figure […] un tiranno e sua madre82», si scontrano with various schemes, for a long time; there was a willed choice. This was very much like Atreus making his pronouncement». 81 Barchiesi 1988, p.  15 e p.22. Si ricordano sul tema altresì Petrone 19881989 e, per una contestualizzazione della lotta fratricida nella cultura romana, Petrone 1996. 82 Petrone 1997, p. 7.

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due posizioni contrapposte: da un lato, con Polinice, l’affermazione del pieno stravolgimento delle leggi naturali, in cui «l’impossibile è ormai regola […] e, anzi, forse si è fatto sistema, in una sorta di Antinatura83», nihil iam iura naturae ualent v. 478, dall’altro, il tentativo di Giocasta, destinato a rimanere vano, di ridimensionare lo scontro annullando il ‘cortocircuito’ di inganni84 che regola i rapporti parentali e la gestione del regnum, v. 492-494: uereris fratris infesti dolos? | quotiens necesse est fallere aut falli a suis | patiare potius ipse quam facias scelus. Come nota la Petrone, l’insistenza senecana sull’a suis colora la massima tradizionale delle tinte proprie della tragedia: «L’affermazione così netta di Giocasta infatti prepara il terreno alla posizione opposta che nei versi finali Eteocle assumerà riguardo lo stesso problema. Fino a che punto si può spingere la frode tra parenti? Per Giocasta è meglio essere dalla parte della vittima, per Eteocle non ci sarà più limite, se la posta in gioco è il potere. Echeggia, dunque, nella massima, contrastivamente, il tema di fondo che la tragedia inscena85». Ma la fides tradita dalla fraus, si sa, esige vendetta per il torto subito, come Polinice ribadisce in più occasioni, con modalità che mostrano una certa affinità con le parole di Atreo nel contrapporre se stesso al fratello (v. 589 s., fraudis alienae dabo | poenas, at ille praemium scelerum feret?, e v. 643 s.: sceleris et fraudis suae | poenas nefandus frater ut nullas ferat?): l’idea che rinunciare a vendicare l’inganno subìto implichi l’allontanamento dal regno per una vita trascorsa all’oscuro in una parua casa viene all’istante disattesa poiché − come è stato ben sintetizzato in relazione a questo episodio − «la formulazione estrema del contrasto rende evidente come la ‘compensazione’ (v. 594 s.) non sia in realtà possibile: in bocca a Polinice la richiesta appare dunque avanzata come una sfida86». Agamemnon, Medea e Phaedra Il rapporto con la tradizione In altri contesti, fraus e dolus vengono utilizzati per richiamare alla mente un ben noto repertorio mitico: in alcuni casi, tale richiamo è funzionale a un confronto con quanto i protagonisti del dramma dichiarano di Barchiesi 1988, p. 38. Il passo sembra avere una certa assonanza con Thyest. v. 320 s. Giocasta gioca in qualche modo il ruolo del satelles, come personaggio che tenta di moderare la posizione dell’interlocutore. 85 Petrone 1997, n. 89, p. 83. 86 Petrone 1997, n. 104, p. 94. 83 84

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voler compiere, stanno compiendo o si accingono a compiere sulla scena. In un certo senso tali termini si caricano di una valenza metateatrale87, evocando ai fruitori di questi testi la lunga tradizione teatrale e letteraria che ha da tempo codificato storie e personaggi, a cui la poesia senecana attinge e con cui si misura nel segno, al tempo stesso, della continuità e di una innovativa originalità. Mi pare che così possano essere interpretate le parole di Creonte in Med. 181, molitur aliquid: nota fraus, nota est manus, dove l’aggettivo assume un duplice e condiviso valore dal punto di vista di chi parla e di chi ascolta88, e di Clitennestra, in Ag. v.  116120, tecum ipsa nunc euolue femineos dolos | quod ulla coniunx perfida atque impos sui | amore caeco, quod nouercales manus | ausae, quod ardens impia uirgo face | Phasiaca fugiens regna Thessalica trabe. Nella consueta apostrofe all’animo, con cui il personaggio trova la forza per agire, incitandosi alla realizzazione dell’inaudito, Clitennestra volge lo sguardo ad altri celebri esempi di inganni tragici femminili89: come nota Tarrant l’uso del verbo euoluere accompagnato dal tecum: «sets the passage apart from those where euoluere means ‘unfold’ or ‘narrate’: here the meaning is closer to ‘ponder’90». Tuttavia, fuori dal piano strettamente drammatico, in cui il personaggio parla a se stesso, questo verbo, attraverso la voce dell’autore, sembra sollecitare la mente del pubblico a ripercorrere un 87 Cfr. Littlewood 2004, praec. p. 172-258. Sul confronto costante e «per nulla innocente» tra i personaggi senecani e i loro modelli letterari, si rimanda al contributo di Schiesaro 1997a, che delinea gli effetti procurati dal contatto intertestuale, p. 105: «al lettore colto, al lettore ‘ideale’ il piacere dell’agnizione, la possibilità di condividere con l’autore il controllo, magari illusorio, del testo e del suo significato; ma che sa anche procurare uno sconcertante senso di impotenza sia a quanti la percepiscono in un mondo sfocato, sia a chi ne comprende bene la potenzialità quasi illimitata di diffrarre e moltiplicare il senso». 88 Analogamente credo si debba spiegare, nella medesima opera, l’annuncio del messaggero al coro, v. 879-884, Nu. Periere cuncta, concidit regni status | Nata atque genitor cinere permixto iacent. | Ch. Qua fraude capti? Nu. Qua solent reges capi: | donis. Ch. In illis esse quis potuit dolus? | Nu. Et ipse miror uixque iam facto malo | potuisse fieri credo. Nel solent mi pare si possa appunto ravvisare un richiamo alle tante, simili, situazioni della tradizione mitica (e tragica). 89 Cfr. Tarrant ad loc. p. 196, cita anche Eur., Ion. v. 843 s.; Med. 408; Andr. 181; 272; 943, anche se «l’ordire un tranello era manifestamente opera di donna», già in Aesch. Ag. v. 1636. All’interno del corpus senecano compare inoltre nelle parole del coro in Phaedr. v. 828, Instruitur omni fraude feminea dolus. Sul tema si veda Németi 2003, p. 179, per la quale nella poesia e nel teatro tragico «l’agire femminile si sviluppa secondo le modalità dell’inganno e dell’intrigo […] aspetti naturalmente potenziati nella figura di Medea, eroina della metis per antonomasia, dell’intelligenza poliedrica e scaltra, così come emerge innanzitutto dal ritratto offerto da Euripide». 90 Tarrant 1976, ad loc. p. 196. Con questo senso in ThLL, V/2, 1068, 83 s., secum meditari, animo uersari.

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patrimonio condiviso di conoscenze (storie di funeste passioni amorose vissute da famose eroine), tramite un richiamo alla tradizione letteraria evocata proprio dal verbo che indica la lettura91: la memoria degli esempi a cui fa appello Clitennestra è anche e in primo luogo la memoria letteraria che possiamo con verosimiglianza immaginare essere ben presente e viva nei fruitori di questi testi92. Anche nella Phaedra, ulteriori riferimenti alla tradizione mitica vengono messi a confronto con l’hic et nunc della scena tragica. L’Ippolito senecano, raffigurato come eroe solitario, incarna: «un nuovo personaggio tragico […] la cui diversità consiste nel sapersi separare dal mondo normale e malvagio, un eroe che predica l’ideologia della solitaria libertà dai condizionamenti della realtà civile93». Durante il dialogo con la nutrix, nel presentare se stesso quale abitante delle siluae, amante della vita lontana dalla civiltà e dalla natura corruttrice e corrosiva dell’aula, Ippolito elogia il mondo inviolato dalla hybris umana, dove l’uomo è cacciatore capace di tendere trappole solo alle fiere, non ai suoi simili, callidas tantum feris | struxisse fraudes nouit, v. 502 s., e rimpiange una remota aurea aetas, rispettosa dei iura naturae, priva delle pericolose macchinazioni che caratterizzano l’umanità civilizzata, evocata anche dal coro in Med. v. 329 s. candida nostri saecula patres | uidere procul fraude remota94. Il quadro negativo descritto da Ippolito si conclude con un accenno allo stravolgimento dei legami familiari, che culmina nell’immagine della nouerca, figura che più di ogni altra gode, nella tradizione poetica

91 Si veda per questo significato del verbo euoluere la voce uoluo curata da A. Traina nell’Enciclopedia Virgiliana, 1990, p. 626 e, più di recente, le considerazioni del medesimo (Traina (A.) 2000a, p. 285) in merito all’uso del riflessivo tecum, che accompagna il verbo euoluere, dal significato di «svolgere sino in fondo un rotolo che contenga tutti i misfatti compiuti dalle donne ed enumerati nei v. 117-122». 92 ThLL, V/2, 1069, 1 s., uolumina manibus reuoluendo, aperire. Legere, perlegere. Con questo senso è utilizzato da Seneca in Ep. 2, 4 e 88, 39. Anche nel Thyestes, v. 13, Schiesaro 1994, p. 209, n. 9, per la Tantali umbra ha individuato nell’uso del verbo transcribor una valenza metateatrale «It is tempting to charge transcribor with metadramatic resonance». Evidenzia una situazione analoga in Medea Németi 2003, p. 147, nel commento al memoraui del v. 47: «Nel verbo convengono sinergicamente memoria letteraria e memoria esistenziale. […] Con la formula ‘memoria letteraria’ si vuole alludere a quel sottile gioco di richiami intertestuali messo in atto dall’autore, un dialogo continuo con la tradizione e i modelli di riferimento, al quale si è costantemente invitati a partecipare». 93 Petrone 1984, p. 92 s. 94 Cfr.  da ultimo Ghiselli 2006, con riferimenti alla storia del tema e alla sua fortuna. Su questa tematica rimando al terzo capitolo di questo libro.

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e retorica, di una reputazione estremamente negativa95: il riferimento a Medea, sposa di Egeo padre di Teseo, esemplifica il ritratto della matrigna che per antonomasia raccoglie in sé i tratti della perfidia femminile, v. 555-564: a fratre frater, dextera gnati parens | cecidit, maritus coniugis ferro iacet | perimuntque fetus impiae matres suos; | taceo nouercas: mitius nil est feris96 | Sed dux malorum femina: haec scelerum artifex | obsedit animos, huius incestae stupris | fumant tot urbes, bella tot gentes gerunt | et uersa ab imo regna tot populos premunt. | Sileantur aliae: sola coniunx Aegei, | Medea, reddet feminas dirum genus. Il passo si presta, anche in questo caso, a una lettura in chiave metateatrale, lettura che, dal punto 95 Soprattutto in età imperiale, per influsso delle scuole di retorica, cfr. Quint. Inst. Or. 2, 10, 5: nam magos et pestilentiam et responsa et saeuiores tragicis nouercas aliaque magis adhuc fabulosa frustra inter sponsiones et interdicta quaeremus. In merito allo sviluppo del personaggio nella retorica d’età imperiale (a partire dalla novella apuleiana di Met. 10, 2-12) si veda Fiorencis-Gianotti 1990, praec. p. 93, «Si direbbe che gli exempla stratificati nelle esercitazioni retoriche per futuri avvocati e oratori siano decisivi nel creare figure di matrigne peggiori degli stessi modelli tragici, professioniste in adulterio e avvelenamento». Molto sintetica e per alcuni aspetti lacunosa mi pare la ricostruzione del ruolo della nouerca nella letteratura, nella storia e nel diritto di Roma antica in GrayFow 1988, dove, tra gli autori e i poeti latini citati, non vi sono accenni al corpus drammatico del Cordovese; un quadro complessivo su questo personaggio nel mondo antico si ricava dallo studio di Watson 1995. Importante, invece, proprio nello specifico del teatro senecano, il recente contributo di Casamento 2002, praec. p. 101-124, che nota, p. 105: «la figurazione con cui è presentata la nouerca deriva, con tutta probabilità, dal variegato prontuario mitico attinente al personaggio stesso». 96 Il passaggio taceo nouercas: mitius nil est feris è stato al centro di varie e discusse interpretazioni, a partire dalla correzione del Leo, mitior nil est feris, successivamente abbandonata dagli editori. Numerose le traduzioni proposte per un verso che ha dato luogo a diversi fraintendimenti: li ripercorre Garbarino 2008, praec. p. 651-655. La studiosa parte dalla traduzione di Grimal del 1965, che univa il nil al mitius e identificava il soggetto in nouercae, («il senso sarebbe: ‘non parlo delle matrigne; esse non sono affatto più miti delle fiere’»), per confutare tutte le letture più o meno ispirate a tale suddivisione, ovvero intese a individuare nelle matrigne il soggetto della frase (Viansino; Boyle; Segal; Giardina) e scartando anche l’ipotesi di una corruttela (Coffey-Mayer: «The clause may be severely corrupt») o di un uso del nil in riferimento al genere umano (Zwierlein: «il senso sarebbe: ‘fra gli uomini non vi è nulla (o nessuno) che sia più mite delle fiere», Grilli: «per nulla più mite delle fiere è l’essere umano»). Mi sembra dunque che la Garbarino a ragione sostenga il testo tràdito, che non necessita di alcun intervento, nel quale nil non viene utilizzato come neutro avverbiale («‘per nulla’ cozza in modo grave e irrimediabile contro l’usus grammaticale di Seneca e in generale del latino classico, che esprime il concetto ‘per nulla più mite’ con la forma ablativale dell’avverbio, consueta davanti ai comparativi: nihilo mitius»), ma come soggetto, con il secondo termine di paragone, secondo l’uso senecano, «talora esplicito, talora facilmente ricavabile dal contesto». La studiosa si risolve allora per una lettura, da me condivisa, che riconosce nel verso un confronto tra le nouercae e le fiere, confronto, come nota ancora, rimasto sottinteso in latino, in cui «i due emistichi del v. 558 […] sono collegati fra loro da un nesso logico che rimane implicito e che il lettore/ascoltatore è chiamato ad afferrare ricavandolo proprio da quell’accostamento antitetico».

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di vista dell’autore, sembra «quasi una citazione del mito tragico stesso dentro la tragedia a esso dedicata, come se l’Ippolito di Seneca menzionasse l’evento reso noto da Euripide e Sofocle97», ma, soprattutto, si carica di una evidente ironia tragica. Dopo la rivelazione incestuosa dell’amore di Fedra, infatti, Ippolito stesso sarà costretto a rivedere quanto affermato e a riconoscere ai doli e all’odium di Medea una gravità imparagonabile alle mostruosità del comportamento di Fedra, v. 694-697, o ter quaterque prospero fato dati | quos hausit et peremit et leto dedit | odium dolusque – genitor, inuideo tibi; | Colchide nouerca maius hoc | maius malum est98. Il motivo, per così dire, ‘formulare’ della tragedia anneana per cui il nefas, oggetto della rappresentazione, si manifesta in tutta la sua originalità nell’assumere contorni straordinari e forme inedite, fa rimpiangere a Ippolito la sorte toccata ad altri personaggi del mito e ad altri protagonisti del racconto tragico, augurandosi ignaro quel letum che di lì a poco si abbatterà atrocemente su di lui, proprio per effetto del nouercalis dolus di Fedra99. Il rapporto con l’azione Dal punto di vista della composizione drammatica tout court, i riferimenti alla fraus sono funzionali all’esecuzione del progetto di vendetta da parte dei protagonisti. Nel dialogo tra Creonte e Medea, il re di Corinto ostenta piena consapevolezza delle qualità di Medea, definita malorum Petrone 1984, p. 85. Sul passo De Meo 1995, ad loc. p. 195, che nota tra l’altro come «la disposizione in cola crescenti sembra moltiplicare il numero delle vittime dell’odio e dell’inganno» e Landolfi 2004, che insiste sul crescendo della designazione negativa di Fedra, fino a culminare nel superamento di Medea quale «archetipo dell’abominio». Per l’antroponimo Medea e per i procedimenti fono-retorici, con cui viene messo in evidenza da Seneca, in particolare la collocazione, l’anafora e l’allitterazione, Traina (A.) 1981; sul tema anche Segal 1982, Petrone 1988 e Galimberti Biffino 2000. 99 Suonano tragicamente ironiche le parole della nutrix, che tenta invano di convincere Ippolito a uscire dall’isolamento per entrare nella società civilizzata e aprirsi all’amore: diversamente, nella caelebs uita, tutto è morte, v. 475 s.: quam uaria leti genera mortalem trahunt | carpuntque turbam, pontus et ferrum et doli. Sui modelli retorici del passo, con riguardo a Seneca padre, (oggetto già dello studio di Rolland 1906), cfr. Boyle 1987 ad loc. p. 166 e Coffey-Mayer 1990 ad loc. p. 134. Il modello retorico in questo caso ben si adatta alla contingenza della fabula tragica, perché la fine di Ippolito racchiude emblematicamente in sé le tre tipologie di morte (dolus, ferrum, pontus): Ippolito è travolto dalle parole menzognere di Fedra sulla violenza subita, v. 888-893; dal ferro della spada quale strumento dell’accusa di Fedra, v. 896 s. (oggetto del ricco, ma non interamente condivisibile esame di Segal 1986); dal mare che partorisce il mostro che lo uccide, v. 954-958 e v. 1000-1114. Per la descrizione della morte di Ippolito, si segnala la fine analisi proposta da Caviglia 1990. 97 98

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Capitolo I.  L’inganno nel teatro di Seneca: lessico, personaggi, situazioni

machinatrix100 facinorum, v. 266 (successivamente, v. 734, dalla nutrice, scelerum artifex, definizione che, come si è visto anche in Phaedra, caratterizza negativamente il genere femminile di cui Medea è appunto campione), e, in maniera simile all’Andromaca di Troades, che parla di Ulisse come machinator fraudis et scelerum artifex, finisce vittima proprio delle tanto temute mechanai101. Pur mostrando un atteggiamento prudente e attento nei confronti dell’interlocutrice e pur riconoscendo nella richiesta della breuis mora l’espediente temporale necessario a escogitare qualcosa − Cr. Fraudibus tempus petis | Med. quae fraus timeri tempore exiguo potest? (Med. v. 290 s.) − Creonte non percepisce fino in fondo la portata e il senso delle parole di Medea, di quella che Biondi ha descritto, con una formula brillante, «anfibologia preterintezionale102», ma, al contrario, in maniera analoga a Tieste, sceglie di non assecondare il proprio timor, finendo così per cedere all’inganno, mascherato dalla pietas materna. Nel riferimento temporale, si coglie bene il rapporto che lega qui fraus all’atto del frustrari, caratterizzando il comportamento della maga come vera e propria frustratio: con questo termine infatti si indica quella particolare forma di inganno che si consuma nel tempo e attraverso il tempo, legato quindi alla dimensione temporale in maniera analoga 100 «Efficace hapax» per «una donna che assomma in sé la nequitia femminile insieme al robur virile», nota Degl’innocenti Pierini 2012, p. 36. Alcuni commentatori fanno qui notare un recupero, almeno concettuale, dell’uso retorico ciceroniano (Cat. 1, 2: quam tu in nos omnes iam diu machinaris, Cat. 3, 6: atque horum omnium scelerum improbissimum machinatorem, cfr. Costa 1973, ad loc. p. 96. In realtà, il brano sembra restituire quel senso e quell’accezione più profondamente e intrinsecamente teatrali: nel momento drammatico del confronto con l’interlocutore-avversario, la protagonista svela ed esercita quella componente creativa, quella capacità di attingere alla propria metis, che le permette non solo di escogitare una soluzione ingegnosa per realizzare i propri piani, ma anche di trionfare sull’antagonista, secondo un percorso che accomuna, oltre le differenze di genere, le heroicae personae della tragedia e le levitates del teatro comico, come si evince da Cic. De nat. deor. 3, 65-75. Nel lungo brano ciceroniano, come noto, la realizzazione di doli, fraudes, machinae − che accomuna, pur con intenti differenti, figure come Medea e Atreo e l’anonimo adulescens comico − avviene sotto la spinta di una callida ratio, forma di astuta intelligenza, di arguto ingegno, di calcolo razionale (calliditas, celer motus cogitationis, acumen, sollertia, subtiliter), che gli homines piegano alla perversione dell’improbitas ([…] autem improbe utuntur, ut donum hoc diuinum rationis et consilii ad fraudem hominibus, non ad bonitatem impertitum esse uideatur). Nel passo senecano, a sua volta, la richiesta della mora di un giorno (v. 287 s.) e l’ottenuta concessione dell’insidioso e fallace unus dies (v. 295) costituiscono infatti la machina ideata da Medea, prodotto, per dirla con parole ciceroniane, di una callida ratio, di una uersuta malitia, di una fallax ratio nocendi, ritratto dell’heroica persona che ha appena iniziato a tessere la trama del proprio nefarium scelus. 101 Per machinatrix e machinator si tratta di hapax legomena: in generale, sui nomi d’agente nel corpus tragico senecano si veda Billerbeck 1988, p. 35 s. 102 Biondi 1984, p. 23.

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al rapporto che definisce etimologicamente error all’interno di una collocazione spaziale103. Uno sguardo alla storia della voce frustratio mostra chiaramente come essa caratterizzi la finzione connessa alla dilazione nel tempo, e non solo nell’ambito più strettamente letterario: con tale accezione compare nel linguaggio teatrale (è il caso degli inganni plautini di Curc. 331 e Most. 589, dal significato di «tergiversare, tirare in lungo», ma trova conferma, in ambito tragico, anche nel frammento dell’Alcmeo­ ne di Accio, 614 D., tanta ut frustrando lactans uanans protrahas), in quello militare (ad es. Liv. 3, 24, 1; 25, 25, 3; 38, 25, 7; Tac. Hist. 1, 73) e, soprattutto, nel lessico giuridico, dove è sinonimo di sustentatio, dilatio, procrastinatio, maxime per fraudem facta (cfr. Gaius, Dig. 50, 16, 233). Nel successivo dialogo con Giasone, la vendetta di Medea prende forma e si delinea con maggiore precisione: ripercorrendo i precedenti e ben noti avvenimenti del mito, si sofferma a elencare gli scelera compiuti per compiacere l’amato, v. 465-476: Ingratum caput | Reuoluat animus igneos tauri halitus | interque saeuos gentis indomitae metus | armifero in aruo flammeum Aeetae pecus, | hostisque subiti tela, cum iussu meo | terrigena miles mutua caede occidit; | adice expetita spolia Phrixei arietis | somnoque iussum lumina ignoto dare | insomne monstrum, traditum fratrem neci | et scelere in uno non semel factum scelus | iussasque104 natas fraude deceptas mea | secare membra non reuicturi senis, rinfacciando al compagno traditore non solo l’amore, ma anche le uccisioni e gli inganni perpetrati a suo favore, Med. v. 496 s., Ia. Medea amores obicit? Med. Et caedem et dolos, 103 Utili osservazioni su questo punto in Petrone 1990, p. 103. Nel contributo la studiosa prende in esame la sfera semantica di frustro/frustror/frustratio/frustra, mostrando come in essa siano contenuti, al tempo stesso, sia i concetti di illusione e speranza vana (sulla base di una glossa di Donato, Ter. Phorm. 330W) sia l’equivalenza con i modi verbali dell’«allettare, attirare con lusinghe» (sulla base di Paul. Fest. P. 25 L.), sia, soprattutto, la dimensione temporale che qui ci interessa. Cfr. ThLL, VII/1, 1437, 54 s., dove frustrari è indicato con il significato di frustratur aliquis, i. q. morari, per fraudem moras nectere e VII/1, 1439, 83 s., i. q. per fraudem demorari, differre, procrastinare, tardare, protrahere. 104 Iussasque è lezione tràdita. Una certa fortuna ha avuto la correzione ausasque, congettura di Hensius, accettata dallo Zwierlein e in seconda battuta da Giardina 1987, p. 51 che in un primo momento aveva preferito conservare iussasque dei codici, per poi correggersi («ma ora vedo l’incongruità di iussas con deceptas. Si confronti poi v. 261, piae sorores impius auderent nefas»). Nell’edizione critica del 2007, da lui medesimo curata, ricompare però il testo tràdito. Status quaestionis con valide considerazioni anche in Németi 2003, ad loc. p. 215, la quale propende per iussasque, «pur non ignorando che potremmo realmente trovarci in presenza di una corruttela originatasi sulla spinta dei precedenti iusso meo (469) e iussum/insomne monstrum (472-473)»: in questo commento, l’A. confuta l’incongruità rilevata da Giardina, motivando la presenza di iussas come «forza di una coercizione magica che travalica la coscienza», sulla scia della «malia ipnotica» generata dalla fraus e dalle artes di Medea.

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in un crescendo di tensione drammatica che spiega l’urgenza di intervenire105 uix fraudi est locus (v. 564) e che si richiama appunto all’elemento temporale di cui si è parlato. Si afferma sempre più cogente la necessità di agire, e di farlo superando il passato, di macchinare cioè qualcosa che si distingua dal comune, v. 692 s., Iam iam tempus est | aliquid mouere fraude uulgari altius106. Così, nella preghiera di Medea alle divinità infernali poco prima che abbia luogo il delitto, la protagonista anticipa le armi della propria vendetta, quei doni ingannevoli strumenti di morte, v. 832839, Adde uenenis stimulos, Hecate, | donisque meis semina flammae | condita serua. | Fallant uisus tactusque ferant, | meet in pectus uenasque calor, | stillent artus ossaque fument | uincatque suas flagrante coma | noua nupta facies. Momento privilegiato per l’organizzazione della vendetta è notoriamente quello del confronto tra il personaggio auctor e una figura di rango inferiore, come la nutrix o il satelles. Si è già visto, almeno in parte per il Thyestes, come si tratti della fase di elaborazione del nefas, in cui si discutono gli intenti, si tracciano i contorni dei futuri accadimenti, si valutano e si scelgono i modi e i mezzi di realizzazione dell’inganno, con l’appoggio di questi caratteri ‘aiutanti’. Spesso, prima della resa alla connivenza e alla complicità, il dialogo si configura come il tentativo estremo dei personaggi secondari di dissuadere i protagonisti dal ricorrere a scelera inauditi o di convincerli ad abbandonare propositi di vendetta. Si tratta di interventi la cui funzione permette di svelare contraddizioni e dubbi degli interlocutori, come è stato correttamente riconosciuto: «hanno la funzione, tra l’altro, di esteriorizzare gli stati d’animo, i dissidi, in una parola il dramma del protagonista, sì da poter dire che Seneca, con deliberato proposito, drammatizza non tanto, o non solo, lo scelus di un personaggio che cede al furor, quanto il tormento e il dissidio che precedono la decisione di agire scelleratamente e l’abisso di miseria, 105 Si veda a riguardo Nenci 2002, p. 37, che, a proposito del Thyestes nota: «Lo scelus è divenuto una categoria politica, o un concetto filosofico simile al kairós, l’opportunità, il momento da cogliere, da afferrare, appunto, che sta a disposizione di chi, per primo, sa mettervi le mani». Sulle analogie tra Atreo e Medea è importante lo studio di Picone 1987. 106 Ma l’enormità della vendetta di Medea è già evidente nel prologo, cfr. Mazzoli (G.). 1997a, p. 98: «È Medea in persona che, fin dal prologo, elabora mentalmente la sua tremenda ‘opera d’arte’», e Guastella 2001, praec. Cap. IV, Virgo, coniunx, mater: Medea, p. 137-154. Sul motivo del superamento di un modello, ovvero dell’ideazione di qualcosa che si distingua dal comune (in particolare per il Thyestes, ma si tratta di una formula che, come è ben noto, si ripete nei drammi senecani) si rimanda allo studio di Seidensticker 1985.

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di sventura e di dolore in cui poi egli precipita107». In questo senso, in Phae­dra, la nutrice tenta di ammorbidire i propositi della regina, utilizzando come argomento la pericolosità di una passione incestuosa, che non si può nascondere o dissimulare né davanti agli uomini, né davanti agli dei: qualora, tuttavia, vi si riuscisse per mezzo di astuzia o inganno, v. 152 s., credamus tamen | astu doloque tegere nos tantum nefas, non vi è modo di ingannare se stessi, nell’intimità di un ‘esame di coscienza’108 che coinvolga la propria mens e il proprio animus, v.  159-163, Sed ut secundus numinum abscondat fauor | coitus nefandos utque contingat stupro | negata magnis sceleribus semper fides: | quid poena praesens, conscius mentis pauor | animusque culpa plenus et semet timens? Una situazione parallela si trova in Agamemnon, ancora nel dialogo tra la nutrix moderatrice e la vendicativa Clitennestra: l’argomento non fa leva, in questo caso, sulla dimensione interiore o sul sentimento di colpevolezza che tormenta la coscienza, ma sulla difficoltà pratica e oggettiva di colpire un aristos, campione di potenza e di forza. Agamennone, appena tornato trionfatore in patria, dopo aver piegato e vinto l’Asia (v. 204 s.), non solo ha resistito ai pericoli del nostos, affrontando e superando mille difficoltà, ma è stato anche in grado di non piegarsi ai più grandi eroi di Grecia e di Troia (v. 208-219): come potrebbe una semplice donna riuscire in una simile impresa con la sola arma dell’inganno, lì dove i migliori hanno fallito? − v. 207, hunc fraude nunc conaris et furto aggredi?

2. Gli strumenti dell’inganno La dissimulazione del sentimento Di grande importanza per il buon esito dell’intrigo è il controllo dell’atteggiamento, del comportamento, dell’aspetto esteriore, quella forma, Martina 1988-1989, p. 114. Per la centralità dell’argomento nel pensiero senecano si rimanda almeno alle ben note pagine di Pohlenz 1967, v. II, p. 84: «Oltre Dio una sola persona conosce i miei pensieri più segreti: io stesso. Poiché Dio ha messo dentro di noi un custode instancabile e inevitabile, al quale nulla rimane celato di ciò che noi facciamo, e questo custode è nello stesso tempo giudice incorruttibile a cui noi dobbiamo rendere conto di ogni nostro pensiero, di ogni parola che esce dalla nostra bocca. È la nostra coscienza, la quale viene così innalzata a tribunale supremo della nostra condotta, il tribunale che ci premia e che ci castiga […] È questa la prima volta nella filosofia greco-romana in cui noi vediamo la coscienza considerata come una forza viva e attiva». Per una prospettiva più recente e sensibilmente diversa sul punto si rimanda a Foucault 2007, praec. p. 428-432. 107 108

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cioè, di dissimulatio affectuum che nasconde intenzionalmente un’espressione del volto o una sfumatura dell’animo per non scoprirsi con l’interlocutore, rivelando qualcosa di sé che si vuole celare. Finzione nella finzione del gioco teatrale, quasi mise en abîme dell’essenza stessa della teatralità, la messa in scena di un inganno costringe tutti a recitare una parte e quanto più il personaggio sarà credibile, tanto più la performance potrà considerarsi riuscita, non solo agli occhi del pubblico, ma anche e soprattutto a quelli del protagonista, actor-auctor ideatore del piano. Si è già visto, almeno in parte, come in Troades un tale aspetto sia centrale nel dialogo tra Ulisse e Andromaca, dove il gioco di ruoli e di sguardi è già stato evidenziato nel definire le modalità con cui i due si confrontano e si scrutano, al tempo stesso pubblico e attori della breve ma significativa performance: «l’interminable affrontement d’Ulysse et Andromaque n’est autre que le regard d’Ulysse sur Andromaque. Andromaque personnage et comédienne, Andromaque personata […] Ulysse personnage-spectateur doit lire et intérpreter109». Lo svelamento dell’inganno di Andromaca da parte di Ulisse è reso possibile dalle incertezze della troiana, incapace di interpretare con coerenza e fino in fondo il ruolo della madre afflitta e disperata, cui, dopo la proclamata morte del figlio, non è rimasto davvero nulla da perdere. Per l’Itacese è quindi sufficiente osservarla, cogliere i segni esteriori dell’agitazione e della paura, dietro i quali scorgere il significato ultimo di parole volutamente ambigue, v. 615-618, Scrutare matrem: maeret, illacrimat, gemit; | sed huc et illuc anxios gressus refert | missasque uoces aure sollicita excipit: | magis haec timet, quam maeret110. «Nel turbamento di Andromaca Ulisse intuisce qualcosa di diverso dal dolore: più che piangere su un morto, Andromaca sembra tenere per qualcuno che è vivo […] le reazioni di Andromaca gli rivelano definitivamente la verità: ella guarda e trema111», v. 625 s., Intremuit: hac, hac parte quaerenda est mihi; | matrem timor detexit: iterabo metum. Sarà proprio l’incapacità di Andromaca nel dissimulare il timore materno a guidare l’Itacese verso il successo, portandolo a insistere sul tasto non della pietas, ma del timor112. Nel successivo episodio, di fronte alle accuse rivoltele da Andromaca, Elena si difende con un’apologia che, come è stato acutamente osservato, «non mira a una giu Garelli-François 1992, p. 401. Amoroso 1984, ad loc. p. 166, insiste sull’aspetto ‘scenico’ del passo, che ben si adatterebbe allo spettacolo teatrale. 111 Caviglia 1981, p. 71. 112 Ibid. 109 110

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stificazione del proprio operato, a una attenuazione di responsabilità, vuole evidenziare che le Troiane soffrono, Elena soffre più di loro113». Diversamente dalle Troiane, Elena è stata costretta a mantenere nascosti i propri sentimenti e a dissimulare il dolore, piangendo Paride solo di nascosto, lontano dagli sguardi altrui, v.  908 s., solus occulte Paris | lugendus Helenae est, sopportando sia una ben più lunga prigionia, sia la furia di vinti e vincitori. Infatti, ancora sottolinea Caviglia, «condivisione implica compassione. Diffusa e concitata nel difendere il proprio passato, Elena non regge nel dissimulare l’inganno presente. Le lacrime la tradiscono. Per Andromaca è un presagio di qualche cosa d’orrendo. Dietro a quelle lacrime, da lei giudicate ipocrite, Andromaca scorge la trama di Ulisse»; da qui, come si è detto, l’invito a svelare gli inganni e a ‘togliersi la maschera’ del volto addolorato, v. 933, dic, fare, quidquid subdolo uultu tegis. Come si nota, Seneca privilegia l’uso di tegere/detegere, per indicare la finzione relativa all’espressione o alla dissimulazione di un sentimento: così, ad esempio, la nutrix descrive il vano tentativo di Fedra di tenere nascosto il furor d’amore, che tuttavia traspare dal volto114, in Phaedr. v. 363, quamuis tegatur, proditur uultu furor, e, analogamente, in Ag., sempre la nutrix, nota come l’espressione del volto di Clitennestra basti, senza bisogno di parole, a rivelare un dolore non dissimulato, v. 128, licet ipsa sileas, totus in uultu est dolor. Ancora in Medea, nel dialogo tra la protagonista e la nutrice, quest’ultima consiglia una sofferenza silenziosa, che tenga sotto controllo il furialis impetus Ivi, p. 90. Per un’analisi incentrata sulla descrizione della condizione fisica e psicologica di Fedra nel passo (v.  358-386) Williams 1992. In un certo senso, anche la nutrice non riesce a nascondere la propria afflizione davanti a Ippolito, nel momento iniziale del confronto tra i due personaggi: nonostante la vecchia confessi la propria ansia per la condizione del giovane (v. 438, namque anxiam me cura sollicitat tui), le parole con cui il figlio dell’Amazzone introduce l’arrivo della nutrice sulla scena, evocano, inconsapevolmente per il parlante, ma in maniera chiara per il pubblico, l’acuto tormento e la preoccupazione della donna per la domina e per il crimen nefandum, v. 431-433, Quid huc seniles fessa moliris gradus, | o fida nutrix, turbidam frontem gerens | et maesta uultu? Per qualche spunto di approfondimento sulla presenza di un sapere fisiognomico in Seneca tragico e sul rapporto tra emozione interiore ed espressione esteriore si segnala lo studio di Raina 1993, con elenco dei passi interessati; più ampiamente sulla fisiognomica almeno Villari 2003 e, sul piano filosofico, Laurand 2006. Può essere utile richiamare qui un parallelismo con la riflessione filosofica del Cordovese, in cui la dissimulazione viene presentata come esempio di comportamento pericoloso e negativo, manifestazione della nequitia, che cerca invano di nascondere le proprie colpe, cui si contrappongono la trasparenza e la sincerità della bona conscientia, cfr. Ep. 97, 12: omnes peccata dissimulant et, quamuis feliciter cesserint, fructu illorum utuntur, ipsa subducunt. At bona conscientia prodire uult et conspici: ipsas nequitia tenebras timet. 113 114

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(v. 157 s.) per poter attuare la giusta vendetta al momento opportuno: motivo già euripideo, viene ripreso e risemantizzato da Seneca alla luce delle riflessioni filosofiche sulle passioni, forse anche in sintonia con la nuova importanza del tema nell’ambito del contesto socio-politico della prima età imperiale115, v. 150-154, Sile, obsecro, questusque secreto abditos | manda dolori. Grauia quisquis uulnera | patiente et aequo mutus animo pertulit | referre potuit: ira quae tegitur nocet; | professa perdunt odia uindictae locum. La reazione di Medea non lascia margini agli indugi e il consiglio è subito disatteso: lo spiega la felice formulazione di Mazzoli, per il quale Medea risponde solo «al logos del furor», mettendosi come «Medea sapiens al servizio della paradigmatica Medea furens  […] fino a ricongiungersi completamente con lei e sparire»116, v. 155 s., Leuis est dolor qui capere consilium potest | et clepere sese: magna non latitant mala. | Libet ire contra. L’ulteriore intervento della nutrix, infatti, v. 157 s.: Siste furialem impetum | alumna: uix te tacita defendit quies, pur ribadendo la necessità del silenzio, in apparente e tacito accordo con le scelte del potere per sopravvivere alle asprezze del regnum, apre tuttavia la strada all’affermazione definitiva dell’anti-sapientia di Medea, fondata su un concetto di uirtus pienamente individuale e razionalmente stravolto117. Nel Thyestes, i dubbi del satelles sul coinvolgimento dei figli di Atreo come complici dell’inganno riguardano proprio la capacità di detegere dolos (v.  318), espressione il cui senso viene chiarito dalle parole di Atreo, pochi versi dopo: la troppo giovane età e l’inesperienza possono essere d’ostacolo all’esercizio di un totale autocontrollo su emozioni e sentimenti, svelando, nel volto, nell’espressione, nella gestualità, quanto, 115 Così Németi 2003, ad loc. p. 174: «Il passo di Seneca, da confrontare con le parole di Atreo in Thyest. 504-505, sembra infatti riecheggiare un famoso scambio di battute fra Medea e Creonte in Eur. Med. 314-320 […] Non voce dell’ineffabile ma autentico strumento di inganno e mistificazione (cfr. Eur. Med. 391), il silenzio è ancora più temibile della parola ‘suadente’. La rivisitazione senecana del motivo euripideo, nasconde inoltre una velata polemica contro la mancata libertà di espressione tipica del Principato». In merito alle implicazioni politiche del tema nella riflessione senecana sul potere e nell’assolutismo dell’impero, manca nel commento un riferimento al noto passo di Oed. v. 511-529, su cui avrò modo di tornare e già oggetto dell’analisi di Lana 1964 e 1994. 116 Mazzoli, (G.) 1997a, p. 101-103. Cfr. De ira 2, 1-4. 117 La definizione di anti-sapientia è presa dall’introduzione all’edizione della tragedia curata da Biondi, Milano 1989, p. 47 s. Convincente il confronto di Németi 2003, ad loc. p. 175 con il «linguaggio topico della repressione del pathos» del teatro arcaico, in particolare «Accio, fr. 15 Ribb. iram infrenes, obstes animis e fr. 623 Ribb. animum iratum comprime»: tramite l’insistenza sulla tacita quies, il tema assume qui una nuova facies, strettamente legata all’ideologia del potere presente nel teatro senecano.

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al contrario, dovrebbe rimanere nascosto, v. 330-333, Eatur. Multa sed trepidus solet | detegere uultus, magna nolentem quoque | consilia produnt. Nesciant quantae rei | fiant ministri. Nostra tu coepta occule118. Non così per il tiranno, che mantiene freddezza e lucidità, consapevole del comportamento da adottare e della persona da induere119: quando osserva l’avvicinarsi della preda come un cane da caccia che esplora il luogo e freme per attaccare, sa di dover aspettare invece con pazienza il momento opportuno, dissimulando le proprie intenzioni e nascondendo i veri sentimenti per garantire alla propria azione l’esito desiderato, v. 504 s., cum sperat ira sanguinem, nescit tegi | tamen tegatur120. Il tema della dissimulatio affectuum, viene strettamente associato al potere non solo nel Tieste, dove appunto costituisce, agli occhi di Atreo, lo strumento di conservazione del regnum dal pericolo fraterno e al tempo stesso la via di realizzazione della vendetta, ma anche nell’Oedipus, tragedia in cui il protagonista riconosce, nella falsità della parola e nell’ipocrisia del comportamento, un mezzo di usurpazione e di conquista del regno. Nel dialogo con Creonte, v. 682-686, Edipo accusa l’interlocutore, sospettato di aspirare al potere, di giocare sull’apparenza, simulando un atteggiamento calmo e moderato per nascondere, dietro la maschera della fides, il progetto di sostituirsi al re sul trono, Oe. Certissima est regnare cupienti uia | laudare modica et otium ac somnum loqui; | ab inquieto saepe simulatur quies. | Cr. Parumne me tam longa defendit fides? | Oe. Aditum nocendi perfido praestat fides121. Di ben altra natura, invece, è il tentativo di nascondere il pianto, nel silenzio e nel gesto di pudor da parte di Anfitrione e Teseo davanti a un Ercole già colpevole, ma ancora ignaro delle proprie azioni e della 118 È allora interessante la risposta del satelles, v. 334 s. Haud sum monendus: ista nostro in pectore | fides timorque, sed magis claudet fides, per spiegare la quale mi sembra valida l’osservazione di Garbarino 1982, che, analizzando il dialogo tra Clitennestra ed Egisto, propone una lettura applicabile all’intero mondo tragico di Seneca, p. 331: «Quella fides che […] non può albergare nelle regge, ricompare come lealtà nella colpa, come fedeltà nel male […] con quel rovesciamento di valori morali […] che consiste nell’applicazione a se stessi, da parte di personaggi colpevoli, di concetti moralmente positivi che ne risultano stravolti». 119 Importanti riflessioni a riguardo in Lanza 1997, praec. p. 194-222. 120 Sul rapporto tra caccia e dissimulazione, già nella tragedia greca, restano fondamentali le osservazioni di Detienne-Vernant 1972, p. 36 s. 121 La contrapposizione e il paradosso semantico tra inquietus e quies e tra perfidus e fides ricorda quel gusto epigrammatico dello stile di Seneca magistralmente descritto in Traina (A.) 19843, p. 34 s., caratterizzato dalla «concisione, la concettosità, il fulmen in clausula» in cui «la parola in clausola può avere il lampo dell’aprosdoketon, dell’inatteso».

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propria condizione, in cui la dissimulazione del sentimento viene enfatizzata dalla duplice presenza del verbo obtegere e dell’avverbio furtim, v. 1178-1180, Uterque tacitus ora pudibunda obtegit | furtimque lacrimas fundit. In tantis malis | quid est pudendum122? Incontrato da Teseo nel viaggio ultraterreno ed evocato nella lunga rhesis, proprio nell’atto di coprire per nascondere, dove l’azione fisica pare caricarsi di un forte valore metaforico, H. F. v. 692, Pudorque serus conscios uultus tegit, il pudor torna nell’Oedipus come sentimento cui neppure gli dèi possono sottrarsi di fronte all’ineffabilità degli humana mala, talmente forte da impedire loro di manifestare apertamente terribili minacce, quid istud est quod esse prolatum uolunt | iterumque nolunt et truces iras tegunt? | Pudet deos nescioquid (v. 332-334). Il nascondiglio Un’altra sfumatura della finzione si riconosce in vocaboli utilizzati per indicare l’azione del nascondersi o il nascondiglio stesso, in cui tenere al sicuro personaggi altrimenti destinati alla cattura e/o alla morte. In questo senso furtum e occulere compaiono in Agamemnon, v.  931, quando Elettra affida Oreste a Strofio, con la raccomandazione di garantirne la protezione in un luogo segreto, recipe hunc Oresten ac pium furtum occule, senza cedere alla pressione delle minacce di Clitennestra e di Egisto123, intese proprio a rivelare l’ubicazione segreta di Oreste; minacce che la stessa Elettra si troverà ad affrontare in finale di tragedia, v. 979 s., gnata genetricem impie | probris lacessit, occulit fratrem abditum e v. 989 s., per omnes torta poenarum modos | referre quem nunc occulit forsan uolet. Anche in Troades l’episodio più lungo ruota attorno all’individuazione del luogo che nasconde il piccolo Astianatte, luogo alla cui inesistenza deve fare appello Andromaca di fronte alle continue domande di 122 Fitch 1987, ad loc. p. 421, afferma che dietro il gesto di vergogna «the meaning is more complex here, including grief  […] and reluctance to meet H.’s eyes and questions». 123 Il tema della minaccia risale chiaramente a Sofocle, ma giunge probabilmente a Seneca attraverso la mediazione di Pacuvio (158 R3.), come rileva Runchina 1960, p. 125. Lo studioso mette a confronto il frammento arcaico con alcuni versi dell’Agamennone (v. 988-993; v. 997-1000), evidenziando la coincidenza di alcuni vocaboli nei due testi. Le intimidazioni di Egisto, d’altra parte, hanno molto in comune anche con quelle del tiranno senecano Atreo in Thyest. v. 188 s., Quisquis inuisum caput | tegit ac tuetur, clade funesta occidat. Del resto, anche Egisto, che accusa Agamennone di aver lasciato Micene come re e di farvi ritorno come tiranno, v. 251 s., nel finale della tragedia si autodefinisce tyrannus, v. 995, mostrando di aver sostituito l’Atride non solo nel talamo nuziale, ma anche come consors di Clitennestra pericli pariter ac regni, v. 978.

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Ulisse. Nel momento scenico precedente, con il piano ancora in fase di elaborazione, Andromaca si interroga sul luogo migliore per sottrarre il figlio alla vista di Ulisse e dei Greci, v. 477 s., quis locus fidus meo | erit timori quaue te sede occulam?, constatando la devastazione della città di Troia, inadatta a nascondere un bambino, v.  478-482, arx illa pollens opibus et muris deum | gentes per omnes clara et inuidiae grauis, | nunc puluis altus, strata sunt flamma omnia | superestque uasta ex urbe ne tantum quidem, | quo lateat infans, per poi decidere di affidarlo alla tomba di Ettore perché lo protegga, v. 501, Hector, tuere, quale coniugis furtum piae124. In Hercules Furens, nell’episodio che narra il manifestarsi del demens impetus di Ercole, si nota un’alta concentrazione del lessico del nascondere, che viene sottolineato con particolare insistenza dai personaggi sulla scena come unica possibilità di sopravvivenza125. Nella dichiarazione di intenti del protagonista, l’azione di Ercole mira a scovare i nascondigli dei figli di Lico per sterminarli, v. 987 s., sed ecce proles regis inimici latet, | Lyci nefandum semen, v. 995 s., ceteram prolem eruam | omnisque latebras126, v. 1001 s., hic uideo abditum | gnatum scelesti patris; Anfitrione Fantham 1982, ad loc. p.  288: «a paradox, since the hiding of Astyanax is a furtum because it is secretive, but normally coniugis furtum denotes adultery». Nello stesso modo, abbiamo visto, viene definito il segreto di Elettra che parla appunto di pium furtum per definire l’inganno del nascondiglio con cui sottrarre il fratello Oreste alla violenza del nuovo sovrano. 125 Il tentativo di trovare scampo, tuttavia, risulta vano perché fondato su ingannevoli premesse: la voce del coro, infatti, nel primo canto della tragedia, senza possibilità di appello, fornisce le coordinate dell’unico ‘nascondiglio’ sicuro, v. 197 s.: me mea tellus lare secreto | tutoque tegat. La gloria decantata multis terris e la omnes fama per urbes garrula (v. 192-194) trascinano con loro le inevitabili conseguenze del furor, messe in scena nel corso dell’opera. 126 La lezione latebras in A, contra latebram E, è discussa in Caviglia 1979, ad loc. p. 254. Fitch 1987, ad loc. p. 380, si esprime a favore di E, notando comunque che il singolare è molto meno comune del plurale in Seneca tragico. Si può qui aprire un breve confronto con la presenza di questo motivo nella restante produzione letteraria senecana: in particolare, un brano di Ep. 82, 4 affronta proprio il tema del nascondiglio, ovvero della latebra, nella inutile ricerca di una tranquillità raggiungibile solo attraverso il cammino di conoscenza e di sapientia, nell’arx della filosofia, unica via per non essere esposti agli inganni e alle fragilità del mondo esterno. Ma anche in questo caso, sembra dirci Seneca, nascondersi non implica salvarsi: la vera salvezza non appartiene a un luogo fisico, a un appiglio esteriore o all’interiorità di un animo instabile, ma è conseguibile solo nella forza e nella fermezza della riflessione filosofica: Quae latebra est in quam non intret metus mortis? Quae tam emunita et in altum subducta uitae quies quam non dolor territet? Quacumque te abdideris, mala humana circumstrepent. Multa extra sunt quae circumeunt nos quo aut fallant aut urgeant, multa intus quae in media solitudine exaestuant. Philosophia circumdanda est, inexpugnabilis murus, quem fortuna multis machinis lacessitum non transit… 124

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Capitolo I.  L’inganno nel teatro di Seneca: lessico, personaggi, situazioni

tenta di impedire l’inutile fuga di Megara, poiché non esiste luogo sicuro di fronte alla furia dell’Alcide, v. 1008 s., At misera, paruum protegens gnatum sinu | Megara furenti similis e latebris fugit, v. 1012 s., Quo misera pergis? Quam fugam aut latebras petis? | nullus salutis Hercule infesto est locus, prima di cercare a sua volta la morte per mano del figlio, v. 1030 s. Falsum ac nomini turpem tuo | remoue parentem, ne tuae laudi obstrepat. Anche Teseo127 interviene infine per evitare l’uccisione di Anfitrione, invitandolo a tenersi nascosto dalla furia dell’eroe tebano, v. 1032-1034. Quo te ipse, senior, obuium morti ingeris? | quo pergis amens? Profuge et obtectus late | unumque manibus aufer Herculeis scelus.

3. Le fallaces umbrae dell’Oltretomba Ombre, apparizioni, sogni e descrizioni dell’Oltretomba sono motivi ricorrenti nel teatro senecano, popolato di figure e situazioni che incarnano la contaminatio, se non la sovrapposizione, tra gli Inferi e la Terra. Troviamo perciò personaggi come Tantalo e Tieste, prosopa protatika in Thyestes e Agamemnon, che rimpiangono di aver lasciato il Tartaro per assistere a un nefas inaudito, eroi che ritornano da un viaggio impossibile nel regno dei morti, come Teseo ed Ercole, o eroi già caduti, le cui ombre si manifestano tra i vivi a portare messaggi di morte, come Achille ed Ettore. In particolare, l’ombra di Ettore si sottrae all’abbraccio della sposa, rivelando da subito la natura fallace della sua apparizione, Troad. v. 460, fallax per ipsos umbra complexus abit. Ben oltre il motivo topico già omerico (Od. 11, 206-208) e virgiliano (Aen. 2, 792-794) del mancato abbraccio, il riferimento al carattere ingannevole dell’immagine apparsa in sogno ad Andromaca si tinge di originalità nel contesto del passo e dell’intera opera, caricando l’aggettivo di una forte ironia Per alcuni editori si tratta del coro. A favore dell’attribuzione a Teseo Caviglia 1979, ad loc. p. 255, non tanto sulla base della tradizione (E) non vincolante, ma soprattutto perché «un criterio di verisimiglianza spetta a Teseo, l’unico personaggio esente dal furor, che impone a Ercole di distruggere e ad Anfitrione di autodistruggersi, frenare l’impulso di morte di Anfitrione, così come nell’atto successivo frenerà la tentazione suicida di Ercole». L’A. discute e valuta ampiamente pro e contra delle singole attribuzioni a Teseo, al coro e ad Anfitrione, definendo la prima «la scelta più opportuna, (anche se non confortata dalla certezza)». Diversamente Zwierlein 1986, p. 67 ad loc.: «Die Verse sind dem Chor zuzuteilen» e Fitch 1987, p. 385 ad loc.: «But Theseus was sent away at 914-917. The only satisfactory solution is to give the present lines to the Chorus»: entrambi, dunque, in favore dell’attribuzione al coro, sulla base del precedente allontanamento di Teseo, v. 915 s. 127

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tragica: l’ombra che sfugge non è quella dell’Ettore vincitore, simbolo della forza e della potenza iliache, ma solo il simulacro in negativo dell’eroe di un tempo, la cui apparizione annuncia e anticipa profeticamente il destino della stirpe troiana, proprio attraverso il ritratto dello sconfitto. Un Ettore non più Ettore, privato oramai dell’antica gloria e ben lontano dal ricordo di grandi aristiai, dunque, non può farsi portavoce di un messaggio di salvezza. L’inganno si compie attraverso questa figura di per sé ‘falsata’ e che, perciò, veicola a sua volta una percezione deformata della realtà, nell’indurre all’inutile speranza del nascondiglio di Astianatte e alla vana illusione di sottrarre alla rovina colui che è troppo simile al padre vincitore (v. 464-467, nimiumque patri similis. Hos uultus meus | habebat Hector, talis incessu fuit | habituque talis, sic tulit fortes manus | sic celsus umeris, fronte sic torua minax; v. 504, agnosco indolem) per non finire vittima della medesima somiglianza128, ai limiti della sovrapposizione, anche nella morte (v. 1117, sic quoque est similis patri). La decisione di affidarsi al fallace suggerimento di Ettore (credam patri, v. 486) espone il popolo troiano, ancora una volta, a quella particolare forma di inganno, che coincide con la superficiale inclinazione a credere. La stessa credulitas che, si è visto, viene evocata (v. 628) con rimpianto dal coro delle prigioniere troiane in Agamemnon a indicare ‘con il senno di poi’ il comportamento della gente di Ilio in occasione del dolus acheo, è qui concretamente rappresentata appunto da una Andromaca ancora troppo credula, legata all’immagine di un Ettore che non esiste più e per questo maggiormente esposta agli stratagemmi e agli inganni di Ulisse. In Troades, tragedia di guerra e di morte, il tema dell’oltretomba è inoltre al centro del ben noto secondo coro, collocato tra le due apparizioni dei guerrieri nemici129: il canto, interamente incentrato sul destino dell’anima dopo la morte, si interroga in merito alla veridicità delle fabulae poetiche sul mondo ultraterreno. L’immaginario tradizionale sul regno dei morti viene rifiutato come arma di inganno per illudere i timorosi − v. 371 s., Verum est an timidos fabula decipit | umbras corporibus uiuere conditis? − fino alla netta e definitiva affermazione dell’inesistenza di una dimensione ultraterrena: post mortem nihil est, ipsaque mors nihil, v. 397. Il significato del passo, oggetto da sempre di interpretazioni diverse, troppo spesso ritenuto incongruente con il resto del dramma, è 128 Cfr., pur brevemente, Bettini 1992, p. 216. Interessanti considerazioni sul passo anche in Schiesaro 1997, p. 95 s., in particolare per quanto concerne il rapporto tra il passato incarnato da Ettore e il passato letterario cui guarda la tragedia senecana. 129 Owen 1970, p. 126.

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stato recentemente messo in luce da diversi studi130 e può essere sintetizzato dalle efficaci parole di Caviglia: «L’apparato tradizionale dei miti d’oltre tomba è soltanto una favola […] È la risposta più chiara e ferma che Seneca tragico abbia formulato di fronte alla domanda sull’anima immortale; il suo non è però soltanto un discorso che si sovrappone, irrelato, a quanto accade; al contrario ne costituisce la più concreta interpretazione, esente dalle concessioni al mito, che erano necessarie nel corso dell’azione scenica […]. Non contraddittorio, non estraneo rispetto agli eventi, questo Coro nemmeno si affianca a essi per confutarli o discuterli nel loro episodico verificarsi. È un canto, il suo che ‘va oltre’, interpreta, coglie la verità ultima dei fatti che si stanno svolgendo131». Di segno opposto, invece, la situazione in Hercules Furens, dove al ritorno dalle tenebre senza uscita (audax ire uias inremeabiles lo definisce il coro, v. 548) e prima di cadere nella morsa della follia omicida, Ercole fa il suo ingresso davanti a un incredulo Anfitrione: il padre, nell’immediatezza dell’improvvisa comparsa, dubita dell’identità del figlio, temendo di essere vittima di una falsa visione132, v. 618-620, Utrumne uisus uota decipiunt meos, | an ille domitor orbis et Graium decus | tristi silentem nubilo liquit domum?, e di lasciarsi ingannare da un’ombra, v. 622-624, o nate, certa at sera Thebarum salus, | teneone in auras editum an uana fruor | deceptus umbra? Sarà infatti solo il riconoscimento133 della forza fisica di Ercole a poter fugare ogni incertezza, dando la prova definitiva che si 130 Tra i più significativi nell’ambito delle tematiche trattate dai cori senecani: Cattin 1956 e 1959; sulla specificità del contesto di Troades oltre al citato Caviglia, Garcia-Borrón-Moral 1956, p.  198, Schetter 1965, Fantham 1982, p.  266-271, Amoroso 1984, p.  143-145; Corsaro 1982, Mazzoli (G.) 1996, Keulen 2001, p.  268-288. In relazione alla speculazione filosofica del Cordovese: Scarpat 1965, p. 277-299; Pohlenz 1967, I, p. 183-193; Hoven 1971, Mazzoli (G.). 1984, Marino 1996, Setaioli 2000, p. 275-323. 131 Caviglia 1981, p. 45-47. 132 Caviglia 1979, p. 40, nota l’apparente contraddizione tra l’ansia stupefatta di Anfitrione e la certezza manifestata in v. 520 s. : «Probabilmente Seneca ha un po’ esitato nel condurre sino in fondo la novità della propria intuizione del personaggio, e ha attribuito al suo Anfitrione qualche cosa della Megara euripidea: cfr. in particolare Eur. 517 […]. Si tratta, del resto, di espressioni che rientrano negli stereotipi delle ‘scene di ritorno inatteso’». A questa tipologia appartiene, inoltre, anche la domanda del coro in Oed. v. 204, di fronte al ritorno di Creonte, An aeger animus falsa pro ueris uidet? | Adest petitus omnibus uotis Creo. 133 Anche se questo caso specifico non viene citato, in generale sull’uso di agnosco in Seneca tragico è da vedere Borgo 1992: lo studio mette bene in evidenza il significato del termine come «verbo della resipiscenza, del rinsavire riconoscendo», nell’originale accezione che l’autore conferisce, nel suo teatro, al tradizionale momento del riconoscimento.

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tratti del figlio in carne e ossa e non, appunto, di una fallax umbra, v. 624 s., agnosco toros | umerosque et alto nobile in trunco caput.

4. Falsa pro ueris uidere: fallere, fallax, falsus e il contrasto tra verità e apparenza Nella produzione drammatica di Seneca, questi termini compaiono talvolta per definire, generalmente, l’inganno meditato, generato da menzogna o simulazione: si è visto per alcuni brani già esaminati, infatti, che il verbo fallere, usato in senso attivo o passivo, spesso si trova associato, con tale connotazione, a fraus e dolus come in Phoen. v. 492 s., Thyestes v. 320 s., dove è utilizzato per indicare la catena di inganni che coinvolge i membri di una medesima famiglia e dove il suo significato si lega più strettamente all’idea della macchinazione, o in Med. v. 835, dove indica i doni insidiosi recapitati a Creonte e alla figlia. Anche per Troades, se ne è constatata la presenza nella messa in scena di Elena, con la finzione delle nozze tra Pirro e Polissena (v. 867 s.), svelata dalla presa di posizione di un’Andromaca disincantata, v. 935-937, Fare, quam poenam pares | exprome et unum hoc deme nostris cladibus | falli. L’aggettivo fallax è stato oggetto di uno studio risalente a poco più di una decina di anni fa134, che ne ha evidenziato i due principali ambiti di applicazione, de hominibus e de rebus, individuando: «due valori quasi in simbiosi e, nel tempo stesso, con spettri significativi diversi per natura e azione: a) l’uno intransitivo con l’accezione di ‘falso’; b) l’altro transitivo con quello di ‘ingannevole’». Nelle tragedie del Cordovese è possibile riscontrare entrambe le accezioni, come dimostra ancora una volta il caso di Ulisse, cui tale vocabolo viene riferito: nel makarismós di Troad. v. 145-155, infatti, Ecuba canta la sorte beata del felix Priamus, che non deve sopportare la fine di Troia, il peso della sottomissione al nemico vincitore, la vista degli Atridi e dell’ingannevole Ulisse, nec fallacem cernit Ulixem. L’aggettivo fallax, qui associato all’antroponimo dell’Itacese, come ulteriore marca linguistica di quell’eco comica cui si è accennato, contribuisce a caratterizzare il personaggio con un sottile e duplice riferimento, sia a colui che ha ideato il dolus della fatalis machina, segnando definitivamente la caduta della città135, sia alla poco Zuccarelli 2002, p. 539. Come si è visto il medesimo aggettivo serve invero a qualificare anche Sinone, v. 39, fallax Sinon, per il ruolo avuto nell’impresa del cavallo, cfr. Verg. Aen. 2, 79 s.; 134

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edificante immagine dell’eroe che si imporrà, agli occhi delle prigioniere troiane, nel corso dell’opera. Ma nel lessico dell’inganno di Seneca tragico, questi termini assumono maggiore rilevanza e specificità nel delineare il contrasto tra realtà e apparenza, parte di quel processo di inversione e stravolgimento che caratterizza personaggi, paesaggi, legami parentali, ordine naturale e, in generale, tutto l’universo tragico senecano, poiché: «il modulo dell’inversione è la struttura profonda che orienta e governa i contenuti del dramma senecano136». Molto frequentemente vengono utilizzati per indicare l’apparenza ingannevole di situazioni, comportamenti, valori, che contribuisce all’instaurarsi di una dimensione alternativa, opposta alla condizione vissuta dai protagonisti, condizione che gli stessi non sono in grado di cogliere e comprendere nelle reali caratteristiche di mostruosità e di atrocità che la connotano. È un inganno, quindi, che per lo più non nasce dalla macchinazione di un individuo con il progetto o nel tentativo, attuato con la complicità di terzi, di prevalere sull’antagonista, ma da una erronea valutazione dei fatti: fallax e fallere indicano l’inganno legato a una prospettiva deviata o dovuto alla percezione parziale di una situazione la cui portata e le cui reali sfumature sfuggono a chi la vive. I personaggi cadono nella trappola di questa errata valutazione, generata dalla forza dell’illusione amorosa, dallo splendore brillante e accecante nei palazzi del potere, dalla stessa condizione umana, troppo spesso esposta alla tentazione dell’apparenza e sensibile a rapide valutazioni di facciata, motivo di cui, come si sa, è pervasa l’intera riflessione senecana, ben oltre i confini della composizione drammatica e i vincoli imposti dal codice letterario137. La presa di consapevolezza, che si scontra con gli effetti della katastrophé, arriva naturalmente troppo tardi, talvolta, addirittura, resta isolata in funzione contrastiva rispetto allo sviluppo delle vicende nell’espressione del coro, secondo la funzione che a esso è stata riconosciuta, e pour cause, nella drammaturgia del Cordovese138. 2, 195 s. Sulla simulatio di Sinone si segnala lo studio di Piscopo 2004, praec. p. 198226. 136 Picone 1987, p. 187. 137 Ne discute, con riflessioni anche in ambito linguistico, Borgo 2000. 138 Condivido pienamente l’impostazione e le conclusioni a cui giunge Mazzoli (G.) 1986-1987 e 1996, che inoltre considera approfonditamente la storia del dibattito critico su questo tema. Nel primo dei due studi, p. 101 e 104, Mazzoli individua le due cifre essenziali della ‘coralità’ senecana in contrastività e anacronia, il cui distacco dall’azione si caratterizza come: «grado zero di competenza (con notevoli effetti d’ironia tragica)», o come: «grado pieno (con valenza assoluta dell’effetto gnomico)», sottolineando, in particolare, che, (p. 108), «lungi dall’essere ‘monadi’ intruse frigidamente o

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Paradossalmente, in un passo cruciale dell’Agamemnon, è proprio Cassandra, la falsa uates139 destinata a vedere quanto agli altri resta nascosto e a conoscere una verità preclusa a chi si limita alla comodità, dagli esiti sempre infausti, di una fallace apparenza, l’unico personaggio senecano che possa rivendicare la certezza e l’autenticità della propria visione, una visione che, appunto, non inganna e che, pertanto, si può definire pienamente veritiera, v. 874 s., imago uisus dubia non fallit meos: | spectemus. «Presunta preda di un impotens furor (v.  801) e tuttavia, di lì a poco, ‘spettatrice’ assolutamente lucida, (v. 872 s.), della sua uccisione», Cassandra sancisce, come nota ancora Mazzoli, il passaggio «dal regno del furor al furor del regno140». Addentrandosi più nel dettaglio delle singole tragedie, in Phaedra, l’aggettivo fallax è utilizzato per indicare la natura ingannevole di Amore, a cui è associato dalla protagonista stessa in un ‘a parte’ dalla collocazione strategica, che si innesta dopo l’affermazione di Ippolito, già densa di ironia tragica, dei v. 631-633, pietate caros debita fratres colam, | et te merebor esse ne uiduam putes | ac tibi parentis ipse supplebo locum. La reazione di Fedra, v. 634, O spes amantum credula, o fallax Amor141 − sottolineando il carattere illusorio e mistificatore di Amore − evidenzia la contrapposizione tra il proprio punto di vista e quello del giovane, che ha appena promesso di sostituirsi al padre Teseo per tutto il tempo della sua assenza. Lo scarto è enfatizzato dal riferimento alla credulitas, che qui come altrove in Seneca tragico142, indica: «non […] il concetto della addirittura alogicamente nel corpo dell’azione, i cori organizzano un superiore o sottostante sistema semantico che, attraverso le connotazioni, gli scarti, le dislocazioni si ‘oppone’ – nel senso strutturale del termine – a quello della fabula, investendo di ideologia i miti consunti nella secolare tradizione tragica». 139 Ag. v. 725, iam Troia cecidit – falsa quid uates agor? 140 Mazzoli (G.) 1995, p. 207-208. 141 Amore inganna e fa ingannare, come si deduce dal primo canto corale, che celebra proprio questo potere della divinità, v. 294 s., et iubet caelo superos relicto | uultibus falsis habitare terras. Ma ben altro sentimento, per la nutrix, ha invaso il demens animus di Fedra (v. 202), che nasconde e nobilita la libido appellandosi, in una prospettiva deviata dal furor, a un falsum numen, v. 195-197, deum esse amorem turpis et uitio fauens | finxit libido, quoque liberior foret | titulum furori numinis falsi addidit. 142 Cfr. Thyest. v. 295, dal punto di vista di Atreo, credula est spes improba, su cui Tarrant 1985 ad loc. p. 132: «‘too ready to believe’, ‘gullible’, the word’s normal meaning in Seneca», e Thyest. v. 963, dal punto di vista di Tieste, credula praesta pectora fratri. Da notare anche come Tieste qualifichi la propria inquietudine, mentre tenta di allontanare da sé la sensazione di un sentimento ancora incerto, in bilico tra il timore, il dolore e il piacere: il sorgere di una strana agitazione viene ridotta a finzione generata da dementia (così come era accaduto per Fedra, cfr. supra), v. 961 s., quos tibi luctus quosue tumultus |

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Capitolo I.  L’inganno nel teatro di Seneca: lessico, personaggi, situazioni

‘fiducia’, ma della ‘credulità’, cioè di un’eccessiva facilità a credere […] con un connotazione negativa143». Ancora più carica di ironia tragica è la scena che vede Teseo credere e cedere alla accuse di Fedra, in un gioco di sovrapposizioni che stravolge e capovolge i ruoli dei personaggi, v. 915922, Ubi uultus ille et ficta maiestas uiri | atque habitus horrens, prisca et antiqua appetens, | morumque senium triste et affectus graues? | O vita fallax, abditos sensus geris | animisque pulcram turpibus faciem induis: | pudor impudentem celat, audacem quies, | pietas nefandum; uera fallaces probant | simulantque molles dura. In un validissimo commento al passo, è stato giustamente messo in evidenza il rilievo enfatico dell’inganno presente in questa manciata di versi, nel rimarcare che: «fallax è parola tematica (cfr. ficta al 915 e, subito dopo, la ripresa al 921), la cui espressività è puntualizzata dalla connotazione negativa del suffisso -āc-. In subordine, un’articolazione testuale conseguente, nella quale è il concorso delle ‘figure’ che induce a interpretare in chiave di funzionalità stilistica: prima, con animisque … induis, l’intreccio delle parole riproduce iconicamente l’intrigo dell’inganno, poi, ad accentuarlo, il triplice chiasmo di 920 s., cui seguono due frasi (vera … | … dura), la seconda delle quali sintatticamente ripropone, ma rovesciandolo, l’ordo verborum della prima144». Nel considerarsi vittima della fallace condizione umana, che impedisce a un padre di conoscere fino in fondo il figlio, Teseo crede di aver finalmente compreso l’inganno e di essere giunto a una visione corretta della realtà: la vera identità di Ippolito è finalmente svelata e smascherata fingis, demens?, dove il riferimento al fingere è messo in risalto dal successivo e già citato credula. 143 Traina (A.) 1981a, p.  131. Lo studioso, esaminando Thyest. v.  963, nota, p. 132: «Nel momento in cui si esorta a credere al fratello e alle sue promesse, Tieste usa un termine, che rivela come tale fiducia sia un’illusione. L’urto tra il sintagma praesta e il semantema credulum, ripropone nell’ambito di una sola frase il conflitto tra le due componenti tematiche che si alternano nella monodia: la volontà nolo infelix (v. 966) […] e il presagio (v. 958) mens ante sui praesaga mali […]. Si potrebbe tradurre, sulla scia del Marchesi, ‘credi al fratello, illuso cuore’». Inoltre, per quanto concerne più specificamente la iunctura credula spes e il carattere fallace della speranza, motivo frequente in Seneca, si possono consultare Armstrong 1998, con testo e commento del carmen de spe attribuito al filosofo (Anth. Lat. 415 Riese), con una sezione dedicata alla trattazione del tema nel panorama letterario latino, p. 30-42, e Citti 2004, interamente dedicato all’opera del Cordovese (ora anche in Citti 2012, p. 25-52). 144 De Meo 1995, p. 233. Sul passo è da segnalare anche l’interpretazione di Giomini 1955, p. 83, che parla, per il monologo di Teseo, di «intelaiatura originale, con una tecnica compositiva che non disdegna l’intonazione retorica». Secondo l’A. nell’attaccare il figlio e la sua falsa apparenza si costruisce, per contrarium, l’incorrotto senso etico di Teseo, «presentando a tinte fosche il motivo della falsità, dell’ipocrisia, della scelleratezza che dominano incontrastate e impregnano la vita dell’uomo».

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nel comportamento, nel carattere, nell’aspetto, secondo un modulo già euripideo che Seneca tinge di colori romani145. Ma un inganno si incastra nell’altro ed è paradossalmente quella stessa uita fallax che guida a una percezione errata dei fatti, a impedirgli di cogliere la portata di quanto si sta consumando, in quel preciso momento, contro di lui e contro il figlio che crede nemico146. Del resto, non casualmente, nelle accuse lanciate da Teseo non compare il nome di Ippolito: nella coscienza dell’autore e del pubblico complice e onnisciente, queste parole ben si adattano a descrivere lo status di Fedra, poco prima presentatasi come sposa pudica, v. 874, non certo priva, in tale circostanza, di audacia e impietas147. La deformazione della realtà e la confusione dei ruoli sono oramai completate, con un Ippolito reso irriconoscibile: «Hippolytus’ whole life is transformed into a sham, concealing hidden lust behind a fine show of chastity»148, e con una Fedra che − dopo essersi imposta, novella eroina abbandonata, come coniunx dalla fides tradita (v. 91 s. e v. 97 s.), come mater-nouerca (v. 608 s. e v.  638), come soror (v.  611), come famula (v.  611 s.), come uidua, (v. 623) − assume l’improbabile veste della sposa casta e fedele, la pudica (v. 874) socia thalami (v. 864), capace di resistere a quelle medesime preces (v. 891) da lei stessa indirizzate a Ippolito nel tentativo di sedurlo149 (v. 635). Sarà solo dopo l’annuncio della morte di Ippolito da parte del 145 Eur. Hipp. v. 924-931; v. 948-954. Sul ritratto ‘romano’ di Ippolito mi sembrano valide le considerazioni della Petrone 1984, p. 91: «Le doti che gli sono attribuite, adesso credute finte da Teseo ma in realtà vere, sono relative a quei valori che per la mentalità romana formavano la statura etica del vir. […] Sono le virtù del mos maiorum, l’austerità e la gravitas che i Romani hanno sempre riferito agli antenati e a un passato ritenuto esemplare. Ippolito somiglia infallibilmente a un antico romano, per come la consuetudine lo elogiava: dispregiatore delle mollezze esteriori, ma pieno di dignità e autorevolezza». Un’ulteriore interessante lettura relativa alla caratterizzazione romana del personaggio di Ippolito in Degl’innocenti Pierini 2005 (ora in Ead. 2008). Va inoltre ricordato che le caratteristiche romane di Ippolito richiamano gli stessi valori promossi dalla Scuola dei Sestii: un’etica fondata su frugalità, temperanza e fortezza morale, come si evince da Lana 1992. Sul tema anche Hadot 2007. 146 Cfr. Segal 1986, praec. p. 150-179. 147 Così anche in ivi, p. 93: «Ironically, Theseus’ denunciation of Hippolytus lustful Amazon ancestry and licentiousness concealed beneath a chaste exterior is in fact much more appropriate to Phaedra, with her heritage from Pasiphae and her lies to protect her position as a chaste life». 148 Ibid.: «The final destruction of Hippolytus’ Golden-Age childhood comes, after all, not from the evil stepmother, but from the wrathful father. […] Theseus’ acceptance of Phaedra’s accusation directly attacks Hippolytus’ emulation of the pristine simplicity of the men of old». 149 Per la sovrapposizione dei ruoli parentali Borgo 1993; sulle modalità di seduzione di Fedra e sui modelli letterari si rimanda alla valida analisi di Morelli 1995.

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Capitolo I.  L’inganno nel teatro di Seneca: lessico, personaggi, situazioni

nuntius, v. 997, e la confessione, finalmente esplicita, delle menzogne di Fedra, v. 1192-1194, falsa memoraui et nefas | quod ipsa demens pectore insano hauseram, | mentita fixi, che Teseo potrà cogliere davvero il senso più autentico della uita fallax precedentemente invocata, ristabilendo il confine tra ciò che è reale e ciò che è finzione e annullando la confusione di ruoli tra i personaggi, v. 1209 s., dum falsum nefas | exsequor uindex seuerus, incidi in uerum scelus. Nell’Hercules Furens, in maniera analoga, viene presentato il manifestarsi della pazzia di Ercole, nell’improvviso cambiamento del volto e dello sguardo150, nella falsa visione di un cielo inesistente, che determinano l’accecamento del protagonista, veicolo di un totale stravolgimento della realtà, v. 952-954, quod subitum hoc malum est? | Quo, nate, uultus huc et huc acres refers | acieque falsum turbida caelum uides? Invocato dal coro perché, in quanto domitor malorum e requies animi (v. 1066 s.), vinca la furia omicida, solo il Sonno, in grado di unire il vero e il falso e di svelare o celare il futuro, v. 1070 s., Somne […] ueris miscens falsa, futuri | certus et idem pessimus auctor, potrà ristabilire l’ordine, dare tregua all’eroe e riportare il suo sguardo all’effettiva visione (e comprensione) della realtà. Ugualmente fallace e manifestazione evidente di una visione distorta della realtà è la prospettiva di Atreo nel Thyest. v. 885 s. Dopo l’uccisione dei figli di Tieste e prima che si consumi il fatale banchetto, è nelle parole del tiranno − che celebra il proprio sacrilego trionfo proclamandosi aequalis astris − che il pubblico può infatti riconoscere l’accecamento di Atreo e la traccia di quella forma di autoinganno che attanaglia i potenti, già profetizzata da Tieste nel dialogo con il giovane figlio Tantalo, v. 446, falsis magna nominibus placent. Nel mondo tragico di Seneca, inoltre, tutto ciò che è fallax e falsus si sintetizza nella realtà del regnum, polo negativo che condensa in sé ogni forma di inganno e veicola una percezione deviata e corrotta della realtà. Nel contesto più ampio del pensiero senecano, questi sono tratti ben noti, sempre al centro dell’interesse del filosofo, di cui le tragedie, attraverso la cornice del mito, mostrano gli aspetti più terribili, le conseguenze mostruose e i risvolti più nefasti. Personaggi e regni tragici incarnano la realtà rischiosa e precaria dell’aula, quella falsa regalità ‘mondana’ e materiale che gli uomini bramano e, con ogni mezzo, cercano di ottenere, cupidi arcium (Thyest. v. 342); a ciò si oppone l’intangibile ma autentica regalità 150 Fitch 1987, ad loc. p. 367, mette a confronto Troad. v. 1092 e Phoen. v. 473 s., riconoscendo la difficoltà per questi passi di stabilire: «whether vultus means ‘countenance’ or ‘eyes, gaze’».

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PARTE PRIMA.  LESSICO E MORFOLOGIA DELL’INGANNO

dell’anima, il tutus locus (Thyest. v. 365) dell’interiorità accessibile a chi, come il sapiens, sappia resistere impassibile agli attacchi della sorte, attraverso il dominio delle passioni (Thyest. v. 348-350, rex est qui posuit metus | et diri mala pectoris; v. 365-368, qui tuto positus loco | infra se uidet omnia | occurritque suo libens | fato nec queritur mori; v.  390, hoc regnum sibi quisque dat151) e la conoscenza di sé152 (Thyest. v. 401-403, illi mors grauis incubat | qui, notus nimis omnibus, | ignotus moritur sibi)153. Il secondo coro del Tieste è il brano che più rappresenta questo contrasto, non solo per il contenuto del canto, ma anche per la sua collocazione154, esattamente tra il dialogo di Atreo con il satelles, che definisce i termini della vendetta e delinea una spietata ‘teoria del regno’, e il dialogo di Tieste con il figlio Tantalo, in cui l’esule, inizialmente in sintonia con le parole del coro (v. 443 s.), si lascia, infine, tentare e trascinare nell’ingannevole e impossibile societas del potere155 (v. 542 s.). Ma il significato della riflessione senecana è tutto racchiuso nel sentenzioso mens regnum bona possidet (Thyest. v. 380): il regnum a cui si fa qui riferimento è ben altro rispetto all’aula, dominata dal furor e incompatibile con la mens bona sulla scena tragica come su quella storica. Il potere materiale è un impossibile bene, è solo fallace apparenza, è mistificazione, recita in apertura di tragedia un Tarrant 1985, ad loc. p. 146, «in implied contrast to the false regnum that the audience will see Thyestes accept from Atreus». 152 Cfr.  Petrone 1981; Giancotti 1988 e Degl’Innocenti Pierini 1999, p.  81-107. Sul mondo e sul linguaggio dell’interiorità è riferimento imprescindibile Traina (A.) 19843. 153 Monteleone 1989, p. 115-157, p. 126: «Gli stolti (che sono i più, la folla) nella ricerca del bene si fermano alle apparenze sensibili e scambiano per beni e per mali le cose esteriori (vita, salute, bellezze, ricchezze, potenza, onori, successo e i loro contrari), il cui possesso è esposto al capriccio della sorte e precario, e, non dipendendo da noi, comporta ansia e inquietudine». Emblematica la formulazione di Tieste, v. 470, immane regnum est posse sine regnum pati, su cui efficacemente ancora Id. 1991, p. 236 «In un’unica frase concentra il contrasto tra due scale di valutazione, quella del saggio che giudica secondo verità e quella degli stolti che giudicano secondo le apparenze. Un vero e proprio paradosso che nasce dal rapporto, entro la stessa frase, del termine regnum con due referenti e due sfere che si oppongono tra loro come vero (interiorità) e falso (esteriorità)». 154 Mantovanelli 1984, p. 118-122. 155 Tarrant 1985 mette a confronto la figura di Tieste con quella dell’antenato Tantalo, nella descrizione del primo canto corale in cui si ricorda la pena a cui egli è condannato, con l’inganno del mangiare e del bere, v. 166 s., Has ubi protulit | et falli libuit, ad loc. p. 114 s.: «A striking phrase […] The stress on Tantalus’ acquiescence is certainly deliberate (contrast HF 754 fidemque cum iam saepe decepto dedit, where the emphasis is on the faithlessness of the water); it deepens the symbolic meaning of the scene, in which Tantalus’ surrender prefigures that of Thyestes (Cfr. especially 542)». 151

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Capitolo I.  L’inganno nel teatro di Seneca: lessico, personaggi, situazioni

Edipo già consapevole e rassegnato156, Oed. v. 6 s., quisquamne regno gaudet? O fallax bonum | quantum malorum fronte quam blanda tegis, che cela, dietro le attraenti sembianze, la natura infera descritta nel penetrale regni dell’arcana regio in Thyest. v. 645-679. Potere e potenti sono sempre esposti alle incertezze del Fato, Ag. v. 57 s. O regnorum magnis fallax | Fortuna bonis | in praecipiti dubioque locas | excelsa nimis, ma dominati da una pericolosa superbia: personaggi come Atreo, Pirro e l’Agamennone delle tragedia omonima, incarnano questo insidioso contrasto, tutti accecati da una falsa illusione di onnipotenza, chiusi in una apparente ed effimera invulnerabilità. Il regno, infatti, è comunque destinato a cadere, se non per mezzo di inganni o armi, sotto il suo stesso peso, Ag. v. 86-88, licet arma uacent cessentque doli, | sidunt ipso pondere magna | ceditque oneri fortuna suo. Così, tutto ciò che appartiene al regnum terreno, concreto, materiale, è falso: falsi gli splendori di ricchezze e potere, Thyest. v. 415, fulgore non est quod oculos falso auferat; false le lodi che spettano al sovrano, Thyest. v. 211 s., laus uera et humili saepe contingit uiro | non nisi potenti falsa; false le speranze di sfuggire alla vendetta dei re, Ag. v. 282 s. Non dant exitum | repudia regum: spe metus falsa leuas; falsi i valori che regnano nell’aula, Phaedr. v. 988, O uane pudor falsumque decus; falso lo stesso nomen157 regale, Thyest. v. 446, mihi crede, falsis magna nominibus placent e Troad. v. 271-273, ego esse quicquam sceptra nisi uano putem | fulgore tectum nomen et falso comam | uinclo decentem?

156 Cfr. Paduano 1993, p. 8 s.: «Con tutta evidenza, la chiave di volta del rovesciamento sta nella mutata disposizione ideologica e nell’opposto investimento emotivo che coinvolge il tema della regalità, cui non è più possibile rappresentare la garanzia dell’innocenza di Edipo. […] Il potere è un nucleo irriducibile di male – insieme fatto e subito – avviluppato nelle rispondenze tra valenza oggettiva e angoscia collettiva». 157 Cfr. Segal 1982, p. 245: «In several passages nomen refers to the deceptive externals of fame and prestige, the seductive but meretricious attraction of a ‘mere name’».

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PARTE SECONDA GLI SCENARI DELL’INGANNO: AULA E NATURA

CAPITOLO II IL RAPPORTO TRA FINZIONE E POTERE NELLA CORNICE DELL’AULA

Esaminando la bibliografia critica relativa alla presenza o alla negazione di un preciso messaggio politico all’interno del corpus tragico senecano, tema che si inserisce nella vexata quaestio riguardante, in termini più generali, la natura e il significato del teatro d’età imperiale, si potrà facilmente constatare che si tratta di un problema già da tempo sviluppato e dibattuto1. Uno sguardo ai principali studi sulla questione evidenzia due fondamentali linee interpretative che hanno proposto letture contrastanti. Nel primo caso, la dimensione politica è stata assolutizzata a tal punto da riconoscere nella scrittura drammatica un’operazione sostanzialmente politica: si pensi, ad esempio, alla tesi del Bishop, che, con la sua analisi delle tragedie, ha tentato di decriptarne il political code, proponendo identificazioni con personaggi, avvenimenti o precise situazioni storiche contemporanee all’autore. Questi testi, dal suo punto di vista, rappresenterebbero il tentativo di dar voce a una vera e propria letteratura d’opposizione2, espressione del disagio e della protesta di chi, pur collaborando con il potere, mira in realtà al suo sovvertimento. Emblematica in tal senso è l’interpretazione dell’Oedipus come tragedia rivoluzionaria, che invita all’azione contro il regime neroniano: «the tragedies are part of the personal protest of the Man of Words, even though he was a key figure in the government; but so far only Oedipus calls for action: Seneca aims the myth squarely at Nero and demands the necessary action. The play is thus not only brilliant poetry and tragedy, but also a very interesting document, quite possibly unique from antiquity, because 1 Per i diversi aspetti della questione si veda Malaspina 2004a, p. 267. Si segnala anche Lana-Malaspina 2005 per un inquadramento bibliografico sull’argomento. 2 Bishop 1978, p. 290. Sul codice politico anche il successivo Bishop 1985.

PARTE SECONDA.  GLI SCENARI DELL’INGANNO: AULA E NATURA

it calls for revolution3». Di avviso completamente diverso, Tarrant4 ha criticato con fermezza la tesi del Bishop, definita «the most thoroughgoing (and the most unpersuasive) attempt to see covert political significance in the plays», rifiutando di leggere nei drammi senecani esplicite allusioni a personaggi o avvenimenti del tempo, senza tuttavia negare la presenza di temi e problematiche attualizzanti, che si spiegano alla luce del contesto storico in cui vive l’autore5. Questo secondo approccio mi appare condivisibile e decisamente più convincente, per almeno due motivi. Primo, perché l’interpretazione del Bishop, sopravvalutando l’elemento politico, non solo rischia di essere pericolosa e fuorviante per l’interpretazione del pensiero e dell’opera di un autore che ha dedicato altre, più adatte, forme letterarie alla riflessione e all’esposizione delle proprie teorie politiche6, ma anche perché sottovaluta l’apporto, tutt’altro che trascurabile, della lunghissima tradizione letteraria e del repertorio tragico che questa medesima tradizione ha da tempo codificato, a cui l’autore attinge come fonte inesauribile per ambientazioni, vicende, personaggi, miti. Secundo, perché l’impossibilità di ricostruire con certezza il contesto di produzione, diffusione e ricezione di questi testi − per i quali non disponiamo né di una cronologia definitiva7, né di informazioni utili a stabilirne con certezza le modalità di fruizione o a individuarne almeno il milieu di circolazione − rappresenta una lacuna difficilmente colmabile, che non facilita affatto la demarcazione di una netta linea di confine tra elementi riconducibili ad avvenimenti reali ed elementi ascrivibili alla finzione letteraria. Sono dunque portata Bishop 1978, p. 300. Tarrant 1995, p. 227 s. 5 Ivi, p. 228: lo studioso parla di «leading themes and preoccupations», tra cui annovera l’interesse per il potere tirannico, l’attenzione dedicata alla sintomatologia della passione e l’influenza della visione stoica del mondo nella rappresentazione dell’universo tragico senecano. 6 In maniera analoga si pone il problema della presenza e dell’importanza di un messaggio stoico all’interno del teatro senecano, su cui mi pare condivisibile l’equilibrata posizione di Garbarino 2001, p. 30: la studiosa, pur riconoscendo uno stretto rapporto tra Seneca tragico e Seneca filosofo, sottolinea che: «tuttavia le tragedie non si possono ridurre a semplici trasposizioni della dottrina stoica in termini drammatici, o, ancor più riduttivamente, a didascaliche illustrazioni della teoria stoica delle passioni». 7 Si vedano a riguardo almeno Fitch 1981a e 1987, che propone una suddivisione cronologica delle tragedie in tre gruppi: «an early group (I), Agamemnon, Oedipus, Phedra; a middle group (II), Hercules Furens, Medea, Troades; a late group (III), Thyestes, Phoenissae». Ove rilevanti per il tema oggetto di questa indagine, le ipotesi di datazione saranno riportate nella trattazione dei singoli drammi. 3 4

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Capitolo II.  IL RAPPORTO TRA FINZIONE E POTERE NELLA CORNICE DELL’AULA

a escludere una lettura in chiave esclusivamente politica delle tragedie, a favore di un’interpretazione in grado di conciliare attività letteraria, esperienza biografica e realtà storica. Solo così credo che si possa cogliere l’originalità del teatro senecano, in bilico tra il rispetto della tradizione, in cui l’autore si inserisce «coltivando un genere codificato del quale accetta fino in fondo lo statuto8», e la capacità di rielaborare il materiale innovandolo nella forma e nei contenuti, così da creare un’opera che possa essere, secondo la felice formulazione di Dangel, «en même temps itératif et différencié, universel et singulier9». Mi sembra, pertanto, che la centralità della riflessione sul potere, vero Leitmotiv nel corpus tragico senecano, avverta effettivamente l’eco della situazione storica, ma che tale eco non vada riconosciuta in una puntuale corrispondenza tra le vicende del mito e quelle della Roma di primo secolo d. C., bensì nella traccia di questioni e tematiche presenti anche in altri autori di questo periodo come suggestioni di una comune «humus culturale», che operano, più o meno consciamente, «sotto il sottile velo del mito» sul piano di una «attualizzazione e politicizzazione implicita10». Questo è il motivo per cui non intendo soffermarmi su un’analisi del pensiero politico senecano nei suoi caratteri generali, quanto concentrarmi su un singolo aspetto dell’agire politico: il rapporto tra finzione e potere. Rapporto da analizzare necessariamente in armonia con le coordinate temporali, spaziali, sociali e culturali dell’esperienza umana e Garbarino 2001, p. 30. Dangel 2004, p.  64. Molto apprezzabili sono infatti le parole della studiosa francese in merito al rapporto tra l’elaborazione del mito nel teatro greco classico, in quello romano dell’età repubblicana e in Seneca, in particolare nel sottolineare che: «Force est de constater que l’écriture et la réception de ces mêmes histoires diffèrent selon les époques et les auteurs […] Aux problèmes des sources littéraires et d’un mode de mise en œuvre auctoriale, il convient en outre d’adjoindre les contraintes qu’imposent des changements de mentalité et de culture, d’ordre historique, sociologique, politique et esthétique». 10 Degl’Innocenti Pierini 2007, p. 148; 155 e Ead. 2005, p. 469. Allo stesso modo Mazzoli (G.) 1999, p. 289, scrive di una: «diffusa lettura in filigrana di rimandi, più o meno identificabili, all’attualità politica». Tuttavia, difficilmente, per il teatro senecano, si potrà parlare di un messaggio di «politique en texte caché» che, al contrario, è stato riconosciuto al teatro romano arcaico, Dangel 2001, p. 33 s. L’A. attribuisce alla tragedia d’età repubblicana delle «véritables prises de positions que l’on peut qualifier de politique, à la condition de conserver au mot sa signification latine: celle des grandes valores doxales de la Cité et de ses dirigeants autant que du contexte civique et historique de leur parution», attribuendo all’opera di Accio un momento di svolta nel senso di «une interpretation politique du théâtre républicain, en texte non plus caché, mais ouvert». In generale, sul Fortleben di Accio si rimanda a Degl’Innocenti Pierini 1977, p. 9-33, per l’età imperiale praec. p. 27-33; sul rapporto di continuità e rottura tra Accio e Seneca Mazzoli (G.) 1970,  p.  194-198; Dangel 1990; 1995, p.  26-30, con ricco apparato bibliografico, e 2004. Si interroga sul punto anche Grimal 1992. 8 9

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PARTE SECONDA.  GLI SCENARI DELL’INGANNO: AULA E NATURA

biografica del Cordovese, poiché, lungi dall’essere un semplice motivo della tradizione letteraria, rappresenta − nella tangibile quotidianità della prima età imperiale − una reale e viva preoccupazione del suo tempo. L’ambientazione stessa delle tragedie suggerisce implicitamente questo parallelismo nell’affinità tra lo spazio della scena mitica, in cui si muovono le dramatis personae, e lo spazio della scena storica che circonda l’autore. È stato giustamente rilevato che «la tragedia è per tradizione ambientata in un contesto politico, in cui la monarchia è l’unica forma di governo esistente e in cui i personaggi si costituiscono da subito secondo la polarizzazione re-suddito», in cui «i protagonisti sono tutti re (o lo sono stati in passato), quando non sono parenti di re» e l’insistenza su una terminologia del potere si caratterizza come «scenografia sociopolitica imposta al genere tragico11». In conformità alla tradizione di cui parla Malaspina, l’aula è quindi la scenografia dei drammi senecani, la cornice in cui hanno luogo le vicende regali del lontano orizzonte tragico. Tuttavia, nella sensibilità di chi scrive e di un ipotetico fruitore di questi testi, il termine aula lascia scorgere in filigrana un primo elemento di attualizzazione: questo vocabolo, non più utilizzato per indicare soltanto lo spazio della regalità mitica, si riscontra sia nelle opere in prosa di Seneca12 − all’interno delle quali, come è stato chiarito dall’importante studio condotto da Pani sulla storia del termine, si colloca la prima testimonianza di un uso riferibile con molta probabilità all’ambito del principato − sia nella letteratura, soprattutto storiografica, dei decenni successivi13 ed evoca, nella concretezza dell’esperienza storica, la scenografia del principato. L’aula «indica, a volte, fisicamente, la casa del principe; altre volte l’aggregazione di persone che gravitano attorno al principe, con il loro stile di vita14». All’epoca, infatti, il medesimo vocabolo Malaspina 2004, p. 271. De ira 2, 33, 2; De tranq. 6, 3; Ep. 29, 6 e Apoc. 3, 2, con esplicito riferimento a Claudio, nel passo in cui Mercurio comanda a Cloto di far morire l’imperatore, lasciando l’aula uacua per un sovrano più degno. 13 Cfr. Tacito Hist. 1, 7; 1, 13-22 ; 2, 71; 2, 95. Ann. 1, 7; 2, 43; 6, 43; 15, 34. Svetonio: Cal. 12; 39; Nero 6; Vit. 4; Vesp. 14; Tit. 2. Altissima la densità del termine anche nell’Octavia pseudo-senecana, testo in cui scenografia tragica e scenografia storica effettivamente coincidono: v. 35; v.162; v. 218; v. 285; v. 533; v. 625; v. 668; v. 689; v. 699; v. 781; v. 893; v. 948. Su tale accezione del termine cfr. ThLL, II, 1457, 14, de Caesarum palatio e OLD aula1 4. 14 Pani 2003, p. 17. Lo studioso ripercorre l’origine della parola, individuandone il diretto modello nell’aulé delle monarchie orientali, persiane ed ellenistiche, e analizza numerosi brani significativi per comprenderne l’evoluzione semantica a Roma. Oltre a Sen. De ira 2, 33, 2, su cui avrò modo di tornare, Pani discute un brano di Svetonio, da cui pare di poter dedurre che, per aula, il significato di ‘corte’ − «inteso a indicare i 11 12

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Capitolo II.  IL RAPPORTO TRA FINZIONE E POTERE NELLA CORNICE DELL’AULA

designava tanto il palazzo imperiale, luogo di esercizio del potere, quanto il complesso apparato di corte, formato da membri della famiglia imperiale, consiglieri, liberti, cortigiani, che Seneca ebbe modo di conoscere a fondo negli anni di partecipazione attiva alla gestione del potere. Nelle tragedie, l’aula ha quasi sempre connotazione negativa15: è l’ambiente insidioso e ingannevole in cui si consuma il nefas, dove si sovverte l’ordine naturale, dominato da empietà, incesti, furor, lotte fratricide, sacrifici cruenti e tirannidi16. Nel palazzo regale si materializza dunque la fallacia del regno17 che, dietro l’apparenza e lo splendore di facciata (come le fulgide colonne marmoree e i soffitti dorati descritti in Thyest. v. 645-647, fulget hic turbae capax | immane tectum, cuius auratas trabes | uariis columnae nobiles maculis ferunt) nasconde, lontano dagli occhi della folla, l’arcana regio che ospita il penetrale regni, cuore infero della reggia che ne racchiude il reale, terrificante volto (Thyest. v. 648-652, post ista uulgo nota, quae populi colunt | in multa diues spatia discedit domus. | Arcana in imo regio secessu iacet […] penetrale regni). Non mi pare dunque casuale che nelle due tragedie in cui l’autore si sofferma maggiormente sul rapporto tra potere e inganno, ovvero Troades e Thyestes, l’aula venga associata alla caducità del regno e alla fragilità del potere e contrapposta, come polo negativo, a un’esistenza trascorsa obscuro loco, lontano dai pericoli della vita pubblica. Troades si apre proprio con questo tema: sullo sfondo della città in fiamme, Ecuba rivolge lo sguardo a quel che resta della potentia18 troiana: le sue prime parole sono un’amara constatazione della fugacità del regno, paradigmaticamente rappresentata frequentatori della casa del Cesare, del palazzo, e comunque, della sua residenza (come a Capri)» − possa essere ricondotto già all’età di Tiberio, «forse anche agli ultimi anni di Augusto», p. 22. Sullo stesso tema si ricordano anche i contributi di Winterling 1999 e 2001, che ugualmente sottolinea come Seneca per primo utilizzi il vocabolo nel senso non solo o non tanto di maison impériale, ma di vera e propria cour. 15 In questi stessi anni, un altro importante riscontro nell’ambiente molto vicino a Seneca e alla corte neroniana, si trova nei versi sentenziosi di Lucano, Phars. 8, v. 493495, Exeat aula | qui uult esse pius. Virtus et summa potestas | non coeunt: semper metuet quem saeua pudebunt. Sull’influsso di Seneca tragico in Lucano Narducci 2002, passim. 16 Cfr.  Grimal 1992, p.  411: «Les palais ont toujours été le lieu de complots, de luttes sanglantes […] qui sont la suite naturelle du pouvoir». 17 A proposito del regnum come fallax bonum (Oed. v.  6 s.) cfr.  Garbarino 2001, p. 36, che parla della caratterizzazione del regno in Seneca tragico come «quintessenza del male», richiamando anche Mazzoli (G.) 1993, p. 209, Paduano 1993, p. 9 e Petrone 1984, p. 120. 18 Interessante e ben argomentata l’interpretazione della Petrone 1995, p. 115, che vede la fine di Troia come «metafora del crollo di Roma su se stessa».

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PARTE SECONDA.  GLI SCENARI DELL’INGANNO: AULA E NATURA

dal paesaggio di rovine e dalla condizione della stessa Ecuba, regina oramai prossima alla schiavitù (cfr. Troad. v. 1-4, Quicumque regno fidit et magna potens | dominatur aula nec leues metuit deos | animumque rebus credulum laetis dedit | me uideat et te, Troia). Nel caso del Thyestes, in maniera ancora più evidente, il rapporto tra inganno e potere costituisce «il meccanismo genetico dell’azione e la ragione fondamentale della sua unità19»: tutta la tragedia, infatti, è costruita sulla descrizione dell’ideazione e della realizzazione dell’inganno ordito da Atreo ai danni del fratello richiamato a corte. Nel secondo canto corale20, v. 391-397, che precede l’entrata in scena di un Tieste ancora timoroso e diffidente nei confronti del regno, il tema è sempre quello della contrapposizione tra la natura effimera e rischiosa dell’aula e la sicurezza di una vita trascorsa nell’ombra, nella dulcis quies del lene otium: Stet quicumque uolet potens | aulae culmine lubrico: me dulcis saturet quies: | obscuro positus loco | leni perfruar otio | nullis nota Quiritibus | aetas per tacitum fluat. Nei versi spunta un anacronistico riferimento ai Quiriti, che contribuisce ad attualizzare il messaggio del coro attraverso un esplicito collegamento tra le vicende del mito e il presente della storia di Roma: come acutamente nota Picone21, Seneca rompe qui la convenzione scenica per sottolineare l’attualità di quanto viene detto e per trasmettere al proprio pubblico il messaggio di «un’aspra e amara critica del potere imperiale». Nel monde à l’envers dell’aula tragica non c’è dunque spazio per i valori della morale civile e religiosa (cfr. Ag. v. 79-81, iura pudorque | et coniugii sacrata fides | fugiunt aulas) al punto che anche nella Phaedra − tragedia apparentemente priva di una predominante dimensione politica e lontana dalle problematiche del regnum − l’autore attribuisce alla riflessione sul potere una rilevanza cruciale. L’analisi della Petrone22, infatti, ha messo bene in evidenza come il nefas di una proles confusa che spezzi le leggi naturali, frutto dell’amore incestuoso di Fedra per Ippolito, venga ricondotto alla corruzione dell’aula23. Nella sua interpretazione del mito, Se Picone 1984, p. 12. Sulla funzione di questo e degli altri cori nell’asse sintagmatico delle tragedie si veda Mazzoli (G.) 1986-1987 e 1996. 21 Picone 1976. Sull’anacronismo anche Giancotti 1988a, p. 66, per il quale si tratta di una contaminazione tra mito e storia, segno dell’«intima connessione che collega il Tieste e la propria drammatica età». In questo senso, si veda altresì Degl’Innocenti Pierini 1999, p. 99, che parla di un epilogo corale in cui «traspare chiaramente, al di là del mito, il riferimento al presente». 22 Petrone 1984, p. 75 s. 23 Phaedr. v. 170-177; v. 1123-1127. 19 20

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Capitolo II.  IL RAPPORTO TRA FINZIONE E POTERE NELLA CORNICE DELL’AULA

neca fa di una storia d’amore e di morte una tragedia del regnum24: così, nella reggia dominata dal vizio, dove: «il furor è al potere e la scena del regno è la scena dell’irrazionale25», torna inevitabilmente anche il motivo del rapporto tra finzione e potere, sancito, nel momento che precede la katastrophé, dall’esplicita e pregnante sentenza del coro: fraus sublimi regnat in aula26. Proprio il legame tra fraus e regnum accomuna racconto mitico ed esperienza storica negli anni della dinastia giulio-claudia27, come testimoniano l’analisi storiografica degli Annales di Tacito e delle Vite svetoniane. In tal senso, almeno, si può dire che aula mitica e aula storica sembrano sovrapporsi: al di fuori del parossismo tragico, mi pare che l’inedita importanza attribuita dal teatro senecano a questo motivo assorba anche i fermenti provenienti dall’hic et nunc di quel preciso momento storico e possa essere considerata un tratto importante e caratteristico del tempo, nel segno di quell’‘attualizzazione implicita’ cui si è fatto riferimento precedentemente. Del resto, è noto che, già alla fine dell’età repubblicana, il ruolo della finzione nella vita pubblica e la definizione delle sue tipologie sono oggetto di interesse e di riflessione nell’opera ciceroniana, specialmente nei testi con cui l’Arpinate si propone di delineare un nuovo modello etico e politico in grado di affrontare i cambiamenti economici, sociali e culturali della sua epoca. Nel corso della prima età imperiale, di fronte al mutato assetto istituzionale e alla nuova struttura gerarchica della società romana, l’analisi della tematica della finzione viene analizzata e approfondita fino a diventare una vera e propria categoria di interpretazione storica. Pertanto, prima di addentrarsi nello specifico della drammaturgia senecana e per comprenderne fino in fondo le implicazioni, mi pare utile ricostruire, attraverso le testimonianze di Tacito e dello stesso Seneca, la dinamica di tale rapporto nel contesto storico e culturale in cui questi testi furono pensati e scritti.

24 Per le implicazioni storiche del tema, in particolare per la caratterizzazione di Ippolito, si rimanda al già citato Degl’Innocenti Pierini 2005. 25 Petrone 1984, p. 124 26 Phaedr. v. 982. 27 Affinità che Malaspina 2004, p.  293 s., riscontra dal punto di vista di una «oggettiva coincidenza tematica dei miti (e non solo di quelli ripresi da Seneca!) con le vicende degli imperatori della dinastia giulio-claudia, tra tirannide, follia, furor, vendette, incesti, omicidi tra consanguinei e crudeltà assortite», ipotizzando anche che «uno spettatore/lettore delle tragedie […] potesse vedere in personaggi e sententiae riferimenti a imperatori vivi o defunti – riferimenti, si badi bene, che nel corso di diverse audizioni/ letture a distanza di tempo potevano modificarsi, moltiplicarsi o ridursi in tutta libertà».

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PARTE SECONDA.  GLI SCENARI DELL’INGANNO: AULA E NATURA

1. Il rapporto tra finzione e potere nel quadro storico del principato Un homme qui sait la cour est maître de son geste, de ses yeux et de son visage; il est profond, impénétrable; il dissimule les mauvais offices, sourit à ses ennemis, contraint son humeur, déguise ses passions, dément son cœur, parle, agit contre ses sentiments. Tout ce grand raffinement n’est qu’un vice, que l’on appelle fausseté, quelquefois aussi inutile au courtisan pour sa fortune, que la franchise, la sincérité et la vertu. La Bruyère, Les caractères ou Les mœurs de ce siècle Tiberio dissimulatore Nei capitoli introduttivi del primo libro degli Annales, Tacito si propone di narrare pauca de Augusto, per concentrarsi sugli altri protagonisti della dinastia giulio-claudia (Ann. 1,  1), e dopo aver riassunto, davvero per sommi capi, gli scontri della guerra civile, sintetizza così l’affermazione di Ottaviano, dux reliquus, e la nascita del principato: ubi milites donis, populum annona, cunctos dulcedine otii pellexit, insurgere paulatim, munia senatus magistratuum legum in se trahere, nullo aduersante28. Con grande abilità politica e forte del consenso militare e popolare, ottenuto grazie a elargizioni, donativi e con la dolcezza della pace29, Ottaviano fa gradualmente convergere su di sé l’esercizio del potere, attribuendosi competenze che tradizionalmente spettavano al senato, ai magistrati, alle leggi. La testimonianza dello storico, inoltre, non manca di sottolineare la silenziosa tranquillità dell’operazione compiuta dal princeps, senza rotture traumatiche con il passato (Ann. 1, 3, 7, domi res tranquillae, eadem magistratuum uocabula30), evidenziando chiaramente l’ambiguità di fondo del nuovo equilibrio politico introdotto da Augusto31. Se da un lato, infatti, egli rivendica formalmente la propria fedeltà alle istituzioni Così in Tac. Ann. 1, 2, che insiste sulla debole reazione delle altre parti sociali. Sull’espressione dulcedo otii, cfr. il commento ad loc. di Goodyear 1972, p. 104 s., che ne sottolinea il carattere ingannevole, definendola: «bitter faintly ironical and set in contrast to the concrete donis and annona. Dulcedo suggests a deceptive and beguiling attraction». 30 Cfr. Goodyear 1972, ad loc. p. 117. 31 Beranger 1948, p. 196, parla di «pouvoir non illégal, car il est sanctionné par la loi, mais extra-légal, puisqu’il s’est développé en marges des institutions républicaines vivaces qu’il prétendait perpétuer». Il problema relativo alla legittimità dinastica giulio-claudia è affrontato efficacemente da Cogitore 2002. 28 29

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Capitolo II.  IL RAPPORTO TRA FINZIONE E POTERE NELLA CORNICE DELL’AULA

repubblicane, che conservano le denominazioni usuali senza soluzione di continuità con il passato32, dall’altro inaugura una diversa gestione del potere, che si avvia a essere sempre più individuale ed esclusiva33. Questa natura ‘doppia’ del principato, in cui tutto viene presentato ‘come se’ lo stato repubblicano continuasse a esistere, nonostante l’instaurazione effettiva di una nuova forma di governo, si riflette nell’ambivalente comportamento dei principes: lo dimostra l’atteggiamento di Tiberio che, nel tentativo di salvare le apparenze, cuncta per consules incipiebat, tamquam uetere re publica et ambiguus imperandi (Ann. 1, 7, 3). L’uso della comparativa ipotetica, qui come in altri casi nell’opera di Tacito34, si rivela di grande efficacia nel rendere, anche sul piano linguistico, il contrasto tra realtà e mistificazione, enfatizzando lo scarto tra la situazione de iure e quella de facto: una volta ‘smascherata’ la continuità di facciata è facile pertanto constatare l’essenza monarchica del nuovo ordinamento, come sancisce il passaggio di Ann. 4, 33, 2, sic conuerso statu neque alia re Romana quam si unus imperitet. La nuova realtà politica e sociale, che si nasconde dietro una falsa immagine di sé per non ammettere il mutato stato delle cose, si serve di finzione e inganno, quali strumenti necessari a reggere il gioco delle apparenze: per questo, si può giustamente affermare che la finzione è «un tratto significativo e caratteristico del principato», è un elemento che costituisce il «marchio d’origine35» del nuovo assetto politico e appartiene alla sua stessa struttura. Se, come è stato accuratamente rilevato, «il principato viola sistematicamente la veritas e dissimula in primo luogo la sua stessa natura, imponendo così a tutti, principi, uomini di corte, senatori, intellettuali, militari, popolo,

32 Sul rapporto continuità-trasformazioni tra età repubblicana e principato si vedano almeno Pani 1981 e il più recente Millar 2002. 33 Anche Rudich 1993, p. XVII: «In appearance, Augustus preserved all traditional institutions intact, but transformed them […] The new dispensation cleverly combined one-man rule with a republicanist façade». 34 Cfr. Strocchio 2001, passim. Spunti utili in merito si ricavano anche dall’analisi dell’opera di Seneca in Borgo 2000. 35 Strocchio 1996, p. 315 e Strocchio 2001, p. 123. Interessanti considerazioni sul tema alla luce delle implicazioni linguistiche e semantiche di species anche in Valenti Pagnini 1987, praec. p. 89 s.: la studiosa sottolinea come in Tacito, nel delineare il rapporto tra la realtà dell’assolutismo e l’apparenza delle forme repubblicane, la parola species acquisti «per via di connotazione, il senso di ‘formalismi’, denunciando l’uso coscientemente strutturale e mistificante di valori e consuetudini dell’età repubblicana da parte di un potere che si rivela in realtà sempre più assolutistico ed arbitrario». Per una ulteriore prospettiva linguistica sull’origine della parola species si veda Auvray-Assayas 1999.

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un modello di comportamento basato su falsità e simulazione36», nella prospettiva che qui ci interessa non si può non constatare come il rapporto tra finzione e potere a Roma occupi da Augusto in poi una dimensione istituzionale e sia un carattere costituivo del potere imperiale. Negli anni successivi e per tutta la durata della dinastia giulio-claudia37, tale rapporto si stringe e si consolida38: la capacità di fingere, di adottare cioè le forme della simulatio39 (cercare di far credere qualcosa che non è, ovvero mostrare ciò che non si ha) e della dissimulatio (cercare di non far credere qualcosa che è, ovvero celare ciò che si ha)40, diventa una norma fondamentale dell’agire politico, che regola innanzitutto il rapporto tra il princeps e il senato ma anche, più in generale, tutte le relazioni sociali nell’ambito della vita pubblica. La capacità di simulare o dissimulare mettendo in scena una vera e propria rappresentazione di sé e dei rapporti con gli altri, diviene un requisito indispensabile per chi voglia esercitare il potere, o più semplicemente entrarvi in contatto, nella nuova situazione storica del I sec. d. C. In questo senso, si può leggere il passo di Ann. 4,  31,  2: nel descrivere la concessione della grazia al cavaliere Cominio, accusato di aver composto un carme oltraggioso nei confronti dell’imperatore41, parlando di Tiberio Tacito riferisce neque enim socordia peccabat; nec occultum est, quando ex ueritate42, quando adumbrata Strocchio 2001, p. 123. Per l’età flavia si veda Ivi, p. 11-31. 38 Cfr. Rudich 1993, p. XXII, evidenzia come il ricorso alla finzione in ambito politico fosse presente anche durante l’età repubblicana: «which is not surprising when a public career often demanded pretense and compromise», ma ne riconosce un’importanza e una centralità di gran lunga maggiore nell’età giulio-claudia, quando esso diventa: «prerequisite not only of political success, but even of psychological survival». 39 Breve ricostruzione dell’origine e dell’utilizzo del termine in Piscopo 2004, praec. p. 185-188. 40 Modalità di finzione che spesso interagiscono, come nota Ramondetti 2000, p. 49: «Il dissimulare, cioè nascondere la propria natura reale e le proprie reali intenzioni […] può comportare, nello stesso tempo, il suo ricorso al ‘simulare’, cioè all’adottare mediante finzione un atteggiamento che mostri il contrario di ciò che egli [scil. Tiberio] vuole nascondere; la sua dissimulazione si attua allora avvalendosi della simulazione come di una maschera: dissimulazione e simulazione sono in tal caso compresenti in una sorta di sinergia». 41 Fatto che lo storico commenta sottolineando l’intenzionalità e la piena consapevolezza da parte di Tiberio: quo magis mirum habebatur gnarum meliorum, et quae fama clementiam sequeretur, tristiora malle. 42 Sulle implicazioni politiche di ueritas e uerum in Tacito cfr. Mastellone Iovane 1980: l’A. nota una maggiore frequenza del termine ueritas negli Annales rispetto alle altre opere di Tacito, in particolare nella prima esade dei libri relativi al principato di Tiberio, p. 59. Per il passo in questione p. 61. 36 37

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laetitia facta imperatorum celebrentur. Come nota molto acutamente Mevoli, «attraverso l’uso del plurale (imperatorum), l’affermazione di Tacito si dilata e si generalizza, acquistando quasi un tono sentenzioso e un carattere di universalità […] non è il singolo principe, ma il principato in sé, come istituzione, che impedisce alla verità di affermarsi43». Così, nel momento che precede la morte di Tiberio in una fase ancora incerta per la successione, il futuro imperatore Caligola, già disposto a tutto pur di raggiungere il trono, si prepara a ereditare il potere imparando a fondo44, appunto, l’arte della finzione, nel segno di un vero e proprio passaggio di consegne: nihil abnuentem, dum dominationis apisceretur: nam, etsi commotus ingenio, simulationum tamen falsa in sinu aui perdidicerat (Ann. 6, 45, 3). È ben noto, in realtà, che una parte importante della tradizione storiografica antica (Tacito, Svetonio, Cassio Dione45) abbia identificato nella figura di Tiberio l’immagine per eccellenza del sovrano simulatore, «a master of guile and dissimulation», per citare Syme46: gli anni del suo regno sono stati interpretati all’insegna dell’ipocrisia, della simulazione, della dissimulazione, attribuendogli il carattere di una mostruosa doppiezza47 che avrebbe conservato anche in punto di morte48. Nella storia degli studi ampio spazio è stato dedicato all’analisi della figura di Tiberio e alle problematiche a essa legate, come la spinosa questione delle fonti utilizzate dagli storici nella ricostruzione del suo principato e la presenza di incoerenze, contraddizioni e valutazioni differenti all’interno dei singoli autori49, nel tentativo di chiarire la situazione e ricostruire 43 D. Mevoli, La terminologia della verità e della finzione in Tacito. Implicazioni politiche e ideologiche, Brindisi 1997, p.  44 s. Cito qui lo studio di Mevoli, tramite Strocchio 2001, non avendo potuto visionarlo direttamente. 44 Strocchio 2001, p. 131. 45 Cfr. Syme 1958, p. 421: lo studioso precisa comunque che «the memory of Tiberius was not officially condemned at Rome». 46 Ivi, p. 423. 47 Giua 1975, p. 352. 48 Tac. Ann. 6, 50: Iam Tiberium corpus, iam uires, nondum dissimulatio deserebat. 49 Il caso più discusso riguarda la degenerazione nel comportamento dell’imperatore, che tutti gli storici ammettono, ma collocano in momenti diversi della sua vita. Tacito gli riconosce da subito un’indole viziosa, ma attribuisce alla rottura con Seiano il momento in cui si svelano i peggiori vizi (Ann. 6,  51,  3). Svetonio la fa coincidere con il ritiro e l’isolamento a Capri (Tib. 42, 1), Cassio Dione con la morte di Germanico (57, 13). Si veda sul punto Giua 1975, secondo la quale, nel complesso, la vita di Svetonio e il racconto di Cassio Dione presentano maggiore confusione e incoerenza d’insieme rispetto alla versione di Tacito. L’A. si sofferma altresì sulle «tracce di giudizi contrastanti sulla figura di Tiberio già in Seneca», p. 358 s.

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la genesi e la diffusione delle differenti tradizioni. La critica, infatti, ha riconosciuto una pluralità di approcci che hanno origine ora nella propaganda antitiberiana − risalente ai rumores diffusi sul comportamento del principe che circolavano già all’epoca del suo regno − ora in antitetiche posizioni filotiberiane di cui sono rimaste, al contrario, ben poche attestazioni. La testimonianza più utile e completa per ricostruire con maggiore attendibilità la voce positiva sull’operato e sulla personalità dell’imperatore è la Storia Romana di Velleio Patercolo50, ma sappiamo da Tacito che molto era stato scritto a favore della dinastia giulio-claudia51, testi che l’autore, dalla sua personale prospettiva, giudica comunque non attendibili perché viziati dal metus e dall’odium. Non intendo però addentrarmi nel tema, che esula dallo scopo della mia indagine ed è oggetto, peraltro, di molti validi contributi52; mi preme tuttavia sottolineare come il ricorrere agli strumenti della finzione e dell’inganno assuma da subito nella storia del principato una grande centralità, concordemente riconosciuta dalle testimonianze della letteratura storiografica che ci è giunta. Tale importanza può essere ricondotta ad almeno tre motivi: in primo luogo perché, come si è detto, essi rappresentano lo statuto ambiguo su cui poggia il nuovo ordine politico instauratosi a Roma; in secondo luogo, perché costituiscono le armi di acquisizione e di conservazione del potere, che, come testimonia un passo di Svetonio (relativo all’allontanamento di Seiano), sono, ancor più dell’autorità imperiale, i mezzi con cui vengono assunte e intraprese le azioni politiche, in un contesto in cui l’inganno è già di per sé instrumentum regni (Suet. Tib. 65, astu magis ac dolo quam principali auctoritate); in terzo luogo, perché nella capacità di fingere è riposta anche la sopravvivenza di quanti entrano in contatto con il potere. Il primo libro degli Annales offre un esempio di questa triplice motivazione: la narrazione del primum facinus compiuta da Tiberio immediatamente dopo l’incoronazione, è un passo che fornisce da subito un’efficace chiave di lettura della dinamica finzione-potere in età imperiale. In seguito alla morte del rivale Postumo Agrippa, da lui stesso imposta, il princeps dapprima simula davanti al Sul significato panegiristico del testo Lana 1952. Ann. 1, 1, 3: Tiberii Gaique et Claudii ac Neronis res florentibus ipsis ob metum falsae, postquam occiderant recentibus odiis compositae sunt. 52 Per tutti si veda l’ottimo capitolo sullo status quaestionis in Strocchio 2001, p. 33-41, con ampia bibliografia e discussione critica. In particolare, per un punto sulla rappresentazione di Tiberio in Svetonio (in una prospettiva diversa dal citato Giua 1975) si segnala Ramondetti 2000, con un ulteriore e molto utile apparato bibliografico. 50 51

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senato di aver eseguito disposizioni paterne, patris iussa simulabat, poi nega, di fronte al centurione che ha compiuto quanto ordinato, di aver comandato l’uccisione53: nuntianti centurioni, ut mos militiae, factum esse quod imperasset, neque imperasse sese et rationem facti reddendam apud senatum respondit. Quod postquam Sallustius Crispus particeps secretorum (is ad tribunum miserat codicillos) comperit, metuens ne reus subderetur, iuxta periculoso ficta seu uera promeret, monuit Liuiam ne arcana domus, ne consilia amicorum, ministeria militum uulgarentur, neue Tiberius uim principatus resolueret cuncta ad senatum uocando: eam condicionem esse imperandi, ut non aliter ratio constet quam si uni reddatur (Ann., 1, 6, 3).

Il primo atto del principato di Tiberio sancisce così l’affermazione di un netto contrasto tra realtà e apparenza, tra uerba e acta54: in un mondo in cui risulta ugualmente pericoloso tanto mentire quanto dire il vero, è indispensabile adottare un comportamento ‘di facciata’, selezionando ciò che può essere rivelato e divulgato all’esterno e quanto, arcana domus, deve rimanere segreto all’interno dell’aula. L’ambivalente comportamento di Tiberio nei confronti del senato mira a salvaguardare la propria posizione, sempre sul filo dell’equilibrio tra la continuità con il passato e la nuova gestione del potere. Così, anche nel successivo discorso alla curia, il princeps assume un atteggiamento titubante, mostra un aspetto incerto e pronuncia parole almeno apparentemente esitanti55, che rivelano tutta l’ambiguità che lo caratterizza: plus in oratione tali dignitatis quam fidei erat: Tiberioque etiam in rebus quas non occuleret, seu natura siue adsuetudine, suspensa semper et obscura uerba: tunc uero nitenti, ut

53 Similmente si legge in Svetonio, Tib. 22: Excessum Augusti non prius palam fecit quam Agrippa iuuene interempto. Hunc tribunus militum custos appositus occidit lectis codicillis quibus ut id faceret iubebatur […] Tiberius renuntianti tribuno, factum esse quod imperasset, neque imperasse se et redditurum eum senatui rationem respondit, inuidiam scilicet in praesentia uitans. Nam mox silentio rem obliterauit. Analogie nel comportamento di Claudio anche in Claud. 29: In quinque et triginta senatores trecentosque amplius equites R. tanta facilitate animaduertit, ut, cum de nece consularis uiri renuntiante centurione factum esse quod imperasset, negaret quicquam se imperasse… 54 Cfr. Rudich 1993, p. XVII. 55 Cfr. Beranger 1948, praec. p. 182 e p. 196, così parla per la situazione del principato: «hésitations, atermoiements étaient commandés par la situation même», in una realtà in cui «le pouvoir n’est pas demandé; il est donné car il est une charge. Sans enthousiasme, et pour remplir son devoir, le princeps, en se faisant prier, accepte de s’occuper de la res publica». Cfr. Ann. 1, 7, 7 e Suet. Tib. 24.

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sensus suos penitus abderet, in incertum et ambiguum magis implicabantur (Ann.1, 11, 2). Nella descrizione di Tacito, la finzione del potere si attua innanzitutto per mezzo della parola: con la parola detta − che sfrutta un linguaggio ambiguo e significati oscuri o molteplici − e con la parola non detta − attraverso la strategia del silenzio. Nell’ipocrisia di fondo che regola il rapporto tra imperatore e senato56, infatti, parlare o tacere assume un valore politico che contribuisce ad affermare lo statuto ambiguo del principato; da un lato, poiché, come correttamente nota Lana, l’imperatore «si astiene il più possibile dal parlare e quando lo fa usa parole ambigue […] perché il silenzio degli imperatori in Tacito appare costantemente connesso con la dissimulazione» e, dall’altro, perché nel «duello con il senato combattuto con molti silenzi e ben controllate parole da una parte e dell’altra […] si rafforza un doppio legame» tra chi esercita il potere e i sudditi, nel segno di «una sorta di non voluta alleanza, per così dire, tra ‘vittima e carnefice’57». E tuttavia, l’atteggiamento mistificatore del princeps diventa altresì il modo migliore per osservare gli altri, per controllarne i comportamenti e scrutarne i volti, al fine di svelare i segreti più intimi: chi detiene ed esercita il potere deve leggere tra le righe non solo di quanto viene detto, ma anche, paradossalmente, di quanto viene taciuto, per verificare che le parole e i silenzi altrui non tradiscano le sue aspettative, non contraddicano le sue volontà o non nascondano intenti pericolosi58. Così, la simulazione di Tiberio è funzionale non solo in senso soggettivo a offrire l’immagine di una apparente continuità con la tradizione della res publica, ma anche in senso oggettivo, al vedere attorno a sé oltre le apparenze di uerba e uultus, fino a introspicere59 l’animus 56 Valenti Pagnini 1987, p. 120. L’A. parla di un sistema di relazioni controllato e gestito al prezzo della «ipocrisia reciproca, che non era quindi un atteggiamento psicologico individuale, ma risaliva a ragioni strutturali più profonde, era cioè una comune condizione politica». 57 Lana 1994, p.  362. In questo bel contributo lo studioso mette efficacemente in relazione l’attenzione al gesto e al silenzio all’interno dell’opera di Tacito con la condizione storica dell’impero: in un mondo in cui la libertà di parola è negata, anche il silenzio e il gesto «si appropriano di significato e diventano pericolosi». 58 Lana 1994, p. 361. Lo sguardo indagatore del potente è tema dalla notevole fortuna, particolarmente sentito da ‘chi vive sotto i tiranni’, come chiaramente si evince da La Penna 1978, p. 225-238. 59 Cfr.  Lana 1989; su questo preciso aspetto, p. 32: «l’introspicere ha come oggetto specifico primario il principe (è un duello pericoloso che si combatte tra il principe e i sudditi): se questi non vi fanno ricorso nei riguardi del principe, dal duello escono senz’altro sconfitti. Naturalmente di tale strumento di analisi fa uso anche il principe verso i sudditi […]».

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di chi lo circonda: postea cognitum est ad introspiciendas etiam procerum uoluntates inductam dubitationem: nam uerba, uultus in crimen detorquens recondebat (Ann. 1, 7, 7). Nella prospettiva di una realtà in cui la libertà è fortemente condizionata e limitata dalla presenza costante di un’autorità vigile e forte, la consapevolezza di essere sotto lo sguardo severo e attento del potere genera paura60 e impone l’adozione di un modello di comportamento fondato sull’esercizio di un rigido autocontrollo che regoli azioni e parole, che, cioè, sia in grado di simulare o dissimulare a seconda delle circostanze. Entrare in contatto con il potere implica una scrupolosa attenzione per quello che si dice, per come lo si dice, curando nel dettaglio ogni singolo gesto in modo da evitare che possa essere mal interpretato o addirittura travisato. Il rapporto con il potente, da sempre oggetto di ampia riflessione degli autori antichi, assume un diverso significato e una drammatica attualità nella cornice storica del principato, dove la nuova organizzazione politica e l’indiscusso controllo del princeps rendono più tangibile il rischio cui tutti sono esposti. Negli episodi degli Annales citati, infatti, l’occhio dello storico non trascura questo aspetto: le reazioni dei senatori e in generale dell’entourage di corte rispecchiano il contrasto tra essere e apparire, contrasto che si palesa non solo nella cura meticolosa di ciò che è visibile dall’esterno, come un’espressione del viso che può tradire un’emozione, ma anche nell’accurata ricerca di un linguaggio in grado di parlare con il potere, capace cioè di assecondarlo, lodarlo, talvolta compiacerlo, o in grado di ottenerne l’approvazione senza tuttavia darne l’idea. L’attenzione prestata al ‘sembrare’ − così strettamente legata al timore dell’impressione suscitata nel princeps − implica, da un lato, l’assunzione di un aspetto studiato, rappresentato dalla maschera del uultus compositus, «atteggiato in modo artificioso e perciò funzionale alla simulazione61», che ostenta sentimenti moderatamente equilibrati tra gioia e tristezza, dall’altro, l’abilità nel soppesare e valutare le parole più adatte alle circostanze, quelle parole che, per quanto intenzionalmente false, il potere si aspetta e vuole sentire: at Romae ruere in seruitium consules patres eques. Quanto quis inlustrior, tanto magis falsi ac festinantes uultuque composito, ne laeti excessu principis neu tristiores primordio, lacrimas gaudium, questus adulationem miscebant (Ann. 1, 7, 1). 60 Si veda a riguardo Mastellone Iovane 1989, con uno studio linguistico e semantico sulla terminologia della paura e dell’angoscia, accompagnato da un’indagine ideologico-politica del tema a partire dai libri neroniani degli Annales. 61 Ibid. p. 65. L’A. si sofferma sull’uso e sulle occorrenze dell’aggettivo compositus, ampiamente attestato in Tacito, in stretta connessione alla simulatio.

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In maniera simile si spiega l’accorta reazione dei patres al discorso di Tiberio al senato: at patres quibus unus metus si intelligere uiderentur62, in questus lacrimas uota effundi (Ann. 1, 11, 3). La doppia prospettiva adottata da Tacito nel descrivere questi episodi permette di ricostruire la grammatica del rapporto tra finzione e potere nei primi anni del principato, cioè in una fase politica ancora non consolidata: in tale rapporto tutte le diverse componenti sociali risultano coinvolte, pur con modalità e motivazioni differenti. Tiberio, che detiene ed esercita il potere, dissimula le proprie responsabilità nell’uccisione del rivale Agrippa; simula l’inadeguatezza a governare per legittimare la propria posizione di fronte al senato e si serve di tali espedienti per vigilare sul comportamento di chi lo circonda. Perciò, nel ritratto di Tiberio imperatore, in cui, come si è detto, convergono indubbiamente elementi eterogenei e motivi di diversa provenienza63, dissimulazione e simulazione sono allo stesso tempo «sia un motivo topico della raffigurazione del tiranno che nasconde crudeltà e vizi, sia una componente del carattere, sia uno strumento indispensabile per destreggiarsi nella lotta politica in vista della conquista e della difesa del potere», nel tentativo di «difendere l’apparenza della legalità senza rinunciare alla sostanza del potere: di qui nasce una forma di dissimulatio che si potrebbe definire ‘istituzionale’ peculiare di questo imperatore64». In modo analogo, chi entra in contatto con il potere, collaborandovi o subendone la forza, ricorre, a sua volta, alla dissimulazione dei sentimenti, nascondendo pensieri e intenzioni pericolose per assumere un atteggiamento gradito al princeps, unico veicolo di sopravvivenza e incolumità. Nella realtà politica e sociale del principato ci si muove, e, cosa ancor più importante, ci si deve muovere, come all’interno di un grande teatro − privo della tradizionale distinzione di spazi e ruoli tra scaena e cauea − in un unico ambiente, cioè, senza distinzione tra attori e spettatori: tutti, al tempo stesso, reci Per il legame tra metus e simulazione nel passo Goodyear 1972 ad loc. p. 177, che cita il testo di Fuerneaux (18962) sottolineando come i senatori «feared the consequence of detection, rather than the detection itself», e insistendo sul peso di «what might happen to them individually or collectively it they called his bluff or showed that they saw through it». 63 Per la simulatio di Tiberio in Svetonio, Ramondetti 2000, p. 81: «Il Tiberio svetoniano dissimula e finge quando si preoccupa di raggiungere o di impadronirsi o di tenere saldamente in pugno il potere. La sua dissimulazione […] ha come destinataria la civitas i cui occhi egli sente su di sé e gli homines di cui cerca di avere […] il favor. È il suo pubblico – non nella finzione di un teatro, ma sulla scena stessa del principato romano – che il tiranno vuole ingannare nascondendosi sotto falsi miti e querule spoglie, offrendogli delle species mistificatorie e fasulle». 64 Strocchio 2001, p. 129. 62

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tano e applaudono, osservano e sono osservati, oscillano tra la rappresentazione di sé e la visione della rappresentazione altrui. È un mondo in cui «gli uomini si guardano, si spiano: testimoni e giudici dello spettacolo altrui, sono essi stessi desiderosi di ostentarne uno proprio, perché l’immagine di sé che il singolo riuscirà a esibire, a costo di occultare l’essere con l’apparire, sarà il segno pubblico della sua identità, quello che gli permetterà di essere riconosciuto nel suo ruolo sociale65». Tutti gli elementi descritti caratterizzano anche la descrizione tacitiana del principato neroniano, dove il rapporto tra finzione e potere è ancora strettissimo e dove tale dimensione teatrale e spettacolare viene sottolineata con maggior forza. Sullo sfondo della nuova scena politica simulazione e falsità dominano ancora, tra continuità e cambiamento: così, da un lato, il ricorso alla finzione da parte del princeps si definisce, almeno in parte, in maniera diversa dal passato, poiché la necessità di legittimare il potere imperiale rispetto alla tradizione repubblicana appare meno cogente, dall’altro, invece, i temi dell’autocontrollo e della dissimulazione di sentimenti o di emozioni autentiche restano una necessità costante nel relazionarsi al potere. Proprio all’interno dell’aula, Seneca entra in contatto intenso con il princeps nei termini, ora di una stretta collaborazione, ora di una accesa conflittualità, sperimentando direttamente vantaggi e rischi del regnum ed elaborando una propria, personale riflessione sul rapporto tra finzione e potere. Per comprendere fino in fondo il pensiero senecano su questo tema, può essere dunque utile fermarsi brevemente su alcuni aspetti ed episodi del principato neroniano, che possono contribuire a contestualizzare e inquadrare la posizione del Cordovese nell’ambito della cornice politica e sociale in cui si colloca. Seneca e gli anni neroniani Nella tradizione storiografica (e non solo) antica, il paradigma teatrale66 − che costituisce un elemento distintivo e caratteristico del regno di Nerone − è sintetizzato nella definizione del princeps come imperator scaenicus67 e nel ritratto di un sovrano che più dei suoi predecessori Solimano 1995, p. 140. Cfr. Bartsch 1994, praec. p. 1-223. 67 Tac. Ann. 15, 59, 2 e Pl. Paneg. 46, 4, Idem ergo populus ille, aliquando scaenici imperatoris spectator ac plausor, nunc in pantomimis quoque auersatur et damnat effeminatas artes et indecora saeculo studia. Sul rapporto tra Nerone e l’arte un quadro generale in Sullivan 1985, praec.  19-73. Più concentrato sull’immagine del princeps in scena il capitolo Acting emperor in Edwards 1994, p.  86-91, che per tale caratterizzazione dell’imperatore cita anche l’importante testimonianza dell’ottava satira di Giovenale. 65 66

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rivela, da subito, un carattere capricciosamente artistico, sempre vòlto alla ricerca dell’attenzione o dello sguardo altrui, attraverso le continue apparizioni ed esibizioni sulla scena di cui si rende protagonista. Raccontandone l’ascesa al trono, peraltro ottenuta grazie all’intervento e alle strategie della madre Agrippina68, Tacito non manca di soffermarsi sul discorso pronunciato da Nerone in occasione della morte di Claudio, attribuendolo senza esitazione alla mano di Seneca, riconoscibile per lo stile elegante, così accuratamente conforme ai gusti del tempo. Dal confronto con gli altri esponenti della dinastia giulio-claudia emerge pertanto l’immagine di un imperatore che nell’arte oratoria non sembra affatto all’altezza del suo ruolo. Lontano dalla fluidità della parola di Augusto, dalla misura di Tiberio − capace di ponderare il discorso e caratterizzarlo ora per trasmettere un contenuto forte, ora per mantenere una ricercata ambiguità − dalla forza dello stile di Caligola, che neppure i peggiori vizi hanno potuto corrompere, e, infine, anche dall’eleganza di Claudio69, Nerone appare interessato e votato a ben altre artes, tradizionalmente considerate meno adatte a chi è preposto alla gestione della res publica: Nero puerilibus statim annis uiuidum animum in alia detorsit: caelare, pingere, cantus aut regimen equorum exercere: et aliquando carminibus pangendis inesse sibi elementa doctrinae ostendebat (Ann. 13, 3, 3). Con il passare degli anni, il carattere esuberante e istrionico di Nerone si manifesta con sempre maggiore evidenza, costringendo gli amici più vicini al princeps a intervenire attivamente, nel tentativo di nascondere, o perlomeno arginare, attività che avrebbero facilmente suscitato scandalo: dopo il matricidio e alla luce dell’accoglienza riservatagli al ritorno a Roma, Nerone acquista una salda consapevolezza della propria impunità, garanzia sufficiente per potersi dedicare, oramai apertamente, a ogni sorta di libido70. Il noto passo di Ann. 14, 14, 2-3 spiega chiaramente come, nonostante la mediazione diretta di Burro e Seneca, che Diversa l’interpretazione di Manning 1975, che vede nell’interesse di Nerone per l’arte e nelle relative performances un progetto politico: «A deliberate cultivation of the plebs both of Rome and the Empire, and […] by seeking popularity among them, Nero, if he had lived longer, would have effected a considerable change in the political relationships between the princeps and various groups in the empire he governed». 68 Tac. Ann. 12, 68-69. 69 Tac. Ann. 13, 3, 1-2. 70 Tac. Ann. 14, 13, 2: Promptiora quam promiserant inueniunt, obuias tribus, festo cultu senatum, coniugum ac liberorum agmina per sexum et aetatem disposita, exstructos, qua incederet, spectaculorum gradus, quo modo triumphi uisuntur. Hinc superbus ac publici servitii uictor Capitolium adiit, grates exsoluit, seque in omnes libidines effudit, quas male coercitas qualiscumque matris reuerentia tardauerat.

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vorrebbero evitare un’eccessiva ostentazione delle passioni del princeps, le artes ludicrae di Nerone finiscano per assumere una dimensione pubblica, con il compiacimento e il favore del popolo: nec iam sisti poterat (scil. Nero), cum Senecae ac Burro uisum, ne utraque peruinceret, alterum concedere. Clausumque ualle Vaticana spatium, in quo equos regeret, haud promisco spectaculo. Mox ultro uocari populus Romanus laudibusque extollere […] Ceterum euulgatus pudor, non satietatem, ut rebantur, sed incitamentum attulit.

Così, con l’istituzione dei ludi Iuvenalium, la spettacolarizzazione del principe-attore finisce per coinvolgere anche le restanti componenti sociali71, dagli esponenti delle più nobili famiglie romane, a importanti funzionari militari, a quegli stessi amici, oramai rassegnati a fare buon viso a cattivo gioco: postremus ipse scaenam incedit, multa cura temptans citharam et praemeditans adsistentibus phonascis. Accesserat cohors militum, centuriones tribunique et maerens Burrus ac laudans (Ann. 14, 15, 4-5). La contraddittoria posizione di Burro, che è contemporaneamente afflitto da maestitia per il comportamento spudorato del principe, ma costretto dalla situazione, e a rischio della propria incolumità, a lodare l’artista manifestando la propria approvazione, mi sembra un’interessante e ulteriore conferma di quanto finora è stato rilevato sul rapporto tra finzione e potere. Con Nerone, imperatore-attore amante della scena, la dimensione della teatralità si insinua a una pluralità di livelli: la finzione imposta dal potere, come atteggiamento necessario nelle quotidiane relazioni sociali all’interno di una realtà, per così dire, off stage, trova un’immagine complementare nelle performances on stage di Nerone, al tempo stesso protagonista e spettatore che vigila sulla partecipazione e sulle reazioni del

71 Concordemente Suet. Nero 11-12, che parla, tra gli altri, di senes consulares, matronae, equites, senatores e quidam fortunae atque existimationis integrae. Tacito, in particolare, (Ann. 14, 20, 4) rimprovera i proceres Romani che specie orationum et carminum scaena polluantur, i quali, per di più, tentano di giustificare attività tradizionalmente considerate tanto ignobili dai ceti elevati, ricorrendo ancora al sovvertimento di realtà e apparenza, pluribus ipsa licentia placebat, ac tamen honesta nomina praetendebant (Ann. 14, 21, 1). Sulla base della propria lettura politica, Manning 1975, p. 169 vede nel coinvolgimento delle classi sociali più elevate il tentativo da parte del principe di screditarle al fine di ottenere maggiore popolarità presso la plebe: «a more extreme manifestation of levitas occurred when the entertainment included the humiliation of the nobiles, the people who made a particolar point of their gravitas or dignitas».

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pubblico72. Il continuo scambio di ruoli sottolinea ancora una volta l’importanza dell’elemento drammatico nella vita del principato, elemento che sotto il regno di questo imperatore, raffigurato così distintamente artista e promotore delle arti, viene indubbiamente enfatizzato attraverso la spettacolarizzazione di ogni aspetto della vita pubblica. Non stupisce, dunque, che nei libri neroniani degli Annales sia stata riconosciuta una forte presenza del lessico della finzione e sia stato notato il coinvolgimento di numerosi protagonisti del racconto storico: «nel passaggio dai libri dedicati a Tiberio a quelli che descrivono i regni di Claudio (XIXII) e Nerone (XIII-XIV) il numero complessivo delle occorrenze dei vocaboli della dissimulatio/simulatio non varia in modo consistente […], tuttavia nei libri XI-XVI degli Annales si può notare una maggiore diversificazione dei personaggi a cui dissimulazione e simulazione vengono attribuite73». Questa analisi costituisce già un rilevante punto di partenza per definire le caratteristiche della problematica in età neroniana e per individuarne le principali differenze con gli anni di Tiberio. Il successore di Claudio, infatti, si insedia al potere insistendo nel ribadire l’integrità delle prerogative riservate al senato (Ann. 13, 4, 2, teneret antiqua munia senatus) e sostenendo, secondo l’usanza dei predecessori, la parvente continuità con il passato74 (Ann. 13, 28, 1, manebat nihilo minus quaedam imago rei publicae). Tuttavia, in questo momento storico, nonostante i tentativi di preservare la facciata repubblicana celando le accese lotte dinastiche per la successione al potere, lo statuto del principato appare oramai affermato: la sua istituzione come nuova organizzazione politica non viene più apertamente messa in discussione, indirizzando 72 Cfr. su questo aspetto Bartsch 1994, p. 5 s., che analizza anche Cassio Dione, 63, 15, 2-3, in cui «the members of the audience […] are obliged to put on a performance of fake enthusiasm» e relativamente al passo di Tacito citato sottolinea come «although they are spectators it is they who are watched, set as it were onstage themselves and compelled to play a role they do not feel. For Tacitus, Dio, and Suetonius, Nero’s rule is the occasion for a transformation of the theater into the site of a reversal of actor-audience relations, and as emperor on stage, Nero literally constrained his audience to be actors. […] A perspective that reverses the role of spectators and spectacle, subject and ruler, and makes the audience victims compelled to act». 73 Strocchio 2001, p. 87. Nell’analisi di simulatio e dissimulatio relativamente agli anni del regno di Nerone, la studiosa individua alcune precise tipologie di finzione, distinguibili sulla base dei personaggi coinvolti e dello scopo in vista del quale esse vengono attuate (p. 87-121): 1) instrumentum regni e legittimazione del potere; 2) strumento di lotta per il potere; 3) odium del tiranno per le sue vittime; 4) difesa da parte delle vittime; 5) cortigiani e consiglieri; 6) delatori. 74 Sul richiamo esplicito al modello augusteo, supportato dalla letteratura del tempo e soprattutto dai carmi bucolici di Calpurnio Siculo, insiste particolarmente Narducci 2002, p. 29 s.

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anche i rapporti tra princeps e senato verso una fisionomia più precisa rispetto agli anni precedenti75. Inoltre, la grande varietà di personaggi attivi nel gioco di finzione individuata dall’analisi della Strocchio evidenzia come, di fatto, fingere, nelle sue svariate modalità (simulare, dissimulare, tacere, mentire, mistificare) rappresenti non tanto, o non solo, l’instrumentum regni indispensabile per l’acquisizione, la conservazione e la gestione del potere, ma anche e sempre più l’atteggiamento da adottare nel relazionarsi a esso. È stato già sottolineato dalla critica, infatti, come proprio in questo aspetto consistano le principali differenze tra l’età neroniana e Tiberio, princeps simulatore per antonomasia: «While the Tacitean Tiberius is notable for his dissimulation, his successor Nero takes this further by making a public exhibition of pretending to be what he is not. Neronian rule causes everyone to dissemble76». La valenza politica della mistificazione neroniana si distingue altresì dal passato, poiché, almeno nei primi anni del regno, «per Nerone l’obiettivo non è tanto offrire di sé l’immagine del principe fedele alla tradizione repubblicana, quanto presentarsi come il bonus princeps, la cui figura morale e politica è tratteggiata dal suo precettore Seneca nel De clementia77». La maschera del buon sovrano, si sa, non durerà a lungo e il tentativo dell’imperatore è destinato presto al fallimento, svelando la vera indole dell’individuo e la natura assolutistica del potere che incarna. Quasi profetizzando la sorte dell’allievo e destinatario diretto delle sue esortazioni, lo stesso Cordovese sintetizza i rischi e i limiti dell’adozione di un comportamento fittizio, distinguendo tra la virtù naturalis, che si consolida nel tempo, e la virtù simulata, che, al contrario, ha una durata effimera e si esaurisce bre Cfr. per una simile interpretazione Michel 1969, p. 71 s. : «il n’est plus question à Rome de la République; lorsqu’un prince meurt, on lui trouve pour successeur un autre prince. Mais le régime n’est pas mis en question, du moins en apparence». Lo studioso nota, a proposito di Seneca, che il filosofo «reconnaît dans son De clementia qu’il ne croit pas aux vertus du régime républicain. […] Ainsi l’éloge des héros républicains ne coïncide pas avec l’éloge de la République». Sulla piena accettazione del nuovo ordinamento politico, cfr. il Seneca più vicino a Nerone, De clem. 1, 19, 2. Nel passo in questione, il filosofo propone un confronto tra la regalità degli uomini e quella delle api, inteso a sostenere proprio il carattere naturale della regalità: natura enim commmenta est regem, quod ex aliis animalibus licet cognoscere et ex apibus: quarum regi amplissimum cubile est medioque ac tutissimo loco: praeterea opere uacat exactor alienorum operum et amisso rege totum dilabitur nec umquam plus unum patiuntur melioremque pugna quaerunt. Praeterea insignis regi forma est dissimilisque ceteris cum magnitudine tum nitore. 76 Edwards 1994, p. 92. 77 Strocchio 2001, p. 88. Il motivo della clementia come virtù caratteristica e caratterizzante i primi anni del regno di Nerone è centrale, come noto, anche nella poesia propagandistica di Calpurnio Siculo Ecl. 1, v. 54-59. 75

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vemente, nemo enim potest personam diu ferre, ficta cito in naturam suam recidunt: quibus ueritas subest quaeque, ut ita dicam, ex solido enascuntur, tempore ipso in maius meliusque procedunt (De clem. 1, 1, 6)78. Nella testimonianza di Ann. 13, 11, Tacito interpreta proprio come esempio della ‘maschera del buon sovrano’ il comportamento di Nerone nei confronti di Plauzio Laterano, espulso dal senato per volontà di Messalina e da lui stesso richiamato, soprattutto grazie all’intervento di Seneca, primo atto di quella che avrebbe dovuto essere (almeno nelle intenzioni del filosofo79) una nuova stagione politica. In effetti, molti episodi ascrivibili al primo periodo del regno di Nerone, vedono coinvolti in questo continuo alternarsi di simulazione e dissimulazione numerosi personaggi vicini all’imperatore, in particolare proprio figure importanti come Seneca e Burro, la cui presenza e il cui influsso in questi anni appaiono forti e consolidati. La posizione di Seneca, soprattutto, è fin dall’antichità oggetto di interpretazioni contrastanti: lo dimostrano, da un lato, la visione più moderata, anche se ancora discussa, di Tacito80 e, dall’altro, quella più apertamente e radicalmente negativa di Cassio Dione, che insiste con fermezza sull’ambiguità e sul comportamento poco trasparente del filosofo in numerose circostanze81. In entrambi i casi, tuttavia, si trat78 Sul passo la Griffin 1976, p. 136 parla di «commonplace of ancient psychology», sottolineando che «the natural endowment of an Ahenobarbus could hardly be as promising as Seneca here pretends. Suetonius’ shows Nero’s heritage as anger, cruelty and violence». Sul legame tra l’impianto del De clementia e il princeps, valide considerazioni in Mazzoli (G.) 2003, p. 137: «Il libro I del De clem. rappresenta davvero il massimo sforzo compiuto dal filosofo per l’elaborazione d’un habitus politico non rigidamente agganciato all’assoluto dottrinale stoico, ma, per così dire, “cucito addosso” alla precaria personalità del nuovo principe, perché guardando nello specchio il decus e l’utilità d’una manus remissior potesse innamorarsene e interiorizzarne la consuetudine. Uno specchio, quello costruito per l’occasione, tutt’altro che semplice, ricco di sfaccettature, frantumi di immagini riflesse o diffratte, gli exempla: simile, insomma, a uno di quelli descritti efficacemente in Nat. Quaest. 1, 5, 5, ex multis minutisque composita, quibus si unum ostenderis hominem, populus apparet». 79 Per un inquadramento della figura di Seneca nei primi anni del regno di Nerone si rimanda a Griffin 1976, praec. p. 29-171. Inoltre, un’analisi più strettamente concentrata sulla funzione di precettore di Nerone si trova in Strocchio 1997. 80 Cfr. Alexander 1952, che opta per una lettura dell’opera storiografica che lascia in sospeso il giudizio, p. 377; Dyson 1970; Rudich 1993, passim; per un giudizio «meno severo nei confronti di Seneca», D’Anna 2003. 81 Cassio Dione, infatti, sostiene il coinvolgimento di Seneca negli episodi più sanguinosi del principato neroniano (61, 12), lo accusa di aver accettato e in certa misura fomentato le passioni indegne dell’imperatore (61, 20) e lo inserisce senza esitazione tra gli esponenti della congiura di Pisone (62, 24). In 61, 10 lo storico elenca le principali accuse mosse a Seneca dai suoi detrattori, vòlte soprattutto a sottolineare la contraddittorietà tra il pensiero e la vita (accusare le tirannidi, ma essere il maestro di un tiranno; attaccare

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ta di testi sulla cui attendibilità e sulle cui fonti anche la critica moderna si è espressa in modo differente, con giudizi difformi82. Senza addentrarsi nel merito di questa ostica e complessa questione o delle sue implicazioni che guiderebbero il discorso altrove, mi pare verosimile e pienamente condivisibile l’opinione equilibrata di Lana83 che sul ruolo di Seneca si chiede: «Come sarebbe possibile ammettere che esistesse un Seneca appartato, che si occupava solo di insegnare eloquenza all’imperiale allievo e non vedeva, o peggio, non voleva vedere quello che capitava nel palazzo in cui viveva? I precettori erano anche consiglieri politici». Se, come si è più volte ripetuto, l’arte della mistificazione costituisce la premessa indispensabile per raggiungere e preservare il potere (Ann. 6, 45, 3), è di conseguenza del tutto probabile che anche le figure più vicine al princeps, proprio in virtù del loro ruolo e in quanto in grado di esercitare un peso influente sul sovrano, vi fossero coinvolte. Nel racconto di Tacito, ad esempio, una serie di episodi della gioventù di Nerone sono ricondotti a questa prospettiva: lo storico, infatti, in più occasioni, si sofferma a evidenziare gli sforzi dei rectores imperatoriae iuuentae, Seneca e Burro, nel dissimulare la vera natura del principe, tenendo a freno gli aspetti più scandalosi del suo carattere84 e guidandolo nell’adottare esteriormente i comportamenti migliori, più adatti cioè alle singole circostanze85. La laudatio funebris di Claudio (definita ironicamente da Tacito tristitiae imitamenta86), primo atto ‘ufficiale’ del nuovo princeps, inaugura per il giovane Nerone un regno sempre in bilico tra realtà e apparenza, tra chi collabora con i signori ma partecipare alla vita del Palatium; biasimare gli adulatori, ma essere stato lui stesso, in prima persona, un adulatore nei confronti di Messalina e dei liberti di Claudio; criticare il lusso e la ricchezza altrui pur godendo di un patrimonio elevatissimo). 82 Da vedere a riguardo lo status quaestionis con bibliografia in Mastellone Iovane 1989, n. 13, p. 119. 83 Lana 1964, p. 178. 84 In Ann. 13, 1, 3 si parla dei vizi ancora nascosti (perché tenuti sotto controllo) dell’imperatore, cuius abditis adhuc uitiis. La medesima interpretazione in Suet. Nero 27, paulatim uero inualescentibus uitiis iocularia et latebras omisit nullaque dissimulandi cura ad maiora palam erupit. 85 Ann. 13, 2, 1-3: Ibaturque in caedes, nisi Afranius Burrus et Annaeus Seneca obuiam issent. Hi rectores imperatoriae iuuentae et, rarum in societate potentiae, concordes, […] iuuantes in uicem quo facilius lubricam principis aetatem si uirtutem aspernaretur, uoluptatibus concessis retinerent. In Griffin 1976, p. 78, l’A. delinea correttamente il coinvolgimento e l’intervento di Seneca: «if the amicus was expected to help the Princeps in crises, and involve himself in court intrigues, he obviously had to consider the others who would try to give advice». 86 Ann. 13, 4, 1.

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finzione e sincerità: ma per lo stesso Seneca, già autore di una compromettente Consolatio e di una dissacrante Apocolocyntosis, la laudatio testimonia − ancora negli anni felici e, almeno apparentemente, senza attriti espliciti con il regno − le difficoltà del rapporto con il potere e la piena consapevolezza delle necessità che impone nella prassi della vita di corte. Di fronte a situazioni considerate rischiose, dovute alle intemperanze di alcuni esponenti dell’aula Caesaris, si finge per salvare le apparenze e si finge per salvarsi, stando a quanto dimostrano in maniera particolarmente emblematica i racconti sull’ambasceria degli Armeni in Ann. 13, 5, sulla passione per la liberta Atte in Ann. 13, 12-13 e sull’improvvisa morte di Britannico, Ann. 13,  15-17. Nei primi due casi, Tacito coinvolge il Cordovese direttamente ed esplicitamente, attribuendo al suo intervento dissimulatore un ruolo fondamentale nello svolgersi degli avvenimenti, intervento motivato dall’arduo compito di gestire con equilibrio il rapporto tra sfera pubblica e sfera privata. Come è stato correttamente evidenziato, infatti, «Seneca e i suoi collaboratori, piegandosi anche al ricorso a simulazione e dissimulazione, curano l’immagine pubblica dell’imperatore […]. Vengono messi in rilievo i loro sforzi affinché i vizi, che poco a poco affioravano nel giovane principe, rimanessero nascosti e non macchiassero la sua immagine pubblica87». L’andare incontro alla madre, gesto suggerito da Seneca nell’episodio degli Armeni, simula pietas, per evitare l’onta del dedecus88 e per limitare lo scandalo di quelle medesime accuse di incesto cui il filosofo dovrà far fronte anche successivamente89. Per la vicenda di Atte, si parla addirittura del coinvolgimento di un esponente della famiglia degli Annei nei panni di un falso amante, espediente con cui scongiurare, al tempo stesso, sia ulteriori pretese da parte di Nerone, sia il pericolo che, una volta divulgati gli ambigua secreta dell’imperatore con una donna di rango inferiore, si dovesse affrontare anche l’incontrollabile reazione di Agrippina. In tutto il passo 87 Ancora Strocchio 2001, p. 91. Anche la Griffin 1976, p. 77, descrive il ruolo di Seneca come amicus, identificandolo nel «to advice the Princeps on his public behaviour and to intervene in his personal affairs when they touched politics». 88 Ann. 13, 5, 2: Quin et legatis Armeniorum causam gentis apud Neronem orantibus escendere suggestum imperatoris et praesidere simul parabat, nisi ceteris pauore defixis Seneca admonuisset, uenienti matri occurrere. Ita specie pietatis obuiam itum dedecori. La stessa doppiezza e uguale ostentazione d’affetto filiale, caratterizzata dal medesimo gesto del ‘farsi incontro’ alla madre, si riscontra anche in Ann. 14, 4, 2 − nel momento che precede il primo tentativo di uccisione di Agrippina, classificato tra cetera ostentandae pietati: uenientem dehinc obuius in litora […] excepit manu et complexu ducitque Baulos. 89 Ann. 14, 2, 1-2: Senecam contra muliebres inlecebras subsidium a femina petiuisse […] peruulgatum esse incestum gloriante matre.

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si riscontra, nel ricorrere di determinati vocaboli o espressioni, una forte insistenza sul lessico dell’inganno90, che conferma come la strategia della finzione coinvolga tutta l’aula e come gli arcana domus non solo non debbano essere divulgati all’esterno della corte, ma debbano anche essere taciuti con cognizione e con discrimine all’interno della corte stessa. Per un’analisi del vincolo che unisce finzione e regnum, l’uccisione di Britannico rappresenta un momento importante e molto significativo: la testimonianza di Tacito ci rivela, infatti, quel doppio punto di vista e quel legame tra vittima e carnefice su cui ho già avuto modo di insistere. L’autore si sofferma, da un lato, sul comportamento di Nerone e, dall’altro, sulla forzata reazione imposta ai presenti nonostante (o forse, al contrario, proprio per) il timore suscitato dalla morte improvvisa. La pianificazione e l’organizzazione dell’assassinio da parte del princeps si svolgono all’insegna dell’inganno e della mistificazione: preoccupato per le possibili rivendicazioni del fratellastro e dal favore che questi avrebbe potuto riscontrare nel caso in cui avesse avanzato pretese al regno, Nerone sfrutta l’occasione dei Saturnali per tentare di mettere in ridicolo il rivale, ottenendo, tuttavia, l’effetto contrario. Il canto di Britannico, incentrato sul trono paterno e sul potere perduto (Ann. 13, 15, 2: Ille constanter exorsus est carmen, quo euolutum eum sede patria rebusque summis significabatur91), suscita nel pubblico un sentimento di compassione che, con la complicità dell’atmosfera notturna di festosa dissolutezza, traspare al di là della consueta affettazione, svelando sentimenti non autorizzati dal potere proprio sotto lo sguardo attento del tiranno, sempre pronto a scrutare e osservare gli altri per riconoscere in atteggiamenti o espressioni particolari i segni di un eventuale pericolo92: unde orta miseratio manifestior, quia dissimulationem nox et la Ann. 13,  13: simulatione amoris, uelauerat, furtim/palam, contegendis, fefellit, falsae. 91 Sul contenuto del canto di Britannico Narducci 1998: lo studioso, oltre a proporre la lettura, meno diffusa tra i traduttori e i commentatori, di patria nel senso di quod ad patres, maiores pertinet, dando così la traduzione ‘sede avita’, ‘sede dei padri’, ipotizza che egli «piegasse a significati personali qualche celebre vicenda di esilio, o comunque […] di repentino crollo di un personaggio un tempo potente», recuperando lessico e motivi del teatro tragico, luogo destinato per eccellenza al canto della ‘caduta’ dall’altezza del potere e, soprattutto, dell’esilio e dei laceranti conflitti fraterni. 92 Efficace ancora Strocchio 2001, p. 88, «Un secondo ambito di applicazione della dissimulatio […] appare legato alla necessità di agire con astuto calcolo per difendere il potere […] da possibili usurpatori […]. Nell’organizzazione e nella copertura dei loro assassini la dissimulazione ha un ruolo determinante e, nel metterla in atto, Nerone si rivela un lucido tiranno, che usa crudeltà e ipocrisia come strumenti necessari per governare tutelando la propria securitas». 90

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sciuia exemerat. Nero intellecta inuidia odium intendit. […] neque iubere caedem fratris palam audebat, occulta molitur pararique uenenum iubet (Ann. 13, 15, 3). Nel racconto di Tacito, dai toni e dal sapore fortemente drammatici, Nerone prepara l’uccisione in gran segreto, escogitando l’inganno (Ann. 13, 16, 2, talis dolus repertus est) con cui uccidere il fratello93. La descrizione, ricca di particolari, sembra svolgere la scena sotto gli occhi dei lettori, quasi ce ne rendesse spettatori: nella cornice scenografica del banchetto (scenario per eccellenza dell’intrigo tirannico94, anche e soprattutto nel mito, con cui il passo sembra condividere alcune suggestioni95), ha luogo la morte inattesa di Britannico, che apre lo sguardo sulle svariate e differenti reazioni di chi vi assiste, vero fulcro del racconto. Così, da un lato si colloca la prospettiva del carnefice, con 93 Si discute sulla possibilità che non si tratti di un vero assassinio (su cui però concorda Suet. Nero, 33) e, nel caso, dell’eventuale coinvolgimento dei consiglieri Burro e Seneca (già in Henry-Walker 1963, p. 102: «it would seem impossible to us […] that they should not have prior knowledge)», in Cizek 1972, passim, praec. p. 89-91: in merito a quest’ultimo problema, lo studioso nota che, comunque, «Néron […] savait qu’il pouvait obtenir de ses ministres l’approbation post factum de celui-ci». 94 Sui banchetti ‘tirannici’ imperiali un quadro sintetico si trova in Goddard 1994, in cui per Nerone, praec. p. 67, si parla dei conuiuia come «setting for the greater crimes» sul cui sfondo vengono compiute le peggiori mostruosità. Nella letteratura latina della prima età imperiale, a parte in Seneca, su cui tornerò più dettagliatamente, il banchetto è luogo di insidiae in Lucano Phars. 10, 421-424: Aderat maturus uterque | et districta epulis ad cunctas aula patebat | insidias, poteratque cruor per regia fundi | pocula Caesareus mensaeque incumbere ceruix. Sulla fortuna del tema nota Berti 2000, nel commento ad loc. p. 290: «Quella della mensa insanguinata, con il particolare del sangue che si mescola al vino nelle coppe, è una scena topica, amata soprattutto dai declamatori e dai poeti dell’età argentea: trattata ancora con un certo ritegno da Seneca tragico, viene ripresa dagli epici successivi (Silio e Stazio ancor più di Lucano), che dilatano manieristicamente le descrizioni, mettendo in risalto i particolari più orridi, secondo il gusto tipico di quest’epoca». L’A. segnala soprattutto Sen. Contr. 9, 2; Sen. Ag. v. 885 s.; Thyest. v. 65 s., v. 913 s.; [Sen.] Herc. Oet. v. 657; Sil. 11, 51 s.; Stat. Theb. 5, 255 s.; 10, 311 s. 95 Mi riferisco in particolare alle parole che lo storico attribuisce alla voce del popolo, che così commenta quanto accaduto in Ann. 13, 17, 2, […] ut uulgus iram deum portendi crediderit aduersus facinus, cui plerique etiam hominum ignoscebant, antiquas fratrum discordias et insociabile regnum aestimantes. Il tema dell’indivisibilità del regno e delle discordie fraterne a esso legate è notoriamente un tema di lunga tradizione tragica, nonché un motivo ricorrente, per via esplicita o allusiva, nel teatro senecano (Thyest. v. 472-473; v. 534-535; Ag. v. 259, e interamente sullo sfondo di Phoenissae). Più ampiamente Narducci 1998, p. 482 s. propone un importante confronto anche con le vicende di Romolo e Remo, supportato dall’analogia lessicale presente nella Pharsalia lucanea e nella Tebaide di Stazio; l’indagine condotta sul testo liviano, 40, 8, 11-13, sembra inoltre confermare una tradizione storica su queste tematiche, rappresentata dagli exempla offerti da Filippo ai figli, che potrebbe aver influenzato il racconto di Tacito ben oltre le suggestioni delle note fabulae mitiche.

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l’apparente noncuranza del principe, che si finge all’oscuro di tutto e simula completa ignoranza, Ann. 13, 16, 3: ille ut erat reclinis et nescio similis, fornendo come spiegazione ufficiale, forzatamente condivisa dai commensali, la malattia del fratellastro; dall’altro, si assiste all’agitazione dei presenti, che si dividono tra la scelta di andarsene o di rimanere, Ann. 13,  16,  3: trepidatur a circumsedentibus, diffugiunt imprudentes: at quibus altior intellectus, resistunt defixi et Neronem intuentes. La contrapposizione tra chi è del tutto ignaro dei fatti e chi ne è a conoscenza è davvero significativa, poiché svela ancora, in un certo senso e in modo acutamente sottile, il binomio finzione-potere dal punto di vista di chi è in una posizione di inferiorità e di sudditanza, a stretto contatto con il sovrano, di cui subisce direttamente l’azione. Nell’imprudentia96 di chi fugge, infatti, non c’è solo l’ignoranza dell’omicidio, l’essere all’oscuro dell’accaduto, ma anche e soprattutto l’incapacità di cogliere le conseguenze del proprio agire, della fuga appunto, di contro a coloro che, conoscendo le regole del potere, sanno di dover manifestare tranquillità, aspettando un segno del princeps che detterà, a sua volta, le reazioni altrui97. Per questo, subito dopo aver riportato la versione dell’attacco di epilessia, con cui l’episodio viene velocemente liquidato, l’autore si sofferma a descrivere nel dettaglio le immagini di Agrippina terrorizzata, capace a stento di trattenere i propri sentimenti, e di Ottavia, giovane moglie di Nerone, già esperta, suo malgrado, dei meccanismi del regnum: at Agrippinae is pauor, ea consternatio mentis, quamuis uultu premeretur, emicuit, ut perinde ignaram fuisse atque Octauiam sororem Britannici constiterit: quippe sibi supremum auxilium ereptum et parricidii exemplum intellegebat. Octauia quoque, quamuis rudibus annis, dolorem caritatem omnis adfectus abscondere didicerat. Ita post breue silentium repetita conuiuii laetitia (Ann. 13, 16, 4).

Le due figure femminili, ben presto destinate a cadere vittime della crudelitas − reciprocamente del figlio e del marito98 − mostrano come non 96 Cfr. ThLL, VII/1, 702, 28, incautus, OLD, imprudens (1; 4. 4b) e imprudentia (1; 3). In questo senso si spiega anche l’imprudentia di Acerronia, schiava di Agrippina, che dopo l’incidente della nave si finge la madre di Nerone per essere salvata, ma, proprio a causa dell’errato scambio di identità, viene uccisa, cfr. Ann. 14, 5, 3. 97 Cfr. Bartsch 1994, p. 14 s., con un’analisi approfondita sull’importanza dell’elemento spettacolare in questo passo. 98 Cfr. Ibid. «In Tacitus’ account failure to dissemble could be really fatal. […] Other members of the imperial family are able to postpone their ends only through dissembling».

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solo chi ambisce al potere debba apprendere a fondo, perdiscere (così come si è visto per Caligola che si prepara all’ascesa al trono in Ann. 6, 45, 3), l’arte della simulazione e dell’inganno, ma anche chi vuole sopravvivere all’interno dell’aula debba imparare, discere, esattamente secondo l’exemplum di Octavia, a dissimulare i propri sentimenti, a limitare la propria gestualità ed espressività e a controllare la parola attraverso il silenzio. Inoltre, nella tragedia omonima a lungo attribuita a Seneca, ma probabilmente più tarda99, Ottavia fa ugualmente riferimento al motivo della dissimulatio affectuum: durante un dialogo con la nutrice, la moglie di Nerone mette a confronto la propria situazione e quella di Elettra, eroina del mito che ha avuto il privilegio, a lei negato, di poter piangere i propri cari. Richiamando la morte di Britannico, Ottavia lamenta l’impossibilità di esprimere i propri sentimenti per effetto del timor, che impone un rigido autocontrollo, v. 65 s., Me crudeli sorte parentes | raptos prohibet lugere timor | fratrisque necem deflere uetat. Quando anche in seguito, nel corso del dramma, la nutrix consiglia la giovane sul comportamento da tenere con il princeps, la richiama all’obsequium, unica arma utile per preservare, se non quella degli altri, almeno la propria incolumità, v. 177-179 : Nu. Vince obsequendo potius immitem uirum. | Oct. Ut fratrem ademptum scelere restituat mihi? | Nu. Incolumis ut sis ipsa. Mi sono soffermata con più attenzione sulle pagine degli Annales relative alla vicenda di Britannico, perché ritengo che in esse si colga al meglio e in profondità il ‘gioco delle parti’, imposto dal potere, tra il tiranno e le sue vittime. Tacito rende perfettamente la polarità delle due posizioni contrapposte: colloca da un lato Nerone, ideatore del dolus e manovratore della storia, impegnato prima a fingere di non sapere mentendo sulle cause della morte, poi a osservare e scrutare chi lo circonda, e dall’altro il pubblico presente all’avvelenamento, che passa immediatamente dal ruolo di spettatore a quello di attore e la cui sopravvivenza dipende da quanto e da come saprà recitare bene la propria parte, di fronte all’occhio vigile, impietoso e severo del tiranno. Anche il resoconto tacitiano dell’uccisione di Agrippina ruota attorno all’ideazione, alla macchinazione e alla realizzazione di un inganno, necessario per il compimento del matricidio: è stato del resto già rilevato che in quei capitoli «the dominant theme of the narrative is the atmosphere of deception, trickery and hypocrisy», tema che nel corso delle vicen-

La questione cronologica è ampiamente discussa nel commento di Ferri 2003, p. 5-30. 99

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de «has reached its crescendo in quality and quantity100», coinvolgendo dapprima solo la corte, cioè la famiglia imperiale e il suo entourage, e, in un secondo momento, anche altre differenti componenti sociali: la guardia pretoriana, i villaggi della Campania, il senato e, infine, il popolo di Roma. Nei capitoli dedicati al matricidio, infatti, il testo è caratterizzato da una forte impronta teatrale: vi si riscontra una densissima terminologia della finzione (non a caso si parla di scaena criminis, Ann. 14, 7, 6) applicata ai numerosi personaggi implicati nella vicenda e, in particolare, ai due protagonisti, Nerone, ancora una volta mente artefice del tutto, e Agrippina, la vittima prescelta. Con la simulazione della pietas, manifestata attraverso la parola, nelle fallaces litterae con cui la attira a Baia101, e nella gestualità, il premuroso andarle incontro, i baci e gli abbracci (Ann. 14, 4, 2, uenientem dehinc obuius in litora excepit manu et complexu ducitque Baulos) e, in generale, ogni manifestazione di affetto, il princeps mira a infondere tranquillità nella madre, per poter realizzare indisturbato il proprio intento (Ann. 14, 4, 4, blandimentum subleuauit metum). D’altro canto, la stessa Agrippina, pienamente consapevole del pericolo e dei rischi per la propria vita, non evita di ricorrere all’affettazione, nel tentativo di salvarsi (tacendo per non farsi riconoscere, Ann. 14, 5, 3, Agrippina silens eoque minus agnita, o fingendo di accettare l’ufficiale versione dell’incidente comunicata al figlio, Ann. 14, 6, 1-3, solum insidiarum remedium esse, si non intellegerentur  […] securitate simulata), continuando quindi a recitare fino a pochi istanti prima di morire. Nell’ipocrita reazione collettiva, dell’esercito in Campania, del senato e del popolo a Roma, che, secondo Tacito, sarebbe stato anche il motivo scatenante delle libidines di Nerone, lo storico inserisce anche i consiglieri Burro e Seneca, cui il princeps si sarebbe rivolto dopo il primo tentativo fallito di matricidio: Amici dehinc adire templa, et coepto exemplo proxima Campaniae municipia uictimis et legationibus laetitiam testari: ipse diuersa simulatione maestus et quasi incolumitati suae infensus ac morti parentis inlacrimans (Ann. 14, 10, 2). Una lettura interessante del passo è stata proposta da Mastellone Iovane, che nota: «La maschera di maestitia che il despota assume in pubblico in opposizione agli amici, molto verosimilmente Seneca e Burro, conferma non solo la motivazione politica dell’angoscia neroniana subito dopo la realizzazione del matricidio, ma aggiunge un’ulteriore connotazione al profilo ormai tirannico dell’im100 Scott 1974, p. 106. L’analisi proposta in questo articolo è abbastanza efficace nel presentare gli elementi di finzione e mistificazione nell’intera vicenda. 101 Ugualmente Suet. Nero 34, dove si parla di reconciliatione simulata e iucundissimae litterae.

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peratore. Seneca e Burro, nell’intento di evitare le catastrofiche conseguenze della denuncia della colpevolezza di Nerone, sostengono la versione del suicidio di Agrippina, come conseguenza della scoperta di un suo attentato contro il figlio. Sul loro esempio sollecitano manifestazioni di giubilo in favore di Nerone per lo scampato pericolo (14, 10, 2) […] La dicotomia della simulatio di Nerone e dei suoi amici in relazione alla tristezza è definita da Tacito attraverso l’aggettivo diuersa. Seneca e Burro mostrano esteriormente compiacimento per la morte di Agrippina e la salvezza del figlio, ma sono in realtà nel loro intimo maesti: al contrario, Nerone, in apparenza maestus e addolorato per la fine della madre, ne gioisce segretamente102». A dire il vero, il coinvolgimento di Seneca in questi fatti di sangue, soprattutto nel matricidio, non è un dato generalmente sostenuto neppure dagli storiografi antichi, nelle cui opere si leggono voci dissonanti: diversamente da Cassio Dione (61,  12,  1), in cui l’accusa al filosofo è esplicita e senza appello, l’autore degli Annales sembra adottare un atteggiamento più prudente, esprimendo una relativa incertezza sul ruolo degli amici principis, sia nella prima fase della vicenda (Ann. 14, 7, 3, incertum an et ante gnaros103), sia successivamente, nel riportare cioè il rumor popolare sull’attribuzione a Seneca della lettera inviata da Nerone al senato per giustificare l’accaduto, in Ann. 14, 11, 3, Seneca aduerso rumore erat, quod oratione tali confessionem scripsisset. Non è possibile, probabilmente, ricostruire con precisione la connivenza di Burro e Seneca nell’uccisione di Britannico o la loro influenza nella decisione del matricidio o, ancora, il ruolo rivestito nel compimento dello stesso104, Mastellone Iovane 1989, p. 46. Non mi pare assolutamente condivisibile la lettura di Henry-Walker 1963, p. 103, per i quali l’inserimento della richiesta di aiuto a Seneca e Burro da parte di Nerone andrebbe interpretata come «a small and unintentional comic detail». Lascia in sospeso il giudizio di Tacito su Seneca in favore di un non liquet Alexander 1952, mentre D’anna 2003, p. 193 giunge alla conclusione: «che Tacito è meno severo nei confronti di Seneca di quanto non affermino alcuni studiosi», rilevando nello storico (p. 196) «un orientamento che appare non ostile, se non addirittura benevolo, nei confronti di Seneca», dovuto anche a una parziale analogia tra Seneca e Tacito. Entrambi, infatti, (p. 197) «furono vittime degli ultimi imperatori delle dinastie giulio-claudia e flaviana». 104 Cizek 1972, p.  118 s., discute sull’influenza di Burro e Seneca nella decisione del matricidio, optando − sulla base del carattere un po’ ambiguo del testo tacitiano a riguardo − per un giudizio non definitivo («on ne peut pas établir avec certitude»); manifesta tuttavia la convinzione che, almeno a un certo punto, i due amici dovessero approvare l’uccisione di Agrippina: «Au fur et à mesure que les événements se précipitent, les deux ministres – et notamment Sénèque – approuvent le matricide, parce que l’échec du crime aurait déterminé non seulement la déchéance de Néron, mais aussi l’effrondement 102 103

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ma resta difficile pensare che, almeno sullo sfondo di tutte queste vicende o nei momenti immediatamente seguenti, essi non fossero in qualche misura coinvolti, quali esponenti di quell’entourage di corte così vicino a Nerone. Se a tali episodi si aggiungono i due discorsi riportati da Tacito, con i quali, secondo l’autore, Seneca avrebbe espresso al princeps la volontà del secessus, mi pare si possa affermare che, complessivamente, lo storico lascia emergere un’immagine pubblica del filosofo come «statesman and administrator105», capace di pragmatismo nelle situazioni e nelle decisioni che lo esigono106, pienamente consapevole dei meccanismi che regolano i rapporti all’interno dell’aula e capace di gestire i compromessi imposti dal potere107. In questo senso, si può interpretare la meditata oratio di Ann. 14, 53-54, con cui il filosofo avanza prudentemente la richiesta del ritiro108: richiesta che, come noto, ottiene il rifiuto de leur pouvoir et de leur doctrine de gouvernement. En fin de compte, ils appuient vigoureusement Néron post factum et ils renforcent leur position à la cour et dans l’entourage immédiat de l’empereur. Celui-ci les utilisa comme un suprême subsidium, ce qui prouve qu’ils étaient indispensable». 105 Henry-Walker 1963, p. 109. 106 Così anche in Syme 1958, p. 552, in merito alla politica di Seneca: «Seneca’s policy was the best available. It derived from recognition of a fact, the monarchy. […] With that admitted, the governement proceeded to operate through diplomacy, persuasion and pretense». 107 Su questo aspetto sono condivisibili, a mio avviso, la lucida analisi e la posizione di Griffin 1976, p. 77: «The role of Seneca and Burrus in managing and glossing over court intrigue is well documented: they devised means of counteracting Agrippina’s ambitions, while her son kept up the expected display of piety. […] Seneca, with great presence of mind, averted the disgrace of Agrippina’s mounting Nero’s tribunal at the reception of the Armenian envoys. Seneca deputed his young friend Annaeus Serenus to throw Agrippina off the scent of Nero’s intrigue with his freedwoman, Acte. When Britannicus was murdered, Seneca and Burrus had to be inter dissimulantes (la sottolineatura è di chi scrive), but they duly spoke truth, if only through Acte, when Nero began his incestuous relations with his mother (14.2). They were call in to deal with the murder of Agrippina, after the first attempt has failed. Burrus pointed out that the obvious henchmen – the praetorians – could not be used, and the job was left to a freedman. Burrus limited himself to reconciling the praetorians to the murder; Seneca at most to writing Nero’s letter to the senate». Più recentemente Ferri 2003, p. 71, ha insistito sul ritratto poco edificante di Seneca in Tacito, sostenendo che, dagli Annales: «Seneca emerges as a consummate courtier, a master in crafts of dissimulation and hypocrisy that best serve one under a tyranny». Sulla dissimulazione e sull’ambiguità del Seneca tacitiano, nel ruolo di consigliere di Nerone durante i primi anni del regno, Ferri sembra non avere dubbi: «In Tacitus Seneca is an old politico, a dissimulator superior to the man he has to serve, a cunning minister to whom an irresolute Nero has recourse in some highly dramatic and momentous circumstances of his early reign». 108 Un’analisi degli elementi propriamente senecani nel discorso in Grimal 1967 e Griffin 1976, passim. Decisamente diversa, forse un po’ riduttiva, la posizione di Henry-Walker 1963, p. 105, che parla di «ciceronian speeches abounding in trope and

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di Nerone il quale, al di là dei pretesti e delle motivazioni di facciata, coglie nel metus dell’interlocutore il motivo reale, scatenante il desiderio di allontanarsi dalla corte. Nell’ulteriore descrizione del comportamento ipocrita del princeps, così simile a quello adottato prima del matricidio, e dell’oculata reazione di Seneca ritroviamo, ancora, quell’artificiosità nel comportamento e quel controllo del linguaggio su cui si è tanto insistito nelle pagine precedenti, come tratto intrinseco e imprescindibile della politica romana in questa fase storica, Ann. 14, 56, 3: his adicit complexum et oscula, factus natura et consuetudine exercitus uelare odium fallacibus blanditiis. Seneca, qui finis omnium cum dominante sermonum, grates agit: sed instituta prioris potentiae commutat, prohibet coetus salutantium, uitat comitantis, rarus per Urbem, quasi ualetudine infensa aut sapientiae studiis domi attineretur. Oramai, di fatto, pienamente identificato con un tiranno109, il principe-sovrano, che governa secondo modalità percepite come sempre più individuali e autoritarie, simula un’affettuosa gestualità, acquisita in parte per natura (si è già parlato delle velleità artistiche di Nerone e dell’inclinazione alla recitazione), in parte appresa attraverso l’esperienza del potere − consuetudine exercitus − quale strumento indispensabile, tra l’altro, anche alla tutela di se stesso da possibili minacce e alla conservazione della propria posizione a fronte di eventuali usurpazioni. Dal punto di vista opposto, nel metus suscitato dalla sempre minacciosa crudeltà del tiranno, chi è subordinato a tale potere è vincolato all’adozione di un atteggiamento e di un linguaggio di circostanza, all’espressione di uerba apta che, ben oltre la specificità di questo singolo caso, non possono che essere parole di ringraziamento. In realtà, il dialogo con Nerone è solo apparentemente tale, perché si tratta di un discorso a senso unico, che non può non procedere sulla linea di quanto viene più o meno esplicitamente sollecitato o imposto da un principe tirannico. La riflessione, di validità universale, sul grates agere come sola risposta possibile nei confronti del dominus, condensa due aspetti importanti: la costrizione ad ammettere la propria posizione di inferiorità e la necessicliché […] If Tacitus intended this to be one of the two key scenes devoted to Seneca it is an unusually complete artistic and historical failure». Brevi considerazioni sulle sfumature patetiche si trovano in Bastomsky 1972. Più di recente si veda il contributo di Caviglia 2010, teso a sottolineare la natura squilibrata del dialogo tra il princeps e il filosofo. 109 Il punto sulla trattazione retorica della figura del tiranno nella storiografia romana in Dunkle 1971. Sul passo, Mastellone Iovane 1989, p. 122, rileva nell’«antitesi parallela moderatio/avaritia e quies/crudelitas metus» la sintesi del «profilo morale dei due interlocutori: il filosofo stoico e il tiranno». L’A. dedica una parte del suo studio alla «paura di Seneca», p. 114-129.

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tà di adottare un comportamento esteriore che nasconda sentimenti e pensieri individuali, in armonia con le scelte del potere. Non è ammessa, perciò, la possibilità di dissociarsi apertamente, di contrapporsi esplicitamente al princeps o di contraddirne la volontà: l’unica via d’uscita è nella contraffazione delle proprie intenzioni attraverso la dissimulazione, con cui, del resto, si spiegano i pretesti della malattia adottati da Seneca dopo il primo rifiuto del secessus, uelut ualetudine infensa e, ugualmente, dopo la seconda richiesta non accolta da Nerone, ficta ualetudine quasi aeger neruis in Ann. 15, 45, 3. Naturalmente, molto altro si potrebbe ancora dire sul rapporto tra finzione e potere in questo periodo di dinastia giulio-claudia, che inaugura a Roma una nuova, diversa gestione della res publica: lo studio dell’analisi storiografica di Tacito, soprattutto, offre molti elementi interessanti, come dimostrano le letture che anche recentemente ne sono state proposte e che hanno fornito diversi spunti per questo breve quadro. Tuttavia, ho ritenuto di dovermi soffermare in particolare sugli aspetti più pertinenti, funzionali cioè a contestualizzare e inquadrare nel suo tempo sia il pensiero senecano, sia la rivisitazione di tale motivo secondo le modalità drammatiche e il linguaggio del codice teatrale. In questo senso, la trasposizione del problema all’interno del corpus tragico non è del tutto slegata dalla successiva trattazione storica: infatti, concordemente a quanto è stato con ragione osservato, «in un’epoca in cui l’assolutismo è diventato reale istituzione di potere, la libertà stessa si è ridotta a mera categoria psicologica, è un dato interno alle coscienze dei singoli. Da questo punto di vista la tragedia senecana prepara ed è complementare all’analisi tacitiana: l’attento esame delle motivazioni delle condotte, che Tacito attua sia in riferimento agli imperatori sia ai loro antagonisti, cogliendoli nel rapporto reciproco e frontale, spesso visivo, trova in questa dinamica il suo senso e la sua spiegazione ‘politica’110». Diversi spunti, credo, avvicinano testi differenti per genere, per tematiche, per cronologia, ma che sembrano condividere un clima culturale e politico, contraddistinto da una riflessione nuova sul rapporto con il potere, che assume caratteristiche dissimili rispetto al passato a fronte di una diversa struttura dell’organizzazione sociale, del mutamento delle coordinate socio-politiche e della nuova autorità imperiale incarnata nella figura del princeps che si rivela spesso, almeno nella percezione di una parte, un regnante prevaricatore e dispotico. L’attenzione riservata a queste tematiche e la presenza così insistita nei Valenti Pagnini 1987, p. 118.

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testi di questi anni, o che di questi anni si propongono di ricostruire la storia, testimonia, a mio avviso, una particolare sensibilità per la questione, la cui trattazione indubbiamente assorbe le istanze di una lunga tradizione letteraria e, soprattutto, della trattatistica retorica antitirannica, ma, al tempo stesso accoglie i fermenti che provengono da una realtà che nella concretezza dell’esperienza quotidiana mostra i rischi, le necessità e i vincoli imposti da una nuova forma politica, sempre più simile a quel regime monarchico da sempre esorcizzato e quasi ossessivamente stigmatizzato a Roma.

2. Il rapporto tra finzione e potere nel teatro senecano tra letteratura e realtà romana Malheureuse condition des gens de bien qui vivent à côté d’un prince vicieux! Combien de fois ils sont obligés de faire violence à leur caractère! Cependant il y a cette différence entre le courtisan et le philosophe: que l’un épie l’occasion de flatter et que l’autre la fuit; que l’un souffre de sa dissimulation, en rougit, se la reproche; et que l’autre s’en applaudit D. Diderot, Essai sur les règnes de Claude et de Néron, I, 83 Completata la breve ricostruzione del quadro ideologico, in cui si inserisce la produzione letteraria di Seneca e in cui si colloca il referente storico del rapporto tra finzione e potere, è tempo di passare ad approfondire la presenza e le molteplici declinazioni di questa tematica nel corpus tragico. L’analisi che si intende proporre mira a mettere in evidenza il motivo finzione/potere in una duplice prospettiva: da un lato, nella sua peculiarità di elemento teatrale viene introdotto e presentato conformemente alle esigenze legate allo sviluppo dell’azione drammatica, assume cioè una precisa funzione in relazione a un determinato momento scenico o a un determinato dialogo all’interno della tragedia, mentre dall’altro, nella sua veste ‘attuale’, ovvero di fattore esterno alla dimensione teatrale tout court, talvolta riflette, in termini più ampi, sentimenti e preoccupazioni fortemente inseriti tanto nello scenario socio-politico della prima età imperiale, quanto nel contesto dell’impianto etico e dell’intento edificante delle opere in prosa del Cordovese. È ben noto, ad esempio, quanto Seneca insista, in tutte le fasi del suo pensiero e nel corso delle oscillanti posizioni nei confronti del principato giulio-claudio, sulla

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dimensione fittizia che regola la vita pubblica e le esistenze individuali dei contemporanei, sempre volte a ricercare e ottenere visibilità o dedite al conseguimento di beni materiali, instabili, fallaci111. Tutte forme di finzione che il filosofo condanna perché contrarie alla ‘costruzione dell’io’ secondo quel progressivo cammino di avvicinamento alla sapientia delineato nei Dialogi e nelle Epistulae, ma che − per quanto concerne il rapporto con il potere − sembrano oramai sempre più radicate nella morfologia stessa del principato, velando di una certa ambiguità l’esperienza diretta fattane da Seneca e il suo atteggiamento a corte, entrambi aspetti che la letteratura successiva non mancherà di ricordare e, alternativamente, di biasimare o giustificare. La durezza espressa nel rifiutare falsità e ipocrisie della realtà a lui contemporanea, dominata da una esasperata teatralità negli atteggiamenti e nelle attività quotidiane, infatti, cede talvolta di fronte all’incisività del mondo esterno, caratterizzato dalla sempre maggiore invadenza di un potere che va via via restringendo e riducendo lo spazio d’azione dei cittadini nella sfera pubblica nei limiti imposti dalla volontà di un unico individuo, vincolando così a un artificioso codice di comportamento. In questo senso è particolarmente indicativo quanto si legge nell’Ad Polybium, 5-6, sul ricorso alla dissimulatio nella pratica di un’estetica del lutto alla corte di Cesare112: la presa di consapevolezza da parte del filosofo si coglie bene nell’ammonizione rivolta al liberto di Claudio, scandita dall’anafora del non licet, che vincola a un determinato modello di condotta: (6, 3, si uolebas tibi omnia licere, ne conuertisses in te ora omnium) 6, 4-5, Multa tibi non licent, quae humillimis quoque et in angulo iacentibus licent: magna seruitus est magna fortuna. Non licet tibi quicquam arbitrio tuo facere […] Non licet tibi, inquam, flere. E ancora, all’interno del passo, le marche della finzione, spesso nella forma della dissimulatio affectuum, sono davvero numerose: simulent; abscondant; dissimilem animo tuo uultum; introrsus abde et contine; ne appareat; magnam tibi personam hominum consensus imposuit; obseruantur oculi tui; liberiora sunt omnia iis quorum affectus tegi possunt. Come si accennava, parlare del rapporto tra finzione e potere nel teatro senecano significa toccare una problematica molto viva nell’universo tragico descritto dal poeta e molto salda nelle dinamiche che regolano le relazioni tra i personaggi, tutti più o meno attivamente coinvolti, a Cfr. Solimano 1991, passim. Si veda sul punto il bel contributo di Degl’Innocenti Pierini 2012: considerazioni utili a riguardo si trovano anche nello studio di Bartsch 1994, passim. 111 112

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gradi diversi, in tale rapporto. Ciò darà modo di aprire diverse finestre sul tema e di esaminare le svariate tonalità con cui viene dipinto, diverse anche a seconda del punto di vista e della prospettiva di volta in volta sottolineata dai protagonisti e dall’autore. Sono soprattutto alcuni nuclei tematici, peraltro strettamente legati tra di loro, che attirano l’attenzione per la frequenza con cui si riscontrano nell’architettura del regnum tragico, dove ripropongono, sotto la lente deformante dell’eidos drammatico, una presenza altrettanto ossessiva nell’opera in prosa di Seneca: la pericolosità del buon consiglio rivolto al potente, la precarietà della vita nell’aula, la laus falsa e l’adulatio, il prezzo della simulatio per se stessi e per i propri affetti, l’incompatibilità tra securitas e potere, il controllo della parola, l’ambiguità del silenzio. Analizzare e comprendere i risvolti di questi temi equivale perciò, in un certo senso, a circoscrivere uno degli aspetti più sentiti nel tormentato e difficile rapporto tra il filosofo e il potere, specimen, se vogliamo, delle nuove opprimenti inquietudini che turbano l’individuo nel clima politico del principato. Una posizione particolare occupa invece l’insolita combinazione di fides e fraus che, nella sua esclusività e negatività drammatica, non trova riscontro in tutta la restante opera del filosofo, confermando l’originale e infera rappresentazione del potere quale cifra distintiva dei drammi senecani. Quanti constant regum amicis bona consilia: la pericolosità del consiglio sincero Uno degli aspetti più rilevanti, con notevoli corrispondenze nelle vicende biografiche di Seneca e nella scrittura del prosatore, riguarda il motivo del buon consiglio rivolto al potente, significativa illustrazione della condizione instabile e rischiosa di chi manifesta una libertà di parola che esterna un pensiero sgradito alle orecchie regali, per quanto sincero o proprio perché sincero. Nella cristallizzazione della cornice mitica e dei personaggi tragici, emblematicamente rappresentata dalla radicale contrapposizione tiranno-vittima, si insinua così una suggestione attuale, che è forse eccessivo definire addirittura autobiografica stricto sensu, ma è comunque ben documentata dalle pagine dei trattati e dei Dialogi che più riflettono l’esperienza personale dell’autore e il colore ambiguo del principato. Il momento tragico che meglio sintetizza tutti gli elementi coinvolti con tale problematica si trova in un passo della Phaedra: un luogo tra i tanti, all’interno del dramma, che chiarisce come al centro della tragedia non siano collocati semplicemente l’infelice passione amorosa e i suoi esiti infausti, quanto la negatività del

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regno, la corruzione del potere e la sua forza devastatrice113. Siamo alle prime battute del dialogo tra la protagonista e la nutrice: dopo il lungo monologo di Fedra e l’anagnorisis del fatale malum d’amore per il figliastro che ha iniziato a tormentarla, la nutrix interviene nel tentativo di riportarla dalla posizione di Minois, che Fedra stessa aveva rivendicato per sé come giustificazione del nefas (v. 127), a quella di Thesea coniunx, sposa di Teseo, sovrana di Atene, discendente di Giove, facendo cioè leva, appunto, sulla dignità regale dell’interlocutrice. Nel tentativo vano di guidare la domina all’abbandono di un amore rovinoso − tra l’esortazione a spegnere la dira spes, destinata a mutare in invincibile giogo (v. 130-135) e la definizione del pudor (v. 140 s.) − si colloca una breve ma significativa battuta, che ha una duplice funzione nel contesto del passo: da un lato, di riconferma della condizione regale di Fedra, con l’enfasi delicata del concetto già espresso nei versi precedenti per distoglierla da propositi incestuosi con una sorta di captatio benevolentiae atta a inaugurare una difficile suasoria114, dall’altro di ‘autotutela’ della nutrice rispetto a quanto è intenzionata a dire, scoprendo esplicitamente il terreno scivoloso in cui è costretto a muoversi chi è chiamato a consigliare un sovrano affetto da un furor che, ancorché consapevolmente riconosciuto (v. 177 s., quae memoras scio | uera esse), costringe tuttavia a seguire il male (furor cogit sequi | peiora). Afferma, dunque, la nutrix, v. 136-139: Nec me fugit, quam durus et ueri insolens | ad recta flecti regius nolit tumor. | Quemcumque dederit exitum casus feram: | fortem facit uicina libertas senem. In quella che si potrebbe definire una rapida premessa al successivo discorso, la nutrice rivendica la diretta conoscenza delle regole e dei meccanismi su cui si basa l’autorità regale, al tempo stesso qualificando

Cfr. per questa interpretazione lo studio esaustivo di Petrone 1984. Sul rapporto tra le parole del personaggio e lo stoicismo, cfr. almeno Croisille 1964a, praec. p.  286-289 («la nourrice devient une espèce de directeur de conscience»), e Armisen-Marchetti 1992, attenta alle implicazioni filosofico-didascaliche del discorso in cui la nutrice, p. 383, «endosse le rôle du philosophe face à son disciple, celui de Sénèque lui-même envers Lucilius», insistendo comunque sui molteplici livelli di lettura cui la scena e l’intera tragedia si prestano, non esclusivi ma tutti legittimi e compatibili. Il discorso della nutrix è definito retoricamente una «dissuasio basata sull’honestum» da Tealdo 1992, che propone una suddivisione del tipo: propositio (v. 132-135; v. 140141), argumentatio (v.  142-164), costruita sulla continua oscillazione tra adprobatio e refutatio, e infine la suasoria, conclusa dalla peroratio finale (v. 165-177), tendente alla mozione degli affetti, con appendice al v. 245 fondata su una refutatio degli argomenti addotti da Fedra. 113 114

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la propria intenzione di parlare come un atto ‘coraggioso’115, che non teme il peso delle conseguenze cui facilmente andrà incontro sfidando il regalis tumor. L’esperienza porta infatti alla disillusa presa di consapevolezza, che è anche lucida analisi della propria fragile condizione, dell’incompatibilità tra regnum e veritas, nell’affermazione dei rischi a cui si espone chi ardisce affrontare con sincerità il potere con una forza che è solo verbale. Nel nec me fugit non è dunque unicamente la voce della nutrix a parlare: il me adombra, nel tono sentenzioso che caratterizza questi versi, la voce di quanti, consiglieri, amici, confidenti o semplici esponenti dell’apparato di corte, hanno sperimentato o sperimentano gli affanni di una vita trascorsa all’interno dell’aula, dove le orecchie dei re «sono ermeticamente chiuse ai discorsi onesti116». In tali circostanze, nel rivendicare la propria audace licentia verbale − già occasione eccezionale per chi si rivolga a un dominus, come testimonia il canto corale di Med. v. 109, rara est in dominos iusta licentia − è dunque garanzia di maggiore sicurezza la convinzione di aver raggiunto il traguardo più arduo nei confini scivolosi del regno, quello cioè della rarissima senectus, e di veder avvicinarsi ormai l’ancor più vero e più ambito traguardo della libertas nella morte117. Dal passo emerge con chiarezza anche la constatazione della natura arrogante e coercitiva del potere, non avvezzo ai buoni consigli e alla guida di un’utile e vantag È questa la reale e fiera rivendicazione della nutrix che si contrappone, in un certo senso, alle parole pronunciate dalla medesima immediatamente prima di incontrare Ippolito, con le quali il personaggio si sprona ad avere ben altro coraggio, ad audere, nel farsi complice attiva dello scelus di Phaedra v. 427-430: Trepidamus? Haud est facile mandatum scelus | audere, uerum iussa qui regis timet | deponat omne et pellat ex animo decus: | malus est minister regii imperii pudor. Si può notare una variatio della classica esortazione all’animo che costituisce il modulo tipico dell’Anrede in Seneca tragico. Qui non si tratta, infatti, di un personaggio principale che cerca nel proprio animus il coraggio per agire, guardando al passato o rievocando i torti subiti, ma di un anonimo personaggio secondario che trova la forza di affrontare lo scelus, evocando il rapporto di sottomissione nei confronti della domina e richiamandosi all’incompatibilità tra pudor e regnum. Per quest’ultimo aspetto anche nell’Agamennone, Garbarino 1982, p. 316 s. 116 Cfr. Dio. Or. 32, 25/28. La traduzione è di Desideri 1978, p. 284; il passo si inserisce nell’ambito di un parallelismo tra popolo e principe, atto ad affermare «che il buon popolo sta al buon principe, cioè al re, come il cattivo popolo sta al cattivo principe, cioè al tiranno». Nel quarto discorso sulla regalità, tra Alessandro e Diogene, l’espressione sincera e la verità della parola ricorrono come caratteristiche che distinguono il filosofo cinico dai suoi contemporanei, (10). L’aletheia e la parrhesia sono infatti classificate come hediston, (15), in contrapposizione all’adulazione, kolakeia, e alla menzogna, pseudos: le une, adatte a chi cerchi la verità, le altre alle orecchie che si lasciano solleticare dal piacere. 117 Per una prospettiva ampia sul tema della libertas a Roma, da vedere almeno lo studio di Wirszubski 1957. 115

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giosa franchezza, pronto a punire non solo chi si schieri apertamente e manifestamente contro il potens, come ammonisce la nutrice rivolgendosi a Medea, intenzionata a trascinare tutti nella propria ruina, Med. v. 429-430, quam multa sint timenda, si perstas, uide: | nemo potentes aggredi tutus potest, ma anche chi eserciti semplicemente una mal tollerata libertà di parola118. Per gli aspetti descritti, un valido confronto possono offrire due noti brani nel terzo libro del De ira, che credo debbano essere considerati congiuntamente, sia per le notevoli affinità suggerite dalla presentazione stessa dell’autore, sia per la condivisione del messaggio trasmesso119. Si tratta di pagine in cui Seneca riferisce e riadatta episodi erodotei, che si perdono nell’orizzonte lontano, quasi mitico, dei tempi e del mondo di Cambise (3, 14) e di Ciro (3, 15), in cui, tuttavia, la sentenziosità sottesa agli episodi e il tono precettistico delle valutazioni proposte dall’autore indicano chiaramente che l’insegnamento offerto da queste ‘esotiche’ vicende si estende a uno spettro molto più ampio, che oltrepassa confini geografici e supera restrittive periodizzazioni temporali120. Allusioni agli ostacoli da aggirare nel parlare all’animus regale si riscontrano anche nelle parole di Medea, ancorché la sua captatio benevolentiae sia dovuta a diverse motivazioni e rivolta all’antagonista Creonte con ben altri intenti. Mossa dal fine di ingannare il re di Corinto per realizzare i propositi di vendetta, la maga tenta di dare una immagine di sé diversa rispetto all’opinione dell’interlocutore (expulsa supplex sola deserta v. 208), pretendendo di dover fronteggiare per questo la durezza e l’inflessibilità dell’ira regale, v. 203-206, difficile quam sit animum ab ira flectere | iam concitatum quamque regale hoc putet | sceptris superbas quisquis admouit manus | qua coepit ire, regia didici mea. I richiami al passato e alla consapevolezza che viene dall’esperienza (didici), tratto comune alle battute pronunciate dalla nutrice, mascherano in realtà un piano fraudolento, qualificandosi da subito come parole solo all’apparenza sincere, puro omaggio alla retorica imposta dalla richiesta cui è finalizzato il discorso in vista della finzione, nella frustratio di cui si renderà poco dopo autrice, come si è visto nel capitolo precedente. 119 Sono infatti accostati dallo stesso Seneca attraverso l’et/et, che nell’esortazione al suicidio unisce le due situazioni, De ira 3, 15, 4, Dicam et illi qui in regem incidit sagittis pectora amicorum petentem et illi cuius dominus liberorum uisceribus patres saturat […]. I successivi riferimenti a Dario e a Pizio, comunque derivanti dallo storico greco, non vengono qui presi in considerazione perché costituiscono, a mio avviso, qualcosa di diverso: in questi due esempi, la chiave di lettura di Seneca non è più quella della rappresentazione di come si possa e si debba controllare un sentimento quando subentra un timore maggiore, che ha naturalmente come punto di riferimento coloro sui quali si riversa la crudeltà regale, ma, al contrario, la stessa ira regale, spostando pertanto il punto focale della narrazione (16, 2-3, Sed cum utilis sit seruientibus adfectuum suorum et huius praecipue rabidi atque effreni continentia, utilior est regibus […] Atqui plerique sic iram quasi insigne regium exercuerunt, sicut Dareus […]). 120 Cfr. Fillion-Lahille 1989, p. 1617-1618. Parla di «allusions transparentes à Caligula» evidenziando il rapporto tra Suet. Claud. 38, 5, in riferimento alla simulazione 118

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Nel primo racconto ci viene presentata la vicenda di Pressaspe, qualificato come unus ex carissimis, ovvero una delle persone più vicine e intime del rex Cambise121: avendo osato non tanto biasimare quanto semplicemente esortare il sovrano alla continentia nel bere, paga a caro prezzo un’azione apparentemente innocua, costretto ad assistere all’atroce morte del figlio per mano dello stesso Cambise. Lo sguardo di Seneca si posa non tanto sulla caratterizzazione del cruento sovrano, a cui pure il filosofo fa riferimento (3, 14, 4), mostrando come possa essere perniciosa l’ira di un rex nelle cui mani si concentra un potere smisurato e che smisuratamente può manifestarsi122, quanto sulla reazione paterna, che costituisce il vero fulcro della narrazione e, soprattutto, è il nucleo attorno a cui si sviluppano le valutazioni morali dell’autore123. Il controllo del sentimento, cioè, stando alla specificità del contesto, dell’ira suscitata dal comportamento regale, passa qui attraverso il rigido controllo della parola: non male dixit regi, nullum emisit ne calamitosi quidem uerbum, cum aeque cor suum quam filii transfixum uideret. Potest dici merito deuorasse uerba: nam si quid tamquam iratus dixisset, nihil tamquam pater facere potuisset (3,  14,  5). Seneca critica fermadi Claudio che finge stupidità per non esporsi (ac ne stultitiam quidem suam reticuit simulatamque a se ex industria sub Gaio, quod aliter euasurus peruenturusque ad susceptam stationem non fuerit, quibusdam oratiunculis testatus est), e la difesa della dissimulazione in Sen. De ira 2, 33, 1, interpretata unitamente a De ira 3, 41, 2, (at uulgus animosa miratur et audaces in honore sunt, placidi pro inertibus habentur) come una giustificazione della condotta di Claudio sotto il tiranno Caligola, facendo così del Cordovese un «flatteur discret». La datazione del testo viene fissata intorno al 41 d. C., non solo per l’impostazione politica del trattato e per la già avvenuta morte di Caligola, ma anche per un editto di Claudio con il quale il principe, forse ispirandosi all’esempio di Augusto, promette che la sua collera e la sua irascibilità non sarebbero state durevoli e ingiuste, Suet. Claud. 38, 1: irae atque iracundiae conscius sibi, utramque excusauit edicto distinxitque, pollicitus alteram quidem breuem et innoxiam, alteram non iniustam fore. 121 Sulla connotazione dell’appellativo rex nel De ira, Borgo 1998, p. 126 s. 122 Secondo quanto affermato in 3, 13, 6-7: Optimum est notis uitiis impedimenta prospicere et ante omnia ita componere animum ut etiam grauissimis rebus subitisque concussus iram aut non sentiat aut magnitudine inopinatae iniuriae exortam in altum retrahat nec dolorem suum profiteatur. Id fieri posse apparebit, si pauca ex turba ingenti exempla protulero, ex quibus utrumque discere licet, quantum mali habeat ira ubi hominum praepotentium potestate tota utitur, quantum sibi imperare possit ubi metu maiore compressa est. Il valore dell’exemplum in Seneca è trattato da Codoñer 2005, in cui per il De ira, p. 152-153, viene definito «como última fase de proceso argumental», mentre specificatamente dedicato alla galleria di esempi tratti dalla storia romana nella prosa di Seneca è il contributo di Mayer 1991. 123 Concordo con l’analisi proposta da Ramondetti 1996, p.  243 s., che parla di «un’offesa che addirittura non esiste» e sottolinea «l’attenzione si concentra sulla reazione all’atroce iniuria subita». L’attento confronto con il testo erodoteo si trova in Setaioli 1988, p. 489-491.

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mente l’ipocrisia della laudatio paterna nei confronti della precisione e della maestria regale nell’utilizzo dell’arco (3, 14, 2-3), ma è pronto a riconoscere, almeno sul piano del uideri, al comportamento tenuto da Pressaspe in questa circostanza la qualifica di sapientius, rispetto al consiglio sventurato offerto a Cambise: il successivo inquam (3, 14, 6), infatti, spezza l’illusione della narrazione, già anticipata dallo slittamento temporale dal passato (dixit, emisit) al presente (potest), facendo gradualmente spostare il punto di vista dal piano del racconto a quello dell’insegnamento. Accanto, dunque, alla necessità di nascondere uno stato d’animo dissimulando il sentimento, si colloca l’altrettanto cogente esigenza, da una posizione per quanto vicina al sovrano comunque di inferiorità e di pericolo, di indirizzare la propria voce verso parole non risentite o non calamitosa124, motivo questo che, come ho più volte ribadito anche sulla base della lettura di Tacito, risulta molto incalzante nell’attualità del principato. E dunque, se il centro del racconto è occupato dalla preoccupazione di sottomettere l’ira (3, 14, 4, id de quo nunc agitur apparet, iram supprimi posse), si può tuttavia affermare che, almeno sullo sfondo o marginalmente rispetto al filo principale seguito dal testo, emerge con forza la questione del ‘codice linguistico’ del potere: quello che il potere, nella persona del sovrano, adotta verso l’esterno, verso cioè chi è in una posizione di subordinazione e di sottomissione, e soprattutto, in direzione contraria, quello che si deve adottare, con accortezza, nei confronti del rex o di chi è praepotens. Mentre nel primo caso l’assolutismo regale si esplicita nell’esercitare una forma di imposizione sugli altri, nel secondo, invece, si tratta dell’esercizio di una forma di controllo su se stessi imposta dall’altro e dall’alto, che si identifica nella necessità di un dover fare e di un dover essere di ‘vitale’ importanza. Con la vicenda di Pressaspe, Seneca offre un esempio di quanto l’uso di un potere assoluto possa manovrare le vite altrui e incastrarle nella rete di un codice comportamentale che stabilisce ciò che deve essere detto e ciò che deve essere taciuto: di conseguenza, il sovrano scandisce il tempo della parola – e solo di una parola gradita – e il tempo del silenzio, da cui dipende la sopravvivenza a corte. In tal senso, acquista un tono ancora più amaro la constatazione conclusiva dell’autore, che 124 Sulla base del ThLL, III, 121, 48, il genitivo calamitosi viene giustamente inteso come i. q. infelix, miser: Pressaspe non si lascia sfuggire parole che tradiscano un sentimento di dolore per quanto accaduto. Tuttavia, mi pare che nella scelta dell’aggettivo si celi altresì una diversa sfumatura, forse secondaria ma comunque valida e, aggiungerei, molto pertinente per l’episodio in questione: la reazione verbale paterna potrebbe di fatto rivelarsi calamitosa, anche in vista delle possibili conseguenze, dato il senso attivo del termine, ThLL, III, 121, 22, calamitatem inferens.

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esplicita sentenziosamente la rischiosa posizione dell’amicus regis, ora delineata con maggiore chiarezza rispetto alla precedente e più generica definizione di unus ex carissimis. Non solo: sono paradossalmente proprio i buoni consigli all’apparenza innocui, ovvero, appunto, il tentativo di ad recta flectere da cui siamo partiti con il riferimento al luogo tragico, quelli che rischiano di rivelarsi più pericolosi, accessit itaque ad numerum eorum qui magnis cladibus ostenderunt quanti constarent regum amicis bona consilia (3, 14, 6). Il secondo episodio, sul quale credo sia interessante soffermarsi, presenta una serie di elementi comuni, tra cui, in primo luogo, la struttura narrativa, che ugualmente riepiloga in breve le vicende del lontano passato, per chiudere, nel ritorno al presente, con le conclusioni suggerite dall’autore. Arpago è vittima di un destino simile a quello di Pressapse, ma ancora più terribile: a partire da una premessa quasi analoga alla precedente125 (3, 15, 1, non dubito quin Harpagus quoque tale aliquid regi suo Persarumque suaserit), finisce per partecipare al banchetto cannibalesco dei propri figli, sconfinando così in uno dei soggetti più amati dal teatro tragico, di grande fortuna soprattutto nel mondo romano, stando a quanto indica la pur frammentaria situazione testuale126. Anche in questo caso, lo sguardo di Seneca si posa sulla pronta e controllata reazione, non defuerunt misero uerba, non os concurrit127: ‘apud regem’ – inquit − ‘omnis cena iucunda est’128, motivata dal tentativo di 125 Notevoli in questo le differenze con Erodoto (1, 119): cfr.  ancora Setaioli 1988, p.  494, che preferisce non ipotizzare per il testo latino l’utilizzo di una diversa fonte, ma un esempio di citazione a memoria per associazione di idee, in cui, a causa del ricordo un po’ lacunoso sulle motivazioni dell’ira di Ciro, il Cordovese «l’attribuisce autoschediasticamente a parola troppo libera». 126 Al tema della mensa regia è dedicato l’imponente studio di Vössing 2004, per la parte romana p. 187-539. In ambito teatrale, per il banchetto di Tieste nella tradizione drammatica romana si ricordino almeno Pociña 2003; specificatamente su Accio, Baldarelli 2004, passim; per lo stesso tema nel Tieste senecano, Mazzoli (G.) 1989 e Aygon 2003. Per il rapporto tra il tragico e i modelli culturali romani Petrone 1996, passim. 127 Nel riferimento alle parole pronunciate, si nota una sottile corrispondenza con il caso di Pressaspe, che controlla e seleziona quanto deve essere detto (la laudatio biasimata da Seneca) e quanto deve essere passato sotto silenzio (la propria misera condizione). Lo scarto paradossale si ha nell’esito funesto di una parola che sarebbe di per sé positiva (il consiglio di non bere eccessivamente), ma che non rientra nel codice di comportamento e nelle manifestazioni esteriori imposti dal sovrano. 128 Sugli elementi paradossali dei due brani (il prezzo pagato per un buon consiglio in 3, 14 e la reazione di Arpago nell’affermazione dei complimenti rivolti al re Ciro, a fronte del funesto banchetto) si rimanda allo studio di Lavery 1987, che prende in esame, oltre a questi, altri tre passi del De ira (2, 33; 3, 16, 3; 3, 16, 4).

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arginare la crudeltà di Ciro disposta a un ulteriore spargimento di sangue e ad altri tremendi delitti (3, 15, 2, Quid hac adulatione profecit? Ne ad reliquias inuitaretur)129. Se è vero che l’autore esprime un giudizio complessivamente negativo e propone, in alternativa, quel ad libertatem iter, che svolge il lungo elenco di possibilità per il suicidio, culminante nell’individuazione della via offerta dal corpo stesso (quaelibet in corpore tuo uena), è altrettanto rilevante che egli inserisca nel testo una significativa notazione parenetica con cui concludere l’episodio. Seneca porta il discorso su un piano che esula dalla specificità dei personaggi e dell’ambientazione, estendendo la necessitas nel seguire un determinato comportamento alla generale cornice dell’apud illos: così ci si muove, senza possibilità alternative, alla tavola di qualunque mensa regia, presso ogni banchetto reale: Non ueto patrem damnare regis sui factum, non ueto quaerere dignam tam truci portento poenam, sed hoc interim colligo, posse etiam ex ingentibus malis nascentem iram abscondi et ad uerba contraria sibi cogi. Necessaria ista est doloris refrenatio, utique hoc sortitis uitae genus et ad regiam adhibitis mensam: sic estur apud illos, sic bibitur, sic respondetur: funeribus suis adridendum est (15, 2-3).

La dissimulazione del sentimento – iram abscondi – si accompagna inscindibilmente a un costrittivo controllo della parola – ad uerba contraria sibi cogit – indicando in questo binomio «una grande lezione di sopravvivenza per chi vive alla corte di un re130». Parole, dunque, 129 L’allusione all’uccisione di altri figli è una spia importante del rapporto che unisce questi brani, collocati nel lontano passato orientale, e la vicenda di Pastore nel secondo libro, così vicina nel tempo e nello spazio, dove centrale è il motivo dell’habebat alterum 2, 33, 5. 130 Ramondetti 1996, p. 246. La studiosa giustamente cita anche il brano successivo 3, 16, 1, nel quale Seneca ribadisce che il ricorso al suicidio va valutato solo quando la vita nel regnum appare definitivamente intollerabile: diversamente, non esiste giogo che non si possa sopportare, nullum tam artum est iugum quod non minus laedat ducentem quam repugnantem: unum est leuamentum malorum ingentium, pati et necessitatibus suis obsequi. Sul tema della sopravvivenza cfr. inoltre il precedente Lavery 1987, passim. Si segnala anche Borgo 1988, p. 128, che mette bene in evidenza come nel testo il filosofo non si limiti a descrivere la follia regale, ma definisca follia anche il tentativo di opporsi alla crudeltà del sovrano, trasferendola così, appunto, dal persecutore alla vittima. Sullivan 1985, p. 127, suggerisce già in queste pagine la dolorosa consapevolezza di Seneca di quanto sarebbe stata precaria la sua posizione come consigliere e maestro di Nerone, vedendo nelle affermazioni di De ira 3, 15, 3 un’eco dei sentimenti provati durante l’esilio e delle preoccupazioni per la sua situazione presente: ipotesi discutibile, se si opta per una differente cronologia dell’opera.

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che risultano ben lontane dall’espressione di un pensiero o di un sentimento sincero, troppo pericoloso, ma che restano ancorate alle regole non scritte della vita di palazzo131. L’anaforico sic, con cui vengono scanditi brevi quadri di vita alla mensa regale132, racchiude questo capovolgimento paradossale di valori, qui culminante nell’immagine ossimorica del padre costretto (adridendum est) a ridere al funerale del figlio, nel segno di quel ribaltamento, di quella uersa natura retro, che appartiene alle dinastie mitiche della tragedia senecana. Diversi studi relativi ai passi in questione hanno già avuto modo di sottolineare il colorito romano che Seneca conferisce al racconto, reso possibile anche dal ricorso a una forte drammatizzazione dei fatti narrati, in cui, ha notato giustamente Setaioli: «la sceneggiatura erodotea, semplice e vivace, è sostituita da un’altra più drammatica e teatrale, vòlta a ottenere un effetto in grado di colpire il lettore133». Ora, se da un lato ciò certamente rispecchia i gusti retorici dell’epoca, indirizzando il testo verso la ricerca di un certo effetto espressionistico, dall’altro mi sembra che l’intento ‘paideutico’ svolga sul tessuto narrativo una funzione altrettanto incisiva, facendo di questi episodi validi exempla su cui costruire riflessioni di portata generale. Il messaggio di Seneca punta infatti a penetrare con maggior forza nella mente del destinatario e dei lettori134; anzi, forse proprio l’adozione di uno stile, di un colore e di 131 Anche in De clem. 1, 26, 2, il conuiuium viene messo in relazione alla pericolosità della parola: sed puta esse tutam crudelitatem, quale eius regnum est? Non aliud quam captarum urbium forma et terribiles facies publici metus. Omnia maesta, trepida, confusa; uoluptates ipsae timentur; non conuiuia sicuri ineunt, in quibus lingua sollicite etiam ebriis custodienda est, non spectacula ex quibus materia criminis ac periculi quaeritur. Anche De ben. 3, 26, 1, a proposito dei rischi della simplicitas iocantium e dell’ebriorum sermo alla corte di Tiberio. Sono notevoli le analogie con quanto riferisce Tacito, come si è già avuto modo di sottolineare nelle pagine precedenti. 132 Cfr. Vössing 2004, p. 432, n. 4, «Mit sic ist hier die Perversität von Banketten unter diesen Umständen beschrieben: Die Gäste müssen gute Miene machen, selbst wenn sie zu Kannibalismus an ihren Kindern gezwungen werden. In genauer Parallele hierzu beschreibt Seneca auch das Gastmahl, bei dem Pastor trotz der vorangegegangenen Hinrichtung seines Sohnes von Caligula gezwungen wurde, fröhlich zu zechen». 133 Setaioli 1988, p. 490. 134 Ivi, passim. Lo studioso propone una dettagliata lettura comparativa con il modello erodoteo e giunge alla conclusione (praec. p. 502 s.) che Seneca abbia indubbiamente avuto presente il testo greco, ma, al tempo stesso, abbia operato una selezione dei dati − a scapito della stessa fluidità narrativa − nella costruzione di singoli quadri: su questi avrebbe inciso fortemente l’influsso della retorica contemporanea, come nella giustapposizione continua di valutazioni moralistiche e predicatorie. Da notare, secondo quanto suggerisce l’A., p. 497, l’inserimento di elementi totalmente romani, quali l’accenno alla lustratio, nei successivi episodi di Dario e Serse 3, 16, 3-4.

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un linguaggio, in armonia con i sentimenti del tempo può già di per sé costituire un veicolo di ‘attualizzazione’ del racconto, rendendolo più vicino, quindi più sentito, anche nella veste formale con cui viene presentato. Pertanto, il colorito romano di questi episodi, ben lungi dal restare limitato a scelte stilistiche, risulta improntato a tematiche che Seneca associa al momento storico in cui vive: mi sento quindi di condividere il pensiero di chi ha evocato una sua chiara compartecipazione nell’impressione che «stia parlando di una situazione a lui ben nota, o in definitiva di se stesso […]. Il coinvolgimento profondo di Seneca in questo discorso ci mostra che egli non sta parlando soltanto dell’antico regno persiano, vivo nella realtà di Erodoto, ma non più nella realtà del presente: egli sta parlando del principato romano, che ha già fatto l’esperienza di Caligola135». Il segno della contaminazione tra mito e storia è dunque da ricercare proprio nelle constatazioni a cui giunge il filosofo, che sigillano in maniera didascalica le narrazioni e che hanno la forma di princìpi validi ben oltre la specificità narrativa o drammatica dei singoli episodi. La consonanza di toni con la valutazione della nutrix nella Phaedra è sottolineata da una condivisa preoccupazione e dall’atmosfera complessiva che domina i testi, da cui l’autore ricava una lezione la cui efficacia si misura tanto nella dimensione sospesa e atemporale del mito, quanto nella realtà della Roma storica: a chi si colloca vicino al potere, a chi occupa un ruolo che consente di esprimere suggerimenti o esortazioni, spetta appunto saper dosare e soppesare con accortezza tutti i consigli rivolti al sovrano, così come il sapiens sa di dover adattare il percorso verso il flectere in rectum all’ingenium di chi ha di fronte136. Tuttavia, quanto delle vicende biografiche di Seneca si celi dietro alle parole della nutrix in Phaedra è davvero arduo da stabilire con esattezza, se non altro per le evidenti difficoltà cronologiche: diversi commentatori hanno interpretato il passo come un cristallino richiamo alla faticosa amicitia con Nerone, da cui

135 Ramondetti 1996, p. 244 e 247. Così già in Mantovanelli 1984, p. 107, n. 15, che parla di «tono di sofferta esperienza nel passo» e, successivamente, in Rudich 1997, p. 86, «It could be wrong to claim that because they belong to ancient or legendary history or to the traditional rhetorical stock, the stories of Praexaspes and Harpagus could not pertain to the political experience of Seneca and his contemporaries». Sintetico quadro della difficile posizione del Cordovese sotto il principato di Caligola in Clarke 1965. 136 De clem. 2, 7, 5: uidebit quod ingenium qua ratione tractandum sit, quomodo in rectum praua flectantur. Il passo è presente anche nel commento alla Phaedra di De Meo 19952 ad loc. p. 105.

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l’autore avrebbe tratto ispirazione per questo dialogo drammatico137. Il marchio indelebile degli anni di frustrante collaborazione con il princeps segna indubbiamente un momento di svolta nella vita e nel pensiero del Cordovese, ma non va dimenticato che anche in opere anteriori si trovano importanti riferimenti al problema, spesso non riducibili a semplici accenni, ma interpretabili come vere e proprie riflessioni sull’argomento che denotano la sua vicinanza con questi temi ben prima dell’attrito con Nerone. In tal senso, lo sguardo del filosofo segue una prospettiva diacronica lungo la storia del principato, che vede fin dal periodo augusteo i prodromi di una molestia verbale destinata a mutare ben presto in vero e proprio periculum: sub diuo Augusto nondum hominibus uerba sua periculosa erant, iam molesta (De ben. 3, 27, 1). Per quanto poi concerne la libertà di parola connessa all’espressione di un consiglio sincero, Seneca attribuisce già al tempo di Augusto l’instaurarsi a Roma di un nuovo equilibrio fondato su una diffusa dissimulatio che si fa strada a corte, tra il principe e i suoi confidenti. L’episodio citato in De ben. 6, 32, 2-4, in cui si ricorda l’esilio imposto alla figlia Giulia per gli scandali di cui si era resa colpevole agli occhi del padre, fa allusione infatti alla difficile posizione dei consiglieri Agrippa e Mecenate. Il giudizio negativo sul comportamento di Augusto, che ha ceduto all’ira divulgando quanto avrebbe dovuto rimanere taciuto138 (haec tam uindicanda principi quam 137 Cfr. Giomini 1955, p. 45, parla di questo personaggio come «depositaria delle concezioni etiche di Seneca», dall’«intonazione scolastica», aggiungendo che «nei v. 139-142, infatti, in un ricordo amaro, ma tuttora recente, affiora il Seneca consigliere di Nerone, traspare l’amarezza per l’inutilità della sua opera, tesa a ridurre alla ragione (ad recta flecti) una mente gonfia di superbia (regius tumor) e sprezzatrice del vero (ueri insolens). Si afferma così la figura del sapiens stoico, che con severa compostezza affronterà i colpi della sorte […] con lo scopo di dimostrare la superiorità e l’infallibilità del precetto stoico che la morte è liberazione […] Una Nutrice tradizionale, insomma, con i suoi atteggiamenti ispirati a un prezioso, inviolabile, quasi pedante moralismo». Anche Coffey-Mayer 1990, ad loc. p. 104, con giusti richiami a Med. 203-206 e De ben. 6, 30, 4-5, sostengono, pur senza nominare Nerone, che «as a courtier S. speaks from his own experience»; da ultimo De Meo 19952, ad loc. p. 104: «Si accentua il tono didascalico (ne è spia l’attacco nec me fugit) che culmina nella sententia conclusiva (fortem…senem). L’esperienza del consigliere di Nerone si affianca alla riflessione del filosofo stoico […]». A favore, invece, di una diversa datazione della tragedia Fitch 1987, p. 53, per il quale, sulla base della crescente proporzione delle ‘sense-pauses’ nei dialoghi (già in Fitch 1981), Phaedra andrebbe inserita, con Agamemnon e Oedipus, nel primo gruppo drammatico composto da Seneca in un periodo anteriore al 54 d. C.  Sostiene tale ipotesi, anche sulla base di criteri legati alla tecnica drammatica e allo sperimentalismo metrico, Tarrant 1985, p. 10-13. 138 Passata l’ira, resta infatti la vergogna. Il realismo senecano nel brano mi pare presenti notevoli assonanze con il già citato passo di Tacito, Ann. 1, 6, 3, dove viene presentato un Tiberio preoccupato che gli arcana domus non vengano divulgati all’esterno.

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tacenda, quia quarundam rerum turpitudo etiam ad uindicantem redit, parum potens irae publicauerat), si accompagna a una citazione del rimpianto manifestato dal principe per l’assenza dei suoi fidati amici, che avrebbero potuto guidarlo ad recta (horum mihi nihil accidisset, si aut Agrippa aut Maecenas uixissent). Ma l’analisi sottile del filosofo, conoscitore e pratico dell’apparato politico, trova l’autentica spiegazione del fittizio rimpianto di Augusto, ancora una volta, nell’incompatibilità tra ueritas e potere, sia perché gli stessi amici Agrippa e Mecenate si sarebbero adattati e uniformati alla mistificazione imposta dalle circostanze, sia perché la regalità139 è per indole refrattaria ad ascoltare i buoni consigli che, al contrario, è disposta ad accogliere nella sola eventualità che non costituiscano una minaccia140: non est quod existimemus Agrippam Per queste medesime tematiche si veda anche De tranq. 12, 7, in cui il filosofo critica il vizio dei contemporanei di ficcare sempre il naso in altrui faccende, pubbliche e private, venendo a conoscenza di notizie rischiose anche solo da ascoltare (et multarum rerum scientia quae nec tuto narrantur nec tuto audiuntur). Finzione e sincerità sono ben presenti anche altrove nel De beneficiis, cfr. e.g. 2, 2, 18. Per Chaumartin 1985, p. 173, si tratta dell’unico giudizio negativo su Augusto espresso nel trattato, dove nel complesso egli appare come figura positiva, modello da emulare e superare per Nerone. Lo studioso sostiene infatti, p. 190 s., che Seneca «reproche Auguste d’avoir été sensible aux mensonges flatteurs de Mécène et d’Agrippa et d’avoir feint de croire à leur franchise à un moment où il ne pouvait plus les entendre. C’est pour Sénèque une manière implicite d’opposer sa propre conduite à celle de deux conseillers d’Auguste et de rendre sensible à Néron l’erreur qu’il a commise, en cessant de croire à la voix de la verité». Sul lessico politico nell’opera di Seneca anche Borgo 1988, che mette bene in evidenza come Seneca, p. 120, «da un lato, appare condizionato dal pensiero politico tradizionale romano, che aveva in odio il concetto di ogni potere assoluto, dall’altro non può non risentire dei profondi mutamenti che faceva registrare la situazione politica in cui viveva, diversa rispetto alla res publica, ma diversa anche rispetto al primo impero, a causa di una non sempre avvertibile ma continuata involuzione verso l’autocrazia e l’orientalismo, verso quel tipo di governo, cioè, che più di ogni altro era inviso ai Romani». 139 Per Augusto qui Seneca parla di regale ingenium: sull’espressione del potere nella prosa del Cordovese Codoñer 2003, p. 76 s., che, confrontando le occorrenze dei vocaboli rex/regnum in De Ben. e De breu., deduce che «se habla del rex como de una institución con la que se convive en el momento de escritura. […] Además, el rex, sin ningún tipo de adjetivaciones, es aceptado ya en su momento como realidad a la que se da este nombre». Diversa, invece, la situazione nel De clem., p. 80 s., dove il termine princeps indica attitudini di governo positive, mentre rex si riscontra con una «carga de negatividad», per indicare le azioni riprovevoli del governante. 140 Quella che si potrebbe definire la pars construens della riflessione senecana sul tema si trova nel capitolo successivo, in De ben. 6, 33, 1: Vides quam facile sit gratiam referre felicibus et in summo humanarum opum positis. Dic illis, non quod uolunt audire, sed quod audisse semper volent; plenas aures adulationibus aliquando uera uox intret: da consilium utile. Sul brano mi sembra valido il punto di vista di Chaumartin 1985, p. 190 s. «Une telle franchise est la chose la plus rare et la plus précieuse qui soit. C’est une façon pour Sénèque de rappeler que cette conduite du véritable ami a toujours été la sienne et qu’en cessant de l’écouter le prince c’est engagé sur le chemin de la ruine». Da notare

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et Maecenatem solitos illi uera dicere: qui, si uixissent, inter dissimulantes fuissent. Regalis ingenii mos est in praesentium contumeliam amissa laudare et his uirtutem dare uera dicendi, a quibus audienti periculum non est. Il concetto è ribadito, con toni sfumati, ma in maniera molto chiara, in un importante passo del De tranquillitate animi che evidenzia, una volta di più, la sensibilità di Seneca per queste tematiche, verso le quali mostra di riflettere insistentemente e con un certo pragmatismo che deriva, si può immaginare, dall’aver toccato con mano le loro implicazioni. Nella contrapposizione tra vita attiva e vita contemplativa su cui è costruito l’impianto del dialogo, il filosofo inserisce un concreto campionario di situazioni e personalità dedite alla vita pubblica, soffermandosi nondimeno sulle prerogative caratteriali e comportamentali necessarie a chi intenda prendervi parte: quorundam parum idonea est uerecundia rebus ciuilibus, quae firmam frontem141 desiderant; quorundam contumacia non facit ad aulam; quidam non habent iram in potestate, et illos ad temeraria uerba quaelibet indignatio effert; quidam urbanitatem nesciunt continere nec periculosis abstinent salibus […] (De tranq. 6, 3). Pur senza sfociare nell’adulatio, emerge comunque, per chi intenda avvicinarsi al potere, l’esigenza di modellare con intelligenza attitudini e parole, nella consapevolezza che alcune inclinazioni o una sincerità troppo esuberante non si adattano affatto alla realtà della corte. Ha infatti notato Pani, che insiste proprio sul confronto con gli Annales di Tacito per sottolineare l’intesa tra i due autori nel trattare questi temi sotto il comune denominatore del principato, che «all’uomo di corte non si richiedeva soltanto di essere pronto agli scherzi e ai giochi più o meno raffinati: egli doveva anche saper essere cauto, accorto, tollerante: alla maniera del vecchio cortigiano che spiegava la sua lunga vita a corte con l’uso dell’accondiscendenza. Invece la contumacia, la protervia, osserva Seneca, non si adatta all’aula proprio come chi è troppo timido non è adatto alla vita politica142». Anche nelle Epistulae, dove il peso degli anni trascorsi prima in sintonia poi in gelo con il principe ha una ancor più forte risonanza, il filosofo mostra una certa accortezza di fondo, nel suggerire l’immagine di un sapiens «che non ignora né sopravvaluta la realtà politica», anche quanto viene affermato a riguardo dal Seneca più vicino a Nerone in De clem. 2, 2, 2 diutius me morari hic patere, non ut blandiar auribus tuis – nec enim hic mihi mos est; maluerim ueris offendere quam placere adulando. 141 Il passo presenta qui un problema testuale, con la lezione primam frontem di A: ne discute ampiamente Cavalca Schiroli 1981, ad loc. p. 82-83, al cui commento si rimanda per un quadro sul punto. 142 Pani 2003, p. 103.

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ma si pone quasi ai limiti del compromesso nell’evitare comportamenti e azioni che possano suscitare l’ira dei potenti: Ep. 14, 7, Itaque sapiens numquam potentium iras prouocabit, immo [nec] declinabit143. Mi pare, dunque, che il confronto, sulla scorta di questo fil rouge, tra il luogo tragico della Phaedra e svariati passi tratti da altre opere del Cordovese, peraltro collocabili in fasi diverse del suo pensiero e della sua posizione nel quadro del principato giulio-claudio, abbia contribuito a definire un primo tassello nel mosaico del rapporto tra finzione e potere e a mettere in risalto un aspetto significativo della riflessione senecana a riguardo. Se, infatti, il riscontro cronologico tra la rappresentazione della regalità tragica e le vicende del principato è sempre spinoso e problematico, è anche vero che la continuità con cui l’autore si preoccupa di questi temi a distanza di anni, nonostante l’avvicendarsi dei principes al potere e in testi che appartengono a differenti generi letterari, con destinatari e intenti divergenti, a mio avviso testimonia, al di là del mero omaggio retorico, l’urgenza di un motivo particolarmente avvertito dall’autore, su cui Tacito non mancherà di tornare nel tratteggiare le caratteristiche della dissimulatio in età imperiale. A questi problemi, alle loro sfumature e implicazioni, sia che si tratti del tempo di Caligola o di Nerone, o ancora che si tratti, con le dovute differenze, dell’aula mitica, Seneca ha la possibilità di guardare non solo dall’esterno, sulla scia della tradizione letteraria e dei topoi antitirannici, ma anche e soprattutto dall’interno, da una prospettiva cioè che gli è garantita dal protagonismo a corte e dalle vicissitudini che lo coinvolgono. Sotto una prospettiva comune, si 143 La frase citata è di Cova 1978, p. 55. La contrapposizione tra la prima parte della proposizione, dell’idea cioè del prouocare, e la seconda, definita dall’azione del declinare, segue sintatticamente un modulo tipico dello stile di Seneca, particolarmente efficace, nota ancora Cova, nel sottolineare l’uso di declinare, non come sinonimo di «fuggire per timore, ma semplicemente non provocare». Su questo uso della scrittura senecana più recentemente Mazzoli (G.) 2006, p. 458, «La modalità avversativa (non x, sed y), pur essendo meno stilisticamente marcata di altri schemi di correctio cari a Seneca – con asindeto (x, non y), con immo (x, immo y) – è certo quella che meglio rispecchia la reale diacronia (sul piano logico, ma spesso anche etico) del procedimento, nel quale alla pars destruens (rimozione dell’x negativo) consegue, tramite l’effetto separativo, intrinseco appunto a sed, la pars construens (sostituzione dell’y positivo)». Sull’antitesi in Seneca anche i precedenti Pohlenz 1967, II, p. 57, e Traina (A.) 19843, p. 93-97. Il compromesso a cui il filosofo sembra disposto a piegarsi sfocia in una vera e propria lezione di dissimulatio per il sapiens che intenda evitare il contatto con una deleteria potentia, Ep. 14, 8, Idem facit sapiens: nocituram potentiam uitat, hoc primum cauens, ne uitare uideatur. Attraverso l’apparenza e la perseveranza in questo simulato atteggiamento, fondato sul uideri, e nascondendo i reali intendimenti, è infatti possibile infatti preservare la securitas, altrimenti a rischio, pars enim securitatis et in hoc est, non ex professo eam petere, quia quae quis fugit, damnat.

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collocano perciò i timori, gli obblighi, le falsità, i rischi di chi tenta la via del buon consiglio, compromettendosi con un potere renitente al bene tanto nel mondo − remoto nel tempo e lontano nello spazio, di Grecia o d’Oriente, quasi leggendario per il pubblico romano dell’epoca − quanto nei confini palpabili e vicini del principato, la cui gestione è peraltro avvertita come sempre più simile a questi arcaici ambienti regali, «paradigma pericolosissimo144» per la mentalità romana. Infatti, unica e sconfortata è la voce dell’esperienza: la sincerità nel flectere ad recta un regalis tumor che è impatiens ueri145, si rivela un’operazione sempre pericolosa, destinata all’insuccesso sia per la nutrix in Phaedra, che si trova coinvolta in prima persona nel furor dell’interlocutrice affrontando Ippolito, sia per Pressaspe e Arpago, di cui sono state ricordate le incredibili e terribili vicissitudini. Sulla scena storica, lo si potrebbe affermare forse anche per Agrippa e Mecenate, almeno stando a quanto riporta l’autore, la cui franchezza sarebbe stata apprezzata da Augusto solo in absentia; la constatazione è poi senza dubbio valida per lo stesso Seneca che, come sappiamo, ha pagato a caro prezzo i numerosi, ma inutili tentativi di guidare ad rectum il capriccioso e instabile ingenium del princeps. Dulcis inexpertis cultura potentis amici | expertus metuit (Ep. 1, 18, 86 s.), afferma un Orazio che, già alle origini del nuovo ordinamento istituzionale nella Roma augustea, mostra coscienza del carattere «vivo e anche un po’ scottante» del problema, in un mondo, come quello romano, regolato dai «legami dei reciproci officia e beneficia» particolarmente importanti per chi vive «all’ombra dei potenti146». È un diverso grado di consapevolezza quello che si fa strada invece al tempo di Seneca e in Seneca, al quale, oramai lontano dall’aula e provata sulla propria pelle l’impossibilità di un’amicizia con i potentes, non rimane che la consola-

Mazzoli (G.) 1999, p. 290. Cfr. la citazione sallustiana (Ep. ad Caes. 1, 1, 6) in De ira, 3, 36, 4: […] uide, non tantum an uerum sit quod dicis, sed an ille cui dicitur ueri patiens sit: admoneri bonus gaudet, pessimus quisque rectorem asperrime patitur. 146 Cito da La Penna 1968, p. CXLIX s. Lo studioso interpreta anche l’epistola a Sceva, 1, 17, come «un breve vademecum per un cortigiano di classe non elevata», nell’ambito di una «precettistica per i frequentatori dei potenti». Una panoramica sulla fortuna di questi temi nella letteratura antitirannica e nella riflessone politica dei secoli successivi si trova ancora in La Penna 1978a: di questo studio, segnalo, per le affinità con il tema del giusto mezzo che domina le epistole oraziane, in particolare Guicciardini, Ricordi, da 98 a 101. Narducci 1989, p. 163, ha visto in questi versi del poeta di Venosa l’anticipazione dei «tratti di una razionalità cortigiana, che si troverà ampiamente dispiegata nel tipo etico del liberto funzionario imperiale». 144 145

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toria, per quanto amara, constatazione che hos omnes amicos habere operosum est, satis est inimicos non habere147. Laus falsa e adulatio Al lato opposto del rapporto con il potere, in contrasto ai pericoli connessi all’espressione di una parola sincera, sia essa esternazione di un volontario e spontaneo tentativo di consigliare il bene o di una forzata confessione imposta dal sovrano, si colloca l’espressione di un sentimento o di un pensiero mendace, ulteriore e differente declinazione dell’incompatibilità tra ueritas e potere nella dimensione tragica. Nella voce intenzionalmente e volutamente falsa dell’adulatio sta infatti la complice menzogna che si instaura come principio irrinunciabile nel nuovo sistema di valori vigente nel regnum dei drammi senecani, in cui la laus falsa diviene uno strumento di protezione per chi si trova in posizione di inferiorità e, al tempo stesso, l’unità di misura del consenso per chi detiene il potere. La tragedia in cui questo motivo è esplicitamente presentato nel suo duplice risvolto è il Thyestes, cioè il testo in cui il tema dell’inganno e del rapporto tra inganno e potere esprime davvero il Leitmotiv che attraversa le vicende dei protagonisti senza soluzione di continuità. Del resto, si è già cercato di mettere in evidenza come fraus e dolus entrino nell’opera a più livelli, dal piano mitico, nell’ereditarietà di un tratto caratteristico della stirpe, a quello drammatico, come motivo su cui si costruisce l’intreccio, a quello politico, come mezzo di conservazione e di tutela del regno. Uno dei momenti in cui tale pluralità di piani emerge con maggiore evidenza coincide con il fitto scambio di battute tra Atreo e il satelles, in un dialogo che, nel quadro della struttura complessiva dell’opera, costituisce anche la premessa indispensabile per comprendere fino in fondo le condizioni su cui si fonda la finta riconciliazione tra i due fratelli. Con questi versi, infatti, l’autore permette al pubblico e a noi lettori di avere bene in mano tutti i fili del discorso, di cogliere cioè la rete di rimandi infratestuali e di gestire con onniscienza il décalage di piani cognitivi attorno a cui ruotano le storie dei personaggi prima dell’anagnorisis conclusiva. A ciò si aggiunge il fatto che, per quanto concerne strettamente il rapporto con il regnum, su cui si intende ora focalizzare l’attenzione, questo agon chiarisce come il ricorso alla finzione costituisca la base del vincolo tra rex e sudditi, il perno su cui è costruita l’amministrazione stessa del potere regale. La prima parte del dialogo tra i due personaggi è per questo particolarmente significativa, in quanto Ep. 14, 7.

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interamente costruita sui due opposti punti di vista attorno ai quali si sviluppano i contrasti vero/falso, sincerità/simulazione, volontà/obbligo, pubblico/privato, potens/humilis, enfatizzati anche linguisticamente dalle scelte lessicali che contribuiscono a delineare tale polarizzazione. Sono soprattutto alcuni versi, nelle parole di entrambi gli interlocutori sulla scena, a fornire gli spunti più interessanti per ricostruire il quadro politico della Micene senecana148: v. 204-218: Sat. Fama te populi nihil | aduersa terret? At. Maximum hoc regni bonum est, | quod facta domini cogitur populus sui | tam ferre quam laudare. Sat. Quos cogit metus | laudare, eosdem reddit inimicos metus. | At qui fauoris gloriam ueri petit | animo magis quam uoce laudari uolet. | At. Laus uera et humili saepe contingit uiro | non nisi potenti falsa: quod nolunt uelint. | Sat. Rex uelit honesta: nemo non eadem uolet. | At. Ubicumque tantum honesta dominanti licent, | precario regnatur. Sat. Ubi non est pudor | nec cura iuris sanctitas pietas fides | instabile regnum est. Atr. Sanctitas pietas fides | priuata bona sunt: qua iuuat reges eant. Le due realtà inconciliabili di cui il tiranno e il cortigiano si fanno portavoce sono ben distinte da una serie di coppie oppositive che contribuiscono a definire lo scarto tra questi due mondi nell’antitesi tra autenticità e apparenza, tra verità e finzione (ferre/laudare; animo/uoce; laus uera/laus falsa; nolunt/uelint). Distinzione che sembra assumere una forma molto diversa nella sentenza finale di Atreo, non tanto come contrasto tra una regalità positiva, guidata dai saldi principi etici proposti dal satelles, e una negativa, assolutistica e dispotica, ma come contrasto tra l’unica forma di regalità possibile nell’universo tragico e lo spazio del privato149. Così, mentre il cortigiano fa leva ancora su argomenti politici, prima di tentare una dissuasio fondata su un appello alla pietas fraterna, il disincantato tiranno chiude ogni possibilità di ascolto nell’affermazione di un netto rifiuto per quanto esuli dalla propria volontà: il rex rende se stesso il nuovo metro di un’etica politica che ruota attorno al volere di un unico individuo (v. 218), rispetto alla quale ogni critica 148 Per le evidenti affinità tematiche e stilistiche, si può forse ipotizzare che il brano sia da collocare anche sullo sfondo di [Sen.] Oct. v. 453-461, nel dialogo tra Seneca e Nerone. 149 Per quanto concerne il lessico del potere, utilizzato dai due personaggi nel passo, nota Rose 1987, p. 119: «Atreus employs rex in the sense most common in writers of the late Republic and early Principate, to refer to a leader who arrogates excessive and unlawful powers without respect for the rights and freedoms of his fellow citizens. The Satelles, by contrast, uses the word rex as Seneca sometimes does in the dialogues of an enlightened ruler who uses his power for his people’s benefit rather than to serve private ends».

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o semplice esortazione, anche animata da buone intenzioni, può risultare per il mittente terribilmente insidiosa, lasciando alla simulatio la sola, sicura, reazione di compromesso possibile. Tout se tient nella teoria politica esposta da Atreo, organizzata con un coerente ordine interno, finalizzato a garantire la stabilità del suo potere e l’apparente armonia tra sovrano e popolo: la «disarmante semplicità150» e la consapevolezza con cui il rex presenta il proprio punto di vista, rispondendo senza esitazione alle obiezioni dell’interlocutore, denotano la razionale impalcatura del sistema da lui delineato, fondato su ineluttabili e ben precisi meccanismi che ne garantiscono il pieno funzionamento. Emerge quindi un quadro perfettamente in linea con l’immagine della regalità materiale al centro della tragedia, in cui la finzione, applicata all’atteggiamento e al linguaggio sia del dominus, sia dei diversi personaggi in qualche modo legati al dominus, appare come indizio della generale atmosfera mistificante e mistificatoria del regnum, ben lontana da quanto canterà il secondo coro e dalle prudenti ma effimere ammonizioni rivolte da Tieste al figlio Tantalo. Nel sottolineare che il bene più grande del regno è che il popolo sia costretto tanto a sopportare quanto a lodare gli atti del sovrano, Atreo lascia dunque intendere che ai sudditi non è concesso il semplice silenzio della rassegnazione, ma è richiesta l’approvazione di una falsa laus, non avvertita nell’animo, ma esternata verbalmente con una compartecipazione che è solo di facciata. La libertà del silenzio non è ammessa nel mondo tragico di Seneca, come si evince soprattutto dal dialogo tra Edipo, che impone l’obbligo di parola, e Creonte, consapevole della ruina innescata dal proprio racconto: v. 523-528, Cr. Tacere liceat, ulla libertas minor | a rege petitur? Oed. Saepe uel lingua magis | regi atque regno muta libertas obest. | Cr. Ubi non licet tacere, quid cuiquam licet? | Oed. Imperia soluit qui tacet iussus loqui. | Cr. Coacta uerba placidus accipias precor. Il motivo del silenzio è sempre rappresentato negativamente rispetto alle logiche che regolano la vita di corte: se la volontà di un unico individuo scandisce quanto viene detto e compiuto all’interno del regno, tacere significa, agli occhi del sovrano, adottare una forma di insidiosa ribellione che si realizza nella mancata, anche insincera, ma pur sempre manifesta, adesione al suo volere, nel tentativo di nascondere segrete intenzioni potenzialmente pericolose per la conservazione del potere151. Picone 1984, p. 44. Per il passo dell’Oedipus, continuamente oscillante tra parola e silenzio, tra detto e taciuto, tra libertà individuale e coercizione imposta dal sovrano, si rimanda al commento di Töchterle 1994, ad loc. p. 425 s., che ricostruisce anche il tessuto linguistico 150 151

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Se ai versi del Thyestes citati si aggiungono i successivi (v. 312-333), nei quali viene tracciato il legame genetico tra dolus e regnum e si riconosce, nella capacità di controllare e nascondere sentimenti e intenzioni, una delle doti fondamentali per chi intenda gestire e proteggere il potere, si deduce che dissimulazione e adulatio costituiscono due elementi fondamentali dell’equilibrio politico, non senza influenza sul comportamento dei personaggi, la cui collocazione e il cui ruolo all’interno del regno si identificano e si qualificano anche sulla base dell’aderenza a questi due moduli, poiché tutti sono travolti, a gradi e con esiti diversi, da questo gioco di finzioni152. Anche l’incontro tra Atreo e Tieste è costruito attorno a questi due cardini, e ripropone alcune delle contrapposizioni già al centro dell’episodio con il satelles. Così, da un lato, troviamo il tiranno che dapprima simula affetto nella gestualità, specie pietatis per dirla tacitianamente, accogliendo il fratello con abbracci a lungo desiderati (v. 508-509, complexus mihi | redde expetitos, attesi non per un’affezione sincera, ma perché costituiscono il primo passo verso il compimento della vendetta), e poi recita agli occhi dell’interlocutore l’impossibile dramatis persona del buon sovrano, quale falsa incarnazione del brano classificando i vocaboli per antitesi, ricorrenza e sinonimia secondo lo schema: Schweigen/Reden/Freiheit/Zwang. Molto valide anche le osservazioni di Lana 1964, che propone un confronto con De tranq. 4 sul ruolo del silenzio nel contesto della prima età imperiale. L’A. afferma, p. 110 s.: «Qui non siamo in grado di dire fino a che punto Seneca non pensi, anziché alla Tebe del mito, alla Roma dei principi, nella quale agli avversari non era neppure consentita la muta libertas, cioè la libertà di tacere […] in altre parole la tirannide vuole impadronirsi anche degli spiriti dei sudditi: li obbliga a proclamare la loro adesione al regime, che pure dentro di sé odiano». Il riflesso nel testo delle condizioni di vita determinate dalla situazione socio-politica del principato è affermato con sicurezza da Curley 1986, p. 106: «Oedipus’ almost totalitarian denial of the right to silence certainly reflects the realities of contemporary imperial coercion; it also represents Oedipus’escape into tyranny from the pressures of royalty», mentre possibilista, ma più prudente a riguardo Töchterle 1994, che parla di una tematica molto trattata da Seneca e conclude: «und somit auch mögliche aktuelle Anspielungen». Anche il silenzio di Andromaca ed Elettra, rispettivamente in Troades e Agamemnon, l’unica arma possibile di fronte alla forza del potere, si rivela agli occhi sia di Ulisse sia di Clitennestra ed Egisto, cioè di chi, di fatto, occupa la posizione di forza, uno strumento pericoloso che impedisce di scovare il nascondiglio di Astianatte e Oreste, cioè proprio delle due figure che più minacciano la stabilità della vittoria per i Greci e l’insediamento sul trono argivo per i due amanti. 152 Molto bene per questi aspetti e le relative implicazioni Schiesaro 2003, p. 114, «In Thyestes everybody dissimulates: the satelles disguises his fear; Atreus cloaks his thirst for revenge; Thyestes covers up his own worries. The distinction is not between those who dissimulate and those who do not, but between effective and ineffective dissimulation. […] Dissimulation, in sum, is a weapon of power and against power, and must be judged according to internal criteria of efficacy and expediency. Thyestes, technically speaking, is a bad dissimulator, Atreus an excellent one».

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di quei medesimi valori precedentemente disprezzati e relegati alla sfera privata153. Dall’altro, invece, ci appare sulla scena un Tieste ben diverso dall’immagine finora delineata, che sembra a sua volta impersonare, come individuo, parte di quel populus evocato da Atreo, costretto a seguire il codice adulatorio richiesto dal potere nella confessione della propria colpa (v. 512-514, diluere possem cuncta, nisi talis fores. | Sed fateor Atreu, fateor, admisi omnia | quae credidisti), nel tessere le lodi della bontà fraterna (v. 515-516, est prorsus nocens | quicumque uisus tam bono fratri est nocens), nel presentarsi supplice ai piedi del tiranno (v. 517-518. supplicem primus uides | hae te precantur pedibus intactae manus) e nell’esprimere il proprio artificioso ringraziamento attraverso l’augurio della ricompensa divina (v. 530-531, Di paria, frater, pretia pro tantis tibi | meritis rependant). Per questo Tieste, che, caduto nella trappola tesagli dal tiranno, sta gradualmente cambiando fisionomia negli atteggiamenti e nelle parole, la misura delle proprie responsabilità è divenuta dunque la volontà di Atreo: si ritiene e si professa colpevole perché giudicato tale dal fratello, finendo per essere costretto ad accettare – e quindi a volere quanto non vorrebbe (v. 212) – una condivisione del potere e una partecipazione al regnum inizialmente rifiutate con tenacia (v. 533 s., liceat in media mihi | latere turba; v. 540, respuere certum est regna consilium mihi154, v. 542, accipio)155. Sarà, infatti, solo nel bel mezzo della nefasta Prima fra tutte la fides, v. 507, con cui ha inizio la trappola di Atreo; ma anche la pietas, v. 510 s., la clementia, v. 511, la virtus, v. 529 e, naturalmente la laus, v. 527 s. che per un sovrano, stando alle affermazioni dello stesso rex, non può che essere falsa. Illuminanti per capire le implicazioni di questo passo le osservazioni di Picone 1984, p. 84: «Estremamente amaro è il significato ideologico che si accompagna a questo autentico ‘pezzo di bravura recitativa’: l’incarnarsi dell’ideale del sophós nel rex è possibile soltanto a condizione che si tratti di un mostruoso inganno, di una beffa atroce da giocare ad avversari ingenui – come i figli di Tieste – o deboli e incerti – come lo stesso Tieste». 154 Si concentra sulla risposta di Atreo a queste parole Marchetta 2010, p. 351 s. Al v. 541 troviamo infatti meam relinquam, nisi tuam partem accipis: lo studioso propone di riconoscere nel sostantivo pars una pluralità di piani, in una «girandola di doppi sensi», che lo rende espressione non solo, in senso letterale, della parte di regno che spetta a Tieste, ma anche, in senso anfibologico, della «finzione», del «ruolo» nella sfera «dell’arrière-pensée di Atreo». 155 Mi pare che anche lo studio di Rose 1987, p. 122-123, proponga una lettura non troppo dissimile, quando sottolinea che «Thyestes plays the part of the impotent subject by his flattery and self-effacement […] He praises Atreus for the offer (530 s.) just as the tyrant requires […] The so-called ‘confession’ of lines 512-520 reveals that Thyestes is completely overpowered, if not duped». Da notare sul motivo dell’accipere quanto afferma Seneca in De ben. 2, 18, 6, facendo leva sull’impossibilità, di fronte al regime tirannico, di esprimere un rifiuto, ovvero una volontà contraria a quella richiesta dal potere: “Non semper”, inquit, “mihi licet dicere nolo; aliquando beneficium accipiendum est et inuito. Dat tyrannus crudelis et iracundus qui munus suum fastidire te iniuriam iudicaturus est: 153

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cena che la trasformazione si potrà dire completa, quando il ‘nuovo’ Tieste caccerà il vecchio e all’espressione dubbiosa ed esitante con cui Tantalo lo descrive, in una delle sue prime apparizioni (v. 421 s., Pigro (quid hoc est?) genitor incessu stupet | uultumque uersat seque in incerto tenet) si sostituisce sul volto la manifestazione di una fallace e illusoria gioia, specchio, ancora una volta, della natura fittizia e ingannevole di una regalità che non sia interiore (v.  936-937, redeant uultus ad laeta boni | ueterem ex animo mitte Thyesten). È stato sottolineato dai commentatori che il riferimento all’adulazione, in particolare, si inserisce nel tessuto tragico come elemento di novità senecano rispetto ai predecessori (in particolare al modello diretto, cioè all’Atreo di Accio, quale unico testo che permetta un qualche limitato confronto): questo tratto originale si può spiegare alla luce sia dello sviluppo drammatico, sia delle implicazioni con la realtà storica del periodo e con la fortuna del tema nella letteratura del principato156. Riflessioni sull’adulatio si trovano, del resto, anche altrove nell’opera di Seneca, dove viene considerata tanto come pericolosa e insidiosa simulazione d’amicizia157, quanto come falsa laus rivolta al potente, cioè con questa medesima connotazione prettamente politica non accipiam?” […] Si liberum est tibi si arbitrii tui est, utrum uelis an non, id apud te ipse perpendes; si necessitas tollet arbitrium, scies te non accipere, sed parere. Il v. 542 prosegue nella forma seguente: regni nomen impositi feram. Nota sul punto Picone 1984, p. 85: «Tieste, nel momento in cui accetta il potere regale, ha consapevolezza di subìre un’imposizione e dà voce a questa sua convinzione». 156 Lo nota a ragione Tarrant 1985, ad loc. p. 121: «Seneca’s Atreus takes a step further the notorious dictum of his predecessor in Accius (203-204 R.2), oderint dum metuant: his subjects are to be coerced, not merely into acquiescense, but into praise. Atreus here gives the tyrant’s view of a phenomenon noted by several writers of the Principate, the corruption of free speech through constant adulatio of the emperor». Gli autori citati sono Tac. Ann. 1, 1, 2; 2, 32, 2 e Pl. Pan. 2, 3. Anche Mader 1998, p. 42: «Clearly a political frame of reference suggests itself» […] Behind the interaction ritual with Atreus we discern in outline the choreographed sycophancy of imperial courtiers and senators which had become a hallmark of the post-Augustan principate […] The symbiosis between autocracy and simulatio/adulatio is a crucial element in the satellite’s programmed response and at this point the dramatic dialogue shades off into pointed psycho-political comment» e p. 45 «The Neronian theatre of power and the politics of pretence give point and meaning to the metus-laus, falsa vox-potens vir configuration of the dramatic debate». 157 Antitesi della vera amicizia, tradimento della fides come valore su cui essa si fonda: così viene considerata nell’ampia trattazione di Nat. Quaest. Praef. 4a, quasi una malattia contagiosa, su cui Berno 2003, p. 132. Nel brano si trova una vera fenomenologia dell’adulatio, con relativa descrizione delle differenti tipologie e dell’efficacia dei diversi ‘gradi’ di adulazione, 5-6. Per le caratteristiche e le implicazioni di quest’adulazione, con analisi del passo e contestualizzazione nella morale senecana si rimanda a Berno 2003, p. 111-144 (sul tema anche Ep. 45). Attorno al rapporto tra falsità e virtù e sulle false apparenze dell’amicizia verte anche un noto frammento fr. 60 Vottero (F 96 Haase), dove

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che la caratterizza come forma di finzione affermata nella situazione politica coeva e diffusa tra le diverse componenti sociali della Roma imperiale. Verso questo tipo di atteggiamento, il filosofo non manca di esprimere la propria aspra condanna, rimproverando il gretto servilismo dei contemporanei, piegati ad adulazioni talmente spudorate da superare le perversioni del mondo tragico. Ne è il più chiaro esempio il folle ringraziamento rivolto all’imperatore-tiranno Caligola, da parte dei medesimi padri i cui figli Cesare ha condannato a morte: agebant enim gratias et quorum liberi occisi et quorum bona ablata erant (De tranq. 14, 5)158. Accenni all’adulatio, nell’ambito della riflessione senecana sul potere, si riscontrano anche nei due brani del De ira, già oggetto di indagine, in cui Pressaspe e Arpago sono costretti sia a tessere false lodi del sovrano (3, 14, 3, laudator fuit cuius nimis erat spectatorem fuisse; occasionem blanditiarum putauit pectus filii in duas partes diductum; 3,  15,  2, hac adulatione) sia a vedere ciò che non vorrebbero (macabri spettacoli di morte: il cuore del figlio trafitto dall’arco regale in un caso, le teste dei figli di cui si era nutrito nell’altro). Il riferimento alla costrizione che il rex esercita sul popolo, obbligato non tanto o non solo a sopportare (tam ferre), ma anche e soprattutto a lodare (quam laudare) le azioni del il lessico dell’inganno è particolarmente ricco (fraus adumbratur; cogitationibus pessimis facies benignissima obducitur; fucatis officiis; latet). 158 A questo grates agere dalla natura adulatoria, quasi prassi sovvertita e riscritta del beneficium e del rapporto benefattori-beneficati (per il quale si rimanda al volume curato da Picone–Beltrami–Ricottilli 2009), applicata alla peggiore delle iniuriae possibili, Seneca contrappone il modello positivo di un altrimenti ignoto Giulio Cano, che ringrazia il principe tiranno (chiamato appunto ille Phalaris) per aver ordinato di ucciderlo, nella serena accettazione della propria sorte, De tranq. 14, 4, […] cum Gaio diu altercatus, postquam abeunti Phalaris ille dixit: “Ne forte inepta spe tibi blandiaris, duci te iussi”, “Gratias, inquit, ago, optime princeps”. Sulla crudelitas di Caligola, non solo inserito nel repertorio delle figure tradizionalmente crudeli, ma anche considerato campione romano di crudeltà, Cavalca Schiroli 1981, ad loc. p. 122. Di segno positivo ma di natura molto differente è anche la gratitudine del sapiens per i beneficia concessi dal potente in Ep. 73, 8-9. Un accenno si riscontra anche in De tranq. 11, 3, dove si esalta la capacità del sapiens di saper restituire i beni materiali a lui concessi quando se ne presenta la necessità, mostrandosi così vero padrone di se stesso: quandoque autem reddere iubebitur, non queretur cum fortuna, sed dicet “Gratias ago pro eo quod possedi habuique. Magna quidem res tuas mercede colui, sed, quia ita imperas, do, cedo gratus libensque”. Per il passo delle Epistulae, Cova 1978, p. 54 parla di «lealismo dei filosofi» e di «gratitudine verso il potere comprensibili solo in bocca a un ex ministro sospettato di capeggiare l’opposizione». Del resto, come si è visto, Tacito ci informa di un dettaglio biografico senecano legato proprio al motivo del ringraziamento che, nel discorso a Nerone riportato in Tac. Ann. 14, 56, 3, coincide con la finis omnium cum dominante sermonum e mostra, in questo, l’ambivalente posizione del filosofo descritta da Cova.

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regnante, trova corrispondenze anche con l’episodio di Pastore nel secondo libro del De ira, che ha luogo alla corte di Caligola159 e dove, nuovamente, sembra che la perversione in atto nella corte della Roma storica superi il mito160. Il tessuto linguistico del brano è infarcito di riferimenti alla finzione: da subito, nelle parole introduttive con cui è presentata la situazione prima di entrare nel vivo del racconto, viene fatto esplicito riferimento alla dissimulazione quale atteggiamento da adottare in luogo della vendetta, saepe autem satius fuit dissimulare quam ulcisci (2, 33, 1). A ciò fa seguito, per l’intera durata della narrazione, una serie di ulteriori marche lessicali, volte a ribadire la necessità di mantenere questo contrasto tra essere e apparire, quale strumento indispensabile per difendere l’incolumità dei propri cari sotto lo sguardo vigile dell’ira senza freni di Caligola (ne fateri quidem; uultu nihil exprobante; perdurauit miser non aliter quam; non dolorem aliquo signo erumpere passus est; cenauit tamquam pro filio exorasset; dissimulauit iram – nel paragone con Priamo, a sua volta costretto a nascondere i propri sentimenti di fronte ad Achille per recuperare il corpo del figlio Ettore; se laetum et oblitum quid eo actum esset die praestitit)161. La fine indagine nella psicologia dei potenti Suet. Calig. 35, descrive le frequenti punizioni di Caligola nei confronti di atteggiamenti che suscitavano liuor e malignitas dell’imperatore. Nel passo si fa riferimento a Tolomeo, prima accolto con grandi onori, poi condannato al supplizio capitale per l’eccessiva attenzione suscitata nel pubblico, affascinato dalla veste purpurea, e a un certo Esio Proculo, oggetto dell’ira imperiale per il suo aspetto prestante. Un richiamo alla situazione senecana si riscontra nella pena inflitta dal princeps a chi mostrava una bella capigliatura, 35, 3, pulchros et comatos, quotiens sibi occurrerent, occipitio raso deturpabat. 160 Interpreto in questo senso il paragone con Priamo, introdotto a De ira 2, 33, 5, Quid ille Priamus?, funzionale, a mio avviso, a sottolineare la maggiore atrocità del princeps romano e a dedurne, ergo, la lezione esemplare. A sua volta, Lavery 1987, p. 281, vede una caratterizzazione epica di Pastore: «The otherwise obscure equestrian assumes an epic quality, while the emperor stands as the exemplum of a man who substitutes sadism for solicitude and dementia for sapientia. Seneca need not to spell out for us the paradox of this ruler: he is hardly an Achille». Mi pare proprio che il filosofo dopo aver constatato le somiglianze tra il comportamento di Pastore e quello di Priamo, intenda soprattutto sottolineare la differenza tra le due situazioni, in particolare mostrando la maggiore gravità di quanto ha dovuto subire il cavaliere romano rispetto al re troiano. Questa interpretazione mi sembra confortata non solo dal sed tamen, ma anche dalle numerose marche linguistiche di segno negativo, sine unguento, sine coronis, et illum hostis saeuissimus multis solaciis ut cibum caperet hortatus est, non ut pocula ingentia super caput posito custode siccaret, volte appunto a distinguere i due personaggi e la pesantezza delle iniuriae subite. L’ipotesto virgiliano del passo è ricordato in Ramondetti 1996, p. 249 s. 161 Non sono pertanto convinta come Borgo 2000, p. 65, n. 13, che «l’unico accenno scoperto alla falsità della quale l’intero episodio si colora si legge in 2, 33, 5 (non dissimulauit iram … et cenauit) in riferimento alla figura di Priamo, recatosi da Achille a 159

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è costruita su riferimenti generici (si parla infatti di potentiorum iniuri­ ae)162, che rendono universalmente valida sia l’analisi senecana, secondo la quale essi sono propensi a reiterare l’offesa ove si rendano conto di aver ferito arrecandola, facient iterum si se fecisse crediderint, sia l’insegnamento che se ne ricava e che viene suggerito, in toni precettistici, dal filosofo: non è sufficiente saper sopportare le iniuriae con rassegnazione (non patienter tantum ferendae sunt, o, per dirla con le parole di Atreo, tam ferre), ma ci si deve conformare a un preciso comportamento, imparare cioè a celare i veri sentimenti indossando la maschera di un’affettata hilaritas (hilari uultu), per arginare l’incontrollabile reazione di chi ci sta di fronte163. Le considerazioni di Seneca, ancora fondate su premesse generali, trovano conferma nel corso della narrazione attraverso due esempi. Nel primo caso, l’autore riporta la notissima uox dell’esperienza, con la battuta fatta pronunciare a un anonimo senex164, in cui inserisce proprio il motivo dall’adulatio nel riferire la ben chiara ‘filosofia di vita’, iniurias accipiendo et gratias agendo (2, 33, 2) con cui questi ha potuto raggiungere il traguardo della vecchiaia, sempre definito come il più raro e il più arduo da perseguire tra le mura insidiose dell’aula. Nel secondo caso, viene raccontata la terribile sorte di Pastore, costretto ad assistere alla morte del figlio (imprigionato perché colpevole di aver suscitato l’irritazione e la gelosia imperiali per l’eccessiva raffinatezza nel portamento e nel fisico) dopo averne chiesto la grazia, e, iubente Caesare, a partecipare nel medesimo giorno al banchetto regale indossando i panni del laetus conuiua, in modo da assecondare la folle volontà di Gaio ed evitare riscattare il corpo di Ettore, alla quale Pastore viene accostato. Per quest’ultimo, invece, l’accusa di simulazione va ricercata solo nell’uso delle comparative ipotetiche». Direi, piuttosto, che numerosi sono i tratti linguistici che richiamano la finzione, tra cui anche (e non solo) l’uso delle numerose comparative ipotetiche. 162 Nota Ramondetti 1996, p. 260 «Il cittadino romano non ha alcuna garanzia che ad Augusto non succeda Caligola o viceversa; se un Caligola è al potere, egli – se non sceglierà il suicidio – dovrà vincere l’ira che le iniuriae del principe (a loro volta originate da un’ira continuamente esercitata e sfociante in saevitia) non mancheranno di provocare in lui – la dissimulazione dell’adfectus gli consentirà, intanto, di sopravvivere». La sottomissione dell’ira, dunque, non vive solo nella dimensione della virtus stoica, ma è indispensabile, in forme e con intenti diversi, anche nel ben più cogente spazio pubblico dell’aula, con modalità che sfumano in una generale dissimulazione degli affetti sotto lo sguardo inflessibile del potens. Sul motivo del tirannicidio nel trattato, cfr. ancora, ivi, p. 257-261 e De ben. 7, 20, 3, come notato da Lana 1990, p. 338 n. 16. 163 Perché, ribadisce Seneca, hoc habent pessimum animi magna fortuna insolentes: quos laeserunt et oderunt. Ha acutamente messo in luce il rapporto con Tac. Agr. 42, 3, Griffin 1976. 164 Cfr. Degl’Innocenti Pierini 1999, p. 74 n. 68.

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peggiori conseguenze165. Nel suo studio dedicato alla rappresentazione del potere tirannico nel Thyestes, Mantovanelli ha contributo a definire dettagliatamente le affinità tra il dramma e queste pagine del trattato, accomunati, oltre che dalle situazioni narrative e in primis dal motivo della cena e del banchetto regale, anche dal peso dell’esperienza biografica dell’autore: «La tragedia che […] sembra trovare una sua ragionevole collocazione negli ultimi anni di vita di Seneca e implica comunque l’esperienza neroniana, riprende evidentemente una tematica già in nuce nel periodo del De ira, quando, nutrita di letteratura diventata per così dire vita vissuta (la lezione antitirannica di Accio sperimentata nei già controversi rapporti con la corte), gli si andava affacciando l’immagine della cena tiestea e di altre consimili come esemplare della propria condizione ad regiam … mensam …, di quella condizione di vita presso i potenti a cui lo chiamava l’utopia della sapienza al potere, con tutti i compromessi, le ambiguità e l’infelicità che tale condizione comportava166». Ambiguità di cui Seneca sembra essere ben consapevole nel giudicare furiosum il contendere cum superiore (2, 34) e nel trasmettere quello che è stato definito «an ambivalent political message» che «offers a trenchant commentary on the entire phenomenon of dissimulatio167». 165 Cfr. Chaumartin 1985, p. 163, in cui, per il De Ben., l’A. lega la caratterizzazione di Caligola come tiranno a quella di Tiberio: per entrambi gli imperatori «le philosophe mêle des violentes attaques contre leur politique. Dans les anecdotes souvent fort pittoresques et qui prennent parfois l’aspect de petites comédies où l’un et l’autre sont mis en scène, ils apparaissent sous les traits propres au tyran: la soif du sang, la haine des hommes de haute valeur morale, la tendance à demeurer seuls, l’inaptitude à la reconnaissance comme à l’amitié, la méfiance pathologique qui fait voir partout des espions […] Le régime n’offre pas de différence avec la plus dure tyrannie». 166 Mantovanelli 1984, p. 85. 167 Rudich 1997, p. 85. Da vedere anche quanto osserva, diversamente, Lanciotti 1982, p. 117, a proposito dell’immagine di Filippo di Macedonia nel quarantesimo libro di Livio, scandita dal motivo dell’exsecratio. «Tra il tiranno e i suoi sottoposti, o meglio antagonisti, non c’è in sostanza rapporto ma scontro: nei confronti del tiranno si può assumere soltanto un atteggiamento di opposizione, di resistenza, che può tradursi in un arco piuttosto ampio di comportamenti, agli estremi del quale si pongono il suicidio e il tirannicidio». Spunti molto utili si riscontrano anche in Lana 1990, dove l’A. esamina, p. 332, l’epistolario apocrifo di Chione di Eraclea alla luce del dibattito politico romano tra Seneca e Quintiliano. Nota Lana, a proposito del ricorso di Seneca alla simulazione nei confronti del potente presente nel testo, p.  332 , «il filosofo nei riguardi del tiranno può usare le stesse arti del tiranno, e in primo luogo la menzogna, per combatterlo», giustificandolo con la notazione che, p. 335, «tutta la vita politica, quindi, in uno stato retto da un tiranno, si svolge all’insegna dell’inganno e della finzione, della prospóiesis». Un’attenzione particolare è riservata al confronto con Sen. Ep. 73, nella difesa dell’operato dei filosofi e del loro rapporto con il potere, verso il quale manifestano gratitudine per la tranquillità (tranquillum otium) che garantisce loro, permettendo una piena dedizione agli studi. Sono inoltre segnalate notevoli corrispondenze

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Proprio nella tragedia che rivela il maggiore equilibrio tra, da un lato, la rappresentazione e la riflessione sulla tirannia, e, dall’altro, la rappresentazione e la riflessione sull’atteggiamento verso la tirannia168, Seneca mostra i molteplici risvolti di queste problematiche attraverso le differenti voci dei protagonisti e, soprattutto, attraverso lo sviluppo delle relazioni tra i personaggi. Il rapporto finzione-potere e i motivi della falsa laus e dell’adulatio sono infatti presentati nel dramma attraverso gli occhi di entrambi i Pelopidi, con prospettive differenti. Atreo appare da subito monoliticamente fermo nel tracciare il proprio disegno politico, originale nel farsi teorico della propria crudeltà, una crudeltà cosciente e necessaria alla conservazione del potere, come ha molto finemente osservato Lanza169: e, tuttavia, Atreo non è ideatore soltanto della tra «l’uso spregiudicato della menzogna, che Chione si concede ai danni del tiranno» e la tradizione sofistica, la filosofia stoica (SVF 3, 148; Cic. De off. 2, 51; 3, 18-19; Seneca, Frag. 19-20 Haase; De ben. 7, 20, 1) e il modello oratorio di Quintiliano (12, 1, 36-38), che rifletterebbe l’insegnamento stoico nell’affermare la liceità della menzogna per la communis utilitas (i passi riportati sono citati dal Lana, p. 341). 168 La Penna 1979, p.  138; in questo senso, p.  140, l’A. nota che il finale della tragedia senecana non ammette possibilità, come è invece stato ipotizzato per l’Atreus di Accio, per la sollevazione o la rivolta: la piena accettazione della «necessità del principato, riconosciuta ormai anche dall’aristocrazia senatoria» che «non lascia spazio a prospettive del genere», è un altro, notevole, sintomo della latente sintonia con il momento storico. 169 Lanza 1977, p. 205, parla di «crudeltà consapevole, necessaria al mantenimento del regnum». Cfr. pure p. 202, «il tiranno che per Platone ingannava se stesso e si dibatteva, prigioniero della propria stessa ignoranza, ora si fa consapevole simulatore e ingannatore. Il suo inganno non si confronta con la verità, ma con la sincerità». Lanza propone inoltre interessanti considerazioni sulla relazione tra la figura ideologica del tiranno in Seneca tragico e il referente storico del principato, p. 201 s., definendo la crudeltà e la falsità ‘connotazioni nuove’, assenti o insignificanti nella rappresentazione del tiranno di V secolo, che si aggiungono a empietà, cupidigia, disfrenatezza e paura, che appartengono al tiranno della tragedia ateniese. Tra le figure di Lico nell’Hercules Furens, su cui si sofferma maggiormente lo studioso, e di Atreo nel Thyestes, esempi più lineari e lampanti di una consapevole crudeltà, si colloca l’originale personaggio di Egisto in Agamemnon, che compie una vera metabolé nel corso del dramma. Nella parte iniziale della tragedia, con Agamennone sulla strada del ritorno ma ancora lontano, Egisto si dilunga nel ricordare a Clitennestra la natura tracotante e superba del marito, acuitasi dopo la vittoriosa spedizione troiana, v. 251 s. Rex Mycenarum fuit | ueniet tyrannus: prospera animos efferunt. L’Atride, partito come rex, sta per rientrare in patria come tiranno, incarnando cioè quella forma di degenerazione del potere che si manifesta in chi non è in grado di conservare la moderazione nei successi e di controllare se stesso di fronte alla buona sorte. E tuttavia, lo scenario che si presenta in finale di tragedia è ben diverso: una volta eliminato il rivale e insediatosi al trono, il figlio di Tieste risponde con un netto rifiuto alla richiesta di morte avanzata da Elettra, qualificandosi come tyrannus esperto (v. 995, Rudis est tyrannus morte qui poenam exigit). Macchiatosi delle medesime colpe attribuite al rivale, Egisto subentra così al comandante greco anche nella gestione di un potere tirannico. Lui che fu exul et adulter (v. 884), nei versi conclusivi viene dipinto da

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propria crudeltà, è teorico altresì della propria simulazione (è il regnum che insegna fraudis et sceleris uias, v.  312) e di quella altrui (tam ferre quam laudare, laus  […] non nisi potenti falsa, v. 212), cioè di una finzione indispensabile al mantenimento del regno contro minacce esterne (l’ipotetica usurpazione del potere da parte di Tieste, v. 289, nunc regna sperat mea) e contro i pericoli interni di una aduersa fama presso il populus (v. 204 s.). Alla luce di queste considerazioni pare quindi di poter affermare che, accanto al repertorio e ai tratti fissati dalla tradizione retorica, in questa spietata figura di tiranno, e nella sua immagine del potere, si insinuino sfumature diverse, che, nell’ambito di un ambiente sociale e politico quale quello descritto nei testi esaminati, definiscono questo nuovo, capitale ruolo del binomio finzione/sincerità. La figura di Tieste, invece, è meno lineare, più problematica con il suo sdoppiarsi nel corso del dramma e con il suo progressivo allontanarsi dalla vera postestas del regnum interiore per convergere nel falsum nomen delle Argolicae opes. In un certo senso, il ritratto di Tieste mostra, sul piano politico, il lato peggiore dei compromessi e delle ambiguità cui spinge il potere, come mi pare si possa dedurre dal gioco di sottili rimandi interni su cui Seneca ne costruisce la figura, in linea con quanto avviene complessivamente nel suo teatro. In tale prospettiva, pertanto, credo che si spieghino alcuni aspetti del mutato atteggiamento del personaggio: giunto in scena estremamente guardingo verso le subdole trame del regno, richiama Tantalo alla prudenza di fronte all’ipocrisia della pietà fraterna, nella certezza che celi un inganno (v. 473, errat hic aliquis dolus), e confessa al figlio il vero motivo del proprio timore che, come per Pastore nel De ira (2, 33, 5, Quaeris quare? Habebat alterum […] Perierat alter filius, si carnifici conuiua non placuisset), non riguarda se stesso o una fraus che lo coinvolga direttamente, ma l’incolumità dei propri figli170, v. 484-486, Tant. In te quid potest? | Th. Pro me nihil iam metuo: uos facitis mihi | Atrea timendum. E tuttavia, una volta catturato dalla rete tesa dal sovrano ed entrato nei meccanismi del regnum, fatto di paradigmi adulatorii e di un totale annullamento della volontà del singolo nella costrizione imposta dal sovrano o nella coincidenza con la sua volontà, è lo Clitennestra come consors pericli pariter ac regni mei (v. 978): il capovolgimento di ruoli è completo. Un quadro del personaggio − diviso tra la caratterizzazione di adultero e quella di prodotto mostruoso di un’unione innaturale − si trova in Schenkeveld 1976; più di recente, ha dedicato ampio spazio alla figura di Egisto in Seneca e alla sua originalità rispetto ai modelli greci Marchese 2005, p. 109-174. 170 Si segnala sul punto Guastella 2001, p. 69 s., che rileva come, anche in queste affermazioni di Tieste, si possa leggere la contrapposizione tra due linee di discendenza antagoniste: la rivalità dei due fratelli Atridi, in altre parole, si tramanda ai loro figli.

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stesso Tieste, per tragica ironia, a consegnare nelle mani del fratello quei medesimi figli non più considerati come causa di metus, ma divenuti, al contrario, i garanti di un’impossibile fides, v. 520-521, obsides fidei accipe | hos innocentes, frater171, facendo così di se stesso il primo strumento dell’inganno e della vendetta di Atreo. Veritas e securitas all’interno dell’aula Nella riflessione sul rapporto tra ueritas e regnum si inserisce un altro tema centrale nella rappresentazione del potere secondo i moduli della tragedia senecana, ovvero l’incompatibilità tra ueritas e securitas. Alla natura e alla struttura del potere, infatti, appartengono doli, fraudes, dissimulazioni e finzioni in varie forme e tipologie, che scandiscono le azioni dei personaggi e i tempi del regno: quasi paradossalmente, è proprio la fedele adesione a questa prospettiva distorta a rendere secura l’esistenza dei singoli, a tutelarne l’integrità, in armonia con le scelte dei potentes, giungendo talvolta addirittura a permettere il riconoscimento di identità individuali e di rapporti di filiazione, come si può dedurre dalle asserzioni di Atreo nella fase organizzativa della trappola tesa a Tieste172. Su questo aspetto, dunque, ritengo sia opportuno soffermarsi, non solo alla luce della centralità che la securitas riveste nelle diverse tappe della partecipazione di Seneca al principato e nella riflessione sul suo valore socio-politico, già oggetto di un pregevole studio di Lana173, ma anche consideratane l’importanza nel corpus teatrale, dove il vincolo che lega i potentes ai propri sudditi, associato ai propositi di vendetta e alle vicende dei protagonisti, sfocia sempre nelle terribili catastrofi comportate dal coinvolgimento nel furor del regno, che entra prepotentemente nelle vite dei personaggi senza lasciare possibilità di scampo per chi si lasci tra Ancora evidente il contrasto con le precedenti parole di Tieste che aveva parlato di una fides tra fratelli, esistente nella sola dimensione dell’adynaton naturale, v. 476-482: Amat Thyesten frater? Aetherias prius | perfundet Arctos pontus et Siculi rapax |consistet aestus unda et Ionio seges | matura pelago surget et lucem dabit | nox atra terris, ante cum flammis aquae, | cum morte uita, cum mari uentus fidem | foedusque iungent. Si veda su questa tematica lo studio di Mazzoli (G.) 1992. 172 Il dubbio sulla paternità della prole, a causa del fraude turbauit domum (v. 224) attribuito a Tieste per cui domus aegra, dubius sanguis, v. 240, si risolve infatti con la complicità di Agamennone e Menelao nel delitto, v. 327-330, prolis incertae fides | ex hoc petatur scelere: si bella abnuunt | et genere nolunt odia, si patruum uocant | pater est. 173 Lana 1999. Il contributo dell’A. si sofferma soprattutto sul De clementia, individuando le implicazioni politiche del termine per la comunità civica, in un contesto storico in cui (p. 37) «la cura diventa un dato qualificante lo stato d’animo dei cittadini», e per lo stesso filosofo, coinvolto in prima persona nell’esperienza del principato e della ‘nuova’ Roma. 171

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volgere. Nella regalità tragica disegnata da Seneca, quies e securitas sono infatti prerogative, dal colore oraziano, di una vita trascorsa in un’umile casa, lontano dall’aula, e nella modestia di un’esistenza appartata, che si accontenta di raggiungere una serena vecchiaia, come viene più volte ribadito in diversi loci tragici, per lo più (e direi anche non casualmente174) nei canti corali che maggiormente alludono alla situazione della realtà contemporanea all’autore, a cui, del resto, sono già stati dedicati numerosi e preziosi studi175. Si tratta, quindi, dei versi conclusivi del primo coro di Hercules Furens, v. 198-201, dedicati al motivo della quies, in contrapposizione alla vita pubblica e che, infatti, precedono lo scontro con il tiranno Lico, uenit ad pigros cana senectus | humilique loco sed certa sedet | sordida paruae fortuna domus: | alte uirtus animosa cadit; dell’ultimo canto corale di Phaedra, v. 1126 s., seruat placidos obscura quies | praebetque senes casa securos, v. 1138 s., non capit umquam magnos motus | humilis tecti plebeia domus, voce che anticipa prima la confessione, poi la morte di Fedra e, infine, il tardivo ‘autoriconoscimento’ di Teseo (v. 1249, crimen agnosco meum), dell’augurio, ancora nel secondo coro, nel Thyestes, v. 400, plebeius moriar senex. In tale motivo senecano, e tuttavia altresì condiviso da altri autori come Lucano, Tacito e Giovenale176 nel segno del comune sentire del primo secolo del principato, si sintetizza l’amarezza del filosofo che, attraverso queste generiche immagini di anonimi frequentatori dell’aula, guarda non solo alla tradizionale e sfuggente scenografia tragica, ma anche all’attualità ben definita della politica imperiale. La situazione storica, dall’esterno, esercita in tal senso una certa pressione sulla rappresentazione drammatica di queste tematiche, dove l’artificio letterario si intreccia con l’esperienza personale, come è stato acutamente ravvisato in una sintesi che coglie esattamente il punto della questione: «durante il triste tempo della tirannide, la vecchiaia e la nobiltà sono un binomio dal sapore paradossale; solo i cortigiani fedeli, quelli che seguono sempre la corrente, hanno la possibilità di raggiungere le ottanta primavere e di vivere al sicuro a corte. Un problema che

Per la funzione dei cori si veda il già citato Mazzoli (G.) 1996. Cfr. almeno Giancotti 1988 e Degl’Innocenti Pierini 1999. 176 Cfr. Degl’Innocenti Pierini 1999, p. 59-77. Nell’analisi contenuta in questo esaustivo saggio sono altresì citati i seguenti passi: Luc. Phars. 5, v. 504-506, soluerat armorum fessas nox languida curas | parua quies miseris, in quorum pectora somno | dat uires fortuna minor; v. 526 s., praedam ciuilibus armis | scit non esse casas; Tac. Ann. 6, 10, 3, rarum in tanta claritudine, fato obiit (scil. Lucio Pisone); Iuv. 4, 81-98, praec. 96 s., sed olim | prodigio par est in nobilitate senectus. 174 175

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ha coinvolto lo stesso Seneca nella sua vita, sia durante il principato di Caligola sia dopo il distacco da Nerone177». Nella trasposizione tragica di queste preoccupazioni, un momento drammatico importante − in cui maggiormente si avverte la presenza di simili temi sullo sfondo del primo piano mitico − coincide con il dialogo tra il rex e un personaggio sottoposto, come nei casi già esaminati tra Atreo e il satelles e tra la nutrix e Fedra, a cui, per certi aspetti, si può aggiungere quello tra Edipo e Forbante. Il ruolo delle figure minori è stato spesso associato dalla critica alla manifestazione dell’interiorità del protagonista, la cui caratterizzazione viene messa in risalto attraverso il contrasto con i precetti di filosofia stoica distribuiti nelle sticomitie178. Vi è stato anche chi, come Martina, ha sottolineato invece, la dimensione politica di questi loci, che affianca e arricchisce quella strettamente letteraria: «è possibile rintracciare una forte presenza di elementi tradizionali e letterari, abilmente fusi con elementi caratteristici della struttura socio-politica della Roma del tempo e filtrati dalla diretta espressione senecana», elementi che riconosce in «empietà, sfrontatezza, cupidigia, paura, falsità, crudeltà». Concordo nell’idea che tali dialoghi possano anche essere letti, al di là della loro irrinunciabile funzione drammatica, come momenti di confronto tra il sovrano e personaggi che occupano una posizione di inferiorità, ma di stretta vicinanza al potere. Cortigiani che arrivano a fingere, adottando un linguaggio controllato o manipolando verità e menzogna sulla scorta della volontà del potens, e a compiere un atto spesso inscindibile dal metus esercitato dall’autorità regale. Ciò si risolve nel cedimento ai propositi del protagonista e talvolta finanche nel connivente concorso con quanto da questi orchestrato. Figure come la nutrix e il satelles, pur tentando inizialmente di contrastare il furor del rex, indirizzandolo verso principi di comportamento guidati dalla mens bona, mostrano di sapere che, lo si è visto, contendere cum superiore furiosum (De ira 2, 34, 1), finendo per piegarsi alle intenzioni 177 Ivi, p. 75. La studiosa avanza la convincente ipotesi che il brano di H. F. possa non essere stato formulato casualmente, ma «per la sua stessa carica di sentenziosità […], in un coro in cui appare molto caratterizzata l’opposizione verso i potenti e le sedi del potere, i reges e l’aula, insomma, assuma una valenza allusiva al presente e, forse, autobiografica». L’insistenza quasi ossessiva di Seneca per questa contrapposizione, confermata dai riscontri nelle altre tragedie del corpus, mi sembra possa costituire un valore aggiunto a questa posizione, segno della volontà di trasmettere un messaggio particolarmente avvertito dal filosofo e dai suoi contemporanei. 178 Tarantino 1984-1985; Martina 1986-1987; Martina 1988-1989. La funzione e la storia della figura della nutrix a partire dall’Odissea omerica sono ricostruite da Castagna 2007.

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dell’interlocutore e diventare complici attivi delle sue azioni, come la nutrix in Phaedra, che per prima cerca di intervenire personalmente su un Ippolito impermeabile all’amore (v. 267-273), o il satelles nel Thyestes, che rinuncia a ogni tentativo di moderare le posizioni di Atreo e stringe un patto di tacita fedeltà al sovrano (v. 334-335). Le ‘verità inascoltate’ dei cortigiani si pongono così in antitesi al furor dei reges ed espongono pericolosamente chi le pronuncia, costringendolo poi a rinunciarvi, a uniformarsi al pensiero dominante e a seguire lo sviluppo dei doli ideati dai potenti, cui partecipa in misura più o meno diretta. Il dialogo tra Edipo e Forbante è invece leggermente differente perché, in questo caso, non siamo di fronte all’ideazione o al compimento di un inganno inteso come macchinazione, ma a un momento altrettanto decisivo, ovvero lo svelamento di un inganno che ha la forma di un’interpretazione deviata, dell’error che ha impedito al protagonista di conoscere se stesso e la propria condizione. Nel passo, la verità di cui è depositario il pastore che custodisce il segreto di Edipo viene prima sollecitata (v. 850, ueritas odit moras), poi ordinata con un richiamo al metus e con le minacce di atroci torture (v. 852, fatere, ne te cogat ad uerum dolor; v. 862, huc aliquis ignem! flamma iam excutiet fidem) e infine svelata come arma da ritorcere contro chi è considerato un feroce tiranno (v. 864-866, Si ferus uideor tibi | et impotens, parata uindicta in manu est | dic uera), paradosso che mostra una volta di più la distanza con la mistificazione, oggettiva e soggettiva, del potere. Anche la figura di Creonte, che ricopre una posizione diversa nella gerarchia del regnum e che certamente non si può caratterizzare né dal punto di vista drammatico, né, per così dire, sociale, alla stregua di questi anonimi cortigiani, tuttavia sembra confermare l’impossibile binomio ueritas-securitas, proprio in virtù della trasformazione che il personaggio subisce nella prospettiva di Edipo. Un primo riscontro si ottiene considerando la preghiera di Creonte che, nel riferire al sovrano il vaticinio di Apollo − interpellato per sconfiggere il morbo che distrugge la città di Tebe − appare già certo, ancor prima di parlare e di verificare la reazione dell’interlocutore, di portare al sovrano un messaggio non gradito, v. 223-224, sit, precor, dixisse tutum uisu et auditu horrida, | torpor insedit per artus, frigidus sanguis coit, e che nondimeno si mostrerà nel corso del dramma comunque incapace di dissimulare agli occhi di Edipo il contenuto dell’atroce responso divino, v. 509-510, Etsi ipse uultus flebiles praefert notas | exprome cuius capite placemus deos. In questo caso l’episodio appare ancor più significativo se si considera la peculiarità della situazione tragica, in particolare per quanto concerne due fattori: in primo luogo, il fatto che

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il personaggio sta comunicando al rex la voce di una verità che è la verità per eccellenza, cioè appunto la verità divina, e in secondo luogo, la consapevolezza che, nonostante questo, il contenuto veritiero delle parole pronunciate, anche di parole che provengono da un dio, può mettere in pericolo la posizione del personaggio stesso e, senza preoccupazioni di presunta innocenza, giungere a minarne la securitas, secondo quanto la spia testuale del vocabolo tutum lascia intendere179. In un certo senso è inoltre ancora più rivelatore il seguito del dialogo, quando Creonte, nuovamente sulla scena perché messaggero di una profezia celeste, viene apostrofato da Edipo come suo erede al trono, ruolo proposto e, almeno fino a questo momento scenico, accettato favorevolmente dal sovrano (v. 399 s., Te, Creo, hic poscit labor | ad quem secundum regna respiciunt mea). Ma, agli occhi del re tebano, l’immagine positiva del successore si trasforma, nel giro di poche battute e soprattutto proprio in virtù di una scomoda verità rivelata, nel pericoloso sons che mina la stabilità del regno e merita per ciò di essere rinchiuso e punito (v. 707 s.)180. Ecco dunque che la voce sgradita al potere, soprattutto se esprime una verità che il potens, per un motivo o per un altro, vorrebbe celare, da chiunque provenga e con qualunque intento venga svelata, risulta sempre fonte di pericolo, colpisce la stabilità di una securitas che, all’interno dell’aula, è possibile raggiungere e conservare solo adattandosi alla prospettiva deviata del regno. L’unica strada alternativa181 è offerta di fatto da un’opposta scelta di vita che percorra le vie indicate dai passi corali evocati, dove al nomen di sovrano si sostituisce la condizione di plebeius e dove ai luccichii abbaglianti e agli insidiosi splendori del palazzo si preferisce la scarna dimora di una humilis casa. Vale forse la pena ricordare che l’insistenza dell’autore nella rappresentazione di questi temi nella luce positiva del coro, che invita a una rinuncia alla regalità materiale, o nella luce negativa degli avvenimenti drammatici destinati alla katastrophé, è tale da essere recepita anche dall’anonimo imitatore senecano Cfr. Codoñer 2003, p. 66, per il rapporto tra securitas e tutus: «Si en sentido filosófico securitas tiene correlato en securus y tranquillitas, y su antónimo en sollicitudo, políticamente tiene su correlato en tutus y su antónimo en periculum». 180 Cfr. quanto afferma Paduano, 20045 p. 11, in merito alla trattazione di questo motivo nel testo greco di Sofocle, dove pure è presente un «diverbio con Creonte», che «viene accusato di avere complottato contro il suo re e subornato ai suoi interessi la scienza divina di Tiresia»; nota infatti l’A. che «quella dimensione tirannica che nel poeta greco restava esclusa per il prevalere della fiducia nel corretto esercizio dell’autorità, qui lo resta per la preventiva e globale sfiducia in qualunque forma di esercizio dell’autorità». 181 Oltre alla morte, cfr. Cassandra in Ag. v. 797, Mihi mori est securitas. 179

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nell’Octavia, in cui i medesimi motivi vengono letti nella chiave storica della situazione politica nell’età neroniana. Così, la nutrix raccomanda alla protagonista un tranquillo e simulato obsequium, quale forzato assoggettamento alla volontà del tiranno Nerone, in quanto considerato l’atteggiamento più consono per preservarsi incolumis, v. 84-85, tu modo blando uince obsequio | placata uirum; v. 177, uince obsequendo potius immitem uirum182: a ciò si affianca, per la giovane moglie del princeps, la necessità di controllare le proprie emozioni (v. 60-71) e, soprattutto, di tenere a freno una parola potenzialmente troppo audace, v. 99, temere emissam comprime uocem183, sullo sfondo di un’atmosfera che, mi pare, può richiamare, oltre ai numerosi passi tragici di cui si è parlato, anche le analoghe situazioni già illustrate in De ira. La prospettiva indicata in queste pagine per delineare l’incompatibilità tra la parola sincera e la securitas tra le mura dell’aula e all’interno del regnum, non è comunque l’unica adoperata da Seneca per declinare tale rapporto: esiste anche un diverso punto di vista che potremmo definire ‘interno’ al potere, teso proprio a mostrare come quest’ultimo non solo sia intollerante verso la parola sincera proveniente dall’esterno, ma sia, a sua volta, del tutto estraneo a essa, nella misura in cui la verità non rientra nel linguaggio dei potentes, non appartiene alla lingua parlata da e in un regnum fondato su inganno e mistificazione. In un potere che è espressione di falsità in ogni suo aspetto anche la comunicazione verbale si allinea in tal senso, giocando sul contrasto tra autenticità e apparenza e servendosi di strumenti linguistici che sono già di per sé ingannevoli, come artifici lessicali, ambiguità di un linguaggio oscuro, trappole verbali da indirizzare a personaggi che non sono in grado di riconoscerle per scarsa accortezza, per mancanza di esperienza, per debolezza o per ingenuità. L’atteggiamento prudente e accorto di Tieste nel dialogo con il figlio Tantalo (v. 421-490) è infatti frutto dell’esperienza individuale del personaggio, che ha provato le gioie e la stabilità di una vita da exul, v. 418 (fortis fui laetusque), ma, non appena rivede la patria (v. 404-410), si sente vinto da un metus che nasconde un cattivo presagio per la securitas184 (v.  418 s. nunc contra in metus | reuoluor). Il contrasto viene enfatizzato dall’avverbio contra, che definisce due differenti stati d’animo (felicità/timore), due differenti condizioni di Ferri 2003, ad loc. p. 151 propone paralleli con Soph. El. 396 e Eur. Hec. 404. Ivi, p. 153, che insiste sul valore metonimico di uox per uerba. 184 Infatti Tieste parla di securas dapes, v. 450, nel descrivere i tratti della sua vita lontano da Micene. 182 183

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vita (exul/rex) e due differenti momenti drammatici (passato/presente). Varcare la soglia del regno significa per Tieste cedere in primo luogo alla manipolazione linguistica operata dal fratello, secondo modalità che in parte sono già state evidenziate (v. 530-545). Egli diviene così la praeda del cacciatore Atreo, catturata, molto prima del banchetto cannibalico, nella trappola di plagae innanzitutto verbali, di cui non è in grado di riconoscere il senso autentico e dalle quali si lascia imbrigliare nel gioco di simulazione orchestrato dal suo antagonista che ne causerà la rovina185 (v. 970-1031). Una prospettiva simile si riscontra in maniera ancora più accentuata e radicale nella Phaedra, dove tutto sembra rispecchiare il contrasto di fondo tra l’isolamento di Ippolito in una vita che siluas amat (v. 485) e che fugge i lussi regali (v. 517) e il mondo dell’urbs, cioè, di fatto, dell’aula, dove verrà ideato e avrà compimento il nefas incestuoso. Nel rispondere al tentativo della nutrice che tenta di piegarlo alla civiltà, il figlio di Teseo persevera nel mostrarsi refrattario a ogni contatto con il potere, annoverando anche la manipolazione del linguaggio, al limite della vera e propria menzogna, tra gli aspetti negativi del regno. Nell’«Arcadia d’Ippolito, non inconsapevole vita primitiva e naturalità selvaggia, bensì meditata ed esperta scelta morale186», non c’è posto e non è ammessa possibilità per le ipocrisie della vita regale, per frodi che, pianificate fra simili, si consumano a danno della stessa specie umana o per le parole mendaci o ambigue, plasmate per distorcere fallendi causa, che caratterizzano le relazioni nel regnum, v.  490-496, non ille regno seruit  […]

185 In maniera non troppo difforme da quanto avviene nell’intrigo comico, anche se di segno contrario rispetto all’exitus che nella tragedia è anche e in primo luogo exitium (cfr. Med. v. 51, te in exitium para); penso soprattutto alla commedia plautina, dove proprio il termine plagae, attinto al lessico della caccia per indicare la rete con cui catturare l’animale, presenta un numero considerevole di occorrenze (As. v. 276; v. 557; Capt. v. 963; Poen. v. 647-648; Trin. v. 237). Al di là del contesto e delle chiare differenze di tono del passo e dell’opera nel suo complesso, sembra che si adattino al Tieste senecano le parole con cui il seruus descrive Pirgopolinice, Mil. Gl. v. 1388 s., ipsus illic sese iam impediuit in plagas. | Paratae insidiae sunt, da mettere a confronto con quanto si riscontra nell’a parte di Atreo, durante il quale il tiranno fa riferimento al fratello caduto ‘da solo’ in trappola, v. 491, plagis tenetur clausa dispositis fera, v. 494 s., uenit in nostras manus | tandem Thyestes. Venit, et totus quidem. Altre considerazioni sulla metafora della caccia a indicare l’inganno sono svolte nella sezione dedicata all’analisi dell’ambiente naturale nella Phaedra. 186 Cfr. Petrone 1984, p. 78 s., che riconosce nelle parole di Ippolito i tratti del moralismo romano di stampo sallustiano, richiamato da esplicite allusioni al proemio del Bellum Catilinae (Cat. 4, 2).

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nec omnes conscius strepitus pauet | aut uerba fingit187. È stato spesso correttamente notato che la scena della rivelazione dell’amore di Fedra per Ippolito è costruita sulla scia di un double entendre, sullo scarto tra i codici linguistici dei due personaggi, su un «esasperato contrasto tra detto e non detto che traduce in termini drammatici il conflitto tra furor e pudor188», in particolare per quanto riguarda il registro elegiaco della nouerca ignoto al suo amato. E, tuttavia, il quadro si completa e si chiarisce proprio alla luce di questi versi, se si considera che il dialogo con Fedra segna effettivamente l’ingresso di Ippolito in quel regnum che con fermezza ha sempre cercato di tenere lontano da sé. Infatti, è nel momento in cui egli accetta di ricoprire, seppur per breve tempo, il ruolo paterno (v. 633, ac tibi parentis ipse supplebo locum) nella duplice veste di rex e, inconsapevolmente, perché solo nelle speranze della matrigna, anche di sposo, che Ippolito si lascia contaminare al tempo stesso sia dalla femina dux malorum et scelerum artifex (v. 559) contro cui aveva scagliato una dura, crescente, invettiva (v. 566, detestor omnes, horreo, fugio, execror) sia, appunto, dagli inganni della vita di palazzo, nell’aula dove la fraus domina sovrana (v. 982, fraus sublimi regnat in aula). Il furor del regno e 187 Cfr. ThLL, VI, 776, 50. Coffey-Mayer 1990, ad loc. p. 135, traduce il fingit con «distorts to suit his own ends, as in H. F. 251-252, felix scelus | uirtus uocatur». La centralità del disagio comunicativo tra sincerità, menzogna, silenzio, tra parola orale e parola scritta, è già motivo dominante nell’Ippolito euripideo, dramma della «potenza della parola e delle sue contraddizioni», su cui ha scritto pagine notevoli Longo 1985. Il tema è stato oggetto di vari studi, soprattutto per il dramma greco: si ricordano qui almeno Knox 1979, con una prospettiva particolare sull’aspetto religioso; Lanza 1985, che si segnala soprattutto per l’insistenza sul motivo del «coprire, nascondere, tacere» come «preoccupazione di Fedra», p. 103; Minadeo 1994, concentrato sulla sfera etica (l’A. segnala anche lo studio di B. Goff, The Noose of Words: Reading of Desire, Violence and Language in Euripide’s Hippolytus, Cambridge 1990, per il quale parla di un’analisi semiotica. Non mi è stato possibile, purtroppo, consultare questo volume). Per lo specifico della Phaedra latina Segal 1986, p. 156 s; Wesołowska 1990, 1992 e 2000; Tschiedel 1997, che mette in luce le astuzie e l’intento doloso della protagonista; Van Der Poel 2006, con considerazioni sul momento e sulle strategie della rivelazione d’amore della matrigna; Bloch 2007, il quale, ripercorrendo le ambiguità di Fedra, ne nega una natura manipolatrice; Calabrese 2007 e 2009, due studi incentrati sui meccanismi di comunicazione presenti nella tragedia a partire da un diverso approccio metodologico, fondato sulla pragmatica della comunicazione. In generale, per quanto concerne invece le implicazioni del silenzio in ambito teatrale (greco e latino, tragico e comico), sono da vedere Bardon 1943-1944; Winninczuck 1972; Taplin 1972; Ciani 1983, Ricottilli 1984 e 1994, Montiglio 2000, praec. p. 158-212. Si noterà, inoltre, la grande innovazione senecana, che inserisce anche una lettura politica, ponendo i disagi della comunicazione nella prospettiva del regnum, in armonia con la centralità della riflessione sul potere che caratterizza la sua produzione teatrale. 188 Su questo aspetto molto bene Morelli 1995, p. 79 s.; qualche utile notazione anche nel precedente Segal 1986, praec. p. 154-160.

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il furor d’amore, sono quindi due aspetti che nello sviluppo dell’intreccio drammatico si intersecano e si sovrappongono costantemente, con notevoli ripercussioni sulle vicende dei protagonisti. Così, Ippolito non solo si conferma lontano dal lessico e dall’ipotesto elegiaco delle parole di Fedra, ma si dimostra anche del tutto incapace di entrare nei meccanismi che dominano la vita di corte, di parlare cioè il linguaggio di quei uerba ficta, cui lui stesso aveva fatto riferimento come parte integrante di quel mondo a cui si è sempre sottratto se non addirittura negato. Avendo eletto a scelta di vita un’esistenza trascorsa all’insegna di un genuino e tenace distacco da ambizioni e intrighi regali, il giovane figlio di Teseo non ha gli strumenti per decodificare sofismi a lui del tutto estranei, contrapponendo all’oscurità delle equivoche parole di Fedra la richiesta di una naturale simplicitas compatibile con il suo mondo, v. 639 s. ambigua uoce uerba perplexa iacis | effare aperte189, poiché, come ammonisce altrove il filosofo, aperta decent et simplicia bonitatem (Ep. 48, 12). Anche in questo, pertanto, sta a mio avviso l’inattitudine di Ippolito a intuire una fraus che gli è aliena, che esula dal mondo silvestre e animale, giocata sulle armi infide di un’ars non venatoria di cui finirà per essere vittima, cacciatore divenuto la preda, appunto, caduta nella trappola dell’amante cacciatrice. Proprio alla luce di queste considerazioni, credo possano affiorare ulteriori sfumature all’interno del dramma, ancora un volta evocate dal sottile gioco linguistico del poeta: non è infatti casuale che la verità di Fedra venga svelata con la confessione dell’inganno verbale, attraverso l’«ossessionante nota della finzione», secondo la definizione che ne ha dato Giomini190, con cui la nouerca ammette le proprie colpe a Teseo: falsa memoraui […] mentita finxi (v. 1192-1194). È il pieno compimento e la più terribile realizzazione, appunto, di quel uerba fingere che Ippolito aveva temuto e ostinatamente rifiutato come sintomo della degenerazione e della corruzione del regno. 189 È molto raffinata la scelta di Seneca di attribuire la medesima formula anche a Teseo, che chiede alla nutrice parole chiare sul male che affligge la moglie, v. 858-859, perplexa magnum uerba nescio quid tegunt. | Effare aperte quis grauet mentem dolor. Per entrambi, personaggi ‘non comunicanti’, destinati a non incontrarsi mai direttamente nel corso del dramma, padre e figlio, uir e iuvenis, rex e «sangue di Amazzoni» (genus Amazonium, v. 232), con modalità differenti, la richiesta sarà foriera di rovina. Cfr. Solimano 1986, p. 99: «questa identità non si limita alla semplice ripetizione verbale, ma consegue effetti analoghi: sia Ippolito, invitando Fedra a parlare, sia Teseo, sollecitando la Nutrice e Fedra, provocano l’impudica dichiarazione d’amore prima e la calunnia poi, determinando quindi l’aggravarsi e il precipitare della situazione». 190 Giomini 1955, p. 105. Parla di «pleonasm that stresses the significance of her confession» Wesołowska 2000, p. 350.

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Fides e fraus nel sistema di valori del regno tragico Nell’immagine del potere che Seneca attribuisce al proprio teatro, nel segno di quel capovolgimento e rovesciamento di valori e prospettive a cui più volte si è fatto riferimento, il legame tra fides e fraus, che altrove avrebbe la forma di un impossibile ossimoro, occupa una posizione particolarmente rilevante. Se da un lato, con le sue molteplici sfaccettature e applicazioni, viene annoverata nel gruppo dei valori negati dalle condizioni di vita all’interno dell’aula − sia che si tratti del vincolo matrimoniale, (Ag. v. 79-81, iura pudorque | et coniugii sacrata fides | fugiunt aulas), sia che si tratti del principio fondamentale nel patto tra cittadini, base della vita civile, (Ag. v. 112-113, peiere mores ius decus pietas fides | et qui redire cum perit nescit pudor) − e relegata alla sola dimensione privata (ancora Thyest. v. 217 s., sanctitas, pietas, fides | priuata bona sunt), dall’altro, in realtà, la fides compare in una forma specifica, come elemento imprescindibile su cui si costruisce la macchinazione e la realizzazione del dolus. Questa singolare caratterizzazione come fides nel male e questa diversa funzione che concerne sia la soggettività dei personaggi tragici sia la comunità politica, risultano evidenti soprattutto nel Thyestes in virtù proprio della centralità rivestita dalla riflessione sul potere nelle dinamiche del dramma. Sono degne di nota le osservazioni a riguardo proposte dall’analisi della pièce a opera di Picone, per il quale «la fides è il principio sacro e inviolabile che è alla base dei rapporti tra i cives: la sua rimozione comporta, sul piano delle relazioni intersoggettive, l’impossibilità per il singolo cittadino di credere alle promesse che gli vengono fatte o alle garanzie che gli sono offerte. […] il destino che attende Tieste non è frutto della mostruosa malvagità di Atreo, ma della stessa logica del regnum che ha sostituito i fondamenti etici della convivenza civile con la prassi della sopraffazione e della violenza. In quest’ottica, la fraus si rivela nella sua vera dimensione: non espediente accidentale, ma modo di essere del regnum, sostituito al necessario vincolo dell’amicitia tra i cives che era connesso in modo indissolubile al credere191». Si può tuttavia suggerire anche una diversa lettura, non troppo distante dall’interpretazione avanzata dallo studioso, ma con una sfumatura differente: nell’ordine del regno descritto da Atreo, comune ad altre scenografie tragiche di Seneca, è forse più opportuno parlare non tanto di vera e propria rimozione della fides, se si intende indicare, con tale formula, una radicale cancellazione o una totale assenza di questo valore nello spettro dei princìpi su cui si fondano le relazioni tra i personaggi, Picone 1984, p. 62.

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quanto soprattutto di un capovolgimento di prospettiva che avvolge e coinvolge la struttura stessa dei vincoli sociali, sfociando in un paradossale slittamento della fides nel campo apparentemente più lontano da questo concetto, quello appunto della fraus. Stando a quanto rileva Freyburger sulla base dell’etimologia, delle occorrenze, delle iuncturae e della storia linguistica dei vocaboli in questione, la fraus viene intesa originariamente, prima quindi di essere assorbita nel significato più generico di semplice méfait, come fracta fides, e viene spesso classificata, appunto, in netta antitesi alla fides («“fraus” se trouve ainsi exprimer très souvent une atteinte à la fides»)192. Tale definizione, che in ambito teatrale ha un ruolo fondamentale nell’intreccio comico, come dimostrano i testi plautini, vera e propria miniera sia per indagare queste tematiche dal punto di vista della finzione drammatica, sia per scavare nella mentalità e nella morale della società romana arcaica193, lascia aperto un punto interrogativo sull’operazione compiuta da Seneca nel più tardo adattamento tragico, in cui i due concetti non appaiono come contraddittori o antitetici, ma sembrano invece avvicinarsi e talvolta incrociarsi nello svolgimento della fabula. Sono il totale rovesciamento di valori che anima la rappresentazione drammatica senecana e l’orizzonte deviato dell’ordinamento politico, sociale, naturale in cui si muovono i protagonisti mitici, a rendere ciò possibile, con la conseguenza che, nelle relazioni intersoggettive delle dramatis personae di cui parla Picone, la fides esiste e si realizza nella sola modalità consentita dal nuovo ordine costituito, secondo l’impronta personale che il filosofo conferisce alla propria elaborazione tragica, quella di una quasi impossibile e contraddittoria fides nella fraus, cioè di fides a servizio della fraus. Tale modalità, quindi, ha la forma sia del vincolo che lega figure secondarie come il satelles o la nutrix alle azioni dei protagonisti (e, di conseguenza, alle loro dissimulazioni o finzioni), sia dell’arma o dello strumento che può contribuire a garantire il successo nell’inganno. In questo senso e con la prima delle due tipologie, si spiega come l’unica possibilità di tacere all’interno dell’aula si dia nella realizzazione del dolus: a una simile tacita 192 Freyburger 1986, p. 84. L’A. ripercorre la storia del termine fraus e il rapporto tra fraus e perfidia in opposizione alla fides; brevi considerazioni sul Thyestes a p. 82, nell’ambito della dipendenza di foedus da fides. Va osservato che il rapporto tra fides e fraus viene declinato con significative implicazioni anche nella commedia romana, come attestato anche da ThLL, VI/1 674 75. Sul rapporto tra fides e menzogna nella cultura romana Petrone 1990. 193 Freyburger 1977, p. 119, punto di partenza, ad esempio, per indagare il fondamento reale della differenza tra il concetto di «fides chez un homme libre et l’absence affirmée, à maintes reprises, de bonne foi chez l’esclave».

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complicità, giudicata non pericolosa e del tutto necessaria per il buon esito delle vicende, si richiamano più volte, infatti, diversi personaggi tragici. È il caso, ad esempio, del cortigiano che, dapprima, contrappone se stesso e la propria esperienza a quella degli ingenui figli di Atreo, sprovvisti per la giovane età dell’accortezza necessaria a salvaguardare la fraus con il silenzio194 (v.  317-321: tacita tam rudibus fides | non est in annis […] tacere multis discitur uitae malis) e, in seguito, non manca di testimoniare al sovrano la propria fedeltà, affermando di preservare ben celati nel petto, quindi appunto tacendoli, i propositi del tiranno (v. 333-335: At. Nostra tu coepta occule | Sat. Haud sum monendus: ista nostro in pectore | fides timorque, sed magis claudet fides). Ne risulta che, in tale contesto, la fides non occupa più un ruolo fondamentale nell’etica della comunità − sostituita, come si è detto, dall’etica del solo rex − ma scivola sul piano del patto che si instaura tra l’ideatore dell’inganno e i complici, nel contesto più ampio di un quadro politico, che coincide con la dimensione del regno, in cui al foedus pubblico, che regola le relazioni tra cittadini di pari condizioni, si è sostituito un foedus privato, costruito sulla base del metus, che lega un personaggio regale a uno di rango secondario o inferiore e che rappresenta la tappa iniziale nel compimento degli scelera. La caratterizzazione della fedeltà o della lealtà di queste figure, pertanto, non si spiega semplicemente come omaggio a una formula retorica canonica e ben consolidata, ma si comprende anche nel segno di tale accezione che colora e complica le relazioni tra i personaggi. Perciò Medea fa riferimento alla fides della nutrice nella condivisione dei propositi di vendetta, v.  568569, Tu, fida nutrix, socia maeroris mei, | uariique casus, misera consilia adiuua, e accompagna queste parole all’elenco degli strumenti materiali dell’inganno, il mantello e la collana, minuziosamente descritti (v. 570578). Anche l’apostrofe di Ippolito in Phaedr. v.  431 s., o fida nutrix, turbidam frontem gerens | et maesta uultu?, che si può leggere quale semplice richiamo a un sintagma tradizionale, al di là della posizione apparentemente irrilevante dal punto di vista drammatico e del tono in certa misura stereotipato con cui viene pronunciata, sembra tuttavia velata di una pungente ironia tragica poiché la nutrix è fida, se non altro agli occhi del pubblico onnisciente, innanzitutto e soprattutto nel compito di custodire il segreto d’amore della sua domina, che cerca di assecondare Il legame tra i due elementi si rileva anche nella sorta di cortocircuito innescato da Atreo, quando ipotizza un intervento di Agamennone e Menelao come ministri dell’odio paterno: il sovrano vede nella loro complice disposizione alla fraus la via per dissipare i dubbi sull’incerta proles e riconoscere la vera identità dei figli. 194

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con la dovuta scaltrezza, v. 426, utendum artibus, e che costituisce il vero motivo del suo incontro con un ancora ignaro Ippolito. Nella medesima tragedia, del resto, è la voce del coro a inchiodare ogni forma di fides all’inganno che pervade la geografia politica del regno e che finisce per travolgere inconsapevolmente lo stesso Teseo, il cui fidum pectus si mette a servizio delle menzogne di Fedra. Così, all’interno del dialogo che esplicita le false accuse al figliastro, nel tentativo di convincerla a parlare per comprendere le ragioni che la spingono al suicidio, il re di Atene promette all’interlocutrice, tra le altre cose, anche di nascondere e dissimulare, tramite appunto la garanzia della fides, segreti di cui certo non immagina la reale entità, v. 875, Effare: fido pectore arcana occulam, dietro ai quali si celano le trame da cui scaturirà la catastrofe195. La profonda ambiguità delle parole di Teseo si coglie grazie allo scarto tra differenti livelli cognitivi, nel contrasto tra l’ignoranza di chi parla e la prospettiva onnisciente, che accomuna Fedra, l’interlocutore sulla scena, e il lettore, che a sua volta rappresenta l’interlocutore dell’autore nel testo scritto. Dello stesso tenore, e con analoghe implicazioni nella cornice del regnum, sono le affermazioni del senex Corinthius, il quale esorta Edipo a confidarsi e a rivelare il motivo del proprio timore, anche se, in questo caso, siamo nell’ambito di una diversa morfologia di inganno che non si declina come machinatio. Il vecchio servitore, nel tentativo di convincere il sovrano, fa leva appunto su una lealtà del silenzio, su una tacita fides, che normalmente (soleo) regola le relazioni tra reges e sottoposti, v. 798799: Effare mersus quis premat mentem timor | praestare tacitam regibus soleo fidem. Filo comune che attraversa l’intero corpus tragico, il prestarsi della fides alla fraus si riscontra anche in Agamemnon, nel confronto sul tema tra Clitemnestra ed Egisto: siamo nel momento drammatico in cui è in atto il tanto problematico ripensamento196, con la regina che 195 In modo analogo, la fides a cui Teseo si appella nella preghiera rivolta al padre per punire il figlio ritenuto colpevole, si lega indissolubilmente ma inconsapevolmente all’apparente colpevolezza di Ippolito, quindi, ancora una volta, alla mistificazione operata dalla nouerca, v. 946-953, Non cernat ultra lucidum Hippolytus diem | adeatque manes iuuenis iratos patri | fer abominandam nunc opem gnato, parens […] redde nunc pactam fidem. 196 Su questo si veda il commento di Tarrant 1976, ad loc. p. 230, che nota come «the artificial character of such sudden alterations should not be taken as merely a sign of poor dramatic technique» e parla di maggiore interesse da parte di Seneca per «the rhetorical expression of situations or attitudes than in the realistic interest furthers dramatic tensions: in showing the conspiracy of Aegisthus and Clytemestra so close to dissolution he plays against the audience’s foreknowledge of its ultimate success». Sulle accuse di incoerenza alla figura di Clitemnestra in questo passaggio Croisille 1964, p. 467, propone al contrario, di riconoscere nella donna una «attitude fort habile: elle va feindre le repentir,

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dichiara di voler tornare sui suoi passi cercando, se non il perdono di Agamennone, almeno la complicità nella fedele discrezione, se così si può dire, dell’entourage di corte197, mentre i due personaggi discutono, con opposte posizioni, sulla presenza e sulle condizioni di una fides in limine regio, v. 284-287: Cl. Delicta nouit nemo nisi fidus mea | Aeg. Non intrat umquam regium limen fides. | Cl. Opibus merebor ut fidem pretio obligem | Aeg. Pretio parata uincitur pretio fides. A prima vista, le parole di Egisto sembrano inequivocabili nel sancire l’impossibilità di una fides all’interno dell’aula, e, tuttavia, solo pochi versi dopo, nelle affermazioni di Clitemnestra con cui si chiude il dialogo, la fides viene evocata, al contrario, come elemento non solo presente, ma perfino determinante nelle relazioni tra le personae e nello svolgimento del progetto di vendetta, svelando dunque la realtà distorta di tale valore nella struttura del regno. Messi da parte i dubbi, infatti, la protagonista si mostra pronta a cedere a una leale fedeltà nel perseguire il male e nel dare seguito al patto fraudolento tra i due amanti, v. 307, quae iuncta peccat debet et culpae fidem, che garantirà la rivalsa di entrambi e una nuova investitura politica per Egisto (v. 978; v. 995), con una ripresa del concetto di fides che torna «rovesciato e sfigurato198». Questa particolare funzione della fides, ammessa e radicata unicamente nella dimensione dell’inganno, si insinua a tutti i livelli, non solo in senso attivo, cioè nella pianificazione e nel compimento dei doli che coinvolgono i regnanti come auctores, ma anche in senso passivo, nell’eventualità che di essa si serva chi mira a sovvertire, con mezzi subdoli, l’organizzazione e la gestione del potere: così, ad esempio, si comprende perché Edipo voglia intuire, dietro alle parole di Creonte, la parvenza e il pericolo di una fides come simulatio, volta contro di lui all’insidia e elle va pousser Egisthe au désespoir en lui faisant croire qu’elle l’abandonne […] Ce sera là le meilleur moyen pour lui donner une énergie puisée dans ce désespoir même et pour l’affermir dans l’enterprise criminelle». Ancora diverso lo sguardo di Grimal 1983: «La reine invoque, pour expliquer sa nouvelle attitude, son amor coniugalis […] En réalité, ce qu’elle regrette, mais qu’elle espère retrouver, c’est son innocence. Et pour cela, elle est prête à pardonner». Molto più convincente mi sembra la posizione di Garbarino 1982, p. 325, che intravede invece una continuità nel personaggio e fa riferimento per questi versi a «una serie di brillanti variazioni sul tema, quasi un saggio di oratio in utramque partem a più voci sul tema deliberat Clytaemestra an Agamemnonem a bello Troiano redeuntem interficiat». 197 Nota Tarrant 1976, ad loc. p. 225 che «the ‘reliable person’ designated by fidus must in this context be the nutrix». Sulla fides utile il confronto proposto dall’A. con Ennio, sc. 381 R3. 198 Ne parla Garbarino 1982, p. 331, che definisce questa fides come «lealtà nella colpa, come fedeltà nel male».

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all’usurpazione del regno, v. 685-686: Cr. Parumne me tam longa defendit fides? | Oed. Aditum nocendi perfido praestat fides. Si è fatto riferimento anche a come la fides possa divenire essa stessa strumento di inganno, nella modalità cioè in cui sia simulata o falsa, presentata all’antagonista come garanzia di sincerità necessaria alla realizzazione della fraus. La parvenza di lealtà che Atreo si esorta a manifestare di fronte a Tieste, v. 507, praestetur fides, era stata precedentemente sollecitata dalla domanda del satelles, v. 294, quis fidem pacis dabit?, nella fase di pianificazione e di organizzazione della trappola, e appare da subito al lettore onnisciente, già al corrente di quanto espresso ai v. 217 s., come la strategia che il tiranno intende adottare nel perseguire il compimento del nefas, lo stratagemma indispensabile per avvicinare il fratello e portare a termine quanto stabilito, stringendo con lui un patto che è interamente fondato su un inganno. Lo avvertirà anche Tieste, ma solo dopo la rivelazione delle terribili dapes, quando sarà ormai troppo tardi, scoprendo che fides, foedus, gratia, altro non sono, nella realtà del regno, che prodotti di false apparenze e coscienti simulazioni, v. 1024, Hoc foedus? Haec est gratia, haec fratris fides? con un preciso richiamo di corrispondenze lessicali rispetto alle parole di Atreo che contribuisce a enfatizzare il peso dell’inganno e lo scarto conoscitivo di cui egli è stato, finora, prigioniero199. Un’ultima considerazione va fatta sulla presenza del tema fides nell’episodio dell’agon tra Ulisse e Andromaca, che vede confrontarsi non solo due note figure e due chiare identità mitiche, ma anche due opposte condizioni esistenziali, con il vincitore greco da un lato, che detta legge nell’imporre la volontà propria e dell’intero popolo greco (v. 526 s.; 529 s.; 550 s.), e la prigioniera troiana dall’altro, che subisce la forza del potere e che, già sconfitta per l’esito della guerra, si troverà nuovamente abbattuta nei propri intenti al termine del dialogo con l’Itacese. Nel passo la fides, ancora una volta, appare in stretta connessione alla fraus che ha luogo sulla scena e risulta determinante se non per il suo successo, sicuramente almeno per la sua attuazione. I due personaggi discutono della sorte del piccolo Astianatte, in uno scambio di battute pregno, come già si è detto, di riferimenti a finzioni, simulazioni, astuzie: in questo particolare passaggio drammatico, Andromaca piega la propria fides a servizio dell’inganno escogitato contro l’eroe greco e, nel tentativo di salvare il figlio, si mostra impassibile di fronte alle minacce ricevute Sarebbe interessante poter elaborare un confronto con il ruolo della fides nell’Atreus di Accio, dove comunque il tema doveva essere in qualche misura presente, stando alle parole di Tieste, fr. 60 D., (Thyestes) fregistin fidem! (Atreus) Neque dedi, neque do infideli cuiquam! 199

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(v. 578-581) e ligia a quella che Ulisse definisce, dalla superiorità del suo punto di vista, una stulta fides, quasi una inutile ostinazione destinata a esser disattesa, v. 587, Stulta est fides celare quod prodas statim. Ma solo pochi versi dopo, quando l’interlocutore chiede alla sposa di Ettore una prova irrefutabile della morte di Astianatte, una garanzia sulla veridicità di quanto affermato da sottoporre al vaglio dei Danai, v. 598, Et esse uerum hoc qua probas Danais fide?, la fides di Andromaca si svela in tutta la sua ambiguità, scoprendo il legame diretto con l’inganno, quasi inverando le affermazioni rivolte ad Alcmena dall’Anfitrione plautino sull’inaffidabilità del iurare da parte femminile, v. 836 s. Mulier es, audacter iuras200. Andromaca si trova nella posizione delicata di chi deve affrontare un avversario difficile da convincere, servendosi di artifici verbali e di espedienti retorici, cioè delle stesse tecniche nelle quali l’eroe greco può vantare il primato assoluto, alla ricerca di un precario equilibrio tra le proprie emozioni e le proprie verità201 e la necessità della simulatio. Basta tuttavia poco per scorgere l’incapacità e l’inesperienza della donna troiana nel padroneggiare fino in fondo l’uso perverso del linguaggio e le falsità della parola: sebbene cerchi di mentire o solo di farlo credere, Andromaca mantiene una sincerità di fondo che si scontra, invece, con l’arte e con la dimestichezza di Ulisse202. Infatti, nella risposta, che ha la forma di un giuramento tutt’altro che lineare (v. 599-604), già definito «serment à double face203» e «enigma or riddle204» si intrecciano doppi sensi, polisemie, anfibologie sintattiche, manipolazioni ed escamotages 200 Con il giuramento di Alcmena, infatti, si fomenta una situazione già equivoca: la donna giura per confermare ad Anfitrione quanto detto precedentemente (che per lei corrisponde al vero), ma la sua parola non è degna di fede. 201 Su questo aspetto è condivisibile l’interpretazione nel commento di Caviglia 1981, ad loc. p. 69: correttamente l’A. sottolinea come la protagonista del dialogo non venga da Seneca ridotta al semplice ruolo di ingannatrice, ma le vengano attribuite, per mezzo dell’ambiguità, tante «sue» verità «che danno strana luce e sfuggenti riflessi alle sue parole». 202 Proprio nell’espressione di un sentimento autentico e nell’incapacità di mentire (le parole di Andromaca, per quanto ambigue, appaiono sempre sincere) sta la difficoltà nell’ingannare Ulisse, l’omerico polytropos, il sic notus Ulixes di virgiliana memoria (Aen. 2, 44), che, come già si è detto, appare anche in Seneca del tutto consapevole del proprio ruolo, v. 568 s., non est facile tibi | decipere Ulixen. 203 Herrmann 1924, p. 26. 204 Canter 1925, p.  54: l’episodio viene inserito nella più vasta categoria di «expression of ambiguous, obscure, enigmatic or paradoxical character. Their real meaning, latent in some word or phrase, is discovered by the penetration of the hearer into the look of the speaker, and in the emphasis of the voice employed by him»; parole, queste ultime, che ben si applicano allo sguardo di Ulisse sulle incertezze di Andromaca.

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linguistici, che permettono un’interpretazione a più livelli per far trapelare il dolus escogitato e mantenere vivo l’intreccio tra la realtà e l’apparenza205. Nelle intenzioni del personaggio fautore della messa in scena e nella consapevolezza del pubblico, la fides, a cui la sposa di Ettore viene richiamata da Ulisse, ha lo stesso valore del praestetur fides a cui si incita Atreo, si configura cioè come una lealtà simulata, come lo strumento con cui portare a buon fine il proprio piano, come l’arma di realizzazione dell’inganno nella performance che deve preservare il nascondiglio del figlio, con esiti che sappiamo divergenti per la donna troiana e per il tiranno di Micene. Diversamente da Tieste che cade nella trappola dell’apparenza, in Troades la fides di Andromaca appare sincera agli occhi del destinatario solo per un breve istante, v. 605-608, innescando esitazioni destinate presto a svanire: Ulisse giunge gradualmente a scovare la verità nascosta, prima interrogandosi sulla natura del giuramento, cioè di fatto sul vero volto della fides di chi parla, utilizzando in questo una categoria prettamente romana che riconduce alle origini stesse del concetto di fides206 − v. 611-612, fidem alligauit iure iurando suam? | Si perierat, timere quid grauius potest? − poi facendo appello al suo astuto e abile ingegno (v. 613 s.) per smascherare la finzione materna e portare a termine il proprio mandato con l’uccisione di Astianatte. 205 Tutte le espressioni utilizzate intendono conciliare la condizione di Astianatte dal punto di vista, al tempo stesso, di chi parla e di chi ascolta. Egli è vivo tra i morti per la madre; deve essere ritenuto morto agli occhi dei vincitori; è, di fatto, già morto, condannato cioè in seguito alla sentenza emessa dal popolo greco di cui Ulisse è l’esecutore. Va inoltre notato che, nelle parole di Andromaca, il figlio non è comunque mai nominato: il soggetto non viene infatti esplicitamente dichiarato e l’unico nome proprio che compare è quello di Ettore, a cui queste parole potrebbero del resto essere indirizzate: v. 603, ut luce caruit, su cui Fantham 1982, ad loc. come «standard euphemism for death», ma che, nel caso di Astianatte, indica naturalmente la sua collocazione nel buio sepolcro paterno; v. 603 s., inter extinctos iacet | datusque tumulo debita exanimis tulit, dove l’aggettivo exanimis si presta a più di un’interpretazione, a seconda della sua collocazione sintattica, come nominativo in funzione predicativa o come dativo plurale. Su tutto il passo la migliore analisi, completa e molto acuta nell’esame del testo e nelle relative osservazioni, è di Caviglia 1981. 206 Nota, a proposito del concetto di fides nel mondo romano e del suo rapporto con l’atto del giurare Boyancé 1964, p. 419: «Il s’agit d’une conduite exprimante une dispositon permanente de la volonté, la fidélité à ses obligations et spécialement à ses engagements. Il s’agit d’accord entre le mots et les actes, mais en ce sens que les actes sont conformes à ce qu’ont annoncé les mots. En particulier les actes sont conformes à ces mots qu’on a chargés d’une force particulière en les mettant sous la garantie des dieux, des engagement qui ont été confirmés solennellement par le serment. […] Aux origines ce qui fait sa force, c’est qu’elle est issue du serment». Giuramento e fides sono ben presenti, con caratteristiche e forme peculiari, nella tradizione drammatica arcaica, come attesta soprattutto la commedia plautina (e.g. Asin. v. 561-562), su cui Freyburger 1977 e Petrone 1990.

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Mi pare dunque che, pur nelle differenti angolazioni con cui il tema viene trattato e con le diverse modalità dovute alla peculiarità delle singole circostanze e degli specifici intrecci drammatici, Seneca abbia voluto insistere nel tratteggiare questa fides stravolta, nel caratterizzarla come fides di segno negativo. Curiosamente, del resto, anche la fides positiva di Strofio a cui si appella Elettra, Ag. v. 916 s. Pone iam trepidos metus | Oresta: amici fida praesidia intuor, è legata alla realizzazione di un inganno atto a eludere la condanna a morte di Oreste, emessa dai nuovi regnanti Egisto e Clitennestra: la fides diventa così la complicità nella ricerca di un nascondiglio in cui tenere al sicuro il fratello e nel preservare il segreto a esso legato. Una situazione per certi versi simile si riscontra anche nelle Troades: Andromaca si mostra preoccupata di non riuscire a scovare il luogo giusto per nascondere il figlio, un luogo che sia appunto fidus (v. 476, Quis locus fidus meo | erit timori quaue te sede occulam?), adatto a garantire il buon esito della fraus. E dunque, tra i legami impossibili che determinano la tragedia senecana, dominata da capovolgimenti naturali e cosmici − l’Ade è sulla terra, l’altezza è l’abisso − e dal furor politico − il pubblico diventa privato e il privato diventa pubblico − anche la fides finisce per esistere nell’unica dimensione compatibile con questa prospettiva, dando vita a sua volta all’adynaton del binomio con una fraus che è tratto genetico del regnum. Siamo ancora una volta agli antipodi sia dell’associazione positiva e quasi sacrale con altri valori della ciuitas, su cui si fonda fin dalle origini la società romana, sia della sua esaltazione come virtù da coltivare nell’interiorità individuale, che viene altrove affermata dal filosofo, Ep. 92, 19, ueneranda enim sunt iustitia, pietas, fides, fortitudo, prudentia. Qualche breve considerazione può concludere ora il discorso sviluppato nel corso di queste pagine, con le quali si è cercato di guardare alla tematica del rapporto tra finzione e potere combinando diverse angolature, muovendosi cioè tra differenti tipologie di testi e guardando anche oltre la cronologia senecana, nella convinzione che per delimitare e comprendere questa tematica sia necessario considerare più ampiamente la condizione politica e sociale della Roma di primo secolo d.C. L’indagine ha quindi seguito un percorso particolare, mirando a fornire innanzitutto un quadro del contesto storico, entrando poi nel vivo dell’analisi drammatica, dove il tema in questione si spiega e si arricchisce anche grazie al confronto con il pensiero del filosofo. Come si è visto, emerge una continuità di fondo, un interesse costante di Seneca per questi problemi, non del tutto estraneo, se si considerano anche le testimonianze degli altri autori prese in esame,

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a un comune sentire e a un condiviso clima culturale che osserva, constata e riflette sul cambiamento degli equilibri politici in cui si trova immerso. Molto è cambiato, anche sotto questo punto di vista, rispetto agli ultimi anni della res publica, nei quali finzione e artificio, comunque da sempre riconosciuti come componenti indispensabili per farsi strada nella vita pubblica e come requisiti necessari sulla scena della politica207, rappresentavano la pericolosa espressione di una fazione intenzionata a sovvertire i principi dell’ordinamento repubblicano208. Gli scritti ciceroniani, e in particolare il De officiis, dedicano infatti ampio spazio alla trattazione di simulatio e dissimulatio, nella forma quasi di un «incubo ossessivo che circola attraverso le pagine del suo ultimo trattato209» e che «nelle sue varie forme, costituisce una delle preoccupazioni costanti del pensiero dell’ultimo Cicerone210». I due elementi, infatti, minano il pur ambiguo progetto di rinnovamento della classe dirigente romana211, ideato dall’Arpinate negli anni di tramonto della res publica per far fronte al mutato quadro politico e alle profonde trasformazioni in corso nella società romano-italica del tempo. La dettagliata precettistica, cui è dedicata parte consistente del primo libro (De off. 1, 126-149) e che costituisce il modello dell’atteggiamento da manifestare in pubblico, è stata considerata, alla luce delle sue caratteristiche etico-pratiche e pour cause, una sorta di archetipo dei galatei di corte, destinati a una lunga fortuna nella tradizione occidentale212. Siamo dunque in una fase di transizione per il mondo romano, lacerato dalle guerre civili che segnano il Ne fornisce l’esempio più eclatante il Commentariolum petitionis. Si pensi alla caratterizzazione della figura di Catilina in Cicerone, sui cui Narducci 2004, p. 79-93. 209 Narducci 2004a, p. 56. 210 Narducci 1989, p. 108. Così anche Lotito 1981, p. 117. L’A. mette bene in evidenza come la simulatio fosse considerata «una calamità dei tempi (il tema della fraus è anche in uno storico della ‘crisi’ come Sallustio)» e costituisse «un pericolo mortale per l’intero meccanismo etico messo in piedi da Cicerone». Rilevante sul punto, in relazione alla teoria stoica delle quattro personae, anche il contributo di Lévy 2006. 211 Cfr. Lotito 1981, p. 116 s; Labate 1984, p. 157; Narducci 1989, p. 107110; 152 s.; 162; 236-242. 212 Narducci 1989, p.  156: «nutrendosi largamente di suggestioni provenienti dalla cultura urbana ateniese, la humanitas imprime loro (scil. ai galatei) tuttavia un’accentuata svolta in senso aristocratico: in conformità con quello che da tempo era lo stile di vita della classe dirigente romana, e prefigurando, d’altra parte, il prossimo costituirsi di una etichetta di corte. In età augustea una tale etichetta potrà crearsi con notevole rapidità anche perché saprà riadattare alle proprie esigenze forme di comportamento elaborate ai fini della convivenza – ancora di carattere paritario – tra i membri del ceto dirigente tardo-repubblicano». 207 208

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tramonto dell’ordinamento repubblicano e oramai proiettato alle porte di quell’apparato di palazzo, accuratamente descritto dalla storiografia d’età imperiale. Il cambiamento che di lì a poco investirà la società e la politica, nel senso di una sempre maggiore gerarchizzazione del potere, non potrà che accentuare tale dinamica, alla ricerca di una adprobatio sempre meno vincolata a un contesto sociale di tipo paritario e sempre più coincidente con quanto risulta probabile agli occhi del princeps213. Ma, dall’insediamento di Augusto e in maniera ancora più evidente dalla successione di Tiberio, il ricorso alla finzione si arricchisce di un nuovo valore, non riguardando più soltanto la sfera estetizzante e artefatta dell’etichetta cortigiana, ma insinuandosi direttamente nei meccanismi di gestione del potere, nella forma stessa della nuova istituzione politica (che preserva solo formalmente le antiche istituzioni repubblicane), nei rapporti tra il principe e gli amici, nell’esercizio dell’autocontrollo verbale e gestuale; diventa cioè un imperativo dominante nella condizione esistenziale dell’individuo di primo secolo. Cambiate le coordinate e mutato il quadro esterno rispetto all’epoca ciceroniana, simulatio e dissimulatio continuano a essere recepite nella dimensione di una martellante ossessività, nel contrasto tra le falsità cui si abbandonano i contemporanei e la ricerca del vero regno della sapientia per Seneca, sulla cui personale esperienza finiscono comunque per riflettersi, come si è visto, alcune delle grandi ambiguità del tempo214, o nella teatralità delle messe in scena politiche dei principes giulio-claudî, al centro del resoconto di Tacito, che su questi aspetti mostra una insistente attenzione. Del resto, attorno ai motivi della simulatio, del metus, della securitas, dell’adulatio finiranno per convergere le parole di numerosi autori a stretto contatto con l’autorità imperiale, anche nei secoli successivi (e, si potrebbe aggiungere, con una lunga e duratura fortuna di questi grandi temi nel tempo, anche oltre l’età antica), in concomitanza con una sempre maggiore stabilizzazione dell’impero e della figura di chi lo detiene: aspetto che risulta evidente soprattutto nei testi panegiristici più tardi, tanto greci quanto latini, quasi assillati, anche per le caratteristiche contingenti del genere stesso a cui appartengono, dall’urgenza di mostrare e classificare

213 Si veda appunto quanto brevemente accennato, proprio all’inizio di questo capitolo, sulla Consolatio ad Polybium. 214 Come ben rileva Lana 2001 p. 33, che parla della vita di Seneca come di «una vita inquieta, esposta continuamente a insidie, pericoli, minacce: ma, nello stesso tempo, aperta a sempre nuove esperienze, tentata, anche, da grandi ideali». Si segnala a riguardo anche Cambiano 2001.

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Capitolo II.  IL RAPPORTO TRA FINZIONE E POTERE NELLA CORNICE DELL’AULA

la propria opera come frutto di un sentimento sincero e non di affettazione dovuta a servilismo215. Nel contesto di tali trasformazioni culturali si colloca dunque l’esperimento drammatico e poetico di Seneca, ben lontano dall’essere interpretabile come semplice specchio della realtà imperiale ma che, nella rappresentazione di fabulae così note e nella raffigurazione di personaggi anche troppo conosciuti, si rivolge e parla all’individuo che di questa realtà è parte integrante. Allo sguardo estrinseco, che permette di osservare le dinamiche che regolano il rapporto tra l’uomo e la società e tra l’uomo e il potere nei termini fissati dalla struttura del principato − facendo di questo aspetto forse un elemento, quand’anche non di attualizzazione, almeno di sicura sintonia con l’epoca − si è affiancato uno studio, dall’interno, dell’impianto teatrale dei testi, nella declinazione intrinseca del tema, quella cioè della finzione del potere nella forma dell’inganno che si consuma all’interno della distorsione e della perversità del regnum, fatta di rimandi e di allusioni infratestuali che costituiscono la tecnica attorno a cui ruota la composizione poetica di Seneca. Ma, che si scelga una prospettiva o l’altra per affrontare questo motivo nel pensiero dell’autore, ne emerge sempre un quadro ben poco edificante, che non termina e non si esaurisce nel tempo tragico della katastrophé e della lysis, né in quello storico della Roma di Caligola o di Nerone, ma che è in grado di parlare all’individuo nella sua soggettività, messo a confronto con se stesso, con i propri desideri e le proprie debolezze, combattuto e lacerato tra le pressioni del mondo esterno, luogo di insidiae, di doli, di fraudes, di mechanai, fisicamente individuabile nell’aula − metafora e

215 Così ad esempio Plinio, che si preoccupa di caratterizzare la propria gratiarum actio come ringraziamento sincero e non frutto del metus (2, 2) e di ritrarre Traiano senza le lusinghe del passato (3): l’epoca precedente è definita sulla base di simulatio, seruitus, metus, adulatio, in contrapposizione a un presente di ueritas, libertas, amor, pietas, dove è possibile ‘osare’ persino il silenzio, nella forme dell’aliquando de te tacere (55, 2-3), liberi dal terror e dalla misera ex periculis prudentia (66, 3-5). In epoca più tarda, nell’ambito dei basilikoi logoi di lingua greca, anche Libanio «est forcé d’adapter l’ethos de la sincérité», come nota Malosse 2000, p. 247, che ricostruisce le strategie retoriche con cui, senza ricorrere alla menzogna, l’oratore affronta tematiche scomode cercando una terza via nell’equilibrio tra verità e mistificazione. Sulle tecniche retoriche intese a mascherare l’intenzione a fronte di una impossibile libertà di parola esiste un’ampia bibliografia: non potendo qui soffermarsi su un motivo che pure meriterebbe di essere approfondito si rimanda almeno a Desbordes 1993; Chiron 2000 e 2003; Pernot 2007, da cui si può partire per ricostruire un corpus di testi greci e latini e per ulteriori riferimenti bibliografici.

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PARTE SECONDA.  GLI SCENARI DELL’INGANNO: AULA E NATURA

metonimia di questa falsa realtà216 − e lo sforzo continuo della ricerca e della graduale conquista del tutus locus, di quella casa cioè che, a dispetto delle apparenze, si rivela vera fortezza dell’interiorità.

216 Dimensione illusoria fittizia che imprigiona l’uomo, cfr. De clem. 1, 26, 2: apparentur licet magna impensa et regiis opibus et artificum exquisitis nominibus, quem tamen ludi in carcere iuuent?

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CAPITOLO III L’AMBIENTE NATURALE: INSIDIE E ARTIFICI Candida nostri saecula patres uidere procul fraude remota Sen. Med. v. 329 s.

Definire e comprendere il ruolo della natura nei drammi di Seneca significa confrontarsi con un campo semantico vastissimo e con uno dei temi più rilevanti nella costruzione del suo mondo tragico. Il termine copre infatti una considerevole molteplicità di significati e pervade i testi in diverse forme: come ordine e legge del ciclo cosmico; come potere che ha dato origine a tale ciclo; come insieme degli istinti animali e umani; come complesso delle leggi e dei principi che regolano l’esistenza umana; come movimento che domina l’universo e, infine, ma non meno importante, come paesaggio geografico in cui ha luogo l’azione e in cui si svolgono le vicende mitiche1. Quest’ultima accezione, rimasta forse un po’ marginale rispetto alle altre nella bibliografia critica, risulta 1 Boyle 1985, p. 1289 e 1987, p. 213 s.; Mazzoli (G.) 1996a; Vottero 1998; Rosenmeyer 2000; Mayer 2002, p. 37-39. Nella Phaedra, opera assolutamente emblematica in questo senso, oltre al ben noto coro che invoca la Natura quale magna parens deum, v. 959, sono numerosi i loci testuali in cui tutte queste accezioni vengono richiamate, lasciando emergere un quadro di rappresentazioni «naturali» molto diverse, non sempre convergenti. Si vedano, ad esempio, i v. 173-177, dove si evoca il tema del sovvertimento dell’ordine naturale attraverso la proles confusa e la procreazione di monstra (nefandis uerte naturam ignibus  […] natura totiens legibus cedet suis | quotiens amabit Cressa?); il richiamo all’Amor che congiunge gli esseri viventi si riscontra nel primo canto corale dedicato alla potenza cosmica dell’amore, sintetizzato nella pregnante sententia del v. 352, uindicat omnes natura sibi; ancora, al v. 482, la nutrice invita Ippolito ad assecondare la disposizione naturale dell’uomo, portato alla frequentazione dei suoi simili e alla vita nella società cittadina, contro l’isolamento e la scelta di un’esistenza trascorsa nella solitudine silvestre, v. 481 s., proinde uitae sequere naturam ducem: | urbem frequenta, ciuium coetus cole; infine, ancora diversa è l’accezione con cui Teseo, dopo l’annuncio della morte del figlio da lui stesso provocata, riconosce la forza dirompente della Natura, constatando tristemente la contraddittorietà dei propri sentimenti, v. 1114-1117, O nimium potens | quanto parentes sanguinis uinclo tenes, | natura! quam te colimus inuiti quoque! | occidere uolui noxium, amissum fleo.

PARTE SECONDA.  GLI SCENARI DELL’INGANNO: AULA E NATURA

ugualmente fondamentale per definire i tratti caratteristici del teatro di Seneca ed è proprio attorno a tale preciso valore che intende svilupparsi questa indagine. Lo scenario naturale, spesso oggetto di dettagliate e ricche descriptiones di cui sono state recentemente proposte valide letture e classificazioni2, non è infatti semplicemente collocato sullo sfondo degli avvenimenti, in una dimensione passiva e sciolta dall’intreccio, ma viene al contrario determinato da una vitalità e da un dinamismo tali da entrare in stretto contatto con le dramatis personae e con l’azione: «la natura, il paesaggio che fa da sfondo allo svolgersi degli avvenimenti non è nel teatro di Seneca un elemento neutro, semanticamente irrilevante o dotato di una funzione puramente descrittiva: esso collabora invece potentemente alla caratterizzazione dei personaggi e alla costruzione del senso complessivo3». Il mondo fisico e naturale appare perciò fortemente legato ai protagonisti e alla loro storia, ossia, per citare l’ottima sintesi offerta dallo studio di Rosati: «oltre a un ‘determinismo nel tempo’ (per cui il passato, la storia si ripetono ciclicamente in virtù di una legge ferrea da cui i personaggi, invano protesi a resistervi, vengono travolti), domina nel teatro senecano un ‘determinismo dello spazio’: un personaggio è vincolato allo spazio fisico in cui si trova collocato, ai luoghi, al paesaggio che egli abita. Possiamo dire che i personaggi del teatro senecano sono i luoghi che abitano, in una sorta di identificazione totale, di immedesimazione non solo simbolica ma addirittura fisica4». Sulla scorta di questa prospettiva interpretativa è dunque possibile ravvisare, anche nell’immagine del paesaggio e dell’ambiente naturale, le tracce degli inganni e delle finzioni che riempiono l’opera teatrale di Seneca e che distinguono o qualificano in maniera particolare alcuni personaggi. Il caso più emblematico è notoriamente quello di Ulisse in Troades, di cui si è già ampiamente trattato nel primo capitolo, come figura scaltra e astuta, abile dissimulatore, capace di ingegnose macchinazioni, pronto a osservare e manipolare l’avversario attraverso l’uso di un linguaggio ambiguo La più esaustiva è, a mio avviso, quella di Aygon 2004; più sintetiche, ma comunque utili, le precedenti trattazioni di Zapata Ferrer 1988 e Tietze-Larson 1994. 3 Rosati 2002, p. 226. 4 Ivi, p.  229. Attorno al rapporto tra uomo (stato d’animo umano) e ambiente naturale, in particolare per la rappresentazione di un «mondo naturale  […] disposto ad accogliere in sé, insieme con gli altri tratti umani, quelle sensazioni intime che sono esclusive dell’uomo» si concentra l’analisi di Perutelli 1998: per il teatro senecano in particolare, p. 278, l’A. nota che qui «si assiste al traboccare del sentimento dall’uomo all’ambiente e alla natura circostante», e parla di «interscambiabilità completa tra uomo e natura nella manifestazione dei sentimenti». 2

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Capitolo III.  L’ambiente naturale: insidie e artifici

o a nascondere all’interlocutore le vere intenzioni interpretando il ruolo più adatto a ottenere lo scopo prefissato. Così, il pur breve riferimento all’isola di Itaca, patria dell’eroe greco, viene costruito sull’analogia con l’indole del suo illustre regnante, quindi circoscritta come luogo malsicuro e dannoso, che trae in inganno per l’aspetto fallace e per le sue infide rocce, v. 857, et nocens saxis Ithace dolosis. In generale, si può comunque dire che la geografia tragica appare legata al motivo dell’inganno in duplice direzione, tanto in senso attivo − come nel caso ora citato, manifestazione di una natura insidiosa e ambigua che nasconde e dissimula trappole o aspetti pericolosi − quanto in senso passivo − natura che subisce, al contrario, le insidie dell’uomo, oggetto di una contraffazione e di una falsificazione che sfocia nel suo snaturamento, provocato dall’ars umana e dall’intervento di un potere che proietta la sua forza di alterazione anche sull’ambiente naturale e sul paesaggio che lo circonda. La struttura dell’anti-sistema che Mazzoli ha riconosciuto per la rappresentazione della natura tragica, intesa però nel suo significato più lato, di «simmetrico rovesciamento» della teleologica rappresentazione stoica (natura fatta per l’uomo; uomo fatto per la natura) nell’opposto quadro drammatico, in cui la natura va contro l’uomo e l’uomo va contro natura5, è pertanto riconoscibile anche solo considerando la cornice geografica, la scenografia concreta e fisica, composta da elementi quali montagne, boschi o corsi d’acqua, su cui si riflette questo sconvolgimento. Il movimento oppositivo si riscontra soprattutto in due opere, la Phaedra e il Thyestes, anche per l’abbondante presenza di riferimenti a luoghi e a spazi fisici al loro interno: su questi testi, pertanto, si è concentrata la mia analisi, nel tentativo di mettere in evidenza gli aspetti più significativi e le implicazioni di tali motivi nella struttura dei drammi e nei ritratti dei personaggi. Nel primo caso – Phaedra − l’esame dei diversi loci testuali relativi alla rappresentazione del paesaggio e le differenti scelte lessicali dell’autore nel raffigurarne i diversi componenti, sembrano trasmettere l’immagine di una natura dominata da una certa ambiguità di fondo, che si risolve in maniera negativa nel diretto coinvolgimento e nella partecipazione dei singoli elementi naturali all’uccisione di Ippolito. Nel secondo, invece – Thyestes − si è constatato che la geografia della Micene tragica di Seneca appare insanabilmente corrotta dal potere, non solo perché il paesaggio è esposto a violazioni e inversioni del suo assetto, che visibilmente lo trasformano nel marchio del regnum e della stirpe tantalide, ma anche perché l’accecamento delle Mazzoli (G.) 1996a, p. 15 e 24.

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false credenze, tra cui va annoverato lo stesso furor del regno, spinge l’uomo alla perversione e alla rottura dell’ordine naturale. Quest’ultimo aspetto, inoltre, rivela diversi punti di consonanza con l’opera in prosa e con la critica mossa dal filosofo alla società romana contemporanea, dedita, nella ricerca di beni apparenti e superflui, a interventi di modifica dell’ambiente e alla creazione di paesaggi artificiali. Nelle coordinate del dramma tragico, pertanto, non esiste possibilità per l’affermazione di una natura ‘positiva’, sinonimo di una autenticità che non conosca fraudes o che resti incontaminata dagli artifici prodotti dall’uomo: viene evocata, infatti, solo per ribadirne la totale estraneità rispetto all’azione, sia che si tratti della perduta età dell’oro per Ippolito, sia che si tratti del passato, concluso e oramai lontano esilio per Tieste.

1. Le insidie della natura: ambiguità del paesaggio di Ippolito nella Phaedra La presenza della natura e i riflessi dello spazio fisico in cui sono collocate le vicende e le azioni dei personaggi in Phaedra costituiscono un caso particolare nel corpus tragico senecano, dove si avvertono, in profondità o in superficie, nel corso dell’intero dramma: tale centralità si dispiega sia rispetto all’economia complessiva del testo (il prologo, v. 1-84; le affermazioni della protagonista, v. 233-235; il lungo brano di Ippolito sull’aurea aetas, v. 483-564; il secondo canto corale ai v. 777-795; il terzo canto corale e la preghiera alla Natura, v. 959-990; la rhesis del nuntius v.  1000-1114), sia nella memoria poetica che evoca illustri precedenti letterari6, sia infine nella cornice ‘ideologica’ dell’opera, dove acquistano un valore assolutamente peculiare e fondamentale per la comprensione delle dinamiche su cui si fondano le relazioni tra le personae e la loro stessa caratterizzazione come soggetti tragici. La scena appare costellata di riferimenti all’ambiente naturale, molto più di quanto non accada per l’Ippolito euripideo7, cui l’autore sembra voler conferire una vivacità e una vitalità che si percepiscono senza soluzione di continuità nel testo, e che si manifestano nelle forme ora più armoniose e tranquillizzanti, ora più terribili e distruttive. Lo scenario paesaggistico e geografico, 6 Per un elenco dei modelli, oltre naturalmente ai commenti dei singoli passi, è da vedere Littlewood 2004, praec. p. 280 s. Molti riscontri, soprattutto con Virgilio e Ovidio in Lopez Cabrera 2004. 7 Grimal 1963. Un confronto generale tra le descrizioni topografiche del teatro di Seneca e la tragedia greca in Tietze-Larson 1994, passim.

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Capitolo III.  L’ambiente naturale: insidie e artifici

l’ambiente silvestre, la fauna e la caccia, la vita semplice e al tempo stesso cruda e crudele, a contatto diretto con il mondo animale e vegetale, senza la mediazione dell’intervento civilizzatore dell’uomo o della pressione deformante del potere, sono elementi con cui non solo le figure del mito, ma anche il pubblico e gli stessi lettori sono chiamati a confrontarsi, tanto per simpatia e per empatia con il contesto, tanto per contrasto, per così dire cioè in absentia, rispetto alla ben diversa cornice dell’aula, descritta qui (tramite le parole di Ippolito, v. 483 s., e la voce del coro, v. 981 s.), come altrove nella poesia di Seneca, in tutte le sue seducenti attrattive velate di mistificazioni e ambiguità. E, tuttavia, l’immagine della natura che traspare dalla Phaedra − luogo fisico e dimensione ideale in cui si colloca parte dell’azione drammatica − non è affatto rassicurante e limpida come invece si è spesso sostenuto: essa, infatti, non appare puramente come polo di segno positivo, opposto alla negatività del regnum, ma, analogamente a quanto accade per il palazzo che, al di là del lusso di facciata, scopre un volto infero e infernale, secondo la magistrale lezione del Thyestes, rivela, dietro all’idilliaca parvenza di una felice sintonia tra i diversi elementi e tra l’individuo e il cosmo, i risvolti più insidiosi e brutali, che culminano nell’atroce fine di Ippolito divorato dal mostro marino. Come si vedrà, l’ambiente naturale in cui si muove il protagonista, che, del resto, viene immediatamente ad assumere una posizione centrale nell’equilibrio tragico anche nelle relazioni stesse tra i personaggi (basta pensare ai propositi di Fedra ai v. 233-235), in qualche misura sembra già contenere tratti insidiosi e ambigui, nascosti a prima vista ma ben presenti nel tessuto linguistico, che finiscono solo per affiorare all’inizio, per convergere poi nelle vicende tragiche. In questo senso si può dunque affermare che anche la geografia tragica, sfondo dell’episodio mitico oggetto di rappresentazione, parte di quella natura che è elemento dominante nella tragedia, si rivela in sintonia con la natura stessa, concetto che nella Fedra non appare mai rigidamente monolitico, ma, al contrario, oscilla tra «ambivalente e ambiguo, in quanto fluttua tra l’ordine e il caos, tra l’innocenza primitiva e la violenza sfrenata8». Il paesaggio naturale descritto nel prologo (v. 1-84) Tale caratterizzazione ambigua dell’ambiente paesaggistico e naturale si scorge fin da subito, nella scelta da parte dell’autore di aprire il dramma con un prologo che la critica ha spesso considerato insolito: prendendo come diretti e immediati metri di paragone le altre opere e l’usus scribendi Garbarino 2008, p. 660 s.

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della poesia senecana, la ‘stranezza’ è stata ravvisata sia nella forma metrica, nella inedita monodia di un personaggio non immediatamente seguita dal coro ma dal dialogo tra la nutrice e Fedra, sia nel contenuto del canto, che, da un lato, riesce impossibile assimilare a quello dei prosopa protatikà di Thyestes e Agamemnon, e, dall’altro, si inserisce con qualche difficoltà nella suddivisione tra le funzioni patetica, profetica e poietica che sono state con ragione ravvisate nella struttura degli incipit in Seneca9. Uno sguardo ai principali studi che hanno analizzato il passo porta a distinguere sostanzialmente tra due differenti e inconciliabili interpretazioni che attribuiscono ai versi del prologo rispettivamente un carattere idilliaco, nel richiamo a una natura mitica, fatta di terre lontane dipinte con ricchezza di particolari, quasi luoghi d’incanto dove l’uomo vive assorbito dal paesaggio e nel paesaggio, dedito ad attività selvatiche che non stravolgono l’ordine esterno e in totale accordo con i suoi simili10, oppure una rappresentazione ben diversa, molto più sfumata, in 9 Così nella convincente classificazione proposta da Mazzoli (G.) 1998, che distingue monologhi patetici (Troiane, Fedra, Edipo), profetici (Agamennone) e poietici (Hercules Furens, Medea, Thyestes), notando comunque come, in realtà, tra i tre gruppi esista una relazione di inclusione progressiva: tutti i prologhi di Seneca sono profondamente patetici, tutti i prologhi poietici sono anche profetici (ma non viceversa). Tutti, cioè, si propongono l’oggettivazione di un pathos, ma solo in qualche caso questo disegno si precisa come oggettivazione di un nefas, preannunciato, in senso demiurgico, dalla creazione mentale del personaggio. Diversa è notoriamente la classificazione di Heldmann 1974, p. 70 s. che, sulla base di una bipartizione tra prologhi ‘esterni’ (H. F.; Thyest.; Ag.) e prologhi ‘interni’ (Med.; Oed.; Troad.), propone di vedere nelle parole di Ippolito un canticum corale: ne discute (insieme ad altri riferimenti bibliografici ai quali si rimanda per un quadro più completo) Dupont 1991 in uno studio che offre, inoltre, una suggestiva interpretazione, in particolare nel mettere in evidenza come sia possibile accostare la figura di Ippolito a quella di altri prologhizontes senecani, nella condivisa estraneità al mondo umano, p. 127: «L’Attique est un paysage ensauvagé, un territoire de chasse où ne vivent plus que de nomades. Le seul lieu de sédentarité est le palais royal. L’espace où Hippolyte va se lancer est semblable à ces confins sur lesquels règne Diane qu’il invoque (v. 51-55). […] Il vit enfermé dans un monde imaginaire où tout est chasse. Ce monde est extérieur au monde humain où se joue la tragédie, aussi extérieur que les Enfers d’où surgit Tantale dans le Thyestes, que les cieux d’où vient Junon dans Herc. Fur.». 10 In tale prospettiva Cattin 1960, p. 67, definisce la caccia, per Ippolito, «un retour à la vie primitive, un bain de fraîcheur dans une nature qui le purifie et lui permet de vivre sans le commerce des femmes». Henry-Walker 1966, p. 228 «Hippolytus’ idyllic prologue»; Petrone 1984, p. 73: «il prologo colloca dunque Ippolito nel suo paesaggio, che è quello idilliaco-cinegetico di un’Arcadia il cui significato è di antitesi alla città, che invece è il mondo spirituale di Fedra»: è sulla definizione di ‘idilliaco’ in particolare che mi sento di dissentire; Boyle 1987, p. 18, rileva invece svariati aspetti contraddittori del regno di Diana che vengono presentati da Ippolito, «order, beauty, perceptual richness and life (v. 1-30)» e «destruction, fear, violence and death (v. 31-53)»; Arcellaschi 1990, p. 38, parla di un paesaggio interamente positivo: «la nature n’est que sourire, puisque bucolique en dépit de la chasse, parée de la joie fraternelle des heureux

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grado di leggere tra le righe della sinfonia visiva e sonora, che affiora solo superficialmente, la trama della catastrofe che si abbatterà su Ippolito e che, in una certa misura, è già presente nella struttura del prologo11. La seconda lettura è di gran lunga più condivisibile: un tono per certi versi cupo, già foriero di risvolti negativi, caratterizza a mio avviso le parole del figlio di Teseo, in un’atmosfera complessiva che di sicuro non riflette né il placido e riposante paesaggio del locus amoenus né, al contrario, il temibile e spaventoso ambiente del locus horridus12. C’è qualcosa di più sottilmente ambiguo nella dimensione in cui vive questo personaggio e che viene introdotta subito, come primo spazio della scena tragica, a colpire l’attenzione del pubblico proprio in virtù del suo essere passibile di diverse chiavi interpretative, grazie alle quali sembra lasciare in sospeso, almeno per questo preciso momento drammatico, non tanto lo sviluppo dell’intreccio, quale via difficilmente impraticabile per una storia già così nota, quanto l’impronta che l’autore intende lasciare sul personaggio e, conseguentemente, sul suo ruolo nell’azione così come sul colore stesso della fabula. La serenità che si vuole attribuire allo spazio in cui si muove Ippolito, a suo agio nell’isolamento di una realtà montuosa e venatoria, in contrasto compagnons». Littlewood 2004, p. 280, oltre a proporre numerosi confronti con passi tratti dalla poesia bucolica di Virgilio, parla di «many landscapes which are his (scil. di Ippolito) models» in cui si inseriscono «the violent, icy mountains and the softer idylls» entrambi come parti, opposte, del suo paesaggio; alla componente idillico-pastorale del personaggio l’A. attribuisce «a fragile innocence», in cui, p. 285, «Hippolytus and his pastoral world are vulnerable to the experience of others and to elegy’s ability to assimilate unwilling material». Si tralascia qui l’aspetto religioso della preghiera alla dea, per il quale si rimanda a Salvatore 1981. 11 L’analisi più persuasiva e recente è quella di Aygon 2004, p. 231-240 e 313-316, che propone una sintesi degli studi precedenti e discute le diverse letture del prologo. Qualche rilievo in tal senso si riscontra comunque già in Segal 1986, praec. p. 60-76: l’A. nota «the darker touches in the landscape», negando la presenza di una innocenza pastorale, anche se, rispetto al paesaggio, definisce Ippolito «an intruder and a violator». 12 Viene invece classificato appunto come luogo ameno nello studio dedicato alle descrizioni del teatro senecano di Tietze-Larson 1994, p. 86 s. Cfr. su queste tematiche Malaspina 1994, utile anche per i numerosi riferimenti al corpus tragico romano, soprattutto arcaico. In merito all’opposizione locus amoenus/locus horridus, in particolare p. 13: «Sarebbe meglio limitare la categoria del locus horridus […] alle descrizioni che contengono gli stessi elementi del locus amoenus (e solo quelli), connotati in maniera polarmente diversa. Si tratta di un fenomeno, apparso nella letteratura latina almeno con Virgilio, che presuppone la topicizzazione del locus amoenus e che allude costantemente a esso, costituendosi come cosciente ribaltamento delle valenze positive e ‘amene’ degli elementi che compongono il locus amoenus. Esso trova nel I sec. d. C., coerentemente con le tendenze irrazionali, ‘barocche’ ed ‘espressionistiche’ del periodo, la sua maggiore affermazione, con interessanti influssi nelle letterature moderne».

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al turbamento che lo coglierà nel momento della rivelazione amorosa compiuta dalla nouerca, stride, almeno in parte, con la ricca descrizione naturalistica, non priva di tratti tutt’altro che facilmente decifrabili, e con la centralità della caccia, motivo, come noto, assolutamente cruciale nella tragedia, di cui peraltro sono immediatamente accentuati gli aspetti più minacciosi e feroci, in immagini che fanno risaltare la forza e la furia dell’impeto, e in questo specchio, sulla base dei riscontri testuali, dell’ancor più violenta ‘caccia all’uomo’ che occupa la seconda metà del dramma. Un primo segnale dell’ambivalente immagine della natura si riscontra già nel verso iniziale, negli imperativi pronunciati da Ippolito, ite/cingite, che invita a raggiungere le umbrosae siluae. Sebbene sia stato con ragione affermato che il termine silua, nelle tragedie di Seneca, non sia connotato specificamente in senso negativo o positivo, ma appaia per lo più come vocabolo neutro, differenziandosi così da lucus e nemus13, a ben guardare il testo, le cose non sembrano qui risolversi in modo tanto semplice. Basti ricordare quanto affermato da Gianna Petrone in relazione proprio alla percezione di questo luogo nell’immaginario romano, dove «nell’antitesi tra coltivato e non coltivato, le silvae si inseriscono nella seconda sfera, molto più raramente nella prima. Spesso vengono citate in letteratura per evocare il mondo selvaggio, come nascondiglio delle fiere e spazio della caccia. L’oscurità oltre che caratterizzarsi come fresca umbra, ha anche l’aspetto di quella inquietante mancanza di luce che cela la presenza delle belve, dove ci si muove con difficoltà, circondati da animali che si trovano a loro agio. Le silvarum latebrae non sono allora né rassicuranti né ospitali: tane di bestie selvatiche, cui danno asilo, sono riserva del cacciatore e delle divinità che sovrintendono alla caccia14». Se si considera il passo senecano, si noterà come l’aggettivo 13 Aygon 2004 p. 277, differenzia lucus (dodici occorrenze), spazio connotato da una caratterizzazione sempre religiosa, mai utilizzato nelle descrizioni di loca amoena e spesso carico di sfumature negative, legato a pratiche magiche o al crimine, al mondo infernale o al bosco che avvolge l’entrata a palazzo; nemus (cinquantasette occorrenze), per indicare invece il boschetto o un gruppo di alberi, generalmente di senso positivo; infine silua, che richiama la grande foresta, cioè la sfera generica dell’incolto e del selvaggio. Un’accurata prospettiva d’insieme sul motivo del bosco e sulle sue differenti connotazioni (a partire dalle differentiae verborum) nella produzione letteraria latina offrono le approfondite indagini condotte da Malaspina 1994; 1995; 2004; 2008. 14 Petrone 1988a, p. 12. Anche Malaspina 2004, p. 113 (tematica ripresa altresì in un successivo contributo francese in Id. 2008, p. 26): «Per quanto concerne invece le conseguenze di tali trasformazioni, quello del bosco appare connotato sempre di più come un campo semantico bivalente, ambiguo, anceps nella definizione del suo valore letterario, culturale e antropologico, ancor prima che nella delimitazione e nella denotazione di ipo- o sinonimie». Come si vedrà, sono dunque perfettamente d’accordo con

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umbrosa contribuisca a caratterizzare in maniera ambigua questo spazio, in linea con quella che è stata definita «l’anfibologia del bosco15» nel mondo antico, molto più di quanto non sia stato ravvisato dai commentatori16: l’ombra qui evocata non è certamente la frescura offerta come refrigerio e riposo nel bucolico locus amoenus17, ma, al contrario è connotata come oscurità, come marca tenebrosa dalla connotazione sinistra che richiama il motivo dell’insidia connesso alla mancanza di luce. Per quest’ultimo aspetto, in particolare, pur con le dovute differenze che impediscono una perfetta coincidenza di significato e lasciano profonde sfumature, può dunque essere interessante un confronto con il valore che tale aggettivo assume in altri passi di Seneca tragico, dove si riscontra un preciso legame con la sfera infernale, luogo dell’oscurità infida per eccellenza, oltre che luogo di morte, come si evince da Medea, v. 741, in cui viene impiegato in relazione a Dite e alla sua dimora, et Chaos caecum atque opacam Ditis umbrosi domum e da Oedipus v. 608 s., in cui compare nel racconto della profezia di Tiresia poco prima dell’apparizione di Laio, in un contesto, cioè, ancora una volta legato a una dimensione ultraterrena e spettrale, peraltro proprio all’interno di uno spazio boschivo, di un nemus dal sapore religioso-sacrale, pauide latebras nemoris umbrosi petunt | animae trementes. Il primo verso del prologo richiama dunque almeno la componente più sfuggente e meno limpida dell’ambiente in cui si presenta Ippolito, in uno spazio completamente privo di luce, dominato da un’oscurità che, lungi dall’essere rassicurante, può al l’A. quando afferma che, nell’ambito dell’opposizione tra foresta come luogo di piacere o di assenza di piacere, esaminare la scelta del sostantivo non è indicativo di per sé, sono invece il contesto e l’aggettivazione a risultare determinanti: «Prendere contatto con un bosco per il Romano dell’epoca di Augusto o di quelle successive significava (almeno a livello dei testi letterari, cui possiamo giungere con un certo grado di sicurezza) evocare una realtà i cui caratteri costitutivi, pur essendo ogni volta sempre indubitabili in sé, risultavano sempre ambigui per il soggetto, obbligato a determinarli a fatica e a poco a poco, in cammino, per così dire, e addentrandosi sempre di più nel (la lettura del) bosco, attraverso l’intermediario delle connotazioni significative, veicolate, come si è detto, dal contesto e dall’aggettivazione». 15 Malaspina 2004, p. 100. 16 Cfr. Trombino 1982, p. 89, che mette in relazione il primo verso della tragedia e Verg. Ecl. 1, 3 al riposo lentus di Titiro, in cui il bosco assume il significato di tranquillità e di pace, caratteristico anche di altri generi come l’elegia. L’A. vede la rappresentazione delle siluae di Ippolito come immagine speculare della tranquillitas interiore dei pastori virgiliani, in cui il precedente letterario viene riletto e «ribaltato nel nuovo contesto» nella trepidante e concitata fuga dell’eroe tragico. 17 Associazione che risale al noto passo del commento di Servio, in cui amoenitas e umbra sono legate, Verg. Aen.  7, 30, amoeno umbroso, siluis circumdato. Cfr. A. Pennacini, s. v. amoenus, in Enciclopedia Virgiliana, I, p. 141.

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contrario rivelarsi pericolosa. Siamo dunque già in armonia con le successive parole del personaggio, sia per quanto riguarda l’elenco dei luoghi impervi subito descritti, sia, soprattutto, per la totale compatibilità con i temi del nascondiglio e dell’agguato strettamente legati al resoconto delle battute di caccia che occupa la seconda parte della monodia. La quiete che sembra dominare il paesaggio attico è infatti solo apparente, spezzata dalla frenesia che trasmette il tono concitato delle numerose anafore, a indicare il continuo movimento tra regioni diverse (v. 9, hac, hac … qua; v. 17, vos, qua … qua; v. 20, vos qua …; v. 25, qua … v. 31, At vos …)18 e dalla scelta di raffigurare il mondo naturale attraverso aggettivi di marca se non radicalmente negativa comunque spesso orientati a sottolineare più le difficoltà e le latenti asperità dei luoghi che la loro dolce bellezza. È infatti irto il saxosus Parnethus, v. 4, è rapida l’unda che attraversa la vallata di Tria, v. 6, dove l’attributo evoca una velocità veemente e aggressiva, in grado, con la propria forza, di trascinare con sé quanto incontra sul cammino, «flowing so violently as to carry along anything in its path, strongflowing19», è infine dura la scalata delle alture coperte di neve, nel clima di una temibile (e forse volutamente esagerata sul piano 18 Molto attento agli aspetti fonico-ritmici del prologo è lo studio di Zoccali 1997, al quale si rimanda per una precisa e più approfondita trattazione a riguardo; in tal senso anche Lopez Cabrera 2004. Sul motivo del movimento e del dinamismo nella tragedia si segnala Trombino 1982: per questi versi in particolare l’A. parla di «didascalia», di «indicazioni di regia sulle modalità del movimento scenico». 19 OLD s. v. 1; anche E.-M., p. 564, in connessione a rapio «impétueux, violent, rapide». Si vedano infatti riscontri di questa connotazione nel teatro romano in Pl. Bacch. 85, nella battuta di Pistoclerus, rapidus fluuius est hic; non hac temere transiri potest e, in ambito tragico, Accius 607 D.: apud abundantem antiquam amnem et rapidas undas Inachi. In questo verso degli Epigoni, c’è un riferimento al flutto tumultuoso dell’Inaco che, proprio in virtù della sua veemenza, può spazzare via il miasma e purificare l’impuro Alcmeone (cfr. frag. XIV-XVI su cui il commento di Dangel 1995, p. 365). De Meo 1990, ad loc. p.  63 ricorda Verg. Aen. 12,  523 (autore per il quale si segnala anche lo studio di Perutelli 1976, incentrato sulla rappresentazione della natura selvatica nei carmi bucolici, con riferimenti anche allo sviluppo della tematica nella poesia successiva e un breve accenno, p. 786, alla tragedia senecana), dove il fiume vorticoso è evocato tramite «suggestione sonora e visiva», rispetto al quale Seneca potenzia l’immagine accostando al rapida currens «l’insistenza, prolungata in uerberat, del suono vibrante». De Meo insiste proprio nel rimarcare l’idea di «forza travolgente», che prevale nel contesto su quella di velocità. Del resto, va altresì notata la ripresa di questa precisa connotazione paesaggistica nella dichiarazione di Fedra a Ippolito, con la quale la nouerca si dichiara disposta a seguire l’amato, v. 700 s., per mare insanum sequar | rupesque et amnes, unda quos torrens rapit, brano esaminato, tra gli altri, da Leeman 1976, p. 204. Anche altrove nel teatro Senecano torna a indicare l’azione di una velocità impetuosa, capace di trascinare via con sé quanto incontra, cfr. Thyest. v. 174-175, nell’immagine di Tantalo condannato a bere la polvere rimasta dal gorgo travolgente, hic bibit | altum de rapido gurgite puluerem.

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retorico, come alcuni commentatori fanno notare20) rigidità invernale, che non conosce soluzione di continuità, v. 7 s., scandite colles | semper canos niue Riphaea. A conferma, in particolare, dell’accezione impetuosa e pericolosa di rapidus mi pare si possa addurre anche il confronto con un passo di Agamemnon, collocato all’interno della lunga rhesis di Euribate «punto di svolta, situato nel centro della tragedia, preannuncio e presagio di eventi decisivi21», in cui nel resoconto dei disastrosi nostoi viene inserita una nota naturalistica con la quale l’autore caratterizza un paesaggio dalla «intrinseca volontà maligna, insidiosa e aggressiva22», personaggio ‘agente’ nella catastrofe che colpisce le navi greche: qui rapidus viene di fatto associato all’impetuosità dei vortici provocati dalla subdola conformazione del Cafareo che, traendo in inganno con il suo alternarsi di secche e profondità, provoca un movimento turbinoso delle acque, letale per i naviganti, v. 558-560, Est humilis unda, scrupeis mendax uadis | ubi saxa rapidis clausa uerticibus tegit | fallax Caphereus. Seguendo poi la narrazione del prologo di Phaedra, il quadro soave dei prati esposti al soffio di rugiada di Zefiro sembra chiudersi in maniera ambigua, sulla nota non proprio positiva del piger Ilisos23, v.  13 s., che, quasi colto nell’atteggiamento passivo di un indolente lasciarsi trascinare, attraversa campi infecondi, steriles agros, per rasentare spiagge non coltivabili con un sottile rivolo d’acqua, amne maligno, verso 20 Si veda quanto segnala De Meo ad loc. p. 64: «Qui l’epiteto geografico parrebbe chiaramente ‘ornante’ […] A riguardo la stilistica insegna che l’epiteto geografico, attestato già nei neoteroi […] si diffonde con Virgilio e Orazio per tendere poi a un sempre più accentuato irrigidimento. […] Nel nostro caso a determinare l’uso dell’epiteto può aver influito la consuetudine di accompagnare enfaticamente al nome un aggettivo, secondo la moda del tempo, ma anche il gusto per la connotazione letteraria, e soprattutto la ‘Namenfreudigkeit’ […] Tutte spinte che non poco possono incidere sul ripensamento di un eventuale sbrigativo giudizio di ridondanza, e agevolare il recupero della ‘figura’, attraverso la sua valenza antonomastico-predicativa». Il semper canos viene interpretato come esagerazione, forse dovuta all’intenzione di Seneca di rappresentare uno scenario «escarpado, abrupto, inabordable y solitario», da Lopez Cabrera 2004, p. 15. Simile la caratterizzazione geografica in Luc. Phars. 4, 118. 21 Caviglia 1987, p.  145. Cfr.  Mazzoli (G.) 1996a, p.  25: «L’esercizio della vendetta è affidato alla natura che, tramite la tempesta marina, espropria progressivamente l’uomo della sua ratio e ars fino a ridurlo in totale balia degli elementi». Sul tema del nostos nella drammaturgia senecana Trombino 1988. 22 Rosati 2002, p. 230: in questa tipologia di caratterizzazione del paesaggio, lo studioso inserisce opportunamente anche il prologo della Phaedra per il quale parla di «tratti di aggressività, come le terre ‘frustrate’ dall’acqua turbinosa dei fiumi, o viceversa ‘raschiate’ dal loro corso avaro». 23 Una prospettiva analoga si riscontra in Aricò 2012 che ugualmente si sofferma su queste tematiche e con cui condivido la lettura dei passi citati.

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in cui è stato finemente riconosciuto che l’uso del termine malignus si carica di una valenza sinistra24. Per quest’ultimo vocabolo, in particolare, mi sembrano molto efficaci anche i riferimenti a Lucano, Phars. 9, 500 s., dove peraltro colpiscono le somiglianze tra le due situazioni dal momento che nel poema epico troviamo una parua maligna | unda procul uena in un ambiente desertico, e allo stesso Seneca, Nat. Quaest. 4a, 2, 5, dove l’aggettivo si trova nella descrizione del flusso torrenziale del Nilo, violento a tal punto da renderlo dissimile da se stesso, quasi irriconoscibile, excitatis primum aquis quas sine tumultu leni alueo duxerat, uiolentus et torrens per malignos transitus prosilit dissimilis sibi. In riferimento all’ambiente naturale, difatti, anche piger è un aggettivo che si ritrova in Oed. v. 547, nel bosco nero dove ha luogo il terribile vaticinio: la limosa pigrum circumit fontem palus simboleggia l’immobilità delle acque stagnanti, nel tristis umor (v. 546) che contribuisce a rendere il carattere tenebroso e terribilmente sinistro del lucus, in rapporto di sympatheia con l’altrettanto temibile responso divino. Vi sono poi altre occorrenze, sempre velate di una patina negativa, nella poesia di Seneca: afferente a un’atmosfera infernale nel paesaggio dell’arcana regio in Thyest. v. 665, Fons stat sub umbra tristis et nigra piger | haeret palude, verso in stretta affinità con il canto corale di H. F. che, ripercorrendo le imprese di Ercole, descrive appunto la palude dell’Oltretomba, v. 554, stat nigro pelagus gurgite languidum; infine, nel resoconto della discesa agli inferi di Teseo, v. 704 s., immotus aer haeret et pigro sedet | nox atra mundo, a testimoniare ancora l’inerzia della realtà ultraterrena25. Sem24 È molto convincente la lettura proposta da Aygon 2004, p. 237, che dimostra come questo spazio sia ben lontano dal tradizionale locus amoenus, in particolare per quanto concerne l’elemento acquatico, che è qui connotato negativamente: lo studioso, inoltre, nel caso specifico di malignus fa riferimento a Verg. Aen. 6, 270, dove il vocabolo si trova per indicare l’oscurità notturna della silua (su cui si costruisce il paragone per evocare l’oscurità del mondo infernale), con citazione anche del relativo commento di Donato. Si veda, inoltre, ThLL, VIII, 183, 80: qui, per la Phaedra, si riscontra malignus nel significato di non largus, non amplus, brevis, angustus, parcus, sterilis. Sul lessico di questi versi, cfr. anche il commento di De Meo 1990, ad loc. p. 68-69, il quale evidenzia il graduale slittamento in chiave peggiorativa segnato dall’et («dalla leggerezza all’inerzia»), poiché «la magrezza dei campi si degrada nella sterilità della sabbia». 25 Altri riscontri di questo aggettivo nella poesia senecana in Mugellesi 1974, p. 59: l’A. parla di un uso di piger riferito all’acqua come «tratto ricco di intensità espressiva e tutto senechiano», come epiteto che «denota un processo d’intensificazione espressiva nel senso dell’interiorità» nel ritornare in Seneca «sempre con riferimento a stati d’animo interessanti dal punto di vista psicologico». A conferma dell’ultima considerazione cita infatti: Thyest. v. 421, pigro (quid hoc est?) genitor incessu stupet e v. 436, placet ire, pigris membra sed genibus labant, in merito all’incertezza dei movimenti di Tieste, stordimento che prelude all’angoscia degli avvenimenti futuri; Thyest. v.  269,

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bra dunque dominare in questa descrizione paesaggistica più uno scenario sospeso, di immobilismo e di mortale lentezza, che di dinamismo, di energia o di vitalità. L’ottima analisi di Aygon, che a quest’ecphrasis ha dedicato pagine importanti e di decisiva chiarezza, permette inoltre di decifrare il carattere ancora ambivalente della scena successiva, solo a prima vista confortante nel riprodurre la tenera immagine degli animali che con i propri cuccioli si perdono alla ricerca di pascoli notturni, o nell’evocare il calore dei venti che scaldano il freddo monte di Acarne. Nel rilevare che tutti questi elementi possono effettivamente richiamare un paesaggio bucolico, lo studioso mostra, attraverso sottili riscontri e solidi confronti testuali, come in realtà il riferimento a un ambiente idilliaco-pastorale sia fondato su una perversione di fondo, in cui le stesse scelte lessicali usate per indicare genericamente il mondo animale, selvatico o domestico (grex, feta), lasciano aperta un’interpretazione che insiste maggiormente sull’assenza di gioia, di fecondità e di luce (pabula nocturna vs la formula consacrata pabula laeta), cioè su «une atmosphère différente […] où regne la crainte, et non la gaieté des troupeaux qui jouent dans l’herbe du matin, nullement évoquée ici (cf. par contraste H.F. 139143)»26, nel quadro di un paesaggio avvertito come ostile (durus Acharneus) e che incute timori o paure. Alla luce di queste considerazioni, il passaggio alle scene di caccia, caratterizzate da una vera e propria esplosione di dinamismo, di irruenza, di combattività, non è l’esito di un diverso punto di vista o di una netta rottura con la natura che fino a questo momento ci è stata presentata come scenografia drammatica e come sfondo dell’esistenza di Ippolito, ma appare piuttosto come il normale slittamento dal motivo del paesaggio a quello dell’azione27, dall’esterno all’interno, quasi uno instatque pigris manibus, sulla breve esitazione delle mani di Atreo nel compiere il delitto; Ag. v. 161, et maria pigro fixa languore impulit, in relazione all’immobilità del mare che trattiene i Greci, e che «definisce uno stato di torpore già fortemente indicato dal sostantivo (scil. languore)». Per l’immagine del corso d’acqua stagnante, che ricorda il paesaggio idrografico infernale, Malaspina 1994, n. 41, p. 21, segnala H. F. v. 679 s., ripresa, più tardi, nella descrizione apuleiana che dà inizio alla fabella di Amore e Psiche, Met. 4, 6 su cui Schiesaro 1985, p. 212 «Il rivo del paesaggio orrido si può caratterizzare in due modi opposti, ora precipitando impetuoso dalle fonti montane […], ora rallentando il suo corso fino a ristagnare come un pauroso fiume infernale». 26 Aygon 2004, p.  239, con relativa discussione linguistica dei termini qui solo menzionati. 27 Cfr. Zoccali 1997, p. 442 s., che nota la «centralità del motivo venatorio» non solo «all’interno di una struttura opportunamente e formalmente tripartita, ma anche a livello tematico-ideologico, per il fatto che viene contrapposto, come momento drammatico, ai due segmenti iniziale e finale, rispettivamente descrittivo e rituale, che

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zoom che restringendo la prospettiva dalla veduta d’insieme dei luoghi e degli elementi naturali (monti, fiumi, prati) si fissi sul particolare dell’attività venatoria, introdotto dall’accenno al notus aper che, suscitando il metus degli agricoltori, contribuisce a incupire l’atmosfera del passo. Animale inviso e pericoloso per l’uomo, dunque, ma anche, come è stato opportunamente osservato, definito dall’aggettivo notus che rievoca la condizione di Ippolito su un duplice piano, tanto nella memoria tragica e poetica, quanto nel costituire il primo di una lunga serie di richiami su cui sarà fondata la narrazione della sua fine28. La caccia di Ippolito non è qui rappresentata come attività ludica, né come distrazione, né ancora come mezzo di sopravvivenza: ha in sé componenti che ne lasciano trasparire piuttosto gli aspetti più selvaggi, facendone quasi un esercizio di forza, una forma di guerra (peraltro tradizionale nel mondo romano)29 e di dominio sulla natura, fondato sull’inganno della fraus gli fanno da cornice. Questi due segmenti (v. 1-27 e 54-82) si contrappongono specularmente nelle descrizioni geografiche: i luoghi noti dell’Ellade contrastano vistosamente con le località straniere e orientali […] e al domestico gregge fanno da pendant gli animali feroci di regioni lontane. Il terzo segmento […] mentre richiama per antitesi il primo riprende puntualmente il tema centrale della caccia con ripetizioni di termini e equivalenze sintattico-semantiche». 28 Ivi, p. 453: «al v. 30, al culmine di un’attesa di senso è presentata la prima fera, l’aper connotato proletticamente da uulnere multo iam notus. A mio parere, il uulnere multo, ripreso in seguito da sanguine multo di v. 78 e da multo uulnere di v. 1096 identifica l’aper (uulnere multo iam notus) con Ippolito che (e certo l’allusione non poteva sfuggire al pubblico colto del teatro di Seneca) era nothus». Molto importante l’analisi relativa alla caratterizzazione romana del personaggio di Ippolito, evidente nella parte conclusiva della tragedia nelle parole con cui il nuntius ne riferisce la morte, in Degl’Innocenti Pierini 2008, p. 251-275. 29 Sul rapporto tra caccia e guerra nell’antichità si rimanda allo studio di Aymard 1951, p. 469-481, completo di riferimenti ai testi e di apparato iconografico (per il quale si segnala in particolare la rappresentazione di questo plesso tematico, giunto dalla lunga tradizione delle monarchie orientali all’arte trionfale romana d’età imperiale, soprattutto a partire dall’età degli Antonini, p. 479 s.). Ad Aymard attinge anche Fedeli 1990, p. 119 s.: «Della caccia venne costruita sin dai tempi più antichi una giustificazione sociale e ideologica, tale da enfatizzare la sua importanza quale difesa nei confronti delle fiere assalitrici dell’uomo, del bestiame, delle greggi o nei confronti di animali, come il cinghiale, devastatori delle culture: si tratta, dunque, di un tipo di caccia che si distingue nettamente da quella praticata per fini economici e di sopravvivenza alimentare. Inquadrato in questa sua attività ‘eroica’ il cacciatore è considerato un audace, che si arrampica sui dirupi e luoghi scoscesi pur di fare la guardia alle reti. La caccia diviene, così, un surrogato dell’attività bellica». Lo rileva anche Capponi alla voce ‘caccia’ nell’Enciclopedia Virgiliana, p. 592, sulla base del lessico virgiliano (debellator, uastator), «termini della nomenclatura bellica, poiché il uenatus o la uenatio è attività che prepara e forma alla uirtus». Di «roi sauvage» «roi barbare» «quasi-loup […] faisant régner la terreur sur son territoire» parla Dupont 1991, p. 131 (ripreso successivamente in Dupont 1995, p. 165-172). La studiosa sottolinea anche il rapporto con la guerra nell’immagine del

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venatoria30. L’atmosfera ombrosa delle siluae diviene così funzionale non solo al nascondiglio e al rifugio, ma anche e soprattutto, in senso inverso, alla realizzazione dell’agguato, all’insidia che prepara la cattura della preda, motivo che sarà alla base del rovesciamento di ruoli dispiegato nel corso della tragedia, dove la figura di Ippolito si trasforma da inseguitore a inseguito, ‘cacciatore cacciato’, e dove le latebrae che Teseo si dichiara disposto a esplorare contro ogni ostacolo naturale per scovare il figlio, richiamandosi proprio alla medesima dimensione di oscurità (al tempo stesso come nascondiglio e come agguato) con cui si era aperta la tragedia, (v. 938-940, profugum per omnis pertinax latebras premam; | longinqua, clausa, abstrusa, diuersa, inuia | emetiemur), fanno oramai di Ippolito l’animale da stanare e inseguire fino alla morte, secondo una formula già consolidata nella storia interpretativa della tragedia. Nel prologo, inoltre, ai v.  31-52, paesaggio, ambiente, colori e suoni, con un’armonia di sensi che coinvolge la sfera visiva, uditiva e finanche quella olfattiva, indispensabile al cane da caccia per seguire le tracce della propria preda, sono tutti declinati nel riflettere l’organizzazione della trappola: la densità di termini direttamente connessi agli strumenti venatorii (v. 44, plagas, v. 45, laqueos, v. 46, picta rubenti linea pinna; v. 48, missile telum; v. 49 s., graue robur; v. 52, curuo cultro)31 si accompagna corteo di cacciatori, spingendosi ad affermare che «le courtège sanglant des chasseurs […] est appelé un triomphe: confondant ainsi guerre et chasse, ennemis et habitants du territoire, hommes et bêtes, Hippolyte est un monstre tyrannique, un lion devorant ses sujets». Alcuni hanno visto questo excursus cinegetico come un omaggio di Seneca alla moda e ai gusti del tempo: Cattin 1960, p. 67 allude alla presenza di questo motivo in altri passi della prosa del Cordovese, dove compare anche in termini positivi, «bien qu’il trouve cette occupation peu digne du Sage, il reconnaît qu’elle developpe certaines qualités physiques et morales». Il passo, dunque, non va definito, secondo l’A., come ‘hors d’œuvre’, ma risulta funzionale alla fisionomia del personaggio, in particolare per le sue qualità e per il suo stile di vita. 30 L’inganno è tradizionalmente associato ad attività come la caccia e la pesca nel mondo antico: si veda a riguardo il contributo di Focardi 1986, p. 96 s. e il commento della medesima al Carme del pescatore sacrilego, Anth. Lat. 1, 21 Riese 1998, praec. p. 20 s., con riferimenti a Verg. Georg. 1, 139-142 e Ov. Met. 15, 99 s. 31 Cfr. Armisen-Marchetti 1989, p. 85-87 alla voce chasse e p. 92-93 alla voce chien. Tuttavia, stranamente, non ho qui trovato esplicitati i riferimenti di Phaedra, dove il tema è trattato con maggiore dovizia di particolari, mentre compaiono quelli pur rilevanti ma più sintetici di Thyestes e Agamemnon. In generale sulla caccia in Seneca ancora Aymard 1951, p. 143-151, che parla di colorito romano per la scena (tu iam uictor; subsessores), nella quale «le héros trézénien fait place à un jeune et riche sportif romain»: secondo lo studioso francese Seneca condensa in pochi versi un vero trattato di cinegetica (le tipologie differenti di cani; le condizioni favorevoli alla caccia; il materiale necessario), riproducendo la centralità del posto che questa attività e questa forma di divertimento occupano nella vita quotidiana della Roma di primo secolo d. C. Un altro

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infatti ad altre spie testuali che denotano la generale e condivisa pianificazione delle insidiae che si prepara attraverso il silenzio (canibus tacitis), strumento necessario a dissimulare l’azione, e attraverso il ricorso a una indispensabile astuta accortezza (cautus) da adottare per preservare il silenzio e tenere a freno il latratus dei cani Spartani32. Pertanto, viene a crearsi un quadro di totale sintonia tra l’azione della caccia e lo spazio naturale che sembra quasi partecipare attivamente e direttamente alla fraus e alle uenationes, favorendone l’esito positivo, sia trattenendo nella terra rugiadosa i signa pedum che permettono l’inseguimento (v. 42 s., dum signa pedum roscida tellus | impressa tenet), sia agevolando la manovra con una luce, v. 41, dum lux dubia est (ed è significativo che si tratti dell’unico accenno alla luce, peraltro non luminosa, nel passo) enigmaticamente definita dubia, al tempo stesso dunque connotata tanto per la sua debolezza quanto per la sua pericolosità33. Così la voce dubius è filone interpretativo, invece, pone l’attenzione sul rapporto tra la caccia e la seduzione d’amore: si segnala in tal senso l’articolo di Kenney 1970, praec. p. 386-388, dove Kenney traccia una breve storia poetica (greca e latina) di questo tema, concentrandosi, in particolare, sull’originalità lucreziana (a partire da Lucr. Rer. Nat. 4, 1146-1148, plagas… retibus… nodos) nell’associare la sfera semantica della rete (net) al legame amoroso. Nella serie di loci testuali discussi dall’A., per quanto interessa nello specifico l’ambito teatrale, oggetto di questa ricerca, spicca l’uso plautino, che introduce nella metafora legata al motivo d’amore anche la pesca. Sull’intreccio senecano nella tragedia tra il motivo tirannico e il motivo erotico Petrone 1984, p. 76 s.: il «legame significativo» che «tiene insieme, in Seneca tragico, eros e regnum, di cui c’è traccia in alcune analogie tra l’erotodidattica ovidiana e la ‘didattica del potere’ contenuta soprattutto nel Thyestes» è al centro dello studio di Rosati 2006. 32 Il brano presenta, pur nella maggior ricchezza descrittiva e nella più attenta cura per il dettaglio, diversi spunti di confronto con le parole pronunciate da Atreo nel Thyestes (v. 491-505), dove la tattica da adottare nel tendere la trappola al fratello viene paragonata appunto a una scena di caccia, contraddistinta dai medesimi elementi. Il tiranno si paragona infatti al cane umbro che, scrutando le tracce della fera, si muove circospetto con lentezza e in silenzio, controllando e dissimulando l’istinto fino al momento della cattura, in cui si libera il desiderio di sangue e si dà sfogo all’ira. Non a caso, è comune il lessico utilizzato, sia per quanto riguarda i mezzi (plagis), sia per l’atteggiamento e la dissimulazione, (nare sagaci Phaedr. v. 39; sagax … Umber Thyest. v. 497; tacito rostro Thyest. v. 500; tacitis canis Phaedr. v. 31): l’insistenza sul motivo del silenzio rende ancora più stridente la contrapposizione con la successiva esplosione del trionfo, v. 80. Il riferimento al latrato dei cani, dissimulato e rimandato alla felice conclusione della spedizione venatoria, con la cattura e l’uccisione della preda, evoca la connotazione ben più sinistra, in un mondo di morte, del «cliché infernale del latrato dei cani», esaminato da Petrone 1986-1987, p. 135, a proposito di Med. v. 840 s. 33 Aygon 2004, p. 239, n. 201, propone come confronti Troad. v. 1142, dubius dies e Oed. v. 1, Titan dubius, dove il termine compare con una connotazione triste o sinistra. Anche in questo senso, si trovano paralleli interessanti nel corpus tragico, legati all’immaginario infernale, come H. F. v. 662 s., su cui Mugellesi 1973, p. 45 «Nella descrizione della foresta infernale, si insiste molto sulle tonalità scure e tetre che definiscono l’atmo-

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doppiamente descritta nel Thesaurus, ThLL, V/1, 2118, 51 de luce incerta uel colore obscuro e, VI/1, 2217, 12, con il significato di periculosus, aggettivo applicato a elementi naturali. A me pare che qui Seneca insista sul filo sottile delle molteplici interpretazioni cui si presta il brano, nella scelta di richiamare con un unico aggettivo sia il motivo cinegetico in senso stretto (l’opportunità del momento in cui dedicarsi alla caccia, cfr. Grat. 223, primae lucis opus), sia il sotteso e meno evidente riferimento alla pericolosità, sempre nel quadro della rappresentazione di una natura ambigua, di una oscurità che è direttamente connessa alla realizzazione dell’inganno, della fraus che permette la cattura della preda. Mi sembra dunque condivisibile quanto affermato in merito a tale specifico aspetto: il «cronotopo prologico» della Fedra è il dies, che si palesa «come più precisa linea isotopica» dell’alba, «tempo critico e simbolico, discrimine cangiante tra l’ombra e la luce, atto a caricarsi di tutte le tensioni vigenti tra questi due stadi antinomici della realtà fisica e psichica34». Il paesaggio, in tutta la sua fisicità, sembra pertanto intervenire come forza esterna ma presente, come luogo al tempo stesso apparentemente tranquillizzante ma implicitamente insidioso e, credo, volutamente non riconducibile a un’unica chiave interpretativa. Immerso in una dimensione fluida di cui ancora non si riconoscono i risvolti, ma se ne percepiscono i contrasti e le ambiguità, esso «anticipa, contiene in sé gli elementi perturbanti che si scateneranno, una volta innescati35», senza tuttavia lasciarli trasparire chiaramente, con effetti sia dall’interno del dramma − sul piano dell’ironia tragica che coinvolge i personaggi − sia verso l’esterno − nell’impatto sul pubblico consapevole che segue l’evolversi degli avvenimenti e che può cogliere, anche in tali tratti, l’originale profilo attribuito dall’autore alle dramatis personae e alla scenografia. Caratterizzazione che, mi pare, trova conferma nella tragedia, soprattutto nel confronto tra due differenti passi (seguendo un sfera dell’al di là: tenebre e tenui barlumi di luce (dubius fulgor solis) che ingannano la vista». La studiosa analizza l’uso dell’epiteto dubius in relazione all’ambiente naturale, p.  44 s.: «L’astrattezza dell’epiteto dubius viene più volte accostata a un elemento concreto dell’àmbito della natura per conferire a essa una partecipazione emotiva, pur lasciata nel vago, che attinge dalla stessa sfera linguistica in cui si definiscono gli stati d’animo dell’uomo». 34 Mazzoli (G.) 2012. 35 Critelli 1999, p. 238. Il corsivo è nella citazione. Cfr. anche quanto afferma Schiesaro 2003a, p. 297, a proposito del tempo nei prologhi senecani, affermazione che, credo, può essere valida, almeno per questo peculiare caso, anche per la dimensione spaziale: l’A. parla infatti di «una sezione preliminare e sovraordinata della tragedia, che ingloba il resto del dramma da un punto di vista superiore che coincide con la prospettiva onnisciente dell’autore».

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ordine non cronologico rispetto all’azione, ma partendo dal brano in cui più si è notato e indagato il legame con l’incipit) che coincidono con momenti drammatici ben precisi e di grande rilevanza: il racconto del nuntius sulla morte del giovane figlio di Teseo e la descrizione dell’aurea aetas, affidata alla voce e al rimpianto di Ippolito. La natura ostile nella rhesis della morte di Ippolito (v. 1000-1114) Sul gioco di corrispondenze tra le immagini contenute nel prologo e la lunga rhesis dell’uccisione di Ippolito, nel segno dell’usuale e matura Ringkomposition senecana, con la dovuta eccezione, per ovvi motivi, di Phoenissae36 si è già molto insistito da numerosi punti di vista, tanto che ci si è spinti fino a definire il prologo un «personaggio protratico» in cui la monodia costituirebbe un «preludio in chiave allegorica della tragedia nel suo intero svolgimento37». Molti sono comunque i riscontri, nella direzione tanto delle analogie, in forma di echi tematici e lessicali che sembrano condurre il lettore/spettatore a mettere in relazione la situazione iniziale della tragedia con quella conclusiva, (rapidità del movimento; paura; tema della caccia: spavento, rete, tronco, cani, distanza, redini, sangue, ferite, efferatezza, descrizione dei luoghi), tanto delle differenze, nel segno di un rovesciamento di prospettiva rispetto al quadro iniziale (Ippolito soggetto attivo vs Ippolito soggetto passivo; Ippolito locutore vs oggetto della narrazione; marche di potere e di dominio vs marche di debolezza o di impotenza; tendenza verso il futuro e verso l’azione vs azioni passate irrimediabili e dolorose; ritorno trionfale e abbondanza della selvaggina vs ritorno funebre e morte del cacciatore; impegno dei cani nella ricerca della selvaggina vs impegno dei cani nella ricerca di quel che rimane del cacciatore ucciso)38. La descrizione dello Per questa caratteristica della struttura drammatica senecana si rimanda a Mazzoli (G.) 1998, p. 129-132. 37 Zoccali 1997, p. 453. 38 Ho ripreso qui ancora le accurate indicazioni di Aygon 2004, p. 398-400. Sui medesimi aspetti anche Garbarino 1980, p. 74: l’A. mette in relazione i motivi del sangue e dei cani ai v. 1105 s. con il prologo, aggiungendo che «il particolare macabro è ripreso nella chiusa del dramma, ai v. 1278 s., dove echi, forse involontari ma non per questo meno significativi del prologo, si possono riconoscere nella movenza stilistica dell’at vos con l’imperativo (cfr. v. 31) e nell’aggettivo vagus là riferito ai cacciatori (v. 3), qui alle membra del giovane: la tragedia, che si apre con l’ordine ai compagni di andare, disseminandosi, in cerca di tracce di fiere, si chiude con l’ordine ai servi di andare in cerca delle membra sparse dello stesso Ippolito, quasi che il giovane si sia perduto in quel mondo nella natura fisica a cui, fin dal prologo, ha mostrato di appartenere interamente». Ha indagato il tema anche Rivoltella 1998, nell’ambito di un’ampia riflessione sul motivo dell’assimilazione dell’eroe tragico alle sue vittime, p.  418: «la ripresa del 36

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scenario che fa da sfondo all’azione della fuga e della morte di Ippolito, risulta inoltre particolarmente interessante, caratterizzato da un’atmosfera in un certo senso sospesa ai v. 1008 s., nullus inspirat salo | uentus, quieti nulla pars caeli strepit, nella bella immagine coniata da Caviglia di «ossimoro realizzato, scenario di tempesta a cui non si accompagna né vento né nube, un movimento naturale insieme ed ambiguo», che anticipa l’apparizione del monstrum39. La cornice paesaggistica sembra così identificata ancora nel segno di una parvente e comunque effimera serenità, di uno spazio che coincide con un «ignoto al di fuori, una realtà aperta su tutto, indifesa da tutto. Non precisamente un locus horridus, ma neppure un locus amoenus: piuttosto un indefinito spazio d’assenza, dominato come da un’allucinazione di serenità, di pace stranita. Ma questa immobilità, questo silenzio del mare e del cielo, questo sfondo che sopporta persino una aggettivazione da idillio (v.  1008 s.) vivono nella pagina solo in quanto aboliti in anticipo, anzi orientati a segno negativo da un verbo tumuit (v. 1007)40 che è il primo segnale dell’apparizione incombente41». A tutto ciò, cui segue il ritratto della temibile creatura marina, si aggiunge la rappresentazione dell’agonia di Ippolito e dello sparagmós42, che si consuma per effetto della caccia tragicamente vittoriosa, in cui all’ambiente naturale viene riservato un ruolo di primo motivo venatorio intende significare il simmetrico capovolgimento della condizione del giovane che da victor, condotto in trionfo secondo un’immagine tipicamente romana (v. 79-80) si muta in victima, accompagnata alla pira da una funebris manus (v. 1105; v. 1113-1114)». L’A. sottolinea come nella descrizione dello scempio corporale si inseriscano tratti ben precisi che suggeriscono una simile lettura, ad esempio l’immagine di Ippolito «irretito in un intrigo che lo avvolge per intero» e che richiama la «contorsione della fiera impigliata in un laccio o in una rete». 39 Caviglia 1990, p.  124. Sul monstrum Petrone 1984, p.  82: «nella natura dolce e idealizzata di una bucolica fa irruzione il deforme e mostruoso toro, come manifestazione del selvaggio e alla tranquilla quiete dei campi, convenzionalmente stilizzata perché se ne percepisca il significato simbolico, nella quale la caccia e Ippolito sono integrati, si oppone la ferocia bruta dell’animale prodigioso, innaturale ed irrazionale come le passioni che l’hanno suscitato». 40 La lezione tumuit non è comunque concordemente accolta: ne discute Caviglia 1990 alla n. 18, che riporta e arricchisce gli argomenti dello Zwierlein, quest’ultimo tuttavia risoltosi per tonuit nell’edizione oxoniense. 41 Caviglia 1990, p. 123-124. 42 Per un quadro esaustivo del destino di Ippolito, che mette a confronto la tradizione greca e l’interpretazione romana si veda il già citato Degl’Innocenti Pierini 2008, p. 229-250; sul tema dello smembramento praec. p. 243 s., con originali osservazioni sul contesto storico-culturale in cui collocare l’evocazione dello scempio corporale. Si sono espressi sull’argomento anche Segal 1984, con un confronto tra Euripide, Ovidio e Seneca, e Gahan 1987, che propone una lettura in chiave imitativo-emulativa, riconoscendo nel finale di tragedia la traccia della morte di Penteo nelle Baccanti di

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piano − per certi aspetti simile a quanto accade nel prologo − come parte coinvolta e intraprendente nella dinamica dell’azione. Il corpo di Ippolito, divenuto oggetto in balia di altri43, viene abbandonato all’azione distruttrice del paesaggio, che prende parte al disfacimento delle sue membra, alla distruzione della sua bellezza e alla dispersione delle sue parti: la natura selvatica e selvaggia, prima solo indirettamente pericolosa per l’uomo, si fa dunque natura ora apertamente ostile, colta dallo sguardo dell’autore quasi nell’atto di infierire sul giovane ancora semanimis, v. 1102, con le rocce che ne devastano il capo, v. 1093, inlisum caput | scopulis resultat, i cespugli che ne catturano e ne strappano i capelli, v. 1094, auferunt dumi comas, la dura pietra che ne saccheggia il bel volto, v. 1095, et ora durus pulcra populatur lapis, il tronco assimilato a uno strumento a metà tra la caccia e la tortura v. 1098-1099, tandemque raptum truncus ambusta sude | medium per inguen stipite ingesto44 tenet, i rovi spinosi che lo tagliuzzano torturandolo, v. 1102-1103, inde semanimem secant | uirgulta, acutis asperi uepres rubis. Il corpo di Ippolito è dunque divenuto oramai bottino (immagine consolidata e forse suggerita dalle scelte dei verbi auferre e populari, che lascerebbero così intendere un recupero anche della metafora militare del prologo), prigioniero di una natura in cui ogni singolo elemento del paesaggio sembra voler reclamare la parte che gli spetta nella spartizione della preda (cfr. v. 1104, omnisque ruscus45 corporis partem tulit). Fraude remota: l’innocenza dell’aurea aetas (v. 483-564) Il secondo luogo testuale che attira l’attenzione per un confronto con l’immagine dell’ambiente silvestre cantato nella monodia iniziale coincide con la risposta rivolta da Ippolito alla nutrice (v. 483-564), con cui, come noto, il giovane non solo oppone un netto rifiuto alla frequentazione dell’urbs e del ciuium coetus, ma si sofferma a lungo nella descrizione dell’età dell’oro, che contrappone alla decadenza di un mondo retto sul

Euripide. L’A. parla di vera e propria allusione: «Seneca is alluding to the ending of the Bacchae». 43 Ancora Caviglia 1990, p. 132: «oggetto su cui si esercitano il saccheggio e la distruzione da parte di ‘soggetti’ inanimati, aspre realtà di un paesaggio sterile». La mia lettura del passo, in particolare per quanto concerne il ruolo attivo del paesaggio naturale, è molto vicina a quella proposta da Critelli 1998, p. 74. 44 Seguo per ingesto il testo accettato da Zwierlein e con lui, da ultimo, da De Meo. 45 Il verso risulta problematico dal punto di vista testuale: ruscus è infatti congettura del Bentley accettata dallo Zwierlein, contra il truncus di ω.

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furor del potere46. Il passo risulta, a mio avviso, fondamentale per comprendere fino in fondo l’immagine della natura che emerge dal dramma come scenario in cui è ambientata la storia mitica, soprattutto in contrasto con la forza e l’irruenza di cui si è finora parlato: lo si percepisce forse già dal fatto che l’autore proponga una descrizione della vita di chi relictis moenibus siluas amat47 (v. 485), scegliendo di mettere in risalto ben precise sfumature, che sembrano avere davvero poco in comune con il prologo e con il racconto del nunzio. Le parole di Ippolito, infatti, riportano a un quadro che in questo caso è, senza ambiguità, davvero idilliaco, parentesi serena e positiva di una completa sintonia tra lo spazio geografico e l’uomo, immagine di un’altra natura lontana dal parlante e dal suo mondo, che si perde nel tempo remoto in cui si viveva in comunione con gli dei, v. 526, mixtos deis. Tale immagine è inizialmente definita da un presente descrittivo che conferisce alla serie di riquadri evocati una grande vitalità, un’immediatezza che vorrebbe riprodurne la tangibile presenza, una vicinanza ancora avvertibile (v. 508, fremunt; v. 509, tremunt; v. 513, defundit; v. 514, murmurat) ma finisce, in realtà, per mostrarne la dimensione sospesa, evanescente e infine definitivamente perduta, spezzata nella narrazione dal brusco ritorno al passato (v. 527, profudit aetas; nullus […] fuit) che segna il distacco definitivo da questo mondo e l’immersione nella ben più aspra fase di decadenza, culminante nella climax della guerra (v. 550553), del nefas familiare, v. 554-557 e, per tragica ironia, della nouerca, dux malorum femina. Dopo una prima sezione, definita in negativo tramite l’anafora non (v. 486-500) a escludere tutto quanto non appartiene alla libera uita48, si apre una differente prospettiva che, ‘in positivo’, presenta Questo lungo passo è a sua volta oggetto di numerosi studi che ne hanno proposto differenti letture e interpretazioni. Per l’attinenza con i temi qui trattati si segnalano almeno Soubiran 1989 e Grilli 1987, molto attento a districare l’intreccio tra il filone poetico e quello filosofico, entrambi fortemente presenti nel testo. Secondo Grilli, infatti, p. 304, Seneca «carica questi versi di tutto il più importante bagaglio etico della sua scuola» in una tirade che si conclude con un «sillogismo aperto stoico: donna è danno, donna è amore, amore è danno» con cui il filosofo «spoglia di sé» il personaggio, facendolo tornare l’Ippolito del mito e del dramma». Sulla struttura del passo anche Garbarino 2008. 47 Sull’importanza di questa forma di amor, messa in risalto anche dalla collocazione metrica e seguita dal se dicauit del v. 487 a indicare la fedeltà del diverso amore di Ippolito, cfr. Soubiran 1989, p. 19. 48 Un campionario di testi relativo alla presenza del modulo negativo per la descrizione dell’età dell’oro nell’antichità è proposto dallo studio di Davies 1987, che segnala per Seneca Med. 309 s. e [Sen.] Oct. v. 400 s., cui resta da aggiungere Ep. 90, 40-46. Utili spunti su questo aspetto anche in Maxia 2000 p. 92 s. e Degl’Innocenti Pierini 2008, p. 117 s. 46

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un paesaggio fino a questo momento ignoto nel dramma, che colpisce per le differenze con lo spazio in cui si muove lo stesso Ippolito, al centro di altri momenti scenici49. Diverse spie testuali contribuiscono a orientarsi verso una tale lettura del brano, la prima delle quali è senza dubbio da individuare nell’aperto aethere del v. 501, che colloca la rappresentazione di questo quadro temporale nello spazio aperto, proiettato verso il cielo, a «contemplare le armonie del cosmo50». Il riferimento alla caccia appare stranamente sintetico (almeno rispetto alla centralità del tema nella vita di Ippolito e nella struttura dell’opera), inteso a sottolineare soltanto la contrapposizione tra passato e presente, senza ulteriori riferimenti all’attività venatoria che non siano connessi alla distinzione tra le fraudes che l’uomo tende alle fiere e gli inganni orditi dagli uomini gli uni contro gli altri (v. 502 s., callidas tantum feris | struxisse fraudes nouit51), sintomo della degenerazione di un’umanità che attacca e uccide i suoi simili e di un regnum che su questo fonda il proprio potere, come rivela del resto lo svolgimento della fabula52: scompare infatti ogni allusione più precisa 49 Un’ipotesi di suddivisione e di definizione della struttura del passo in Soubiran 1989, p. 17 s., che distingue una prima parte corrispondente ai v. 486-525, definita «éloge de la vie champêtre (aspect négatif; aspect positif; aspect mixte)» e una seconda parte, v. 525-564, definita «éloge de l’âge d’or (aspect positif, aspect négatif; rôle nefaste de la femme)». L’analisi dello studioso francese si concentra sulla prima parte, interpretando la ferma ripetizione del non iniziale come «un refus brutal et total», che scandisce il tono di un rifiuto categorico alle parole della nutrix, nel quadro di un rovesciamento di ruoli in cui Ippolito sarebbe investito della funzione di laudator temporis acti, normalmente attribuita a un senex (cfr. Hor. Ars Poet. v. 173). Anche Petrone 1984, p. 74 mette in risalto la parte negativa come «negazione della vita cortigiana e regale», come la parte «più forte e quella a cui viene dato maggior risalto: posta all’inizio, motiva l’altra e le dà senso». 50 Degl’Innocenti Pierini 2008, p. 129. Cfr. anche Grilli 1987, p. 302 per l’opposizione chiuso/aperto; culto/semplice, nell’antitesi tra aperto aethere e i moenia, simbolo di kakia/vitium ‘per silentium’. Alquanto discutibile mi pare invece la prospettiva di Segal 1986, p. 68 s., che mette in relazione la contrapposizione tra il cielo aperto e il claudere del v. 781, con cui il canto corale successivo alla dichiarazione d’amore di Fedra presenta la fuga del giovane come «a sexual threat of ‘enclosure’». Recentemente sul tema anche Picone 2004, p. 138, che, nella serie di spazi antagonistici rilevanti nel dramma, inserisce anche la contrapposizione tra il fuori di Ippolito e lo speculare dentro di Fedra, «spazi antifrastici non in condizione di stasi, ma sottoposti a forti tensioni dinamiche», e Mazzoli (G.) 2005, p. 132. 51 Cfr. Ov. Met. 1, 128-131, Protinus inrupit uenae peioris in aeuum | omnes nefas: fugere pudor uerumque fidesque | in quorum subiere locum fraudesque dolique | insidiaeque et uis et amor sceleratus habendi. Sulla presenza del poeta di Sulmona nella produzione letteraria di Seneca, Mazzoli (G.) 1970, p. 238-247; per le tragedie, in particolare, è ora di riferimento lo studio di Jakobi 1988. 52 Roisman 2000, p. 79, sostiene un’interpretazione fondata sulla comune natura delle due fraudes: «although he schemes to catch animals rather than his fellow men, he

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a questa attività, che peraltro risulterebbe superflua se confrontata con il centro del discorso di Ippolito, ben radicato appunto sulla suddetta contrapposizione. Rispetto al prologo, inoltre, cambiano totalmente la connotazione del paesaggio e la descrizione del panorama orografico e idrografico, talvolta addirittura rievocato nella precisa coincidenza dei loci, per i quali, tuttavia, l’autore utilizza una diversa aggettivazione che legittima e anzi, forse appunto veicola la trasmissione di un altro messaggio. Al pubblico e allo stesso Ippolito, questa natura parla un linguaggio molto differente rispetto a quanto evocato inizialmente: non c’è qui, del resto, nessun ricorso a una ambiguità da disvelare, a un significato celato o a una duplicità latente, in qualche misura legata allo sviluppo dell’intreccio; c’è, al contrario, la scelta consapevole di termini che indirizzano la percezione del paesaggio in un’unica direzione, nitidamente favorevole, che si risolve soltanto in senso positivo in un mondo spontaneo che esclude artifici di ogni sorta (fraude remota, come ricorda il primo canto corale di Medea53): nelle parole, v. 496, nec […] uerba fingit; nell’ambiente naturale appunto e nel lavoro, v. 527-530, nullus his auri fuit caecus cupi-

is really no different in character from other human beings. Where one lives does not seem to make much difference to the nature of the person. The forest-dweller is as violent as the city denizen: one catches and slaughters wild animals, the other kills oxen for sacrifice». Questa proposta di lettura non mi convince: il riferimento all’inganno è funzionale alla contrapposizione tra la vita dell’aula e la vita estranea al potere, tra i pericoli e le insidie del regnum e la tranquillità della dimensione naturale, dove l’uomo non ha nulla da temere dai suoi simili. Segal 1986, p. 84, sostiene invece che con il motivo della caccia vengano espresse molte delle ambiguità della ricostruzione ideale di Ippolito: «Craft or trickery is generally banished from the Golden Age […] Here, emphasized by the adjective callidus, these crafty tricks of the hunter have a prominent place. The addition of tantum, ‘only’ in 502, calls attention to Hippolytus’ special pleading», La contraddittoria presenza di un riferimento alla fraus nel generale quadro idilliaco è notata da Aygon 2004, p. 402: l’A. non considera tale descrizione come un locus amoenus in senso stretto e lo mette in relazione con il prima e il dopo dello sviluppo drammatico, p.  406: «Et le double écart – subtil mais incontestable – d’une part entre la monodie initiale (où se découvre la véritable nature du héros) et l’image faussée qu’il donne ici de son mode de vie, d’autre part entre les éléments tradionnels du locus amoenus et leur présentation légèrement décalée, crée un effet d’ironie théâtrale qui annonce le renversement final, lorsque les éléments naturels eux-mêmes déchirent le corps du héros». Cfr. anche Mazzoli (G.) 2012: «Nella Phaed. il cronotopo della silva, largamente evocato nel prologo lirico, potrà trovare convalida ideologica quando lo stesso Ippolito, nel dialogo con la nutrix di Fedra, lo eleggerà a sede privilegiata di un’esistenza in tutto degna dell’aurea aetas (v. 525-539), capace di fraudes solo nei confronti delle fiere (509 s.) laddove, come amaramente sancirà il coro (v. 982), la fraus domina nel ‘ferreo’ spazio-tempo dell’urbs, del regnum. Proprio invece sulla sua vocazione si ritorce la fraus di Fedra, già con quel talis in siluas ferar da lei dichiarato al v. 403, tanto denso di marche decettive». 53 Med. v. 329 s., candida nostri saecula patres | uidere procul fraude remota.

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do […] nondum secabant credulae pontum rates54, nella vita umana, v. 522524, nec in recessu furta et obscuro improbus | quaerit cubili seque multiplici timens | domo recondit, nella convivenza pacifica che non conosce le arti della guerra e le machinae offensive55, v. 531-534, non uasto aggere | crebraque turre cinxerant urbes latus; | non arma saeua miles aptabat manu | nec torta clausas fregerat saxo graui | ballista portas. Lo scenario raffigurato da Ippolito elimina in maniera radicale ogni possibilità di manipolazione, di insidia, di nascondiglio: nella descrizione dell’ambiente, scompare perciò l’umbrosa silua quale luogo tenebroso, spazio di latebrae dove si consumano trappole, scompare ogni riferimento al sangue (che torna, invece, a proposito delle artes belliche, strumento di mille formae mortis v. 551 s., e di scelera familiari, v. 555 s.), tutto per lasciare il posto alla luminosità e alla luce dello spazio aperto, che prima, come si è avuto modo di vedere, risultano invece completamente assenti. Alla natura aspra e difficile, dai risvolti talvolta ostili all’uomo, o addirittura impervia e inospitale, si è sostituita una natura limpida, facile, dolce, in cui il corso d’acqua dell’Ilisso, già presente nel fitto campionario geografico della monodia iniziale, non è più caratterizzato dalla lentezza del movimento in un contesto naturale associato alla sterilità (gracilis agros e steriles habenas) senza alcun riferimento alla presenza umana, colto nel 54 Cfr. ancora Med. v. 301-308, Audax nimium qui freta primus | rate tam fragili perfida rupit | terrasque suas posterga uidens | animam leuibus credidit auris | dubioque secans aequora cursu | potuit tenui fidere ligno | inter uitae mortisque uices | nimium gracili limite ducto. 55 La machina quale strumento nelle mani dell’uomo è nominata anche in Phoen. v. 568: nel brano, tuttavia, Giocasta si rivolge al figlio Polinice mettendolo in guardia dal voler distruggere le mura di Tebe, non erette grazie all’artificio umano, ma opera della ‘magia’ di Anfione, v. 566 s., poteris has Amphionis | quassare moles? Nullas quas struxit manus | stridente tardum machina ducens onus | sed conuocatus uocis et citharae sono | per se ipse summas uenit in turres lapis. Cfr. per questo passo Segal 1983a, p. 230 s.: «The passage as a whole develops the larger contrast between the civilizing art of song and the destructive savagery of war […] Seneca plays on this divided heritage of Thebe’s past: the creative, songful moment of Amphion’s effortless architecture and the savage forest, place of horrible bloodshed». Un ulteriore confronto, con la descrizione di un quadro simile a quello delineato da Ippolito, offre Seneca prosatore, in Ep. 94, 61: Multi inueniuntur, qui ignem inferant urbibus; qui inexpugnabilia saeculis, et per aliquot aetates tuta prosternant; qui aequum arcibus aggerem attollant, et muros in miram altitudinem eductos arietibus ac machinis quassent; multi sunt, qui ante se agant agmina, et tergis hostium graues instent, et ad mare magnum perfusi caede gentium ueniant: sed hi quoque, ut uincerent hostem, cupiditate uicti sunt. L’immagine è ripresa in senso metaforico per rappresentare la forza della filosofia, muro inespugnabile, resistente agli attacchi sferrati per mezzo degli strumenti più diversi e delle più insidiose macchine offensive, Ep. 82, 5: Philosophia circumdanda est, inexpugnabilis murus, quem fortuna multis machinis lacessitum non transit. In insuperabili loco stat animus, qui externa deseruit, et arce se sua uindicat: infra illum omne telum cadit.

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suo pigro scivolare tra zone senza vita, ma diventa niueus, vocabolo con cui ne viene sottolineata la limpidezza, la chiarezza, dunque una qualità positiva che è associata in un certo senso anche al colorito lucente, quale luogo riposante che fornisce ristoro a chi è spossato e stanco per il labor56. In maniera analoga, il movimento dei fiumi passa dalla descrizione della rapida unda del prologo, la cui irruenza trascina via con sé quanto incontra, alla più docile celeritas dell’Alpheus, (v. 505, nunc ille ripam celeris Alphei legit), o alle citas undas di un’anonima fons (v. 512 s., siue fons largus citas | defundit undas): in questi due casi, la scelta lessicale, nel rendere bene l’idea del dinamismo e della velocità, sembra infatti propendere verso un’aggettivazione funzionale a metterne in evidenza l’energica vitalità57, più che la forza dirompente e pericolosa, come conferma anche il riferimento alla dolcezza del suono provocato dal rumore delle acque, v. 513-514, siue per flores nouos | fugiente dulcis murmurat riuo sonus58. Nel quadro armonico di questi versi anche l’accenno alla fonte di Lerna viene declinato in tal senso, v. 506-508, nunc nemoris alti densa metatur loca | ubi Lerna puro gelida perlucet uado | sedesque mutat: come sostiene De Meo, si tratta con tutta probabilità di una fonte nei pressi di Corinto cui fa accenno Pausania, 2,  4,  5, più compatibile con questo contesto rispetto alla cacofonica associazione con la nota e molto più tetra palude che evoca l’uccisione dell’Idra59. Resta comunque evidente l’intenzione 56 Sono dunque molto distante da quanto affermato in Roisman 2000, p. 79, per la quale ogni uomo indulge nella sete di violenza e nell’appetito del piacere fisico, che cambia solo in funzione del suo ‘environment’. Secondo questa lettura nell’intero brano: «nor the natural world is presented as entirely positive», con marche linguistiche che lascerebbero intendere riferimenti alla violenza (percussi; tremunt; fremunt); Roisman giunge ad affermare che la descrizione di Ippolito, p. 80, «suggests that he does not like the woods quite as much as he would like others to think», insistendo sulla violenza e sulla forza del personaggio, p. 80-82. Tra i diversi punti che non mi convincono, mi pare emblematico il ricorso a quella che è forse una forzatura davvero non necessaria, ovvero il voler leggere nel fraga uulsa e nell’uso del verbo uellere una doppia valenza come termine della sfera militare, quale metafora dell’attacco di Ippolito al mondo vegetale che lo circonda. Analoga la prospettiva dal punto di vista della natura, che così si rivelerebbe a sua volta oppressiva, in quanto colta nell’atto del certior somnus premit, v.  520: ma l’immagine della natura ambigua, dai risvolti insidiosi, a mio parere si adatta molto di più alle scene iniziali e conclusive che a questo lungo brano. 57 Cfr. ThLL, III, 754, 82 s. e 1208, 59 s. 58 Cfr. il soave mormorio delle placide acque marine in Troad. v. 201 s., placidumque fluctu murmurat leni mare | Tritonum ab alto cecinit hymenaeum chorus. 59 De Meo 1990 ad loc. p. 106, propende per questa interpretazione perché alla palude non si adatterebbero puro e perlucet. La lezione sedesque mutat non è accettata dallo Zwierlein, che preferisce solesque uitat, cfr. Zwierlein 1986 ad loc. p. 192-194. Ne discute con acribia e con argomenti molto convincenti, che si risolvono nel rifiuto della correzione che «non solo non è necessaria, ma appare del tutto inopportuna», Gar-

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di mettere bene in risalto l’elemento luminoso, che spicca introdotto dal riferimento allo scintillare provocato dal bagliore che fa breccia nella fitta foresta, e che, appunto, ancora una volta confermerebbe come la cifra di questa natura, diversamente dal prologo, vada individuata non più nel buio e nella penombra, relegata ai recessus e all’obscurum cubile del palatium (v. 522 s.), ma nel chiarore e nella luce60. Il linguaggio è dunque davvero in sintonia con la tradizione del locus amoenus elaborato dalla poesia antica61, come si può dedurre anche dal solo confronto ‘interno’ all’opera di Seneca, dalle notevoli affinità con Ad Marc. 17, 3: la descrizione della fonte Arethusa sembra confermarlo, nel riproporre gli stessi elementi e l’identità degli attributi perlucidus e gelidus a indicare la bellezza del luogo, uidebis celebratissimum carminibus fontem Arethusam, nitidissimi ac perlucidi ad imum stagni, gelidissimas aquas profundentem. Allo stesso modo, il ben noto panorama aureo dell’Epistola 9062, appare in sintonia con la dimensione evocata da Ippolito, estranea a qualsivoglia forma di manipolazione e di intervento sul territorio o sulla natura, nello spazio aperto a contatto diretto con il cosmo, nell’immagine ancora dei pelucidi fontes63, in un mondo che non conosce ars e fraudes umane, ma barino 2008, p. 642-645, in sintonia con De Meo 1990 ad loc. p. 167: «qui si vuole chiaramente alludere ai continui spostamenti del cacciatore, in rapporto sia a quanto precede, sia a quanto segue». 60 Soubiran 1989, p. 21 parla di contrapposizione tra «les couleurs brutales de la première section» e il blu del cielo, il verde degli alberi e le tinte fresche dei fiori. Lo studioso si chiede anche, p. 22, se il riferimento a multiplici… domo del v. 524 non sia da mettere in relazione al labirinto costruito per nascondere il frutto di un altro, mostruoso adulterio: in questa direzione già Petrone 1984, p. 78. 61 Così anche Garbarino 2008, p. 642: «Dal v. 501 la vita del cacciatore è descritta in positivo e collocata in un ambiente naturale tratteggiato con i caratteri tipici del locus amoenus». 62 Sull’Epistola 90 e sul motivo dell’età dell’oro esiste un’amplissima bibliografia. Mi limito perciò a segnalare solo alcuni tra i contributi più recenti, che riguardano più da vicino anche questi versi tragici: Novara 1988, focalizzato sul rapporto tra âge d’or e sagesse; Pianezzola 1999, con una larga panoramica su numerosi testi poetici latini, in cui viene inquadrato il passo senecano; Maxia 2000, secondo la quale Seneca opera una rilettura del mito «nello spazio idealizzato delle silvae» come «mito parallelo», spazio alternativo ai mali del presente che incarna metaforicamente la «scelta consapevole della sapientia […] che il sapiens può sempre operare nello spazio rasserenante dell’interiorità». 63 Cfr. Degl’Innocenti Pierini 2008, p. 129, che pure, appunto, lega questo linguaggio alla topica raffigurazione dell’amoenitas geografica, portando come ulteriori testimonianze Ap. Met. 5, 1 e, per «l’esaltazione stoica della bellezza della natura», Cic. De nat. 2, 98. Si può forse aggiungere a queste la similitudine catulliana, cfr. Cat. 68, v. 57-62, qualis in aerii perlucens uertice montis | riuus muscoso prosilit e lapide | qui cum de prona praeceps est ualle uolutus | per medium densi transit iter populi | dulce uiatori lasso

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è colto in tutta la sua genuina spontaneità e trasparenza, 43-44: spiritus ac liber inter aperta perflatus et leuis umbra rupis aut arboris et perlucidi fontes riuique […] sponte currentes et prata sine arte formosa […] quamuis egregia illis uita fuerit et carens fraude… Nella Phaedra inoltre, nelle parole del giovane ateniese viene riprodotta la totale armonia sensoriale della natura, in questo caso non indirizzata in senso distruttivo all’uccisione della preda, ma positivamente raffigurata nel piacere della vista a cui si unisce quello dell’udito, con una sonorità ben diversa dunque da quella evocata tanto nei primi versi della tragedia, fatta di minacciosi silenzi e di feroci latrati, quanto verso la fine, con il mugugnare sinistro del mare e con lo strepito dei flutti che si infrangono sugli scogli (v. 1025-1026). Qui l’acqua scorre dolcemente (v.  514), gli uccelli cinguettano, v.  508, hinc aues querulae fremunt, gli alberi accarezzati dal vento tremano con una leggerezza melodiosa, v. 509-510, ramique uentis lene percussi tremunt | ueteresque fagi, che non ha niente in comune con il tremore spaventoso della terra che provoca la fuga degli animali e degli uomini poco prima della morte di Ippolito, v. 1050 s., tremuere terrae, fugit attonitum pecus | passim per agros, nec suos pastor sequi | meminit iuuencos […] omnis […] uenator horret. Il lungo excursus costituisce l’unico caso, nel corpus tragico di Seneca, in cui compaia un’immagine interamente positiva dell’ambiente naturale64, di un paesaggio che riproduce il rapporto di totale armonia tra l’individuo e il cosmo, introdotto da quel riferimento alla comunione con la sfera divina, v. 526, che sembra sottendere, oltre il topos dell’aurea aetas, quella Κοινωνία θεῶν καὶ ἀνθρώπων che sta alla base dell’homologia stoica, «visione organica, solidaristica della realtà universale65» descritta dal filosofo in Ep. 95, 52 s. La presentazione della libera uita et uitio carens cui si ispira il figlio di Teseo ricorda infatti la celebre definizione di Ep. 94, 56 nulli nos uitio natura conciliat: illa integros ac liberos genuit, nel contesto di un provvidenzialismo naturale che agisce per il bene dell’uomo ma in sudore leuamen | cum grauis exustos aestos hiulcat agros. Va inoltre ricordata l’immagine dell’Alfeo in Sen. Thyest. v. 130 s., gelido flumine lucidus | Alpheos; sulla trasparenza dell’acqua e sulla dolcezza del suono, cfr. anche Ov. Met. 5, 587 s. inuenio sine uertice aquas, sine murmure euntes | perspicuas ad humum, per quas numerabilis alte | calculus omnis erat, quas tu uix ire putares. 64 Così anche Rosati 2002, p. 229: «Solo l’idealizzata natura edenica vagheggiata da Ippolito presenta i tratti tipici del locus amoenus (Phaedr. v. 483 s.); ma è una natura che non c’è più, che si può solo vagheggiare in un remoto passato, perché il potere l’ha corrotta (v. 542 s.), l’ha ‘snaturata’: quel potere che ha lasciato tracce ben visibili, e che ora è ‘depositato’ fin nella conformazione fisica della natura stessa». 65 Mazzoli (G.) 1996a, p. 17.

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che l’uomo stesso ha provveduto a rovesciare e stravolgere nella difficile strada che porta all’apprendimento della libertà66, andando alla ricerca di quanto la natura ha invece opportunamente tenuto nascosto: nihil quo auaritiam nostram inritaret posuit in aperto: pedibus aurum argentumque subiecit calcandumque ac premendum dedit quidquid est propter quod calcamur ac premimur […] 57, haec supra nos natura disposuit, aurum quidem et argentum et propter ista numquam pacem agens ferrum, quasi male nobis committerentur, abscondit.

Inoltre, nell’insistere sull’importanza dello spazio aperto e sulla proiezione verso la sfera celeste, v. 524, aetherea ac lucem petit | et teste caelo uiuit, Ippolito si mostra consapevole della vera disposizione umana, naturalmente vòlta allo sguardo verso l’alto, dove la posizione fisica eretta dell’uomo diventa speculum dell’elevazione dell’animus erectus, «in cui si esprime la tensione umana verso il bene67», come si evince da Ep. 94, 56, illa [scil. natura] uultus nostros erexit ad caelum et quidquid magnificum mirumque fecerat uideri a suspicientibus uoluit. E, tuttavia, come si è cercato di mostrare attraverso il confronto con altri loci all’interno della Phaedra, questo passo resta del tutto isolato nel contesto dell’opera: la descrizione degli spazi e della vita che è qui fornita da Ippolito non coincide affatto, né è compatibile, con l’ambiente che fa da sfondo alle vicende tragiche e rimane relegata nel rimpianto di un mondo perduto, abbattuto proprio dall’azione umana che ha spezzato il foedus con la natura (v. 540, rupere foedus), preda del furor, dell’ira, della libido. Come infatti ha finemente scritto Mazzoli, «l’atteggiamento del drammaturgo – oltre a contrapporsi a quello del prosatore – risulta alla fine distante, nei riguardi dell’aurea aetas, dalla posizione del Virgilio bucolico, profeta del suo prossimo nuovo avvento, e dello stesso Orazio giambico, che nell’epodo 16 si faceva uates della fuga dalla storia verso utopici relitti dell’antica età dell’oro. Nell’universo tragico di Seneca non c’è spazio, e non c’è tempo, per la pace, l’equilibrio, l’ordine fisico, psichico, antropico. E per le loro immagini: l’età dell’oro si rivolta in età 66 Sul «cattivo uso della natura» si segnala Benathouïl 2006, p. 58-62, in particolare quando constata: «Les hommes se révèlent largement incapables de maîtriser leurs rapports à la nature». 67 Bellincioni 1979, ad loc. p. 202, ripercorre la storia del topos a partire da Platone. Lo sguardo verso il cielo è declinato come simbolo di conoscenza in Ep. 65, 20, Vetas me caelo interesse: id est iubes me uiuere capite demisso? Cfr. anche De ot. 5, 4, con commento di Williams 2003, ad loc. p. 90 che cita Ep. 92, 30 e Nat. Quaest. 5, 15, 3.

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del ferro, il locus amoenus in locus horridus68». In un certo senso, dunque, in questi versi viene ribadito un concetto chiave della drammaturgia del Cordovese, che altrove è presentato in termini espliciti, mentre qui è semplicemente lasciato intuire attraverso l’immagine del declino e del regresso: la proiezione ideale e fisica del locus horridus all’interno dello spazio del regnum, dove vizi e passioni umane dominano come forze irruente e distruttive. E tuttavia, nel quadro della struttura drammatica e dell’impianto della tragedia, questa «Arcadia impossibile69» non solo si oppone alla realtà del potere, ma anche si differenzia rispetto all’ambiente naturale70 in cui si muove il personaggio, scandito appunto da immagini che ne mettono in risalto le ambiguità, le insidie, i pericoli, dove ogni elemento che lo compone manifesta un duplice aspetto, nel quadro di un’ambivalenza e di un’equivocità di fondo che si rivelano in totale equilibrio con il dipanarsi degli inganni e delle macchinazioni di cui sono autori o destinatari i protagonisti. L’ambiguità di cui è pervaso il prologo e della quale si è cercato di rendere conto, dunque, viene quasi a sdoppiarsi nel corso dell’opera nel duplice volto, da un lato, di una natura che è interna al testo, dentro il tempo e lo spazio della Mazzoli (G.) 1992, p. 140. Sul tema Picone 1991, p. 209 parla di «condanna senza appello di ogni prospettiva provvidenzialistica che contempli in un futuro più o meno lontano l’avvento di un tempo sacro» e, sulla scorta di Hor. Epod. 16, vede nell’atteggiamento di Seneca la concezione che «l’Arcadia è l’esilio: amaro esito di un mito di salvazione». Anche Pianezzola 1999, p. 58 mette in risalto il rapporto con la precedente tradizione poetica latina, definendo così l’interpretazione senecana: «In Seneca tragico […] l’età dell’oro rappresenta il paradigma ideale su cui Ippolito proietta lo stato felice della vita agreste (v. 525-527): i consueti topoi e stilemi propri dell’età dell’oro si legano qui al topos della vita agreste e a quello delle isole felici del sedicesimo epodo oraziano e anche al motivo della Ideallandschaft con una fitta trama di rispondenze tematiche e formali che rinviano a Virgilio, Orazio e specialmente a Ovidio». Sul motivo dell’età dell’oro nella tragedia anche Lopez 1979-1980 e Bauzá 1982: per una visione sulla trattazione del tema in epoca neroniana, nel segno della continuità e dell’innovazione, Fabre-Serris 1999. 69 Recupero qui il titolo dell’articolo di Critelli 1998. In particolare, mi sembra interessante quanto la studiosa rileva a p. 73: «L’età dell’oro non è per Ippolito un mondo immaginario, un presente senza tempo o un’utopia futura, ma ha invece una referenza storica precisa: egli proietta la sua esperienza interiore e soggettiva, i suoi bisogni emozionali su un paesaggio che si svela essere quello di un passato mitico-storico, la cui componente mitica è riutilizzata come veicolo per intense esperienze personali. Ippolito va alla ricerca di un tempo perduto, il macrocosmo dell’età dell’oro rappresenta il microcosmo di una propria ricerca e di un personale tentativo di mantenere un certo tipo di vita. L’età dell’oro diventa il simbolo di un mondo emozionale, ma è un mondo che esiste solo in quanto rifiuto di un altro, reale, tipo di vita». Petrone 1984, p. 74 definisce questa Arcadia «rifugio e alternativa», e tuttavia, mi pare, percepita in fondo come meta irraggiungibile e impossibile già nella consapevolezza del personaggio. 70 Cfr. Rosati 2002, p. 229. 68

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tragedia, pronta a svelare i suoi lati più subdoli e a manifestarsi in tutta la sua impetuosa aggressività contro il figlio di Teseo causandone la fine, e, dall’altro, di una natura che al testo è completamente estranea, i cui tratti rassicuranti sfuggono tanto al personaggio drammatico quanto al pubblico, nel segno di una prospettiva che accomuna il parlante sulla scena, il fruitore dell’opera e il poeta stesso. L’età dell’oro diventa allora, per così dire, un ‘mito nel mito’, relegata a uno spazio e a un tempo che non esistono più neppure all’interno del contorno, già mitico, in cui essa si inserisce; resa ancora più distante e irraggiungibile dall’operazione letteraria e drammatica compiuta dall’autore, con la quale è il mito stesso a guardare al passato71. È un passato però, che in questi versi non evoca − come invece accade normalmente nel teatro del Cordovese e come, del resto, accade a più riprese anche nella Phaedra, v. 170-172; v. 241-245 − le temibili storie dei ghene tragici o il ripetersi dei loro nefas, riflessi nella geografia drammatica del palimpsestic world di cui parla Boyle72, ma coincide con il mythos positivo di un’epoca perduta, ne riconosce la distanza, ne rimpiange l’inafferrabilità e la totale inaccessibilità73. Con tale procedimento, prima ancora che a livello di ricezione, cioè dal punto di vista del lettore o dello spettatore, già anche nella consapevolezza metaletteraria e metapoetica del personaggio e del testo, questa mitologia viene al tempo stesso sia negata sia dichiarata incompatibile con la dimensione ‘mostruosa’ che domina la tragedia senecana in tutti i suoi aspetti, tanto nelle empietà realizzate dai suoi protagonisti, tanto nelle crudeltà di una scenografia naturale viva e partecipe nel compimento di tali mostruosità.

2. Paesaggio naturale e natura artificiale nel Thyestes: la forza di alterazione del potere sull’ambiente Un aspetto fondamentale della rappresentazione del paesaggio nel teatro di Seneca riguarda indubbiamente il suo rapporto con l’architettura 71 Su questi temi cfr.  anche Picone 2004, p.  141: «il giovane innesta nel mito oggetto della fabula un più antico mito archetipico». 72 Boyle 1997, p. 90. 73 Anche Segal 1986, p. 80 mette a confronto Fedra e Ippolito nei due differenti atteggiamenti verso il passato: mentre la prima guarda a un passato pericoloso, legato al palatium, (Minosse, il labirinto, Pasifae, Arianna), a un mondo di corruzione e di nefas d’amore, il secondo invece a un paradiso di innocenza e di pace. Su questi temi cfr. anche Picone 2004.

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del regnum, ovvero la definizione del legame tra lo spazio naturale e lo spazio del potere, identificabile nell’aula, nel palatium regale, scenografia che fa da sfondo agli avvenimenti tragici e che inquadra le dinastie regali nel loro contesto mitico. La riflessione sul potere, che domina l’ossatura delle opere senecane, si può scorgere anche da tale prospettiva, nella rappresentazione, cioè, di un ambiente naturale che si rivela in stretta affinità con la caratterizzazione ideologica del regno, di cui riflette le perversioni e la corruzione. La natura che appartiene all’hic et nunc della tragedia, infatti, non esiste come «natura pura, intatta, estranea all’influenza del potere e alla sua affermazione», ma, al contrario, reca le tracce, in ogni suo spazio, della «memoria di un’esibizione di potere», di «una volontà di controllo e di dominio del territorio», secondo quanto ha efficacemente dimostrato uno studio recente74. Il quadro paesaggistico entra così in contatto diretto non solo con i personaggi, ma anche con l’intreccio, di cui sembra seguire le vicende nel dipanarsi delle ambiguità, diventando esso stesso specchio, se non talvolta, addirittura, quasi figura agente come appunto nel caso di Phaedra, dei doli, delle mistificazioni e degli inganni ideati dai protagonisti, di quelle fraudis et sceleris uiae (Thyest. v. 312) che dominano sulla scena e che avvolgono le regge. Solo al di fuori del tempo e dello spazio drammatico, slegato dalle coordinate in cui si sviluppa la dinamica dell’azione, si può collocare l’occasione di un’esistenza condotta obscuro loco, coincidente con quella dimensione di isolamento dal potere e di estraneità alle trame del regnum che viene evocata tanto come lontano rimpianto, tramite la voce di un personaggio che ricorda un’esperienza passata e conclusa, relegata a un tempo che precede l’azione, quanto come prospettiva che oltrepassa la sfera mitica nella voce gnomica ed ‘esterna’ del coro, «controcanto a situazioni o atteggiamenti dei personaggi principali, tanto più netto nella sua opposizione quanto più distaccato dalle cogenze logico-cronologiche della fabula75». Il Thyestes, lo si è detto più volte nel corso di queste pagine, rappresenta κατ’ἐξοχήν, la tragedia dell’inganno, nella prospettiva totalizzante che fa di questo tema, al tempo stesso, il fulcro dell’azione, nelle diverse fasi della sua invenzione ed esecuzione, il testimone della catena di crimini della stirpe tantalide, l’instrumentum regni nel programma politico di Atreo, la manifestazione dell’accecamento provocato da illusorie apparenze. In questo contesto, anche la scenografia naturale non si Rosati 2002, p. 227. Mazzoli (G.) 1986-1987, p. 103.

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mantiene immune dalle falsità e dalle mistificazioni che scandiscono la vita all’interno del regno e che attraversano l’opera, non solo perché il paesaggio reca su di sé le tracce e i simboli delle insidiae maturate nel lungo avvicendarsi delle generazioni mitiche, monumentum dei nefas compiuti dalla stirpe, ma anche perché il paesaggio stesso si trova esposto alla manipolazione del potere, alle alterazioni provocate dall’ars umana che viola l’ambiente creando spazi artificiali contra naturam. In particolare, come si vedrà, per quanto concerne quest’ultimo aspetto, la scrittura senecana non guarda soltanto alla cornice drammatica e alla costruzione del mondo tragico, in cui esso si inserisce comunque come parte integrante, ma risente anche di motivi e di riflessioni che costellano la produzione non poetica del Cordovese, con la quale sono possibili interessanti confronti. Sul piano scenografico, il testo sembra snodarsi lungo due differenti spazi: l’uno, il palazzo argivo che racchiude e tramanda gli scelera della domus Pelopia, interno al piano drammatico e punto di riferimento costante sullo sfondo dei fatti oggetto della rappresentazione, in diretto rapporto anche con l’inferorum infausta sedes menzionata dalla Tantali umbra nel prologo; l’altro, opposto ed esterno rispetto alla fabula dalla quale resta distaccato, identificabile nella casa e nel mondo silvestre dove Tieste ha trascorso il proprio esilio lontano dalla patria, subito evocato come dimensione perduta dal personaggio rientrato a Micene e ancora preda di dubbi e sentimenti oscillanti76. Le due realtà si contrappongono materialmente e idealmente, nel rappresentare due distinti luoghi fisici, due diverse condizioni esistenziali, due punti opposti nel percorso di avvicinamento alla sapientia e di conoscenza di sé cui fa riferimento il secondo coro (v. 336-403) e due realtà dissimili nell’ambito di quel continuo alternarsi tra verità e finzione, tra sincerità e dissimulazione che costituisce il Leitmotiv della tragedia. La scenografia ‘esterna’ al dramma: l’autenticità della vita silvestre e lo spazio sine arte della casa (v. 412-419; 446-453) L’entrata in scena di Tieste è marcata dall’atteggiamento ambivalente del personaggio, giunto a rivedere il suolo patrio e tuttavia ancora sospettoso e diffidente nei confronti dei pericoli che esso cela. In linea con

76 Sui sentimenti topici della figura dell’esule (paura, incertezza, speranza) è da vedere lo studio di Degl’Innocenti Pierini 1990b. Sulla condizione degli exules beati nel teatro senecano Lo Piccolo 1998.

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i versi già pronunciati dal coro77, la contrapposizione cui Tieste fa riferimento si gioca infatti sul binomio antitetico quies/securitas vs metus, a sua volta modellato sullo scarto tra la vita in sintonia con l’ambiente naturale, qui caratterizzata come umile ma autentica e per questo estranea a trappole e valori mendaci, e la vita lussuosa del potente, esposta, al contrario, a tutto quel repertorio di falsità e di distorsioni che viene dispiegato nel corso dell’opera e che ha nella struttura materiale dell’edificio regale la sua manifestazione più visibile e, al tempo stesso, proprio in virtù dell’aspetto ammaliante, più subdola e infida. Nel breve quadro tratteggiato da Tieste ecco dunque trasparire il ricordo della tranquillità e della felicità passata, legata a un preciso scenario anche geografico, cui fanno da contraltare l’incertezza e il timore per la situazione presente e per l’incognita dell’incerto futuro: repete siluestres fugas | saltusque densos potius et mixtam feris | similemque uitam; clarus hic regni nitor | fulgore non est quod oculos falso auferat; […] modo inter illa, quae putant cuncti aspera, | fortis fui laetusque; nunc contra in metus | reuoluor (v. 412419). «Si riafferma prepotente la nostalgia della vita da esule78», in cui il mondo silvestre e selvatico, paesaggio che si colloca appunto al di fuori delle coordinate spazio-temporali in cui si svolge il dramma, viene così solo brevemente evocato, pur nei suoi tratti più aspri, come emblema di una semplicità genuina che non conosce gli artifici del regnum, motivo ricorrente nella poesia del Cordovese: «l’evocazione della natura selvaggia in contrapposizione al mondo civilizzato con cui viene identificato il regnum, rinvia a un altro personaggio del teatro senecano, l’Ippolito della Phaedra, che esprime in termini altrettanto netti, mediante l’opposizione natura incontaminata/città corruttrice (v.  483 s.), l’esigenza di sottrarsi al mondo del potere, visto come sede di callidae fraudes e di perversione79». Tuttavia, secondo quanto rileva l’uso dell’imperativo

Thyest. v. 344 s., regem non faciunt opes | non uestis Tyriae color | non frontis nota regia | non auro nitidae trabes: | rex est qui posuit metus | et diri mala pectoris […]. Il passo corale già introduce i temi principali trattati da Tieste nella scena successiva, in particolare l’elenco dei simboli materiali del potere regale da contrapporre al potere dell’interiorità, capace di resistere alle avversità della natura e della sorte, lontano dalle dinamiche e dalle macchinazioni della guerra. 78 Degl’Innocenti Pierini 1990a, p. 79: l’A. nota in questo paesaggio selvatico elementi non dissimili dalla descrizione della Corsica, «così drammaticamente evocata negli epigrammi attribuiti a Seneca: vita ferina, ma priva dei bagliori accecanti e ingannevoli del potere». 79 Picone 1984, p. 72. 77

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repete80, tale estraneità non coincide, come per il figlio di Teseo, con la condizione perduta e oramai irraggiungibile dell’aurea aetas, ma sfuma nel vicino e recente trascorso del personaggio, al quale si mostra ancora come possibile via di fuga di fronte alle insidie del potere e all’astuzia fraterna − dinamica prevedibile e già prevista dallo stesso Tieste nell’asserzione del v. 473, errat hic aliquis dolus − altrimenti ineludibile all’interno di un regno che tutto contamina: si tratta cioè di una dimensione contigua, non ancora irrimediabilmente distante e tuttavia a portata della troppo debole volontà di Tieste81 che finirà per cedere all’attrazione del nomen regale (v. 542, accipio: regni nomen impositi feram). Nel successivo dialogo con il figlio Tantalo, il tema viene ulteriormente sviluppato: il personaggio infatti, si sofferma più dettagliatamente nella descrizione della distanza e delle differenze tra i due ambienti, insistendo nel sottolineare come il contrasto tra realtà e apparenza, alla base delle false illusioni che proiettano l’uomo verso valori a sé esterni e forieri di rovina (segnatamente il potere, la ricchezza o l’avidità, ognuno dei quali è regni falsus fulgor) trovi un referente concreto nell’opposizione tra la natura incontaminata della silua da un lato e il regno dall’altro, e, più precisamente, tra la sobria misura della casa e gli eccessi dell’aula82: mihi crede, falsis magna nominibus placent | frustra timentur dura. Dum excelsus steti | numquam pauere destiti atque ipsum mei | ferrum timere lateris. O quantum bonum est | obstare nulli, capere securas dapes | humi iacentem! scelera non intrant casas | tutusque mensa capitur angusta scyphus; | uenenum in auro bibitur (v.  446-453). Il brano, caratterizzato da un tono gnomico che intende trasmettere un messaggio derivante dal vissuto personale del personaggio ma proiettato ben al di là dell’esperienza individuale, risulta indubbiamente intriso di una profondissima ironia tragica che poggia sull’atteggiamento ancora inconsapevole di Tieste, le cui parole anticipano il susseguirsi degli avvenimenti: ben altra mensa, 80 Cfr.  anche Thyest. v.  428, reflecte gressum, dum licet, teque eripe. La prima immagine di Tieste è contraddistinta anche dalla presenza di questi imperativi rivolti dal personaggio a se stesso e destinati a rimanere inascoltati. 81 Si ricorda qui quanto affermato da Voelke 1973, p. 172, «Tout progrès en sagesse doit […] se marquer par une stabilisation du vouloir». 82 Diversamente Maxia 2000, p. 101, mette in relazione l’esilio di Tieste e le siluae di Ippolito: «Se le silvae di Ippolito apparivano come fortemente idealizzate in quanto simili agli spazi incontaminati dell’età dell’oro, l’esilio di Tieste è invece realisticamente descritto come la condizione dell’uomo emarginato, caduto in un’apparente disgrazia». Sul capovolgimento di prospettiva che coglierà il personaggio in finale di tragedia, quando ricompaiono «i fantasmi tradizionali della figura dell’esule» (maeror, pauor, egestas, pudor, v. 920-926), si segnala ancora Degl’Innocenti Pierini 1990a.

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come si sa, attende il protagonista oramai piegato alle dinamiche del potere, e uno scyphus tutt’altro che tutus chiuderà, tramite la voce di Atreo, il banchetto nefasto che farà delle carni e del sangue dei figli il uenenum in auro destinato al fratello (v. 916, hoc, hoc mensa cludatur scypho)83. Il panorama che viene qui presentato mostra appunto notevoli punti di contatto con il secondo canto corale, con cui condivide alcuni motivi sulla scia di una iniziale continuità tematica. Continuità ottenuta anche grazie alla presenza, in entrambi i passi, di importanti anacronismi, investiti della funzione di «collegamento tra mito e vita quotidiana84», che aprono una finestra sull’attualità della Roma imperiale. Nel contrapporre alla regalità materiale la regalità interiore, presidio della mens bona, la voce del coro si dilunga nel ripercorrere un lungo elenco di popoli esotici e temibili (Dai, Sarmati, Seri, v.  369 s.) associati alla sottomissione, alla guerra e alla perversione dell’arte umana piegata all’attività bellica, v.  381-387, nil ullis opus est equis | nil armis et inertibus | telis quae procul ingerit | Parthus, cum simulat fugas, | admotis nihil est opus | urbes sternere machinis | longe saxa rotantibus. Il riferimento ai Parti, di cui viene ricordata l’indole ingannevole e la natura simulatrice, e che precede il successivo e ulteriore anacronismo nel Quiritibus del v. 396, è condiviso dal discorso di Tieste, che li associa ai Geti come popolazione remota oltre la quale tenta di estendersi una irrefrenabile volontà di dominio, v. 461 s. nullus mihi | ultra Getas metatur et Parthos ager. Si tratta di quella che è stata con ragione definita «una volontaria rottura della convenzione scenica, attuata anche in questo caso per attirare l’attenzione del pubblico sul significato attuale delle parole pronunciate dal personaggio del mito», tramite la quale il mito stesso viene ricondotto «alla condizione politica, sociale ed esistenziale contemporanea85». Alla prospettiva «attualizzante» che parla della e alla realtà romana del primo secolo d.C. sono riconducibili anche altri elementi al centro del dialogo tra Tantalo e il padre: si prosegue precisando il contrasto tra i Alle parole di Atreo segue la voce di Tieste, all’apparenza illusa e tuttavia già inconsapevolmente intrisa di presagi, per la quale è di riferimento l’analisi di Traina 2000. 84 Picone 1976, p.  64. Anche Mazzoli (G.) 2005, p.  132, avverte il riflesso dell’esperienza personale di Seneca: «Proprio in un dramma, il Thyestes, più d’ogni altro investito del suo vissuto, il filosofo trova modo di dar voce all’istanza della fuga da Roma e dalle connesse insidie del potere, attraverso un folgorante anacronismo del coro miceneo (v. 388-397)». 85 Sono ancora parole di Picone 1976, p.  66 s.: in questo contributo l’A. offre una lettura convincente della presenza dei tre riferimenti ai Parti nell’opera (v. 369-387; v. 455-469; v. 599-614). 83

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pregi della lontananza dal regno e la descrizione in negativo della casa e del paesaggio del potere: non uertice alti montis impositam domum | et imminentem ciuitas humilis tremit | nec fulget altis splendidum tectis ebur | somnosque non defendit excubitor meos; | non classibus piscamur et retro mare | iacta fugamus mole, nec uentrem improbum | alimus tributo gentium; nullus mihi | ultra Getas metatur et Parthos ager; | non ture colimur nec meae excluso Ioue | ornantur arae; nulla culminibus meis | imposita nutat silua, nec fumant manu | succensa multa stagna, nec somno dies | Bacchoque nox iungenda peruigili datur | sed non timemur (v. 455-468). Il colorito romano dei versi traspare non solo dal manifesto riferimento ai Parti ma, più ampiamente, si può cogliere altresì dai temi e dai dettagli che il personaggio lascia affiorare nel discorso. La lettura proposta da Picone, ad esempio, ha messo bene in evidenza il legame che unisce queste immagini al corrispondente storico del potere imperiale, nei confronti del quale sembrano porsi in atteggiamento di «violenta e aperta polemica86». La tesi si avvale del supporto offerto dal confronto con il trentunesimo capitolo della suetoniana vita di Nerone e si sofferma in particolare sulla coincidenza tra alcuni tratti descritti nei versi tragici e le caratteristiche della domus aurea tramandate dal racconto di Svetonio87: Nero 31, 2, item stagnum maris instar, circumsaeptum aedificiis ad urbium speciem – Thyest. 465-466, nec fumant manu | succensa multa stagna; Nero 31,  3, cenationes laqueatae tabulis eburneis – Thyest. 457, nec fulget altis splendidum tectis ebur88. E tuttavia, come si vedrà, anche il confronto con altri testi e, soprattutto, con il resto della produzione senecana può contribuire a comprendere meglio le diverse sfumature che caratterizzano il brano, evidenziando non solo i tratti strettamente connessi alla rappresentazione drammatica, ma anche un più esteso 86 Picone 1976, p. 65 e Picone 1984, p. 73: «L’allusione al culto imperiale è la punta più alta di un’aspra, sdegnata polemica contro la lussuria e l’alterigia di chi detiene il potere, attuata attraverso immagini […] che certo ben pochi punti di contatto hanno con la vicenda mitica». 87 Per un punto sulla bibliografia relativa alla domus aurea in rapporto all’opera senecana si rimanda ancora allo studio di Degl’Innocenti Pierini 2008, p. 124 n. 70. Per quanto riguarda in particolare i passi di Ep. 88, 22 e Ep. 90, 7, Morford 1968, p. 175 sostiene che «Seneca already had the building of the domus aurea in mind». 88 Cfr. ancora Picone 1976, p. 66 s.: «Non meno chiare sono le allusioni alla sfrenata alterigia del principe che si serve della flotta per rifornire di pesce la propria mensa, che usa i tributi estorti alle nazioni straniere per placare la propria ingordigia, che pretende di sostituirsi sugli altari ai veri dei, che ha fatto costruire per sé bagni tanto grandi da sembrare stagni, che trascorre il giorno nel sonno e la notte tra i banchetti». Si veda anche Tac. Ann. 15, 42.

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interesse dell’autore per siffatte tematiche, molto diffuse nella letteratura del periodo. Il lungo discorso di Tieste rappresenta infatti due quadri ben distinti: nel primo (v. 446-453) viene definita, in positivo, la condizione ‘bassa’ ma protetta del pauper (humi iacentem, v. 451), mentre nel secondo (v.  455-469), il personaggio delinea la fragile e illusoria altezza del potente (excelsus, v. 447). In entrambi i casi, viene suggerito lo scenario materiale corrispondente alle opposte condizioni: la sicura spontaneità delle vita umile trova il proprio referente nell’anonima casa, quale vera fortificazione contro i pericoli e le insidie provenienti dal potere, mentre la domus regale nasconde, dietro all’apparente splendore e a un’architettura che tenta di riprodurre un paesaggio artificiosamente naturale, le insicurezze, le paure e l’accecamento del potens. Il binomio povertà-esilio non è certamente innovazione senecana: già consolidato nel retroterra tragico, dalla tragedia euripidea oggetto dello scherno di Aristofane (Acarn. v. 397 s.) alla tragedia latina arcaica, su cui si costruisce la formula oraziana del pauper et exul (Ars v. 96) applicata ai personaggi di Telefo e Peleo, riceve dal teatro del Cordovese un’impronta innovativa, che, tramite l’influsso filosofico e diatribico, sfocia in un «paradossale rovesciamento di prospettiva», nel sostituire la coppia oppositiva rex vs miser/exul, con l’opposizione stoica sapiens/stultus e nel fare dell’esilio una condizione positiva (sempre peraltro connessa alla riflessione sul potere e sulle sue ambigue e terribili dinamiche)89. Riflessioni simili sul piano ideologico, del resto, si riscontrano nella breve Priamel90 del primo canto dell’Hercules Furens, dove compare il riferimento a una parua domus, v. 192-201, alium multis gloria terris | tradat et omnes fama per urbes | garrula laudet caeloque parem | tollat et astris | alius curru sublimis eat: | me mea tellus lare secreto | tutoque tegat. | Venit ad pigros cana senectus | humilique loco sed certa sedet | sordida paruae fortuna domus: | alte uirtus animosa cadit, e nell’ultimo canto corale in Phaedra, v. 1126 s., seruat placidos obscura quies | praebetque senes casa securos. In tutti questi casi, Seneca descrive sobriamente il quadro della paupertas, sintetizzato in pochi versi che sembrano riproporre, nella loro concisione, l’essenzialità dell’ambiente: l’antitetica costruzione retorica, 89 Riprendo qui lo studio, più volte citato, relativo al motivo dell’esilio di Degl’Innocenti Pierini 1990a, p. 77: l’A. propone accurati riferimenti a questo tema nella tragedia sia greca sia, soprattutto, latina d’età repubblicana. In ambito latino, per l’associazione casa/securitas e casa/senectus si ricorda anche Tibullo 1, 10, 39 s. Quin potius laudandus hic est quem prole parata | occupat in parua pigra senecta casa! 90 Fitch 1987, ad loc. p. 179.

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tramite il ricorso a un’aggettivazione abbondante, al lungo elenco e a un ripetuto e ossessivo uso dell’anafora, sembra riprodurre, al contrario, la ricchezza e la pesantezza del lusso smodato, degli ornamenti regali o la vacuità dell’ostentazione e dell’apparenza. Una spoglia casupola non può vantare grandi caratteristiche materiali (e, del resto, il solo riferimento è in ‘negativo’ all’angusta mensa, v. 452) e non necessita di un’aggettivazione che ne qualifichi gli aspetti esteriori: gli unici attribuiti e le sue uniche qualità coincidono con l’essere tuta e secura (ripresi anche nella parte conclusiva del discorso di Tieste, ai v. 468 s. tuta sine telo est domus | rebusque paruis magna praestatur quies), prerogative di una intangibile ma autentica condizione interiore. Prerogative che non compaiono affatto, invece, nella visione capovolta di Polinice in Phoenissae, il quale, respingendo l’esortazione materna alla pietas nei confronti del fratello, rifiuta la possibilità di abbandonare la visibilità del regnum per rifugiarsi nell’oscurità dell’esilio e nell’anonimato di un piccolo alloggio91, caratterizzato in senso avverso come forma di schiavitù92, v.  592-597 regia frater meus | habitet superba, parua me abscondat casa | hanc da repulso; liceat exiguo lare | pensare regnum. […] Arbitria thalami dura felicis feram | humilisque socerum lixa dominantem sequar? In seruitutem cadere de regno graue est. Anche Lucano, come è noto, riprende l’associazione tra la securitas e la tranquillità di una dimora modesta, applicandola allo scenario della guerra civile e alla situazione della Roma cesariana, Phars. 5, 526-531, praedam ciuilibus armis | scit non esse casas. O uitae tuta facultas | pauperis angustique lares! O munera nondum | intellecta deum! 91 L’associazione tra il latere e l’exilium è caratteristica positiva nel Thyestes, v. 531534 ...regiam capitis notam | squalor recusat noster et sceptrum manus | infausta refugit. Liceat in media mihi | latere turba, e nell’Oedipus, v. 12-14 quam bene parentis sceptra Polybi fugeram! | Curis solutus exul, intrepidus uagans | (caelum deosque testor) in regnum incidi. L’originale accezione (cfr. Eur. Phoen. v. 391 dove l’esilio coincide, per il personaggio, con la perdita della libertà di parola) viene messa in relazione al pensiero di Seneca «uomo dell’età imperiale, che fa coincidere la libertà politica con la libertà di coscienza e che nella dinamica opposizione regno/esilio opera un’opzione a favore dell’esilio, dal momento che permette all’uomo, libero da false e inutili preoccupazioni, di dedicarsi a se stesso, cioè alla sapientiam la vera libertà», Degl’Innocenti Pierini 1990a, p. 76. Si segnala infine anche il passo di Oct. v. 377-384 in cui, nel monologo di ‘Seneca-personaggio’ si inserisce un riferimento proprio al binomio latere/exilium e all’affiancamento in positivo di esilio e povertà: nelle parole del protagonista, l’anonimo poeta mostra di essersi ben calato nel pensiero di ‘Seneca-autore’. 92 Va segnalata la contrapposizione tra la distorta visione tragica di Polinice, che considera la povertà una forma di schiavitù, e l’opposta prospettiva delle esortazioni filosofiche nelle Epistole, come si legge in Ep. 90, 10, dove Seneca riconosce, proprio nel lusso e nella ricchezza del marmo e dell’oro, la vera schiavitù in cui cade la specie umana, sub marmore atque auro seruitus habitat.

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Quibus hoc contingere templis | aut potuit muris nullo trepidare tumultu | Caesarea pulsante manu? Le affinità con la poesia senecana sono evidenti, già rilevate dalle parole di Narducci: «Lucano […] sottolinea come, in tempi di guerre civili, e di fronte alla rapacità predatoria di Cesare, templi e palazzi costituiscano un presidio ben meno sicuro di una povera casa fatta di canne […] Lucano sembra voler suggerire al suo lettore che le povere casupole – proprio perché i loro abitanti possano continuare a godere di securitas e tranquillitas – devono restare tali, e non trasformarsi in edifici sontuosi, esposti alle cupidigie di quanti mettono il mondo a subbuglio con i loro eserciti93». Tuttavia, a differenza delle altre tragedie dove generalmente l’autore insiste nel raffigurare la condizione serena del plebeius, capace di raggiungere il traguardo della senectus perché non esposto ai sotterfugi e alla precarietà del regno, nel Thyestes in particolare la «‘retorica’ della capanna94» sembra voler attirare l’attenzione su altri e ulteriori aspetti, ponendo l’accento non solo sul contrasto tra la vita isolata dell’esilio e sulla rischiosa esposizione della vita pubblica, ma anche sul contrasto tra la realtà di un ambiente, quello silvestre cui il personaggio fa riferimento, estraneo alle passioni che dominano l’aula e dunque non contaminato dall’intervento umano, e la realtà del sovvertimento operato sull’assetto naturale sotto la spinta dell’avidità e della hybris del potere. Lettura che sembra suggerita dalla modalità con cui l’autore presenta il ricorrente motivo della casa, accompagnato infatti dalla lunga, successiva, descrizione con cui Tieste raffigura in dettaglio il paesaggio del regno: le due dimensioni vengono così messe a confronto da questo nuovo punto di vista e direttamente connesse al dibattito su ars e natura, già al centro della letteratura moralistica della prima età imperiale e di notevole importanza nella riflessione senecana, con cui sembrano in effetti condividere parecchi caratteri. La capanna diventa non solo metafora o emblema di una sicurezza che proviene dal regno dell’interiorità, dalla regalità interiore di cui parlano prima il coro (v. 344-349, regem non faciunt opes […] rex est qui posuit metus | et diri mala pectoris; v. 380, mens regnum bona possidet), poi lo stesso Tieste (nelle risposte al figlio, v. 442 s., Ta. pater, potes regnare. Th. cum possim mori; Ta. summa est potestas Th. nulla, si cupias nihil), ma anche immagine reale di un’architettura 93 Narducci 2002, p. 260 s. Può essere interessante ricordare che anche nella poesia successiva d’età flavia si riscontra l’opposizione tra la sicurezza della casa e l’infido marmo, cfr. Sil. 14, 464, nos inter Daphnis […] fuit infelix, cui linquere saltus | et mutare casas infido marmore uisum. 94 L’espressione è presa da Degl’Innocenti Pierini 2008, p. 115.

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rispettosa dell’ordine naturale, che non viola, superandoli o spezzandoli, i limiti e le barriere tra uomo e paesaggio. Nel mondo romano la casa è naturalmente associata alla paupertas (ThLL, III, 509, 26 s. de exili habitatione pauperum), ma viene sovente evocata altresì per richiamare il passato e le origini della storia di Roma, (ThLL, III, 509, 49 s., de primorum uel priscorum hominum sedibus simplicibus), a partire dalla Romuli casa capitolina, «emblema di virtuosa povertà95», che lo stesso Seneca raffigura come templum uirtutum in opposizione al presente dominato dai vizi e da una sfrenata ricerca del lusso. Un noto passo della Consolatio ad Helviam, 9, 2-3, offre in tal senso un quadro interessante, in cui numerosi sono gli spunti per un parallelismo con la scena tragica: non da ultimo, si constata il motivo dell’esilio, che accomuna i parlanti, exul per il recente passato del personaggio mitico (v. 453, expertus loquor), ed exul per la condizione presente dell’autore nel suo indirizzarsi consolatorio alla madre. Entrambi i testi, inoltre, ripropongono come premessa l’antitesi tra uerum e falsum – Thyest. v. 446, falsis magna nominibus placent; Cons. ad Helv. 9, 2, Et hoc cogitandum est, ista ueris bonis per falsa et praue credita obstare – punto di partenza per riconoscere e biasimare la confusione tra veri e falsi beni che domina nella stultitia dei più, confusione che spinge a interventi di modifica del paesaggio naturale, con la costruzione di portici o l’innalzamento di torri, che ostacolano o impediscono lo sguardo verso il cielo (9, 2: Quo longiores porticus expedierint, quo altius turres sustulerint, quo latius uicos porrexerint, quo depressius aestiuos specus foderint, quo maiori mole fastigia cenationum subduxerint, hoc plus erit quod illis caelum abscondat). Mazzoli (G.) 2005, p. 127. Sulla casa di Romolo intesa come ricordo dei costumi antichi, cfr. Ov. Fasti 1, v. 197-199: Pluris opes nunc sunt quam prisci temporis annis | dum populus pauper, dum noua Roma fuit | dum casa Martigenam capiebat parua Quirinum, in contrapposizione al presente, v. 209-212: At postquam fortuna loci caput extulit huius | et tetigit summo uertice Roma deos | creuerunt et opes et opum furiosa cupido | et cum possideant plurima, plura petunt. Anche Vitr. De arch. 2, 1, 5 Item in Capitolio commonefacere potest et significare mores uetustatis Romuli casa et in arce sacrorum stramentis tecta (per il quale si rimanda a Romano 1987, p. 121 e passim). Ancora in Val. Max. 4, 4, 11: Exsurgamus potius animis pecuniaeque aspectu debilitatos spiritus pristini temporis memoria recreemus. Namque per Romuli casam perque ueteris Capitolii humilia tecta et aeternos Vestae focos, fictilibus etiam nunc uasis contentos, iuro nullas diuitias talium uirorum paupertati posse praeferri e in Sen. Contr. 1, 6, 4, nudi stetere colles interque tam effusa moenia nihil est humili casa nobilius; 2, 1, 5, colit etiamnunc in Capitolio casam uictor omnium gentium populus. Per quanto riguarda il linguaggio moralistico romano è preziosa l’analisi condotta da Citroni Marchetti 1991, p. 109, che per gli ultimi due autori nota «il cristallizzarsi della visione moralistica» e sottolinea: «non solo si fissano e si diffondono formule retoriche sempre più ricercate e impressionanti, ma attraverso l’uso dell’exemplum il bene e il male prendono dei caratteri netti, fra loro inconciliabili». 95

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Anche nella difficoltà dell’esilio, Seneca rivendica invece un sano distacco dagli averi materiali, nel rifugio offerto da una casa disadorna, solo apparentemente e materialmente definibile come locus angustus (9, 3)96: in eam te regionem casus eiecit, in qua lautissimum receptaculum casa est: ne tu pusilli animi es et sordide se consolantis, si ideo id fortiter pateris, quia Romuli casam nosti. Dic illud potius: «Istud humile tugurium nempe uirtutes recipit? Iam omnibus templis formosius erit, cum illic iustitia conspecta fuerit, cum continentia, cum prudentia, pietas, omnium officiorum recte dispensandorum ratio, humanorum diuinorumque scientia. Nullus angustus est locus, qui hanc tam magnarum uirtutium turbam capit; nullum exilium graue est, in quod licet cum hoc ire comitatu». L’umile architettura della capanna, ricettacolo di ogni virtù, si colloca dunque nel Thyestes al polo opposto della regalis aula, (secondo la definizione degli opposita anche in ThLL, III, 511,  43 s.: domus, regia superba, Roma; urbs, regalis aula), a sua volta santuario e covo di vizi, passioni, furores, sulla scorta della negazione delle uirtutes incompatibili con il potere pochi versi prima rivendicata da Atreo nel dialogo con il satelles, v. 217 s., sanctitas pietas fides | priuata bona sunt. A queste connotazioni va aggiunta un’altra considerazione: nell’ambito della contrapposizione tra ricchezza e povertà, tra moderazione e lusso, la casa è anche tradizionalmente il luogo per eccellenza costruito sine arte, senza tuttavia essere per questo meritevole di biasimo o di vergogna, come si legge in Properzio, El. 4, 1, 5 s., fictilibus creuere deis haec aurea templa | nec fuit opprobrio facta sine arte casa, o come constata Quintiliano, che definisce l’origine naturale di quanto l’uomo ha perfezionato con l’ingegno e con la tecnica istituendo un parallelo tra la retorica e numerose altre discipline, tra cui appunto l’edilizia, Inst. 2, 17, 10, nec fabrica sit ars: casas enim primi illi sine arte fecerunt. La capanna, associata allo spazio del bosco e delle selve, evoca qui un ambiente semplice, genuino, non toccato dalle contraffazioni del potere e dalla manipolazione smodata dell’uomo, luogo cioè al tempo stesso di contatto diretto con la natura e di una condotta di vita misurata su un’esistenza frugale: all’opposto risulta esserci così la proiezione di falsi bisogni e di falsi beni che spingono l’uomo fino al sovvertimento dell’equilibrio naturale e allo stravolgimento del paesaggio che lo circonda. Proprio di questo secondo aspetto, presente nel tessuto drammatico e sfondo delle vicende narrate, andremo a occuparci. Ulteriore marca dell’affinità tra quest’opera e la tragedia di Tieste che, come si è visto, parla per l’ambiente della casa di angusta mensa, v. 452. 96

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La scenografia ‘interna’ al dramma: l’alterazione dell’ambiente naturale e lo spazio del potere (v. 455-467; v. 641-664) Il contrasto tra lo spazio autentico della casa e quello contraffatto del e dal potere trova ampia trattazione nella tragedia degli Atridi. Seneca riproduce questa rappresentazione antitetica nella composizione tragica, dove la semplicità evocata da Tieste appartiene a una dimensione esterna all’impronta del regnum, attribuendo alla voce del personaggio mitico un messaggio decifrabile ben oltre il piano teatrale. Come accade per l’esplicito riferimento ai Parti, con cui, si è visto, il poeta intende stabilire un contatto tra mito e attualità, così l’elenco delle alterazioni (gli alti soffitti, lo stravolgimento dello spazio terrestre e di quello marino, la creazione di selve artificiali e di giardini pensili che simulano paesaggi naturali all’interno delle case) guarda e parla alla realtà del potere imperiale e, in generale, alla società romana contemporanea, sulla scia della polemica contro il lusso e contro la speculazione edilizia che costituisce il bagaglio retorico e culturale della letteratura moralistica di questi anni, in concomitanza con il progressivo formarsi di un nuovo volto per la Roma dei Cesari97. Tutte le immagini nominate da Tieste ricorrono, infatti, anche in altre opere di Seneca, dove sono oggetto di biasimo e di dura critica perché manifestazioni di vizi contro natura e causa di una Può essere interessante, quindi, ricordare la diversa prospettiva con cui le medesime tematiche sono affrontate nella poesia eziologica di Ovidio Fasti 1, 223-226, Nos quoque templa iuuant, quamuis antiqua probemus | aurea: maiestas conuenit ipsa deo. | Laudamus ueteres, sed nostris utimur annis, e, più tardi, nella poesia bucolica (e celebrativa) di Calpurnio Siculo Ecl. 7, v. 40-46, dove la maestosità e la magnificenza del paesaggio di Roma vengono al contrario esaltate, facendo del panorama passato cosa di poco conto: Quid te stupefactum rustice – dixit – | ad tantas miraris opes, qui nescius auri | sordida tecta, casas et sola mapalia nosti? | En ego iam tremulus et uertice canus et ista | factus in urbe senex, stupeo tamen omnia certe | uilia sunt nobis quaecumque prioribus annis | uidimus et sordet quidquid spectauimus olim. Attraverso le stesse categorie con cui altrove è condannato, il progresso tecnologico viene lodato nella poesia di Stazio, stando alla lettura proposta dallo studio di Pavlovskis 1973, p. 1: «Statius who may well have been the first to devote whole poems to the praise of technological progress, as well as the delights of a life spent in a setting not natural but improved by man’s skill. Pliny, in his turn, successfully introduces this poetic topic to prose». A riguardo è da vedere anche la ricca analisi di Edwards 1993, p. 142 s., che ripercorre il testo delle Silvae individuando i medesimi elementi (marmi esotici 2, 2, 83-97; capacità di innalzare montagne 4, 3, 80; costruzioni di stanze sul mare, 2, 2, 98-106). Per gli aspetti più strettamente legati ai cambiamenti architettonici del primo secolo d. C., in particolare durante il periodo giulio-claudio a cui viene riconosciuto uno sviluppo del lusso privato e un livello di raffinatezza architettonica «unique in Antiquity», si segnala invece Purcell 1987. L’esempio positivo di dimora «ispirata al rispetto delle leggi di natura e al soddisfacimento delle esigenze vitali e indispensabili» è per Seneca la villa di Scipione a Literno, descritta in Ep. 86, 6-7, su cui Esposito 1993, p. 211. 97

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Capitolo III.  L’ambiente naturale: insidie e artifici

irrimediabile e rovinosa rottura con l’ordine naturale che appartiene agli eccessi del ricco mondo romano dell’epoca98, secondo quanto affermato nell’amaro quadro che l’autore offre in Ep. 122,  5: omnia uitia contra naturam pugnant, omnia debitum ordinem deserunt. Così, in primo luogo, il motivo degli alti soffitti (Thyest. v. 457, altis tectis, ripreso nelle parole del nuntius sulla struttura della domus Pelopia, v. 645-647, fulget hic turbae capax | immane tectum, cuius auratas trabes | uariis columnae nobiles maculis ferunt99) viene presentato e discusso anche nel famoso passo dell’Epistola 90, 7-8 come esempio di perversione provocato dalla luxuria, cioè come forma di machinatio, di costruzione artificiale (e pericolosa), che si contrappone al riparo naturale offerto dalla ben più povera, ma indubbiamente più sicura, architettura della casa, costruita senza trucchi e, appunto, sine arte: Ego uero philosophiam iudico non magis excogitasse has machinationes tectorum supra tecta surgentium et urbium urbes prementium quam uiuaria piscium in hoc clausa ut tempestatum periculum non adiret gula et quamuis acerrime pelago saeuiente haberet luxuria portus suos in quibus distinctos piscium greges saginaret. […] Philosophia haec cum tanto habitantium periculo imminentia tecta suspendit? Parum enim erat fortuitis tegi et sine arte et sine difficultate naturale inuenire sibi aliquod receptaculum. Mihi crede, felix100 illud saeculum ante architectos fuit, ante tectores. Ista nata sunt iam nascente luxuria […] Non enim tecta cenationi epulum recepturae parabantur, nec in hunc usum pinus et abies deferebatur longo uehiculorum ordine uicis intrementibus, ut ex illa lacunaria auro grauia Purcell 1987, p. 191 s. individua alcuni modelli di cambiamento del paesaggio operato dall’uomo e li raggruppa in tre tipologie: 1) «tampering with the sea» (dal ponte di barche di Serse in Her. 7, 33-37 fino a Caligola Suet. Calig. 32); 2) «rivers, creating canals, waterways, culverts, waterfalls and so on where there were none before» (da Serse Her. 7, 23 s. al taglio dell’Istmo e al canale progettato da Nerone in Tac. Ann, 15, 42); 3) «artificial altitude, the illusion that you could make or move mountains yourself» in cui inserisce anche l’opus pensile citato dalla tragedia senecana. Per questi aspetti spunti utili offre anche Frassoni 2006, in particolare per quanto concerne la fortuna dell’exemplum di Serse, destinato a diventare un importante termine di confronto per la descrizione di personaggi negativi: grande attenzione è riservata all’immagine del sovrano nella Roma del I sec. d. C, dove diviene «uno dei riferimenti paradigmatici obbligati per stigmatizzare – più o meno velatamente – l’amoralità e la megalomania di alcuni imperatori della dinastia giulio-claudia». 99 La netta disapprovazione per la costruzione di colonne ornamentali, senza alcuna funzione di sostegno, ma concepite per pura ostentazione, si riscontra anche Ep. 86, 7: quantum statuarum, quantum columnarum est nihil sustinentium sed in ornamentum positarum impensae causa! 100 Si vedano le assonanze con la condizione felice di Tieste, lontano dal regni nitor, Thyest. v. 418, fortis fui laetusque. 98

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PARTE SECONDA.  GLI SCENARI DELL’INGANNO: AULA E NATURA

penderent. Furcae utrimque suspensae fulciebant casam; spissatis ramalibus ac fronde congesta et in procliue disposita decursus imbribus quamuis magnis erat. Sub his tectis habitauere securi: culmus liberos texit, sub marmore atque auro seruitus habitat.

La breve allusione di Tieste richiama dunque un tema molto vivo nella riflessione senecana, in cui si inserisce, in polemica con la deriva tecnologica che l’autore riconosce al mondo circostante101: non solo gli alti soffitti, ma anche una serie di altrettanto futili invenzioni (canali artificiali, soffitti girevoli, creati ad arte per simulare la volta celeste o per alternare differenti pitture decorative, la ricerca di tessuti o stoffe preziose, Ep. 90, 15) sono classificati come manifestazione dell’insaziabilità umana, prodotti superflui, non necessari a soddisfare i bisogni più semplici, per i quali la natura stessa ha già provveduto offrendo all’uomo l’indispensabile, Ep. 90, 16, non desiderabis artifices: sequere naturam. Illa noluit esse districtos; ad quaecumque nos cogebat instruxit. Questo stravolgimento del rapporto con la natura, che finisce per ritorcersi contro chi lo ha prodotto facendo di tale magnificenza fonte di pericolo, nei medesimi ambienti che «possono evocare non solo sfarzose meraviglie, ma anche insidie mortali102», è una preoccupazione, e un motivo retorico, ricorrente nei testi di questo periodo e nella storiografia imperiale relativa ai decenni del principato giulio-claudio103. Altri riscontri si trovano, ad esempio, nella lunga tirade che Seneca Retore fa pronunciare a Papirio Fabiano, maestro del figlio, o, in toni decisamente differenti, nella messa in scena strabiliante e spettacolare del banchetto petroniano104, o ancora nei particolari della vita e della politica urbanistica di Nerone, riportati da Svetonio e da Tacito. 101 Sviluppo edilizio pubblico e privato vengono percepiti come forme di violenza contro natura, non senza importanti risvolti politici, cfr. Pani 1992, p. 104 s.: «le artes erano o sembravano al servizio del lusso in una società in cui i rapidi cambiamenti della ricchezza parevano poter confondere alcuni parametri di valori anche politici a essa tradizionalmente collegati». Per queste tematiche si veda anche l’interessante confronto tra le opposte posizioni di Seneca e di Vitruvio proposto in Romano 1987, p. 200-208. 102 Sulle «insidie dei soffitti» Citroni Marchetti 1991, p. 133 s. e più ampiamente ora Degl’Innocenti Pierini 2008, p. 123 s. 103 Insiste sul rapporto tra luogo comune retorico e realtà del tempo a partire dalle declamazioni di Seneca Padre Bonner 1949, p. 36. 104 Petr. Sat. 60, 1-3: si tratta della descrizione del grosso cerchio, coperto di corone dorate e di vasi d’alabastro, fatto calare dal soffitto meccanico (apribile e richiudibile) sotto lo sguardo stupefatto dei commensali. Commenta ancora Degl’Innocenti Pierini 2008, p. 126: «I diducta lacunaria di Trimalcione […] altro non sono che la riproduzione in scala ridotta […] in una casa privata di un ricco parvenu, di quella che era con ogni probabilità la lussuosa e dispendiosa procedura dei banchetti nella coeva domus imperiale».

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Capitolo III.  L’ambiente naturale: insidie e artifici

Nella Controversia senecana (Contr. 2, 1, 11-13), soprattutto, troviamo una sintesi di tutti gli aspetti fin qui menzionati: il retore fa riferimento alla casa come posto che «ha perduto, per i ricchi romani, il suo valore di protezione105», divenuto oramai luogo temibile per l’eccessiva altezza, preda di crolli causati dallo sventramento della natura e dalla trasformazione dell’assetto geografico per far posto all’incessante costruzione di nuovi edifici, senza trascurare la moda di riprodurre, imitandoli, paesaggi boschivi o ambienti naturali come mari, fiumi o monti, negli spazi interni delle case106. Nel commentare il brano in questione, Fedeli sintetizza con incisività il messaggio affidato alle parole di Fabiano, incentrato ancora sul contrasto tra verità e apparenza e sulla violenza esercitata nei confronti della geografia naturale: «insomma, incapaci di godere le cose vere, gli uomini si dilettano di terre e mari introdotti, a scherno della natura, in luoghi non creati per loro107». Del resto, anche la letteratura storiografica dei decenni successivi mostra attenzione per queste tematiche: non solo Svetonio, nei passi di cui già si è parlato e di cui sono state evidenziate le affinità con le parole di Tieste, ma anche Tacito riferisce in merito ai progetti urbanistici neroniani e ai tentativi di creare artificialmente, per artem, spazi e scenari altrimenti naturalmente impossibili: Ceterum Nero usus est patriae ruinis exstruxitque domum, in qua haud proinde gemmae et aurum miraculo essent, solita pridem et luxu uulgata, quam arua et stagna et, in modum solitudinum, hinc siluae, inde aperta Citroni Marchetti, p. 133 s.; per quanto riguarda il linguaggio moralistico di questa specifica controversia p. 112 s. 106 Sen. Contr. 2, 1, 11-12: quid tandem est quod non diuitiae corruperint? Primum, si inde incipere uelis, aedes ipsae, quas in tantum extruxere ut, cum domus ad usum ac munimentum paratae sint, nunc periculo, non praesidio «sint»: tanta altitudo aedificiorum est tantaeque uiarum angustiae ut neque aduersus ignem praesidium nec ex ruinis ullam [villam] in partem effugium sit. Ad delicias dementis luxuriae lapis omnis eruitur, caeduntur ubique gentium siluae; aeris ferrique usus, iam auri quoque, in extruendis et decorandis domibus, nempe ut anxii et interdiu et nocte ruinam ignemque metuant; qui siue tectis iniectus est «siue» fortuitus ruinae et incendia illa urbium excidia sunt […] 13: O paupertas, quam ignotum bonum es! Quin etiam montes siluasque in domibus marcidis et in umbra fumoque uiridia aut maria amnesque imitantur. Vix possum credere quemquam eorum uidisse siluas uirentisque gramine campos quos rapidus amnis ex praecipitio uel, cum per plana infusus est, placidus interfluit; non maria umquam ex colle uidisse lenta, aut hiberna cum uentis penitus agitata sunt: quis enim tam prauis oblectare animum imitamentis possit si uera cognouerit? […] ex hoc litoribus quoque moles iniungunt congestisque in alto terris exaggerant sinus; alii fossis inducunt mare: adeo nullis gaudere ueris sciunt, sed aduersum naturam alieno loco aut terra aut mare mentita aegris oblectamenta sunt. Anche Contr. 5, 5 in summis culminibus mentita nemora et nauigabilium piscinarum freta […] maria proiectis molibus submouentur. 107 Fedeli 1990, p. 48. 105

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PARTE SECONDA.  GLI SCENARI DELL’INGANNO: AULA E NATURA

spatia et prospectus, magistris et machinatoribus Seuero et Celere, quibus ingenium et audacia erat etiam quae natura denegauisset per artem temptare… (Ann. 15, 42)

Anche in questo caso, fabbricazione edilizia e panorama naturale vengono messi in relazione oppositiva: il brano sembra confermare «come la costruzione, una lussuosissima villa suburbana artificialmente collocata al centro di Roma, fosse sentita come una forma di oltraggio non solo alla città ma alla natura stessa (come si evince da termini come miraculum per la costruzione e machinatores per i ‘dedalici’ architetti)108». Un secondo motivo per il quale si può riscontrare una certa affinità tra la poesia e la prosa senecane riguarda l’intervento di modifica dell’assetto naturale delle acque, nuova forzatura contro l’armonia della natura e ulteriore violazione della separazione tra superficie terrestre e distesa marina. Tieste vi fa appena cenno, ai v. 459 s., non classibus piscamur et retro mare | iacta fugamus mole, descrivendo sommariamente il tentativo di respingimento dei flutti tramite l’innalzamento di dighe all’uopo astutamente inventate dall’ingegno umano: il corso del mare è dunque alterato con il ricorso alla tecnica e all’artificio, sia perché viene respinto, come in questo caso, sia perché, al contrario, si tenta di ‘introdurlo’ all’interno delle abitazioni, dove diviene lussuoso abbellimento, o di farne luogo edificabile, come lascia intendere la polemica esposizione dell’Epistola 89, 21: quousque nullus erit lacus cui non uillarum uestrarum fastigia immineant? nullum flumen cuius non ripas aedificia uestra praetexant? Ubicumque scatebunt aquarum calentium uenae, ibi noua deuersoria luxuriae excitabuntur. Ubicumque in aliquem sinum litus curuabitur, uos protinus fundamenta iacietis, nec contenti solo nisi quod manu feceritis, mare agetis introrsus. Omnibus licet locis tecta uestra resplendeant, aliubi imposita montibus in uastum terrarum marisque prospectum, aliubi ex plano in altitudinem montium educta, cum multa aedificaueritis, cum ingentia, tamen et singula corpora estis et paruola.

Resta, infine, un terzo e interessante confronto che rivela una ancor più precisa sintonia: nella rappresentazione delle selve che, ondeggiando, occupano la sommità delle case, o delle piscine riscaldate non 108 Degl’Innocenti Pierini 2008, p. 126. L’inversione della separazione tra lo spazio della città e lo spazio della campagna è oggetto delle riflessioni di Purcell 1987 e Edwards 1993.

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naturalmente, ma grazie al calore innescato dall’intervento della mano umana in Thyest. v. 464-466, nulla culminibus meis | imposita nutat silua, nec fumant manu | succensa multa stagna, si possono cogliere gli echi del più articolato quadro offerto, per questi medesimi elementi, nella lettera 122. Le affinità tra i pur succinti dettagli tragici e il più attento resoconto della forma epistolare emergono chiaramente dalla precisa corrispondenza lessicale e dal recupero, appunto, delle medesime immagini: Non uiuunt contra naturam qui hieme concupiscunt rosam fomentoque aquarum calentium et locorum apta mutatione bruma lilium, florem uernum, exprimunt? Non uiuunt contra naturam qui pomaria in summis turribus serunt? Quorum siluae in tectis domuum ac fastigiis nutant, inde ortis radicibus quo improbe cacumina egissent? Non uiuunt contra naturam qui fundamenta thermarum in mari iaciunt et delicate natare ipsi sibi non uidentur, nisi calentia stagna fluctu ac tempestate feriantur? Cum instituerunt omnia contra naturae consuetudinem uelle, nouissime in totum ab illa desciscunt. (Ep. 122, 8)

Come il capovolgimento dei ritmi e del tempo diurno e notturno, o i banchetti spropositati, abbondanti e prolungati ben oltre quanto sia necessario alla sopravvivenza, o ancora l’inversione del ciclo delle stagioni nel tentativo di far nascere fiori d’inverno, anche la modifica dell’ambiente e la creazione di un paesaggio artefatto vengono classificate come attività contra naturam, manifestazione della degenerazione e della perversione dell’animo umano (interrogas quomodo haec animo prauitas fiat, Ep. 122, 5), provocazione e sfida, come sarà definita da Plinio il Vecchio (Nat. Hist. 33, 2, 4), didicit homo naturam prouocare, contro la quale Seneca esorta Lucilio a una maggiore aderenza ai dettami della natura, Ep. 122, 19, tenenda nobis uia est quam natura praescripsit, nec ab illa declinandum. Nell’inserire queste tematiche all’interno della sua drammaturgia Seneca sembra voler coniugare prospettive differenti: tradizione diatribica (il motivo della povertà e della sicurezza), elaborazione retorica e topica antitirannica (il tentativo di ridefinire i contorni e i confini geografici tra terra e mare109), moralismo romano (casa delle origini vs luxuria), 109 Per questo aspetto è da segnalare anche il comportamento ‘tirannico’ di Medea nel prologo dell’opera omonima, quando la protagonista fa riferimento al taglio dell’Istmo Med. v. 35 s: gemino Corinthos litori opponens moras | cremata flammis maria committat duo (dove litori è lezione tràdita, vs litore correzione del Gronovius). Il brano è analizzato da Degl’Innocenti Pierini 2012, p. 41 s.: la studiosa parla di «un tema

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desiderio di ostentazione della società contemporanea nelle dimore private e intemperanze del principato nella riorganizzazione urbanistica della città e della domus imperiale, sono infatti elementi che convergono e si intrecciano nel testo110. Così, «sarebbe inesatto considerare le osservazioni di Seneca come dei semplici sfoghi moralistici, da far rientrare in una specie di topos della condanna degli eccessi cui giunge l’uomo che non sia controllato e guidato dalla sapientia. La riflessione filosofica, infatti, trova un supporto e un punto di riferimento in una realtà storico-sociale ben determinata, che è quella del suo tempo, in cui l’esempio e l’incitamento allo sfarzo e al lusso vengono direttamente dal sovrano e dalla sua corte111». La rappresentazione della città di Micene e del regno in cui Tieste ha appena fatto ritorno e su cui ancora può vantare uno sguardo esterno, garantitogli dall’esperienza recente dell’esilio, si colorano di elementi e di descrizioni che molto evocano al pubblico romano dell’epoca, immerso nel repertorio retorico delle declamazioni e nella realtà dei cambiamenti architettonici dell’Urbs. Attraverso un linguaggio e delle immagini che parlano in sintonia con il suo tempo, Seneca conferisce una certa originalità alla scrittura drammatica, e fa del regno di Atreo un luogo di falsificazione e di artificio già nella sua configurazione materiale e nel suo aspetto architettonico. Anche da questo punto di vista si constata pertanto come il marchio caratteristico del potere tragico senecano vada antico» che «corrisponde a una precisa tradizione antitirannica che poteva essere nota a Seneca attraverso la scuola di retorica, come constatiamo da Quintiliano (Inst. 3, 8, 16)». Nel contesto tragico, quindi, il recupero di questo topos letterario «colloca Medea in una dimensione superomistica, nella progettazione di un nefas avvicinabile a quello tirannico […] un caotico unirsi o indebito mescolarsi di elementi che la natura o il principio divino ha voluto divisi: un ritorno quindi a un caos naturale […] che è provocato dal caos etico». Sul motivo del taglio dell’Istmo e sulle fonti antiche che trattano questo progetto (con particolare riguardo al dialogo pseudolucianeo) Korver 1950 e Traina 1987, con considerazioni complessive sull’atteggiamento della società neroniana nei confronti del paesaggio. Per quanto riguarda più ampiamente gli interventi di modifica delle aree marino-costiere attraverso tagli o unioni artificiali, forme di violenza che modificano l’assetto del territorio, facendo di un’isola terraferma e della terraferma un’isola, è da consultare lo studio di Borca 1999. 110 Un quadro accurato di tutti questi aspetti si trova nello studio di Edwards 1993, p. 137-172. Sul legame tra composizione tragica e realtà sociale sono valide le osservazioni di Rosati 2002 nel proporre un confronto tra la natura che traspare nella drammaturgia e quella che si riscontra nelle riflessioni di Ep. 51, 11, p. 239: «Le scelte edilizie operate dai potenti di Roma, le loro ville che incombono dall’alto, costruiscono un nuovo paesaggio (un paesaggio che altera e sostituisce appunto quello naturale) che Seneca vede ispirato da una (inconscia?) volontà di dominio, di controllo militare del territorio, la stessa che affiora da certi paesaggi dei suoi drammi». 111 Esposito 1993, p. 217.

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Capitolo III.  L’ambiente naturale: insidie e artifici

individuato nel dominio della simulazione, cioè nella negazione e nel rifiuto di ogni possibile spontaneità o sincerità che non sia volta al male. Al dolus organizzato da Atreo nell’apparente riconciliazione di una inverosimile pietas tra fratelli, alle ambiguità del linguaggio, all’ingannevole splendore di beni illusori, si affianca un paesaggio naturale falso e falsificato, prodotto artificiale costruito per artem, trasformato dal potere a rappresentazione delle sue stesse mistificazioni. In questo senso, anche la successiva descrizione dell’aula − che occupa una parte importante della lunga rhesis, v. 641-682 − conferma e rinforza tale corrispondenza: il palazzo e la natura dell’arcana regio sono infatti in rapporto di completa sympatheia con la doppiezza del personaggio Atreo, con l’immagine del potere che incarna e con la sequenza di doli del genus tantalide112. Alla brillantezza e allo splendore delle stanze accessibili ai più, decorate con travi dorate e colonne screziate di marmo (v. 646-648), si oppone l’ambiente oscuro e cupo che l’aula nasconde al suo interno, nel bosco che «ne costituisce una sorta di replica metaforica (un rovesciamento del rapporto fra ‘il mondo di fuori’ e ‘il mondo di dentro’)113», ulteriore marca della perversione naturale e, contemporaneamente, al contrario, vera e autentica dimensione del potere. La descriptio è dunque riproduzione materiale e geografica delle caratteristiche del regnum e della dissimulazione operata dal tiranno nel corso della tragedia, come ben chiariscono le parole di Aygon: «la signification du lieu est donc double puisqu’il unit un locus praeceps à une forme de locus horridus: opposé à la ville qu’il opprime, le palais symbolise le pouvoir menaçant des Atrides. En même temps, l’obscurité épaisse et étouffante de l’endroit le plus retiré convient à la nature tyrannique d’Atrée, souverain menteur et secret114». Nell’obscura silua che ondeggia all’interno della domus regale si trovano così i resti del carro di Mirtilo, restituiti dal mare Mirtoo, e le false assi strumento del piano fraudolento di Pelope, testimoni dei criminosi trionfi della stirpe, simboli dei successi trascorsi e punto di confronto per il loro superamento nella realizzazione di un nefas inaudito, proposito 112 Molto interessante, in questo senso, la lettura dei v. 641-682 proposta da Faber 2007, in uno studio che mette bene in evidenza lo stretto rapporto tra questo lungo brano e il resto del dramma a livello di corrispondenze verbali e tematiche. L’A. è convincente nel dimostrare come la descriptio della domus dei Pelopidi non sia affatto una semplice digressione estranea al contesto, ma, al contrario, contribuisca in maniera determinante a definirne l’unità e la coerenza. 113 Rosati 2002, p. 235, parla appunto di «eco di un topos delle polemiche moralistiche contro il lusso edilizio, e cioè la perversione della natura vista negli alberi ‘trasportati’ all’interno delle case». 114 Aygon 2004, p. 364.

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PARTE SECONDA.  GLI SCENARI DELL’INGANNO: AULA E NATURA

comune ai protagonisti tragici senecani, sempre ideatori e primi attori dei loro delitti: Hinc auspicari regna Tantalidae solent | hinc petere lassis rebus ac dubiis opem. | Affixa inhaerent dona: uocales tubae | fractique currus, spolia Myrtoi maris | uictaeque falsis axibus pendent rotae | et omne gentis facinus; hoc Phrygius loco | fixus tiaras Pelopis, hic praeda hostium | et de triumpho picta barbarico chlamys (v. 657-664). Accanto al modello letterario virgiliano della casa-tempio di Latino presente nel tessuto linguistico del brano, (Verg. Aen. 7, 183-186, multaque praeterea sacris in postibus arma | captiui pendent currus curuaeque secures | et cristae capitum et portarum ingentia claustra | spiculaque clipeique ereptaque rostra carinis), troviamo pertanto ancora l’impronta attualizzante di un anacronismo, quel riferimento al trionfo e all’esposizione del bottino trionfale che conferisce un tratto romano al mito greco. L’allusione non riguarda solo il trionfo in quanto tale, ma sembra indicare anche una relazione con la pratica di appendere le spoglie vittoriose all’interno delle dimore romane, sia in segno di riconoscimento onorifico al proprietario vincitore, sia, al tempo stesso, in funzione di monito e stimolo per chi le osserva e vi si confronta, come riporta, più tardi, la Naturalis Historia pliniana, 35, 2, 7: Aliae foris et circa limina animorum ingentium imagines erant adfixis hostium spoliis, quae nec emptori refigere liceret, triumphabantque etiam dominis mutatis aeternae domus. Erat haec stimulatio ingens, exprobrantibus tectis cotidie inbellem dominum intrare in alienum triumphum115. L’usanza romana si insinua una volta in più all’interno del testo drammatico − capovolta e risemantizzata dal codice tragico, nel quadro del monde à l’envers che lo caratterizza – per divenire esibizione di un trionfo in negativo, modello rovesciato di una memoria in cui 115 Le parole di Svetonio a proposito delle corone che ornano la stanza da letto di Nerone sono forse da mettere appunto in relazione a tale pratica, stravolta dall’esibizionismo istrionico del princeps, Nero, 25, 2: Reuersus e Graecia Neapolim, quod in ea primum artem protulerat, albis equis introiit disiecta parte muri, ut mos hieronicarum est; simili modo Antium, inde Albanum, inde Romam; sed et Romam eo curru, quo Augustus olim triumphauerat, et in ueste purpurea distinctaque stellis aureis chlamyde coronamque capite gerens Olympiacam, dextra manu Pythiam, praeeunte pompa ceterarum cum titulis, ubi et quos quo cantionum quoue fabularum argumento uicisset; sequentibus currum ouantium ritu plausoribus, Augustianos militesque se triumphi eius clamitantibus. Dehinc diruto Circi Maximi arcu per Velabrum Forumque Palatium et Apollinem petit. Incedenti passim uictimae caesae sparso per uias identidem croco ingestaeque aues ac lemnisci et bellaria. Sacras coronas in cubiculis circum lectos posuit, item statuas suas citharoedico habitu, qua nota etiam nummum percussit. Si segnala Wiseman 1987 per un quadro sul tema e breve discussione del passo suetoniano: l’A. sottolinea l’impossibilità di ricavare notazioni sicure dal resoconto dello storico, «whether it (scil. domus aurea) was decorated with appropriate spolia, we do not know: according to Suetonius, the crows Nero won on his Greek tour were hung up in the bedrooms not the vestibule».

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Capitolo III.  L’ambiente naturale: insidie e artifici

doli e nefas degli antenati si fanno exemplum e motivo di aemulatio per i discendenti delle generazioni mitiche, pronti ad affermare la propria identità proprio con il superamento di tale modello. Così, ben lontana dal ricordare il bosco-rifugio dell’esilio di Tieste, la silua nascosta all’interno del palazzo di Atreo, penetrale regni, è tutt’altro che l’espressione di una natura incontaminata, avulsa ed estranea all’impronta deformante del regno: si rivela non solo locus horridus, ma anche locus obscurus, la cui connotazione non è affatto quella dell’anonimato positivamente evocata dal coro, v. 394, ma quella ben più tetra di un’oscurità complice delle insidie e delle ambiguità che dominano la scena e che contraddistinguono la regalità tragica. Una natura, dunque, modellata dall’ars di un potere che trasforma e domina il paesaggio facendone lo spazio privilegiato per l’ostentazione dei suoi terribili e temibili trofei.

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TABELLE DEL LESSICO DELLA FINZIONE E DELL’INGANNO NEL TEATRO DI SENECA*

I.  Hercules Furens, Troades, Phoenissae, Medea

fraus

dolus

Hercules Furens

Troades

Phoenissae

Medea

(1) 656

(5) 482 613 627 750 867

(2) 589 643

(7) 213 491 569 613 857 (dolosis) 927 933 (subdolo)

(3) 119 296 492

(7) 181 290 291 475 564 693 881 (3) 260 496 882

* Per comodità si assume qui l’ordine dei testi tramandati dall’Etruscus. Ed. di riferimento: Zwierlein, Oxford 1986. Per ogni tragedia sono indicati il numero dei versi e, tra parentesi, il numero di occorrenze dei singoli vocaboli.

Tabelle del lessico della finzione e dell’inganno nel teatro di Seneca

decipere / deceptor

astus

Hercules Furens

Troades

decipere (5) 156 530 618 624 754

decipere (1) 371

cautus callidus fallere / falli / fallax / falsus

falsus (3) 954 1030 1070

fingere credulus machina / machinari / machinator-trix

(3) 523 613 752 (1) 38 (1) 523 fallere (2) 868 937

Phoenissae

Medea decipere (1) 475

fallere (2) 493 (2 volte)

falsus (3) 214 272 865 fallax (3) 39 149 460 (1) 608

machinator (1) 750



machina (1) 568

machinatrix (1) 266

Tabelle del lessico della finzione e dell’inganno nel teatro di Seneca

latere / latitare / latebra / latebrosus

Hercules Furens

Troades

Phoenissae

Medea

latere (5) 282 777 931 987 1223

latere (5) 453 482 496 811 931

latere (1) 126

latere (2) 821 1012

latitare (1) 1107

latitare (1) 1049

latitare (2) 96 156

latebra (3) 996 1012 1335

latebrae (2) 504 705

latebrae (2) 250 685

furtum / furtim / furtivus

simulare

furtimque (1) 1179

clepere tacere / tacitus tacere (2) 713 1200

latebrosus (1) 823 furtum (2) 501 706

furtum (1) 822

furtivus (1) 342

(1) 447 tacere (2) 36 534



(1) 156 tacere (4) 233 348 424 766

Tabelle del lessico della finzione e dell’inganno nel teatro di Seneca

tegere / detegere / obtegere

occulere / occulte / occultus mentiri ambiguus / dubius / perplexus

Hercules Furens

Troades

tacitus (4) 302 536 1178 1186 tegere (7) 197 598 692 718 799 894 913

tacitus (1) 843

obtegere (2) 178 1033

dubius (4) 152 670 685 1253

tegere (5) 30 105 512 933 971

Phoenissae

tegere (4) 96 360 475 503

detegere (1) 626 obtegere (1) 450

Medea tacitus (4) 6 114 158 832 tegere (1) 153

detegere (1) 378 obtegere (1) 636

(2) 477 908

(1) 976

dubius (4) 206 522 891 1142



dubius (3) 252 497 626

dubius (4) 287 305 (dubioque) 554 942

Tabelle del lessico della finzione e dell’inganno nel teatro di Seneca

opposita

veritas / verum

aperte fides / fidus

Hercules Furens

Troades

Phoenissae

Medea

verus (5) 357 441 588 730 1070

verus (6) 169 371 447 598 645 918

verus (2) 178 397

verus (1) 416

veritas (1) 614 fides (8) 301 309 316 370 420 651 754 (fidemque) 1177

fides (9) 169 529 561 587 598 611 665 666 728

fides (7) 259 280 293 477 480 588 649

fides (8) 11 145 164 248 (fidemque) 434 436 437 1003

fidus (2) 375 1334

fidus (3) 83 453 476

fidus (1) 105

fidus (2) 568 978



Tabelle del lessico della finzione e dell’inganno nel teatro di Seneca

II.  Phaedra, Oedipus, Agamemnon, Thyestes Phaedra

Oedipus

Agamemnon

Thyestes

fraus

(3) 503 828 982

(1) 669

(3) 207 298 632

dolus

(4) 153 (doloque) 467 696 (dolus­ que) 828

(3) 101 241 668

(5) 224 (2 volte) 312 316 482 (4) 178 286 318 473

(6) 47 87 116 632 636 (subdolo) 1009 decipere decipere (1) (3) 20 159 486 988

decipere/ deceptor

astus cautus callidus

(1) 153 (1) 37

fallere / falli / fallere fallax / falsus (1) 1074

falsus (6) 197 295 989 1091 1192 1209

deceptor (1) 140 (1) 486

(3) 106 668 899

falsus (4) 204 419 667 896



fallere (2) 874 960

fallere (3) 167 320 321

falsus (3) 283 618 725

falsus (3) 415 446 661

Tabelle del lessico della finzione e dell’inganno nel teatro di Seneca

fingere

credulus machina / machinari / machinator-trix latere / latitare / latebra / latebrosus

Phaedra

Oedipus

Agamemnon

fallax (3) 634 918 921 (3) 372 496 1265 (2) 530 634

fallax (1) 6

fallax (2) 57 560

machinatus (1) 1221 latere (3) 151 158 643

latebra (1) 938

furtum / furtim / furtivus

furtum (1) 522

(1) 883

Thyestes

(1) 962

latere (4) 295 356 826 (2v.)

latebra (2) 362 826 latebrosus (1) 152 furtum (1) 716



(1) 628

(2) 295 962 machina (1) 386

latere (5) 147 434 456 470 727

latere (1) 534

latitare (1) 968

latitare (1) 897

furtum (5) 123 207 624 675 931

furtum (1) 223

Tabelle del lessico della finzione e dell’inganno nel teatro di Seneca

Phaedra

Oedipus

furtivus (1) [280] om. A simulare

(1) 922

clepere tacere / tacitus tacere (1) 558

tegere / detegere / obtegere

tacitus (7) 32 107 362 625 636 690 775 tegere (6) 153 363 496 622 858 1163

Agamemnon furtivus (3) 122 275 732

(1) 684

Thyestes

(1) 383

tacere (4) 511 523 526 527

tacere (1) 860

tacere (4) 93 193 319 575

tacitus (1) 799

tacitus (3) 126 318 634 (tacitumque)

tacitus (3) 317 397 500

tegere (5) 7 66 215 333 425

tegere (4) 456 502 516 559

tegere (9) 185 189 233 504 505 749 835 1015 1094 detegere (2) 318 331

obtegere (2) 48 625



Tabelle del lessico della finzione e dell’inganno nel teatro di Seneca

occulere / occulte / occultus

Phaedra

Oedipus

Agamemnon

Thyestes

occulere (2) 860 875

occulere (1) 825

(1) 333

occultus (1) 151

occultus (2) 287 362 (1) 669

occulere (3) 931 980 990

mentiri

(1) 1194

ambiguus / dubius / perplexus

ambiguus (4) 639 693 840 1141

ambiguus (2) 208 216

dubius (2) 42 365

dubius (8) 1 212 213 215 343 699 702

perplexus (2) 639 858

perplexus (2) 212 641



(2) 558 864 (mendax) ambiguus (1) 984

dubius (10) 50 59 146 309 407 420 457 787 874 908

dubius (8) 33 240 292 490 606 658 697 711

Tabelle del lessico della finzione e dell’inganno nel teatro di Seneca

opposita

veritas / verum

aperte fides / fidus

Phaedra

Oedipus

verus (4) 136 178 921 1210

verus (9) 204 295 701 802 852 863 866 895 1042

(2) 640 859 fides (5) 92 161 826 953 1143

Agamemnon

Thyestes verus (5) 209 211 549 551 1097

veritas (2) 827 850

fides (9) 672 685 686 781 799 804 837 861 862

fides (12) 38 80 111 112 159 241 285 286 287 307 934 941

fidus (2) 432 725

fidus (4) 284 800 882 917



fides (17) 47 140 216 217 239 294 317 327 335 (2 volte) 481 507 520 667 972 1024 1099

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

INDICE DELLE OPERE DI SENECA E DEI PASSI CITATI

Tragoediae Hercules Furens 139-143: 171 192-194: 60 192-201: 195 197 s.: 60 198-201: 138 251-252: 144 520 s.: 63 548: 63 554: 170 618-620: 63 622-624: 63 624 s.: 64 662 s.: 174 679 s.: 171 692: 59 704 s.: 170 752-755: 38 754: 38, 70 799: 42 914-917: 61 915 s.: 61 952-954: 69 987 s.: 60 991-994: 31 995: 31 995 s.: 31, 60 1001 s.: 60 1008 s.: 61

1012 s.: 61 1030 s.: 61 1032-1034: 61 1066 s.: 69 1070 s.: 69 1178-1180: 59 1237: 19 1238: 19 Troades 1-4: 80 38: 25 39: 64 145-155: 64 178-189: 34 182: 34 201 s.: 183 213 s.: 28 271-273: 71 371 s.: 62 397: 62 444-450: 35 447: 21 452 s.: 23 460: 35, 61 464-467: 62 476: 154 476 s.: 24 477 s.: 60 478-482: 60 482: 24, 31

Indice delle opere di Seneca e dei passi citati

1098: 25-26 1117: 62 1142: 174

486: 62 489-498: 23 492: 23, 31 494: 31 496: 23, 31 501: 31, 60 504: 62 518: 26 522 s.: 26 523: 36 524 s.: 24 524-813: 22 526 s.: 151 529 s.: 151 550 s.: 151 568 s.: 152 568-570: 27 578-581: 152 580: 31 587: 152 598: 152 599-604: 152 603: 153 603 s.: 153 605-608: 153 607-609: 29 611-612: 153 613 s.: 29, 32, 153 614: 29 615-618: 55 616: 26 618: 29 625 s.: 32, 55 627-629: 24, 31 674: 26 750-756: 34 857: 33, 161 867 s.: 34, 64 908 s.: 56 927 s.: 35 933: 56 935-937: 36, 64 1088: 26 1088 s.: 24 1090: 26 1090-1093: 25 1092: 69

Phoenissae 119 s.: 27 295-297: 45 451 s.: 19 473 s.: 69 478: 46 492 s.: 64 492-494: 46 539: 19 554: 19 566 s.: 182 568: 182 589 s.: 46 592-597: 196 594 s.: 46 643 s.: 46 Medea 35 s.: 205 47: 48 51: 143 109: 112 150-154: 57 155 s.: 57 156: 41 157 s.: 57 181: 47 203-206: 113, 120 208: 113 261: 52 266: 34, 51 287 s.: 51 290 s.: 51 295: 51 301-308: 182 309 s.: 179 329 s.: 48, 159, 181 429-430: 113 465-476: 52 469: 52 496 s.: 52 472-473: 52 564: 53



Indice delle opere di Seneca e dei passi citati

136-139: 111 139-142: 120 140 s.: 111 140-141: 111 142-164: 111 152 s.: 54 159-163: 54 165-177: 111 170-172: 188 170-177: 80 173-177: 159 177 s.: 111 195-197: 66 202: 66 232: 145 233-235: 162-163 241-245: 188 245: 111 267-273: 140 272: 29 294 s.: 66 352: 159 358-386: 56 363: 56 403: 181 426: 149 427-430: 112 431 s.: 148 431-433: 56 438: 56 475 s.: 50 481 s.: 159 482: 159 483 s.: 163, 185 483-564: 162, 178 485: 143, 179 486-500: 179 486-525: 180 487: 179 490-496: 143 496: 181 501: 180, 184 502: 181 502 s.: 48, 180 505: 183 506-508: 183 508: 179, 185

568-569: 148 570-578: 148 692 s.: 53 734: 51 741: 167 832-839: 53 835: 64 840 s.: 174 879-884: 47 Phaedra 1-27: 172 1-30: 164 1-84: 162-163 3: 176 4: 168 6: 168 6 s.: 32 7 s.: 169 9: 168 13 s.: 169 17: 168 20: 168 25: 168 30: 172 31: 168, 174, 176 31-52: 173 31-53: 164 39: 174 41: 174 42 s.: 174 44: 173 45: 173 46: 173 48: 173 49 s.: 173 51-55: 164 52: 173 54-82: 172 78: 172 79-80: 177 80: 174 91 s.: 68 97 s.: 68 127: 111 130-135: 111 132-135: 111



Indice delle opere di Seneca e dei passi citati

875: 149 888-893: 50 891: 68 896 s.: 50 915: 67 915-922: 67 918 s.: 17 920 s.: 67 921: 67 938-940: 173 946-953: 149 954-958: 50 959: 159 959-990: 162 981 s.: 163 982: 43, 81, 144, 181 988: 71 989: 26 997: 69 1000-1114: 50, 162, 176 1007: 177 1008 s.: 177 1025-1026: 185 1050 s.: 185 1093: 178 1094: 178 1095: 178 1096: 19, 172 1098-1099: 178 1102: 178 1102-1103: 178 1104: 178 1105: 176-177 1105 s.: 176 1113-1114: 177 1114-1117: 159 1123-1127: 80 1126 s.: 138, 195 1138 s.: 138 1192-1194: 69, 145 1209 s.: 69 1220-1222: 34 1249: 138 1278 s.: 176

509: 179 509 s.: 181 509-510: 185 512 s.: 183 513: 179 513-514: 183 514: 179, 185 517: 143 520: 183 522 s.: 184 522-524: 182 524: 184 525-527: 187 525-539: 181 525-564: 180 526: 179, 185 527: 179 527-530: 181 531-534: 182 540: 186 542 s.: 185 550-553: 179 551 s.: 182 554-557: 179 555 s.: 182 555-564: 49 558: 49 559: 144 566: 144 608 s.: 68 611: 68  611 s.: 68 623: 68 631-633: 66 633: 144 634: 66 635: 68 638: 68 639 s.: 145 694-697: 50 700 s.: 168 777-795: 162 781: 180 828: 47 858-859: 145 864: 68 874: 68

Oedipus 1: 174



Indice delle opere di Seneca e dei passi citati

284-287: 150 292-301: 37 307: 150 558 s.: 33 558-560: 169 625-636: 33 628: 62 725: 66 797: 141 801: 66 872 s.: 66 874 s.: 66 884: 135 885 s.: 100 916 s.: 154 931: 59 978: 59, 136, 150 979 s.: 59 989 s.: 59 988-993: 59 995: 59, 135, 150 997-1000: 59

6 s.: 71, 79 12-14: 196 92 s.: 27 118 s.: 21 204: 63 223-224: 140 241: 43 332-334: 59 399 s.: 141 419 s.: 21 509-510: 140 511-529: 57 523-528: 127 546: 170 547: 170 608 s.: 167 667-670: 45 682-686: 58 685-686: 151 707 s.: 141 773: 20 778: 20 798-799: 149 799: 44 825-827: 31 850: 140 852: 140 862: 140 864-866: 140

Thyestes 13: 48 47-48: 39 65 s.: 100 130 s.: 185 139 s.: 38 159: 39 159-161: 38 165-167: 38 166 s.: 70 174-175: 168 176-179: 40 188 s.: 59 204 s.: 136 204-218: 126 211 s.: 71 212: 129, 136 217 s.: 42 218: 126 220-224: 40 222-224: 37, 40 223-224: 39, 42 224: 137 225-235: 42

Agamemnon 20: 38 47 s.: 37 57 s.: 71 79-81: 80, 146 86-88: 71 112-113: 146 116-120: 47 117-122: 48 128: 56 161: 171 204 s.: 54 207: 54 208-219: 54 251 s.: 59, 135 259: 100 282 s.: 71



Indice delle opere di Seneca e dei passi citati

418: 142, 201 418 s.: 142 421: 170 421 s.: 130 421-490: 142 428: 192 436: 170 442 s.: 197 443 s.: 70 446: 69, 71, 198 446-453: 190, 192, 195 447: 195 449-451: 43 450: 142 451: 195 452: 196, 199 453: 44, 198 455-467: 200 455-468: 194 455-469: 193, 195 457: 194, 201 459 s.: 204 461: 193 464-466: 205 465-466: 194 468 s.: 196 470: 70 472 s.: 45 472-473: 100 473: 17, 39, 136, 192 476-482: 137 482: 39 482 s.: 17 483 s.: 45, 191 484-486: 136 486: 39 486 s.: 45 491: 42, 143 491-502: 42 491-505: 174 494 s.: 143 497: 174 497-499: 32 500: 174 504 s.: 58 504-505: 57 507: 42, 129, 151

235: 39, 42 239: 40, 42 240: 40, 137 245-259: 40 249 s.: 44 269: 170 286-289: 42 288-289: 43 289: 136 294: 151 295: 66 289: 136 299-302: 43-44 312: 39, 136, 189 312-314: 43 312-333: 128 316-321: 44 317-321: 148 318: 39, 57 320 s.: 46, 64 320-321: 39 327-330: 137 330-333: 58 333-335: 148 334 s.: 58 334-335: 140 336-403: 190 342: 69 344 s.: 191 344-349: 197 348-350: 70 365: 70 365-368: 70 369 s.: 193 369-387: 193 380: 70, 197 381-387: 21, 193 388-397: 193 390: 70 391-397: 80  394: 209 396: 193 400: 138 401-403: 70 404-410: 142 412-419: 190-191 415: 71



Indice delle opere di Seneca e dei passi citati

1040: 43

508-509: 128 510 s.: 129 511: 129 512-514: 129 512-520: 129  515-516: 129  517-518: 129 520-521: 43, 137 523: 44  527 s.: 129 529: 129 530 s.: 129 530-531: 129  530-545: 143 531-534: 196 533 s.: 129 534-535: 100 540: 129  541: 129 542: 70, 129, 130, 192 542 s.: 70 599-614: 193 641-664: 200 641-682: 207 645-647: 79, 201 645-679: 71 646-648: 207 648-652: 79 657-664: 208 665: 170 661: 36 685: 44 719: 44 885 s.: 69 913 s.: 100 916: 193 920-926: 192 936-937: 130 958: 67 961 s.: 66 963: 66, 67 966: 67 970-1031: 143 982-984: 43 987 s.: 39 1021-1022: 43 1024: 151

[Sen.] Hercules Oetaeus 657: 100 [Sen.] Octavia 35: 78 60-71: 142 65 s.: 102 84-85: 142 99: 142 162: 78 177: 142 177-179: 102 218: 78 285: 78 377-384: 196 400 s.: 179 453-461: 126 533: 78 625: 78 668: 78 689: 78 699: 78 781: 78 893: 78 948: 78 De ira 2, 1-4: 57 2, 33: 116 2, 33, 1: 114, 132 2, 33, 2: 78, 133 2, 33, 5: 132, 136 2, 34: 134 2, 34, 1: 139 3, 13, 6-7: 114 3, 14: 113, 116 3, 14, 2-3: 115 3, 14, 3: 131 3, 14, 4: 114-115 3, 14, 5: 114 3, 14, 6: 115-116 3, 15: 113 3, 15, 1: 116 3, 15, 2: 117, 131 3, 15, 2-3: 117



Indice delle opere di Seneca e dei passi citati

3, 15, 3: 117 3, 15, 4: 113 3, 16, 1: 117 3, 16, 2-3: 113 3, 16, 3: 116 3, 16, 3-4: 118 3, 16, 4: 116 3, 36, 4: 124 3, 41, 2: 114

3, 26, 1: 118 3, 26, 2: 27 3, 27, 1: 120 6, 30, 4-5: 120 6, 32, 2-4: 120 6, 33, 1: 121 7, 1, 5: 32 7, 20, 1: 135 7, 20, 3: 133

De otio 5, 4: 186

Naturales Quaestiones 1, 5, 5 : 96 Praef. 4a: 130 4a, 2, 5: 170 5, 15, 3: 186

De tranquillitate animi 4: 128 6, 3: 78, 122 11, 3: 131 12, 7: 121 14, 4: 131 14, 5: 131

Epistulae ad Lucilium 2, 4: 48 14, 7: 123, 125 14, 8: 123 29, 6: 78 45: 130 45, 5: 27 48, 12: 145 51, 11: 206 65, 20: 186 73: 134 73, 8-9: 131 82, 4: 60 82, 5: 182 82, 23: 27 86, 6-7: 200 86, 7: 201 88, 22: 194 88, 39: 48 89, 21: 204 90, 7: 194 90, 7-8: 201 90, 10: 196 90, 15: 202 90, 16: 202 90, 40-46: 179 90, 43-44: 185 92, 19: 154 92, 30: 186 94, 56: 185-186 94, 57: 186

Consolatio ad Marciam 17, 3: 184 Consolatio ad Polybium 5-6: 109 6, 3: 109 6, 4-5: 109 Consolatio ad Helviam 9, 2: 198 9, 2-3: 198 9, 3: 199 Apocolocyntosis 3, 2: 78 De clementia 1, 1, 6: 96 1, 19, 2: 95 1, 26, 2: 118 2, 2, 2: 122 2, 7, 5: 119 De beneficiis 2, 2, 18: 121 2, 18, 6: 129



Indice delle opere di Seneca e dei passi citati

Fragmenta Haase 19-20: 135 96: 130

94, 61: 182 95, 52 s.: 185 97, 12: 56 122, 5: 201, 205 122, 8: 205 122, 19: 205



INDICE DEGLI AUTORI ANTICHI E DEI PASSI CITATI

Accius (Dangel – Ribbeck) Alcmeo 614 D.: 18, 52 Alphesiboea 625 D.: 27 Atreus 37-41 D.: 41 60 D.: 151 Epigoni 607 D.: 168 203-204 R.2: 130 Eurysaces 353 D.: 18 371 D.: 19 Medea siue Argonautae 493 D.: 18 Myrmidones fr. 15 R.: 57 Neoptolemus 184 D.: 25, 28 Philocteta 227 D.: 25 Telephus fr. 623 R.: 57 Aeschylus Ag. 1636: 47 Anthologia Latina 1, 21 Riese: 173 415 (De spe) Riese: 67

Apuleius Met. 4, 6: 171 5, 1: 184 10, 2-12: 49 Aristophanes Acarn. 397 s.: 195 Calpurnius Siculus Ecl. 1,  54-59: 95 7,  40-46: 200 Catullus 68, 57-62: 184 Cicero Cat. 1, 2: 51 3, 6: 51 De amicitia 89: 32 De fato 18: 27 De off. 1, 126-149: 155 2, 51: 135 3, 18-19: 135 3, 97-98: 28

Indice degli autori antichi e dei passi citati

De nat. deor. 2, 98: 184 3, 65-75: 51 De or. 3, 7, 27: 11 Pro S. Rosc. 132: 33

Herodotus 1, 119: 116 7, 23 s.: 201 7, 33-37: 201 Homerus Od. 9, 27: 33 11, 206-208: 61 11, 582-592: 38

Dio Cassius 57, 13: 85 61, 10: 96 61, 12: 96 61, 12, 1: 104 61, 20: 96 62, 24: 96 63, 15, 2-3: 94

Horatius Ars 96: 195 173: 180 Epist. 1, 17: 124 1, 18, 86 s.: 124 Epod. 16: 186-187

Ennius ( Jocelyn – Ribbeck) Medea exul 208-216 Joc. [205-213 R.3]: 11, 17 381 R3.: 150

Iuvenalis 4, 81-98: 138

Euripides Andromacha 181: 47 272: 47 943: 47 Hecuba 218: 26 404: 142 Hippolytus 924-931: 68 948-954: 68 Ion 843 s.: 47 Medea 314-320: 57 391: 57 408: 47 Phoenissae 391: 196

Livius 3, 24, 1: 52 25, 25, 3: 52 38, 25, 7: 52 40, 8, 11-13: 100 Lucanus 4, 118: 169 5, 504-506: 138 5, 526 s.: 138 5, 526-531: 196 8, 493-495: 79 9, 500 s.: 170 10, 421-424: 100 Lucretius 1, 404 s.: 32 1, 408 s.: 32 4, 1146-1148: 174

Grattius Cynegetica 223: 175

Ovidius Fasti 1, 197-199: 198



Indice degli autori antichi e dei passi citati

963: 143 Casina 488: 31 860: 31 Curculio 331: 52 Epidicus 375: 30 Mercator 347: 19 Miles gloriosus 1153 s.: 30 1388 s.: 143 Mostellaria 589: 52 Poenulus 647-648: 143 Pseudolus 1063: 30 1244 s.: 30 Rudens 215: 19 Trinummus 237: 143

1, 209-212: 198 1, 223-226: 200 Met. 1, 128-131: 180 5, 587 s.: 185 13, 103 s.: 34 13, 162 s.: 28 15, 99 s.: 173 Trist. 1, 2, 9: 25 Pacuvius (Ribbeck) Chryses 78 R.3: 19 Dulorestes 137 R.3: 18 158 R.3: 59 Iliona 211 R.3: 18-19 Medus 240 R.3: 18 241 R.3: 18 Periboea 275 R.3: 19

Plinius Iun. Pan. 2, 2: 157 2, 3: 130 3: 157 46, 4: 91 55, 2-3: 157 66, 3-5: 157

Petronius 60, 1-3: 202 Plautus Amphitruo 470: 19 836 s.: 152 Asinaria 276: 143 557: 143 561-562: 153 Bacchides 85: 168 232: 33 925-978: 30 940: 30 943: 30 949: 30 964 s.: 30 965: 30 Captiui 530: 33

Plinius Sen. Nat. Hist. 33, 2, 4: 205 35, 2, 7: 208 Propertius 4, 1, 5 s.: 199 4, 7: 35 4, 11, 23 s.: 38 Quintilianus Inst. 2, 10, 5: 49



Indice degli autori antichi e dei passi citati

27: 97 31, 2: 194 31, 3: 194 33: 100 34: 103 Tib. 22: 87 24 : 87 42, 1: 85 65: 86 Tit. 2: 78 Vesp. 14: 78 Vit. 4: 78

2, 17, 10: 199 3, 8, 16: 206 12, 1, 36-38: 135 12, 9, 3: 32 Sallustius Cat. 4, 2: 143 Seneca Rhetor Contr. 1, 6, 4: 198 2, 1, 5: 198 2, 1, 11-12: 203 2, 1, 11-13: 203 2, 1, 13: 203 5, 5: 203 9, 2: 100

Tacitus Agr. 42, 3: 133 Ann. 1, 1: 82 1, 1, 2: 130 1, 1, 3: 86 1, 2: 82 1, 3, 7: 82 1, 6, 3: 87, 120 1, 7: 78 1, 7, 1: 89 1, 7, 3: 83 1, 7, 7 : 87, 89 1, 11, 2: 88  1, 11, 3: 90 2, 32, 2: 130 2, 43: 78 4, 31, 2: 84 4, 33, 2: 83 6, 10, 3: 138 6, 43: 78 6, 45, 3: 85, 97, 102 6, 50: 85 6, 51, 3: 85 12, 68-69: 92 13, 1, 3: 97 13, 2, 1-3 : 97 13, 3, 1-2: 92 13, 3, 3: 92

Silius 11, 51 s.: 100 14, 464: 197 Statius Silv. 2, 2, 83-97: 200 2, 2, 98-106: 200 4, 3, 80: 200 Theb. 5, 255 s.: 100 10, 311 s.: 100 Suetonius Calig. 12: 78 32: 201 35: 132 35, 3: 132 39: 78 Claud. 29: 87 38, 1: 114 38, 5: 113 Nero 6: 78 11-12: 93 25, 2: 208



Indice degli autori antichi e dei passi citati

1, 13-22: 78 1, 73: 52 2, 71: 78 2, 95: 78

13, 4, 1 : 97 13, 4, 2: 94 13, 5: 98 13, 5, 2: 98 13, 11: 96 13, 12-13: 98 13, 13: 99 13, 15, 2: 99 13, 15, 3: 100 13, 15-17: 98 13, 16, 2: 100 13, 16, 3: 101 13, 16, 4: 101 13, 17, 2: 100 13, 28, 1: 94 14, 2: 105 14, 2, 1-2: 98 14, 4, 2: 98, 103 14, 4, 4: 103 14, 5, 3: 101, 103 14, 6, 1-3: 103 14, 7, 3: 104 14, 7, 6: 103 14, 10, 2: 103-104 14, 11, 3: 104 14, 13, 2: 92 14, 14, 2-3: 92 14, 15, 4-5: 93 14, 20, 4: 93 14, 21, 1: 93 14, 53-54: 105 14, 56, 3: 106, 131 15, 34: 78 15, 42: 194, 201, 204 15, 45, 3: 107 15, 59, 2: 91 Hist. 1, 7: 78

Terentius Andria 68: 32 Hecyra 792: 19 Tibullus  1, 10, 39 s.: 195 Valerius Maximus 4, 4, 11: 198 Vergilius Aen. 2, 44: 152 2, 79 s.: 64 2, 164: 34 2, 195 s.: 65 2, 792-794: 61 3, 272: 33 6, 270: 170 6, 511 s.: 35 7, 30: 167 7, 183-186: 208 12, 523: 168 Ecl. 1, 3: 167 Georg. 1, 139-142: 173 Vitruvius 2, 1, 5: 198



INDICE DEGLI AUTORI MODERNI CITATI

Albini, U.: 22, 224 Alexander, W. H.: 96, 104, 225 Amoroso, F.: 23, 26, 31-32, 34-35, 55, 63, 225 André, J.-M.: 225  Andreoni Fontecedro, E.: 225 Arcellaschi, A.: 164, 225 Argenio, R.: 225 Arias Abellan, C.: 225 Aricò, G.: 11, 33-34, 41, 169, 225, 230, 244  Armisen-Marchetti, M.: 27, 111, 173, 225  Armstrong, M. S.: 67, 226 Arzani, P.: 226  Augieri, C. A.: 226, 250 Austin, R. G.: 226 Auvray-Assayas, C.: 83, 226 Aygon, J.- P.: 26-27, 29, 31-32, 39, 116, 160, 165-166, 170-171, 174, 176, 181, 207, 226 Aymard, J.: 172-173, 226 Baier, T.: 226, 237 Baldarelli, B.: 41, 116, 226 Barabino, G.: 226 Baratin, M.: 226, 232, 245 Barchiesi, A.: 45-46, 222 Bardon, H.: 144, 226 Bartsch, S.: 91, 94, 101, 109, 226227

Bastomsky, S. J.: 106, 227 Batinski, E. E.: 227 Bauzá, H. F.: 187, 227 Beare , W.: 18, 227 Belayche, N.: 256 Bellincioni, M.: 186, 227 Beltrami, L.: 131, 249 Bénathouïl, T.: 186, 227 Beranger, J.: 82, 87, 227 Berno, F. R.: 130, 227 Berti, E.: 100, 227 Besnier, B.: 236, 242 Bessone, F.: 227, 245 Bettini, M.: 62, 227 Bianco, M. M.: 227 Billerbeck, M.: 51, 221-222, 228 Biondi G. G.: 10, 12, 17, 51, 57, 222, 228 Bishop, J. D.: 75-76, 228 Blancato, M.: 228, 230 Blänsdorf, J.: 228, 232 Bloch, D.: 144, 228 Bonelli, G.:  228 Bonnafous, S.: 228, 231 Bonner, S. F.: 202, 228 Borca, F.: 206, 228 Borgo, A.: 19, 40, 63, 65, 68, 83, 114, 117, 121, 132, 228, 229 Boscherini, S.: 229 Bouton, C.: 229 Boyancé, P.: 153, 229

Indice degli autori moderni citati

Codoñer, C.: 114, 121, 141, 231 Coffey, M.: 49-50, 120, 144, 222 Cogitore, I.: 82, 231 Conde Guerri, E.: 231 Contin Cassata, A.: 232 Corsaro, F.: 10, 22, 24, 35, 63, 232, 241 Costa, C. D. N.: 51, 222 Cova, P. V.: 123, 131, 232 Crampon, M.: 28, 31, 232 Critelli, M. G.: 175, 178, 187, 232 Croisille, J. M.: 10, 111,149, 232 Curley, T. F.: 128, 232

Boyle, A. J.: 39, 49-50, 159, 164, 188, 222-223, 229, 236, 252 Brancacci, A.: 25, 229 Braund, J.: 223, 229, 251 Bremer, J. M.: 229, 251 Brotherton, B.: 10, 20, 31, 42, 229 Bucalo, M. F.: 25, 229 Buffière , F.: 25, 229 Cajani, G.: 229 Calabrese, E.: 144, 229 Calboli Montefusco, L.: 229, 248 Calder, W. M.: 229-230 Cambiano, G.: 156, 230 Canter, H. V.: 11, 41, 152, 224, 230 Capponi, F.: 172, 230 Cardinali, L.: 245, 251 Casaceli, F.: 230 Casamento, A.: 49, 230 Casanova-Robin, H.: 7 Cassata, L.: 230 Castagna, L.: 139, 230, 237, 244-245 Cattin, A.: 21, 63, 164, 173, 230 Cavalca Schiroli, M. G.: 122, 131, 224 Cavarzere, A.: 230 Cavazza, F.: 230 Caviglia, F.: 10, 22, 24, 28, 30-31, 35, 38-39, 50, 55-56, 60-61, 63, 106, 152-153, 169, 177-178, 222, 230-231 Cervellera, M. A.: 231 Charpin, F.: 231 Chaumartin, F.: 121, 134, 221, 224, 231 Chiabò, M.: 238 Chiarini, G.: 231 Chiron, P.: 157, 228, 231 Ciani, M. G.: 144, 231, 251 Cipriani, G.: 41, 231, 249 Citroni, M.: 231, 234 Citroni Marchetti, S.: 198, 202203, 231 Citti, F.: 67, 231 Cizek, E.: 100, 104, 231 Clark, J. R.: 25, 246 Clarke, G. W.: 119, 231

Damschen, G.: 232 Danese, R.: 232 Danesi Marioni, G.: 28, 35, 232  Dangel, J. : 7, 11, 25, 28, 37, 41, 77, 168, 226, 232-233 D’Anna, G.: 96, 104, 233 D’Antò , V.: 233 Davies, M.: 179, 233 Davis, P. J.: 233 Declerq, G.: 233 Decreus, F.: 233 Defosse, P.: 257 Degl’innocenti Pierini, R. : 7, 11, 25, 27, 41, 51, 68, 70, 77, 80-81, 109, 133, 138-139, 177, 179-180, 184, 190-192, 194-197, 202, 204205, 233-234, 276 Della Corte, F.: 9, 234, 239 De Meo, C.: 50, 67, 119-120, 168170, 178, 183-184, 223 De Rosalia, A.: 11, 41, 234 Desbordes, F.: 12, 17, 157, 234 Desideri, P.: 112, 234 Detienne, M.: 9, 27, 58, 234 De Vivo, A.: 231, 233, 235, 245 Dionigi, I.: 235 Doglio, F.: 238 Ducard, D.: 228, 231 Dunkle, J. R.: 106, 235 Dupont, F.: 164, 172, 235 Durry, M.: 235 Dutoit, E.: 235 Dyson, S. L.: 96, 235



Indice degli autori moderni citati

Giacchero, M.: 238  Giancotti, F.: 70, 80, 138, 238 Gianotti, G. F.: 10, 49, 236, 238 Giardina, G. C.: 49, 52, 221, 238, 243 Gigandet, A.: 236, 242, 255 Gill, C.: 229, 238, 251 Gilleland, M. E.: 239 Giomini, R.: 33, 67, 120, 145, 223, 239 Giua, M. A.: 85-86, 239 Goddard, J.: 100, 239 González Vázquez, C.: 239 Goodyear, F. R. D.: 82, 90, 239 Goulet Cazé, M-O.: 25, 239 Grant, M. D.: 18, 239 Gray-Fow, M. J. G.: 49, 239 Grewe, S.: 239 Griffin, M.: 96-98, 105, 133, 239 Grilli, A.: 49, 179-180, 239 Grimal, P.: 10, 49, 77, 79, 105, 150, 162, 239-240 Guastella, G.: 10, 36, 40, 42, 53, 136, 240

Earp, C. B.: 235 Edwards, C.: 91, 95, 200, 204, 206, 235 Elsner, J.: 235, 239, 251 Erasmo, M.: 38, 235  Ernout, A.: 224, 226, 232, 235 Esposito, P.: 200, 206, 235 Evans, E. C.: 26, 235 Faber, R. A.: 207, 235 Fabre-Serris, J.: 187, 235-236 Faggi, V.: 236 Faller, S. T.: 232, 236 Fantham, E.: 22-24, 32-33, 35, 60, 63, 153, 222, 236 Fantuzzi, M.: 12, 17, 236  Farrell, J.: 236 Fedeli, P.: 172, 203, 225, 235-236, 241 Ferri, R.: 102, 105, 142, 223, 236 Fillion-Lahille, J.: 113, 236  Fiorencis, G.: 49, 236 Fitch, J. G.: 42, 59-61, 69, 76, 120, 195, 222, 236 Focardi, G.: 173, 237 Föllinger, S.: 237 Fontinoy, C.: 34, 237  Foucault, M.: 54, 237 Fraenkel, E.: 237 Frassoni, M.: 201, 237 Freyburger, G.: 42, 147, 153, 237 Fuerneaux, H.: 90 Fugier, H.: 237

Hadot, I.: 68, 240 Hage, H.: 254 Harrison, G. W. M.: 240 Heil, A.: 232 Heldmann, K.: 164, 240 Henry, D.: 44, 100, 104-105, 164, 240 Henry, E.: 44, 240 Herrmann, L.: 152, 240 Hill, T. D.: 240 Hoven, R.: 63, 240

Gahan, J. J.: 177, 237 Galimberti Biffino, G.: 50, 237  Gamberale, L.: 237 Gambet, D.: 237 Garbarino, G.: 10, 49, 58, 76-77, 79, 112, 150, 163, 176, 179, 184, 230, 237 Garcia Borrón Moral, J. C.: 63, 238 Garelli-François, M.-H.: 26, 29, 34, 55, 228, 238, 245 Gavoille, E.: 18, 35, 238 Ghiselli, G.: 48, 238

Inwood, B.: 240 Jacobi, R.: 240 Jäkel, S.: 240 Jocelyn, H. D.: 11, 236, 240, 270 Kenney, E. J.: 174, 240 Keulen, A. J.: 23, 31, 63, 222 Klotz, A.: 240 Knox, B.: 144, 240  Kohn, T. : 240



Indice degli autori moderni citati

Mastronarde, D. J.: 11, 244 Maxia, C.: 179, 184, 192, 244 Mayer, R. G.: 49, 50, 114, 120, 144, 159, 222-223, 244 Mazzoli, G.: 8, 11, 20, 31-32, 39, 41, 53, 57, 63, 65-66, 77, 79-80, 96, 116, 123-124, 137-138, 159, 161, 164, 169, 175, 180-181, 185-187, 189, 193, 198, 244-245, 252 Mazzoli, L.: 24, 244 McElduff, S.: 236 Mevoli, D.: 85 Michel, A.: 95, 245 Migliario, E.: 245 Millar, F.: 83, 246 Minadeo, R.: 144, 246 Minarini, A.: 246 Molero Alcaraz, L. E.: 36, 225, 246 Monteleone C.: 41-44, 70, 246 Montiglio, S.: 144, 246 Morelli, A. M.: 68, 144, 246 Morford M. P. O.: 194, 246 Moricca, U.: 246 Motto, A. L.: 25, 246 Moussy, C.: 226, 232, 238-239, 246 Mugellesi, R.: 170, 174, 246 Murat, M.: 233

Korver, J. : 206, 241 Labate, M.: 155, 241 Lana, I.: 41, 44, 57, 68, 75, 86, 88, 97, 128, 133-135, 137, 148, 156, 227, 230, 237, 241, 250, 251, 253, 255 Lanciotti, S.: 134, 241 Landolfi, L.: 50, 225, 234, 241, 245 Lanza, D.: 58, 135, 144, 241  La Penna, A.: 18, 41, 88, 124, 135, 241-242  Laurand, V.: 56, 229, 242 Lausberg, H.: 242 Lavery, G. B.: 116-117, 132, 242 Leeman, A. D.: 168, 242 Lévy, C.: 7, 155, 226, 228, 231, 235236, 242-243, 245, 255 Littlewood, C. A. J.: 47, 162, 165, 242  Lo Cascio, E.: 231, 233, 235, 245 Lo Piccolo, M.: 190, 243 Lodge, G.: 242 Longo, O.: 144, 242, 244 López, A.: 242 Lopez, V. C.: 187, 242 López Cabrera, I.: 162, 168-169, 242 Lotito, G.: 155, 243

Narducci, E.: 37, 79, 94, 99-100, 124, 155, 197, 231, 246-247, 252 Németi, A.: 47-48, 52, 57, 222 Nenci, F.: 53, 223 Nisbet, R. G. M.: 247 Nosarti, L.: 12, 247  Novara, A.: 184, 247 Nuzzo, G.: 228, 230

Mader, G.: 130, 243 Malaspina, E.: 75, 78, 81, 165-167, 171, 227, 241, 243 Malosse, P.-L.: 157, 243 Manning, C. E.: 92-93, 243 Mantovanelli, P.: 38, 70, 119, 134, 243 Manuwald, G.: 226, 232, 236-237, 243, 256 Marchese, R. R.: 136, 244 Marchetta, A.: 129, 244 Marchis, V.: 34, 244 Marino, R.: 63, 244 Martina, A.: 54, 139, 244 Marx, F.: 244 Mastellone Iovane, E.: 84, 89, 97, 103-104, 106, 244 Masters, J.: 235, 239, 251

Owen, W. H.: 33, 62, 247 Pack, R. A.: 20, 247 Paduano, G.: 71, 79, 141, 223, 247 Palma, M.: 23, 247  Palmieri, D.: 26, 247 Palmieri, N.: 247 Pani, M.: 78, 83, 122, 202, 247 Paré-Rey, P.: 247



Indice degli autori moderni citati

Rolland, E.: 50, 174, 250 Romano, E.: 202, 234, 250 Rommel, B.: 245, 256 Rosati, G.: 7, 33, 37,160, 169, 174, 185, 187, 189, 206-207, 250-251 Rosato, C.: 12, 251 Rose, A. R.: 126, 129, 251 Rosenmeyer, T. G.: 159, 251 Rota, S.: 44, 251 Rudich, V.: 83-84, 87, 96, 119, 134, 251  Ruijgh, C. J.: 229, 242, 251 Runchina, G.: 11, 41, 59, 251

Parroni, P.: 236, 247, 252 Pasiani, P.: 35, 247 Pasquali, G.: 42, 248  Pavlovskis, Z.: 200, 248 Pease, A. S.: 224, 248 Pellicer, A.: 248 Pellucchi, T.: 248 Pennacini, A.: 167, 248 Pernot, L.: 27, 157, 248 Perutelli, A.: 23-24, 26, 28, 160, 168, 223, 248  Petrone, G.: 9-10, 18, 20, 23, 26, 29, 33, 45-46, 48, 50, 52, 68, 70, 79-81, 111, 116, 143, 147, 153, 164, 166, 174, 177, 180, 184, 187, 222, 245, 248-249 Pianezzola, E.: 184, 187, 249 Picone, G.: 7, 10, 18, 20, 39-40, 42-43, 53, 65, 80, 127, 129-131, 146-147, 180, 187-188, 191, 193194, 249 Pierini, R.: vedi Degl’Innocenti Pierini, R. Piscopo, S.: 65, 84, 249 Pociña, A.: 116, 249 Poe, J. P.: 249 Pohlenz, M.: 54, 63, 123, 249 Powell, J.: 256 Prinzen, H.: 11, 249 Prost, F.: 242 Purcell, N.: 200-201, 204, 249

Salvatore, A.: 165, 251 Santini, C.: 245, 251 Scafoglio, G.: 22, 251 Scarpat, G.: 63, 251 Scarpi, P.: 244, 251 Schenkeveld, D. M.: 136, 251 Schetter, W.: 22, 34, 63, 251  Schiesaro, A.: 42, 47-48, 62, 128, 171, 175, 227, 251-252 Schouler, B.: 252 Scott, R. D.: 103, 252 Segal, C.: 49-50, 68, 71, 144, 165, 177, 180-182, 188, 252 Seidensticker, B.: 53, 252 Setaioli, A.: 11, 23, 63, 114, 116, 118, 251-252 Shelton, J. A.: 252 Slater, N. W.: 253 Solimano, G.: 91, 109, 145, 253 Soubiran, J.: 179, 184, 253 Soverini, P.: 253 Stanford, W. B.: 23-24, 253 Steele, R. B.: 253 Strocchio, R.: 83-86, 90, 94-96, 98-99, 253 Sullivan, J. P.: 83, 91, 117, 253 Sutton, D. F.: 253 Syme, R.: 85, 105, 238, 253 Szepessy ,T.: 34, 253 

Radt, S. L.: 229, 242, 251 Raffaelli, R.: 249 Raïd, L.: 229 Raina, G.: 56, 249 Ramires, G.: 250 Ramondetti, P.: 84, 86, 90, 114, 117, 119, 132-133, 250 Reggiani, R.: 250 Ribbeck, O.: 250, 269-271 Ricottilli, L.: 131, 144, 249-250 Risicato, A.: 250 Rivoltella, M.: 37, 40, 176, 250  Rodriguez-Pantoja, M.: 225, 242, 250 Roisman, H. M.: 180, 183, 250

Tandoi, V.: 230 Taplin, O.: 144, 253 Tarantino, R.: 139, 253



Tarrant, R. J.: 10-11, 21, 37, 39, 41, 43-44, 47, 66, 70, 76, 120, 130, 149-150, 223, 254 Tealdo, F.: 111, 254 Thierfelder, A.: 254 Thilo, G.: 254 Tietze Larson, V.: 26, 160, 162, 165, 254 Timonen, A.: 240 Timpanaro, S.: 42, 254 Töchterle, K.: 31, 127-128, 223 Tontini, A.: 249 Traina, A.: 48, 50, 58, 67, 70, 123, 193, 222, 247, 254 Traina, G.: 254 Trebbi, M.: 254 Trombino, R.: 167-169, 255  Tschiedel, H. J.: 144, 255 Tsirpanlis, C. N.: 255 Uglione, R.: 238, 241-242, 244-245, 248-250, 255-256 Utard, R.: 226, 245 Vahlen, I.: 255 Valenti Pagnini, R.: 83, 88, 107, 255 Valsa, M.: 255 Van Der Paardt, R.: 257 Van Der Poel, M.: 144, 255 Vernant, J. P.: 9, 27, 42, 58, 234, 255 Veyne, P.: 255 Vidal-Naquet, P.: 42, 255 Videau, A.: 226, 245 Villa, B.: 44, 255  Villari, E.: 56, 255

Voelke, A. J.: 192, 255 Vogt-Spira, G.: 192, 256 Vössing, K.: 116, 118, 256 Vottero, D.: 130,159, 224, 256 Vox, O.: 237 Walker, B.: 100, 104-105, 164, 240 Waltz, R.: 224, 256 Warmington, E. H.: 256 Watson, P.: 49, 256 Wesolowska, E.: 144-145, 256 Whitlock Blundell, M.: 25, 256  Widal, A.: 22, 256 Wieand, H.: 256 Wilgaux, J.: 242 Williams, G.: 56, 186, 224, 256 Wilson, M.: 256 Winniczuch, L.: 144, 256 Winterbottom, M.: 256 Winterling, A.: 79, 256 Wirszubski, Ch.: 112, 257 Wiseman, T. P.: 208, 238, 257 Woodman, T.: 256 Wooten, C. W.: 257 Wray, D.: 227 Wuilleumier, P.: 257 Zapata Ferrer, M. De La Almudena: 160, 257 Zimmerman, M.: 257 Zimmermann, B.: 226, 237 Zoccali, F.: 168,171, 176, 257 Zuccarelli, U.: 64, 257 Zurli, L.: 245, 251 Zwierlein, O.: 42, 49, 52, 61, 177178, 183, 211, 221