La prosa del Cinquecento. Studi sulla sintassi e la testualità 9788862279666, 9788862279673

Nel volume si studiano gli aspetti formali di alcuni trattati e dialoghi del Rinascimento: il "Principe", i &q

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La prosa del Cinquecento. Studi sulla sintassi e la testualità
 9788862279666, 9788862279673

Table of contents :
Sommario
Premessa
1. La ricerca dei modelli e l’invenzione del nuovo
2. La scrittura di Machiavelli
3. Un’analisi del Principe
4. I Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio
5. Bembo
6. Castiglione
7. La Storia d’Italia di Guicciardini
8. Le Vite del Vasari (1550)
9. Una lezzione di Benedetto Varchi
10. Un altro Cinquecento
Bibliografia primaria
Bibliografia secondaria
Indice linguistico e delle cose notevoli
Indice degli autori e dei personaggi storici
Indice degli studiosi

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I TA L I A N A p e r l a st o r i a de lla li n g u a s cri t t a in i t al ia c olla na dir e tta da luca s erianni * 10.

LA PROSA DEL CINQUECENTO ST U DI S U LLA SINTASSI E LA T EST UALITÀ MAU R I Z I O DA RDANO

P I SA · ROM A FAB R IZIO SERR A ED IT ORE MMXVI I

A norma del codice civile italiano, è vietata la riproduzione, totale o parziale (compresi estratti, ecc.), di questa pubblicazione in qualsiasi forma e versione (comprese bozze, ecc.), originale o derivata, e con qualsiasi mezzo a stampa o internet (compresi siti web personali e istituzionali, academia.edu, ecc.), elettronico, digitale, meccanico, per mezzo di fotocopie, pdf, microfilm, film, scanner o altro, senza il permesso scritto della casa editrice. Under Italian civil law this publication cannot be reproduced, wholly or in part (included oπprints,etc.), in any form (included proofs, etc.), original or derived, or by any means: print, internet (included personal and institutional web sites, academia.edu, etc.), electronic, digital, mechanical, including photocopy, pdf, microfilm, film, scanner or any other medium, without permission in writing from the publisher. * Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2017 by Fabrizio Serra editore, Pisa · Roma. Fabrizio Serra editore incorporates the Imprints Accademia editoriale, Edizioni dell’Ateneo, Fabrizio Serra editore, Giardini editori e stampatori in Pisa, Gruppo editoriale internazionale and Istituti editoriali e poligrafici internazionali. www.libraweb.net U√ci di Pisa: Via Santa Bibbiana 28, I 56127 Pisa, tel. +39 050 542332, fax +39 050 574888, [email protected] U√ci di Roma: Via Carlo Emanuele I 48, I 00185 Roma, tel. +39 06 70493456, fax +39 06 70476605, [email protected] * Stampato in Italia · Printed in Italy i s s n 18 2 8 -68 97 i s b n 9 7 8 - 8 8 - 62 2 7-966-6 bros s ura i s b n 9 7 8 - 8 8 - 62 2 7 -967-3 elet t ronico

per isa e paola

Sommario

SOMMARIO Premessa 13 1. La ricerca dei modelli e l’invenzione del nuovo 15 1. 1. 1. 1. 1. 1. 1. 1. 1.

1. I trattati 15 2. La stampa 16 3. Un’idea del Rinascimento 18 4. Modelli 18 5. I letterati e la guerra 19 6. Dal Quattrocento al Cinquecento 21 7. Mobilità dei testi 25 8. Latino e volgare 28 9. Misure della sintassi 29

2. La scrittura di Machiavelli 31 2. 2. 2. 2. 2.

1. Le ragioni di un trattato 31 2. Innovazioni e permanenze 36 3. Le forme dei periodi 41 4. Della sintassi 47 5. Confronti 52

3. Un’analisi del Principe 57 3. 1. La posizione di Machiavelli 57 3. 2. Cenni sulla fonomorfologia e sul lessico 58 3. 3. Fenomeni di microsintassi 60 3. 3. 1. L’articolo 60 3. 3. 2. I pronomi personali 60 3. 3. 3. L’accordo del participio passato 61 3. 3. 4. Le funzioni di che 61 3. 3. 5. L’infinito preposizionale 62 3. 4. Istanze pragmatiche e strutture 63 3. 4. 1. Gli scritti di governo e i trattati 63 3. 4. 2. Figure retoriche e stile additivo 64 3. 4. 3. Tracce di parlato 65 3. 4. 4. La concordanza a senso 66 3. 4. 5. Pleonasmi 67 3. 4. 6. Brachilogie 67 3. 4. 7. Cambiamenti di costruzione 68 3. 4. 8. Sovrapposizione di costrutti 69 3. 4. 9. La paraipotassi relativa 69 3. 4. 10. L’uso dei tempi e dei modi verbali 70 3. 5. La subordinazione completiva 3. 5. 1. Preliminari

70 70

Somm Somm Prem 1. La 2. La 3. Un 4. I D 5. Be 6. Ca 7. La 8. Le 9. Un 10. U Biblio Biblio Indic Indic Indic

8

sommario 3. 3. 3. 3. 3.

5. 5. 5. 5. 5.

2. 3. 4. 5. 6.

Le Le Le Le Le

proposizioni proposizioni proposizioni proposizioni proposizioni

soggettive con verbo finito 74 soggettive con infinito 75 oggettive con verbo finito 76 oggettive con infinito (accusativo con infinito) 79 interrogative indirette 80

3. 6. Le proposizioni relative 82 3. 7. Le proposizioni avverbiali 84 3. 7. 1. Causalità 84 3. 7. 2. Consecutività 86 3. 7. 3. Concessività 87 3. 7. 4. Finalità 88 3. 7. 5. Temporalità 89 3. 7. 6. Comparazione 90 3. 7. 7. Il periodo ipotetico 92 3. 7. 8. Le proposizioni eccettuative 93 3. 8 Costrutti assoluti 3. 8. 1. Gerundiali 3. 8. 2. Participiali

94 94 95

3. 9. Collegamenti 96 3. 10. L’ordine dei costituenti 99 3. 11. Le istorie verso la modernità 100 4. I Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio 104 4. 1. 4. 4. 4. 4. 4.

“Sarò animoso in dire manifestamente” 1. 1. In prima persona 1. 2. Partizioni 1. 3. Percorsi 1. 4. “Ho deliberato di entrare per una via” 1. 5. L’argomentazione

104 105 108 111 112 114

4. 2. Articolazioni interne 117 4. 2. 1. Collegamenti 117 4. 2. 2. “Deviazioni” e discontinuità 122 4. 2. 3. Suddivisioni, gerarchie 125 4. 2. 4. Notabilia, exempla 127 4. 2. 5. Morfologia e microsintassi 128 4. 2. 6. Introduttori e marcatori 133 4. 2. 7. L’ordine delle parole 135 4. 2. 8. Le parentetiche 141 4. 2. 9. I nessi nominali 142 4. 3 La struttura del periodo 4. 3. 1. Il sintagma verbale 4. 3. 2. Costruzioni e significati 4. 3. 3. Le polirematiche e le perifrasi verbali 4. 3. 4. L’uso dei tempi 4. 3. 5. Modalità ed evidenzialità 4. 3. 6. Il passivo

143 143 144 145 147 147 149

sommario 4. 3. 7. La subordinazione 4. 3. 8. La coordinazione 4. 3. 9. Caratteri e tipologie

9 151 151 153

4. 4. La subordinazione 4. 4. 1. Le proposizioni soggettive 4. 4. 2. Le proposizioni oggettive con verbo di modo finito 4. 4. 3. Fenomeni persistenti 4. 4. 4. SN e SA reggenti una subordinata 4. 4. 5. Le proposizioni oggettive con infinito (accusativo con infinito) 4. 4. 6. Vari tipi di subordinate 4. 4. 7. Le proposizioni interrogative indirette

154 154 157 159 162 164 166 171

4. 5. Le proposizioni relative 4. 6. Le proposizioni avverbiali 4. 6. 1. Causalità 4. 6. 2. Consecutività 4. 6. 3. Concessività 4. 6. 4. Finalità 4. 6. 5. Temporalità 4. 6. 6. Il periodo ipotetico 4. 6. 7. Comparazione 4. 6. 8. Costrutti modali 4. 6. 9. Costrutti eccettuativi

173 175 176 179 180 182 183 185 187 189 190

4. 7. Costrutti assoluti 4. 7. 1. Gerundiali 4. 7. 2. Participiali

191 191 193

4. 8. Confronti e giudizi 196 5. Bembo 199 5. 5. 5. 5.

1. “Tutti i modi dello scrivere” 199 2. Gli Asolani 202 3. Le Prose della volgar lingua 208 4. Aspetti della sintassi 212 5. 4. 1. Le proposizioni soggettive 213 5. 4. 2. Le proposizioni oggettive 215 5. 4. 3. Le proposizioni interrogative indirette 217 5. 4. 4. Le proposizioni avverbiali 218 5. 4. 5. Le proposizioni relative 223 5. 4. 6. Le gerundiali 225 5. 4. 7. Le participiali 229 5. 4. 8. Fenomeni di microsintassi 231

5. 5. Dalle lettere ai dialoghi 232 6. Castiglione 236 6. 1. La scrittura del dialogo 6. 1. 1. “In Toscana e negli altri lochi della Italia”

236 238

10

sommario

6. 1. 2. Lontano da Bembo 242 6. 1. 3. Le due redazioni 246 6. 2. L’arte del periodo 247 6. 2. 1. L’ordine dei costituenti 247 6. 2. 2. Inserimenti 251 6. 2. 3. Correlazioni e comparazioni 254 6. 2. 4. Il periodo ipotetico 257 6. 3. La subordinazione 258 6. 3. 1. Le completive soggettive e oggettive 258 6. 3. 2. La composizione dei periodi 263 6. 3. 3. La forma dei periodi

267

6. 4. Le proposizioni avverbiali 269 6. 4. 1. Causalità 269 6. 4. 2. Consecutività 270 6. 4. 3. Concessività 271 6. 4. 4. Finalità 272 6. 5. Testualità e progressione 272 6. 5. 1. Riprese 273 6. 5. 2. Le virtù del dialogo 274 6. 5. 3. Varietà di temi 275 6. 5. 4. Facezie e perfezione 277 6. 5. 5. Descrivere 278 6. 5. 6. Formule e finali 280 7. La Storia d’Italia di Guicciardini 282 7. 1. 7. 7. 7. 7. 7. 7. 7. 7.

La composizione 282 1. 1. Confronti 286 1. 2. “Io ho deliberato” 291 1. 3. L’ordine del discorso 296 1. 4. Collocazioni 299 1. 5. Aspetti dell’enunciazione 304 1. 6. Oratoria e argomentazione 310 1. 7. Quadri, scene, figure 312 1. 8. Preliminari sulla sintassi del periodo 315

7. 2 La subordinazione completiva 317 7. 2. 1. Le proposizioni soggettive con verbo finito 318 7. 2. 2. Le proposizioni soggettive con infinito 319 7. 2. 3. Le proposizioni oggettive con verbo finito 320 7. 2. 4. Reggente verbale + di + infinito 324 7. 2. 5. Nominalizzazione dell’infinito 324 7. 2. 6. Le proposizioni oggettive con infinito (accusativo con infinito) 325 7. 2. 7. Oratio obliqua 329 7. 2. 8. Le proposizioni interrogative indirette 331 7. 3. Le proposizioni relative 332 7. 4. Le proposizioni avverbiali 337

sommario 7. 7. 7. 7. 7. 7. 7. 7. 7.

4. 4. 4. 4. 4. 4. 4. 4. 4.

1. Causalità 2. Consecutività 3. Concessività 4. Finalità 5. Le proposizioni temporali 6. Il periodo ipotetico 7. Le proposizioni comparative 8. Le proposizioni modali 9. Le proposizioni eccettuative

7. 5. Costrutti assoluti 7. 5. 1. Le gerundiali 7. 5. 2. Le participiali

11 338 340 342 345 348 353 357 359 360 361 361 364

7. 6. Cenni sulla morfologia 367 7. 7. Conclusioni sulla lingua di Guicciardini 369 8. Le Vite del Vasari (1550) 372 8. 8. 8. 8. 8. 8.

1. Ritrarre i grandi 372 2. Il progetto 373 3. La composizione 375 4. Argomentare sull’arte 377 5. Lo sviluppo del testo 380 6. Strutture e stilemi 384

9. Una lezzione di Benedetto Varchi 390 9. 1. Spiegare l’arte 390 9. 2. La progressione tematica 393 9. 3. Come si costruisce una lezione 395 10. Un altro Cinquecento 403 10. 10. 10. 10. 10. 10. 10.

1. Aretino 404 2. Cellini 409 3. Folengo toscano 410 4. Doni 413 5. Tanti modi di narrare 415 6. Bandello 420 7. La spinta del Cinquecento 428

Bibliografia primaria 431 Bibliografia secondaria 435 Indice linguistico e delle cose notevoli 455 Indice degli autori e dei personaggi storici 463 Indice degli studiosi 467

Premessa

PREMESSA

N

ei capitoli che seguono si studiano gli aspetti formali di alcuni trattati e dialoghi del Rinascimento: il Principe, i Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, gli Asolani, il Cortegiano, la Storia d’Italia e le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori. Di queste opere fondamentali della nostra storia letteraria, culturale e linguistica si analizzano in particolare la sintassi, la testualità e gli aspetti pragmatici. Machiavelli, Bembo, Castiglione, Guicciardini e Vasari seguono vie diverse nella ricerca di una lingua adatta all’esposizione di principi, all’argomentare e alla rievocazione storica. La trattatistica è la forma di elaborazione teorica tipica del Rinascimento, in cui si discute dell’agire del politico, degli eventi del presente e del passato, del comportamento nella corte e in società, dell’uso della lingua nella scrittura e nella conversazione, delle arti e dei giudizi che le riguardano. È l’epoca della riorganizzazione dei modelli, del culto della forma e dello stile di una lingua che possa essere assunta come norma. L’unità linguistica, che all’inizio del secolo è soprattutto comunità di tradizioni e di ideali, esiste per la poesia: Petrarca è un modello astorico, imitabile e riproducibile. La situazione della prosa è altra: si delinea il trionfo definitivo del volgare sul latino, del toscano sulle altre varietà linguistiche della Penisola, tuttavia tendenze e pratiche di scrittura sono diverse. Questa ricerca si propone di descrivere e interpretare tali diversità ai piani alti della letteratura mediante un’analisi condotta in settori che finora sono stati scarsamente indagati: mi riferisco in particolare alla testualità e all’enunciazione. All’analisi della trattatistica dei grandi autori seguono, negli ultimi due capitoli, pagine dedicate ad altri generi di prosa, diversi negli intenti e negli stili: una lezzione di B. Varchi, campioni di anticlassicisti (Aretino, Cellini, Folengo, Doni) e brani di novellieri; in tal modo si è voluto proporre un confronto con una lingua retoricamente meno elaborata o più vicina ai toni medi e alla colloquialità. Diversi e slegati tra loro, frutto di una scelta un po’ arbitraria, questi passi sono tuttavia capaci di acuire lo sguardo del lettore e fargli comprendere, insieme alla varietà del panorama, la specificità delle opere che sono l’oggetto principale di questo studio. L’introduzione ai saggi è costituita da un capitolo iniziale, dove sono illustrati quei caratteri della cultura e della società del tempo che hanno un rapporto diretto con le analisi che seguono. Per avere un senso compiuto, questo volume, pensato per far comprendere lo spessore e, sia lecito dirlo, la bellezza di una lingua d’altri tempi, deve essere letto come un tutto, vale a dire nell’ordine proposto dei capitoli e dei paragrafi e nelle parti meno appettibili: alludo a quegli elenchi di fenomeni e di costrutti, inevitabilmente tediosi, ma indispensabili per capire il funzionamento della lingua del xvi secolo e per proporre confronti con testi appartenenti ad altre epoche. Non si può concedere al lettore l’invitante libertà di scegliere i capitoli, di saltare qua e là tra queste pagine, di andare a ritroso e così via. Il collocamento delle opere qui prese in esame in un contesto storico e culturale è stata l’operazione preliminare dell’intera ricerca. Ad eccezione del secondo, tutti i saggi del volume sono inediti e rappresentano il risultato di un lavoro portato avanti, negli ultimi tre anni, nell’ambito dell’“Archivio della sintassi dell’italiano letterario”, un progetto avviato nel 2001

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premessa

presso l’Università di Roma Tre, e proseguito dal sottoscritto, da allievi e collaboratori, negli anni successivi con varie pubblicazioni riguardanti l’italiano antico e moderno. Ringrazio Francesco Bianco, Gianluca Colella, Gianluca Frenguelli, Gianluca Lauta, Luigi Spagnolo ed Emanuele Ventura che hanno letto parti del volume e mi hanno dato utili consigli. Resta inteso che mi considero l’unico responsabile di ogni difetto ancora presente in queste pagine.

1. La ricerca dei modelli e l’invenzione del nuovo

1. LA RICERCA DEI MODELLI E L’INVENZIONE DEL NUOVO 1. 1. I trattati

L

a scoperta dell’antichità, secondo Jacob Burckhardt, non sarebbe stata da sola capace di dar vita al Rinascimento se non si fosse accordata con quello che lo studioso era solito definire lo “spirito italiano”. 1 Era così riconosciuta la centralità di un fattore che ha visto nascere tanti capolavori delle lettere e delle arti. All’inizio del Cinquecento, dopo un periodo che ha segnato il prestigio maggiore della poesia, la prosa riprende vigore; l’avvio inizia a Napoli, con l’Arcadia, e a Venezia, con gli Asolani. Poi l’iniziativa ritorna a Firenze: i trattati di Machiavelli aprono alla riflessione storica e all’agire del politico. «E veramente per chi impara tali arti è Fiorenza luogo mirabile, per le concorrenze, per le gare e per le invidie, che sempre vi furono e molto più in que’ tempi»; 2 la città è stata per lungo tempo e rimane ancora nel Cinquecento un centro di grande cultura letteraria; ma, terminata la signoria del Magnifico (1469-1492), cresce il municipalismo, proprio quando le guerre d’Italia imperversano. Il Paese è invaso da eserciti stranieri; inizia un triste periodo della nostra storia civile e politica. 3 Se è vero che la letteratura, nei suoi tempi migliori, assolve a molti e diversi compiti, il Cinquecento è uno dei periodi in cui il fenomeno appare in tutta la sua ampiezza: le lettere diventano il mezzo di trasmissione di conoscenze, di memorie storiche, di mode e di moralità; partecipano alle vicende politiche, sociali e religiose, esprimono pensiero e riflessione, studio e analisi, gioia intellettuale e divertimento; nelle corti come nei circoli di eletti, sono lo strumento di polemiche, grandi e piccole, serie e stravaganti; gli animi s’inaspriscono o si acquetano, si difendono principi o ci si perde in divagazioni. La dimensione internazionale della letteratura progredisce; le traduzioni proliferano, il pubblico dei lettori cresce. S’irrobustisce una cultura media, che accoglie il nuovo, non sempre disperde il vecchio, ma in ogni caso acquista un pubblico più vasto. 4 Accanto alle novità, le persistenze; si eredita il pensiero degli antichi. Nel 1439 il Concilio per l’Unione delle Chiese si era spostato da Ferrara a Firenze: «Con i padri greci era la tradizione neoplatonica in genere che veniva a riemergere con forza, fino alle sue manifestazioni più ardite, a risorgere, in un recupero talora sconcertante dell’ellenismo». 5  









1  Cfr. Burckhardt (1967: 187). Dei modelli di pensiero e di scrittura che si aπermano in questa epoca tratta Fedi (1996: 507-594), da confrontare con Garin (1962), Vasoli (1982) e Mazzacurati (1985). Sulla cultura e la società italiana del Rinascimento v. Burke (1984). 2   Cfr. “Raπaello”, in Vasari (19912: 615). 3   Sugli ambienti culturali e borghesi della Firenze rinascimentale si vedano Bec (1981), Martelli (1988) e J. M. Najemy, “Firenze”, in EncMachiavelli, i (2014: 553-561). 4   Cfr. Koenisberger et Al. (2004: 456-460), dove si ricorda, tra l’altro, la significativa fortuna, presso gli strati bassi della popolazione, dei libri devozionali e degli almanacchi pseudoscientifici. Trovato (1998: 17-45) illustra il rapporto tra la diπusione della stampa e l’alfabetismo, in particolare tra xv e xvi secolo; v. anche Belloni/Drusi (2007). 5   E. Garin, Lo zodiaco della vita. La polemica sull’astrologia dal Trecento al Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 19943: 64.

16

la prosa del cinquecento

Il dialogo e il trattato (che del primo ha spesso la forma) sono i generi-guida in cui si aπermano il pensiero e la sensibilità di una cultura in piena evoluzione; 6 si rinnovano i modi di argomentare, di analizzare e commentare. Nel Principe spicca l’ardire di una voce che incita alla riscossa; nei Discorsi il commento si apre alla riflessione; il Cortegiano celebra il modus vivendi e gli ideali della cortegiania; la Storia d’Italia ricerca le cause degli eventi in una lettura veritiera della storia. Nati come romanzo ideologico, gli Asolani diventano autocelebrazione della scrittura.  

1. 2. La stampa Ad ampliare l’orizzonte culturale interviene soprattutto la diπusione della stampa, evento grandioso dal quale dipendono la crescita del pubblico di lettori e la caduta di quelle barriere che nel medioevo avevano separato i diversi campi del sapere. Di “decompartimenzione del sapere” ha parlato Panofsky (1971): le arti liberali e le arti meccaniche, non più separate da rigidi confini, vengono a confronto, producono nuove conoscenze, si alimentano di nuovi stimoli. 7 La stampa a caratteri mobili, in un primo tempo applicata a prodotti e√meri, di poco prezzo e facilmente riproducibili (fogli volanti, lettere d’indulgenza per i fedeli, ‘avvisi’), si estende a prodotti di media durata (canti carnascialeschi, brevi composizioni teatrali), conquista infine opere di pregio. A questo punto si valorizza un nuovo fattore: il tempo della scrittura; prestezza e disegno si confrontano; si aπerma l’esigenza di una comunicazione rapida, poco sensibile alla pianificazione attenta che l’opera d’ingegno richiede. Mentre la produzione libraria accelera il suo corso, si evidenziano i tempi della scrittura e le diπerenze, nella progettazione e nella stesura, che separano i vari generi. 8 Prima di passare in tipografia, i manoscritti sono letti da amici e da intenditori; è una circolazione circoscritta, ma gravida di conseguenze per i testi e per l’evoluzione delle idee. Gli esempi di Machiavelli e di Guicciardini ne sono le prove. I rapporti tra lingua scritta e lingua parlata sono stati alterati dalla straordinaria invenzione, come lo saranno, nel nostro tempo, dalla scrittura digitale. Nell’Europa dei secoli xv e xvi, contro l’egemonia del latino si aπermano progressivamente le lingue nazionali come strumenti di cultura, regolati da una codificazione imposta dall’alto: il potere politico, il prestigio delle lettere, la traduzione della Bibbia, la predicazione. Spesso più fattori si associano. Per un’Italia policen 



6   Sul genere dialogo tra latino e volgare nel sec. xvi v. N. Ordine, in Manuale lett. it. ii (1994: 489-500). Il modello dominante è Platone, anche se Luciano ha la sua parte. Se l’aristotelismo domina nelle università, il platonismo si diπonde in altri ambienti, come è dimostrato dall’esempio di Petrarca, che poteva leggere le poche opere tradotte in latino (parte del Timeo, il Fedone, il Menone). La traduzione dei dialoghi, avviata dagli studiosi bizantini venuti in Italia, fu proseguita dai filologi umanisti. Sullo svolgimento del genere nel sec. xvii v. M. L. Altieri Biagi, Il Dialogo” di Galileo e l’“arte del dialogo” di Sforza Pallavicino, in “Lingua e stile”, xxxvii, 1, 2002: 65-74. 7   La stampa «apre varchi a generi letterari che tengano conto di un numero ampio di lettori, saggiandone e assecondandone i gusti» (G. M. Anselmi, in Medici 2001: 21). Sulla ‘bifrontalità’ tra classicismo e anticlassicismo v. Bosco (1970: 33-51). Figorilli (2014: 143-144) ricorda che all’inizio del secolo molte opere circolavano ancora manoscritte, ma nel 1516 esce il Furioso, «primo classico per la stampa». Rinaldi, Introd. a Machiavelli, Opere (1999: 144), evidenzia il fatto che il Segretario fiorentino è un autore pretipografico: si rivolge a un solo destinatario o a un piccolo gruppo di destinatari. Fenomeni e problemi di grande rilievo, conseguenti alla diπusione della stampa, sono aπrontati in Trovato (1998): l’alfabetismo e l’istruzione, la fissazione della norma linguistica, la sorte dei manoscritti volgari in tipografia, i sistemi d’interpunzione. Gli aspetti dell’evoluzione del volgare nell’età della stampa sono illustrati da Trifone (2006: 15-94). 8   «Aretino trae spesso dal lessico artistico metafore da attagliare al lavoro letterario; lo fa, ad esempio, scrivendo a Bernardo Tasso che il genere lettera richiede il rilievo della invenzione e non la miniatura dell’artifizio» (Genovese 2014).

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la ricerca dei modelli e l’invenzione del nuovo

trica, divisa linguisticamente dalle koinai delle corti, dalle varietà regionali e dai dialetti, la diπusione della stampa assume un’importanza particolare, si aπerma come uno dei più attivi motori di unificazione linguistica, sostituendo l’azione di un inesistente Stato nazionale. 9 La tipografia assicura stabilità al testo scritto sottraendolo alla variabilità delle copie manoscritte, livellando grafie diπormi, adeguando una grammatica incerta, proponendo vocaboli e costrutti di ampia circolazione. Si ha qui l’origine di una standardizzazione linguistica riguardante i testi letterari; alla progressiva depurazione di localismi e di tratti marcati si accompagnano innovazioni grafiche e paragrafematiche, che si diπondono assieme all’uso del carattere corsivo aldino. 10 La stampa apre nuove prospettive all’interno del libro, nel senso che dal paratesto derivato dalla oralità si passa al paratesto imposto dalla tipografia; il libro assume una nuova fisionomia: è testo e, al tempo stesso, contenitore di testi. 11 È stato osservato come «l’apparizione del Furioso ariostesco e del Cortegiano di Baldassar Castiglione, la qualità dei quali era perfettamente intesa dal Doni, venga intimamente associata al processo tipografico e alla conseguente capacità di durare non solo materialmente, ma anche nella memoria collettiva dei lettori». 12 Il libro, con la sua struttura, evidenzia la monumentalità dell’opera, ne assicura il potere modellizzante. Le immagini impresse e le incisioni, apparse prima della stampa a caratteri mobili, promuovono le conoscenze artistiche e scientifiche; 13 talvolta suscitano scandali e reazioni. Le scene erotiche di M. Raimondi, apposte ai sonetti dell’Aretino, mettono a repentaglio la vita dell’autore. Nel primo Cinquecento gli stampatori non avevano ancora preso «il sopravvento sopra ai copisti»; ma la pirateria editoriale imperversava, tanto da spaventare l’autore del fortunatissimo Cortegiano. 14 Ma, d’altro canto, si stabilisce un’attiva collaborazione tra chi scrive e chi pubblica; nel 1527, l’Aretino si trasferisce a Venezia assieme allo stampatore Francesco Marcolini da Forlì, che gli pubblica molte opere e con il quale intrattiene rapporti di amicizia. I testi circolano ampiamente. I classici sono letti da una borghesia colta e desiderosa d’istruirsi. La “democratizzazione” della lettura è promossa da autori e tipografi che collaborano tra loro. Il circolo delle persone colte, che conversano di letteratura si allarga negli anni, trovando la sua espressione tipica nel petrarchismo cinquecentesco, giunto al successo grazie alla fortunata raccolta di Rime di Bembo (1530). 15  













9   Cardona (1983: 47) ha osservato che si hanno a disposizione tre registri di produzione e fruizione: i manoscritti, la stampa e le scritture esposte. Negli anni 1505-1515 si ebbero «le novità aldine», v. Trovato (1991: 143): «Aldo [Manuzio], un tipografo-editore noto soprattutto per le sue edizioni greche, sbalordì i suoi contemporanei iniziando a pubblicare una serie di classici nel piccolo formato con cui gli stampatori del suo tempo producevano libriccini religiosi, ma con caratteristiche tutt’altro che popolari: carta di prima qualità, margini relativamente ampi, serie di caratteri corsivi greci e latini appositamente realizzati da un grande incisore». 10   Su questo fenomeno di primaria importanza nella nostra storia linguistica, v. Trovato (1991 e 1998). La questione dell’ortografia del Cinquecento è trattata da Maraschio (1993: 173-179). 11   Si veda L. Battaglia Ricci, Comporre il testo: elaborazione e tradizione, in Intorno al testo. Tipologie del corredo esegetico e soluzioni editoriali. Atti del Convegno di Urbino, 1-3 ottobre 2001, Roma, Salerno Editrice, 2003, pp. 21-40. 12   Cfr. G. A. Girotto, art. cit. al cap. 6, nota 1. 13   Sul rapporto tra la stampa e la storia della lingua si vedano: Trovato (1994: 143-145), Quondam (1994: 69-70), Richardson (2004). Sulle incisioni: Burke (1998: 19). Larivaille (1996: 766) si soπerma sui rapporti tra l’Aretino e Francesco Marcolini; cfr. Bragantini (1996: 682). 14   Cfr. Figorilli (2014: 143 ss., 147 e nota), Procaccioli (2014: 51). Per una distinzione tra “libro dotto” e “libro popolare”, v. Petrucci (1986). 15  Alla princeps bembiana, pubblicata a Venezia dai Nicolini da Sabbio nel 1530, lo stampatore Johannes Sultzbach oppose a Napoli, lo stesso anno, la raccolta di Sonetti e canzoni di Sannazaro, che non ebbe uguale successo.

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la prosa del cinquecento 1. 3. Un’idea del Rinascimento

Negli ultimi cinquant’anni la storiografia letteraria ha messo a fuoco una serie di temi che riguardano sia il giudizio sulle singole opere letterarie sia un’interpretazione generale del Rinascimento, concetto che appare operativo su più fronti e, al tempo stesso, narrazione alternativa ai modi in cui l’età medievale aveva osservato e definito la realtà. Trattando dell’accoglimento di modelli del passato, Peter Burke ha aπermato che «Michelangelo e Machiavelli recepirono il messaggio dell’antichità in maniera creativa». Allargando lo sguardo ai vari modi di ricettività di generazioni, luoghi e gruppi sociali diversi, lo studioso ha messo in luce quanto di innovativo è presente in tutte le fasi di ogni appropriazione storica e culturale: Quic­quid recipitur, ad modum recipientis recipitur, e ancora: omne meum, nihil meum. Il detto scolastico e l’aforisma di Robert Burton conservano il loro valore. Se si analizza il contesto si scoprono le fasi di ripresa, ricollocazione e adattamento di concetti, motivi e forme. Non si vedono soltanto le singole entità penetrate in una cultura, ma anche la ratio che ha guidato la scelta e ha favorito una visione diversa rispetto al passato. Come agenti della dinamica culturale sono rivalutati i gruppi sociali; sono marginalizzati due schemi di pensiero che avevano tenuto il campo, quello romantico del genio isolato e quello marxista della società nella sua interezza (Burke 1999: 18). Se il Quattrocento era stato «la civiltà dei maestri», il Cinquecento è visto come «il secolo dei precettori». La renovatio, che guarda ai grandi modelli dell’antichità classica, non è più restaurazione di un’età mitica, come era avvenuto nel primo Umanesimo, ma è recupero di modi di comportamento, di giudicii o rimedi (Machiavelli, Discorsi I, Proemio), utili a risolvere i problemi del presente. In tale quadro storico e culturale la trattatistica (in particolare nella forma del dialogo) si aπerma come forma espositiva privilegiata del Cinquecento. 16  

1. 4. Modelli Diversamente dalla lirica, che guarda costantemente al Petrarca, la prosa dei primi decenni del secolo appare disponibile a seguire diversi percorsi. Del Decameron Bembo ammira la complessità e l’artificio dei lunghi periodi, ma non la vivacità del dialogato, ammessa soltanto per ritrarre personaggi e ambienti popolari. 17 L’imitazione del modello è per lo più selettiva. Si riprendono talvolta le scelte fonologiche e morfologiche, talvolta i costrutti e gli stilemi; più spesso è imitato l’ordine artificioso dei costituenti. Bembo sembra prevedere il successo del modello soprattutto nel trattato e nel dialogo che ha la forma del trattato. La commedia del Cinquecento guarderà al capolavoro di Boccaccio come a un repertorio di temi e d’intrecci, avvincenti e di facile presa sul pubblico, ne assumerà anche elementi del dialogo, capaci di delineare il carattere di un personaggio o di far rivivere una situazione. Seguono questa via molti novellieri, ma anche per loro le attrazioni maggiori sono la cornice, i modi di avviare e concludere il racconto (molte formule sono riprese ad verbum), i gesti e alcune immagini esemplari della narratività. Nella seconda metà del Cinquecento, il modello decameroniano decade o è ricontestualizzato. Da una parte, le forme narrative brevi si fondono con altri ge 

16   «Il secolo dei precettori» è la formula usata da Renucci (1974: 1274); sulla «civiltà dei maestri» si soπerma Rinaldi (1990: 293-311); per una valutazione complessiva della trattatistica cinquecentesca cfr. Fedi (1996: 519-524). La funzione mediatrice dell’umanesimo è illustrata da Apel (1975: 119-129). 17   Cfr. Romanini (2014: 220): «il modello bembiano si fonda sulla cornice e rifiuta l’ibridazione delle forme, che è invece presente, anche a fini stilistici, nelle novelle».

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neri e tipi di prosa, dall’altra svolgono funzioni diverse da quelle originarie. Ciò accade perché altri generi incombono: dialoghi, trattati, storie, memorie e lettere diπondono forme e usi linguistici, che penetrano nel dominio del racconto. Il dittico “epistola-novella”, che caratterizza il novelliere di Bandello (1554-1573), genera una «composita contaminazione di diversi generi in uno spazio narrativo nuovo» (Menetti 2000: 463). Le vicende presentate sono votate alla documentazione, alla riflessione e all’analisi psicologica. Ciò non manca di avere riflessi nei piani dell’enunciazione e della testualità. 18 Pur nella diversità delle situazioni e delle forme, vari generi – come i trattati, le cronache, le memorie, le lettere – riproducono tratti della sintassi e dell’ordine delle parole del latino, adattandoli a nuovi cotesti e miscelandoli con elementi provenienti da altre tradizioni: il filone Boccaccio-Bembo, la formularità cancelleresca, la colloquialità stilizzata dei novellatori e delle scritture di carattere pratico. 19 Si sviluppano i modi di un argomentare più agile rispetto alla forme rigide del Medioevo; la lezione degli umanisti non è stata vana, la dialettica si allontana dalla logica astratta e si avvicina alla realtà.  



1. 5. I letterati e la guerra «One of the fundamental questions for the artists in the middle of twentieth century was how to continue making art after the catastrophic events of the Second World War». La scritta, che appare in una sala della Tate modern di Londra, dedicata alla pittura del secondo Novecento e ha il titolo The disappering figure art after catastrophe, richiama alla mente la sentenza di Adorno: «Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d’arte». 20 Nel passato chi si dedicava alle lettere e alle arti ignorava quasi del tutto la guerra, che assumeva travestimenti epici o bucolici, diventava allusione o simbolo. Su tutto grandeggia la figura del principe vittorioso. Si avverte soltanto una debole eco degli eventi che hanno sconvolto l’assetto politico del Paese: scomparsi gli Aragonesi, i Medici banditi da Firenze, Milano, dopo la sconfitta di Lodovico il Moro, dominata alternativamente da Francesi, Svizzeri e dall’Impero. Questi eventi non turbano il lavoro letterario: nella corte d’Urbino, Bembo si dedica alle Prose della volgar lingua e Castiglione al Cortegiano; delle guerre in corso si parla a lungo nelle lettere. L’idea di una riscossa italiana emerge, vigorosa, soltanto nel Principe. Anche la Riforma, che scuote a fondo vari Paesi d’Europa, non lascia tracce vistose nel nostro mondo letterario. 21 Un’onda d’urto indiretta si  



18   Kerbrat-Orecchioni (20024) introduce ai problemi riguardanti lo studio dell’enunciazione; ai quali si connette l’analisi del discorso (Paltridge 2006). 19   La formularità e la colloquialità trovano un’indicizzazione nell’ordine delle parole, per questo fenomeno si veda la chiara introduzione di N. Grandi, “Ordine degli elementi”, in EncItaliano, ii, (2011: 992-998). Alcuni aspetti della formularità antica (soprattutto medievale) sono trattati in Dardano (2013). Sull’emergere dell’argomentazione in diacronia v. Combettes (2014). Il rapporto tra argomentazione e testualità è studiato da Adam (2004). 20   Cfr. Th. W. Adorno, Dialettica negativa (1966). Trad. it., Torino, Einaudi, 2004, p. 326: «Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna aπermazione creatrice è più possibile. Il rapporto delle cose non può stabilirsi che in un terreno vago, in una specie di no man’s land filosofica». Si veda J.-C. Zancarini, Machiavel, la guerre, les anciens: les ‘antichi scrittori’ dans l’‘Arte della guerra’, in “Parole rubate”, 2016: 119-151; nell’antichità, nell’epoca umanistica e rinascimentale la guerra è lo scontro tra personaggi che occupano il vertice della scala sociale; compaiono raramente le ingiustizie, le soπerenze subite dalle popolazioni. Cfr. anche Fournel/Zancarini (2012). Non è un caso che in poesia guerra significhi per lo più ‘pena dell’animo’. 21   Nel 1517 iniziarono a circolare le novantacinque tesi sulle indulgenze; all’inizio del 1521 papa Leone X scomunicò Martin Lutero. Va ricordato, d’altra parte, che gli eretici italiani furono «ribelli ad ogni chiesa e iniziatori di un movimento che i capi protestanti hanno sempre considerato come

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avvertirà nel secolo seguente con il conflitto che oppone il papato a Paolo Sarpi e a Venezia. 22 Il noto paradosso italiano consiste nel fatto che l’Italia scompare dalla scena delle potenze europee, ma conquista il primo piano nella letteratura e nell’arte. 23 In Spagna Juan Boscán (1495-1542) e Garcilaso de la Vega (1539-1616) adottano il sonetto e l’endecasillabo; nell’Inghilterra elisabettiana Philip Sidney (1554-1586) ed Edmund Spenser (1552-1599) importano la nostra poesia rinascimentale; in Francia i poeti della Pléiade, Pierre de Ronsard (1524-1585) e Joachim Du Bellay (1522-1560), imitano lo stile di Petrarca. La cultura europea guarda all’Italia. Soltanto le aree settentrionali e protestanti oppongono una resistenza all’italianizzazione culturale e artistica. Le tradizioni popolari resistono: il più famoso dei Meistersinger, Hans Sachs (1492-1576), di professione ciabattino, salutò Lutero con una poesia tedesca, Die wittenbergisch Nachtigall (1523). Dopo una crisi da cui si era salvata soltanto Venezia, a misurarsi con i grandi Stati europei era rimasto soltanto il papato. Pervenuta a un’esistenza politica marginale, l’Italia si confronta con un’Europa, che ammira, accoglie, imita la letteratura, l’arte, la cultura, lo stile di vita del nostro Paese. Gli intellettuali cercano sicurezza in un’identità culturale e linguistica che nessuno può loro sottrarre; la lettura diventa uno strumento di aggregazione alla corte. All’ideale di vita solitaria, vagheggiato da Petrarca, si sostituisce il circolo della civile conversazione. Si rilegge, su nuove basi e con nuovi commenti, la Poetica di Aristotele; all’insegnamento universitario si a√anca quello che si svolge nella corte. Personaggi ed eventi della storia contemporanea aπollano le pagine del Principe (1513), che mostra il miraggio di un risorgimento dell’Italia e di un condottiero capace di guidare l’impresa. Nei Discorsi, prendendo lo spunto da Livio, si confronta il presente con il passato, modello di√cilmente superabile. Alla densità concettuale del trattato breve succede il ragionare disteso di un’opera ricca di riferimenti alla romanità. Siamo lontani tuttavia dalla Storia guicciardiniana, attenta a ricercare le cause, a indagare le intenzioni e le eccezioni, a fermarsi sui particolari e sulle circostanze. Nel proporre la soluzione trecentista, Bembo avrà pensato non solo all’eccellenza letteraria di quel secolo ma anche all’irrilevanza politica del presente. Quando intorno regnano la disfatta e l’incertezza, è quasi inevitabile volgere lo sguardo al passato. Le Prose della volgar lingua sono pubblicate in quello stesso 1525 in cui vede la luce la Messa tedesca di Lutero; coincidenza di eventi che procedono in opposte direzioni: l’uno recupera il passato, l’altro se ne allontana. Il divieto tridentino di tradurre in volgare la Bibbia rallenterà il processo di alfabetizzazione e quindi di unificazione linguistica, che altrove è promossa, se non dalla pratica religiosa, dall’azione delle grandi monarchie nazionali. 24  





dissolutore della loro opera»: v. D. Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento. Ricerche storiche (1939), Firenze, Sansoni, 1977, Avvertenza. 22   Riflettono il clima dell’epoca gli scambi epistolari dello storico veneziano, avvenuti nel periodo 1608-1618, con corrispondenti stranieri, in gran parte riformati (calvinisti e appartenenti alla Chiesa gallicana). 23   Lo scarto tra la precaria situazione politico-sociale e la fiorente produzione artistico-letteraria è oggetto delle riflessioni di Garin (1960). Alla violenza della guerra molti intellettuali del tempo oppongono la ricerca di soluzioni conflittuali mediante il dialogo e la lettura “democraticizzata” dei classici (Fedi 1996: 544-552). 24  Alla traduzione della Bibbia si opponeva la regola iv dell’Indice tridentino (1564), promulgato da Pio IV. Sui rapporti tra Umanesimo e Riforma v. Cantimori (1975); si tenga presente per converso la connessione stretta posta da Melantone tra restauro culturale e Riforma. Ciò fa pensare all’importanza della dimensione religiosa, sostenuta da Burdach (1933), che riaπermava la tesi di una

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la ricerca dei modelli e l’invenzione del nuovo 1. 6. Dal Quattrocento al Cinquecento

A una tradizione consolidatasi nel tempo la lirica deve quell’omogeneità di forme e di strutture che ne facilita l’imitazione, la riproducibilità e l’indiscusso prestigio. Il nostro linguaggio letterario ha riconosciuto per lungo tempo il primato delle composizioni in versi, dalle quali e dagli “stili” medievali ha tratto l’ispirazione di un periodare sostenuto da clausole ritmiche, come appare nell’opera di Boccaccio. Interpretate come un connotato delle letteralità, le clausole ritmiche si dissolvono nel latineggiamento della prosa umanistica (di cui massimo rappresentante è L. B. Alberti), ma ritorneranno nel trecentismo bembiano con gli Asolani. Come il cammino del linguaggio lirico è per lo più rettilineo, così vario e diπorme è quello della prosa, che si diπerenzia a seconda dei generi, dei tipi di testo e delle tradizioni discorsive. Nel Quattrocento l’uso del volgare era promosso da vari fattori e avveniva in circostanze e luoghi diversi. Le cancellerie degli Stati, frequentate da notai e umanisti, producevano scritti per necessità inclini al livellamento linguistico. Nella stessa direzione muoveva la politica linguistica della Chiesa con le opere devozionali, con la predicazione aperta alla lingua popolare, con i componimenti agiografici, non indenni dall’influsso del latino. Il commercio, che si andava sempre più sviluppando nelle forme del capitalismo, spingeva all’unificazione: i mercanti, servendosi di un tipo di scrittura documentaria corsiva (la mercantesca distinta dall’italica), scrivevano lettere e memorie, aperte alla realtà del presente. I rapporti diplomatici sviluppavano un adeguamento sugli usi degli interlocutori. «La scrittura delle cancellerie è la punta più avanzata della smunicipalizzazione del volgare in ambito extraletterario. All’eπetto prodotto dalla cultura degli scriventi si somma, nel caso della corrispondenza diplomatica, quello del tendenziale avvicinamento alla lingua dell’interlocutore» (Tavoni). Nella stessa direzione, ma con diversi modi diastratici e diafasici, muovevano le varietà usate da artigiani, tecnici e artisti. La collaborazione tra le diverse categorie di parlanti annullava, in particolare nelle botteghe fiorentine, la tradizionale separazione tra arti liberali e arti meccaniche. 25 Varie esigenze cooperavano nell’accogliere vocaboli ed espressioni, tratti dal toscano e dal latino e circolanti ampiamente; ci si allontanava progressivamente dalle varietà locali; il livellamento riceverà nuovo impulso dall’azione delle accademie. La promozione del latino, spinta dal movimento umanistico, aveva minacciato seriamente l’esistenza del volgare come lingua scritta. Il fallimento del Certame coronario, promosso da L. B. Alberti in Firenze nel 1441, è un evento significativo, anche se in Toscana, il rifiuto del volgare trovò un argine nel prestigio delle Tre corone. All’Alberti, inoltre, spetta il merito di aver riconosciuto la grammaticalità inerente a tutte le lingue naturali; da ciò deriverà la sua decisione di scrivere la prima grammatica della nostra lingua. Alla cultura umanistica reagirono, come si è accennato, correnti e tradizioni municipali, interpretate tra gli altri dal Burchiello, dal Sercambi e dal Cammelli, e destinate a crescere dopo la morte del Magnifico. Nel Comento ai suoi sonetti Lorenzo aveva riconosciuto che la fortuna delle lingue dipende anche dal successo del potere politico. 26 Tuttavia all’origine dei volgari  



continuità tra Medioevo e Rinascimento, con il conseguente rovesciamento della visione “umanistica” di Burckhardt. 25   È questo il giudizio espresso da Leonardo da Vinci (v. Camesasca 1966). Cfr. M. Tavoni, “Umanesimo e Rinascimento, lingua dell’”, in EncItaliano, i (2011: 1527). 26   Cfr. Bochmann (1998); del resto, «l’ambizione di ripetere nella propria esperienza tutte le va-

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rinascimentali non si ritrovano tali stimoli, né quelli promossi da una coscienza nazionale (Ghinassi 2006: 29). Gli umanisti guardavano i testi in volgare con curiosità linguistica e filologica come materiali da studiare; lo dimostra l’interesse per la lingua parlata dimostrato da Marco Antonio Sabellico e da Paolo Cortese; ma si tratta della curiosità e benevolenza del dotto che si china a osservare quel che accade nei piani bassi dell’edificio; siamo lontani dal fare propositivo, che Dante esprime nel De vulgari eloquentia. 27 E tuttavia, si aπerma il concetto della pari dignità del latino e del volgare; a quest’ultimo è esteso il principio di imitazione vigente per il primo; Petrarca e Boccaccio sono considerati modelli, per la poesia e la prosa volgare, alla stregua di quanto era avvenuto con Virgilio e Cicerone per le lettere latine. La pratica dei volgarizzamenti è divenuta estranea alla cultura umanistica, che con il suo latino aspira a comporre opere originali nella lingua e nello stile. Contrario agli usi linguistici e stilistici del Trecento, Alberti compone una prosa che si distacca dalla tradizione e appare a tutti gli eπetti innovativa: sia nella sintassi sia nel lessico la presenza del latino s’intreccia con i modi del volgare. Questo esperimento, al pari di quello tentato per la poesia con il Certame, non ebbe successo; il modello di prosa albertiana non ebbe continuatori. La lingua cancelleresca, nelle sue prove più valide, rappresenta il punto di partenza da cui muovono gli scriventi non toscani che frequentano le corti. Questa lingua, mentre consolida le strutture testuali e sintattiche (pur conservando una ricca polimorfia, che coinvolge molte scritture letterarie e non letterarie di quei tempi), funge da base delle teorie cortigiane che si sviluppano all’inizio del Cinquecento. Al polo opposto si aπerma, nella sua stabilità, il fiorentino trascendentale della lirica petrarchesca, norma linguistica che dalla lirica si estende ad altri campi. Pur essendo aperto alle varianti, questo modello rappresenta la ricerca di una lingua letteraria priva di municipalismi, quasi prefigurazione di uno strumento comune di comunicazione colta. Il Quattrocento è anche un secolo di sperimentazioni. Una parodia linguistica, che s’ispira ai modi del parlato e accoglie dialettalismi, modi di dire, tecnicismi e nuove formazioni, è il Morgante. 28 Nel passaggio da 23 canti (prima ed. del 1478) ai 28 delle seconda ed. (1481) il poema si arricchisce di nuovi innesti di lingua e di nuove forme di stile. Nei primi canti emergono tratti popolari, negli ultimi, spunti riflessivi; nell’insieme risalta una diπusa e motivata tendenza alla varietà delle forme e dei toni. L’interesse di Pulci per l’espressionismo linguistico e per il ricupero colto di forme popolari è confermato da una lettera in furbesco, inviata al giovane Lorenzo dei Medici, nonché dal Vocabulista, raccolta di 700 vocaboli rari e curiosi. Con la Beca da Dicomano, poemetto “rusticano” che riprende parodicamente la laurenziana Nencia da Barberino, Pulci approfondisce la sua ricerca, cui guarderà con interesse Machiavelli. In seguito, grazie all’apprezzamento espresso da Varchi nell’Ercolano, dove si ricordano «sentenze non del tutto indegne, e molti proverbi, e riboboli fiorentini assai propri, e non aπatto spiacevoli», e grazie al giudizio che  



rianti possibili di poesia conferisce alla carriera letteraria laurenziana un tono più impegnato dell’occasionale esercizio cortigiano» (Rinaldi 1993: 894). 27   Nel trattato è comunque presente una valutazione positiva della madrelingua (Apel 1975: 133-157). 28  «Il Morgante è in eπetti una miniera di lessico realistico, ad ampio spettro di componenti tecniche, con intrusioni esotiche, grande ricchezza di fraseologia idiomatica, aperto alle neoconiazioni lessicali, alle alterazioni espressionistiche, a un uso spinto dei giochi di parole e delle onomatopee» (Tavoni 1992a: 111-112). Sull’opera v. Carrai (1992).

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Leonardo Salviati ne darà nell’Infarinato primo e nell’Infarinato secondo, Pulci entrerà nel novero degli autori degni di essere imitati. 29 Se la crisi linguistica del Quattrocento riguarda soprattutto la polimorfia fonetica e morfologica, il decennio 1520-1530 è decisivo per le sorti del volgare, che appare dapprima in aπanno, per poi riprendere vigore grazie al concorso di più fattori. Che il volgare debba vivere e aπermarsi, come espressione letteraria, è un concetto che s’impone con sempre maggior chiarezza ed è confermato dal proliferare delle grammatiche e delle discussioni sulla lingua. Il moto ascendente è segnato dal successo delle Prose bembiane; ed è questo il segno di una convinzione largamente acquisita, grazie anche alla ricca messe di esempi tratti da Petrarca e da Boccaccio contenuti nell’opera. 30 Gli Asolani, dialogo che risuscita i modi più artificiosi della prosa boccacciana, non si presta all’imitazione e pertanto non ha seguito. Alle Prose si oppongono Le vulgari elegantie (Venezia, 1521) di Niccolò Liburnio, che è una sorta di formulario per comporre lettere in volgare e, al tempo stesso, il primo scritto su una teoria cortigiana della lingua; seguono Le tre fontane (Venezia,1526), dove si prendono le distanza sia dalle tesi del Bembo sia dalla riforma ortografica del Trissino, ma è una risposta priva di argomenti. Dionisotti (1995a: 85) definisce «sconclusionate e pressoché illeggibili» le opere di Liburnio, e tuttavia importanti perché rappresentavano le istanze di un pubblico mediocre ma ampio. 31 Pertanto l’opposizione alle Prose non mancò e durò a lungo. In particolare, la teoria cortigiana si presentava come il tentativo di giustificare razionalmente gli usi presenti nelle cancellerie e nelle corti italiane del secondo Quattrocento. 32 I tratti linguistici dei testi cortigiani coincidono in parte con quelli delle koinai settentrionali del sec. xv. Ricordiamo i fenomeni principali. I latinismi 33 grafici e  









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  Cfr. Rinaldi (1993: 765-771); la citazione di Varchi è in Segre (1963: 365).   Questo eπetto è accresciuto grazie a una doppia finzione cronologica proposta dalla dedica: s’immagina che il dialogo sia avvenuto a Venezia nel 1502 e che sia stato riferito a Pietro dal fratello Carlo, che vi aveva preso parte; s’immagina ancora che l’opera, entro il 1515, sia stata indirizzata dall’autore a Giulio de’ Medici, quando non era ancora papa. Tutto ciò serviva ad aπermare una priorità cronologica rispetto alle Regole grammaticali della volgar lingua di G. F. Fortunio, pubblicate nel 1516, opera che presenta alcune analogie e punti in comune con le Prose. 31   Sul Liburnio resta fondamentale Dionisotti (1995a), che scrive: «La lezione metrica rigorosamente selettiva degli Asolani è ignorata. Lo stesso dicasi della lingua. Allora e poi, mancò al Liburnio la capacità di intendere veramente la lezione del Bembo»; cfr.: Vitale (19782: 55-56 ), Folena (1991:154155), Daniele (2013: 59). 32   Cfr. Tesi (2007: 195). La formula “lingua cortigiana” fu usata da Vincenzo Calmeta nel suo trattato Della volgar poesia andato perduto. In questo filone di lingua potremmo far entrare la produzione poetica petrarcheggiante tardoquattrocentesca, che ha un aspetto più unitario rispetto alla prosa coeva. Secondo alcuni la lingua cortigiana consisterebbe nel «punto estremo di una tradizione di volgare colto latineggiante» e avrebbe «una fisionomia linguistica relativamente uniforme», coincidente con le koinai quattrocentesche (Durante 1981: 154 ss.), dove si cerca di individuare le costanti linguistiche di questo filone; cfr. partic. Giovanardi (1998: 15-27) e Ricci L. (1999: 73-115). Dionisotti (1966: 43), parla con distacco della lingua cortigiana, ma ricorda «opere che variamente ne rappresentavano lo sforzo maturo: il Furioso del 1516, il Natura de amore dell’Equicola, edito l’anno stesso delle Prose, il Cortegiano del Castiglione, che il Bembo aveva letto manoscritto e che doveva uscire nel 1528». Pozzi (1989: 11) sottolinea il fatto che gli scritti dei teorici “cortigiani” furono pubblicati molto tempo dopo la loro stesura (le Annotazioni della volgar lingua di Giovanni Filoteo Achillini nel 1536 e il dialogo di Pierio Valeriano addirittura nel 1620), perdendo il passo rispetto alle Prose bembiane: «le tendenze cortegiane [...] erano divenute, per così dire, sotterranee e informavano buona parte della prassi scrittoria» (ivi: 12). 33   Nei latinismi lessicali si distinguono due categorie principali: i) vocaboli adattati nella forma secondo il sistema di corrispondenza regolare tra le due lingue, ii) vocaboli che non hanno subito alcun adattamento. Parlando di latinismi lessicali mi riferirò d’ora in poi alla prima categoria; v. 30

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fonetici: congiuntione, docti, eccellentia, gratioso, laudare (e derivati), observo, tucti, virtuti. Il monottongo in luogo del dittongo toscano: heri, posseda, core, homini, logo. La metafonesi: dicti, dui, ligni, nui, paricchi, vui. Il vocalismo atono non toscano: accostese, defendo, fidele, se parte, luntano, ubrigar. La mancanza di anafonesi: conseglio, lengua, rengrazio, alonga, congionto, gionco. La palatale in: giaccio ‘ghiaccio’, giande ‘ghiande’. L’assibilazione in: siocco ‘sciocco’, zigli ‘gigli’. Il verbo lassare. La 1a pers. plur. dei verbi: havemo, dicemo. -Ar- in luogo di -er-: insegnarò, lodarei. Indeclinabili: como, drento, fora, mo. 34 La varietà delle forme “cortigiane” rendeva l’immagine di un modello instabile e accoglibile con di√coltà. Estraneo ai toni polemici, Castiglione perseguiva un ideale di lingua cortigiana, adatto sia allo scritto letterario sia a una colloquialità di livello alto. Anche se è spesso annoverato in questa corrente, Giangiorgio Trissino se ne distingue per l’adesione alla Poetica di Aristotele e alle idee contenute nel De vulgari eloquentia. Il trattato dantesco fu riscoperto, probabilmente nel 1513, e pubblicato in traduzione nel 1529 dallo stesso Trissino, che tuttavia ne fraintese lo spirito, interpretando il volgare letterario di cui parla Dante come una mescolanza di dialetti italiani; egli sosteneva inoltre che la Commedia, scritta non in fiorentino ma in vulgare latium, era stata seguita dal DVE, interpretato di conseguenza come una sorta di testamento dell’autore. Sono aπermazioni che non corrispondono alla realtà dei fatti; composto prima della Commedia, il DVE è un scritto teorico riguardante le esperienze linguistico-letterarie della Vita nova e del Convivio. 35 Nel dialogo Il castellano (1528, ma ambientato nel 1524) l’umanista vicentino abbracciò una concezione antimunicipalista, un’ipotesi di lingua letteraria pancronica, fondata su una base, che comprendeva i Siciliani, la lirica toscana del ’200, i grandi poeti del ’300, gli autori moderni non vernacolari. Con questo scritto, Trissino, confermando la sua inclinazione per le teorie, proponeva un’ingegnosa classificazione delle varietà linguistiche in sette livelli, dove si distinguono: la lingua italiana, le lingue regionali, cittadine, circondariali, rionali, familiari e gli idioletti. 36 Al naturalismo linguistico dei toscani si riferiscono le idee di Machiavelli, Giambullari, Gelli e Lenzoni. L’intenzione normativa, sottostante alle discussioni dei primi decenni del secolo, è del tutto estranea all’autore del Principe, che lascia prevalere le ragioni della favella locale, soprattutto nei livelli fonetico e morfologico; ne risulta «una prassi linguistica aderente all’uso vivo, accettato nella varietà dei suoi registri, dal plebeo al borghese, senza rinunciare ai latinismi e ai tecnicismi “settoriali” del linguaggio cancelleresco e politico» (Formentin 1996b: 219). Lo stile coinvolgente del Principe, quella chiarezza espressiva, che ritroveremo (ma con toni molto diversi) in Galileo, ne assicurò l’accessibilità a un ampio pubblico di lettori, ma ai tradizionalisti fece apparire l’opera più criticabile di quanto sarebbe apparso se fosse stata scritta nel latino ben sperimentato dei trattati.  





Scavuzzo (1994). La teoria cortigiana considerava il latinismo «una comoda soluzione, una riserva a cui ricorrere con la sicurezza di essere intesi da un pubblico largo di persone colte, senza essere costretti a optare per la forma fiorentina, meno conosciuta» (Marazzini 1993: 121). Cfr. anche R. Tesi, “Cultismi”, in EncItaliano, i (2010: 321-322). 34   Cfr. R. Tesi, “Cortigiana, lingua”, in EncItaliano, i (2010: 313-316); cfr. Durante (1981: 154). 35   Il testo latino di DVE fu pubblicato da Jacopo Corbinelli a Parigi nel 1577. Tesi (2007: 199) nota che la traduzione delle espressioni dantesche vulgare curiale e vulgare latium, con lingua cortigiana e, rispettivamente, volgare italiano, sono funzionali alla teoria, secondo la quale il trattato anticipa i principi della lingua cortigiana. Tavoni (1999: 200) ricorda che «Il Trissino non fa che espandere l’idea di DVE i, 19: un astratto quadro aristotelico che non morde per nulla nel quadro linguistico della penisola». 36   Questa terminologia moderna è proposta da Castelvecchi (1986: xlvii, xlii). Nella sua Grammatichetta (1529) Trissino compie il tentativo di normalizzare la notevole polimorfia dell’italiano.

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Vero è che le idee espresse dai fiorentinisti appaiono inadeguate e alquanto provinciali, rispetto alla meditata teoria di Bembo, sostenuta da analisi e da precisi riscontri grammaticali e stilistici. Ciò tuttavia non deve far dimenticare i torti dell’autore delle Prose, che liquida sommariamente le tesi del Calmeta (istruttiva è, a tale proposito, la lunghissima decima Giunta di Castelvetro sulla “cortesiana romana”) e sposta la discussione linguistica su un piano esclusivamente letterario. Nei riguardi di Bembo i circoli culturali fiorentini manifestarono subito una netta opposizione: è un atteggiamento che si spiega con il fatto che la sua teoria «taglia alla radice uno dei nuclei centrali della mitologia letteraria fiorentina, quella del prestigio linguistico, e di conseguenza culturale, derivante dalla pratica “naturale” della lingua» (Bragantini 1996: 699); di contro l’autore delle Prose (I, 16) aπermava che coloro che apprendono la lingua fiorentina dai libri «l’apprendono vaga e gentile». 37 Nonostante tutto, dopo il 1530, le possibili alternative a questa teoria appaiono in netto regresso. Nella seconda metà del secolo avverrà la conciliazione del classicismo bembiano e del fiorentinismo. È la soluzione promossa da Benedetto Varchi, che nell’Ercolano (1570), pur confermando un’assoluta fedeltà ai principi enunciati nelle Prose, riconoscerà i pregi della lingua viva; questa tesi sarà confermata dagli Avvertimenti (1584-86) di Salviati, che esaltano le scritture del Trecento, il secolo aureo – visto come proiezione, in un mitico passato, di una purezza e di una perfezione smarritesi nel tempo – , ma che riconoscono la validità di molti modi del parlato cittadino di quegli anni. 38 Su queste basi Firenze, che aveva soπerto dello spostamento dell’asse culturale verso le due direttrici di Venezia (sede della maggiore industria editoriale dell’Occidente) e di Roma, può riconquistare quel controllo sulla lingua venutole meno nella prima metà del secolo. Le vicende linguistiche nel Cinquecento si chiariscono sullo sfondo del quadro storico precedente e coevo. Fatti oggettivi che riguardano la storia esterna (gli ambiti d’uso del latino e del volgare, l’influsso dell’editoria sulla standardizzazione del volgare) si alternano a fatti interni (l’evolversi del sistema fonomorfologico del fiorentino tra Quattro- e Cinquecento). I due ordini di fenomeni sono in rapporto con la “coscienza linguistica”, intesa come l’insieme dei discorsi sulla lingua e delle credenze che la riguardano.  



1. 7. Mobilità dei testi Il Cinquecento è un secolo d’innovazioni; forme letterarie e convenzioni testuali sono messe in discussione; la tradizione è contestata in nome dei nuovi temi e delle nuove forme compositive che appaiono all’orizzonte. Accanto alla cultura dell’élite intellettuale la realtà popolare riprende vigore ed è in questo terreno che nascono possibili alternative al toscano: le Macaronee di Folengo furono stampate più volte dal 1517 al 1552, I cantici di Fidenzio di Camillo Scroπa apparvero intorno al 1560. 39 L’opposizione al toscano si manifesta anche in scritture che descrivono il  

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  Sulla posizione di Bembo v. Belloni/Drusi (2007: 297).   La conciliazione tra Bembo e la naturalità fiorentina era stata auspicata da P. F. Giambullari, che nelle Regole della lingua fiorentina (la stampa torrentiniana è del 1552) aveva scritto: «Ma advertiscasi che la retta regola non è quella solamente, che i migliori et più approvati scrittori osservarono ne’ loro scritti; il che ha luogo propriamente nelle lingue già morte; ma quella ancora dello uso comune delle persone qualificate, che la parlano, o che la scrivono ne’ tempi nostri; et che la parleranno, o la scriveranno per lo advenire; mentre che durerà questa lingua nello esser suo» (ed. I. Bonomi, 1986: 114). Sul fissarsi della norma nella seconda metà del xvi sec. v. anche Ariani (2007). 39   Sulla resistenza del latino e l’aπermazione del volgare v. Vitale (19782: 48-50), Formentin (1996b: 38

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comportamento del gentiluomo nella società delle corti. Nel Cortegiano e nel Galateo la lingua non è soltanto lo strumento della comunicazione, è anche il certificato di una nobiltà culturale che permette un più largo accesso ad ambiti elevati e non tradizionali, diversi cioè dai circoli dei dotti e dagli ambienti delle corti. 40 In questi anni si ebbe la riscoperta della Poetica di Aristotele, seguita da traduzioni più corrette e adeguate rispetto alle precedenti. 41 La filosofia italiana del xvi secolo ha come guida Alessandro di Afrodisia (ii-iii sec.), autore di un celebre commento al De anima. Due secoli prima era stato l’aristotelismo di Averroè a occupare il primo piano. La nuova prospettiva segna un accostamento alle tendenze naturalistiche del tempo e respinge la concezione averroistica, che considerava l’intelletto un’essenza trascendente separata dall’uomo. Si consideri che fino all’inizio del sec. xvii, il pensiero dello Stagirita sarà alla base di un’interpretazione generale dell’universo. 42 Nel Cinquecento crebbe la conoscenza della Poetica di Orazio. Tale acquisizione favorì una più articolata discussione concernente i generi letterari, campo in cui avvengono mutamenti; ne ricordiamo due che assumono un’importanza particolare. La narrazione diventa una componente costante dei poemi di Pulci, Boiardo e Ariosto (il Furioso è il grande romanzo dell’epoca) e, in forma breve, entra nei dialoghi di Aretino. 43 La lettera, scrittura privata che si fa pubblica e acquista forme e intenzioni letterarie, volge alla narrazione, ripercorrendo la via del Petrarca, che aveva a√dato il proprio magistero a imponenti raccolte epistolari destinate al presente e al futuro. Il libro di lettere dell’Aretino, apparso nel 1538, rappresenta un nuovo genere, segnato da un clamoroso successo; l’anno successivo seguiranno le Pistole vulgari di Nicolò Franco e nel 1542 le antologie di lettere. 44 La missiva, vera o creata ad arte, conquista  









177-185). Sulla varia opposizione al toscano, v. Lazzerini (1992: 1033): «Verso la fine del Quattrocento l’Italia settentrionale, percorsa da forti tensioni linguistiche, è un crogiuolo di tradizioni e influssi contradditori, le cui varie componenti, di norma separate e antitetiche [...] possono talvolta fondersi, dando vita a incroci premeditatamente bizzarri». Sull’identità culturale procurata dalla lingua, v. Fedi (1996: 509). L’influsso della sintassi latina sulla nostra prosa è presentato da Tesi, “Latinismi”, in EncItaliano, i (2010: 752a). 40   A tale proposito, si ricorderà che Ruzante «si inserisce senza sfasature eccessive nel mondo universitario, goliardico, e culturale di Padova agli inizi del secolo» (M. Baratto, Da Ruzante a Pirandello: scritti sul teatro, Napoli, Liguori, 1990: 33-68, 34). 41   L’opera fu tradotta in latino da Giorgio Valla; nel 1508 Manuzio pubblicò l’originale greco, che fu poi tradotto nuovamente in latino negli anni 1527-1536 da Alessandro de’ Pazzi; un’altra traduzione in volgare diede Bernardo de’ Segni nel 1549. I commenti alla Poetica, a cominciare da quello di Francesco Robortello del 1548, condizionarono sensibilmente i giudizi sulle opere letterarie e sulle idee estetiche del tempo. 42   Per i capisaldi dell’aristotelismo, v. N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, Torino, Utet, 1968: 66. 43  Nell’ Inamoramento de Orlando (I, ii) si annuncia che il canto successivo «fia prolongato/nel racontar d’una lunga novella/che a narrar prese questa damigella» (Romanini 2014: 212). Sulla tecnica narrativa di questo autore si veda ora T. Zanato, Boiardo, Roma, Salerno Editrice, 2015: 179-193. 44   Cfr. Magro (2014: 103). P. Procaccioli, in Atlante lett. italiana i, (2010: 810), illustra i caratteri della «diplomazia aretiniana» [...]. Sul libro di lettere dell’Aretino e su Le pistole volgari (1539) di Nicolò Franco si vedano: Bragantini (1996: 682, 695) e Genovese, in Cassiani/Figorilli (2014: 38). Carattere particolare ha la raccolta di Francesco Sansovino, Lettere sopra le diece giornate del Decamerone, indirizzate a diversi accademici e ad artisti (ivi: 692-693). Sul libro di lettere si vedano anche: G. Genovese, La lettera oltre il genere. Il libro di lettere, dall’Aretino al Doni, e le origini dell’autobiografia moderna, Roma-Padova, Antenore, 2009; S. Pezzini, Dissimulazione e paradosso nelle «lettere di molte valorose donne» (1548) a cura di Ortensio Lando, in “Italianistica”, 31 (2002: 67-83); G. Baldassari, L’invenzione dell’epistolario, in Atti Aretino (1995: 157-178). Ogni raccolta di un determinato tipo di scritti in un contenitore testuale è guidata da fini e da istanze pragmatiche diversi; un esempio lontano dai temi che stiamo trattando è la raccolta di documenti relativi alla navigazione «in tardive sistemazioni librarie»: v. A. Bocchi, Per “peleio” e per “estarea”. Su una recente edizione del “Compasso de navegare”, in “Lingua e stile”, xlvi (2011: 267-298, 281).

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rapidamente altri spazi: con Bandello diventa la cornice che contiene e giustifica la novella, con Doni ingloba segmenti narrativi estesi. All’interno della novella il dialogo assume modalità nuove; i tratti di una colloquialità stilizzata si consolidano. Tutto ciò si accorda con mutamenti che riguardano l’intero campo letterario. La fusione dei generi produce tipi testuali nuovi dai confini incerti; la varietà delle configurazioni aumenta; si sviluppano ulteriormente le scritture miste di prosa e di versi. 45 La prassi medievale delle artes dictandi era tramontata con la scoperta delle epistole di Petrarca. Mentre l’editoria procede a grandi passi, nasce il libro di lettere; si completa così la trasformazione in testo letterario e pubblico. La letterarietà non dipende dai caratteri formali del testo, ma dal suo intorno pragmatico, dall’intento di chi scrive e dalle aspettative di chi riceve. 46 All’inizio del Cinquecento, nonostante l’azione promossa dalla stampa, rimanevano vive le resistenze all’omologazione linguistica, già manifestatesi alla fine del secolo precedente: il modello latino, sia inerziale, sia culturalmente motivato, era saldo. Al toscano del Quattrocento si sovrapponeva il toscano dei grandi autori del Trecento; conveniva a molti scrittori la conservazione di quei tratti locali ben accolti dalle proprie cerchie di lettori. Un certo numero di “lombardismi” si manteneva per il fatto che la maggior parte dei libri proveniva dalle stamperie veneziane. L’insieme di questi fattori produceva un ibridismo linguistico, che non risparmiava neppure coloro che vi si opponevano apertamente. Non meraviglia che la prima edizione degli Asolani (1505) contenga non pochi quattrocentismi: l’articolo plurale e, le forme verbali amorono, giunsono, facessono, fussi, facesti ‘facessi’ ecc. E ciò accadeva nonostante l’autore avesse dichiarato guerra al fiorentino mescidato di latinismi e dialettalismi, quale si ritrova in Alberti e Poliziano. A tale proposito, non è privo d’interesse il chiedersi in quale edizione il Bembo leggesse il Decameron. Altro episodio notevole sono gli appunti grammaticali stesi da Francesco Guicciardini (1538-1540) al momento di rivedere la lingua della Storia d’Italia, appunti che rivelano la conservazione di abitudini latineggianti del Quattrocento nella grafia come nella fonetica, nonostante l’impegno dell’autore di adeguarsi all’insegnamento bembiano (Trovato 1994: 274-282). Fa riflettere il fatto che il 1513 sia l’anno del Principe – autorevole conferma di un’adesione al naturalismo fiorentino – e, al tempo stesso, del De imitatione, manifesto bembiano di quel ciceronianesimo sul quale l’autore voleva esemplare l’unicità dei modelli per il volgare. Le opposizioni non mancano. Antibembiana è la scelta di Equicola, che difende le ragioni della lingua cortesiana romana; antibembiano è Castiglione, che all’inizio del Cortegiano spiega le ragioni che l’hanno dissuaso dal seguire l’esempio di Boccaccio: si deve scrivere con la lingua del presente, non del passato. Contrario a Bembo è, ovviamente, Machiavelli, strenuo sostenitore della superiorità naturale del fiorentino. Dopo il successo delle Prose della volgar lingua, nel terzo decennio del Cinquecento, il riassetto del campo linguistico e letterario determina una conseguenza rilevante per la sorte delle nostre lettere: «La consapevolezza che ormai c’è una lingua co 



45   Le vicende riguardanti i generi letterari sono ripercorse da G. M. Anselmi, La codificazione dei generi letterari: un problematico campo di tensioni, in Id. (a cura di), Mappe della letteratura europea e mediterranea. I. Dalle origini a Don Chisciotte. Introduzione di A. Prete, Milano, Bruno Mondadori 2000: 307-314. Per il Cinquecento come società del dialogo v. Girardi (1989). Sul dialogo latino e italiano del Rinascimento v. Geerts et Al. (2008). 46   Si vedano: Quondam (1981); A. Battistini, “I ‘libri di lettere’ del Cinquecento, in Manuale lett. it., ii (1994: 438-443); L. Matt, Epistolografia letteraria, in SIS , ii (2014: 255).

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mune valida per tutta l’Italia [...] dà la spinta al fiorire della letteratura dialettale riflessa» (Migliorini 1988: 308). 47 Non resterà senza seguito la richiesta di una lingua viva, non chiusa all’influsso del parlato, come appare in vari esempi di narrativa e nei dialoghi (Stussi 1993: 19-29).  

1. 8. Latino e volgare La questione della lingua del xvi secolo ha un aspetto sociale che i discettatori di quel tempo non potevano avvertire né proporre, ma che noi dobbiamo aver presente: la mancanza di un’unificazione nazionale capace di collegare la classe colta e socialmente elevata ai ceti popolari. 48 È una prospettiva sottintesa a quella recrudescenza della polemica contro il volgare e in difesa del latino, che si manifestò dopo l’apparizione delle Prose bembiane e superò la metà del secolo. Nel 1529, nell’Archiginnasio di Bologna, alla presenza di Clemente VII e dell’Imperatore Carlo V, Romolo Amaseo esaltò, in due orazioni farcite di retorica, la lingua degli antichi, presentata, con grande enfasi, come la lingua dell’Impero restaurato dal novello Cesare. All’anacronistico episodio non mancarono momenti di gloria e una vasta risonanza. Nel prosieguo degli anni, continuarono gli attacchi, condotti da vari umanisti, al volgare: «una indistinta confusione di tutte le barbarie del mondo», così lo definiva Lazzaro Bonamico, uno dei partecipanti al Dialogo delle lingue di Sperone Speroni. Nella sua Apologia (1537), scritta contro i detrattori del latino, Francesco Florido se la prendeva con tutti gli scrittori toscani, escludendo a malapena Petrarca e Ariosto. Non diversamente agirono l’umanista modenese Carlo Sigonio, nella sua prolusione De latinae linguae usu retinendo (1566), e l’umanista genovese Umberto Foglietta, nel dialogo De linguae latinae usu et praestantia (1574). Siamo quasi alla fine del secolo, ma non tutti si accorgono che il volgare ha vinto la sua battaglia da alcuni decenni. Un evento di spicco di tale contesa è certamente l’Orazione in lode della fiorentina favella (1564) di Salviati: preannuncio di una tesi “conciliativa”, che, ispirata da Varchi e corroborata dallo stesso Salviati con i suoi Avvertimenti della lingua sopra il Decameron, era destinata ad avere successo. 49 La questione della lingua si svolse tra riflessioni e proposte presentate nel corso del secolo: le une e le altre, per lo più non sistematiche, vertono sui caratteri e sull’uso della lingua letteraria, con formulazione di principi e di ideali (che sfiorano anche quelli che noi chiameremmo principi di estetica), ma con una scarsa oπerta di proposte normative. 50  





47   Questo discrimine cronologico, posto da B. Croce in un saggio del 1943, è stato in seguito negato da G. Contini, Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970, pp. 601-619. L’uso del dialetto nella letteratura è accettato dalle alte sfere, ma con forti limitazioni di ambiti e di contenuti (D’Onghia 2016: 13). 48   È questa una prospettiva presentata da T. B. Sozzi, Aspetti e momenti della questione linguistica, Padova, Liviana, 1955. 49   Sulle due orazioni pronunciate da Amaseo v. Vitale (19782: 48); cfr. G. Alfano, Quella grottesca incoronazione di Carlo V, in Atlante lett. ital., I (2010: 815-821), alla p. 818a: «Se la vittoria di Carlo V significava tra le altre cose, il trasferimento della cultura umanistica al di là delle Alpi, l’intelligenza dei letterati italiani fu di puntare sulla cultura in volgare piuttosto che sul mito regressivo di una rinascita del latino [...]; sconfitti politicamente e militarmente gli italiani potevano sedurre i vincitori con la grandezza della loro letteratura moderna». 50   Cfr. Vitale (19782), Tesi (2007: 194), Marazzini (20023: 262-270). Sulla continuità di alcune idee sulla lingua nate nel Cinquecento, v. G. Nencioni, La vivente eredità della linguistica rinascimentale, in Giannelli et Al. (1989: 11-22).

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1. 9. Misure della sintassi I grammatici del Cinquecento e i partecipanti alla questione della lingua prestavano scarsa attenzione alla sintassi del periodo e alla scelta delle sue componenti; allo studio di questi fenomeni si applicavano tutt’al più le regole grammaticali del latino e gli insegnamenti della retorica. Nelle discussioni sulla lingua si fa cenno talvolta alla dispositio, ma, come accade nel secondo libro delle Prose di Bembo, l’attenzione si concentra sul ritmo della frase non sulla sua architettura: la compositio è osservata nella prospettiva dell’ordo verborum, vale a dire, struttura e prosodia sono esaminate e studiate assieme. La sintassi del periodo in sé interessa poco, non è tematizzata. 51 Come deve essere svolta, ai giorni nostri, l’analisi sintattica di un testo rinascimentale? Cerchiamo di fissare alcuni punti che ci sembrano essenziali. i) Descrivere la configurazione generale del testo: i rapporti tra diegesi, parti argomentative, dialogiche ecc. ii) Distinguere i principali tipi sintattici in rapporto alla loro estensione e strutturazione: coordinazione (che prevale sulla paratassi) vs subordinazione, costrutti verbali vs nominali, costrutti espliciti vs impliciti. iii) Misurare l’ampiezza del periodo, in rapporto alla sua complessità; quest’ultima dipende sia dalla stratificazione ipotattica (incassatura sintattica) sia dall’ordine artificioso dei costituenti. 52 iv) Descrivere la topologia: ordine “diretto” o latineggiante (tipi di tmesi e di iperbato, spostamento a destra del predicato verbale), fenomeni di topicalizzazione e focalizzazione (in eπetti, l’aspetto topologico ha talvolta un’importanza pari all’assetto sintattico e testuale). v) Descrivere la struttura subordinativa, della quale si misureranno la profondità e l’estensione; categorizzazione e sottocategorizzazione di tutti i componenti; progettazione (ridotta o estesa) dei periodi e delle sequenze testuali. vi) Descrivere la cosiddetta “periferia sinistra”, dove compaiono sintagmi nominali con funzione di determinanti, gerundiali, participiali, avverbiali esplicite di vari tipi. 53  





51   Come appare nell’opera di Lodovico Dolce, Modi a√gurati e voci scelte et eleganti della volgar lingua (1564), v. Bragantini (1996: 690-691). Le descrizioni della lingua che risalgono al xvi sec. non si occupano della testura macrosintattica (Zublena 2001: 336-337), con la parziale eccezione di Giambullari e di Beni (Tesi 2009: 181). Giambullari, nelle Regole della lingua fiorentina, è il primo grammatico italiano a occuparsi di sintassi; a distanza di quasi un secolo, ritornerà su questo terreno il Cinonio: cfr. Fornara (2002). Sulla cosidetta “sintassi inconsapevole” dei grammatici del xvi secolo è irrinunciabile Poggiogalli (1999). Le note sintatttiche di Giambullari dipendono in parte dalla grammatica latina di Thomas Linacre, De emendata structura latini sermonis (Londra 1524, postuma). L’interesse per la sintassi si svilupperà nel Seicento con B. Buonmattei, Delle cagioni della lingua toscana, Venezia, 1623, cfr. R. G. Faithfull, Teorie filologiche nell’Italia del primo Seicento con particolare riferimento alla filologia volgare, in “SFI”, xx, 1962: 147-313; sull’intera questione v. Tesi (2009: 181-183); cfr. I. Paccagnella, La terminologia nella trattatistica grammaticale del primo trentennio del Cinquecento, in Giannelli et Al. (1989: 119-130); si veda anche Trabalza (1908: 155-164). 52   Cfr. Zublena (2002: 91); «Circa il 4% dei periodi nel Galateo supera le dieci frasi semplici (contro l’1-2% del Principe, il 5-6% del Cortegiano, il 10% delle Prose della volgar lingua, il 6-7% degli Asolani; l’Orazione [del Della Casa al Senato veneziano del 1547] si attesta al 13%, secondo una tendenza propria del genere» 53   Si ritrovano di frequente temporali d’inquadramento (che forniscono una cornice al quadro presentato nella principale). A proposito della periferia sinistra dei periodi degli Asolani, Berra (1995: 158) parla di «impressionanti fenomeni di accumulo». Bisogna tener conto anche di fenomeni d’inclusione, ai quali si è prestata finora scarsa attenzione. Per es., le finali infinitive, che appaiono in posizione iniziale, possono inglobare più frasi (Charolles/Lamiroy 2003: 402); queste infinitive, come altre avverbiali distaccate, sono un esempio di ripartizione dell’informazione; in eπetti, introducono quadri di discorso che raggruppano vari contenuti proposizionali.

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vii) Evidenziare i fattori di equilibrio e di correlazione, dipendenti da elementi esterni (connettori, segnali discorsivi) o interni (fondati su rapporti semantici); presenza di schemi simmetrici e di bilanciamento tra i componenti del periodo, responsabili dell’architettura generale del testo. 54 viii) Inventariare i tipi d’interposizione presenti nei periodi; il fenomeno, che alle origini dipende dal grado di elaborazione retorica, si oppone allo sviluppo lineare dei periodi. ix) Distinguere tra strutture aventi un fine costruttivo-sintattico e strutture aventi un fine esornativo-retorico. 55 x) Valutare il rapporto tra semantica e sintassi; il prevalere della prima è in rapporto con fenomeni, quali il tema sospeso, la concordanza a senso, la “falsa partenza” del periodo, la sovrapposizione (o fusione di) costrutti diversi. 56 xi) Integrare la micro- nella macrosintassi. 57 xii) Analizzare la progressione tematica (a tema costante, a tema lineare, con ipertema). xiii) Gerundiali: posizione nel periodo, coppie e serie di g., possibile sostituzione delle g. e delle participiali con proposizioni avverbiali esplicite. xiv) Elementi-quadro (spaziale, temporale, a breve o lunga gittata) del periodo. xv) Inventario dei connettori periodali e analisi delle loro funzioni.  







Dall’analisi di fenomeni particolari è necessario risalire a configurazioni sintattiche ampie e a intere sequenze testuali. Soltanto in una prospettiva più estesa i singoli costrutti possono essere interpretati convenientemente. 58  

54   Si va dalla simmetria dittologica a quella delle subordinate; non rara è la “simmetrizzazione configurata” dal dittico correlativo (Zublena 2000: 354). Nell’analisi della sintassi del periodo mi riferisco spesso al manuale Prandi/De Sanctis (2011). Un’utile guida allo studio della subordinazione è Verjans (2013). 55   Per es., le ipotetiche e le comparative possono essere usate per un fine proprio, cioè presentare e discutere un’ipotesi e una comparazione oppure possono servire ad arricchire la struttura periodale, movimentandone la linearità. 56   Sulla concordanza a senso che si ritrova in testi vicini al parlato v. Telve (2000a: 249-50; 2003: 24). Per la sovrapposizione di costrutti presente nella prosa di Machiavelli v. 2. 4. 57   Per es., esaminando nei loro cotesti l’uso di N-tore, dell’Avv-mente e di vari tipi di nominalizzazioni. Sui due livelli di analisi, micro- e macrosintassi, v. Blanche-Benveniste (2002a, 2002b). N-tore e Avv-mente possono sostituire sintagmi più estesi; tra i vari tipi di nominalizzazioni ricordo soltanto quello preposizionale, per dimostramento della menzogna (As III, xi, p. 335); questi fenomeni sono stati studiati da Dardano/Frenguelli (1999) e da Frenguelli (2010: 191-206). 58   È ancora valido un avvertimento di Gianfranco Folena: «Il limite maggiore di molte pur lucide analisi di organismi periodici sta nel descrittivismo, in quel considerare talora come fine a se stesso e come oggetto di ammirazione il ripartirsi del periodo nei suoi membri minori, e nel ritenere significativo quel che significativo non è: spesso questa microstilistica non ha il suo necessario corrispettivo di macrostilistica, di intepretazione storica nel quadro della tradizione retorica e del clima letterario e morale in cui essa vive» (Nuova presentazione al vol. Orazioni scelte del secolo xvi, a cura di G. Lisio, Firenze, Sansoni 1897/1978, p. xxi).

2. La scrittura di Machiavelli

2. LA SCRITTURA DI MACHIAVELLI * 2. 1. Le ragioni di un trattato Ma nel Principe, ne’ Discorsi, nelle lettere, nelle Relazioni, ne’ Dialoghi sulla milizia, nelle Storie, Machiavelli scrive come gli viene, tutto inteso alle cose, e con l’aria di chi reputi indegno della sua gravità correre appresso alle parole e a’ periodi. Dove non pensò alla forma riuscì maestro della forma. E senza cercarla trovò la prosa italiana (De Sanctis 1954: 60).

C

on un gesto perentorio, provocato da una volontà di riscossa contro quella corruttela, che «non era altro che lo stesso medioevo in putrefazione» (ivi: 64), Francesco De Sanctis vuol significare che il Principe, i Discorsi e gli altri scritti politici e storici del Segretario fiorentino segnano un punto di non ritorno: rappresentano, sul piano delle idee e delle forme, una decisa rottura rispetto al passato. 1 È un giudizio che definisce la posizione di Machiavelli nella storia del pensiero e della lingua; un giudizio che, mirato a definire la vitalità di uno stile straordinario, rimane valido anche in un tempo, come il nostro, in cui l’interesse si concentra più sul testo che sull’autore, sui caratteri dell’enunciazione, sulle tradizioni discorsive più che sull’individualità dell’opera. Il critico prende le distanze dal secolo di Machiavelli per seguire un’interpretazione romantica, aperta al futuro e alle speranze della nazione. Nel Principe lo sguardo concentrato sulle azioni della politica, la forza di un argomentare che continuamente confronta, distingue, prevede, conclude si traducono in una scrittura mossa, tutta concretezza ed evidenza, diversa dall’andamento composto e riflessivo dei Discorsi. 2 In un volume apparso nel 1945, Luigi Russo, sottolineando «la rapidità dilemmatica» del periodare del Principe, osservava:  



La sintassi machiavellica è già consapevole della sua libertà e individualità, e, a diπerenza della sintassi medievale, gerarchica e cattolica per eccellenza, va spedita per la sua via, alla maniera liberale, concatenando le enunciazioni per serie interne: sparisce il ragionamento a piramide degli scolastici, e si inaugura il ragionamento a catena, che sarà poi quello di Galileo e di tutta la prosa scientifica moderna (Russo 19884: 69).

Il paradigma partitico, divenuto attuale con la ripresa democratica del secondo dopoguerra, interpreta la svolta segnata dal Principe, la cui novità si fonda sull’opposizione al quadro concettuale aristotelico-tomistico, che fino ad allora aveva dominato nella filosofia politica. Il confronto diretto tra la prosa del Principe e la prosa del Convivio * Pubblicato con il titolo La scrittura del “Principe”, in “Atti e Memorie dell’Arcadia”, 3 (2014: 69102). 1   È una rivolta contro il principio di imitazione e il culto dei modelli, concetti-guida del classicismo cinquecentesco. Mazzacurati (1976: 217) distingue due filologie: della riacquisizione (Poliziano) e del rigetto (Bembo), le quali agiscono contro la «grammatica del dominio»; la seconda filologia, con i suoi canoni selettivi, si propone di trasformare il passato in un valore assoluto. 2   I caratteri dell’argumentatio dell’antica retorica sono presentati da Lausberg (1960: §§ 348-430); v. anche G. Ueding/B. Steinbrick, Grundriss der Rhetorik, Stuttgart-Weimar, J. B. Metzler, 1994: 263-268. L’argomentare di Machiavelli si fonda, in taluni passaggi, sull’eπetto sorpresa: v. V. Atayan, Fonctions argumentatives secondaires dans l’argumentation textuelle, ou pourquoi une ‘équipe surprise’ gagne (presque) toujours. Quelques considérations sur le renforcement et l’atténuation de l’argumentation en allemand, espagnol, français et italien, in Atayan/Pirazzini (2009: 93-121). Per la posizione di M. nel contesto della sua epoca v. Guidi A. (2008).

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non ha convinto Pozzi (1975: 54); lo studioso ha osservato che tra le due opere vi sono altre esperienze e forme di scrittura di cui bisogna tener conto. Esemplari sono, a tale proposito, gli scritti di Savonarola (De politia et regno e il Trattato del reggimento di Firenze), dove è presente un modello concettuale di tipo universalistico, teso alla ricomposizione-reintegrazione di una forma originaria, cui M. oppone un giudizio e una prassi ispirati al relativismo, all’empiria e alla necessità di «giudicare la verità» (Esposito 1994: xxx). Il Principe non è un’opera di teoria politica, né un trattato filosofico; è un’analisi di eventi e di persone, un argomentare che vuole convincere e spingere all’azione il destinatario, Lorenzo di Piero dei Medici. 3 Dopo aver rilevato «la stessa linea maestra», che «si stacca con assoluta originalità da ogni precedente modello formale», il Principe mostra «la fiamma che divampa [...] al vento di una meravigliosa certezza» (Dionisotti 1980: 256). L’anomalia di contenuti e di forme del breve trattato consiste nel non essere un vero e proprio trattato; è di√cile attribuire a quest’opera un genere e un tipo testuale definiti (Paolini 2001). Del resto, anche il Dialogo intorno alla nostra lingua e l’Arte della guerra non sono le opere che sembrano a prima vista: la loro struttura dialogica è in sostanza un espediente retorico, dal momento che la perentorietà autoriale annulla di fatto ogni possibile contraddittorio. La tradizione del regimen principis e della trattatistica (soprattutto latina) del Quattrocento è contestata dall’interno; se ne riprendono alcuni tratti, ma trasformandoli, indirizzandoli a nuovi fini, diversi da quelli tradizionali. In breve, si potrebbe dire a quali precedenti quest’opera si oppone piuttosto che a quali precedenti si rifà. Abbiamo di fronte uno scritto che segna l’incontro tra l’esperienza professionale del politico e la riflessione, guidata dalla lettura di Livio, sulla storia antica e moderna. Qualcosa di analogo avveniva nel mondo dell’arte, dove il sapere e le tecniche delle botteghe artigiane s’incontravano con lo studio dell’arte classica; ma, in questo caso, l’incontro avveniva all’insegna di una visualità, che non riguarda, ovviamente, la verbalità della scrittura. Anche la scelta della forma del Principe è significativa; il dialogo è rifiutato, ma se ne conservano alcuni caratteri: gli attacchi allocutivi, le improvvise diversioni, la pronta duttilità dell’eloquio. La stessa diπormità del testo, dove si alternano capitoli di diversa impostazione, finalità e ampiezza, è indicativa della novità del progetto.  

È enorme la distanza del Principe dagli Specula principis, una tradizione che dal Medioevo arriva fino al sec. xix. Guidato da un orientamento religioso, l’argomentare politico di Egidio Colonna procedeva per deduzioni e assunzioni generali. Con il nascere delle oligarchie e dei principati, la pubblicistica del Quattrocento aπermava che il principe deve aspirare essenzialmente alla fama. Riprendendo da una tradizione consolidata la forma dell’epistola, Giovanni Pontano, nel De principe, si rivolge ad Alfonso duca di Calabria, erede del trono aragonese, per proporre una summa di virtù e di modi di agire, necessari al buon governo; il tutto è disseminato di exempla, antichi e moderni. Sulla stessa linea, pur con forme e svolgimenti diversi, si pongono altre opere: dal De vero principe del Platina al De regno di Francesco Patrizi, dal De maiestate di Iuniano Majo al De regis et boni principis o√cio di Diomede Carafa. Altre modalità espressive segue la letteratura di denuncia, che, ponendo al centro della scena il conflitto tra la virtù umana e la cieca fortuna, descrive il servilismo dei cortigiani, la crudeltà e l’arroganza dei governanti, il generale decadimento morale: sono le scene che si ritrovano nel De infelicitate principum (1440) di Poggio Bracciolini e nel De curialium miseriis (1444) di Enea Silvio Piccolomini. In modi analoghi, nel Theogenius e 3   È l’interpretazione, aπermatasi negli ultimi decenni (si pensi all’imponente lavoro di G. Sasso 1987-1997), il quale respinge la tesi di un Machiavelli filosofo e teorico del pensiero politico, tesi sostenuta, tra gli altri, da B. Croce, F. Ercole, G. Gentile e F. Meinecke. Dotti (2003: 251-285) fornisce un’utile guida ai temi aπrontati nel Principe. Sulla figura, il pensiero e l’opera letteraria di M. si vedano i contributi contenuti in Atti Machiavelli 1995, 1998, 2001.

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nel Momus, L. B. Alberti esprime un suo lucido pessimismo, che appare comunque lontano dallo spirito che muove il trattato di Machiavelli. Ciò vale anche per altri due orientamenti vivi in quel secolo: la concezione democratica della monarchia; il sovrano è visto come un padre dei sudditi e come un magistrato supremo. È questa la visione che emerge dal trattato albertiano De iciarchia e dalle dottrine platoniche (per le quali il principe sarà innanzi tutto un filosofo). Si noti che la virtù di cui parla Alberti «non ha niente a che vedere con quella esaltata poi dal Machiavelli [...]. Essa è invece un fulgente ideale di vita morale, fondata sulla moderazione e la misura, volta allo sviluppo totale dell’uomo nelle sue diverse capacità fisiche e intellettuali» (Grayson 1986: 10).

Due circostanze hanno favorito la nascita del breve trattato. C’è innanzi tutto la di√denza dell’autore nei riguardi di una letteratura cortigiana e filomedicea, divenuta inadeguata, dopo la morte del Magnifico, alle situazioni e ai tempi che venivano maturando: «quella nuova letteratura trilingue, greca, latina e toscana, d’una struttura ancora delicata e instabile per la sproporzione fra l’audacia sperimentale e la capacità di dominio, finì col giungere sguarnita o comunque insu√cientemente armata proprio sul fronte della lingua moderna» (Dionisotti 1980: 238). Così si spiega il ritardo creativo di chi, non riconoscendosi nel clima culturale e letterario vigente negli anni della giovinezza, scrive i suoi capolavori, superato il mezzo del cammino di sua vita, fra il 1513 e il 1525. La seconda circostanza riguarda la tipologia e i caratteri dei generi e dei testi, i quali, all’inizio del Cinquecento, appaiono percorsi da una scossa innovativa, destabilizzante le tradizionali architetture compositive. Si raccolgono i frutti di quanto era accaduto nell’universo letterario del Quattrocento, che aveva visto svilupparsi un insieme di forme e di generi più ricco e aperto di quelli dei secoli precedenti. Qui si vedevano gli eπetti di una più intensa circolazione dei testi, conseguente alla nascita della stampa e al fatto che cerchie sociali più ampie partecipavano alla produzione e alla fruizione delle opere. Altri fattori di crescita provenivano da un’originale letteratura in latino e soprattutto da una sperimentazione linguistica aperta all’uso del dialetto. Sono fenomeni che appaiono ben vivi anche nei primi decenni del Cinquecento, quando – a dispetto di quel processo di regolarizzazione linguistica che si estende a largo raggio – appaiono gli eπetti del trasferimento di motivi e di forme dall’uno all’altro genere: sovrapposizioni e innesti, contaminazioni e sostituzioni, che impongono un diverso aspetto sia all’intero panorama sia ai singoli generi e filoni letterari. Con l’Arcadia (Napoli, Mayr, 1504) di Sannazaro 4 si passa dall’egloga sciolta alla complessa struttura del prosimetron (del resto anche gli Asolani, un dialogo di carattere narrativo che si svolge nell’ambiente di una corte, alternano la prosa a componimenti in versi). Nell’organismo dell’epica Ariosto inserisce trame e svolgimenti novellistici, tanto che il Furioso (1532) mostra una complessità di strutture non vista prima d’allora: s’intende che l’attuazione di una pluralità di sistemi di senso diventa un procedimento costitutivo del testo. 5 Nella produzione letteraria di Machiavelli le novità riguardano non soltanto i trattati: anche il teatro ne è investito. Alla Mandragola è attribuito un prologo (arricchito da una nota autobiografica), in forma di canzone petrarchesca, in luogo delle consuete terza o ottava rima, e ogni atto, tranne l’ulti 



4   Il testo fu stabilito da Pietro Summonte, umanista in rapporto con Bembo; sul testo Summonte (S1) si fonda la recente ed. curata e commentata da C. Vecce, Sannazaro (2013). Nell’opera entrarono molte forme tratte dagli autori toscani del Trecento (Tesi 2007: 192); rilievo non minore hanno i numerosi latinismi: excelso, expediti, translucido, transcolorare; v. Folena (1952) e Trovato (1991: 154-158). 5   Sulla figura e l’opera di Iacopo Sannazaro v. Villani (1996) e l’ampia Introduzione di C. Vecce all’ed. cit. Gli svolgimenti narrativi inseriti nel Furioso sono evidenziati da De Meijer (1985: 279). Della “rifunzionalizzazione” del petrarchismo nell’Orlando furioso tratta K. W. Hempfer, Testi e contesti. Saggi post-ermeneutici sul Cinquecento, Napoli, Liguori, 1998, pp. 227 ss.

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mo, termina con una canzone; nella Clizia nuova è la presenza di cinque madrigali. Tutto ciò senza dire dell’intreccio che, nella Mandragola, procede fulmineo, e senza dire del linguaggio, incisivo e caratterizzante, attribuito ai personaggi. In questo studio mi sono servito dell’edizione del Principe (2006) curata da M. Martelli, fondata sul codice Laurenziano Pluteo xliv 32, esemplato da Biagio Buonaccorsi, probabilmente nel 1515 e comunque nel primo quarto del secolo. A questo stesso periodo risale il codice di Monaco Universitätsbibliothek 4 cod. ms. 787, fiorentino e che è alla base dell’ed. G. Inglese (1994). I Discorsi sono contenuti per intero nel cod. Harley 3533 della British Library di Londra, copiato da un amanuense fiorentino nella prima metà del Cinquecento. Tutte le opere maggiori di Machiavelli (comprese quindi le Istorie e la Mandragola) non sono in autografo, ma sono conservate in copie assai vicine cronologicamente e geograficamente agli originali: quindi i copisti di dette opere «non ci possono apparire [...] estranei alle abitudini linguistiche dell’autore» (Frosini 2014; 730). In autografo si conservano vari scritti occasionali, come Consulte e Pratiche (ed. Fachard 1988), alcune lettere private, una copia di lavoro dell’Arte della guerra, un frammento iniziale dei Discorsi ecc.

Quanto alla forma dell’insieme (e delle singole parti) e quanto alle modalità dell’esecuzione, il Principe, con le sue aperture discorsive, le sue deviazioni, i suoi trapassi, è uno scritto che esce dagli schemi tradizionali del genere “trattato” e si muove nel flusso di una nuova e particolare enunciazione. Più ardua è certamente la collocazione dei Discorsi in una tipologia di generi e di testi. Abbiamo, a un tempo, la lettura commentata di un classico e una riflessione storico-ideologica, estesa a un ampio orizzonte (con confronti, paralleli, analisi), avviata e confortata dalla presenza di «Tito Livio nostro» (Discorsi I, lviii, 2). È questo un autore, che, in più occasioni, ha attirato l’attenzione di storici e di politici: basti ricordare che nella Cronica l’Anonimo romano lo cita due volte prima di rendere ragione del proprio operare. 6 Nel Principe, come nei Discorsi, si tratteggiano eventi e figure della storiografia latina, richiamati alla memoria per l’analogia con avvenimenti contemporanei: l’esempio degli antichi e l’esperienza comunale s’incontrano nel proporre soluzioni all’agire politico. Si aπerma la necessità di mostrare gesti esemplari e di far risuonare voci suadenti. È stato osservato che alla base del Principe c’è «una regola costruttiva fondamentale; il parallelismo e l’equipollenza, dunque la possibilità continua di scambio, tra antico e moderno» (Rinaldi 1993: 1364). Nei Discorsi passato e presente rivivono in un seguito continuo di confronti e di commisurazioni. Immagini e spunti narrativi sono tenuti a bada dalla volontà di oπrire, mediante le une e gli altri, una critica dell’agire umano, e di proporre, continuamente argomentando, regole di comportamento e di azione. Il testo dello storico latino diventa a tratti oggetto di quelle distinctiones e solutiones contrariorum che fino ad allora erano state proprie delle scritture giuridiche. 7 La varietà di spunti e di riflessi culturali, di generi e di tradizioni discorsive lascia tracce nella scrittura e nei modi dell’enunciazione: recenti studi hanno messo in luce le vie e le circostanze, in cui si manifestano influssi reciproci tra i generi discorsivi e la grammatica di una lingua. 8  





6   Cfr. Anonimo romano (1979: 4-5): «Dice Tito Livio nella prima decada [...]. Responne Tito Livio e dice [...]. La quinta cascione ène anche quella che scrive Tito Livio nello proemio dello sio libro». Cfr. Colussi (2014: 148). Diversamente dai trattati delle arti e delle scienze visuali, il trattato politico è opera puramente verbale e si manifesta nell’argomentare o nello scambio dialogico. 7   Cfr. Dionisotti (1980: 264). Di parere diverso F. Bausi, Introd. a Discorsi, pp. xxxi-xxxii, per il quale precedenti alla “maniera” dei Discorsi si ritrovano nel Commento al “Trionfo della Fama” di Francesco Bracciolini e nel Trattato politico-morale di Giovanni Cavalcanti. 8   È un settore di ricerca, che coinvolge la grammatica, le tradizioni discorsive e la testualità. I saggi presenti in Despierres/Krazem (2012), riguardanti il francese moderno, forniscono concetti utili allo sviluppo di questo settore della ricerca.

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Nel corso del Quattrocento anche la struttura e l’andamento del dialogo erano mutati; all’inizio dell’opera si accoglie una voce narrante, come era già avvenuto in due tardi testi albertiani, il Profugiorum ab aerumna e il De iciarchia. Un rilievo nuovo acquista il dialogo, che poteva essere di tipo “narrativo”, in cui la voce dell’autore conduceva il racconto e introduceva gli interlocutori, o di tipo “scenico”, dove l’autore era meno presente e il dialogo tra i diversi personaggi si faceva diretto. Il primo s’ispirava al De oratore ciceroniano, mentre il secondo aveva come modelli Platone e Luciano. 9 È quasi superfluo ricordare la scelta (assolutamente maggioritaria) del dialogo come genere adatto a presentare un dibattito sulla lingua: basti pensare a Bembo, Liburnio, Trissino, Castiglione, Valeriano, Tolomei. Il tentativo di rilanciare un volgare letterario rinnovato, che attingeva al parlato e, al tempo stesso, riprendeva forme dal latino, con cui voleva equipararsi, fu compiuto da Alberti nel 1441 con il Certame coronario. Qui si avvertono le prime dissonanze che dipendono da quella che è stata chiamata l’“anaplanità” tra latino e volgare (il termine usato da G. Pasquali è stato ripreso in Tesi 2009). L’esito non fu felice: in Firenze un diπuso ostracismo penalizzò l’intera opera dell’autore e in particolare l’attività spesa in favore del volgare. 10 All’iniziativa, approvata da Piero di Cosimo de’ Medici, mancò quel sostegno della cultura umanistica che più tardi porterà al successo l’abile progetto del Magnifico, capace di fondere le ragioni della lingua e della letteratura con le ragioni della politica e del prestigio di una città, che, nel fervore degli studi e in quella entusiastica riscoperta dei classici, era vista come la nuova Atene. Quando rinasce l’interesse per i volgarizzamenti, ecco che la Naturalis historia di Plinio, tradotta da Cristoforo Landino in toscano per il re di Napoli, segna un punto a favore di una scrittura che ha già acquistato prestigio, al di là dei suoi naturali confini. 11 Nella seconda metà del Quattrocento, in Firenze, dove agisce positivamente la prossimità tra il volgare letterario e il parlato (situazione del tutto estranea ad altri centri di cultura), si oπre allo scrittore la possibilità di scegliere tra i diversi registri del fiorentino: dallo stilnovismo aulico e arcaizzante alla tradizione dantesca, dal petrarchismo a una lingua moderna, aperta su livelli medi e medio-bassi del parlato. Sul piano grammaticale vigeva quella che è stata definita «la feconda anarchia quattrocentesca» (Segre 1963b: 356). L’uso vivo del tempo, che ha avuto certamente un ruolo importante nello sviluppo della prosa di Machiavelli, non è estraneo alla poesia colta di Poliziano e del Lorenzo delle Rime; è un uso che, rispetto al fiorentino del Due e Trecento, si presenta con una veste fonomorfologica nuova, intessuta di tratti provenienti dal resto della Toscana. Le trasformazioni, conseguenti anche ai mutamenti demografici (si ricordi la peste del 1348), documentate in parte nella Grammatichetta albertiana della metà del sec. xv e riguardanti in particolare  





9   Cfr. Cardini (1996: 148), Skytte (2000: 315-31). Per un inquadramento generale v. Tinkler (1988: 197-214). Nel De oratore domina la medietas, «dove l’esito finale preparato dalla contrapposizione delle tesi prevale sulla varietà e gli andirivieni dei ragionamenti»: v. F. Tateo, La civil conversazione. Trattati del comportamenteo e forme del racconto, in Novella italiana (1989: 59-81, 69). 10   Cfr.: Serianni (1993: 480-486); Formentin (1996a: 159-210); Furlan (2007: xxv). 11  Al successo del volgare contribuivano «la spinta nazionalistica dal basso e il neoplatonismo dall’alto» (Dionisotti 1967: 123-125). Nel Quattrocento il volgare si diπonde in fasce più ampie di pubblico e penetra in varie corti d’Italia; di conseguenza la lingua scritta si arricchisce con ibridismi e conguagli di forme; la tendenza è ben documentata nel volgarizzamento della Historia naturalis di C. Plinio Secondo, eseguita da Giovanni Brancati (ed. S. Gentile, s. l., 1974), v. Coluccia (1994: 396398); si conferma «l’uso della lingua, a quel punto divenuta non solo uno strumento per la comunicazione ma essenzialmente una “carta d’identità” culturale, un vistoso modello di comportamento» (Fedi 1996: 509).

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le coniugazioni verbali, erano iniziate negli ultimi decenni del xiv secolo (Manni 1979: 119). Contrario ai modelli trecenteschi, Alberti era ricorso nei dialoghi a una lingua ricca, in pari grado, di latinismi e di forme demotiche. Dopo l’insuccesso del Certame, si apre per lo scrittore un nuovo corso, ormai quasi tutto in latino, segnato dal romanzo Momus e dal trattato De re aedificatoria; unica opera in volgare di questo periodo è il dialogo De iciarchia (1468). Nei primi decenni del Cinquecento, seguendo l’esempio del Bembo, inteso a contenere l’espansione del latino e ad ampliare il dominio del volgare, nessuno scrittore importante (Ariosto, Bembo, Castiglione) pensa di comporre volgarizzamenti dal latino: «Si spiega che il compito assegnato alla nuova letteratura essendo quello di ricostituirsi su di una base linguistica trecentesca liberandosi nella grammatica e nel lessico dalla deformazione latina subita durante l’età umanistica, nessuno più fosse indotto a correre il rischio, inevitabile in un volgarizzamento, di ricadere nell’abito che bisognava stroncare». 12 Fa eccezione la traduzione machiavelliana della commedia Andria di Terenzio, la quale però nasce da una situazione particolare, tipicamente toscana.  

2. 2. Innovazioni e permanenze All’inizio del Cinquecento, dopo un secolo che ha segnato il prestigio maggiore della poesia, la prosa riprende vigore: l’avvio si manifesta a Napoli, con l’Arcadia, e a Venezia, con gli Asolani. Poi l’iniziativa ritorna a Firenze. I trattati di Machiavelli aprono alla riflessione storica e ai consigli sull’agire politico; è un percorso nuovo, sostenuto dalle esperienze di altre scritture: lettere, legazioni e commissarie, da una parte, riflessioni sulla lingua e scritti propriamente letterari, dall’altra. Tra questi settori esiste una circolarità di idee, d’ispirazioni e di forme. La tecnica e i modi dell’argomentare si ritrovano, in varia misura, in molti scritti del nostro, così come in essi è frequente il ricorso agli antichi esempi; la vivacità delle battute e l’icasticità del motto non sono riservate soltanto alle opere teatrali. Partendo da questi presupposti e fondandosi su queste basi, Machiavelli indica una delle principali direzioni verso la quale la prosa trattatistica e storica, avendo acquistato una piena autonomia, può decisamente procedere. È aperta la strada a Guicciardini, che seguendo un percorso inusitato svolgerà la sua funzione di trattatista e di scrittore e, sul piano della lingua, di «grande sintatticista» e di fondatore di un rinnovato lessico della politica e della storia. 13 Se è vero che ogni enunciato è colato nello stampo del genere di discorso cui appartiene e che, al tempo stesso, il genere di discorso produce un certo tipo di enunciati, 14 si riconosce all’istante che la novità concettuale e ideologica del Principe  



12   Dionisotti (1967: 135-136). D’altra parte, nel Quattrocento si svolge una continua assimilazione culturale e linguistica: «“Volgarizzamento” e “sminuzzamento” saranno processi simmetrici nella diπusione dei classici ad faciendam sementem: se il primo conserverà il pensiero di una civiltà, il secondo spigolando e tesoreggiando versi e sentenze, aforismi e distici morali, detti ed exempla [...], consegnerà ai nuovi generi della didattica delle classi colte d’Europa, attraverso la pedagogia dei collegia gesuitici, lo strumento di una formazione universale, amplissimo e vigoroso sino alla Rivoluzione francese» (C. Ossola in Manuale lett. it., ii, 1994: 3-29, 9; i corsivi sono nel testo). 13   Cfr. Nencioni (1984: 191); sul lessico politico di Guicciardini si vedano Zancarini (2009) e Bruni (2012). Alcuni aspetti della lingua del Principe sono esaminati da Fournel (2001). 14   L’aπermazione di M. Bachtin è ripresa e commentata in Freyermuth (2013), dove sono esposte le costrizioni pragmatiche, situazionali e contestuali che pesano sulla scelta delle forme grammaticali, le quali caratterizzano un determinato genere. Si noti che il sotto-genere della “presentazione” o “introduzione” è caratterizzato, nel Principe come nei Discorsi, non solo da una spiccata elaborazione retorica, ma anche da scelte grammaticali diverse rispetto al testo.

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trova corrispondenza nell’originalità dello stile. La ripresa di qualche tratto del tradizionale libro per principi (i titoli in latino, la dedicatoria, che imita il discorso di Isocrate a Nicocle, alcune formule compositive) è controbilanciata dalla dispositio stessa della materia, da significative assenze e da ancor più significative presenze: la classificazione dei principati a seconda del modo in cui si è conseguito il potere, la riflessione sulla crisi degli stati italiani, l’esortazione finale a liberare l’Italia. La bipartizione o divisione tante volte rilevata nel Principe, fra una parte descrittiva o propriamente trattatistica, e una seconda parte precettistica, risulta di fatto una successione logicamente giustificata, se già nei primi undici capitoli il discorso sui vari tipi di principato tende a concentrarsi sul problema di come acquistare e mantenere un principato nuovo, e dunque sulle qualità necessarie a chi comanda: naturale dunque il passaggio dalla figura del leader, all’analisi di “come” debba essere e comportarsi il principe. [...] All’impegno descrittivo o tassonomico dettato dalla forma trattatistica si accompagna fin dall’inizio la preoccupazione e la consapevolezza delle circostanze politiche presenti (Fido 2007: 15). 15  

All’origine del Principe Fredi Chiappelli ha visto il contrapporsi di due forze: una spinta scientifica (o obbiettivo-trattatistica), fondata su un ragionare serrato e mirata alla tecnificazione del linguaggio politico, e una spinta estetica (o aπettivoartistica), volta a comporre un discorso elegante nella forma e ricco di immagini. In questa polarità lo studioso evidenzia tre caratteri dello stile: i) «l’andamento dilemmatico dei periodi a carattere enunciativo», ii) una diπusa tendenza paratattica, iii) l’abbondanza di proposizioni consecutive e causali (Chiappelli 1952). Non vi sono dubbi sulla centralità dello schema dilemmatico, il quale tende a propagginare, nel senso che il secondo termine di ogni alternativa si suddivide in due altre possibilità, anch’esse presentate come alternative. Questa sequenza talvolta si complica per l’inserimento di altre entità: per es., nella coppia repubblica-principato, s’inserisce, alterando lo schema originario, la tripartizione classica fra monarchia, aristocrazia e democrazia. 16 Quanto al secondo carattere individuato dallo studioso, non va sottovalutata la presenza di periodi estesi e sintatticamente complessi, i quali ricorrono in corrispondenza al manifestarsi di uno “stile additivo” o come l’eπetto di una struttura disposta su diversi piani di subordinazione e arricchita di vari accessori. 17 Quanto al terzo carattere, il rilievo è esatto, ma sarebbe opportuno confrontare, nelle frequenze e nelle strutture, le consecutive e le causali con altri tipi di proposizioni avverbiali. In seguito, dopo l’indagine prevalentemente stilistica di Chiappelli, la sintassi del nostro non ha suscitato grande interesse; la veste fonomorfologica e il lessico, anche sulla scorta di analisi riguardanti i testi del Quattrocento, hanno ricevuto maggiore attenzione. 18 Rimane la necessità di aπrontare lo studio della testualità e di riprendere l’analisi dei costrutti e della struttura periodale, perché è in tali ambiti che si manifestano le novità più importanti della prosa di Machiavelli, una prosa che rappresenta un evento di grande rilievo nella storia della nostra lingua (anche se ciò  





15   «Sul principato “nuovo” Machiavelli ha dunque proiettato un vero reticolato concettuale, incrociando tre linee di mira: al soggetto, all’oggetto, ai modi della conquista» (Inglese 1992a: 894-895). 16   Cfr. Marchand (1975: 19-23) e Matteucci (1970). 17   Si vedano in particolare i passi Pri xix, 67 e Pri xxvi, 14. Per l’analisi di periodi sintatticamente complessi v. il cap. 3 del presente volume. 18   Per gli aspetti fonomorfologici della prosa di Machiavelli v.: Coletti (1986: 167-169), Serianni (1993; 501-503), Scavuzzo (2003) e Frosini (2014). Nel Principe ricorre il pronome chi nei casi obliqui: v. Scavuzzo (2003: 158 n.), cfr.: «Quantunque è alcuna volta, ma tuttavia molto di rado, che si truova Chi posto negli obliqui casi» (Bembo, Prose della volgar lingua III, xxv, p. 226).

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non è stato sempre riconosciuto dagli studiosi). Si dovrà approfondire il confronto tra la prosa letteraria del Quattrocento e la scrittura del nostro, la quale, mentre appare lontana sia dal modello boccacciano, sia dagli schemi costruttivi della Scolastica, recupera, adattandoli ai contesti, tratti della latinità e riprende dalla maniera dei dispacci e dei resoconti la tendenza a scorciare le frasi, ad avviarle rapidamente, a mutare con pari rapidità il tema trattato, il piano discorsivo e il modo dell’enunciazione. A tutto ciò si accompagna una disposizione alla colloquialità, che genera un discorso mobile e ricco di varianti. È stato detto che quello di Machiavelli è un volgare «infarcito di fiorentinità orale e di esperienza prammatica di cancelleria» (Fournel 2001: 71): osservazione acuta, ma restrittiva, perché non coglie la complessità di una lingua che tende a rinnovarsi nello stile, nelle immagini e nei modi dell’enunciazione. Una questione a monte di ogni giudizio sulla lingua e lo stile dell’opera riguarda il modo e i tempi della composizione; secondo Martelli si tratterebbe di una scrittura immediata non oggetto di revisione e quindi irregolare; secondo Inglese invece la prima stesura dell’opera sarebbe stata corretta e l’autore vi avrebbe portato integrazioni e cambiamenti; pertanto il Principe sarebbe il frutto di una scrittura meditata e i presunti errori sarebbero in realtà tratti di uno stile particolare. Un’analoga diπerenza di pareri ha riguardato lo Zibaldone di pensieri di Leopardi, opera composta di getto secondo G. Pacella (1991), testo derivato da precedenti minute e quindi riscritto secondo E. Peruzzi, che ne ha fornito un’edizione fotografica (1989-1994). Nel Dialogo intorno alla nostra lingua, prima reazione all’Epistola del Trissino e alla diπusione di passi del De vulgari eloquentia in Roma nel 1524, il nostro, opponendosi sia alla teoria cortigiana e antitoscana sia ai modelli arcaizzanti di Bembo, esalta la superiorità naturale del fiorentino parlato. L’identità della lingua, che, a suo avviso, risiede nella struttura fonomorfologica, lo induce ad accostare la scrittura dei grandi del Trecento alla lingua parlata in Firenze. Il Dante teorico è costretto a correggersi: la Commedia non è scritta in lingua curiale, ma in fiorentino parlato. 19 In eπetti il Discorso  

sembra rappresentare la verosimilmente tempestiva reazione del Machiavelli contro due novità, spiacevoli entrambe, che rischiavano di far passare in secondo piano la parte di Firenze nella tradizione letteraria italiana ed esigevano quindi una risposta il più possibile documentata e incisiva: 1) l’utilizzazione, in servizio delle tesi antifiorentine, di uno scritto latino del padre Dante [...]; 2) l’interesse e addirittura il favore con cui [...] una parte dei fiorentini guardava ai tentativi settentrionali di fondare una grammatica (e anche una stilistica) del volgare letterario su basi radicalmente diverse da quelle del fiorentino quattro- e cinquecentesco, finendo per condividere la denominazione trissiniana di lingua “italiana” (Trovato 1982: xv).

Machiavelli, che sostiene la tesi del “naturalismo” e accoglie l’idea di una prassi scrittoria della spontaneità, si serve di tutti i registri del fiorentino: colto, colloquiale, popolare; al tempo stesso, non osserva una regolarità grammaticale, ma mescola liberamente forme quattrocentesche e forme aπermatesi nel secolo successivo, senza 19   Cfr. Tavoni (2000: 132). Sulle tesi dei Toscani (P. F. Giambullari, G. B. Gelli, C. Lenzoni), si vedano: Vitale (19782: 84-90), Trovato (1994: 75-121) e Formentin (1996b: 206), che aπerma: «si trattava di una risposta tutto sommato inadeguata e provinciale a una tesi [quella delle Prose] profondamente pensata e solidamente argomentata». Il titolo più appropriato non è Dialogo ma Discorso intorno alla nostra lingua; v. P. Trovato, Trent’anni dopo. Sul titolo e sulla tradizione testuale del “Discorso intorno alla nostra lingua” di Machiavelli, in “SLI”, xxxvi, 1, 2010: 119-125.

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evitare doppioni di varia natura: «il Segretario fiorentino – noterà il Salviati – scrisse del tutto, senza punto sforzarsi, nella favella che correva nel tempo suo». 20 Ad eccezione delle Istorie fiorentine, Machiavelli, si è detto, ha sempre rinunciato a un’attenta revisione linguistica delle sue opere e tale rinuncia si avverte particolarmente nel Principe, per ragioni legate alle vicende che hanno accompagnato la stesura dell’opera. La noncuranza grammaticale consegue alla crisi linguistica che invade la lingua letteraria dopo il Boccaccio ed è questo un fenomeno che si manifesta con diversa gradualità nei vari autori; «l’accoglienza di materiale culturale (latinismi) e di materiale spontaneo (fiorentinismi)» avviene «sempre nei limiti imposti da una certa sorveglianza della lingua». In alcune zone del lessico si nota una continuità di vocaboli e di espressioni tra gli scritti cancellereschi e i grandi trattati; una continuità che coinvolge anche alcuni tratti minori della sintassi. Vero è che non va attribuito un valore stilistico ai particolarismi cancellereschi e ai numerosi latinismi di routine: gli uni e gli altri appartengono a una koinè scritturale diπusa nella trattatistica del tempo. 21 In generale, il latino (ma occorrerà distinguere sia le diverse fasi di questa lingua sia la diversa tipologia di prestiti) contribuisce a tecnificare determinati vocaboli, impone l’uso di reggenze e di modi verbali, influisce sull’ordine delle parole, provoca tmesi e iperbati e spinge il verbo alla fine del periodo. 22 Le citazioni di classici latini, per lo più prive d’introduttori discorsivi, conferiscono un tono aulico a vari passi del testo (vedi Pri xiii, 26; xvi, 28; xvii, 5), al tempo stesso, attribuiscono all’insieme una connotazione di veridicità testimoniale e di autorevolezza stilistica. Altri fenomeni risalgono ad abitudini fissatesi da tempo nella trattatistica, senonché la loro alta frequenza li distingue dall’uso presente in autori coevi. Ciò vale anche per i verbi polirematici, la presenza dei quali non è priva di conseguenze sulla sintassi frasale; consideriamo soltanto due tipi, scegliendo da una tipologia altrimenti varia: fare contro, fare grande, fare provvedimenti, farsi capo; tenere a guardia, tenere animato, tenere basso, tenere discosto, tenere in freno, tenere indrieto; 23 e vale per il frequente ricorrere di verbi ed espressioni deontiche (debbono, debbe, sono forzati, di necessità conviene che, è necessario che, bisogna che), corrispondenti, gli uni e le altre, non tanto a un “vocabolario della necessità”, quanto alla forza perlocutiva che anima il dettato. 24  









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  Avvertimeti della lingua sopra ’l Decamerone pp. 128-129.   Le citazioni sono da Chiappelli (1952: 10) e (1969: 30-40); cfr. Pozzi (1975). Serianni (1993: 502), osserva: «L’uso di un tamen o di un etiam in una prosa volgare, lontanissimo dal gusto severamente monolinguistico del Bembo, è insomma coerente con le macchie demotiche che il Machiavelli non si sforza minimamente di evitare»; di parere contrario Pozzi (1975: 55). 22   Per es., l’uso del congiuntivo in luogo del condizionale (Scavuzzo 2006: 52). Dal latino cancelleresco provengono funditus e in exemplis (in luogo di exempli causa); latinismi formali sono: apice, còmpedi ‘pastoie’, concipere, contennendo ‘spregevole’, escogitare, odio, ossidione, periclitare ‘tentare’; latinismi semantici: avarizia ‘avidità’, ferocia ‘coraggiosa fierezza’, uno ‘uno solo’; vocaboli “tecnificati” dal latino sono: acquistare, mantenere, perdere; rovinare, spegnere; occasione, reputazione, stato. Per le reggenze verbali: conspirò in lui (Pri xix, 39) ‘congiurò contro di lui’, che riproduce il lat. conspirare in aliquem; segnalo l’uso nominale di aggettivi: «estraordinarii sanza essemplo» (Pri xxvi, 12) ‘miracoli mai visti’, notabile (Pri xix, 23) ‘massima degna di essere notata’; Coletti (1993: 168), a proposito di reclamare nel senso di ‘presentare una protesta’, parla di «specializzazione del vocabolario che crea le premesse di un italiano della scienza politica». 23  Cfr.: fare contro (Pri ix, 8), fare grande (xx, 15), fare provvedimenti (xxv, 6), farsi capo (vi, 17), mettere in grembo (vii, 4), ridurre a memoria (xiii, 15), tagliare a pezzi (xiii, 14), tenere a guardia (xix, 53), tenere animato (ix, 22), tenere basso (xi, 8), tenere discosto (iii, 44), tenere in freno (vii, 31), tenere indrieto (xi, 8). Per lo studio delle polirematiche v. Dardano, in SIA (2012: 40) e Schøser (2006). 24   Formule come «vocabolario della necessità», attribuito a Machiavelli, o «vocabolario dell’angoscia», attribuito alla poesia di Cavalcanti, non giovano a una corretta lettura dei testi. 21

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La razionalità dell’esposizione, fondata su esperienze personali, la riflessione e il continuo meditare sui «grandissimi essempli» della memoria storica (Pri vi, 1) si confrontano spesso con simboli, fortemente evocativi e capaci di far rivivere la suggestione del mito: il leone, la volpe, il centauro, l’arciere. 25 Queste “figure”, che riescono a legare la ragione e il sentimento, fondendo elementi logici, dialettici e retorici, si rivelano più forti e pregnanti degli argomenti che rappresentano. Vero è che la prominenza di un’immagine spezza la linearità del discorso ordinario e accresce la forza illocutiva degli enunciati. Aumentano l’e√cacia dello stile anche i non rari referenti “materiali”, che si ritrovano soprattutto in alcuni passaggi del testo: «iudicano più agli occhi che alle mani» (Pri xviii, 17), «è sempre necessitato tenere el coltello in mano» (Pri viii, 28), «iudicando essere loro necessario uno freno in bocca che li correggessi» (Pri xix, 21). 26 La coerenza, dimostrata nell’uso di particolari termini (virtù, fortuna, occasione), nasce da una logica di tipo induttivo, capace di ricostruire per tale via il concatenarsi delle cause che generano gli eventi. 27 È istruttivo il confronto tra l’uso di un particolare termine e l’esposizione di una tesi. Sia nel Principe sia nei Discorsi si parla di ordini, vale a dire, del sistema di potere su cui si fondano, mediante istituzioni, leggi, modelli di comportamento, pratiche sociali ecc., un regime politico e una struttura statale; sovente al sostantivo si aggiungono determinanti, dai quali dipende una particolare specializzazione del significato: ordini antiqui, nuovi, particulari, publici, di quegli tempi, della città di Roma, della guerra, dello esercito, delle republiche, leggi e ordini, ordini e modi di vivere; e si tengano presenti anche i derivati ordinare e ordinatore. 28 Questi termini appaiono soprattutto in quei passi in cui una forza dinamica si sviluppa dai conflitti delle  







25   L’eπetto dell’immagine del centauro proviene dalle valenze antropologiche che le sono state attribuite fin dai primordi: del centauro-politico tratta Senofonte nella Ciropedia; agli albori della civiltà risale la contrapposizione della bestia all’uomo, della violenza ferina alla serenità, della velocità alla riflessione; è una contrapposizione che si riflette nel confronto tra Romolo, «ferocissimo e bellicoso», e Numa, «quieto e religioso» (Discorsi I, xix); è una dialettica virtuosa posta al fondamento dello Stato; Romolo è simile al Valentino: v. Raimondi (1972: 280-283). Cfr. T. De Robertis, Il camaleonte e il centauro. Note sull’antropologia di Giovanni Pico e Niccolò Macchiavelli, in “Schifanoia” 46-47, 2015: 127-135. Si è detto giustamente che: «Une bonne métaphore c’est une vision qui impose son point de vue en s’appuyant sur une image à laquelle on ne pense pas forcément et qui, subitament, éclaire la question» (Meyer 2008: 186). 26   Sul modello degli antichi, le analogie mediche (il malato, il medico, la medicina) ricorrono nei trattati di Machiavelli, v. Fachard (1998: 165-196). Un paragone botanico è presente in Discorsi II, iii, 7, p. 325: «Perché gli Romani vollono fare ad uso del buono cultivatore, il quale, perché una pianta ingrossi e possa produrre e maturare i frutti suoi, gli taglia i primi rami che la mette, acciò che, rimasa quella virtù nel piede di quella pianta, possano col tempo nascervi più verdi e più fruttiferi». Immagini tratte dal mondo delle scienze ricorrono anche negli scritti di Leonardo Bruni, Matteo Palmieri e Gaspare Contarini. 27  La fortuna (Pri xxv) non è in sé nemica dell’uomo, è piuttosto un termine dialettico che stabilisce dei limiti alle aspirazioni e ai bisogni umani, un’avversità cui può tenere testa la virtù. Simili coppie non sono rare: desiderio vs potenza, rovina vs esaltazione (Discorsi i e xxxvii). Secondo Chabod (1964: 283), il ragionare di Machiavelli è induttivo; di parere opposto è Martelli, che sottolinea la precedenza, nei trattati del nostro, delle regole e delle idee. Agli esempi attribuisce una funzione dimostrativa primaria Pincin (1974: 385-405). La riuscita dell’impresa di Giulio II è rievocata come esempio di fortuna che aiuta gli audaci; ma altrove Machiavelli sostiene che la causa del successo risiede nell’adattamento delle qualità ai tempi; pertanto le repubbliche hanno migliore fortuna dei principati perché sono pronte a seguire questa via (Discorsi iii, 9). Il tema è trattato, in un ampio percorso storico, da G. M. Anselmi, Impeto della fortuna e virtù degli uomini tra Alberti e Machiavelli, in Roncaccia (2008: 5-18). 28   Per l’uso di questi termini si veda Rubinstein (2004) e la rec. di F. Bruni, in “Lingua e stile” xlii, 1, 2007: 177-185. Si noti, per es., che stato, in Machiavelli, vale anche ‘dominio’, v. le espressioni tòrre, perdere lo stato. In Guicciardini si ritrovano: stato stretto ‘aristocratico’, governo stretto, vivere largo (Spongano); si veda ora R. Ruggiero, “Ordini e leggi”, in EncMachiavelli, ii (2014: 251-257).

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forze sociali, i quali, se utilizzati positivamente, assicurano l’e√cienza di un sistema di governo. La repubblica romana ha saputo far rientrare il dissenso nel perimetro delle istituzioni, tanto da rendere il conflitto, per così dire, legale; quella di Roma era una «republica tumultuaria, e piena di tanta confusione» (Discorsi I, iv), ma dai contrasti nasceva la vitalità delle istituzioni e la forza dello Stato (come è noto, Guicciardini, nelle sue Considerazioni intorno ai Discorsi di Machiavelli, I, iv, esprime un ben diverso parere). Naturalmente altro significato (ed è questa una prova della duttilità del lessico del nostro) assume il termine nel Proemio delle Istorie fiorentine (p. 90): «Ma avendo io di poi diligentemente letto gli scritti loro [di Lionardo Bruni e di Poggio Bracciolini], per vedere con quali ordini e modi nello scrivere procedevano [...]» (Machiavelli 2010, i: 89). Nell’argomentare e nel rappresentare i rapporti tra le diverse categorie logiche e retoriche, Machiavelli si serve di inferenze, ma con maggiore continuità ricorre a specifici indicatori linguistici, come si mostrerà nell’analisi che segue. 2. 3. Le forme dei periodi Quella di Machiavelli è, in primo luogo, una sintassi di posizioni: infatti, una caratteristica saliente della prosa del Principe è data dall’ordine dei costituenti, sempre vario e spesso ispirato dalla ricerca di una discorsività marcata. In modi diversi si manifesta una tensione verso la parte iniziale del periodo; ne risulta una dislocazione di complementi, di sintagmi (anche corposi) e di intere proposizioni. Tale movimento serve non soltanto a focalizzare singoli componenti frasali, ma anche a imporre un legame con quanto precede. La posizione incipitaria è occupata spesso da introduttori, sintagmi d’inquadramento, circostanziali di maniera; a tale struttura iniziale fa seguito spesso la posposizione del soggetto al verbo; ciò si verifica spesso anche quando manca un introduttore. 29 Le dislocazioni, insieme di fenomeni che comportano una certa ridondanza espressiva e sottolineano la portata comunicativa dell’enunciato, interpretano al tempo stesso la tendenza a costruire preventivamente il quadro del processo espositivo principale. 30 D’Achille (1990) ha rilevato che la dislocazione a sinistra nei testi di livello basso e medio è in costante crescita dalle Origini al xviii secolo, mentre nei testi alti, soggetti alla pressione normativa, dopo una crescita subita tra il periodo ii (1250-1375) e il periodo iii (1375-1525), cala nettamente nei decenni successivi. A tale proposito è stato osservato: «Pur non avendo registrato casi di DS propriamente dette (cioè con ripresa del sintagma dislocato mediante un pronome atono e accordo sintattico), va sottolineato che i testi in esame oπrono diverse strategie per la messa in rilievo del tema»: i) anticipazione dell’oggetto (o del complemento); ii) relativiz 



29   Sulla posposizione del soggetto al verbo nell’it. ant. v. Dardano (2014); per il francese v. Marandin (2003). La ricerca di un eπetto retorico è ottenuta con il porre in successione tre periodi che iniziano con un tempo passato: «Surse dipoi Alessandro VI [...]. Venne dipoi Papa Iulio [...]. Ha trovato adunque la Santità di papa Leone questo pontificato potentissimo» (Pri xii, 12, 14, 18). La posposizione del soggetto al verbo, se attuata all’inizio di un capitolo, è accompagnata spesso da un marcatore discorsivo: «Debbe dunque uno principe non avere altro obietto né altro pensiero, né prendere cosa alcuna per sua arte fuora della guerra» (Pri xiv). Anteponendo il verbo si ottiene l’indicazione più marcata della rematicità. Guimier (1993) oπre un panorama delle proposizioni circostanziali presenti nel francese: è possibile un utile confronto con l’italiano. 30   Cfr. Muller (2002: 88). Sulle dislocazioni nell’it. ant. v. SIA (2010: 77-78). Per la prosa del sec. xvi v. D’Achille (1990: 177-180), dove si tratta del periodo iv (1525-1612). Riferimenti a fenomeni presenti nell’it. mod.: per la frase scissa, v. Roggia (2009); per la dislocazione a sin. nei Dialoghi di Tasso, v. Bozzola (2009: 118).

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zazione che anticipa il costituente da porre a tema: tipo con coniunctio relativa, «La nomina dei quali i’ò iscriti per carta», anche senza preposizione, «i quali chavalieri mandò Pelegrino Martino»; iii) costruzione segmentata con estrapolazione di un costituente che passa dalla subordinata alla sovraordinata, «Aricordati, ser Iacopo, del privilegio dell’opra lo quale ave Piovano sindico dei monesteri di Sancto Savino, di farlo rinovellare». 31 Abbiamo visto che la dislocazione a sinistra è un fenomeno in regresso nei testi letterari successivi alle Prose di Bembo. Fin dai primi tempi, esistono altre strategie per la messa in rilievo del tema, le quali hanno il vantaggio, rispetto alla dislocazione, di proporre una gamma di fattori dinamici, che conferiscono ai periodi una mobilità adatta ai diversi contenuti e alle diverse situazioni espressive presenti nell’opera. Il fatto che nella prosa di Machiavelli si ritrovino alcuni casi di dislocazione a sinistra sta a significare che l’autore si sottrae agli eπetti di quella pressione normativa che si avvertono in autori quali Bembo, Castiglione, Guicciardini: il fenomeno riguarda l’oggetto sia diretto («Ma li stati ordinati come quello di Francia è impossibile possederli con tanta quiete», Pri iv, 18), sia indiretto («E benché di questo ultimo [scil. del fatto che gli svizzeri possono essere sconfitti da una fanteria spagnola] non se ne sia visto intera esperienzia, tamen se n’è veduto uno saggio nella battaglia di Ravenna», Pri xxvi, 24); riguarda ancora l’argomento tematizzato: «Delli Orsini ne ebbe uno riscontro [...], che li vidde andare freddi in quello assalto» (Pri vii, 17), «De’ Viniziani, se si considerrà e progressi loro, si vedrà quelli avere securamente e gloriosamente operato» (Pri xii, 23); in quest’ultimo passo ricorre la dislocazione con preposizione tematizzante e priva di accordo sintattico. La subordinata precede la reggente in vari cotesti; frequente è l’anticipazione dell’interrogativa indiretta: «Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende» (Pri xviii, 1); poiché appare all’inizio di un capitolo, il fenomeno assume la funzione di una titolazione interna (si noti che il capitolo precedente termina con una conclusione formularmente marcata Concludo adunque ... che). Un notevole rilievo ha la frequente causale prolettica introdotta da perché (più raramente da poiché); a questa dispositio corrisponde un forte intento illocutivo, che fa precedere l’“argomento” alla “tesi”: «li quali [scil. modi] perché variano secondo el subietto, non se ne può dare certa regola» (Pri ix, 17); «E perché io sono venuto con questi essempli in Italia, la quale è stata governata molti anni dalle arme mercennarie, le voglio discorrere» (Pri xii, 27). 32 La disposizione gerarchica delle unità informative e delle strutture sintattiche compone la fisionomia di una prosa, mossa da un dinamismo interno, che si oppone alle tradizionali configurazioni dei periodi e delle sequenze testuali (arricchimento della periferia sinistra mediante gerundiali e determinazioni varie). In eπetti, nel Principe le gerundiali, per lo più di valore temporale o causale, sono situate preferibilmente al centro del periodo: «È ben vero che, acquistandosi poi la seconda volta, e’ paesi rebellati si perdono con più dificultà» (Pri iii, 5), «E scrisse a Giovanni Fogliani come, sendo stato più anni fuora di casa, voleva venire e vedere lui e la sua città» (Pri viii, 16). Soprattutto quando è collocata, con forte rilievo, nella periferia sinistra della frase, la participiale assoluta rappresenta un costrutto latineggiante (che rende una brevitas compositiva,  



31   Cfr. M. Palermo (1990), rec. a D’Achille, in “SLI” (1990: 282). Gli ess. sono da A. Castellani, La prosa italiana delle origini. i. Testi toscani di carattere pratico, Bologna, Pàtron, 1982, p. 210, rr. 7-8 e 15; p. 62, rr. 1-2. 32   Manca una classificazione dei tipi e delle forme dell’illocuzione nell’it. dei secoli scorsi; per l’it. di oggi un’utile guida è M. Sbisà, “Illocutivi, tipi”, in EncItaliano, i (2010: 625-627).

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contrapposta alla lunghezza delle avverbiali di modo finito) e presenta un aspetto risultativo conseguente a un cambiamento di stato e, al tempo stesso, il presupposto dell’evento o dell’azione che seguono; alle participiali fanno concorrenza gli avverbi frasali posti in capo al periodo e i robusti inquadratori iniziali. Quarant’anni fa in un saggio dedicato alla sintassi di Machiavelli Giulio Herczeg contrapponeva alla «semplicità dello stile dei dispacci scritti durante le Legazioni», la «maggiore complessità connettiva» del Principe, dei Discorsi (e in parte anche delle Istorie fiorentine), opere nelle quali «si constata il numero aumentato delle subordinate di ogni genere e la possibilità delle subordinate a catena» (Herczeg 1972: 222-223). In realtà, non tutti i dispacci appaiono lineari e semplici nella forma, che si rivela certamente meno curata rispetto alle prose d’impegno letterario, ma non esclude periodi estesi e variamente stratificati. 33 Si deve riconoscere che spesso il diverso grado di complessità dipende da una diπerenza che riguarda, non tanto il genere, quanto piuttosto la situazione enunciativa. Nell’anomalo cap. xix, De contemptu et odio fugiendo, sono esposte le vicende di ben dieci imperatori romani (da Marco Aurelio a Massimino il Trace); il lungo excursus si presenta come un seguito di quadri narrativi, che comportano una deviazione sia dal tema annunciato nel titolo sia dal fondamentale carattere argomentativo del Principe. La discontinuità testuale e stilistica di questo intermezzo dipenderà dalla sua origine: si tratta di un’“appendice” ricavata probabilmente dalla traduzione della Storia di Erodiano, eseguita da Angelo Poliziano e apparsa in stampa nel 1494 e nel 1517. 34 Se è vero che: «Il racconto, nel Principe, presuppone una sottrazione ragionata di eventi da un intuibile fondo cronistico, fino all’isolamento della struttura fattuale minima indispensabile a sorreggere l’intelaiatura di pensieri, ipotesi, scelte del protagonista e degli altri autori» (Inglese 1992a: 931), è altrettanto vero che questa ricerca di essenzialità fattuale ha i suoi eπetti sulla forma dei periodi e sulla sintassi; si manifesta infatti in un incremento della segmentazione frasale e del polisindeto. L’atteggiamento mentale del nostro autore è opposto a quello, vigente ai giorni nostri, che considera la storia una narrazione e sostiene la tesi secondo la quale l’opera storiografica si distinguerebbe dalla fiction per il fatto di possedere tratti specificamente argomentativi. Tra i due percorsi della ricerca storica, individuati alla fine del xix secolo, la untersuchende Darstellung e la erzählende Darstellung (Topolski 1997: 19-20), Machiavelli preferisce il primo; all’io che racconta egli antepone l’io che ricerca. Nel trattato si alternano sequenze testuali e interi capitoli strutturalmente e stilisticamente alquanto diversi tra loro: certo rientra nelle tradizioni discorsive del tempo il caricare la dedicatoria di un ornato retorico più ricco – che in Machiavelli appare comunque misurato, se messo a confronto con le consuetudini degli scrittori contemporanei –, un ornato che crea uno stacco rispetto al tono generale dell’opera. In vari capitoli la polemica si accende e spinge all’azione; di conseguenza risaltano brani accentuatamente illocutivi; il culmine è raggiunto dalla perorazione finale, infiammata dai versi di Petrarca. Analizzando la sintassi e lo stile di un testo è necessario evitare alcune facili analogie tra contenuti e forme, intenzioni dell’autore e scelte linguistiche. Rilevando l’uso frequente della congiunzione subordinante perché e il ricorrere, quasi a ogni pagina, di periodi confrontati tra loro e contrapposti dilemmaticamente, B. Guillemain concludeva:  



33  Nella Commissione al campo contro Pisa (7-3-1509) risalta un periodo di ben 12 righi: cfr. Machiavelli 34 (ed. Vivanti, ii: 1174).   Cfr. Bausi (2001: xxviii).

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la prosa del cinquecento Machiavel est pleinement conscient de ses moyens et il en fait un usage cohérent. L’homogénéité entre la société et la langue fonde la réalité et l’empiricité de la syntaxe [...]. La langue originale qu’il s’est forgée, s’adapte merveilleusement dans ses vues à la réalisation de son dessein. Il ne vise pas à un dessein désintéressé de la politique passée mais à exprimer une vérité pragmatique à l’usage de Florence [...]. Cependant le latin reste la langue des chancelleries, son milieu professionnel immédiat. La solution consistait à imprégner le pur florentin des usages de la chancellerie. On ne saurait rencontrer plus de rigueur logique ni plus de bonheur (Guillemain 1977: 250).

Vero è che lo studioso prende in esame soltanto alcuni aspetti di una prosa altrimenti varia; anche la menzione del latino delle cancellerie, considerato quasi come l’unico latino tenuto presente dal nostro, non corrisponde alla realtà dei fatti: accanto a questa varietà usuale e consunta, c’è il latino dei classici, sovente ripreso nelle citazioni dirette, sovente riecheggiato e assunto come modello nello strutturare i periodi e nel disporne i componenti. Considerando tale varietà di forme e d’ispirazioni, sembra opportuno avviare l’analisi sintattica del Principe partendo dalla testualità, più precisamente, distinguendo i vari modi di far progredire un tema, di condurre un’argomentazione, di rappresentare una scena o un quadro. In eπetti, la progressione è, fondamentalmente, di tre specie: “a tema costante”, “a tema lineare”, “con ipertema”. La progressione “a tema costante” fissa l’attenzione sul referente di spicco: in genere, si tratta del personaggio principale, che ritorna in un seguito di frasi contigue oppure viene riattivato a distanza, dopo pause che permettono di osservare brevemente il secondo piano dell’esposizione. Nel cap. vii, dopo aver trattato in generale sull’acquisto del principato conseguentemente a circostanze fortunate, il discorso si soπerma sul Valentino, le cui azioni sono rese – pur dopo alcuni passaggi argomentativi – con una serie di predicati: «assaltò Bologna [...] assaltò la Toscana [...] indebolì le parti Orsine e Colonnese [...] se li guadagnò [...] aspettò le occasioni [...] si volse alli inganni [...] cominciò a gustare [...] iudicò fussi necessario [...] vi prepose messer Remirro de Orco [...]. Dipoi iudicò [...] lo fece una mattina mettere a Cesena in dua pezzi in sulla piazza». La progressione tematica “a tema lineare”, che favorisce ugualmente l’esposizione ordinata di eventi, passando da frase a frase, da segmento frasale a segmento frasale, appare adatta agli svolgimenti narrativi: si vedano, per es., le vicende storiche riguardanti i dieci imperatori di Roma (ai quali si è già fatto cenno). Infine, corrisponde al carattere argomentativo dell’opera la progressione tematica “con ipertema”, la quale assicura ai periodi e alle sequenze testuali una coerenza “visibile”, mediante anafore, raccordi e riprese variamente distribuite (catena anaforica); ciò accade tra l’altro nei capp. xii-xiv, dedicati alle milizie e, in particolare, alle milizie mercenarie; inoltre, è da vedere il cap. xx, dove, a voler dimostrare l’inutilità delle fortezze, si confrontano tra loro alcuni esempi storici e si espongono varie riflessioni: [...] alcuni hanno edificato fortezze, alcuni le hanno ruinate e destrutte [...]. È suta consuetudine de’ principi [...] edificare fortezze [...]. Sono dunque le fortezze utili o no secondo e’ tempi [...] quel principe che ha più paura de’ populi che de’ forestieri debbe fare le fortezze [...]. Però la migliore fortezza che sia è non essere odiato dal populo [...]. Considerato adunque tutte queste cose, io lauderò chi farà le fortezze e chi non le farà, e biasimerò qualunque, fidandosi delle fortezze, stimerà poco essere odiato da’ populi.

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Un denominatore comune di vari fenomeni sintattici s’individua in uno “stile additivo”, consistente nel prolungare il periodo, allacciando tra loro, mediante riprese lessicali e mediante analogie (alle quali si accompagna la ripetizione di strutture sintattiche simili), più proposizioni, anche diverse per forme e funzioni. La coerenza semantica è, in ogni caso, mantenuta; manca tuttavia una regia sintattica che preveda una disposizione dei componenti e imponga pause al discorso. Poiché ciascun segmento si collega soltanto a quanto precede immediatamente, il confine frasale s’indebolisce: E debbasi considerare come non è cosa più dificile a trattare, né più dubbia a riuscire, né più pericolosa a maneggiare, che farsi capo a introdurre nuovi ordini, perché lo introduttore ha per nimico tutti quelli che delli ordini vecchi fanno bene, e ha tepidi defensori tutti quelli che delli ordini nuovi farebbano bene; la quale tepidezza nasce parte per paura delli avversarii, che hanno le leggi dal canto loro, parte dalla incredulità delli òmini, li quali non credano in verità le cose nuove se non ne veggono nata una ferma esperienzia (Pri vi, 17).

Come appare, il collegamento tra le frasi è attuato mediante la ripetizione di un vocabolo-chiave: nuovi ordini ... ordini vecchi ... ordini nuovi, o di elementi grammaticali: tutti quelli ... tutti quelli, parte per paura ... parte dalla incredulità, e mediante la ripresa parziale: introdurre ... introduttori, tepidi ... tepidezza; 35 vi compaiono anche tre relative e la coniunctio relativa, nonché la causale introdotta da perché, strumenti di un discorso prolungato e dall’andamento piano, privo, per così dire, di scosse, in linea con l’avvio segnato da un enclitica verbale di tipo tradizionale. Con questo procedere lento e debolmente scandito contrasta il dinamismo di altri passi, eπetto determinato anche dalla concisione e dalla breviloquenza, laddove appaiono frasi tagliate con nettezza e aπermazioni perentorie di un enunciatore che pretende una presa di posizione decisa da parte dell’allocutario. In questi casi la presenza di segnali discorsivi e di modi d’intensificazione rende più saldo l’ancoraggio enunciativo. Nell’insieme appare una mescidanza di tipi testuali diversi ed è questa un’autorevole conferma del fatto che non esistono testi puri, da attribuire a un’unica e determinata tipologia. La caratterizzazione globale di un testo risulta da un eπetto di dominante (che è possibile evidenziare con un riassunto ben condotto) e dipende sia dal maggior numero di sequenze di un tipo determinato, sia dalle modalità del loro inquadramento e sviluppo. I testi che presentano un alto grado di omogeneità sono piuttosto rari; prevalgono in assoluto i testi misti. 36 Nel Principe la presenza del locutore si manifesta con insistenza negli interventi che dispongono la materia secondo un disegno e una finalità determinati:  



«E perché questa parte è degna di notizia e da essere imitata da altri, non la voglio lasciare indrieto» (Pri vii, 23), «Ma torniamo donde noi partimo. Dico che [...]» (Pri vii, 29), «Raccolte io adunque tutte le azioni del duca, non saprei repreenderlo, anzi mi pare, come ho fatto, di preporlo imitabile» (Pri vii, 42), «E per chiarire meglio questa parte, dico che [...]» (ix, 10), «Concluderò solo che [...]» (Pri ix, 18), «mi resta ora a discorrere generalmente le oπese e difese» (Pri 35

  Per lo studio della ripetizione di parole in testi letterari di varie lingue v. Frédéric (1985: 63-80).   Tenendo cioè conto di tutte le sue componenti, un testo può essere definito più o meno narrativo, argomentativo, esplicativo, descrittivo, dialogico ecc. (Adam 2111: 266-267). Sui criteri di classificazione dei testi v. Palermo (2013: 237-245); cfr. anche L. Lala, “Tipi di testo”, in EncItaliano, ii (2011: 14901496); meno utili ai nostri fini Lo Cascio (2009) e L. Cignetti “Testi argomentativi”, in EncItaliano, ii (2011: 1468- 1471), i quali prendono in esame quasi esclusivamente passi tratti dalla stampa odierna. 36

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la prosa del cinquecento xii, 1), «io lascerò indrieto el ragionare delle legge e parlerò delle arme» (Pri xii, 2), «E se si responde che [...], replicherei come [...]» (Pri xii, 11).

Il richiamo a un allocutario appare raramente («Avete dunque a intendere come [...]», Pri xii, 28); per essere unica, la perorazione finale acquista una maggiore forza: «Né ci si vede al presente in quale lei [scil. l’Italia] possa più sperare che nella illustre Casa vostra» (Pri xxvi, 8). 37 L’adtestatio rei visae raπorza la voce del locutore, il quale tuttavia raramente tematizza l’atto del vedere quanto è narrato: «Ne’ nostri tempi noi non abbiamo veduto fare gran cose se non a quelli che sono stati tenuti miseri, li altri essere spenti» (Pri xvi, 7). 38 Piuttosto frequente è la presenza di rinvii anaforici intratestuali, che si presentano come brevi formule: «perché, come di sopra si disse, chi non fa e’ fondamenti prima, li potrebbe con una gran virtù fare poi» (Pri vii, 8), «come io dissi di sopra delle febbre etiche» (Pri xiii, 23), «E qui è da notare che uno principe debbe avvertire di non fare mai compagnia con uno più potente di sé per oπendere altri, se non quando la necessità lo stringe, come di sopra si dice» (Pri xxi, 21). Il Discorso riferito è per lo più di breve estensione: «e lui [scil. il Valentino] mi disse, ne’ dì che fu creato Iulio secondo, che aveva pensato a ciò che potessi nascere morendo el padre e a tutto aveva trovato remedio» (Pri vii, 41), «volendolo alcuno in Senato escusare, [scil. Scipione] disse come elli erano molti òmini che sapevano meglio non errare che correggere li errori di altri» (Pri xvii, 21), «Pre’ Luca, omo di Massimiliano, presente imperadore, parlando di sua Maestà, disse come non si consigliava con persona e non faceva mai di alcuna cosa a suo modo» (Pri xxiii, 10), «E se, come io dissi, era necessario, volendo vedere la virtù di Moisè, che il populo d’Isdrael fussi stiavo in Egitto» (Pri xxvi, 2]. Si notino i modi di accennare alla fonte della notizia (evidenzialità); mancano tuttavia formule del tipo come dice X, secondo X. Ecco come vengono presentati (con elementi introduttori e di collegamento) un proverbio italiano: «E non sia alcuno che repugni a questa mia opinione con quello proverbio trito, che chi fonda in sul populo, fonda in sul fango» (Pri ix, 20) e un detto latino: «e fu sempre opinione e sentenzia delli òmini savi “quod nihil sit tam infirmum aut instabile quam fama potentiae non sua vi nixa”» (Pri xiii, 26: Tac. Ann. xiii, 19, 1). A un’obiezione presentata con il Discorso diretto, si risponde con il Discorso indiretto: «[...] e chi replicassi: “se il populo arà le sua possessioni fuora e veggale ardere, non ci arà pazienzia e il lungo assedio e la carità propria li farà sdimenticare el principe”, respondo che uno principe prudente e animoso supererà sempre tutte quelle dificultà» (Pri x, 11). Lo scambio di battute teatralizza l’argomentare tanto che un discorso, anche breve, costruisce una scena:  



[Filopomene] spesso si fermava e ragionava con quelli: “Se li inimici fussino in su quel colle e noi ci trovassimo qui co’ nostri cavagli, chi di noi arebbe vantaggio? Come si potrebbe ire securamente a trovarli servando li ordini? Se noi volessimo ritirarci, come aremo a fare? Se loro si ritirassino, come aremo a seguirli?” (Pri xiv, 11). 37   Sui caratteri del patriottismo cinquecentesco v. Dionisotti (1973); a proposito di Pri vi e xxvi, Rinaldi (1993: 1363) parla di tono biblico e savonaroliano. La modalizzazione dell’enunciato è illustrata da Nølke (2005) 38   Nel trattato appare il primato testimoniale della vista; altri esempi mostrano un uso cognitivo del verbo vedere: «come s’è visto che ha fatto la Brettagna, la Borgogna, la Guascogna e la Normandia, che tanto tempo sono state con Francia» (Pri iii, 9, p. 74), «e per esperienzia s’è visto che la grandezza in Italia di quella [scil. la Chiesa] e di Spagna è stata causata da Francia» (Pri iii, 40, p. 98), «papa Iulio, il quale, avendo visto nella impresa di Ferrara la trista pruova delle sua arme mercennarie, si volse alle aussiliarie» (Pri xiii, 1, p. 197).

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Una proposizione che si realizza nell’enunciazione è, da un punto di vista referenziale (dictum), una rappresentazione di azioni o di stati e, dal punto di vista dell’illocuzione (modus), un atto di discorso di tipo direttivo (dire di) o semplicemente dichiarativo (dire che). 39 Nei testi che spingono all’azione abbondano i predicati; si possono rappresentare azioni future e attualizzarle mediante i modi e i tempi verbali: incitamenti, perorazioni, disegni di azioni future si susseguono e compongono “sottoinsiemi azionali”, nei quali si ritrovano imperativi deontici, formule esortative, invocazioni, esclamazioni ecc. La forza illocutiva oscilla tra la raccomandazione e l’ingiunzione. Il discorso è guidato dagli indicatori di portata (quanto a), dai connettori argomentativi e dagli organizzatori temporali (quando, mentre che, subito che, onde). Spesso intervengono strutture binarie, riprese e segnali discorsivi che svolgono un’azione di rinforzo:  

«[...] non sanno e non possono tenere quel grado [...]. Io voglio [...] addurre dua essempli [...], nonostante che per lui si usassi ogni opera e si facessi tutte quelle cose che per uno prudente e virtuoso uomo si doveva fare» (Pri vii); «[...] el rimanente dovete fare voi [...], quello che si può sperare facci la illustre Casa vostra [...], è necessario [...] provedersi d’arme proprie [...]. È necessario, pertanto prepararsi a queste armi [...]. Puossi adunque [...] ordinarne una [fanteria] di nuovo [...]. Non si debba adunque lasciare passare questa occasione» (Pri xxvi).

Il movimento argomentativo procede con speditezza, valendosi di schemi dilemmatici e di riprese verbali. Abbiamo già accennato alla varietà dei procedimenti che impongono un soggetto che enuncia, che s’impegna nel commentare e valutare eventi e personaggi. Ricordiamo tra l’altro i modi introduttivi e conclusivi (dico adunque che, calco del lat. dico igitur quod, dico pertanto che, concludo pertanto che, consideri ora uno che, è da notare che), l’uso del verbo dovere con modalità epistemica: «[...] e tutti li altri rimangono da un canto inoπesi, e per questo doverebbono quietarsi» (Pri iii, 16), «La qual cosa doverrei durare poca fatica a persuadere» (Pri xii, 8). Alcuni di questi modi discorsivi presuppongono quel contratto di verità che in casi simili si stabilisce tra i co-enunciatori e che rivela, per molti indizi, come colui che produce il discorso sia consapevole di rivolgersi a un cerchia di sodali e di sostenitori. 2. 4. Della sintassi La sintassi del periodo del Principe si svolge su più piani: non ha carattere isotattico, ma anisotattico. 40 È un terreno che deve essere esplorato con accorgimenti particolari. Non giovano all’analisi i giudizi negativi espressi da alcuni studiosi sul disordine e sull’irrazionalità non soltanto grammaticale, ma anche logico-formale, che aπiora in alcune pagine dell’opera; 41 come per i Discorsi, si è parlato tout court di veri e propri errori e si sono proposti razionali (o piuttosto, ragionevoli) restauri. 42  





39   Cfr. Adam (2011: 244) e ivi: 262: «la suite des actions constitutives des macro-actions est découpée en chaînes d’actes, grâce à la connaissance du monde et des scripts du domaine de référence». 40   Con questo tecnicismo della chimica, Tesi (2009: 34) «intend[e] la particolare disposizione su uno stesso piano sintattico dei componenti di un periodo anche pluriproposizionale, come quello leopardiano, in pratica, la tendenza alla linearità in condizioni di marcata ipotassi». 41  Martelli (2006: 85); per le LCSG v. Chiappelli, 1969: 16-17). Alcuni editori moderni hanno provato a “razionalizzare” passi dei trattati di Machiavelli (v. Martelli, in Machiavelli, Il Principe, p. 256; Bausi, in Machiavelli, Discorsi, t. ii, pp. 920-927): sono soluzioni non accettabili, da sostituire con altre spiegazioni. A tale proposito si vedano i saggi raccolti in Givón (1983) sulla continuità del topics. 42   Cfr. Salviati (1809, vol. ii, p. 247); la citazione in Chiappelli (1952: 52).

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Commentando un lungo periodo, che appare in Principe iii, 26-27, Martelli (2006: 85) osserva: «Si verifica anche in questo passo quella sorta di marasma logicoformale, che ripetutamente connota le LCSG». 43 In questi ultimi testi Chiappelli aveva del pari rilevato irregolarità varie: «casi di aggiunta e in ispecie di inserimento di clausole integrative», passaggi dall’una all’altra costruzione. Anche se opinabili, tali osservazioni hanno certamente un merito: a diπerenza di certe lodi convenzionali dello stile dell’autore, costringono ad andare al fondo dei problemi, orientando diversamente l’analisi, in alcuni casi, ra√nandola. Alla fine del Cinquecento, Lionardo Salviati, per spiegare «la chiarezza, l’e√cacia e la brevità» della scrittura di Machiavelli si rifaceva ai modelli di Cesare e di Tacito: l’origine di uno stile particolarissimo era rinvenuta – secondo una prospettiva tipicamente rinascimentale – nell’imitazione dei classici. 44 Questa tesi, se presa assolutamente, non giova alla comprensione della scrittura del nostro autore. È necessario andare oltre lo studio dello stile, aπrontando in modo nuovo una serie di problemi che già in passato avevano fatto parlare, a proposito di testi di prosa media, di “sintassi mista”, caratterizzata da cambi di costruzioni, periodi sospesi, incongruenze logicoformali (Folena 1953: 381). A ben vedere, i malintesi derivano dal voler confrontare le scelte formali di Machiavelli, e in particolare la sua sintassi, ricca di movenze colloquiali e di dinamismi interni, con le regole grammaticali, le strutture e la testualità della lingua moderna. Negli ultimi decenni vari studiosi si sono resi conto che la sintassi delle frasi e delle proposizioni, fondata sulle categorie grammaticali e sulle loro funzioni, non è in grado di descrivere e analizzare quegli elementi e quelle configurazioni della lingua parlata che passano, adattandosi al nuovo ambiente, nelle scritture. Un tempo, per spiegare alcune deviazioni, che si riscontrano nella prosa letteraria del passato, si ricorreva alla nozione di “sintassi aπettiva”, opposta alla “sintassi razionale”, che è (era) propria della norma della scuola. In seguito questa prospettiva, che pure ha favorito alcune buone analisi, è stata sostituita da una considerazione delle forme in cui si manifesta un’oralità riflessa e stilizzata. Giova qui richiamare all’attenzione l’utilità di ricorrere, nell’analisi dei testi devianti, alla “grammatica del senso” o “grammatica dell’enunciazione”, nella quale la lingua viene descritta dal punto di vista delle intenzioni comunicative: vale a dire, partendo dal senso per arrivare ai mezzi (alle forme) che permettono di esprimerle. 45 Il punto di avvio di queste analisi è dato non dalle categorie grammaticali, bensì dalle operazioni concettuali compiute dal soggetto parlante, nei percorsi della comunicazione. Di conseguenza le categorie formali si condensano intorno alle intenzioni comunicative: per es., gli avverbi di quantità, gli aggettivi indefiniti, i determinanti al plurale (come il partitivo) e varie espressioni di significato analogo confluiranno nella categoria della quantificazione, mentre gli aggettivi qualificativi, alcuni complementi del nome, alcuni avverbi, alcuni tipi di proposizioni relative, di participiali e di gerundiali saranno raggruppati nella categoria della qualificazione. 46  







43   LCSG = Legazioni, commissarie, scritti di governo (ed. Chiappelli); si noti che questi scritti, per quanto riguarda la sintassi e la testualità, non si pongono tutti sullo stesso piano. 44   Degli innumerevoli scritti che trattano di questo argomento ricordiamo: G. C. Delminio, Della imitazione (ca. 1530), in Trattati poetica, i (1970: 159-185); G. B. Giraldi Cinzio, Super imitatione epistola e C. Calcagnini, Super imitatione commentatio (1532), ivi: 197-220. 45   La “presenza implicita dell’altro” nel discorso, è contemplata nella teoria del dialogismo di Bachtin: v. Pop (2000: 121). Sulla grammatica del senso si è soπermato P. Charaudeau. 46   Riprendo Longhi (2013). Sulle participiali e gerundiali v. Valente (2013).

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L’attenzione si concentra sugli “eπetti” del discorso; si constata come le forme producano eπetti di senso particolari, quando siano impiegate in un contesto e in una situazione determinati. L’esprimersi sarà allora, non tanto una questione di espressioni corrette e ben formulate, quanto di strategie, aggiustamenti, adeguamenti, autocorrezioni. Appare così raπorzata l’ipotesi di una correlazione tra discorsività e materialità linguistica e ciò certamente favorisce l’analisi di scritture non canoniche come il Principe, opera in cui la componente demotica e quella latineggiante limitano lo spazio delle frasi sintatticamente “regolari”, “normali”. Lo studio delle eterogeneità discorsive presenti nei testi antichi potrà giovarsi di esperienze maturate nell’analisi del parlato contemporaneo, inteso come concezione, configurazione formale dell’espressione nei suoi vari aspetti, id est: coerenza testuale, pianificazione sintattica, segmentazione della frase. Nella prospettiva concezionale il rapporto tra parlato e scritto è visto come un continuum, dove appaiono la struttura dell’informazione, le istanze pragmatiche che muovono il discorso, le variazioni dei modi dell’enunciazione, i rapporti tra nucleo frasale e periferie. In breve, ci sembra d’intravedere le linee portanti di una ricerca concernente il tipo di eterogeneità discorsiva e sintattica presente nel Principe. Un ampio settore della prosa letteraria cinquecentesca conserva quei conflitti di strutture sintattiche (fenomeni di téléscopage) che caratterizzano la prosa media dei primi secoli. La rottura di un regolare svolgimento della frase indica un passaggio di costruzione e talvolta anche il trasferimento dall’uno all’altro livello referenziale. Sono mutamenti che si producono non in modo lineare e in un unico piano sintattico, ma in uno spazio discorsivo plurimo dove la voce dell’enunciatore s’inserisce emotivamente nell’argomentazione e nella narrazione; pertanto ne risultano talvolta conflitti di riferimenti, salti logici, peripezie analogiche. Non descrivibili nell’ambito di una grammaticalità tradizionale, tali fenomeni, che dipendono talvolta da un senso implicito e che richiedono al lettore di partecipare alla ricostruzione del discorso, si possono analizzare con il ricorso a modelli multidimensionali, adatti allo studio di configurazioni non lineari e non gerarchiche, e con l’intervento di mediazioni epistemiche, ferma restando l’esigenza di accertare se sia possibile identificare tratti strettamente pertinenti a una data forma. 47 È il momento di esporre una serie di “irregolarità” sintattiche presenti nel Principe. Cerchiamo di ordinarle secondo una scala di distanza crescente rispetto a una regolarità logico-formale, che ha il suo riferimento nell’italiano insegnato oggi nella scuola. Si va da anomalie riguardanti singole frasi ad anomalie che, coinvolgendo insiemi di frasi e periodi estesi, portano talvolta al collasso della struttura sintattica. Esamineremo nell’ordine i seguenti fenomeni: la concordanza a senso, il pleonasmo, l’ellissi e la brachilogia, il tema sospeso, il cambiamento di costruzione, la sovrapposizione di due costrutti. Lungo il corso dell’analisi dovremo confrontarci con un carattere che ricorre nell’intera opera. Infatti, la scrittura del Principe è sottesa tra i due poli della segmentazione frasale e della complessità dei periodi. Della concordanza a senso, si ritrovano i due tipi consueti: il verbo al singolare precede due soggetti («e solo si oppose alli sua disegni la brevità della vita di Alessandro e la malattia sua» Pri vii, 42); a un soggetto singolare (nome collettivo)  

47   Cfr. Pop (2000: 116-120). In un diverso quadro teorico, Bozzola (2004: 87-90), contrappone le strutture sintattiche progressive del Principe alle strutture concentriche degli Asolani. Su alcuni caratteri della progressione tematica presenti nella trattatistica del xvi sec., vedi 9. 2.

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si riferisce un verbo al plurale: «tutta la sua provincia non è alcuno che riconosca per superiore se non lui; e, se obediscano alcuno altro, lo fanno come ministro» (Pri iv, 4). Rivelano una tendenza “iperconnettiva” i frequenti, e variamente realizzati, pleonasmi; ecco, per es., l’anticipazione del complemento, dislocato a destra, mediante il pronome: «sempre ne furono e’ Romani incerti di quella possessione» (Pri iv, 19). I vari modi in cui si presenta l’ellissi riprendono modi del parlato e producono brachilogie e incoerenze strutturali: Ma nel principato nuovo consistono le dificultà. E prima, se non è tutto nuovo, ma come membro, che si può chiamare tutto insieme quasi misto, le variazioni sua nascono in prima da una naturale dificultà, la quale è in tutti e’ principati nuovi. Le quali sono che li òmini mutano volentieri signore, credendo migliorare; e questa credenza li fa pigliare l’arme contro a quello; di che s’ingannono, perché veggano poi per esperienzia avere peggiorato (Pri iii, 2).

«Una prosa decisamente informe e scardinata»: questo è il giudizio di Martelli (2006: 366), che aggiunge, in nota, altri commenti del tutto negativi. 48 Per comprenderne il significato, va detto che il passo in questione rinvia a un referente esterno, situato nel cap. I (l’avvio con il ma è certamente significativo); al soggetto grammaticale subentra un soggetto logico, che non è presente nel passo in questione; questa prolungata continuità discorsiva è una caratteristica fondamentale della scrittura del Principe. L’imprevedibile cambio di soggetto appare vistosamente in: «Non mancò pertanto Giovanni di alcuno o√zio debito verso el nipote; e fattolo ricevere da’ firmiani onoratamente, [scil. il nipote] si alloggiò nelle case sue» (Pri viii, 17, p. 157). Dati i caratteri di un’enunciazione di cui abbiamo cercato di enucleare i fenomeni principali, non sorprende la frequenza con cui ricorre il tema sospeso, che fa la sua comparsa assieme a una sensibile frammentazione del tessuto sintattico: «Filopomene, principe delli Achei, intra le altre laude che dalli scrittori li sono date, è che ne’ tempi della pace non pensava mai se non a’ modi della guerra» (Pri xiv, 11). Il non raro cambiamento di costruzione consegue a un’enunciazione franta, che assume modi del parlato. Da una frase impersonale si passa a una frase che ha come soggetto il principe (Pri iii, 15); da una classe si passa a un singolo individuo e quindi da un soggetto plurale a un soggetto singolare: «E’ capitani mercennarii o sono òmini escellenti o no [...]; ma se non è virtuoso, ti rovina per lo ordinario» (Pri xii, 10, p. 185); da una subordinata retta da si vede si passa a una principale (Pri xii, 12); da un costrutto diretto a un costrutto con dativo: «e quello principe che va con li esserciti, che si pasce di prede, di sacchi e di taglie, maneggia quel di altri, li è necessaria questa liberalità» (Pri xvi, 16), dove il tema, che ha la funzione di soggetto logico, viene poi ripreso come “paziente”, dativale. 49 Due costrutti si sovrappongono assecondando un progetto enunciativo  



48   A proposito del segmento «che si può chiamare tutto insieme quasi misto», presente in Pri, iii, Martelli (2006: 70), osserva: «l’inciso, in forma di relativa, non è sintatticamente razionalizzabile: dal soggetto grammaticale, che dovrebbe essere il solo membro aggiunto allo stato ereditario, Machiavelli passa a quello, se così si potesse chiamare, “logico”, costituito dalla somma dello stato ereditario e del membro che gli si aggiunge»; a proposito dell’avvio di periodo Le quali sono che li òmini mutano, Martelli respinge i tentativi d’interpretazione avanzati da alcuni critici e conclude: «penso che tutto il secondo periodo sia frutto di un’aggiunta operata all’epoca in cui il capitolo, passando da una redazione, in cui esso era dedicato ai principati indiscriminatamente nuovi, ad un’altra, in cui si restringeva a trattare dei principati non tutti nuovi, subì un ampio e complesso rimaneggiamento». 49  In Pri xiii, 33 (Machiavelli 2006: 197), Martelli nota: «si osserverà il trapasso dai due precedenti gerundi causali, a questa e alle successive proposizioni principali in cui il valore causale si a√da agli imperfetti narrativi».

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che privilegia la semantica rispetto alla sintassi: «[Ferrando de Aragonia] si volse a una pietosa crudeltà cacciando e spogliando el suo regno de’ marrani» (Pri xxi, 5); qui le due gerundiali dovrebbero essere poste su due piani distinti e dovrebbero essere riformulate: ‘cacciando del suo regno e’ marrani’ + ‘spogliando el suo regno de’ marrani’; la sovrapposizione dipende dalla penna veloce dell’autore e dal fatto che i due complementi (diretto e indiretto) designano un unico referente. La presenza della paraipotassi relativa, fenomeno ben noto all’italiano antico (Ghinassi 1971), testimonia il persistere di usi sintattici votati alla semplificazione e allo scorciamento dei periodi; è significativo che il fenomeno ricorra in una delle parti più elaborate del testo, la dedicatoria al principe, brano “pubblico”, perché votato a rendere esplicito il rapporto tra chi scrive e il suo protettore: Desiderando io adunque oπerirmi alla Magnificenzia Vostra con qualche testimone della servitù mia verso di Quella, non trovando intra la mia suppellettile cosa quale io abbia più cara o tanto essistimi quanto la cognizione delle azioni delli òmini grandi, imparata con una lunga esperienzia delle cose moderne e una continua lezione delle antique, le quali [scil. queste cose] avendo io con gran diligenzia lungamente escogitate e essaminate, e ora in uno piccolo volume ridotte, mando alla Vostra Magnificenzia (Pri “Lettera dedicatoria” 2, p. 58).

Alcuni aspetti della “sintassi mista” devono essere menzionati anche a motivo della loro frequenza; ricordiamo innanzi tutto i vari tipi di subordinazione. 50 Da un unico reggente dipendono due subordinate, una introdotta da che, l’altra da come; una completiva con verbo di modo finito è allineata a un’infinitiva. Quest’ultimo costrutto, che esemplifichiamo con: «chi le [la Bretagna, la Borgogna ecc.] acquista, volendole tenere, debbe avere dua respetti: l’uno, che il sangue del loro principe antiquo si spenga; l’altro, di non alterare né loro legge né loro dazi» (Pri iii, 10), ha, come è noto, una notevole diπusione nella prosa trecentesca; può essere visto come un residuo di abitudini scrittorie appartenenti al passato oppure come il tentativo di riprodurre una cadenza latineggiante (l’infinito posto alla fine del periodo è particolarmente adatto a tale scopo). Un altro tipo di subordinazione mista prevede un reggente verbale dal quale dipendono un SN (che può avere funzione cataforica) e una subordinata con verbo finito: «respondo con quello che per me di sotto si dirà circa la fede de’ principi e come ella si debbe conservare» (Pri iii, 46). Infine vanno segnalati alcuni fenomeni trasversali ai generi, presenti sia nei trattati del nostro sia nella Mandragola, nonché in altre prose del primo Cinquecento: è uno “sfondo” sul quale risaltano i tratti stilistici individuali. Ampiamente diπusa in vari settori della lingua scritta del sec. xv, l’ellissi del che relativo è realizzata a seguito di un sostantivo-testa: «secondo l’auttorità vi aveva preso dentro» (Pri iv, 20) o dopo un pronome dimostrativo: «tutti quelli hai oπesi» (Pri iii, 3). Vi corrisponde, a un altro livello sintattico, l’ellissi del che complementatore (vd. infra). I due modi ellittici sembrano avere avuto il loro terreno di sviluppo nella prosa medio-bassa (fra tardo Trecento e i primi decenni del Quattrocento) e di qui essersi diπusi nella prosa alta (Folena 1953: 381-382, Dardano 1992: 351-352). La produzione in versi presenta motivazioni del fenomeno in parte diverse. Tra le sue varie funzioni, il connettore atipico (o subordinante generico) che ha anche quella di precisare una circostanza o di fornire una spiegazione a quanto precede; in particolare, il nesso che fu, si collega a un verbum actionis (riprendo,  

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  Sui caratteri semantici e sintattici (valenza) dei verbi reggenti v. Jezek (2003).

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ampliandolo, un passo che ho già citato): «De’ Viniziani [tema-titolo], 51 se si considerrà e progressi loro, si vedrà quelli [= Viniziani] avere securamente e gloriosamente operato mentre ferono la guerra loro proprii [= con le loro forze], che fu [= e questo fatto avvenne] avanti che si volgessino con le imprese in terra» (Pri xii, 22). Il nesso è che ha invece una funzione presentativa: «E l’ordine delle cose è che, subito che uno forestiere potente entra in una provincia, tutti quelli che sono in essa meno potenti li aderiscano» (Pri iii, 22); ma talvolta funge da connettore che rimedia alla dissoluzione sintattica di periodi privi di una strutturazione coerente. Non si distaccano dall’uso del tempo la varia tipologia e l’alta frequenza dell’infinito preposizionale; esemplifico con il costrutto “a + infinito”, il quale può dipendere da un reggente aggettivale («consueti a vivere» i, 4; «respettivo a assicurarsi» Pri iii, 5; «usi a vivere» Pri iii, 5), sostantivale («gran fortuna e grande industria a tenerli» Pri iii, 11) e verbale (vd. il costrutto “avere + a + infinito” che ha valore deontico o finale); l’infinito preposizionale si ritrova in formule come resta a dire e nell’evidenziazione, mediante un segnacaso, di un’infinitiva soggettiva: «Pertanto è più sapienza a tenersi el nome del misero» (Pri xvi, 20). In conclusione, la vena argomentativa e l’intento dimostrativo influiscono non soltanto sul carattere delle sequenze testuali (generando suddivisioni, dilemmi, parallelismi, riprese), ma anche sulla forma dei periodi.  

2. 5. Confronti Superata la concezione della storiografia umanistica, dove il fine etico si accompagna a modi celebrativi e all’ornatus retorico, il Principe procede sulla via di una scrittura argomentante, storicamente consapevole, esperta dell’agire politico, volta al futuro dell’Italia. Machiavelli non dimentica la lezione della storia, ma muove essenzialmente da esperienze vissute. Lo sguardo è fisso sulla tragedia delle invasioni straniere, accompagnate da guerre e lotte intestine. Nuovo è il messaggio di una possibile riscossa e nuova è la lingua del breve trattato, fondata su forme e istanze pragmatiche fino allora sconosciute. Il confronto che si è svolto con i Discorsi (e che si svilupperà nel capitolo che segue), può essere esteso ad alcuni campioni di prosa, tratti da opere che precedono e seguono la composizione del Principe. Rispetto alla trattatistica del primo Cinquecento, quella del secolo precedente presenta una testualità regolata, esente da mescidanze, e un periodare privo di complessità, quasi a marcare una distanza rispetto all’invadente prosa latina e alla prassi dei volgarizzamenti. Per quali aspetti della sintassi e dello stile il Principe si diπerenza dalla trattatistica precedente? Per svolgere alcuni confronti si sono scelti tre campioni, tratti dalla Vita civile (dopo il 1430) di Matteo Palmieri, dal De iciarchia (1468) di L. B. Alberti e dal Compendio de le istorie del regno di Napoli (1498) di Pandolfo Collenuccio. Due dialoghi e un libro di storia; ma la diversità di genere non si riflette nella sintassi e nello stile. Ogni ammonimento, castigatione o tormento vuole essere sanza iniuria et solo riferita alla conservatione della utilità publica; e vuolsi con buona examina riguardare che la pena non sia magiore che il peccato commesso, et maxime si debbe avere cura che per le medesime cagioni non sieno altri aspramente puniti et altri non pure in iudicio chiamati, in nelle quali cose spesso s’erra nel vivere civile. Onde per proverbio si dice: “Le leggi sono facte per chi poco può”; et più antico detto 51   La dislocazione a sinistra di un costituente con un indicatore di caso è piuttosto diπusa nell’italiano ant. e si ritrova in testi di carattere pratico dei primi decenni del xvi sec.

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fu: “le leggi sono i legami degl’huomini, ma i giganti le spezano” (Palmieri, Vita civile, libro IV: 188).

I periodi di questo brano prescrittivo sono brevi e legati tra loro dalla congiunzione e dalla ripresa verbale vuole ... vuolsi; l’ultimo nesso relativale in nelle quali cose funge da clausola conclusiva; anche il passaggio alla citazione di proverbi avviene mediante semplici raccordi testuali: «Onde per proverbio si dice [...] et più antico detto fu». Invece, l’Alberti, frequentatore dei classici latini e più attento allo stile, costruisce talvolta periodi complessi, inseriti in adeguate architetture testuali, tuttavia l’a√orare di una colloquialità, favorita dalla forma del dialogo, tempera la componente latineggiante favorendo un equilibrio finale nelle scelte sintattiche e lessicali: La natura diede all’omo bisogni pochi e di cose minime, e tali che per satisfarsi non accade troppo richiederne altri che te stessi. Restaci che per adempiere le cupidità e voluttà diventiamo servili, ove ci sarebbe più facile e pronto qui spegnere in noi quello che ci sollecita che ivi ossecundarli altronde. E queste ricchezze tanto desiderate, se bene vi porrete mente, sono per sua condizione né tutte nostre né sempre nostre, anzi in minima parte nostre. Molte ne scemano le perturbazioni de’ tempi: molte ne rapiscano e’ pessimi omini. Quello che se ne adoperi in tutta la vita in tua utilità e necessità sarà pur poco, se già tu non imponessi a te stessi quella servitù in quale alcuni inettissimi si gloriano d’avere a pascere molti oziosi o scorridori e ministri delle loro voluttà e insolenza sua. Del resto, s’tu le tieni inchiuse, elle a te sono come alienate e rebuttate dal fine e condizione loro. Né saranno da reputarle tue, se tu l’arai dedicate ad altrui uso che al tuo nolle adoperando (Alberti, De iciarchia, in Opere volgari, ii: 185-286, 190).

‘La natura ha dato all’uomo pochi bisogni e riguardanti cose poco rilevanti tanto che per essere soddisfatte tu non devi fare altro che richiederle a te stesso’: rispetto a questa (o ad altre possibili) parafrasi il primo periodo è più breve e conciso; tale carattere, proprio dell’intero passo albertiano dipende dai numerosi latinismi: sostantivi e aggettivi “densi”, che evitano giri di parole, superlativi assoluti organici in luogo di forme analitiche, forme verbali come satisfarsi in luogo di ‘essere soddisfatte’ e saranno da reputarle tue, in luogo di ‘devono essere considerate tue’ ecc., sono scelte che riprendono la sinteticità del latino. Il primo periodo è composto da una principale e da una consecutiva tali che, inglobante un’infinitiva con valore finale. Nel seguito l’argomentazione si vale di quattro condizionali, «se bene vi porrete mente ... se già tu non imponessi ... s’tu le tieni inchiuse ... se tu l’arai dedicate», le quali scandiscono un ragionamento svolto con periodi brevi, dove hanno rilievo le infinitive (se ne contano sette), i sintagmi nominali (tra i quali prevalgono gli astratti), le dittologie, le riprese verbali, due comparative e un chiasmo: «s’tu le tieni inchiuse, elle a te sono ... Né saranno da reputarle tue, se tu l’arai dedicate». 52 In breve, siamo lontani dalla sintassi e dallo stile di Boccaccio sia da quelli che saranno i caratteri della prosa rinascimentale. Scritto nel 1498, il Compendio de le istorie del Regno di Napoli di Pandolfo Collenuccio rimase interrotto per la morte dell’autore e fu pubblicato postumo a Venezia nel 1539. La presentazione di varie circostanze, imposta dalla narrazione storica, condiziona lo svolgimento sintattico, come appare in questo breve passo, tratto dal iv libro:  

52  Altri latinismi sono sia lessicali: cupidità, ossecundare, inchiuse, alienate, sia morfosintattici, come l’omissione dell’articolo: in tua utilità e necessità ... quella servitù in quale; cfr. anche il pronome possessivo sua in luogo di loro: per sua condizione e insolenza sua.

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la prosa del cinquecento L’anno sequente 1228 Federico per l’osservanza de la sua promessa, senza altramente farlo intendere a Gregorio, poi che ebbe ordinate le sue cose del regno e le necessarie per l’andata, partendo d’Italia con potente esercito e arrivato in Cipro e di lì in Iudea, in modo condusse le cose con l’autorità e la potenza, che si accordò e fece tregua col soldano, il quale li restituì Ierusalem con tutto il regno ierosolimitano, eccetto alcune poche castelle (Prosatori Quattrocento: 609).

Preceduta da sei tra proposizioni avverbiali e determinanti nominali, 53 la principale condusse le cose è legata a una consecutiva-finale, il cui connettore ha la testa separata e anticipata al verbo in modo condusse... che; la subordinata ha struttura binaria ed è seguita da una relativa, che riferisce sull’eπetto ottenuto dall’azione di Federico. È evidente la sproporzione tra l’estesa periferia sinistra e la seconda parte del periodo. La narrazione asciutta è priva di elementi ritardanti (come le parentetiche) e di artifici nell’ordine delle parole; è assente ogni intento latineggiante. La narrazione storica è realizzata unicamente mediante un’ordinata esposizione dei fatti; manca ogni eleborazione retorica. Passiamo ora a due esempi di prosa della metà del Cinquecento. Tra le opere di Guicciardini soltanto la Storia d’Italia meritava, a giudizio dell’autore, di essere pubblicata e pertanto di essere oggetto di quella cura stilistica che era mancata ad altri suoi scritti. Fin dall’inizio l’opera mostra tratti formali lontani dalla tensione della scrittura machiavelliana:  

Tale era lo stato delle cose, tali erano i fondamenti della tranquillità d’Italia, disposti e contrapesati in modo che non solo di alterazione presente non si temeva ma né si poteva facilmente congetturare da quali consigli o per quali casi o con quali armi s’avesse a muovere tanta quiete. Quando, nel mese di aprile dell’anno mille quattrocento novantadue, sopravenne la morte di Lorenzo de’ Medici; morte acerba a lui per l’età, perché morí non finiti ancora quarantaquattro anni; acerba alla patria, la quale, per la riputazione e prudenza sua e per lo ingegno attissimo a tutte le cose onorate e eccellenti, fioriva maravigliosamente di ricchezze e di tutti quegli beni e ornamenti da’ quali suole essere nelle cose umane la lunga pace accompagnata. Ma e fu morte incomodissima al resto d’Italia, cosí per l’altre operazioni le quali da lui, per la sicurtà comune, continuamente si facevano, come perché era mezzo a moderare e quasi uno freno ne’ dispareri e ne’ sospetti i quali, per diverse cagioni, tra Ferdinando e Lodovico Sforza, príncipi di ambizione e di potenza quasi pari, spesse volte nascevano (Guicciardini, Storia d’Italia, I, ii, p. 10). 54  

Nel primo periodo si traggono le conseguenze di quanto è stato detto nel paragrafo precedente: anche qui ritroviamo allacciata alla reggente una consecutiva in modo che (all’interno della quale vi è la correlazione non solo ... ma); si contano due dittologie e un tricolon finale; per contrasto, si ricordi che nel Principe i raccordi tra parti del testo hanno breve estensione e semplice struttura; talvolta si riducono a formule. La rettificativa che segue «Quando, nel mese d’aprile» segna uno stacco netto, che è replicato nel periodo seguente, dove il commento rapidissimo «Ma e fu morte incomodissima» avvia la riflessione sulle conseguenze di una scomparsa 53   Si susseguono: un sintagma nominale «per l’osservanza de la sua promessa», un’infinitiva introdotta da sanza, una temporale di modo finito, una gerundiale, una participiale, una consecutiva che precede la principale. 54   Si cita da Storia d’Italia, ed. S. Seidel Menchi (1971), dove appare un saggio introduttivo di F. Gilbert; sulla scrittura dell’opera vedi ivi: Storia del testo, pp. cxv-cxxvi, alla p. cxvii. Per l’attenzione riservata da Guicciardini alle regole di Bembo cfr. Trovato (1994: 274-282).

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assai grave per l’Italia. È un tratto tipico dell’argomentare guicciardiniano quel ma ad inizio periodo, quel ma che attribuisce a quanto segue valori pragmatici diversamente graduati. In questo modo si segnala la costante attitudine a esaminare possibili obiezioni o ad aprire nuove prospettive: quindi un ma diverso dal ma, oppositivo e polemico, di Machiavelli. Questa interruzione riflessiva fa da contrappeso ai fitti legami relativali («alla patria, la quale ... quegli beni e ornamenti da’ quali ... operazioni le quali ... sospetti i quali»), che aπollano il passo e che fungono da elementi statici (come avviene con la coniunctio relativa, che ricorre di frequente nell’opera) di una prosa compatta, sostenuta costantemente dalla gravitas. Le incidentali, che danno equilibrio al periodo, svolgono funzioni precise, indicando una causa o una determinazione temporale: «nel mese di aprile ... per la riputazione e prudenza sua ... cosí per l’altre operazioni ... per diverse cagioni». La Storia esibisce una ricca varietà di proposizioni avverbiali. Sono evitate le sfasature e le costruzioni miste, che in Machiavelli corrispondono a particolari istanze pragmatiche. L’equilibrio compositivo è ottenuto con strumenti vari e attentamente selezionati: la struttura ternaria dell’interrogativa indiretta: «... da quali consigli o per quali casi o con quali armi»; le riprese verbali: «... la morte di Lorenzo de’ Medici ... morte acerba ... acerba alla patria ... morte incomodissima»; al peso semantico dell’ultimo sintagma corrisponde una materia lessicale spessa; il verbo posposto al suo complemento («di alterazione presente non si temeva») o collocato alla fine del periodo («operazioni le quali da lui ... continuamente si facevano», «ne’ dispareri e ne’ sospetti i quali, ... spesse volte nascevano»), dove risalta il parallelismo dei verbi in rima e in posizione postavverbiale. 55 Le Vite di Vasari, pubblicate nel 1550 e riedite (con modifiche e integrazioni) nel 1568, rappresentano un testo di riferimento nella storia delle forme della trattatistica cinquecentesca. 56 È il carattere seriale del trattato a imporre uno schema ricorrente, vale a dire, l’avvio del capitolo con una riflessione o con l’enunciazione di un principio. La lunghezza di questo brano introduttivo varia a seconda degli artisti presentati, della loro eccellenza e reputazione, e a seconda delle circostanze. Nel capitolo di Michelangelo (Vite, iii, p. 880) appare una temporale del tipo mentre, che occupa sette righi dell’edizione moderna e precede una principale di nove righi, dove è spiegato il motivo per il quale Dio ha fatto nascere il sommo artista; i due periodi seguenti svolgono lo stesso tema per ben diciassette righi; dopo questo prologo inizia la narrazione: «Nacque adunque in Fiorenza ...». Nel momento in cui Vasari scrive, Michelangelo è nel pieno della sua prodigiosa attività: è una circostanza di cui bisogna tener conto. Diverso è il trattamento riservato ad altri artisti. A introdurre Rosso Fiorentino (ivi, p. 749) bastano sette righi. L’ordine delle componenti che entrano in questi brani introduttivi varia; talvolta è diretto, talvolta è dominato dalla prolessi; si veda un caso di precedenza della subordinata alla reggente:  



55   Come è noto, questo periodare complesso suscitò le riserve di De Sanctis (1954: 113): «La sua chiarezza intellettuale e la sua rapida percezione è in visibile contrasto con quei giri avviluppati e aπannosi del suo periodo. Li diresti quasi artifici diplomatici per inviluppare in quelle pieghe i suoi concetti e le sue intenzioni, se non fosse manifesta la sua franchezza fino al cinismo. Sono artifici puramente letterarii e retorici». Negli ultimi decenni è cresciuta una considerazione favorevole ai periodi lunghi e sintatticamente complessi di Guicciardini; la gerarchizzazione e strutturazione periodale sono state interpretate corrivamente come maturità argomentativa ed eccellenza di elaborazione concettuale. 56   Cito dall’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, 1550: vedi Vasari (1991). Cfr. il cap. 8 di questo volume.

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la prosa del cinquecento Quanto largo e benigno si dimostri talora il cielo collocando, anzi per meglio dire, riponendo et accumulando in una persona sola le infinite ricchezze delle ampie grazie o tesori suoi, e tutti que’ rari doni che fra lungo spazio di tempo suol compartire a molti individui, chiaramente potè vedersi nel non meno eccellente che grazioso Rafael Sanzio da Urbino (ivi, p. 610).

La dittologia ripetuta, le tre gerundiali tra loro collegate, l’anteposizione di chiaramente al verbo sono gli elementi di un ornato retorico, estraneo alla scrittura di Machiavelli, ma ricorrente nelle Vite; nelle quali notiamo anche una progressione tematica che si sviluppa con vari schemi. Vasari non ha la misura degli equilibrati periodi di Castiglione né la compattezza dei robusti organismi cui dà vita Guicciardini (Nencioni 1983: 82); l’artista-scrittore è capace di descrivere e, al tempo stesso, di narrare, ricorrendo a costrutti e a mezzi stilistici adeguati al carattere e al fine della sua opera. 57 Dopo la scabra narrazione di Palmieri, abbiamo visto, esempi di prosa latineggiante (Alberti), di stile semplice (Collenuccio), di uno stile che si può chiamare “rinascimentale” (sul quale ritorneremo in questo volume), declinato in due diverse modalità: l’una celebrativa (Guicciardini), l’altra descrittiva (Vasari). Nel confronto il Principe mostra a pieno la sua singolarità: si tratta di un’opera che, pur recuperando costrutti in voga nella prosa del suo tempo, li compone con elementi nuovi e riesce a volgere questa prodigiosa alleanza in una direzione non ancora sperimentata e aperta a un nuovo rapporto con i lettori.  

57   Mi riferisco in particolare all’uso degli anaforici, delle correlazioni, delle riprese lessicali e degli elementi di marcatura e d’inquadramento.

3. Un’analisi del Principe

3. UN’ANALISI DEL PRINCIPE 3. 1. La posizione di Machiavelli

L

a prosa letteraria del Cinquecento si distingue in tre filoni principali: la linea Boccaccio-Bembo, che, attestata sul modello decameroniano, ripropone una sintassi fondata sul parallelismo e la simmetria, sull’ipotassi e sull’arricchimento di secondarie di varia natura, sulla ricerca dell’eufonia e dell’ordo artificialis; una linea toscana, e in particolar modo fiorentina, che coltiva una scrittura che assume tratti dal parlato e nella quale ricorrono la segmentazione dei periodi, la mescidanza dei costrutti, le riprese e le frasi ellittiche; 1 infine, una linea di prosa che contempera diverse tradizioni di scrittura e che è rappresentata da opere quali il Libro del cortegiano e la Storia d’Italia. I testi in prosa di questo secolo sono stati studiati in rapporto alla cultura e alle idee estetiche del tempo, con richiami alla questione della lingua, alla teoria dell’imitazione, al culto della forma e alle istanze che a tali tendenze si oppongono; da queste ricerche è nata una valutazione delle opere, talvolta diversa rispetto ai risultati raggiunti da studi precedenti. 2 Sono passati quattro secoli dalla prima circolazione del Principe; le due edizioni (Inglese 1995 e Martelli 2006) oπrono nuove prospettive di analisi. 3 La sintassi del breve trattato rappresenta un unicum nella storia della nostra prosa. Bozzola (2004), che ha visto nell’opera quasi il paradigma dell’anticlassicismo, ha esaminato le sue “irregolarità” costruttive, sussumendole nei concetti di “asimmetria” e di “deviazione”, ne ha rintracciato i precedenti, in particolare, nel Decameron (dove il tema sospeso, l’accordo a senso e la discontinuità referenziale sono fenomeni non rari) e ne ha osservato la sopravvivenza in quegli scrittori dei secoli xvi e xvii, che non hanno seguito, quanto alla sintassi e allo stile, l’insegnamento bembiano, fondativo, nella nostra storia linguistica, delle scelte fonologiche e morfologiche, ma modello tra altri modelli, per quanto riguarda la sintassi e lo stile. Machiavelli è lontano dalla circolarità dei periodi di Boccaccio e dagli schemi della prosa scolastica; la sua scrittura ha un’origine composita: vi è l’elemento cancelleresco, il conio latineggiante, la colloquialità fiorentina, ma l’impronta finale è data da uno stile assolutamente originale. La posizione dell’autore è stata definita un «assestamento fra la spinta obbiettiva, tecnica, gnoseologica, e quella aπettiva, artistica, creatrice». 4 Nel Discorso intorno alla nostra lingua si esalta la superiorità  







1   Il modello del fiorentino parlato (per il quale v. Vitale 19782: 72-105) era valutato positivamente anche da chi, come B. Varchi, riconosceva l’eccellenza delle Tre corone: «voglio bene che sappiate che anco nelle maniere nobili, così di prose come di versi, occorrono molte volte alcune cose che hanno bisogno della naturalità fiorentina» (Hercolano, ii: 806). 2   Risale a un saggio del 1953 di C. Segre la tesi dell’“edonismo linguistico”, attribuito ad alcuni prosatori del Cinquecento, e in particolare a B. Cellini (Segre 1963: 355-382); tesi contestata nel 1972 da M. L. Altieri Biagi (1998). Per la prosa machiavelliana v. Chiappelli (1952, 1969); sulle opere di Vasari e di Guicciardini v. Nencioni (1983, 1988). Sulla sintassi della prosa, tra Cinque e Seicento cfr. Bozzola (2004). Finora è mancata un’analisi dettagliata di molti costrutti. 3   Sui problemi filologici sollevati dall’edizione del Principe, v. Martelli, “Nota al testo”, ivi: 323526. Per le note esplicative e il commento ho avuto presente anche l’ed. a cura di G. Inglese (1995); cfr. Inglese (1996). 4   L’aπermazione di Chiappelli (Introd. all’ed. del Principe, a cura di G. Lisio, 1900, reprint 1970) era stata, in una certa misura, anticipata dallo stesso Lisio, il quale parlava di «quello strano intreccio di obiettività e subbiettività» che caratterizza il trattato (ivi, p. xvii). Dalla scrittura cancelleresca

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naturale del fiorentino parlato, contro la scelta arcaizzante di Bembo e contro la teoria cortigiana e antitoscana. Seguendo la corrente del “naturalismo”, si guarda a un ideale di scrittura attenta ai vari registri del fiorentino: colto, colloquiale, popolare. 5 Non è osservata una regolarità grammaticale; di conseguenza si mescolano forme quattrocentesche e cinquecentesche senza evitare doppioni di varia natura. Machiavelli ha rinunciato a una revisione linguistica delle sue opere (fanno eccezione le Istorie fiorentine); tale rinuncia si avverte particolarmente nel Principe, per ragioni legate alle vicende che hanno accompagnato la stesura dell’opera.  

3. 2. Cenni sulla fonomorfologia e sul lessico Per situare il trattato nella corrente della nostra storia linguistica è necessario, prima di aπrontare l’analisi sintattica, ricordare alcuni tratti della fonomorfologia dell’opera; tratti, purtroppo, non originari (come si è accennato, non si possiede un autografo del Principe), ma comunque significativi di uno stato di lingua ben definito. Incontriamo: l’articolo el/il (col plurale e’/gli/li), il plurale analogico dei nomi del tipo le gente, i pronomi e aggettivi possessivi plurali maschili e femminili mia, tua, sua (l’arme sua ‘le sue armi’, bene voluto da’ sua ‘dai suoi’; cfr. il sing. la suo terra x, 6), l’invariabile dua ‘due’, il futuro e il condizionale arò, arei, il tipo -mila (diecimila, dumila ecc.) in luogo di -milia. Sono scelte che riportano al secolo xv (Manni 1979). La polimorfia, che caratterizza la fonetica e la morfologia della prosa cinquecentesca (Ghinassi 2007: 24), si rivela pienamente. Notiamo: stiava ‘schiava’, stietti ‘schietti’ (cfr. stiacciati ‘schiacciati’ in Cellini, Vita I, xxxvi), golpe ‘volpe’, escetto ‘eccetto’, escellente. ‘eccellente’. Si ha l’innovazione gnene ‘gliene’. Colpisce, per la sua notevole varietà, la morfologia verbale, della quale ricordiamo i tratti principali. Indicativo presente, 3ª pers. plur.: i coniug.: acquistonsi (i, 4), costono (iii, 17), salvono (xx, 29), v. Ghinassi (1957: 35), Trolli (1972: 91), ma: si vendicano (iii, 18); ind. pres. di altre coniugazioni: aderiscano (iii, 22), ardiscano (xviii, 17), debbano (xix, 32), defendano (xi, 3), paiano (ix, 4), ma cfr.: consistono (iii, 1), debbono (iii, 18), nascono (iii, 1), si vivono (iii, 9), si veggono (iii, 13). Indicativo imperfetto, 3ª pers. plur.: amavono (xix, 29), chiamavono (xi, 5), possevano (iii, 43), ma potevano (iii, 4); cfr. erono (iii, 36). Futuro, 3ª pers. sing.: considerrà (vii, 9), troverrà (xviii, 11); 3ª pers. plur.: considerrete (xxi, 1), troverrete (xxi, 1). Passato remoto, 3ª pers. sing.: accorse (si ) (iii, 37), cedé (iii, 34), misse (iii, 39), possé ‘poté’ (vii, 34), parse (vi, 10), perdé (iii, 4), stette (vii, 40), succedé (xix, 35), vidde (iii, 21; xiii, 12); 3ª pers. plur: acquistono (vi, 16), diventono (vi, 16), ebbono (xix, 34), entrorono (iii, 21), feciono (iii, 25; vi, 15), missono (iii, 21), posserno ‘poterono’ (iii, 35), valsono (xx, 31), vennono (xix, 17), vollono (iii, 29), ma volsono ‘vollero’ (iii, 32). Congiuntivo presente, 3ª pers. sing.: abbi (ii, 3), bisogni (iii, 2), facci (xviii, 18), spenga (si) (iii, 10); 3ª pers. plur.: appressino (si) (iii, 26), provengono formule e tratti minori di sintassi, dal latino dei classici forme dei periodi e vari costrutti, dalla colloquialità modi di abbreviare la scrittura e alcuni attacchi del discorso. La collocazione del trattato nella tradizione culturale toscana è procurata da Bausi (1998; 2005: 194-225). Anche nel Principe risalta la capacità di adattare forme tradizionali a situazioni e contesti diversi, fenomeno che si riscontra nelle lettere (Ferroni 1996). Nel trattato il realismo politico (Gilbert 1977) si accorda con il “realismo” di una scrittura sempre prossima al carattere degli eventi e alle qualità umane dei personaggi. 5   I sostenitori di questa corrente anticipano le tesi sulla vitalità del parlato; nel complesso le loro idee mostrano una scarsa coerenza, se confrontate con la meditata teoria di Bembo, che poggia su un’attenta analisi grammaticale e stilistica. L’opposizione al Bembo si spiega con il fatto che la sua teoria distruggeva il mito della naturale eccellenza del fiorentino parlato. L’«italiano chiaro in sommo grado e di piacevole lettura» di Galileo è un «elemento comune anche al Principe di Machiavelli, la cui bellissima prosa e conseguente accessibilità a un vasto pubblico di lettori lo fecero apparire agli ortodossi e ai conservatori molto più biasimevole di quanto sarebbe parso se scritto nella forma tradizionale del trattato in latino» (Koenisberger et Al. 2004: 525).

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faccino (vii, 4), naschino (xxiii, 14), procedino (xi, 1), sappino (vii, 4), sieno (iii, 8), soccorrino (xx, 29), venghino (xxiii, 14), vivino (xi, 1). Congiuntivo imperfetto, 3ª pers. sing.: andassi (iii, 11), fussi (iii, 7), intervenissi (iii, 16), volessi (iii, 13); 3ª pers. plur.: consentissino (iii, 25), fussino (iii, 6), mancassino, (vii, 16) permettessino (iii, 25), turbassinno (vii, 13). Condizionale presente, 3ª pers. plur.: arebbono (iii, 44), consentirebbano (vii, 11), doverrebbeno (iii, 11), osserverebbano (xviii, 9); 3ª pers. sing.: farebbe (iii, 11), sarebbe (iii, 11). Gerundio: sendo (iii, 3) e passim, più frequente di essendo (iii, 9) e passim. Infinito: possere (xiii, 14), forma analogica, ma potere (iii, 3). Participio passato: suto (i, 2) e passim, accanto a stato (vi, 5) e passim; forma analogica è possuto (vii, 12, xi, 5), ma potuto (xix, 50); participi accorciati: cerco ‘cercato’ (xix, 48), monstro ‘mostrato’ (xix, 25), v. Trolli (1972: 105-7).

Le alternanze fonomorfologiche riflettono la crisi linguistica, che interessa la lingua letteraria dopo il Boccaccio e che si manifesta con diversa gradualità nei vari autori. Per quanto riguarda il lessico, latinismi e fiorentinismi sono accolti, per così dire, in ugual misura e sempre con un certo controllo della “correttezza” linguistica (vedi il precedente cap. 2, alla p. 39); un discorso a parte richiederebbe la forte originalità presente nella scelta di vocaboli-chiave, di espressioni memorabili e di figure di plastica evidenza. Notiamo intanto alcuni caratteri: i) Esiste una continuità di scelte lessicali tra gli scritti cancellereschi della gioventù e le opere della maturità (Chiappelli 1969: 30-40); ciò vale anche, in una certa misura, per alcuni tratti della micro-sintassi. ii) Non va attribuito un valore stilistico a tratti propri del linguaggio politico e cancelleresco, ripresi corrivamente nel Principe, così come ai latinismi crudi disseminati nel trattato. iii) Quanto alla presenza del latino, occorre distinguerne le diverse stratificazioni: il latino dei classici, il latino umanistico (entrambi sono spesso filtrati da testi intermedi), il latino delle cancellerie (sempre presente nella prassi degli addetti all’amministrazione della cosa pubblica); in eπetti, il latino contribuisce a tecnificare alcuni vocaboli del volgare; dal latino provengono alcune reggenze verbali e l’uso del congiuntivo in luogo del condizionale. 6 iv) L’inserimento di citazioni latine, prive d’introduttori, conferisce pregnanza espressiva ad alcuni passi (v. Pri xiii, 26; xvi, 28; xvii, 5). v) Da notare, anche per il riflesso sulla sintassi della frase, il ricorrere di verbi polirematici. 7 vi) L’uso di verbi deontici, quali debbono, debbe, sono forzati, di necessità conviene che, è necessario che, bisogna che, non rientra in un “vocabolario della necessità”, ma risponde a un’istanza pragmatica sottesa al trattato, con la quale si evidenziano esigenze reali e una prolungata progettualità. vii) Un fattore che distingue il lessico del Principe è il ricorso a traslati e a immagini di grande e√cacia espressiva. 8 Anche grazie a questi fattori nasce un linguaggio politico, adeguato a situazioni e contesti nuovi.  





6   Alcuni tipi di latinismi lessicali sono ricordati alla nota 22 del cap. 2. Sull’uso dei modi v. Scavuzzo (2003: 52). 7   Tra gli ess. più significativi ricordiamo: fare contro (Pri ix, 8), fare grande (xx, 15), fare provvedimenti (xxv, 6), farsi capo (vi, 17), mettere in grembo (vii, 4), ridurre a memoria (xiii, 15), tagliare a pezzi (xiii, 14), tenere a guardia (xix, 53), tenere animato (ix, 22), tenere basso (xi, 8), tenere discosto (iii, 44), tenere in freno (vii, 31), tenere indrieto (xi, 8). 8   Cfr.: «iudicano più agli occhi che alle mani» (xviii, 17), «è sempre necessitato tenere el coltello in mano» (Pri viii, 28), «iudicando essere loro necessario uno freno in bocca che li correggessi» (xix, 21). Sono da ricordare le analogie mediche che, sul modello degli antichi, ricorrono numerose nell’opera di M. Vedi la nota 42 del cap. 2 e la nota 22 del cap. 7.

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la prosa del cinquecento 3. 3. Fenomeni di microsintassi 3. 3. 1. L’articolo

È omesso sovente davanti ai nomi di nazioni e di regioni: «a fare perdere Milano a Francia» (Pri iii, 6), «Ma torniamo a Francia» (Pri iii, 31); cfr.: «era necessario che la Italia si riducessi» (Pri xxvi, 3); più volte ricorrono «la Lombardia» e «la Toscana»; l’articolo è omesso anche davanti a nomi di popoli: «Fiorentini li diventorono amici (Pri iii, 34)», «Viniziani non vi arebbono consentito» (Pri iii, 44), «quelli a chi si aveva più cura erano Papa e Viniziani» (Pri xi, 8: ma qualche rigo dopo s’incontra el Papa); vi sono omissioni estese a tutti i sintagmi nominali di una serie (v. Pri iii, 34). Il fenomeno avviene davanti a quale: «cosa quale io abbia più cara» (Pri i, 2), «Alcuno principe [...], quale non è bene nominare» (Pri xviii, 19); dopo circa ‘per quanto riguarda’: «Ma circa sudditi, quando le cose di fuora non muovino, si ha a temere che non coniurino secretamente» (Pri xix, 9), ma: «circa la fede de’ principi» (iii, 46); sovente davanti al possessivo: «per sua umanità» (Pri I, 3), «quegli che di sua qualità gli avevano invidia» (Pri vi, 25), «accompagnato da cento cavagli di sua amici e servidori» (Pri viii, 16). Di altro genere è l’omissione nel secondo elemento di una coppia di sostantivi: «la crudeltà e avarizia de’ soldati» (Pri xix, 28), «li onori e carichi» (Pri xxii, 7); il fenomeno è particolarmente notevole quando vi è discordanza nel numero: «da la fortuna e forze d’altri» (Pri vii, 37). 9  

3. 3. 2. I pronomi personali I pronomi personali soggetto sono usati di frequente. Nella Dedicatoria (37 righi) io ricorre nove volte ed è, in mancanza di un valore intensivo, una presenza che si accorda al fiorentino del tempo. 10 Risultano privilegiate alcune collocazioni del pronome di 1ª pers.: dopo un gerundio, un oggetto diretto, una congiunzione subordinante. Un tratto che si allontana dalla norma bembiana è l’uso di lui come pronome soggetto: «lui non ha a durare fatica alcuna» (Pri iii, 22); 11 la focalizzazione dell’agente umano risalta all’inizio del periodo: «Lui, nel principio del suo regno, assaltò la Granata» (Pri xxi, 3), dopo una e congiunzione contrastiva: «e lui l’usò meglio (Pri vii, 19), «e lui mi disse» (Pri vii, 41), dopo ancora: «in ponente, dove era Albino, quale, ancora lui, aspirava allo imperio» (Pri xix, 46). I pronomi egli, ella e i rispettivi plurali (tutti usati per lo più nelle forme ridotte e’, la, le, li) sono anaforici che rispondono all’uso del tempo: «Consideri ora uno con quanta poca di√cultà posseva il re tenere in Italia la sua reputazione, se elli avessi osservate le regole» (Pri iii, 36), «Dico adunque che l’arme con le quali uno principe defende el suo stato o le sono proprie o le sono mercennarie» (Pri xii, 4). Egli (e’) presentativo appare di frequente: «e chi diceva come e’ n’erano cagione e’ peccati nostri diceva il vero» (Pri xii, 9), «e’ pare sempre che in quella la virtù militare  



9   Cfr. Bausi, Nota al testo, Discorsi, ii, p. 921, che ricorda «l’omissione della preposizione nel secondo e nel terzo membro di una enumerazione». 10   L’uso pleonastico riguarda anche loro e altri pronomi-aggettivi personali: cfr. Martelli (2006: 274). 11   Cfr. Franceschini (1998: 378): «Nello spoglio dei primi 8 capitoli del Principe, per i pronomi obliqui soggetto si indicano 22 esempi di lui e 1 di loro»; è una frequenza più alta rispetto a quella presente nella Mandragola. Secondo A. Castellani (Nota in SLI xviii, 1, 1992, p. 171), il pronome lui soggetto appare per la prima volta in una lettera della comunità dei Lucchesi del 15 luglio 1379.

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sia spenta». La risalita del clitico ricorre più volte: «per non li potere satisfare» (Pri iii, 3); «non vi essendo disformità di costumi» (Pri iii, 9), «né si fidando di Francia» (Pri vii, 21), «non li potendo né contentare né spegnere» (Pri iv, 15). 3. 3. 3. L’accordo del participio passato Nelle costruzioni assolute il participio passato dei verbi transitivi (l’ausiliare avere è sovente omesso) si accorda con l’oggetto: «Acquistata adunque il duca la Romagna e sbattuti e’ Colonnesi» (Pri vii, 16), «Considerate le dificultà le quali si hanno a tenere uno stato (Pri iv, 1); 12 talvolta non si accorda: «Considerato adunque tutte le cose di sopra discorse» (xvi, 1); non raro è l’abbinamento del participio passato (che esprime un’azione compiuta) e di adunque e onde (segnali conclusivi). Nella frase verbale, di due participi è accordato quello prossimo all’oggetto: «non arebbe fatto né vinte tante imprese» (Pri xvi, 10), «li altri che hanno acquistato o fondati regni» (Pri vi, 9). 13 Sovente a un unico ausiliare si riferiscono due o più participi: «Non gli bastò avere fatto grande la Chiesa e toltisi li amici» (Pri iii, 39); «altri che hanno preso province e volutole tenere» (Pri iii, 47); cfr. Guicciardini, Storie fiorentine (i, xi): «quegli cittadini che avevano esperienzia delle cose della città, e governatola lungo tempo». In Pri iii, 42 alla formula di presentazione «Aveva dunque Luigi fatto questi cinque errori» fanno seguito sei participi passati, cinque transitivi rispondono all’ausiliare, ma il penultimo è un inaccusativo: «non venuto ad abitarvi» e avrebbe richiesto l’ausiliare essere. Fenomeni di questo tipo ci confermano che a prevalere sulla regolarità grammaticale sono le istanze enunciative, le quali possono imporsi sulla visione dell’insieme.  



3. 3. 4. Le funzioni di che L’ellissi del che relativo (v. 3.4.) ha una motivazione diafasica e diastratica, ma non è da escludere un fattore interno: la tendenza all’attenuazione dei rapporti subordinativi, spesso surrogati dalla semantica. Indicativo a tale proposito è l’uso di che polivalente: «con quello animo che [= con cui] io lo mando» (Pri i, 6), «in ogni altra provincia che [= in cui] li entrorono» (Pri iii, 21), «dopo cento anni che ella era posta in servitù» (Pri v, 7), «se fussino venuti tempi che fussi bisognato procedere con respetti, ne seguiva la sua ruina» (Pri xxv, 24); in una frase complessa: «e’ pare sempre che in quella [= Casa vostra] la virtù militare sia spenta, questo nasce che [= dal fatto che] li ordini antichi di essa non erano buoni e non ci è suto alcuno che abbia saputo trovare de’ nuovi» (Pri xxvi, 14). Si noti anche l’uso di chi in luogo di quale: «usare liberalità a tutti quelli a chi non toglie» (Pri xvi, 6), presente anche nella Vita di Cellini, e di che in luogo di la qual cosa: «A che pensando io qualche volta» (Pri xxv, 3). Il nesso che fu (usato per introdurre una circostanza, fornire una spiegazione ecc.) appare in rapporto con un verbum actionis che precede: «De’ Viniziani [tema-titolo], 14 se si considera i progressi loro, si vedrà quelli [= Viniziani] avere securamente e gloriosamente operato mentre ferono la guerra loro proprii [= con le loro forze],  

12   L’accordo sembra prevalere in presenza dell’ausiliare avere (Bausi, Nota al testo, Discorsi, ii, p. 923). 13   In it. ant. il predicato verbale con ausiliare avere si accorda talvolta con l’oggetto: «ch’i’ò avute sette robe» (Nov xliv); cfr. anche il tipo veduto la bellezza (Ageno 1964: 159-176). 14   La dislocazione a sinistra di un costituente con un indicatore di caso è presente nella prosa antica (Palermo 1994: 133).

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che fu [= e questo fatto avvenne] avanti che si volgessino con le imprese in terra» (Pri xii, 22). Il nesso è che svolge una funzione presentativa: «E l’ordine delle cose è che [...] tutti quelli che sono in essa meno potenti li aderiscano» (Pri iii, 22), riordina una sintassi incerta: «Filipomene, principe degli Achei, intra le altre laude che dalli scrittori li sono dati, è che ne’ tempi della pace non pensava ma se non a’ modi della guerra» (Pri xiv, 11), dove si nota che il tema sospeso è seguito da un periodo segmentato. Il connettore sostiene il cambio della linea sintattica, e “normalizza” il frangimento della frase: «Il che se li fussi riuscito, che li riusciva [= se gli fosse riuscito precisamente] l’anno medesimo che Alessandro morì, si acquistava tante forze e tanta reputazione che per se stesso si sarebbe retto» (Pri vii, 37); si notino la ripresa verbale riuscito ... riusciva e il passaggio dal congiuntivo all’indicativo. 3. 3. 5. L’infinito preposizionale Non si distacca dall’uso del tempo la varia tipologia dell’infinito preposizionale. “A + infinito” può avere reggente aggettivale («consueti a vivere» Pri i, 4; «respettivo a assicurarsi» Pri iii, 5; «usi a vivere» Pri iii, 5), sostantivale («gran fortuna e grande industria a tenerli» Pri iii, 11) e verbale; in quest’ultimo caso si distinguono sottotipi diversi; il costrutto “avere + a + infinito” ha valore deontico («avendo a consumare» Pri iii, 19; «abbia a essere iudicato inferiore» Pri viii, 11); 15 o finale («ha bisogno del favore de’ provinciali a intrare in una provincia» (Pri iii, 3); entra in una formula ricorrente: «resta ora a dire» (iii, 7), «restaci [...] a ragionare» (Pri xi, 1); evidenzia una proposizione soggettiva: «Pertanto è più sapienza a tenersi el nome del misero (Pri xvi, 19), dove la preposizione è pleonastica; con l’articolo si raggiunge una completa nominalizzazione: «debbe essere grave al credere e al muoversi» (Pri xvii, 7). Anche “di + infinito” ha reggente aggettivale o sostantivale («quello suo modo di procedere» Pri xxv, 18; ma non mancano casi di omissione della preposizione: «necessitato sapere bene usare la bestia» Pri xviii, 7); più frequente è il reggente verbale: «potevono fuggire di non fare quella compagnia» (Pri xxi, 23). Si distinguono ovviamente due sottotipi: i) con coreferenza dei soggetti («dice essere / di essere convinto», il tipo del lat. classico con soggetto infinitivo espresso «dico me essere convinto» è presente nella prosa umanistica, ma tende in seguito a ridursi); ii) senza coreferenza: «ti ordino di uscire». Gli altri tipi d’infinito preposizionale hanno valori diversi: deontico («non mi pare da lasciarli indrieto» Pri vii, 1), finale («Volendo [...] seguitare quelli escellentissimi òmini in redimere le province loro» Pri xxvi, 20), mediale («li possono tòrre con facilità grande lo stato o con farli contro o con non obbedire» Pri ix, 24), privativo («dico come si vede oggi questo principe felicitare e domani ruinare, sanza averli veduto mutare natura o qualità alcuna» Pri xxv, 9; cfr. il costrutto con verbo finito: «sanza che todeschi vi avessino remedio» Pri xxvi, 24); “per + infinito” ha valore sia causale sia finale. Rispetto alla prosa umanistica del xv sec., si osserva nel Principe una diminuzione dell’uso delle infinitive preposizionali, mentre si mantengono (e in parte progrediscono) fenomeni di stilizzazione retorica: il distacco del reggente dal costrutto “di + infinito”, la serie (e talvolta) l’accumulo degli infiniti. Il latineggiamento sintattico è rappresentato tra l’altro dal frequente ricorrere dell’infinito sostantivato. 16 Sepa 



15   Per il costrutto “avere + a + infinito” v. Tesi (2009: 137). Per gli usi dell’infinito preposizionale è utile un confronto con la situazione dell’it. mod.: Skytte (1983: 115-245). 16   Si vedano i seguenti passi: «Io lascerò indrieto el ragionare delle republiche» (Pri ii, 1), «Ma parendoli cosa servile lo stare con altri, pensò» (Pri viii, 15), «El peggio che possa espettare uno principe

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rato dal reggente e portato alla fine del periodo, l’infinito è spesso oggetto di una focalizzazione; dei veneziani e del Carmagnola M. scrive: «iudicorono non potere con lui più vincere, perché non voleva, né potere licenziarlo, per non riperdere ciò che avevano acquistato; onde che furono necessitati, per assicurarsene, ammazzarlo» (Pri xii, 25). 3. 4. Istanze pragmatiche e strutture 3. 4. 1. Gli scritti di governo e i trattati Un intento dimostrativo e dialettico influisce sulla forma dei periodi e sulla struttura del testo: ne derivano vari procedimenti dilemmatici, partizioni e parallelismi. Chiappelli (1952) vede nascere lo stile di Machiavelli dal contrasto tra una spinta scientifica e una spinta estetica (vedi 2. 2); si è detto anche che le sue contrapposizioni di tesi e di punti di vista si rapporterebbero a una logica di tipo induttivo più che deduttivo; ciò comporterebbe una ricostruzione induttiva degli eventi. Herczeg (1972: 222-23) ha sottolineato il passaggio dallo stile semplice delle LCSG alla «maggiore complessità connettiva» dei trattati, dove la subordinazione si sviluppa su più piani e i rapporti logici prevalgono sull’ordine cronologico dei fatti narrati. 17 In ogni modo, rimane comune alle due fasi un insieme di costrutti: gli usi dell’infinito preposizionale, l’omissione del che relativo (e del che complementatore, entrambi vengono sovente reintegrati nelle stampe), l’uso del che polivalente e di alcuni connettori frasali, vari fenomeni relativi all’ordine dei costituenti, le riprese verbali, la frequenza del passivo. 18 Negli ultimi decenni si è analizzata in particolare la funzione argomentativa della sintassi del Principe; Inglese (1992a: 929) ha accennato alla «forte incatenatura che risulta dall’espressione insistita e ricercata delle implicazioni». I caratteri formali del trattato risultano più chiari attraverso il confronto, da una parte, con la scrittura cancelleresca dello stesso autore e, dall’altra, con le sue opere maggiori. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, proponiamo alcune considerazioni. L’Arte della guerra non possiede la forza dialettica e il tono provocatorio del Principe, che è lontano dall’esposizione pacata dei Discorsi; 19 inoltre, «si distingue [...] per un taglio più marcatamente e – nonostante l’esteriore forma retorica del dialogo umanistico – serratamente “tecnico”» (Bausi 2005: 234). Negli otto libri delle Istorie fiorentine la presenza di discorsi svolti da personaggi storici e di spunti novellistici influisce sull’assetto testuale e sulla selezione dei tipi di periodi. Nei Discorsi i commenti e le divagazioni in margine al testo liviano imprimono propri caratteri alle sequenze testuali e alla forma dei periodi; il tono meditato e la ricerca di gradazioni ragiona 





dal populo inimico è lo essere abandonato da lui» (Pri ix, 8), «e la cagione che te lo fa acquistare è lo essere professo di questa arte» (Pri xiv, 2 ), «lo essere disarmato ti fa contemnendo» (Pri xiv, 3), «solamente lo spendere el tuo è quello che ti nuoce» (Pri xvi, 18), «E intra tutte le cose di che uno principe si debbe guardare è lo essere contennendo e odioso» (Pri xvi, 19), «Concludo adunque, tornando allo essere temuto e amato» (Pri xvii, 23). Cfr.: «Del mandare Matteo di fuori, non vorrei per ora» (Lettera I di Macinghi Strozzi 1972: 6). Sull’infinito sostantivato v. Chiappelli (1969, pp. 77-79), Telve (2000a: 239-42). Di “metamorfosi del volgare” parla Trifone (2006: 15-60). 17  Nelle LCSG «Uno dei fattori più importanti è la tendenza alla semplicità: la subordinazione scarseggia» (Herczeg 1972: 201); «La costruzione delle frasi di breve estensione [...] viene relegata al secondo piano nelle opere maggiori, ma non scompare» (ivi: 206). 18   Queste modifiche apportate alla sintassi rientrano in quel processo di “razionalizzazione” che caratterizza la prosa primocinquecentesca. Utile un confronto con l’uso del que francese (Le Go√c 1992). 19   D. Fachard, Introd. all’Arte della guerra, Machiavelli (2001a: 5). Sulla sintassi del periodo e la testualità di quest’opera v. Frenguelli (2002b: 89-113).

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tive e argomentative segnano una distanza rispetto all’aπermazione perentoria, che appare di frequente nel Principe. Abbiamo già ricordato (v. 2. 1) la definizione della sintassi di Machiavelli formulata da Luigi Russo, che contrapponeva «la rapidità dilemmatica del suo periodare» al «ragionamento a piramide degli scolastici»; ora, scendendo nei particolari, osserviamo come l’impostazione del discorso machiavelliano sia, di volta in volta, correlativa (sì...sì...; in modo...che, tale...che), 20 dilemmatica (o...o...; l’uno...l’altro... Pri xviii, 2; prima ... dipoi Pri xiv, 9), valutativa, commensurativa (tanto...quanto, tale...che, tale...quale, così...come). Nel suo discorso appaiano procedimenti deduttivi (donde...proceda, donde...nasce), asseverativi (E veramente colui il quale..., E veramente se..., È necessario, fatto questo, considerare...), eliminativi (Io lascerò indietro) e schemi e giunzioni di carattere dialogico e disputatorio: E se tu la chiamassi...io ti rispondo (Chiappelli 1974: 110).  

3. 4. 2 Figure retoriche e stile additivo All’enunciazione dei principi e delle regole da seguire, dialetticamente collegati tra loro, seguono esempi (antichi e moderni), introdotti da formule o inseriti nel flusso dell’esposizione mediante parentesi e stacchi discorsivi. Le dispositiones più usate sono quelle che più direttamente condizionano la forma dei periodi: il parallelismo («a conoscere bene la natura de’ populi bisogna esser principe, e a conoscere bene quella de’ principi bisogna esser populare», Pri Dedic., 5), il chiasmo («acquistono el principato con di√cultà, ma con facilità lo tengano», Pri vi, 16), 21 la gradatio («la quale li venne bene e lui l’usò meglio», Pri vii, 19). Alcune di queste figure hanno uno sviluppo complesso, con la replica di componenti e l’arricchimento del materiale lessicale. Anche il richiamo conativo all’interlocutore (v. Pri xx, 5, 7, 8) influisce sull’andamento dell’argomentare. Le riprese permettono di costruire sequenze verbali che scompongono la frase iniziale nei suoi costituenti: «Credo che questo avvenga dalle crudeltà bene usate o male usate. Bene usate si possono chiamare quelle [...]. Male usate sono quelle le quali [...]. Coloro che osservano el primo modo, possono [...]; quelli altri è impossibile» (Pri viii, 23). Un denominatore comune di vari fenomeni s’individua in una “maniera additiva”, in virtù della quale il periodo si prolunga con una serie di segmenti legati tra loro da riprese lessicali e da analogie, cui si accompagna la ripetizione di strutture sintattiche simili nelle forme e nelle funzioni. Il confine frasale non è delineato con precisione, ciascuna frase riprende un componente della frase che precede:  

Quel principe che dà di sé questa opinione [cioè, mostra fermezza di propositi] è reputato assai; e contro a chi è reputato con dificultà si congiura, con dificultà è assaltato, purché s’intenda che sia escellente e reverito da’ sua, perché uno principe debbe avere dua paure, una dentro per conto de’ sudditi, l’altra di fuora per conto de’ potentati esterni: da questa si difende con le buone arme e con li buoni amici, e sempre, se arà buone arme, arà buoni amici; e sempre staranno ferme le cose di dentro, quando stieno ferme quelle di fuora, se già le non fussino perturbate da una congiura; e quando pure quelle di fuora movessino, s’elli è ordinato e vissuto come ho ditto, quando non si abandoni, sempre sosterrà ogni impeto, come io dissi che fece Nabide spartano (Pri xix, 5). 20

  Su questi costrutti correlativi bimembri v. l’Indice di Tesi (2009).   Inglese (1992a: 931) ritiene che l’uso frequente dei parallelismi abbia una funzione di bilanciamento dei periodi: «La fuga dell’argomentare ha il suo contromomento [...] nell’uso regolare di robusti – mai preziosi – parallelismi». Secondo Cernecca (1972: 110), «Lo schema binario si atteggia spesso in contrasti e figure chiastiche molto e√caci»; lo studioso nota inoltre la rarità dello schema ternario e la discreta frequenza di quello quaternario. 21

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Con questa struttura compositiva contrastano, in altri passi, l’assolutezza delle dichiarazioni, dettate da una necessità inerente all’oggetto, e la perentorietà del detto breve e sentenzioso. Sono aspetti da indagare mediante comparazioni interne al testo. Per interpretare le scelte compiute da Machiavelli nella sintassi del periodo e nella testualità non risultano utili le condanne pronunciate da chi, fondandosi sui principi della grammatica tradizionale, rileva nel Principe irregolarità e incongruenze. 22 La pars destruens ha tuttavia un merito: costringe ad andare al fondo dei problemi. Per spiegare certi tratti della scrittura di Machiavelli, abbiamo visto Lionardo Salviati richiamare i modelli di Cesare e di Tacito: era un tentativo di trovare i fondamenti di uno stile che appariva estraneo al rinascimentale culto dei modelli e delle tradizioni letterarie. Il secolo scorso ha visto ampliarsi lo studio della lingua e dello stile del nostro autore: da Lisio a Chiappelli, da Segre a Inglese, l’analisi ha colto sia l’evolversi generale delle forme nell’ambito dei generi letterari sia i mutamenti delle singole componenti del testo e della sintassi. L’attenzione si è fermata non soltanto sulla forma dei periodi e sulla scelta dei tipi di frasi e di costrutti, si sono esaminate anche le “deviazioni”: le ellissi, i frangimenti, i passaggi di costruzione. Per questi ultimi fenomeni si è fatto ricorso al paradigma della “sintassi mista” (Folena 1953: 381), che tuttavia appare più e√cace quando è applicato ai testi di prosa media (Di Caprio 2010). La mancanza di un’esauriente esposizione di dati relativi ai costrutti sintattici machiavelliani, ha favorito una caccia (talvolta indiscriminata) agli “errori”, ai quali sono seguiti talvolta restauri e correzioni del tutto illeciti. 23  



3. 4. 3. Tracce di parlato Il malinteso deriva dal voler confrontare le scelte formali di Machiavelli, e in particolare la sua sintassi, ricca di movenze colloquiali e di spunti di oralità, con le regole grammaticali, le strutture e la testualità della lingua moderna. Negli ultimi decenni ci si è resi conto che la sintassi delle frasi e delle proposizioni fondata sulle tradizionali categorie grammaticali e sulle loro funzioni non è in grado d’interpretare adeguatamente i caratteri e le configurazioni della lingua parlata e quanto di essa passa nelle scritture. Un tempo, per illustrare alcune deviazioni che si riscontrano anche nella prosa alta dei grandi autori del passato si ricorreva alle nozioni di “aπettività”, di “espressività”, fattori che si manifestano soprattutto nel parlato. Col progresso degli studi questa concezione è stata abbandonata e al tempo stesso si sono individuati nuovi percorsi di ricerca riguardanti le varie forme e gradazioni dell’oralità vera e dell’oralità riflessa. È auspicabile che si possa procedere per tali vie all’analisi di scritture non canoniche come il Principe, opera in cui la componente demotica e la componente latineggiante limitano lo spazio delle frasi sintatticamente regolari. Lo studio delle eterogeneità discorsive è un capitolo della nostra sintassi storica scritto soltanto in minima parte. 24  

22   Martelli, in Pri iii, 27, nota 88, ritrova lo stesso «marasma logico-formale» che è presente, a suo avviso, nelle LCSG; cfr. Chiappelli (1969: 131). 23   A tale proposito Chiappelli (1952: 16) cita Salviati Avvertimenti vol. ii, p. 247. Nelle LCSG Chiappelli (1969: 16-7) nota «casi di aggiunta e in ispecie di inserimento di clausole integrative» e passaggi dall’una altra costruzione (per es., dalla struttura concessiva a quella ipotetica). Quanto alla “razionalizzazione” sintattica, v. Martelli in ed. Pri: 256; degli stessi fenomeni presenti nei Discorsi, tratta Bausi, in Nota al testo, ed. cit., vol. ii: 920-927. 24   Può essere utile riprendere, con i necessari adattamenti, alcune analisi che sono state applicate

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Nella prosa letteraria del xvi secolo persistono quei conflitti di strutture (fenomeni di téléscopage) che si ritrovano in buon numero nella prosa media dei secoli xiii e xiv. La rottura di un regolare svolgimento della frase indica un passaggio di costruzione e talvolta anche il trasferimento dall’uno all’altro livello referenziale: sono mutamenti che non si producono linearmente e su un unico piano sintattico, ma in uno spazio discorsivo, dove si manifestano sovrapposizioni e conflitti d’informazioni e di riferimenti. Non descrivibili nell’ambito di una grammaticalità tradizionale, tali fenomeni si possono analizzare con il ricorso a modelli multidimensionali, adatti allo studio di configurazioni non lineari e non gerarchiche, e con l’intervento di mediazioni epistemiche. 25 Esaminiamo ora una serie di fenomeni sintattici piuttosto particolari presenti nel Principe, cercando di ordinarli secondo quella che, con qualche approssimazione, si può considerare una scala di “irregolarità crescente”: si va da anomalie presenti, a vari livelli e con varia intensità, nella prosa del xiv secolo, a esempi di rovesciamento delle funzioni sintattiche tradizionali.  

3. 4. 4. La concordanza a senso 26  

Sotto l’etichetta di “deviazioni” consideriamo una serie di fenomeni che hanno in comune l’allontanamento da una costruzione “regolare”, vale a dire considerata tale in una prospettiva logico-grammaticale. Pur conservando le denominazioni tradizionali, si tenta di dare un’interpretazione non tradizionale di fenomeni quali: la concordanza a senso, i pleonasmi, le brachilogie, il cambiamento di costruzione, la sovrapposizione dei costrutti. La concordanza a senso si presenta in vari aspetti; può riguardare il numero: «si vede molte volte essere loro presentati cavalli, arme» (Pri Dedic. 1, p. 56), ma nel passo che precede si ha «uno principe»; più raramente riguarda il genere: «le città o le province sono use a vivere [...] sendo da uno canto usi a obedire» (Pri v, 8), dove si ha una discontinuità referenziale, prodotta da un’estrazione meronimica: dalle città e dalle province si passa ai loro abitanti. Riguarda soprattutto l’accordo del verbo; il verbo sing. precede il soggetto plur. («e bastò a torgnene, la prima volta, le forze proprie di Lodovico» Pri iii, 4) o due soggetti: «e solo si oppose alli sua disegni la brevità della vita di Alessandro e la malattia sua» (Pri vii, 42). Il soggetto sing. (sentito come collettivo) precede il predicato verbale al plurale: «tutta la sua provincia non è alcuno che riconosca per superiore se non lui; e, se obediscano alcuno altro, lo fanno come ministro» (Pri iv, 4); un caso analogo è il seguente: «assediò nel palazzo el supremo magistrato, tanto che per paura furono constretti obedirlo» (Pri viii, 20). Al soggetto sing. si riferisce un anaforico plur.; quest’ultimo risulta dall’attrazione esercitata dal binomio che segue: «Sendo adunque uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e al parlato di oggi. Ovviamente ci riferiamo al parlato, come concezione, configurazione formale dell’espressione nei suoi vari aspetti: coerenza testuale, pianificazione sintattica, segmentazione della frase ecc. (Koch/Oesterreicher 1985). Nella prospettiva concezionale la relazione tra parlato e scritto è rappresentata come un continuum; questo carattere appare nei vari modi dell’enunciazione presenti nel Principe. 25   Tale prospettiva di studio – per la quale rinvio al saggio di Pop (2000: 1, 116) – sviluppa, partendo da un diverso quadro teorico, quanto osservato da altri stdudiosi circa le strutture sintattiche del Principe, le quali presentano caratteri non omogenei e dinamici. 26  Nel Principe, secondo Martelli, «La sconcordanza fa parte di diritto dello stile di M.» (Pri, p. 373). Su questo fenomeno v. Trolli (1972: 133-134) e D’Achille (1990: 277-294).

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il lione» (Pri xviii, 7). Il passaggio inverso (dal plurale al singolare) si spiega con l’ingrandimento del primo piano (foreground): «e’ capitani mercennarii o sono òmini escellenti [...]; ma se non è virtuoso» (Pri xii, 10). 27  

3. 4. 5. Pleonasmi Si manifestano, in particolare, nell’uso superfluo di pronomi e di aggettivi personali, del ricorrente ne, di deittici e di connettori di varia natura; il fenomeno si configura come un’ipercodifica colta delle catene anaforiche. Alcuni esempi: «tutti insieme volentieri fanno uno globo [= una massa compatta] col suo stato che lui vi ha acquistato» (Pri iii, 22: suo è pleonastico, alla luce della relativa che segue); «sempre ne furono e’ Romani incerti di quella possessione» (Pri iv, 19); frequente è anche il clitico “intensivo”: «parendoli massime aversi acquistata amica la Romagna e guadagnatosi tutti quelli populi» (Pri vii, 22); nell’esempio che segue la connessione attuata con il relativo è replicata due volte: «Ha trovato adunque la Santità di papa Leone questo pontificato potentissimo, il quale si spera, se quelli lo feciono grande con le arme, questo con la bontà e altre sue infinite virtù lo farà grandissimo e venerando» (Pri xi, 18), dove appare evidente la ricerca dell’intensificazione pragmatica. L’abbondanza di usi pleonastici, da una parte, evidenzia la volontà di raπorzare i legami tra le componenti del periodo, dall’altra, rivela una funzione analoga a quella svolta nel parlato dalla ripetizione di elementi deittici. 3. 4. 6. Brachilogie Leggiamo l’avvio del cap. iii: «Ma nel principato nuovo consistono le dificultà. E prima, se non è tutto nuovo, ma come membro, che si può chiamare tutto insieme quasi misto, le variazioni sua nascono in prima da una naturale dificultà, la quale è in tutti e’ principati nuovi. Le quali sono che li òmini mutano volentieri signore». Come abbiamo visto (p. 50), Martelli giudica negativamente questo passo, nel quale è sottinteso un referente esterno, situato nel cap. i. Il passaggio dal soggetto grammaticale al soggetto logico segnala una continuità discorsiva prolungata. Un elemento di continuità con la prosa letteraria dei sec. xiii e xiv è il costrutto brachilogico “copula + quando + verbo finito”, che nel Principe ha funzione esplicativa-descrittiva e connettiva rispetto a quanto precede: «E questi tali sono quando è concesso a alcuno uno stato» (Pri vii, 2), «L’arme aussiliarie [...] sono quando si chiama uno potente che con le arme sua ti venga a aiutare» (xiii, 1). Dal prolungamento discorsivo dipende anche l’ellissi di sintagmi e parti della frase: «E la prima cosa [sottinteso che fece], indebolì le parti Orsine e Colonnesi» (vii, 18); l’integrazione è legittima, se riguarda un verbo vuoto, suscita dubbi quando riguarda verbi semanticamente pieni (in questo caso l’ellissi andrebbe ricondotta a ciò che si ritiene sia noto ai destinatari dello scritto). Esaminiamo un paio d’integrazioni proposte da Martelli (ivi: 97 e 161) e che qui appaiono tra parentesi quadre: «Né è miraculo alcuno, questo, ma [sottinteso caso] molto ragionevole e or27   La concordanza a senso è un fenomeno endemico della scrittura, provocato da diversi fattori; sopravvive alle razionalizzazioni e allo stile moderno; appare infatti in scritture del xix secolo; per es., nell’epistolario di Leopardi (v. Magro 2012) e nel suo Zibaldone di pensieri (Ricci A. 2001-2002: 185), dove non mancano fenomeni di sconcordanza sintattica e dove il coe√ciente di progettazione appare talvolta ridotto. La concordanza a senso, il cambio di progetto, il tema sospeso, le dislocazioni, l’estrazione di un elemento della subordinata si ritrovano in corrispondenti colti del primo Ottocento (Antonelli 2003: 203-215). A queste ricerche è necessario fornire una base teorica, in analogia di quanto è stato compiuto da Pop (2000).

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dinario» (iii, 47), «Coloro che osservano el primo modo, possono [sottinteso scusandosene] con Dio e con li òmini, avere allo stato loro qualche remedio» (viii, 26). Esiste da tempo una spiegazione “psicologica” per simili fenomeni: «i rapporti di connessione e subordinazione [...] sono costruiti secondo la relazione mentale, con articolazioni dirette operate per via di ellissi» (Chiappelli 1969, p. 52). Pur riferendosi alle LCSG, la nota può riguardare anche la scrittura del Principe: si tratta di un recupero a posteriori di elementi d’informazione già presenti nel testo o nella memoria del locutore (Pop 2000: 199-200). Il fenomeno può essere definito “collegamento all’implicito”, 28 e ad esso possiamo collegare, mutatis mutandis, quanto aπermava Berretta (1994: 252-253) a proposito del “parlato italiano contemporaneo”: «non è facile distinguere vere subordinate o frasi invece “aggiunte”. [...] Quando poi, come spesso avviene, la congiunzione non lega due nuclei proposizionali a livello semantico, bensì, a livello pragmatico-testuale, due enunciati, non si può più parlare di subordinazione, almeno nei termini sintattici tradizionali: si tratta caso mai di una subordinazione testuale, e il connettivo parimenti è testuale». 29  



3. 4. 7. Cambiamenti di costruzione In testi in prosa dei secoli xvi e xvii si riscontrano fenomeni di “slittamento” sintattico, nei quali «ad una data impostazione strutturale della frase complessa seguono costrutti che non le sono conseguenti» (Bozzola 2004: 93; v. anche Koban 2012: 164). Da una frase impersonale si passa a una frase che ha come soggetto il principe (Pri iii, 15); da una subordinata retta da si vede a una principale (Pri xii, 12); da un costrutto diretto a un costrutto con dativo: «e quello principe che va con li esserciti, che si pasce di prede, di sacchi e di taglie, maneggia quel di altri, li è necessaria questa liberalità» (Pri xvi, 16), dove il tema, che ha funzione di soggetto logico, viene ripreso col pronome personale dativo. Nel passo «[scil. Agatocle] liberò Siracusa dall’assedio e condusse e’ Cartaginesi in estrema necessità, e furono necessitati accordarsi con quello» (Pri viii, 8), la ripresa parziale necessità ... necessitati vuole riparare in certo modo la mancanza di un pronome personale (e essi) o di un relativo (i quali furono). In «Ma el re di Francia è posto in mezzo d’una multitudine antiquata di signori in quello stato, riconosciuti da’ loro sudditi e armati da quelli, hanno le loro preeminenzie, non le può il re tòrre loro sanza suo periculo» (Pri iv, 7) al cambio di costruzione segue un segmento dislocato («non le può il re»), che recupera il tema-soggetto grammaticale della prima frase. Riprendiamo un passo già analizzato in 2.3.: «Non mancò pertanto Giovanni [Fogliani] di alcuno o√zio debito verso el nipote; e fattolo ricevere da’ firmiani onoratamente, [scil. il nipote] si alloggiò 28   Cfr.: «le subordinate non integrate si agganciano a un implicito e ciò permette loro di assumere valore testuale» (Koban 2012: 148). «La lingua di M. è segnata da momenti di coagulazione o condensamento (in cui è in atto una contrazione del significato) e di momenti invece di diπusione dello stesso significato (tramite ripetizioni, sinonimie ecc.) senza che ci sia sempre una linea di continuità tra questi elementi» (Fournel 2001: 75). Cfr. Durante (1981: 200-201): «Nel Seicento, e per vari aspetti già nel Cinquecento, troviamo una tecnica nuova, che svolge la linea semantica enunciandone i tratti essenziali, a√dando all’intelligenza dell’interlocutore o lettore la comprensione dei dati e dei rapporti non esplicitati. [...] [Il discorso moderno] generalmente sottintende quei presupposti del discorso che sono di dominio comune all’autore e all’ascoltatore o lettore» (ivi: 201). «Ma ora l’isomorfismo tra sintassi e semantica non costituisce più una norma vincolante». Nella Mandragola M. predilige «le forme ellittiche del parlato, le quali diventano il segno dell’economia essenziale che domina la costruzione» (L. Vanossi, Situazione e sviluppo del teatro machiavelliano, in Teatro Rinascimento 1970: 3-108, 27). 29   Cfr. anche il concetto di “referenza generica”, elaborato in Berretta (1985) e cit. da Roggia (2001: 128).

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onoratamente nelle case sua» (Pri viii, 17) il soggetto della principale «si alloggiò» è diverso da quello della dipendente implicita «fattolo ricevere»; Lisio e Martelli parlano di «un grave errore di sintassi». Tutti i passi ora ricordati mostrano come sovente un’istanza discorsiva prevalga sulla regolarità dello svolgimento sintattico. 3. 4. 8. Sovrapposizione di costrutti In «[Ferrando de Aragonia] si volse a una pietosa crudeltà cacciando e spogliando el suo regno de’ marrani» (Pri xxi, 5), le due gerundiali dovrebbero essere riformulate in questo modo: ‘cacciando del suo regno e’ marrani’ + ‘spogliando el suo regno de’ marrani’; la sovrapposizione è indotta dal fatto che i due complementi (diretto e indiretto) designano un unico referente. In «Onde, chi assalta el Turco, è necessario pensare di averlo a trovare unito» (Pri iv, 11) si sovrappongono due costrutti: «chi assalta il Turco è necessitato» e «a chi (o se si) assalta il Turco è necessario» (Martelli, in Principe: 103). In «tramutando con li alloggiamenti el suo essercito» (iii, 19) ‘spostando in vari luoghi e facendovi alloggiare il suo esercito’ (Martelli, ivi: 81) il sintagma “con + N” sostituisce un predicato verbale. Talvolta la sovrapposizione diventa zeugma di costrutti: «signori impotenti, li quali più presto avevano spogliato e’ loro sudditi che correttoli» (Pri vii, 24) ‘i quali più che governare i loro sudditi, li avevano spogliati’, «Ne’ nostri tempi noi non abbiamo veduto fare gran cose se non a quelli che sono stati tenuti miseri, li altri essere spenti» (Pri xvi, 7) ‘noi non abbiamo veduto fare gran cose se non ... li altri [abbiamo veduto] essere spenti’, «La qual cosa li [scil. a Scipione] fu da Fabio Massimo in Senato rimproverata e chiamato da lui corruttore della romana milizia» (Pri xvii, 20); Martelli (ivi: 233) parla di «ardito zeugma» (l’ausiliare di fu rimproverata viene esteso a chiamato) e di «rovesciamento delle funzioni sintattiche» (il dativo di termine diventa soggetto: li fu rimproverata → [egli] fu chiamato); Inglese (ed. Principe: 122) segnala soltanto un mutamento del soggetto e l’ellissi dell’ausiliare. In tutti questi casi si tende ad associare più che a gerarchizzare. La semantica prevale sulla sintassi, la quale finisce per assumere un ruolo non tanto ordinatore quanto evidenziatore di picchi frasali. 3. 4. 9. La paraipotassi relativa Il fenomeno, ben noto all’it. antico, 30 ritorna nel Principe a testimonianza del persistere di usi sintattici presenti nei testi del sec. xiv: «Desiderando io adunque oπerirmi alla Magnificenzia Vostra con qualche testimone della servitù mia verso di Quella, non trovando intra la mia suppellettile cosa quale io abbia più cara o tanto essistimi quanto la cognizione delle azioni delli òmini grandi, imparata con una lunga esperienzia delle cose moderne e una continua lezione delle antique, le quali [= e queste cose] avendo io con gran diligenzia lungamente escogitate e essaminate, e ora in uno piccolo ridotte, mando alla Vostra Magnificenzia» (Pri Dedicatoria 2: 58). Cfr. un passo con il relativo la qual cosa e la ripresa pronominale dell’oggetto: «Nondimanco, se alcuno mi ricercassi donde viene che la Chiesa nel temporale sia venuta a tanta grandezza [...] e ora uno re di Francia ne trema e lo ha possuto cavare di Italia e ruinare Viniziani, la qual cosa [= e questa cosa], ancora che sia nota, non mi pare superfluo ridurla in buona parte alla memoria» (Pri xi, 5). 31  



30   Cfr. Ghinassi (1971); v. anche De Caprio (2010). Per la presenza del fenomeno nei Discorsi v. Bausi, in Discorsi, ii: 925-927. 31   In altri passi il costrutto è introdotto da: di modo che (Pri v, 8), onde (Pri xix, 36). Sulla ripresa pronominale dell’oggetto nella prosa del xvi secolo v. Telve (2000a: 176-178; 2003: 26).

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Non esaminiamo quei passi che da un punto di vista logico si considerano casi di anticipazione di interi episodi (Pri xv, 10-11) o casi d’inversione di sequenze testuali o di segmenti del testo (Pri vii, 12; Pri xxv, 26). Alcuni aspetti della “sintassi mista” (Marra 2003) – per es., l’allineamento di una completiva con verbo di modo finito e di un’infinitiva, lo splitting dal Discorso indiretto al diretto ecc. – saranno trattati nei paragrafi dedicati all’analisi dei reggenti verbali delle completive. 3. 4. 10. L’uso dei tempi e dei modi verbali Varie particolarità si riscontrano nell’uso dei tempi storici, che talvolta cambiano all’interno di uno stesso periodo. Questo fenomeno è stato studiato in particolare nelle Lettere, dove appare con una certa frequenza in rapporto alla trasposizione del Discorso diretto nel Discorso indiretto; Herczeg (1970) osserva che il passaggio dai tempi del passato al presente potrebbe coincidere con il sopravvenire di «massime generali», ma non sempre si possono dare spiegazioni sicure circa lo spostamento dal congiuntivo all’indicativo e da un tempo passato al presente. Tali fenomeni appaiono in tutta l’opera; vediamone alcuni casi tipici: dal passato prossimo al presente (Pri xi, 17), dal passato remoto all’imperfetto (Pri xii, 20); un congiuntivo imperfetto appare in luogo di un congiuntivo presente (Pri iii, 16), e viceversa un congiuntivo presente in luogo di un congiuntivo imperfetto (Pri xx, 24). Tali scelte sono interpretate come casi di attrazione esercitata da altre forme verbali presenti nel cotesto o come conseguenza del variare dell’aspetto verbale in uno spazio testuale ristretto. Il congiuntivo in luogo del condizionale appare in un passo famoso: «Né posso esprimere con quale amore e’ fussi [= sarebbe] ricevuto» (Pri xxvi, 26). Pur ammettendo che il denominatore comune dei fenomeni ora esposti (4.4.5-11) sia l’influsso del parlato, dobbiamo aver presente che, nella prospettiva concezionale del parlato, esiste un continuum tra i due poli del parlato e dello scritto; il primo è per lo più mediato dal filtro di situazioni e di convenzioni culturali. 3. 5. La subordinazione completiva 3. 5. 1. Preliminari Nel Principe le unità informative sono disposte in una semplice successione o si presentano con uno svolgimento lineare prolungato; entrambi i procedimenti, che appaiono soprattutto nella descrizione di eventi, danno spazio alla coordinazione, realizzata in vari tipi sintattici, tra i quali l’asindeto assume un rilievo particolare. Con l’asindeto si rappresenta la conseguenza o lo svolgimento di un fatto: «dopo questo, Lucca e Siena bisognava che cedessino subito, parte per invidia di Fiorentini, parte per paura; Fiorentini non avevano remedio» (Pri vii, 36); qui il cambio del soggetto aumenta l’eπetto d’immediatezza con cui si presenta la conseguenza. Nell’esempio che segue la frase aggiunta per asindeto mantiene il tema iniziale e lo richiama mediante un pronome clitico: «Ma consideriamo Ciro e li altri che hanno acquistato o fondati regni: li troverrete tutti mirabili» (Pri vi, 9). Ecco un esempio di asindeto in cui la varietà dei soggetti grammaticali costituisce un fattore dinamico: «Genova cedé; Fiorentini li diventorono amici; marchese di Mantova, duca di Ferrara, Bentivogli, madonna di Furlì, signore di Faenza, di Pesero, di Rimino, di Camerino, di Piombino, Lucchesi, Pisani, Sanesi, ognuno se li fece incontro per essere suo amico» (Pri iii, 34); si noti che le tre frasi che compongono il passo sono disposte nell’ordine di una grandezza-espansione progressiva. Ecco infine la

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descrizione di una piena rovinosa e delle sue conseguenze: «[scil. i fiumi] allagano e’ piani, ruinano li arberi e li edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da quell’altra, ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede all’impeto loro» (Pri xxv, 5). In tutti i passi analizzati alla presenza dell’asindeto si accompagna una sensibile segmentazione dell’enunciato. Al polo opposto della coordinazione asindetica troviamo il periodo strutturato in modo complesso e organizzato in due direzioni principali: i) la frase di preannuncio, la quale anticipa le unità informative mediante elementi “ordinatori” e prosegue sviluppando suddivisioni, conferme discorsive e partizioni della materia col fine di presentare propositi, piani di azione, fasi di un progetto; in questi ultimi passaggi possono apparire partizioni e suddivisioni dell’argomentare: Di che pensò assicurarsi; e pensò farlo in quattro modi: prima, di spegnere tutti e’ sangui di quelli signori che lui aveva spogliati, per tòrre al papa quella occasione; secondo, di guadagnarsi tutti e’ gentili òmini di Roma come è ditto, per potere con quelli tenere el papa a freno; terzio, ridurre el collegio più suo che poteva; quarto, acquistare tanto imperio avanti che il papa morissi, che potessi per sé medesimo resistere a uno primo impeto (Pri vii, 31);

ii) la struttura dichiarativa, la quale, essendo disposta su diversi livelli sintattici, eventualmente accompagnati da accessori, serve a illustrare una tesi chiarendone i sottintesi e prevenendo eventuali obiezioni: Dico che qualunque considerrà el soprascritto discorso vedrà o l’odio o il disprezzo essere suto cagione della ruina di quelli imperatori prenominati, e conoscerà ancora donde nacque che, parte di loro procedendo in uno modo e parte al contrario, in qualunque di quelli, uno di loro ebbe felice e li altri infelice fine, perché a Pertinace e Alessandro per essere principi nuovi fu inutile e dannoso volere imitare Marco, che era nel principato iure hereditario, e similmente a Caracalla, Commodo e Massimino essere stata cosa perniziosa imitare Severo, per non avere avuta tanta virtù che bastassi a seguitare le vestigie sue (Pri xix, 67).

Le suddivisioni e le riprese di i) – frequenti anche nei Discorsi, dove ricorrono, in particolare, nella forma canonica il primo... il secondo ... – anticipano l’esposizione particolareggiata di eventi; la strutturazione sintattica di ii) rispecchia la complessità e varietà degli accadimenti, che sono in seguito analizzati e commentati. Non sono queste le uniche omologie tra forme e contenuti presenti nel trattato. Il passivo esprime l’assolutezza dei fatti, quasi sottratti alla volontà umana (Chiappelli 1952: 45) e accostati all’esemplarità delle massime. Il passivo ha inoltre il potere di attuare una brevitas frasale, capace di dare rilievo a eventi particolarmente significativi: «El re Luigi fu messo in Italia dalla ambizione de’ Viniziani» (Pri iii, 32), «Questa parte è suta insegnata a’ principi copertamente dalli antiqui scrittori» (Pri xviii, 5). A presentare, evidenziandolo, un fatto è adibito spesso il si passivante: «Intra le mirabili azioni di Anibale si connumera questa» (Pri xvii, 16), «ne’tempi nostri si è visto disfare dua fortezze in Città di Castello per tenere quello stato» (Pri xx, 25). 32  

Da e per introducono l’agente. Come è noto, la prima di queste due preposizioni è, all’origine, un segno a base statica con il quale si esprime la posizione e la provenienza; per, invece, 32   Cfr. «il si non è riflessivo, come la disposizione dei singoli membri della frase porterebbe istintivamente a ritenere, ma passivante» (Martelli, ed. Pri xx, 25). Un’esposizione chiara delle forme e delle funzioni del passivo è N. Grandi (2011), “Passiva, costruzione”, in EncItaliano, ii (2011: 1081-1082).

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è un segno dinamico e introduce un “provvedimento in atto”: «quello che per me di sotto si dirà» (Pri iii, 46); non è un caso che l’uso di per agentivo ricorra di frequente nelle LCSG. Nel Principe l’agente è espresso anche con il dativo: «uomo che si lasciassi governare alla madre» (Pri xix, 39). 33 Per quanto riguarda la sintassi del verbo, il confronto tra il Principe e la prosa letteraria del Trecento si può estendere utilmente anche a fenomeni di microsintassi. I costrutti esistenziali vi è e ci è, presenti anche nei Discorsi, sono un’innovazione (rispetto all’it. ant.), che snellisce i passaggi interperiodali: «non vi è più remedio» (Pri ii, 13; x, 12), «non si accorge del veleno che vi è sotto» (Pri xiii, 23). Le forme “medie” del verbo proseguono una tendenza antica: «perché io non saprei quali precetti mi dare migliori a uno principe nuovo» (Pri vii, 9), «Cominciadomi adunque alle prime soprascritte qualità» (Pri xvi, 1); cfr. un es. antico: con «li quali non sapeano che si chiamare» (Vita nova ii, 1). Compaiono due tipi di perifrasi verbali: “andare + gerundio” (valore continuativo) e “trovarsi + participio passato” (valore risultativo): «andrò ritessendo li orditi soprascritti» (Pri ii, 2); «trovandosi ingannati» (Pri iii, 4), «In questo caso si potrebbe trovare spesso ingannato» (Pri ix, 21), «quando li ha trovati disarmati, li ha sempre armati» (Pri xx, 5); cfr. anche “trovare + aggettivo”: «e quel principe che si è tutto fondato in sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina» (Pri xvii, 10). Non appare in alcuni introduttori ripresi dal latino: «E’ non mi è incognito come molti hanno avuto e hanno opinione che» (Pri xxv, 1), 34 cfr. non est enim mihi incognitum. Deriva dal latino anche l’uso di non in formule del tipo: «la qual cosa, ancora che sia nota, non mi pare superfluo ridurla in buona parte alla memoria» (Pri xi, 5) ed è questo un fenomeno ricorrente anche nelle LCSG. La stessa origine ha l’introduttore non resta che ‘non esclude/ non impedisce che’: «E, benché sieno così fatti [scil. i fiumi rovinosi], non resta però che gli uomini, quando sono tempi queti, non vi potessino [in luogo di possano] fare provedimento e con ripari e con argini: in modo che, crescendo poi, o eglino andrebbono per uno canale o l’impeto loro non sarebbe né sì dannoso né sì licenzioso» (Pri xxv, 6), cfr. restat ut de virtute loquar. 35 Le espressioni negative, riprese dal latino, conferiscono dignità stilistica alla sintassi periodale e al tempo stesso ne corroborano la forza illocutiva.  





Le proposizioni completive di modo finito sono introdotte dai complementatori che e come; quest’ultimo non ha una funzione diversa da quella del più frequente che, se non una sfumatura interrogativa. Come è introdotto da questi reggenti verbali (si evidenziano i casi in cui compare più di un’occorrenza): avere indizio, conoscere (3 ess.), considerare, dire (9 ess.), disputare, essere incognito, essere segno, intendere, negare, querelarsi, replicare, rispondere, sapere, scrivere (3 ess.), vedere (6 ess.). 36 L’omissione del complementatore, ricorrente soprattutto nelle LCSG (Chiappelli 1969: 65, 96), appare anche nel Principe e negli altri trattati: «e pregavalo fussi contento ordinare che da’ firmiani fussi ricevuto onorevolmente» (Pri viii, 16); «e voglio mi basti pigliare tutti quelli imperadori, che succederono allo imperio» (Pri xix, 27); altri esempi sono riportati nei paragrafi dedicati all’analisi dei singoli verbi reggenti. Per quanto riguarda il sec. xv, questa ellissi, come quella del relativo, è stata conside 

33   In un’indagine dedicata a per agentivo, Patota (2007: 12) osserva: «Non è raro il caso di grammatici italiani che non codificano il per agentivo, ma lo adoperano, Giovan Francesco Fortunio e Pietro Bembo non menzionano questo valore di per ma lo usano abbastanza spesso, l’uno nelle Regole e l’altro [...] nelle Prose». Per il “si passivante” si vedano: Salvi, in GIA (2010: 151-160) e, in particolare, Pescarini (2015: 59-66). 34   Riproduce l’uso latino la negazione presente in espressioni «si porta periculo di non diventare contennendo» (Pri xxiii, 3). Sulla «negazione espletiva o pleonastica» in it. ant, v. Zanuttini, in GIA (2010: 580). 35   Nella prosa latineggiante sono riprodotte dal latino locuzioni impersonali come: intervenit, sequitur, restat, relinquitur, superest, reliquum est; proximum est, extremum est ‘rimane per ultimo’; huc accedit ‘a questo si aggiunge’. 36   In alcuni casi si è incerti nella scelta tra completiva e interrogativa indiretta: «Vedesi come la [scil. Italia] prega Dio che le mandi qualcuno che la redima» (Pri xxvi, 6).

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rata da Ghinassi (1957) propria del linguaggio popolare; Folena (1953: 381-82) ne ha sottolineato l’alta frequenza, soprattutto nelle scritture notarili e cancelleresche, ma anche in Machiavelli e in vari scrittori del suo tempo. La prosa umanistica di L. B. Alberti non ne è esente (Dardano 1992: 351-52). 37 Importa notare che l’omissione di che subordinante: i) si produce talvolta per evitare la successione di due complementatori che; ii) riguarda anche congiunzioni subordinanti composte («ma la sua [scil. di Iulio II] buona fortuna fece nascere una terza cosa acciò non cogliessi el frutto della sua mala elezione», Pri xiii, 4). Il Principe non ignora il fenomeno opposto, cioè la ripetizione del che subordinante: «conveniva pertanto di necessità che se Pandolfo non era nel primo grado, che fussi nel secondo» (Pri xxii, 4); tale ripetizione si ritrova anche nei Discorsi. 38 La subordinazione multipla e la subordinazione di 2° grado ricorrono più volte nel trattato; ora distingueremo alcuni tipi di base; in seguito i due fenomeni saranno analizzati in rapporto ai diversi reggenti. Subordinazione multipla. “Tipo che ... e che”: «di qui nasce che quelle cose che fa uno giorno, destrugge l’altro, e che non si intenda mai quello si voglia o disegni fare, e che non si può sopra le sua deliberazioni fondarsi» (Pri xxiii, 8). 39 “Tipo se ... e se”: «pensando meco medesimo se in Italia al presente correvano tempi da onorare un nuovo principe e se ci era materia che dessi occasione a uno prudente e virtuoso di introdurvi forma [...], mi pare corrino tante cose in benefizio d’uno principe nuovo» (Pri xxvi, 1). Subordinazione mista. Da un reggente dipendono due completive, una con v. di modo finito e un’infinitiva: «debbe avere dua respetti: l’uno, che il sangue del loro principe antiquo si spenga; l’altro, di non alterare né loro legge né loro dazi» (Pri iii, 10); «Era adunque necessario si turbassinno quelli ordini e disordinare li stati di Italia» (Pri vii, 13); il fenomeno è meno accentuato nel primo esempio perché i soggetti delle due subordinate sono diversi. Più raro è l’ordine inverso “infinito / v. finito”: «da’ grandi inimici non solo debbe temere di essere abandonato, ma che etiam loro li venghino contro» (Pri ix, 8); questa struttura appare anche in una secondaria: «quando tu vedi el ministro pensare più a sé che a te e che in tutte le azioni vi ricerca dentro l’utile suo, questo tale così fatto mai fia buono ministro, mai te ne porrai fidare» (Pri xxii, 6). Un altro tipo di subordinazione mista prevede un reggente verbale dal quale dipendono un SN e una subordinata con v. finito: «rispondo con quello che per me di sotto si dirà circa la fede de’ principi e come ella si debba conservare» (Pri iii, 46). Subordinazione di 2° grado (o più). Tipo “che + che”: «E io so che ciascuno confesserà che sarebbe laudabilissima cosa a uno principe trovarsi di tutte le soprascritte qualità quelle che sono tenute buone» (Pri xv, 10). Tipo “che + Ø”: «Però si conclude che e’ buoni consigli, da qualunque venghino, conviene naschino dalla prudenzia del  





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  Cfr. anche: B. Samu, in GIA (2010: 777-781) e M. Dardano, in SIA (2012: 147-148).   Per i Discorsi v. la “Nota al testo” di Bausi, ii: 923.   Si giunge talvolta alla subordinazione seriale. Utile un confronto con il passo in oratio obliqua di Pri viii, 16: «E scrisse a Giovanni Fogliani come, sendo stato più tempo fuora di casa, voleva venire a vedere lui e la sua città e, in qualche parte, riconoscere el suo patrimonio; e perché non si era aπaticato per altro che per acquistare onore, acciò ch’e’ suoi cittadini vedessino come e’ non aveva speso el tempo invano, voleva venire onorevole e accompagnato da cento cavagli di sua amici e servitori; e pregavalo fussi contento ordinare che da’ firmiani fussi ricevuto onorevolmente: il che non solamente tornava onore a lui, ma a sé proprio, sendo suo allievo». Sulla subordinazione multipla, v. Tesi (2009: 28-29), che, a proposito delle Operette leopardiane, attestate sulla ripresa di strutture sintattiche del sec. xvi, evidenzia «l’uso in successione del che subordinante “seriale”, espediente retorico-grammaticale già ben acclimatato nei testi letterari cinquecenteschi, specie nelle zone a più spiccato andamento dialogico». 38

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principe, e non la prudenzia del principe da’ buoni consigli» (Pri xxiii, 14). Tipo “come + che”: «E’ non mi è incognito come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate dalla Fortuna e da Dio» (Pri xxv, 1). L’architettura periodale dipende dalla subordinazione completiva, di cui esaminiamo ora i caratteri basandoci su una scelta di verbi reggenti e su un’esemplificazione adeguata. Distinguiamo cinque tipi di subordinate: 1) soggettive con verbo finito; 2) soggettive con infinitiva; 3) oggettive con verbo finito; 4) oggettive con infinito; 5) interrogative indirette. Nell’analisi è necessario tenere presenti anche questi caratteri: la coreferenza dei verbi della reggente e della subordinata, l’uso dei tempi e dei modi (partic. l’alternanza tra indicativo e congiuntivo) nella subordinata, l’estrazione del soggetto della subordinata, la presenza del pronome riflessivo oggetto, spesso separato dal reggente (tipo Mario dice in questa circostanza sé non essere favorevole). A parte vanno considerati altri fenomeni, come il grado d’incassamento delle completive e l’ordine dei costituenti nel periodo. La subordinata segue di regola la principale; l’ordine inverso (prolettico) appare soltanto in particolari cotesti e situazioni. L’estensione delle proposizioni che compongono il periodo, gli eπetti provocati dalle interposizioni sono fattori che influiscono sul rapporto tra la successione logica degli eventi e la collocazione dei costituenti che li rappresentano all’interno dei periodi. 3. 5. 2. Le proposizioni soggettive con verbo finito Esaminiamo le soggettive introdotte: da un reggente “Copula + Aggettivo”, da verbi soltanto intransitivi e con ausiliare essere (bastare, convenire, intervenire, parere), da esserci, dai verbi notare e vedere (quest’ultimo in costruzioni con si passivante); questi reggenti agiscono da nominalizzatori della completiva che essi introducono (Gaatone 1996: 11). bastare: «a fare perdere Milano a Francia bastò la prima volta uno duca Lodovico che romoreggiassi in su’ confini» (Pri iii, 6); convenire: «Conveniva che Romulo non capissi in Alba, fussi stato esposto al nascere» (Pri vi, 12), «Similmente el regno del Soldano [...], conviene che ancora lui sanza respetto de’ populi se li mantenga amici» (Pri xix, 64); essere +aggettivo: «È ben vero che, acquistandosi poi la seconda volta, e’ paesi rebellati si perdono con più dificultà» (Pri iii, 5), «non è ragionevole che chi è armato obedisca volentieri a chi è disarmato e che il disarmato stia sicuro entro servitori armati» (Pri xiv, 5), «Filopomene, principe delli Achei, intra le altre laude che dalli scrittori li sono date, è che ne’ tempi della pace non pensava mai se non a’ modi della guerra» (Pri xiv, 11), «è necessario che, posposto ogni altro respetto, quel signore se li mantenga amici» (Pri xix, 63); esser(ci): «veruno fia che nieghi come conveniva a’ Fiorentini stare seco» (Pri xii, 22: subordinata di 2° grado); intervenire ‘accadere’: «E sempre interverrà che vi sarà messo da coloro che saranno in quella mal contenti» (Pri iii, 21); 40 cfr. lat. nox intervenit proelio esiste intervenit quod; notare: «Per il che si ha a notare che li òmini si debbono o vezzeggiare o spegnere» (Pri iii, 17), «E qui si debbe notare che l’odio s’acquista così mediante le buone opere come le triste» (Pri xix, 37); parere: «E perché questo evento, di diventare di privato principe, presuppone o virtù o fortuna, pare che l’una e l’altra di queste dua cose mitighino in parte dimolte dificultà»  

40   Cfr. «E di più mi sopragiunse ch’e’ s’appiccò fuoco nella bottega» (Cellini, Vita, ii, lxxv, p. 541).

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(Pri vi, 5), «mi pare corrino tante cose in benefizio d’uno principe nuovo, che io non so qual mai tempo fussi più atto a questo» (Pri xxvi, 1); vedersi: «non si vede che quelli avessino altro dalla fortuna che la occasione» (Pri vi, 10), «Ne’ tempi nostri non si vede che quelle abbino profittato a alcuno principe» (Pri xx, 30).

Si noti: in bastare (iii, 6) il soggetto della subordinata viene estratto e anticipato; con esserci (xii, 22) la subordinazione di 2° grado. Il congiuntivo nella subordinata appare con i reggenti: essere ragionevole, essere necessario, bastare, convenire, esserci, parere, vedere; l’indicativo con i reggenti: è vero, è che, notare. Si considerano a parte le soggettive introdotte da reggenti particolari (nome, dimostrativo, connettori cioè che, così). N reggente: «E l’ordine delle cose è che, subito che uno forestiere potente entra in una provincia, tutti quelli che sono in essa meno potenti li aderiscano» (iii, 22), «Di che si cava una regola generale [...] che chi à cagione che uno diventi potente, ruina» (iii, 50), «E uno de’ maggiori remedii e più vivi sarebbe che la persona di chi acquista vi andassi a abitare» (iii, 12), «Le quali [scil. variazioni e di√coltà] sono che li òmini mutano volentieri signore» (iii, 1), «avendo indizio come in Firenze era uno nato de’ Bentivogli» (xix, 17). Dimostrativo reggente: «ché delli òmini si può dire questo generalmente, che sieno ingrati, volubili» (xvii, 9), «Intra le mirabili azioni di Anibale si connumera questa che, avendo uno essercito grossissimo [...] condotto a militare in terre lontane, non vi surgessi mai alcuna dissensione» (xvii, 16), «Ma come uno principe possa conoscere el ministro chi è, ci è questo modo che non falla mai» (xxii, 6), «Di qui nasce quello che ho ditto, che dua, diversamente operando, l’uno si conduce al suo fine e l’altro no» (xxv, 14). Reggenti cioè che esplicativo e così introduttore: «il che credo che nasca prima dalle cagioni che si sono adrieto lungamente discorse, cioè che quel principe che s’appoggia tutto sulla fortuna, rovina come quella varia» (xxv, 9), «E puossi discorrere questa parte così: quel principe che ha più paura de’ forestieri che de’ populi debbe fare le fortezze (xx, 27). 3. 5. 3. Le proposizioni soggettive con infinito Rispetto al tipo precedente la reggente e l’infinitiva sono legate da un diverso rapporto; l’infinito oblitera il modo e il tempo verbale, ma assicura un legame più coeso. Talvolta l’infinitiva soggettiva è introdotta dalla preposizione a (con i reggenti è facilità, resta), talvolta è al passivo; non raramente regge a sua volta un’infinitiva. bastare: «basta solo non preterire l’ordine de’ sua antinati e dipoi temporeggiare con li accidenti» (ii, 3), «e a possederli securamente basta avere spenta la linea del prencipe» (Pri iii, 9); bisognare: «a conoscere bene la natura de’ populi bisogna essere principe» (Pri i, 5), «Bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi» (Pri xviii, 7); convenire: «Conviene avere, nell’essaminare le qualità di questi principati, un’altra considerazione» (Pri x, 1), «ti conviene seguire l’umore suo» (Pri xix, 38); essere + aggettivo/nome + infinito: «è facilità grande a tenerli» (Pri iii, 9); «L’altro migliore remedio è mandare colonie» (Pri iii, 14), «Onde, chi assalta el Turco, è necessario pensare di averlo a trovare unito» (Pri iv, 11), «onde che a Carlo, re di Francia, fu licito pigliare la Italia col gesso» (Pri xii, 9) «L’ordine ch’ellino hanno tenuto è stato prima [...] avere tolto reputazione alle fanterie» (Pri xii, 32), «Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono e usarlo e non usarlo secondo la necessità» (Pri xv, 6), «E io so che ciascuno confesserà che sarebbe laudabilissima cosa a uno principe trovarsi di tutte le soprascritte qualità quelle che sono tenute buone» (Pri xv, 10), «È suta consuetudine de’ principi [...] edificare fortezze» (Pri xx, 24), «Pertanto allora e prima sarebbe suto più sicuro a lei non essere odiata dal populo» (Pri xx, 32);

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giovare: «Giova ancora assai a uno principe dare di sé essempli rari [...] e pigliare uno modo circa premiarlo o punirlo» (Pri xxi, 9); parere: «parendoli massime aversi acquistata amica la Romagna e guadagnatosi tutti quelli populi» (Pri vii, 22), «mi è parso più conveniente andare drieto alla verità eπettuale della cosa che all’immaginazione di essa» (Pri xv, 3); restare: «resta ora a dire quelle della seconda [volta] e vedere che remedii lui ci aveva» (Pri iii, 7), «Restaci solamente al presente a ragionare de’ principati ecclesiatici (Pri xi, 3), cfr. a + infinito; vedere con si passivante: «donde si vede molte volte essere loro presentati cavalli» Pri (i, 1); «si vedrà lui aversi fatti grandi fondamenti alla futura potenzia» (Pri vii, 9), «si vedrà esserli molto più facile guadagnarsi amici quelli òmini che dello stato innanzi si contentavano e però erano sua inimici» (Pri xx, 23); cfr. un es. in cui il reggente è costituito da una «dittologia topica»: 41 «E molti si sono immaginati repubbliche e principati, che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero» ‘che non sono stati mai conosciuti esistere veramente’ (Pri xv, 4).  

Nel sottotipo (è) + aggettivo / nome + (è) + infinito si nota la presenza del dativo [+ umano] v. Pri xii, 9; xv, 6; xv, 32; in xii, 9 il reggente è costituito dall’impersonale è licito. In xv, 10 si ha la subordinazione di 2° grado. Gli altri reggenti sono gli intransitivi bastare, bisognare, convenire, giovare, parere, restare. Sulle reggenze di parere v. Telve (2000a: 3024). Ritorna anche qui il reggente vedere (si passivante). Per restare v. la subordinata di modo finito: «Non resta però per questo che noi [...] non possiamo fare fede [...] delle sue lodevoli qualità» (Arte guerra, i, Machiavelli 2001a: 31-32). I Discorsi presentano esempi di infinitiva soggettiva introdotti dai passivi impersonali conchiudesi e leggesi.

3. 5. 4. Le proposizioni oggettive con verbo finito Il complementatore è costituito da che e come; talvolta è omesso; nella subordinata la scelta tra indicativo e congiuntivo dipende dalla semantica del reggente; la subordinata è spesso interessata da fenomeni di dislocazione e d’interposizione; alcuni reggenti ammettono anche subordinate infinitive (con o senza preposizione). accorgersi: «né si accorse, con questa diliberazione, che faceva sé debole» (Pri iii, 37); concludere: «concludo che queste colonie non costono» (Pri iii, 17), «Concluderò solo che a uno principe è necessario avere el populo amico» (Pri ix, 18); confessare: «ma ognuno confesserà che, [scil. Giovanni Aucut] vincendo, stavano Fiorentini a sua discrezione» (Pri xii, 20), «E io so che ciascuno confesserà che sarebbe laudabilissima cosa a uno principe trovarsi di tutte le soprascritte qualità quelle che sono tenute buone» (Pri xv, 10); confidare: «tamen confido assai che per sua umanità li debba essere accetta» (Pri i, 3); consentire: «el duca [...] doveva creare papa uno spagnolo, e non potendo, doveva consentire che fussi Roano» (Pri vii, 47); considerare: «considerato come da me non li possa esser fatto maggiore dono» (Pri Dedicatoria 3: infinitiva al passivo), «E debbasi considerare come non è cosa più dificile a trattare» (Pri vi, 17), «e puossi facilmente vedere che diπerenzia è infra l’una e l’altra di queste arme, considerato che diπerenzia fu dalla riputazione del duca» (Pri xiii, 12); credere: «Credo che questo avvenga dalle crudeltà bene usate o male usate» (Pri viii, 23), «perché io non credo che le divisioni faccino mai bene alcuno» (Pri xx, 11); dire: «Dico pertanto che questi stati [...] o sono della medesima provincia o della medesima lingua o non sono» (Pri iii, 8), «dico come io iudico coloro potersi reggere per sè medesimi» (Pri x, 1: subordinazione di 2° grado), «dico che tutti li òmini, quando se ne parla [...], sono notati di alcune di queste qualità» (Pri xv, 7: subordinata al passivo); «dico 41

  Questa formula è usata da Martelli, in Pri xv, 4.

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come sarebbe bene essere tenuto liberale» (Pri xvi, 1: subordinazione di 2° grado); «Solevano li antichi nostri e quelli che erano stimati savi dire come era necessario tenere Pistoia con le parte [= fazioni] e Pisa con le fortezze» (Pri xx, 10); «Pre’ Luca [...] parlando di sua Maestà, disse come non si consigliava con persona e non faceva mai di alcuna cosa a suo modo» (Pri xxiii, 7); dubitare: «Dipoi iudicò el Duca non essere necessario sì escessiva auttorità, perché dubitava non divenissi odiosa» (Pri vii, 26), «lui aveva a dubitare in prima che un nuovo successore della Chiesa non li fussi amico e cercassi torli quello che Alessandro li aveva dato» (Pri vii, 31); fare: (causativo): «né mai e’ meriti delli Achei e delli Etoli feciono che permettessino loro accrescere alcuno stato» (Pri iii, 25), «[un poco di stipendio] non è su√ciente a fare che voglino morire per te» (Pri xii, 6); guardarsi: «Debbe ancora [...] guardarsi che per accidente alcuno non vi entri un forestiere potente quanto lui» (Pri iii, 21); intendere: «[scil. un cittadino] dassi a intendere che il populo lo liberi quando fussi oppresso da’ nimici o da’ magistrati» (Pri ix, 21), «Avete dunque a intendere come [...] si divise la Italia in più stati» (Pri xii, 28); iudicare: «iudicò fussi necessario [...] darli buon governo» (Pri vii, 24), «perché io iudico, a chi fussi necessitato, che basti imitargli» (Pri viii, 2); per iudicare reggente di infinitive, vedi 3.5.5; pensare: «ha solamente a pensare che non piglino troppe forze e troppa autorità» (Pri iii, 23), «Pertanto questi nostri principi [...] non accusino la fortuna, ma la ignavia loro, perché non avendo mai ne’ tempi quieti pensato che possono mutarsi» (Pri xxiv, 8); persuadere: «Severo [...] persuase al suo esercito [...] che elli era bene andare a Roma» (Pri xix, 44), «avendo sempre uno prosperato camminando per una via, non si può persuadere che sia bene partirsi da quella» (Pri xxv, 16); cfr. “a + infinito”: «el legato di Antioco li persuadeva a stare neutrali» (Pri xxi, 15); potere: «né la potenzia di Antioco possé li consentissimo che tenessi in quella provincia alcuno stato» (Pri iii, 25); pregare: «e pregavalo fussi contento ordinare che da’ firmiani fussi ricevuto onorevolmente» (Pri viii, 16), «Vedesi come la prega Dio che le mandi qualcuno» (Pri xxvi, 6); querelarsi: «[Settimio] si querelò in Senato come Albino [...] aveva dolosamente cerco di amazzarlo» (Pri xix, 48); replicare: «replicherei come l’arme hanno a essere operate o da uno principe o da una repubblica» (Pri xii, 11); rispondere: «respondo con le ragioni dette di sopra, che non si debbe mai lasciare seguire uno disordine (Pri iii, 45), «Respondo come e’ principati, de’ quali si ha memoria si trovano governati in dua modi diversi» (Pri iv, 2); sapere: «sapevano che la guerra non si lieva» (Pri iii, 29), «E io so che ciascuno confesserà che sarebbe laudabilissima cosa a uno principe trovarsi di tutte le soprascritte qualità quelle che sono tenute buone» (Pri xv, 10), «Dovete adunque sapere come sono dua generazioni di combattere» (Pri xviii, 2); scrivere: «E scrisse a Giovanni Fogliani come [...] voleva venire a vedere lui e la sua città» (Pri viii, 16), «li quali scrivono come Achille e molti altri di quelli principi antichi furono dati a nutrire a Chirone centauro» (Pri xviii, 5); sperare: «Ha trovato adunque la Santità di papa Leone questo pontificato potentissimo; il quale si spera, se quelli lo feciono grande con le arme, questo con la bontà e altre sue infinite virtù lo farà grandissimo e venerando» (Pri xii, 18), «sperorono che’ populi, infastiditi dalla insolenzia de’ vincitori, li richiamassino» (Pri xxiv, 8); temere: «Ma circa sudditi [...], si ha a temere che non coniurino secretamente» (Pri xix, 9), «da’ grandi inimici non solo debbe temere di essere abandonato, ma che etiam loro li venghino contro» (Pri ix, 8);

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tenere ‘ottenere’: «[scil. il duca Valentino] poteva tenere che uno non fossi papa» (Pri vii, 45); 42 vedere: «vedrete come elli ha fatto el contrario di quelle cose che si debbono fare» (Pri iii, 31); cfr. la costruzione infinitiva: «e se voi considerrete l’Italia [...], vedrete essere una campagna sanza argini e sanza alcuno riparo» (Pri xxv, 8); volere: «Io ho voluto o che veruna cosa l’onori o che solamente la varietà della materia e la gravità del subietto la facci grata» (Pri i, 5), «e voglio mi basti solo la provincia di Grecia per essemplo» (Pri iii, 25: è omesso il complementatore).  

La coreferenza dei soggetti della reggente e della subordinata appare soltanto in accorgersi (Pri iii, 37); vediamone un altro es.: «né si accorgevano i meschini che si preparavano ad essere preda di qualunque gli assaltava» (Arte guerra, vii, 236,); cfr. anche: «dèi stare accorto di non credere facilmente a quelle cose che sono poco ragionevoli» (Arte guerra, v, 114). Esempi di non coreferenza: «Muta partito, quando ti accorgi che il nimico l’abbia previsto» (Arte guerra, vii, 171); «Marco Antonio [...] s’accorse come i nimici ogni dì al fare del giorno, quando si moveva, l’assaltavano per tutto il camino, lo infestavano» (Arte guerra, v, 157). Il complementatore come appare in: considerare (Pri Dedicatoria, 3, dove si nota anche l’infinito al passivo, Pri vi, 17), intendere (Pri xii, 28), querelarsi, replicare, respondere (Pri iv, 2), sapere (Pri xviii, 2), scrivere. Il complementatore è omesso in: pregare (Pri viii, 16) e volere (Pri iii, 25). Il congiuntivo nella subordinata è presente al seguito dei reggenti: consentire, credere, dubitare (non / che), fare, guardarsi, intendere (Pri ix, 21), iudicare, persuadere, pregare, sperare (Pri xxiv, 8), temere, tenere, volere. 43 Iudicare introduce anche infinitive (v. 3.5.5); persuadere introduce, oltre a subordinate all’indicativo e al congiuntivo, anche infinitive con segnacaso; lo stesso fenomeno appare con il reggente pensare (v. 3.5.5); vedere regge una subordinata come e un’infinitiva. In temere (Pri ix, 8) si ha la subordinazione mista “infinitiva / subordinata con congiuntivo”; sulla sintassi del verbo percettivo vedere, v. Robustelli (2000). La subordinazione di 2° grado appare in: confessare (Pri xv, 10), dire (Pri x, 1; xvi, 1), potere (Pri iii, 25), sapere (Pri xv, 10). Esaminiamo alcuni casi particolari. Assenti nel Principe, le infinitive dipendenti da confessare appaiono in altre opere di M., con o senza coreferenza: «non confessa avere obligo con coloro che lo rimunerano» (Discorsi i, xvi), «Io confesso questo partito essere audace e pericoloso» (Istorie fior. iii, 13); «E io confesso liberamente non avere riscontro, tra tanti uomini che io ho conosciuti e pratichi, uomo nel quale fusse il più acceso animo nelle cose grandi e magnifiche» (Arte guerra, I, 1). Pensare (con coreferenza) regge infinitive con o senza segnacaso: «non pensò mai in su la morte di stare ancora lui per morire» (Pri vii, 41), «Papa Iulio II, [...] non pensò poi a mantenerselo [scil. el nome di liberale]» (Pri xvi, 7), «[scil. uno principe] debbe preparare premii [...] a qualunque pensa in qualunque modo ampliare la sua città» (Pri xxi, 27), «hanno pensato di non desperare e’ grandi e di satisfare al populo e tenerlo contento» (Pri xix, 19); pensare introduce subordinate non coreferenti sia al cong. sia all’ind. (vedi supra) e infinitive con segnacaso. Dal reggente pensare dipendono anche interrogative indirette (v. 3.5.6). Pregare regge subordinate al cong. con complementatore o senza. Sperare (con coreferenza) richiama l’infinitiva: «Le cagioni delle dificultà [...] sono per non potere essere chiamato [...], né sperare, con la rebellione di quelli che elli ha dintorno, potere facilitare la sua impresa» (Pri IV, 10).  

Un reggente nominale (soggetto o complemento) può introdurre, mediante che o altro complementatore, una completiva: «uno estremo mio desiderio che Lei pervenga a quella grandezza» (Pri i, 6); «Conviene avere [...] un’altra considerazione, cioè se uno principe ha tanto stato che possa, bisognando, per sé medesimo reggersi o vero se 42

  La presenza di questo verbo nel Principe è studiata da Cernecca (1972: 113).   Sull’alternanza di indicativo e congiuntivo nelle completive della prosa letteraria del Cinquecento non disponiamo di una ricerca analoga a quella condotta da Rati (2004) per la prosa del DueTrecento. Importante è D. Gaatone, Subordonnants et enchâsseurs, in Bodelot et Al. (2013: 25-38). 43

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ha sempre necessità della defensione di altri» (Pri x, 1); «La cagione di questo è che le non hanno altro amore» (xii, 6), «per timore che le li sieno tolte» (Pri xxi, 26). 44  

3. 5. 5. Le proposizioni oggettive con infinito (accusativo con infinito) 45  

Questo costrutto, tratto dalla sintassi latina, viene rifunzionalizzato secondo schemi analitici e razionali a partire dalla prosa umanistica del sec. xv; il processo si sviluppa nel sec. xvi accrescendo la linearità sintattica delle frasi e dei periodi. 46 Nei casi di non coreferenza dei soggetti della reggente e della subordinata si avverte maggiormente l’influsso del modello latino. L’infinitiva istituisce un rapporto più stretto tra reggente e subordinata, ma l’obliterazione del modo e del tempo verbale rende tale rapporto non specifico. Di questa costruzione si osserveranno i seguenti aspetti: i) la qualità del verbo dell’infinitiva (essere, sia predicato sia ausiliare, continua a prevalere, anche se con una frequenza inferiore a quella riscontrabile nel sec. xiv); ii) l’eventuale presenza di un pronome personale nell’infinitiva (tipo: dico te essere onesto); iii) la collocazione del reggente in una principale o in una subordinata; iv) l’ordine dei costituenti.  

conoscere: «Costui [...] conobbe subito quella milizia mercennaria non essere utile» (Pri xiii, 14), «quanto [scil. quelli òmini] conoscano essere loro più necessario cancellare con le opere quella opinione sinistra che si aveva di loro» (Pri xx, 20), «E perché conosceva le rigorosità passate avergli generato qualche odio [...], volle mostrare che» (Pri vii, 26); dire: «lui a un tratto si rizzò dicendo quelle essere cose da parlarne in loco più secreto» (Pri viii, 18), «le quali nature io dico di sopra essere necessarie imitare a uno principe» (Pri xix, 42); iudicare: «Dipoi iudicò el Duca non essere necessario sì escessiva auttorità» (Pri vii, 26), «e così iudico coloro avere sempre necessità d’altri» (Pri x, 3), «iudicorono con lui non potere più vincere [...] né potere licenziarlo» (Pri xii, 25), «[scil. quello che ordinò quello regno], iudicando essere loro necessario uno freno in bocca che li correggessi [...] non volle che questa fussi particulare cura del re» (Pri xix, 21); pensare: «perché le [scil. le città di Alamagna] sono in modo fortificate che ciascuno pensa la espugnazione di esse dovere essere tediosa e di√cile» (Pri x, 8); vedere: «[scil. Alessandro VI] Vedeva oltre a questo l’arme di Italia [...] essere nella mani di coloro che dovevano temere la grandezza del papa» (Pri vii, 12), «Ne’ nostri tempi noi non abbiamo veduto fare gran cose se non a quelli che sono stati tenuti miseri, li altri essere spenti» (Pri xvi, 7), 47 «e se voi considerrete l’Italia [...] vedrete essere una campagna sanza argini e sanza alcuno riparo» (Pri xxv, 8).  

Sovente il reggente dell’infinitiva fa parte di una secondaria: in conoscere (Pri xx, 20) si tratta di una comparativa, in (Pri vii, 26) di una causale; in dire (Pri viii, 18) di una gerundiale, così anche in iudicare (Pri xix, 21), una consecutiva in pensare. Nell’infinitiva appare un elemento focalizzato: il deittico quelle essere cose (Pri viii, 18), il pronome con lui (Pri xii, 25); spesso il soggetto è posposto all’infinitiva (Pri vii, 26, xix, 21). Il pronome personale coloro è focalizzato in (Pri x, 3); lo stesso avviene per il pronome voi in: «conosco voi di ricchezze e non nobiltà non avere molti pari, d’ingegno pochi e di liberalità niuno» (Arte guerra, Proemio, 29). Si noti l’ellissi di essere nell’infinitiva al passivo: «Chi essaminerà adunque trita44

  Su questi costrutti v. Ferrari (1995: 222-233).   Segre (1963: 118-121), Trolli (1972: 151), Dardano in SIA (2012: 155-156, 159 ss.) trattano di questa costruzione dell’it. ant.; per il latino si rimanda a Hofmann/Szantir (1972: 353-363). 46   Tesi (2009: 119-163) evidenzia la rifunzionalizzazione, in senso analitico e razionale, di strutture sintattiche della tradizione letteraria da parte di Leopardi nelle Operette. 47   «L’infinito passivo dipende per zeugma complicato sintatticamente, una volta eliminata la litote, da abbiamo veduto» (Martelli, in Pri, p. 221). 45

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mente le azioni di costui, lo troverrà uno ferocissimo lione e una astutissima golpe, e vedrà quello temuto e reverito da ciascuno, e dalli eserciti non odiato» (Pri xix, 49).

Ricorre con più alta frequenza la costruzione in cui il soggetto della reggente e il soggetto dell’infinitiva sono coreferenti; questo tipo richiama talvolta l’uso del segnacaso (v. “di + infinito” in 3.3.5). desiderare: «Desiderando io adunque oπerirmi alla Magnificienza Vostra [...], mando» (Pri Dedic., 2), «il populo desidera non essere comandato né oppresso dai grandi» (Pri ix, 2); dire: «le quali [scil. arme] come David ebbe indosso, recusò, dicendo con quelle non si potere bene valere di se stesso» (Pri xiii, 16); dubitare: «io non dubiterò mai di allegare Cesare Borgia e le sua azioni» (Pri xiii, 11), «e perché io so che molti di questo hanno scritto, dubito, scrivendone ancora io, non essere tenuto presuntuoso» (Pri xv,1); guardarsi: «debbe solo guardarsi di non fare grave iniuria a alcuno di coloro de’ quali si serve» (Pri xix, 53); iudicare: «[scil. Guido Ubaldo d’Urbino] iudicò sanza quelle [scil. fortezze] più di√cilmente riperdere quello stato» (Pri xx, 25); pensare: «pensò, con lo adiuto di alcuni cittadini di Fermo, a’ quali era più cara la servitù che la libertà della loro patria, e con il favore vitellesco, di occupare Fermo» (Pri viii, 15); stimare: «biasimerò qualunque, fidandosi delle fortezze, stimerà poco essere odiato da’ populi» (Pri xx, 33); vedere: «el populo ancora, vedendo non potere resistere a’ grandi, volta la reputazione a uno» (Pri ix, 3). In desiderare, dire, vedere il reggente dell’infinitiva è un gerundio. Cfr. un esempio d’infinito preposizionale retto da desiderare: «quelli che desiderano d’acquistare» (Ds i, 5, 15); sulle reggenze di desiderare v. Telve (2000a: 300-1). In dubitare (Pri xv, 1) si ha un’infinitiva al passivo e l’ellissi della preposizione. In iudicare la focalizzazione colpisce il sintagma sanza quelle, anteposto all’infinito. In pensare il notevole distacco, creato dall’interposizione, del reggente dall’infinito non impedisce la presenza del segnacaso. L’omissione delle preposizioni di e a davanti all’infinito è un fenomeno che si riscontra soprattutto negli scritti d’occasione: «non si contenta essere alloggiato in Ponte», LCSG p. 7), ma si ritrova anche nei Discorsi (v. Bausi 2001: 921). In dubitare (Pri xv, 1) e stimare si ha l’infinito passivo. In dire appare un verbo pseudoriflessivo o medio: «non si potere bene valere», per il quale cfr.: «io m’ero potuto fuggire», «io mi fuggirò in ogni modo» (Cellini, Vita i, 107), v. Trolli (1972: 123-4).

Il latineggiamento sintattico si fa più evidente quando un’infinitiva è retta a sua volta da un’infinitiva: «quelli altri ti scusano, iudicando essere necessario, quelli avere più merito che hanno più pericolo e obligo» (Pri xx, 6), «Dico trovarsi nelle istorie, tutte le congiure essere state fatte da uomini grandi» (Ds iii, 6). In entrambi gli esempi la seconda infinitiva è una soggettiva introdotta da “è necessario che”, “si trova che”. 3. 5. 6. Le proposizioni interrogative indirette Tra gli introduttori di interrogative indirette prevalgono i verbi di conoscenza (considerare, conoscere, esaminare, intendere, pensare, riconoscere, vedere); seguono i verbi percontativi (disputare, dubitare, maravigliarsi) e i verbi dichiarativi (esprimere, monstrare); da notare la mancanza dei reggenti domandare e chiedere. 48 Negli esempi qui sotto  

48   Per quanto riguarda la valenza, domandare è costruito con l’accusativo della persona e il genitivo della cosa: «E domandandolo Alessandro di quello che quegli abitatori viverebbero, rispose non ci avere pensato» (Ds i, 1, 21, p. 15); cfr. la reggenza infinitivale: «non domandando lui se non di essere oppresso»

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riportati si hanno cinque interrogative totali introdotte da se. Tra le interrogative su costituente si annoverano: quanto (5 ess.), quale (3 ess.), donde (3 ess.), perché (1 es.); vi sono inoltre le locuzioni interrogative: con quanta poca di√cultà, di qual natura. conoscere: «conoscerà quanto io indegnamente sopporti una grande e continua malignità di fortuna» (Pri Dedic., 7); considerare: «Consideri ora uno con quanta poca di√cultà posseva il re tenere in Italia la sua reputazione» (Pri iii, 36), «Ora, se voi considerrete di qual natura di governi era quello di Dario, lo troverrete simile al regno del Turco» (Pri iv, 16); disputare: «Nasce da questo una disputa, s’elli è meglio essere amato che temuto» (Pri xvii, 8); dubitare: «Potrebbe alcuno dubitare donde nascessi che Agatocle e alcuno simile dopo infiniti tradimenti e crudeltà possè vivere lungamente sicuro nella sua patria» (Pri viii, 22); esaminare: «essaminiamo se delle cose dette ne ha fatto alcuna» (Pri iii, 31), «debbe el principe [...] essaminare le vittorie e perdite loro da che causa le procedano» (Pri xiv, 14); esprimere: «Né posso esprimere con quale amore e’ fussi ricevuto in tutte quelle province che hanno patito per queste illuvioni esterne» (Pri xxvi, 26); intendere: «Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede e vivere con inntegrità e non con astuzia, ciascuno lo intende» (Pri xviii, 1); maravigliarsi: «potrebbe alcuno maravigliarsi donde nacque che Alessandro Magno in pochi anni diventò signore della Asia, e non la avendo appena occupata, morì» (Pri iv, 1), «e non si maraviglierà se lui, omo nuovo, arà possuto tenere tanto imperio» (Pri xix, 49), «E non è maraviglia se alcuno de’ prenominati italiani non ha possuto fare quello che si può sperare facci la illustre Casa vostra» (Pri xxvi, 14); monstrare: «[scil. Alessandro VI] monstrò quanto uno Papa e con il danaio e con le forze si poteva prevalere» (Pri xi, 12); pensare: «pensando meco medesimo se in Italia al presente correvano tempi da onorare uno nuovo principe e se ci era materia che dessi occasione a uno prudente e virtuoso di introdurvi forma che facessi onore a lui e bene all’università delli òmini di quella, mi pare corrino tante cose in benefizio d’uno principe nuovo» (Pri xxvi, 1); riconoscere: «qualunque legge la vita di Ciro [...], riconosce dipoi nella vita di Scipione quanto quella imitazione li fu di gloria e quanto nella castità, aπabilità, umanità, liberalità Scipione si conformassi con quelle cose che di Ciro da Senofonte sono sute scritte» (Pri xiv, 15); vedere: «non si vede perché elli abbia a essere iudicato inferiore a qualunque escellentissimo capitano» (Pri viii, 11), «Resta ora a vedere quali debbano essere e’ modi e governi di uno principe co’ sudditi o con li amici» (Pri xv, 1). In disputare il reggente è costituito dal deverbale disputa. In dubitare il predicato possé è concordato a senso con due soggetti. In esaminare (iii, 31) il complemento delle cose dette è dislocato a sinistra e ripreso mediante ne: è questa una modalità tipica della segmentazione machiavelliana; in esaminare (xiv, 14) si ha una frase segmentata in cui l’oggetto diretto è ripreso dal pronome anaforico le, collocato dopo la locuzione interrogativa. In esprimere si ha il congiuntivo fussi in luogo del condizionale. In intendere l’interrogativa è anteposta proletticamente alla reggente. Nel caso dei reggenti conoscere, intendere, monstrare e riconoscere la natura di interrogativa indiretta si può evincere da un’intermediazione discorsiva di questo tipo: “Ti domando: “Quanto indegnamente io sopporto?” > Ti domando quanto i. io sopporti > Ora conosci quanto i. io sopporti”. Da maravigliarsi (iv, 1) dipendono (Pri ix, 14); sul modello latino, è usata frequentemente, la costruzione passiva: «e domandati dove era lo esercito de’ Sanniti, convennono tutti [...] a dire come egli era allo assedio di Nocera» (Ds iii, 40, 7, p. 763). Per le interrogative indirette in it. ant.: N. Munaro, in GIA (2010, pp. 1151-57, 1177-82), M. Dardano, in SIA (2012: 178-84). Per un confronto con le interrogative dirette presenti in testi toscani del Due-Trecento, v. Lauta (2002); per le interrogative dirette del xvi sec. v. Patota (1990: 95-165); per un confronto con l’it. mod.: Serianni (1988: 481-83), E. Fava in GGIC, ii (20012: 675-720).

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un’interrogativa e una completiva (in non la avendo la negazione è pleonastica); in maravigliarsi (xxvi, 14) il reggente è costituito dal deverbale maraviglia collocato in una perifrasi. In monstrare si noti la forma verbale media si poteva. In pensare vi sono due interrogative se ... e se, così anche in riconoscere (quanto ... e quanto). In pensare si notino anche: l’anacoluto pensando ... mi pare che, la formula presentativa se ci era materia e gli aggettivi nominalizzati uno prudente e virtuoso.

3. 6. Le proposizioni relative 49  

Le relative libere sono introdotte, nella maggior parte dei casi, dal pronome chi e appaiono per lo più all’inzio del periodo: «E chi le acquista, volendole tenere, debbe avere dua respetti» (Pri iii, 10), «Chi essaminerà adunque tritamente le azioni di costui, lo troverrà uno ferocissimo lione e una astutissima golpe» (Pri xix, 49). Ha valore ipotetico chi considerassi ‘se qualcuno considerasse’ (Pri viii, 9). 50 Meno frequente è il nesso colui che, coloro che; vi sono poi coloro e’ quali, coloro a chi, coloro di chi. Tutti questi nessi contribuiscono a formare proposizioni di complessità media, ricorrenti soprattutto nelle riprese discorsive e nella presentazione di personaggi: «Colui adunque che vuole non potere vincere, si vaglia di queste arme» (Pri xiii, 7), «E parlerò di Luigi, e non di Carlo, come di colui che, [...] si sono visti meglio e’ sua progressi» (Pri iii, 31), «Coloro e’ quali per fortuna diventano di privati principi con poca fatica diventano, ma con assai si mantengano» (Pri vii, 1). L’omissione di che si verifica non raramente nelle relative con antecedente. 51 Il fenomeno (di cui abbiamo già visto il percorso storico e la concomitanza con l’omissione del che subordinante) avviene soprattutto nei seguenti tipi sintattici: «tutti quelli hai oπesi» (Pri iii, 2), «mossi dall’invidia hanno contro a chi è suto potente sopra di loro» (Pri iii, 22). Non è sempre facile individuare i criteri della scelta tra che e il quale; il primo appare soprattutto: i) nelle relative introdotte dal nesso “pronome personale o dimostrativo + che” («coloro che desiderano acquistare grazia», «con quelle cose che in fra le loro abbino più care», «con quello animo che io lo mando» (Pri Dedic., 1 e 6); ii) nelle relative brevi e di carattere definitorio: «se non [scil. il principato] tutto nuovo, ma come membro, che si può chiamare tutto insieme quasi misto» (Pri iii, 1); iii) preferibilmente nelle relative restrittive sia all’indicativo: «Tutti li stati, tutti e’ dominii, che hanno avuto e hanno imperio sopra li uomini, sono stati e sono o repubbliche o principati» (Pri I, 1), sia al congiuntivo: «e non doveva mai consentire al papato di quelli cardinali che lui avessi oπesi o che, diventati papi, avessino a avere paura di lui» (Pri vii, 45); più rare sono le relative restrittive introdotte da (il) quale: «non trovando intra la mia suppellettile cosa quale io abbia più cara» (Pri Dedic., 2). Nelle relative appositive (dette anche esplicative) il quale e i casi obliqui sono usati con una frequenza superiore a quella riscontrabile nella prosa del xiv secolo: «una naturale dificultà, la quale è in tutti i principati» (Pri iii, 1). Quale, come oggetto  



49   Sulle relative v. P. Benincà/G. Cinque, in GIA (2010: 469-507), E. De Roberto, in SIA (2012: 196-269). Sui valori semantici e le funzioni testuali delle relative con antecedente in italiano antico, v. De Roberto (2010: 373 ss.). Per le relative del latino v. Hofmann/Szantir (1972: 554-572). 50  Nei Discorsi prevalgono chi considera e chi considerrà. Per chi, usato come relativo riferito a persona, assieme ai casi obliqui di chi, a chi, con chi, v. Trolli (1972: 125). 51   L’omissione di che relativo e di che subordinante, già diπusa nelle scritture di media formalità del sec. xiv, diviene più frequente, allo stesso livello, nel secolo successivo (v. le Lettere di A. Macinghi Strozzi), quando il fenomeno si aπerma anche nella prosa alta: v. Trolli (1972: 140-41), A. Bocchi (a cura di) (1991), Le lettere di Gilio de Amoruso mercante marchigiano del primo Quattrocento. Edizione, commento linguistico e glossario, Tübingen, Niemeyer (B.Z.R. Ph., 237, 1991: 139-42).

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diretto, è usato sovente nel collegamento interperiodale: «una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antique, le quali avendo io con gran diligenzia lungamente escogitate e essaminate [...], mando alla Vostra Magnificenzia» (Pri Dedic., 2), «Costoro, per le ragioni dette, ti possono aprire la via a quello stato e facilitarti la vittoria: la quale dipoi a volerla mantenere, si tira drieto infinite dificultà» (Pri iv, 14); si veda un passo con ripresa anaforica: «Ha trovato adunque la Santità di papa Leone questo pontificato potentissimo; il quale, si spera, se quelli lo feciono grande con le arme, questo con la bontà e altre sua infinite virtù lo farà grandissimo e venerando» (Pri xi, 18). La relativa preposizionale usata come complemento indiretto appare in vari cotesti: «e seppe tanto dissimulare l’animo suo che li Orsini, mediante il signor Paulo, si riconciliorono seco: con il quale el duca non mancò d’ogni ragione di o√cio per assicurarlo» (Pri vii, 21), «vi prepose messer Remirro Orco, omo crudele e espedito, al quale dette plenissima potestà» (Pri vii, 24), «Solamente si può accusarlo nella elezione di Iulio, nella quale lui ebbe mala elezione» (Pri vii, 45). La separazione della relativa dalla testa è un fenomeno ricorrente e occupa varie posizioni nel periodo: «e così iudico coloro avere sempre necessità d’altri, che non possono comparire contro al nimico in campagna» (Pri x, 3), «nondimanco si vede per esperienzia ne’ nostri tempi quelli principi avere fatto grandi cose, che della fede hanno tenuto poco conto e che hanno saputo con la astuzia aggirare e’ cervelli delli òmini» (Pri xviii, 1), «e quelle difese solamente sono buone, sono certe, sono durabili, che dependono da te proprio e dalla virtù tua» (Pri xxiv, 10). L’uso delle relative non è esente da incongruenze: può mancare la testa del costrutto perché è sottintesa oppure si trova, a una certa distanza, in un altro periodo. Talvolta il relativo assorbe un pronome personale, come accade nel passo che segue, dove il sintagma ai quali parendo vale ‘i quali, parendo loro’: «debbe uno omo prudente [...] fare come li arceri prudenti, ai quali parendo el loco dove disegnano ferire troppo lontano e conoscendo fino a quanto arriva la virtù del loro arco, pongano la mira assai più alta che il loco destinato» (Pri vi, 2-3). Non raramente si hanno due relative poste in successione e tra loro implicate. 52 «La costruzione del relativo giunzionale [...] è una delle abitudini sintattiche del Machiavelli in cui lo scrittore esprime l’unità di pensiero al di sopra delle articolazioni del periodo» (Chiappelli 1974: 64). Nel passo «[scil. uno privato cittadino] diventa principe della sua patria, il quale si può chiamare principato civile» (Pri ix, 1) il relativo equivale a e questo principato 53 (paraipotassi relativa, v. 3.4.9). L’uso del relativo all’inizio del periodo, fenomeno analogo all’uso, in tale posizione, del pronome profrase il che, va confrontato con il frequente ricorrere della coniunctio relativa. Questo costrutto, frequente nella prosa letteraria del Cinquecento (ha una particolare rilevanza nella Storia d’Italia di Guicciardini), si sottrae talvolta al rapporto con quanto precede e acquisisce una propria salienza comunicativa. Della coniunctio relativa si distinguono le seguenti funzioni sintattiche: i) soggetto: «E’ quali errori, vivendo lui, possevano ancora non lo oπendere» (Pri iii, 43: relativa all’inizio periodo con funzione di collegamento), «la quale tepidezza nasce parte per paura [...] parte dalla incredulità» (Pri vi, 17), «le quali cose da  



52   A tale proposito si ricordi che «quelle relative che modificano un antecedente già modificato da una frase relative [...] hanno portata non solo sull’antecedente, ma anche sulla relativa che modifica l’antecedente» (P. Benincà/G. Cinque, GIA i: 506). 53   Cfr.: «li troverrete crudelissimi e rapacissimi: li quali, per satisfare a’ soldati, non perdonorono a alcuna qualità di ingiuria» (Pri xix, 40: 258).

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Albino furono accettate per vere» (Pri xix, 47), «si mosse personalmente a quella espedizione; la quale mossa fece stare sospesi e fermi Spagna e Viniziani» (Pri xxv, 20: si noti anche la ripresa parziale mosse ... mossa); ii) oggetto: «La quale opera io non ho ornata né ripiena di clausole ampie» (Pri i, 4), «Le quali cose Iulio non solum seguitò, ma accrebbe» (Pri xi, 15), «morto lui, lo elessono all’imperio, il quale non molto tempo possedé» (Pri xix, 57); cfr. «le quali legnie madonna Ginevra, moglie del detto Capretta, me l’aveva oπerte» (Cellini, Vita ii, lxxvi); iii) complemento temporale o circostanziale: «dopo la quale vittoria, sendo Dario morto, rimase a Alessandro nello stato sicuro» (Pri iv, 17), «Dopo il quale omicidio, montò Oliverotto a cavallo e corse la terra» (Pri viii, 20), «Restaci solamente al presente a ragionare de’ principati ecclesiastici; circa quali tutte le di√cultà sono avanti che si possegghino» (Pri xi, 1), «per il quale partito portorono più pericolo» (Pri xiii, 5); complemento retto da un verbo: «dalla quale impresa el re lo fece desistere» (Pri vii, 17 fine periodo), «Nel quale grado sendo constituto [...] raunò una mattina el populo» (Pri viii, 6); o da un sostantivo: «la ferocità del quale spettaculo fece quelli populi in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi» (Pri vii, 28). 54 Le relative con antecedente svolgono un ruolo di primo piano nella costruzione del periodo, cui conferiscono complessità e, in molti casi, una stilizzazione latineggiante. Per il fatto che stabiliscono rapporti di successione e di riferimento, le relative sono un fattore di stabilità e di sviluppo nella costruzione di sequenze testuali.  

3. 7. Le proposizioni avverbiali La loro presenza e distribuzione sono in rapporto al carattere argomentativo e polemico dell’opera. Le causali, innanzi tutto, spiegano il concatenarsi degli eventi secondo principi e regole che talvolta acquistano uno spicco maggiore rispetto all’esposizione lineare degli eventi; le consecutive e le concessive innervano nel tessuto sintattico altri processi dimostrativi, che progrediscono per la presenza di condizionali e di eccettuative; le finali hanno un rilievo particolare quando mostrano le conseguenze negative di un’azione improvvida; le comparative stabiliscono confronti che assumono una validità esemplare; le temporali scandiscono i momenti della narrazione storica. 3. 7. 1. Causalità Gli introduttori dei quattro tipi di causali (causa fisica, motivo di fare, motivo di dire, motivazione dell’atto linguistico) sono fondamentalmente i medesimi che ricorrono nell’it. mod.; tratti particolari s’individuano nella collocazione del costrutto e nell’uso ricorrente del tipo “per + infinito”. 55 Nelle maggior parte dei casi le causali, sia esplicite sia implicite, seguono la principale; la causale anteposta, meno frequente, accresce la forza illocutiva dell’enunciato; la causale in forma d’incidentale si riferisce a un componente di “sfondo” e costituisce un tratto particolare  

54  La coniunctio relativa favorisce la presenza di costrutti assoluti: «li quali morti, occupò e tenne el principato (Pri viii, 7). 55   Le causali presenti nella prosa di Machiavelli sono analizzate da Chiappelli (1952: 43-4; 1969: 124-32; 1974: 65-72). Per un confronto con l’uso delle causali nell’it. ant. vedi: G. Frenguelli (2002a; in SIA 2012: 308-37), M. Barbera, in GIA (2010: 974), dove per distinguere i diversi tipi di causali si ricorre all’uso di parafrasi esplicative. L’uso di causali è legato all’argomentazione nella spiegazione storica, dove agiscono due modelli: deduttivo e nomologico (Topolski 1997: 179-188).

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dello stile. Sono da notare alcune configurazioni particolari: la causale posta alla fine del periodo viene “richiamata” dalla causale che appare all’inizio del periodo che segue 56 (v. Pri xii, 26-27); tre causali introdotte da perché sono collocate in tre periodi successivi (Pri xiv, 4-6) 57 e, alla fine, sono confermate da una frase conclusiva introdotta da e però; tre causali perché di seguito ricorrono anche in Pri xxi, 12-13. Si ritrova un esempio di “causale qualificativa” come colui che, un tipo ricorrente non raramente nel Decameron: «E parlerò di Luigi, e non di Carlo, come di colui che, per avere tenuta più lunga possessione in Italia, si sono visti meglio e’ sua progressi» (Pri iii, 31), dove si nota al tempo stesso di un’infinitiva con valore causale (Chiappelli 1969: 131). È da notare la causale prolettica introdotta da perché (più raramente da poiché): «li quali [scil. modi] perché variano secondo el subietto, non se ne può dare certa regola» (Pri ix, 17: motivo di dire), «E perché io sono venuto con questi essempli in Italia, la qual è stata governata molti anni dalle arme mercennarie, le voglio discorrere» (Pri xii, 27: motivo di fare), «E poiché la materia lo ricerca, non voglio lasciare indrieto ricordare a’ principi» (Pri xx, 21: motivo di dire). La causale perché, preposta alla principale (probabile calco della frase lat. introdotta da etenim, che occupa la stessa posizione), si ritrova in prose appartenenti a registri e a livelli stilistici diversi, come la Vita di Cellini e la Storia d’Italia di Guicciardini: in tale posizione la causale si focalizza. 58 Vediamo altri fenomeni. Causale esplicita posposta: «Colui che viene al principato con l’aiuto de’ grandi, si mantiene con più dificultà che quello che diventa con lo adiuto del populo, perché si truova principe con dimolti intorno» (Pri ix, 4: causa fisica). Due causali, in rapporto d’implicazione, si susseguono: «El contrario interviene ne’ regni governati come quello di Francia, perché con facilità tu puoi entrarvi, guadagnandoti alcuno barone del regno, perché sempre si truova de’ mali contenti e di quelli che desiderano innovare» (Pri iv, 13, p. 104). Una causale (motivo di dire) introdotta da che e posposta alla principale: «e li bastò solo, sopravvenente el periculo, assicurarsi di pochi; che se elli avesse avuto el populo inimico, questo non li bastava» (Pri ix, 19: si noti il dimostrativo anaforico). L’infinitiva causale introdotta da per (per lo più posposta alla principale) rientra nel fenomeno del latineggiamento sintattico, che promuove l’uso dell’infinito in vari settori. È una tendenza che si evidenzia quando due infinitive sono tra loro coordinate: «Le cagioni delle dificultà in potere acquistare el regno del Turco sono per non potere essere chiamato da’ principi di quello regno, né sperare, con la rebellione di quelli che elli ha dintorno, potere facilitare la sua impresa» (Pri iv, 10). Si hanno anche due infiniti in contatto: «il quale partito [...] è buono, ma è bene male [= molto male] avere lasciati li altri remedii per quello, perché non si vorrebbe mai cadere per credere trovare chi ti ricolga» (Pri xxiv, 9). La causalità è espressa anche mediante gerundiali (v. 3.8.1) e participiali (v. 3.8.2). Non mancano frasi coordinate aventi significato causale, indotto da avverbi come però, pertanto, (a)dunque. Né  





56   Cfr.: «[scil. i Viniziani] perderono in una giornata quello che in 800 anni con tanta fatica avevano acquistato, perché da queste arme nascono solo e’ lenti, tardi e deboli acquisti, e le subite e miraculose perdite. // E perché io sono venuto con questi essempli in Italia [...], le voglio discorrere» (Pri xii, 26-27). 57   Cfr. ancora: tre causali perché tra loro coordinate (Pri xiii, 20); tre causali in periodi che si susseguono (Pri xix, 65); quattro causali di seguito (Pri xxi, 12-13); perché ... perché...sì perché...sì etiam perché (Pri xxv, 14-16). Sulla congiunzione e con valore causale, v. Chiappelli (1952: 106). 58   Cfr.: «Et perché la quercia di quella sorte fa ’l più vigoroso fuoco che tutte l’atre sorte di legne» (Cellini, Vita, II, lxxvi, p. 671). Per un confronto con il francese v. Blanche-Benveniste (2002b: 100-101).

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mancano sintagmi causali: «el duca di Ferrara, il quale non ha retto alli assalti de’ Viniziani [...] per altre cagioni che per essere antiquato in quello dominio» (Pri ii, 4), «La cagione di questo è che le non hanno altro amore né altra cagione che le tenga in campo che un poco di stipendio» (Pri xii, 4), «considerino bene qual cagione abbi mosso quelli a favorirlo che lo hanno favorito» (Pri xx, p. 21). In conclusione, «ciò che interessa al Machiavelli è prima di tutto la rilevanza dello strumento sintattico, che finisce per essere lo scopo fondamentale di tutto lo spiegamento delle indicazioni causali» (Bàrberi Squarotti 1966: 109). 3. 7. 2. Consecutività Distinguiamo tra: i) consecutive che hanno come antecedente un sintagma aggettivale o nominale: «le cose del mondo sono sì varie che li è impossibile che uno potessi con li esserciti stare uno anno ocioso» (Pri x, 10), «e è di tanta virtù che non solamente mantiene quelli che sono nati principi, ma molte volte fa li òmini di privata fortuna salire a quel grado» (Pri xiv, 1), «Debbe adunqua avere uno principe grande cura che non li esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte qualità» (Pri xviii, 16); ii) consecutive con quantificatore tanto che, talché, talmente che: «possé in su tale fondamento edificare ogni edifizio: tanto che lui durò assai fatica in acquistare e poca in mantenere» (Pri vi, 29), «intendeva la opinione loro, diceva la sua, corroboravala con le ragioni, talché per queste continue cogitazioni non posseva mai [...] nascere accidente» (Pri xiv, 13), «è necessario non lasciare indrieto alcuna qualità di somptuosità, talmente che sempre uno principe così fatto consumerà in simile opere tutte le sue facultà» (Pri xvi, 2), «può fare imprese senza gravare e’ populi, talmente che viene ad usare liberalità a tutti quelli a chi non toglie» (Pri xvi, 6). 59 Un tratto particolare è la presenza di consecutive introdotte da in modo che e da donde: «vollono tenere la Grecia [...], e non successe loro, in modo che furono constretti disfare molte città di quella provincia per tenerla» (Pri v, 4), «e però conviene essere ordinato in modo che, quando non credono più, si possa fare credere loro per forza» (Pri vi, 22); «el principe naturale ha minori cagioni e minore necessità di oπendere, donde conviene che sia più amato» (Pri ii, 5). Donde è un introduttore polivalente; introduce, prima, un’interrogativa indiretta, poi, una consecutiva:  

Considerate le dificultà le quali si hanno a tenere uno stato acquistato di nuovo, potrebbe alcuno meravigliarsi donde nacque [= da quale causa] che Alessandro Magno in pochi anni diventò signore dell’Asia, e non la avendo appena occupata, morì, donde [= di conseguenza] pareva ragionevole che tutto quello stato si rebellassi, nondimeno [concessiva] e’ successori di Alessandro se lo mantennono e non ebbono a tenerlo altra di√cultà che quella che in fra loro medesimi per ambizione propria nacque (Pri iv, 1). 60  

Il nesso onde che si ritrova alla fine o all’inizio di periodi per introdurre la conseguenza di quanto è stato prima esposto: «onde che furono necessitati, per assicurarse59   Sulle consecutive nell’it. ant. v. G. Frenguelli, in SIA (2012: 338-59), L. Zennaro, in GIA (2010: 1094-1114). 60   La struttura progressiva imita l’argomentazione con aggiunta di temi e di prove: la prima volta donde introduce un’interrogativa indiretta, la seconda volta donde ha valore consecutivo; nondimeno introduce una concessiva; si veda anche la ripresa: «donde nacque [...] per ambizione propria nacque»; cfr.: «per uno principe [...] per uno principe e per baroni [...] ma per antiquità di sangue [...] per signori [...] per uno principe e per servi». Cfr.: «Donde nasce che [...]» (Pri vi, 19), «donde meritò d’essere fatto loro principe» (Pri vi, 27).

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ne, ammazzarlo» (Pri xii, 25), «Onde che il duca deliberò non dependere dalle arme e fortuna d’altri» (Pri vii, 18). Una costruzione analoga si ottiene con il connettore pertanto, che raggiunge 23 occorrenze e che appare in posizione sia postverbale: «Dico pertanto che» (Pri iii, 8), «È necessario pertanto [...] essaminare» (Pri vi, 20), sia iniziale: «Pertanto el duca, inanzi a ogni cosa, doveva creare papa uno spagnolo» (Pri vii, 47); qualunque posizione occupi, pertanto chiude un ragionamento e apre a una conclusione, segnando in tal modo una svolta discorsiva. Una discreta diπusione hanno le relative con il congiuntivo e con valore consecutivo: «e ha intorno o nessuno o pochissimi, che non sieno parati a obedire» (Pri ix, 5), «Uno principe adunque che abbi una città forte e non si facci odiare, non può essere assaltato» (Pri x, 10), «E la brevità della vita loro n’era cagione, perché in dieci anni che, raguagliato [= mediamente], viveva uno papa, a fatica che potessi sbassare una delle fazioni» (Pri xi, 10), «e quando ne manda uno che non riesca valente omo, debbe cambiarlo» (Pri xii, 11), «e non fu mai omo che avessi maggiore e√cacia in asseverare e con maggiori giuramenti aπermassi una cosa che l’osservassi meno» (Pri xviii, 12: consecutiva + comparativa), «chi vince non vuole amici sospetti e che nelle avversità non lo aiutino» (Pri xxi, 13). 3. 7. 3. Concessività Necessarie alla trafila logicizzante del trattato, le concessive costituiscono un settore piuttosto ampio della subordinazione avverbiale. 61 Sono presenti soprattutto nella forma di costrutti correlativi bimembri. Il tipo benché è presente con 17 esempi, che hanno come indice di correlazione: tamen (più frequente), nondimeno, nondimanco (il suo uso è tipico di M.), però; rispetto all’antica prosa si nota l’assenza del tipo avegna che. Vediamo alcuni ess.: «E benché di Mosè non si debba ragionare, sendo stato uno mero esecutore delle cose che erano ordinate da Dio, tamen debba [= deve] essere ammirato» (Pri vi, 8), «E benché l’intento suo [scil. di Alessandro VI] non fussi fare grande la Chiesa, ma il duca, nondimeno ciò che fece tornò a grandezza della Chiesa» (Pri xi, 13). La ripresa avversativa accentua sia l’opposizione semantica su cui si basa la concessione sia la divisione del periodo. Il connettore ancora che si presenta in tre posizioni: i) preposto e correlato a nondimeno o nondimanco: «E ancora che di questi essempli ne sieno piene l’antiche istorie, nondimanco io non mi voglio partire da questo essemplo fresco di Iulio II» (Pri xiii, 3); ii) preposto senza correlazione: «ancoraché tu abbi le fortezze e [con valore avversativo] il popolo ti abbi in odio, le non ti salvano» (Pri xx, 29); iii) posposto senza correlazione: «[scil. i Cartaginesi] li quali furono per essere oppressi da’ loro soldati mercennarii, finita la prima guerra con li Romani, ancora che Cartaginesi avessino per capi loro proprii cittadini» (Pri xii, 14). Si ritrova anche la concessiva priva di verbo: «[scil. il Valentino] in Roma, ancora che mezzo vivo, stette sicuro» (Pri vii, 40), cfr. «ogni barone e signore, benché minimo, quanto al temporale la [scil. la Chiesa] essistimava poco» (Pri xi, 5). Ha valore conclusivo la concessiva introdotta da nondimanco, posta per lo più alla fine del periodo: «Costui, nato d’uno figulo, tenne sempre per i gradi della sua età vita scelerata; nondimanco accompagnò le sua sceleratezze con tanta virtù» (Pri viii, 4), «Era tenuto Cesare Borgia crudele, nondimanco quella sua crudeltà aveva  

61   Un’ampia trattazione sulle concessive in it. dal sec. xiv al xviii sec. è presentata da Consales (2005); per l’it. ant. cfr. anche I. Consales, in SIA (2012: 413-40). Sul “sistema concessivo” di Machiavelli v. Chiappelli (1974: 75-77).

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racconcia la Romagna» (Pri xvii, 2). Tale concessiva appare anche all’inizio del periodo, al seguito di un’aπermazione; dopo aver sostenuto che sarebbe presunzione parlare di principati, «essaltati e mantenuti da Dio», l’autore prosegue: «Nondimanco se alcuno mi cercassi donde viene che la Chiesa nel temporale sia venuta a tanta grandezza» (Pri xi, 5) e infine spiega le sue ragioni. 62  

3. 7. 4. Finalità Le proposizioni finali sono introdotte da acciò che, perché (raro in questa funzione, essendo prevalentemente un connettore causale), che, per che; mancano le finali introdotte da a√nché. 63 Le proposizioni implicite sono di due tipi: per + infinito, a + infinito. La tematizzazione della finalità è ottenuta con l’anteposizione dell’infinitiva, introdotta da per o da a, alla principale: «E per chiarire meglio questa parte, dico che sono dua generazioni di grandi» (Pri ix, 10); «e a tenere indrieto Viniziani bisognava la unione di tutti li altri» (Pri xi, 8). Due infinitive finali compongono un chiasmo in: «coloro che disegnono e’ paesi si pongono bassi nel piano a considerare la natura de’ monti e de’ luoghi alti, e per considerare quella de’ bassi, si pongono alto sopra’a’ monti» (Pri Dedic., 5). Vediamo ora i principali tipi di finali esplicite: Acciò finale: «[scil. Luigi re di Francia] dove lui era primo arbitro, vi misse uno compagno, acciò che li ambiziosi di quella provincia e mal contenti di lui avessino dove ricorrere» (Pri iii, 39); «ma la sua [scil. di Iulio II] buona fortuna fece nascere una terza cosa acciò non cogliessi el frutto della sua mala elezione» (Pri xiii, 4: ellissi di che). 64 Che finale: «la repubblica ha a mandare sua cittadini; e quando ne manda uno che non riesca valente omo, debbe cambiarlo; e, quando sia, tenerlo con le leggi che non passi el segno» (Pri xii, 12). Perché finale: «Ma lui non prima fu in Milano che fece il contrario, dando aiuto a papa Alessandro perché elli occupassi la Romagna» (Pri iii, 37), «per porre fine alla ambizione di Alessandro e perché non divenissi signore di Toscana, fu forzato venire in Italia» (Pri iii, 38: si noti che a una finale implicita ne segue una esplicita). Relativa finale con il congiuntivo: «Achille e molti altri di quelli principi antichi furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li costudissi» (Pri xviii, 2), «Vedesi come la [scil. Italia] prega Dio che le mandi qualcuno che la redima» (Pri xxvi, 6). Vi sono poi verbi reggenti, come tenere ‘ottenere’ e pregare, che impongono alla subordinata un valore finale: «[scil. il duca Valentino] poteva tenere che uno non fossi papa» (vii, 45), «e pregavalo fussi contento» (Pri viii, 16), «Vedesi come la prega Dio che le mandi qualcuno che la redima da queste crudeltà e insolenzie barbare» (Pri xxvi, 6). Come le proposizioni avverbiali possano concorrere a fondare periodi complessi si vede nel seguente passo, in cui a quattro infinitive finali, introdotte da per, segue una causale esplicita di carattere conclusivo: «Pertanto uno principe debbe essistimare poco, per non avere a rubare e’ sudditi, per potere defendersi, per non diventare  



62   Cfr. alcuni periodi introdotti da nondimanco (Pri vi, 6; viii, 4; xi, 5); Pri xi, 5 è commentato da Martelli, ed. Principe, pp. 176-177, cfr. Scavuzzo 2003, p. 32. La presenza di nondimanco nel Principe è analizzata da Consales (2005: 596-98): «A nondimeno Machiavelli alterna volentieri nondimanco, una congiunzione di tipo quantitativo negativo sconosciuta all’italiano contemporaneo». 63   Cfr. Chiappelli (1974: 77-79). Per le proposizioni finali in it. ant. v. D’Arienzo/Frenguelli, in SIA (2012: 260-80). 64   Altri esempi di acciò che (Pri xiv, 16), (Pri xx, 12), (Pri xx, 15), (Pri xx, 16); cfr. a ciò (Pri vii, 2).

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povero e contemnendo, per non essere forzato di diventare rapace, di incorrere nel nome del misero, perché questo è uno di quelli vizii che lo fanno regnare» (Pri xvi, 11). 3. 7. 5. Temporalità Una particolarità rispetto alla prosa antica è costituita dal fatto che mancano le temporali introdotte da appena, infino, poscia. Esaminiamo nell’ordine le relazioni di anteriorità, posteriorità e contemporaneità; seguono le temporali che esprimono “durata nel tempo” e “istantaneità”. Temporali di anteriorità L’azione espressa dalla reggente è anteriore a quella espressa dalla subordinata; il verbo è al congiuntivo presente, se nella principale c’è un tempo presente o futuro, al congiuntivo imperfetto se nella principale c’è un tempo passato. Tipo prima che: «Né prima furono posti a sedere che de’ luoghi segreti di quella [scil. camera] uscirono soldati» (Pri viii, 19), «[scil. Severo] mosse lo essercito contro a Roma e fu prima in Italia che si sapessi la sua partita» (Pri xix, 44), «quelli fondamenti che altri hanno fatto avanti che diventino principi» (Pri vii, 4), «Avanti che Carlo, re di Francia, passassi in Italia, era questa provincia sotto l’imperio del Papa» (Pri xi, 6). Temporali di posteriorità L’azione espressa dalla reggente è posteriore a quella espressa dalla subordinata; il verbo è all’indicativo, a meno che non sia espresso un senso di eventualità che richieda il congiuntivo; presentano vari introduttori, anche se si nota una riduzione di sottotipi rispetto alla situazione presente nell’it. ant. Tipo dopo che: «come feciono i Pisani dopo cento anni che ella [scil. la loro città] era posta in servitù da’ Fiorentini» (Pri v, 7), «Ma Alessandro morì dopo cinque anni che elli aveva cominciato a trarre fuori la spada» (Pri vii, 38), «dopo qualche giorno che li animi sono raπreddi, sono digià fatti e’ danni» (Pri x,12). Tipo “participio passato + che + indicativo”, 65 si ritrova sia all’inizio del periodo: «Preso che ebbe il duca la Romagna, e trovandola suta comandata da signori impotenti [...], iudicò fussi necessario [...] darli buon governo» (Pri vii, 24), «battuto che loro ebbono sotto el suo governo el duca di Milano, [...] iudicorono non potere con lui più vincere» (Pri xii, 25), sia al suo interno: «Chi considera adunque l’uno e l’altro di questi due stati, troverrà dificultà nello acquistare lo stato del Turco, ma, vinto che fia, facilità grande a tenerlo» (Pri iv, 8); queste due ultime modalità d’uso si ritrovano in: «Onde, chi assalta el Turco, è necessario pensare di averlo a trovare unito, e gli conviene sperare più nelle forze proprie che ne’ disordini d’altri. Ma, vinto che fussi e rotto alla campagna, in modo che non possa rifare esserciti, non si ha a dubitare di altro che del sangue del principe, il quale, spento che è, non resta alcuno di chi si abbi a temere» (Pri iv, 12).  

Temporali di contemporaneità L’azione espressa dalla subordinata avviene contemporaneamente a quella espressa dalla principale. Queste avverbiali sono introdotte dalle congiunzioni quando, mentre, 65   Cfr.: «Et fatto che io ebbi la sua tonaca di terra [...]. Et finito che io ebbi di cavar la cera», «Messo che io mi fui nel letto», «et venute che furno le prime bracciate» (Cellini Vita, II, lxxvi-vi, pp. 665-671). Per questo tipo sintattico, presente in it. ant., v.: Serianni (1988: 607), Bozzola (2004: 92).

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come e dalle locuzioni temporali del tipo al tempo che, nel momento che. Si distinguono “classi di contemporaneità” (Mäder 1968, Bianco, in SIA 2012: 292 ss.), vale a dire, si distingue la contemporaneità tra due azioni momentanee, detta “coincidenza”, da una più generica “simultanietà”; vi sono poi temporali “terminative” e “incoative”. Tipo quando: è il più frequente e occupa varie posizioni nell’ambito del periodo (assume una sfumatura condizionale se è seguito da un congiuntivo imperfetto, v. 7.7): «ma quando non si obligano a arte e per cagione ambiziosa, è segno come pensono più a sé che a te» (Pri ix. 13), «considerato che diπerenzia fu dalla reputazione del duca, quando aveva franzesi soli e quando aveva Orsini e Vitelli, a quando rimase con li soldati sua» (Pri xiii, 12). Tipo come ‘quando, appena che’: «come nel metterli a eπetto si cominciono a conoscere e scoprire, li cominciano a essere contradetti» (Pri xxiii, 8). 66 Durata nel tempo. È espressa per lo più mediante mentre (che), equivalente a ‘per tutto il tempo che’: «e mentre che lo terrà, vi arà dentro infinite dificultà e fastidii» (Pri iii, 23); «De’ quali [scil. principati] mentre durò la memoria, sempre ne furono e’ Romani incerti di quella possessione» (Pri iv, 19), «vogliono bene essere tua soldati mentre che tu non fai la guerra» (Pri xii, 7), «si vedrà quelli avere securamente e gloriosamente operato mentre ferono la guerra loro proprii» (Pri xii, 23). Istantaneità. Tipo subito che: rappresenta un evento puntuale e pertanto equivale a ‘appena che’: «subito che uno forestiere potente entra in una provincia, tutti quelli che sono in essa meno potenti li aderiscano» (Pri iii, 22); cfr. «subito che l’abbiamo formato bisogna pesarlo» (Aretino, La cortigiana iv, sc. 1); «e subito che a uno mal contento tu hai scoperto l’animo tuo, li dai materia a contentarsi» (Pri xix, 12); cfr.: «Subito che io senti’ le parole di quello sciagurato, messi un grido» (Cellini Vita xxxx). 67 Tipo tosto che: «Avete dunque a intendere come tosto che in questi ultimi tempi lo Imperio cominciò ad essere ributtato di Italia e che il papa nel temporale vi prese più reputazione, si divise la Italia in più stati» (Pri xii, 28). 68  





3. 7. 6. Comparazione Le comparative sono proposizioni che introducono un paragone rispetto a un comparato (o primo termine di paragone) della principale; la proposizione comparativa, posta di norma dopo la principale, è detta comparante (o secondo termine di paragone). 69 La suddivisione di questo tipo sintattico in sottotipi e la stessa terminologia del campo non sono omogenei. 70 Come la frase condizionale (protasi + apodosi), anche  



66   Quando ha un doppio statuto: marcatore di reggenza circostanziale e connettore di continuazione (per es., “stavo studiando quando Marco bussò alla porta”); Berrendonner (2002: 39-40) analizza questo fenomeno nel francese moderno. 67   Subito che e appena che sono avverbi temporali anaforici: possono funzionare sia come avverbi integrati sia come avverbi congiuntivi; cfr. il franc. aussitôt, v. Borillo (2003). 68  Con più tosto che si costruiscono proposizioni correlative: «Uno principe pertanto savio sempre ha fuggito queste arme e voltosi alle proprie: e ha voluto più tosto perdere con e’ suoi che vincere con li altri, iudicando non vera vittoria quella che con le arme aliene si acquistassi» (Pri xiii, 9). 69   Per le comparative in it. ant.: A. Pelo, in SIA (2012: 441-65), A. Belletti, in GIA (2010: 1135-43); sulla negazione espletiva, tipo più grande di quanto non pensassi, v. Manzotti (1980). 70   Oltre alla distinzione tra comparato e comparante, si distingue tra comparazione di uguaglianza (Mario è tanto diligente quanto onesto) e comparazione di ineguaglianza (v. Stefanelli 1990 e 1993); quest’ultimo tipo dipende dalla presenza di avverbi come più (tosto), anzi, meno ecc. o da Agg. o Avv. di forma comparativa (migliore, peggiore; maggiore, minore; meglio, peggio) e può riferirsi a un sintagma o a una frase (introdotta dal compl. che). Al che comparativo segue il costituente (detto secondo termine), rappresentato da un SN (il quale può essere S o OD), oppure da un SP, da un SA (anche da un participio) o da una frase: Questo vale più che l’impero, Pietro è più furbo che intelligente, Niente è più facile che

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la frase comparativa (comparato o primo termine di paragone + comparante o secondo termine di paragone) costituisce una struttura binaria di proposizioni semanticamente non separabili e tra loro collegate da rapporti specifici. Analogamente alla proposizione consecutiva, anche la comparativa si fonda su una correlazione. Si distingue tra comparazione di grado o di ineguaglianza, che dipende dalla presenza di avverbi come più (tosto), anzi, meno ecc. o da Agg. o Avv. di forma comparativa (migliore, peggiore; maggiore, minore; meglio, peggio), e comparazione di analogia o di uguaglianza (segnalata da come, secondo che). La comparazione può riferirsi a un sintagma o a una frase. Nel primo di questi due tipi al che comparativo segue il secondo termine o comparante, costituito da un SN (il quale può essere S o OD, oppure da un SP, da un SA, da un participio con valore aggettivale) o da una frase («uno popolo è più prudente, più stabile e di migliore giudizio che un principe» Ds I, lviii, 21, p. 283). A diπerenza dell’it. moderno, nell’it. ant. e rinascimentale: i) l’introduttore di appare soltanto davanti a un pronome; ii) gli introduttori di quanto e di quello non sono presenti: M. è più abile di quanto pensassimo / di quello che pensassimo; iii) è usata di frequente la negazione espletiva. Sono invece comuni a queste fasi della lingua letteraria i fenomeni di ellissi del SV (Mario ha più libri che Giovanni quaderni) e del SN (Mario legge più libri che giornali). Qui di seguito è studiata soltanto la comparazione tra proposizioni. Cfr. Zublena (2000: 353 ss.), che tratta di alcuni tipi particolari di comparative: di analogia, incidentale, metadiscorsiva, semanticamente debole. In questo paragrafo non si esamina la comparazione di strutture nominali (Questo vale più che l’impero; Non si deve portare più di un bagaglio), aggettivali (Pietro è più furbo che intelligente; Marco è più lodato che stimato) e preposizionali (Napoli è più lontana da Milano che da Roma; Confido più nel coraggio che nella fortuna); né si considerano le proposizioni introdotte da come, secondo che, nel modo in cui, le quali sono analizzate nel par. dedicato alle proposizioni modali, presenti nei Discorsi (4.6.8.)

Le comparative compaiono in un argomentare che procede per gradi, mediante un’addizione di elementi con i quali stabilire un confronto attivo su più piani. Vi sono diversi tipi di comparazione. La “comparazione di uguaglianza (o di analogia)” è realizzata con gli operatori comparativi tanto ... quanto, così ... come: «E tanto più è questa esperienzia periculosa quanto la non si può fare se non una volta» (Pri ix, 27), «Nessuna cosa fa tanto stimare uno principe quanto fanno le grande imprese e dare di sé rari essempli» (Pri xxi, 1), 71 «quanto più liberamente si parlerà, tanto più gli fia accetto» (Pri xxiii, 5 ), «e la natura delli uomini è così obligarsi per li benefizii che si fanno come per quelli che si ricevano» (Pri x, 13); come appare il soggetto precede o segue il primo operatore. La “comparazione di ineguaglianza (o di grado)” è realizzata con più operatori: i) Tipo più (meno) + Avv / N / Agg: «li quali più presto avevano spogliato e’ loro sudditi che correttoli» (Pri vii, 24), «Male usate sono quelle [scil. crudeltà] le quali, ancora che nel principio sieno poche, piuttosto col tempo crescono che le si spenghino» (Pri viii, 25), «ha volsuto più tosto perdere con li sua che vincere con li altri» (Pri xiii, 10), «E così el principe ne trae sempre più utilità che di coloro che, servendolo con troppa sicurtà, straccurono le cose sua» (Pri xx, 20), «e li òmini hanno  

convincere Andrea; nell’it. mod. si ha di frequente l’ellissi Mario ha più libri che Giovanni cartoline. Si parla anche di comparative di analogia e c. di grado: Schwarze (1970), Agostini (1978), Serianni (1988: 514- 520); quest’ultimo studioso pone tra le comparative i costrutti espliciti retti da come, secondo che ecc., ivi: 115, che altri includono tra le modali. Per quanto riguarda l’it. ant. v. A. Pelo (in SIA 2012: 441-465), che esamina in particolare le “costruzioni siamesi” (tipo quanto più studio, tanto più apprendo) e Colella (2010), che si è occupato di costrutti condizionali. Alcuni studiosi parlano di costruzioni equative e similative. 71   Questa è una “comparativa di grado con sovraordinata negativa” (Serianni 1988: 518).

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meno respetto ad oπendere uno che si facci amare che uno che si facci temere» (Pri xvii, 11). Quando tali operatori sono replicati si ottengono parallelismi estesi: «Le cose soprascritte, osservate prudentemente, fanno parere uno principe nuovo antico e lo rendono subito più sicuro e più fermo nello stato, che vi fussi antiquato dentro, perché uno principe nuovo è molto più osservato nelle sue azioni che uno ereditario, e quando le sono conosciute virtuose, pigliono molto più li òmini e molto più li obligano che il sangue antico» (Pri xxiv, 1-2). ii) Tipo con comparativi organici: meglio, peggio, maggiore, minore, migliore (manca peggiore): «per potersi mantenere meglio nello acquisto che non fece Francia» (Pri iii, 7), «Nasce da questo una disputa, s’elli è meglio essere amato che temuto» (xvii, 2), «[scil. alcuno] disse come elli erano molti òmini che sapevano meglio non errare che correggere li errori di altri» (Pri xvii, 21), «considerato come da me non li possa esser fatto maggior dono che darle facultà a potere in brevissimo tempo intendere» (Pri Dedic., 3), «nelli stati ereditarii [...] sono assai minori dificultà a mantenerli che ne’ nuovi» (Pri ii, 3), «il quale [scil. principe nuovo] ha maggiore necessità di acquisare reputazione che uno ereditario» (Pri xx, 15). Gli elementi della comparazione sono sia sostantivi sia infiniti; in Pri iii, 7 si noti la presenza di fare vicario e di non pleonastico. 3. 7. 7. Il periodo ipotetico L’analisi è limitata a due aspetti: i) i modi e i tempi verbali, ii) la posizione della protasi e dell’apodosi (al fine d’individuare il componente tematizzato o focalizzato). 72 Apo. cond. / Pro. cong.: «Moisè, Ciro, Teseo e Romulo non arebbono possuto fare osservare loro lungamente le loro constituzioni, se fussino stati disarmati» (Pri vi, 23); sono tematizzati personaggi storici, ai quali è concesso tradizionalmente il massimo rilievo; si noti la costruzione fattitiva fare osservare. Apo. cond. / Pro. ind.: «E basti lo essemplo detto, perché el regno di Francia sarebbe insuperabile, se l’ordine di Carlo era accresciuto o preservato» (Pri xiii, 23); l’aggettivo insuperabile è focalizzato. Apo. ind./ Pro. cong.: «è molto più sicuro essere temuto che amato, quando [= se] si abbi a mancare dell’uno de’ dua» (Pri xvii, 9); «È ancora stimato uno principe, quando [= se] elli è vero amico e vero inimico» (Pri xxi, 11); sono focalizzati l’aggettivo sicuro e il participio stimato. Pro. cong. / Apo. cond.: «[Cesare] ma se, poi che vi fu venuto, fussi sopravvissuto e non si fussi temperato da quelle spese, arebbe destrutto quello imperio» (Pri xvi, 13); il focus colpisce destrutto. Pro. cong. / Apo. ind.: «se fussino venuti tempi che fussi bisognato procedere con respetti, ne seguiva la sua ruina» (Pri xxv, 24: ruina è il componente focalizzato); si noti il periodo ipotetico con imperfetto indicativo in luogo del condizionale (Trolli 1972: 149-150). Pro. ind. / Apo. cond.: «E se si responde che qualunque arà le arme in mano farà questo, o mercennari o no, replicherei come l’arme hanno a essere operate o da uno  

72   Cfr. Chiappelli (1974; 72-75), che esamina un interessante caso di «complicazione dell’ipotetica con determinazioni relative che la integrano». Per l’it. ant. vedi: M. Mazzoleni, in GIA (2010: 10651086), Colella (2010) e in SIA (2012: 381-412). I costrutti condizionali-restrittivi presenti nelle consulte e pratiche sono analizzati da Telve (2000a: 278-86). Per l’it. mod. si veda il profilo tracciato da M. Prandi, “Periodo ipotetico”, in EncItaliano, i (2011: 1091-1094).

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principe o da una republica» (Pri xii, 11); il focus colpisce hanno a essere operate; la protasi regge una completiva. Pro. ind. / Apo. ind.: «se costui espugnava Pisa, veruno fia che nieghi come conveniva a’ Fiorentini stare seco» (Pri xii, 22: la protasi è tematizzata, nell’apodosi si ha la subordinazione di 2° grado, il focus colpisce l’aπermazione finale); «se elli si aspettava di partirsi da Roma con le conclusioni ferme e tutte le cose ordinate [...], mai li riusciva» (Pri xxv, 23: il verbo finale assume rilievo); «e se considerrete le azioni sua, le troverrete tutte grandissime e qualcuna estraordinaria» (Pri xxi, 2: il focus colpisce l’ultimo aggettivo). È da segnalare un passo in cui nello stesso periodo si susseguono due tipi diversi di condizionali, Pro. cong. / Apo. ind. e Pro. ind. / Apo. ind. (propagginazione dell’ind.): «se fussi diventato soldato di loro nimici, non avevano remedio, e se lo tenevano, aveano a obedirlo» (Pri xii, 22). 73 Quando come introduttore di protasi: «e dassi a intendere che il popolo lo liberi quando fussi oppresso da’ nimici» (Pri ix, 21), «Non può pertanto uno signore prudente né debbe osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere» (Pri xviii, 8: nota e che = e quando che ). Le condizionali appaiono nelle formule introduttive: chi considerassi (Pri viii, 9), 74 se alcuno dicessi ... rispondo (Pri xvi, 12), se alcuno replicassi ... rispondo (Pri xvi, 14); alle quali è associato sovente il discorso diretto. In un passo particolarmente elaborato (Pri vii, 43) la protasi del periodo ipotetico contiene ben undici infiniti. Altrove incontriamo una doppia protasi, una precede e l’altra segue l’apodosi: «se tale principe è di ordinaria industria, sempre si manterrà nel suo stato, se non è una estraordinaria e escessiva forza che ne lo privi» (Pri ii, 3). Come appare, le proposizioni condizionali, con la varietà delle forme e delle strutture, costituiscono un fattore rilevante nella costruzione dei periodi, anche per la capacità di fondare al loro interno correlazioni ed equilibri di parti.  



3. 7. 8. Le proposizioni eccettuative Costituiscono una componente di quell’argomentare dialettico che si diπonde nell’intero trattato. 75 Gli introduttori sono: se non che, se non quando, salvo che, escetto che: «E qui è da notare che uno principe debbe avvertire di non fare mai compagnia con uno più potente di sé per oπendere altri, se non quando la necessità lo stringe» (Pri xxi, 21), «E a volersene defendere, si porta periculo di non diventare contennendo, perché non ci è altro modo a guardarsi dalle adulazioni, se non che li òmini intendino che non ti oπendano a dirti el vero» (Pri xxiii, 3), 76 «[scil. alcuno principe] non può essere consigliato bene, se già a sorte non [= a meno che] si rimettessi in uno solo che al tutto lo governassi» (Pri xxiii, 11), «nel secondo caso, non si può dire altro salvo che confortare tali principi a fortificare e munire la terra propria» (Pri x, 5), «a tutto aveva trovato remedio, escetto che non pensò mai in su la sua morte di stare ancora lui per morire» (Pri vii, 41). Le eccettuative appaiono spesso nella parte finale di un periodo, dove si commenta quanto è stato esposto in precedenza (si notino gli attacchi: E qui è da notare, E a volersene defendere); in eπetti, esse precisano una regola (Pri xxiii, 11); integrano in modo sostanziale un’aπermazione (Pri x, 5); concludono una riflessione (Pri vii, 41).  



73   Quest’ultima è un’ipotetica irreale costruita con il doppio indicativo, la quale sostituisce: non avrebbero avuto [...] se lo avessero tenuto [...] avrebbero dovuto obbedirlo. 74   È questa una formula ripetuta: v. Martelli, ed. Principe, p. 218, n. 21. 75   D. Cappi, in GIA (2010: 1115-34); per le condizionali eccettuative in it. ant. v. G. Colella, in SIA (2012: 410-11). 76   Altri due esempi di se non che in Pri xviii, 6 e Pri xxiii, 3. Sulle proposizioni eccettuative nell’it. moderno v. Manzotti (2013).

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la prosa del cinquecento 3. 8. Costrutti assoluti

Due modi indefiniti, il gerundio presente e il participio passato, disegnano un secondo piano dell’esposizione, nel quale è ra√gurato un insieme di circostanziali e di accessori necessari alla fondazione di periodi complessi e di sequenze testuali. Fin dalle origini della nostra prosa la gerundiale, tipo sintattico non del tutto autonomo e dotato di caratteri modulari, contribuisce all’articolazione dei periodi su più piani; nel Principe la sua collocazione di base è al centro del periodo. La participiale assoluta rappresenta invece un lascito del latino, soprattutto quando si colloca nella parte sinistra del periodo, costituendo, assieme agli introduttori frasali e agli inquadratori iniziali, lo scenario di riferimento di quanto è esposto in seguito; la participiale rappresenta al tempo stesso uno strumento della brevitas, sovente contrapposta all’espandersi delle proposizioni di modo finito. 3. 8. 1. Gerundiali Se del gerundio in costruzione perifrastica si ritrova un solo esempio («andrò ritessendo li orditi soprascritti» Pri ii, 2), la gerundiale invece costituisce un’articolazione sintattica usata di frequente per esprimere una circostanza che accompagna l’evento presentato nella principale. 77 Nell’incidentale i complementi avverbiali precedono per lo più il gerundio, al quale il soggetto è posposto. Nei due esempi che seguono la gerundiale ha valore condizionale: «e chi le acquista [scil. quelle regioni], volendole tenere, debbe avere dua respetti» (Pri iii, 10), «se non vi [scil. in una provincia disforme] fossi ito a abitare, non era possibile che lo tenessi; perché, standovi, si veggono nascere e’ disordini e presto vi puoi remediare, non vi stando, s’intendono quando sono grandi e non vi è più remedio» (Pri iii, 13); nel primo caso la coreferenza è col soggetto della principale, nel secondo standovi e non vi stando sono due gerundiali assolute: ‘se vi abiti’, ‘se non vi abiti’. Due gerundiali incidentali poste in parallelo all’interno del periodo sono l’immagine di una simmetria compositiva che l’autore, in più occasioni, si sforza di conseguire: «perché, prevedendosi di scosto, facilmente vi [scil. agli scandoli futuri] si può rimediare, ma, aspettando che ti si apressino, la medicina non è a tempo, perché la malattia è diventata incurabile» (Pri iii, 26). La gerundiale è talvolta interessata da fenomeni di ripresa lessicale: «io li risposi ch’e’ Franzesi non si intendevano dello stato, perché, intendendosene, non lascerebbano venire la Chiesa in tanta grandezza» (Pri iii, 48). Al centro del periodo si ritrovano sovente anche la gerundiale temporale e quella causale: «È ben vero che, acquistandosi poi la seconda volta, e’ paesi rebellati si perdono con più dificultà» (Pri iii, 5), «E scrisse a Giovanni Fogliani come, sendo stato più anni fuora di casa, voleva venire e vedere lui e la sua città» (Pri viii, 16). I gerundi coordinati tra loro (in coppia o in serie) hanno un controllo anaforico associativo. Ciò appare nel passo che segue, dove, trattando del regno di Francia, sei gerundiali, tra loro coordinate entrano in una struttura complessa svolgentesi intorno a due proposizioni principali:  

Perché quello che ordinò quello regno, conoscendo l’ambizione de’ potenti e la insolenzia loro e iudicando essere loro necessario uno freno in bocca che li correggessi, e dall’altra parte conoscendo l’odio dello universale contra a’ grandi fondato in sulla 77   Sulle gerundiali in it. ant. v. V. Egerland, in GIA (2010: 903-20), che osserva: «In posizione finale la gerundiale si presta più facilmente alla lettura coordinata» (ivi: 908). Cfr. Valente (2013).

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paura, e volendo assicurarli, non volle che questa fussi particulare cura del re, per torli quel carico che potessi avere co’grandi favorendo li populari, e co’ populari favorendo e’ grandi; e però constituì uno iudice terzo che fussi quello che sanza carico del re battessi e’grandi e favorissi e’minori (Pri xix, 21). 78  

L’uso del gerundio non favorisce sempre la regolarità grammaticale; come accade in Pri vi, 3, dove il nesso ai quali parendo, risultante da una contrazione ellittica, dovrebbe essere sciolto con i quali, parendo loro: «debbe uno omo prudente [...] fare come li arceri prudenti, ai quali parendo el loco dove disegnano ferire troppo lontano e conoscendo fino a quanto arriva la virtù del loro arco, pongano la mira assai più alta che il loco destinato». Vediamo ora, all’inizio del periodo, un caso di gerundio composto, 79 il quale si triplica aggiungendo tre premesse di valore temporalecausale a quanto è esposto nella principale; si noti che le azioni descritte hanno una successione logica:  

Avendo discorso particularmente tutte le qualità di quelli principati de’ quali nel principio preposi di ragionare, e considerato in qualche parte le cagioni del bene e del male essere loro, e monstro e’ modi con li quali molti hanno cerco di acquistarli e tenerli, mi resta ora a discorrere generalmente le oπese e difese che in ciascuno de’ prenominati possono accadere (Pri xii, 1).

Presente nella prosa antica, lo schema di periodo, subisce, in questo cotesto, un mutamento a causa del rilievo enunciativo concesso ai participi distaccati dall’ausiliare. Qui abbiamo un metadiscorso in cui l’enunciatore (non curandosi dell’interruzione della linea sintattica: «avendo discorso ... mi resta ora a discorrere») esalta la propria capacità di presentare ordinatamente più argomenti tra loro collegati. Posta alla fine del periodo, la gerundiale assume sovente un valore causale: «Le quali [scil. variazioni] sono che li òmini mutano volentieri signore, credendo migliorare» (Pri iii, 1), «non ti puoi mantenere amici quelli che vi [scil. nel principato] ti hanno messo [...] per non potere tu usare contro di loro medicine forti, sendo loro obligato» (Pri iii, 3); in entrambi i passi il soggetto è coreferenziale con i soggetti focalizzati delle proposizioni che precedono. 3. 8. 2. Participiali «Preso che ebbe el duca la Romagna e trovandola suta comandata da signori importanti [...] iudicò fussi necessario» (Pri vii, 24). A inizio di paragrafo abbiamo: i) un participio passato (non concordato con l’oggetto), seguito, nell’ordine, dal proprio ausiliare, dal soggetto e dall’oggetto, ii) un gerundio che regge un participio passato con funzione predicativa (stato o suto privi di ausiliare sono nell’uso del xvi secolo). 80 L’insieme compatto, che imita la sintassi latina in una posizione di assoluta prominenza testuale, vuol rappresentare, con una “rapida” temporale di  

78   Vi sono quattro gerundiali causali aventi lo stesso soggetto della principale non volle, alla quale sono anteposte; segue una finale “per + infinito” (per torli quel carico), alla quale si agganciano di seguito due gerundiali modali, segue un’altra principale e però constituì, cui segue una relativa consecutiva. L’intera configurazione corrisponde a un’accentuata insistenza argomentativa. 79   Il gerundio composto «denota nella forma attiva un evento perfettivo che si è concluso prima di quello della frase matrice, e, nella passiva, invece, uno stato risultante dall’evento passato» (Egerland, in GIA 2010: 903). 80   Cfr.: «Io voglio [...] addurre dua essempli stati ne’ dì della memoria nostra» (Pri vii, 5). Per l’analogia che v’intercorre si ricorderà anche il participio alla latina e alla greca e il costrutto participiale presente in: «e soprattutto fare come ha fatto per l’adrieto qualche uomo escellente, che ha preso a imitare se alcuno innanzi a lui è stato laudato e gloriato» (Pri xiv, 14).

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posteriorità e un altrettanto “rapido” gerundio temporale-causale, la capacità del Valentino di prendere rapide decisioni. Nella stessa posizione iniziale troviamo un participio passato, privo di ausiliare e coreferente con il soggetto della principale: «Acquistata adunque il re la Lombardia, si riguadagnò subito quella riputazione che li avea tolta Carlo» (Pri iii, 34), «Spenti adunque questi capi e ridotti li partigiani loro amici sua, aveva il duca gittati assai buoni fondamenti alla potenzia sua» (Pri vii, 22), «Raccolte io adunque tutte le azioni del duca, non saprei repreenderlo» (Pri vii, 42), «morti [= uccisi] tutti quelli che per essere mal contenti lo potevono oπendere, si corroborò con nuovi ordini civili e militari» (Pri viii, 20). In tutti questi passi il participio iniziale è fortemente tematizzato; nei primi tre vi contribuisce la presenza di adunque; si notino: la posposizione del soggetto al verbo Acquistata adunque il re, Raccolte io adunque, il suo trasferimento nella principale Spenti adunque [...] aveva il duca. Nell’uso delle participiali, rispetto al latino classico, l’elemento discriminante è la presenza della diatesi attiva del costrutto in italiano e la sua assenza nel latino classico. Oltre a scandire i tempi della narrazione, il participio passato serve anche a ordinare l’esposizione, in vista di un certo fine; ha una funzione metanarrativa; evidenzia un periodo o una sequenza testuale: «Considerato adunque tutte queste cose, io lauderò chi farà le fortezze» (Pri x, 33); il participio, che si accorda o non si accorda con l’oggetto che segue, diventa quasi una formula. Talvolta appare nella coniunctio relativa: «li quali morti, [scil. Agatocle] occupò e tenne el principato di quella città sanza alcuna controversia civile» (Pri viii, 7). Assume un rilievo minore, quando appare in un’incidentale, coreferente o no col soggetto della principale: «Bentivogli, ritornati in Bologna, usorono simili termini» (Pri xx, 26), «Parrebbe forse a molti, considerato la vita e morte di alcuno imperadore romano, che fussino essempli contrari a questa mia opinione» (Pri xix, 25). Il valore è temporale nel primo caso, metanarrativo nel secondo. 3. 9. Collegamenti In due capitoli lunghi del Principe, il iii e il xix (rispettivamente 222 e 284 righi dell’ed. Martelli) si riscontra una notevole varietà degli attacchi di periodo: sintagmi nominali o verbali di proposizioni principali, introduttori di proposizioni avverbiali, participi passati, gerundi, formule metadiscorsive, 81 marcatori del discorso. Si notano le occorrenze di ma limitativo-avversativo, posto nell’incipit di una sequenza testuale: quattro volte nel cap. iii, otto volte nel cap. xix. L’analisi di questi incipit si giova, tra l’altro, della comparazione con altri testi. Nel Principe, per es., si rilevano la scarsità degli avvii di periodo con il gerundio e il frequente ricorrere di modi “parlati”. È la discorsività, con il suo dinamismo, a prevalere sulla sistematicità: la prima si a√da a procedimenti di focalizzazione e a sottolineature dell’“evidenzialità”; 82 la seconda si appoggia alle rubriche in latino; anche i latinismi crudi, disseminati nel testo, hanno una funzione strutturale-ordinatrice, in quanto segnalano i passaggi del ragionamento. Dobbiamo partire da queste considerazioni per studiare il collegamento dei periodi e delle sequenze testuali, da una parte, dei temi e delle argomentazioni, dall’altra.  



81   Tra le quali ricordo: Dico pertanto, Concludo, Consideri ora uno, E è prima da notare, Ma vegnamo a, Chi essaminerà. Due ricorrenti marcatori discorsivi sono pertanto e nondimanco. 82   Si ritiene che l’“evidenzialità” (ingl. evidentiality) sia una modalità epistemica, atta a connotare l’accertamento del locutore circa la prova di cui dispone per fondare la verità di una proposizione; si distinguono tre casi fondamentali: i) ne ha avuto notizia da altri, ii) ne ha avuto esperienza diretta, iii) l’ha dedotta. Cfr. Barbet/Saussure, de (2012).

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Gli incapsulatori lessicali sono rappresentati da un nomen generale, che compendia quanto precede: «Alcuni principi ... alcuni altri ... alcuni ... alcuni altri ... alcuni ... alcuni ... E benché di tutte queste cose» (Pri xx, 1-4) o da un nome particolare e specificante: in Pri ix, 2 «questi dua umori diversi [...] questi dua appetiti» 83 sono sintagmi che, in successione, riassumono gli atteggiamenti, appena descritti, del popolo e dei maggiorenti. Altri incapsulatori hanno una funzione metadiscorsiva, per es., «il soprascritto discorso» (Pri xix, 67). Talvolta si ricorre a un generico deittico testuale: «Questo faceva che le forze temporali del Papa erano poco stimate in Italia» (Pri xi, 11). Nonostante le apparenze, questo e quello anaforici non forniscono sempre riferimenti chiari. 84 La ripetizione a breve distanza non è quasi mai un artificio retorico. Nel finale del cap. xii, trattando delle «arme mercennarie», il vocabolo reputazione appare 5 volte in 17 righi; non sono rari esempi come: «A sì alti esempi io voglio aggiugnere uno essemplo minore» (Pri vi, 26); «Coloro e’ quali solamente per fortuna diventano di privati principi con poca fatica diventano» (Pri vii, 1). Più che l’anadiplosi, lo strumento principe usato per collegare frasi e periodi è la “ricorrenza parziale”, della quale si distinguono tipi diversi: 85 i) “verbo - sostantivo (spesso con dimostrativo)”: «se non poteva, non doveva dividerlo; e se la divisione fece con Viniziani di Lombardia meritò scusa [...] questa merita biasimo» (iii, 41), «Non può pertanto uno signore prudente né debbe osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere» (Pri xviii, 8); ii) “verbo verbo”: «e’ paesi rebellati si perdono con più dificultà [...]: in modo che, se a fare perdere Milano a Francia bastò la prima volta uno duca Lodovico che romoreggiassi in su’ confini, a farlo dipoi perdere la seconda, li bisognò avere contro el mondo tutto» (Pri iii, 5); iii) più forme dello stesso verbo: «dicendomi el cardinale di Roano che li Italiani non si intendevano della guerra, io li resposi ch’e’ Franzesi non si intendevano dello stato, perché, intendendosene, non lascerebbano venire la Chiesa in tanta grandezza» (Pri iii, 48), «Non fu mai, adunque, che uno principe nuovo disarmassi e’ sua sudditi, anzi, quando li ha trovati disarmati, li ha sempre armati, perché, armandosi, quelle arme diventono tua» (Pri xx, 5). 86 All’inizio del periodo il connettore di che prevale su la qual cosa (11 ess. contro 7): «Di che pensò assicurarsi» (Pri vii, 31), «Di che si cava una regola generale» (Pri iii, 50); questo connettore si ritrova (ma raramente) anche alla fine di un periodo con funzione conclusiva: «di che si abbia a parlare assai» (Pri xxi, 9); la formula «di qui nacque (nasce / nacquono) che» appare 6 volte nel trattato. Meno  







83  In Pri xiv, 16 l’espressione «Questi simili modi» si riferisce ai comportamenti virtuosi prima elencati. Vi sono intere frasi conclusive che hanno tale funzione (per es., Pri xix, 67). Si ritrova anche il semplice dimostrativo incapsulatore: «Questo faceva che le forze temporali del Papa erano poco stimate in Italia» (Pri xi, 11); il dimostrativo di vicinanza non si distingue sempre da quello di lontananza. Che incapsulatore è presente in testi medi: «In questa state mi venne a vedere Piero de’Ricci, che l’ebbi molto caro» (Macinghi Strozzi Lettere ii 1972: 35). 84   Su tale ambiguità v. il passo Pri vii, 13, commentato da Martelli. Talvolta anaforici diversi sono compresenti nello stesso periodo: «Debbe dunque uno principe non avere altro obietto né altro pensiero, né prendere cosa alcuna per sua arte fuora della guerra e ordini e disciplina di essa, perché quella è sola arte che si aspetta a chi comanda» (Pri xiv, 1). 85   Martelli considera questi fenomeni non nella prospettiva della testualità, ma nel quadro della retorica tradizionale; sulla ripetizione di parole v. le ampie descrizioni presentate da Frédéric (1985: 63-80); per questa prospettiva pragmatica v. Albelda Marco (2007: 72-74). 86   A proposito del sintagma trovati disarmati, si ricordi che nel Principe ricorrono vari costrutti predicativi di questo tipo (Cernecca 1971).

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frequente (4 esempi) è a che: «e tutta Italia li conspirò contro; a che si aggiunse el suo proprio essercito» (Pri xix, 60). Il che, pronome profrase, raggiunge 36 occorrenze; funge in particolare da giuntore di frasi brevi: «il che depende da un’altra necessità naturale e ordinaria» (Pri iii, 2), «il che, come si vide, non tornò loro poi a proposito» (Pri xx, 13). 87 Ma, che si presenta con 130 occorrenze, ha valore limitativo-avversativo; serve a introdurre (talvolta ex abrupto) un argomento nuovo; si possono distinguere tre funzioni: i) ma metadiscorsivo, che segnala il passaggio dall’uno all’altro argomento: «Ma torniamo a Francia» (Pri iii, 31), «Ma venendo all’altra parte» (Pri ix, 1); ii) ma argomentativo, con il quale si aπerma qualcosa o si propone una tesi: «Ma nel principato nuovo consistono le dificultà» (iii, 1: inizio capitolo), «Ma quando si acquista stati in una provincia disforme» (Pri iii, 11); riferendosi a questo es., Durante (1981: 207) ha parlato di «climax argomentativo»; «Ma li stati ordinati come quello di Francia è impossibile possederli con tanta quiete» (Pri iv, 18: tematizzazione e ripresa pronom.); vediamo un passo in cui pertanto e ma si susseguono: «Debbe pertanto uno che diventi principe mediante el favore del populo [...]. Ma uno che contro al populo diventi principe» (Pri ix, 14); iii) ma metanarrativo, introduce un nuovo accadimento: «Ma lui [scil. Luigi XII] non prima fu in Milano che fece il contrario, dando aiuto a papa Alessandro perché elli occupassi la Romagna» (Pri iii, 37). 88 I “connettori conclusivi” (dunque, perciò, pertanto), propri del ragionamento deduttivo, appaiono numerosi nelle parti argomentative e di teoria politica, dove si accompagnano a espressioni deontiche; sono rari, invece, nelle parti narrative. 89 A seconda della funzione, si distinguono vari tipi di formule. Di passaggio o transizione: «resta ora a dire» (Pri iii, 7), «Resta ora a vedere» (Pri xv, 1), «Restaci a narrare» (Pri xix, 57). Di carattere conclusivo: «E per ridurre la cosa in brevi termini, dico che» (Pri xix, 13). Di evidenziazione: «È ben vero che» (Pri iii, 5), «E qui si debbe notare che» (Pri xix, 37), «E avete a notare che» (Pri xix, 65) e simili; in questo gruppo spicca, per la maggiore forza illocutiva e per la collocazione in posizioni di preminenza «dico (adunque / pertanto) che»; si tratta di una formula autoriale, espressione dell’ethos dell’autore, la quale vanta una lunga tradizione (particolarmente mediolatina e scolastica): v. dico igitur quod, dico dunque che. Quest’ultimo tipo ricorre 14 volte nel Principe 90 a evidenziare l’avvio di  







87   Cfr. ancora: «il che li sarebbe presto riuscito» (Pri vii, 30), «il che se li fussi riuscito, che li riusciva l’anno medesimo che Alessandro morì, si acquistava tante forze» (Pri vii, 37), «il che non solamente tornava onore a lui, ma a sé proprio, sendo suo allievo» (Pri viii, 16). Per la relativa aggiunta all’ipotetica (Pri vii, 37) v. Chiappelli (1974: 72-73). 88   Sui vari significati e funzioni discorsive di ma vedi: O. Ducrot, Deux mais, in “Journée d’étude (188-1978)”. Syntaxe et sens, Université René Descartes, 1978; Adam (1990: 192-210), dove si espone una tipologia dei significati di mais. Altri segnali discorsivi avviano i periodi o ne determinano gli snodi: «Consideri ora uno» (Pri iii, 36), «Ha perduto dunque el re Luigi la Lombardia» (Pri iii, 47), «Surse dipoi Alessandro VI» (Pri xi, 12); funge da cerniera discorsiva il nesso se non che (Pri xviii, 6; xxiii, 3). 89   Il valore deliberativo di questi “connettori conclusivi” risalta anche dal confronto con i connettori e marcatori temporali del francese: mais, cependant, maintenant, alors; comune alle due serie (italiana e francese) è un’operazione di “rinnesco” (o embrayage) del punto di vista (Rabatel 2008: 151 ss.). Le categorie paradigmatiche della persona, dello spazio e del tempo (io, qui, ora) sono introdotte dall’enunciatore, in forma sintagmatica, nell’enunciato (Benveniste (1974: 79-88); mediante tali categorie un testo diventa autonomo rispetto all’atto di enunciazione; si ha in tal modo un processo di “disinnesco” (débrayage); con il processo inverso di “rinnesco” (embrayage) si ripristina nel testo la manifestazione della soggettività e delle categorie spaziali e temporali dell’enunciazione; «Il faudrait aussi distinguer l’énonciation parlée de l’énonciation écrite»; quest’ultima si muove su due piani: lo scrittore si enuncia scrivendo e, all’interno del suo scrivere, fa sì che degli individui si enuncino. 90   Cfr., in particolare, all’inizio del periodo: «Dico adunque che» (Pri ii, 3), «Dico pertanto che» (Pri iii, 8). Su tale formula nel Principe, v. Martelli (2006: 67); si vedano anche le 12 occorrenze della formula se (adunque) si considerrà (ivi: 128 n. 25).

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un ragionamento o a raπorzare una conclusione; nella formula è talvolta coinvolta una gerundiale che chiarisce le circostanze o giustifica una presa di posizione: «Lasciando adunque indrieto le cose circa uno principe immaginario e discorrendo quelle che sono vere, dico che» (Pri xv, 7), «Scendendo appresso alle altre parte e qualità preallegate da me, dico che» (Pri xvii, 1). Le formule “condizionali” (v. 7.7.) propongono un’ipotesi del tipo: «Potrebbe alcuno dubitare donde nascessi che» (Pri viii, 22), seguita dalla confutazione e dalla ripresa discorsiva. Suddividere il discorso in una traccia espositiva prelude a una spiegazione, e anche in questo caso i periodi acquistano un carattere quasi formulare: Acquistata adunque la Romagna e sbattuti e’ Colonnesi, volendo mantenere quella e procedere più avanti, lo ’mpedivano due cose: l’una, l’arme sua che non li parevano fedeli, l’altra, la voluntà di Francia, cioè che l’arme orsine, delle quali s’era valuto, li mancassino sotto e non solamente li ’mpedissino lo acquistare, ma gli togliessino l’acquistato, e che il re ancora non li facessi el simile (Pri vii, 16).

3. 10. L’ordine dei costituenti In un buon numero di casi troviamo la posposizione dell’aggettivo personale al nome («l’intenzione mia», «da la virtù tua», «la ruina sua») e l’anteposizione dell’aggettivo determinativo («ordinaria industria», «estraordinarii vizii», «escellenti òmini»). Passando dal sintagma alla frase si nota la frequente posposizione del soggetto al predicato, fenomeno dovuto sia alla conservazione di incipit tradizionali, che coinvolgono sovente verbi servili («Sogliono el più delle volte coloro che desiderano acquistare», Pri Dedic., 1), sia alla tematizzazione del predicato («Ha perduto dunque el re Luigi la Lombardia» (Pri iii, 47); «e allora posserno considerare Viniziani la temerità del partito preso da loro» (Pri iii, 35); «Arguiscano [= denotano] pertanto simili modi debolezza del principe» (Pri xx, 14). La focalizzazione è attuata di frequente e influisce sulla forma e la struttura dei periodi; ne ricordiamo soltanto due aspetti singolari, il focus applicato a un dimostrativo, incidentale e di ripresa: «né è miraculo alcuno, questo, ma molto ragionevole e ordinario» (Pri iii, 47) e l’evidenziazione riservata all’infinito posto alla fine del periodo: «il che non si può al tutto o alla fortuna o alla virtù attribuire» (Pri viii, 1); quest’ultimo fenomeno risalta particolarmente quando vi corrisponde un forte semantismo; in tale posizione l’infinito assume una valenza iconica: (per mero calcolo politico i Veneziani si liberano del Carmagnola) «onde che furono necessitati, per assicurarsene, ammazzarlo» (Pri xii, 25). Fenomeno ricorrente in vari cotesti e situazioni, la dislocazione a sinistra riguarda l’oggetto sia diretto («Ma li stati ordinati come quello di Francia è impossibile possederli con tanta quiete» Pri iv, 18), sia indiretto («e di quello che non è tuo o di sudditi tua si può essere più largo donatore» Pri xvi, 17); riguarda anche l’argomento tematizzato: «Delli Orsini ne ebbe uno riscontro [...] che li vidde andare freddi in quello assalto» (Pri vii, 17), «De’ Viniziani, se si considerrà e progressi loro, si vedrà quelli avere securamente e gloriosamente operato» (Pri xii, 23); in quest’ultimo passo ricorre la dislocazione con preposizione tematizzante e priva di accordo sintattico (Palermo 1994: 133). Si è già osservato come questo spostamento a sinistra riguardi anche intere proposizioni: le causali («Ma perché circa le qualità di che di sopra si fa menzione, io ho parlato delle più importanti, l’altre voglio discorrere brevemente» Pri xix, 1), le completive di modo finito («E ch’e’ fondamenti sua fussino buoni si vidde» Pri vii, 40, «Quanto sia laudabile in uno principe

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mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende» Pri xviii, 1), le infinitive («farne [scil. di un principe] uno in fra loro non si accordano, vivere liberi non sanno» Pri v, 8). In tutti questi casi la posizione iniziale è pragmaticamente rilevante; altrettanto va detto per la posizione finale, nel caso della dislocazione a destra: «De’ quali [scil. principati] mentre durò la memoria, sempre ne furono e’ Romani incerti, di quella possessione» (Pri iv, 19), dove si ha la successione “tema + clitico + ripresa”. 91 Si noterà che a essere evidenziati sono assai spesso nomi di personaggi noti, eroi, politici, dignitari, popoli ecc., i quali determinano un alto grado di “tematicità inerente”, fondato su parametri non contestuali, quali la definitezza (specifico vs generico), l’animatezza (umano - animato - inanimato), il ruolo semantico (agente-esperiente-paziente), il ruolo sintattico (soggetto-oggetto diretto/indiretto). 92 Costituenti che, in determinate condizioni, si spostano alla fine della frase sono: il verbo di una relativa («Non si può adunque attribuire alla fortuna o alla virtù quello che sanza l’una o l’altra fu da lui conseguito» Pri viii, 12), il participio passato distaccato dall’ausiliare («non consentono che sia fra li escellentissimi òmini celebrato» Pri viii, 11; «fu insieme con Vitellozzo, il quale aveva avuto maestro delle virtù e scelleratezze sua, strangolato» Pri viii, 21). 93 La collocazione (per lo più postverbale) degli avverbi di frase ha un fine focalizzante: «Questa parte è suta insegnata a’ principi copertamente dalli antiqui scrittori» (Pri xviii, 5), «aveva dolosamente cerco di amazzarlo» (Pri xix, 48), «Chi essaminerà adunque tritamente le azioni di costui, lo troverrà uno ferocissimo lione e una astutissima golpe» (Pri xix, 49), «il quale aveva morto contumeliosamente uno fratello di quello centurione» (Pri xix, 53). Massime ‘soprattutto’ (latinismo ricorrente nel trattato) ha una funzione raπorzativa e ottiene una varia collocazione: «allora tu ti debbi servire di quelli massime che sono di buono consiglio» (Pri ix,12), «li quali, massime ne’ tempi avversi, li possono torre con facilità grande lo stato» (Pri ix, 24), «e nelle azioni di tutti li òmini, e massime de’ principi, [...] si guarda al fine» (Pri xviii, 17). Nel trattato l’ordine delle parole non è un elemento dell’ornato retorico, ma una componente essenziale dell’argomentazione, che sovente influisce sulla forma dei periodi.  





3. 11. Le istorie verso la modernità Lo stile del Principe risente, per certi caratteri di prestezza e di sintesi compositiva, della prolungata esperienza scrittoria delle lettere private (inviate a parenti e ad amici) e delle lettere diplomatiche, inviate alle autorità di Firenze da M. nel corso di missioni sia all’interno del dominio (“commissarie”), sia all’esterno (“delegazioni”). 94 Non hanno mancato di esercitare il loro influsso le «varie strategie suasorie»  

91   Per alcuni «esempi di dislocazioni, specie a destra, con tema dato, clitico e ripresa» v. Franceschini (1998: 377), che rinvia a GGIC, i (20012: 144 ss.). 92   A tale “tematicità inerente” si accompagna una messa in scena o “teatralizzazione” dei personaggi, che Marchand (2001) ha indagato, analizzando la narrazione dell’incontro di Machiavelli con il re di Francia; il fenomeno si ritrova anche in vari capitoli del Principe. 93   La frequente tmesi tra ausiliare e participio passato rientra nella generale tendenza a separare elementi normalmente contigui; cfr. anche: «sendosi, quelli che restavano, accorti» (Ds 2, 2.1); «Perché avendo uno moro che vi era dentro promesso fraudolentemente al marchese di Pescara, stato già suo padrone, di metterlo dentro» (Guicciardini, Storia d’Italia, ii, x, 4). 94   Cfr. E. Cutinelli-Rèndina, “Lettere diplomatiche”, in EncMachiavelli, ii (2014: 74-81), dove si esaminano «la struttura e le caratteristiche della lettera di legazione». Talvolta lo stesso testo era riscritto più volte, con aggiunte e postille; M. si rivela scrittore dotato di una «propria vis drammaturgica». J.-J. Marchand, “Lettere”, in EncMachiavelli, ii (2014: 70-74), distingue tre settori: i) le

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di cui il Segretario fiorentino ha fatto esperienza nel partecipare alle assemblee cittadine e nello stendere alcune Consulte, conquistando «la specificità della sua prosa, rispetto alla koinè cancelleresca». 95 In questi scritti, come nel discorso Parole da dirle sopra la provisione del danaio (1503), sono presenti concetti, che preannunciano l’ideologia del Principe: la distinzione tra le parole e i facti, l’importanza del tempo e quindi del temporeggiare, come dell’accelerare, il binomio “forza-prudenza” e il discorso sulle tre forme di governo. Vi compaiono anche parole-chiave, come forza, tempi, occasioni, fortuna, omori. 96 I Ghiribizzi al Soderino, 97 dove si aπerma che «con varii governi» si possa ottenere «una medesima cosa», è stato giudicato un passo decisivo nella formazione di una teoria generale della storia: secondo Martelli, i Ghiribizzi, il Principe e i Discorsi deriverebbero da un archetipo, una scheda in cui si mettevano a confronto Annibale e Scipione. 98 Il primo scritto internazionale di M. sarebbe il Rapporto delle cose della Magna. Ricordo che «la narrazione goliardica e buπonesca», ricorrente negli scritti di M., è stata interpretata, non come qualcosa di diverso o alternativo, ma come «lo stile comico [che] rappresenta l’altra faccia della Natura», vale a dire, «la carica abbassante e violentemente polemica» dell’autore (Rinaldi 1993: 1349). Il Principe tratta dell’agire dell’uomo politico, che, fondandosi sulla virtù, determina il proprio futuro e costruisce lo Stato preservandolo dalla ruina. La critica di istituzioni e di situazioni negative, come le milizie mercenarie, il potere del papato, la frammentazione degli Stati italiani, perennemente divisi di fronte alle invasioni straniere, rappresenta la premessa di un progetto di riscossa nazionale. Una speranza che si alimenta di un ideale nuovo, di discorsi e di immagini tratti dalla storia. È l’anima gloriosa del trattato; è un patriottismo che vive del ricordo di Dante, dell’umanesimo mosso da ideali repubblicani, quale si manifestava nella Laudatio florentinae urbis di Leonardo Bruni (1403-1404). Delle interpretazioni che il Principe ha avuto nel corso della storia, due sono sopravvissute a lungo. La prima, promossa da spiriti risorgimentali, ha visto nel trattato (e particolarmente nell’appello che lo conclude) una prefigurazione della riscossa nazionale, la seconda, indotta dalla riflessione di Hegel, ha considerato il Segretario fiorentino il teorico dello Stato assoluto, che domina gli individui e che all’etica sostituisce le ragioni della politica. In entrambi i casi è rimasto nascosto il vero fine di uno scritto, immerso nella realtà italiana del primo Cinquecento: un hic e un nunc drammatici, una catastrofe alla  







lettere di negozio (o di governo), scritte dal 1498 al 1505, durante il suo servizio e riguardanti l’organizzazione militare e le missioni presso il Valentino, Giulio II, Pandolfo Petrucci di Siena; ii) le lettere di legazioni (o di missioni) presso il Valentino, dove, significativamente, è usato il discorso diretto, diversamente dalle legazioni in Francia; iii) scritti minori, come il discorso Parole da dirle sopra la provisione del danaio (1503), che, per i caratteri della lingua e dello stile, preannuncia i trattati maggiori. Le lettere che M. scrive per promuovere una decisa azione politica di Firenze «sono tutte attraversate in filigrana da un impeto omiletico» (Rinaldi 1993: 1349). 95   D. Fachard, “Consulte e pratiche della Repubblica fiorentina”, in EncMachiavelli, i (2014: 342348). 96   Omori è vocabolo che ricorre in Ds I vii, I xxxvii, I xxx, III iii, III v. Sul binomio forzaprudenza v. J.-L. Fournel/J.- C. Zancarini, “Armi”, in EncMachiavelli i (2014: 100-105, 101); sulla tripartizione dele forme di governo, v. G. Sasso, “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio”, in EncMachiavelli, I (2014: 427-458, 435). Dagli scritti di carattere professionale si passa, attraverso le relazioni che danno spazio a intermezzi narrativi, ai testi letterari. 97   È il titolo autografo di una lettera indirizzata da M. a Giovan Battista Soderini, nipote del gonfaloniere di giustizia Piero, in risposta di una missiva del 12 settembre 1506 (ed. Vivanti, i, pp. 135-138). 98   M. Martelli, I Ghiribizzi a Giovan Battisia Soderini, in “Rinascimento”, s. II, ix (1969), pp. 147-180.

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quale cercano di far fronte l’esposizione critica di fatti recenti e gli insegnamenti tratti da una memoria, al tempo stesso, attuale e antica. Il Principe sorge da una volontà di rinascita, che comincia con l’impegno di risolvere problemi contingenti: saldare in una compagine unitaria una pluralità di piccoli e grandi potentati, reclutare una milizia popolare, evitando il ricatto delle armi mercenarie, chiudere il passo alle invasioni straniere; né va sottovalutato un disegno tutto personale: la volontà di ricuperare il favore dei Medici, perduto con l’esperienza della repubblica; in quei tempi di grande incertezza assicurarsi la via del successo nella società è un richiamo sentito. Nel trattato non mancano motivi e vincoli ideali: l’esaltazione della virtù (latinamente intesa), il coraggioso opporsi all’incostanza degli uomini e della fortuna, lo studio delle cause e degli eπetti che si producono nell’azione politica, la descrizione attenta dell’arte e delle tecniche di governo e dei modi di conservare il potere. Sono queste le motivazioni di uno stile di cui abbiamo esaminato i caratteri, cercando di coglierne il rapporto con il contesto storico-culturale e con le istanze pragmatiche, che propriamente giustificano le scelte formali dell’opera. La scrittura del Principe, innovativa nella sintassi come nella testualità, si genera dal confluire di una vena di parlato e di una componente colta, nella quale si fondono il latino dei classici, degli umanisti e delle cancellerie. Prestezza ed espressività nascono da un “entusiasmo della scrittura”, causa prima delle famose “irregolarità” che dispiacciono ad alcuni critici, ma che non sono state finora rettamente interpretate. Accanto a costrutti “normati”, ereditati e poi riplasmati, vi sono le accensioni di uno stile che corre alla realtà delle cose e si traduce in un concepire istantaneo e in un procedere vigoroso, indiπerente alle regole. L’argomentare fa emergere salienze discorsive, coinvolgimenti allusivi, sdegni, parole d’ordine. Le serie dilemmatiche, realizzate con una forte scansione, hanno un potere conativo, fondato sulla concentrazione dei significati. La dialettica prevale sulla coerenza, l’induzione sulla deduzione. Crescono insieme, condizionandosi a vicenda, dimostrazioni, appelli, spunti colloquiali, accensioni polemiche, exempla del passato e del presente. A monte del Principe c’è un moto progressivo verso la modernità: si va dalla scelta del volgare alla rinuncia delle spiegazioni morali, dalla valutazione dei rapporti di forza al rifiuto dell’universalismo, da uno spazio temporale circoscritto agli orizzonti della storia. Opere precedenti mostrano i segni di un rinnovamento, ma non lasciano prevedere la creazione machiavelliana, anche se ne chiariscono alcuni presupposti. Si pensi alla Cronica volgare, già attribuita a Piero di Giovanni Minerbetti (in cui si narrano gli eventi tra il 1385 e il 1409), e ai Commentari di cose seguite in Italia dal 1419 al 1456 di Neri di Gino Capponi, nei quali l’imitazione di Cesare spinge a una breviloquenza e a un ragionare per opposizioni binarie, quasi un preannuncio del procedere dilemmatico del Principe. Occorre tener conto di tali scritture, delle memorie e dei ricordi mercantili, rapidi ed essenziali, dove un Io accentratore abolisce i particolari non rilevanti. Si ricorderanno anche le Istorie fiorentine di Giovanni Cavalcanti, che riguardano gli anni compresi tra il 1420 e il 1440: pur se mossa da un forte risentimento contro le istituzioni e la classe popolare, quest’opera, notevole per lo stile, 99 ritrae il  

99   Uno stile che accosta espressioni popolari, figure retoriche e molte citazioni, soprattutto dantesche: v. A. M. Cabrini, in EncMachiavelli, I (2014: 294-295); cfr. Eadem, Un’idea di Firenze. Da Villani a Guicciardini, Roma, Bulzoni, 2001. Cavalcanti compose poi la Nuova opera, nota come Seconda storia, riguardante gli anni 1441-1447; di questo testo si è servito M. nelle Istorie fiorentine, a partire dal iii libro e soprattutto nel iv.

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passaggio di Firenze da Comune a Signoria, e, per lo sguardo fisso sul nesso socioeconomico tra politica interna ed estera nonché sulla composizione dei gruppi di potere fiorentini, anticipa la rappresentazione che di quei tempi e di quella società sarà fornita da Machiavelli. Anche l’ultimo scritto di Cavalcanti, quel Trattato politico-morale, in cui si passano in rassegna virtù politiche, come prudenza, giustizia, fortezza, temperanza, alternando exempla romani e contemporanei nonché orazioni di tempra umanistica, lascia intravedere la via che condurrà a riflettere sul testo liviano.

4. I Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio

4. I DISCORSI SULLA PRIMA DECA DI TITO LIVIO 4. 1. “Sarò animoso in dire manifestamente”

I

Discorsi esaltano il valore esemplare dell’antica Roma. Il mondo e la società dei Romani costituiscono un modello, che riguarda tutte le istituzioni e le attività di una nazione e di un popolo: il fondamento dello Stato, la dinamica sociale, «le buone legge e le buone arme», «gli antichi ordini» (Ds ii, 16; iii, 5; iii, 10), la religione, la politica estera. 1 Ad essere promossi non sono le belle lettere, il culto umanistico per le fonti, il modello di scrittura (non si segue Bembo, che imita la perfezione dello stile ciceroniano), ma le regole del vivere, la testimonianza dei fatti, con l’avvertenza che vanno respinte le false interpretazioni: «delle cose antiche non s’intende al tutto la verità» (Ds ii, Proemio 1-3. 5). Procedendo «per gli antichi e li moderni esempli», Machiavelli compie un lungo percorso, argomentando e illustrando per rationes et exempla, gli eventi sui quali costruisce un sistema di idee. Mentre rivive la concezione plutarchea e umanistica de viris illustribus, l’enunciazione si adatta alla comparazione del passato e del presente, dei fatti avvenuti e di quelli che avvengono o potrebbero avvenire; ingloba concetti-guida, tratti da Polibio, come l’anaky´klosis to^–n politèio–n ‘la circolarità dei regimi’ e la mikte´– ‘la mescolanza delle forze politiche al governo’. 2 L’io autoriale regge l’argomentare: espone e descrive le regole, narra i fatti avvenuti. Gli schemi argomentativi che sostengono il sistema dei concetti e la testualità dell’opera saranno qui analizzati in rapporto ai discorsi tenuti dai personaggi che compaiono sulla scena.  



L’edizione dei Discorsi si fonda sul ms. Harley 3533, British Library, che contiene l’intera opera ed è stato copiato da un fiorentino, giudicato vicino alle abitudini scrittorie di Machiavelli. Vi sono un paio d’interventi dovuti ad altre mani e lacune corrispondenti a nomi propri, probabilmente non decifrati dal copista. Nel 1531 apparvero postume due stampe, che sono utili per la ricostruzione del testo: la prima a Roma (presso A. Blado), la seconda a Firenze (presso B. Giunta). Secondo M. Martelli, la composizione dell’opera (contrariamente a quanto sostenuto da G. Sasso) si svolse tra il 1513 e il 1519; ma la conoscenza di Livio da parte di Machiavelli risale alla prima giovinezza. Si ricordi che nel periodo umanistico, anche in seguito alla scoperta di nuovi testimoni dell’opera liviana, il culto dello storico romano giunse al suo massimo grado. Tre tipi di governo avevano attraversato la vita del Segretario fiorentino: la repubblica oligarchica, la repubblica popolare e teocratica di Savonarola, il regime signorile dei Medici. Machiavelli, nel 1512, accusato di aver partecipato alla congiura antimedicea, fu imprigionato e sottoposto a tortura, per essere infine confinato all’Albergaccio. L’accenno: «Io lascerò indrieto el ragionare delle republiche, perché altra volta ne ragionai a lungo» (Pri II, 1) ha fatto pensare, tra le varie ipotesi, che Machiavelli, nel 1513, avesse già scritto il primo nucleo dei Discorsi (i primi diciotto capitoli del primo 1   Un’introduzione all’opera e una disamina dei temi in essa aπrontati è fornita da G. Sasso, “Discorsi”: 427-458. 2   Cfr.: «E questo è il cerchio nel quale girando tutte le republiche si sono governate e governano: ma rade volte ritornano ne’ governi medesimi, perché quasi nessuna republica può essere di tanta vita che possa passare molte volte per queste mutazioni, e rimanere in piede» (Ds I, ii, 24, p. 25). A ciascuna forma di governo era contrapposta la forma negativa corrispondente; pertanto il problema della decadenza era subito aπrontato.

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libro). Probabilmente i Discorsi furono interrotti dopo il secondo capitolo per lasciare spazio alla scrittura del Principe, che nei Discorsi è citato quattro volte. 3  

4. 1. 1. In prima persona Il locutore del Principe, ricorrendo alla prima persona, assume in pieno la responsabilità dell’enunciato: è naturale che ciò avvenga in un scritto che spinge all’azione Lorenzo di Piero dei Medici. Nei Discorsi, opera in cui Machiavelli ha espresso quanto aveva imparato «per una lunga pratica e continua lezione delle cose del mondo» (Ds, Dedica, p. 789), producendo tra l’altro un ampio commento del testo liviano, 4 si poteva optare per un’esposizione in terza persona; una distanza enunciativa adatta a riferire su temi diversi e a svolgersi in più registri. L’aver preferito la centralità del soggetto argomentante rappresenta una scelta significativa: la volontà illocutiva prevale su una possibile dispersione conseguente alla varietà degli intenti. In ogni pagina risuonano richiami in prima persona: «Io non voglio giudicare [...], ma io dico bene», «Vero è che io giudico», «Io giudico che egli era necessario», «Io credo che non sia fuora di proposito». In prima persona sono molte frasi negative: «Io non voglio mancare di discorrere sopra questi tumulti [...]. Io non posso negare che la fortuna e la milizia non fossero cagioni dello imperio romano» (Ds I, iv, 2 e 3, p. 33), «Elli non mi pare fuora di proposito addurre alcuno esemplo» (Ds I, xiii, 2, p. 89), «Né si possano per tanto giudicare questi tomulti nocivi, né una republica divisa» (Ds I, iv, 6, p. 34). La centralità attribuita a un locutore, che non ammette repliche, è aπermata all’inizio del secondo libro, dove all’ammirazione per i Romani si contrappone il biasimo dei tempi moderni: «sarò animoso in dire manifestamente quello che io intenderò di questi e di quelli tempi, acciò che quelli animi de’ giovani che questi miei scritti leggeranno possino fuggire questi e prepararsi a imitare quegli, qualunque volta la fortuna ne dessi loro occasione». 5 L’esperienza acquisita, indirizzata al bene comune, «quel naturale desiderio che fu sempre in me di operare sanza alcuno rispetto quelle cose che io creda rechino comune benifizio a ciascuno» (Ds I, Proemio, i, p. 3), è il motore dell’opera. Così, in limine, sono evidenziati gli intenti di una scrittura, che, addentrandosi nel testo liviano, genera commenti e riflessioni, ritrae personaggi ed eventi, senza tuttavia racchiuderli in una compagine unitaria. L’enunciazione, che, ripetendosi supplisce agli incerti confini dell’opera, risente dell’esperimento del Principe, sia nei  



3   Sui tempi di composizione del Principe si hanno tre tesi: i) F. Chabod ritiene che M. abbia scritto di getto il Principe tra il luglio e il dicembre 1513; ii) secondo M. Martelli, a una prima stesura dell’opera M. aggiunse successivamente alcune parti (v. Martelli 1999); iii) secondo G. Sasso, a un corpo centrale, compiuto nel 1513, M. aggiunse un’altra parte dell’opera nel 1514. E. Cutinelli Rèndina e D. Fachard (v. infra) seguono la tesi i), ma quanto alla genesi del libro, propongono una retrodatazione di 10 anni. Può aiutare a risolvere il problema la consultazione del vol.: Luca d’Antonio Albizzi/ Francesco Soderini, Legazioni alla corte di Francia (31 agosto 1501-10 luglio 1502), a cura di E. Cutinelli Rendina e D. Fachard, Torino, Aragno, 2015. 4   G. Sasso, “Discorsi”: 434, osserva: «Furono infatti le idee che si svolgevano secondo la loro logica necessità e coerenza a determinare il riferimento al testo dello storico antico». Sull’origine dei Discorsi v. anche Larivaille (2008). 5   Ds II, Proemio, 22, p. 301. Proposto da É. Benveniste, il concetto di locutore come responsabile dell’enunciato, è stato perfezionato da O. Ducrot, che distingue il soggetto parlante, il locutore e l’enunciatore: v. Charaudeau/Maingueneau (2002: 351). La centralità del locutore appare chiaramente nel Proemio di Ds I: «ho deliberato entrare per una via la quale, non essendo suta ancora da alcuno trita, se la mi arrecherà fastidio e di√cultà, mi potrebbe ancora arrecare premio, mediante quelli che umanamente di queste mia fatiche il fine considerassino». M. era contrario a una storicizzazione dell’antichità, che egli voleva accogliere nella sua interezza, respingendo i distinguo filologici che, paragonandola alla modernità, ne avrebbe sminuito i valori intrinseci.

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modi dell’argomentare sia nelle scelte stilistiche; si pensi al ma all’inizio del periodo o al nondimanco, che emerge dopo l’onda lunga della concessiva: «Ancora che [...] sia sempre suto non altrimenti periculoso [...], nondimanco [...] ho deliberato entrare in una via»; si tratta di salienze verbali che accompagnano l’apparizione di personaggi e di eventi memorabili. 6 La distanza dalle altre opere del nostro è evidente. Nelle Istorie fiorentine, chi dice Io, dopo l’apparizione iniziale (in cui si spiega perché il progetto originario dell’opera è stato cambiato), 7 scompare in breve tempo, per riapparire fugacemente nelle formule di raccordo: «in questi nostri tempi», «Noi abbiamo narrato davanti come», «Dico per tanto che lo stato». 8 Nell’Arte della guerra, l’Io-enunciatore, dopo la presentazione, lascia la scena ai due dialoganti; ma la presenza autoriale annulla di fatto una vera collaborazione discorsiva; privo di una dialettica autentica, il dialogo diventa un espediente retorico. 9 Questo è in breve il quadro enunciativo, cui si confrontano i Discorsi, nei quali l’allocuzione diretta è quasi del tutto assente, a vantaggio delle riformulazioni autoriali. 10 La materia è divisa in tre libri, tematicamente non omogenei, 11 divisi a loro volta in capitoli di media estensione (3-4 pagine); raramente sono superate le dieci pagine (Ds I, i; I, xl; II, ii, xvii; III, i); fa eccezione il cap. delle congiure (Ds III, vi), che arriva a cinquanta pagine, al di sotto comunque dell’ampio catalogo d’imperatori romani di Pri xix (26 pagine). Vi sono capitoli che svolgono funzioni metatestuali, come Ds I, ii, che è un’introduzione generale ai temi che saranno trattati in seguito. S’incontrano formule riassuntive, che segnano il passaggio dall’esposizione dei fatti a una conclusione. Questa disparità dipende non tanto da una mancata pianificazione dell’opera, quanto piuttosto dal fatto che i Discorsi nascono nel punto d’incontro della riflessione distesa e della chiosa puntuale e che pertanto la flessibilità compositiva risulta essere un’esigenza di base. Diversi sono gli avvii dei capitoli; ricordiamo soltanto quei modi che ricorrono più di frequente. A un’aπermazione generale si a√dano i propositi del locutore: l’anticipazione o l’anamnesi di un evento, il confronto tra situazioni e fatti distanti nel tempo, l’eventuale correzione di rotta. Vi sono poi due  











6   Nel primo libro s’incontrano altre sottolineature enunciative: «Io non voglio giudicare [...] ma io dico bene» (Ds I, xi, 25, p. 82), «Vero è che io giudico» (Ds I, xvi, 13, p. 103), «Io giudico che egli era necessario» (Ds I, xvii, 2, p. 107), «Io credo che non sia fuora di proposito» (Ds I, xviii, 2, p. 112). 7   Nel primo progetto delle Istorie la trattazione doveva iniziare dal 1434; in seguito fu anticipata al declino dell’impero romano. La comparsa dell’ io narrante è limitata alle formule: «Ma, ritornando all’ordine nostro, dico come al papato era pervenuto Gregorio III, e al regno de’ Longobardi Aistulfo» (Istorie I, 10, p. 120), «Dico per tanto che lo stato il quale in Firenze da la morte di messer Giorgio Scali ebbe, nel 1381, il principio suo fu prima dalla virtù di messer Maso degli Albizzi, di poi da quella di Niccolò da Uzano sostenuto» (Istorie iv, 2, p. 375), «Ma tornando alle cose di Italia, dico come e’ correva l’anno 1456, quando i tumulti mossi da Iacopo Piccinino finirono» (Istorie vi, 34, p. 610). 8  Cfr. II, 1, p. 189; III, 3, p. 297; IV, 2, p. 375. 9   L’io narrante presenta i due interlocutori Cosimo Rucellai e Fabrizio Colonna; quest’ultimo domina la scena e, alla fine del settimo e ultimo libro, produce un lungo monologo (di oltre trenta pagine dell’ed. cit.). 10   Si ritrovano frasi brevi di DD in Ds iii, p. 581, 639. Mentre il DD è largamente attestato nelle Lettere (Totto Machiavelli a N. M.): «non dite poi» + DD (ivi, p. 196); «e se voi dicessi» (ivi, p. 182); «“Noi ricorreremo ad el re!”» (Parole da dirle, in Scritti politici minori, p. 450). È utile un confronto con la tipologia di frasi presenti nell’it. ant.: G. Lauta, in SIA (2012: 69-98). 11   Nel primo libro domina la Roma antica (assetto sociale, ordinamento giuridico, guerre), circa 294 pagine. Nel secondo libro il tema della guerra, associa l’antichità alla modernità (utilità delle fortezze), circa 226 pagine. Il terzo libro tratta della conservazione del potere (capp. i-ix) e delle virtù del buon capitano (inoltre sono narrati numerosi esempi antichi, capp. x-xlix), circa 266 pagine.

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tipi particolari di sequenze testuali: la presentazione di un personaggio, destinato a conquistare la scena, e il quadro di un evento, dove l’esposizione assume un carattere storico-narrativo. All’appello al lettore è preferita la collaborazione discorsiva, un’istanza pragmatica che si ripete quasi in ogni capitolo. Quanto alla resa formale (particolarmente sintattica) degli incipit, si riconosce una prevalenza delle proposizioni sovraordinate, con un tema ben evidenziato dall’ordine dei costituenti e talvolta da marcatori discorsivi; tra le subordinate che si ritrovano nella cosiddetta periferia sinistra appaiono sovente le concessive introdotte da ancora che e da avvenga che, mentre gerundiali e participiali sono meno frequenti. Un tratto ricorrente è la costruzione prolettica con ripresa pronominale, di cui si parlerà tra breve. I tipi principali di incipit sono: i) aπermazione di un principio, ii) appello al lettore, iii) espressione concessiva, iv) nota metatestuale, v) circostanza o tempo espressi da una gerundiale, vi) circostanza resa con un’espressione modale, vii) presentazione di un personaggio, avviata da una participiale. Sovente l’avvio è dato dall’esposizione di una tesi, subito analizzata nelle sue componenti. Le formule hanno tre caratteri fondamentali: i) referenziale, ii) testuale, iii) pragmatica. Le partizioni interne ai capitoli sono attuate spesso mediante vari dispositivi formali, i quali svolgono per lo più le seguenti funzioni: Collegamento: «Come intervenne a Sparta e a Vinegia» (Ds I, vi, 27, p. 46), «Potrebbesi ancora allegare» (Ds I, vii, 14, p. 53), «Non voglio mancare di addurre» (Ds, I, xiii, 6, p. 91), «Di che se ne può addurre uno freschissimo esemplo» (Ds, I, xxiii, 14, p. 131), «Questo mi fa giudicare così lo esemplo di coloro che» (Ds, I, xiii, 9, p. 129). Conclusione: «E infine, chi sottilmente esaminerà tutto ne farà questa conclusione» (Ds, I, v, 13, p. 39), «Tale adunque principio e fine ebbe la legge agraria» (Ds I, xxxvii, 21, p. 184), «Conchiudendo adunque questo discorso, dico che» (I, xxix, 26, p. 151); vi appaiono di frequente gli avverbi insomma, quindi, pertanto, nonché i sintagmi verbali del tipo: conoscesi adunque, conoscesi pertanto. Evidenziazione: «È da notare che» (Ds I, viii, 8, p. 58), «Questa parte, come è detto, era bene ordinata in Roma» (Ds I, viii, 14, p. 59), «È da notare in questo nuovo ordine il modo dello eleggerlo» (Ds I, xxxiv, 19, p. 171), «E per questo si debbe notare che...» (Ds I, xxxv, 10, p. 173). Giustificazione: «E la cagione perché a’ Romani tornò bene questo partito, fu perché lo stato era nuovo, e non per ancora fermo» (Ds I, xxxii, 4, p. 159), «Questo discorso ho fatto perché...» (Ds I, xxxvii, 6, p. 178). Preannuncio: «E per non avere a tornare più sopra questa materia della ingratitudine, ne dirò quello ne occorrerà nel seguente capitolo» (Ds I, xxviii, 12, p. 145), «E, come nel fine di questa materia si dirà, tanti ordini [...] non sono [...] imitati» (Ds, II, iv, 36, p. 337). Riassunto: «Considerando adunque quanto onore si attribuisca alla antiquità [...] e veggendo dall’altro canto le virtuosissime operazioni [...] non posso fare che...» (Ds I, Proemio, 3, p. 4), «Considerando adunque tutte queste cose, si vede come a’ legislatori di Roma era necessario fare una delle due cose» (Ds I, vi, 17, p. 44) «Da tutte le soprascritte cose nasce la di√cultà» (Ds I, xviii, 28, p. 117). Spiegazione (mediante la cong. cioè): «[scil. la republica] veniva ad essere mista di due qualità delle tre soprascitte, cioè di principato e di ottimati» (Ds I, ii, 33, p. 28), «E così elli, per questa via, sodisfece a una delle voglie che hanno i popoli, cioè di vendicarsi» (Ds I, xvi, 22, p. 105),«Quanto a una republica, volendo

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fugga questo vizio dello ingrato, non si può dare il medesimo rimedio che al principe, cioè che vadia e non mandi nelle espedizioni sue, sendo necessitata a mandare uno suo cittadino» (Ds I, xxx, 8, p. 153). 12  

La voce dell’enunciatore non declama, non si concede esclamazioni e interrogazioni dirette; appare isolato un appello: «O tu, principe, vuoi con queste fortezze tenere in freno il popolo della tua città, o tu, principe o republica, vuoi frenare una città occupata per guerra» (Ds II, xxiv, 13, p. 466). Manca un dialogo a più voci; vi sono invece scene mosse, come quella che riprende i tumulti della Roma repubblicana: E se alcuno dicessi i modi erano istrasordinarii e quasi eπerati (vedere il popolo insieme gridare contro al senato, il senato contro al popolo, correre tumultuariamente per le strade, serrare le botteghe, partirsi tutta la plebe di Roma: le quali cose tutte spaventano, non che altro, chi le legge), dico come ogni città debbe avere i suoi modi con i quali il popolo possa sfogare l’ambizione sua (Ds I, iv, 8, p. 35).

È una scena “rivoluzionaria” assunta da chi, contro la tradizionale concordia ordinum (difesa da Guicciardini), riconosce la necessità e la validità del conflitto, come strumento per evitare fratture sociali profonde. 13  

4. 1. 2. Partizioni La composizione dei Discorsi risale in gran parte al 1517, ma si suppone, fondatamente, che a quella data esistessero già consistenti materiali preparatori, i quali spiegano la ricchezza di riferimenti storici che aπollano le pagine del trattato (v. 4.8). Priva di una salda struttura, l’opera di√cilmente rientra in un genere e in un tipo testuale; si presenta infatti come un insieme di commenti e di riflessioni, collegati da idee-guida e da fili conduttori, che riguardano, nella parte iniziale, i primi quattro secoli e mezzo della repubblica romana, per poi estendersi ai tempi che hanno visto la nascita e lo sviluppo grandioso dell’impero, fino alla sua progressiva decadenza e tragica scomparsa. In questa trama antica s’inseriscono eventi della modernità che finiscono per dominare molti luoghi dell’opera. L’insieme è sostenuto da una fitta vertebratura di riflessioni, argomentazioni, dimostrazioni, che non raramente lasciano spazio a spunti narrativi. Varie sono le interpretazioni suscitate dall’opera. Dionisotti (1980: 258) ha osservato che si ha la subordinazione a un testo di base (Livio), alla maniera di quanto era avvenuto da secoli negli scritti dei legisti; e al pari (si potrebbe aggiungere) di quanto avviene nelle Considerazioni intorno ai Discorsi di Machiavelli, dove Guicciardini corregge aπermazioni e decostruisce alcune tesi dell’interlocutore, insistendo su un punto: l’intreccio di cause politico-militari e la grave crisi istituzionale sono all’origine della decadenza di Firenze. 14 Nel definire il significato complessivo dell’opera e  

12   Cioè è per alcuni una “congiunzione testuale”; per altri è un “connettore esplicativo” che, assieme a ossia e infatti, introduce frasi, v. Colombo (2012: 98). Si noti la funzione di tematizzatore svolta da quanto a, introduttore presente anche nell’Arte della guerra (Frenguelli 2002b: 118); quanto a, al pari di d’altra parte, si può definire “connettore-segnale d’argomento” (Adam-Petitjean 1989: 119). 13  Il capitolo I, iv è stato definito «rivoluzionario» (Sasso, “Discorsi”: 438), perché considera positivamente le contese civili dell’antica Roma contro l’ideale della homónoia. 14   Sulla tipologia dei commenti antichi v. A. Mazzucchi, Il commento ai classici: commentare Dante, in Come parlano i classici. Presenza e influenza dei classici nella modernità. Atti del Convegno internazionale di Napoli (26-29 ottobre 2009), Roma, Salerno Editrice, 2011: 65-92.

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nel proporne una collocazione nel campo letterario, si è evidenziata la mescidanza che è propria dei Discorsi: «Machiavelli sperimenta una specie di geniale incontro fra il trattato di materia politica, ordinato per temi, e il commento umanistico» (Inglese 1992b: 949); «riprende la forma del commento umanistico ad un testo classico, rivoluzionando dall’interno un genere tutto quattrocentesco (come il De principatibus rivisitava la forma pedagogica dello speculum)». 15 I rapporti tra i Discorsi e il Principe diventano evidenti quando le due opere trattano gli stessi temi; si confronti, per es., Pri xvii, De crudelitati et pietate et an sit amari quam timeri vel e contra e Pri xviii, Quomodo fides a principibus sit servanda con Ds I, xxvii, Sanno radissime volte gli uomini essere al tutto cattivi o al tutto buoni. I modi di “fabbricazione” del testo producono particolari eπetti di senso, che si accordano spesso al clima culturale di quel tempo. Il Rinascimento è frequentato da pratiche di collazione, ricomposizione, riscrittura, sviluppo, le quali indicano percorsi di lettura diversi. Il rapporto tra “il tutto” e “le parti” apre a una riflessione sui poteri della scrittura, che, nei primi vent’anni del Cinquecento, si orienta in modi originali a seconda delle occasioni storiche e culturali. Testi brevi sono fusi in compagini ampie, che sembrerebbero provvisorie e instabili. Testi ampi assumono i caratteri delle sequenze che in essi sono contenute. Sono forme innovatrici che si proiettano nel futuro. I Discorsi contengono idee che continuamente s’interrogano sugli obiettivi che la società dovrebbe raggiungere. Dal cap. xix del primo libro in poi prevale l’ordine dei temi attuato nel testo liviano: i primi re di Roma, gli Orazi e Curiazi, Porsenna, le prime conquiste, la guerra punica ecc., ma presto la comparazione con personaggi ed eventi di altre epoche, rievocati per analogia o somiglianza, alterano il primitivo disegno. 16 A Firenze, nata serva, si contrappone Roma, nata libera; da questa nota prende avvio la narrazione di eventi: il conflitto tra la plebe e il senato, la nascita del tribunato e del decemvirato, l’istituzione della magistratura e la definizione dei suoi poteri. Un caratteristico percorso dimostrativo consiste nel presentare una sententia facendola seguire da una ratio e da una conclusio, nella quale viene ripreso un particolare della prima fase (agli antichi scrittori risponde la scena del conflitto plebe-nobili):  



Egli è sentenzia degli antichi scrittori come gli uomini sogliono a∫iggersi nel male e stuccarsi nel bene, e come dall’una e dall’altra di queste dua passioni nascano i medesimi eπetti. Perché qualunque volta è tolto agli uomini il combattere per necessità, combattono per ambizione, la quale è tanto potente ne’ petti umani che mai, a qualunque grado si salgano, gli abbandona. La cagione è perché la natura ha creati gli uomini in modo che possono desiderare ogni cosa e non possono conseguire ogni cosa; tale che, essendo sempre maggiore il desiderio che la potenza dello acquistare, ne risulta la mala contentezza di quello che si possiede, e la poca sodisfazione d’esso. Da questo nasce il variare della fortuna loro, perché, disiderando gli uomini parte di avere più, parte temendo di non perdere lo acquistato, si 15   Cfr. Rinaldi (1999: 32-33). «Lo schema del commento [è] più arcaico di quello tematico» (Inglese 1992b: 945); l’opera è «un insieme di discorsi legati da un filo conduttore più che da una rigida struttura compositiva» (ivi: 944). Una parte consistente dei Discorsi risale agli anni 1515-17 e alle riunioni, tenute da personaggi eminenti della vita cittadina e della cultura, presso gli Orti Oricellari, per iniziativa dei figli di Bernardo Rucellai e del nipote Cosimo. I Discorsi sono dedicati a Zanobi Buondelmonti e a Cosimo Rucellai. Il fine della scrittura è così definito: «quel bene che per la malignità de’ tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri» (Ds ii, Proemio, 25, p. 301). 16   Dei personaggi, dei luoghi e degli eventi citati ricordiamo: David e Pisistrato, l’Inghilterra contro la Francia, Giulio II contro Bologna, le battaglie e gli scontri avvenuti in Italia, ecc. Dall’idea umanistica che le gesta dei grandi rappresentino esempi da seguire nasce il De viris illustribus petrarchesco, ispirato alle Vitae di Svetonio, ma alimentati dalle Decadi liviane; i Ds segnano un superamento di questi schemi.

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la prosa del cinquecento viene alle inimicizie e alla guerra, dalla quale nasce la rovina di quella provincia e la esaltazione di quella altra. Questo discorso ho fatto perché alla plebe romana non bastò assicurarsi de’ nobili per la creazione de’ tribuni (al quale desiderio fu costretta per necessità), che lei subito, ottenuto quello, cominciò a combattere per ambizione, e volere con la nobiltà dividere gli onori e le sustanze, come cosa stimata più dagli uomini. Da questo nacque il morbo che partorì la contenzione della legge agraria, che infine fu causa della distruzione della republica (Ds I, xxxvii, 2-6, p. 177-179).

I due termini desiderio e potenza ci riportano a un pensiero, che medita sul rapporto tra natura e storia, sulle vicende della fortuna, sull’occasione dei conflitti, sulla scelta tra rovina ed esaltazione. La serie di causali, tra loro legate, ma poste su piani diversi («Perché qualunque volta [...]. La cagione è perché [...], perché, disiderando gli uomini [...], perché alla plebe romana non bastò»), si chiude con una consecutiva «tale che, essendo [...] ne risulta». In seguito l’elencazione delle cause impone un diverso andamento dei periodi: «Da questo nasce [...], dalla quale nasce [...]. Da questo nacque il morbo». Risalta infine l’institutio, la presa di posizione rispetto alle aπermazione fatte: «Questo discorso ho fatto». Uno schema ragionativo simile ritroviamo nel Proemio del secondo libro, dove si confrontano «gli antichi tempi» e «gli presenti», e si conferma l’idea di un’immutabilità delle cose: «giudico il mondo sempre essere stato ad uno medesimo modo»; precede una precisazione «Replico pertanto essere vera quella consuetudine del laudare e biasimare soprascritta». L’alterna fortuna cambia il luogo, non l’essenza; gli appetiti umani ritornano sempre, insaziabili. Il secondo libro è più breve e più ordinato. Il tema posto all’inizio - Quale fu più cagione dello imperio che acquistarono i Romani, o la virtù o la fortuna -, è ripreso nei passi in cui si tratta della politica estera di Roma, delle guerre con i popoli vicini, delle vittorie in campo di battaglia e dei successi diplomatici; le une e gli altri sono il frutto, non della fortuna, ma della virtù romana, dell’organizzazione dell’esercito e della capacità di accogliere i forestieri. Anche in questo libro si riprendono temi aπrontati nel Principe, nei capitoli x e xxiv: i danari non sono il nervo della guerra, le fortezze sono più dannose che utili, il pericolo insito nelle «arme mercennarie» (Pri xiii e xx; Ds II, xx). Non mancano i temi nuovi: «e vo’ esaminare se le artiglierie impediscano che non si possa usare l’antica virtù» (Ds II, xvi, 35, p. 406); ma, soprattutto, è lasciato spazio alla riflessione sul destino dei popoli, sulla diversità dei costumi, sul rivolgimento recato dal cristianesimo, 17 sulla convivenza dei popoli, sulla diπerenza tra i tempi antichi e i moderni. Il terzo libro è dedicato essenzialmente all’arte del governo; si tratta delle regole da seguire e dei principi operativi, delle azioni da porre in atto per opporsi ai nemici interni (il lungo cap. vi sulle congiure riprende un tema dibattuto nel cap. xix del Principe), dei modi di ordinare un esercito e di condurre una battaglia, di reggere la moltitudine con umanità o con durezza, delle virtù e i difetti dei cittadini e degli ottimati. Ampio è il corredo di confronti storici e di vicende esemplari. Un filo rosso, che percorre l’intera opera, è il rapporto drammatico fra i modi degli uomini e la qualità dei tempi: un conflitto, che attraversa le epoche e che impone a ogni individuo comportamenti imprevedibili. Una domanda si pone di continuo: la  

17   S’indagano «e modi che ha tenuti la setta cristiana contro alla gentile; la quale ha cancellati tutti gli ordini, tutte le cerimonie di quella, e spenta ogni memoria di quella antica teologia. Vero è che non gli è riuscito spegnere in tutto la notizia delle cose fatte dagli uomini eccellenti di quella» (Ds II, v, 5, p. 340)

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storia umana è guidata dall’impegno morale, dall’ingegno e dalla creatività degli uomini, oppure è una realtà cieca che si evolve seguendo leggi ignote? I proemi ai tre libri non riescono a presentare compiutamente la vasta materia: il primo spiega l’utilità di rivolgersi agli antichi esempi e l’opportunità di scegliere, per tal fine, il testo liviano. Il secondo aπerma la necessità di distinguere, nel passato, il buono dal cattivo: «giudico il mondo sempre essere stato ad uno medesimo modo e in quello essere stato tanto di buono quanto di cattivo, ma variare questo cattivo e questo buono di provincia in provincia». Il proemio del terzo libro manca, ma è sostituito dal capitolo iniziale: A volere che una setta o una republica viva lungamente, è necessario ritirarla spesso verso il suo principio; alla consumazione delle entità statali segue una loro reintegrazione nella vitalità originaria. Il «giudicare per essempli» è il motivo conduttore dei tre proemi, anche se nel terzo questo principio appare in piena decadenza: «La storia interna dei Discorsi, colta sommariamente nella sequenza dei tre proemi, vede dunque tramontare l’idea di “imitazione”, in una più drammatica, non bene esplicitata e chiarita, nozione del nesso che lega sapere storico e prassi politica» (Inglese 1992b: 956). Al naturalismo politico del Segretario fiorentino si oppongono i noti apoftegmi guicciardiniani: «Quanto si ingannono coloro che a ogni parola allegano e Romani!», «È fallacissimo el giudicare per gli essempli» (Ricordi, 110, 117). I Discorsi sono un’opera disorganica: la divisione in libri e in capitoli aiuta la lettura, ma non ordina il testo. Il sistema machiavelliano di idee predispone l’inserimento e la stesura delle glosse al testo liviano; ma questi due fattori, che si accostano concettualmente, rimangono ben distinti nel testo. 18  

4. 1. 3. Percorsi La lettura linguistica e stilistica di un testo si svolge in due dimensioni: la prima ha carattere pragmatico-configurazionale e si riferisce al livello dei rapporti tra il testo e i suoi interpreti (Adam 1992: 105, 131), la seconda ha svolgimento sequenziale e riguarda la descrizione e l’analisi delle strutture periodali. Anche qui si procederà in due momenti; nel primo, dedicato essenzialmente ai caratteri dell’argomentazione machiavelliana, si tratterà delle istanze pragmatiche sottese ai Discorsi e dei rapporti che tali istanze intrattengono con le configurazioni del testo; in seguito si descriveranno analiticamente le strutture sintattiche e la costruzione dei periodi. Fin dai primi tempi, la retorica ha rappresentato un quadro di riferimento per lo studio dell’argomentazione, una delle componenti essenziali del nostro agire linguistico. L’esistenza di un fondo comune della cultura europea contribuisce a ordinare le ricerche in questo settore. Importa osservare come avviene la “messa a testo” di schemi e procedimenti argomentativi in un autore, che ha come obiettivo non tanto la scienza del pensiero, quanto la tecnica del pensare. 19 Interessa vedere come agisce la forza del ragionamento e come sono evitate le debolezze discorsive e dimostrative.  

18   La non omogeneità dell’opera dipende anche dalla qualità delle correzioni: «non è tuttavia possibile paragonare il lavorìo machiavelliano alle grandi revisioni delle loro opere compiute da Bembo, Ariosto e Castiglione. Le revisioni di M., se ci sono state, non hanno sbocco e non mirano a un progetto di pubblico nuovo (come avviene con i grandi letterati citati), ma indicano al contrario lo sforzo di conservare un rapporto col vecchio destinatario politico quattrocentesco [...]. Perciò alla fine i Discorsi appaiono involontariamente decostruiti, frammentari e contradditori; in essi l’aggiornamento continuo (a diπerenza di quanto avviene nel parallelo Cortegiano) sembra non avere più scopo o bersaglio, prendendo quasi l’aspetto e√mero di un diario politico» (Rinaldi 1999: 35). 19   Doury/Moirand (2004: 11); sulla mise en texte di dispositivi argomentativi v. Adam (1992: 81). Riprendendo una distinzione proposta da Toulmin (1975: 7), si può sostenere che M. pratica l’art de penser, non la science de la pensée.

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Ideologia e scrittura si collegano nell’enunciazione. Poiché l’istanza argomentativa, 20 intesa come capacità di relazionare e far interagire i concetti, è prevalente nei Discorsi, e poiché ad essa, come a un centro, si riferiscono le componenti citazionali, riflessive e narrative dell’opera, abbiamo osservato in quali modi si realizza nel testo la presenza dell’enunciatore, impegnato a comporre tra loro motivi, forme, modelli e strutture formali tendenzialmente non omogenei. Più che di tipi testuali conviene parlare di prototipi, intesi come griglie di strutturazione che servono a inquadrare la composizione e, al tempo stesso, aiutano il lettore nel suo avvicinamento al testo ( Jeandillou 2011: 137). In superficie si rivelano fenomeni riguardanti la disposizione e suddivisione della materia, la successione delle sequenze e dei periodi, la scelta dei connettori e degli “indicatori di forza” (formule, avverbi, intensificazioni ecc.). Quanto ai contenuti, osserviamo la presentazione di idee-guida, di ragionamenti, di tesi, esposte e difese, riassunte in aforismi, detti e citazioni, fatte rivivere in figure e in similitudini. Prevalgono il commento e la riflessione, manca la vis heroica che anima il Principe e spinge all’azione. Diversamente dal breve trattato, che ha un unico destinatario, i Discorsi s’indirizzano, nel ricordo degli Orti Oricellari, a un pubblico colto, assente e non loquente, in un rapporto che è, ovviamente, “dialogico”, non “dialogale”. 21 Gli scritti di Machiavelli sono diretti, in modo esplicito o implicito, a un committente; si tratta per lo più di un destinatario politico, il quale può mutare nel tempo, come possono mutare le convinzioni e le intenzioni di chi scrive. Nell’aπrontare il momento della ricezione di un testo è fondamentale il riferimento alla doxa: l’insieme degli schemi di pensiero, delle opinioni e delle credenze ai quali si richiama colui che produce un testo e cerca il consenso. Quello di Machiavelli è un pubblico che, quanto al mezzo linguistico, ha una buona (o perlomeno discreta) conoscenza del latino e tale lingua interpreta come un modello da imitare, quando il contesto enunciativo lo richieda. Oltre al commento di Livio e alla meditazione sul passato, i Discorsi assumono talvolta i toni della tenzone oratoria, con i suoi attori, le scene fondamentali, lo sfondo storico. Il discorso è avviato sovente con una massima o con un proverbio, dal quale viene poi dedotto l’argomento da trattare; è un avvio che ritroviamo anche in altri scritti: «Io ho sentito dire che le istorie sono la maestra delle azioni nostre [...]. Dunque se è vero che le istorie sieno la maestra delle azioni nostre, non era male [...] pigliare esemplo» (Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, in Scritti politici minori: 462).  



4. 1. 4. “Ho deliberato di entrare per una via” Nell’interazione è presente non l’individuo empirico, ma l’immagine che di tale individuo è stata elaborata dall’autore-locutore. La sua rappresentazione sociale e l’iscrizione di quest’ultima in un discorso sono processi che vanno di pari passo. In questa fase dell’analisi, è necessario osservare i caratteri dell’allocutività: i suoi indici, gli appellativi e i pronomi personali. L’enunciazione non prevede in genere l’emersione di un allocutario cui il narratore possa rivolgersi; la metalessi è scarsamente praticata. In ciò i Discorsi si diπerenziano dal Principe. 22  

20   Ducrot (2004: 24-25) distingue tra argomentazione retorica (che consiste nel “far credere qualcosa” all’allocutario) e argomentazione linguistica: «Le donc est un moyen de décrire et non pas de prouver, de justifier, de rendre vraisemblable». 21   Sulle discussioni che avvenivano agli Orti Oricellari, si vedano: Bec (1981: 218-220), R. M. Comanducci, “Orti Oricellari”, in EncMachiavelli, ii (2014: 261-265). L’aggettivo dialogico, riguarda cioè l’interazione virtuale, non reale. I problemi dell’interazione sono trattati da Goπman (1967). 22   Ma anche l’assenza della metalessi, cambiamento, per lo più improvviso del livello narrativo, è un indice delle intenzioni dell’autore.

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Tra locutore e pubblico vi sono elementi condivisi, vale a dire, valori e credenze comuni. La strategia argomentativa prevede la costruzione di un pubblico, e la rappresentazione che di esso si fa il produttore del discorso s’inscrive nel testo e ne determina le modalità argomentative. 23 Nella scena enunciativa si riconosce la presenza di chi ha il potere di tradurre in azione i programmi: si tratti del principe o dei magnati o del popolo, è colui che propone un percorso politico e se ne fa, al tempo stesso, profeta e sostenitore. Chi scrive costruisce nel suo discorso un’immagine di sé in cui si fondono le qualità e le virtù dell’ethos, del logos e del pathos; 24 «ho deliberato entrare per una via» (Ds I, Proemio, 1) e «Non so adunque se io meriterò di essere numerato infra quelli che si ingannano» (Ds II, Proemio, 22) sono dichiarazioni proemiali che inscrivono il locutore come soggetto nel suo dire; l’immagine del locutore s’impone in un quadro interdiscorsivo in cui compaiono strumenti adeguati di orientamento: shifters, modalizzatori, termini valutativi ecc. (Amossy 2014: 55-63). Che in un determinato ambiente si aπermino topoi particolari è un fenomeno studiato soprattutto in un ambito storico e sociologico. Più dei cinque topoi di cui tratta Perelman: i) della quantità, ii) della qualità, iii) dell’ordine, iv) dell’esistente, v) dell’essenza, c’interessa al momento il topos pragmatico, l’anello argomentativo che collega tra loro due enunciati, legame che nei Discorsi può essere intrinseco o estrinseco (proviene dalla logica del dire o è riferibile ad agenti esterni) o può consistere in una sentenza, con la quale un caso particolare viene legittimato. Se il modello logico minimo si compone di: argomento, conclusione, regola di passaggio, contro-argomento, nei Discorsi, come nel Principe, l’argomentazione poggia sovente sull’entimema, un sillogismo deduttivo, in cui una premessa non è aπermata in modo esplicito e la regola di passaggio è interpretata dall’avverbio adunque, posto sovente all’inizio del periodo, con il fine di far compiere al discorso un passo avanti, per trarre una conseguenza o una conclusione: conchiudo adunque, dico adunque, notasi adunque, trassi adunque, vedesi adunque. 25 L’induzione è resa con l’esempio o con l’analogia: valgono l’autorità dell’antecedente e la convinzione che i fatti presenti e futuri si rispecchino nel passato. Ciascun testo argomentativo gioca con le sue componenti, sia alterandone l’ordine espositivo, sia eliminandone alcune o aggiungendone di nuove; esiste poi un termine di riferimento, un iperonimo, che stabilisce un ordine e una “piccola confederazione di termini” ( Jeandillou 2011: 145, 149). La narrazione, che agisce sul duplice piano letterale e figurato, aiuta a comprendere e a sostenere l’argomentazione; la parabola, invece, favorisce l’interpretazione. Con l’aiuto della retorica, le istanze pragmatiche, che nei Discorsi, come nel Principe, si manifestano soprattutto con gli atti linguistici direttivi (comandi, ordini, richieste, inviti, esortazioni, suppliche, consigli), guidano l’argomentare, regolando la successione e la connessione degli enunciati. I termini dell’ideologia e dell’agire politico (accidenti, autorità, consuetudine, necessitade, principii, spezie), che si definiscono nell’interdiscorso “locutore-pubblico” e sono per lo più latinismi, hanno un fine assiologico, comportano cioè un giudizio  





23   Per l’adattamento del discorso all’uditorio e per l’ethos discorsivo (la messa in scena dell’oratore) v. Amossy (2014: 50-110); secondo Aristotele l’ethos si fonda su tre requisiti: phróne–sis ‘buon senso’, arete´– ‘virtù’, eúnoia ‘benevolenza’. 24   Per il concetto di “scena dell’enunciazione” v. Charaudeau/Maingueneau (2002: 227). A proposito di pathos, si ricorda sovente quanto Aristotele sostiene a proposito della collera (inizio del ii libro della Retorica). 25   Cfr. l’uso dell’avverbio al servizio dell’ironia: «Abbiamo adunque con la Chiesa e con i preti noi italiani questo primo obligo, di essere diventati sanza religione e cattivi» (Ds I, xii, 18, p. 87).

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di valore; i verbi si ordinano sovente in coppie, che indicano azioni concordi o discordi: acquistare e mantenere, ordinare e riformare, riordinare e corrompere; gli aggettivi svolgono una funzione rappresentativa e distintiva: dal principe, che è di volta in volta eccellente, virtuoso, debole, nuovo, alle republiche bene ordinate, alla città libera e allo stato anticato; l’estremo rimedio pone fine alla tirannide, che è l’opposto della liberalità. Se nella seconda metà del Cinquecento i toscanisti, come Borghini e Salviati, reagiranno contro la tendenza latineggiante, perché in essa vedevano una minaccia alla soluzione fiorentina, nei primi decenni del secolo l’accoglimento di latinismi non incontrava resistenze. In eπetti, nei Discorsi, la presenza del latino si manifesta a vari livelli: rispetto al Principe, le citazioni sono più numerose (indipendentemente dalla diversa estensione delle due opere), come è naturale, data la natura particolare del testo, e hanno, quasi sempre, valore di testimonianza e di conferma di aπermazioni precedenti, ma, quando appaiono all’inizio o nel finale di un capitolo, assumono inevitabilmente una funzione testuale: è il caso di Crescit interea Roma Albae ruinis (Ds II, iii, 2, p. 324; xi, 2, p. 371), motto che esemplifica una particolare contestualizzazione e valorizzazione della lingua antica. Quanto al lessico, vi sono vocaboli rari, come aríoli ‘indovini, lat. hariolus (Ds I, xii, 4, p. 83), e parilità ‘parità’ lat. parilitas, -atis (Ds II, xvi, 9, p. 399), mentre un latinismo già presente nel Convivio (giungerà fino a Carducci) è potissima [cagione] (Ds III, xv, 11, p. 647); notevoli sono ancora: comità ‘umanità’ ricavato dall’avverbio lat. comiter, presente in Livio (Ds III, xxii, p. 673), (cose) a∫itte ‘situazioni avverse’ (Ds III, xxv, 5, p. 689), lat. rebus a∫ictis, Altri latinismi sono: formidabile ‘temibile’ (Ds I, vi, 29, p. 47), notabile ‘espressione degna di nota’ (Ds III, xliv, 3, p. 773); deletto ‘leva militare, arruolamento’ (lat. delectus o dilectus) ricorre più volte. Saranno da considerare a parte quei latinismi di uso corrente nella lingua cancelleresca, come massime ‘soprattutto, in particolar modo’, avverbio accentuativo, che ha 39 occorrenze nei Ds e 11 nel Principe. 26 Ricordiamo infine la presenza di non in frasi dipendenti da verba timendi: «per paura che la non ti occupi» (Ds I, vi, 29, p. 47), «i quali temevano che tutta la pena non si voltasse sopra le teste loro» (Ds III, xxxii, 2, p. 723), latinismo diπuso anche nei novellieri (Pietro Fortini). Non mancano note metalinguistiche: «Considerando io, [...] quante zuπe campali (chiamate ne’ nostri tempi, con vocabolo francioso “giornate”, e dagli italiani, “fatti d’arme”) furono fatte da’ Romani» (Ds II, xvii, 2, p. 406), «son ben sostenuti gli assalti italiani, i quali non in frotta, ma spicciolati si conducano alle battaglie, le quali loro, per nome molto proprio, chiamano scaramucce» (Ds II, xvii, 10, p. 408); così anche nel Principe: «E questo è che alcuno è tenuto liberale, alcuno misero, usando uno termine toscano, perché ‘avaro’ in nostra lingua è ancora colui che per rapina desidera d’avere , ‘misero’ chiamiamo noi quello che si astiene troppo di usare il suo» (Pri xv, 8); cf. anche: «lo esercito romano aveva tre divisioni principali, le quali toscanamente si possono chiamare tre schiere» (Ds, II, xvi, 11, p. 399); «“Res redacta est ad triarios”, che a uso toscano vuole dire: “Noi abbiamo messa l’ultima posta”» (Ds, II, xvi, 19, p. 401).  

4. 1. 5. L’argomentazione Più tipi testuali intervengono nel costruire un’argomentazione complessa, la quale inoltre è soggetta ai condizionamenti imposti dalle isotopie, dagli scivolamenti semantici, dai termini ridefiniti polemicamente, dalla presenza dell’implicito. Tali caratteri sono attivi in vari passi dei Discorsi e del Principe. Il sottinteso, diversamente da quanto accade con il presupposto, è individuato dall’allocutario sulla base dei “principi di cooperazione” o “massime conversazionali” di P. Grice. L’enunciazione è influenzata da elementi linguistici e strutture frasali specifici: congiunzioni e avverbi (ancora, così, dipoi, nondimanco, pure, sopra tutto, tanto più, oltre di questo, al 26

  Sui meccanismi di modulazione e/o di intensità v. C. Bazzanella, in GIA (2010: 1347).

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contrario, dall’altra parte, dall’altro canto), 27 dall’ordine marcato dei costituenti frasali, dall’espressione della modalità. Connettori e modulatori, come ma, dall’altra parte, certo, al certo, massime ecc., oltre ad allacciare rapporti formali, dispongono gli elementi periodali in una successione adatta all’argomentare. Una congiunzione che assume diversi valori a seconda dei cotesti è ma. 28 Nello studio del parlato l’interazione argomentativa oπre indubbi vantaggi rispetto al monologo: perché presenta con maggiore evidenza uno “scenario argomentativo” (script), vale a dire, il quadro che permette al lettore d’integrare le informazioni in connessioni coerenti; fornisce inoltre un “sito argomentativo”, cioè la posizione occupata dal locutore in un contesto (Plantin 1996, Maingueneau 2005: 40). Il teatro mostra con maggiore immediatezza questa interazione, che nella narrativa e nella trattatistica appare a un secondo livello. La decisione discorsiva, il “gesto fondamentale”, ricorre sovente nel Principe e nei Discorsi, ma il tono è diverso: perentorio, nella prima opera, misurato, nella seconda. 29 L’atteggiamento dell’autore nei confronti del pubblico si chiarisce per il fatto che il discorso evidenzia spesso il fondamento dell’enunciazione: la designazione dell’atto linguistico si fonde nel discorso. L’autoriferimento è presente sia nel testo letterario, sia nel parlato di ogni giorno, ma nel primo assume un rilievo straordinario. La ricerca di una legittimazione produce un profilo illocutivo, nel quale risaltano gli allacciamenti del testo. 30 Sul ruolo svolto dalle emozioni nell’argomentare, occorre tenere distinta la retorica (che è il percorso seguito da Aristotele) dall’eloquenza. Anche le passioni comportano una struttura argomentativa; lo stesso vale per i discorsi mirati a esercitare l’intimidazione e a incutere la paura; si argomenta, infatti, sulle conseguenze di un atto minatorio, sui modi di far fronte a una sensazione negativa; ci si muove alla ricerca di un rimedio e di un comportamento confacente alla situazione. 31 Nelle coppie logos-pathos e cognizione-emozione il secondo termine rappresenta, nella prospettiva qui assunta, non tanto una sensazione da esaminare nella sua dimensione percettiva, quanto un giudizio di valore; ciò va detto non soltanto per i passi fortemente emotivi, come l’appassionato finale del Principe, ma anche per quei luoghi dei Discorsi in cui si aπermano tesi di grande rilievo: la virtù, non la fortuna, ha fatto grande Roma, l’istituzione del tribunato ha giovato al raπorzamento della repubblica ecc. In modo analogo le figure sono forme verbali di cui si studiano non soltanto gli eπetti patemico ed estetico, ma anche (e soprattutto) il potere argomentativo, il  









27   Per i Discorsi e per il Principe la banca dati LIZ 4.0 fornisce 257 ess. di ancora e 157 ess. di così. Sulla di√coltà di distinguere tra congiunzioni e avverbi cfr. Colombo (2012: 17). M. non usa inoltre (in oltre) ma oltre a di questo: Ds, all’inizio del periodo: I, vi, 11, p. 43; I, ix, 9, p. 65; I, xxv, 4, p. 136; Ds, dopo un verbo: «Potrebbesi, oltre a di questo addurre più esempi Ds I, lvii, 6, p. 272; per potrebbe epistemico v. Pietrandrea (2001-2002: 80); Pri: oltre a questo (x, 9), oltra di questo (xxi, 5). Cfr. Al contrario a inizio di periodo (Ds I, xiv, 11, p. 95; III, xxxvi, 9, p. 746); pel contrario: «Sono pel contrario infami e detestabili li uomini distruttori delle religioni» (Ds I, ix, 7, p. 68). Nei Ds sono presenti le locuzioni avverbiali: dall’altra parte, in parte, in buona parte, nonché la correlazione distributiva parte ... parte. 28   Maingueneau (2010: 266) ha notato che ma si colora di particolari accezioni nel linguaggio teatrale; quest’ultimo sembra avere un’eco in alcuni tratti dell’argomentare di Machiavelli. 29   Al concetto di gesto in senso teatrale (Ubersfeld 1996, s.v. geste) e discorsivo si associa sovente quello di face work (Goπman 1967). 30   A tale proposito Maingueneau (2005: 164) parla di bouclages del testo. 31   Secondo Walton (1992) le passioni hanno una struttura argomentativa; infatti, quando si ha paura, capita di argomentare sulle conseguenze (di un fatto, di un evento) e di attivarsi per scegliere un comportamento e proporre un rimedio.

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quale è evidenziato dal contesto. Una buona metafora è una visione che impone un punto di vista, una prospettiva diversa, giovandosi di un’immagine inusuale, alla quale non si pensa in condizioni normali, ma che si rivela adatta a chiarire, con un’illuminazione improvvisa, un concetto o un sentimento, a suggerire una risposta o un comportamento; è questa la funzione svolta nel Principe dal lione, dalla volpe e dal centauro (esiste una saillance delle figure, accanto a quelle dello stile e della lingua). Il centauro significa che è necessario acquisire modi di contrasto e di lotta, che alla forza bestiale uniscano l’umano raziocinio. Non si possono studiare adeguatamente le “figure” machiavelliane senza ricorrere a una tecnica associativa, che faciliti il passaggio dall’uno all’altro piano, e senza valorizzarne i contesti: il trattato “eroico” del Principe o il commento-riflessione dei Discorsi. La forza della parola si manifesta in pieno quando si associa a una posizione nel campo discorsivo, e quando i generi e i tipi testuali si dispongono secondo una gerarchia soggetta a mutare nel tempo; in tali condizioni il principio della “formazione discorsiva” rivela per intero la sua funzione euristica. 32  

Presente a vari livelli, l’argomentazione è: linguistica (la lingua è descritta dalla lingua), retorica (la concezione classica si estende alle narrazioni, alle descrizioni e alle dimostrazioni), testuale 33 (si studiano le strutture e le funzioni del testo che rendono argomentativa una sequenza testuale e fondano le “cellule argomentative”). Di qui prende l’avvio una “grammatica del discorso argomentativo”, dei “profili argomentativi” e delle “macrostrutture dell’argomentazione”. Atayan (2009: 96) ha evidenziato l’eterogeneità di tali strutture e si è soπermato su quei procedimenti che raπorzano o attenuano l’argomentazione. Lo Cascio (2009: 28, 168-225) ha individuato e analizzato gli “indicatori di forza”. Maingueneau (2010: 229) ha riportato l’attenzione sui “marcatori d’integrazione lineare”, che strutturano la linearità del testo, organizzandolo in una successione di frammenti complementari, atti a evidenziarne le intenzioni; tali marcatori hanno tre valori di base: apertura, collegamento, chiusura; ciascuno di essi può avere, al tempo stesso, una dimensione cronologica, demarcativa, psicologica. I “connettori argomentativi” ma, bene, così ecc. svolgono una duplice funzione: legano delle unità semantiche e conferiscono un ruolo argomentativo alle unità messe in rapporto (ivi: 263). In particolare, così pone in risalto il locutore oppure, dal momento che si tratta di un incapsulatore avente valore risultativo, introduce enunciati che si legano a quanto precede in una catena argomentativa. Un settore non ancora attentamente esplorato è quello della dissociazione argomentativa, la quale ha strumenti, tecniche di composizione e strategie proprie (Gât,a˘ 2009), che sono presenti nei trattati del nostro.  

Grazie a quegli enunciati che fungono da “paletti” nello svolgimento del discorso, 34 l’enunciatore orienta e situa convenientemente lo svolgimento del suo dire, scegliendo tra diverse possibilità: i pronomi personali io e noi, il si impersonale, l’uso del passivo, l’imperativo del tipo si vegga, i verbi programmatici, come comincerò con, conchiudo, conchiudendo, gli avverbi e marcatori discorsivi, come adunque, appresso, in fatto, ora, quanto a, dall’altra parte. Negli ultimi anni questi elementi, che fungono da indici di strutturazione, sono stati oggetto di ricerche in varie lingue romanze: in particolare gli studi condotti per il francese antico e moderno (parlato e scritto) possono fornire spunti utili all’analisi della nostra prosa antica e rinascimentale. Consideriamo ora una struttura argomentativa, che ricorre nei Ds e nel Pri: la  

32   La “formazione discorsiva” di M. Foucault, è stata elaborata in ambito marxista da M. Pêcheux e posta in rapporto con l’interdiscorsività da D. Maingueneau. Le figure sono forme verbali aventi un eπetto argomentativo, che si somma agli eπetti estetico e patemico. 33   Il primo polo è rappresentato da Ducrot, il secondo da R. Amossy (v. V. Atayan, art. cit. alla nota 2 del cap. 2, pp. 94-95). Per questa distinzione v. anche Amossy (2009). 34   Si tratta, secondo Jeandillou (2011: 138), degli énoncés balisés.

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“concessiva ancora che + avversativa nondimanco”, alla quale segue di norma un marcatore di correlazione: «Ancora che lo usare la fraude in ogni azione sia detestabile, nondimanco nel maneggiare la guerra è cosa laudabile e gloriosa» (Ds III, xl, 2, p. 761); la concessiva può essere resa con una perifrasi: «dico come sarebbe bene essere ritenuto liberale, nondimanco la liberalità, usata in modo che tu sia tenuto, ti oπende» (Pri xvi, 1). Nell’ultima parte di Ds (I, ii), in quaranta righi di testo, ricorrono cinque concessive con correlazione: benché ... nientedimeno, non ostante ... nondimeno, se ... nondimeno, avvenga che ... nondimeno, benché ... nondimeno, le quali s’intrecciano con varie consecutive, coordinate disgiuntive e con riprese parziali (vedi 6.5.). Si tenga presente che i testi fortemente vincolati (da presupposti logici e situazionali) hanno catene anaforiche pesanti, tendono a saturare le valenze del verbo e alle sostituzioni lessicali preferiscono le ripetizioni. 4. 2. Articolazioni interne 4. 2. 1. Collegamenti Abbandonati gli schemi della Scolastica, la tecnica dell’argomentazione recupera i modi della disputa umanistica: presenza dell’Io, discorsività declamata, caduta di schemi prestabiliti. In particolare, risaltano l’autoreferenzialità dell’autore e la figuralità di esempi antichi e moderni, due aspetti ricorrenti nei Discorsi. Per collegare i periodi e le sequenze testuali appaiono adunque e pertanto, connettori che organizzano la progressione tematica; nondimanco, introduce, segnalandola con evidenza, un’obiezione contrapposta a un’aπermazione documentata e circostanziata. Il “cancelleresco” massime (39 occorrenze), equivalente ai nostri ‘soprattutto’, ‘per lo più’, appare all’inizio del periodo dopo la congiunzione e (17 occorrenze) oppure introduce un breve inciso, che accentua una precedente aπermazione. Anche veramente, nella maggior parte dei casi (20 occorrenze su 30), appare all’inizio del periodo dopo la congiunzione e. Di medesimamente (7 occorrenze) segnalo un passo in cui l’avverbio, posto dopo così e all’inizio del periodo, funge da connettore analogico di due eventi tra loro distanti nel tempo: se Manlio fusse nato ne’ tempi di Mario e di Silla (dove già la materia era corrotta, e dove esso arebbe potuto imprimere la forma della ambizione sua), arebbe avuti quegli medesimi séguiti e successi che Mario e Silla e gli altri poi che, dopo loro, alla tirannide aspirarono. Così medesimamente, se Silla e Mario fussono stati ne’ tempi di Manlio, sarebbero stati intra le loro prime imprese oppressi (Ds III, viii, 14-15, p. 605).

Questi connettori sono cerniere periodali: evidenziano il parallelismo tra i periodi, 35 come accade nel passo ora citato, ma più spesso sottolineano una ripresa. Le congiunzioni talché e talmente che introducono una conseguenza di quanto è stato appena presentato: «E prima [scil. Anco] si dirizzò a volere tenere la via della pace, ma subito conobbe come i vicini, giudicandolo eπeminato, lo stimavano poco; talmente che pensò a volere mantenere Roma bisognava volgersi alla guerra, e somigliare Romolo, e non Numa» (Ds I, xix, 12, p. 121). Le marche di coesione discorsiva esprimono: a) una continuità referenziale, servendosi di diverse forme di anafora;  

35   È ai marcatori che è a√data la conduzione del discorso: nondimanco, cerniera periodale, massime ‘soprattutto’, intensificatore; le riprese marcate sono eπettuate con medesimamente, talché, talmente che, e veramente, a posta di ‘a piacimento’, talché, talmente che, e veramente (questi ultimi due marcatori appaiono per lo più all’inizio del periodo).

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b) una relazione tra i contenuti proposizionali e gli atti linguistici, servendosi di connettori. Entrambe queste marche: i) sono asimmetriche (un costituente dipende dall’altro); ii) agiscono da destra a sinistra (da valle a monte si attuano relazioni risalenti), iii) riguardano due unità adiacenti (semplici o complesse) e quindi hanno una portata limitata. In base a questi caratteri comuni, possiamo raggruppare i due tipi in un’unica categoria, opposta, nella sua globalità, alle relazioni d’indicizzazione indotte da espressioni avverbiali (sintagmi preposizionali, avverbi, sintagmi nominali, proposizioni avverbiali). Tali relazioni d’indicizzazione sono poste in testa alla frase (posizione preverbale, prima della predicazione), agiscono da sinistra a destra (da monte a valle si attuano relazioni discendenti e sono potenzialmente aperte a valle). Le avverbiali anteposte hanno un potere d’inquadramento dell’insieme e pertanto guidano il lettore nel comprendere la coerenza del discorso; inoltre, servono alla ripartizione delle informazioni contenute nel testo e talvolta fungono da “topici”, nel senso che chiariscono di che cosa si parla (funzione di aboutness). Gli avverbiali anteposti hanno questo potere di indicizzazione perché precedono la messa in opera della predicazione. Questa posizione è pragmaticamente destinata ad accogliere informazioni già presentate: ne deriva che gli avverbiali d’inquadramento hanno un rapporto con le diverse forme dell’anafora e quindi operano come connettori. I due grandi sistemi di relazioni, presenti nella coesione extrafrastica, sono tra loro legati, salvo il fatto che vanno in direzioni opposte: le anafore e i connettori vanno verso sinistra (a monte), le avverbiali d’inquadramento vanno verso destra (a valle); naturalmente, vi possono essere, e vi sono di fatto, scambi in entrambe le direzioni. 36  

Passando a fenomeni di diversa natura, ricorderemo tratti lessicali e sintattici legati alla modalità e gli eπetti ottenuti dal contrapporsi di elementi che presentano caratteri opposti: per es., una particolare salienza ottengono le participiali brevi e compatte, le quali avviano periodi complessi, che, a loro volta, sono interrotti da brevi incidentali. 37 Grande rilievo (sia pure in misura ridotta rispetto al Principe) ha la struttura dilemmatica, che sostiene sovente l’argomentare. Eπetti analoghi sono raggiunti con distinzioni che espongono le diverse alternative oπerte all’agire politico e infine vengono riprese da una frase conclusiva.  

Chi ha osservato le antiche istorie trova come le republiche hanno tenuti tre modi circa lo operare. L’uno è stato quello che osservarono i Toscani antichi, di essere una lega di più republiche insieme [...]. L’altro modo è farsi compagni, non tanto però che non ti rimanga il grado del comandare, la sedia dello imperio e il titolo delle imprese: il quale modo fu osservato da’ Romani. Il terzo modo è farsi immediate sudditi e non compagni, come fecero gli Spartani e gli Ateniesi. De’ quali tre modi, questo ultimo è al tutto inutile, come si vide che ei fu nelle soprascritte due republiche (Ds II, iv, 2, p. 328; immediate è corsivo nel testo).

L’anafora retorica, che lega tra loro più periodi in successione, appare in vari cotesti. Nel cap. x del primo libro, dopo due frasi introduttive «Ma chi vuole conoscere quello che gli scrittori liberi ne direbbono» e «Consideri ancora, quello che è diventato principe in una republica, quanta laude [...] meritarono più quegli imperadori», il futuro consequenziale è ripetuto quattro volte: «Vederà ancora come 36   Alcuni elementi, che nella lingua di oggi sono posti a sinistra, in origine si trovavano a destra. In francese mais e et, prima di diventare semplici connettori, erano due avverbiali; lo sviluppo diacronico in direzione inversa appare più raramente, v. Molinier/Lévrier (2000: 526) e Molinier (2009). Sull’anafora associativa v. Kleiber (1983). 37   Gli organizzatori della progressione tematica, come adunque, pertanto, come, quanto a, conferiscono dinamicità alla rappresentazione, senza tuttavia alterarne il disegno complessivo e lo svolgimento; per il francese v.: Adam (1990: 151 ss.), Jeandillou (2011: 154). Una tipologia del collegamento transfrastico nell’it. mod. è descritta in Jamrozik (2002).

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a Gallicola [...]. Vedrà ancora, per la lezione di questa storia [...], vedrà un principe sicuro [...], vedrà il senato con la sua autorità [...]. Vedrà infine trionfare il mondo» (Ds I, x, 17-23, pp. 72-74). Spesso alla prima apparizione di un referente testuale seguono varie riprese, capaci di formare catene anaforiche, che assicurano la continuità tematica del testo. A seconda che il tema sia recuperabile facilmente o con di√coltà, vi sono riprese leggere (pronomi, anafore) e riprese pesanti (coniunctio relativa, ripetizioni di interi sintagmi o frasi). Una gerarchia di accessibilità colloca le forme anaforiche in una scala, che va da un minimo a un massimo di marcatezza, correlata alla prevedibilità del tema (Givón 1983:169-170). Incertezze e debolezze di progettazione possono sbilanciare e compromettere la validità delle catene anaforiche (Palermo 2013: 168-70). Il collegamento si vale spesso del relativo quale, cui fa concorrenza il dimostrativo quello e, meno frequentemente, esso. Gli agganci anaforici che sono in rapporto con gli strumenti della deissi evitano, in vari casi, il ricorso alla sostituzione lessicale; tuttavia la successione di anaforici può produrre una certa ambiguità referenziale. Si veda il passo seguente (si è appena aπermato che una religione nuova tende a distruggere la vecchia religione): La quale cosa si conosce considerando e modi che ha tenuti la setta cristiana contro alla gentile, la quale ha cancellati tutti gli ordini, tutte le cerimonie di quella, e spenta ogni memoria di quella antica teologia. Vero è che non gli è riuscito spegnere in tutto la notizia delle cose fatte dagli uomini eccellenti di quella; il che è nato per avere quella [scil. la setta cristiana] mantenuto la lingua latina, il che feciono forzatamente, avendo a scrivere questa legge nuova con essa (Ds II, v, 5, 1, p. 340).

Un altro collegamento leggero è fornito da ne, che appare con una frequenza superiore a quella riscontrabile in altri testi in prosa coevi; talvolta si tratta di un uso pleonastico: «Di che ne fa fede appieno la republica di Firenze» (Ds I, ii, 9, p. 18). «Di che ne nasceva che da ogni parte ne surgeva odio» (Ds I, viii, 18, p. 60). Si avverte una tendenza alla “ipercoesione”, che si manifesta anche nella ricorrenza parziale, nella ripetizione di vocaboli e sintagmi, nell’uso dei connettori il che, la qual cosa e nella coniunctio relativa. Quest’ultima rappresenta la punta avanzata di una “strategia riassuntiva” (resumptive strategy), modellata sul latino, ma variamente riorganizzata e adattata ai cotesti nella sintassi interfrasale del Cinquecento. La coniunctio relativa si colloca per lo più all’inizio del periodo: «Il quale presente non solamente non fu accettato da Camillo, ma, fatto spogliare quel maestro e legatogli le mani di dietro, e dato a ciascuno di quegli fanciulli una verga in mano, lo fece da quegli con di molte battiture accompagnare nella terra» (Ds III, xx, 3, p. 665), «La quale cosa faceva che, [...] non andavano dietro al più gagliardo» (Ds I, ii, 16, p. 21); coniunctio e incapsulatore relativo formano un nesso di collegamento ben visibile, presidio di una strategia testuale, che si vale dell’anteposizione anaforica e della proiezione cataforica. 38 Più raramente la coniunctio relativa appare all’interno del periodo: «Porsena re di Toscana; la stirpe del quale come si estinguesse, non ne parla la istoria» (Ds II, ii, 7, p. 311). La coniunctio relativa comprende la ripetizione del nome: «E così nacque la creazione de’ tribuni della plebe; dopo la quale creazione venne a essere più stabilito lo stato di quella republica» (Ds I, ii, 35, p. 29) o la ripresa parziale: «[...] secondo che più o meno è virtuoso colui che ne è stato principio. La virtù del quale si conosce  

38   Uso l’espressione resumptive strateg y senza le forti implicazioni che essa possiede nella grammatica generativa. Per la coniunctio relativa nella prosa dei primi secoli v. De Roberto (2012: 88-89; 351-354).

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in duo modi» (Ds I, i, 13, p. 12), «Belloveso venne in Italia, e Sicoveso passò in Ispagna. Dalla passata del quale Belloveso nacque la occupazione di Lombardia» (Ds II, viii, 11, p. 353). La ricorrenza parziale (un tempo studiata come adnominatio) è, nella linguistica del testo (Beaugrande, de/Dressler 1984: 85-86), uno strumento destinato ad aumentare la coesione di un periodo o di una sequenza testuale: «Talmente che, se uno ordinatore di republica ordina in una città uno di quelli tre stati, ve lo ordina per poco tempo» (Ds I, ii, 13, p. 20), «[scil. i Veniziani] corruppono il signore Lodovico che governava Milano, e per tale corrozione feciono uno accordo» (Ds III, xi, 9, p. 622). Vediamo un passo più esteso: Guglielmo, sendo commessario in Val di Chiana nel 1502, e avendo inteso come in Arezzo era una congiura in favore de’ Vitelli per tôrre quella terra ai Fiorentini, subito se n’andò in quella città, e – sanza pensare alle forze de’ congiurati o alle sue, e sanza prepararsi di alcuna forza – con il consiglio del vescovo suo figliuolo fece pigliare uno de’ congiurati, dopo la quale presura gli altri subito presono le armi e tolsono la terra ai Fiorentini (Ds III, vi, 195, p. 597).

Da pigliare si passa al deverbale presura e a prendere. La scelta della ricorrenza parziale dipende dal peso semantico del verbo e dalla volontà di evidenziare alcuni punti del testo. Nella forma del chiasmo la ripetizione assume un rilievo particolare: «e’ sono le forze che facilmente s’acquistano i nomi, non i nomi le forze» (Ds I, xxxiv, 4, p. 168). Lo stesso eπetto si ottiene con altri mezzi: accostando un segmento frasale breve e uno lungo, facendo succedere a un climax un anticlimax. Nella prosa medievale la ripetizione di vocaboli a breve distanza ha soprattutto una funzione di collegamento, nei trattati machiavelliani, corrisponde spesso alla ricerca di una maggiore e√cacia argomentativa: Intra le altre cose che sono necessarie a uno capitano di eserciti, è la cognizione de’ siti e de’ paesi: perché, sanza questa cognizione generale e particulare, uno capitano di eserciti non può bene operare alcuna cosa. E perché tutte le scienze vogliono pratica a volere perfettamente possederle, questa è una che ricerca pratica grandissima. Questa pratica, ovvero questa particulare cognizione, si acquista più mediante le cacce che per veruno altro esercizio (Ds III, xxxix, 2, p. 757).

La ripetizione lessicale, realizzata con costituenti prossimi e compresi in uno stesso periodo, produce la salienza di alcune componenti e, al tempo stesso, attiva la progressione tematica. 39 Alla ripetizione lessicale, che rinforza il collegamento tra le parti del periodo, si accompagnano altri fenomeni, che procedono nella stessa direzione; ricordiamo, tra l’altro, l’evidenziazione dei segnali discorsivi e dei marcatori frasali. Il collegamento è attuato da fattori che strutturano il testo, tra i quali risaltano, per la frequenza e per la varietà degli eπetti ottenuti, il binomio dilemmatico, 40 la correlazione e il parallelismo. Il dilemma è reso mediante la coordinazione disgiuntiva “o ... o”: «E a volergli fare per altre vie diventare buoni, sarebbe o crudelissima impresa, o al tutto impossibile» (Ds I, xviii, 30, p. 118); il procedimento è talvolta ripetuto di seguito:  



39   Adam (1992: 113) sottolinea il fatto che una tensione costitutiva tra continuità-ripetizione e progressione agisce sul testo. Per le modalità di riscrittura del testo liviano v. Cabrini (1999). 40   Sul «consueto andamento dilemmatico dell’argomentare machiavelliano, rilevato dall’anafora e parallelismo del nesso di disgiuntiva e causale», v.: Cabrini (2001: 238) e cfr. Patota (2014).

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Sono liberi gli edificatori delle cittadi, quando alcuni popoli o sotto uno principe o da per sé sono constretti, o per morbo o per fame o per guerra, ad abbandonare il paese patrio e cercarsi nuova sede; questi tali, o egli abitano le cittadi che truovono ne’ paesi che gli acquistano, come fe’ Moises; o e’ ne edificano di nuovo, come fe’ Enea (Ds I, i, 11, p. 12).

Strumento proprio del ragionare machiavelliano, il procedimento dilemmatico (Chiappelli 1952 e 1969, Franceschini 2011, Patota 2014) si associa talvolta all’enumerazione e alla dittologia dei membri, crescendo così in e√cacia espressiva. Questi tre fattori sono presenti in diversa misura nelle prose di M.; dal loro dosaggio dipendono eπetti stilistici diversi. La correlazione “non ... ma” appare, variamente modulata, in diversi cotesti: «avendo dipoi a eleggere uno principe, non andavano dietro al più gagliardo, ma a quello che fusse più prudente e più giusto» (Ds I, ii, 16, p. 21), «conspirazioni e congiure contro a’ principi, non fatte da coloro che fossono timidi o deboli, ma da coloro che per generosità, grandezza d’animo, ricchezza e nobiltà avanzavano gli altri» (Ds I, ii, 18, p. 22), «Dico pertanto che non lo oro, come grida la comune opinione, essere il nervo della guerra, ma i buoni soldati; perché lo oro non è su√ciente a trovare i buoni soldati, ma gli buoni soldati sono ben su√cienti a trovar lo oro» (Ds II, viii, 18, p. 367). Come appare, variano anche la qualità e l’estensione delle riprese verbali: si noti come nell’ultimo passo i buoni soldati e lo oro ricorrano tre volte. L’avversativa introdotta da ma è posta all’inizio di una breve frase metanarrativa per indicare il cambiamento del tema e segnalare, al tempo stesso, l’inizio di una nuova sequenza testuale: «Ma vegnamo a Roma» (Ds I, ii, 30, p. 27), «Ma vegnamo agli altri particulari di quella città» (Ds I, iv, 4, p. 33). Come marcatore di relazione ma agisce a livello sia locale sia di strutturazione discorsiva, vale a dire a livello micro- e macrosintattico; non sempre ma collega due segmenti frasali: talvolta, all’inizio di un capoverso, ha un riferimento extradiegetico, riguarda cioè l’atteggiamento del locutore. Le interazioni discorsive sono introdotte da marcatori e segnali discorsivi che appaiono all’inizio del periodo; meno frequentemente sono realizzate da parentetiche (v. 2.7.3.). La contrapposizione di membri frasali è resa anche mediante gli elementi correlativi più tosto ... che, i quali saranno esaminati nell’ambito delle proposizioni comparative. La contrapposizione può essere introdotta da un sintagma: «E per il contrario tiene qualche grado di infelicità quella città che [...] è necessitata da se medesima riordinarsi» (Ds I, ii, 5, p. 18), «Al contrario intervenne a Solone, il quale ordinò le leggi in Atene che, per ordinarvi solo lo stato popolare, lo fece di breve vita» (Ds I, ii, 29, p. 26), «Sono pel contrario infami e detestabili li uomini distruttori delle religioni» (Ds I, x, 7, p. 68). Consideriamo infine alcuni avverbi che fungono da marcatori del discorso; si tratta di modificatori verbali, non di frase; 41 nell’elenco che segue si danno soltanto alcuni esempi, che per significato, funzione e collocazione nel periodo assumono un certo rilievo: Facilmente: «dico che questa inutilità, che facilmente si conosce, è di√cile ricorreggerla» (Ds I, xviii, 26, p. 116), «Questo si pruova facilmente, considerando quali cagioni mantenessero i dittatori buoni e quali facessero i Dieci cattivi» (Ds I, xxxv, 11, p. 173).  

41   Non è sempre facile distinguere tra modali epistemici e marcatori mediativi (evidenziali). Sicuramente raggiunge sei occorrenze nei Ds; cinque nel Pri; ma non ha sempre valore epistemico, talvolta vale ‘in modo sicuro’. Nei Ds si ha un’occorrenza di certamente (I, xix, 14, p. 122); cfr. anche al certo, in Ds (III, 6, lxxi, p. 565); certo è usato come avverbio e, più spesso, come aggettivo.

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Largamente: «come ne’ due prossimi sequenti capitoli largamente si dimosterrà» (Ds I, ii, 36, p. 29); «Il che se è cosa laudabile o no, o se da uno principe si debbono osservare simili modi o no, largamente è disputato nel nostro trattato De principe» (Ds III, xlii, 8, p. 767). Tritamente ‘dettagliatamente’: «Se si considererà dipoi tritamente i tempi degli altri imperadori, gli verrà atroci per le guerre» (Ds I, x, 24, p. 74), «Io voglio, questa materia, disputarla più tritamente» (Ds II, xxiv, 13, p. 466). Gli avverbi modificatori di frase certamente, certo, al certo rientrano propriamente nell’ambito della modalità (v. 4.3.5.): «E certamente si può stimare che, se Roma sortiva per terzo suo re uno uomo che non sapesse con le armi renderle la sua riputazione, non arebbe mai poi, o con grandissima di√cultà, potuto pigliare piede» (Ds I, xix, 14, p. 122), «Il che si conosce certo per la isperienzia de’ Latini» (Ds II, xxii, 17, p. 453), «Quelli che hanno fatto così, fuggono al certo i pericoli che sono nel praticarla [scil. nell’organizzare la congiura]» (Ds III, vi, 71, p. 565). Questi avverbi precedono o seguono il verbo; ma un evidenziatore come certamente, associato spesso ai verbi del giudizio e del dire, occupa spesso una posizione iniziale di spicco; tritamente si ritrova soprattutto in contesti in cui il locutore o l’allocutario appare in rapporto diretto con il testo; facilmente e largamente si rapportano spesso ai verbi di giudizio. 4. 2. 2. “Deviazioni” e discontinuità Come nel Principe (ma in misura quantitavamente minore, considerando l’estensione dei due testi), anche nei Discorsi la sintassi del periodo e i rapporti tra i periodi presentano “deviazioni”. S’incontrano periodi sospesi, ellissi 42 e sillessi piuttosto spinte, riferimenti imprecisi a quanto è stato detto prima, secondo un procedere che non evita la discontinuità referenziale e si fonda su un gioco d’inferenze non sempre controllato. Vero è che a tali carenze fa fronte una costante congruenza semantica, che rende il testo chiaro e agevola la collaborazione del lettore. Rispetto alla regolarità dei costrutti, risulta privilegiata la salienza delle frasi e dei singoli costituenti. 43 Un enunciato risulta chiaro, anche se contiene lacune: le componenti semantica e pragmatica suppliscono a un’eventuale approssimazione logico-sintattica; d’altra parte, è noto che la struttura sintattica e la struttura concettuale non sono sempre concordi (Colombo 2012: 33; Cardona 1983: 53-54). I testi del passato richiedono una lettura attenta, che tenga conto dei caratteri, situazioni e tradizioni di epoche lontane; il trasferimento di situazioni moderne a testi antichi produce incomprensioni ed equivoci. Ogni produzione linguistica è il risultato di una strutturazione primaria e secondaria. La prima riguarda il sistema della lingua, la seconda la composizione del testo, il quale tra i suoi fattori di sviluppo annovera la dialettica tra ripetizione e progressione dei significati e delle frasi che li rappresentano. I generi di discorso e i tipi testuali, che sono storicamente e culturalmente determinati, sono produttori di forme e di tradizioni ben definite.  



42   Cfr. il periodo ellittico: «[scil. lo imperadore] se ne tornò indietro senza operare alcuna cosa, causando essere restato da quegli» ‘adducendo come causa il fatto che ciò era dipeso da loro’ (Ds III, xliii, 12, p. 770). 43   La salienza appare in alcuni costituenti, dotati di particolari proprietà lessicali, semantiche, morfosintattiche, prosodiche; il fenomeno fa emergere tali costituenti sullo sfondo del cotesto linguistico.

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Diverso è l’atteggiamento che alcuni studiosi osservano nei riguardi di fenomeni devianti. Per la brachilogia e per la paraipotassi relativa, v. Bausi (2001: 925), dove in luogo di “cambio di costruzione” e di “tema sospeso” (concetti e relativi termini conosciuti dalla linguistica moderna), si parla di «anacoluti duri». Anche Martelli, nelle note che accompagnano la sua edizione del Principe, esprime giudizi negativi sul disordine e sull’irrazionalità, non soltanto grammaticale, ma anche logico-formale, che, secondo il suo giudizio, a√orano in molte pagine dell’opera; si aπerma tra l’altro che «La sconcordanza fa parte di diritto dello stile di M.» (Martelli 2006: 373); all’avvio del cap. iii, è riservata una definizione del tutto negativa (ivi: 366); altrove si parla di «vistosa anomalia», di «ardito zeugma» e di un «rovesciamento delle funzioni sintattiche» (ivi: 233); lo studioso richiama alcuni tratti della sintassi delle LCSG, i quali rappresenterebbero un «marasma logico-formale» (ivi: 85). Osservazioni dello stesso tenore, ma più equilibrate, ricorrono in Chiappelli (1969: 131) e nel commento con cui Lisio accompagnò la sua edizione del Principe.

Le deviazioni sintattiche non hanno tutte lo stesso peso e non producono tutte gli stessi eπetti: sono graduali. Si va da un grado basso di devianza (la quale colpisce fenomeni circoscritti e di ridotta estensione testuale, come la concordanza a senso, il pleonasmo e la brachilogia) a un grado alto (in cui compaiono fenomeni concernenti l’assetto del periodo, come il cambio della costruzione e la sovrapposizione di costrutti). Ripetendo un tipo di analisi già proposto per il Principe (vedi 2. 4), forniamo qui di seguito alcuni esempi di tali fenomeni. Della concordanza a senso distinguiamo due tipi: i) il verbo al singolare precede un soggetto al plurale o due soggetti: «trovò rotto Asdrubale e Siface» (Ds II, xxvii, 19, p. 490), «Di che ne nacque assai sdegni» (Ds I, viii, 26, p. 61), «Pure si truova molti principi che ci peccono» (Ds I, xxix, 5, p. 146), «Donde si può conietturare quanta bontà e quanta religione sia ancora in quegli uomini» (Ds I, lv, 14, p. 264), «era perduto Roma e la libertà sua» (Ds III, xli, 3, p. 765); si passivante al singolare è riferito a due soggetti o a un soggetto al plurale: «Non si acquista, come ho detto, partigiani amici» (Ds I, xvi, 8, p. 101); 44 di questo fenomeno sono state date diverse spiegazioni (Bausi 2001: 923); «E si è veduto novemila Svizzeri» (Ds II, xviii, 27 p. 428 ); ii) il soggetto plurale è seguito da un verbo al singolare: «se la buona fortuna e la virtù militare non avesse sopperito a tanti difetti» (Ds I, iv, 2, p. 33). Il passaggio da un referente al singolare a un referente plurale può essere causato dall’a√orare di un rapporto genere-specie: «bisogna nello ordinare la republica pensare alla parte più onorevole, e ordinarle in modo che, quando pure la necessità le inducesse ad ampliare, elle potessono quello che l’avessono occupato conservare» (Ds I, vi, 36, p. 49); talvolta si produce il fenomeno inverso: vale a dire, dalla specie si passa al genere e da un soggetto plurale a un soggetto singolare.  

Il participio passato con ausiliare avere si accorda spesso con il complemento oggetto: «E così, col sapere bene accomodare i disegni suoi agli auspicii, prese partito di azzuπarsi, sanza che quello esercito si avvedesse che in alcuna parte quello avesse negletti gli ordini della loro religione» (Ds I, xiv, 10, p. 95), «La cagione è perché la natura ha creati gli uomini in modo che possono desiderare ogni cosa e non possono conseguire ogni cosa» (Ds I, xxxvii, 2-6, pp. 177-178); «ricordò a quegli suoi che questa non era altro che una di quelle cacce le quali molte volte avevano fatte seco» (Ds III, xxxix, 6, p. 758); l’accordo del participio passato è raccomandato da Bembo (Prose III, xxxvi), che cita questo esempio: Io aveva posta ogni mia 44   La distinzione tra si passivante e si impersonale non è giustificata neppure da un punto di vista tipologico; secondo Pescarini (2015), si tratta di un’anomalia tutta italiana; i toscani non fanno questa diπerenza.

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forza. Si veda tuttavia: «Considerato la virtù e il modo del procedere di Romolo, Numa e di Tullo, i primi tre romani, si vede come Roma sortì una fortuna grandissima» (Ds I, xix, 2, p. 119). Il participio passato con ausiliare essere non si accorda con il complemento oggetto: «non era stato loro tolto cosa alcuna» (Ds I, vi, 10, p. 43); cfr. anche: «sendo per li casi d’Arezo sutoli arso le sue case et facti infiniti altri danni» (Legazioni, in LCSG iv, 362, p. 339)

Quanto al pleonasmo, abbiamo già ricordato che tale fenomeno riguarda la presenza superflua di ne (vedi 2.1.) e dei deittici anaforici: «Però che a un popolo licenzioso e tumultuario gli può da uno uomo buono essere parlato, e facilmente può essere ridotto alla via buona» (Ds I, lviii, 35, p. 285). Osserviamo ora alcune irregolarità concernenti il soggetto della frase, 45 distinguendo alcuni sottotipi del fenomeno: i) cambio del soggetto nello sviluppo della frase: «Intra i quali [scil. migliori soldati] fu il regno degli Egizii, che, nonostante che il paese sia amenissimo, tanto potette quella necessità ordinata dalle leggi, che ne nacque uomini eccellentissimi» (Ds I, i, 17, p. 14): «il primo soggetto il regno degli Egizii viene abbandonato e sostituito da un nuovo soggetto quella necessità»; 46 un caso analogo è il seguente, dove l’anacoluto dipende dalla prolessi inziale: «Quegli che prudentemente hanno constituita una republica, intra le più necessarie cose ordinate da loro è stato constituire una guardia alla libertà; e secondo che questa è bene collocata, dura più o meno quel vivere libero» (Ds I, v, 2, p. 37); in un periodo costruito con il si passivante s’inserisce un inciso avente per soggetto il pronome chi generico: «E vedesi, chi considera bene le istorie romane, quanto serva la religione a mandare gli eserciti, a riunire la plebe, a mantenere gli uomini buoni, a fare vergognare i rei» (Ds I, xi, 8, p. 78). ii) cambio del soggetto, conseguente all’inserimento di un’incidentale nella principale: «L’altra [scil. cosa notabilissima] è considerare la generosità dell’animo di quelli cittadini, i quali imposti ad uno esercito, saliva la grandezza dello animo loro sopra ogni principe, non stimavano i re, non le republiche, non gli sbigottiva né spaventava cosa alcuna» (Ds III, xxv, 14, p. 691: si noti il collegamento mediante l’anaforico loro); iii) cambio del soggetto conseguente all’aggiunta di un costrutto dativale: «Il primo a chi fu prorogato lo imperio fu a Publio Filone, il quale essendo a capo alla città di Palepoli e venendo la fine del suo consolato e parendo al senato che gli avesse in mano quella vittoria, non gli mandarono il successore, ma lo fecero proconsolo» (Ds III, xxiv, 8, p. 687: nota collegamento mediante l’anaforico gli); 47 «E essendo [scil. Commodo] ito a lavarsi, un fanciullo favorito da lui, scherzando per camera e su pel letto, li venne trovato questa listra, e uscendo fuora con essa in mano riscontrò Marzia» (Ds III, vi, 95, p. 572). 48 Quanto alla sovrapposizione di costrutti, ricordiamo quanto si è detto in 3.4.8. Talvolta il fenomeno assume la forma di uno zeugma di costrutti: «signori impotenti, li quali più presto avevano spogliato e’ loro sudditi che correttoli e dato loro materia di disunione» (Pri vii, 24) ‘i quali più che governare i loro sudditi, li avevano spogliati’. Osserviamo più da vicino due passi.  







Pertanto non potendo gli uomini assicurarsi se non con la potenza, è necessario fuggire questa sterilità del paese e porsi in luoghi fertilissimi, dove, potendo per 45

  Delle irregolarità concernenti la subordinazione si tratterà in seguito.   Così è spiegato il fenomeno da F. Bausi in ed. Discorsi, p. 14 nota. 47  Cfr. recte “fu Publio F.”: si ha la propagginazione del dativo; il quale essendo è una relativa sospesa; in al senato...lo fecero proconsolo si ha un cambio del soggetto. 48  In li venne trovato si ha un cambio di costruzione, in luogo di ‘gli capitò di trovare’. 46

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la ubertà del sito ampliare, possa [scil. la città] e difendersi da chi l’assaltasse e opprimere qualunque alla grandezza sua si opponesse (Ds I, i, 15, p. 13);

a un soggetto generale e plurale uomini succede un soggetto singolare, definibile come una “parte” rispetto al “tutto” (Bausi, ed. Ds, propone: «città desumibile dal contesto»): se si accetta questa interpretazione, la prima gerundiale non potendo è assoluta, la seconda potendo ha come soggetto la città; in ogni caso è evidente l’“irregolarità” del passo. E si è veduto novemila Svizzeri a Novara, da noi di sopra allegata, andare a aπrontare diecimila cavagli e altrettanti fanti, e vincergli: perché i cavagli non gli potevano oπendere, i fanti, per essere gente in buona parte guascona, e male ordinata, la stimavano poco (Ds II, xviii, 27, p. 428);

al soggetto grammaticale (focalizzato) novemila Svizzeri si collegano due SV (aπrontare ... vincergli ) e due OD (diecimila cavagli ... altrettanti fanti), ai quali si riferiscono, con un rapporto sintattico privo di ordine, due causali: cavagli (Sogg)... perché / fanti (Ogg)... per essere. Si noti ancora: la frase che comincia con i fanti è in rapporto di asindeto con quanto precede; il sintagma la stimavano poco è riferito a gente, che si trova in un’infinitiva causale. Altre deviazioni sono: a) il mutamento di costruzione: «considerando a quanta corruzione erano venuti quegli re, se fossero seguitati così due o tre successioni, e che [in luogo di e se] quella corruzione che era in loro si fosse cominciata a distendere» (Ds I, xvii, 2, p. 107); b) il mutamento di genere: «Andò questo omore di questa legge così travagliandosi un tempo, tanto che i Romani cominciarono a condurre le loro armi nelle estreme parte di Italia o fuori di Italia; dopo al quale tempo parve che la cessassi» (Ds I, xxxvii, 14, p. 182). Vedremo in seguito come una configurazione testuale irregolare possa dipendere da allacciamenti sottintesi. 4. 2. 3. Suddivisioni, gerarchie Nei Discorsi la presenza di Livio è meta- e ipertestuale: il testo latino è commentato, ma, al tempo stesso, è all’origine della scrittura di Machiavelli, che lo traduce e lo rielabora. Per definire questi rapporti occorre tener presenti alcune circostanze: Livio convive con altre “fonti”, le quali sono riprese a volte nei particolari, a volte in modo generico; i capitoli non hanno una struttura omogenea, né i concetti che appaiono di seguito in più capitoli mostrano sempre una coerenza reciproca. Alcuni temi sono ripresi con richiami formali e di contenuti: il cerchio dei governi, il bisogno di stato, gli eπetti della republica tumultuaria, le truppe mercenarie, la setta cristiana, la decadenza e la corruzione dell’impero, il successo di un principe o di una republica opposto alla loro ruina. Nell’ambito di questi temi s’incontrano personaggi storici, ai quali non sono dedicate descrizioni estese (carattere, costumi, azioni rilevanti). Tutti questi elementi confluiscono in un’unità e continuità discorsiva, che assorbe in sé isotopie e ricorrenze di motivi. L’eπetto procurato da un testo è il prodotto di una duplice completezza, pragmatica (riguardante le configurazioni del discorso) e sequenziale (Adam 1990: 112). Ogni testo è sottomesso a una tensione tra la continuità-ripetizione (lo stesso tema è indagato in uno o più capitoli) e la progressione, che segna il passaggio da un tema all’altro. Tra i due piani della testualità locale e globale di un’opera esiste spesso un’asimmetria, che nei Discorsi assume un carattere particolare, perché il commento umanistico si amalgama con un pensiero politico e un’ideologia, frequentati en-

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trambi da esempi antichi e moderni. Poiché i caratteri di un testo dipendono anche dalla gerarchica dei contenuti e dal rapporto del testo con i lettori, è opportuno osservare da vicino alcuni particolari della testualità, che dipendono dalla selezione degli elementi ripresi da Livio e dalla dispositio che essi assumono nei Discorsi. Tale selezione ha lasciato tracce nella scrittura. I titoli dei capitoli operano un primo ordinamento della materia; avviene infatti una tematizzazione, che si realizza sovente nella forma di una subordinata priva di reggente e priva dell’enunciatore: «Quali siano stati universalmente i principii di qualunque città, e quale fusse quello di Roma» (I, i), «Che la disunione della plebe e del senato romano fece libera e potente quella republica» (I, iv), «Come i Romani si servivono della religione per riordinare la città e seguire le loro imprese e fermare i tomulti» (I, xiii). Il tema si articola nelle sue componenti, che sono talvolta focalizzate mediante parallelismi: «Dove sia più da confidare, o in uno buono capitano che abbia lo esercito debole, o in uno buono esercito che abbia il capitano debole» (III, xiii) o mediante l’iperbato: «Le invenzioni nuove che appariscono nel mezzo della zuπa e le voci nuovi che si odino, quali eπetti facciano» (III, xiv). Una più ricca articolazione è ottenuta con l’inserimento di un inciso: «I Sanniti, per estremo rimedio alle cose loro a∫itte [= avverse], ricorsero alla religione» (I, xv) «Uno principe nuovo, in una città o provincia presa da lui, debbe fare ogni cosa nuova» (I, xxvi), o con un chiasmo, 49 che qui appare, con la forma “Agg + Nome / Nome + Agg”, in es. (I, xv); si produce in tal modo una simmetria dei costituenti della frase, la quale si fa più marcata in: «Gli uomini, come che s’ingannino ne’ generali, ne’ particolari non s’ingannono» (I, xlvii). Il parallelismo è il mezzo sovente prescelto per esaltare un’a√nità di elementi o, al contrario, per evidenziare un’opposizione (Beaugrande, de/Dressler 1981: 87- 89). I titoli costituiti da una frase principale sono per lo più brevi, ma hanno varie forme: «La plebe insieme è gagliarda, di per sé è debole» (I, lvii), «Uno esempio di umanità appresso i Falisci potette più che ogni forza romana» (III, xx). Nelle frasi iussive, che fungono da titoli, il verbo dovere precede il soggetto: «Non debbano i cittadini che hanno avuti i maggiori onori sdegnarsi de’ minori» (I, xxxvi), «Non debba uno consiglio o uno magistrato potere fermare le azioni delle città» (I, l). Talvolta il titolo è riformulato all’inizio del capitolo:  

Uno principe nuovo, in una città o provincia presa da lui, debbe fare ogni cosa nuova Qualunque diventa principe o d’una città o d’uno stato (e tanto più quando i fondamenti suoi fussono deboli), e non si volga o per via di regno o di republica alla vita civile, il migliore rimedio che egli abbia a tenere quel principato è, sendo egli nuovo principe, fare ogni cosa in quello stato di nuovo (Ds I, xxvi, 2 p. 138).

Il tema sospeso (Qualunque diventa principe ... il migliore rimedio) prova che sulla regolarità sintattica prevale un’esigenza enunciativa, ma ciò non oscura il significato del passo. 50 In conclusione, i titoli sono vari nelle forme, pur se prevalgono la frase priva di reggente e la frase con un inciso: due strutture che si ricollegano al carattere discorsivo del trattato.  

49   La nozione di chiasmo richiama quella di simmetria: cfr. Colombo (2012: 26). Le funzioni della tematizzazione sono esposte da Berthoud (1996: 103-125). 50   Cfr.: «Non osserva el re di Francia le convenzioni allo imperadore dello accordo passato che fece Roano; perché uno ambasciadore che, più tempo è, venne in corte a domandare danari e gente secondo l’obbligo, non li ha dato né l’uno né l’altro» (Lettere, in Opere ed. Vivanti, II, p. 225).

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4. 2. 4. Notabilia, exempla Nella scelta delle componenti della scrittura spiccano alcune assenze. Sono rare le apposizioni qualificative dei personaggi, frequenti nelle biografie umanistiche: «Molti hanno avuta opinione, e intra i quali Plutarco, gravissimo scrittore, nello acquistare lo imperio, fosse più favorito dalla fortuna che dalla virtù» (Ds II, i, 2, p. 303), «Filippo di Macedonia, padre di Perse, uomo militare e di gran condizione ne’ tempi suoi» (Ds III, xxxvii, 14, p. 751). 51 Nel presentare eventi memorabili si segue spesso questo schema espositivo: i) motivazione dell’exemplum che segue, ii) frase topica (del tipo ne potrei dire tanti, ne dico soltanto uno), iii) primo episodio esemplare, iv) secondo episodio esemplare; nel passo che segue si tratta, rispettivamente, dell’insuccesso di Agis e del successo di Cleomene:  

Potrebbesi dare in sostentamento delle cose soprascritte infiniti esempli, come Moises, Ligurgo, Solone [...]; ma gli voglio lasciare indietro, come cosa nota. Addurronne solamente uno [...]; il quale è, che desiderando Agis re di Sparta ridurre gli Spartani intra quegli termini che le leggi di Licurgo gli avevano rinchiusi [...] fu ne’ suoi primi principii ammazzato dagli efori [...]. Ma succedendo dopo lui nel regno Cleomene, e nascendogli il medesimo desiderio [...], conobbe non potere fare questo bene alla patria se non diventava solo di autorità [...] e, presa occasione conveniente, fece ammazzare tutti gli efori (Ds I, ix, 14-16, pp. 65-67).

Vediamo il rapporto con il testo liviano in un episodio significativo. Il desiderio di punire la plebe, manifestato da Coriolano, col privarla del grano venuto dalla Sicilia, è espresso mediante un’allocuzione introdotta da tre interrogative Cur ego plebeios magistratus ... ? Egone has indignitates ...? Sixinium feram?, seguite da quattro ingiunzioni alla parte avversa: Secedat nunc... avocet plebem ... patet via ... rapiant frumentum ... fruantur annona ... (Livio, II, xxxiv). Il discorso diretto e il diniego espresso dall’assemblea (Et senatui nimis atrox visa sententia est) sono omessi; viene invece conservato l’essenziale del passo (In exeuntem e curia impetus factus esset, ni peropportune tribuni diem dixissent), in cui il protagonista si salva dal furore della plebe per l’intervento dei tribuni. la quale sentenzia sendo venuta agli orecchi del popolo, venne in tanta indegnazione contro a Coriolano, che all’uscire del senato lo arebbero tumultuariamente morto [= ucciso a furor di popolo], se gli tribuni non lo avessero citato a comparire a difendere la causa sua (Ds I, vii, 7, p. 51).

Sono conservate la trama essenziale e, con evidente scelta iconica, la scena dell’assalto. Probabilmente qui, come in altri casi, tra Livio e i Discorsi esistevano scritture intermedie: prove di traduzione, riassunti e sim. del testo latino. La riduzione-semplificazione del testo liviano non comporta di necessità la rarefazione della sintassi: la reazione di Marco Manlio Capitolino, che, a diπerenza di quanto era avvenuto nei riguardi di Furio Camillo Livio (V, lxix), non vede ricompensati i suoi meriti, è presentata in un periodo complesso, costituito da concessive e da infinitive, alle quali s’interpongono delle incidentali: Non ostante che la virtù di Furio Cammillo, poi che gli ebbe libera Roma dalla oppressione de’ Franciosi, avesse fatto che tutti i cittadini romani, sanza parere 51   La funzione del frame appare nella presentazione di scene e nella strutturazione del testo: v. Croft/Cruse (2010: 36 ss.).

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la prosa del cinquecento loro tôrsi riputazione o grado, cedevano a quello, nondimanco Mallio Capitolino non poteva sopportare che gli fusse attribuito tanto onore e tanta gloria, parendogli, quanto alla salute di Roma, per avere salvato il Campidoglio, avere meritato quanto Camillo, e quanto alle altre belliche laude non essere inferiore a lui (Ds I, viii, 2, p. 56). Qui [Manlius] nimius animi cum alios principes sperneret, uni invideret eximio simul honoribus atque virtutibus, M. Furio, aegre ferebat solum eum in magistratibus, solum apud exercitus esse, tantum iam eminere ut iisdem auspiciis creatos non pro collegis sed pro ministris habeat; cum interim, si quis vere aestimaret velit, a M. Furio reciperari patria ex obsidione hostium non potuerit, nisi a se prius Capitolium atque arx servata esset (Livio, VI, xi, p. 168).

Come appare, non si riproduce integralmente il testo latino, del quale è tuttavia imitata la complessità dell’insieme, sciogliendo tratti sintetici e semplificando: Capitolium atque arx → Campidoglio. 4. 2. 5. Morfologia e microsintassi Per avere un quadro generale della qualità del testo, in rapporto ad altri livelli di analisi, elenchiamo, commentandoli brevemente, una serie di fenomeni rilevanti. Ricordo che l’ed. Martelli deriva dal ms. Harley 3533 e che dei Discorsi, a parte un breve frammento iniziale, non si conservano autografi. 52  

Fonetica. Vocalismo: si ha il dittongo in truova (Ds I, Proemio, 6, p. 6), ma trova (Ds I, liv, 3, p. 258), e scuopre (Ds II, xxii, 4, p. 449); sanza predomina su senza; da notare: danaio (Ds I, xvi, 28, p. 106), danari (Ds I, iv, 6, p. 34); per le vocali pretoniche: tomulti si alterna con tumulti (Ds I, iv, 5-7, pp. 34-35). Consonantismo: è del vernacolo fiorentino il passaggio del nesso -ski- a - sti-: arristiare ‘arrischiare’ (Ds II, xii, 16, p. 379), stiere ‘schiere’ (Ds II, xvi, 13, p. 399), ma anche schiere (passim), stiene ‘schiene’ (Ds II, xvi, 23, p. 403); si notino boto ‘voto’ (Ds III, xxiii, 6, p. 684) e risucitare ‘risuscitare’ (Ds I, ix, 17, p. 67). 53  

Morfologia. Forme dell’articolo determinativo: il /el, i/e: «popoli con e quali ebbero a combattere» (Ds II, i, 33, p. 310); 54 forme del plurale: gli meriti (Ds I, xxiv, 4, p. 133), gli Svizzeri (Ds I, xxiii, 14, p. 131), ma i Svizzeri (Ds II, iv, 3, p. 328), dagli forestieri (Ds I, i, 22, p. 16). In vari cotesti l’articolo indeterminato è talvolta omesso: «non si può fuggire giornata se non con tuo disonore e pericolo» (Ds III, x, 29, p. 618), «fece accordo seco» (Ds III, xi, 11, p. 623), «mostrò come i Romani volevono in ogni modo guerra (Ds III, xii, 17, p. 630). Nomi e aggettivi. È diπuso il plurale in -e dei nomi della 3a classe e degli aggettivi della a 2 : le legge civile (Ds I, Proemio, 5, p. 5), si noti: alie ‘ali’ (Ds II, xvi, 13, p. 400: forma vernacolare fiorentina); aggettivi plurali femminili della 1a classe in -i : molti e piccoli parti (DsI, i, 4, p. 9), voci nuovi (Ds III, xiv, 1. p. 637), alcune leggieri zuπe (Ds III, xxxvii, 9, p. 750): cfr. Rohlfs § 397 e Bausi (2001: 918); si ha il metaplasmo di classe nominale in: consolo (Ds III, xl, 15, p. 760), sorta ‘sorte’ (Ds III, xxxi, 15), v. Trolli (1972: 72-73); «si registra l’antico uso fiorentino [...] di considerare maschili i nomi di città che escano  

52   Rimando a quanto si è detto in 4. 1. Sulla grafia, fonetica e morfologia degli scritti di M. v. in particolare Frosini (2014). 53   Non appaiono abiti grafici latineggianti come: ad, et, etiam, acceptare, iustificarlo, havessi, facto, exercito, Iulio, aspectava, dixe, hoggi, hiersera, havere, masseritia, i quali invece sono presenti nelle Lettere e in LCSG. 54   Gli articoli el, e’, provenienti dalla Toscana occidentale e meridionale, si ritrovano nel fiorentino quattrocentesco; tali forme, pur essendo minoritarie; sono accolte nella Grammatichetta vaticana di L. B. Alberti, che accetta anche il tipo amavo, in luogo di io amava; quanto all’uso dell’articolo plurale, il tipo gli meriti (Ds I, xxiv, 4, p. 133) trova riscontro in gli tre, gli due di Bembo (Prose iii, ii).

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in vocale diversa da a» (Bausi 2001: 918), pertanto sono maschili: Arezzo, Milano, Firenze. Si noti la conversione da Agg a N in: strasordinarii ‘mezzi eccezionali’ (Ds I, xvii, 16, p. 112), lo acquistato (Ds II, i , 7, p. 304); si segnala l’anticipazione dell’Agg di relazione al N: «la rovina della romana republica» (Ds II, 1, 8, p. 305). Per la formazione delle parole si ricordano: campeggiare ‘assediare’ (Ds III, xvi, 15, p. 651), incorruzione (Ds I, xvii, 12, p. 110), meritricare ‘frequentare meretrici’ (Ds III, xxxvi, 5, p. 745), contrasegni (Ds III, vi, 86, p. 570). Pronomi personali: i pronomi soggetto appaiono di frequente, come è la norma del fiorentino (Renzi 1983): «Io non voglio mancare di discorrere» (Ds I, iv, 2, p. 33), «Noi abbiamo discorso di sopra gli eπetti» (DsI, vi, 2, p. 41), «Noi avemo visto ne’ nostri tempi» (Ds I, vii, 12, p. 52). La 3a pers. sing. masch. ha le seguenti forme: egli, gli, el, ei, e’, per il femm. si hanno la ed ella. Frequente è il pron. impersonale egli: «gli è meglio assai esequire una cosa» (Ds III, vi, 103, p. 575), «e’ pareva bene ai Romani (Ds II, ix, 6, p. 360». La 3a pers. plur. masch. è rappresentata da: gli, ei, e’, i, per il femm. si ha le ed elle: «perché ei fuggirono prima che fussono assaltati» (Ds II, xxix, 10, p. 495). I pronomi obliqui, lui, lei, loro sono usati con riferimento a N [+ animato]: «a Roma ..., di lei..., in lei » (Ds I, xxviii, 4, p. 143); usati con funzione di soggetto assumono per lo più un valore enfatico: «alla plebe romana non bastò assicurarsi de’ nobili per la creazione de’ tribuni [...], che lei subito, ottenuto quello, cominciò a combattere per ambizione» (Ds I, xxxvii, p. 178); ma cfr.: «E se a lui riuscì salvarsi, non riuscirebbe ad uno altro che non fussi aiutato dal paese come egli» (III, x, 30, p. 618). La forma gli ‘li’, complemento oggetto, è comune al toscano ant. (Rohlfs § 462): «dicendo male di molti cittadini, minacciandogli» (Ds I, xlvii, 21, p. 230); 55 loro ‘a loro’: «fu data loro autorità dal popolo» (Ds I, v, 15, p. 39), «proibire loro [scil. alle republiche] lo acquistare» (Ds I, vi, 26, p. 46). Nei Discorsi si ha un uso piuttosto esteso di loro (pronome e aggettivo): si contano in tutto 952 occorrenze; la forma gli, sempre presente nel fiorentino parlato per la terza persona plurale, non è stata emarginata da loro (Migliorini 1988: 355). Gli per loro è detto «proprio dell’uso del volgo» nella terza Crusca, del «parlar familiare» nella quinta Crusca. Tra le coppie di clitici ricordiamo il tipo se gli ‘gli si’: «avendosi a rifare, non se gli fecero gli scambi» (Ds I, xxxix, 6, p. 195), tutte le altre città se gli ribellarono» (Ds II, iii, 14, p. 327), «essendo uscito fuori della terra una turma di cavagli per assaltare il campo, se gli fece allo incontro il Maestro de’ cavagli romano» (Ds II, xviii, 18, p. 424), «L’oπesa, quanto a Scipione, fu che gli suoi soldati in Ispagna se gli ribellarono» (Ds III, xxi, 14, p. 670). Pronomi-aggettivi indefiniti. Si notano: l’assenza di qualsiasi, sempre sostituito da qualunque: «che qualunque nasce dipoi in qualunque delle due provincie» (Ds II, Proemio, 4, p. 295); l’uso esteso di ciascuno: «conviene spegnere ciascuno» (Ds II, viii, 8, p. 353), «ciascuno ha letto la congiura di Catilina» (Ds III, vi, 166, p. 591); l’uso di alcuno dopo la negazione: «non può bene operare alcuna cosa» (Ds III, xxxix, 2, p. 757), «non ne risulterebbe alcuna utilità a quella republica» (Ds II, ii, 16, p. 313). Aggettivi possessivi. Gli invariabili mie, tuo, suo per il singolare sono rari: «suo madre» (Ds II, xii, 10, p. 377) (in Poliziano si ritrova suo indeclinabile); frequenti sono invece mia, tua, sua, plurali maschili e femminili: «queste mia declarazioni» (Ds I, Proemio, 9, p. 8), «di quei sua vicini» (Ds II, i, 21, p. 307), «delle fortezze tua» (Ds II, xvii, 21, p. 412), «gli uomini sua» (II, xvii, 34, p. 416); l’uso di suo in luogo di loro è frequente: «per colpa sua» (Ds I, xxi, 2, p. 124), «e avere volto tutta sua cura alla milizia a cavallo» (Ds II, xviii, 12, p. 423); loro pronome e aggettivo: «con la paura di loro» (Ds I, iii, 8, p. 32), «della fortuna loro» (Ds I, xxxvii, p. 178), ma spesso in luogo di loro aggettivo è usato suo e derivati. Posizione degli aggettivi possessivi: «la sua causa» (Ds Introd.), «la sua parte» (Ds I, ii), «la parte sua» (Ds I, ii), «la rovina sua» (Ds I, vi), «la cattiva sua fortuna» (Ds I, viii);  

55   L’uso del pronome lui soggetto appare per la prima volta in un documento toscano del 1379: v. A. Castellani, in “SLI”, xviii (1992: 171).

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«della sua grandezza» (Ds I, i), «della grandezza sua» (Ds III, xxx); «alla sua perfezione» (Ds I, ii), «alla grandezza sua» (Ds I, i), «alla sua propria successione» (Ds I, ii); «nella sua storia» (Ds I, vii); «per sua gloria» » (Ds I, i), «per sua ambizione» (Ds I, viii); «la loro origine» (Ds I, i), «il grado loro» (Ds I, i), «la intempestiva domanda loro» (Ds I, xiii), «preda dei loro inimici»» (Ds I, i), «di quella loro milizia» (Ds I, i), «per le infinite buone parti loro» (Ds Dedica), «per loro arbitrio» (Ds I, ii), «per la sua ferocità» (Ds I, xix), «per la sua ribellione» (Ds II, xvi). S’individuano due tendenze: la posposizione dell’aggettivo pers. avviene preferibilmente alla fine della frase; dopo la preposizione per manca quasi sempre l’articolo. Pronome relativo che polivalente: «le leggi la costringhino che [= alle quali] il sito non la costrignesse» (Ds I, i, 16, p. 13) a meno che non sia sottintesa una comparazione più che il sito non la costringesse. Ellissi del che relativo: «i Romani, debilitati per la zuπa fatta con loro avevano» (Ds II, xxii, 17, p. 453). Relativo: «quelle cose che veggono quello dilettarsi» (Ds III, ii, p. 537), che ‘di cui’; pronome chi, usato comunem. in luogo di colui che: «De’ quali editti, da prima, per coloro contro a chi ei venivano si fu fatto beπe» (Ds I, lvii, 3, p. 274), 56 ‘ci si fece beπe di questo decreto, da parte di coloro contro ai quali esso era stato emanato’; preceduti da preposizione, chi e che sono preferiti spesso a quale, cui: «coloro a chi elli ha fatto troppi piaceri» (Ds III, vi, 47, p. 559), «Il primo a chi fu prorogato l’imperio» (Ds III, xxiv, 8, p. 687), «in chi egli confidava» (Ds III, vi, 79, p. 567), «Annone, di chi di sopra facemo menzione» (III, vi, 178, p. 593), «come debbe essere fatto uno capitano in chi lo esercito abbia a confidare» (Ds III, xxxviii, 3, p. 754); 57 preposizione + che (in luogo di quale, qual cosa, quello che e sim.) «Era quella parte della Magna, di che io parlo sottoposta allo imperio romano» (Ds II, xix, 12, p. 434), «quando tu non puoi essere da una scrittura o altri contrasegni convinto; da che uno si debbe guardare» (Ds III, vi, 86, p. 570), «Sopra che dico» (Ds III, xiii, 12, p. 635), «Sopra che non si può dare il migliore esemplo» (Ds III, xxvii, 6, p. 696), «di che se ne può addurre per testimone Caio Sulpizio» (Ds III, xiv, 13, p. 640), «Per che si vide che Paulo Emilio ebbe più volte la ripulsa nel consolato» (Ds III, xvi, 13, p. 650), «Da che si debbe una republica guardare» (Ds III, xvi, 19, p. 653), «In che quel re mostrò la poca fede e l’assai avarizia sua» (Ds III, xliii, 8, p. 769). Numerali: minoritario rispetto a due (74 ess.) è dua aggettivo e pronome (19 ess.): «dua prossimi sequenti capitoli» (Ds I, ii, 36, p. 29), «dua eπetti» (Ds I, vii, p. 50), «se dua [...] sono di gran virtù» (Ds I, xix, p. 120), «Firenze, la quale fu dallo accidente d’Arezzo, nel dua, riordinata» (Ds I, ii, p. 18: ‘nel 1502’), dua ricorre in Poliziano; cfr. «duo modi» (Ds I, i, 13, p. 12); doi: «doi capi principali» (Ds I, xviii, 13, p. 114: unico es.).  



Nomi: per il metaplasmo di declinazione v. consolo; è presente il plur. del tipo le parte. Forme verbali notevoli. 58 Indicativo presente, 1a pers. plur.: avemo (I, vii, 12, p. 52), 3a pers. plur.: acquistono (II, xxiv, 39, p. 473), cominciono (I, xxxiii, 8, 162), dilettono p. 4, gettono (II, xx, 17, p. 443), mostrono (I, Proemio, 3, p. 5), pigliono (I, Proemio, 8, p. 6), sforzono (I, Proemio, 3, p. 4), truovono (I, i, 11, p. 12); -ano: fondano (I, Proemio, 5, p. 6, acquistano (I, i, 11, p. 12), edificano (ivi); altre  

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  Sul tipo “fu fatto beπe di loro” v. Ageno (1964: 159-176), Trolli (1972: 135-139).   Cfr. Bembo, Prose (III, xxv, ed. Dionisotti, p. 226): «Quantunque è alcuna volta, ma tuttavia molto di rado, che si truova chi posto negli obliqui casi» (seguono esempi di Petrarca e Boccaccio). In Guicciardini si hanno esempi di chi e che, in luogo di quale, nei casi obliqui: «per el sospetto grande in che erano tutti quegli che avevano potuto a tempo de’ Medici» (Reggimento, in Opere-LS, p. 302), «se giá la necessitá non mi costrignessi a biasimare manco quello di che s’ha piú speranza potersi riordinare» (ivi, p. 302), «per el sospetto grande in che erano tutti quegli» (ivi, p. 301). 58   Cfr. Bembo, Prose III, xxvii: «Ma passisi a dire del verbo, nel qual la licenzia de’ poeti e la libertà medesima della lingua v’hanno più di malagevolezza portata, che mestier non fa a doverlovi in poche parole far chiaro». 57

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coniug.: dependono (I, i, 8, p. 10), ma dipendano (I, i, 12, p. 19), nascano (I, Proemio, 4, p. 5), nuocano ‘nuocciono’ (I, viii, 9, p. 58), possano (I, iv, 6, p. 34). Indic. pres., 3a pers. sing.: debbe (I, i, 16, p. 13). 59 Indicativo imperfetto, 3a pers. plur.: è del fiorentino quattrocentesco il tipo governavono (I, ii, 20, p. 23), parevono (I, i, 7, p. 10); capitavono si ritrova in Bandello: v. Formentin (1996b: 220). Futuro, 3a pers. sing., forme notevoli: accaderà (I, vi, 31, p. 48), considerrà (I, v, 7, p. 38), dimosterrà (I, ii, 36, p. 29), mosterrà (I, iv, 12, p.36), troverrà (I, iv, 7, p. 35), vederà (I, x, 17, p. 72), ma vedrà (I, x, 20, p. 73); 1a pers. plur.: tacereno ‘taceremo’ (III, xlii, 8, p. 767). Passato remoto, 3a pers. plur.: feciono (I, ii, 14, p. 20), ma fecero (I, ii, 32, p. 27), accanto al maggioritario furono si hanno furo (I, ii, 30, p. 27) e furano ‘furono’ (I, ii, 31, p. 27), nacquono ‘nacquero’ (I, ii, 14, p. 20), sparsono ‘sparsero’(I, v, 16, p. 40), succederono (I, x, 20, p. 73), vissono ‘vissero’ (I, ii, 14, p. 22), vollono (I, v, 10, p. 38; I, xxxv, 19, p. 171). 60 Congiuntivo presente, 3a pers. sing. e plur.: abbi (II, i, 6, p. 304; II, ii, 34, p. 318), abbino (I, xvi, 24, p. 106); debba (I, l, 1, p. 12), debbano (I, xxxiii, 17, p. 165), avegghino ‘avvedano’ (I, iv, 3, p. 33), biasimino (I, iv, 4, p. 33), costringhino (I, i, 16, p. 13), possino (I, i, 9, p. 12), vadia (I, xxx, 8, p. 153), (II, xii, 32, p. 383), vegga (I, x, 15, p. 71). Congiuntivo imperfetto, 3a pers. sing. e plur.: avessi (I, xxxiv, 19, p. 171), ma avesse (I, xxxiv, 20, p. 171), fusse (I, i, 2, p. 9), fussi ‘fosse’ (III, x, 12, p. 618), fussino (I, Proemio, 8, p. 7)¸ fussono (I, i, 4, p.9), ma anche: fosse (I, xxxiv, 19, p. 171), fossero (I, iii, 3, p. 30), fossono (I, i, 17, p. 14); 1a coniug.: tornassi (3ª pers. sing.) (I, xv, 4, p. 98: cong. imperf. con valore di condiz.), derivassi (3a pers sing.), considerassino (I, Proemio, 1, p. 3), parlassono (I, x, 12, p. 70), restassono (I, ii, 34, p. 28); altre coniug.: discorressi (I, v, 12, p. 39), facessono (I, iii, 1, p. 31), leggessono (I, x, 10, p. 70), potessono (I, ii, 34, p. 28), vivessono (I, i, 14, p. 12). Condizionale presente (scelta di forme): crederrei (I, vi, 29, p. 47; II, xviii, 26, p. 427); arebbe (I, vi, 24, p. 46), ma avrebbe (I, i, 18, p. 14), arebbono (I, lii, 8, p. 246), direbbono (I, x, 13, p. 71); doverrebbe (I, Proemio, 2, p. 4; II, iv, 37, p. 338), doverrebbono (III, xxvii, 12, p. 697). Participio passato: suto ha poche occorrenze rispetto a stato, che è assolutamente maggioritario e si usa anche senza ausiliare; participi senza su√sso: mostro ‘mostrato’ (I, ii, 8, p. 18), raπermo ‘raπermato’ (III, vi, 189, p. 596), cfr. Rohlfs § 627. Gerundio: sendo (forma aferetica) e essendo hanno 72 e, rispettivamente, 73 occorrenze. La presenza dell’enclisi, secondo la legge Tobler-Mussafia, è irregolare (come si riscontra già nella seconda metà del xiv sec.; per il Decameron: Zaccarello 2010: 157); vediamone alcuni esempi: «rade volte occorre che le facciano progressi grandi, e possinsi intra i capi de’ regni numerare» (I, i, 9, p. 11), «depose la dittatura e sottomessesi al giudizio» (I, v, 17, p. 40); «Pongasi adunque innanzi uno principe» (I, x, p. 73), «E vedesi, che considera bene le istorie romane, quanto serviva la religione» (I, xi, p. 78), «Aggiugnesi alla soprascritta un’altra di√cultà» (I, xvi, 6, p. 101); l’enclisi è per lo più rispettata in apertura di periodo; più precisamente si nota la propensione a porre in tale posizione un si passivante enclitico in sintagmi di stampo formulare. 61 La dislocazione a sinistra comporta quasi sempre la ripresa con il clitico. Esempi di risalita del clitico: «non si sendo abbatuta a uno ordinatore» (I, ii, 5, p. 18), «per non si essere veduta esperienza» (I, iii, 2, p. 19), «non si potendo [...] bilanciare questa cosa» (I, vi, 36, p. 49), «debbono [...] non si abbandonare» ‘scoraggiarsi’ (II, xxix, 24, p.  





59   In M. si estende l’uso della desinenza -ono alla 3a pers. plur. dell’indic. presente dei verbi della 1a coniug. (tipo amono) e della desinenza -i nella 3a pers. sing. del congiuntivo imperfetto (tipo fussi): v. Formentin (1996b: 219). 60   M. Tavoni “Umanesimo e Rinascimento, lingua dell’” cit., p. 1527, evidenzia alcune forme verbali tipiche del fiorentino del xv sec.: disputaréno, trovorno (L. B. Alberti) e avàno ‘avevamo’, impazzerebbono (Morgante); risalta la distanza rispetto all’uso delle Tre Corone. 61   L’enclisi è frequente anche nelle LCSG: «Duolci bene che voi vi di√diate non potere tenere ad freno né il Torrigiano né quello altro» (Legazioni, in LCSG iv, 368, p. 342), «Ristringeretevi dunque seco, et di concordia penserete» (Legazioni, in LCSG iv, 370, p. 343), «Rispondiamoti pertanto come noi voliamo che insieme con decto signore Luca examini bene quello che importi» (Legazioni, in LCSG iv, 382, p. 351).

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501), «e non ne intendendo altra cagione» (I, xlvii, 21, p. 230), «per non si essere veduta esperienza» (I, iii, 2, p. 30), «sotto oblighi di non si oπendere» (III, xxvii, 3, p. 695), «salvandosi [...] non si salvando» (III, xli, 4, p. 765). Alcuni usi particolari delle preposizioni: contro a: «contro al senato» (I, iv, 8, p. 35), «contro a qualunque cittadino» (I, vii, 5, p. 50), «contra a Scipione» (I, lviii, 20, p. 283), minoritari gli ess. di contro di N e contro N; in su: «in su quegli scogli» (I, vi, 8, p. 42), «in su la quale paura» (I, xl, 23, p. 204), «in su le artiglierie» (II, xvii, 4, p. 402). Omissione della preposizione: «Un frammento di una antiqua statua sia suto comperato gran prezzo» (I, Proemio, 3, p. 4). La preposizione non è ripetuta nei membri di un polinomio: «con crudeltà, violenza e rapina e ogni ragione infideltà» (III, xxi, 4, p. 668). Altre preposizioni: «doppo la rebellione», (III, xii, 7, p. 627), «fuora degli ordini vecchi» (I, ix, 5, p. 64), «e possinsi intra i capi dei regni numerare» (I, i, 9, p. 11).

Persiste l’eclettica morfologia quattrocentesca. Machiavelli lascia prevalere le ragioni del naturalismo fiorentino, mescolando forme popolari, di livello medio-alto e forme latineggianti, senza che la scelta sia motivata da ragioni stilistiche o espressive. 62 Con il Bembo avviene un decisivo cambiamento: «La fonetica e la morfologia che si impongono con la svolta bembiana sono quelle fiorentine del Trecento, scartando le forme fiorentine quattrocentesche o latineggianti o toscane periferiche». 63 L’omologazione linguistica, avviata dalla stampa negli ultimi decenni del Quattrocento, incontra non pochi inciampi. Nelle tipografie, in caso di dubbi di natura grafico-fonetica, tornava comodo rivalutare il modello del latino e, in alcuni casi, appariva conveniente, per assicurare il successo delle pubblicazioni, mantenere alcuni tratti locali, ai quali i lettori erano abituati. Si manifesta una «dialettica tra una norma grafica fiorentina e un’antagonista illustre, la grafia del latino» e le tradizioni ortografiche delle varietà lontane dal toscano potevano con maggiore libertà accogliere tratti della grafia latina (Cardona 1983: 53-54). Del resto, negli scrittori toscani non mancavano incertezze: la lingua di Boccaccio e di Petrarca si mescolava con toscanismi del tardo Trecento e del Quattrocento. La prima edizione degli Asolani (1505) presenta forme simili a quelle che abbiamo rilevato nei Discorsi (articolo plurale e, forme verbali come: amorono, giunsono, facessono, fussi, facesti ‘facessi’), le quali saranno sostituite dall’autore nell’edizione del 1530; a questa data, le tesi contrarie alla soluzione bembiana appaiono prive di vigore e in recessione. La non regolata compresenza di latinismi e di dialettismi, tipica del Quattrocento, è scomparsa; cresce la consapevolezza che in Italia esiste una lingua letteraria comune. Il naturalismo fiorentino si restringe nell’ambito cittadino, ma non manca di far sentire la sua presenza negli ultimi decenni del Cinquecento: per l’iniziativa  



62   Per es., le forme prosastiche due, niuno, dee, fo, sparso si usano assieme alle forme poetiche duo, nessuno, debbe o deve, faccio, sparto; non è in atto quella distinzione secondo coppie allotropiche, rese canoniche da Bembo (Serianni 1993: 495; Formentin 1996a: 218). 63   Cfr. Tavoni, “Umanesimo e Rinascimento”, cit. Ricordiamo i punti principali di tale riforma: i) dittongamento toscano del tipo cuore, in luogo della monottongazione latineggiante o poetica del tipo core, anche dopo nessi consonantici come in prieghi, truova; ii) anafonesi fiorentina: punto, lingua, non ponto, lengua; iii) i protonica fiorentina del tipo migliore, ritorno, preposizione di, non de; iv) er atona fiorentina, non ar, in meraviglia, cercherò; v) plurale del tipo le torri, non le torre; vi) articolo il-i, non el-e’; vii) due, non duo; viii) mio declinabile (mie, miei, ecc.), non mia indeclinabile. Nella morfologia verbale si abbandona la pletora di forme fiorentine argentee (di origine Toscana occidentale o sudorientale), come dicano ‘dicono’, erono ‘erano’, arebbono ‘avrebbero’, e i passati portono, amorono, furno ecc.; la prima persona plurale del presente indicativo ha la desinenza in -iamo (forma innovativa, analogica sul congiuntivo) in tutte le coniugazioni: amiamo, temiamo, non amemo, tememo; prima persona singolare dell’imperfetto in -a (forma etimologica, contro quella analogica innovativa in -o): amava, non amavo (Manni 1979; Trovato 1994: 75-121). Prevalgono le nuove forme, per lo più vive nell’it. mod., tranne l’ultima, che tuttavia ha goduto di una lunga vitalità nella prosa letteraria e in poesia.

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di Benedetto Varchi, forme vicine al parlato sono recuperate e penetrano nel “purismo” di Salviati. 64  

4. 2. 6. Introduttori e marcatori Il collegamento interperiodale comprende un insieme di fenomeni di primo piano della sintassi e della testualità di Machiavelli. Per introdurre, sviluppare, concludere un tema sono messi in atto vari strumenti, che vanno dalla linearità alla strutturazione complessa. Tra i nessi presentativo-esistenziali più semplici e più usati appaiono ci è e vi è: «In esemplo ci è il regno di Francia» (Ds I, xvii, 27, p. 106); «Uno esemplo ci è quanto allo errore commesso non per ignoranza» (Ds I, xxxi, 8, p. 156), «Un altro partito ci è, inchiudersi in una città» (Ds III, x, 14, p. 615); «E di più vi è che, possedendo molto, possono con maggiore potenza e maggiore moto fare alterazione. E ancora vi è di più, che gli loro scorretti e ambiziosi portamenti, accendano [...] voglia di possedere» (Ds I, v, 19, p. 40); raramente il verbo essere è lasciato da solo, alla maniera antica: «se dove è uomini non è soldati, nasce per difetto del principe» (Ds I, xxi, 5, p. 125). Alla congiunzione e si riconoscono nei Discorsi due funzioni frasali: i) aggiuntiva e ii) esplicativa. Quest’ultima si diπerenzia in funzioni più specifiche: avversativa, antitetica e causale, e secondarie: enfatico-esortativa, raπorzativa, correlativa. Posta all’inizio del periodo, isolata o associata a un deittico testuale, la semplice e diventa talvolta il connettore di un enunciato confermativo di quanto è esposto in precedenza: «E vedesi, chi considera bene le istorie romane, quanto serviva la religione a mandare gli eserciti» (I, xi, 8, p. 78). Questo, di questo, da questo, il che, di che sono pronomi profrase e al tempo stesso deittici testuali; i predicati verbali sono selezionati per lo più tra i verbi di accadimento e di attività intelletiva: «E questo si vede in tutte le cose che gli uomini operano (Ds III, xxxvii, 3, p. 748), «Di questo mi ha fatto ricordare la zuπa di Mallio e del francioso» (Ds III, xxxvii, 3, p. 748), «Da questo nacquero i principii delle rovine» (Ds I, ii, 18, p. 22), «Il che successe loro felicemente» (Ds I, i, 7, p. 10), «Di che ne fa fede appieno la republica di Firenze» (Ds I, ii, p. 18); dalla fusione di più elementi nascono connettori più estesi; oltre a di questo esprime un valore confermativo raπorzato e riassuntivo: La cagione non vi era, perché non era stato loro tolto cosa alcuna; la commodità non vi era, perché chi reggeva gli teneva a freno, e non gli adoperava in cose dove ei potessono pigliare autorità. Oltre a di questo, quelli che dipoi vennono ad abitare a Vinegia non sono stati molti e di tanto numero che vi sia disproporzione da chi gli governa a loro che sono governati (Ds I, vi, 10, p. 43).

La semantica della connessione diventa esplicita quando intervengono introduttori aventi un valore consecutivo: donde, talché, talmente che; anch’essi ricorrono spesso all’inizio del periodo. Donde, che dal primitivo valore di origine è passato a quello di conseguenza, raggiunge nel trattato 90 occorrenze: «Non solamente gli augurii [...] erano il fondamento della antica religione, ma anche erano quegli che erano cagione del bene essere della republica romana. Donde i Romani ne avevano più cura che di alcuno altro ordine di quella, e usavongli ne’ comizii consolarii» (Ds I, xiv, 3, p. 94), «per fuggire simile male si riducevano a fare leggi, ordinare punizioni a chi 64  Gli Avvertimenti di Salviati risalgono agli anni 1584-1586 (v. Formentin 1996b: 207), ma Giambullari nel 1552 aveva pubblicato Della lingua che si parla e scrive a Firenze.

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contrafacessi: donde venne la cognizione della giustizia (Ds I, ii, 15, p. 21), «[scil. la cavalleria amica] percosse nella fanteria fiorentina e quella ruppe, donde tutto il restante delle genti dierono volta» (Ds II, xvi, 30, p. 404); nel passo che segue si noti il susseguirsi di due introduttori consequenziali: «Di che ne nasceva che da ogni parte ne surgeva odio, donde si veniva alla divisione» (Ds I, viii, 18, p. 60); donde ricorre in particolare nella formula donde (ne) nasce / (ne) nacque che (e varianti), che è un calco del lat. ex hoc nascitur ut e alla quale segue una soggettiva: «Donde nasce che infiniti che le [scil. le storie] leggono pigliono piacere di udire quella varietà di accidenti che in esse si contengono» (Ds I, Proemio, 8, p. 6), «Donde ne nacque che la sua parte [...] poco dipoi lo richiamò e lo fece principe della republica» (Ds I, xxxiii, 12, p. 164); questa formula replicata e variata abbraccia più periodi: E intra l’altre disoneste vie che tenevano, e’ facevano leggi e proibivono alcuna azione, dipoi erano i primi che davano cagione della inosservanza di esse, né mai punivano gli inosservanti, se non poi, quando vedevano assai essere incorsi in simile pregiudizio [= infrazione]; e allora si voltavano alla punizione, non per zelo della legge fatta, ma per cupidità di riscuotere la pena. Donde nasceva molti inconvenienti, e sopra tutto questo, che i popoli s’impoverivano e non si correggevano; e quegli ch’erano impoveriti s’ingegnavano, contro a’ meno potenti di loro, prevalersi. Donde surgevano tutti quelli mali che di sopra si dicano, de’ quali era cagione il principe (Ds III, xxix, 9, p. 705).

Talché, talmente che cadono sia all’inizio sia al centro del periodo e sottolineano la conseguenza: «Dico adunque che tutti i detti modi sono pestiferi [...]. Talché, avendo quegli che prudentemente ordinano leggi conosciuto questo difetto, fuggendo ciascuno di questi modi per se stesso, ne elessero uno che participasse di tutti» (Ds I, ii, 27, p. 25), «aπerma come quella parte arebbe vinto, che avesse avuto per consolo Manlio. Talmente che simile modo di procedere non può essere più utile» (Ds III, xxii, 33, p. 680). Posto all’inizio del periodo “intra + SN” è un introduttore discorsivo che da un insieme seleziona, evidenziandolo, un componente: «Intra tutti gli uomini laudati, sono laudatissimi quegli che sono stati capi e ordinatori delle religioni» (Ds I, x, 2, p. 68), «Intra le altre magnifiche cose che ’l nostro istorico fa dire e fare a Cammillo [...] gli mette in bocca queste parole» (Ds III, xxxi, 1, p. 713), «Intra le altre cose che sono necessarie a uno capitano di eserciti, è la cognizione de’ siti e de’ paesi» (Ds III, xxxix, 1, p. 757). Assumendo un pronome relativo, l’introduttore raπorza il legame con quanto precede; vediamone un esempio: (l’esercizio delle armi è stato imposto in paesi nei quali le condizioni favorevoli del sito e la fecondità del suolo avrebbero potuto favorire l’ozio) «Intra i quali fu il regno degli Egizii, che, non ostante che il paese sia amenissimo, tanto potette quella necessità ordinata dalle leggi, che ne nacque uomini eccellentissimi» (Ds I, i, 17, p. 14); il passo si conclude con il tema sospeso. Il collegamento realizzato con quanto a, favorisce un sottotipo di tematizzazione che vanta una tradizione risalente ai primi secoli: «Quanto alle cause che vengono dal cielo, sono quelle che spengono l’umana generazione» (Ds II, v, 12, p. 342). L’introduttore presenta talvolta un nome generico, che viene subito dopo specificato: «Quanto alla terza cosa, di ridursi in un campo dentro a uno steccato [...] dico che...» (Ds II, xvii, 20, p. 412). 65 Lo stesso introduttore-tematizzatore appare anche in altri scritti: «quanto a mantenere gli stati che egli ha...» (Del  

65   A proposito di di, per, su, circa a, in quanto a, per riguardo a, Antonelli (2003: 215) parla di «tematizzazione tramite preposizioni o locuzioni preposizionali». I marcatori del tema sono esaminati, per il francese, da Berthoud (1996: 92-101).

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modo, in Opere, ii, p.92), «Quanto ad quello che tu ci advisi dell’essersi transferito ne’ campi nostri el Bianchino da pPisa et dello haverli dato conditione, non ti si risponde altro perché tucto si rimette nella prudentia tua» (Legazioni, in LCSG i, 14, p. 15), «Quanto alli spagnoli che cercano avere salvocondotto [...] ci piace assai la deliberatione che tu ne hai fatta» (Legazioni, in LCSG iv, 367, p. 342), cfr. «Circha le munitioni non habbiamo da dirti altro» (Legazioni, in LCSG iv, 280, p. 264). Ciò vale anche per questo cataforico: «Ma io vi ho solo a dire questo: quello imperio essere fermissimo che ha i sudditi fedeli e al suo principe aπezionati» (Del modo, in Opere, Vivanti, II, p. 90), «Questo è in sustanza quello che vi si può scrivere delle cose di qua, né credo per chi vi ha a scrivere el vero vi si possa scrivere altro» (Lettere, n. 85, p. 187). Per avviare più periodi, posti in successione, si ricorre a intere locuzioni. Come si conserva l’indipendenza di un popolo? Si comincia con un esempio antico, «pigliando in prima la parte de’ Romani...», in seguito si ricorda l’esempio di Sparta e di Venezia: «Dall’altra parte, chi difende l’ordine spartano e veneto dice ...» (Ds I, v, 7 e 9); l’insieme è sostenuto dalla correlazione in prima la parte / Dall’altra parte: a ciascun elemento corrispondono periodi di diversa struttura ed estensione. Passando al collegamento interperiodale, osserviamo che lo si può attuare mediante la ripetizione di un solo elemento; per raggiungere un determinato scopo s’individuano due possibilità; ognuna di esse è accompagnata da varie giustificazioni, ognuna di esse è introdotta dal verbo allegare: «E chi difende lo andare âssaltare [= a assaltare] altri, ne allega il consiglio che Creso dette a Ciro [...]. Creso [...] disse che si andasse a trovare lei, allegando che [...]. Allegane ancora il consiglio che dette Annibale» ecc. (Ds II, xii, p. 374); situato in posizione incipitaria, il verbo marca il confine frasale e mette in rapporto tra loro più argomentazioni, più sequenze testuali. Ora, se consideriamo nel loro insieme i rapporti intercorrenti tra i periodi e i modi del collegamento interperiodale, giungiamo alla conclusione che nei Discorsi si sceglie spesso la via della “non linearità” dei costrutti e dello svolgimento sintattico; è una caratteristica che distingue i Discorsi – ma anche, in una certa misura, il Principe – dalla trattatistica del primo Cinquecento. 4. 2. 7. L’ordine delle parole Distinta dalla struttura logico-sintattica, la struttura dell’informazione, che organizza, a livello testuale, la continuità tematica, si manifesta, in prima istanza, nell’ordine delle parole, il quale, sia nella frase semplice che in quella complessa, risente, per quanto concerne i trattati maggiori di Machiavelli, di due fattori: la ripresa di elementi del parlato e i modelli del latino. Si è già detto che a un’imitazione del parlato s’ispirano costrutti pragmaticamente marcati, mentre dal latino provengono fenomeni di stilizzazione, vari tipi d’iperbato e di tmesi e lo spostamento del verbo alla fine del periodo. All’iperbato si collegano l’epifrasi, l’anastrofe, la sìnchisi o mixtura verborum. Dato il carattere della prosa machiavelliana, interessa soprattutto descrivere alcuni fenomeni: la lunghezza degli incisi che separano elementi di norma contigui, la collocazione dei due costituenti di un predicato verbale composto, la diπusione del determinante anticipato al determinato. In particolare, sono da osservare, nella frase semplice, la posposizione del soggetto al verbo e la frequente collocazione di quest’ultimo alla fine del periodo; nella frase complessa, si guarderà in particolare alla collocazione delle avverbiali rispetto alla principale e alla funzione svolta da incidentali e parentetiche.

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I fattori che regolano l’ordine delle parole sono sintattici, pragmatici e ritmici; dai fattori pragmatici dipende il “dinamismo comunicativo della frase” (di Jan Firbas) v. Roggia (2003). Lo studio dell’ordine delle parole comprende aspetti che riguardano in primo luogo i costituenti della frase semplice, ma che finiscono per interessare l’intero assetto delle sequenze testuali. L’ordine delle parole ha rapporti con tutti i livelli dell’analisi linguistica: con la morfosintassi (presenza/assenza dei pronomi personali, posizione dei clitici), con la sintassi (determinazione delle funzioni), con la semantica (nella costruzione del significato), con la pragmatica (rapporto tra enunciazione e strutture dell’informazione), con la costruzione del testo (configurazioni testuali). L’italiano letterario ha subito a lungo l’influsso del latino, manifestatosi prevalentemente (ma non unicamente) nei piani alti della lingua. Non vi sono stati mutamenti sostanziali riguardanti la struttura della frase, a diπerenza di quanto è avvenuto nel passaggio dal francese antico al francese moderno (al di sopra di ogni istanza pragmatica il soggetto precede il verbo). 66 Per la struttura della frase nel fiorentino del Cinquecento v. Renzi (1991); per l’ordine delle parole v. Romanini (2004: 28-31); nel Cinquecento l’ordine prevalente è SVO, con l’eccezione di Bembo che riprende moduli decameroniani (Bozzola 2009: 109- 147). Sulla sintassi della frase semplice nelle lingue romanze v. Godard (2003).  

Frequente è nei Discorsi la dislocazione a sinistra, con la quale viene tematizzato il complemento sia diretto sia indiretto; piuttosto rara è invece la dislocazione a destra, che richiama un’informazione già data o una parte di essa. 67 Una caratteristica topologica ricorrente consiste nel rilievo attribuito a un verbo modale staccato dall’infinito. Un deontico, focalizzato all’inizio della frase, o in forte rilievo al centro di essa, sfrutta per un nuovo fine una giacitura latineggiante:  

«Debbono i presenti principi e le moderne republiche le quali, circa le difese e oπese, mancano di soldati propri, vergognarsi di loro medesime» (Ds I, xxi, 2, p. 124), «ma perché l’ampliare è il veleno di simili republiche, debbe, in tutti quegli modi che si può, chi le ordina proibire lo acquistare» (Ds I, vi, 26, p. 46). Il fenomeno si manifesta anche con il modale potere: «Potette questo modo nascere e mantenersi sanza tomulto perché, quando e’ nacque, qualunque allora abitava a Vinegia fu fatto del governo, di modo che nessuno si poteva dolere» (Ds I, vi, 9, p. 42).

È indubbio che tali focalizzazioni favoriscano, in molti casi, uno stile impressivo e dinamico. Al polo opposto troviamo collocazioni dipendenti da una replica, per così dire, passiva, di giaciture latineggianti, quali sono la separazione di elementi normalmente contigui (tmesi) e la collocazione del verbo alla fine del periodo. Tra i fenomeni più frequenti appare il distacco dell’ausiliare dal participio passato: «aiutato da coloro che mi hanno ad entrare sotto questo peso confortato» (Ds I, Proemio, 10, p. 8), «La prima [scil. Atene] sotto l’autorità di Teseo fu per simili cagioni dagli abitatori dispersi edificata» (Ds I, i, 5, p. 9), «avendo quegli che prudentemente ordinano leggi conosciuto questo difetto» (Ds I, ii, 26, p. 25), «quelli che lo avevano prima, quando era privato, sentito parlare, e vedutolo poi nel supremo magistrato stare quieto» (Ds I, xlvii, 24, p. 231), «Essendosi il popolo romano, come di sopra si disse, recato a noia il nome consolare» (Ds I, xlvii, 2, p. 225), «Dopo il 1494, sendo stati i principi della città cacciati di Firenze» (Ds I, xlvii, 21, p. 230), «Sendo nella nostra città di Firenze seguite dopo il 1494 dimolte guerre» 66   Per l’ordine delle parole in italiano v. anche Grandi (2011); è utile un confronto con il francese: Gardes Tamine (2013). 67   Della dislocazione a sinistra si esaminano i tipi che provocano fenomeni di tematizzazione e di focalizzazione. La dislocazione a destra produce fenomeni di segno opposto: vale a dire, il posizionamento di un’informazione esclusivamente sullo sfondo (antitopics) e il ripensamento (afterthought).

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(Ds III, xvi, 14, p. 650), «quando quella città rimase libera vi mancavano molte cose che era necessario ordinare in favore della libertà, le quali non erano state dal re ordinate» (Ds I, ii, 32, p. 28).

Come appare dai passi ora citati, a questo fenomeno se ne collegano altri riguardanti la parte iniziale del periodo (elementi d’inquadramento, evidenziazione di una gerundiale, stilemi di apertura caratterizzanti) o la sua parte finale, dove il complemento d’agente può separare i costituenti di un sintagma verbale passivo, creando una cadenza conclusiva. Carattere artificioso assume, in alcuni casi particolari, la tmesi; per es., quando separa i costituenti di una congiunzione subordinante: «e solo poi avevano vinto che Coriolano fu loro capitano» (Ds III, xiii, 3, p. 633). La collocazione dell’infinito in clausola finale è un fenomeno che si ritrova in tutte le parti dell’opera, non soltanto in quelle che mostrano una maggiore tendenza all’elaborazione stilistica e al latineggiamento: «bisogna nello ordinare la republica pensare alla parte più onorevole, e ordinarle in modo che, quando pure la necessità le inducesse ad ampliare, elle potessono quello che l’avessono occupato conservare» (Ds I, vi, 36, p. 49), «E perché noi abbiamo allegato in questo discorso Valerio Corvino, voglio, mediante le parole sue, nel seguente capitolo come debbe essere fatto uno capitano dimostrare» (Ds III, xxxvii, 20, p. 754), «Così feciono i Toscani con i Sanniti, avendo, per la presenza dello esercito di Sannio, preso quelle armi che gli avevano negate per altro tempo pigliare» (Ds III, xliv, 13, p. 776).

Anche il verbo di modo finito viene spesso collocato alla fine del periodo; ecco un esempio, in cui la posizione finale, alleandosi col significato negativo e terminativo del verbo, consegue un notevole eπetto retorico: Perché chi è paruto buono un tempo, e vuole a suo proposito diventare cattivo, lo debbe fare per i debiti mezzi, e in modo condurvisi con le occasioni, che, innanzi che la diversa natura ti tolga de’ favori vecchi, la te ne abbia dati tanti de’ nuovi che tu non venga a diminuire la tua autorità; altrimenti, trovandoti scoperto e sanza amici, rovini (Ds I, xli, 4, p. 211).

Abbiamo già visto un esempio simile con un altro verbo terminativo: ammazzarlo (Pri xii, 25, v. 3.3.5). Molte collocazioni di elementi del periodo conferiscono alla prosa machiavelliana una marcatezza che appare consona agli argomenti trattati. Nei Discorsi l’ordine delle parole, e di conseguenza la struttura dell’informazione, vivono di contrasti: alla staticità di collocazioni quasi formulari si oppone la dinamicità di dislocazioni che evidenziano punti salienti del discorso, focalizzano centri d’interesse, attuano e√caci collegamenti con quanto precede nel testo. Esaminiamo alcuni fenomeni che riguardano l’ordine delle parole e che ricorrono con frequenza nei Discorsi. La posposizione del soggetto non marcato al verbo avviene tra l’altro in due circostanze degne di essere notate: i) dopo un verbo inaccusativo e, preferibilmente, dopo una circostanziale che contiene il presupposto di quanto viene presentato nella principale; ii) in formule usate per presentare la fonte dell’enunciato o un personaggio di rilievo (o il ruolo da lui assunto in un evento determinato): «Ad Alessandro, volendo [= che voleva] edificare una città per sua gloria, venne Dinocrate architetto» (Ds I, i, 19), «Finita questa [scil. la seconda guerra cartaginese], nacque la guerra macedonica; la quale finita, venne quella d’Antiochia e d’Asia» (Ds II, i, 18). «Mostra Tito Livio, nel mostrare questa parilità [= parità] di forze, tutto l’ordine che tennono i Romani negli eserciti e nelle zuπe» (Ds II, xvi, 9) «Erano Decio

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la prosa del cinquecento e Fabio consoli romani con due eserciti all’incontro degli eserciti de’ Sanniti e de’ Toscani» (Ds III, xlv, 2), «Era Marzio consolo con lo esercito contro ai Sanniti» (Ds III, xlvii, 2).

La tematizzazione del rema evidenzia un centro d’interesse e, al tempo stesso serve a raπorzare il legame con quanto precede. Si parla dell’origine libera delle città e il discorso riprende con un chiarimento: «Sono liberi gli edificatori delle cittadi, quando alcuni popoli [...] sono constretti [...] ad abbandonare il paese patrio» (Ds I, i, 11). Quando si parla dell’origine libera delle città, il discorso aπronta il tema dei mutamenti istituzionali che intervengono nella storia degli stati: «Nacquono queste variazioni de’ governi a caso intra gli uomini» (Ds I, ii, 14). La posposizione del soggetto al verbo produce sovente l’ordine VSO; tale dispositio appare di preferenza alla fine del periodo: «E così nacque la creazione de’ tribuni della plebe; dopo la quale creazione venne e essere più stabilito lo stato di quella republica, avendovi tutte le tre qualità di governo la parte sua» (Ds I, ii, 35). La successione delle frasi provoca talvolta la solita figura chiasmatica (VS - SV): «Pareva che fusse in Roma intra la plebe e il senato, cacciati i Tarquini, una unione grandissima, e che gli nobili avessono disposto quella loro superbia, e fossero diventati d’animo popolare, e sopportabili da qualunque, ancora che infimo» (Ds I, iii, 3). Segnaliamo infine alcuni attacchi di periodo, nei quali al verbo segue un determinante o un segnale discorsivo: «Ingannonsi, oltra di questo, i popoli generalmente nel giudicare le cose e gli accidenti d’esse» (Ds I, xlvii, 20, p. 230), «Tra’si [= si trae] adunque di questo discorso questa conclusione» (Ds I, lv, 27, p. 268), «Presunse Marco Regolo Attilio non solo con la fanteria sua sostenere i cavagli, ma gli elefanti» (Ds II, xviii, 29, p. 428). La dislocazione a sinistra serve a evidenziare il tema, che può assumere, in determinati cotesti, una particolare salienza testuale, segnalando una discontinuità non prevedibile rispetto a quanto precede. La costruzione marcata tematizzante agisce sull’oggetto (diretto e indiretto) e comporta per lo più una ripresa pronominale: «I Svizzeri è facile vincergli fuori di casa» (Ds II, xiii, 30, p. 382), 68 «Debbono adunque i principi d’una republica, o d’uno regno, i fondamenti della religione che loro tengono, mantenergli» (Ds I, xii, 7, p. 84), «Il quale [scil. Lucio Quinzio] al tutto negò questa diliberazione, dicendo che i cattivi esempli si voleva cercare di spegnergli, non di accrescergli con uno altro più cattivo esemplo» (Ds III, xxiv, 6, p. 686). Talvolta la dislocazione riguarda un’intera frase o due frasi tra loro coordinate, che vengono preposte al reggente verbale: «Che Annibale non fussi maestro di guerra, alcuno mai non lo dirà» (Ds III, x, 12, p. 618); passo da confrontare con il periodo seguente: «E che Romolo fusse di quegli che nella morte del fratello e del compagno meritasse scusa, e che quello che fece fusse per il bene comune e non per ambizione propria, lo dimostra lo avere quello súbito ordinato uno senato con il quale si consigliasse, e secondo la oppinione del quale deliberasse» (Ds I, ix, 11, p. 65); si noti come il clitico di ripresa (resumptive clitic) ha la capacità di riferirsi a due nuclei frasali estesi. I soggetti-tema delle due frasi spostate a sinistra sono, rispetti 

68   Per l’oggetto preposto v.: «Altre preparationi non si vede facci ma le parole sono galiarde» (Legazioni, in LCSG iv, 276, p. 257), «Le lanterne et altre cose che tu chiedi ti si manderanno» (Legazioni, in LCSG iv, 380, p. 350) e per il complemento: «Al Ferruccio si scriverrà perché noi non intendiamo bene questo suo scrivere» (Legazioni, in LCSG iv, 400, p. 365), «Ad questa vostra del primo di questo non scade rispondere» (Legazioni, in LCSG iv, 402, p. 366).

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vamente, Annibale e Romolo: in entrambi i casi abbiamo: i) un referente [+ animato] [+ definito] [+ individuato], il quale assume nel periodo il massimo rilievo; ii) un personaggio che costituisce la forza dimostrativa dell’exemplum: ciò va ricordato per sottolineare la rilevanza pragmatica di un fenomeno, che finora è stato considerato quasi esclusivamente nei suoi aspetti formali. Tutti i passi citati dimostrano che nei Discorsi la dislocazione e la prolessi si sviluppano sul terreno dell’argomentazione e soltanto in tale zona possono essere rettamente compresi e analizzati. 69 L’anteposizione e la posposizione degli enunciati hanno eπetti cognitivi e pragmatici e dipendono sovente dalla scelta di un punto di vista (Rabatel 2008: 177). La stessa struttura formale “completiva oggettiva + pronome clitico oggetto + principale reggente” si realizza con un referente [+ animato] [– definito] [– individuato]: «E che gli uomini invasino [= si turbino] e si confondino, non lo può meglio dimostrare Tito Livio» (Ds III, vi, 120, p. 580); 70 la completiva, che qui ha struttura binaria, si articola in un tricolon nel passo che segue: «E che queste inondazioni, peste e fami venghino, non credo che sia da dubitarne, sì perché ne sono piene tutte le istorie, sì perché si vede questo eπetto della oblivione delle cose, sì perché e’ pare ragionevole che e’ sia» (Ds II, v, 15, p. 343), dove abbiamo tre referenti [– umano], una subordinazione di 2° grado, il clitico ne. In «E che sia il vero che tali ordini nella città corrotta non fussero buoni, si vede espresso in doi capi principali» (Ds I, xviii, 13, p. 114), la subordinazione di 2° grado, costituita da due soggettive, si trova nella prima parte del periodo, alla fine del quale abbiamo il reggente si vede. 71 Appare chiaro come alla dislocazione si possano associare strutture sintatticamente complesse. Talvolta il componente tematizzato è costituito da un’interrogativa indiretta: «Quanta di√cultà sia a uno popolo uso a vivere sotto uno principe perseverare dipoi la libertà [...] lo dimostrono infiniti esempli» (Ds I, xvi, 2, p. 100): qui l’inizio del capitolo riprende il senso del titolo: «Uno populo [...] con di√cultà mantiene la libertà». Con vari introduttori l’interrogativa indiretta prolettica svolge una funzione testuale di collegamento con il tema generale del capitolo e/o con quanto precede nel testo. 72 In conclusione, possiamo dire che nei Discorsi le frequenti costruzioni prolettiche: i) assumono una notevole varietà di forme; ii) svolgono una funzione pragmatica e testuale, che viene incontro alla fondamentale esigenza argomentativa del testo; iii) vanno confrontate con altri costrutti marcati. A proposito di costrutti marcati, si pensi alla struttura tematizzante – non rara negli scritti cancellereschi –, avviata da un introduttore “di + argomento”; ritorniamo su un passo del Principe che abbiamo già analizzato: «De’ Viniziani [tema-titolo], se si considera i progressi loro, si vedrà quelli [scil. i Viniziani] avere securamente e gloriosamente operato mentre ferono la guerra loro proprii [= con le loro forze], che  







69   Amossy (2014: 248) distingue le figure di pensiero, come la prolessi, il cumulo e l’apódeixis (o evidens probatio), le quali non si possono definire senza riferirle all’argomentazione; cfr. Lausberg (1960: § 357). 70   Cfr. ancora: «E che ciascuno possa fare come loro, io ne voglio dare lo esemplo di Pisone» (Ds III, vi 79¸ p. 567), «E che noi non ci possiamo mutare, ne sono cagioni due cose» (Ds III, ix, 17, p. 611), «E che questo sia vero, lo mostra Tito Livio, quando e’ narra che» (Ds III, xxix, 10, p. 705), «E che questo sia vero ce lo mostra Tito Livio» (Ds III, xxxix, 13, p. 759). 71   Cfr. anche: «E che questo che io dico sia vero, si vede manifestamente con mille esempi» (Ds III, x, 21, p. 616). 72   L’uso di interrogative indirette e di dichiarative prolettiche è vivo nella prosa scolastica dei secoli xiii-xiv, partic. nel Convivio.

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fu [= e questo fatto avvenne] avanti che si volgessino con le imprese in terra» (Pri xii, 22); qui l’elemento dislocato è munito di un segnacaso; vediamo ora l’estrazione del soggetto della subordinata, che diventa l’oggetto della sovraordinata: «[scil. il magistrato] conosceva i disordini donde nascevano e i pericoli che soprastavano» ‘conosceva da dove nascevano i disordini’ (Ds I, xlvii, 22, p. 231); cfr. nella Vita nova (14, 12, p. 129): «altre donne [...] s’accorsero di me che io piangea». L’anteposizione di un complemento appare in passi che concludono una precedente esposizione e nei quali il rema appare evidenziato: (si è trattato dei fondamenti della religione dei Romani) «Di questi miraculi ne fu a Roma assai» (Ds I, xii, 10, p. 85), (si è trattato della corruzione della corte romana) «Abbiamo adunque con la Chiesa e con i preti noi italiani questo primo obligo, di essere diventati senza religione e cattivi» (Ds I, xii, 18, p. 87). Nei Discorsi non appaiono esempi di frasi scisse: in italiano, come in altre lingue romanze, la lingua letteraria conoscerà quest’ordine dei costituenti, a partire dalla seconda metà del xvi sec.; 73 inoltre, in luogo della dislocazione a destra si ritrova la costruzione cataforica con il deittico questo (v. 4.5.). I costrutti marcati si pongono in una scalarità che va da un minimo a un massimo rilievo. 74 Dalla tematizzazione del soggetto della subordinata dipendono frangimenti dell’ordine canonico dei costituenti; ciò accade con la relativa staccata dalla testa: «Tullo re di Roma e Mezio re di Alba convennero che quello populo fusse signore dell’altro, di cui i tre soprascritti tre uomini vincessero» (Ds I, xxii, p. 127), con due relative (che ... le quali), poste di seguito: «vi mancavano molte cose che era necessario ordinare in favore della libertà, le quali non erano da quegli re ordinate» (Ds I, ii, 31, p. 27). La focalizzazione, ottenuta mediante l’ordine delle parole, riguarda l’aggettivo (o participio), che è anteposto al nome ed è eventualmente raπorzato da un avverbio o da un segnale discorsivo: «una sempiterna infamia» (Ds I, x, 33, p. 76), «[scil. la zuπa di Ravenna] fu, secondo i nostri tempi, assai bene combattuta giornata» (Ds II, xvi, 26, p. 403). La focalizzazione riguarda ancora alcuni avverbi, che rappresentano un giudizio del locutore sull’enunciato: «mediante quelli che umanamente di queste mia fatiche il fine considerassino» (Ds I, Proemio, 1), «Nacquono queste variazioni de’ governi a caso intra gli uomini» (Ds I, ii, 14 p. 20), «Nientedimeno dipoi quasi tutti, ingannati da un falso bene e da una falsa gloria, si lasciono andare, o volontariamente o ignorantemente, ne’ gradi di coloro che meritano più biasimo che laude» (Ds, I, x, 9, p. 69). Tra gli avverbi frasali, i quali non qualificano ciò che è detto dal predicato (il tempo, il modo ecc.), ma l’atteggiamento del parlante circa l’attendibilità della propria aπermazione, 75 e quindi hanno un valore evidenziale, ricordiamo veramente, collocato all’inizio del periodo: «E veramente, chi discorressi bene l’una cosa e l’altra potrebbe stare dubbio quale da lui fosse eletto per guardia di tale libertà» (Ds I,  





73   Nei testi dei primi secoli la dislocazione a destra appare raramente e si ritrova in testi vicini al parlato (D’Achille 1990: 194-202); nelle laudi di Iacopone da Todi Tomasin (2000) accerta che la dislocazione a destra raggiunge frequenze più alte rispetto a quelle riscontrate nei testi di “livello basso” e di “livello intermedio” esaminati da D’Achille. Per quanto riguarda il francese, «le véritable essor des clivées n’a lieu que relativement tard, entre 1500 et 1900, longtemps après la disparition du verbe en deuxième position, du sujet vide et de l’accent lexical», v. A. Stein/C. Trips, Les phrases clivées en ancien français: un modèle pour l’anglais?, in “Revue de linguistique romane”, 78 (2014: 33-55, 41). 74   Questa dislocazione a sinistra di un costituente con un indicatore di caso è piuttosto diπusa nell’it. ant. e si ritrova anche in testi di carattere pratico dei primi decenni del xvi sec. (Palermo 1994: 133). 75   Per l’it. mod. ricordo gli avverbi probabilmente, forse, sicuramente, certo, v. L. Lonzi, in GGIC, ii (20012: 384-387); cfr. anche Colombo (2012: 49).

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v, 12, p. 39), «E veramente mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo, che non ricorresse a Dio» (Ds I, xi, 11, p. 79). Bene, avverbio raπorzativo inserito in un introduttore discorsivo, appare sovente all’inizio del periodo: «Ma fia bene vero questo, che mai si ordineranno sanza pericolo» (Ds I, ii, 8, p. 18), «Ma bene interviene che, nel travagliare, una republica [...], diventa suddita d’uno stato propinquo che sia meglio ordinato di lei» (Ds I, ii, 25, p. 25). Massime ‘soprattutto’ serve a raπorzare o a correggere un’aπermazione, evidenziando il grado di verità che il locutore attribuisce all’enunciato: «dico come ogni città debbe avere i suoi modi con i quali il popolo possa sfogare l’ambizione sua, e massime quelle cittadi che nelle cose importanti si vogliono valere del popolo» (Ds I, iv, 8, p. 35), «ho voluto replicarne, parendomi massime materia che debba essere dalle republiche simile alla nostra notata» (Ds II, xv, 23, p. 397). 76  

4. 2. 8. Le parentetiche Nei trattati umanistici le apposizioni qualificanti un personaggio illustre sono numerose; tipica è la situazione dei trattati di L. B. Alberti, che s’ispira a modi di presentazione e di qualificazione di matrice classica. 77 Diversa è la situazione presente nei Discorsi, dove appaiono brevi segmenti qualificativi: «Molti hanno avuto opinione, e intra i quali Plutarco, gravissimo scrittore, che ’l popolo romano, nello acquistare lo imperio, fosse più favorito dalla fortuna che dalla virtù» (Ds II, i, 2, p. 303), «non potette mai Nicia, uomo gravissimo e prudentissimo, persuadere» (Ds I, liii, 20, p. 254). Non mancano gli incisi brevi; meno frequenti sono le parentetiche di una certa estensione; si tratta di frasi semanticamente rapportate al contenuto della frase ospite. Vediamone un esempio:  

Gli eserciti spagnuoli e franciosi, nella zuπa di Ravenna (dove morì monsignore di Fois, capitano delle genti di Francia), la quale fu, secondo i nostri tempi, assai bene combattuta giornata, s’ordinarono con l’uno de’ soprascritti modi; cioè che l’uno e l’altro esercito venne con tutte le sue genti ordinate a spalle, in modo che non venivano avere né l’uno né l’altro se non una fronte, e erano assai più per il traverso che per il diritto (Ds II, xvi, 26, p. 403).

Introdotto dalla congiunzione coordinativa dove, un evento collaterale è richiamato alla memoria; ne risulta interrotta la relativa (zuπa di Ravenna [...] la quale), contenente a sua volta un’espressione di evidenzialità indiretta secondo i nostri tempi; l’insieme costituito da “dove morì + apposizione + relativa la quale + formula evidenziale” costituisce un’isola che separa il soggetto della principale dal verbo: Gli eserciti spagnuoli e franciosi [...] s’ordinarono. Diversa struttura ha il passo seguente: E se alcuno dicessi i modi erano istrasordinarii e quasi eπerati (vedere il popolo insieme gridare contro al senato, il senato contro al popolo, correre tumultuariamente per le strade, serrare le botteghe, partirsi tutta la plebe di Roma: le quali cose tutte spaventano. non 76   Avverbi frasali usati di frequente sono: medesimamente, massime ‘soprattutto’, a posta di ‘a piacimento’, e veramente. I connettori talché, talmente che adunque sono avverbi modali epistemici. 77   Gli studi concernenti le parentetiche e gli incisi riguardano soprattutto testi moderni. Cfr: Nølke (1996); L. Cignetti, La (pro)posizione parentetica: criteri di riconoscimento e proprietà retorico-testuali, in “SGI”, xx, 2001: 69-125, dove, delle parentetiche, si esaminano la topologia, la configurazione formale, gli aspetti prosodici, il rapporto con altri elementi esplicativi presenti nel periodo e gli aspetti sintattici; Idem, L’inciso. Natura linguistica e funzioni testuali, Alessandria, Ed. dell’Orso, 2011; vedi anche: I. Tucci, “Incidentali, frasi”, in EncItaliano, i (2010: 643-645); Eadem, “Parentetiche, frasi”, in EncItaliano, ii (2011: 1045-1047).

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la prosa del cinquecento che altro, chi le legge), dico come ogni città debbe avere i suoi modi con i quali il popolo possa sfogare l’ambizione sua (Ds I, iv, 8, p. 35).

La parentetica estesa, priva di un aggancio (cfr. dove del passo precedente), è costituita da un insieme di cinque infiniti descrittivi, sottomessi a un definitore generale: «modi [...] istrasordinarii e quasi eπerati»; gli infiniti ritraggono azioni successive, gli agenti delle quali sono diversi: il popolo, il senato, la plebe; segue la frase riassuntiva le quali cose; dopo la parentetica è ripreso il tema: i modi [...] dico come [...] i suoi modi. Questa parentetica di frase ha valore descrittivo-esplicativo ed esemplifica una struttura compositiva tipica, che consiste nel porre un accumulo di componenti prima isolatamente, per poi riprenderle e indirizzarle a un certo fine. Le parentetiche estese saranno da confrontare con i brevi incisi: gli uomini nel procedere loro – e tanto più nelle azioni grandi – debbono considerare i tempi e accomodarsi a quegli. E coloro che per cattiva elezione o per naturale inclinazione si discordono dai tempi, vivono il più delle volte infelici, e hanno cattivo esito le azioni loro; al contrario lo hanno quegli che si concordano col tempo (Ds III, viii, 12, p. 604).

Qui l’inciso è un segmento nominale, che ha un valore delimitativo e raπorzativo, rispetto all’espressione deontica che segue; ma il suo eπetto si risente nell’aπermazione, accrescendo la gravità della sentenza. Sembrano prevalere le parentetiche tematicamente integrate nel periodo; si evitano bruschi interventi e cambiamenti di passo. 78 Tiriamo le somme. Nell’ordine delle parole vi sono configurazioni dinamiche, costituite soprattutto dai modi della dislocazione a sinistra. Di questo fenomeno abbiamo descritto i tipi più rilevanti, la loro collocazione e la realizzazione lessicale. Il dinamismo consiste nella tematizzazione di un elemento che promuove la progressione discorsiva o l’inattesa comparsa di un personaggio o di un evento. Al polo opposto vi è una successione dei costituenti frasali, fondata su figure di parola, come la tmesi, l’iperbato e il verbo posto alla fine del periodo, figure che riproducono spesso usi del latino. L’ordine delle parole ha un’importanza particolare nei trattati di Machiavelli, perché supplisce a eventuali debolezze della sintassi e, al tempo stesso, è il fattore principale dell’e√cacia espressiva (e della sentenziosità) di molti passi. Lo studio dell’ordine delle parole nella prosa antica e rinascimentale trarrà vantaggio, non soltanto da un’analisi approfondita della varia tipologia dei fenomeni, ma anche da un accertamento dei loro valori pragmatici, che qui sono stati illustrati solo in parte.  

4. 2. 9. I nessi nominali Alcuni sintagmi hanno la forma di brevi incidentali, che contrastano con la lunghezza delle frasi complesse. Osserviamo per la ricuperazione di, che ha valore finale: «quando Francesco re di Francia disegnava passare in Italia per la recuperazione dello stato di Lombardia» (Ds I, xxiii, 14, p. 131), «E io non so di che utilità sia una fortezza che a renderti la terra [= per farti recuperare la città] abbia bisogno, per la ricuperazione d’essa, d’uno esercito consolare» (Ds II, xxiv, 42, p. 474), «uno capitano non maculato d’alcuna ignominia per la perdita e intero nella sua riputa78  Sulle parentetiche e sulla necessità di distinguerle dalle incidentali e dagli incisi v. Cignetti (2001). Anche I. Tucci, “Incidentali, frasi”, in EncItaliano, i (2010) e “Parentetiche frasi” (ivi, ii, 2011) distingue tra incidentali e parentetiche; su queste, ultime integrate al periodo, v. Zublena (2001: 245, 364). Per un confronto con il francese: Nølke (1996), Gardes Tamine (2013: 128); sui verbi deboli che appaiono nelle parentetiche v. Blanche-Benveniste (1989).

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zione, per la recuperazione della patria sua» (Ds II, xxix, 22, p. 501), «Monsignore de Foix, essendo con lo esercito in Bologna, e avendo intesa la ribellione di Brescia e volendo ire alla ricuperazione di quella, aveva due vie» (Ds III, xliv, 9, p. 775).

Il sintagma in confirmazione di questo ha invece valore conclusivo e serve sovente a evidenziare una citazione: (la plebe si accorge della dappocaggine dei propri candidati alle alte cariche dello Stato) Tale che, vergognatasi di loro, ricorse a quelli che lo [scil. l’autorità tribunizia] meritavano. Della quale deliberazione maravigliandosi, meritamente Tito Livio dice queste parole: «Hanc modestiam aequitatemque et altitudinem animi, ubi nunc in uno inveneris, quae tunc populi universi fuit?». In confirmazione di questo se ne può addurre un altro notabile esemplo, seguito in Capova dapoi che Annibale ebbe rotti i Romani a Canne (Ds I, xlvii, p. 227); Voglio di nuovo addurre, in confermazione di questo, parole di Tito Livio, il quale, referendo come, essendo mandato da’ Romani contro agli Equi Quinzio e Agrippa suo collega, Agrippa volle che tutta l’amministrazione della guerra fosse appresso a Quinzio, e dice: “Saluberrimum, in administratione magnarum rerum, est summam imperii apud unum esse”. Il che è contrario a quello che oggi fanno queste nostre republiche e principi (Ds III, xv, 9, p. 645).

Qui abbiamo un esempio di “frase (o predicazione) evidenziale” Tito Livio... dice, la quale rivela la fonte e ne sottolinea il carattere testimoniale nonché il tramite per il quale essa è pervenuta (Dendale/Van Bogaert 2012: 21); la citazione in latino aumenta ovviamente l’eπetto impressivo. 79  

4. 3. La struttura del periodo Una frase semplice diventa una frase complessa mediante due procedimenti di sviluppo: l’integrazione all’interno dei gruppi sintattici (verbale e nominale) e l’inserzione, consistente nell’introdurre nuove unità all’interno dei gruppi; in tal modo la struttura frasale risulta modificata. Tenendo da parte le apposizioni e i vari tipi di incidentali, le nuove unità sono rappresentate da complementi frasali, quali le proposizioni completive e le proposizioni avverbiali. Le une e le altre sviluppano la frase, perché comprendono un verbo e i complementi della sua valenza (in alcuni casi hanno un comportamento analogo a quello dei sintagmi nominali); tali complementi sono ricorsivi (Gardes Tamine 2013: 72 ss., 88 ss.). Vedremo qui di seguito alcuni caratteri del sintagma verbale (4.3.1.), della costruzione passiva (4.3.6.) e della coordinazione (4.4.1.); in questi paragrafi si ritrovano le premesse dello studio della subordinazione (4.4.8.). Il percorso qui delineato è particolarmente adatto alla descrizione-interpretazione sintattica di un testo di grande spessore come i Discorsi; al tempo stesso, rappresenta un avvio sicuro allo studio della testualità. 4. 3. 1. Il sintagma verbale Meritano di essere evidenziati alcuni particolari usi sintattici e semantico-lessicali, che influiscono sulla sintassi del periodo. L’imitazione di costrutti latini si attua in varie circostanze; si veda, per es., il verbo spargere reggente di una completiva: 79   Ha una funzione diversa il sintagma nominale inserito in un predicato verbale: «Dal Capitano di Livorno s’intende come in quello luogo è mancamento d’imbracciature et di lancie» (Legazioni, in LCSG iv, 357, p. 336).

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«sparsono per Roma che non i nobili erano quelli che cercavano gli onori per ambizione» (Ds I, v, 16, p. 40); tale costrutto riproduce, evitando l’infinitiva, un costrutto del tipo: spargebatur insuper spreto procuratoris vocabulo Albinum insigne regis et Iubae nomen usurpare (Tacito, Historiae ii, 58): ‘si spargeva la voce che’. Appare invece contraria al latinismo la scelta di una subordinata con verbo finito retta da un verbum voluntatis, che in latino richiama di norma un’infinitiva: «Se alcuno volesse pertanto ordinare una republica di nuovo, arebbe a esaminare se volesse che l’ampliasse (come Roma) di dominio e di potenza» (Ds I, vi, 24, p. 46). Esaminiamo qui di seguito alcuni costrutti verbali (4.1.1) che si diπerenziano dall’uso moderno. Un tratto saliente è il ricorso a un buon numero di polirematiche verbali dei tipi “V+N” e “V+Prep+N” (4.3.3.): anche in questi casi si hanno conseguenze nella sintassi della frase, dal momento che al N si possono aggiungere determinanti. Il futuro perifrastico e la perifrasi “venire + gerundio” (4.3.3.) proseguono usi dell’italiano antico, ma non hanno una grande diπusione. Quanto all’uso dei tempi verbali (4.3.4.), come di consueto, il futuro nel passato è reso con il condizionale semplice; 80 si nota il frequente ricorrere di tempi deittico-anaforici, la cui presenza contribuisce alla complessità sintattica. Si segnalano alcuni tratti della modalità verbale e dell’evidenzialità (4.3.5.): due settori per i quali si prevede uno sviluppo della ricerca. Un’attenzione particolare va riservata ai predicati complessi (risultanti dall’accoppiamento di un infinito con un ausiliare o con un altro verbo ristrutturante), perché presentano sovente interessanti fenomeni sia di carattere formale sia di carattere semantico e pragmatico, quali la risalita del clitico, i verbi causativi, i verbi fattitivi.  

4. 3. 2. Costruzioni e significati Dal primo libro di Ds segnalo, scegliendo tra i più frequenti, alcuni riflessivi: contenersi, convertirsi, governarsi, levarsi, opporsi, rassettarsi, sforzarsi, volgersi e alcuni intransitivi pronominali: dilettarsi, ragunarsi, ridursi. Dei verbi costruiti con il pronome ricordo alcuni esempi particolari, tipici del Cinquecento e dei secoli precedenti: aversi ‘dovere’: «né sappiendo le latebre dove si abbia a rifuggire» (Ds I, xvi 3, p. 100); essersi: «Ancora che, per la invida natura degli uomini, sia sempre suto non altrimenti periculoso trovare modi ed ordini nuovi, che si fusse cercare acque e terre incognite» (Ds I, Proemio, 1, p. 3); ridersi: «di che quello si rise» (Ds I, i, 21, p. 15); terminarsi: «questa prima parte, si terminerà» (Ds I, i, 7, p. 16). Il verbo domandare si costruisce talvolta con l’oggetto diretto della persona cui si rivolge la domanda; l’imitazione del latino appare soprattutto nell’uso passivo: «Fu domandato Manlio che dovesse dire» (Ds I, viii 7, p. 57). L’oggetto diretto appare anche al seguito di discorrere: «E chi discorrerà i popoli, che ne’ nostri tempi sono stati tenuti pieni di ruberie» (Ds III, xxix, 3, p. 704), ma cfr. «discorrere sopra questi tumulti» (Ds I, iv, 2, p. 33). 81 Temporeggiare ha uso sia transitivo sia intranstivo: «[i Viniziani] se avessero potuto temporeggiare con lo esercito francioso [...], averiano fuggita quella rovina; ma non avendo virtuose armi da potere temporeggiare il nimico [...] rovinarono» (Ds III, xi, 13, p. 623), «è più savio partito il temporeggiarle [scil. le cose]» (Ds I, xxxiii, 15, p. 165), «ma non avendo virtuose arme da potere temporeggiare il  

80   Ma, se il futuro nel passato è controfattuale, si rappresenta con il condizionale passato anche nell’it. ant.: disse che verrebbe, ma disse che sarebbe venuto se l’avesse saputo. 81   Cfr. anche: «Noi abbiamo discorso di sopra gli eπetti che facevano le controversie intra il popolo e il senato» (Ds I, vi, 2, p. 41); lo stesso reggente introduce un’interrogativa indiretta: «Ma per tornare a discorrere quali uomini siano in una republica più nocivi» (Ds I, v, 15, p. 39). Sui verbi pronominali v. Jezek (2003: 121-142).

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nimico» (Ds III, xi, 13, p. 623). Campeggiare ‘assediare’ e somigliare conoscono l’uso transitivo: «avendosi a eleggere tre commesarii per campeggiare Pisa» (Ds III, xvi, 15, p. 651), «somigliare Romolo, e non Numa» (Ds I, xix, 12, p. 121). Notevole è meritricare ‘frequentare meretrici’: «non si mangiava, non si dormiva, non si meritricava» (Ds III, xxxvi, 5, p. 745). Da segnalare infine la presenza del quasi modale restare seguito da participio passato: «restando i tuoi soldati in quelle battaglie vinti» (Ds III, xxxvii, 10, p. 750), «Restarono adunque (come di sopra si dice) ingannati i Veienti e gli Toscani» (Ds II, xxv, 16, p. 481). Più di frequente restare è seguito da un aggettivo o da un nomen agentis: «restarono perditori della zuπa» (Ds III, xiv, 19, p. 643); 82 «e così restato Marc’Antonio ignudo di favori» (Ds I, lii, 13, p. 248), «Allegane gli Ateniesi, che, mentre che feciono la guerra commoda alla casa loro, restarono superiori» (Ds II, xii, 8, p. 376), «restava per tutto debole a potere resistere a una eruzione che quelli di dentro avessono fatta» (Ds II, xxxii, 10, p. 515), «E così coloro che perdevano nella guerra, restarono superiori nella pace» (Ds III, xi, 10, p. 622), «restava prigione de’ Franciosi che erano vittoriosi» (Ds III, xviii, 7, p. 657). Si veda infine il verbo restare reggente un’infinitiva: «e restandogli a rompere solo quella che sboccava in piazza» (Ds III, xiv, 8, p. 639), «restando operare alcuna i tuoi soldati in quelle battaglie vinti» (Ds III, xxxvii, 9, p. 750). 83  



4. 3. 3. Le polirematiche e le perifrasi verbali Le polirematiche verbali “V + (Prep) + N” si presentano in varie forme; ne diamo qui alcuni esempi; avere e fare sono i verbi più usati. Rispetto ai verbi semplici di significato uguale o analogo, le polirematiche, anche in virtù dei tratti [+ continuativo] [+ perfettivo], possiedono un profilo pragmatico più marcato: avere opinione: «Alcuni altri [...] hanno opinione che siano di sei ragioni governi» (Ds I, ii, 11, p. 19); chiudere la via: «chiusero la via [...] di potere convenire ne’ loro governi» (Ds I, vi, 8, p. 42); fare alterazione: «E di più vi è che [...] possono con maggiore potenza e maggiore moto fare alterazione» (Ds I, v, 19, p. 40); fare disegno: «rade volte accaderà o non mai che uno possa fare disegno di acquistarla» (Ds I, vi, 31, p. 48); farsi grado ‘procurarsi un merito’: «Gli uomini grandi si fanno grado delle cose sempre e in ogni loro azione» (Ds I, li, 2. p. 243), «ma lo feciono in modo che si fecero grado di quello a che la necessità gli constringeva» (Ds I, li,4, p. 243); perdere la giornata ‘perdere la battaglia’: «La qual cosa [...] dette tanto terrore ai Franciosi che perderono la giornata» (Ds III, xiv, 15, p. 641); pigliare piede: «non arebbe mai poi, o con grandissima di√cultà, potuto pigliare piede» (Ds I, xix, 14, p. 122), cfr. «Da questo piglino esemplo tutti i principi» (Ds I, xix, 13, p. 121); 82   Cfr. «Non si restava in Firenze di lacerare e biasimare detto Imbalt, né si restò mai, infino a tanto che si conobbe che, se Beumonte fosse stato simile a Imbalt, si sarebbe avuto Pisa come Arezzo» (Ds I, xxxviii, p. 193). 83   Restare ‘arrestare’ è usato assolutamente: «se ne tornò indietro sanza cosa, causando essere restato da quegli che non avevano osservate le convenzioni erano fra loro» (Ds III, lxiii, 12, p. 770). Cfr. l’uso di rimanere: «Non pertanto per lui non rimase, e le sue [scil. di Savonarola] prediche sono piene di accuse de’ savi del mondo» (Ds III, xxx, 20, p. 711: ‘da parte sua non fu trascurato nulla’).

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saper male ‘non piacere’: «male gli sapeva che si armassero sanza loro» (Ds I, xxxviii, 5, p. 187). “Fare, farsi + predicato aggettivale” ha il sign. di diventare: «non potendo questi favori farsi segreti a un tratto» (Ds I, lii, 10, p. 247), «cominciarono quelle città [...] a farsi libere» (Ds II, xix, 12, p. 435), «intendendo i capitani delle genti fiorentine, come il campo viniziano partiva, si fecero, in su questa nuova, gagliardi» (Ds III, xviii, 19, p. 661). Le polirematiche “V + N” sono presenti anche in altre scritture machiavelliane: «Harai advertenza di non fare intendere la cagione ad messere Andrea perché vengha qui» (Lettere v, 20, p. 21), «Ha dato el re di Francia commissione a M.re di Cisteron [...] che viciti Ferrara [...], e prometta loro per parte loro maria et montes, e tengali bene disposti (Lettere n. 112, p. 225), «le quali cose hanno dato causa a’ nostri soldati di seguirli» (Legazioni, in LCSG iv, 22, p. 22). Polirematiche verbali del tipo “V+Prep+N”: applicare al publico ‘destinare all’erario’: «i danari che si trassono de’ beni de’ Veienti che si venderono, esso gli applicò al publico» (Ds III, xxiii, 6, p. 683); cadere nello animo ‘venire in mente, pensare’: «che gli caggia mai nello animo usare mai quella autorità» (Ds I, xviii, 27, p. 117); darsi a discrezione di qlcu. ‘arrendersi senza condizioni’: «[i Pisani] si sarebbero dati a discrezione de’ Fiorentini» (Ds III, xvi, 16, p. 651; «gli costrinsono [...] a darsi a discrezione» (Ds III, xxvi, 6, p. 693); essere in termine ‘arrivare a un punto tale’: «viene a essere in termine che volerlo urtare è pericolosissimo» (Ds I, xlvii, 10, p. 224); mancare di qlcu.: «come la [scil. repubica] manca di loro» (Ds I, xvii, 15, p. 111); pigliare per mira ‘per modello’: «pigliare per sua mira Filippo di Macedonia» (Ds I, xxvii, 2, p. 139); recarsi in dispetto ‘avere in odio’: «l’universale cominciò a recarselo in dispetto» (Ds I, xxxix, 6, p. 195); venire a giornata ‘venire a battaglia’: «Caio Sulpizio [...] venendo a giornata con i Franciosi» (Ds III, xiv, 13, p. 640); venire allo incontro ‘scontrarsi’: «vengono allo incontro d’uno nuovo nimico» (Ds III, xxxvii, 7, p. 749). 84  

L’uso di perifrasi verbali con valore temporale e/o modale non è frequente nei Discorsi; segnaliamo il tipo venire ad essere: «e così verrebbero ad essere subita preda de’ loro inimici» (Ds I, i, 4, p. 9); il futuro perifrastico “essere per + infinito” si ritrova soprattutto negli scritti minori: «sperando che lui, come praticho et prudente et aπectionato cittadino, sia per pensare ad tucto quello sia el bisogno della sua patria» (Legazioni, in LCSG iv, 17, p. 18), «minacciando di non essere per abbandonare e’ pisani» (Legazioni, in LCSG iv, 276, p. 257); 85 ciò vale anche per “venire + gerundio”: «Verrassi intractenendo questa cosa in quello modo ci parrà, per trarne quello fructo che si può» (Legazioni, in LCSG iv, 276, p. 258).  

84  Cfr. anche venire in considerazione: «Ècci venuto in considerazione che sarebbe bene in questi tempi tenere in qualche parte guardata la Rocha di Caprigliola» (Lettere v, 19, p. 20). Riguarda la formazione delle parole il sintagma disalloggiare i nemici (Ds III, xviii, 19, p. 661). 85   Il tipo “essere per + infinito” si ritrova nelle Operette leopardiane (Tesi 2009: 137).

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4. 3. 4. L’uso dei tempi Per esprimere il futuro nel passato si ricorre al condizionale presente: «dicevano che quello anno si espugnerebbe la città de’ Veienti» (Ds I, xiii, 4, p. 90). A diπerenza dei tempi deittici, rapportati soltanto al tempo dell’enunciazione, i tempi deittico-anaforici hanno un ancoraggio temporale; il trapassato remoto esprime il compimento di un’azione nel passato in relazione con un tempo deittico: «ma come prima ei furano morti i Tarquini, e che ai nobili fu la paura fuggita, cominciarono a sputare contro alla plebe quel veleno che si avevano tenuto nel petto» (Ds I, iii, 4, p. 31), «Poi che Roma ebbe cacciati i re, mancò di quelli pericoli i quali di sopra sono detti che la portava» (Ds I, xx, 2, p. 123), «In confirmazione di questo se ne può addurre un altro notabile esemplo, seguíto in Capova dapoi che Annibale ebbe rotti i Romani a Canne» (Ds I, xlvii, 12, p. 227), «Andò dunque costui con una moltitudine inordinata e incomposta a trovare Annibale, e non gli fu prima giunto all’incontro, che fu con tutti quegli che lo seguitarono rotto e morto» (Ds I, liii, 19, p. 254). 86 Vediamo il futuro semplice correlato con il futuro anteriore: «E chi discorrerà i popoli che ne’ nostri tempi sono stati tenuti pieni di ruberie e di simili peccati, vedrà che sarà al tutto nato da quegli che gli governavano che erano di simile natura» (Ds III, xxix, 3, p. 704), «lo tracterai appunto come sarà suto tractato l’huomo nostro» (Legazioni, in LCSG IV, 358, p. 337). Nel periodo ipotetico l’ancoraggio deittico-temporale è reso per lo più con la coppia condizionale passato - congiuntivo trapassato: «sopra il quale ciascuno consideri quanto male saria risultato alla republica romana se tumultuariamente ei fusse stato morto» (Ds I, vii, 10, p. 52). Il congiuntivo imperfetto è usato talvolta con valore di condizionale: «la quale cosa non osservata, tornassi sopra il capo delle sua famiglia e della sua stirpe» (Ds I, xv, 4, p. 98), ‘tornerebbe, ricadrebbe’; «a meno che non si tratti di un congiuntivo ottativo: ‘il quale giuramento, se non osservato, che ricadesse’, ecc.» (Bausi, ivi).  

4. 3. 5. Modalità ed evidenzialità Sui significati deontici ed epistemici dei verbi modali si sono fornite, nel corso dell’analisi, alcune indicazioni. 87 Sarebbe utile definire il rapporto tra queste due classi di significati, anche con il fine di seguire il progressivo aπermarsi del significato epistemico, che ha avuto un lungo periodo d’incubazione, prima di entrare nella lingua moderna. 88 Un tempo si definiva «fraseologico, o meglio pleonastico, l’uso di dovere» in determinati cotesti (Ageno 1964: 438): è un’aπermazione superata dal progresso degli studi, che hanno indagato anche altri fenomeni, come il significato epistemico-inferenziale del futuro e la funzione mirativa del condizionale. 89  





86   Cfr. S. Telve, Sul trapassato remoto. Valori sintattici, aspettuali e semantici del tipo “fui stato” e “fui stato amato” in italiano antico e moderno, in “Lingua e stile” xl, 2, 2005: 263-294. 87   In 4. 2. 1. si sono ricordati gli avverbi modali certamente, certo, al certo. 88  I modali, e in particolare dovere, hanno sempre avuto un significato epistemico (Ageno 1964: 438). Sulla «relazione tra significati deontici e significati epistemici dei modali» e sulla «relazione tra significati temporali ed epistemici del futuro», v. Pietrandrea (2001-2002: 192) e (2005). La modalità è la relazione che si stabilisce tra una proposizione e un’istanza di validazione; mediante la modalità l’enunciatore attribuisce al contenuto proposizionale del proprio enunciato un valore referenziale. 89   Per le “accezioni modali” del futuro e per il “futuro epistemico” v. M. Bertinetto, in GGIC, ii (20012: 115-121).

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Connessa alla nozione di modalità epistemica, è la nozione di evidenzialità, che aiuta a scoprire per quali vie e da quali fonti il locutore ha conosciuto i contenuti compresi negli enunciati da lui stesso prodotti. In genere, si distingue tra testimonianze dirette e indirette (fornite da altri o ricavate da fonti varie); vi sono naturalmente, situazioni d’incertezza e casi in cui più fonti si combinano tra loro per fornire una testimonianza. Considerando l’origine dell’informazione, si distinguono tre tipi di evidenzialità: esperenziale (un evento è colto attraverso i sensi), inferenziale (l’informazione è ottenuta per inferenza da una precedente informazione), riportata (l’origine dell’informazione risiede in altri attanti presenti nell’orizzonte comunicativo). Il primo e il secondo tipo di evidenzialità si esprimono per lo più mediante i verbi sembrare, parere, apparire; per il terzo tipo si ricorre a introduttori discorsivi come a quanto pare, (stando) a quanto si dice, e alla formula X / si dice che. Fondamentale è la distinzione tra lingue, che grammaticalizzano l’evidenzialità (per es. con l’uso di modi verbali), e lingue, che si limitano a lessicalizzarla (per es. con i verbi e i modalizzatori ora cit.). I due domini cognitivi della modalità e dell’evidenzialità si sovrappongono nella modalità epistemica (Colella, in SIA 2012: 62-64). L’evidenzialità esperienzale è generalmente definita di tipo diretto, mentre quella inferenziale e quella riportata sono di tipo indiretto. L’evidenzialità è considerata per lo più una categoria semantica indipendente dalla modalità epistemica. Tali percorsi sono utili per esplorare un’opera, ricca di argomentazioni, di prese di posizioni, di dibattiti e di testimonianze storiche, come sono i Discorsi, il cui carattere aperto, privo di un’organizzazione attenta dei contenuti, dà luogo a diverse interpretazioni. Dopo una citazione liviana (viii, 4), che termina con la frase Facile erit, explicatis consiliis, accomodare rebus verba, M. argomenta: «Sono sanza dubbio queste parole verissime, e debbono essere da ogni principe e da ogni republica gustate [= rettamente intese], perché, nella ambiguità e nella incertitudine di quello che altri voglia fare, non si sanno accomodare le parole; ma, fermo una volta l’animo e diliberato quello sia da esequire, è facil cosa trovarvi le parole» (Ds II, xv, 6, p. 391). Si aπerma con forza ciò che si deve fare per raggiungere un determinato scopo. La modalità deontica, resa con dovere, ricorre più volte nel trattato: «Ma dato, come il più delle volte debbe essere, che il luogo che tu avessi preso con il campo fosse più eminente che gli altri all’intorno, e che gli argini fossono buoni e sicuri [...] si verrà in questo caso a quegli modi che [= a cui] anticamente si veniva» (Ds II, xvii, 23, p. 413), «[scil. il giudicio degli uomini] non doverrebbe corrompersi ne’ vecchi nel giudicare i tempi della gioventù e vecchiezza loro» (Ds II, Proemio, 18, p. 300). Come es. di modalità buletica, cfr.: «[scil. i principi de’ nostri tempi] doverrebbono volere udire come si sono governati coloro che hanno avuto a giudicare anticamente simili casi» (Ds III, xxvii, 12, p. 697); con il verbo volere si esprime il desiderio che qualcosa avvenga; meno convincente appare l’ipotesi che si tratti di una modalità teleologica, per la quale sarebbe dichiarato ciò che si dovrebbe fare per raggiungere un determinato fine. Conseguente al carattere argomentativo del testo è il ricorrere di dovere con valore epistemico-evidenziale: «E debbesi stimare che ciascuno paghi la vera somma» (Ds I, lv, 13, p. 264), «si debbe stimare che tanto più vi errino coloro, che per minore virtù si lasceranno più tirare dalla voglia e dalla passione loro» (Ds II, xxxi, 10, p. 512), «Perché se lo inusitato inimico allo esercito vecchio dà terrore, tanto maggiormente lo debbe dare ogni inimico a uno esercito nuovo» (Ds III, xxxviii, 6, p. 756). Questo dovere ha un valore propriamente inferenziale, che si manifesta alla conclusione di un ragionamento. La stessa funzione è svolta da potere: «Donde si può conietturare quanta bontà e quanta religione sia ancora in quegli uomini» (Ds I, lv, 14, p. 264), «Talché, se si avesse a disputare a quale principe Roma fusse più obligata, o a Romolo o a Numa, credo che più tosto Numa otterrebbe il primo grado, perché dove è religione, facilmente si possono introdurre l’armi, e dove sono l’armi, e non religione, con di√cultà si può introdurre quella» (Ds I, xi, 9, p. 78), «E si può fare questa conclusione: che

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dove la materia non è corrotta, i tumulti e altri scandoli non nuocono, dove la è corrotta, le leggi bene ordinate non giovano, se già le non sono mosse» (Ds I, xvii, 13, p. 110); cfr. anche ess. provenienti dal genere epistolografico: «E perciò vi si può fare questa conclusione: che di qua voi non aspettiate né genti né danari» (Lettere, in Opere, ed. Vivanti, II, p. 96), «Questo è in sustanza quello che vi si può scrivere delle cose di qua, né credo per chi vi ha a scrivere el vero vi si possa scrivere altro» (Lettere, ivi), «Donde si può conietturare quanta bontà e quanta religione sia ancora in quegli uomini» (Ds I, lv, 14, p. 264). 90  

4. 3. 6. Il passivo La diatesi passiva, che ha una funzione essenzialmente tematizzante, fa del paziente il soggetto grammaticale e dell’agente il complemento preposizionale. In «E’ sono stati dannati da alcuno scrittore quelli Romani che trovarono in quella città il modo di creare il dittatore» (Ds I, xxxiv, 2, p. 167) l’ordine marcato degli elementi dipende dalla tematizzazione del verbo passivo e dal fatto che una relativa estesa è apposta al soggetto grammaticale: un pronome espletivo (o neutro o impersonale) avvia il periodo e il soggetto è posposto al verbo. La posposizione è ricorrente (anche nell’it. mod.) e avvicina i passivi ai verbi intransitivi con ausiliare essere, usati spesso con il soggetto in posizione postverbale, anche in posizioni non marcate: «essendo occorso quello anno peste e fame, e venuto certi prodigii» (Ds I, xiii, 3, p. 89), «a quanta corruzione erano venuti quelli re» Ds I, 17.1, «Ma se fossero venuti altri tempi» (Ds III, ix, 3). 91 Nella prosa machiavelliana la costruzione passiva serve sovente a mantenere a tema un personaggio, attribuendogli un rilievo che talvolta si prolunga nel testo: «Non cedé papa Leone alle voglie del re, ma fu persuaso da quegli che lo consigliavano (secondo si disse) si stesse neutrale» (Ds II, xxii, 8, p. 450), dove l’inciso esprime un’evidenzialità indiretta. Nel cap. VIII del I libro si parla a lungo di Mallio Capitolino, la cui presenza è attivata da una costruzione passiva: «Fu domandato Mallio che dovesse dire appresso a chi fusse questo tesoro che diceva, perché ei n’era così desideroso il senato d’intenderlo come la plebe» (Ds I, viii, 7, p. 57). La costruzione passiva è presente anche nelle proposizioni avverbiali: «Poi che Vespasiano, sendo in Giudea, fu dichiarato dal suo esercito imperadore, Antonio Primo, che si trovava con un altro esercito in Illiria, prese le parti sue e ne venne in Italia contro a Vitelli» (Ds I, xxix, 10, p. 147). Il prolungamento del tema provoca talvolta il tema sospeso: «Al popolo di Firenze non pare essere ignorante né rozo: nondimeno da frate Savonerola fu persuaso che parlava con Dio» (Ds I, xii, 24, p. 82: ‘S. lo assicurò che lui stesso parlava con Dio’), «Però che a un popolo licenzioso e tumultuario gli può da uno uomo buono essere parlato, e facilmente può essere ridotto alla via buona» (Ds I, lviii, 35, p. 285: il dativo iniziale, ripreso da un clitico, è seguito da due infinitive al passivo, costituite da due verbi, parlare e ridurre, che hanno una struttura argomentale diversa). La costruzione passiva permette di articolare periodi complessi e con reggenze a lunga gittata; si veda la parentetica che separa il soggetto, riferito al tema gli Spagnuoli, dal passivo:  

90   Il valore è dinamico o circostanziale, nel primo esempio, epistemico-inferenziale, nel secondo. Potere, infatti, ha sovente valore circostanziale: «In confirmazione di questo se ne può addurre un altro notabile esemplo, seguíto in Capova dapoi che Annibale ebbe rotti i Romani a Canne» (Ds I, xlvii, 12, p. 227), «E che gli uomini invasino [= si turbino] e si confondino, non lo può meglio dimostrare Tito Livio» (Ds III, vi, 120, p. 580), «Però che a un popolo licenzioso e tumultuario gli può da uno uomo buono essere parlato, e facilmente può essere ridotto alla via buona» (Ds I, lviii, 35, p. 285). 91   I passivi e gli intransitivi con ausiliare essere fanno parte della sottoclasse degli inaccusativi.

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la prosa del cinquecento Il che [scil. l’essere forzato a uscire dalle fortezze] intervenne agli Spagnuoli nella giornata di Ravenna; i quali, essendosi muniti tra’l fiume del Ronco e uno argine, per non lo avere tirato tanto alto che bastasse, e per avere i Franciosi un poco il vantaggio del terreno, furono costretti dalle artiglierie uscire dalle fortezze loro e venire alla zuπa (Ds II, xvii, 22, p. 412).

L’agente le artiglierie è un N [– umano], anche se la contiguità con i Franciosi che manovrano le artiglierie è immediatamente percepibile. Meno frequente è un N [– umano] quale soggetto di un passivo; nell’es. che segue si tratta di un N che riprende il verbo del periodo precedente (ripresa parziale): «[scil. il re] dette tempo un mese alla città di ratificarlo [scil. l’accordo]. Fu diπerita tale ratificazione da chi per poca prudenza favoriva le cose di Lodovico» (Ds II, xv, 20, p. 395), dove è evidente che la scelta della costruzione passiva dipende dall’intento di legare tra loro due periodi contigui. La continuità tematica e l’impersonalizzazione sono le due funzioni proprie del passivo (Telve 2000a: 187), che hanno varie applicazioni nei Ds e nei LCSG. S’incontrano casi di costruzioni passive prive di agente, mentre non risulta l’uso di venire e andare come ausiliari; si noti che il verbo rimanere appare con una funzione di quasi-modale: «i buoni, per difetto di tale ordine, ne rimasero al tutto esclusi» (Ds, I, xviii, 18, p. 115). 92 Ritorna una costruzione nota all’italiano antico, «il tipo di frase in cui un predicato singolare è seguito (più raramente preceduto) da un soggetto plurale» (Ageno 1964: 159): «De’ quali editti, da prima, per coloro contro a chi ei venivano si fu fatto beπe» (Ds I, lvii, 3, p. 274: si noti la distanza del verbo dal suo complemento). Nella costruzione con si passivante il verbo appare sovente all’inizio del periodo, segue il soggetto posposto: «Aggiugnesi alla soprascritta un’altra di√cultà, la quale è che lo stato che diventa libero si fa partigiani inimici, e non partigiani amici» (Ds I, xvi, 6, 101); in un tale cotesto il verbo ha una funzione di allacciamento con quanto precede. Anche il si passivante aiuta a costruire periodi complessi: «Sopra il quale luogo Tito Livio dice essersi per questo conosciuto come la republica romana crebbe più per la virtù de’ capitani che de’ soldati» (Ds III, xiii, 3, p. 633), dove appare un verbum dicendi che regge un’infinitiva passiva da cui dipende una subordinata con verbo finito.  

L’uso del passivo appare in scritti di diverso carattere e in diversi cotesti: «furno ancora loro nel medesimo modo strangolati» (Descrizione, in Opere, ii, p. 78), «siamo advisati le cose del signore Bartolomeo d’Alviano non esser sì calde come l’altro giorno» (Legazioni, in LCSG iv, 8, p. 11), «È ci è suto facto intendere come un Ciacho Ciachi che habita a Ripalbello [...] ha sotto colore di frodi tolto ad un factore del Signore di Piombino una cavalla» (Legazioni, in LCSG iv, 11, p. 13), «Questa mattina si sono ricevute due tua lettere» (Legazioni, in LCSG iv, 19, p. 19); cfr. anche un es. di un altro scrivente: «I ducati x di camera s’è ordinato si paghino» (Piero di Francesco del Nero a N. M. 6 ott. 1506, Lettere n. 128, p. 256).

L’agente è introdotto di norma dalla preposizione da, ma non raramente s’incontra per; oltre all’es. cit. «per coloro [...] si fu fatto beπe», si veda: «Cadesi ancora in questo inconveniente per coloro che [...] disegnano di tenere i luoghi di√cili» (Ds I, xxiii, 7, p. 129). Talvolta la funzione di agente si annulla (deagentivizzazione), come nel passo che segue, dove avviene il passaggio dall’agente espresso al si im92   L’uso di rimanere come ausiliare nella costruzione passiva cambia la prospettiva focale del passivo, assumendo a punto di vista lo stato del soggetto grammaticale: gli parve rimanere vituperato. Sul passivo v. Bertuccelli Papi (1980), N. Grandi, “Passiva, costruzione”, in EncItaliano, ii (2011: 1081-1082).

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personale: «Il quale partito [scil. la consegna di Pisa a Firenze] fu da’ Fiorentini al tutto rifiutato, in modo che si seguì nello andarvi a campo e partissene con vergogna» (Ds I, xxxviii, 15, p. 191: ‘si proseguì nello assedio della città e ci si ritirò con ignominia’). Nei testi cancellereschi appare non di rado la costruzione con si passivante, con agente espresso: «Dal Capitano di Livorno s’intende come in quello luogo è mancamento d’imbracciature et di lancie» (Legazioni, in LCSG iv, 357, p. 336); l’agente non espresso può essere richiamato successivamente: «Questa mattina ti si scripse a llungho quanto volavamo operassi acciò che cotesto luogo stessi securo et non vi si portassi periculo di fraude» (Legazioni, in LCSG iv, 4, p. 8); una perifrasi passivante è retta da un sintagma agentivo: «e dal canto nostro non è per mancharsi di quello che è possibile» (Legazioni, in LCSG iv, 276, p. 258).

In determinati cotesti gli introduttori e i marcatori (2.6.), da una parte, il passivo (3.2.) dall’altra, perseguono un fine comune: la messa in rilievo di alcuni costituenti della frase. Il passivo garantisce la progressione tematica. In una prosa discorsiva e volta all’argomentazione, più attenta all’e√cacia semantica che alla regolarità sintattica, la focalizzazione di determinate componenti è un obiettivo di primaria importanza. 4. 3. 7. La subordinazione Vi sono quattro modi principali per rendere complessa una frase: i) la giustapposizione, ii) la coordinazione, iii) la correlazione, iv) la subordinazione; 93 quest’ultima consiste nell’instaurare una relazione gerarchica tra una proposizione subordinante e una proposizione subordinata; si tratta di una relazione ricorsiva, capace d’imporre, al tempo stesso, una gerarchizzazione modale e temporale. La complessità, le ramificazioni, i cambiamenti di progettazione che caratterizzano la sintassi di M. fanno riflettere sulla varietà di modi e di forme in cui possono realizzarsi i principi di base della subordinazione. Escludendo per ora le proposizioni avverbiali e i costrutti assoluti, fattori di primo piano della strutturazione complessa attuata dal nostro, accenniamo a un confronto tra la subordinazione e la coordinazione. Mentre la giustapposizione e la coordinazione possono avvenire anche a livello di sintagmi, la subordinazione avviene soltanto a livello di proposizioni. La commutazione di una completiva con un sintagma nominale non è sempre possibile. 94 Seguiremo quest’ordine: 4.3.8. La coordinazione. 4.3.9. Caratteri e tipologie. 4.4. La subordinazione. Si analizzeranno i rapporti tra coordinazione e subordinazione e si evidenzieranno i criteri in base ai quali si può suddividere il campo della subordinazione. 95  





4. 3. 8. La coordinazione L’impegno argomentativo e l’influsso di modelli latini fanno prevalere i rapporti di subordinazione su quelli di coordinazione. Tra questi due domini la linea di confine non appare sempre ben delineata a causa della presenza, in una stessa parte del testo, di modi colloquiali e di modi letterari e latineggianti. 93   I caratteri della subordinazione sono presentati, con diverse prospettive, in: Serianni (1988: 460468), GGIC, II (20012: 415-569), Prandi (2006: 149-155); appare utile un confronto con la subordinazione in francese: Muller (1996a, 1996b), Verjans (2013). 94   Il saggio di M. Piot, in (Muller 1996c: 35-42) esamina i rapporti intercorrenti tra coordinazione e subordinazione. 95   Anche con riferimento alle proposizioni relative (4. 5.) e alle proposizioni avverbiali (4. 6.).

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La coordinazione è un procedimento sequenziale, non gerarchizzante (Riegel et Al., 20145: 874). Si produce quando due unità dello stesso livello, svolgenti la stessa funzione sintattica, sono connesse mediante una congiunzione. La coordinazione: i) si attua tra elementi subfrasali molto più spesso che tra frasi; ii) è sostenuta dalla costanza del soggetto grammaticale e del tema; ii) è ostacolata, quando intervengono costituenti grammaticalmente eterogenei; iii) è sostenuta dall’esistenza di un tema comune, che è in grado di riparare le eventuali incongruenze grammaticali; iv) può interpretare i costituenti coordinati come soggetti a una successione temporale (interpretazione iconica). 96 Al livello subfrasale la cordinazione copulativa è una relazione simmetrica; invece, al livello frasale, è spesso asimmetrica: ciò dipende dal fatto che, soprattutto nei testi narrativi, tra le frasi intervengono impliciti rapporti temporali o causali. Negli ultimi decenni si è accentuata la tendenza a ridefinire il concetto di “coordinazione”; partendo dal riconoscimento che la congiunzione e può essere accettata per rappresentare ogni tipo di relazione (può introdurre anche degli incisi) e che tra coordinazione e subordinazione, non esiste una frontiera ma un continuum (Pop 2000: 42), il quale è considerato su tre livelli: i) cognitivo (considerando il funzionamento della mente), ii) metateorico (come concetto regolatore, che permette d’interpretare nella lingua dei fatti che si osservano nel discorso); iii) descrittivo (come presentazione e descrizione ordinata dei fenomeni in questione). Il continuismo sintattico ha un corrispettivo nel campo della morfologia, dove si rileva un’incertezza di confini tra il pronome relativo e la congiunzione subordinante, e si constata la “porosità” di categorie formali, quali i pronomi, alcuni avverbi, le congiunzioni e le preposizioni (Bertin et Al. 2013: 5).  

Si potrebbe pensare che i capitoli dei Discorsi più aperti alla narrazione di eventi, come sono quelli riguardanti la prima storia di Roma (I, i-vi), lascino spazio alla coordinazione delle frasi e dei periodi, che è il modo, per così dire, naturale, di esporre ordinatamente gli eventi storici nella loro successione. Ma né in questa né in altre occasioni (per es. nell’anomalo cap. xix del Principe, De contemptu et odio fugiendo, dove sono esposte le vicende di ben dieci imperatori romani, da Marco Aurelio a Massimino il Trace), la coordinazione appare frequentemente; è presente in modo sporadico: non appartiene alla strumentazione descrittiva e narrativa di M., che vi ricorre soltanto in alcuni passaggi argomentativi, dove la contrapposizione dilemmatica si fonda su strutture correlative non ... ma, o oppositive o ... o (vedi 2.1) e su parallelismi (anche a lunga gittata). 97 Gli eπetti impressivi non sono a√dati alla brevità delle strutture sintattiche e agli eπetti di dinamicità che ne derivano, ma piuttosto alla presentazione di personaggi e di eventi: «infiniti esempli, come Moises, Ligurgo, Solone» (Ds I, ix, 14, p. 65), «vedrà ancora [...] a quante necessitadi le leggi fatte da Romolo, Numma e gli altri la [scil. Roma] costringessono, talmente che la fertilità del sito, la commodità del mare, le spesse vittorie, la grandezza dello imperio, non la potero per molti secoli corrompere» (Ds, I, i, 22, p. 16). Il polisindeto e l’enumerazione danno prestigio alle citazioni e alle memorie storiche.  

96   Per il rapporto tra coordinazione e subordinazione è utile un confronto con la situazione dell’it. ant.: v. Consales in SIA (2012: 99-119); in particolare sulla coordinazione copulativa e avversativa, v. P. Molinelli, in GIA (2010, I: 246-263). 97   Machiavelli ricorre a frequenti parallelismi tra sintagmi: «Dico adunque che tutti i detti modi sono pestiferi, per la brevità della vita che è ne’ tre buoni e per la malignità che è ne’ tre rei» (Ds I, ii, 26, p. 25) e tra predicati verbali: «Perché se Roma non sortì la prima fortuna, sortì la seconda» (Ds I, ii, 31, p. 27), «Però si dice che la fame e la povertà fa gli uomini industriosi e le leggi gli fanno buoni» (Ds I, iii, 6, p. 31). Altri mezzi di rinforzo discorsivo sono la ricorrenza parziale e la gradatio: «dico come il popolo, quando ei comincia a dare uno grado a uno suo cittadino fondandosi sopra quelle tre cagioni soprascritte, non si fonda male; ma poi, quando gli assai esempli de’ buoni portamenti d’uno lo fanno più noto, si fonda meglio» (Ds III, xxxiv, 24, p. 736).

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4. 3. 9. Caratteri e tipologie Tra le subordinate si distinguono quelle proposizioni che possono costituire un argomento del verbo: le soggettive e le oggettive (insieme formano la classe delle “congiuntive pure”), le interrogative indirette (o percontative) e le relative sostantive. Tutte queste proposizioni, dette completive, hanno come funzione privilegiata (prototipica) quella di saturare la funzione argomentale dell’oggetto e del soggetto, ma possono assumere anche altre funzioni; sono equivalenti paradigmatici del gruppo nominale, con il quale, in determinate condizioni, possono scambiarsi (Verjans 2013: 61-62). I caratteri della scrittura machiavelliana suggeriscono di osservare la sintassi del periodo con un’ottica diversa da quella tradizionale, chiedendoci, tra l’altro, quali tipi di frasi possono sostituire (in quali condizioni e in quali cotesti) i costituenti di frase: il soggetto, l’oggetto, l’attributo, i complementi determinativo e circostanziale. A tal fine si dovrebbero studiare i modi di questo procedimento sostitutivo, le categorie di vocaboli capaci di attuarlo, le variazioni riguardanti i modi verbali e i mutamenti topologici che intervengono nel processo medesimo. 98  

La semantica controlla il meccanismo sintattico della subordinazione e spiega le operazioni compatibili con la sua realizzazione; alcuni verbi reggono la completiva come un sintagma complemento (reggenza forte), mentre altri verbi l’integrano solo parzialmente: credere è un reggente forte in credo nella sua politica, vale a dire ‘accordo la mia fiducia’; è invece un reggente debole in Mario è uscito, credo, dove si esprime una semplice opinione. Lo stesso fenomeno riguarda un verbo come pensare, che nei passaggi colloquiali più ricorrenti, perde il suo significato di base, diventando il semplice supporto della modalità; un’analoga decadenza semantica riguarda anche vedere (v. percettivo e cognitivo): vedo la città / vedo che sei allegro oggi. Questa subduzione ‘perdita del significato pieno dei verbi’ è un fenomeno che è studiato soprattutto nel parlato dei giorni nostri, ma che meriterebbe di certo un’analisi estesa ai testi dei secoli scorsi. L’analisi potrà partire dal confronto tra i costituenti di coppie del tipo: credo che la storia c’insegni molte cose / Mario è uscito, credo; Penso che il problema sia stato risolto / Mario verrà alle sette, penso. Mediante una classificazione semantica dei verbi reggenti, si potranno individuare i sèmi che permettono o impediscono la costruzione completiva (Boone 1996: 50, 51).

Le subordinate argomentali comprendono le completive, che sono argomenti dei verbi, suddivise in: soggettive (di forma esplicita/implicita), oggettive (di forma esplicita/implicita) e interrogative indirette. 99 La subordinazione del passato e quella moderna presentano alcune diπerenze riguardanti la costruzione dei periodi, la tipologia della reggenza e la scelta dei costrutti; ma le diπerenze tra le due fasi non sono di grande rilievo; dei mutamenti intervenuti nelle varie epoche non è sempre possibile fissare una cronologia precisa.  

98   Partendo da una visione d’insieme della subordinazione romanza, si passerà all’italiano (Dardano/Colella, in Dardano 2012: 36-68) e al francese (Muller 1996a, 1996c). Istruttivo il procedere dell’analisi di Gaatone (2013) riguardante: i) i rapporti tra subordinazione e dipendenza, ii) i marcatori di dipendenza, iii) le preposizioni, iv) la congiunzione di subordinazione que; v) la frase que P e la nominalizzazione della frase, vi) le congiunzioni e le locuzioni congiuntive di subordinazione, vii) il nominalizzatore ce que, viii) le diπerenze tra i subordinatori si e que, ix) i subordinatori de e que, x) le modalità d’incassamento della frase. Un quadro generale e riassuntivo della subordinazione è fornito da Delaveau (2001: 77 ss.). 99   Prandi (2006: 149 ss.) segue il seguente ordine espositivo: prop. oggettive, prop. interrogative indirette, prop. soggettive, frasi incidentali.

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la prosa del cinquecento 4. 4. La subordinazione 4. 4. 1. Le proposizioni soggettive

Sono esaminate di seguito le soggettive infinitive e le soggettive con verbo di modo finito. Nelle prime la coreferenzialità dei soggetti della sovraordinata e della subordinata è per lo più presente, nelle seconde manca. Entrambi i tipi dipendono da introduttori impersonali (basta, bisogna ecc.), da verbi costruiti con il si passivante, da costrutti copulativi (è necessario che, è sentenzia che). 100 La scelta tra i due tipi dipende talvolta dal semantismo dei verbi reggenti, dei quali alcuni accettano soltanto l’infinitiva, altri soltanto la soggettiva di modo finito; altri reggenti accettano i due tipi di subodinate (Serianni 1988: 476-477); tra le diverse fasi della nostra lingua si riscontrano diπerenze. Il complementatore è di norma che, più raramente come. Nei periodi che contengono infinitive soggettive coordinate tra loro o con altri elementi si verificano talvolta fenomeni di “disomogeneità sintattica”: «E a volergli fare per altre vie diventare buoni, sarebbe o crudelissima impresa, o al tutto impossibile» (Ds I, xviii, 30, p. 118), dove sono posti sullo stesso piano un SN e un SA. La congiunzione e è un elemento unificatore che cerca di superare dislivelli causati dall’accostamento di elementi eterogenei. Nell’it. di oggi possono avere una proposizione come soggetto: i) i verbi che constatano un fatto: accade, appare, avviene, risulta, sembra, succede; ii) i predicati copulativi: è bello, è giusto, è necessario, è ovvio ecc.; iii) i verbi impersonali basta, bisogna; iv) i verbi che rappresentano uno stato d’animo e hanno forma impersonale: mi duole, mi preoccupa, mi rallegra ecc. (Prandi 2006:153). Per quanto riguarda l’uso dei tempi e dei modi, l’omissione del che, i costrutti con l’infinito e con il participio, la sintassi delle soggettive e delle oggettive si corrispondono in gran parte. 101  



bastare: «Perché a un principe o a una republica che assalta una provincia, basta spegnere solo coloro che comandano» (Ds II, viii, 8, p. 352), «alla plebe romana non bastò assicurarsi de’ nobili» (Ds I, xxxvii, 6, p. 1789), «Dall’altro canto, Valerio potette procedere umanamente, come colui a cui bastava si osservassono le cose consuete osservarsi negli eserciti romani» (Ds III, xxii, 20, p. 678: si noti l’ellissi del che subordinante); dei tre ess. citati due hanno l’infinito e uno il congiuntivo; in altri autori si ritrova l’infinito con preposizione: «E questo tanto potrà forse bastare ad essersi detto del verbo» (Bembo, Prose III, xlix, p. 242); bisognare, essere bisogno: «bisogna nello ordinare la republica pensare alla parte più onorevole» (Ds I, vi, 36, p. 49), «Però è bisogno [...] trovare la materia disordinata dal tempo» (Ds III, viii, 18, p. 606); modo finito: «bisogna che i giudici siano assai» (Ds I, vii, 15, p. 73), «bisogna che sia più potente chi sforza che chi è sforzato» (Ds I, xl, 36, p. 208); 4 ess., 2 infinitive, 2 con il congiuntivo; conoscere: «Conoscesi pertanto essere vero modo quello che tennono i Romani» (Ds II, iii, 6, p. 325), «Questo essere vero si è conosciuto» (Ds II, xvii, 12, p. 409), «E conoscesi questi modi essere stati osservati infino che gli uscirono d’Italia» (Ds II, xxi, 3, p. 444); tutti gli ess. hanno l’infinitiva; 100   Per le “espressioni impersonali” e le “costruzioni copulari” dell’it. ant., v. Egerland, in GIA (2010: 859). Sui verbi copulativi dell’it. mod., v. Schwarze (2009: 118): essere è un verbo copulativo, come lo sono stare, diventare, rimanere, tornare, sembrare, parere, fare, risultare, e i riflessivi trovarsi e farsi; questi ultimi, sul piano semantico, hanno un solo partecipante, che è Tema e Soggetto; questo è un carattere in comune con gli intransitivi. 101   Nello studio delle completive non si ricorre agli stessi parametri. Gaatone (1996: 8) considera que uno strumento sintattico, non di subordinazione, ma d’incassamento: si tratterebbe quindi di un nominalizzatore che permette a una frase di occupare le stesse posizioni sintattiche di un SN (soggetto, oggetto, attributo ecc.).

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considerare: «Se e’ si considererà bene come procedono le cose umane, si vedrà molte volte nascere cose e venire accidenti a’ quali i cieli al tutto non hanno voluto che si provegga» (Ds II, xxix, 2, p. 496), «Considerasi ancora, per il soprascritto trattato, quanta diπerenzia è da uno esercito contento e che combatte per la gloria sua, a quello che è male disposto e che combatte per l’ambizione d’altrui» (Ds I, xliii, 2, p. 213: interrogativa indiretta); 2 ess. sono completive all’indicativo; cfr. anche: «E considerasi che possono ostare allo imperadore con forza o con arte» (Lettere, in Opere, ed. Vivanti, II, p. 126); credere: «si crede sempre che la [scil. la congiura] sia stata invenzione di quel principe» (Ds III, vi, 186, p. 595); completiva con il congiuntivo, ma cfr.: «credesi che non mancheranno di usare ogni arte et ogni industria per sturbarla» (Lettere, ivi); convenire: «convenne che nella città di Roma fusse defetto in questa legge» (Ds I, xxxvii, 7, p. 179), «conviene di necessità che il mondo si purghi in uno de’ tre modi» (Ds II, vi, 16, p. 344), «e conviene che sieno più tardi ad ogni diliberazione che quelli che abitono drento a uno medesimo cerchio» (Ds II, iv, 26, p. 334); 3 completive con il congiuntivo; dimostrare: «[Plutarco] dice che per confessione di quel popolo si dimostra quello avere riconosciute dalla fortuna tutte le sue vittorie» (Ds II, i, 3, p. 303), «Di quanto momento sia ne’ conflitti e nelle zuπe uno nuovo accidente che nasca per cosa che di nuovo si vegga o oda (relativa restrittiva), si dimostra in assai luoghi» (Ds III, xiv, 2, p. 637: interrog. indiretta); 1 con l’infinito, 1 con il congiuntivo; essere + aggettivo: «Era necessario pertanto [...] che, così come aveva nel processo del vivere suo fatto nuove leggi, l’avesse fatto nuovi ordini» (Ds I, xviii, 22, p. 115), «rade volte è che [scil. Livio] facci parlare ad alcuno romano, dove ei racconti della virtù, che non vi aggiunga la fortuna» (Ds II, i, 4, p. 304); 2 ess. con il congiuntivo; essere + SN: «Egli è sentenzia degli antichi scrittori come gli uomini sogliono a∫iggersi nel male e stuccarsi nel bene, e come dall’una e dall’altra di queste due passioni nascano i medesimi eπetti» (Ds I, xxxvii, 1 p. 177), «Ma la più cattiva parte che abbiano le repubbliche deboli è essere irresolute» (Ds I, xxxviii, 11 p. 189), «Il secondo notabile [...] è che veruna cosa è tanto atta a frenare una moltitudine concitata, quanto è la riverenzia di qualche uomo grave» (Ds I, liv, 2, p. 258), «Perché gli è u√cio d’uomo buono, quel bene che per la malignità de’ tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri (Ds II, Proemio, 25, p. 301), «E facil cosa è conoscere donde nasca ne’ popoli questa aπezione del vivere libero» (Ds II, ii, 9, p. 312), «Non è maraviglia adunque che gli antichi popoli con tanto odio perseguitassono i tiranni e amassono il vivere libero, e che il nome della libertà fusse tanto stimato da loro» (Ds II, ii, 20, p. 315), «rade volte è [...] che a tutti questi corpi non faccino correre una medesima fortuna» (Ds II, xvi, 34, p. 405), «E la ragione è [...] che l’artiglieria ha bisogno di essere guardata» (Ds II, xvii, 41, p. 418); abbiamo: 1 come + indicativo; 1 come + cong., 3 con l’ infinito, 2 che + indicativo; 2 che + cong.; cfr. anche «E di più vi è che [...] possono con maggiore potenza e maggiore moto fare alterazione» (Ds I, v, 19, p. 40); giudicare: «Giudicasi che a ogni modo e in ogni luogo la distribuzione fussi parca» (Ds II, vi, 3, p. 350), «Giudicasi che sanesi e luchesi concorrino a questa cosa, e ci mettino de’ loro danari; e se ne vede segni da non dubitarne» (Lettere, in Opere ed. Vivanti, II, p. 100); 2 ess. con il congiuntivo; intervenire: «Ma bene interviene che, nel travagliare, una republica, mancandole sempre consiglio e forze, diventa suddita d’uno stato propinquo che sia meglio ordinato di lei» (Ds I, ii, 25, p. 25), «E sempre interviene che, subito dopo la vittoria, lasciare lo esercito non vogliono» (Ds I, xxx, 10, p. 153), «mai non intervenne ch’eglino avessero due potentissime guerre in uno medesimo tempo» (Ds II, i, 9, p. 305); 1 es. con l’indicativo, 1 con il congiuntivo; mostrare: «Perché oltre alle altre ragioni allegate dove si mostra l’autorità tribunizia essere stata necessaria per la guardia della libertà, si può facilmente considerare il beneficio che fa nelle republiche l’autorità dello accusare» (Ds I, vi, 38, p. 49); 1 es. con l’infinito; nascere: «ne nacque che, non avendo paura quello se non di modi istrasordinarii, si cominciò a fare fautori che lo difendessono» (Ds I, vii, 12, p. 53), «di che nacque che la plebe, sbigottita di questa religione, creò i tribuni tutti nobili» (Ds I, xiii, 3, p. 90), «Nacque in quello tempo che i Sabini e i Volsci mossero guerra a’ Romani» (Ds I, xl, 23, p. 204); 3 ess. con indicativo;

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notare: «Donde si può notare che uno successore non di tanta virtù quanto il primo può mantenere uno stato per la virtù di colui che lo ha retto innanzi, e si può godere le sue fatiche» (Ds I, xix, 4, p. 119), «Notasi adunque per questo testo, in prima, essere nato in Roma questo inconveniente» (Ds I, xl, 27, p. 206), «Notasi ancora, in questa materia del Decemvirato, quanto facilmente gli uomini si corrompono e fannosi diventare di contraria natura» (Ds I, xlii, 2, p. 212); 1 che + indicativo, 1 con l’infinito, 1 interogativa indiretta con l’indicativo; occorrere: «rade volte occorre che le facciano progressi grandi» (Ds I, i, 9, p. 11), «Occorreva spesso che di simili ne ascendeva al supremo magistrato» (Ds I, xlvii, 22, p. 231), «Occorse [...] che certe comunità sottoposte al duca di Austria si ribellarono da lui» (Ds II, xix, 13, p. 435); 1 con il cong., 2 con l’indicativo; 102 parere: «e’ mi pare bene che costoro non si avvegghino che dove è buona milizia conviene che sia buono ordine» (Ds I, iv, p. 33), «tale che pare che per occulta virtù ei [il popolo] prevegga il suo male e il suo bene» (Ds I, lviii, 22, p. 283), «Questo modo di vivere, adunque, pare che abbi renduto il mondo debole e datolo in preda agli uomini scelerati» (Ds II, ii, 34, p. 318), «mi pare aver mostro qualche gratitudine de’ beneficii ricevuti» (Ds III, Dedica, p. 790); 3 con il cong., 1 con l’infinito; ragionare: «Né si ragiona mai che vi fusse alcuno re fuora di quegli che regnorono in Roma, e Porsena re di Toscana» (Ds II, ii, 7, p. 311); 1 con il cong.; restare: «Restavale solo a dare luogo al governo popolare» (Ds I, ii, 34, p. 28), «Non si restava in Firenze di lacerare e biasimare detto Imbal» (Ds I, xxxviii, 19, p. 193); nei 2 ess. l’infinitiva è retta da un segnacaso; sentire: «né per quelle [= a causa di quelle artiglierie] si sentì che gli avesse ricevuto memorabile danno» (Ds II, xvii, 13, p. 409); 1 con il cong.; stimare: «E certamente si può stimare che, se Roma sortiva per terzo suo re un uomo che non sapesse con le armi renderle la sua reputazione, non arebbe mai poi, o con grandissima di√cultà, potuto pigliare piede» (Ds I, xix, 14, p. 122), «Tale che si può stimare, veduto quanto Roma fu in questi due sospettosa e severa, che la arebbe usata la ingratitudine come Atene» (Ds I, xxix, 11, p. 145), «E debbesi (epistemico) stimare che ciascuno paghi la vera somma» (Ds I, lv, 13, p.264), «si debbe stimare (epistemico) che tanto più vi errino coloro, che per minore virtù si lasceranno più tirare dalla voglia e dalla passione loro» (Ds II, xxxi, 10, p. 512); 2 con il condizionale, 2 con il cong.; succedere ‘riuscire’: «Ancora che ai Romani succedesse felicemente essere liberali al popolo» (Ds I, xxxii, 2, p. 158): cfr. lat. haec prospere succedebant (Cic.), v. anche «Il che successe loro felicemente» (Ds I, i, 7, p. 10), «Ai Pazzi, più volte da noi allegati, non successe di ammazzare se non Giuliano» (Ds II, vi, 134, p. 583); 2 ess. d’infinitiva (dei quali 1 ha il segnacaso); vedere: «Vedesi ancora nelle sue elezioni ai magistrati [il popolo] fare di lunga migliore elezione che un principe» (Ds I, lviii, 25, p. 283), «E vedesi una città o una provincia essere ordinata al vivere civile da qualche uomo eccellente» (Ds II, Proemio, 4, p. 295), «Veggonvisi le ricchezze multiplicare in maggiore numero» (Ds II, ii, 46, p. 321), «Vedesi pertanto i Romani, ne’ primi argumenti loro, non essere mancati etiam della fraude» (Ds II, xiii, 17, p. 387), «Donde ei si nasca io non so, ma ei si vede, per gli antichi e per gli moderni esempli, che mai non venne alcuno grave accidente in una città o in una provincia, che non sia stato o da indovini o da rivelazioni o da prodigii o da altri segni celesti predetto» (relativa restrittiva) (Ds I, lvi, 2, p. 270), «Talché si vede certo che di quel che si dica uno populo, circa la buona o mala disposizione sua, si debba tenere non gran conto» (Ds I, lvii, 2, p. 274); 4 ess. infinitiva, 1 es. che + indicativo; 1 es. che + cong.; venire la nuova: «venne la nuova i Latini essere rotti» (Ds II, xv, 15, p. 34).  

Dei ventuno verbi reggenti le completive soggettive, otto sono impersonali (basta, bisogna, conviene, interviene, occorre, pare, resta, succede, viene la nuova), due sono predi102

  Il verbo occorrere ricalca l’uso impersonale del lat. occurrere.

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cati copulativi (è necessario che, è sentenzia che), dieci sono costituiti dal si passivante: conoscesi, considerasi, credesi, dimostrasi giudicasi, mostrasi, ragionasi, sentesi, stimasi, vedesi (meno frequente è la variante proclitica, alla quale talvolta si aggiunge un ausiliare: si stima / si può stimare). Il si passivante costituisce un sottotipo a sé, che presenta due caratteri: produce la tematizzazione di un elemento frasale e sovente il reggente assume un carattere formulare. Quest’ultimo carattere si avverte maggiormente in alcuni reggenti, come considerasi e vedesi, i quali sono presenti nel testo nella forma di gerundiali: per es., la ger. considerando ha valore circostanziale-causale ed è anteposta per lo più alla principale. Quanto ai modi verbali, si nota che l’infinito ricorre sovente a seguito di un reggente impersonale; invece basta, bisogna, interviene introducono sia infinitive sia completive al congiuntivo; la semantica di conviene impone il congiuntivo; con pare la completiva al congiuntivo prevale sull’infinitiva; a occorre invece segue la completiva all’indicativo; con il predicato aggettivale (tipo è necessario) si ha il congiuntivo, mentre con il predicato nominale si ha la dispersione, conseguente al semantismo del nome: come + ind., come + cong., che + ind. (2 ess.), che + cong. (2 ess.), infinito (3 casi). Con si passivante prevale che + cong., ma a si stima seguono che + cong. (2 ess.) e che + cond. (2 ess.), si vede è seguito dall’inf. (4 ess.), da che + ind. (1 es.) e da che + cong. (1 es.). Altre note. Bastare: in es.-3, per il costrutto come colui a cui v. Ulleland (2011: 67-74). Conoscere: in es.-2 si noti la tematizzazione dell’infinitiva. Considerare: in es.- 2 è propriamente un’interrogativa indiretta. Convenire: in es.-2 si noti la posizione dell’ avv. di necessità; in es.- 3 v. la correlazione più tardi ... che . Dimostrare: in es. -1 v. l’anaforico quello; in es.-2: v. l’interrogativa indiretta tematizzata, che di nuovo si vegga è una relativa restrittiva. Essere + aggettivo: in es.-1 l’incidentale separa il reggente dalla subordinata. Essere + SN: in es. -1 struttura binaria come ... e come; in es.-4 la prolessi separa il reggente Perché gli è u√cio dalla subordinata con clitico di ripresa e relativa restrittiva; in es.-6 si noti la struttura ternaria. Giudicare: in es.-1 v. la posizione delle due locuzioni avverbiali; in es.-2 si noti la struttura binaria. Intervenire: in es.-1 v. il verbo alla fine del periodo. Parere: in es.-1 e’ mi pare bene v. l’avverbio raπorzativo. Ragionare: fuora + prop. eccettuativa. Vedere: negli ess.-1-2-3-4 il verbo con si passivante enclitico occupa la posizione iniziale; in es.-6 si noti la presenza dell’ avv. raπorzativo: si vede certo.

Nei Discorsi le completive soggettive sono più numerose di quelle oggettive, probabilmente perché dispongono di una classe più ampia di reggenti; 103 infatti, oltre agli impersonali recuperano, mediante il si passivante, gran parte dei reggenti delle completive appartenenti all’area semantica dell’attività percettiva, cognitiva e psicologica dell’essere umano (Prandi 2006: 149).  

4. 4. 2. Le proposizioni oggettive con verbo di modo finito Costituiscono il settore più ricco di forme della subordinazione presente nei Discorsi: ciò non meraviglia perché svolgono nel periodo la funzione fondamentale di complemento del verbo. I reggenti sono verbi che rappresentano l’attività percettiva, cognitiva, psicologica dell’uomo; pertanto il soggetto di questi verbi [+ umano] condiziona la scelta e la qualità della subordinata. Ecco alcuni dei verbi principali che rappresentano: la percezione (vedere, sentire, comprendere, ricordare, dimenticare), l’espressione linguistica (dire, rispondere), la conoscenza (conoscere), il giudizio (pensare); 103   Si tratta di una tendenza generale della sintassi antica e rinascimentale: questa aπermazione appare sostenibile con un buon margine di certezza, anche se mancano spogli e calcoli precisi.

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in particolare, si distinguono i verbi di atteggiamento proposizionale (credere, dubitare, intendere, sperare, temere) e i verbi illocutivi, i quali, quando sono usati alla prima persona, diventano performativi (concludo, giudico, stimo) (Sbisà 2010). accordare: «accordarono con lui che si stessino neutrali, e che il re, venendo in Italia, gli avesse a mantenere nello stato e ricevere in protezione» (Ds II, xv, 19, p. 395); 1 che + congiuntivo; comandare: «[il senato] il quale, per rimediare a questo disordine, comandò per i suoi editti publici che ciascuno infra certo tempo e sotto certe pene tornasse a abitare a Roma» (Ds I, lvii, 2, p. 274); 1 che + congiuntivo; commettere: «commisse a Marziale centurione (suo fidato, e a chi Antonino aveva morto pochi giorni innanzi uno fratello) che lo ammazzasse» (Ds III, vi, 97, p. 573); 1 che + congiuntivo; conchiudere: «Conchiudo pertanto con questo discorso, che la virtù di Romolo fu tanta» (Ds I, xix, 11, p. 121), «Conchiudo adunque come e’ non è il più fermo né il più necessario rimedio, a frenare una moltitudine concitata, che la presenzia d’uno uomo che per presenzia paia e sia reverendo» (Ds I, liv, 6, p. 260), «Conchiudo, dunque, come e’ non importa molto in quale modo uno capitano si proceda» (Ds III, xxi, 20, p. 672): 1 che + indicativo; 2 come + ind.; credere: «Io credo che non sia fuora di proposito, né disforme dal soprascritto discorso, considerare se una città corrotta si può mantenere lo stato libero» (Ds I, xviii, 2, p. 112), «Credo che a questa mia oppinione, che dove sono gentili uomini non si possa ordinare republica, parrà contraria la esperienza della republica veneziana» (Ds I, lv, 31, p. 269), «È da credere pertanto che quello che ha voluto fare la setta cristiana contro alla setta gentile, la gentile abbia fatto contro a quella che era innanzi a lei» (Ds II, v, 10, p. 341); «e cerca di acquistare quei beni, che e’ crede, acquistati, potersi godere» (Ds II, ii, 46, p. 321); 2 che + congiuntivo, 2 che + indicativo, 1 (coreferenziale) con l’infinito; dire: «Sopra la quale cosa dico come egli è molto di√cile fare o l’uno o l’altro» (Ds I, xviii, 3, p. 112), «dico che l’una e l’altra di queste due cose è quasi impossibile» (Ds I, xviii, 23, p. 115), «Dico adunque come e’ non è la più facile via a fare rovinare una republica dove il popolo abbia autorità, che metterla in imprese gagliarde» (Ds I, liii, 23, p. 257); 2 come + indicativo, 1 che + ind.; dubitare: «[Numa] dubitava che la sua autorità non bastasse» (Ds, I, xi, 10, p. 79), «Quando il senato dubitava che i tribuni con potestà consolare non fussero fatti di uomini plebei» (Ds, I, xlviii, 2 p. 232), «Né dubitò fare morire (fattitivo verbo) di giustizia una legione intera per volta e una città, e di confinare otto o diecimila uomini con condizioni istrasordinarie» (Ds, III, xlix, p. 786), «perché dubiterebbono sempre che Franzesi in su el bello non li lasciassino» (Lettere n. 112, p. 227); 3 che + congiuntivo, 1 con l’infinito; giudicare: «dico come molti per avventura giudicheranno di cattivo essemplo [...], giudicando per questo che gli suoi cittadini potessono con l’autorità del loro principe [...], oπendere quegli che alla loro autorità si opponessero» (Ds I, ix, 3, p. 63), «Io giudico che egli era necessario o che i re s’estinguessino in Roma, o che Roma in brevissimo tempo divenisse debole e di nessun valore» (Ds I, xvii, 2, p. 107: subordinazione di 2° grado e binaria), «[scil. Niccolò da Uzzano] non permesse mai si facesse il secondo [modo], cioè che si tentasse di volerlo spegnere, giudicando tale tentazione essere al tutto la rovina dello stato loro» (Ds I, xxxiii, 11, p. 162), «e il re medesimo e ciascuno altro giudicava che una rotta sola gli potessi tôrre il regno e lo stato» (Ds II, xxx, 24, p. 507); 2 che + congiuntivo, 1 che + indicativo, 1 con l’infinito; intendere: «[scil. monsignore Imbalt] con le sue gente se n’entrò in Arezzo, faccendo intendere ai Fiorentini come egli erano matti e non s’intendevano delle cose del mondo» (Ds I, xxxviii, 18, p. 193), «fecero loro intendere (fattitivo, verbo) come e’ mandassono a ’ Romani otto cittadini» (Ds II, xv, 3, p. 391), «Il duca [...] intendendo esserli congiurato contro, fece, sanza esaminare altrimenti la cosa, pigliare uno dei congiurati» (Ds III, vi, 193, p. 597), «La quale vittoria non nacque da altro che dallo avere inteso, prima dei nimici, come

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e’ se n’andavano» (Ds III, xviii, 20, p. 661: ripresa pronominale); 2 come + ind., 1 come + congiuntivo, 1 con l’infinito; persuadere: «non potette mai Nicia [...] persuadere a quel popolo che non fusse bene andare a assaltare Sicilia» (Ds I, liii, 20, p. 254) il dativo è un uso latino, «si teme il male presente e nel futuro si spera, persuadendosi gli uomini che la sua cattiva vita [del principe] possa fare surgere una libertà» (Ds I, lviii, 38, p. 285); 2 che + congiuntivo; sapere: «Sa ciascuno, oltre a questo, come avanti alla morte di Lorenzo de’ Medici vecchio fu percosso il Duomo nella sua più alta parte da una saetta celeste, con rovina grandissima di quello edificio» (Ds I, lvi, 4, p. 271), «sapeva come vi erano infiniti cittadini che gli volevano andare innanzi» (Ds III, xvi, 5, p. 648), «sapeva come e’ si vendicava contro a quella città e a quegli cittadini che lo avevano tanto ingratamente e indiscriminatamente oπeso» (Ds III, xvii, 7, p. 655); 3 come + indicativo; usare: «Usono quelle republiche [...] che quegli magistrati o consigli che ne hanno autorità (relativa restrittiva) ponghino a tutti gli abitanti della città uno per cento o due di quello che ciascuno ha di valsente» (Ds I, lv, 11, p. 263); 1 che + congiuntivo; volere: «fu domandato loro da quella [scil. dalla plebe] che volevano che si creassero i tribuni della plebe, e che si avesse ad appellare al popolo da ogni magistrato, e che si dessono loro tutti i dieci, che gli volevono ardere vivi» (Ds I, xliv, 8, p. 216), «Né voglio che si opponga a questa mia oppinione tutto quello che lo istorico nostro ne dice nel preallegato testo» (Ds I, lviii, 31, p. 284), «se il senato avesse voluto che un consolo procedessi nella guerra [...], lo faceva meno circunspetto e più lento» (Ds II, xxxiii, 9, p. 521), «E per questo ei volevano che il consolo per se facesse, e che la gloria fosse tutta sua» (Ds II, xxxiii, 11, p. 522): tutti gli ess. hanno il congiuntivo; in caso di coreferenza si ha la completiva infinitiva: «Io voglio dare di questo due altri esempli» (Ds I, xxxviii, 12, p. 189).

Riassumendo, abbiamo: che + congiuntivo (18 ess.); come + congiuntivo (1 es.); che + indicativo (4 ess.); come + indicativo (9 ess.), infinitiva (4 ess.); nelle subordinate con struttura binaria o ternaria il fenomeno è stato calcolato una sola volta. Altre note: Accordare: struttura binaria che ... e che. Commettere: incidentale estesa. Conchiudere: nei tre ess. v. marcatori discorsivi pertanto, (a)dunque. Credere: in es.-2 oppinione + esplicativa, in es.-3 ordine elementi nella relativa, in es.-4 posizione dell’infinito alla fine della frase. Dubitare: completiva esplicita provvista di negazione. Giudicare: in es.-1 relativa restrittiva, in es.-2 completiva binaria disgiuntiva, in es.-3 cioè + esplicativa. Intendere: in ess.-1-2 verbo fattitivo, in es.-4 sintagma da altro che, ripresa pronominale. Persuadere: in es.-1 persuadere col dativo, in es.-2 verbo fattitivo. Sapere: in es.-1 sintagma nominale con rovina. Usare: relativa restrittiva. Volere: in es.-1 completiva binaria; in es.-2 relativa restrittiva, in es.-3 periodo ipotetico con protasi al congiuntivo trapassato e apodosi all’indicativo imperfetto.

4. 4. 3. Fenomeni persistenti L’italiano letterario del Cinquecento conserva alcuni tratti di antica origine: i) l’alternanza dei complementatori che/come (quando svolgono la stessa funzione), ii) l’ellissi; iii) la ripetizione del che subordinante. Queste “irregolarità”, presenti diversamente nei vari autori, si esauriscono nel corso del xviii secolo. Il complementatore come, quando introduce una completiva di modo finito, equivale a che: non attribuisce un significato particolare al costrutto; in taluni casi, il semantismo del reggente e il cotesto suggeriscono il valore di un’interrogativa indiretta (ma ciò non avviene sempre in corrispondenza di determinati reggenti); in ogni modo, come reggenti di una completiva introdotta da come, appaiono, con una certa frequenza, verbi di espressione linguistica (conchiudere, dire, sapere, publicare) e di atteggiamento proposizionale: «E per dare ad intendere meglio questa parte, dico come in Roma era l’ordine del governo, o vero dello stato» (Ds I, xviii, 8, p. 113),«[scil.

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Rutilio] publicò come il senato aveva raπermo le stanze alle legioni capovane» (Ds III, vi, 189, p. 596); «Io ho considerato più volte come la cagione della trista e della buona fortuna degli uomini è riscontrare il modo del procedere suo con i tempi» (Ds III, ix, 2, p. 607). Al pari del complementatore di base che (anche se in misura minore), il complementatore come è polifunzionale; può introdurre infatti una completiva, una modale, una comparativa e un’interrogativa indiretta. È ben noto che non esiste un legame biunivoco tra marcatori e modalità di connessione, dal momento che uno stesso marcatore può apparire in diverse modalità di connessione (Pierrard 2013: 45). Al pari di che subordinante, come subordinante è spesso ripetuto dopo un’incidentale estesa, e può essere lo strumento della subordinazione multipla. Beaugrande (de)/Dressler (1981: 100) definiscono l’ellissi come «una percettibile discontinuità del testo di superficie durante la sua elaborazione». L’ellissi sia del che subordinanate sia del che relativo sono fenomeni grammaticali, non retorici (Palermo 2013: 113-114); entrambi non compromettono la chiarezza della frase. L’ellissi del che subordinante, fenomeno diπuso nella prosa del secolo xv e, in misura ridotta, del secolo xvi, non incide sulla struttura del periodo; si manifesta per lo più quando: i) la subordinata è al congiuntivo; ii) il complementatore e la completiva sono a contatto; iii) non vi è coreferenza tra principale e subordinata. Inoltre l’ellissi è favorita: iv) dalla presenza nelle vicinanze di un altro che (subordinante o relativo): «è ragionevole ne [scil. della libertà] abbiano più cura» (Ds I, v, 8, p. 38), «credo proceda che gli uomini nelle cose generali s’ingannono assai» (Ds I, xvii, 6, p. 226), «ma si conchiuse nascesse che [= dal fatto che] gli uomini non sanno essere onorevolmente cattivi» (Ds I, xxvii, 6, p. 141), «Quanto a una republica, volendo fugga questo vizio dello ingrato, non si può fare il medesimo rimedio» (Ds I, xxx, 8, p. 153), «come si vede fece Francesco Maria, il quale [...] si lasciò indietro dieci città inimiche» (Ds II, xxiv, 52, p. 477), «E voglio mi basti l’autorità de’ Romani» (Ds II, xxiv, 40, p. 473), «conviene [lo stato] nasca con ingiuria di molti» (Ds III, vii, 3, p. 600), «Dall’altro canto, Valerio potette procedere umanamente, come colui a cui bastava si osservassono le cose consuete osservarsi negli eserciti romani» (Ds III, xxii, 20, p. 678), «e al marchese [scil. Monsignore de Fois] significò gli mandasse le chiavi di quel passo» (Ds III, xliv, 10, p. 775). Considerata la notevole varietà dei reggenti, non sembra possibile proporne una tipologia; in ogni modo appare chiaramente il prevalere dei reggenti iussivi. Rispetto ai trattati, l’ “ellissi del che subordinante” appare più di frequente nelle LCSG e nelle Lettere; 104 anche in queste scritture “minori” la subordinata è per lo più al congiuntivo: «t’imponiamo non proceda in alcun modo contro di lui» (Legazioni, in LCSG iv, 16, p. 17), «Hieri ti commettemmo inviassi subito e’ marraioli alla volta del campo» (Legazioni, in LCSG iv, 282, p. 267), «li ordinerete faccia per securtà di dette robe [...] tucte quelle scorte et qualunque altra cosa sarà necessaria» (Legazioni, in LCSG iv, 359, p. 337), «et voliamo non li gravi che concorrino ad le soprascripte spese di decti cavalli» (Legazioni, in LCSG iv, 364, p. 340), in quest’ultimo esempio l’ellissi di che avviene in prossimità di un altro che ‘in modo che’; cfr. per oppositum: «voliamo che tu lo condanni in sei staia di farina» (Legazioni, in LCSG iv, 364, p. 340). Vediamo un es. di ellissi di che relativo: «e come lui ha mandato a Trento buona parte delle artiglierie vuole condurre seco» (Lettere, in Opere ed. Vivanti, II, p. 124).  

104   Ciò contrasta con quanto si riscontra nella prosa dell’inizio del xix sec.; l’ellissi del che subordinante si segnala fin dall’Ottocento come tratto di ascendenza letteraria, ma non frequente nella lingua della stampa.

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L’ellissi del complementatore è presente anche in altre lingue romanze, lungo tutto il loro percorso. Il fenomeno è stato spiegato in vari modi: come tendenza popolare, come ricerca di una variante stilistica, come espediente per evitare l’accumulo delle congiunzioni. Per quanto riguarda lo spagnolo medievale, Garcia Cornejo (2006 : 234-236) ricorda i seguenti fatti: nel Poema de mio Cid, Menéndez Pidal ha segnalato per tempo l’assenza di que con i verbi di lingua e d’intendimento; questa ellissi si ha soprattutto quando il verbo della subordinata è al congiuntivo, modo che di per sé indica la subordinazione e quindi rende superflua la presenza del complementatore; ciò vale anche per l’italiano, dove si hanno tre possibilità: penso che è onesto / penso che sia onesto / penso sia onesto. Tuttavia, nello spagnolo dei secoli xviii-xix, l’ellissi si ha anche dinanzi a completive con l’indicativo; ma è una tendenza destinata in seguito a scomparire. Bisogna tener conto dell’ordine delle parole: il verbo precede immediatamente la completiva al congiuntivo. Come accade anche in altre lingue romanze, c’è la possibilità di coordinare costruzioni subordinate senza marcare la seconda completiva con la congiunzione. È possibile l’inserzione della preposizione: «Juan nos habló de que yo no iría a la fiesta» (ivi: 239). Per quanto riguarda il francese moderno, Muller (1996a) si è soπermato sulla concorrenza tra que, congiunzione subordinante, e que, introduttore d’interrogazione e di esclamazione. Secondo Le Go√c (1992) que ha sempre un significato e non si riduce a un semplice accessorio di montaggio delle frasi.

Per l’analogia che vi corre, all’ellissi di che complementatore facciamo seguire la più frequente “ellissi di che relativo”. Questo fenomeno è favorito dalla presenza simultanea di un dimostrativo precedente e del verbo avere successivo (usato per lo più come ausiliare): «da quel male ha fatto» (Ds I, Proemio, 7, p. 6), «per quel giuramento aveva fatto di non abbandonare il consolo» (Ds I, xiv, 10, p. 92), «come si vede per quello si ha notizia (Ds II, Proemio, 12, p. 297), «considerato le altre persecuzioni gli feciono» ‘che gli fecero’ (Ds II, v, 7, p. 341), «E le maggiori e le lunghe guerre vi siano state, sono quelle che sono seguite intra Svizzeri e il duca d’Austria» (Ds II, xix, 16, p. 436), «avendo veduto il modo hanno tenuto i Romani» (Ds II, xix, 24, p. 438), «E benché la intenzione de’ Romani non fusse di rompere l’accordo avevano fatto co’ Capovani» (Ds II, xx, 10, p. 442), «i Romani, debilitati per la zuπa fatta con loro avevano» (Ds II, xxii, 17, p. 453), «per fare maggiore Roma e condurla a quella grandezza venne» (Ds II, xxix, 19, p. 500), «i Fiorentini diliberarono soccorrere Marradi e non diminuire le forze avevano in quel di Pisa» (Ds III, xviii, 16, p. 659). 105  

L’ellissi del relativo si ritrova anche nelle LCSG e nelle Lettere: «infino che da noi non habbi commissione di quello habbi ad exequire» (Legazioni, in LCSG IV, 16, p. 17), «lo adviso dài a’ nostri» (Legazioni, in LCSG IV, 19, p. 19); si noti un passo in cui due che relativi successivi sono omessi: «El proveditore nostro ci fa intendere che e’ tre ducati ritenuti ad messere Bandino sono per resto di fiorini nove si promissono per uno cavallo comperò suo balestriere, la quale promessa si fece ad tempo di ser Baccio suo cancelliere ad Filippo Manfredi et digià con questi se li è ritenuti soldi 6» (Legazioni, in LCSG IV, 357, p. 336); qui appaiono anche la ripresa parziale e la coniunctio relativa, fenomeni aventi in comune un’esigenza di collegamento forte.

Un’altra particolarità di remota origine è la polivalenza di che; si oscilla tra i valori della relativa obliqua e del connettore generico, definibile in base alla semantica del cotesto: «E quanto a quell’ozio che le arrecasse il sito, si debbe ordinare che a 105   Il fenomeno della ellissi riguarda anche le preposizioni presenti in un polinomio: «Vedesi allo incontro entrare Annibale in Italia, e con modi tutti contrarii, cioè con crudeltà, violenza e rapina e ogni ragione infideltà» (Ds III, xxi, 4, p. 668), dove l’ultimo componente vale: ‘con ogni sorta di infedeltà’.

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quelle necessità le leggi la costringhino che [= alle quali] il sito non la costrignesse» (Ds I, i, 16, p. 13), «e’ vi è il rimedio delle concioni, che [= per il quale] surga qualche uomo da bene che, orando, dimostri loro come ei s’ingannono» (Ds I, iv, 10, p. 36), «E esaminando donde possa procedere questo, credo proceda che [= dal fatto che] gli uomini nelle cose generali s’ingannono assai» (Ds I, xvii, 6, p. 226), «fecero una legge che [= per la quale] tutti i magistrati [...] mai vacassero» (Ds I, l, 11, p. 242), «quegli modi che [= a cui] anticamente si veniva» (Ds II, xvii, 23, p. 413), «non bastò loro [scil. ai plebei] avere un consolo plebeio, che gli vollono avere amendue» (Ds I, v, 10, p. 38), «Debbono i presenti principi e le moderne republiche [...] pensare [...] tale difetto essere non per mancamento di uomini, ma per colpa sua, che non hanno saputo fare i suoi uomini militari (I, xxi, 2, p. 124): possibili alternative sono di loro, i quali oppure con di loro perché. Un’altra “irregolarità” ereditata da fasi precedenti delle nostra lingua è la ripetizione di che complementatore. Questo fenomeno si presenta con una tipologia meno ricca di quella riscontrabile nel Trecento; si ritrova soprattutto in corrispondenza di verbi di atteggiamento proposizionale; dipende sovente dalla distanza dal reggente (vale a dire, si verifica in periodi estesi e dalla struttura complessa): «E sanza dubbio credo che potendosi tenere la cosa bilanciata in questo modo, che e’ sarebbe il vero vivere politico e la vera quiete d’una città» (Ds I, vi, 33, p. 48), «E è impossibile che quegli che in stato privato vivono in una republica, o che per fortuna o per virtù ne diventono principi, se leggessono le istorie, e delle memorie delle antiche cose facessono capitale, che non volessero quelli tali privati vivere nella loro patria più tosto Scipioni che Cesari, e quegli che sono principi, più tosto Agesilai, Timoleoni, Dioni, che Nabidi, Falari e Dionisii» (Ds I, x, 10, p. 69).

4. 4. 4. SN e SA reggenti una subordinata Il predicato nominale “SN è che P” funge da introduttore di una subordinata soggettiva, la quale è “orientata” dal SN, nel senso che quest’ultimo definisce cataforicamente il senso di quanto segue; SN può essere posposto al verbo; nella subordinata la scelta tra indicativo e congiuntivo dipende dal semantismo del reggente. Il SN può essere: i) un soggetto iniziale: «La prima [scil. ragione] è che per gli esempli rei di quella corte questa provincia ha perduto ogni divozione e ogni religione» (Ds I, xii, 16, p. 87), ii) un soggetto introdotto da si passivante: «Aggiugnesi alla soprascritta un’altra di√cultà, la quale è che lo stato che diventa libero si fa partigiani inimici, e non partigiani amici» (Ds I, xvi, 6, p. 101), dove si noterà lo snodo realizzato dal relativo; iii) un soggetto compreso in un altro predicato nominale: «la quale incorruzione fu cagione che gl’infiniti tumulti che furano in Roma, avendo gli uomini il fine buono, non nocerono, anzi giovorono alla republica» (Ds I, xvii, 12, p. 110); iv) un soggetto raπorzato da un dimostrativo deittico: «ma ne abbiamo ancora uno [scil. obbligo] maggiore, il quale è la seconda cagione della rovina nostra: questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa» (Ds I, xii, 18, p. 87). I valori causativo (cagione... che) e prescrittivo-predittivo appaiono in primo piano, per la frequenza e la varietà dei contesti. La causa ritenuta sicuramente certa dall’enunciatore è resa con l’indicativo: «la quale incorruzione fu cagione che gl’infiniti tumulti [...] non nocerono» (es. citato), «La cagione di questo è che le non hanno altro amore» (Pri xii, 6, p. 184), «E la cagione perché a’ Romani tornò bene questo partito, fu perché lo stato era nuovo» (Ds I, xxxii, 4, p. 159); l’abbinamento di una causa certa e di un’azione progressiva nella subordinata richiama l’uso del congiuntivo: «E la cagione che la Italia non sia in quel medesimo termine,

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né abbia anch’ella o una republica o uno principe che la governi, è solamente la Chiesa» (Ds I, xii, 20, p. 88); «Il quale rimedio, come allora fu utile, e fu cagione che vincessero gli imminenti pericoli, così fu sempre utilissimo» (Ds I, xxxiii, 3, p. 161). 106 Il congiuntivo è imposto da un reggente con senso desiderativo: «vi conoscerà dentro uno estremo mio desiderio che Lei pervenga a quella grandezza che la fortuna e le altre sue qualità li promettano» (Pri, Dedicatoria, 6, p. 61) o che abbia valore prescrittivo-predittivo / esercitivo: «[scil. Carlo VIII] intra gli altri ricordi che lasciò a Alfonso suo figliuolo, fu che gli aspettasse il nimico dentro a il regno» (Ds II, xii, 12, p. 377), «fecero una legge che tutti i magistrati che fussero dentro e fuori della città mai vacassero, se non quando fussono fatti gli scambi e successori loro» (Ds I, l, 11, p. 242), «vennono oratori pisani a Beumente, e gli oπerirono di dare la città allo esercito franzese con questi patti, che sotto la fede del re promettesse non la mettere in mano de’ Fiorentini» (Ds, I, xxxviii, 14, p. 190). In quest’ultimo es. si ha la subordinazione di 2° grado; nell’es. che precede il periodo ipotetico. L’indicativo corrisponde a un reggente aπermativo-valutativo: «La quale cosa fa testimonianza a quello che di sopra ho detto, che gli uomini non operono bene se non per necessità» (Ds I, iii, 5, p. 31), «E la ragione è questa, che nessuna republica bene ordinata non mai cancellò i demeriti con gli meriti de’ suoi cittadini» (Ds I, xxiv, 4, p. 133).  

Lo stile epistolare sembra favorire l’uso di verbi polirematici del tipo “V+N che P”: «E perciò vi si può fare questa conclusione: che di qua voi non aspettiate né genti né danari» (Lettere, cit. in 4.3.5.); «per fare comodità allo spedalingo che non fussi forzato per decta composizione ad gittare via e’ grani di detto spedale» (Legazioni, in LCSG IV, 376, p. 347); nonché di complementi-reggenti: «El re di Francia ha mandato, o egli è per mandare, uno ambasciadore a’ svizeri [...], con commissione che di quivi vada a Vinegia» (Lettere, in Opere, ed. Vivanti, II, p. 125). Dal punto di vista dello stile, si osserva che questo tipo di connessione permette l’inserimento di una lunga incidentale tra il nesso-reggente e la subordinata; si veda “[scil. miracolo] fu che ... parve” nel passo che segue: «Di questi miracoli ne fu a Roma assai; intra i quali fu che, saccheggiando i soldati romani la città de’ Veienti, alcuni di loro entrarono nel tempio di Giunone, e accostandosi alla imagine di quella, e dicendole “Vis venire Romam?”, parve ad alcuno vedere che la accennasse, a alcuno altro che la dicesse di sì» (Ds I, xii, 10, p. 85); misconosce la struttura del testo la spiegazione fornita dall’editore: «fu che: “locuzione accorciata: fu anche questo, che, ecc.” (Carli)». 107  

Un’analoga funzione connettiva è svolta dal deittico testuale cataforico: «Fa bene la fortuna questo, che la elegge uno uomo – quando la voglia condurre cose grandi – che sia di tanto spirito e di tanta virtù che ei conosca quelle occasioni che la gli porge» (Ds II, xxix, 16, p. 499), «E in tutte le cose umane si vede questo, chi le esaminerà bene: che non si può mai cancellare un inconveniente, che non ne surga un altro» (Ds I, vi, 20, p. 45), «E debbesi [verbo deontico] pigliare questo per una regola generale: che mai o rado occorre che alcuna republica o regno sia da principio ordinato bene» (Ds I, ix, 5, p. 64). 108 In conclusione, il tipo “SN che P” rientra nell’ambito di quei costrutti che attuano una sintassi “sintetica”, tale che privilegia l’ellissi di elementi di giunzione: ciò risalta da un confronto con l’uso esteso del nesso analitico il fatto che nell’italiano di oggi.  

106   Si noti anche il nesso “N + perché”, realizzato con cagione perché: «E la cagione perché a’ Romani tornò bene questo partito, fu perché lo stato era nuovo» (Ds I, xxxii, 4, p. 159). 107  In Pri vi sono vari esempi di completive introdotte da un reggente SN (3. 5. 4). 108   Il deittico questo è un incapsulatore anaforico neutro, diverso dagli incapsulatori specifici, che rinviano a “entità di ordine superiore” come stati di cose, eventi, processi.

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la prosa del cinquecento 4. 4. 5. Le proposizioni oggettive con infinito (accusativo con infinito)

Ci riferiamo esclusivamente alle completive oggettive, in analogia a quanto si riscontra in studi recenti e diversamente da quanto avveniva in passato. 109 Nella scelta del costrutto le ultime ricerche tendono a rivalutare i fattori interni (compresenza di completive di modo finito introdotte da che, struttura periodale ecc.) rispetto all’imitazione della sintassi latina. Per quanto riguarda il rapporto tra soggetto della reggente e soggetto della subordinata, si distingue tra casi di non coreferenza (tipo i), sintatticamente più notevoli, e casi di coreferenza (tipo ii); 110 nell’esposizione che segue, in ciascun capoverso il tipo i occupa la prima posizione. Risalta una diπerenza rispetto al lat. classico, in cui vige il costrutto dico me honestum esse: il soggetto infinitivo è obbligatoriamente espresso anche quando si ha coreferenza con il soggetto della reggente. Sia nell’epoca medievale sia in quelle umanistica e rinascimentale l’uso dell’accusativo con l’infinito è soggetto a restrizioni di natura pragmatica e relative alla classe semantica dei verbi reggenti. La prosa del sec. xvi prosegue la tendenza antica a privilegiare nell’accusativo con l’infinito la presenza del verbo essere. 111  





affermare: «Nessuna cosa essere più varia e più incostante che la moltitudine, così Tito Livio nostro, come tutti gli altri istorici aπermano» (Ds I, lviii, 2, p. 276), «E così per il contrario aπermo il procedere di Mallio in uno principe essere dannoso, e in uno cittadino utile, e massime alla patria» (Ds III, xx, 42, p. 682); coreferenza: «E messer Criaco dal Borgo, capo antico delle fanterie fiorentine, ha aπermato alla presenza mia molte volte non essere mai stato rotto se non dalla cavalleria degli amici» (Ds II, xvi, 31, p. 405); conchiudere: «Conchiuggo pertanto [...] l’artiglieria essere utile in uno esercito quando vi sia mescolata l’antica virtù» (Ds II, xvii, 45, p. 419); conoscere: «Talché dipoi conobbono con loro danno la sentenza di quel vecchio essere stata utile e la loro diliberazione dannosa» (Ds II, xxiii, 34, p. 462); dire: «Dico adunque essere più prudente elezione porsi in luogo fertile» (Ds I, i, 19, p. 14), «dico come alcuni che hanno scritto delle republiche dicono essere in quelle uno de’ tre stati, chiamati da loro principati, ottimati e popolare» (Ds I, ii, 10, p. 19), «molti, che dicono Roma essere stata una republica tumultuaria» (Ds I, iv, 2, p. 33), «liberamente dicevano essere più tosto per patire la morte, che consentire a una tale diliberazione» (Ds I, liii, 3, p. 250), «La parità che Tito Livio dice essere in questi eserciti» (Ds II, xvi, 6, p. 398), «dico questa oppinione essere al tutto falsa» (Ds II, xvii, 33, p. 415), «Diceva Epaminonda tebano nessuna cosa essere più necessaria e più utile ad uno capitano, che conoscere le diliberazioni e partiti del nemico» (Ds III, xviii, 2, p. 656), «essendo da alcuni de’ pollarii detto a certi soldati i polli non avere beccato» (Ds I, xiv, 7, p. 95); 112  

109   P. Acquaviva, in GGIC, II (20012: 633 ss.) riferisce la denominazione “accusativo con infinito” alle completive oggettive. V. Egerland, in GIA (2010, II: 857 ss.) distingue tra: i) “accusativo con infinito in senso stretto” (completive oggettive), ii) “infinito con soggetto espresso” (infinitive soggettive). Nel trattare dell’“accusativo con infinito”, Segre (1963: 255-256) metteva in prima posizione le infinitive soggettive, che nel Convivio hanno come introduttori è manifesto, è impossibile, non è inconveniente ecc. 110   Esempio di coreferenza: «Promisse lo imperadore venire con assai genti e fare quella guerra» (Ds III, xliii, 11, p. 770). 111   Il volgare degli ordinamenti giuridici sembra rispecchiare una diπerenziazione avvenuta già in latino. In entrambe le lingue l’accusativo con infinito segue i verbi commissivi (giurare) ed espositivi (dire, provare, mostrare), mentre la completiva esplicita (con che/quod) segue i verbi verdittivi (ordinare, statuire). Nel confronto con la lingua giuridica contemporanea la ‘sovraestensione dell’infinito nelle completive’ sembra da ricondurre alla presenza dell’accusativo con l’infinito modellato sul latino fin dall’inizio della prosa volgare: cfr. M. A. Cortelazzo, “Giuridico-amministrativo, linguaggio”, in EncItaliano, i (2010: 588-589): «il difensore chiede applicarsi all’imputato la diminuzione della pena» (es. ivi cit.). 112   Cfr. un es. di coreferenza con infinitiva: «dissono non si potere consigliare in genere, ma sì in particolare di ciascuna» (Del modo di trattare, in Opere, ed. Vivanti, i, p. 23).

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giudicare: «iudicherò essere necessario per maggiore intelligenzia d’esso» (Ds i, Proemio, 9, p. 7), «giudicando non essere bene difendere la patria di coloro che l’avevano già sottomessa ad altrui»(Ds II, ii, 7, p. 311), «né per questo si debbono i danari giudicare essere il nervo della guerra» (Ds II, x, 24, p. 369), «Mario [...], il quale, andando contro a’ Cimbri [...] giudicò Mario essere necessario, innanzi che venisse alla zuπa, operare alcuna cosa» (Ds III, xxxvii, 18, p. 753: ripetizione del soggetto), «giudico il mondo sempre essere stato ad uno medesimo modo, e in quello essere stato tanto di buono quanto di cattivo, ma variare questo cattivo e questo buono di provincia in provincia» (Ds ii, Proemio, 4, p. 295: tre infinitive, di cui la 2ª è copia della 1ª); intendere: «io non intendo quella fraude essere gloriosa che ti fa rompere la fede data» (Ds III, xl, 4, p. 762: nota separazione della relativa dalla testa), cfr. «la tua del ’24 la quale ci fai intendere el Signore di Piombino domandarti detto prigione, come preso nel dominio suo» (Legazioni, in LCSG IV, 23, p. 23); mostrare: «mostrava loro una cosa doversi fare» (Ds I, xiv, 5, p. 94), «Mostra questo che noi diciamo essere vero ogni storia in mille luoghi» (Ds II, x, 27, p. 369), «[scil. Livio] mostra essere tre cose necessarie nella guerra» (Ds II, x, 29, p. 370), «col mostrare tale perdita non essere venuta per tua colpa» (Ds III, xlii, 5, p. 767: infinitiva retta da un infinito preposizionale); pensare: «pensarono essere meglio salvare loro medesimi e lasciare il paese proprio» (Ds II, viii, 20, p. 356); persuadere: «mi persuado varie essere le cagioni che a questo inganno gli conducano» (Ds II, Proemio, 2, p. 295); replicare: «Replico pertanto essere vera quella consuetudine del laudare e biasimare soprascritta, ma non essere già sempre vero che si erri nel farlo» (Ds II, Proemio, 7, p. 295); stimare: «Io stimo essere cosa verissima che rado o non mai intervenga che gli uomini di piccola fortuna venghino a gradi grandi» (Ds II, xii, 21, p. 380); trovare: «e si troverrà in lei [scil. la moltitudine] essere quella medesima bontà» (Ds I, lviii, 10, p. 279); vedere: «E tanto più, quanto io veggo [...] essersi sempre ricorso a quelli iudizii o a quelli remedi che dagli antiqui sono stati iudicati o ordinati» (Ds I, Proemio, 4, p. 5), «massime veduto ora quel paese, dove erano tante cittadi e tanti uomini, essere quasi che disabitato» (Ds II, ii, 42, p. 320), «quella medesima bontà che noi vediamo essere in quelli; e vedrassi quella né superbamente dominare né umilmente servire» (Ds I, lviii, 10, p. 279: all’infinitiva oggettiva segue in un altro periodo un’infinitiva soggettiva binaria).

Dei 32 esempi di accusativo con infinito ora esaminati 26 presentano essere copula di una predicazione nominale. Dei sei rimanenti tre presentano essere ausiliare: essere mai stato rotto (Aπermare: in es.-3), essere venuta (Mostrare: in es.-3), essersi ricorso (Vedere: in es.-3) L’ellissi di essere nell’infinitiva retta da trovare isola il participio passato, che ha valore predicativo: «[scil. Solone] vi vide nata la tirannide di Pisistrato» (Ds I, ii, 29, p. 26), «trovò rotto Asdrubale e Siface» (Ds, II, xxvii, 19, p. 490), «la [scil. questa legge] trovò raddoppiata la potenza de’ suoi avversari» (Ds, I, xxxvii, 16, p. 183), «Vettio Messio, si trovò, ad un tratto rinchiuso intra gli steccati suoi» (Ds, III, xii, 23, p. 631). La presenza dell’accusativo con l’infinito è favorita dalle esigenze scritturali delle cancellerie; in eπetti, nelle LCSG si ritrovano usi particolari del costrutto che sembrano mancare nei trattati: «La lettera da Milano contiene questa nuova di Bartolommeo essere ricevuta» (Legazioni, in LCSG iv, 276, p. 258), «Et perché Simone Ferrucci ci scrive quello luogo havere bisogno di più guardia [...] voliamo che [...] mandi in quello luogo di Librafracta Simonetto da Cortona» (Legazioni, in LCSG iv, 357, p. 335).

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la prosa del cinquecento 4. 4. 6. Vari tipi di subordinate

Che nei Discorsi la sintassi del periodo possieda caratteri di non omogeneità è dimostrato da numerosi esempi di subordinazione mista, un fenomeno che abbiamo già esaminato nel Principe e che ritroveremo, tra l’altro, in Guicciardini (7. 2. 3). Si riportano qui di seguito due esempi che appaiono significativi. Dipendono da un unico reggente una completiva di modo finito e un’infinitiva: «e ciascuno di loro credea, mentre che il popolo romano era occupato con l’altro, che quello altro lo superasse, e essere a tempo o con pace o con guerra difendersi da lui» (Ds II, 1, 27, p. 309). Un unico reggente introduce una proposizione relativa con funzione di oggetto diretto e due interrogative indirette: «Notasi per questo testo quello che faccia uno uomo buono e savio, e di quanto bene sia cagione, e quanto utile e’ posa fare alla sua patria, quando mediante la sua bontà e virtù egli ha spenta l’invidia» (Ds III, xxx, 11, p. 709). Fenomeni di sintassi mista si ritrovano anche in altri scritti del nostro. Da un reggente dipendono un oggetto indiretto e un’interrogativa indiretta: «dove si disputò della grandezza del duca e dello animo suo, e come egli era necessario frenare l’appetito suo, e altrimenti si portava pericolo insieme cogli altri di non ruinare» (Descrizione, in Opere, ii, p. 71). Da un sintagma nominale dipendono due interrogative indirette non allineate, la prima è introdotta da di quanto, la seconda da come: «E’ comparsono hieri le tue ultime lettere de xiiii significative di quanto ritraevi delle cose di Pisa, et inspetie come li spagnoli si resolvevono, et come» (Legazioni, in LCSG iv, 374, p. 346).

È da notare infine un esempio di “falsa partenza” o mutamento di progetto, fenomeno non raro nell’italiano antico, consistente in un’infinitiva oggettiva retta da come subordinante: «Io estimo che alcuni si potrebbero maravigliare veggendo come qualche capitano, nonostante che egli abbia tenuto contraria vita, avere nondimeno fatti simili eπetti a coloro che sono vissuti nel modo soprascritto» (Ds III, xxi, 2, p. 667). Nei Discorsi la subordinazione di 2° grado non è frequente; riprendiamo due passi che abbiamo già analizzato (4.2.7. e 4.4.2.). Nel primo il duplice livello di subordinazione è reso con due soggettive: «E che sia il vero che tali ordini nella città corrotta non fossero buoni, si vede espresso in doi capi principali» (Ds I, xviii, 13, p. 114), dove si ha l’ordine: 1a subordinata soggettiva+ 2a subordinata soggettiva + reggente si vede: risalta una proiezione a sinistra del periodo. Nel secondo passo: «Io giudico che egli era necessario o che i re s’estinguessino in Roma, o che Roma in brevissimo tempo divenisse debole e di nessun valore» (Ds I, xvii, 2, p. 107) si ha la seguente gerarchia: “reggente verbum iudicandi + oggettiva “copula + Agg” + due soggettive in rapporto avversativo”. Un altro tipo di subordinazione di 2° grado è rappresentato da: “sintagma nominale + 1a subordinata + 2a subordinata”: «vennono oratori pisani a Beumente, e gli oπerirono di dare la città allo esercito franzese con questi patti, che sotto la fede del re promettesse non la mettere in mano de’ Fiorentini» (Ds, I, xxxviii, 14, p. 190) già cit. in 4.4.4. Che la subordinazione di 2° grado dipenda spesso da un’esigenza non retorica ma referenziale (vale a dire, sia in rapporto col Discorso riferito e con la presenza di “verbi del dire”) appare dalle scritture epistolari, in particolare dai luoghi in cui si riporta un discorso attraversato da una o più mediazioni. In breve, il costrutto interpreta una comunicazione su più livelli, nella quale appaiono evidenziati gli argomenti: chi dice a chi, chi riferisce a chi, che cosa si riferisce e in quali termini. Ecco due passi tratti dalle Lettere di Machiavelli:

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«e disse che voleva pregare Iddio che se le cose che gli aveva predette non venivano da lui, ne mostrassi evidentissimo segno» (A Ricciardo Becchi, 9-3-1498: Opere, ii, p. 5), «Più dì fa, el duca di Milano scrisse ad questi Signori che voleva non andare più al buio con voi e però si voleva obbligare e che voi vi obbligassi, e richiedevavi che, omni volta che li avessi bisogno delli aiuti vostri, voi fussi tenuti a servirlo di 300 uomini d’arme et 2000 fanti, e che voi chiedessi quello volevi da lui per la recuperazione di Pisa» (A Pier Francesco Tosinghi, 5-6-1499: ivi, p. 10).

Nel primo es. vi è una subordinazione di 2° grado, che si svolge linearmente: disse ... voleva pregare ... ne mostrassi; dopo il secondo reggente s’inserisce la condizionale se le cose che ... Nel secondo es. vi è un primo reggente scrisse che, dal quale dipendono tre completive brevi; il secondo reggente richiedevavi che specifica il precedente e introduce due subordinate di media estensione; la prima delle quali è preceduta dalla parentetica temporale omni volta che li avessi. Vi sono schemi discorsivi che si ripetono da un testo all’altro, manifestando in alcuni casi una tendenza alla formularità. Ciò appare nelle frasi “a subordinazione debole”, la quale si sviluppa con i “verbi del dire”, in frasi particolarmente soggette a ricorsività e a sostituzioni frastiche; al contrario i “verbi di volontà” sono responsabili, in condizioni normali, di una “subordinazione forte”. 113 In modo analogo si comportano i verbi iussivi, soprattutto nelle missive, laddove è necessario dichiarare chi comanda, a chi comanda, che cosa comanda; anche in questo caso la subordinazione di 2° grado dipende dalla necessità di riferire il discorso di altri: «Né alcuna cosa habbiamo di nuovo da dirti o da ricordarti, salvo che noi voliamo per qualunque cosa che occorre che tu rinfreschi ad tucti cotesti nostri conestaboli, che sono preposti alla guarda de’ luoghi all’intorno, faccino di stare bene advertiti et raddoppino la diligentia in fare buone guardie di dì et di nocte, di che ne li advertirai sanza demostratione» (Legazioni, in LCSG iv, 374, p. 346). Subordinazione di 2° grado del tipo che ... che in parallelo: «Pertanto noi voliamo facci dua cose: la prima, che tu chiarisca che detto Antonio habbi prestato ad decto spedalingo; l’altra, che vegga che decto spedalingo ha messo ad conto detti danari allo spedale» (Legazioni, in LCSG iv, 376, p. 347). Subordinazione di 2° grado del tipo come ... che implicate: «Per la presente vi facciamo intendere come noi voliamo che voi facciate disarmare la fusta et il brigantinecto» (Legazioni, in LCSG iv, 378, p. 348). In quest’ultimo esempio notiamo la presenza di un verbo fattitivo far capire che introduce un verbo iussivo. Il verbo fattitivo fare ricorre in vari cotesti: in «Il duca [...] intendendo esserli congiurato contro, fece, sanza esaminare altrimenti la cosa, pigliare uno dei congiurati» (Ds III, vi, 193, p. 597) il sintagma fece pigliare appare spezzato da un inciso; in «Né dubitò fare morire di giustizia una legione intera per volta e una città, e di confinare otto o diecimila uomini con condizioni istrasordinarie» (Ds, III, xlix, 4, p. 786) il fattitivo si presenta nella forma di un’infinitiva apreposizionale fare morire dipendente da un reggente, la seconda infinitiva ha la preposizione: e di confinare; vediamo infine due esempi in cui il fattitivo introduce una o più subordinate: «[scil. monsignore Imbalt] con le sue gente se n’entrò in Arezzo, faccendo intendere ai Fiorentini come egli erano matti e non s’intendevano delle cose del mondo» (Ds I, xxxviii, 18, p. 193), «fecero loro intendere come e’ mandassono a’ Romani otto cittadini» (Ds II,  

113   Esempio di “subordinazione debole” seguita da una riformulazione: dico che M. ha detto che verrà domani.→ M. ha detto che verrà domani, te lo dico io; l’istanza pragmatica è diversa nelle due frasi. Esempio di subordinazione forte: Mi permetto di ricordarti di restituirmi il libro.

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xv, 3, p. 391); il reggente fare intendere ricorre più volte nella corispondenza: «È ci è facto intendere come ...» (Legazioni, in LCSG iv, 27, p. 25). Dalla corrispondenza ricaviamo altri esempi di subordinazione a più livelli: «Noi intendiamo per questa tua lettera come al signore Luca Savello non pare che nella factione disegnata si tragghino e’ fanti di quelli luoghi [...] et come li basterebbe potersi valere di 200 huomini » (Legazioni, in LCSG iv, 382, p. 351); qui abbiamo: verbum recipiendi + 2 completive oggettive introdotte da come; dalla prima di esse dipende un impersonale, che introduce una soggettiva al congiuntivo; dalla seconda dipende un impersonale al condizionale, che introduce un’infinitiva; «Rispondiamoti pertanto come noi voliamo che insieme con decto signore Luca examini bene quello che importi trarre dugento huomini di costì» (Legazioni, in LCSG iv, 382, p. 351: ‘che cosa comporti il fatto di togliere da costì 200 uomini’); qui abbiamo: verbo del dire + subordinata “come + verbo di volontà” + sub. al congiuntivo + relativa al congiuntivo. Vediamo in breve altri fenomeni riguardanti la subordinazione con verbo di modo finito, già esaminati nel Principe (v. p. 67). Si ritrovano esempi di subordinazione multipla: “Tipo che ... e che”: «I quali nel parlare loro dissono che [...] e molte volte avevano [...] e che allora [...]» (Ds II, ii, 54, p. 323); “Tipo come ... e come”: «Intendendo il senato romano come la Toscana tutta aveva fatto nuovo deletto per venire a’danni di Roma, e come i Latini e gli Ernici, [...] si erano accostati con i Volsci [...], giudicò questa guerra dovere essere pericolosa» (Ds III, xxx, 1, p. 707). Si ha l’estrazione del soggetto della subordinata, il quale diventa l’oggetto della sovraordinata: «[egli] conosceva i disordini donde nascevano» ‘conosceva da dove nascevano i disordini’ (Ds, I, xlvii, 22, p. 231), «Dove si vedono due cose notabilissime: l’una, la povertà, e come vi stavano dentro contenti» ‘come stavano contenti dentro la povertà’ (Ds III, xxv, 12, p. 691). Notiamo la presenza della predicazione seconda: «non è possibile sostenere uno nimico che venga grosso a urtarti» (Ds I, xxiii, 10, p. 129). Nella subordinazione un’infinitiva è presente con varie funzioni. Oltre all’accusativo con infinito, si può proporre la seguente tipologia: Infinitiva usata come soggetto di una proposizione: «Noi avemo visto ne’ nostri tempi quale novità ha fatto alla republica di Firenze non potere la moltitudine sfogare l’animo suo ordinariamente contro a uno suo cittadino» (Ds I, vii, 12, p. 52), «Senofonte si aπatica assai in dimostrare quanti onori, quante vittorie, quanta buona fama arrecasse a Ciro lo essere umano e aπabile, e non dare alcuno essemplo di sé né di superbo, né di crudele» (Ds III, xxi, 10, p. 667), «E se in Publicola questi cattivi eπetti non nacquono, ne fu cagione non essere ancora gli animi de’ Romani corrotti» (Ds III, xxii, 35, p. 681), «non avere mai accozzate due potentissime guerre in uno medesimo tempo fu fortuna e non virtù del popolo romano» (Ds II, 1, 8, p. 304); si ritrova anche una serie di sette infinitive nominali: «e crederebbono che lo accrescere la città sua di abitatori, farsi compagni e non sudditi, mandare colonie a guardare i paesi acquistati, fare capitale delle prede, domare il nimico con le scorrerie [...], tenere ricco il publico, povero il privato, mantenere con sommo studio gli esercizi militari, fusse la vera via a fare grande una republica, e ad acquistare imperio» (Ds II, xix, 8, p. 433); l’infinitiva funge anche da predicato nominale: «I modi che ei tenevano era parecchi mesi esercitargli in battaglie finte» (Ds III, xxxviii, 8, p. 756). 114  

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  Sull’uso nominale dell’infinito Bembo (Prose III, xl, p. 231) dichiarava: «E aviene che questa

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Una completiva all’infinito appare senza preposizione: «conobbe non potere fare questo bene alla sua patria» (Ds I, ix, 16, p. 67), «[scil. città] consuete governarsi per sua provinciali» (Ds II, xxi, 7, p. 446), «costretto, per la novità del nimico, fare qualche zuπa» (Ds III, xxxvii, 17, p. 753). Come appare, l’infinito apreposizionale sostituisce l’infinito introdotto da a o da di; il fenomeno si ritrova nelle Lettere: «Io vi prego per l’amore di Dio che voi siate contento stare così tutto questo mese» (n. 104, p. 210), «io sono costretto a maravigliarmi poco o confessare non avere gustate né leggendo né praticando le azioni delli uomini» (Lettere n. 121, p. 240). 115 “A + infinito” dipende da un reggente verbale o nominale: «Restavale solo a dare luogo al governo popolare» (Ds I, ii, 34, p. 28), «la di√cultà o impossibilità che è, nelle città corrotte, a mantenervi una republica o a crearvela» (Ds I, xviii, 28, p. 117), «furono forzati a strangolarlo» (Ds III, vi, 184, p. 594); ricorrente è il costrutto avere a fare ‘dover fare’, di cui si cita un solo esempio: «e’ vi trovò tanti competitori che, avendosi a eleggere tre commessarii per campeggiare Pisa, e’ fu lasciato indietro» (Ds III, xvi, 15, p. 651); la presenza della preposizione articolata indica l’avvenuta nominalizzazione dell’infinitiva: «E dopo molte dispute infra loro, vennono al sangue, alla rovina delle case, al predarsi la roba» (Ds III, xxvii. 8, p. 696), «tanto pigri al pigliare l’arme, che a fatica furono a tempo a scontrare i Franciosi sopra il fiume Allia» (Ds II, xxix, 12, p. 497). Sarà da considerare a parte l’infinitiva preposizionale che ha valore finale: «Roma era a tempo a cancellare la ignominia» (Ds III, xli, 3, p. 765), «Né si poteva, a gastigare una moltitudine, trovare più spaventevole punizione di questa» (Ds III, xlix, 7, p. 787). “Di + infinito” dipende da un reggente verbale o nominale: «[scil. gli abitatori] chiusero la via, a tutti quegli altri che vi venissono ad abitare di nuovo, di potere convenire ne’ loro governi» (Ds I, vi, 8, p. 42), «quelli medesimi Fiorentini ebbono animo di assaltare il duca di Milano in casa, e operare di torgli il regno» (Ds II, xii, 22, p. 380), «questo disordine, di fare poca stima de’ valenti uomini ne’ tempi quieti» (Ds III, xvi, 6, p. 648); «E così colui portò la pena d’essere stato cheto quando e’ doveva parlare, e di avere parlato quando ei doveva tacere» (Ds III, xxxv, 16, p. 743), «sanza curare di lasciare i suoi alloggiamenti» (Ds III, xviii, 10, p. 658); esempi con preposizione articolata: «il modo del fuggirlo [scil. l’odio] è lasciare stare la roba de’ sudditi» (Ds III, xix, 12, p. 663), «le vie dello andarsene» (Ds III, xxxix, 16, p. 761), «il disiderio del vincere» (Ds III, xlviii, 4, p. 783). “Di +infinito” si ritrova negli scritti minori: «Sì che per questo si crede che, non giovando loro el tenerlo con la industria, penseranno di lasciarlo venire, et ogni uno di guardare bene le cose sue; e se pure aranno ad appiccarsi seco [= venire alle armi con lui], farlo, passato che fia, come feciono el Duca di Milano e Viniziani ad el re Carlo» (Lettere n. 112, p. 227), «Farai dunque d’intendere se la cosa sta come da decti imbasciadori ci è suta porta» (Legazioni, in LCSG IV, 365, p. 340). “Da + infinito” dipende da un reggente verbale o, con costrutto ellittico, da un reggente nominale: «[scil. i desideri] nascono o da essere oppressi o da sospizione di essere oppressi» (Ds I, iv, 9, p. 35), «il tempo da potere gastigare la plebe» (Ds I, vii, 2), «ottantamila uomini da portare arme» (Ds II, iii, 6, p. 325), «Il che nacque non da essere il sito di Roma più benigno» (Ds II, iii, 10, p. 326), «Perché tutto nasce da non avere avuto i Viniziani le terre vicine sì ostinate alla difesa  

voce senza termine [scil. l’infinito] si pone in vece di nome bene spesso nel numero del meno [scil. al singolare]». 115   Sull’infinito apreposizionale si vedano: Trolli (1972: 113-15), Bausi (2001: 921).

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quanto ha avuto Firenze [comparazione] (Ds III, xii, 10, p. 628): v. consecutive infinitive (4. 6. 2). “Con + infinito” (per lo più con preposizione articolata) è un costrutto indipendente e ha il valore di una proposizione modale: «E così, col sapere bene accomodare i disegni suoi agli auspicii, prese partito di azzuπarsi» (Ds I, xiv, 10, p. 95), «lo [scil. il disporre le schiere in verticale] fuggono, quando ei possono, col fare la fronte larga come è detto» (Ds II, xvi, 28, p. 404), «e s’egli non dimostrava la sua ambizione con opporsegli, la dimostrava col tacere e con lo straccurare e vilipendere ogni cosa» (Ds III, xv, 7, p. 645); «giudicava più pernizioso perdere la riputazione col non potere difendere quello che si metteva a difendere» (Ds III, xxxvii, 17, p. 752), «E Aristotile, intra le prime cause che mette della rovina de’ tiranni, è lo avere ingiuriato altrui per conto delle donne, con stuprarle o con violarle o con rompere i matrimoni» (Ds III, xxvi, 10, p. 694), «Il che molti a Roma in gioventù fecero, o con il promulgare una legge [...], o col fare simili cose» (Ds III, xxxiv, 15, p. 734); «con il pigliare quel colle ei salvò lo esercito romano» (Ds III, xxxix, 17, p. 761), «[scil. papa Iulio] diliberò col non dare loro tempo fare venire l’uno e l’altro nella sentenza sua» (Ds III, xliv, 6, p. 774). 116 “Per + infinito” ha valore causale e finale; il primo appare in: «per non si essere veduta esperienza del contrario non si conosce» (Ds I, iii, 2, p. 30), «La qual cosa gli fa indegnare in due modi: l’uno, per vedersi mancare del grado loro; per vedersi fare compagni e superiori uomini indegni» (Ds III, xvi, 7, p. 649); «E benché e’ non si vedesse evidentemente che male ne seguisse al publico per non vi avere mandato Antonio, nondimeno se ne potette fare facilissima coniettura» (Ds III, xvi, 16, p. 651), «Perché tutto nasce da non avere avuto i Viniziani le terre vicine sì ostinate alla difesa quanto ha avuto Firenze, per essere state tutte le cittadi finittime a Vinegia use a vivere sotto uno principe, e non libere» (Ds III, xii, 10, p. 628); valore finale: «Se adunque lo acquistare fu per essere pernizioso a’ Romani» (Ds II, xix, 30, p. 439). “In + infinito” ha per lo più il valore di un complemento terminativo introdotto da un reggente nominale o verbale: «ei potette persuaderli che quel bene gli era fatto non era tanto causato dalla venuta de’ nimici, quanto dalla disposizione del senato in beneficarli» (Ds I, xxxii, 4, p. 159), «Tito Livio [...] in tanto procede in laudarlo, che [...] fa questa conclusione, che solo la virtù di Mallio dette quella vittoria ai Romani» (Ds III, xxii, 29, p. 679), «Senofonte si aπatica assai in dimostrare quanti onori [...] arrecasse a Ciro lo essere umano» (Ds III, xxi, 10, p. 667); a volte il costrutto ha la funzione di un aggiunto circostanziale: «E Senofonte [...] mostra che andando Ciro ad assaltare il re d’Armenia nel divisare quella fazione [= nell’organizzare quella spedizione] ricordò a quegli suoi che questa non era altro che una di quelle cacce le quali molte volte avevano fatte seco» (Ds III, xxxix, 6, p. 758). Il costrutto si ritrova anche negli scritti minori: «Noi saremo anchora questa sera brevi in fare risposta ad questa ultima tua de’ dieci dì» (Legazioni, in LCSG iv, 367, p. 341). Questi usi dell’infinito dimostrano che Machiavelli conserva una serie di costrutti infinitivali, aπermatisi nella prosa umanistica, e sa adattarli ai più vari cotesti. Il trionfo delle infinitive conferma la presenza di una componente latineggiante della sintassi dei Discorsi, cui corrisponde la scelta di latinismi lessicali: per es., augumento / -are, fraude / -are, satisfare (e derivati), estimare (e derivati).  

116   Cfr.: «o con incrudelire verso di loro, o con il perdonare loro liberamente» (Del modo di trattare, in Opere, ed. Vivanti, 1, p. 23), «nel giudicare di queste loro terre ribellate» (ivi), «Pure, nel difendere et assaltare terre fanno assai buona pruova» (Ritracto di cose di Francia, ivi, p. 58). Questi costrutti ricorrono anche in Guicciardini, v. 7. 11. 3.

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4. 4. 7. Le proposizioni interrogative indirette Queste subordinate sono spesso assimilate, per la loro funzione, alle completive oggettive (ti chiedo quale sia il migliore) e alle completive soggettive (è noto quale sia il migliore). L’incertezza di confini rispetto alle completive è condivisa anche da altre lingue romanze. 117 Distinguiamo secondo criteri formali sei tipi di base.  

Un’interrogativa indiretta o percontativa (il cui significato, come è noto, non è necessariamente interrogativo, ma piuttosto rappresenta la non-specificazione dell’informazione interessata dall’introduttore) non richiede un nominalizzatore specifico, come accade invece con la frase enunciativa, ma usa le stesse parole interrogative dell’interrogazione diretta (Gaatone 2013: 34-35). Problemi analoghi si presentano nell’analisi delle interrogative indirette presenti in testi spagnoli antichi (Herrero Ruiz de Loizaga 2005: 112-129).

Qui di seguito si esaminano alcuni sottotipi di interrogative indirette, partendo da un criterio formale e facendo poi intervenire osservazioni di carattere semantico e pragmatico-testuale. L’interrogativa se è totale e ha la funzione di una completiva oggettiva: «però mi è parso cosa degna di considerazione vedere se in Roma si poteva ordinare uno stato che togliesse via queste controversie» (Ds I, vi, 4, p. 41), «la quale cosa se fu bene considerata o no, sarebbe da disputare assai» (Ds I, lx, 4, p. 292), «Non so adunque se io meriterò di essere numerato infra quelli che si ingannano» (Ds II, Proemio, 22, p. 301), «vennono i Siracusani in disputa se dovevano seguire l’amicizia romana o la cartaginese» (Ds II, xv, 12, p. 393), «vo’ esaminare se l’artiglierie impediscano che non si possa usare l’antica virtù» (Ds II, xvi, 35, p. 405). 118 Tutti gli esempi hanno l’indicativo, eccetto l’ultimo, che ha il congiuntivo, in rapporto all’espressione di un dubbio o di un’incertezza; in es. I, lx, 4 l’interrogativa precede il reggente. L’interrogativa come ‘in quale modo’ è parziale e ha confini incerti rispetto alla completiva oggettiva come: «E per dare ad intendere meglio questa parte, dico come in Roma era l’ordine del governo, o vero dello stato» (Ds I, xviii, 8, p.113), «e pensò come in quella città si potessi ordinare uno vivere libero» (Ds II, ii, 21, p. 315); in questi due esempi (all’indicativo e al congiuntivo) sembra indiscutibilile il significato ‘in quale modo’. L’interrogativa donde è parziale e indica l’origine di un evento, la fonte di una notizia ecc.: «Pensando dunque donde possa nascere che in quegli tempi antichi i popoli fossero più amatori della libertà che in questi, credo nasca da quella medesima cagione che fa ora gli uomini manco forti» (Ds II, ii, 26, p. 317), «Dubiterà forse alcuno donde nasca che molte mutazioni che si fanno dalla vita libera alla tirannica  

117   Cfr. Colombo (2012: 45); per il francese Muller (1996b: 218-228); per lo spagnolo Herrero Ruiz de Loizaga (2005: 112-113). Alcuni tipi d’interrogative indirette sono tali per la forma ma non per la sostanza: dimmi quanti viaggi hai fatto è un’interrogativa vera, alla quale corrisponde l’interrogativa diretta quanti viaggi hai fatto?; invece tale corrispondenza non esiste per la frase ricordo quanti viaggi hai fatto, che, in base a un criterio di ordinamento formale, si annovera tra le interrogative. 118   Gaatone (1996: 9) ritiene che il franc. si, nelle interrogative indirette totali sia comparabile a que; anche Tesnières (1966: 553-554) esprime il medesimo parere: si è un translativo al pari di que, diversamente dai vocaboli interrogativi che introducono le interrogative indirette parziali; tuttavia Gaatone distingue tra Giovanni non sa che Luisa è qui (subordinata fattiva) e G. non sa se Luisa è qui (non fattiva). Si ricorda il valore di un verbo fattivo (factive verb), «whose use commits a speaker to the thruth of a subordinate proposition» (P. H. Matthews, Oxford concise dictionary of linguistics, Oxford, Oxford University Press, 20143, s. v). Sulla grammaticalizzazione di si in latino v. G. Bodelot, in Bodelot et Al. (2013: 365-379).

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e per contrario, alcuna se ne faccia con sangue, alcuna sanza» (Ds III, vii, 2, p. 599); donde nasca è un cliché, che introduce una completiva soggettiva costruita con il congiuntivo. L’interrogativa quale è parziale e, grazie al variare dei segnacaso, assume più significati; è costruita per lo più con il congiuntivo: «Coloro che leggeranno quale principio fusse quello della città di Roma, e da quali legislatori e come ordinato, non si maraviglieranno che tanta virtù si sia per più secoli mantenuta in quella città» (Ds I, i, 2 p. 9), «Ma per tornare a discorrere quali uomini siano in una republica più nocivi [...], dico che [...] fu data loro autorità dal popolo» (Ds I, v, 15, p. 39), «dove si disputò assai quale sia più ambizioso o quel che vuole mantenere o quel che vuole acquistare» (Ds I, v, 17 p. 40), «Egli mi pare [...] da discorrere quale usi con maggiori esempi questa ingratitudine, o uno populo, o uno principe» (Ds I, xxix, 2, p. 145), «Perché per molti esempli si conosce a quali pericoli si mettessono per mantenere o ricuperare quella, quali vendette ei facessono contro a coloro che l’avessero loro occupata» (Ds II, ii, 3, p. 311). È costruita con l’indicativo se si espongono fatti ritenuti certi: «noi discorreremo nel seguente capitolo di che qualità furano quelli popoli con e quali ebbero a combattere, e quanto erano ostinati a difendere la loro libertà» (Ds II, i, 33, p. 310). La funzione euristica spiega come in questa interrogativa prevalga l’uso del congiuntivo; soltanto nell’ultimo es. appare il congiuntivo dipendente dal reggente si conosce. L’interrogativa quanto è parziale e ha valore quantitativo (sia materiale sia figurato): «Sopra il quale accidente, si nota quello che di sopra si è detto, quanto sia utile e necessario che le republiche con le leggi loro diano onde sfogarsi all’ira» (Ds I, vii, 8, p. 51: si noti la catafora), «sopra il quale ciascuno consideri quanto male saria risultato alla republica romana» (Ds I, vii, 10, p. 52: interrog. oggettiva), «Ciascuno sa con quanta di√cultà Annibale passasse l’alpe» (Ds I, xxiii, 12, p. 130: interrog. strumentale), «Considerasi ancora, per il soprascritto trattato, quanta diπerenzia è da uno esercito contento e che combatte per la gloria sua, a quello che è male disposto e che combatte per ambizione d’altrui» (Ds I, xliii, 2, p. 213: interrog. soggettiva), «Donde si può conietturare quanta bontà e quanta religione sia ancora in quegli uomini» (Ds I, lv, 14, p. 264: interrog. soggettiva, si può epistemico-evidenziale), «Altre volte abbiamo discorso quanto sia utile alle umane azioni la necessità, e a quale gloria siano sute condutte da quella; e come da alcuni filosofi è stato scritto, le mani e la lingua degli uomini [...] non arebbero operato perfettamente [...], se dalla necessità non fussoro spinte» (Ds III, xii, 2, p. 625: interrog. oggettiva); «Dove è da considerare [...] quanto qualche volta possa più negli animi degli uomini uno atto umano e pieno di carità, che uno atto feroce e violento; e come molte volte quelle provincie e quelle città che le armi, gl’instrumenti umani e ogni altra umana forza non ha potuto aprire, uno esemplo di umanità [...] ha aperte» (Ds III, xx, 5, p. 665: interrog. soggettiva). Dei sette esempi d’interrogative indirette qui riportati, quattro sono soggettive (Ds I, vii, 8; I, xliii, 2; I, lv, 14; III, xx, 5); il congiuntivo prevale: si ha un solo es. con l’indicativo (Ds I, xliii, 2) e un solo es. con il condizionale (Ds I, vii, 10). Il congiuntivo prevale nelle interrogative indirette citate: se (4 ess. cong., 1 es. ind.), come (1 es. cong.), donde (2 ess. cong.), quale (4 ess. cong., 1 es. ind.: «di che qualità furano»), quanto (5 ess. cong., 1 es. ind.). Reggenti di interrogative indirette soggettive sono i verbi: pare, si nota, considerasi, si può conietturare, è da considerare. L’interrogativa indiretta multipla non è rara; agli esempi già visti ne aggiungiamo un altro, nel quale appare evidente come il costrutto procuri un periodo compatto e

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ben articolato: «E giudicando non fuora di proposito disputare se tali opinioni sono vere, e quanto le artiglierie abbino accresciuto o diminuito di forze agli eserciti, e se le tolgano o danno occasione ai buoni capitani di operare virtuosamente, comincerò a parlare quanto alla prima opinione» (Ds II, xvii, 5, p. 407). 4. 5. Le proposizioni relative Le relative con antecedente hanno una funzione di attributo del Gruppo nominale cui si riferiscono: di conseguenza non possono che situarsi alla sua destra. Oltre alla posizione obbligata, le relative sono introdotte da: i) un pronome soggetto (r. soggettive), ii) da un pronome oggetto (r. oggettive), iii) da un relativo che forma un gruppo preposizionale (del quale, al quale, per il quale ecc.). È detta “imbricata” la relativa connessa al verbo della proposizione completiva congiunta: Ho incontrato il signore al quale so che sei aπezionato. 119 Una caratteristica che ricorre non raramente nella prosa letteraria del tempo è il distacco della relativa dalla testa, a causa dell’inserimento di un segmento frasale di varia estensione; vediamo un es. di questo fenomeno all’inizio del libro iii:  

Egli è cosa verissima come tutte le cose del mondo hanno il termine della vita loro; ma quelle vanno tutto il corso che è loro ordinato dal cielo, generalmente, che non disordinano il corpo loro, ma tengonlo in modo ordinato o che non altera o, s’egli altera, è a salute e non a danno suo (Ds III, i, 2, p. 523).

Il distacco colpisce il nesso quelle che ed è provocato dall’avanzamento della principale; l’ordine normale avrebbe dovuto essere: ma quelle che non disordinano il corpo loro, ma tengonlo in modo ordinato o che non altera o, s’egli altera, è a salute e non a danno suo, vanno tutto il corso che è loro ordinato dal cielo. A provocare il distacco dalla testa è la lunga e di√cilmente gestibile relativa, che si compone di tre membri, l’ultimo dei quali ingloba un inciso: chi scrive teme di perdere il filo e di conseguenza anticipa il componente logicamente e semanticamente più importante. Si distingue tra la “relativa restrittiva”, necessaria all’identificazione del referente (prendo il bus che va al centro, non ne prendo un altro) e la “relativa esplicativa” (o appositiva), che non serve all’identificazione del referente e può essere soppressa senza nuocere al significato complessivo della frase (prendo il bus, che è il mezzo di trasporto più comodo). La relativa restrittiva richiama l’uso del congiuntivo: «ne accusavano la ambizione di qualche potente che nutrisse i disordini per potere fare uno stato a suo proposito e tôrre loro la libertà» (Ds I, xlvii, 21, p. 230), «e guastando ogni altra cosa che rendesse alcun segno dell’antichità»: (Ds II, v, 8, p. 341). Della coniunctio relativa si è trattato in 4.2.1. Le relative esplicative, che ammettono vari complementatori, possono assumere diversi valori circostanziali: temporali, causali, condizionali ecc.: v. i paragrafi dedicati alle corrispondenti proposizioni esplicite (utile la consultazione di Guimier 1993). Sono dette “attributive” le relative che combinano le funzioni delle completive e delle relative: i) Il tavolo ha le ante che si piegano = pieghevoli; ii) C’è solo Carlo che sappia il russo = Solo C. sa il russo; iii) Ho i capelli che s’imbiancano = I miei capelli s’imbiancano (attributo del soggetto reale [+ umano]); iv) La vidi che si avvicinava = Vidi lei che era sul punto di avvicinarsi (attributo dell’oggetto); è detta anche relativa attributiva o predicativa; v) Sono là che aspettano = Loro sono in attesa là (attributo del soggetto loro). 119   Alla relativa si può connettere un’interrogativa indiretta; l’esempio cit. diventerà: Ho incontrato un signore molto esigente, al quale non so se potresti piacere. Della coniunctio relativa si è parlato in 4. 2. 1.

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Occupa per lo più la prima posizione nel periodo la “relativa senza antecedente” introdotta da chi con funzione di soggetto «Chi vuole fare tutte queste cose, conviene che tenga lo stile e modo romano» (Ds II, vi, 16, p. 344), «E chi contro a questa oppinione mi allegasse negli antichi tempi Taranto, e ne’moderni Brescia [...], rispondo che» (Ds II, xxiv, 41, p. 473), «Chi considererà, adunque, quanto è detto, non biasimerà in questo Atene, né lauderà Roma» (Ds I, xxviii, 8, p. 144). Meno frequente è il tipo introdotto da un pronome composto: «Colui che desidera o vuole riformare lo stato d’una città [...] è necessitato a ritenere l’ombra almanco de’ modi antichi» (Ds I, xxv, 2, p. 135). Esempi con chi (personale-relativo) soggetto e preceduto da preposizione: «le quali cose tutte spaventano, non che altro, chi le legge» (Ds I, iv, 8, p. 35), «ordinare punizioni a chi contrafacessi» (Ds I, ii, 15, p. 21), «Pur nondimeno, il più delle volte sono causati da chi possiede» (Ds I, v, 18, p. 40), «E’ si conosce facilmente, per chi considera le cose presenti e le antiche, come in tutte le città e in tutti e popoli sono quegli medesimi desiderii» (Ds I, xxxix, 2, p. 194). Il luogo di ciò che, ricorrente nelle Lettere, appare quello che: «Quello che fa agli eserciti nostri mancare di potersi rifare tre volte, è lo avere perduto il modo di ricevere l’una stiera nell’altra» (Ds II, xvi, 22, p. 402). Le relative soggettive con antecedente occupano varie posizioni nel periodo; vediamone due esempi aventi valore esplicativo: «mi farò da’ Cartaginesi, i quali erano di gran potenza e di grande estimazione quando i Romani combattevano co’ Sanniti e co’ Toscani» (Ds II, 1, 24, p. 308), «I Svizzeri, che sono i maestri delle moderne guerre, [...] hanno cura di mettersi in lato» (Ds II, xvi, 32, p. 405). Vi sono relative esplicative che indicano il proseguimento di un’azione e che potrebbero essere sostituite con una proposizione coordinata (il quale/la quale = e questo/questa): «Genova (nonostante la fortezza) si ribellò, e prese lo stato di quella Ottaviano Fregoso, il quale con ogni industria, in termine di sedici mesi, per fame la [scil. la fortezza] espugnò» (Ds II, xxiv, 29, p. 471). Analogo carattere hanno altri esempi: «La prima [scil. guerra] fu quella quando Roma fu presa, la quale fu occupata da quei Franciosi che avevano tolto [...] la Lombardia a’ Toscani» (Ds II, viii, 9, p. 353), «Vedesi pertanto i Romani, ne’ primi augumenti loro, non essere mancati etiam della fraude, la quale fu sempre necessaria a usare a coloro che di piccoli principii vogliono a sublimi gradi salire» (Ds II, xiii, 17, p. 387). 120 Esempi di relative restrittive, costruite con l’indicativo: «ho giudicato necessario scrivere, sopra tutti quelli libri di Tito Livio che dalla malignità de’ tempi non ci sono stati intercetti, quello che io [...] iudicherò essere necessario» (Ds I, Proemio, 9, p. 7), «Quegli altri potenti che sono discosto, e che non hanno comerzio seco, curano la cosa come cosa longinqua» (Ds II, i, 23, p. 308), «A quegli filosofi che hanno voluto che il mondo sia stato ab eterno, credo si potesse replicare che» (Ds II, v, 2, p. 339). Più frequenti sono le relative restrittive con il congiuntivo: «depose la dittatura e sottomessesi al giudizio che di lui fusse fatto dal popolo» (Ds I, v, 17, p. 40), «ne accusavano la ambizione di qualche potente che nutrisse i disordini per potere fare uno stato a suo proposito» (Ds I, xlvii, 21, p. 231), «Perché, se non si è trovato mai republica che abbi fatti i progressi che Roma, è nato che [= ciò è dipeso dal fatto che] non si è trovata mai repubblica che sia stata ordinata a potere acquistare come Roma» (Ds II, 1, 6, p. 304), «sempre s’ingegnarono avere nelle provincie nuove  

120   Le relative dei due ultimi ess. hanno un valore attualizzante e definitorio, che si ritrova sovente nelle Lettere: «L’altra [scil. ragione] è per valersi delle iniurie ricevute dalli italiani e riacquistare lo onore che lui nella venuta in Toscana perse» (Lettere, in Opere, ed. Vivanti, ii, p. 126).

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qualche amico che fussi scala o porta a salirvi o entrarvi» (Ds II, 1, 29, p. 309), «perché e’ [scil. uno tiranno virtuoso] non può onorare nessuno di quegli cittadini, che siano valenti e buoni [r. restrittiva], che egli tiranneggia [r. descrittiva] non volendo avere ad avere sospetto» (Ds II, ii, 16, p. 313). Appaiono raramente due fenomeni che si ritrovano nella prosa letteraria dei secoli precedenti: l’uso della relativa quale oggettiva: «[scil. Saturnino] gli chiese una cedola di sua mano, che facessi fede di questa commissione; la quale Plauziano, accecato dall’ambizione, gli fece» (Ds III, vi, 85, p. 569) e la relativa distanziata dalla testa: «Tullo re di Roma e Mezio re di Alba convennero che quello populo fusse signore dell’altro, di cui i soprascritti tre uomini vincessero» (Ds I, xxii, p. 127), «[scil. Tito Livio] aπerma come quella parte arebbe vinto, che avesse avuto per consolo Manlio» (Ds III, xxii, 30, p. 680); «Apollo e certi altri risponsi dicevano che quello anno si espugnerebbe la città de’ Veienti che si derivassi il lago Albano» (Ds I, xiii, 4, p. 90). Il che relativo pronome polivalente è presente in una celebre lettera: «mi pasco di quel cibo, che solum è mio, e che io nacqui per lui» (a Francesco Vettori 10-12-1513, in Opere, Vivanti, II, p. 296); cfr.: «E quanto a quell’ozio che le [scil. alla città] arrecasse il sito, si debbe ordinare che a quelle necessità le leggi la costringhino che [= alle quali] il sito non la costrignesse» (Ds I, i, 16, p. 13). Sovente le relative impostano l’architettura dei periodi; nel passo che segue (dove compaiono una subordinazione di 1° grado, introdotta da come, e una subordinazione di 2° grado introdotta da che) le due relative, destinate a integrare due subordinate, poste all’inizio e alla fine della struttura complessa, servono a equilibrarla e a renderla più e√cace sul piano argomentativo: Dove si debbe notare come e’ può spesso occorrere che due eserciti, che siano a fronte l’uno dell’altro, siano nel medesimo disordine e patischino le medesime necessità, e che quello resti poi vincitore che è il primo ad intendere le necessità dello altro (Ds III, xviii, 13, p. 659). 121  

La complessità periodale risulta spesso dall’aggiunta di più componenti, poste in successione e uniti da vari connettori. Diversamente da quanto accade nel filone della prosa Boccaccio-Bembo, tali connessioni presentano una minore rigidità. Detto in breve, i periodi presenti nei Discorsi sono sovente estesi, ma il grado di complessità non è elevato; inoltre, la lettura è agevolata da elementi di raccordo e da segnali discorsivi. 4. 6. Le proposizioni avverbiali Tutte le proposizioni subordinate che non sono completive, né relative, sono considerate avverbiali, le quali svolgono un ruolo interno al periodo anche se, in confronto alle soggettive e alle oggettive, sono più lontane dal centro, costituito dal predicato verbale della principale. L’analisi della frase in costituenti può, in prima istanza, assimilare le avverbiali ai complementi circostanziali della frase semplice, ma tale operazione non è sempre valida: non esistono complementi che esprimono un rapporto concessivo, ipotetico, consecutivo ecc. (Colombo 2012: 13-14; Riegel et Al. 2014: 841). Generalmente le proposizioni avverbiali si raggruppano in famiglie caratterizzate da a√nità semantica e di perifericità. Secondo il primo di questi due 121

  Si debbe notare ha valore deontico; può spesso occorrere ha valore dinamico.

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criteri si distinguono, tra l’altro, dei rapporti di causa-eπetto, cui corrispondono le proposizioni causali, finali, concessive, consecutive e condizionali. Su un altro fronte si privilegia, quale criterio distintivo, il grado d’integrazione: per es., nel caso delle condizionali vi è un evidente rapporto d’interdipendenza. Riguardo alla topologia, si ammette che le avverbiali poste alla fine del periodo hanno un carattere predicativo, poste all’inizio di esso stabiliscono invece il punto di partenza dell’enunciato (soggetto psicologico o termine di riferimento a quanto precede), in posizione mediana la funzione è meno determinata, ma sovente agevola la ripresa di quanto è detto in precedenza (Gardes Tamine 2013: 94). Sarebbe necessario distinguere tra le avverbiali che si riferiscono agli attanti della narrazione o dell’argomentazione e le circostanziali che esprimono il giudizio o il punto di vista dell’elocutore. Occorrerebbe inoltre sostituire l’approccio rigidamente categoriale – che tiene conto soltanto della presenza o dell’assenza di un fenomeno – con una considerazione dimensionale (lungo un continuum) dei fenomeni stessi. 4. 6. 1. Causalità Manifestano la causalità testuale in modo regressivo, a diπerenza delle consecutive che la manifestano in modo progressivo. In base alla forma, si distinguono in esplicite e implicite; quanto alla posizione, possono precedere o seguire la principale, più raramente appaiono come incidentali. Come tutte le configurazioni sintattiche, anche le causali si presentano come “fasci di forme”, che attraversano i tipi testuali e i generi ma, poiché tali fasci sono legati alle tradizioni linguistiche di un’epoca, si addensano in configurazioni diverse e si strutturano in modi particolari, a seconda delle istanze pragmatiche presenti nel testo. 122 Nei Discorsi le causali sono una delle risorse fondamentali di un argomentare, imbastito dall’autore più che dai personaggi. L’espressione della causalità e della giustificazione lasciano tracce della relazione argomentativa (Combettes 2014), tracce che si rivelano con la posizione nell’ambito del periodo e del testo nonché con la loro frequenza. Nei Discorsi prevale la precedenza rispetto alla principale. Si vedano, nel passo che segue, quattro causali coordinate, che esprimono il motivo di dire (tipico dei testi argomentativi) e che qui appaiono tra loro connesse; dopo aver aπermato che, nella storia di Roma, «quello che non aveva fatto un ordinatore lo fece il caso», si spiega il fondamento di tale aπermazione:  

Perché se Roma non sortì la prima fortuna, sortì la seconda: perché i primi ordini suoi, se furano difettivi, nondimeno non deviarono dalla diritta via che li potesse condurre alla perfezione. Perché Romolo e tutti gli altri re fecero molte e buone leggi, conformi ancora al vivere libero; ma perché il fine loro fu fondare uno regno e non una republica, quando quella città rimase libera vi mancavano molte cose che era necessario ordinare in favore della libertà, le quali non erano da quegli re ordinate (Ds I, ii, 31, p. 27).

Si ritrovano schemi di periodi ricorrenti; per es., due causali, una all’inizio del passo, l’altra alla fine, costituiscono un tipico modo argomentativo: «E perché nessun indizio si può avere maggiore d’uno uomo che le compagnie con quali egli usa, meritamente uno che usa con compagnie oneste acquista buono nome, perché è impossibile che non abbia qualche similitudine di quelle» (Ds III, xxxiv, 8, p. 723). Spesso, 122   Philippe (2008) studia le configurazioni sintattiche come “fasci di forme”, i cosiddetti patrons, i quali attraversano i generi, ma sono legati all’imaginaire langagier di un’epoca. Per le causali presenti nel Principe v. 3.7.1.

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come accade nel Principe, due causali che sono in rapporto tra loro, si susseguono. 123 L’interpretazione delle causali è condizionata dalla posizione iniziale, la quale agisce in due punti: i) sulla portata extra-predicativa dell’enunciato, nel senso che una circostanziale in posizione iniziale può rappresentare il focus dell’enunciato (invece in un’altra posizione la circostanziale è interpretata come intra-predicativa o come un complemento interno a un costituente); ii) sulla portata dell’enunciazione, vale a dire, la circostanziale in posizione iniziale può avere un valore argomentativo o modale, e può marcare un’opposizione implicita, talvolta polemica. 124 I principali tipi di causali presenti nei Discorsi sono: Causale perché anticipata alla principale: «E perché tutti gli stati nel principio hanno qualche riverenzia, si mantenne questo stato popolare un poco» (Ds I, ii, 23, p. 24), «E perché in ogni republica sono uomini grandi e popolari, si è dubitato nelle mani di quali sia meglio collocata detta guardia» (Ds I, v, 3, p. 37), «perché quando questi modi ordinari non vi siano, si ricorre agli straordinari» (Ds I, vii, 8, p. 51), «Perché e’ pareva bene ai Romani ragionevole non potere difendere i Campani come amici, contro a’ Sanniti amici, ma pareva ben loro vergogna non gli difendere come sudditi ovvero raccomandati» (Ds II, ix, 6, p. 360). Causale perché posposta alla principale: «debbe, in tutti quelli modi che si può, chi le ordina proibire loro [scil. alle republiche] lo acquistare, perché tali acquisti fondati sopra una republica debole sono al tutto la rovina sua» (Ds I, vi, 26, p. 46), «Questo discorso ho fatto perché alla plebe romana non bastò assicurarsi de’ nobili per la creazione de’ tribuni (Ds I, xxxvii, 6, p. 178), «Intra le altre cose che sono necessarie a uno capitano di eserciti, è la cognizione de’ siti e de’ paesi: perché, sanza questa cognizione generale e particulare, uno capitano di eserciti non può bene operare alcuna cosa» (Ds III, xxxix, 2, p. 757). E di questo sottotipo vediamo un esempio più esteso:  



E però, mai un principe debbe volere mancare del grado suo, e non debbe mai lasciare alcuna cosa d’accordo, volendola lasciare onorevolmente, se non quando e’ la può, o ei si crede che la possa tenere: perché gli è meglio, quasi sempre, sendosi condotta la cosa in termine che tu non la possa lasciare nel modo detto, lasciarsela tôrre con le forze, che con la paura delle forze (Ds II, xiv, 7, p. 389).

Causale poiché anticipata alla principale: «Poiché di sopra si è ragionato del modo del procedere nella guerra osservato da’ Romani, e come i Toscani furono assaltati da’ Franciosi, non mi pare alieno dalla materia discorrere come le si fanno di dua generazioni guerre» (Ds II, viii, 2, p. 351: nota subordinazione del modo ... e come). Nei Discorsi si contano 874 occorrenze di perché, contro 19 di poiché: ques’ultima congiunzione introduce talvolta proposizioni che hanno un valore causale-temporale e, inoltre, in alcuni passi, presenta cause riferite all’enunciatore. 125  

123

  Lo stesso fenomeno si ha nel Principe: v. 3. 7. 1.   La posizione iniziale di una circostanziale orienta l’interpretazione della sua portata verso due tipi di predicatività: extra-predicativa o intra-predicativa (complemento interno a un costituente). Una circostanziale posta in posizione iniziale può rappresentare il focus dell’enunciato e può assumere un valore argomentativo o modale; infine può marcare un’opposizione implicita, talvolta polemica (Le Querler 1993: 183-184). Per l’it. ant., v.: «Ma perché Malebolge inver’ la porta/del bassissimo pozzo tutta pende, /lo sito di ciascuna valle porta/che l’una costa sale e l’altra scende» (If xxiv, 36-40). La causale perché in capo al periodo risulta talvolta da un’interpunzione moderna: v. SIA (2012: 357-358). 125  Per lo studio delle causali introdotte da poiché nella prosa di Machiavelli, v. Patota (2005: 243-246). È utile ricordare una particolarità del francese, lingua in cui la diπerenza tra parce que e car consiste nel fatto che il primo connettore pone all’interno di una subordinazione sintattica una relazione di causalità, al fine di spiegare un fatto conosciuto dall’allocutario; invece car (al pari di 124

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Causale “per + infinito” anticipata o posticipata alla principale: «E ne danno per esemplo la medesima Roma, che per avere i tribuni della plebe questa autorità nelle mani, non bastò loro avere un consolo plebeio, che gli vollono avere amendue» (Ds I, v, 10, p. 38), «parendogli, quanto alla salute di Roma, per avere salvato il Campidoglio, avere meritato quanto Camillo, e quanto alle altre belliche laude non essere inferiore a lui (Ds I, viii, 2, p. 56), «il che è nato per avere quella [la setta cristiana] mantenuto la lingua latina, il che feciono forzatamente, avendo a scrivere questa legge nuova con essa (Ds II, v, 5, p. 340) L’infinitiva causale introdotta da per (per lo più posposta alla principale) è un aspetto del latineggiamento sintattico. Con la causale distaccata e “indipendente” si pone un problema interpretativo. In quali modi e circostanze la causale posposta acquista un’autonomia enunciativa (marcata con un punto), ma non sintattica, rispetto alla principale? Una delle condizioni è la lunghezza del periodo, l’altra è il rilievo che si vuol dare alla causale: «Io vi mando uno presente, il quale, se non corrisponde agli obblighi che io ho con voi, è tale, sanza dubbio, quale ha potuto Niccolò Machiavelli mandarvi maggiore. Perché in quello io ho espresso quanto io so e quanto io ho imparato per una lunga pratica e continua lezione delle cose del mondo» (Ds, Dedica, 2, p. 789). Nella causale introdotta da la cagione è perché (v. 2.3. e 4.5.) il connettore composto si mantiene unito: «La cagione è perché la natura ha creati gli uomini in modo che possono desiderare ogni cosa e non possono conseguire ogni cosa» (Ds I, xxxvii, 2-6, pp. 177-178), oppure la copula si allontana dalla testa (e questo è il segno di una grammaticalizzazione ancora in fieri): «E la cagione perché a’ Romani tornò bene questo partito, fu perché lo stato era nuovo, e non per ancora fermo» (Ds I, xxix, 12, p. 145); uno stacco più sensibile tra le componenti è segnato dalla ripresa con un deittico: «il quale [scil. obligo] è la seconda cagione della rovina nostra: questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa» (Ds I, xii, 18, p. 87). La gerundiale con valore causale precede spesso la principale; le due proposizioni sono coreferenti, talvolta sono in un rapporto non diretto. In «E parendo alla nobiltà che tale autorità fusse fatta contro a lei, sparsono per Roma che non i nobili erano quegli che cercavano gli onori» (Ds I, v, 16, p. 40), da un attante [+ umano] si passa a un impersonale; ciò accade anche in «intendendo i capitani delle genti fiorentine come il campo viniziano partiva, si fecero in su questa nuova gagliardi» (Ds III, xviii, 19, p. 661). Invece in «Essendo in Roma una gravissima pestilenza, e parendo per questo agli Volsci e agli Equi che fusse venuto il tempo di potere oppressare Roma, fatto questi due popoli uno grossissimo esercito, assaltarono i Latini e gli Ernici» (Ds I, xxxviii, 2, p. 186) si inizia con due gerundiali assolute, e gli attanti della seconda sono ripresi da un “nome generale”. Poste dopo la principale, tre gerundiali spiegano le cause dell’aπermazione in essa rappresentate: «Quinci nasce che le terre, doppo la rebellione, sono più di√cili ad acquistare, che le non sono nel primo acquisto: perché, nel principio, non avendo cagione di temere di pena (per non avere oπeso), si arrendono facilmente; ma parendo loro, sendosi dipoi ribellate, avere oπeso, e per questo temendo la pena, diventono di√cili ad essere espugnate» (Ds III, xii, 7, p. 627). Come nel Principe, anche nei Discorsi appare un costrutto tipico dell’italiano antico: «non fu la ratificazione accettata, come quello che [scil. il re] conobbe i Fiorentini essere venuti forzati e non volontarii nella amicizia sua» (Ds II, xv, 20, p. 395). 126  

puisque) suppone due successivi atti di enunciazione: il primo pone P, il secondo lo giustifica dicendo Q (Amossy 2014: 200). 126   La “causale qualificativa” della forma come colui che è studiata da Ulleland (2011: 67-74); cfr. Chiappelli (1969: 131).

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Nel corpo di una causale s’inserisce talvolta, come un’incidentale, una concessiva: «Perché, ancora che il modo istrasordinario per allora facesse bene, nondimeno lo esemplo fa male, perché si mette una usanza di rompere gli ordini per bene» (Ds I, xxxiv, 16, p. 170), «Perché, ancora che i nobili desiderino tiranneggiare, quella parte della nobiltà che si trova fuori della tirannide è sempre inimica al tiranno» (Ds I, xl, 35, p. 207); talvolta s’inserisce una condizionale: «Perché, se gli avessero levato di mano quelle armi [...], arebbono potuto opporsegli» (Ds I, lii, 8, p. 246); talvolta s’inseriscono una o più gerundiali: «Perché, sendo Marco Antonio stato giudicato inimico del senato, e avendo quello grande esercito insieme adunato [...], confortò il senato a dare riputazione a Ottaviano» (Ds I, lii, 13, p. 247); queste combinazioni di avverbiali contribuiscono a formare moduli argomentativi. Negli scritti non letterari si ritrovano gli stessi tipi. Causale perché anticipata alla principale: «Et perché non è ragionevole che per uno medesimo conto e’ sieno aπatichati in dua luoghi et habbino dua carichi, farai d’intendere bene e’ casi loro et farai loro ragione» (Legazioni, in LCSG iv, 21, p. 21), «Perché si dia animo a e’ ciptadini nostri di operare bene [...], habbiamo deliberato che Ciechotto Tosinghi habbi 250 provigionati» (Legazioni, in LCSG iv, 276, p. 259), «Ma perché non si usa allegare e’ Romani, Lorenzo de’ Medici disarmò el popolo per tenere Firenze» (Lettere n. 121, p. 242). Si noti l’uso di che causale: «io mi viverò come io ci venni, che nacqui povero, e imparai prima a stentare che a godere» (Lettere n. 206, p. 363).

4. 6. 2. Consecutività Le consecutive rappresentano l’eπetto dell’evento o dello stato di cose espresso dalla principale, che obbligatoriamente seguono; sono anticipate da un antecedente che può essere: i) un SA o un SN; ii) un avverbio quantificatore così, tanto tanto che, talché, talmente che ecc. Dal punto di vista semantico, le consecutive si dividono in esoforiche (la conseguenza è l’eπetto di un processo enunciato in precedenza) ed endoforiche (la conseguenza deriva dal fatto che una qualità viene intensificata); vi sono poi consecutive dotate di un valore metadiscorsivo (Monte/Philippe 2014: 9). Nei Ds l’evento è sovente presentato come una conseguenza dell’agire politico e acquista un valore esemplare. Nell’uso di queste proposizioni appare un tratto del discorso epidittico, che testimonia l’esistenza di un accordo sui valori; la sintassi è messa in rapporto con le componenti semantico-pragmatiche, le quali attraversano generi appartenenti a formazioni socio-discorsive diverse tra loro. Consecutive aventi un antecedente SA o SN: «dicono Roma essere stata una republica tumultuaria, e piena di tanta confusione che, se la buona fortuna e la virtù militare non avesse sopperito a tanti difetti, sarebbe stata inferiore a ogni altra republica» (Ds I, iv, 2, p. 33), «[scil. i Romani] furono tanto pigri al pigliare l’arme, che a fatica furono a tempo a scontrare i Franciosi sopra il fiume Allia» (Ds II, xxix, 12, p. 497). Consecutive prive di antecedente: «Al contrario intervenne a Solone, il quale ordinò le leggi in Atene che [= in modo tale che], per ordinarvi solo lo stato popolare, lo fece di sì breve durata che avanti morisse vi vide nata la tirannide di Pisistrato» (Ds I, ii, 29, p. 26); nel passo si susseguono due consecutive: la prima con che, la seconda con antecedente SA. Consecutive aventi come antecedente un avverbio quantificatore. Tipo tanto ... che: «Perché gl’importa tanto a una città lo essere serva, che mai non si doveva credere che alcuno di quelli re o di quelli popoli stessero contenti» (Ds I, vi, 10, p. 43), «I Fiorentini non avevano rimedio alcuno con Castruccio signore di Lucca, perché ei faceva loro la guerra in casa, tanto che gli ebbero a darsi, per essere difesi, al re Ru-

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berto di Napoli» (Ds II, xii, 21, p. 380). Tipo tale ... che: «si levò il popolo contro di quella [scil. la nobilità romana]; tale che, per non perdere il tutto, fu costretta concedere al popolo la sua parte, e dall’altra parte il senato e i consoli restassono con tanta autorità che potessono tenere in quella republica il grado loro» (Ds I, ii, 34, p. 28). Consecutive aventi un antecedente composito: «[scil. gli uomini] hanno posto una necessità di esercizio a quegli che avevano a essere soldati: di qualità che per tale ordine vi sono diventati migliori soldati» (Ds I, i, 16, p. 14), «E si ridusse la cosa in termine che a uno consolo non pareva poter trionfare, se non portava col suo trionfo assai oro e argento e d’ogni altra sorta preda nell’erario» (Ds II, vi, 18, p. 349), «E perché tale cognizione è di√cile, merita tanto più laude quello che adopera in modo che la coniettura» (Ds III, xviii, 3, p. 656: ‘fa in modo di arrivarci per congettura’). Relative con valore consecutivo (congiuntivo): «nondimeno non si è trovato ancora alcuno de’nostri contemporanei capitani che gli antichi ordini imiti, e i moderni corregga» (Ds II, xvi, 33, p. 405), «E se la sorte facesse che vi surgesse uno tiranno virtuoso, il quale per animo e per virtù d’arme ampliasse il dominio suo, non ne risulterebbe alcuna utilità a quella republica» (Ds II, ii, 16, p. 313). Consecutive “da + infinito”: «non avendo quegli popoli che a∫iggevano la Italia navigii da poterli infestare» (Ds I, i, 7, p. 10), «Coriolano [...] consigliò come egli era venuto il tempo da potere gastigare la plebe e tôrle quella autorità» (Ds I, vii, 7, p. 51), «nondimeno non si potette mai giustificare, per non essere modi in quella republica da poterlo fare» (Ds I, viii, 25, p. 61), «nel tempo del sesto re in Roma abitavano ottantamila uomini da portare arme» (Ds II, iii, 6, p. 325). Un valore consecutivo ha anche, in alcuni cotesti, il connettore donde (v. 2.6): «per fuggire simile male, si riducevano a fare leggi, ordinare punizioni a chi contrafacessi: donde venne la cognizione della giustizia» (Ds I, ii, 15, p. 21); dalla funzione di connettore frasale si passa facilmente a quella di ordinatore testuale: «Non solamente gli augurii (come di sopra si è discorso) erano il fondamento in buona parte della antica religione de’ gentili, ma ancora erano quegli che erano cagione del bene essere della republica romana. Donde i Romani ne avevano più cura che di alcuno altro ordine di quella» (Ds I, xiv, 2, p. 93), «E tornando quello Orazio vincitore in Roma, scontrando una sua sorella, che era a uno de’ tre Curiazii morti maritata, che piangeva la morte del marito, l’ammazzò. Donde quello Orazio per questo fallo fu messo in giudizio, e dopo molte dispute fu libero, più per gli prieghi del padre, che per li suoi meriti» (Ds I, xxii, 4, p. 127). Anche il nesso tanto che può assumere il valore di ordinatore testuale: e quella oppressione gli fa sì disposti alla tua rovina, e gli accende in modo, che quella fortezza, che ne è cagione, non ti può poi difendere. Tanto che un principe savio e buono, per mantenersi buono, per non dare cagione né ardire a’ figliuoli di diventare tristi, mai non farà fortezza, acciò che quelli non in su le fortezze, ma in sulla benivolenza degli uomini si fondino (Ds II, xxiv, 15, p. 466).

Particolarmente nelle scritture non letterarie, oltre ai tipi che abbiamo esaminato, si ritrova il costrutto “che + non + congiuntivo”: «non ho voluto che passi questo sabato che io non vi scriva» (Lettere n, 210, p. 370). 4. 6. 3. Concessività Il contenuto della concessiva è un caso particolare di relazione avversativa, che si stabilisce tra P e Q; a partire da una circostanza data, si segnala una conseguenza

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inaspettata: il contrasto è motivato dalla frustrazione di un’aspettativa; invece e e ma codificano solo in parte le componenti del contenuto concessivo. La ‘guida testuale’ manca in piove ed è uscito senza l’ombrello, dal momento che il contenuto concessivo deve essere inferito. Nei Discorsi le concessive sono introdotte dalle congiunzioni sebbene, quantunque, benché, ancora che, avvenga che, come che. 127 La concessiva precede la principale, nella quale si trovano di frequente gli avverbi anaforici nondimanco, nondimeno, tuttavia, ciononostante, che, in virtù del loro valore avversativo, raπorzano il significato concessivo. Tra i marcatori di annuncio, che possono introdurre una concessiva, si annovera certo, che richiede un successivo connettore, al fine di completare la sua funzione nel testo; l’anteposizione di certo ne favorisce la funzione di annunciatore; nei Discorsi certo è Agg o N; si ritrova un’occorrenza di al certo Avv e una di certamente. 128 La concessiva è una struttura portante dell’argomentazione; precede quasi sempre la principale e si presenta con i vari tempi del congiuntivo; a seconda dei contesti, i tipi principali possiedono un diversa forza pragmatica. Tipo ancora che: «Ancora che per la invida natura degli uomini sia sempre suto non altrimenti periculoso trovare modi e ordini nuovi che sia stato cercare acque e terre incognite [...] nondimanco [...] ho deliberato di entrare per una via» (Ds I, Proemio, 1, p. 3); «Ancora che ai Romani succedesse felicemente essere liberali al popolo [...], non sia alcuno che [...] diπerisca ne’ tempi de’ pericoli a guadagnarsi il popolo» (Ds I, xxxii, 2, p. 158), «Ancora che lo usare la fraude in ogni azione sia detestabile, nondimanco nel maneggiare la guerra è cosa laudabile e gloriosa» (Ds III, xl, 2, p. 761); il tipo, più volte ripetuto, rappresenta una formula di apertura. Tipo non ostante che: «Ma vegnamo a Roma, la quale, non ostante che non avesse uno Ligurgo [...], nondimeno furo tanti gli accidenti che in quella nacquero, per la disunione che era intra la plebe e il senato, che quello che non aveva fatto uno ordinatore lo fece il caso» (Ds I, ii, 30, p. 27: nota il sintagma causale), «Non ostante che la virtù di Furio Cammillo [...] avesse fatto che tutti i cittadini romani [...] cedevano a quello, nondimanco Mallio Capitolino non poteva sopportare che gli fusse attribuito tanto onore e tanta gloria» (Ds I, viii, 1, p. 56); con ordine inverso: «Nondimeno, quando la ragione mostrava loro una cosa doversi fare, non ostante che gli auspicii fossero avversi la facevano in ogni modo» (Ds I, xiv, 5, p. 94). Tipo avvenga che: «E avvenga che quegli suoi re perdessono l’imperio [...], nondimeno quegli che li cacciarono, ordinandovi subito due consoli che stessono nel luogo de’ re, vennero a cacciare di Roma il nome e non la potestà regia» (Ds I, ii, 33, p. 28), «Avvenga che Roma avesse il primo suo ordinatore Romolo [...], giudicando i cieli che gli ordini di Roma non bastassero a tanto imperio, inspirarono nel petto del senato romano di eleggere Numa Pompilio per successore a Romolo» (Ds I, xi, 2, p. 76: nota la prep. a ). Tipo benché: «e gli popoli [...] benché siano ignoranti, sono capaci della verità» (Ds I, iv, 10, p. 36), «E benché poi tale imperio si sia risoluto, non si sono potute  



127  Per come che introduttore di concessiva in decadenza alla fine del Cinquecento v. Tesi (2009: 195). Si noti l’assenza di conciossiacosaché; del resto anche il pronome ciò risulta pressoché assente nei Discorsi. Sulle concessive introdotte da come che v. Trolli (1972: 150). 128   Per lo studio degli avverbi certamente, certo, al certo, v. Nølke (2014), che esamina la funzione dei cosiddetti “marcatori annunciatori” del francese; tra i quali si trova certes, che assume un significato concessivo nella frase: Certes il fait beau, mais j’ai trop de tavail, del tutto corrispondente a Certo è una bella giornata, ma io ho tanto da fare.

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le città ancora rimettere insieme né riordinare alla vita civile, se non in pochissimi luoghi di quello imperio» (Ds II, ii, 39, p. 319), «E benché sopra questo se ne facessero assai concioni e generassisene assai tumulti, non pertanto non ci fu mai rimedio che volesse diporlo» (Ds III, xlvi, 7, p. 780: nota l’enclitica -sene). Tipo come che: «E debbono tutte le cose che nascano in favore di quella, come che le giudicassono false, favorirle e accrescerle» (Ds I, xii, 8, p. 84: debbono deontico). Un tipo particolare di concessiva è introdotto da un nesso analitico: «E dato che così sia, quella del tempo [scil. l’abolizione della distinzione basata sull’età] non ha replica, anzi è necessario» (Ds I, lx, 8, p. 293: nota l’ellissi), «Ma dato, come il più delle volte debbe essere, che il luogo che tu avessi preso con il campo fosse più eminente che gli altri all’intorno, e che gli argini fossono buoni e sicuri [...] si verrà in questo caso a quegli modi che anticamente si veniva» (Ds II, xvii, 23, p. 413). 4. 6. 4. Finalità Partendo dalla distinzione tra cause (che fanno parte degli eventi del mondo) e motivi (che fanno parte dell’universo delle azioni), si riconosce che «il fine trova posto tra i motivi: si tratta del motivo che coincide con un progetto dell’agente stesso, proiettato nel futuro»; occorre poi fare un’altra distinzione: «Mentre la causa ha una temporalità semplice (la causa precede necessariamente l’eπetto), il fine ha una temporalità complessa e stratificata, divisa tra la sfera esterna e quella interna» (M. Prandi, Finalità, espressione della, in EncItaliano, i (2010: 466-468, 466). Analizziamo i tipi che ricorrono nei Discorsi. Tipo finale fare che, finale interna alla reggente: «Questi dua modi adunque [...] feciono che Roma arricchiva della guerra» (Ds II, vii, 17, p. 349), «Queste contrarie oppinioni alla verità [...], fanno che gli uomini non pensono a deviare dai consueti modi» (Ds II, xix, 2, p. 431), «E se la sorte facesse che vi surgesse uno tiranno virtuoso [...], non ne risulterebbe alcuna utilità a quella republica» (Ds II, ii, 16, p. 313). Tipo finale perché, finale anticipata alla reggente: «E perché la [scil. l’ostinazione] durasse più ne’ petti de’ Romani che de’ Latini, parte la sorte, parte la virtù de’ consoli fece nascere che Torquato ebbe a ammazzare il figliuolo, e Decio se stesso» (Ds II, xvi, 8, p. 398), «E perché con il testimonio di Tito Livio ciascuno intenda come debbe essere fatta la buona milizia, e come è fatta la rea, io voglio addurre le parole di Papirio Cursore» (Ds III, xxxvi, 12, p. 747). Tipo finale acciò che, finale per lo più posticipata alla reggente: «ho giudicato necessario scrivere [...] acciò che coloro che leggeranno queste mia declarazioni, possino facilmente trarne quella utilità per la quale si debbe cercare la cognizione delle storie» (Ds I, Proemio, 9, p. 7), «Colui che desidera o che vuole riformare uno stato d’una città, a volere che sia accetto, e poterlo con satisfazione di ciascuno mantenere, è necessitato a ritenere l’ombra almanco de’ modi antichi, acciò che a’ popoli non paia avere mutato ordine» (Ds I, xxv, 2, p. 135), «[scil. un principe savio e buono] mai non farà fortezza, acciò che quelli non in su le fortezze, ma in su la benivolenza degli uomini si fondino» (Ds II, xxiv, 6, p. 466), «E così, [...] volle che i suoi soldati gli vedessono, e assuefacessono li occhi alla vista di quello nimico, acciò che, vedendo una moltitudine inordinata [...], si rassicurassono e diventassono desiderosi della zuπa» (Ds III, xxxvii, 18, p. 753); cfr.: «Questa mattina ti si scripse a·llungho quanto volavamo operassi acciò che cotesto luogo stessi securo et non vi si portassi periculo di fraude» (Legazioni, in LCSG iv, 4, p. 8).

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Relativa con valore finale (congiuntivo): «lasciarono due legioni nel paese di Capova, che gli difendesse» (Ds II, xx, 5, p. 441). Finale “a / per + infinito”: «Era necessario, pertanto, a volere che Roma nella corruzione si mantenessa libera, che, così come aveva nel processo del vivere suo fatto nuove leggi, l’avesse fatto nuovi ordini» (Ds I, xviii, 22, p. 115: l’ = ella), «E per dare ad intendere meglio questa parte, dico come in Roma era l’ordine del governo, o vero dello stato» (Ds I, xviii, 8, p.113). Negli scritti minori si ritrovano gli stessi tipi di finali: «Questa staπetta ti si manda perché tu intenda quello che noi habbiamo da Napoli» (Legazioni, in LCSG iv, 280, p. 264), «ti mandamo copia d’una lettera ricevuta da Napoli adciò la comunicassi con la Signoria del Capitano» (Legazioni, in LCSG IV, 281, p. 265); «Questa mattina ti si scripse a·llungho quanto volavamo operassi acciò che cotesto luogo stessi securo et non vi si portassi periculo di fraude» (Legazioni, in LCSG iv, 4, p. 8). 4. 6. 5. Temporalità La narrazione storica, che tanta parte occupa nei Discorsi, trova un sostegno nell’uso di vari tipi di temporali, che creano una rete di riferimenti e di rapporti, allo stesso modo che le causali e le concessive sorreggono la componente argomentativa dell’opera. Confronti con le temporali presenti nelle Istorie fiorentine e nell’Arte della guerra mostrano come nei Discorsi queste proposizioni subiscono vari condizionamenti: si veda, per es., la topicalità degli avverbiali posti all’inizio della frase (Charolles 2003). Il passo che segue dimostra l’importanza delle temporali quando e avanti che, collocate nei punti nodali della memoria storica: Da questa incredulità nasce che qualche volta in le republiche i buoni partiti non si pigliono; come di sopra si disse de’ Viniziani, quando, assaltati da tanti inimici, non poterono prendere partito [= decidersi] di guadagnarsene alcuno con la ristituzione delle cose tolte a altri (per le quali era mosso loro la guerra e fatta la congiura de’ principi loro contro), avanti che la rovina venisse (Ds I, liii, 9, p. 251).

Temporali di anteriorità: l’azione espressa dalla reggente è anteriore a quella espressa dalla subordinata. Tipo prima che: è posta prima o dopo la principale. L’uso dell’indicativo denota un fatto compiuto: «ma come prima ei furano morti i Tarquini, e che ai nobili fu la paura fuggita, cominciarono a sputare contro alla plebe quel veleno che si avevano tenuto nel petto» (Ds I, iii, 4, p. 31), «e non gli fu prima giunto all’incontro, che fu con tutti quegli che lo seguitarono rotto e morto» (Ds I, liii, 19, p. 254). La temporale si riferisce a un fatto successivo a quello rappresentato dalla principale, di conseguenza è da questa condizionata e assume un senso ipotetico; ciò spiega il ricorso al congiuntivo: «Il che si può facilmente vedere per l’ordine delle guerre fatte da loro: perché, lasciando stare quelle che fecero prima che Roma fosse presa dai Franciosi, si vede che, mentre che combatterno con gli Equi e con i Volsci, mai, mentre che questi popoli furono potenti, non scesero contro di loro altre genti» (Ds II, i, 10, p. 305), «Combattessi poi sanza alcuno sangue; perché ei fuggirono prima che fussono assaltati, e la maggior parte se n’andò a Veio» (II, xxix, 10, p. 495); più raramente prima che introduce un infinito presente soprattutto se quest’ultimo è correlato con un’altra infinitiva che precede: «Occorse che, sendo assaltato Sergio da’ Falisci e da altri popoli, sopportò di essere rotto e fugato prima che mandare per aiuto a Virginio» (Ds I, xxxi, 10, p. 156), Tipo avanti che: ottiene una varia collocazione nel periodo ed è costruito col congiuntivo; oltre all’es. I, liii, 9 cit., si vedano: «è facil cosa che quella republi-

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ca rovini avanti che la sia condotta a una perfezione d’ordine» (Ds I, ii, 8, p. 18), «Perché ciascuno può cominciare una guerra a sua posta ma non finirla, debbe uno principe, avanti che prenda una impresa, misurare le forze sue, e secondo quelle governarsi» (Ds II, x, 2, p. 362), «Per la qual cosa egli [scil. Spurio Melio] ebbe tanto concorso di popolo in suo favore che il senato, pensando all’inconveniente che di quella sua liberalità poteva nascere, per opprimerla avanti che pigliasse più forze, gli creò uno ditattore addosso e fecelo morire» (Ds III, xxviii, 3, p. 701); cfr. anche: «Avanti che noi ricevessimo questa ultima tua de’ cinque dì ci aveva scripto el Ferruccio di havere preso et morto quello Capinera, et di quello haveva ritracto da lui, che fu in somma quanto ne scripse ad te» (Legazioni in LCSG IV, 357, p. 335). Temporali di posteriorità: l’azione espressa dalla reggente è posteriore a quella espressa dalla subordinata; sono costruite con l’indicativo. Tipo dopo che: «Cammillo, fatto dittatore, espugnò detta città, dopo dieci anni che la era stata assediata» (Ds I, xiii, 4, p. 90), «nondimeno per esperienza si vide, che, dopo quattrocento anni che Roma era stata edificata, vi era una grandissima povertà» (Ds III, xxv, 3, p. 688); è usato con maggiore frequenza il sintagma dopo + N). Tipo poi che: «è più savio partito il temporeggiarle [scil. le cose che avvengono prima] poi che le si conoscono, che l’oppugnarle» (I, xxxiii, 15, p. 165); cfr. anche: «come fece Roma dopo la cacciata de’ re, e Atene dapoi che la si liberò da Pisistrato» (Ds I, lviii, 29, p. 284). Tipo “participio passato + che”: «Espugnata che fu la città de’ Veienti, entrò nel popolo romano una oppinione, che fosse cosa utile per la città di Roma che la metà de’ Romani andasse ad abitare a Veio» (Ds I, liii, 2, p. 249), «Morto che fu Girolamo, tiranno in Siragusa [...] vennono i Siracusani in disputa» (Ds II, xv, 12, p. 393), «difeso che egli ebbe il padre [...] dopo certi anni combatté con quel francioso, e morto gli trasse quella collana che gli dette il nome di Torquato» (Ds III, xxxiv, 17, p. 734). Temporali di contemporaneità: l’azione espressa dalla subordinata avviene nello stesso tempo di quella espressa dalla principale; queste proposizioni sono introdotte da quando, come, mentre e dai nessi nel momento in cui, al tempo in cui; il modo è l’indicativo. Tipo quando: è il più frequente e occupa varie posizioni nell’ambito del periodo: «E quando nelle cose che si mettono innanzi al popolo si vede guadagno [...] sempre sarà facile persuaderlo alla moltitudine» (Ds I, liii, 11, p. 251), «L’altra generazione di guerra è quando uno popolo intero con tutte le sue famiglie si lieva d’uno luogo [...] e va a cercare nuova sede e nuova provincia» (Ds II, viii, 5, p. 351), «Allegane ancora il consiglio che dette Annibale a Antioco, quando quel re disegnava fare guerra ai Romani» (Ds II, xii, 5, p. 375), «Il che si vede manifesto nella consulta che feciono i Latini quando ei pensavano alienarsi dai Romani» (Ds II, xv, 3, p. 391); la frase assume una sfumatura condizionale se è seguita da un congiuntivo imperfetto: vedi condizionali (4. 6. 4). Tipo come: «molti abitatori, come furano cresciuti in tanto numero che a volere vivere insieme bisognasse lor far leggi, ordinarono una forma di governo» (Ds I, vi, 8, p. 42), «e come l’imperio cadde negl eredi, e’ ritornò nella sua ruina» (Ds I, x, 20. p. 73), Temporali della durata nel tempo. Tipo mentre (che), equivalente a ‘per tutto il tempo che’; questo tipo “surdeterminato” supera in frequenza il tipo semplice: «Oltre a di questo, quella comune utili-

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tà che del vivere libero si trae non è da alcuno, mentre che la si possiede, conosciuta» (Ds I, xvi, 9, p. 102), «il quale [scil. popolo romano], mentre durò la republica incorrotta, non servì mai umilmente né dominò superbamente» (Ds I, lviii, 10, p. 279), «E mentre che Roma visse libera, e che la seguì gli ordini suoi e le sue virtuose costituzioni, mai ne edificò [di fortezze] per tenere o città o provincie; ma salvò bene alcune delle edificate» (Ds II, xxiv, 4, p. 463). Temporali d’istantaneità: l’azione della subordinata avviene nello stesso tempo dell’azione della reggente. Tipo subito che: la temporale precede e ha il modo indicativo: «e subito che quel tale è morto, la [scil. la città] si ritorna nel suo pristino abito» (Ds I, xvii, 13, p. 111), «Di modo che, subito che nasce una tirannide sopra uno vivere libero, il manco male che ne resulti a quella città è non andare più inannzi» (Ds II, ii, 15, p. 313), «subito che tu hai manifestato a quel male contento l’animo tuo, tu gli dai materia di contentarsi» (Ds III, vi, 60, p. 561) Tipo appena che: «ma come prima ei furano morti i Tarquini, e che ai nobili fu la paura fuggita, cominciarono a sputare contro alla plebe» (Ds I, iii, 4, p. 31), «Ma come gli [scil. i Cimbri] arrivarono in Italia, e che ei poterono mettere tutte le forze insieme, gli spacciarono» (Ds II, xiii, 29, p. 382). La temporale che indica una relazione terminativa (Serianni 1988: 511) è introdotta dalla congiunzione insino a / che: «insino a tanto che Apollonide, pretore in Siragusa, con una sua orazione piena di prudenza mostrò come e’ non era da biasimare chi teneva la oppinione di aderirsi ai Romani» (Ds II, xv, 13, p. 393), «Non si restava in Firenze di lacerare e biasimare detto Imbalt; né si restò mai infino a tanto che si conobbe che, se Beumonte fosse stato simile a Imbalt, si sarebbe avuto Pisa come Arezzo» (Ds I, xxxviii, 19, p. 193). «E conoscesi questi modi essere stati osservati infino che gli uscirono d’Italia» (Ds II, xxi, 3, p. 444). La temporale “ogni volta che”: «è necessario [...] presuppore [...] che gli abbiano sempre a usare la malignità dello animo loro, qualunque volta ne abbiano libera occasione» (Ds I, iii, 2, p. 30), «Tanto che si può conchiudere questo: che qualunque volta si vede che le forze strane siano chiamate da una parte di uomini che vivono in una città, si può credere nasca da’ cattivi ordini di quella» (Ds I, vii, 17, p. 54), «e qualunque volta eglino ordinavano di fare la giornata con il nimico, ei volevano che i pullarii facessono i loro auspicii» (Ds I, xiv, 4, p. 94). 4. 6. 6. Il periodo ipotetico La struttura è formata da un antecedente (protasi) e da un conseguente (apodosi), tra i quali s’instaura una relazione di coerenza, espressa dalla forma “se P (allora) Q”; si distingue tra condizionali indicativi, che esprimono eventi possibili, e condizionali controfattuali, che esprimono eventi irreali o impossibili. Si noti che “P” è data come condizione su√ciente, ma non necessaria; se si vogliono escludere altre cause si ricorre al costrutto bicondizionale: “solo se P (allora Q)”. In generale una condizionale viene interpretata dal parlante come se fosse una bicondizionale; questo fatto ha una motivazione pragmatica: vale a dire, dipende dagli atteggiamenti e dal sistema di attese del parlante, cfr. M. Prandi, “Periodo ipotetico”, in EncItaliano, i (2011: 1091-1094). Tra i condizionali indicativi si distingue fra: i) costrutti predittivi, nei quali la protasi rappresenta un evento non attuale e la relazione è causale: se domani verrà mio fratello, gli andrò incontro, ii) costrutti non predittivi, nei quali il contenuto della protasi è dato per vero, il se introduce una premessa e la relazione è di tipo inferenziale: se la luce è accesa, mio fratello è

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in casa; quest’ultimo tipo è ignoto alla prosa di Machiavelli. Un costrutto controfattuale è invece: se mio fratello fosse arrivato, sarebbe venuto a trovarmi. Nei Discorsi la protasi è introdotta talvolta dalla congiunzione quando, che ha la stessa funzione di se.

Distinguiamo a seconda dell’uso dei modi verbali. Pro. ind. / Apodosi cond / pro. cong.: «e se non la [scil. la congiura] si scopriva, sarebbe stata pericolosa per quella città, o se pure i Romani non fussono stati consueti a gastigare le moltitudini degli erranti» (Ds III, xlix, 4, p. 786). Pro. ind. / Apodosi ind.: «Perché, se non si è trovato mai republica che abbi fatti i progressi che Roma, è nato che [= ciò è dipeso dal fatto che] non si è trovata mai repubblica che sia stata ordinata a potere acquistare come Roma» (Ds II, i, 6, p. 304), «Perché se lo inusitato inimico allo esercito vecchio dà terrore, tanto maggiormente lo debbe dare ogni inimico a uno esercito nuovo» (Ds III, xxxviii, 6, p. 756). Pro. cong. / Apodosi ind.: «E se alcuno dicessi i modi erano istrasordinarii e quasi eπerati [...], dico come ogni città debbe avere i suoi modi» (Ds I, iv, 8, p. 35), «se il senato avesse voluto che un consolo procedessi nella guerra [...], lo faceva meno circunspetto e più lento» (Ds II, xxxiii, 9, p. 521). In uno stesso passo si susseguono modi diversi (Pro. cong. / Apodosi ind.// Pro. cong. / Apodosi cond.: «E se si andasse dietro alle ragioni, ci è che dire da ogni parte, ma se si esaminasse il fine loro, si piglierebbe la parte dei nobili» (Ds I, v, 6, p. 37). Cfr. anche: «Quando gli spagnoli et altri soldati ch’erano in Pisa, mediante e’ quali si dubitava assai, si resolvessino in modo che non si havessi ad stare costà con quella gelosia che vi s’è stato ne’ giorni passati, ci pare da metterti in considerazione se fussi da redurre le gente d’arme» (Legazioni, in LCSG IV, 380, p. 350). Pro. cong. / Apodosi cond.: «e stavano questi tali per le logge e per le piazze, dicendo male di molti cittadini, minacciandogli che, se mai si trovassino de’ Signori, scoprirebbero questo loro inganno e gli gastigherebbero» (Ds I, xlvii, 21, p. 230), «E se Manlio intra tanto desiderio fusse risuscitato, il popolo di Roma arebbe dato di lui il medesimo giudizio» (Ds I, lviii, 13, p. 280), «E quando la imitazione de’ Romani paresse di√cile, non doverrebbe parere così quella degli antichi Toscani, massime a’ presenti Toscani» (Ds II, iv, 37, p. 338), «E se la sorte facesse che vi surgesse uno tiranno virtuoso [...], non ne risulterebbe alcuna utilità a quella republica» (Ds II, ii, 16, p. 313); 129 con ordine inverso abbiamo: Apodosi cond. / pro. cong.: «Sarebbeci da mostrare a questo proposito il modo tenuto dal popolo romano nello entrare nelle provincie d’altrui, se nel nostro trattato De’ principati non ne avessimo parlato a lungo» (Ds II, i, 29, p. 309), «Io crederrei avere a durare più fatica in persuadere quanto la virtù delle fanterie è più potente che quella dei cavalli, se non ci fossono moderni esempli che ne rendano testimonianza pienissima» (Ds II, xviii, 26, p. 427). Protasi resa con un gerundio: «Poi che Roma ebbe cacciati i re, mancò di quelli pericoli i quali di sopra sono detti che la portava, succedendo in lei uno re o debole o cattivo» (Ds I, xx, 2, p. 123: ‘se fosse salito al trono’), cfr. anche: «Et observando, lo disobbligherai da ogni altra pena et condennaggione che fusse in corso» (Legazioni, in LCSG iv, 366, p. 341).  

129   Per l’uso di quando nella protasi cfr. anche: «e Franzesi, quando e’ soldi pochi Svizeri, e quando e’ vogli lasciare Bologna, li promettono favore per Perugia» (Lettere, in Opere, ed. Vivanti, ii, p. 125), «Questo quando sia vero, che nol sappiamo bene, non è secondo che noi ci promettavamo di sua Signoria» (Legazioni in LCSG iv, 22, p. 22).

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Le condizionali contribuiscono a fondare periodi variamente stratificati, soprattutto quando s’inseriscono come parentetiche in strutture già di per sé complesse: Ma tornando al principio di questo discorso, dico che si debbe, per la creazione di questo nuovo magistrato, considerare che, se quelle città che hanno avuto il principio loro libero e che per se medesimo si è retto, come Roma, hanno di√cultà grande a trovare leggi buone per mantenerle libere, non è maraviglia che quelle città che hanno avuto il principio loro immediate servo abbino, non che di√coltà, ma impossibilità a ordinarsi mai in modo che le possino vivere civilmente e quietamente (Ds I, xlix, 6, p. 236; immediate è corsivo nel testo).

4. 6. 7. Comparazione Per la suddivisione del campo si rinvia a quanto si è detto a proposito delle comparative presenti nel Principe (3.7.6); tali proposizioni hanno una struttura binaria e si fondano su una correlazione; si distingue tra comparazione di grado o di ineguaglianza (che dipende dalla presenza di avverbi come più tosto, anzi, meno ecc. o da Agg o Avv di forma comparativa (migliore, peggiore; maggiore, minore; meglio, peggio) e comparazione di analogia o di uguaglianza (segnalata dai marcatori come, secondo che). La comparazione può riferirsi a un sintagma o a una frase. Qui di seguito è studiata soltanto la comparazione tra frasi. L’esposizione si distingue in due parti principali: la prima è dedicata alle comparative di grado, la seconda alle comparative di analogia. Comparative di grado Presentano vari tipi e, soprattutto, appaiono sovente in strutture sintattiche complesse, in rapporto alla spiccata tendenza a istituire correlazioni e parallelismi; la classificazione che segue dipende dalla qualità dei comparativi e degli avverbi di grado. • Meglio ... che: «E se gli uomini hanno vòlto in fantasia per più giorni ad uno modo e ad uno ordine, e quello súbito varii, è impossibile che non si perturbino tutti, e non rovini ogni cosa; in modo che gli è meglio assai esequire una cosa secondo l’ordine dato, ancora che vi vegga qualche incoveniente, che non è – per volere cancellare quello [scil. quell’inconveniente] – entrare in mille inconvenienti» (Ds III, vi, 103, p. 575), «E puossi conchiudere veramente come egli è meglio mandare in una ispedizione uno uomo solo di comunale prudenzia, che due valentissimi uomini insieme con la medesima autorità» (Ds III, xvi, 12, p. 647: ellissi del verbo del comparante). • Meno ... che: «si vedrà [scil. negli ignobili] maggiore volontà di vivere liberi, potendo meno sperare di usurparla che non possono i grandi» (Ds I, v, 8, p. 38: ellissi del verbo del comparante), «Le congiure che si fanno contro alla patria sono meno pericolose per coloro che le fanno, che non sono quelle contro ai principi» (Ds III, vi, 162, p. 590: ellissi dell’aggettivo del comparante). • Molto [Indice temporale] ... che: «la quale [scil. ambizione della nobiltà] arebbe molto tempo innanzi corrotta quella republica, che non la si corroppe» (Ds III, xi, 2, p. 620: ‘prima di quanto in eπetti si corruppe’). • Maggiore / minore ... che: «E un principe o una republica ambiziosa non può avere la maggiore occasione di occupare una città o un provincia, che essere richiesto che mandi gli eserciti suoi alla difesa di quella» (Ds II, xx, 14, p. 443), «Pure, questi [scil. le republiche e i principi] fanno minori errori [...] che non fanno le repubbliche, e massime le italiane» (Ds III, x, 7, p. 613: ellissi dell’oggetto del comparante). • Migliore ... che: «Né può essere migliore ordine a tôrle via [scil. le calunnie], che

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aprire assai luoghi alle accuse, perché quanto le accuse giovano alle republiche, tanto le calunnie nuocano» (Ds I, viii, 9, p. 58), «Né può uno principe o un republica, che vuole diπerire lo scoprire una congiura a suo vantaggio, usare termine migliore che oπerire di prossimo occasione, con arte, ai congiurati, acciò che, aspettando quella o parendo loro avere tempo, diano tempo a quello o a quella a gastigarli» (Ds III, vi, 192, p. 597). 130 • Più ... che: «Ma di tutti i pericoli che possono doppo la essecuzione avvenire, non ci è il più certo, né quello che sia più da temere, che quando il popolo è amico del principe che tu hai morto» (Ds III, vi, 160, p. 589), «Quinci nasce che le terre, doppo la rebellione, sono più di√cili ad acquistare che le non sono nel primo acquisto» (Ds III, xii, 7, p. 627). • Più tosto ... che: «e veggendo dall’altro canto le virtuosissime operazioni [...] essere più tosto ammirate che imitate» (Ds I, Proemio, 3, pp. 4-5), «E dall’altra parte Virginio, aspettando che si umiliasse, volle più tosto vedere il disonore della patria sua e la rovina di quello esercito che soccorrerlo» (Ds I, xxxi, 11, p. 156), «il senato, dubitando della plebe che la non volesse [= che ella preferisse] più tosto accettare i re che sostenere la guerra, per assicurarsene la sgravò delle gabelle del sale e d’ogni gravezza» (Ds I, xxxii, 2, p. 158), v. Scorretti, in GGIC, I, pp. 263264; «liberamente dicevano essere più tosto per patire la morte, che consentire a una tale diliberazione» (Ds I, liii, 3, p. 250).  

Le comparative di proporzionalità sono introdotte da quanto più ... tanto più: «Conoscesi pertanto essere vero modo quello che tennono i Romani, il quale è tanto più ammirabile, quanto e’ non ce n’era innanzi a Roma esemplo» (Ds II, iii, 6, p. 325), «vedrebbero come, quanto più si mostra liberalità con i vicini, e di essere più alieno da occupargli, tanto più ti si gettono in grembo» (Ds II, xx, 17, p. 444: nota subordinazione mista), «Vedesi ancora come a Scipione Africano non dette tanta riputazione in Ispagna la espugnazione di Cartagine Nuova, quanto gli dette quello essemplo di castità» (Ds III, xx, 8, p. 666), «E non tanto è di√cile intendere i disegni del nimico, che gli è qualche volta di√cile intendere le azioni sue» (Ds III, xviii, 4, p. 656: ellissi di quanto nel 2° membro). Come appare, sono numerosi i casi di ellissi che si ritrovano in questo tipo di comparative. Comparative di analogia L’analogia è un procedimento sempre attivo sia nell’elaborazione concettuale e argomentativa sia nella lingua e nello stile dei Ds. Quanto agli aspetti semantici del fenomeno, è stato osservato che «M. impiega due livelli distinti di analogia organica: uno per i processi di “mutazione” delle cose e degli Stati che crescono e decadono [...]; l’altro per il modello felice della “virtù, che è termine con forte connotato fisico-naturalistico (corrisponde sul piano soggettivo alla “forza”) e coincide con la possibilità di riflettere e sfruttare convenientemente la profonda costante antropologica della vita sociale» (Rinaldi 1999: 29). Vi è una diπerenza tra come ... così e come, secondo che, nel modo in cui, i primi sono introduttori della comparazione, i secondi della modalità. Nelle comparative il secondo membro riprende per lo più un componente del primo: «E come la osservanza del culto divino è cagione della grandezza delle republiche, così il dispregio di quello 130   Vale a dire: un principe o una repubblica non possono rimandare, per avvantaggiarsene, la scoperta di una congiura, al fine di preparare, nel frattempo, forze capaci di reprimerla.

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è cagione della rovina d’esse» (Ds I, xi, 18, p. 81), «I capitani de’ nostri tempi, come egli hanno abbandonati tutti gli altri ordini e della antica disciplina non ne osservano parte alcuna, così hanno abbandonato questa parte» (Ds II, xvi, 20, p. 401). La comparativa ipotetica come se è un tipo sintattico più frequente in Ds rispetto a Pri (indipendentemente dalla diversa estensione delle due opere). 131 Si colloca per lo più nella seconda parte del periodo, raramente appare come un’incidentale: «e quella ingiuria che gli [scil. gli uomini] scacciano da loro, la pongono sopra un altro, come se fusse necessario oπendere o essere oπeso» (Ds I, xlvi, 7, p. 223, «il quale [scil. Numizio], vinto che i Romani ebbero i Latini, gridava per tutto il paese di Lazio che allora era tempo assaltare i Romani, debilitati per la zuπa fatta con loro avevano e che solo appresso a’ Romani, era rimaso il nome della vittoria, ma tutti gli altri danni avevano sopportato come se fussino stati vinti» (Ds II, xxii, 17, p. 453: nota ellissi di che relativo), «e s’egli non dimostrava la sua ambizione con opporsegli, la dimostrava col tacere e con lo straccurare e vilipendere ogni cosa, in modo che non aiutava le azioni del campo né con l’opere né con il consiglio, come se fusse stato uomo di nessuno momento» (Ds III, xv, 7, p. 645), «intendendo i capitani delle genti fiorentine come il campo viniziano partiva, si fecero in su questa nuova gagliardi e, mutato consiglio, come se gli avessono disalloggiati i nimici, ne andarono sopra di loro» (Ds III, xviii, 19, p. 661: comparativa incidentale).  

4. 6. 8. Costrutti modali Si suddividono in: i) espliciti, al seguito dell’introduttore come in espressioni quasiformulari: come aveva fatto, come disse, come pare, come colui che, secondo che, nel modo che, nella maniera che, sì come piacque; ii) gerundiali (al presente, raram. al passato), che hanno per lo più valore modale-causale e precedono la principale. Tipo modale come: «Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile, e come ne è piena di esempli ogni istoria, è necessario [...] presupporre tutti gli uomini rei» (Ds I, iii, 2, p. 30), «come si vede che per il mezzo de’ Capuani entrarono in Sannio» (Ds II, 1, 30, p. 309), «Come si vide che intervenne a Sparta, la quale avendo occupate tutte le città di Grecia, non prima se gli ribellò Tebe che tutte le altre città se gli ribellarono» (Ds II, iii, 14, p. 327), «Ma quando i regni sono armati, come era armata Roma e come sono i Svizzeri, sono più di√cili a vincere» (Ds II, xii, 22, p. 380); nel sintagma come colui che, presente nell’it. ant., si è visto un valore causale (Ulleland 2011): «vederà come quelli cittadini temevono più assai rompere il giuramento che le leggi, come coloro che stimavano più la potenza di Dio che quella degli uomini» (Ds I, xi, 4, p. 77). Tipo modale secondo che: «la quale [scil.virtù] è più o meno maravigliosa, secondo che più o meno è virtuoso colui che ne è stato principio» (Ds I, i, 12, p. 12), «coloro che ordinano una città debbono volgersi ad uno di questi [scil. stati], secondo pare loro più a proposito» (Ds I, ii, 10, p. 19), «Quegli che prudentemente hanno constituita una republica, intra le più necessarie cose ordinate da loro è stato constituire una guardia alla libertà; e secondo che questa è bene collocata, dura più o meno quel vivere libero» (Ds I, v, 2, p. 37: nota “Agg + N”). 131   Sulle comparative ipotetiche in it. ant. , v.: M. Mazzoleni, in GIA (2010: 1042-1043), G. Colella, in SIA (2012: 461-462); sulle ipotetiche nell’it. mod.: M. Mazzoleni, in GGIC, ii (20012: 751-784). Per un confronto con il francese ant. v. Buridant (2000: 641-653) e con il francese mod. v. Riegel et Al. (20145: 863-866).

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Tipo modale non altrimenti... che: «Ancora che per la invida natura degli uomini sia sempre suto non altrimenti periculoso trovare modi e ordini nuovi che sia stato cercare acque e terre incognite [...], nondimanco [...] ho deliberato» (Ds I, Proemio, 1, p. 3). Gerundiale con valore modale: «Perché Licurgo, fondatore della republica spartana, considerando nessuna cosa potere più facilmente risolvere le sue leggi che la commistione di nuovi abitatori, fece ogni cosa perché i forestieri non avessono a conversarvi» (Ds II, iii, 10, p. 326). 132 Infinitiva “con + infinito”, avente valore modale: «è facil cosa assicurarsene, o con levargli via, o con fare loro parte di tanti onori» (Ds I, xvi, 24, p. 105): «non dimostrava la sua ambizione con opporsegli, la dimostrava col tacere e con lo straccurare e vilipendere ogni cosa» (Ds III, xv, 7, p. 645); «con il pigliare quel colle ei salvò lo esercito romano» (Ds III, xxxix, 17, p. 761). L’infinitiva introdotta da sanza è meno frequente del costrutto esplicito: «il re di Inghilterra assaltò il regno di Francia, né prese altri soldati che’ popoli suoi; e, per essere stato quel regno più che trenta anni sanza fare guerra, non aveva né soldati né capitano che avesse mai militato» (Ds I, xxi, 7, p. 125), «ei sarebbe rimaso vincitore sanza combattere» (Ds II, x, 9, p. 364); “sanza + che + prop. di modo finito”: «potrebbe alcuno desiderare che Roma avesse fatti gli eπetti grandi che la fece, sanza che in quella fussono tali inimicizie» (Ds I, vi, 3, p. 41), «E così, col sapere bene accomodare i disegni suoi agli auspicii, prese partito di azzuπarsi, sanza che quello esercito si avvedesse che in alcuna parte quello avesse negletti gli ordini della loro religione» (Ds I, xiv, 10, p. 95).  

4. 6. 9. Costrutti eccettuativi 133  

Sono più numerosi nei Ds rispetto al Pri, indipendentemente dalla diversa estensione delle due opere; ciò corrisponde al maggiore sviluppo della componente argomentativa. Tipo se non che: «da’ Romani non fu innovato alcuno ordine dello antico, se non che, in luogo d’uno re perpetuo, fossero due consoli annuali» (Ds I, ix, 13, p. 65), «colui che vuole fare dove sono assai gentili uomini una republica, non la può fare se prima non gli spegne tutti» (Ds I, lv, 27, p. 268), «E non conchiude altro per tale azione, se non che a un principe che voglia fare gran’ cose è necessario imparare a ingannare» (Ds II, xiii, 5, p. 385); 134 un tipo analogo è il seguente: «non nacque tale rovina d’altronde che dalla cavalleria amica» (Ds II, xvi, 30, p. 404), «La quale vittoria non nacque da altro che dallo avere inteso, prima dei nimici, come e’ se n’andavano» (Ds III, xviii, 20, p. 661: ripresa pronominale). Tipo se non quando: «[scil. il tiranno] non si volterà mai alla oppressione del popolo, se non quando e’ la arà spenta» (Ds I, xl, 32, p. 207), «dipoi [scil. i principi poveri] erano i primi che davano cagione della inosservanza di esse [scil. leggi], né mai punivano gli inosservanti, se non poi, quando vedevano assai essere incorsi in questo pregiudizio» (Ds III, xxix, 7, p. 705). Tipo eccetto che: è seguito da un SN complemento, al quale si aggiunge una relativa: «eccetto che di alcuna cosa che avessono operata appartenente alli loro privati  

132   Per le modali esplicite vedi F. Bianco, in SIA (2010: 468-477). «Il valore modale è tra quelli più spesso assunti dal gerundio, in ogni livello di lingua» (Serianni 1988: 520); se il gerundio è negativo, la modale si risolve in una proposizione esclusiva, del tipo senza che me ne accorgessi. 133   Per i “connettivi condizionali eccettuativi” v. G. Colella, in SIA (2012: 410-411); tra i più usati abbiamo: salvo che, se non quando, se non che, eccetto che se, eccetto se; cfr. Manzotti (2013). 134   Cfr. Serianni (1988: 521-523): se non che è seguito dall’indicativo; negli scritti di M. sembrano mancare: tranne che, trai, traine.

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commodi» (Ds III,1, 42, p. 535); cfr.: «e a tutto aveva trovato remedio, escetto che non pensò mai, in su la sua morte di stare anche lui per morire» (Prin vii, 41); si veda infine: «Né si ragiona mai che vi fusse alcuno re fuora di quegli che regnorono in Roma, e Porsena re di Toscana» (Ds II, ii, 7, p. 311). Si veda infine il costrutto correlativo limitativo-avversativo introdotto da non che: «Perché se il loro errore [scil. dei capitani] fusse stato per malizia, e’ lo gastigavano umanamente; se gli era per ignoranza, non che e’ lo punissono, e’ lo premiavano ed onoravano» (Ds I, xxxi, 3, p. 155), «Il che non può nascere da altro, se non che sono migliori governi quegli de’ popoli che quegli de’ principi» (Ds I, lviii, 30, p. 284). 4. 7. Costrutti assoluti Ricorrono in vari cotesti, ma preferibilmente all’inizio del periodo, di cui determinano spesso la forma. Inoltre non raramente scandiscono il testo in sequenze tra loro collegate, le quali guidano la lettura, quasi fossero segnali discorsivi. I costrutti assoluti sono meno frequenti rispetto ai costrutti coreferenziali della reggente. I tipi principali sono: i) le gerundiali assolute, ii) le participiali assolute, iii) le apposizioni modali-associative, iv) i nominativi assoluti. In mancanza di connettori dedicati, tali costrutti hanno valori circostanziali non precisamente definiti, ma deducibili per inferenza. Partecipano all’articolazione informativa dell’enunciato, fornendo per lo più informazione di sfondo. Non vi sono diπerenze rilevanti nell’uso dei costrutti assoluti tra l’it. mod. e l’it. ant.; nei testi letterari la presenza di costrutti assoluti dipende sovente dall’influsso di costrutti latini (come l’ablativo assoluto) nonché dai generi e dalle tradizioni discorsive. 4. 7. 1. Gerundiali La gerundiale assoluta è piuttosto rara: «[scil. Publio Decio] il quale, essendo tribuno [...] e essendosi il consolo ridotto in una valle [...] e vedendosi in tanto pericolo, disse al consolo» (Ds III, xxxix, 13, p. 759). Inoltre l’isolamento di tale costrutto è attenuato, nella maggior parte dei casi, mediante una ripresa anaforica o semantica. Nel passo che segue si noti la presenza di un ne anaforico che collega le azioni negative descritte con le gerundiali assolute e le conseguenze negative che ne derivano: «subito cominciarono gli eredi a degenerare dai loro antichi [...] in modo che, cominciando il principe a essere odiato e per tale odio a temere, e passando tosto dal timore alle oπese, ne nasceva presto una tirannide» (Ds I, ii, 17, p. 22). Come es. di collegamento semantico si veda: «Essendosi ribellate dal popolo romano Circei e Velitre, due sue colonie, sotto speranza di essere difese dai Latini, e essendo dipoi i Latini vinti e mancando di quella speranza, consigliavano assai cittadini che si dovesse mandare a Roma oratori» (Ds III, xxxii, 2, p. 723); delle tre gerundiali assolute, la prima (al passato) ha come soggetto Circei e Velitre, la seconda (al passato) e la terza (al presente) hanno come soggetto i Latini, il soggetto della principale che segue alcuni cittadini si riferisce semanticamente al soggetto precedente i Latini, come parte di un tutto. Il soggetto grammaticale è quasi sempre posposto al gerundio. Ricorre spesso il collegamento di più gerundiali di diversa natura. Nell’es. che segue cinque gerundiali precedono la principale, le prime tre sono assolute, la quarta e la quinta sono coreferenti col soggetto della principale: Dopo il 1494, sendo stati i principi della città cacciati di Firenze, e non vi essendo alcuno governo ordinato, ma piuttosto una certa licenza ambiziosa, e andando le

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la prosa del cinquecento cose publiche di male in peggio, molti popolari, veggendo la rovina della città e non intendendo altra cagione, ne accusavano la ambizione di qualche potente che nutrisse i disordini per potere fare uno stato a suo proposito e tôrre loro la libertà (Ds I, xlvii, 21, p. 230).

Uno schema ricorrente consiste nel preporre alla principale due o più gerundiali assolute, con le quali la principale si collega mediante un clitico: Papirio ordinando le squadre, e essendo da alcuni de’ pollarii detto a certi soldati i polli non avere beccato, quegli lo dissono a Spurio Papirio nepote del consolo, e quello, riferendolo al consolo, rispose subito che gli attendessi a fare lo u√cio suo bene (Ds, I, xiv, 7, p. 95).

Qui potrebbe avvenire una sostituzione con proposizioni di modo finito tra loro coordinate. Le gerundiali di questa forma riprendono uno schema tradizionale: esse “preparano” l’azione finale e conclusiva, espressa con un verbo di modo finito. La gerundiale coreferenziale ha per lo più una funzione testuale. Per es., dopo la dichiarazione di un principio, segue un exemplum articolato in due tempi (desiderio di Alessandro, domanda del medesimo) introdotti da due gerundiali: (1) Dico adunque essere più prudente elezione porsi in luogo fertile, quando quella fertilità con le leggi infra i debiti termini si ristringa. (2) Ad Alessandro Magno, volendo edificare una città per sua gloria, venne Dinocrate architetto, e gli mostrò come e’ la poteva edificare sopra il monte Ato: il quale, oltre allo essere forte, potrebbe ridursi in modo che a quella città si darebbe forma umana, il che sarebbe cosa maravigliosa e rara, e degna della sua grandezza. (3) E domandandolo Alessandro di quello che quegli abitatori viverebbero, rispose non ci avere pensato: di che quello si rise, e, lasciato stare quel monte, edificò Alessandria, dove gli abitatori avessero a stare volentieri per la grassezza del paese, e per la comodità del mare e del Nilo (Ds I, i, 19-22, pp. 14-15).

Il passo si divide in tre parti: all’aπermazione di un principio «Dico adunque» seguono i due momenti dell’interazione conversazionale: «Ad Alessandro Magno, volendo edificare» ... e «E domandandolo Alessandro»...: “richiesta - proposta - rifiuto”. Nelle fasi 2) e 3) l’avvio è dato da una gerundiale con soggetto Alessandro, la quale crea la prospettiva del racconto attuando un avvio narrativo tradizionale. 135 È viva la tendenza ad anteporre alla principale (una citazione liviana, nell’es. che segue) due o più gerundiali: «Avendo i Sanniti avute più rotte da’ Romani, e essendo stati per ultimo distrutti in Toscana e morti i loro eserciti e gli loro capitani, e essendo stati vinti i loro compagni, come Toscani, Franciosi e Umbri, nec suis, nec externis viribus iam stare poterant» (Ds I, xv, 1, p. 96); delle tre gerundiali preposte soltanto la prima è propriamente coreferente al soggetto della principale, la seconda presenta soggetti grammaticali riferiti al soggetto della principale i Sanniti, mediante pronomi personali i loro eserciti, i loro compagni. Le gerundiali “narrative” sono per lo più coreferenziali con la principale (unidirezionali): «E chi legge i modi tenuti da san Gregorio e dagli altri capi della religione cristiana, vedrà con quanta ostinazione e’ [scil. i cristiani] perseguitarono tutte le memoria antiche, ardendo le opere de’ poeti e degli istorici, ruinando le ima 

135   Due altri esempi con una gerundiale causale: «E essendo poi domandato Claudio per quale cagione avesse preso sì pericoloso partito, dove sanza una estrema necessità egli aveva giucato quasi la libertà di Roma, rispose che» (Ds III, xvii, 7, p. 654), «Intendendo il senato romano come la Toscana tutta aveva fatto nuovo deletto [...] giudicò questa guerra dovere essere pericolosa» (Ds III, xxx, 2, p. 707); nel secondo es. si noti dovere epistemico.

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gini, e guastando ogni altra cosa che rendesse alcun segno dell’antichità» (Ds II, v, 8, p. 341); «[scil. Publio Decio] essendo stato mandato sopra esso [scil. il cacumen del monte] dal consolo con tremila soldati, e avendo salvo lo esercito romano, e disegnando – venente la notte – di partirsi, e salvare ancora sé e gli suoi soldati, gli fa dire queste parole: “Ite mecum, ut [...] exploremus”» (Ds III, xl, 15, p. 760): la sospensione del tema è provocata da gli fa dire (soggetto sottinteso Livio), un verbum dicendi seguito dal Discorso diretto. Cinque gerundiali coreferenziali (tre precedono la principale, due la seguono) rispondono a un disegno di “omogeneità sintattica” tra elementi coordinati tra loro. «I Franciosi, avendo vinto i Romani ad Allia, e venendo a Roma e trovando le porte aperte e sanza guardia, stettero tutto quel giorno e la notte sanza entrarvi, temendo di fraude, e non potendo credere che fusse tanta viltà e tanto poco consiglio ne’ petti romani, che gli abbandonassono la patria» (Ds III, xlviii, 5, p. 783); s’individuano i seguenti valori semantici: avendo vinto (temporale), venendo e trovando (circostanziale), temendo e non potendo credere (causale). La “disomogeneità sintattica” appare in un seguito di tre gerundiali non unidirezionali: «Il quale accordo recusando Antioco, e venendo alla giornata [= battaglia] e perdendola, rimandò imbasciadori a Scipione» (Ds III, xxxi, 13, p. 716); dato Antioco, soggetto grammaticale e tema, si hanno: 1a gerundiale: OVS / 2a gerundiale: Vintr Compl. / 3a gerundiale: VOencl → Prop. princ. (S)VOC. Nei Discorsi, più che nel Principe, le gerundiali hanno un ruolo non secondario nella costruzione di periodi complessi. Talvolta pongono una cornice all’esposizione, talvolta attuano un caratteristico sbilanciamento del periodo a sinistra, secondo una tendenza già sviluppata nella prosa letteraria del xiv sec., e qui sostenuta dal fenomeno additivo. Prevalgono gli esempi in cui tra la gerundiale e la principale vi è la coreferenza dei soggetti. Il gerundio con valore causale si ritrova anche in altri scritti machiavelliani: «ed essendo grandissimo simulatore, non mancò di alcuno oficio (Descrizione, in Opere, ii, p. 73), «E vedendo che voi potete intendere e vedere, perché voi non intendete né vedete [...], mi persuado che ...» (Parole, in Opere, ii, p. 81), «Ad Francescho di Piero di Gore da Ciggiano, apportatore presente, sendo per li casi d’Arezo sutoli arso le sue case et facti infiniti altri danni, e’ cinque Ofitiali li concessono che potessi habitare infino ad tucto septembre proxime passato in una casa in detto castello» (Legazioni, in LCSG iv, 362, p. 339); in quest’ultimo es. si notino il pronome enclitico apposto al part. passato, l’ordine dei costituenti e il mancato accordo del participio passato. Usi perifrastici del gerundio: “venire + gerundio”, «Verrassi intractenendo questa cosa in quello modo ci parrà, per trarne quello fructo che si può» (Legazioni, in LCSG iv, 276, p. 258), “essere + gerundio”, «Le vie private sono faccendo beneficio a questo e a quello altro privato» (Ds III, xxviii, p. 703), qui il gerundio, riprendendo un uso antico, ha il valore di un infinito. 4. 7. 2. Participiali Il costrutto assoluto formato con il participio passato appare preferibilmente all’inizio del periodo e ha per lo più valore temporale (più raramente, causale o concessivo). Vi ricorrono verbi transitivi (soprattutto telici) e inaccusativi, come in it. mod.; non vi compaiono invece gli inergativi (che sono tipicamente atelici), come accadeva nell’it. ant., dove si ritrovano ess. come: “Parlato il console, i soldati partirono”, “Cenato ogni gente, disse il re” (Egerland, in GIA 2010: 882-892). In italiano le participiali con verbo transitivo sono attive se il soggetto inespresso del-

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la participiale è controllato dal soggetto della reggente, passive in caso contrario. In latino, invece, in cui il meccanismo del controllo è poco sviluppato, i participi transitivi sono considerati passivi. Nei Ds le participiali, all’inizio di periodo, spesso precedono immediatamente la principale e svolgono una funzione-quadro di annuncio e di collegamento, intervenendo anche nel determinare i confini e la successione delle sequenze testuali. Un’altra collocazione prescelta di frequente è l’incidentale. Nella scelta di alcuni tipi di participiali (soprattutto con uso assoluto) si avverte la presenza di modelli latini. 136 Come abbiamo visto, non tutti gli usi del participio passato assoluto, ammessi nell’it. ant., sono rimasti nell’it. mod. 137 Participio passato di v. transitivo: «Pareva che fusse in Roma intra la plebe e il senato, cacciati i Tarquini, una unione grandissima» (Ds I, iii, 3, p. 30), «E tanto fu potente questa accusa, che Menennio, fatta una concione e dolutosi delle calunnie dategli da’nobili, depose la dittatura e sottomessesi al giudizio» (Ds I, v, 17, p. 40: al v. trans. si associa un v. intrans. pronom.), «La quale [scil. giornata] vinta, i nimici, perché non fosse guasto loro il contado aπatto, venivano alle condizioni e i Romani gli condannavano in terreni» (Ds II, vi, 8, p. 347), «E di queste guerre ragiona Sallustio nel fine del Iugurtino, quando dice che, vinto Iugurta, si sentì il moto de’ Franciosi che venivano in Italia» (Ds II, viii, 7, p. 352), «Collocate adunque queste stiere in questa forma, appiccavano la zuπa» (Ds II, xvi, 17, p. 400). Notiamo intanto una possibilità riguardante il participio stato, che non è più attiva nell’ it. mod.; si tratta dell’ellissi di essere ausiliare: stato = ‘che è /era stato’: «E perché di sopra è discorso questo luogo largamente, mi rimetto a quello che allora se ne disse: solo ci addurrò uno esemplo, stato, ne’ dì nostri e nella nostra patria, memorabile» (Ds III, iii, 5, p. 540). Vediamo ora gli altri usi presenti nei Discorsi. Participio passato di v. inaccusativo: «Però mancati i Tarquini, che con la paura di loro tenevano la nobilità a freno, convenne pensare a uno nuovo ordine che facesse quel medesimo eπetto che facevano i Tarquinii quando erano vivi» (Ds I, iii, 8, p. 33), «Perché, venuto a’ soprascritti termini, che i cittadini e magistrati abbino paura a oπendere lui e gli amici suoi, non dura dipoi molta fatica a fare che giudichino ed oπendino a suo modo» (Ds I, xlvi, 11, p. 224), «il quale [scil. incendio] venuto, non hanno rimedio a spegnerlo se non con le forze proprie» (Ds II, i, 23, p. 308), «Tornati i consoli con lo esercito disarmato e con la ricevuta ignominia a Roma, il primo che in senato disse che la pace fatta a Caudio non si doveva osservare, fu il consolo Spurio Postumio» (Ds III, xlii, 2, p. 766). Nello stesso periodo appaiono una o più gerundiali, una o più participiali. Le prime esprimono un evento o circostanza nel loro svolgersi, la participiale segna un punto di arrivo, una tappa del processo in corso: «La moltitudine adunque, seguendo l’autorità di questi potenti, s’armava contro al principe, e, quello spento, ubbidiva loro come a’ suoi liberatori» (Ds I, ii, 19, p. 22); questo ordine ricorrente appare chiaramente in un passo esteso, dove s’incontrano tre participiali e due gerundiali:  



136   Della participiale assoluta tratta Bembo Prose III, liv, p. 248: «quando la detta voce del passato si pone assolutamente con alcun nome, al nome sempre l’ultimo caso [scil. l’ablativo] si dia, sì come si dà latinamente favellando: caduto lui, desto lui»; nell’it. mod. le participiali assolute con verbi transitivi hanno sign. passivo (pronunciata la sentenza, il condannato entrò in carcere), mentre nell’it. ant. potevano avere anche il sign. attivo (vinti i nemici il console, la pace tornò nella regione); si confronti l’it. ant. vendemmiato i contadini, cominciò a piovere con l’it. mod.: vendemmiato, i contadini tornarono nelle loro case. A diπerenza di quanto accadeva nell’it. ant., ai giorni nostri l’uso del participio presente in una costruzione assoluta si riduce a poche formule del tipo: stante la situazione, presente l’esercito. 137   Loporcaro/Seiler (2009: 485-512) parlano di evoluzione diacronica di questa participiale.

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Venuta dipoi questa amministrazione ai loro figliuoli, i quali non conoscendo la variazione della fortuna, non avendo mai provato il male, e non volendo stare contenti alla civile equalità, ma rivoltisi alla avarizia, alla ambizione, all’usurpazione delle donne, feciono che d’uno governo d’ottimati diventasse uno governo di pochi, sanza avere rispetto ad alcuna civilità; tale che, in breve tempo, intervenne loro come al tiranno, perché, infastidita da’ loro governi, la moltitudine si fe’ ministra di qualunque disegnassi in alcun modo oπendere quegli governatori: e così si levò presto alcuno che, con l’aiuto della moltitudine, li spense (Ds I, ii, 21, p. 23).

Il participio passato assoluto, posto all’inizio del periodo e con valore modalecircostanziale o causale o temporale, fornisce un inquadramento di quanto segue: «Considerato la virtù e il modo del procedere di Romolo, Numa e di Tullo, i primi tre romani, si vede come Roma sortì una fortuna grandissima» (Ds I, xix, 2, p. 119), «Tale che si può stimare, veduto quanto Roma fu in questi due sospettosa e severa, che la arebbe usata la ingratitudine come Atene» (Ds I, xxix, 11, p. 145). Interrotta da una sola circostanziale esplicita, una serie di cinque participiali, poste all’inizio di periodi successivi e aventi valore temporale, provoca una scansione marcata dell’intera sequenza; nel passo che segue si ricordano, con un’evidente finalità celebratrice, i successi di Roma sui nemici: Domi costoro, nacque la guerra contro a’ Sanniti [...]. I quali domi, risurse la guerra del Sannio. Battute per molte rotte date a’ Sanniti le loro forze, nacque la guerra de’ Toscani. La quale composta, si rilevarono di nuovo i Sanniti per la passata di Pirro in Iralia. Il quale come fu ributtato e rimandato in Grecia, appiccarono la prima guerra con i Cartaginesi, né prima fu tale guerra finita, che tutti i Franciosi, e di qua e di là dall’Alpi, congiurarono contro ai Romani[...]. Finita questa guerra, per spazio di venti anni ebbero guerre di non molta importanza [...]. E così stettero tanto che nacque la seconda guerra cartaginese [...]. Finita questa con massima gloria, nacque la guerra macedonica (Ds II, 1, 11-18, p. 306).

All’inizio del periodo si ritrovano participiali coreferenti con la principale: «Ma, andativi e combattutolo, lo cacciarono di quel monte» (Ds III, x, 22, p. 616: v. inaccusativo e v. transitivo), «La quale cosa, creduta dai consoli, fece che ei si rinchiusono dentro ai balzi Caudini» (Ds III, xl, 8, p. 763), «Considerato adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da Numa fu intra le prime cagioni della felicità di quella città» (Ds I, xi, p. 17, p. 81: v. transitivo + oggetto). Come appare dagli esempi citati, nelle participiali il verbo occupa la prima posizione. L’accordo (nel genere e nel numero) del participio con l’oggetto diretto che segue è prevalente. Abbiamo già accennato a un uso particolare del participio stato, che appare talvolta accostato al sintagma nominale, dove ci aspetteremmo un nesso relativo: «In esemplo tra gli antichi ci è Sparta, tra i moderni Vinegia, state da me di sopra nominate» (Ds I, vi, 6, p. 41). 138 L’ellissi riguarda talvolta l’infinito essere: cfr. «Leggesi assai cittadini stati confortatori d’una impresa, e, per avere avuto quella tristo fine, essere stati mandati in esilio» (Ds III, xxxv, 6, p. 740) con «Vedrà in Roma seguite innumerabili crudelitadi» (Ds I, x, 26, p. 74). Anche in questi casi si avverte l’influsso dei costrutti “sintetici” propri della sintassi latina. In conclusione, nell’analisi delle secondarie e dei criteri che ne hanno determinato la scelta, sembrano prevalere due criteri, che si rappresentano con due oppo 

138   Cfr. anche: «Antonio di Lorenzo Miniati, suto camarlingo in cotesta città, ci fa intendere havere prestati 14 ducati d’oro [...] allo spedalingho» (Legazioni, in LCSG iv, 376, p. 347).

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sizioni: adeguatezza / non adeguatezza e coerenza / non coerenza: rispetto alla sovraordinata la scelta di un’avverbiale è adeguata e coerente oppure inadeguata e non coerente (in una prospettiva logico-pragmatica e stilistica). 4. 8. Confronti e giudizi In questo capitolo, forse più che negli altri, appare evidente uno stacco tra la trattazione storico-culturale e l’analisi formale. Come si rapporta la seconda alla prima? i fenomeni di lingua e di stile in che modo si connettono ai fattori esterni? La critica idealistica poneva in relazione i due poli: le scelte lessicali, sintattiche e stilistiche, la disposizione delle parti e il disegno dell’insieme avevano una ragione profonda nella personalità e nello spirito degli autori. Era aperta la via che portava a ricondurre tutti i fenomeni di lingua e di stile a un centro. Evitando di proporre in modo costante e assoluto tale rapporto, la ricerca svolta in questo volume pone la questione dialetticamente: il rapporto tra i due poli talvolta è attivo, talvolta non lo è; nel primo caso prevale un’ottica individuale (si guarda allo stile di un autore), nel secondo prevale la prospettiva diacronica: s’impone l’intento di descrivere l’evolversi della sintassi primocinquecentesca. Nei Discorsi è espresso un convincimento: l’individuo non governa se stesso ma è governato da forze esterne; questa idea influisce non soltanto sulla scelta dei temi da trattare ma anche sulla loro disposizione “casuale” nell’opera. Si tratta di una casualità in sé significativa. Sono digressiones, in ordine libero, con riprese e riformulazioni variamente attuate; manca la serrata progressione logica degli argomenti che si ammira nel Principe. I contenuti dei tre libri non rispondono a un piano (v. 4.1.2.). Rispetto al breve trattato l’orizzone si è ampliato; non si parla soltanto del principato, ma anche della repubblica e, soprattutto, dello Stato come un organismo naturale. Le testimonianze sulla formazione giovanile del Segretario fiorentino sono rare; e pertanto vale la pena di ricordare due episodi significativi. In Ds I, xlv, 9, p. 218 vi è un accenno positivo a Savonarola: «gli scritti del quale mostrono la dottrina, la prudenza e la virtù dello animo suo»; ciò contrasta con l’ostilità dimostrata, in più occasioni, da Machiavelli nei riguardi delle idee e delle azioni di un personaggio, di cui pur si riconoscono le capacità tattiche e l’intuito nel prevedere situazioni e tempi. Di due prediche recitate da Savonarola nel febbraio del 1498, Machiavelli aveva trattato in lettere indirizzate a Ricciardo Becchi, il quale sosteneva che il suo corrispondente aveva passato la giovinezza sui libri, animato da una viva passione per gli scritti degli antichi, che assumevano, nella sua visione, un carattere esemplare; di qui la volontà di riscoprirli, di valorizzarne i contenuti, additandoli come modelli di pensiero, senza curarsi del parere dei filologi, i quali, storicizzando l’antico, ne riconoscevano l’inferiorità rispetto al presente. 139 «Io lascerò indrieto el ragionare delle republiche, perché altra volta ne ragionai a lungo. Volterommi solo al principato». Questo accenno, che si legge all’inizio del secondo capitolo del Principe, è riferito, a giudizio quasi unanime degli studiosi, ai Discorsi, opera che nell’estate del 1513 contava i primi diciotto capitoli del primo libro (dedicati alla prima fase di sviluppo della Roma repubblicana), ma che era stata interrotta dall’appassionante scrittura del breve trattato. Questi diciotto capitoli, anteriori al Principe, non hanno la forma né il disegno di un commento al testo liviano e  

139   G. Sasso, “Discorsi”: 430. Sul Savonarola e il linguaggio repubblicano in Firenze, v. Fournel et Al. (2002), Fournel et Al. (2014).

i discorsi sulla prima deca di tito livio

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si distinguono, al pari dei primi cinque capitoli del secondo libro (riguardanti essenzialmente le conquiste di Roma, considerate alla luce del dilemma se esse derivassero dalla virtù o dalla fortuna) per una loro compattezza e organicità, qualità assenti nelle altre parti dei Discorsi. Sistematico è anche il secondo capitolo del primo libro, dove appare un preannuncio di vari temi che saranno in seguito approfonditi: «dico come alcuni che hanno scritto delle republiche dicono essere in quelle uno de’ tre stati chiamati da loro principato, ottimati e popolari», di ciascuno dei quali, subito dopo, s’individuano la degenerazione nella tirannide, nello «stato di pochi» e nello stato «licenzioso». Al riconoscimento che il passare dallo stato virtuoso al vizioso ha di√cili rimedi, fa seguito una giunta sorprendente: «Nacquono queste variazioni de’governi a caso intra gli uomini» (Ds I, ii, 10 e 14, pp. 19-20). Il sistema di idee che governa i Discorsi comprende dichiarazioni originali e perentorie. Il conflitto tra le classi della Roma antica è stato un fattore di sviluppo e di consolidamento delle istituzioni; la religione è un instrumentum regni; Cristo è il responsabile della fine di un mondo fondato su propri princìpi. Temi che attraversano l’opera sono ancora il confronto tra la virtù e la fortuna, la decadenza delle istituzioni, la comparazione tra equalità e repubblica, da una parte, inequalità e principato, dall’altra. Il contrasto tra i tempi antichi e quelli moderni è evidenziato nel secondo libro dei Discorsi, dove assieme all’accentuarsi dell’ispirazione etica emerge la constatazione del ruolo negativo svolto dalla Chiesa nella storia d’Italia. 140 Sovente si sono confrontati i Discorsi con gli Essais di Montaigne, opere entrambe inclini (ma in diversa misura) alla divagazione geniale, ma, al tempo stesso, armate di quel sistema di idee che le presuppone (Dotti 2003: 313). L’altra caratteristica della riflessione machiavelliana è la sua continuità nel tempo: della fortuna si tratta nei Ghiribizzi a Soderino (1506), poi nel capitolo xxv del Principe, dove si esalta l’impeto e si deprime il respetto ricorrendo all’immagine della donna-fortuna, che bisogna «batter[e] e urtar[e]», infine il tema è ripreso più volte nei Discorsi. Il capitolo primo del terzo libro propone due riflessioni fondamentali: i) la religione cristiana sarebbe morta senza Francesco e Domenico, ii) il procedere in positivo della storia è fornito dalle cosiddette «battiture estrinseche», delle quali l’esempio più famoso viene da tempi remoti: «si vede come egli era necessario che Roma fussi presa dai Franciosi, a volere che la rinascesse e, rinascendo, ripigliasse nuova vita e nuova virtù»: idea previchiana e provvidenzialistica, ha commentato G. Sasso, che ha evidenziato, al tempo stesso, come alle situazioni estreme ponga rimedio, secondo Machiavelli, soltanto la virtù di uomini particolari. 141 Tanto più è semplice e lineare, tanto più la massima è e√cace. Il Principe possiede un grado di citabilità, superiore a quello che si riscontra nei Discorsi e nell’Arte della guerra. Nel breve trattato le aπermazioni assumono un carattere di assolutezza, coniugata all’energia argomentativa. I Discorsi non hanno la forza del Principe; non  



140   Cfr Sasso ivi: 445, 448, 454. L’ideale politico di M. è repubblicano: egli esalta i modelli di Roma e di Sparta, per il modo antico, delle città svizzere e della Magna, per il mondo contemporaneo, mentre critica il regime instaurato da Cesare e dall’età imperiale di Roma. Al tempo stesso, M. esprime dubbi sulla capacità del popolo di autogovernarsi; dubbi che sono superati quando si aπerma che la moltitudine è più saggia e più costante di un principe (Dotti 2003: 314-317). 141   Sulla “necessità” della vittoria dei Galli e dell’occupazione di Roma si legga più distesamente: «Venne dunque questa battitura estrinseca acciò che tutti gli ordini di quella città si ripigliassono, e si mostrasse a quel popolo non solamente essere necessario mantenere la religione e la giustizia, ma ancora stimare i suoi buoni cittadini, e fare più conto della loro virtù che di quegli commodi che e’ pare sien loro mancati mediante le opere loro» (Ds III, i, 11 e 15, p. 525). Sul tema della “Equalità e inequalità” v. Ds (I, lv).

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vi è un direttorio di comportamenti e di azioni. Prevalgono l’esame dei fatti e la discussione sugli eventi e sui personaggi. Lo schema dilemmatico propagginato che Marchand (1975: 21) vede negli scritti minori e nel Principe, così come la contrapposizione che Russo (1988: 69) individua tra «il ragionamento a piramide degli scolastici» e il machiavelliano «ragionamento a catena» (che sarà poi ripreso nella prosa scientifica del sec. xvii), non riguardano i Discorsi, nei quali assistiamo allo svolgimento di un periodare complesso che, pur mantenendo un rapporto vivo con la discorsività, ha acquistato, grazie alla varietà dei tipi sintattici, tutti i caratteri e il tono del trattato e della narrazione storica.

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5. BEMBO 5. 1. “Tutti i modi dello scrivere”

L

e Prose della volgar lingua (1525) pongono le basi dell’italiano letterario. Assieme agli Asolani (prima ed. 1505) e alle Rime (1530), l’opera è all’origine del classicismo rinascimentale. 1 Una ra√nata formazione umanistica distingue l’autore, che, dopo aver dato alle stampe il primo dialogo, continuò ad approfondire lo studio del latino (il greco lo aveva appreso da giovane in Sicilia alla scuola di Costantino Lascaris), anche al fine d’intraprendere con successo la carriera ecclesiastica. Nel 1513, sotto il pontificato di Leone X, Bembo fu nominato, assieme al Sadoleto, alla segreteria dei brevi; si spostò allora dalla quiete laboriosa di Urbino nella corte papale, dove lo attendevano impegni continui e gravosi. Nell’epistola De imitatione, indirizzata a Gian Francesco Pico della Mirandola, erede dell’eclettismo di Poliziano, per il quale il perfetto scrivere si fonda sulla contaminazione di più modelli (proposta critica che dalla letteratura si era diπusa nelle arti figurative), Bembo sosteneva, ispirandosi a un ideale di lingua pura, la tesi del modello unico: Cicerone per la prosa, Virgilio per la poesia, cui corrispondevano, per il volgare, Boccaccio e Petrarca, i soli degni di essere imitati da coloro che volevano comporre testi letterari. 2 Ma in questa scelta si nascondeva un’asimmetria. Boccaccio non poteva apparire una guida sicura come il Petrarca: certamente l’autore del Decameron non era il Cicerone italiano; quando si allontana dalla narrazione il modello boccacciano appare inadatto alla scrittura storica e a quella argomentativa. Va aggiunto che in nessuna tradizione letteraria europea si è imposta l’assolutezza di un modello poetico come Petrarca e, nella prosa, si è riproposta l’imitazione di un novelliere vissuto quasi due secoli prima. La prosa in volgare si sviluppa all’insegna della discontinuità: L. B. Alberti e Sannazaro si distaccano, per vie diverse, dal modello boccacciano, che è ripreso e rifunzionalizzato da Bembo. Le espressioni più alte delle humanae litterae del Quattrocento respingevano ai margini la narrativa, anche se il Decameron continuava a esercitare il suo influsso sulla lingua letteraria e sullo stile. Ma era un Boccaccio dimezzato, l’eroe di un Bembo che «maneggia il Decameron distillandone sì i pregi linguistici, ma allo stesso tempo cercando di sterilizzarne la prepotente natura narrativa: prefigurando  



1   La frase in esergo è in Pro (II, i). Scrivendo al cardinale Galeotto Franciotti, l’8-10-1505, Bembo definisce gli studi letterari «il più vital cibo del mio pensiero» (Dionisotti 1966: 30-31). Rispetto alle opere di altri discettatori intervenuti nella questione della lingua, «Solo le Prose della volgar lingua si presentano come un’opera compatta e rigorosa; ma la limpidezza del disegno è merito della sensibilità storica e dell’acutezza del Bembo che, volendo fondare un classicismo volgare, fu capace di concentrare il suo interesse sulla lingua dell’alta letteratura, tralasciando i problemi allotri» (Pozzi 1989: 9). Le edizioni delle Prose (Dionisotti 1931, 1960, 1966), Marti (1955 e 1961), Pozzi (1978, 1996) si fondano sull’ed. postuma e definitiva di Lorenzo Torrentino (Firenze, 1549) [= T ], «in quanto rispondente all’ultima volontà dell’autore» (Tavosanis 2002: 9), non sulla princeps (1525) o sull’ “edizione seconda” (1538). Ai suoi tempi, Bembo, detto da alcuni «Petrarca secondo», era celebre per le sue Rime. Si citano gli Asolani e le Prose da Bembo (1966); si hanno presenti anche le note di Pozzi (1978) alle due opere. G. Patota, Il vero titolo delle “Prose” di Bembo, in “Lingua e stile”, LI, dicembre 2016: 195-211, ha dimostrato che «dal 1512 al 1547 Pietro Bembo non attribuì mai all’opera che più di tutte lo ha reso famoso il titolo di Prose della volgar lingua», che fu proposto da Benedetto Varchi. 2   Mazzacurati (1985: 105-110). Sulla cultura umanistica di Bembo v. Vecce (2007: 184-185). Opposta alla teoria del modello unico e perfetto, si diπonde dalla letteratura alle arti figurative la proposta eclettica (il perfetto scrivere nasce dalla contaminazione di più modelli), sostenuta da Francesco Pico della Mirandola nella sua polemica con il Bembo.

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per la moderna letteratura italiana un avvenire di prosa trattatistica, espositiva, dialogica, più che diegetica, e per quella, soprattutto, approntando modelli linguistici e stilistici» (Bruscagli 1996: 836). L’estensione di strutture sintattiche e di stilemi tratti dal Decameron alla prosa non narrativa non ha avuto successo. Un esempio di lingua viva abitava le vie di Firenze: una lingua ricca ed espressiva, ma incerta nelle forme e quindi non adatta, in quell’epoca, a diventare un modello. L’opzione del naturalismo fiorentino era respinta dagli scrittori non fiorentini, con grande disappunto di coloro che abitavano una città, ritenuta la nuova Atene: disappunto di coloro che amavano la propria lingua, memori del successo che essa aveva riscosso, in una forma certo nobilitata, nel periodo laurenziano. 3 Il volgare doveva poi liberarsi dalla soggezione al latino, fonte di ricchezze lessicali e stilistiche anche per coloro che avevano abbracciato il volgare. Prima di Bembo, Giovan Francesco Fortunio, autore delle Regole grammaticali della volgar lingua (1517), pur aπermando il valore assoluto delle Tre corone, dichiarava che la scelta del fiorentino letterario dipendeva dalla sua prossimità al latino. È questo un “valore assoluto”, frutto di «una filologia normativa e destorificante, d’una filologia della selezione e del rigetto su basi categoriali». 4 Circa la serietà di Fortunio nell’aπrontare la questione della grammatica del volgare, si è detto che nelle sue Regole «par di riconoscere l’esatto rovescio di quel che la lingua era stata ed era per i toscani del Quattrocento fino al Machiavelli incluso» (Dionisotti 1995a: 85). D’altra parte, appariva improponibile la mescidanza latineggiante, della Hypnerotomachia Poliphili, primo testo in volgare pubblicato nel 1499 da Aldo Manuzio. 5 Problematico appariva pertanto il rapporto tra il volgare e il latino. Da questa incertezza derivava un convincimento, diπuso nei primi decenni del Cinquecento: i grandi scrittori non dovevano dedicarsi ai volgarizzamenti. La nostra lingua letteraria nasceva all’interno della nostra tradizione, non dai classici latini. La lingua dei padri non è certo assente, ma deve rimanere in disparte, 6 come un rimedio e una risorsa cui si ricorre in circostanze particolari. Pensa certamente al suo tempo Machiavelli, quando, nel Discorso intorno alla nostra lingua, fa che l’autore della Commedia, interrogato su «questi vocaboli o forestieri o trovati da te [scil. da Dante] o fiorentini», risponda così: «nelle prime due cantiche ve ne sono pochi, ma nell’ultima assai, massime dedotti da’ Latini, perché le dottrine varie di che io ragiono mi costringono a pigliare vocaboli atti a poterle esprimere». 7 Toscano e italiano sono ben distinti da Bembo, che negli Asolani si era tenuto lontano dal latino e persisterà anche in seguito in questo atteggiamento. 8 Di fatto,  











3   P. Trovato, “Discorso intorno alla nostra lingua”, in EncMachiavelli, i (2014: 458-469, 466) parla dei «ripetuti segnali di disagio (prefazioni o lettere private) apparsi negli ambienti fiorentini del primo Cinquecento di fronte all’oπensiva, letteraria, grammaticale ed editoriale, dei barbari (in senso etimologico), che da tutt’Italia e specialmente dalla “Lombardia”, cioè l’Italia settentrionale, attentavano al primato culturale e linguistico della città». Sulla situazione linguistica di Firenze all’inizio del xvi sec. v. Nesi/Poggi Salani (2002). 4   C. Bologna, Tradizione e fortuna dei classici italiani, Torino, Einaudi, 1993, I, p. xi. R. Cella (“SGI” xxxiii, 2015, pp. 1-97) traccia la linea di un’opposizione al Bembo che fa capo al Castelvetro, e osserva: «La normazione cinquecentesca avviata dalle Prose della volgar lingua è, a tutt’oggi, un filtro frapposto fra noi e la realtà linguistica del Trecento». 5   Sulla figura del grande umanista ed editore v. Dionisotti (1995b: 39): «Indubbiamente dovrà intitolarsi ad Aldo il capitolo della non scritta ancora storia della filologia italiana che sta fra quello intitolato a Poliziano e quello intitolato a Vettori» (ivi, p. 39). 6   Si veda il saggio di C. Dionisotti, Tradizione classica e volgarizzamenti, in Dionisotti (1967: 102-144); cfr. supra 3.1. 7   Ed. Trovato (1982: 38); cfr. Idem, “Discorso intorno alla nostra lingua”, cit. 8   Cfr. Dionisotti (1995a: 97): «il Bembo negli Asolani aveva voltato pagina: toscaneggiando a tutto

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nel terzo libro delle Prose, si evitano la terminologia grammaticale del latino e ogni tecnicismo, ricorrendo a curiose quanto ingombranti parafrasi: «la voce del numero del meno» o «del più», in luogo di singolare e plurale, «la prima voce di quelle che senza termine si dicono» in luogo d’infinito presente. Questa assunzione di vocaboli comuni come termini grammaticali suscitò la riprovazione di Castelvetro. Tant’è che B. Varchi, trattando di grammatica, non esitò a usare cultismi: apposizione, cesura, imperativo, prepositivo, sincope, soggiontivo ecc. (Pirotti 1960: 541). L’altro fronte della battaglia condotta da Bembo è la lingua cortigiana. I suoi sostenitori ne riconoscevano la nascita nella civile conversazione delle corti: Ferrara, Mantova e Urbino, ma l’attenzione si concentrava sulla corte papale. La lingua usata in questo centro religioso e politico, riconosciuto dall’intera Europa, era portata ad esempio dal Calmeta. Naturale che diventasse il principale bersaglio della polemica bembiana: «lingua cortigiana esso vuole che sia quella che s’usa in Roma, non mica da romani uomini, ma da quelli della corte che in Roma fanno dimora [...]; non la spagniuola o la francese o la melanese o la napoletana da sé sola o alcun’altra, ma quella che del mescolamento di tutte queste è nata, e ora è tra le genti della corte quasi parimente a ciascuna comune» (Pro I, xiii, pp. 107-108). A questa lingua cortigiana, pur con le sue varietà e screziature locali, si riconoscono tratti comuni: una grafia e una fonetica latineggianti; la preferenza per forme verbali non toscane (per es., havemo, volemo, nella 1ª pers. plur. dell’indicativo pres., poneno, impieno, nella 3ª plur., mostrarremo, 1ª plur. del futuro), il rifiuto di arcaismi toscani, come oppenione, guari, altresì; un atteggiamento non ostile riguardo ai dialetti e alla scrittura cancelleresca. In breve, si mirava, a un conguaglio di forme, che dal parlato colto e dalle scritture usuali si estendeva alla lingua letteraria. Il Boiardo lirico ed epico, peraltro spesso dimenticato dai “cortigiani”, era stato negli ultimi decenni del Quattrocento uno dei sostenitori più illustri di tale varietà di lingua. 9 A diπerenza di studiosi, quali Folena e Dionisotti, che ne hanno negato l’esistenza, Trovato (1994: 96-107) ha sostenuto la «storicità della lingua cortigiana», come reazione alla «oltranza degli esperimenti classicisti», derivanti da una valutazione eccessiva delle Tre corone. In ogni caso importa distinguere, nell’ambito di tale corrente, diversi filoni: la lingua «cortesiana romana» di Mario Equicola, autore del Libro de natura de amore (1509, pubblicato nel 1525) è altra cosa rispetto alla lingua dei “teorici cortegiani moderati”, quali sono considerati, tra gli altri, il Calmeta e Castiglione; diversa ancora è «la posizione tosco-cortigiana del Folengo» (Folena 1991: 159). Opporsi alla letteratura cortigiana è dunque uno degli scopi delle Prose, che aπondano le radici, quanto alla lingua e allo stile, nella gestazione e sviluppo progressivo della scrittura sia degli Asolani sia delle Rime, e che mettono a frutto l’esperienza filologica acquisita dall’autore nel preparare le edizioni di Petrarca (1501) e di Dante (1502); imprese che, anche se filologicamente discutibili, rivestono una grande importanza nella storia dell’edizione dei testi (Pozzi 1978: 26). Nel 1525, a Bologna, apparve il duecentesco Novellino, con una prefazione scritta da Bembo, ma firmata da Carlo Gualteruzzi; nel 1527 furono pubblicate la prima edizione critica  

spiano, aveva rovesciato il rapporto, normale per i toscani stessi, fra latino e volgare, e cercato l’eleganza di questo proprio nella diπerenziazione, di lingua nuova e autonoma, dal latino». La posizione di Bembo si rivela anche nei particolari; a proposito di ignavo, egli aπerma: «la qual voce nondimeno italiana è più tosto, si come dal latino tolta, che toscana» (Pro, I, xi, p. 87). 9  Sulla teoria cortigiana si vedano: Drusi (1995), Giovanardi (1998) e l’aggiornata sintesi di R. Tesi, “Cortigiana, lingua”, in EncItaliano, i (2010: 313-316). Per l’accoglimento di tale teoria da parte di Castiglione e dell’Achillini cfr. Mazzacurati (1968) e, rispettivamente, Vitale (1992). Della lingua dell’Innamorato tratta Zanato (2015: 193-205).

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del Decameron e la raccolta Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani. Il criterio editoriale (adottato per i classici latini), consistente nella collazione dei testimoni, è trasferito agli antichi testi volgari, i quali, una volta liberati dalle incrostazioni quattrocentesche, rinascono a nuova vita. L’edizione di Dante diventerà la vulgata cinquecentesca della Commedia. Si aπerma in tal modo la filologia volgare e, al tempo stesso, con tali edizioni, mutano lo spirito e la forma del commento, che nei libri stampati da Aldo Manuzio non ha più il carattere cumulativo e disordinato, che si ritrova spesso nei manoscritti medievali (Mazzacurati 1985: 79, 65). 5. 2. Gli Asolani La prosa di Bembo è un’esercizio antiquario (ma fruttifero per il futuro) da confrontare con le esperienze di lingua e di stile del primo Cinquecento. Della sua scrittura, letteratissima e modellata su quella di Boccaccio, va osservato l’influsso su vari filoni della prosa del secolo: dalla trattatistica alla narrativa, dalla storiografia alle scritture devozionali. Entra nella tradizione dei dialoghi platonizzanti, un’esperienza che, iniziata con gli Asolani, proseguita con il Cortegiano e i numerosi trattati cinquecenteschi, vivrà ancora nei bruniani Eroici furori (1585). 10 Caratteristica dei dialoghi di Platone è l’inserimento di scene recitate dai partecipanti; ciò accade, in particolare, nel Fedone, nel Parmenide e nel Simposio, dialoghi che hanno un’inizio “drammatico”, caratterizzato da battute, per lo più brevi, su circostanze, luogo, occasione dei conversari. Bembo e Castiglione evitano questo esordio e preferiscono immettere scambi di battute, all’interno del dialogo per caratterizzarne i partecipanti, per smorzare una discussione divenuta accesa o una sequenza ragionativa divenuta troppo lunga. Gli Asolani (pubblicati la prima volta nel 1505, poi nel 1530, assieme alle Rime) sono un dialogo sull’amore e, al tempo stesso, il manifesto fondativo del classicismo volgare e della cultura che ad esso s’ispira. 11 Sia gli Asolani sia le Prose della volgar lingua (dialogo concepito, all’origine, non soltanto per aπermare un’ideale di lingua letteraria, ma anche per giustificare le scelte formali degli Asolani) riprendono, ma con orientamenti e scelte in parte diverse nelle due opere, la lingua e lo stile della prosa di Boccaccio. Negli Asolani, più che del Decameron, si avverte la presenza del Filocolo, dell’Ameto e in particolare della Fiammetta; è soprattutto la lingua di queste opere ad essere imitata, lo stile è meno importante. In parte diverso è l’atteggiamento di Bembo nelle Prose, più vicine al modello decameroniano. Sono imitati i periodi sintatticamente complessi della cornice, mentre il dialogato delle novelle non suscita interesse. A diπerenza di quanto accade nell’esperienza del petrarchismo, il modello non è assunto in toto, ma soltanto in parte, con scelte, distinzioni e sfumature diverse. Grazie alle Prose, Boccaccio diventerà un modello, in un primo tempo, della nostra prosa letteraria; poi detterà legge all’italiano scritto tout court, ma limitatamente alla fonomorfologia (e anche qui, s’intende, con modifiche intervenute nel fiorentino “argenteo” e con vari adattamenti); soltanto nel filone della narrativa saranno oggetto d’imitazione: la sintassi del periodo, l’ordine delle componenti, la dispositio  



10  Cfr. Guglielminetti (1990: 192), dove si parla anche del ricorso alla poesia d’amore per significare concetti filosofici e mistici. 11   Nella prima stesura che risale alla fine del Quattrocento, la lingua degli Asolani appare ancora legata alla koinè settentrionale, rappresentata da forme come: anci, cusino, trezza, giazzo ‘ghiaccio’, nonché da esiti non anafonetici: fameglia, fongo, onto. Il passaggio alle edizioni del 1505 e del 1530 dipende da una coraggiosa autorevisione editoriale, avvenuta prima della fissazione di una norma.

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delle sequenze testuali, l’architettura complessiva del testo, in una parola, la celebre cornice; tutto ciò appariva molto chiaramente ai discettatori cinquecenteschi di questioni grammaticali e linguistiche. 12 In breve, l’ammirazione per le scelte sintattiche e stilistiche presenti nel Decameron rimarrà viva in un filone circoscritto della nostra prosa letteraria; in particolare, alimenterà la scrittura di alcuni novellieri del sec. xv. Lo stile di Boccaccio sopravviverà soprattutto in sintagmi isolati, formule, avvii, parole, giaciture di parole, espressioni: tessere sparse assunte per il prestigio dello stile o per inerzia; stilemi ed espressioni che si diπondono anche in altri generi diversi dalla narrativa. 13 Nel Cinquecento il dialogo è il genere di successo. Le discussioni sulla lingua, la trattatistica che riguarda la politica, il comportamento in società, il dibattito sui generi letterari e su questioni filosofiche, tutto ciò viene presentato, svolto e discusso mediante il dialogo, che meglio promuove il movimento della ricerca, giungendo sempre (qui è la diπerenza rispetto al dialogo platonico) a una conclusione, alla fissazione di un principio o di una regola. La teatralizzazione dell’argomentare e della ricerca incontra il favore del pubblico, soprattutto quando emergono temi riguardanti l’amore. Questo rapido confronto di idee piace, assai più dei lunghi discorsi, a fasce sempre più ampie di lettori. La presenza di interventi estesi finisce per rendere il dialogo simile al trattato. Il carattere e l’andamento del genere variano: si va da opere culturalmente agguerrite, come i Dialoghi d’amore di Leone Ebreo (postumi, 1535), al più semplice svolgimento del De natura de Amore di Mario Equicola (dove le «Opinioni de’ moderni scriptori circa le cose de amore» si mescolano con disquisizioni filosofiche), ai dialoghi di Giuseppe Betussi e di Tullia d’Aragona, nei quali il tema fondamentale ogni tanto s’interrompe per lasciare spazio a temi minori, di contorno, come i discorsi sulla bellezza, sull’armonia e sulla Trinità. Il neoplatonismo ficiniano (nelle sue varie forme) 14 è una presenza, più o meno viva, in questi e in altri dialoghi, dedicati al sentimento amoroso; certamente pervade la composizione del Cortegiano e degli Asolani, opere in cui l’esposizione filosofica si giova del fatto che il dialogo devia spesso verso il monologo, accostandosi, come si è detto, ai modi del trattato: una variatio che, almeno al Bembo, doveva riuscire naturale, se si pensa che egli la sperimentò più volte nelle sue prose, sia in latino  





12   Che il Boccaccio non possa essere considerato il Cicerone del volgare è dichiarato da Vincenzo Borghini (Pozzi 1975: 230-231): «il Decameron gli [scil. a Borghini] pareva un opera degna d’alta ammirazione per la sua bellezza ma pericolosa come modello di lingua» (ivi: 236). L’opposizione allo stile del Decameron crebbe dopo l’apparizione del Vocabolario della Crusca (1612). «Il Passavanti – osserva Paolo Beni – nel numero e maniera di dir temperata, resta per lo più superiore, fuggendo soprattutto l’aπettatione, la quale nel Boccaccio è non picciola» (Beni 1982: xxxv). L’autore dell’Anticrusca «[fa] uno stretto paragone tra gli stili di Sallustio, Livio, Boccaccio e Guicciardini, in una prospettiva diacronica ben pensata che intende equiparare la chiarezza e la semplicità dello stile di Guicciardini a quelli di Sallustio e di Livio e denunciare allo stesso tempo la sintassi del Boccaccio nei periodi oscuri e malcomposti» (Casagrande, in Beni 1982, ibidem). Quanto alla “semplicità” dello stile della Storia d’Italia e di Sallustio è legittimo avere qualche dubbio, ma se si vuole rimarcare la diversità degli stili di Boccaccio e di Guicciardini, l’osservazione è legittima. 13   Per quanto riguarda il modello di Boccaccio, v. Dionisotti (1966: 26): «Non era questione di stile; era questione di grammatica». Suscita dubbi l’aπermazione di Bozzola (1999: 200) circa l’«inesistenza di una tradizione boccacciana all’interno dei confini cinquecenteschi». Sul tema del platonismo e la dignità dell’uomo v. Garin (1965: 94-132). 14   Il neoplatonismo del Rinascimento, che rispetto alle sue origini greche, accentua l’importanza attribuita all’uomo e alla sua missione terrena, coltiva un progetto ambizioso: considerare in una prospettiva unitaria i vari aspetti del mondo e le varie conoscenze. Queste idee non generarono una filosofia, ma provocarono la crisi di quelle dottrine che nel medioevo erano sembrate non superabili: la teoria dei quattro umori, la credenza che la terra e il cielo fossero mondi del tutto diversi e in opposizione reciproca.

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sia in volgare, le quali hanno tutte forma di dialoghi, a cominciare dal De Aetna (1496). 15 Va ricordato che, accanto a opere di alto livello si distende la palude degli interventi occasionali, ripetitivi, conseguenti alla moda del parlare in circolo, sempre e comunque, d’amore. Le concezioni medievali dell’amore (Andrea Cappellano, Guido Cavalcanti) e la concezione pratica, fondata sul matrimonio (tipica del pensiero umanistico e in specie di L. B. Alberti), sono superate nel dialogo bembiano, il cui fondamento ideologico si chiarisce osservando i suoi predecessori. Nel panorama della prosa argomentativa cinquecentesca, gli Asolani occupano un posto a sé, per il loro carattere e per la lingua, frutto entrambi di un’ideologia e di un programma ben definiti. Se si considerano gli anni in cui fu composto, questo dialogo appare come una novità rispetto a opere analoghe. Dimostra un impegno sperimentale e una sua originalità, sia nell’ideazione sia nello svolgimento. Per il lettore di oggi un ostacolo alla lettura è costituito dall’artificio dei periodi lunghi e complessamente strutturati, già bersaglio delle critiche di Leopardi e di De Sanctis, e prima ancora di Paolo Beni. 16 Le cadenze ritmiche e un’innaturale topologia, se possono essere accolte in una narrazione mossa da intenti artistici, non si convengono a un’argomentazione che accoglie sporadici elementi di parlato: gli appassionati interventi di Gismondo (nel II libro) s’ispirano ad alcune battute tipiche del Decameron. 17 L’edizione critica dovuta a Giorgio Dilemmi (1991) e lo studio analitico di Claudia Berra (1995) permettono di osservare da vicino le fasi di elaborazione dell’opera, i tratti della sintassi e dello stile, la fisionomia di ciascuno dei tre libri. Nel primo il discorso di Perottino, che conserva un carattere filosofico e dottrinale (sia pure in misura ridotta rispetto alle versioni precedenti), vuole dimostrare la negatività dell’amore, rievocando storie di passioni infelici. Nel secondo libro, Gismondo celebra la grandezza di un sentimento universale ricorrendo a citazioni petrarchesche, a lodi di celebri dame e, soprattutto, a racconti di amori felici, non privi di spunti erotici. Si attua un genus demonstrativum, che s’ispira al trattato De vero falsoque bono di Valla ed è lontano sia dal sillogizzare di Perottino, sia dall’argomentare dilemmatico di tipo machiavelliano. Nel terzo libro il discorso di Lavinello sull’amore platonico – che, al pari del Raverta di Betussi, conferma che solo un sentimento ultraterreno conduce alla stabile bellezza del divino – e più ancora le deduzioni finali del Romito, si concludono con aπermazioni generiche e astratte. 18 L’impegno di adeguare lo stile ai personaggi e alla situazioni, l’aumento degli scambi dialogici nel secondo libro (dove vi è pure una tenue ripresa di modi del parlato), l’esercizio retorico che domina gli spunti filosofici del terzo, rivelano il tentativo di percorrere, in una stessa opera, diverse vie. Sia gli Asolani, dove soltanto  







15   In quest’opera sono sperimentati gli stessi criteri ortografici che saranno poi applicati all’edizione della Commedia dantesca (Le terze rime, 1502) e, con alcune modifiche, agli Asolani (1505) e alle Prose (1525). 16   «All’incontro nella Prosa [scil. Bembo], già che per essemplare si propose il Boccaccio (che a quel tempo miglior prosatore non si era scoperto), è riuscito più tosto turgido e duro, e (per confessar ingenuamente il tutto) aπettato et oscuro, che facile e temperato» (Beni p. 117); questo passo è citato e commentato da Tesi (2009: 187-188). Pertanto Bembo è escluso dal canone dei migliori prosatori del Cinquecento. 17   Come risulta da un uso più frequente di ripetizioni, allocutivi, esclamative e interrogative: «Che dunque è, potrestemi voi dire, se egli non è Amore? ha egli nome alcuno? Sì bene ch’egli n’ha, e molti [...]. Perottino, tu non ami; non è amore, Perottino, il tuo; ombra sei d’amante, più tosto che amante, Perottino» (As II, xv); si vedano anche alcuni segnali discorsivi: «Vedi tu dunque, Gismondo» (As I, xi), «Deh [...] se questo Idio ti conceda, Perottino, il vivere lietamente» (As I, xiv), «Ahi infelice dono della mia donna crudele» (As I, xxxvi), «E che ho io detto, Madonna?» (As II, xxxiv). Per la mimesi del parlato nel dialogo asolano v. Berra (1995: 145-152). 18   Cfr. Dionisotti (1966: 22-23): «il terzo libro risulta più esile dei primi due e, al tempo stesso, spezzato come è in due parti, più intricato e impacciato nello sforzo di concludere».

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gli interlocutori maschili hanno un ruolo attivo, sia le Prose, si concludono simbolicamente con una conversione: Lavinello s’inizia all’amore platonico, Ercole Strozzi s’inizierà al volgare. Il dialogo bembiano, divenuto celebre in Italia e in Europa, 19 nasce da due istanze: l’esaltazione di un concetto dell’amore, inteso come virtù e capacità di conoscere, e la volontà di ridar vita e forme convenienti a un genere leader, attribuendo alla lingua stabilità e dignità formale. Inframezzata da versi, la prosa ricalca i modi sintattici decameroniani, attuandone spesso un’ipercaratterizzazione; «il Boccaccio finì per essere un modello di lingua piuttosto che di stile, un modello grammaticale e di livello molto inferiore a quello petrarchesco», tanto che Bembo, quando fu incaricato di proseguire la storia di Venezia, che il Sabellico aveva condotto fino al 1487, si trovò a mal partito perché non poteva certamente scriverla con lo stile che aveva usato nelle opere retoriche. 20 La volontà di dimostrare la «funzione metastorica delle forme alte e assolute della tradizione lirica» produce una scrittura di cui si è lamentata l’inadeguatezza, ma che deve essere giudicata e analizzata iuxta propria principia; il fattore predominante è certamente topologico: il verbo in posizione finale, le inversioni, le dittologie, le separazioni di costituenti normalmente contigui, la continua ricerca di clausole ritmiche. 21 Nel lessico, oltre ai vocaboli, alle espressioni e alle giaciture imitati da Boccaccio, si ritrovano tessere petrarchesche; tra prosa e poesia i confini non sono definiti. Ecco il discorso di Lavinello, l’amante infelice, al suo primo apparire sulla scena:  





Il che poi che esso ebbe detto, fermatosi e più alquanto temperata la voce, cotale diede a’ suoi ragionamenti principio: – Amore, valorose donne, non figliuolo di Venere, come si legge nelle favole degli scrittori, i quali tuttavia in questa stessa bugia tra se medesimi discordando il fanno figliuolo di diverse Idie, come se alcuno diverse madri aver potesse, né di Marte o di Mercurio o di Volcano medesimamente o d’altro Idio, ma da soverchia lascivia e da pigro ozio degli uomini, oscurissimi e vilissimi genitori, nelle nostre menti procreato, nasce da prima quasi parto di malizia e di vizio, il quale esse menti raccolgono e, fasciandolo di leggierissime speranze, poscia il nodriscono di vani et stolti pensieri, latte che tanto più abonda, quanto più ne sugge l’ingordo e assetato bambino (As I, ix, p. 328).

Nella cornice temporale appaiono un trapassato remoto e una participio passato; una didascalia di tono solenne introduce il discorso diretto, subito occupato da Amore, seguito dall’allocutivo valorose donne. Segue una serie di stilemi decameroniani: il distanziamento dei due poli della correlazione («Amore [...] non figliuolo di Venere [...] ma da soverchia lascivia e da pigro ozio de gli uomini [...] nasce»); l’inserimento di una parentetica, composta di tre elementi a incastro: «come si legge [...] i quali tuttavia [...] come se alcuno»; al forte sbilanciamento a sinistra del periodo spingono la participiale («nelle nostre menti procreato»), le due apposizioni («oscurissimi e vilissimi genitori [...] latte che tanto più abonda») e la relativa oggettiva («il quale esse menti raccolgono»); quanto all’ordo verborum, ecco 19

  Si veda l’Introduzione di Dilemmi (1991).   Cfr. Pozzi (1978: 13, 35). La dignità attribuita alle donne nell’inizio del terzo libro degli Asolani rappresenta una novità per l’epoca. Sulla Istoria veneziana del Bembo, di cui si ricorda l’edizione del 1790 (Venezia, Zatta), v. Dionisotti (1966: 55). 21   La citazione è da Mazzacurati (1985: 86). Giudizi negativi sullo stile degli Asolani sono stati espressi da Segre (1963: 361), Pozzi (1978: 15-17) e Formentin (1996b: 187, 191), che parla di «intarsio di citazioni tratte dal modello» e di «“montaggio” di tessere boccaccesche». Si potrebbe anche parlare di una “strutturazione ritmica” del testo. 20

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gli aggettivi e la coppia di aggettivi anteposti (ben dodici occorrenze in poco più di 6 righi), la tmesi («cotale ... principio»), la posposizione del verbo all’oggetto, la precedenza dell’agente al participio passato («da soverchia lascivia ... procreato»), la posposizione del soggetto al verbo («sugge ... l’assetato bambino»), l’apposizione impreziosita dalla correlazione («latte che tanto più abonda, quanto più»), 22 la catena anaforica che progredisce in peius («Amore – figliuolo – quasi parto di malitia e di vitio – l’ingordo et assetato bambino»). Lo slancio retorico è sostenuto da vocaboli ra√nati: latinismi, superlativi, studiate ripetizioni (due occorrenze di figliuolo e di menti, Idie - Idio); participiali e gerundiali assicurano i puntelli del discorso; la copia verborum celebra il suo trionfo. La complessità periodale dipende non tanto dalla struttura sintattica quanto piuttosto dall’ordine artificioso dei costituenti, soggetti a cadenze ritmiche, come appare già nell’antefatto:  

Asolo adunque, vago e piacevole castello posto ne gli stremi gioghi delle nostre alpi sopra il Trivigiano, è, sì come ogniuno dee sapere, di madonna la Reina di Cipri, con la cui famiglia, la quale è detta Cornelia, molto nella nostra città onorata e illustre, è la mia non solamente d’amistà e di dimestichezza congiunta, ma ancora di parentado. Dove essendo ella questo settembre passato a’ suoi diporti andata, avenne che ella quivi maritò una delle sue damigelle, la quale, perciò che bella e costumata e gentile era molto e perciò che da bambina cresciuta se l’avea, assai teneramente era da·llei amata e avuta cara. Per che vi fece l’apparecchio delle nozze ordinare bello e grande, e, invitatovi delle vicine contrade qualunque più onorato uomo v’era con le lor donne, e da Vinegia similmente, in suoni e canti e balli e solennissimi conviti l’un giorno appresso all’altro ne menava festeggiando, con sommo piacer di ciascuno (As I, ii, p. 316: si sono cambiati dallei con da ·llei e Perché con Per che).

Notiamo il distanziamento dei costituenti frasali: «Asolo è [...] di madonna la Reina di Cipri, con la cui famiglia [...] è la mia [...] congiunta»; al quale corrispondono il distacco dell’ausiliare dal participio passato: «essendo ella [...] andata», «molto [...] onorata», la relativa interrotta da due causali: «la quale, perciò che [...] e perciò che», l’evidenziazione dell’avverbio molto: «molto nella nostra città onorata e illustre, bella e costumata e gentile era molto», la presenza e collocazione di tre avverbi in -mente, che interpretano un’esigenza ritmica: solamente (usato nella correlazione non solamente [...] ma), teneramente (modificatore di un verbo) similmente (in una locuzione dal valore modale). 23 La descrizione del locus amoenus richiama alcuni passi del modello:  

Era questo giardino vago molto e di maravigliosa bellezza; il quale, oltre ad un bellissimo pergolato di viti, che largo e ombroso per lo mezzo in croce il dipartiva, una medesima via dava a gl’intranti di qua et di là, e lungo le latora di lui ne la distendeva, la quale assai spaziosa e lunga e tutta di viva selce soprastrata si chiudeva dalla parte di verso il giardino, solo che dove facea porta nel pergolato, da una siepe di spessissimi et verdissimi ginevri, che al petto avrebbe potuto giu22   È un esempio di apposizione tradizionale, di carattere esornativo, quindi statica; soltanto più tardi si svilupperà un tipo diverso di apposizione, fondata su una ripresa lessicale seguita dal pronome relativo, secondo lo schema “N ... N che...”: è questa una struttura dinamica, dalla quale dipende la progressione del tema; se ne ritrovano esempi, tra gli altri, nello Zibaldone leopardiano, dove la sintassi “cinquecentesca” è soggetta a innovazioni; per esempi di questo fenomeno nella prosa di Leopardi v. Ricci A. (2002: 49). 23   Si notino ancora: l’incrocio di due relative con la cui famiglia, la quale è detta Cornelia, la correlazione rinforzata non solamente ... ma ancora, un costrutto con il participio passato: e invitatovi. Negli As avverbi, come agevolmente (20 occorrenze), primieramente, maggiormente, minutamente, sono “modulatori discorsivi”, usati in varie circostanze.

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bembo gnere col suo sommo di chi vi si fosse accostar voluto, ugualmente in ogni parte di sé la vista pascendo, dilettevole a riguardare. Dall’altra onorati allori, lungo il muro vie più nel cielo montando, della più alta parte di loro mezzo arco sopra la via facevano, folti e in maniera gastigati, che niuna lor foglia fuori del loro ordine parea che ardisse di si mostrare, né altro del muro, per quanto essi capevano, vi si vedea, che dall’uno delle latora del giardino i marmi bianchissimi di due finestre, che quasi negli stremi di loro erano, larghe e aperte e dalle quali, perciò che il muro v’era grossissimo, in ciascun lato sedendo si potea mandar la vista sopra il piano a cui elle da alto riguardano (As I, v, p. 322).

Unico è il punto di osservazione, rigorosamente orizzontale, e unica la linea descrittiva formata da una serie di imperfetti: dipartiva ... distendeva ... si chiudeva ... , distribuiti in relative, che sono le strutture portanti del passo; all’interno delle quali si succedono elementi dell’ornato retorico: superlativi mirativi (bellissimo pergolato, spessissimi et verdissimi ginevri, marmi bianchissimi, il muro v’era grossissimo), locativi che guidano lo sguardo (di qua et di là, lungo le latora, dall’uno delle latora), un endecasillabo: «di chi vi si fosse accostar voluto». L’ordine del giardino interpreta l’ordine della corte, teatro della magnificenza del potere (Ordine 1994b: 506). La descriptio loci ripete Boccaccio: «In Italia, delle mondane parti chiarezza speziale, siede Etruria, di quella, sì com’io credo, principal membro e singular bellezza», 24 anticipa il Cortegiano: «Alle pendici dell’Appenino, quasi al mezzo de Italia verso il mare Adriatico è posta, come ognun sa, la piccola città de Urbino». Nel Cortegiano è raπigurato il palazzo ducale; sarà una regola armonica a governare personaggi, conversari, atteggiamenti, descrizioni. Tutto è rivolto a un uditorio autorevole e prestigioso, con il quale, mediante le virtù del genere epidittico (il genus demonstrativum), si rinsaldano vincoli di valori riconosciuti; «fatta di loro corona, a sedere [...] posti si furono» (As I, vi), «ognuno si ponea a sedere [...] in cerchio» (Co I, vi). È esaltata la circolarità del dialogo, immagine della celebrazione e del tempo della festa. Come si è accennato, gli Asolani sono il risultato di una lunga gestazione: attraverso le redazioni queriniana, chigiana e marciana (1496-1505), si giunge alla princeps (1505), uscita dai torchi di Aldo con una dedicatoria a Lucrezia Borgia, una pagina che in seguito sarà eliminata dall’autore. Seguiranno, dopo cinque lustri, i ‘secondi’ Asolani (1530), il testo che noi leggiamo. 25 Nella revisione cadono i tratti quattrocenteschi: gli articoli el ed e passano a il ed i, si riducono l’iperbato latineggiante e gli infiniti modali cari a Boccaccio. Le diπerenze tra la redazione queriniana e le successive sono di ordine tematico, strutturale e linguistico. La queriniana è un laboratorio sperimentale di temi, di stile e di lingua; si evitano i latinismi (anche grafici), si eliminano progressivamente – pur tra molte incertezze – i settentrionalismi, 26 nel dialogato si tenta una mimesi del parlato («Lisa, Lisa, tu hai avuto un gran torto» As I, viii, p. 300), gli scambi dialogici, improntati a una moderata vivacità, contrastano con l’elaborazione retorica degli esordi. Il discorso di Perottino è un esempio di prosa argomentativa, che lascia intravedere un rinnovamento di forme espressive; oltre all’inevitabile Decameron, si avver 





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  Comedia delle ninfe fiorentine, iii, ed. Quaglio, p. 683.   Q = Codice Cl. VI. 4 (= 1043) Biblioteca Querini Stampalia; nel passaggio Q´ → Q˝ si riduce il canone poetico, C = Codice Chigiano L. VIII. 304, Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana, M = Codice Marciano Italiano, Cl. XI. 25 (= 6671), Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana: cfr. Dilemmi (1991), Introduzione. 26   Per la riduzione dell’iperbato e dell’infinito modale v. Dilemmi (1991: xcix, cvii.). Le incertezze della prima fase della composizione di As sono analizzate da Berra (1995: 127), che tratta anche della partitura fonico-ritmica (ivi: 134). 25

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tono echi del Convivio e, forse, del Comento del Magnifico: «La prosa degli Asolani, comunemente ritenuta paradigma di boccaccismo osservante, non è nata solo come tale» (Berra: 1996: 152, 164). Un confronto con l’Arcadia (1504), primo notevole tentativo di prosa d’arte nato al di fuori della Toscana, non sembra appropriato; si tratta infatti di un’allegoria pastorale che accoglie sia toscanismi sia latinismi. 27 Tra le due edizioni degli Asolani (1505 e 1525) Dionisotti vede una continuità di stile, che altri negano, considerando che nell’intervallo sono nate le Prose (1525). 28 Al suo primo apparire il dialogo suscitò lodi ma anche critiche; queste ultime venivano da coloro (come l’Equicola) che vedevano nell’opera i tratti di uno stile giudicato “medio” e quindi non adeguato all’impegno letterario che l’occasione richiedeva. È una critica per noi incomprensibile e che conferma quanto grande sia la distanza che ci separa da questo filone di prosa primocinquecentesca; una distanza simile a quella che, in quei tempi, separava la letteratura dalla realtà. Poche opere di quegli anni riflettono lo spettacolo tragico di un’Italia invasa da eserciti stranieri. 29  





5. 3. Le Prose della volgar lingua All’inzio del Cinquecento il processo di toscanizzazione aveva compiuto notevoli progressi: in ogni koiné tra dialetto locale e toscano era il secondo a prevalere; si è detto che Bembo «traduce in problema di gusto quello che sino allora appariva come un problema linguistico» (Segre 2000: 2). Il terreno era preparato da tempo. Già prima di Petrarca e di Boccaccio era stato riconosciuto il primato del toscano come lingua scritta; anche se le resistenze dureranno a lungo: basti pensare alle grafie latineggianti, che, sostenute dalle scritture umanistiche, erano ritenute, da qualificati osservatori, più idonee di quelle del toscano. Le Prose furono pubblicate al momento giusto, quando erano “necessarie” alla repubblica delle lettere; ebbero immediato successo, anche grazie al favore con cui le accolsero grandi autori, come Ariosto e Guicciardini. Per aπermare una priorità rispetto alle Regole grammaticali della volgar lingua del (1516), Bembo ricorse a uno stratagemma; l’opera fu presentata nel 1524 a Clemente VII, ma la dedica si finge avvenuta dieci anni prima quando il futuro papa era ancora il cardinale Giulio de’ Medici. Nel dialogo sono messi in scena personaggi reali, gentiluomini che interpretano le funzioni loro attribuite: il provenzalista Federico Fregoso, il fiorentinista Giuliano de’ Medici, Carlo Bembo, fratello di Pietro e suo portavoce, il latinista Ercole Strozzi, che deve essere convinto a usare il volgare. Ricco d’immagini, di rime e di riferimenti colti, condotto con la stessa maestria che si ritroverà nel Cortegiano, il dialogo è svolto come «una persuasiva maieutica intessuta tra gentiluomini letterati che possono dedicarsi il più liberale ascolto reciproco e tre giornate del proprio tempo» (Tavoni 1992b: 1069-1070). Le Regole di Fortunio non aπrontano alcuno dei problemi teorici aπrontati da Bembo; fondandosi su esempi tratti per lo più dalle Tre corone (le citazioni provengono dalle edizioni aldine di Bembo), si limitano a elencare, con l’aggiunta di brevi commenti, forme e fenomeni grammaticali (Richardson 2001: l). 27   In eπetti, l’edizione si basa sul testo stabilito da Pietro Summonte, umanista in rapporto con Bembo: è questo il tramite per l’ingresso nell’opera di forme tratte da autori toscani del Trecento (Tesi 2007: 192-193); cfr. C. Vecce, Viaggio in “Arcadia”, saggio introd. alla sua ed. Sannazaro (2013). 28   Gli oppositori della tesi di Dionisotti (Marti, Floriani, Cachey) enfatizzano l’eπetto dell’apparizione delle Prose tra le due edizioni degli Asolani: v. Berra (2000). 29   Non lasciano tracce nella scrittura degli Asolani gli eventi, negativi per Venezia, avvenuti durante la composizione dell’opera; nel 1509 si ebbero: la sconfitta di Agnadello, la perdita dei possedimenti della terraferma e la distruzione della flotta, a Polesella, ad opera delle artiglierie estensi.

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Per Bembo eleggere a modelli Petrarca e Boccaccio è una scelta che, incurante della storia e dei suoi contesti, vuole indicare all’imitazione forme ideali, alte nella gerarchia dei valori letterari, culturali, linguistici e stilistici. Mazzacurati ha visto una contrapposizione tra il De vulgari eloquentia, dove avverrebbe la «trasformazione della voce in scrittura», e le Prose, che segnerebbero una «separazione radicale, categoriale, tra voce e scrittura»; nella scelta bembiana di Petrarca e di Boccaccio, «non li seleziona uno sguardo puristico e arcaizzante [...], ma uno sguardo categoriale che li astrae dal tempo e li nomina secondo una gerarchia di primati formali quasi del tutto sradicata da ogni acclimatazione storica». 30 Diversamente da Trissino, che s’indirizzava alla scelta di una lingua, Bembo pensa concretamente a un modello, a una “grammatica”, che possieda la stessa regolarità e dignità che sono proprie del latino; per tale via si evitano le alterazioni dovute al tempo e ci si avvicina, assai più di Trissino, alla teoria linguistica e retorica di Dante. Gli intelletuali che gravitavano nelle corti hanno interpretatato le Prose come una «grammatica del dominio», che seppe opporre alla vaghezza e allo sperimentalismo della cultura cortigiana un programma ben fondato e rigoroso. 31 Spesso la grammatica propone questioni e problemi che superano i confini della grammatica. Ciò avviene tanto più nell’Italia del Cinquecento, che allo splendore delle lettere e delle arti vede contrapporsi la visione della disfatta politica e civile. Ecco allora che le Prose testimoniano un’eccellenza atemporale di civiltà e di cultura; celebrano la bellezza, l’armonia e la compiutezza formale; si pongono come la rappresentazione e la prova di una maturità culturale, etica e pedagogica. Bembo esprime «un platonismo “storicizzato”: non una generica aspirazione alla bellezza, ma una concreta indicazione dei modelli storici e reali cui uniformarsi» (Mazzacurati 1967: 140); alle astrazioni si sostituisce una realistica indicazione di autori, che sono additati all’imitazione dei contemporanei. Certo fornire le regole grammaticali nel corso di un dialogo è un’impresa ardua; di fatto al lettore è impedita una consultazione agevole dei contenuti; ma, a parte la volontà di esporre con eleganza nozioni di per sé aride, nel terzo libro delle Prose è vivo l’impegno di presentare un’analisi ra√nata delle forme prosastiche e poetiche della lingua letteraria (Nencioni 1991: 17).  



Fondamentale per comprendere l’elaborazione delle Prose della volgar lingua è l’edizione “genetica”, preparata da Claudio Vela, nella quale viene messa a testo la lezione della princeps, riscontrata con il codice autografo Vat. lat. 3210: «la nitida mano del Bembo ha trascritto e elaborato il testo del trattato, dal 1521 in poi, giungendo, stratigraficamente per interventi e inserimenti successivi, a impiantarvi una redazione vicina ma comunque anteriore a quella attestata dalla princeps» (Vela 2001: xii). I criteri estremamente conservativi di questa edizione e il fitto corredo paratestuale che l’accompagna permettono di percorrere a ritroso il cammino di una scrittura che procedeva con correzioni, interventi di varia natura e aggiunte; questo operare s’intensifica nel passaggio al libro terzo: «Bembo lavorava per grandi argomenti, probabilmente portati avanti in parallelo ma con qualche sfasatura, e ha lasciato all’opera di revisione, in momenti successivi, il compito dei necessari raccordi, di armonizzazione argomentativa ed esemplificativa e verosimiglianza narrativa (quanto alla cornice 30   Mazzacurati (1985: 110-112). A questa tesi si è opposto Tavoni, che ha dimostrato come Bembo riprenda dal trattato dantesco vari temi, compresa l’idea della lingua lontana dagli idiomi parlati (Tavoni 1992b e 2000). Nelle Prose il trattato dantesco è denominato Convito (Pro I, xvii; III, xvi; III, lv), anche se la stampa usata da Bembo (Francesco Bonaccorsi, Firenze, 1490) è intitolata Convivio. Cfr. l’Introduzione di F. Ageno alla sua ed. del trattato (Firenze, Le Lettere, 1995, tomo I). 31   Per la prossimità di Bembo alle teorie di Dante v. Pozzi (1978: 53; 1989: 10). La formula “grammatica del dominio” si deve a Mazzacurati (1976: 195-235).

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dell’ambiente e del dialogo)» (Vela 2001: xlii). Nonostante le revisioni, sono rimaste nel testo lievi incoerenze fonetiche, i settentrionalismi, come accorzano ‘accorciano’ (Pro II, vii) e inzelosito (Pro II, x). Le edizioni “divulgative” moderne hanno come base l’edizione Torrentino del 1549, la quale riflette le ultime volontà dell’autore. 32  

La sintassi del periodo delle Prose non è uniforme; anche nei piani alti dello stile è possibile distinguere diverse modalità di esecuzione. Dalle frasi brevi, scambiate in varie occasioni tra i partecipanti del dialogo (Pro I, viii e xii), si passa all’eleganza sostenuta del profilo di storia letteraria tracciato da Federigo Fregoso («Era per tutto il Ponente la favella provenzale ne’ tempi, ne’ quali ella fiorì, in prezzo e in stima molta» Pro I, viii), all’inviluppato discorrere di Ercole Strozzi, strenuo difensore dell’uso scritto del latino («Ben vorrei e sarebbemi caro, che o voi aveste me a quello di lei credere persuauso che voi vi credete [...], o io voi svolgere da cotesta credenza potessi» Pro I, ii) e ai toni aulici della celebrazione delle «molte e riverende reliquie» dell’antica Roma (Pro III, i); e qui, nel descrivere la città e nel presentare i sommi artisti, ricorrono con più insistenza, comparative e condizionali, votate a fini essenzialmente ornamentali. Al polo opposto della complessità sintattica e dell’ornatus retorico vi sono le strutture frasali del terzo libro, funzionali all’esposizione delle forme e delle regole della grammatica. In ogni modo, le Prose possiedono un’indubbia e coerente unità di stile: mostrano infatti continuità negli usi sintattici e lessicali, nonché una sostanziale unità stilistica, che pone sullo stesso piano, nonostante alcune diπerenze, la discussione ampia e l’esposizione delle regole grammaticali. Si evitano quel accumulo di elementi, quella disordinata congerie di forme che si ritrova spesso nella prosa “rivoluzionaria” di un Aretino o di un Doni; ed è presente, invece, un ritmo, composto di clausole e di parallelismi, che oπusca talvolta la linea sintattica. Tra le cosiddette figure di pensiero spiccano le similitudini. Le età della lingua sono confrontate con le età dell’uomo, mediante figuranti relativi alla nascita e alla pubertà: il latte (Pro I, iii), la madre (Pro I, v), la culla e le fascie (Pro I, xvi); altrove appaiono immagini di piante, che crescono e si sviluppano, e di fiumi, che confluiscono nel mare. 33 Nell’ultimo libro incontriamo gli inchiostri (gli scritti letterari), la creta e lo scarpello (gli scultori), il pennello (i pittori), l’archipenzolo (gli architetti). La scena del dialogo acquista i colori di un’ambiente vissuto: «Io, signori, con licenzia di voi al fuoco m’accosterò», dice Ercole Strozzi, inserendo, all’inizio del dialogo, un riferimento al luogo (Pro I, ii). Carattere narrativo hanno gli intermezzi, che segnano le pause del dialogo: «Per ciò che ritornati gli tre, desinato che essi ebbero, a casa mio fratello, sì come ordinato aveano, e facendo freddo per lo vento di tramontana, che ancor traeva, d’intorno al fuoco raccoltisi, preso prima da ciascun di loro un buon caldo, essi a seder si posero, e mio fratello con loro altresì» (Pro II, iii); «Mentre il Magnifico queste cose diceva, i famigliari di mio  

32   L’ed. del 1549 fu patrocinata da B. Varchi (Formentin 1996b: 206). Il codice Vat. latino 3210 è stato copiato tra il 1515 e il 1523; in esso si osserva una «proliferazione di “particelle”, che sostituisce la più sobria trattazione originale» (Tavosanis 2002: 43). Un problema aperto consiste nell’accertare da quale fonte Bembo abbia ripreso le citazioni del Decameron (ivi: 101). Le principali edizioni delle Prose sono: la princeps (Giovanni Tacuino, Venezia, 1525); la Marcoliniana (Venezia, 1538), famosa anche per l’aggiunta della frase: «tra tutte le cose acconce a commuovere gli umani animi, che liberi sono, è grande la forza delle umane parole» (I, i); la Torrentino (postuma, 1549). 33  Cfr.: «così di quelle [scil. lingue] che in Roma, per la varietà delle genti sì come fiumi al mare vi corrono e allaganvi d’ogni parte» (Pro I, xiii), «onde quella una [scil. lingua] che se ne generava, non istava ferma, anzi, a guisa di marina onda, che ora per un vento a quella parte si gonfia, ora a questa si china per un altro, così ella [...] ora s’era mutata» (ivi).

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fratello, veduto che già la sera n’era venuta, co’ lumi accesi nella camera entrarono e, quelli sopra le tavole lasciati, si dipartirono» (Pro III, xlii). Decoro di atti e di stile ritorna nel finale dell’opera: E messe le tavole, e data l’acqua alle mani, tutti insieme lietamente cenarono. E poscia al fuoco per alquanto spazio dimorati, sopra le ragionate cose per lo più favellando, e spezialmente messer Ercole, il qual agli altri promettea di volere al tutto far pruova se fatto gli venisse di saper scrivere volgarmente, essendo già buona parte della notte passata, gli tre, mio fratello lasciandone, si tornarono alle loro case (Pro III, lxxix, p. 309).

Trattando della disposizione e della variazione delle voci, Bembo ricorre a un paragone con i «maestri delle navi», che scelgono e misurano i vari pezzi di legno e di ferro, al fine di calettarli e assemblarli convenientemente e nei modi più funzionali (Pro II, vii); le fasi del loro operare («primieramente risguardano [...] appresso considerano [...] ultimamente [...] accorzano») corrispondono ai tempi della composizione letteraria: l’ordine delle parole nella frase, la flessione delle parole, gli aggiustamenti ottenuti con prostesi, apocope, metatesi, sincopi. 34 Ecco l’ultima parte del ragionare nelle parole del Magnifico:  

così medesimamente gli scrittori tre parti hanno altresì nel disporre i loro componimenti. Per ciò che primiera loro cura è vederne l’ordine, e quale voce con quale voce accozzata, ciò è quale verbo a quale nome, o qual nome a qual verbo, o pure quale di queste, o quale altra parte, con quale di queste o delle altre parti del parlare, congiunta e composta bene stia. È bisogno dopo questo, che per loro si consideri queste parti medesime in quale guisa stando, migliore e più bella giacitura truovino [...]. Rimane per ultima loro fatica poi, quando alcuna di queste parti, o brieve o lunga o altrimenti disposta, viene loro parendo senza vaghezza, senza armonia, aggiugnervi o scemar di loro, o mutare e trasporre, come che sia, o poco o molto, o dal capo o nel mezzo o nel fine (Pro II, vii, pp. 141-142).

Gli autori del xvi secolo non hanno autocoscienza della sintassi, tantomeno della sintassi del periodo, della quale Zublena (2000) ha condotto una descrizione, incentrata sulle grandi linee architettoniche più che sulle singole componenti. Lo sbilanciamento a sinistra, provocato dalle gerundiali e dalle avverbiali che precedono la principale, il ricorrere di correlazioni e comparazioni, la frequenza di relative e d’incidentali, rientrano in una tipologia costruttiva dalle linee definite e fruibile in varie situazioni espressive. Per un’analisi, più mirata alle componenti del periodo, scelgo il noto passo in cui sono messi a confronto coloro che conoscono il fiorentino dalla nascita e coloro che lo apprendono dai libri: Allora mio fratello: – Egli par bene da una parte, – disse – messer Federigo, che per contento tener se ne debba Giuliano, perciò che egli ha senza sua fatica quella lingua nella culla e nelle fascie apparata, che noi dagli auttori il piú delle volte con l’ossa dure disagiosamente appariamo. Ma d’altra non so io bene, senza fallo alcuno, che dirmi; e viemmi talora in openione di credere, che l’essere a questi tempi nato fiorentino, a ben volere fiorentino scrivere, non sia di molto vantaggio. Perciò che, oltre che naturalmente suole avenire, che le cose delle quali abondiamo sono da noi men care avute, onde voi toschi, del vostro parlare abondevoli, meno stima ne fate che noi non facciamo, sí aviene egli ancora che, perciò che voi ci nascete e crescete, a 34   Ma questi ultimi fenomeni riguardano, secondo Quintiliano (Inst. Orat. ix. 4. 146-147), la poesia, solo eccezionalmente la prosa; cfr.: Dionisotti (1966: 141), Pozzi 1978: 124-125). Sulla similitudine dei maestri delle navi v. Berra (2000: 288).

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la prosa del cinquecento voi pare di saperlo abastanza, per la qual cosa non ne cercate altramente gli scrittori, a quello del popolaresco uso tenendovi, senza passar piú avanti, il quale nel vero non è mai cosí gentile, cosí vago, come sono le buone scritture. Ma gli altri, che toscani non sono, da’ buoni libri la lingua apprendendo, l’apprendono vaga e gentile (Prose I, xvi, p. 114).

Le correlazioni («da una parte [...] dall’altra», «oltre che naturalmente suole avvenire [...] sì aviene egli ancora che») e il reticolo fissato dai quattro nessi causali (per ciò, tre volte, e per la qual cosa) fondano una scrittura coesa, ma diversa dall’argomentare di Perottino, ricco di sillogismi. Si riducono la frequenza e l’intensità dell’interposizione frastica, l’artificio delle simmetrie e dell’ordo verborum. In un certo senso, ciò appare naturale in un dialogo, in cui si trattano questioni di lingua e di stile e non si ritraggono comportamenti, moralità e sentimenti. 5. 4. Aspetti della sintassi Due fenomeni “retrogradi” sono all’origine della scrittura di Bembo: la ripresa del fiorentino trecentesco e la ricerca di clausole ritmiche, le quali, anche se occorrono in altri autori del tempo, soltanto in Bembo acquistano un così forte rilievo e quasi oscurano altri fenomeni dell’ornatus. È un ideale di stile opposto a quello di Machiavelli, nato da un’oratoria di libero corso, vicina al parlato, arricchita con innesti latineggianti, sostenuta da formule tipiche delle cancellerie. Ripetuti e particolarmente vistosi sono il distacco del verbo ausiliare dal participio passato (o del verbo servile dall’infinito) e il distacco del soggetto dal predicato verbale: «Deesi, per ciò che detto s’è del verbo e per adietro detto s’era del nome, dire appresso di quelle voci» (Pro III, liii), «se io ora, dalle cose che per messere Federigo e per voi della volgar lingua dette si sono persuaso» (Pro I, xii). La precedenza dell’aggettivo determinativo al nome appare anche con gli etnici: il latino parlare, i romani uomini, la latina favella, la greca lingua, ciciliano scrivere, gl’italiani popoli, la toscana lingua, contro un caso isolato di posposizione: la favella provenzale (Pro I, viii); si noti anche la costoro diligenza (Pro I, xiv). Espressione di una sintassi sintetica è il participio passato stato privo di ausiliare: «e tanti altri pellegrini artefici per adietro stati» (Pro III, i). Il costante distanziamento di elementi normalmente contigui giunge a interporre uno spazio equivalente a sei righi di stampa tra il dativo a cui egli e il predicato verbale esso gli rispondea, dove la ripresa pronominale diventa a questo punto indispensabile (Pro I, xiii). Un tratto ricorrente è l’aπollamento in brevi periodi di più determinazioni spazio-temporali e di circostanziali: Per la qual cosa ho pensato di poter giovare agli studiosi di questa lingua, i quali sento oggimai essere senza numero, d’un ragionamento ricordandomi da Giuliano de’ Medici, fratel cugin vostro, che è ora Duca di Nemorso, e da messer Federico Fregoso, il quale pochi anni appresso fu da Giulio papa secondo arcivescovo di Salerno creato, e da messer Ercole Strozza di Ferrara, e da messer Carlo mio fratello in Vinegia fatto, alquanti anni adietro, in tre giornate, e da esso mio fratello a me, che in Padova a quelli dí mi trovai essere, poco appresso raccontato, e quello alla sua verità, piú somigliantemente che io posso, in iscrittura recandovi, nel quale per aventura di quanto acciò fa mestiero si disputò e si disse (Pro I, i, p. 75).

In luogo dei sintagmi “temporali” si sarebbe potuto ricorrere a brevi frasi modulari tra loro collegate, ma Bembo evita questa soluzione. E si noti la trafila prolungata («d’un ragionamento ricordandomi [...] in Vinegia fatto [...] e [...] poco appresso

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raccontato»), la quale va insieme al verbo posto in clausola. Frequenti sono le correlazioni, variamente realizzate (così ... come, non che ... ma, non che ... anzi, non pur... ma ancora, non solamente ... ma eziandio): «la qual [scil. onestà] sempre ci dee esser cara, e tanto più ancora maggiormente, quanto più care ci sono le donne amate da noi» (As II, xv). 35 I fenomeni topologici che abbiamo finora visto s’incontrano nella prosa di alto livello della prima metà del Cinquecento, ma in Bembo compaiono con più alta frequenza e si associano per lo più a strutture complesse; inoltre i fini sono diversi: quello che in altri risponde a un’esigenza discorsiva e argomentativa, in Bembo è innanzi tutto l’eπetto di un coinvolgimento retorico, che guida anche la scelta dei costrutti. Il classicismo trova la sua giustificazione nella storia delle lingue, nell’esempio dei grandi autori latini e greci, «i quali tutti, non mica secondo il parlare, che era in uso e in bocca del volgo della loro età, scriveano, ma secondo che parea loro che bene lor mettesse a poter piacere più lungamente» (Pro I, xviii). L’analisi della sintassi bembiana procederà ora a maglie larghe, scegliendo i costrutti maggiormente caratterizzanti e che ci permettono di istituire confronti con gli altri testi studiati in questo volume. Qui di seguito saranno esaminate le seguenti proposizioni: le completive soggettive e oggettive (comprese le infinitive), le interrogative indirette, le avverbiali (causali, concessive, finali, modali, temporali), le comparative e le condizionali; questi due ultimi tipi sintattici sono spesso fattori di equilibrio periodale. A tal fine contribuiscono anche le parentetiche e le relative, che occupano il centro del periodo, le gerundiali e le participiali (entrambe situate per lo più nella periferia sinistra). Nel caso di Bembo, la polifunzionalità di alcuni tipi sintattici rende talora problematica una loro definizione.  

5. 4. 1. Le proposizioni soggettive Tra le proposizioni completive risultano più frequenti (rispetto alle oggettive) le soggettive, sia con verbo finito sia con infinito, mentre le oggettive si distinguono per la varietà dei sottotipi. Soggettive con verbo di modo finito, introdotte da reggenti del tipo è vero, è bene che, pare che, aviene che, dal si passivante e da forme di passivo. avvenire: «Perciò che a molti e a molte di loro per aventura agevolmente averrà che [...] essi prima d’Amore potranno far giudicio» (As I, i), «sì aviene egli ancora che, perciò che voi ci nascete e crescete, a voi pare di saperlo [scil. il fiorentino] abastanza» (Pro I, xvi), «Ma quante volte aviene che la maniera della lingua delle passate stagioni è migliore che quella della presente non è» (Pro I, xix); convenire: «egli conviene che entri in campo ancor tu» (As I, viii), «Perciò che conviene di necessità che Amore nasca nel campo de’ nostri voleri» (As I, xviii), «conviene che si muti l’ordine degli accenti altresì» (Pro II, xv); essere+aggettivo: «Certissima cosa è adunque, o donne, che di tutte le turbazioni dell’animo niuna è così noievole, così grave [...] come questa fa, che noi Amore chiamiamo» (As I, xi), «E fannoci a credere, che vero sia quello che alcun filosofo già disse, che gli uomini hanno due anime ciascuno» (As I, xii: si noti quello cataforico), «né vi sia grave che io delle belle donne ragionando tolga l’essempio in questa e nelle altre parti da voi» (As II, xxii), «È il vero che, in quanto appartiene al tempo, sopra quel secolo [= prima di quell’età], al quale successe quello di Dante, non si sa che si componesse» (Pro I, vii), 35

  Per il costrutto correlativo limitativo-avversativo introdotto da non che, v. Tesi (2009: 196).

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«a me sarebbe [...] carissimo che voi ci diceste quali sono quelle cose che i toscani rimatori hanno da’ Provenzali pigliate» (Pro I, viii), «agevole cosa fu che tra esse in ispazio di lungo tempo lo scrivere venisse in prezzo e che vi si trovasse primieramente il rimare» (Pro I, viii, p. 75); parere: «niuna lor foglia fuori del loro ordine parea che ardisse di si mostrare» (As I, v), «Perciò che egli non pare possibile che con una sola anima si debba poter volere due contrari» (As I, xxii), «assai pare che ne segua chiaro che insieme e amare e dolere ci possiamo» (As II, xviii), «Ora parti egli, Perottino, che a me non sia rimaso che pigliare? o pure che non sia rimasa cosa, la quale io presa non abbia?» (As II, xx); venire «Non per ciò ne viene, che quale ora latinamente scrive, a’ morti si debba dire che egli scriva più che a’ vivi» (Pro I, xix). Soggettive con verbo finito avente come reggente il si passivante o il passivo: «a tutti gli uomini è dato che ciascuno alcuna cosa sempre ami» (As I, i), «già di Paolo e di Francesca non si dubita, che nel mezzo de’ loro disii d’una medesima morte e d’un solo ferro amendue, sì come d’un solo amore, tra√tti non cadessero» (As I, xi), «ma oltre acciò alquanti Italiani si truova che scrissero e poetarono provenzalmente» (Pro I, viii). Soggettive con verbo finito avente come reggente “da + infinito”: «non sarà da dubitare che la fiorentina lingua da’ provenzali poeti, più che da altri, le rime pigliate s’abbia, et essi avuti per maestri» (Pro I, viii). Le completive soggettive di modo finito sono talvolta precedute da un dimostrativo cataforico, il quale, accanto alla funzione di allineamento delle frasi, assume anche quella di evidenziazione: «e potrassi qui contra te dir quello che si dice tutto dì, che di gran lunga il più delle volte sono dal fatto le parole lontane» (As II, xviii), «Il che può avenire eziandio per questo, che quando bene ancora voi, per meglio sapere scrivere, abbiate con diligenza cerchi e ricerchi i vostri auttori, pure poi, quando la penna pigliate in mano, per occulta forza della lunga usanza, che nel parlare avete fatta del popolo, molte di quelle voci e molte di quelle maniere del dire vi si parano, malgrado vostro, dinanzi, che oπendono e quasi macchiano le scritture; e queste tutte fuggire e schifare non si possono il più delle volte» (Pro I, xvi).

Le completive soggettive con infinito sono spesso anticipate alla reggente; questa collocazione riguarda non raramente anche le interrogative indirette. convenire: «così conviene esser vero quello che voi diceste, che ogni dolore altro che d’amore non sia» (As I, 10), ma cfr. «niuna maniera e figura del dire usare perpetuamente si conviene (Pro II, xviii); essere + aggettivo / nome + infinito: «se è lodevole per sé, [...] un uom solo senza fallimento saper vivere non inteso e non veduto da persona, quanto più è da credere che lodar si debba un altro, il quale e sa esso la sua vita senza fallo scorgere e oltre acciò insegna e dona modo ad infiniti altri uomini, che ci vivono, di non fallire?» (As I, i: il cotesto citato estesamente permette di osservare la posizione strategica occupata dalla prop. soggettiva); essere, fare + mistieri: “E nondimeno fa mestiero, a chiunque apprendere alcuna scienza disidera, incominciare da’ suoi principii (Pro II, vii, p. 126); parere: «chi perché ad esso pare così più speditamente che in altra maniera poter finire i suoi dolori, (As I, xiii), «e l’ora è sì fuggevole e così ci pigliano l’animo le vezzose parole di Perottino, che a me pare d’esserci a pen a pena venuto» (As I, xix); piacere: «e piace a quelli, che per contrada non usata caminano [...], incontrare chi loro la diritta insegni» (As I, i), «Ora soleva la Reina per lo continuo [...], con le sue damigielle ritrarsi nelle sue camere, et quivi o dormire o, ciò che più le piacea di fare facendo, la parte più calda del giorno separatamente passarsi» (As I, iv); restare: «della quale [scil. di quella materia] quanto più si parla, tanto più, a chi ben la considera, ne resta a poter dire» (As I, xxxiv). Soggettive con verbo finito avente come reggente il si passivante o il passivo: «non si dice tuttavia se non che il vivere è il loro» (As III, xiv), «ma dicesi che è la ragione» (ibidem)

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e con reggente il verbo potere: «sicuramente dire si può [...] la fiorentina lingua essere non solamente della mia [...] di gran lunga primiera» (Pro I, xv, p. 98).

Le costruzioni passive sono usate di frequente perché conseguono tre fini: riproducono una dispositio verborum ricorrente nel latino classico, attuano la focalizzazione del soggetto grammaticale, agevolano il collegamento con la frase che precede. Si ritrovano sia nelle principali sia nelle avverbiali; l’agente è talvolta espresso, talvolta omesso. Il passivo appare sovente in relative poste all’inizio del periodo e aventi la funzione di presentare nuovi personaggi o di riassumere eventi noti. Piacque maravigliosamente queste luogo alle belle donne, il quale poi che da ciascuna di loro fu lodato, madonna Berenice, che per età alquanto maggiore era dell’altre due e per questo onorata quasi come lor capo, verso Gismondo riguardando disse (As I, vi, p. 323).

Il passivo si ritrova in due proposizioni entrambe anteposte alla principale: nella temporale «il quale poi che da ciascuna di loro fu lodato», equivalente a “e questo fu lodato”, e nella relativa appositiva «che ... era ... onorata», dove il verbo era appare riferito apò koinòu a «maggiore era» e «era ... onorata»; la sillessi e il passivo usato per “legare” questa prosa favoriscono la presenza di cadenze ritmiche e parallelismi («fu lodato ... era ... onorata»). Ci riporta al Decameron il costrutto con si pseudopassivante dell’inergativo ridere: «Poscia che tra di queste parole e d’altre e del rossor di Lisetta si fu alquanto riso fra la lieta compagnia, Gismondo, tutti gli altri ragionamenti che sviare il potessero troncati, dirittamente a’ suoi ne venne in questa maniera» (As II, xix); è questo un inizio tipico, presente più volte nel Decameron: si ha un falso passivo impersonale e in luogo dell’agente appare il locativo fra la lieta compagnia; segue una participiale tutti gli altri ragionamenti ... troncati. 36  

5. 4. 2. Le proposizioni oggettive Vediamo ora alcuni esempi di completive oggettive con verbo di modo finito, distinguendole inizialmente secondo il modo del verbo e segnalando in seguito altri caratteri: la semantica del verbo della reggente, i livelli della subordinazione, la subordinazione multipla, la qualità dei complementatori. Modo indicativo: «io direi che gli amanti passano con la lor vista ogni luogo» (As II, xxii: verbo della reggente è un condizionale); «Per ciò che io avea inteso che egli era scienziatissimo e che [...] egli era nondimeno aπabilissimo» (As III, xi: subord. multipla); «mi raccontò che [...] gli era nel sonno paruto vedermi a sé venire tale quale io venni» (As III, xii: subord. di 3° grado); «Ben veggo io [...] che io non senza volere degl’Idii qui sono» (As III, xii: distacco del pronome personale dal verbo); «bisognerà dire che male ha fatto qualunque popolo e qualunque nazione scrivere ha voluto in altra maniera, e male sia per fare qualunque altramente scriverà”(Pro I, v, p. 63: subord. 2° grado e multipla). Modo congiuntivo: «Vedi tu dunque, Gismondo, se vorrai dimostrarci che Amore sia buono, che non ti sia di mestiero mille antichi e moderni scrittori, che di lui come di cosa rea parlano, ripigliare» (As I, xi: subord. 2° grado); «di necessità bisogna dire che egli sia altresì di tutti i beni, che per tutte le cose si fanno, cagione» (As II, xx: in questo es. e nel precedente il congiuntivo dipende dal fatto che il verbo della reggente esprime un’esigenza 36   Cfr. questi passi del Decameron: «essendosi da loro riso per l’ultime parole da Panfilo dette» (Dec II, viii, 1), «Essendo la fine venuta della novella di Filostrato, della quale erano alcuna volta un poco le donne arrossate e alcuna altra se n’avean riso, piacque alla reina che Pampinea novellando seguisse» (Dec. III, ii, 1), «e molto per tutti fu riso di fra Cipolla e massimamente del suo pellegrinaggio e delle reliquie così da lui vedute come recate» (Dec. vi Conclusione, 1).

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o una necessità); «Ma così ti dico che, se Amore è cagione di tutte le cose come tu ci di’, e che per questo ne segua che egli sia di tutti i beni [...] perché non ci di’ tu ancora che egli cagion sia medesimamente di tutti i mali che si fanno per loro?» (As II, xxi: nella prima e nella seconda proposizione il congiuntivo non codifica un valore proprio e potrebbe essere sostituito dall’indicativo); «se egli era colui che io istimava che egli fosse che, ricordandomi che io avea oggi a dire dinanzi a Vostra Maestà» (As III, xi: il reggente regge il congiuntivo); «del mio maravigliare mostrò che s’accorgesse» (As III, xii: data la coreferenza dei soggetti della reggente e della subordinata ci si aspetterebbe un’infinito). Una subordinata prolettica al congiuntivo appare in: «Ma che essi una terza n’avessero che loro fosse meno che in prezzo che la latina, niuno che dirittamente giudichi estimerà giamai» (Pro I, vi). Il congiuntivo appare in corrispondenza di un verbo di volontà e in rapporto all’espressione di un fine: «Io non voglio, Lavinello, che tu di cosa che ad alto [scil. a Dio] possa piacere ti maravigli» (As III, xii), «io per me conforto i nostri uomini che si diano allo scrivere volgarmente” (Pro II, ii). Modo condizionale: «mostrando che ciò sarebbe loro parimenti caro a dover da Perottino udire» (As I, xii: subord. di 2° grado, infinito preposizionale come predicato); «Io mi credo che a ciascuno di noi che qui siamo sarebbe vie più agevole in favore di questo lodare e usare la volgar lingua» (Pro I, iii: verbo della reggente pseudoriflessivo, subord. di 2° grado).

La subordinazione di 2° grado è realizzata con vari reggenti verbali; non raramente si passa al 3° grado; prevale, in ogni caso, la successione omogenea: “modo finito / modo finito”; talvolta s’incontra anche il tipo “modo finito / infinitiva”. Nel corpo della subordinazione sono accolte incidentali di varia estensione, le quali separano con pause i costituenti del periodo. L’“accusativo con infinito” è il costrutto usato per presentare luoghi, situazioni, personaggi e discorsi nobili. Roma, città che, secondo la finzione autoriale ha visto il completamento delle Prose, è la meta di artisti famosi; alla dignità del soggetto deve corrispondere la dignità dello stile: Questa città, la quale per le sue molte e riverende reliquie, infino a questo dì a noi dalla ingiuria delle nimiche nazioni e del tempo, non leggier nimico, lasciate, più che per li sette colli, sopra i quali ancor siede, sé Roma essere subitamente dimostra a chi la mira, vede tutto il giorno a sé venire molti artefici di vicine e di lontane parti (Pro III, i, p. 183).

All’interno della lunga relativa parentetica appare, l’accusativo con infinito; il soggetto è distanziato dal predicato verbale due volte: «Questa città ... vede», «la quale ... dimostra». La comparativa («per le sue molte e riverende reliquie ... più che per li sette colli») ha una funzione più esornativa che logica. La presenza del “riflessivo a lunga distanza” («sé Roma essere») indica la qualità della costruzione. Distinguiamo due tipi di accusativo con infinito: i) Completiva soggettiva retta da un verbo impersonale: «così conviene esser vero quello che voi diceste, che ogni dolore altro che d’amore non sia» (As I, x); o dal si passivante. «Per la qual cosa manifestamente si vede Amore essere non solamente di sospiri et di lagrime [...] cagione» (As I, xi), «Già non si disse alcuna delle cinque greche lingue esser lingua per altro, se non perché si trovavano in quella maniera di lingua molti scrittori» (Pro I, xiii). ii) Completiva oggettiva: «avisando io [...] pochissimi essere quegli uomini [...] a’ quali non faccia mestiero» (As I, i), «si sono aveduti niuna essere più certa infelicità et miseria che amare» (As I, xi), «le forze, che sentono esser loro negli esercizii logore e indebolite» (As I, xxxiv), «ché non posso credere che voi il vi crediate, né niuno altresì credo io essere che il si creda» (Pro I, v: poliptoto), «La qual povertà e mancamento di scrittori istimo esser avenuto per ciò che nello scrivere la lingua non

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sodisfà» (Pro I, xv, p. 97), «mi crederei potere ancor io dire aπermatamente così esser vero come voi dite» (Pro II, xx); il costrutto dipende da un’infinito in: «sì come ad uomo che udito avea molte volte ricordare essere dottissimo» (Pro I, xiii, p. 92). Notiamo che: i) nella maggior parte dei casi l’infinito è il verbo essere; ii) la costruzione evita la successione di due subordinate con verbo finito; iii) l’‘accusativo con infinito’ più vicino al latino comporta la non coreferenza dei soggetti e la presenza del “riflessivo a lunga distanza” (vedi es. cit. Pro III, i). Usi dell’infinito con preposizione nella subordinazione A + infinito: «malagevolissime ad investigarsi [...] non che a raccontarsi» (As II, xxiv), «maravigliosa cosa è a sentire» (Pro I, i: la prep. è pleonastica), «incominciarono i barbari ad entrare nella Italia e ad occuparla» (Pro I, vii), «a dare opera alle rime sono senza dubbio stati i primi» (Pro I, vii), «a scrivere si mettono» (Pro I, xi); con la preposizione articolata si ottiene la nominalizzazione (parziale o completa) dell’infinito: «al che fare [...] non mostra che ella sia per indugiarsi lungo tempo» (Pro I, vii); il costrutto “avere + a + infinito” possiede un valore deontico raπorzato, tanto più quando l’infinito è costituito da dovere: «poscia che di tanto giovamento ci hanno a dovere essere i suoi sermoni» (As II, iii); «certa sono che Perottino abbia oggi non men fiero difenditore ad avere, che egli ieri gagliardo assalitore si fosse» (As II, iii). Di + infinito: «né mi ritrarrò io [...] di confessare» (Pro I, xv), «né poteano rifinare di maravigliarsi come quella innocente uccella fosse di mezzo tutti loro così sciaguratamente stata rapita» (As II, xviii), «che a me pare d’esserci apen’apena venuto» (As I, xix), «ciò che più le piacea di fare facendo, la parte più calda del giorno separatamente passarsi» (As I, iv); con prep. articolata: «né a noi di questo fatto memoria più antica è passata; ma dello essersi preso da altri, bene tra sé sono di ciò in piato due nazioni: la Ciciliana e la Provenzale» (Pro I, vii). In + infinito (con prep. articolata): «lodando la sua diligenza posta nel vedere i provenzali componimenti» (Pro I, xii), «Onde io a latinamente scrivere mettendomi, non potrei errare nello appigliarmi» (Pro I, xii). L’uso dell’infinito sostantivato è ammesso al singolare, non è ammesso al plurale (Pro III, xl): «il dormire [...], come quello che cosa piacevole è, dagli occhi nostri volentieri ricevuto» (As I, iv), «l’andare altre parti del giardino riguardando il sole ci vieta» (As I, vi), «che lo intendere ciò che elle sono più ci debba esser caro che il sapere che cosa è amore» (As III, xiii), «agevole sarebbe a ciascuno lo usar con le straniere nazioni» (Pro I, i), «più d’onore mi può essere lo avere avuto ardire di contrappormi» (Pro I, vii).

L’infinito apreposizionale dopo reggente non appare nei dialoghi di Bembo, diversamente da quanto accade nel Cortegiano, dove il fenomeno raggiunge una discreta frequenza. 5. 4. 3. Le proposizioni interrogative indirette I caratteri ricorrenti di queste subordinate sono: i) la non grande estensione; ii) la presenza sia dell’indicativo sia del congiuntivo, iii) la frequente anteposizione alla principale, nella quale avviene la ripresa con il clitico ne. Tipo quanto: «e dammi il cuore di dimostrargli quanto egli con suo danno da così fatta opinione ingannato sia» (As I, vi), «se non per dimostrare a quelle grosse genti con questo nome d’Idio quanto nelle humane menti questa passione poteva» (As I, xii), «maravigliosa cosa è a sentire quanta variazione è oggi nella volgar lingua pur solamente» (Pro I, i), «considerando

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a parte a parte il suono, il numero, la variazione e ultimamente la persuasione di ciascun di loro, e quanta piacevolezza e quanta gravità abbiano generata e sparsa per gli loro componienti» (Pro II, xix: subordinazione mista, compl. ogg. e interrogativa indiretta); «Il che quanto a voi sia ora nelle dispute de’ tuoi compagni e in quello che tu stimi di poterne dire avenuto, e chi più oltre si sia fatto di questo intendimento e chi meno, ne rimetto io a madonna la Reina il giudicio» (As III, xiii: prolessi di una duplice interrogativa indiretta). Tipo come: «Dunque, se ti piace, dimmi come questo fatto si stia» (As I, xii), «E per me altresì, – disse messer Ercole – che non so come non così ora soverchi mi paiono, come già far soleano, questi ragionamenti» (Pro I, viii), « E come – disse messer Ercole – stima egli messer Pietro che il latino parlare ci sia lontano?” (Pro I, iii). Tipo quale: «Oltra che maravigliosa cosa è il pensare chenti et quali sieno le disagguaglianze, le discordanze, gli errori» (As I, xi), «E come che questa voce ad ogni parlare serva, non si può perciò ben dire quale parte di parlare ella sia» (Pro III, xviii). Tipo perché: «Ma io sapere da te vorrei [...] perché è che gli amanti alle volte s’appigliano ad obbietti malvagi e cattivi» (As III, xiv: su questo tipo d’interrog. ind. v. Frenguelli 1999). Tipo se: «Ma perciò che a me altramente ne pare, quando più tempo mi fie dato da risponderti, meglio si vedrà se cotesta tua cotanta amaritudine si potrà raddolcire» (As I, xi), «Ma io non so se egli si debba per questo dire che il vostro scrivere in quella guisa più sia da lodare che il nostro» (Pro I, xvii), «Io non so se la gran voglia [...] ha fatto che io ho questa notte un sogno veduto» (Pro II, iii).

5. 4. 4. Le proposizioni avverbiali Esaminiamo in successione le proposizioni causali, consecutive, concessive, finali, modali e temporali. Seguono le costruzioni comparative e condizionali (periodo ipotetico), le quali hanno in comune il fatto si essere in rapporto di correlazione con la principale; Rivara (1990: 136 ss.) e Grimaldi (2009) parlano di “correlazione comparativa”. Negli Asolani e nelle Prose, le proposizioni comparative e condizionali svolgono una funzione retorica ed esornativa piuttosto che logica e costruttiva. Le avverbiali usate da Bembo costituiscono un insieme di tipi sintattici vario sia per le forme sia per i valori semantici espressi. L’imitazione di modelli trecenteschi rende inadeguato l’uso di alcuni costrutti in rapporto a determinati temi. Ciò si avverte, tra l’altro: i) nell’inserimento di un’avverbiale in una principale o in un’avverbiale di primo livello; ii) nel proporre un seguito di gerundiali per indicare vari rapporti temporali. Tra le avverbiali più frequenti troviamo le causali; nella forma esplicita sono introdotte da con ciò sia cosa che, perché, per ciò che, ché, per che. Il tipo introdotto da con ciò sia cosa che, noto alla prosa trecentesca, occupa per lo più la posizione iniziale: «Con ciò sia cosa che e Francesi e Borgognoni [...] e altri popoli venuti ci sono» (Pro I, vii), «Con ciò sia cosa che ciascuno [...], il quale bene scrivere e specialmente verseggiar volesse, quantunque provenzal non fosse, lo faceva provenzalmente» (Pro I, viii); la stessa congiunzione subordinante introduce le concessive. Il tipo perché segue per lo più la principale: «non m’ascolta, forse perché io, soverchio vivendo, rimanga per essempio de’ miseri bene lungamente infelice» (As I, xiv); si noti la presenza non rara di correlazione perciò ... perché, non perché ... ma perché: «Perciò che se il corpo si duole, d’alcuno accidente tormentato, non è ciò se non perché egli naturalmente ama la sua sanità» (As I, x), «il che avenne non perché egli avesse origine da quella città, che fu di padre genovese figliuolo, ma perché vi dimorò gran tempo» (Pro I, viii). Come esempio di causale per ciò che si sceglie un passo in cui appare una lunga causale, inserita nella principale; l’oggetto della principale è notevolmente separato dal reggente verbale; appare evidente l’inadeguatezza delle strutture sintattiche decameroniane ai fini di una prosa dimostrativa e argomentativa.

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Oltra che ritrovamento provenzale è stato lo usare i versi rotti [= di misura inferiore all’endecasillabo]; la quale usanza, perciò che molto varia in quelli poeti fu, che alcuna volta di tre sillabe gli fecero, alcuna altra di quattro e ora di cinque e d’otto e molto spesso di nove, oltra quelle di sette e d’undici, avenne che i più antichi Toscani più maniere di versi rotti usarono ne’ loro poemi ancora essi, che loro più vicini erano e più nuovi nella imitazione, e meno i meno antichi (Pro I, ix, p. 93).

La causale introdotta da che ha valore conclusivo e segue la principale; appare di preferenza nelle battute dialogiche brevi: «io ve ne potrei testimonianza donare, che l’ho provata» (As I, xiii), «Fate che egli la dica, che ella vi piacerà» (As I, xvi). Gli editori usano la variante accentata per marcare il valore pregnante della causa e per introdurre una pausa dopo la principale: «Fu adunque la provenzale favella estimata e operata grandemente, si come tuttavia vedere si può, ché più di cento suoi poeti ancora si leggono» (Pro I, viii). Un valore attenuato di causa ha invece la proposizione introdotta da che posta all’inizio del periodo: «Che dove dite, messer Ercole, che la nostra volgar lingua era eziandio lingua a’ Romani negli antichi tempi, io stimo che voi ci tentiate; ché non posso credere che voi il vi crediate, né niuno altresì credo io essere che il creda» (Pro I, v). Un problema interpretativo ricorrente nella prosa antica e rinascimentale è la distinzione (non soltanto grafica) tra per che e perché, posti entrambi all’inizio del periodo. La prima di queste due congiunzioni, equivalente a ‘per la qualcosa’, è un anaforico inglobante una porzione di testo (il suo significato è consecutivocausale e sovente risultativo); la seconda, che introduce una causale riferita a una principale, ha una portata “locale”. Nell’edizione di Bembo (1961) Marti distingue giustamente per che da perché; invece in Bembo (1966) Dionisotti, ricorrendo alla forma univerbata perché, unifica di fatto le funzioni distinte delle due congiunzioni. È preferibile la scelta di Marti; posto all’inizio del periodo, per che è una cerniera tra l’esposizione di un evento e le conseguenze che ne derivano: La qual credenza [scil. che non esistano verità ma soltanto opinioni] quantunque e in que’ tempi fosse dalle buone scuole rifiutata, e ora non truovi gran fatto, che io mi creda, ricevitori, pure tuttavia è rimaso nelle menti d’infiniti uomini una tacita e comune doglianza incontro la natura, che ci tenga la pura midolla delle cose così riposta e di mille menzogne, quasi di mille buccie, coperta et fasciata. Perché [ed. Marti Per che] molti sono che, disperando di poterla in ogni quistion ritrovare, in niuna la cercano e, la colpa alla natura portando, lasciata la cognizione delle cose, vivono a caso (As III, i, p. 454).

La scelta di per che appare necessaria alla retta interpretazione del brano. Lo confermano altri due passi, in cui ho operato la stessa sostituzione: «Per che non è anco da maravigliarsi, messer Ercole, se ella [scil. la lingua provenzale], che già riguardevole fu e celebrata, è ora, come diceste, di poco grido» (Pro I, xi), «Per che, se lingua cortigiana è quella che costoro usano [...], non so io ancor vedere quale il nostro Calmeta lingua cortigiana si chiami». 37 Il costrutto introdotto da come colui che, presente più volte nel Decameron, comprende due valori: confrontativo e causale, secondo Ulleland (2011: 67-74), causale e analogico, secondo Pirazzini (2014); per entrambi gli studiosi, a seconda dei cotesti, prevale ora l’uno ora l’altro dei due valori. La ripresa di come colui che conferma il  

37   Di conseguenza, nel citare As e Pro secondo l’edizione Dionisotti (1966), ho sempre cambiato perché, usato all’inizio di periodo e avente valore di connettore periodale, con per che.

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carattere “antiquario” dell’imitazione bembiana: «le quali [scil. voi giovani] credo io più tosto di lodare Amore che di biasimarlo v’ingegnereste, sì come quelle cui egli in niuna cosa può aver diservite giamai» (As I, vii), «Questo nome dunque diedero ad Amore, sì come a colui la cui potenza sopra quella della natura ad essi parea che si distendesse» (As I, xvii), «Nondimeno, messer Ercole, io non mi maraviglio molto, non avendo voi ancora dolcezza veruna gustata dello scrivere e comporre volgarmente, sì come colui che, di tutte quelle della latina lingua ripieno, a queste prendere non vi sete volto giamai, se v’incresce che messer Pietro mio fratello tempo alcuno e opera vi spenda e consumi» (Pro I, iii). La causa può essere espressa, in modo implicito, mediante sintagmi nominali; si veda almeno un’apposizione che ha valore causale: «egli si vedrà chiaramente infiniti essere i suoi [scil. di Amore] miracoli a nostro gravissimo danno et veramente maravigliosi, cagione giusta della deità dalle genti datagli» (As I, xii). Il valore consecutivo si manifesta chiaramente con i connettori sì che, tanto che, in maniera che: «Poi questi alberi ci terranno sì il sole che, per potere che egli abbia, oggi non ci accosterà egli giamai» (As I, vi); 38 «egli [scil. Amore] tanto prende di vigore da se stesso, che poi nostro mal grado le più volte vi rimane» (As I, xviii); «ora questi barbari la loro lingua ci hanno recata, ora quegli altri, in maniera che ad alcuna delle loro grandemente rassomigliarsi la nuova nata lingua non ha potuto» (Pro I, vii). In particolari cotesti anche il solo che può assumere valore consecutivo: «il combatterono che egli alla fine vinto rendendosi disse loro così» (As I, vii). Le proposizioni concessive sono introdotte da: ancora che, avenga che (raro), come che, quando ancora, quantunque (che) (frequente) e sono spesso seguite da un elemento correlativo, come nondimeno, pure, per tutto ciò; sono costruite sempre con il congiuntivo e sono per lo più o preposte alla principale o ad essa interposte come incidentali: «Perciò che ancora che le genti tutte, le quali dentro a’ termini della Italia sono comprese, favellino e ragionino volgarmente, nondimeno ad un modo volgarmente favellano i napoletani uomini, ad un altro ragionano i lombardi, ad un altro i toscani» (Pro I, xii); «i quali [scil. dolorosi martiri], avenga che essi di soverchia miseria fare essempio mi potessero [...] pure, a comperatione di quelli di tutti gli altri huomini, per nulla senza fallo riputar si possono o per poco» (As I, xvii); «nella qual maniera il medesimo Arnaldo tutte le sue canzoni compose, come che egli in alcuna canzone traponesse eziandio le rime ne’ mezzi versi» (Pro I, ix); «i miei anni lieti non può egli fare né farà giamai, quando anchora esso far lieti quegli di tutti gli altri huomini potesse» (As I, xiv); «Pure, riguardando che, quantunque egli amoroso giovane e sollazzevole fosse, per tutto ciò sempre altro che modestamente non parlava» (As I, vi), «tre ne furono della patria mia [...] Lanfranco Cigala e messer Bonifazio Calvo e [...] Folchetto, quantunque egli di Marsiglia chiamato fosse» (Pro I, viii). 39 Le proposizioni finali sono introdotte dalle congiunzioni a cciò che, a√ne che, perché; il primo e il secondo tipo precedono per lo più la principale, il terzo tipo per lo più  



38   Si noti come l’inserimento di un’infinitiva preposizionale comporti la ripetizione del pronome personale. Non ritrovo esempi di consecutive introdotte da tanto che. 39   Cfr. altri esempi di concessive: «i loro dolorosissimi fini, i quali, posto che non fosser veri, sì furono essi almeno favoleggiati dagli antichi» (As I, xi), «Che quantunque per viva forza comporre insieme si potessero e collegar due viventi, potenti alla generatione, pure se Amore non vi si mescola e gli animi d’amendue a uno stesso volere non dispone, eglino potrebbono così starsi mill’anni, ch’essi non generarebbono giamai» (As II, xix), «Il che aviene per ciò che, quantunque di trecento anni e più per adietro insino a questo tempo, e in verso e in prosa, molte cose siano state in questa lingua scritte da molti scrittori, sì non si vede ancora chi delle leggi e regole dello scriver abbia scritto bastevolmente» (Pro I, i).

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la segue: «a cciò che meglio si possa ogni lor parte [scil. delle ragionate cose d’Amore] scorgere tale, quale appunto fu ragionata, stimo che ben fatto sia che, prima che io passi di loro più avanti, come il ragionare avesse luogo si faccia chiaro» (As I, i); «E a√ne che tu in errore non istii di ciò che detto hai, che amore e disiderio sono quello stesso, io ti dico che egli nel vero non è così» (As III, xiii), 40 «nel quale [scil. libro] egli, a√ne che le genti della Italia non istiano in contesa tra loro, dà sentenza sopra questo dubbio» (Pro I, xii); «non m’ascolta [scil. la mia fortuna], forse perché io, soverchio vivendo rimanga per essempio de’ miseri bene lungamente infelice» (As I, xiv). Le finali implicite sono costruite con “per + infinito”: «animali, quali per nodrirci et quali per agevolarci nati» (As III, xx), «le [scil. alla lingua volgare] hanno tanta autorità acquistata e dignità, quanta ad essi è bastato per divenire famosi e illustri» (Pro I, v). 41 Nelle modali rientrano locuzioni correnti e formule aventi funzione anaforica o confrontativa: «come si vede» (Pro I, i), «come s’è detto» (Pro I, i), «sì come io stimo» (Pro I, xiv); si hanno anche locuzioni più estese: «Fu adunque la provenzale favella estimata e operata grandemente, sì come tuttavia veder si può; ché più di cento suoi poeti ancora si leggono» (Pro I, viii), «e questi primieramente da Narsete sollecitati, sì come potete nelle istorie aver letto ciascuno di voi, e fatta una maravigliosa oste [...], vi passarono» (Pro I, vii). Le proposizioni temporali sono presenti con vari tipi. L’idea di contemporaneità è espressa sovente da proposizioni introdotte da quando e da mentre: «quando egli, che con fatica grandissima le lagrime a gli occhi ritenne, alquanto riavutosi, così incominciò a dire» (As I, xiv), «quando medesimamente si vede che al presente più antiche rime delle toscane altra lingua gran fatto non ha, levatone la provenzale» (Pro I, viii), «a’ quali due stremi quando si sodisfà, non è da dubitare che al mezzano stato si manchi» (Pro I, xv); «mentre ciascuno di far sua la parte del compagno procaccia [...], [scil. Italia] chiama in aiuto di sé, contra il suo sangue medesimo le straniere nazioni» (Pro I, vii). Una temporale mentre binaria collocata in un ampio periodo ne costituisce la struttura portante:  



Perciò che aviene bene spesso, il che forse non udiste voi, donne, giamai, né credevate che potesse essere, che, mentre essi dal molto e lungo dolor vinti sono alla morte vicini e sentono già in sé a poco a poco partire dal penoso cuore la lor vita, tanto d’allegrezza et di gioia sentano i miseri del morire, che questo piacere, confortando la sconsolata anima tanto più, quanto essi meno sogliono aver cosa che loro piaccia, ritorna vigore negl’indeboliti spiriti, i quali a forza partivano, e dona sostentamento alla vita che mancava (As I, xiii, p. 339).

La congiunzione rinforzata da che appare più raramente: «E mentre che io gli occhi e gli orecchi di quella vista e di quel concento pasceva, un candidissimo cigno e grande molto [...] in mezzo il fiume soavemente si ripose, e, ripostovisi, a cantare incominciò ancora» (Pro II, iii). La congiunzione come, con il valore di “non appena che”, si ritrova in un costrutto verbale tipico dell’it. ant.: «Dove come io fui, così dall’uno de’ canti mi venne una capannuccia veduta» (As III, xi). 42 Le temporali di anteriorità e posteriorità precedono la principale: «prima che a pruova di loro  

40   Questo periodo avvia una parte nuova che fu aggiunta al dialogo nell’edizione del 1530: la sua gravitas stilistica si spiega con la sua importanza teorica (Dionisotti 1966: 482 n.). 41   Diversa funzione e diverso significato ha il costrutto “essere + per + infinito”, equivalente a essere sul punto di: «bisognerà dire che male ha fatto qualunque popolo e qualunque nazione scrivere ha voluto in altra maniera, e male sia per fare qualunque altramente scriverà» (Pro I, v). 42   Cfr. «li venne trovato questa listra [= gli capitò di trovare]» (Ds III, vi, 95, p. 572) cit. in 4. 2. 2.

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si venga, senza fallo molte cose a molti huomini di molto giovamento è stato» (As I, i), «quando Gismondo, poscia che vide le donne rachetate, incominciò: [segue Discorso diretto]» (As II, xviii), «poscia che io mirato l’ebbi [scil. il boschetto] così dal di fuori, dalla vaghezza delle belle ombre e del selvareccio silenzio invitato, mi prese disiderio di passar tra loro» (As III, xi). Le comparative di analogia, introdotte da si come ... così (ancora), non più ... che, non tanto ... quanto, raggiungono alte frequenze; le coppie tanto ... quanto, quanto ... tanto, tanto più ... quanto più sono alla base dello sviluppo straordinario delle strutture correlative, da cui nascono inoltre studiati parallelismi, come accade nell’incipit dell’opera: Se la natura, Monsignor messer Giulio, delle mondane cose producitrice e de’ suoi doni sopra esse dispensatrice, sì come ha la voce agli uomini e la disposizione a parlar data, così ancora data loro avesse necessità di parlare d’una maniera medesima in tutti, ella senza dubbio di molta fatica scemati ci avrebbe e alleviati, che ci soprastà (Pro I, i, p. 73).

Si notino i connettori rinforzati sì come ... così ancora e la presenza di clausole ritmiche che producono talvolta un ossitono finale: fatica ... che ci soprastà. Deittici e anaforici evidenziano lo schema comparativo: «Per che trametettevi ciascuna, sì come a voi piace, ché queste non sono più nostre dispute che elle esser possano vostri ragionamenti» (As I, x). Ricorre la figura del chiasmo, che fa risaltare i soggetti della comparazione: «sì come il fuoco le cose nelle quali egli entra egli le consuma, così noi consuma et distrugge Amore» (As I, xi). 43 Le comparative s’inseriscono talvolta in una secondaria più estesa (nel passo che segue si tratta di una causale): «Ma ciascun di loro vinto e superato fu dal Boccaccio, e questi medesimo da sé stesso; con ciò sia cosa che tra molte composizioni sue tanto ciascuna fu migliore, quanto ella nacque dalla fanciulezza di lui più lontana» (Pro II, ii). Delle comparative di grado hanno rilievo quelle di maggioranza (più ... che, meglio ... che, maggiore ... che): «alquanto più lunga m’ha oggi fatta tenere questa parte della risposta, che io voluto non arei» (As II, xvii), «e in ogni terra meglio mettono le piante che naturalmente vi nascono, che quelle che vi sono di lontan paese portate» (Pro I, vii). Una comparativa di maggioranza migliore che è inglobata in una comparativa quanto... tanto: «Ma quante volte aviene che la maniera della lingua delle passate stagioni è migliore che quella della presente non è, tante volte si dee per noi con lo stile delle passate stagioni scrivere» (Pro I, xix). Una comparativa di maggioranza in forma di completiva è inserita nell’apodosi di un periodo ipotetico; vi è poi una comparativa di minoranza nella frase coordinata che segue: «Perciò che se questo fosse vero, ne seguirebbe che a coloro che popolarescamente scrivono, maggior loda si convenisse dare che a quegli che le scritture loro dettano e compongono più figurate e più gentili; e Virgilio meno sarebbe stato pregiato, che molti dicitori di piazza e di volgo per aventura non furono» (Pro I, xviii). L’inglobamento proposizionale è una caratteristica della sintassi del periodo bembiano, nel quale le comparative sono presenti soprattutto per assecondare una tendenza alla complessità dei periodi e alla profondità della subordinazione. Anche le proposizioni condizionali (con protasi al congiuntivo e apodosi al condizionale) sono sovente inserite in proposizioni avverbiali; in una concessiva: «E se pure si concedesse alcuno potersi trovare [...], a costui senza dubbio [...] in niun  

43   Lo schema comparativo sì come ... così è un ornamento usato non raramente negli incipit; si veda l’orazione a Carlo V di Della Casa.

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modo non sarebbe caro» (As I, x); in una causale: «Perciò che se a te fosse stato così caro il morire, come tu di’, chi te n’averebbe ritener potuto, essendo così in mano d’ogni uomo vivo il morire, come non è più il vivere, in poter di quelli che sono già passati?» (As I, xiii); si noti che l’apodosi è seguita da una gerundiale conclusa da un’interrogazione retorica. Sono in minoranza le condizionali di semplice struttura, di cui diamo un paio di ess.: «Madonna, dove a voi così piacesse, a me parrebbe che questa fonte non si dovesse rifiutare» (As I, vi), «Perciò che se io volessi dire che la fiorentina lingua più regolata si vede essere, più vaga, più pura che la provenzale, i miei due Toschi vi porrei dinanzi» (Pro I, xiv). Rara è la condizionale con protasi in seconda posizione: «Ma egli l’arebbe [scil. il racconto] per aventura potuto strignere con più forte nodo, e arebbel fatto, se non l’avesse, sì come io stimo, la sua grande e naturale modestia ritenuto» (Pro I, xiii). La condizionale ipotetica (introdotta da come se, quasi che) è collocata dopo il suo termine di confronto: «[scil. Berenice] la destra di Lisa [...] prendendo e stringendo, come se aiutar di non so che ne la volesse, a Gismondo si rivolse» (As II, xxi), «allora, se alcun [scil. dei figli] ne muore o viene lor tolto come che sia, esse [scil. le fiere] si doglino quasi come se umano conoscimento avessero” (As I, x,), «Per che non solamente senza pietà e crudeli doveremmo essere dalle genti riputati, da·llei nelle nostre memorie partendoci e ad altre lingue passando, quasi come se noi dal sostentamento della nostra madre ci ritraessimo per nutrire una donna lontana» (Pro I, v; si correggono Perché e dallei), «È il vero che quando la voce incomincia dalla S, dinanzi ad alcun’altra consonante posta o pure dinanzi la V che in vece di consonante vi stia, così né più né meno si scrive, come se ella da vocale incominciasse» (Pro III, ix). Il connettore pure che introduce una condizionale restrittiva, che, in alcuni cotesti, assume valore concessivo (Serianni 1988: 502) ed è posta per lo più dopo la principale: «Io son contento di concedervi che la volgar favella più a noi vicina sia [...], pure che mi concediate ancor voi quello che negare per niun modo non mi si può» (Pro I, iv), «Tuttavolta se a te giova che io anchora alcuna cosa ne rechi sopra et più avanti se ne cerchi, facciasi a tuo sodisfaccimento, pure che non istimi che la verità sotto queste ginestre più che altrove si stia nascosa» (As III, xiii). 5. 4. 5. Le proposizioni relative 44  

Soprattutto quando assumono un valore esplicativo, influiscono sull’architettura del periodo, contribuendo a bilanciarne le parti. Il distanziamento dalla testa e la funzione di oggetto della relativa sono due tratti che rivelano un’impronta retorica di antica tradizione: «ho voluto alcuni ragionamenti raccogliere, che in una brigata di tre nostre valorose donne e in parte di madonna la Reina di Cipri, pochi dì sono, tre nostri aveduti e intendenti giovani fecero d’Amore» (As I, i). La relativa che esplicativa ha varia collocazione ed estensione; nella maggior parte dei casi è breve e ha la forma di un inciso: «Perciò che tra tutte le cose acconce a commuovere gli umani animi, che liberi sono, è grande la forza delle umane parole» (Pro I, i). La relativa analitica 44   Nelle analisi contenute in questo volume si distingue tra relative esplicative e r. restrittive, ma in GIA (2010: 480) si distinguono tre tipi: r. restrittive, r. appositive, r. definitorie; non è sempre possibile attribuire con sicurezza una relativa a una delle classi suddette; si ricorda inoltre l’esistenza di «un sistema interpuntivo oggi non più in uso, in base al quale la virgola precedeva di norma ogni elemento relativo»; è questa un’abitudine che si ritrova talvolta anche nelle edizioni di Bembo a opera di Dionisotti e di Marti; per es. in «e piace a quelli, che per contrada non usata caminano [...] incontrare chi loro la diritta insegni» (As I, i), abbiamo una relativa restrittiva con referenza personale: la virgola dovrebbe mancare. Sulle relative restrittive v. Kleiber (1987).

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quale occupa spesso la parte finale del periodo: «Per la qual cosa ho pensato di poter giovare agli studiosi di questa lingua, i quali sento oggimai essere senza numero» (Pro I, i: rel. soggetto di subordinata); «Perciò che essendo in Vinegia non guari prima venuto Giuliano, il quale, come sapete, a quel tempo Magnifico per sopranome era chiamato da tutti [...] gl’invitò seco» (Pro I, ii: rel. appositiva) «Non s’era costui aveduto di me, il quale in profondo pensiero essendo, sì come a me parea di vedere, tale volta nello spaziare si fermava» (As III, xi: 45 inserimento di una gerundiale e di una modale). Il relativo quale in forma di obliquo ha varie collocazioni e usi, ma risalta soprattutto nelle restrittive: «né tra’ Latini è alcuno, al quale così piena loda sia data, come a Virgilio si dà e a Cicerone» (Pro II, iii) e nel collegamento interfrasale: «egli da seder si levò; appresso al quale gli altri due parimente si levarono» (Pro III, lxxix), «preso da tutti il passo verso le scale, che alquanto lontane erano dalla parte, nella quale dimorando ragionato aveano» (Pro I, xx), «Al quale il Magnifico rispose senza dimora, che volentieri, e disse» (Pro III, xii). Le relative restrittive sono in numero ridotto. A parte il che apreposizionale con antecedente temporale: «nel tempo che voi e egli e Pietro [...] fuori della patria vostra dimoravate» (Pro I, ii), la relativa che restrittiva è per lo più breve: «con ciò sia cosa che ciascun che scrive, d’esser letto disidera dalle genti, non pur che vivono, ma ancora che viveranno» (Pro I, i); in uno stesso periodo si susseguono, entrambe in forma d’incidentali, due relative brevi, la prima restrittiva è al congiuntivo, la seconda esplicativa è all’indicativo: «Gravose febbri, non usata povertà, sceleratezza e ignoranza che sieno in noi, e tutti gli altri danni a questi somiglianti, che infinita fanno la loro schiera, ci apportano senza fallo dolore e più o men grave, secondo la loro e la nostra qualità» (As I, x). I nessi quello che / quelli che, fungono da testa di una relativa restrittiva con referenza personale o inanimata (Vanelli, in GIA 2010: 351): «disponti tu a dir di quello che a te più giova che si ragioni» (As I, vi), «e quello che per diritto non si può, conviene che per oblico si fornisca» (As I, xxii), «io t’ho co’ miei essempi dimostrato, quanti possono esser quelli che amino come fo io» (As I, xvii), «Queste cose appunto son quelle [...] sopra le quali principalmente si fermano, messer Ercole, tutti quelli che di questa openion sono» (Pro II, xx). Della coniunctio relativa si distinguono almeno tre modi; caso retto: «Oltra che ritrovamento provenzale è stato lo usare versi rotti; la quale usanza, perciò che molto varia in quelli poeti fu [...], avenne che i più antichi Toscani più maniere di versi rotti usarono» (Pro I, ix); oggetto: «Il quale uso imitarono degli altri e poeti e prosatori di questa lingua, e sopra tutti il Boccaccio» (Pro I, xi); caso obliquo con preposizione: «trovarono le favole altresì, sotto il velame delle quali la verità, sì come sotto vetro trasparente ricoprivano» (As I, xii), Tra i giuntori interfrasali con relativo si annoverano il che e il nesso la quale cosa: «La qual cosa se voi farete, e doverete voler fare, se volete che mio sia quello che una volta donato m’havete, assai bello et spatioso campo aremo oggi da favellare» (As I, vi), «La qual cosa madonna Berenice e le sue compagne veggendo, lo ’ncominciaron tutte instantamente a pregare» (As I, vii), «Per la qual cosa manifestamente si vede Amore essere non solamente di sospiri e di lagrime, né pur di morti particolari, ma eziandio di ruine d’antichi seggi et di potentissime città e delle provincie istesse cagione» (As I, xi). 46 La proposizione relativa serve al collegamento di frasi che si  



45   Pozzi (1978: 336) pone un punto e virgola prima di il quale, a significare l’inizio di un nuovo periodo. 46   Le modalità d’uso del nesso la qual cosa sono qui in parte diverse rispetto a quanto avviene nella

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succedono; vediamo un passo in cui ricorrono di seguito tre nessi relativali: fuoco ... nel quale; donna, per lo cui amore; pianto, del quale; si ottiene un periodo coeso che imita i modi del collegamento interfrasale propri del latino: Perciò che avendo già per li tempi adietro Amore il mio misero e tormentato cuore in cocentissimo fuoco posto, nel quale stando egli conveniva che io mi morissi, con ciò sia cosa che non averebbe la mia virtù potuto a cotanto incendio resistere, operò la crudeltà di quella donna, per lo cui amore io ardeva, che io caddi in uno abondevolissimo pianto, del quale l’ardente cuore bagnandosi, opportuna medicina prendeva alle sue fiamme (As I, xv, p. 342).

5. 4. 6. Le gerundiali Gerundiali (al presente e al passato) e participiali (al passato) sono frequenti negli Asolani e nelle Prose. In entrambe le costruzioni prevalgono gli ess. che mostrano coreferenza con il soggetto della proposizione principale; le costruzioni assolute sono rare. 47 L’influsso del latino è indubbio, soprattutto in quest’ultimo caso, ma non è l’unico fattore che determina la presenza dei costrutti. Il lungo esercizio compositivo compiuto da Boccaccio ha fatto scuola in questo particolare settore: è certo notevole il peso che le tradizioni discorsive hanno avuto nella fortuna di tali strutture. 48 Le gerundiali e le participiali usate da Bembo presentano aspetti consueti; appaiono espressioni quasi formulari, ricorrenti in situazioni-tipo: nelle didascalie che precedono il Discorso diretto, nelle circostanziali che accompagnano la proposizione principale, nelle descrizioni ecc.; in tali occasioni la componente lessicale ha la prevalenza sulla sintassi. 49 Lo schema cognitivo “Primo piano / Sfondo” permette di osservare nella giusta prospettiva il rapporto tra nucleo frasale e costruzioni assolute, per quanto riguarda in particolare il controllo esercitato su queste ultime dalla sovraordinata. Le gerundiali che sostituiscono la subordinazione avverbiale sono «funzionalmente assimilabili a frasi temporalizzate (causali, ipotetiche ecc.)» (Bozzola 2009: 158). Questo fenomeno si manifesta con evidenza in un autore come Bembo, che riproduce forme del passato, sviluppandone tratti stilistici particolari. 50 In una scrittura fondata su cadenze ritmiche, gli aspetti topologici delle gerundiali e delle participiali rivestono un’importanza particolare.  







Egerland (2010: 571) distingue otto valori semantici del gerundio: avverbiale di maniera, di mezzo (o strumento), di tempo, di causa, condizionale (protasi del periodo ipotetico), concessivo, modale, attributo di un nome; ad eccezione dell’ultimo (che è proprio dell’it. ant.) questi valori sono tuttora presenti nella nostra lingua. Vi è un consenso diπuso nel distinguere tre tipi di gerundiali: i) Il gerundio converbo, che appare nelle costruzioni perifrastiche (perifrasi progressive): vado cantando, sto studiando. prosa machiavelliana (5. 2. 1.). S’intende che un’analisi di la qual cosa dovrà comprendere un confronto con altri nessi, come: oltra che, senza che, laonde, per la qual cosa, per che, ché. 47   Lasciamo da parte le costruzioni nominali assolute (l’accusativo alla greca, i nominativi assoluti, le apposizioni modali-associative), le quali in Bembo o sono assenti o hanno scarso rilievo, come avviene sovente nella prosa letteraria antica e rinascimentale; tali costrutti ricorrono invece nell’italiano contemporaneo. 48   Cfr. Croft/Cruse (2010: 86-89), De Roberto (2012: 19-74). 49   Cfr. Blanche Benveniste (2000: 90, 119). 50  Nel iii libro delle Prose si tratta della forma del gerundio (Pro III, xlviii) e del tipo in andando, in leggendo, che è riferito a un modello provenzale (Pro III, lv).

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ii) Il gerundio di predicato, il quale, unendo il proprio contenuto semantico a quello della reggente, crea un’entità proposizionale unitaria: entrò nel giardino cantando → entrò nel giardino senza cantare: dove il gerundio esprime un’azione simultanea rispetto al predicato di base; tale possibilità dipende dalla semantica e dalle proprietà aspettuali dei due componenti. iii) Il gerundio di frase, il quale si riferisce alla principale; gerundio passato: essendo andato a Roma Marco vide Livia → non essendo andato a Roma Marco non vide Livia; in questi due ess. non vi sono dubbi sull’esistenza di due contenuti (data l’anteriorità temporale della gerundiale); gerundio presente: talvolta le due componenti sono distinte: leggendo questo libro, ho capito molte cose, talvolta si rimane incerti: mangiando dolci ingrasserai → non mangiando dolci manterrai la linea (il valore mediale rende certa la distinzione), ma in aspettando M. fumai una sigaretta → *non aspettando M. fumai una s., il valore circostanziale non facilita la distinzione (anche la possibilità della frase negativa è dubbia); la distinzione dipende dalla semantica e dalle proprietà aspettuali delle due componenti. 51  

In Bembo la perifrasi progressiva appare soltanto con il verbo andare: «essi vanno cercando i diletti loro» (As I, xiii), vo distendendo (As II, xxiv), «Ma che vo io argomentando di cosa che si tocca con mano?» (As I, xx), «Ma che vi vo io di queste cose, leggiere et deboli alle ponderose forze d’Amore, lungamente ragionando?» (As II, xx), «Aperto e comune e ampissimo è il campo, o donne, per lo quale vanno spaziando gli scrittori» (As II, viii). Il gerundio di predicato, per lo più con valore modale, appare tra l’altro nelle didascalie del Discorso diretto: «Gismondo sogghignando così disse» (As I, xi), «Allora mio fratello, sorridendo [...] disse» (Pro I, xiii); nella descrizione di atteggiamenti personali: «ella visse in pianto tutto il remanente della sua vita, e alla fine piangendo si morì» (As I, xxv); «[scil. Perottino] il quale nella fine della sua lunga querimonia ci lasciò piangendo» (As II, ii). La gerundiale al presente entra sovente in contesti argomentativi con valore causale e occupa una posizione incidentale: «Anzi sì come la voce è a ciascun popolo quella stessa, così ancora le parole, che la voce forma, quelle medesime in tutti essendo, agevole sarebbe a ciascuno lo usar con le straniere nazioni» (Pro I, i), «È adunque, donne, sì come voi vedete, cagion di tutte le cose Amore; il che essendo egli, di necessità bisogna dire che egli sia altresì di tutti i beni, che per tutte le cose si fanno, cagione» (As II, xx). Non è un caso che negli Asolani la gerundiale argomentando ricorra per tre volte; nel secondo es. si noti la ripresa parziale argomenti ... argomentando: «Per che di quanto più rinforza Perottino argomentando le sue ragioni et più lungamente nella iniqua sua causa s’aπatica, aguzzando la punta del suo ingegno, di parlare, di tanto egli alle mie tempie va tessendo più lodevole et più gratiosa corona» (As I, xix), «Perciò che dove tu, alle tre maniere de’ mali appigliandoti, argomenti che ogni doglia da qualche amore, sì come ogni fiume da qualche fonte, si diriva, vanamente argomentando, ad assai fievole et falsa parte t’appigli con fievoli et false ragioni sostentata» (As II, iii), «Perciò che, se io non m’inganno, sì sei tu hora a quella parte de’ sermoni di Perottino pervenuto, dove egli, argomentando dell’animo, ci conchiuse che amare altrui senza passione continua non si puote» (As II, x).

Nelle Prose, ma soprattutto negli Asolani, il gerundio di frase è frequente e ha varie funzioni: rappresenta, in eπetti, un componente di base del periodo e ricalca spesso 51   Non sempre è facile distinguere il gerundio presente di frase da un gerundio presente di predicato; la distinzione dipende da più fattori, in primo luogo dalla semantica della frase; si tenga poi conto che, se i due verbi esprimono una stretta contemporaneità, si ha il gerundio di predicato; si ha un gerundio presente di frase quando vi si aggregano complementi e determinanti.

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usi boccacciani. Distinguiamo tra gerundio presente (azione prolungata) e gerundio passato (azione conclusa) e citiamo alcuni ess. ordinati secondo la base lessicale. Quanto al significato, alcuni verbi rappresentano atteggiamenti assunti dai narratori nella cornice, altri esprimono concetti e istanze presenti nel dialogo: Amando: «né vuole [scil. ciascuno degli amanti] per niente che alcuno altro viva, il quale amando possa tanto al sommo d’ogni male pervenire» (As I, xvii), «Cotali sono i piaceri, donne, i quali amando si sentono» (As I, xxv), «altri che, amando et d’Amore trattando, si dispongono di coglier frutto de’ loro ingegni et di trarne loda per questa via» (As II, viii). Il gerundio di frase, usato assolutamente e con valore di mediale (o strumentale), precede il verbo della reggente; nell’ultimo es. amando appare in coppia con trattando. Cantando: «o pure nel vago prato entra della poesia e quivi, ora in una maniera e ora in altra, cantando tesse alla sua donna care girlande di dolcissimi et soavissimi fiori» (As II, xxxi), «ma non a voi [scil. avevano nascosto una menzogna], né pure alla vostra fanciulla, che così vagamente l’altr’ieri alle tavole di vostra maestà cantando, ci mostrò quello, che io dire ne dovea» (As III, xi), «dopo alquanto spazio col piacevole suono di quello [scil. liuto] la soave voce di lei accordando et dolcissimamente cantando, così [scil. la maggiore di due vaghe fanciulle] disse» (As I, iii), «E se nelle nostre diportevoli barchette alle volte pigliando aria alquanto dagli strepiti della città m’allontano, a niuna parte m’avicino de’ nostri liti, che a me non paia vedervi la mia donna andar per loro spatiandosi [= passeggiando], al suono cantando delle roche onde e marine conche con vaghezza fanciullesca ricogliendo» (As II, xxix). Il gerundio di frase è usato assolutamente e con valore circostanziale; nei primi due ess. vi è una sola gerundiale; nel terzo ve ne sono due; nell’ultimo es. delle quattro gerundiali la prima è riferita all’io narrante, le altre tre descrivono le azioni della donna. Leggendo: «quale, agli studi delle lettere volto il pensiero, o le istorie degli antichi leggendo, se stesso con gli altrui essempi fa migliore» (As II, xxxi), «chi è quello [...] che egli non conosca quanto sia caro e dilettevole agli amanti [...] gli antichi casi amorosi leggendo, incontrarsi negli loro e trovar negli altrui libri scritti i loro pensieri, tali nelle carte sentendogli, quali essi gli hanno fatti nel cuore, ciascuno i suoi aπettuosamente a quelli e con dolce maraviglia aguagliando?» (As II, xxv), «poscia, leggendo il verso, così le [scil. le lettere] mandan fuori, come voi fatto avete» (Pro III, iv). Nel primo es. la gerundiale con oggetto preposto ha valore mediale rispetto alla principale; nel secondo es. vi sono tre gerundiali (circostanziali e sostituibili senza residui con infiniti); in ognuna di esse il gerundio è posposto: l’interrogativa retorica si prolunga per più righi assecondando la tensione retorica del passo; nell’ultimo es. la gerundiale-inciso ha valore temporale. Parlando: «Senza rispetto non potrete voi essere, Madonna, e presontuosa da noi tenuta parlando et ragionando» (As I, x), «Ma solo, chiuso sempre ne’ suoi pensieri, con gli occhi pregni di lagrime, le meno segnate valli o le più riposte selve ricercando, s’ingegna di far brieve la sua vita, talora in qualche trista rima spignendo fuori alcun de’ suoi rinchiusi dolori, con qualche tronco secco d’albero o con alcuna soletaria fiera, come se esse lo ’ntendessero, parlando et agguagliando il suo stato» (As I, xxvii), «Dante, che di rena parlando, disse» (Pro III, xxiii). Nel primo es. i due gerundi hanno valore ipotetico ‘se parlate e ragionate’; nel secondo si hanno quattro gerundi (gli ultimi due in coppia), tutti hanno valore mediale-circostanziale e collaborano nella rappresentazione di uno stato d’animo-paesaggio.

La gerundiale al presente svolge una funzione introduttiva nelle formule di avvio del discorso: «Ma tornando alle nostre dolcezze, dico che» (As II, xxxi); lo stesso compito è svolto sovente dalla participiale al passato: «Ispeditosi Lavinello del dire delle tre canzoni, i suoi primieri ragionamenti così riprese» (As II, xxxi). In un noto passo delle Prose il Magnifico aπerma che i grandi autori del Trecento si sono ingegnati nel dare prestigio al volgare; hanno imitato quanto aveva fatto a suo tempo Cicerone, vale a dire, si sono curati più del loro successo personale che del presente e del futuro della lingua:

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la prosa del cinquecento Questo medesimo della nostra volgare messer Cino e Dante e il Petrarca e il Boccaccio e degli altri di lontano prevedendo, e con essa molte cose e nel verso e nella prosa componendo, le hanno tanta autorità acquistata e dignità, quanta ad essi è bastato per divenire famosi e illustri, non quanta per aventura si può in sommo a·llei dare e accrescere scrivendo (Pro I, v, p. 83).

L’elaborazione retorica del passo, ottenuta all’inizio con l’ordine dei costituenti “Oggetto + Soggetto (plurimo) + Gerundiale”, è sostenuta al centro del periodo da due gerundi prevedendo e componendo, che ne formano l’arco portante; altri elementi di sostegno sono: i pronominali anaforici e con essa e quanta ad essi, la correlazione tanta autorità ... non quanta e le ripetute dittologie. Il gerundio presente è per lo più posposto all’oggetto e al determinante; di consegenza tende a spostarsi verso la fine della frase; appare spesso in coppia e talvolta in cadenze ritmiche. In questi tratti non si notano diπerenze rilevanti tra gli Asolani e le Prose. Quanto alla forma, la gerundiale al passato presenta spesso la tmesi tra ausiliare e participio: «Dove essendo ella questo settembre passato a’ suoi diporti andata, avenne che ella quivi maritò una delle sue damigielle» (As I, ii), «perciò che, avendo egli [scil. Stesicoro] co’ suoi versi la greca Helena vituperata, et fatto per questo cieco, da capo in sua loda ricantandone, tornò sano» (As III, vi), «Perciò che avendo già per li tempi adietro Amore il mio misero e tormentato cuore in cocentissimo fuoco posto, nel quale stando egli conveniva che io mi morissi, con ciò sia cosa che non averebbe la mia virtù potuto a cotanto incendio resistere, operò la crudeltà di quella donna, per lo cui amore io ardeva, che io caddi in uno abondevolissimo pianto» (As I, xv). Dal momento che rappresenta spesso un evento anteriore a quello presente nella principale, rispetto a quest’ultima, il participio passato si pone come un presupposto logico. Nel passo che segue il costrutto appare in una parentetica ed è seguito da due gerundiali al presente; in tal modo si conferma quella tendenza associativa di determinazioni temporali di cui abbiamo visto altri esempi: A questo modo, o donne, s’ingegnano gli amanti contro al corso della natura trovar via, la quale, avendo parimente ingenerato in tutti gli uomini natio amore di loro stessi e della lor vita e continua cura di conservarlasi, essi odiandola e di se stessi nimici divenuti amano altrui, e non solamente di conservarla non curano, ma spesso ancora, contro a se medesimi incrudeliti, volontariamente la rifiutano dispregiando (As I, xiii, p. 338).

L’associazione di gerundiale al passato e gerundiale al presente si ha soprattutto nella cornice del Discorso diretto, dove si stabilisce una relazione tra la prima (premessa discorsiva) e la seconda (circostanziale coreferenziale o non coreferenziale): «Così avendo detto Perottino, fermatosi et poi a dire altro passar volendo, Gismondo con la mano in ver di lui aperta sostandolo, a madonna Berenice così disse» (As I, xvi), «Ora avendo questi tre con mio fratello desinato, sì come egli mi raccontava, e ardendo tuttavia nella camera nella quale essi erano, alquanto da·llor discosto, un buon fuoco, disse messer Ercole» (Pro I, ii; ed. Dionisotti dallor), «Tacevasi messer Federigo dopo queste parole, avendo il suo ragionamento fornito, e insieme con esso lui tacevano tutti gli altri; se non che il Magnifico, veggendo ognuno starsi cheto, disse» (Pro II, xx). In tale cotesto la gerundiale al presente può essere sostituita, sempre in seconda posizione, da una participiale o da altre componenti circostanziali: «Il che avendo detto Gismondo, con un brieve silenzio fatta più attenta l’ascoltante compagnia, così incominciò» (As II, xxii). È evidente il carattere quasi formulare di queste strutture in-

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troduttive costruite con gerundiali. All’inizio di capitolo, e con funzione di premessa, si ritrova la gerundiale al passato, associata spesso con una ger. al presente. Si giunge al punto di inserire nello spazio tra l’ausiliare essendo e il participio passato scavalcati due ger. al presente (circostanziali) ritornando e passando; la participiale al passato continua con sopratenutivi; si ha pertanto una costruzione a lunga gittata: «essendo egli e messer Paolo Canale [...] scavalcati [...] sopravenutivi»; nella seconda parte del passo due gerundiali al presente e tra loro associate «lentamente spaziando e [...] ragionando» mostrano la continuità delle sequenze di questa forma indefinita del verbo: Co’ quali, messer Carlo, stimo io che giudicasse messer Pietro vostro fratello, del quale mi soviene ora, che essendo egli e messer Paolo Canale, da Roma ritornando e per Ferrara passando, scavalcati alle mie case, e da me per alcun dì a ristorare la fatica del camino sopratenutivi, un giorno tra gli altri venne a me il Cosmico, che in Ferrara, come sapete, dimora, e tutti e tre nel giardino trovatici, che lentamente spaziando e di cose dilettevoli ragionando ci diportavamo, dopo i primi raccoglimenti fatti tra loro, egli e messer Pietro, non so come, nel processo del parlare a dire di Dante e del Petrarca pervennero (Pro II, xx, p. 177).

Costantemente inserita in cadenze ritmiche, la gerundiale, esecutrice di un collegamento frasale rapido, è un sostituto “armonico” (crea spesso cadenze ritmiche) della subordinazione avverbiale esplicita. Le avverbiali implicite, che in Bembo sono numerose, si riducono sensibilmente in altri autori; tra gli altri, Castiglione ne fa un uso assai circoscritto. 52  

5. 4. 7. Le participiali Sono per lo più temporali o circostanziali anteposte alle principali; nella maggior parte dei casi vi è coreferenza dei soggetti delle due proposizioni; la participiale assoluta (assai più rara) testimonia sovente la presenza di un modello latino. Le participiali al passato indicano il compimento di un evento o di un’azione come premessa – in un certo senso definitiva – di quanto è dichiarato nella principale e pertanto assumono una funzione stabile. Vediamo alcuni periodi diversamente strutturati. Nella participiale si ha la posposizione del soggetto: «Ispeditosi Lavinello del dire delle tre canzoni, i suoi ragionamenti così riprese» (As III, xi), «Tacevasi, detto fin qui, messer Federigo, e gli altri aπermavano che egli dicea bene» (Pro I, vii); tra la participiale e la principale s’inseriscono talvolta vari elementi: «Presi adunque e costumi e leggi, quando da questi Barbari e quando da quegli altri, e più da quelle nazioni che posseduta l’hanno più lungamente, la nostra bella e misera Italia cangiò, insieme con la reale maestà dell’aspetto, eziandio la gravità delle parole, e a favellare cominciò con servile voce» (Pro I, vii). Due o più participiali, preposte alla principale, segnalano momenti diversi della narrazione; ciò accade in particolare nella cornice del racconto, secondo modalità tipicamente decameroniane: «Stettero alquanto sopra sé le oneste donne, intesa la proposta di Gismondo [...] con le 52   Questo fenomeno va osservato in un quadro più ampio. R. Tesi, studiando nella prosa di Castiglione «l’uso di un nome generico ricapitolativo in funzione di apposizione di frase», sostiene: «In questa prospettiva andrà valutata la riduzione tendenziale di proposizioni gerundiali a favore di costrutti espliciti omovalenti (benché continuino a essere presenti serie di gerundiali coordinate), l’uso meno esteso del costrutto di accusativo con infinito e la sensibile riduzione dell’ellissi del che subordinante, fenomeni, questi ultimi due, che segnano un’evoluzione del modello latineggiante rappresentato dalla prosa dell’Alberti. La razionalizzazione delle strutture sintattiche maggiori comporta, infine, l’abbandono di quelle tipiche incongruenze sintattiche che rientrano nella fenomenologia dell’anacoluto (tema sospeso, paraipotassi, ripetizione della congiunzione che dopo un inciso, ecc.) e che erano realizzazioni consuete della prosa medievale» (Tesi 2007: 233, l’evidenziazione è nel testo).

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sue compagne cominciò [scil. Berenice] a sorridere di questo fatto, le quali insieme con lei altresì dopo un brieve pentimento rassicurate, s’accorsero, [...] che egli la fiera tristizia di Perottino pugneva» (As I, vii). Talvolta la participiale interrompe lo svolgimento del periodo, formando un’incidentale, che ha valore temporale: «Ora soleva la Reina per lo continuo, fornito che s’era di desinare e di vedere e di udire tutte le piacevoli cose, con le sue damigielle ritrarsi nelle sue camere» (As I, iv). Non è un caso che questo periodo si trovi all’inizio di un capitolo. Le participiali sono un tipico strumento di preparazione, all’evento presentato dalla principale; per tale motivo si associano non raramente a una gerundiale: Perciò che andando io questa mattina per tempo, da costor toltomi e del castello uscito, solo in su questi pensieri, posto il piè in una vietta per la quale questo colle si sale, che c’è qui dietro, senza sapere dove io m’andassi, pervenni a quel boschetto, che, la più alta parte della vaga montagnetta occupando, cresce ritondo come se egli vi fosse stato posto a misura (As III, xi, p. 478);

Un modulo tradizionale, ricorrente nella narrativa, consiste nel riprendere con una participiale l’evento presentato nella principale che precede, per evidenziarne il compimento e preparare la premessa di quanto segue (si riprende, ampliandolo, un passo già cit.): E mentre che io gli occhi e gli orecchi di quella vista e di quel concento pasceva, un candidissimo cigno e grande molto, che per l’aria da mano manca veniva, chinando a poco a poco il suo volo, in mezzo il fiume soavemente si ripose, e, ripostovisi, a cantare incominciò ancora egli, strana e dolce melodia rendendo (Pro II, iii, p. 132).

La participiale al passato appare in altre posizioni. Il participio posto che, quando appare in un’incidentale, è parzialmente grammaticalizzato; è diventato un quasiconnettore che introduce una causale: «Che se la volgar lingua a quei tempi stata fosse, posto che ella fosse stata più nel volgo, come que’ tali dicono, che nel senato o ne’ grandi uomini, impossibile tuttavia pure sarebbe, che almeno tra queste basse e vili memorie che io dico non se ne vedesse qualche segno» (Pro I, vi, p. 66). 53 Una participiale con valore condizionale appare alla fine del periodo: «quando medesimamente si vede che al presente più antiche rime delle toscane altra lingua gran fatto non ha, levatone la provenzale» (Pro I, viii). 54 Il participio presente, che riproduce un uso latino, ha la funzione di un aggettivo verbale: «O chi è quello, nel cui rozzo petto in tanto ogni favilluzza d’amoroso pensiero spenta sia, che egli non conosca quanto sia caro et dilettevole agli amanti talora recitare alcun lor verso alle lor donne ascoltanti et talora esse recitanti ascoltare?» (As II, xxv). L’imitazione del modello latino si fa più evidente quando il participio regge un complemento oggetto: «Ora scorge la serena fronte, con allegro spazio dante segno di sicura onestà» (As II, xxii) o di un’infinitiva: «[Madonna Berenice] tutta lieta ed aspettante d’udire» (As II, iii). 55  





53   Due tipi analoghi a quello ora descritto sono le proposizioni introdotte da solo che: «che non è lingua alcuna, in alcuna parte del mondo dove lo scrivere sia in usanza, con la quale o versi o prosa non si compongano, e molto o poco non si scriva, solo che ella acconcia sia alla scrittura» (Pro I, vi, p. 84) e da come che: «Tanto vi posso io ben dire, che io questo che esso dice, ho già udito dire a degli altri, e sopratutto ad uno, che noi tutti amiamo grandemente e onoriamo e il quale di buonissimo giudicio suole essere in tutte le cose, come che egli in questa senza dubbio niuno prenda errore» (Pro I, vi, p. 83). 54   Esempi di accordo del participio passato (ausiliare avere) con l’oggetto: «ciascuno di noi ha udite le due fanciulle» (As I, vi), in proposizione relativa: «quelle cose che i toscani rimatori hanno da’ provenzali pigliate» (Pro I, viii). 55   Questo uso del participio presente si ritrova in Boccaccio: «Il quarantesimo giorno venuto, [scil.

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Bembo contribuisce a ridurre il “disordine” che caratterizza vari fenomeni sintattici, tipici dell’italiano antico: respinge l’anacoluto, la paraipotassi e la ripetizione del complementatore che. Nella sua prosa scompaiono quasi del tutto i passaggi di costruzione, le reggenze irregolari, le costruzioni miste, la congiunzione e all’inizio del periodo, il che polivalente. Si riducono strutture tradizionali, come le gerundiali e le participiali in coppia e precedenti la principale. 5. 4. 8. Fenomeni di microsintassi Esaminiamo qui di seguito l’uso dei pronomi personali, l’agentivo per, i deverbali N-tore, gli avverbi in -mente, • Gruppi pronominali enclitici: è largamente attestato l’ordine “avverbio+pronome accusativo”: sediamvici (As I, vi), accostiamvici (Pro I, ii), avicinatovisi (Pro I, ii), cfr. anche: «pàrlavisi [...] e ragiònavisi» (Pro I, xiv). Ordine “accusativo+dativo”: prenderlesi (As I, vii), dimostrarloti (As I, xi), «cura di conservarlasi» (As I, xiii), cfr.: «mille giardini di rose se gli aprono» (As II, xxii). Frequente è l’enclitica dopo il verbo di modo finito: tacevasi (Pro I, vii; II, xx), «e potrassi qui [...] dir» (As II, xviii). 56 Risalita del clitico: «ardisse di si mostrare» (As I, v); «come mal facemmo [...] a non ci esser qui [...] venute» (As I, vi). • Per agentivo: «non si può per noi compiutamente sapere quale abbia ad essere l’usanza delle favelle» (Pro I, xviii), «se io ora, dalle cose che per messere Federigo e per voi della volgar lingua dette si sono persuaso» (Pro I, xii), «la maladetta aquila mille volte per ciascuna bestemmiandosi» (As II, xviii). • Con il deverbale N-tore si formano sintagmi equivalenti a predicati verbali: «che io [...] faccia con due guerrieri combattitore» (As I, viii), «Né pure i luoghi, stati alcuna volta delle nostre donne ricevitori, o quelli che più spesso ci sogliono di loro essere et conservatori fedelissimi et dolcissimi renditori, alla mente le ci ritornano» (As I, xxix), «Se la natura delle mondane cose producitrice e de’ suoi doni sopra esse dispensatrice» (Pro I, i), ritrovatori (Pro I, v), posseditori (Pro I, vii), ascoltatore (Pro II, ii); l’uso di questi deverbali abbrevia talvolta il periodo. Notiamo due prefissati particolari: distemperatezze (As I, xii) e contraoperazione (As I, xv) ‘eπetto contrario’. • La collocazione degli avverbi nella frase risponde sovente a esigenze ritmiche: «meritamente dee in te cadere l’arbitrio de’ nostri sermoni» (As I, vi), «Gismondo, accortamente rassettatosi e pel viso d’intorno piacevolmente le belle donne riguardate, in questa guisa incominciò a dire» (As I, vi), «entravi pure e appigliati comunquemente tu vuoi» (As I, viii), 57 «così con un dito per ischerzo minacciandola giochevolmente» (As I, viii), «sirocchievolmente prendendo e stringendo [scil. la mano] (As II, xxi). Si noti la presenza di più avverbi nello stesso periodo: «Ora che, qualunque si sia di ciò la cagione, essere il vediamo così diverso [scil. il parlare] che non solamente in ogni general provincia propriamente e partitamente dall’altre generali provincie si favella, ma ancora in ciascuna provincia si favella diversamente» (Pro I, i), «ha potuto intendere a favellare donnescamente» (Pro I, vii), «a più che mai servilmente ragionare non si ritorni» (Pro I, vii), «ciascuno [...] il quale bene scrivere e specialmente verseggiar volesse [...] lo faceva provenzalmente» (Pro I, viii). In As agevolmente raggiunge 20 occorrenze; sono diπusi anche gli avverbi primieramente (13 occorrenze) e maggiormente (4); nelle Prose notiamo minutamente (3).  



La concezione grammaticale di Bembo, quale è esposta nel terzo libro delle Prose, si fonda sul concetto sintattico di reggenza. Le parti del discorso sono definite in base a un criterio funzionale, non referenziale-semantico: per es., il nome è definito relativaGesù] fu oπerto al tempio, e dal vecchio Simeone, la sua venuta aspettante, fu ricevuto» (Filocolo v, 54). 56   I due ordini dei pronomi lo mi e me lo sono presenti in Boccaccio: Stussi (1995: 208-211), M. Zaccarello, “Boccaccio Giovanni”, in EncItaliano, i (2010: 155-159, 157). 57   Per questo raro avverbio vedi Pro (III, lxi): «È ancora Comunque, che in vece di Come assai sovente s’è detta; è Comunquemente quello stesso, ma detta tuttavia di rado».

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mente alla flessione, al genere e al numero, non in termini di sostanza. Nella consecutio temporum si evidenzia il fatto che un tempo come il trapassato remoto, appare soltanto in una subordinata; simile è la situazione in cui si trova il futuro anteriore. 58  

5. 5. Dalle lettere ai dialoghi Continuità d’ispirazione e d’intenti caratterizzano l’intera produzione di Bembo. Dionisotti ha osservato che la corrispondenza d’amore con Maria Savorgnan è «nata sul tronco stesso degli Asolani». Tra le lettere e il dialogo vi è coincidenza di temi e motivi: comuni reminiscenze petrarchesche, comuni situazioni e stilemi; la requisitoria di Perottino riprende argomenti presenti nello scambio epistolare. 59 La forma stessa del dialogo è una costante, che dal giovanile De Aetna giunge alle opere maggiori. Per il lettore di oggi la lettura degli Asolani è un cammino arduo; manca ogni gratificazione per entrare in questa dimora del classicismo cinquecentesco. Il contrasto con l’originalità, la creatività, la frammentarietà, l’incompiutezza, ricercate nella letteratura del nostro tempo, non potrebbe essere più forte. «Lo stile era un tempo un’arte da imparare e non se ne potevano trasgredire le regole in nome della propria personalità» (Norden 1986: 20). «Pietro / Bembo, che ’l puro e dolce idioma nostro, / levato fuor del volgare uso tetro, / quale esser dee, ci ha col suo esempio mostro» (O. F. 46, 15). Anche se la lode suona convenzionale, il fine pedagogico delle Prose fu subito chiaro ai contemporanei. Nella tetraggine quattrocentesca Ariosto includeva anche il Boiardo. 60 Varchi definì Bembo «balio della nostra lingua». Leopardi lo ricorda tra coloro che scrissero prose «alla Boccaccevole (e quindi fuor dell’uso di quel secolo)», aggiungendo: «I pedanti che oggi ci contrastano la facoltà di arricchir la lingua, pigliano per pretesto ch’essa è già perfetta. Ma lo stesso contrasto facevano nel cinquecento quand’essa si stava perfezionando, anzi nel momento ch’ella cominciavasi a perfezionare, come fece il Bembo, il quale volea che questo cominciamento fosse il toglierle di crescere mai più, e ’l ristringerla al solo Petrarca e al solo Boccaccio» (Zibaldone 2536 e 2723-2724). Vi è poi un significativo confronto tra due epoche:  



Il Bembo fu un Cesari del 500, il Cesari è un Bembo dell’800. Simili negli eπetti che hanno operati, e nelle circostanze dei tempi quanto alla lingua, e nei mezzi usati e nelle opinioni, cioè nella divozione al 300. ec. Ma similissimi anco nell’esser loro naturale (lasciando l’esser vicini di patria, e d’una provincia stessa). Molta lettura e studio: nessuno ingegno da natura; nessuna sembianza di esso, acquistata per l’arte. Mai niun barlume, niuna scintilla di genio, di felice vena, ne’ loro scritti. Aridità, sterilità, nudità e deserto universalmente. Pochi o niuno de’ nostri autori e libri che hanno avuto fama e che si stampano ancora, furono mai così poveri per questa parte, come il Bembo e gli scritti suoi (Zibaldone 4249).

«Il Bembo non capiva cosa fosse l’Orlando innamorato. Ma lo capiva l’Ariosto, che in quella lettura facea sua delizia, e deliberò senza più di usare lo stesso metro e 58   Cfr. C. Gazzeri, La teoria delle parte del discorso nel iii libro delle “Prose della volgar lingua”, in “Bollettino di italianistica”, a cura di A. Asor Rosa, iv, 2, 2007, pp. 87-103; v. anche M. Tavosanis, Le fonti grammaticali delle “Prose” in Morgana et Al. (2000: 55-76). 59   La citazione è da Dionisotti (2002: 13). Si veda anche Tesi (2007: 192): «Per approntare la sua edizione del Petrarca [...], Bembo poté visionare per qualche tempo il codice autografo Vaticano Latino 3195, che influì sulle sue concezioni in fatto di lingua letteraria (è del settembre 1501 il progetto di “alcune notazioni della lingua” scritte per Maria Savorgnan, che rappresentano il primo nucleo delle Prose)». 60   Dionisotti (1967: 96-97) ha osservato che «già il Furioso 1516, nove anni prima delle Prose della volgar lingua, ma undici anni dopo gli Asolani, rappresenta un distacco notevole e ostentato dal volgare uso tetro dell’innominato predecessore Boiardo».

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le stesse forme». De Sanctis (1954, ii: 14-15) coglie nel segno, ma non riconosce la funzione svolta dall’autore delle Prose nella storia della nostra lingua. 61 Il pieno riconoscimento di quella che si potrebbe chiamare “la funzione-Bembo” arriverà più tardi. È significativo questo giudizio di Giovanni Nencioni:  

Un leitmotiv della nostra storia linguistica è, per dirla con parola moderna, il purismo. [...] il purismo si enuncia con rigore sistematico nel capolavoro di Pietro Bembo, le Prose della volgar lingua. Nei primi suoi due libri troviamo una teoria della lingua e dello stile che porta a maturazione perfetta ciò che era implicito nella prassi letteraria e nella speculazione estetica, e insieme la fondazione della critica stilistica; nel terzo libro poi non troviamo una grammatica del volgare, come ha splendidamente rilevato Dionisotti, ma, attraverso le sfumate categorie della grammatica latina, un’analisi finissima delle risorse prosastiche e poetiche del volgare d’arte (Nencioni 1991: 17).

Che cosa ha spinto Bembo a promuovere l’uso del volgare? Le sollecitazioni a percorrere questa via non mancavano: nell’ultima delle Silvae, Nutricia (1486, ma pubblicata nel 1491) Poliziano legittimava, nella storia della poesia, la successione “poeti greci - latini - volgari”; la stessa scelta del volgare nelle 171 ottave delle Stanze per la giostra (1494) ha un significato profondo. Inizia una competizione diretta con le lettere latine e greche. Lo scambio è attivo nelle due direzioni. 62 Le Stanze gareggiano col latino e col greco, traendo motivi e forme dalle due antiche letterature, mutuando dal latino costrutti e vocaboli. In quegli anni si assiste alla decadenza del platonismo ficiniano, rappresentato in particolare da Cristoforo Landino, e a una prima aπermazione, promossa anche dall’opera di Poliziano, dell’aristotelismo filologico. La nuova filologia vive in gran parte nelle tipografie. Aldo Manuzio rivoluziona la prassi editoriale: elimina i lunghi commenti che soπocavano i testi e, opponendosi alle abitudini scolastiche e universitarie, lascia che gli autori parlino direttamente ai lettori (Dionisotti 1966: 14; 1995b: 37-65). Nel Petrarca volgare, pubblicato nel 1501, le innovazioni riguardano non soltanto «il sistema di segni d’interpunzione grecizzanti ancora oggi in uso», ma si rivolgono soprattutto al testo e alla lingua: «Anche per lui si trattava in sostanza di medicare (quando necessario) un testo trasmesso corrottamente da un numero eccessivamente alto di testimoni valendosi accortamente di un insieme limitato di codici e perdendo una quantità accettabile di tempo (piuttosto mesi che anni)» (Trovato 1991: 144). Per trattare il tema dell’amore, promosso dal neoplatonismo, il modello di lingua e di stile era Boccaccio. 63 Ma, nel caso particolare degli Asolani, si doveva andare oltre il Decameron; in eπetti Bembo si avvicinò al Filocolo e alla Fiammetta, opere in cui le situazioni sentimentali e la psicologia dell’amore avevano ottenuto un trattamento stilistico simile a quello che egli immaginava per la sua opera. Avversato dai sostenitori delle varietà “cortigiane”, dai fedeli del naturalismo fiorentino, dai  



61   Bembo conosceva e ammirava le letterature occitanica e oitanica: v. Meneghetti (2000) e Pulsoni (2000). «La parola ebbe una sua personalità: fu isolata dalla cosa; e ci furono parole pure e impure, belle e brutte, aspre e dolci, nobili e plebee. Nella scelta delle parole stava il segreto della eleganza. Si cercava non la parola propria, ma la parola ornata o la perifrasi. La ripetizione era peccato mortale» (De Sanctis 1954, ii: 149). Non va dimenticato che il purismo ha due versioni distinte: Bembo e Salviati guardano soltanto ai grandi autori del Trecento, Cesari, invece, ammira senza condizioni, le scritture di tutto «il secolo aureo». 62   A tale proposito, Bausi (2013: 27) ha parlato di «corto circuito intellettuale»: e in eπetti tra le due lingue e culture lo scambio è attivo nelle due direzioni. 63   Secondo Marti il Bembo avrebbe a√nato il suo platonismo linguistico passando, per tappe successive, dagli Asolani (1505) alle Prose (1525) e agli Asolani (1530). Dionisotti (2002: 72) comtrobatte argomentando che: i) non esiste il platonismo linguistico; ii) non ci sono prove che il Bembo abbia a√nato il suo platonismo; iii) intorno alla metà del secolo si manifestò un ritorno all’aristotelismo.

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nostalgici della letteratura toscana del Quattrocento, naturalmente inviso a coloro che proclamavano la superiorità del latino come lingua letteraria, Bembo si sentiva accerchiato; comprendeva che la sua battaglia doveva essere combattuta sul campo della lingua e dello stile. Vinse perché aveva ben valutato la distanza che separava il fiorentino quattrocentesco dal fiorentino “classico”, al quale si stava accostando la prassi editoriale di quegli anni. È facile immaginare come questa distanza fosse minimizzata dai fiorentini ed enfatizzata dai non toscani. I sostenitori del latino avevano in mente soltanto la lingua scritta; i sostenitori del volgare avevano invece una visione della lingua come elemento vitale e pertanto guardavano innanzi tutto al parlato; nella loro teoria, la lingua, assimilata a un organismo naturale, seguiva, a norma della biologia aristotelica, lo svolgimento corruptio-generatio; di qui nasceva un modo d’interpretare l’evoluzione linguistica che arriverà fino alla linguistica romanza del primo Ottocento. Nel periodo 15301545 l’oπensiva dei latinisti si esaurisce; un fenomeno del tutto diverso, di carattere prevalentemente pedagogico, è la campagna intrapresa dai gesuiti nel 1570 in difesa del latino. 64 Gli Asolani non sono certo un capolavoro, né si possono considerare un punto di arrivo della prosa del primo Cinquecento. Ma nel 1505 la prima edizione di quel dialogo, composto in forma di prosimetron, aprì una via per la prosa e per la poesia, un percorso che doveva rivelarsi fondativo per le sorti della nostra lingua. L’artista e il critico dovevano procedere di pari passo: artifex additus artifici. Alle tesi del Bembo si oppone l’anticlassicismo, che rifiuta il culto dei modelli e il concetto stesso di imitazione; rifiuto, che si manifesta in particolare nella lirica d’amore e diventa rifacimento parodico e dileggio dei toni e delle forme. L’antipetrarchismo e l’antiplatonismo alzano la voce. Irrompe sulla scena l’Aretino. Questo contrasto ha i suoi strascichi. Un eco si coglie in quei modi da teatro e da commedia che Alessandro Piccolomini assume nella Raπaella, dialogo della bella creanza delle donne (1539) (Scrivano 1966: 13-50). Seguiranno opere che si allontanano dalla linea degli Asolani: lo Specchio d’amore (1547) di Bartolomeo Gottifredi, il dialogo Dell’infinità d’amore (1547) di Tullia d’Aragona, che tratta della condizione femminile, il Ragionamento nel quale si insegna a’ giovani uomini la bella arte d’amore (1545) di Francesco Sansovino, dove, con l’inserimento di novelle e di exempla, si ottiene un testo misto, ben diverso dal progetto bembiano. L’antibembismo linguistico troverà una voce nel Ragionamento sopra le di√coltà di mettere in regole la nostra lingua (1551) di Gelli, che difende l’uso di un fiorentino vivo e lontano dalla tradizione letteraria. Nella seconda metà del Cinquecento, il dialogo, rifiutato da Castelvetro, come forma ibrida ed estranea alla codificazione aristotelica, ebbe le sue difese nell’Apologia del dialogo (1574) di Sperone Speroni, allievo di Pomponazzi, e nell’Arte del dialogo del Tasso: come le azioni degli uomini sono imitate nella commedia e nella tragedia, così il ragionamento è imitato nel dialogo, che è vicino al mondo delle idee; il dialogo ha un’impostazione dialettica, mentre il trattato fornisce dimostrazioni incontrovertibili. Vero è che la discussione prevede un contratto di confronto tra diversi interlocutori e pertanto si distingue dalla disputa. Il rapporto tra gli interlocutori non è per principio antagonistico; si ha una diπerenza di idee e di propositi, ma non antagonismo. Diversamente da quanto avviene nella disputa, gli interlocutori del dialogo si muovono su un terreno comune; ciascuno cerca di convincere l’altro; ci si  

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  Su questi eventi si veda in particolare Tavoni (1999).

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può accordare, ma si può anche cambiare opinione. «Mentre il linguaggio e il senso comune designano come “fatti” e “verità” degli elementi obiettivi, evidenti a tutti, l’analisi, condotta in una prospettiva argomentativa, non ci permette di trascurare, sotto pena di cadere nella petizione di principio, l’atteggiamento dell’uditorio nei confronti di tali elementi» (Perelman 1981: 35). Al fenomeno del bembismo è stato associato da alcuni studiosi il termine di acronia, a significare che le sue scelte di lingua e di stile non sono tanto una ripresa dell’antico quanto la fissazione di forme ideali della letterarietà. Vero è che sincronia e diacronia interferiscono di continuo e generano una sostanziale acronia, come è testimoniato dal persistere nell’italiano letterario fino all’inizio dell’Ottocento (ma non nel toscano), di molti arcaismi morfologici. Il convivere di soluzioni diverse ha una lunga storia: nel Decameron il tipo antico di accoppiamento pronominale lo mi si alterna con il tipo moderno me lo; l’enclisi dei pronomi, secondo la legge Tobler-Mussafia, non è sistematica, ma è sempre rispettata in apertura di periodo; il costrutto “accusativo con infinito” viene ripreso in diverse epoche storiche e in diversi contesti; lo stesso vale per il ripristino del “riflessivo a lunga distanza”. Il verbo nell’it. moderno occupa la posizione mediana, ma in latino e nell’italiano letterario, dalle origini al Rinascimento e oltre, si pone sovente alla fine del periodo; questa non è certamente l’unica marca di letterarietà, 65 la quale si manifesta in vari modi; per es., nell’interrompere la proposizione principale, al suo inizio (per lo più dopo il soggetto grammaticale) mediante uno o più aggiunti; il completamento della principale avviene soltanto alla fine del periodo. A questa costruzione, che assume un rilievo particolare nei periodi lunghi e complessi, va accostato lo spostamento dell’infinito nella parte finale del periodo; si ottiene così un eπetto ritmico (clausola). La diversa frequenza con cui ricorrono i fenomeni dell’ordo verborum ora ricordati rappresenta un indice importante della stilizzazione. La crisi del bembismo inizia nel 1540. La Poetica di Aristotele ricostruisce i generi e le loro forme diverse. Fonte di conoscenza non è soltanto la poesia; la dialettica, la logica, la retorica, la storiografia acquistano terreno proponendo altre esperienze conoscitive. Si esaurisce il culto dei modelli. Con Speroni a Padova e con l’Accademia degli Infiammati nasceva un’idea della poesia diversa da quella di Bembo, incline all’imitazione e circoscritta nei contenuti. 66  



65   Per il duplice ordine dei pronomi v. la nota 56; per il “riflessivo a lunga distanza”, v. S. Pieroni, “Latino e italiano”, in EncItaliano, i (2010: 754-761, 757). 66   Mazzacurati (1977: 2). Una critica al modus operandi bembiano è espressa da Afribo (2001: 17) «La profonda e quasi archetipica, ma semplice e poco prospettica, distinzione poesia (Petrarca) e prosa (Boccaccio) operata dal Bembo scoppiava così nei mille rivoli dei generi letterari, dei suggetti e delle forme, e dei relativi modelli antichi». Nell’aprile 1564 L. Salviati recita l’Orazione in lode della Fiorentina lingua e de’ Fiorentini autori di fronte a quella stessa Accademia che nel 1550 aveva incaricato il Gelli, il Giambullari e gli altri da fissare le regole della lingua fiorentina da contrapporre a quelle che Bembo aveva dato nelle Prose.

6. Castiglione

6. CASTIGLIONE * 6. 1. La scrittura del dialogo

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ul libro, destinato a essere famoso, “la fatica dello scrivere” si è esercitata a lungo, divenendo un glorioso cimento, lo scopo di una vita. Di questo l’Autore ha coscienza e non sono poche le testimonianze che descrivono l’impegno, per non dire l’aπanno, con cui l’opera è scritta, ristrutturata, corretta e seguita nella sua prima diπusione: occorre difendersi da stampatori poco scrupolosi, solleciti del guadagno, non dei pregi di una scrittura, prodotta «con sì leggiadra et sì pulita lingua». 1 Di questo “eterno lavoro” c’è più di una traccia nella tradizione manoscritta del Cortegiano. In particolare, il codice Laurenziano, che insieme ad altri quattro testimoni manoscritti ebbe «una circolazione confidenziale», prima dell’edizione aldina del 1528, e che è posto a fondamento delle edizioni moderne dell’opera, presenta le tracce di una «complessa e tormentata elaborazione», operata dalla mano dell’autore e da altre mani. 2 Ghino Ghinassi, lo studioso che più di altri ha contribuito a illustrare la composizione dell’opera, fornendo l’edizione critica della seconda redazione, osservava che cinque manoscritti, tutti provenienti dallo scrittoio di Castiglione, «costituiscono una tradizione evolutiva strettamente compatta, al punto da sembrare appositamente confezionati per raccogliere e quasi riassumere l’intero processo elaborativo» (Ghinassi 1967/2006: 210). 3  





• Gli abbozzi di casa Castiglioni (A), la prima stesura (o nucleo genetico), interamente autografa, risalente agli anni 1513-1514, contiene un prospetto a grandi linee dell’intera opera, che sarà poi divisa in quattro libri; vi appaiono anche un prologo con l’appello a Francesco I a√nché promuova la crociata contro i Turchi e un testo dedicato alla difesa delle donne, che confluirà nel terzo libro a stampa. Qui di seguito si ricordano i cinque codici che rappresentano la storia del testo. La morte di Guidubaldo da Montefeltro (11-04-1508) segna l’avvio dell’opera, in cui la dedica a Miguel da Sylva è da considerare una fictio. 4 • Il Vaticano Latino 8204 (B), databile negli anni 1514-1515, in bella copia, allestito da un amanuense sorvegliato da Castiglione, che interviene con tracce autografe. Anche tenendo conto di alcune carte che sono passate in A, questo ms. non è completo; contiene i primi due libri della tradizione vulgata e il prologo del libro terzo.  

* I paragrafi centrali di questo saggio riprendono alcune idee elaborate in un mio precedente contributo, v. L’arte del periodo nel “Cortegiano”, nei miei Studi sulla prosa antica, Napoli, Morano, 1992, pp. 445-484. 1   Il giudizio di A. F. Doni è citato e commentato da C. A. Girotto, Aggiornamento bibliografico e ricettività scrittoria nella “Libraria” di Anton Francesco Doni, in Cassiani/Figorilli (2014: 261-279, 271). Sulla revisione dell’opera compiuta da Castiglione e dai suoi collaboratori si veda ora l’approfondita disamina di Quondam (2016), che distingue la tipologia e le varie tendenze della revisione. Lo studioso considera «la storia testuale del Libro del Cortegiano come uno dei monumenti più alti della fatica dello scrivere, uno dei più documentati, e appassionati, laboratori della perfezione classicistica». 2   Cito il testo curato da C. Cordié (1960), che deriva da V. Cian (19474), tenendo conto anche dell’ed. oπerta da B. Maier, Il libro del “Cortegiano” con una scelta delle Opere minori di B. C., Torino, Utet, 19813. Per l’Introduzione e le note ho avuto presente anche l’ed. curata da W. Barberis (1998). Sull’opera di C. v. Atti Castiglione 1998. 3   Ghinassi (1967/2006: 207-257), v. anche Ghinassi (1963/2006: 161-206). 4   Cfr. Quondam (2000: 244). Il Cortegiano fu dedicato dapprima ad Alfonso Ariosto, poi a Miguel da Sylva, cardinale e diplomatico portoghese, famoso umanista, morto nel 1556. La lettera dedicatoria non appare nel ms. Laurenziano-Ashburnhamiano 409, ma nella princeps aldina del 1528.

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• Il Vaticano Latino 8205 (C), che è «il primo a portare una redazione completa del Cortegiano», è datato negli anni 1515-1516; è allestito da due amanuensi ed è interessato da copiosi e radicali interventi di autore (che inserisce parti nuove) e di altre mani. Questo ms. conclude il percorso elaborativo, che va, nell’allestimento del copista, da A a B e quindi a C, e che rappresenta la forma precedente e autonoma rispetto alla revisione operata da Castiglione su questo manoscritto. Rispetto alla princeps del 1528, C presenta un struttura diversa, soprattutto nel terzo libro, corrispondente ai libri terzo e quarto della princeps. Quondam (2000: 73) sostiene che la prima redazione fu terminata nel 1520. • Il Vaticano Latino 8206 (D), che «rappresenta nel suo testo originario, opera di quattro amanuensi, la bella copia di C, reso ormai di√cilmente leggibile dalle ampie e numerosissime correzioni»; questo ms., che accoglie la revisione operata da Castiglione su C e tiene conto delle osservazioni di Alfonso Ariosto, Bembo e Sadoleto, lettori dell’opera negli anni 1518-1520, costituisce la seconda redazione del Cortegiano, portata a termine tra il 1520 e il 1521, e pubblicata come testo autonomo da Ghinassi (1968). • Il Laurenziano-Ashburnhamiano 409 (L), «che presenta un testo originario, successivo e assai più avanzato di D, sottoposto a ulteriore revisione da parte del Castiglione e di altre mani d’amanuensi e amici»; è opera di un amanuense che conclude il suo lavoro a Roma il 23 maggio 1524. «Il terremoto testuale», che caratterizza il passaggio dalla seconda redazione al Laurenziano, «riguarda in modo pressoché esclusivo il terzo libro» (Quondam 2000: 233). Il Laurenziano, che è l’unico testimone datato, fu portato nel 1525 in Spagna dallo stesso Castiglione, che lo spedirà poi alla tipografia veneziana per la stampa. Sono riportati i numerosi interventi dell’autore e di altre mani (nonché le tracce del lavoro tipografico); rispetto alla seconda redazione, contenuta in D. Il ms. Laurenziano, che contiene varianti di rilievo, 5 è stato assunto a testo in tutte le edizioni moderne, a cominciare da quella di Cian. Ma il Laurenziano è autografo solo in minima parte (Ghinassi 1963/2006: 161-206, cit. in Quondam 2000: 103). Non esiste un’edizione critica del Cortegiano.  

La struttura dell’opera ha resistito alle rielaborazioni autoriali: quattro libri nella prima redazione, tre nella seconda, di nuovo quattro nella quarta (iniziata a Mantova nel 1523 e terminata nel maggio 1524 a Roma). La cornice viene disegnata tra i capitoli II e VI del primo libro, che rappresentano quasi un prologo alla recita dei ragionamenti. Urbino è la corte ideale, rifugio «nelle calamità universali delle guerre della Italia» (Co I, ii, p. 16): è un luogo della memoria che non esiste più, ma che rivive potentemente nel ricordo di chi lo ama. A diπerenza di tanti sfondi che rendono attraenti narrazione e narratori ma che non hanno alcun rapporto con l’autore, Urbino è un mondo descritto da un testimone che lo ha frequentato per lungo tempo. La partecipazione aπettiva è al fondamento del Cortegiano. «Meno fortunato di altre opere-chiave del Rinascimento, dall’Orlando dell’Ariosto ai Ricordi del Guicciardini, il Cortegiano non usufruì mai di un’indagine che ne chiarisse definitivamente la preistoria e recuperasse nella loro organica totalità i materiali perduti durante il lungo periodo della gestazione». Le parole di rammarico di Ghinassi (1967/2006: 207) appaiono oggi, a distanza di cinquant’anni, superate grazie alle ricerche condotte successivamente dallo stesso studioso e da altri, con una mole imponente di studi. Un mito del Rinascimento, l’uomo che ha raggiunto un equilibrio, che è padrone dei suoi sentimenti, delle sue azioni e del suo destino, ispira la scrittura. Diventare il consigliere del principe resta un fine secondario, reso marginale da un progetto più alto: costruire un modello di vita e di pensiero in cui tutte le qualità e le capacità umane raggiungano la perfezione. 5   Un quadro riassuntivo dei testimoni è oπerto da Ghinassi (1967: 156-157); cfr. anche Quondam (2000: 91-94). Nel programmare la sua opera Castiglione è ricorso a schemi in prosa espositiva, a volte in latino (Zorzi Pugliese 2001: 60).

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Sulla storia del Cortegiano, gli ambienti che l’hanno visto nascere e le pratiche della sodalitas umanistica ha indagato Amedeo Quondam, che, prendendo lo spunto da una nota dello Zibaldone leopardiano, in cui si celebra la perfezione della scrittura del dialogo (p. 1431, n. 2683), ha invitato a compiere «una profonda riflessione sugli statuti della comunicazione letteraria» nei primi decenni del secolo xvi. Modelli di comportamento nell’ambiente delle corti, il Cortegiano e gli Asolani presentano una visione antropologica dell’aristocrazia cortigiana; attraverso i nobili conversari, si rivela l’immagine di una classe che dallo scambio dialogico, dal confronto delle idee, trae la sua forza: «ognuno si ponea a sedere a piacer suo, o come la sorte portava, in cerchio». Il Risorgimento ha espresso un giudizio negativo su questa società e sul periodo storico che l’ha vista prosperare, ma è un giudizio da correggere alla luce di una più matura riflessione sui caratteri e la natura del Rinascimento. 6 La sodalitas umanistica è confermata dai rapporti che legano i due autori: nel quarto libro del Cortegiano la scena è occupata a lungo da Bembo che, con tono ispirato, parla dell’amore platonico. Nelle Prose, concepite e in parte scritte nella corte d’Urbino prima del 1512, dei quattro interlocutori, due, Giuliano de’ Medici e Federigo Fregoso, compaiono anche nel Cortegiano. Il dialogo nella corte di Urbino tra coloro che sono ivi convenuti per onorare il passaggio di Giulio II e «il ragionamento [...] in Vinegia fatto, alquanti anni addietro, in tre giornate» si svolgono in ambienti prestigiosi, frequentati da personaggi illustri.  

6. 1. 1. “In Toscana e negli altri lochi della Italia” 7  

Rispondendo a coloro che gli rimproverano di non aver imitato la lingua di Boccaccio (Co Dedica, pp. 10-11), Castiglione aπerma che quando l’autore del Decameron ha scritto, lasciandosi guidare «solamente dall’ingegno ed instinto suo naturale», è riuscito più grande di «quando con diligenzia e fatica si sforzò d’esser piú culto e castigato». 8 Di qui si avvia una difesa dell’uso che della lingua fanno non soltanto i letterati e i dotti, ma anche la classe egemone presente nelle corti d’Italia: «E perché al parer mio, la consuetudine del parlare dell’altre città nobili d’Italia, dove concorrono omini savi, ingeniosi ed eloquenti, e che trattano cose grandi di governo de’ stati, di lettere, d’arme e negoci diversi, non deve essere del tutto sprezzata». Castiglione propone una lingua, da usare nello scritto e nel parlato formale, la quale non è quella dei grandi autori del Trecento e non è piú esclusivamente toscana. Al fiorentino delle Tre corone, promosso da Bembo, e al fiorentino parlato del suo tempo, espressione di un robusto e sempre vivo naturalismo, egli contrappone una lingua fondata su altre basi: «la forza e vera regula del parlar bene consiste piú  

6   Quondam (2000: 15): «Solo da noi il paradigma dell’identità nazionale si costituisce sulla base di una conventio ad excludendum: l’intera lunga storia del Classicismo è trasformata in un disvalore, perché luogo trionfale della vuota forma (cioè senza “contenuto”), obbrobriosa conferma della decadenza morale e della servitù politica». La citazione è da Co I, vi, p. 22. Sulla figura e l’opera di Castiglione si vedano: Mazzacurati (1967, 1968), Guidi J. (1973), Floriani (1976), Gorni (1980), Hanning/Rosand (1983), Paccagnella (1984: 118-23), Quondam (2010). Per comprendere le regole che governano gli scambi rituali che avvengono nella conversazione (complimenti, scuse, oπerta, ringraziamento, auguri, down grading ecc.) v. Kerbrat Orecchioni, III (1994: 149-301). 7  Cfr. Co (I, xxix, p. 52). In Co (I, xxxii, p. 58) si tratta delle parole, «sopra tutto usate ancor dal populo» e delle «parole splendide ed eleganti d’ogni parte d’Italia». 8   Cfr.: «io confesso ai miei riprensori non sapere questa loro lingua toscana tanto di√cile e recondita; e dico aver scritto nella mia, e come io parlo, ed a coloro che parlano come parl’io: e così penso non aver fatto ingiuria ad alcuno» (Co, Dedicatoria a da Silva, p. 11). Secondo Pozzi (1989: 119) «la soluzione ciceroniana (cioè, per il volgare, boccacesca) appariva ancor più assurda e inaccettabile se calata dal livello creativo dell’arte a quello “mediocre” dei rapporti di civile conversazione».

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nell’uso che in altro, e sempre è vizio usar parole che non siano in consuetudine»; non si devono evitare parole nuove, purché utili e mirate a un fine; infatti «il commerzio tra diverse nazioni ha sempre avuto forza di trasportare dall’una all’altra, quasi come le mercanzie, cosí ancor nuovi vocabuli, i quali poi durano o mancano, secondo che sono dalla consuetudine ammessi o reprobati» (Co, Dedicatoria II, p. 9). Inoltre, poiché è comune alle parlate d’Italia l’origine latina, non sembra conveniente rifiutare, ove risulti necessario, l’uso di vocaboli dei nostri padri: Né mi par bona regula quella che dicon molti, che la lingua vulgar tanto è piú bella quanto è men simile alla latina; né comprendo perché ad una consuetudine di parlare si debba dar tanto maggiore autorità che all’altra, che, se la toscana basta per nobilitare i vocabuli latini corrotti e manchi e dar loro tanta grazia che, cosí mutilati, ognun possa usarli per boni (il che non si nega), la lombarda o qualsivoglia altra non debba poter sostener li medesimi latini puri, integri, proprii e non mutati in parte alcuna, tanto che siano tollerabili (ivi, p. 10).

Da tali premesse discende la conclusione: «né credo che mi si debba imputare per errore lo aver eletto di farmi piú tosto conoscere per Lombardo parlando lombardo, che per non Toscano parlando troppo toscano» (ivi, p. 11). Non è casuale il confronto tra la situazione dell’Italia e quella della Grecia antica, che conosceva cinque varietà di lingua; né appare improprio il richiamo alla koinè greca a sostegno della tesi italianista. Castiglione condanna l’imitazione, ma tra i due partiti di coloro che sostengono l’insegnabilità dell’arte (Cortese, Bembo, e poi Salviati) e di coloro che ritengono che unico maestro sia l’ingegno (Poliziano, Gian Francesco Pico, poi Borghini), sceglie una via mediana. La lingua è lo strumento dell’umana conversazione, non è aere perennius, la lingua non è immortale, come mostra di credere Bembo, la lingua serve per esprimere i concetti dell’animo; separare i pensieri dalle parole equivale a separare l’anima dal corpo. E, perché voi dite che le parole antiche, solamente con quel splendor d’antichità, adornan tanto ogni subietto, per basso ch’egli sia, che possono farlo degno di molta laude, io dico che non solamente di queste parole antiche, ma né ancor delle bone faccio tanto caso ch’estimi debbano senza ’l suco delle belle sentenzie esser prezzate ragionevolmente; perché il divider le sentenzie dalle parole è un divider l’anima dal corpo: la qual cosa né nell’uno né nell’altro senza distruzione far si po. Quello adunque che principalmente importa ed è necessario al cortegiano per parlare e scriver bene, estimo io che sia il sapere; perché chi non sa, e nell’animo non ha cosa che meriti esser intesa, non po né dirla né scriverla. Appresso bisogna dispor con bell’ordine quello che si ha a dire o scrivere; poi esprimerlo ben con le parole: le quali, s’io non m’inganno, debbono esser proprie, elette, splendide e ben composte, ma sopra tutto usate ancor dal populo; perché quelle medesime fanno la grandezza e pompa dell’orazione, se colui che parla ha bon giudicio e diligenzia, e sa pigliar le più significative di ciò che vol dire ed inalzarle, e come cera formandole ad arbitrio suo collocarle in tale parte e con tal ordine che al primo aspetto mostrino e faccian conoscer la dignità e splendor suo, come tavole di pittura poste al suo bono e natural lume (Co I, xxxiii, p. 58).

Le edizione moderne del Cortegiano riproducono sostanzialmente il ms. Laurenziano, che contiene la forma definitiva del testo vulgato, in una versione assai più a√dabile dell’edizione aldina del 1528. Anche da un esame sommario appare chiaro che Castiglione adotta una lingua non legata a modelli antichi, ma moderatamente mescidata, nella quale non è osservata una norma unitaria e non

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mancano allotropi. Accanto a forme toscane ve ne sono settentrionali e “cortigiane”; numerosi e di vario carattere sono i latinismi: auditore, capere, cubito ‘gomito’, estimare (e derivati), pascere, per transito ‘di sfuggita’, procedere, satisfare (e derivati), usare ‘essere solito’. Nel dialogo, in due riprese, si discute, fornendone le motivazioni culturali, della possibilità di usare latinismi: le coppie di vocaboli (allotropi) audace-aldace, Capitolio-Campidoglio, onorevole-orrevole, populo-popolo sono presentate in Co I, xxxv. 9 Per mostrare da quali basi linguistiche partiva il giovane Castiglione basta leggere qualche riga di una lettera a Mario Fiera, il 16 novembre 1497:  

Ben vorei quando me scriveti, che met in opera un folio, e féstive le rige strete: ch’io ho tanto più apiacere quanto più grande son le lettere vostre. Vorei voluntiera che fusseno tanto longe ch’io stesse un dì integro a lezerne una: che me pareria star tanto cum voi. Io facio oratione ogni dì che bisognati vegnir a Miano, e me pare pura che l’oratione mie doveriano esser exaudite. Non ve scrivo che me avisate de le cose grande, ma sol de quelle che apartegnono a nui (Lettere 2016, I: 3).

Nella grafia, nella fonetica e nella morfologia appare una mescolanza di forme toscane, settentrionali e latineggianti, talvolta in contraddizione tra loro. Non sono poche le scelte fonomorfologiche contrarie alla norma bembiana: la monottongazione dei dittonghi: manera, mei ‘miei’, bono, core, loco, omo, omini, percote, po ‘può’, sol(e) ‘suole’, vole, v. anche figliolo; il dittongamento “cortigiano” appare in lieva e in niego; si notano eccezioni del vocalismo atono fiorentino: de ‘di’, me ‘mi’, se li ‘gli si’, de-: devora; manca l’anafonesi: adonque, giongere, gionse; piuttosto frequentemente appare -ar- preatono: imitaremo, intrarò, laudarei, pensarò, restarò, vecchiarella; nel consonantismo notiamo: commerzio, edifizii, franzesi; anci (accanto ad anzi), condicioni, deliciosi, giudicio, negocio, noticia, preciose, spacio, vicii, viciosa; è usato costantemente lassare ‘lasciare’ e derivati. Ricorrono in ogni pagina le forme latineggianti: diligenzia (21 occorrenze), eleganzia, sentenzia, constantissimamente, constretti, escusazione, indutto, instinto, introdutti, lauda e laudare (e forme derivate), licito, regula, satisfatti, seculi, suavissimi, suavità, subietto, sustanzia, titulo, vocabuli, vulgare, vulgo. Notiamo: il plurale del tipo le moglie (Co III, xxi, p. 226), ma le parti (Co II, xv, p. 110), le Piramide V(Co IV, xxviii, p. 315); il metaplasmo di classe nominale in: cavaliero (Co II, lxxxv, p. 187) e passim, mestiero (Co II, lxxxv, p. 188), tesauriero (Co IV, xxxvi, p. 321), v. Trolli (1972: 72-73). Aggettivo possessivo suo in luogo di loro: «se gli [scil. i loro desideri] consegueno, si trovano aver conseguito il suo male e finiscono le miserie con altre maggior miserie» (Co IV, lii, p. 340); pronome relativo chi ‘il quale’: «opinion di coloro di chi si scrive» (Co III, i, p. 205). Nella morfologia verbale, accanto al maggioritario -iamo, sono frequenti forme del tipo: avemo, ritrovamo, speramo, vedemo, volemo; alcuni casi della 2a pers. plur. dell’ind. pres. in -ati: perdonatime (Co III, xlvi, p. 254); da notare la 3a pers. plur. ponno ‘possono’ (Co I, xxiv, p. 45). I condizionali aria, bastaria, contrastariano (Co IV, viii, p. 295), converria, devria, porria, saria, lassariano, vederessimo ‘vedremmo’ (Co I, xxxv, p. 60) convivono con addurrei (Co I, xv, p. 34), metterei, mostrarei (Co III, ii, p. 205), vorrei, avrebbe, farebbe, nascerebbe, sarebbe (Co I, liv, p. 88); assuefaremmo, saremmo, vederemmo. Le forme del congiuntivo fussi, fusse, fussero si alternano con fosse, fossero; avessero, facessero, vivessero costeggiano difendessino, facessino, ponessino. Appare un isolato trovo ‘trovato’ (Co I, xxvi, p. 47). Nei pronomi personali si notano due esempi di sui ‘suoi’ (Co I, v, p. 20 e xiv, p. 32), altrimenti sempre suoi; è assente sua ‘suoi’. Tra i numerali è costante dui, v. anche dieceotto (Co II, iii, p. 97).

Nella scrittura del ms. Laurenziano sono intervenute varie mani: quella di Castiglione si riconosce facilmente; sulle altre rimangono dubbi; la mano cui si deve la 9

  Su prestigio del toscano parlato nel Cinquecento v. Castellani (2009, i: 192-193).

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lezione definitiva non è sempre quella dell’autore, al quale risalgono importanti e frequenti correzioni della grafia e della fonomorfologia; meno frequenti sono le correzioni sintattiche e lessicali (Ghinassi 1963/2006: 161-206). Interessa particolarmente il passaggio di forme cortigiane a forme toscane. 10  

La semiocclusiva palatale, «propria delle abitudini grafiche settentrionali» (Vitale 2012: 80), è sostituita dalla semiocclusiva dentale: sforcino > sforzino, force > forze, scherci > scherzi, dance > danze; si passa da brazza a braccia e, per ipercorrettismo, da pazzia a paccia; cfr. ancora meggio > mezzo; scompaiono due settentrionalismi: giaccio > ghiaccio e palagio > palazzo. 11 S’introducono latinismi: pericolo > periculo, regole > regule, oppenione > opinione; ma avviene anche il fenomeno inverso: patre e matre, varianti umanistico-cortigiane, sono sostituite con padre e madre. Castiglione corregge sé stesso passando dalla forma cortigiana cognoscere a conoscere; abbandona adonche, giongere, vento ‘vinto’, spento ‘spinto’, per adottare le forme toscane con anafonesi: lingua, vinto, lungo, adunque; la e pretonica si riduce a i: de > di e respose > rispose, il pronome riflessivo di quarta persona si/se passa a ci /ce. Nella morfologia verbale avvengono importanti mutamenti: seria > sarebbe, harria > harebbe, daria > darebbe; «gl’interventi del Castiglione, non sistematici, tendono a introdurre latinismi e a eliminare regionalismi (con molte incoerenze: arroscire e lisso vengono toscanizzati in arrossire e liscio, ma resta sceme ‘seme’ poi corretto da altra mano)» (Serianni 1993 : 491).  

Superata la metà del Cinquecento, in Italia non si parla più di “lingua cortigiana”. Sull’idea o concetto di questa varietà o mescolanza di varietà cade l’oblio per un lungo periodo. All’inizio del Novecento Pio Rajna riprenderà la questione per negarla: nella Roma papale non ci fu mai una “lingua cortigiana”. In seguito C. Dionisotti, G. Folena, A. Quondam e V. De Caprio, hanno sostenuto, con vari argomenti, che tale varietà non è esistita in alcuno dei centri di potere dell’Italia di quel secolo. Altri studiosi invece ritengono che gli scambi di testi scritti tra le cancellerie degli Stati italiani abbiano favorito la nascita di un volgare scritto italianizzato di ampia circolazione. Durante (1981: 151-156) ha interpretato il fenomeno come uno dei primi tentativi, sia pure incerto e discontinuo, di lingua unitaria di base toscana operante nella Penisola. Più di recente la discussione è ripresa su nuovi fondamenti. Si è tenuto conto di un ampio repertorio di testi di carattere pratico e documentario dei secoli xv e xvi (corrispondenza privata, relazioni di ambascerie, documenti amministrativi ecc.), venuti alla luce in anni recenti, scritture che testimoniano dell’esistenza di vari fenomeni di adeguamento e di conguaglio linguistico. Il discorso sulla lingua cortigiana si è sviluppato lungo nuovi percorsi: «la produzione scrittoria delle cancellerie nel suo complesso comporta il tendenziale abbandono di tratti linguistici municipali, e la graduale formazione e stabilizzazione di un modello regionale o sovraregionale. Questo processo è di grande importanza per il futuro della lingua italiana» (Tavoni 1992a: 47-48). Di qui avrebbe preso l’avvio la formazione di varietà regionali aventi una base non toscana, destinate a una circolazione circoscritta, escluse dalla stampa e soggette, inevitabilmente, a una progressiva toscanizzazione (cfr. 5.3.). 10   Per i tipi di Bulzoni (Roma, 2016) sono apparsi due volumi, curati da Amedeo Quondam, i quali permettono di osservare minutamente l’imponente lavoro correttorio che è a monte della pubblicazione dell’opera: Baldassarre Castiglione, Il libro del Cortegiano. 1. La prima edizione nelle case d’Aldo Romano e d’Andrea d’Asola suo suocero, Venezia, aprile 1528; Idem, Il libro del Cortegiano. 2. Il manoscritto di tipografia (L) Biblioteca Medicea Laurenziana, Ashburnhamiano 409. 11   «Sono inoltre da considerare come dipendenti da uno sviluppo fonetico settentrionale le voci toscane (o la maggior parte delle voci toscane) nelle quali si ha una sibilante palatale sonora in corrispondenza del nesso latino -ti˛ -: palagio, pregio, e -igia, accanto a -ezza e -izza; -agione, -igione accanto a -azione e -izione» (Castellani 2000: 136).

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Castiglione e il teorico della teoria cortigiana, il Trissino, chiamano “italiana” questa lingua tendenzialmente comune. 12 Le lettere di Alessandro VI Borgia rivelano l’esistenza, nella curia pontificia, di una varietà colta, che si distingue sia dal toscano sia dal romanesco toscanizzato in uso nella fascia medio-bassa della popolazione della città; e tuttavia «Privilegiando di fatto l’umanesimo latino rispetto alla letteratura volgare [...], Roma si precludeva la possibilità di divenire il centro egemone di una koinè italiana aulica, alternativa (ma neppure troppo) al fiorentino arcaizzante portato al successo dal Bembo» (Trifone 1992: 39). Il Libro de natura de amore di Mario Equicola propone un tipo linguistico alternativo sia al toscano trecentesco degli Asolani (1505) sia al fiorentino coevo; vi appare infatti una scrittura che s’ispira a modelli umanistici; si rivela con chiarezza «quel legame che ricongiunge la teoria cortigiana [...] con la fisionomia delle koinè quattrocentesche, le cui peculiarità (tendenze al conguaglio regionale, frequente impiego di latinismi lessicali, moderato accoglimento dei tratti del toscano aureo) sono state messe in luce in base a documenti venuti alla luce negli ultimi decenni: testi letterari, carte d’u√cio, spacci diplomatici, lettere, diari e altre scritture private» (Ricci L. 1999: 12). Osservando il rapporto tra scritto e parlato nonché le variabili sociolinguistiche vigenti nell’Italia del primo Cinquecento, Giovanardi (1998) ha considerato la “lingua cortigiana”, come «una sorta di “supernorma”, fondata su un canone ristrettissimo di autori toscani classici», e avente come centro la corte di Roma. 13  



6. 1. 2. Lontano da Bembo Io ho tanto desiderio d’haver la grammatica del Bembo, che havendola per qual si voglia via mi serà carissimo; però, se avete modo di farla transcrivere, mi farete gratia singulare.

Quanto il nostro, scrive ad Andrea Piperario, da Toledo il 25 luglio 1525 non deve trarre in inganno: è una manifestazione di cortesia; la distanza tra i due scrittori rimane grande. 14 Proponendosi quale fine precipuo «la membratura e la proporzione delle frasi» (Segre 1963: 361), Castiglione manifesta intendimenti diversi da quelli di Bembo, attento a ricercare, con una studiata disposizione delle componenti del periodo, una continua modulazione ritmica. Due ideali stilistici si fronteggiano, l’uno aperto a una scrittura che interpreta originalmente gli ideali del classicismo rinascimentale, l’altro attento a riproporre forme del passato. 15 Se gli Asolani imitano un modello, il Cortegiano innova; le suggestioni culturali si fondono in una scrittura che, mediante l’equilibrio delle forme, disegna «un ritratto di pittura della corte d’Urbino [...], le proprietà e le condicioni di quelli che vi sono nominati», la «formazione con parole» del perfetto cortigiano. A tal fine muove anche una testualità che ordina i temi secondo equilibrate successioni e ne assicura l’e√cacia dimostrativa.  



12   Sui nomi della lingua tra Medioevo e Rinascimento, vedi: Ghinassi (1988: xix-xxi), Giovanardi (1998: 75-109); per le denominazioni vigenti nel sec. xvi v. la pregevole ricerca di Tomasin (2011: 85-108). 13   Secondo Giovanardi (1998: 62) «il romanesco sempre più smeridionalizzato e delocalizzato di cui troviamo abbondante testimonianza a partire dalla seconda metà del Quattrocento, [ha] rappresentato la piattaforma di riferimento dei teorici cortigiani gravitanti attorno alla corte di Roma». Drusi (1995) ritiene invece che tale varietà, privata dei suoi tratti originari, sia stata una lingua veicolare in uso presso gruppi molto ristretti di utenti. 14   B. Castiglione, Lettere inedite e rare, a cura di G. Gorni cit., p. 105; ometto le parentesi uncinate che racchiudono le lettere ricostruite per congettura. 15   Sulla lingua del Cortegiano v.: Cian (1942) e la recensione di Dionisotti (1952), Dardano (1992: 445-482).

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La lingua non accoglie sempre le forme bembiane: conserva il proprio satisfatto, respingendo il sodisfatto delle Prose e conserva vocali toniche e atone latine: bono, nocere, omo, po ‘può’, vol ‘vuole’; periculo, regule; ma da Bembo accoglie altre indicazioni: l’articolo el diventa il, forse elimina forsi; si hanno sostituzioni significative: cognoscere > conoscere, meggio > mezzo, oppenione > opinione; mutano le forme verbali: cadeno > caggiono, deveno > devono, forno > furono. Si riduce un tipico cortigianismo come la 2a pers. plur. in -ati: ascoltati > ascoltate, perdonati > perdonate (Ghinassi 2016: 161-206). Al pari dell’Orlando furioso e del Principe, il Cortegiano è un’opera fondativa del nostro Rinascimento, dove appare «quella bellezza che è suprema compostezza, ordine ed armonia delle parti», tanto che «l’arte del cortigiano diventa così simbolo di un’altissima condizione spirituale; e il libro, che ne discorre, uno dei primi e più alti tentativi di concepire in maniera organica e con perfetta coerenza l’educazione dell’uomo» (Sapegno N. 1954, ii: 32). Castiglione fonde in modo creativo l’elemento cavalleresco e quello umanistico, entrambi presenti al suo spirito. 16 Qui è la fonte di uno stile lontano dall’esuberanza e volto a una nobile sobrietà, atta ad accordare tra loro la lezione dei classici, le regole del vivere a corte e le pratiche di governo. Un atteggiamento fondamentale di serenità emerge da ogni pagina dell’opera: vera aequitas animi che regola il succedersi dei temi nel flusso del dialogo. Insegnamenti, riflessioni, brani descrittivi, aneddoti e scherzi si susseguono in una scrittura priva di tensioni. Di questa rispondenza tra humanitas e stile è simbolo la sprezzatura (Co I, xxvi, p. 47), che riguarda le azioni, gli atteggiamenti e la scrittura. La riflessione sulla lingua da adottare, mentre dissimula il disinteresse per le teorie, è un richiamo a una giudiziosa libertà nei riguardi dei modelli. 17 Un’elegante dispositio delle parti genera una prosa in cui all’argomentare si alternano brani narrativi e, nella cornice, scambi di rapide battute. Riferendo l’analisi delle forme sintattiche e testuali a un’interpretazione complessiva dello stile, s’individuano le tendenze della scrittura. Appare innanzi tutto la chiarezza compositiva, ottenuta mediante la ripetizione di strutture di base: la secondaria anteposta alla principale, la relativa estesa, le parentetiche, i sintagmi di ripresa. Un tenue contrasto alla chiarezza compositiva è realizzato da tendenze retoriche, presenti nelle parti di maggior impegno argomentativo (il discorso di Bembo sull’amore platonico) e che producono fenomeni quali: la reggenza a lunga gittata, l’intreccio di avverbiali, le figure della correlazione. Un argomentare vario, ma selettivo nelle scelte, adeguato ai nobili partecipanti del dialogo, evita ogni oltranza stilistica. La chiarezza compositiva e le tendenze retoriche si confrontano infine con un’attitudine analitica, che si rivela tra l’altro nella scelta dei nessi subordinanti e nei caratteri dell’esposizione. Aver individuato queste quattro istanze compositive aiuta a descrivere i caratteri della sintassi e della testualità, che traducono nella scrittura i contenuti argomentativi, espositivi, celebrativi e narrativi del Cortegiano. La chiarezza compositiva appare  



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  Maier (1964: 900); cfr. anche Aguzzi Bardagli (1961).   Secondo Paternoster (2015: 90) l’ideale della sprezzatura unifica nel Cortegiano aspetti divergenti della cortesia linguistica: il discernment della società gerarchica cortigiana e le strutture della cortesia negativa, proprie della società urbana e caratterizzate da rapporti sociali asimmetrici. La cortesia di discernment si rivela negli esordi ritualizzati con cui gli interlocutori iniziano a parlare. Lodovico Dolce applica questo vocabolo-chiave alle arti: «In questo [si tratta della coloritura delle stoπe] mi pare che ci si voglia una certa convenevole sprezzatura, in modo che non ci sia né troppa vaghezza di colorito, né troppa politezza di figure, ma si vegga nel tutto una amabile sodezza» (in Barocchi 1960, I: 185; mio il c.vo). Cfr.: R. Mercuri, Sprezzatura e aπettazione nel “Cortegiano”, in Letteratura e critica. Studi in onore di Natalino Sapegno, vol. ii, Roma, Bulzoni, 1975: 227-274; P. Petteruti Pellegrino, La “diligente diligenza” fra sprezzatura e “gravitas”, in Le parole “giudiziose”. Indagini sul lessico della critica umanistico-rinascimentale. Atti del seminario di studi (Roma, 16-17/6/2006), a cura di R. Alhaique Pettinelli, S. Benedetti e P. Petteruti Pellegrino, Roma, Bulzoni: 327-372. 17

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innanzi tutto nell’argomentazione. Sono assenti le enumerazioni e suddivisioni del ragionamento scolastico; risalta la sprezzatura di una prosa che accorda la tendenza analitica e raziocinante a un ideale di compostezza e di eleganza formale. Ecco le dimostrazioni del magnifico Iuliano: Della imperfezion delle donne parmi che abbiate addutto una freddissima ragione; alla quale, benché non si convenga forse ora entrar in queste suttilità, rispondo, secondo il parere di chi sa e secondo la verità, che la sustanzia in qualsivoglia cosa non po in sé ricevere il più o il meno; ché, come niun sasso po esser più perfettamente sasso che un altro quanto alla essenzia del sasso né un legno più perfettamente legno che l’altro, così un omo non po esser più perfettamente omo che l’altro, e conseguentemente non sarà il maschio più perfetto che la femina quanto alla sustanzia sua formale, perché l’uno e l’altro si comprende sotto la specie dell’omo, e quello in che l’uno dall’altro son diπerenti è cosa accidentale e non essenziale (Co III, xii, p. 216).

La struttura sintattica del brano non presenta tratti salienti, se non l’evidenza concessa alla comparazione («come niun sasso ... così un omo»), al succedersi delle incidentali («benché non si convenga ... secondo il parere di chi sa»), ai collegamenti («alla quale ... rispondo..., e conseguentemente»); è esclusa l’elaborazione retorica che abbia in se stessa la sua giustificazione. Come si è accennato, il dettato stilisticamente elaborato si accorda alla mimesis del partecipante al dialogo. Nell’ampio discorso di Bembo sull’amore platonico, ritornano alcuni moduli degli Asolani, ma ricontestualizzati e privati di ogni artificiosità e oltranza. Si confronti, nelle due opere, la definizione dell’amore: Dico adunque che, secondo che dagli antichi savii è di√nito, Amor non è altro che un certo desiderio di fruir la bellezza; e, perché il desiderio non appetisce se non le cose conosciute, bisogna sempre che la cognizion preceda il desiderio: il quale per sua natura vuole il bene, ma da sé è cieco e non lo conosce. Però ha così ordinato la natura che ad ogni virtù conoscente sia congiunta una virtù appetitiva; e, perché nell’anima nostra son tre modi di conoscere, cioè per lo senso, per la ragione e per l’intelletto: dal senso nasce l’appetito, il qual a noi è commune con gli animali bruti; dalla ragione nasce la elezione, che è propria dell’omo; dall’intelletto, per lo quale l’om po communicar con gli angeli, nasce la voluntà. Così adunque come il senso non conosce se non cose sensibili, l’appetito le medesime solamente desidera; e, così come l’intelletto non è vòlto ad altro che alla contemplazion di cose intelligibili, quella volontà solamente si nutrisce di beni spirituali (Co IV, li, p. 338).

Alcune formule e riprese discorsive («Dico adunque che ... non è altro che ... Però ha così ordinato la natura ... Così adunque come il senso») sottolineano i passaggi argomentativi, i quali sono evidenziati anche con altri mezzi: il parallelismo, la precedenza della secondaria alla principale, la suddivisione del periodo in membri tra loro corrispondenti: «tre modi di conoscere ... per lo senso, per la ragione e per l’intelletto: dal senso nasce ... dalla ragione nasce ... dall’intelletto ... nasce». I rapporti tra le proposizioni ottengono un grande risalto; mancano le interposizioni estese, gli iperbati e le reggenze a lunga gittata. Negli Asolani la linea sintattica è spezzata da lunghe incidentali; simmetrie e parallelismi artificiosi rallentano lo svolgimento del periodo, come sempre percorso da clausole e rispondenze ritmiche; qui di seguito, per facilitare l’analisi introduco alcuni accapo e una numerazione: Dico adunque, Madonna, che B1 con ciò sia cosa che Amore niente altro è che disio, RI il quale come che sia d’intorno a quello che c’è piaciuto si gira,

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castiglione C1 perciò che amare senza disio non si può, o di goder quello che noi amiamo o d’altramente goderne, che noi non godiamo, o di goderne sempre, o di bene, che noi con la volontà all’amate cose cerchiamo; B2 et disio altro non è che amore, C2 pe ciò che disiderare cosa che non s’ami non è di nostra possa, né può essere in alcun modo: A ogni amore et ogni disio sono quel medesimo et l’uno et l’altro (As III, v).

Si allacciano legami tra proposizioni tra loro distanziate e a tal fine si adottano modi discorsivi prossimi al ragionamento scolastico. B1 e B2 sono due concessive che precedono la principale A; B1 è seguita da una relativa R1, cui si aggiunge un’esplicativa C1; la relativa manca invece dopo B2. Vi sono reggenze a lunga gittata: «Dico ... che ... ogni amore et ogni disio sono»; la congiunzione con ciò sia cosa che non è ripetuta dinanzi a B2. Si notino alcuni rapporti: B1 è più estesa di B2, C1 è di gran lunga più estesa dell’esplicativa C2. In C1 da disio dipendono tre infiniti con segnacaso o di goder ... o d’altramente goderne ... o di goderne sempre; infine appare un sostantivo o di bene, cui segue una relativa che chiude la prima parte del periodo. Dal confronto dei due brani risulta che Castiglione, pur imitando, in questa particolare occasione lo stile di Bembo, opta per una sintassi del periodo capace di far prevalere sulle seduzioni dell’ornato retorico una salda organizzazione delle componenti e una precisa definizione dei rapporti. La novità stilistica del Cortegiano risalta anche da un confronto con la prosa letteraria del sec. xv. Siamo lontani dalle scelte sintattiche e stilistiche di L. B. Alberti, sottese tra latineggiamento e spunti demotici: la sua tendenza sperimentale corrispondeva a una fase di arricchimento delle strutture della lingua. Come si è visto, alla componente ritmica, propria del filone Boccaccio-Bembo, è concesso scarso rilievo; appaiono attenuati i procedimenti dell’ornatus; si evita l’eccesso di determinanti e di avverbiali; le giaciture topologiche escludono l’artificio. Se la struttura binaria rappresenta uno schema adottato in tutta la prosa letteraria, nel Cortegiano, il fenomeno risponde al fine di conservare l’equilibrio del periodo. Fedele a un ideale di assoluta chiarezza compositiva, Castiglione respinge una topologia eccessivamente latineggiante, anche nel Proemio, luogo tipico dell’elaborazione retorica: Fra me stesso lungamente ho dubitato, messer Alfonso carissimo, qual di due cose più di√cil mi fusse: o il negarvi quel che con tanta instanzia più volte m’avete richiesto o il farlo; perché da un canto mi parea durissimo negar alcuna cosa, e massimamente laudevole, a persona ch’io amo sommamente e da cui sommamente mi sento esser amato; dall’altro ancor, pigliar impresa, la qual io non conoscessi non poter condurre a fine, pareami disconvenirsi a chi estimasse le giuste riprensioni quanto estimar si debbano (Co I, 1, p. 14).

Se leggiamo a confronto l’esordio dell’Orator ciceroniano, da cui questo passo deriva, appare evidente che l’impronta del periodare classico si è trasferita senza forzature nel testo volgare: Utrum di√cilius aut maius esset negare tibi saepius idem roganti an e√cere id quod rogares diu multumque, Brute, dubitavi. Nam et negare ei quem unice diligerem cuique me carissimum esse sentirem, praesertim et iusta petenti et praeclara cupienti, durum admodum mihi videbatur, et suscipere tantam rem, quantam non modo facultate consequi di√cile esset sed etiam cogitatione complecti, vix arbitrabar esse eius qui vereretur reprehensionem doctorum atque prudentium. 18  

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  Si cita da Orator, ed. A. S. Wilkins, Oxonii, Typ. Clarendoniano, 1955.

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Il modello suggerisce lo schema costruttivo, il quale però, trasferendosi nel volgare, acquista in esplicitezza: l’interrogativa indiretta disgiuntiva (utrum ... an) è preannunciata da un’interrogativa più breve («qual di due cose più di√cili mi fusse»); i rapporti logici tra le proposizioni sono resi più evidenti mediante una correlazione («perché da un canto ... dall’altro ancor» sostituiscono nam ... et). Si evita di riprodurre sia l’ordine delle parole sia lo svolgimento periodale: «ho dubitato», che traduce dubitavi, è spostato all’inizio del passo; la struttura binaria è riprodotta una prima volta, cfr. quem unice diligerem cuique me carissimum esse sentirem con «a persona ch’io amo sommamente e da cui sommamente mi sento esser amato», ma l’incidentale che segue praesertim et iusta petenti et praeclara cupienti è abbandonata. La coppia di verbi videbatur ... arbitrabar è sostituita con una ripresa «mi parea ... pareami». Al dilemma segue la decisione meditata di chi si vuol mettere alla prova: In ultimo, dopo molti pensieri, ho deliberato esperimentare in questo quanto aiuto porger possa alla diligenzia mia quella aπezione e desiderio intenso di compiacere, che nelle altre cose tanto sòle accrescere la industria degli omini (Co I, 1, p. 14).

I due periodi dell’incipit del Cortegiano mostrano un parallelismo tra l’ordine testuale e la semantica dei due verbi in prima persona: «lungamente ho dubitato ... In ultimo, dopo molti pensieri, ho deliberato»; un aspetto che rivela la forma mentis dell’autore e diventa un carattere fondamentale della testualità dell’opera. Nella versione precedente, la cosiddetta “Seconda redazione”, appariva una studiata simmetria delle componenti: «In ultimo dopo molti pensieri ho eletto più presto essere tenuto poco prudente et amorevole compiacendovi, che savio e poco amorevole non compiacendovi» (Co-Sr, p. 3). Il cambiamento limita la retorica: l’ornatus passa in seconda linea, asseconda un pensiero che governa l’intreccio delle proposizioni, non convergenti verso un polo, ma disposte a rendere naturaliter l’esposizione di concetti. Alla libertà nei confronti del modello corrispondono la brevità dei periodi e la regolata disposizione delle frasi in strutture binarie. Leggendo il Cortegiano riesce di√cile respingere la tesi di un parallelismo di fondo tra pensiero e stile, caro agli studiosi di stilistica, ma discaro a molti linguisti, preoccupati per un’eccessiva espansione del soggettivismo critico a danno dell’analisi linguistica. 6. 1. 3. Le due redazioni La maggior parte dei mutamenti sintattici che intervengono nel passaggio da CoSr a Co non comporta ristrutturazioni frasali; mutano per lo più singoli elementi; si ha, per es., la posposizione di un’infinitiva alla principale: «Però per levar le perturbazioni, non è conveniente estirpar gli aπetti in tutto» (Co-Sr III, xvii, p. 202) → «Però non è conveniente, per levar le perturbazioni, estirpar gli aπetti in tutto» (Co IV, xviii, p. 304); l’evidenziazione di un nesso subordinante: «gli quali [scil. aπetti] se fossero in tutto levati, lassariano la ragione fredda e che poco operar potrebbe, ma languida, come governator di nave abbandonato da’ venti in gran calma» (Co-Sr III, xvii, p. 203) → «li quali, se fossero in tutto levati, lassariano la ragione debilissima e languida di modo che poco operar potrebbe, come governator di nave abbandonato da’ venti in gran calma» (Co IV, xviii, p. 305). Talvolta avviene lo scambio tra una subordinata con verbo finito e un’infinitiva; appare rilevante l’eliminazione contemporanea di una rima e di una clausola ritmica: «se interdicesse che niuno corresse» (Co-Sr III, xvii, p. 202) → «si interdicesse ad ognuno il correre» (Co IV, xviii, p. 304). Altri sono gli eπetti conseguenti alla

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cancellazione e all’inserimento di passi, o alla riformulazione di intere sequenze testuali. Nel primo libro vi sono «due zone di radicale riscrittura» di Co-Sr: si tratta dei discorsi sui giochi, dove avvengono vari scorciamenti e tagli, e sulla questione della lingua, dove, in seguito a una riconsiderazione del problema (Quondam 2000: 129), si verificano sensibili mutamenti. 19 Poesis sine numeris et concentu nil aliud est quam sermo popularis. Che il detto di Platone, mediato da Ficino, debba valere anche per la prosa lo dimostra a chiare lettere l’esordio degli Asolani:  

Suole a’ faticosi navicanti esser caro, quando la notte, da oscuro et tempestoso nembo assaliti et sospinti, né stella scorgono, né cosa alcuna appar loro, che regga la lor via, col segno della indiana pietra ritrovare la tramontana, in guisa che, quale vento so√ et percuota conoscendo, non sia lor tolto il potere et vela et governo là, dove essi di giugnere procacciano o almeno dove più la loro salute veggono, dirizzare; et piace a quelli, che per contrada non usata caminano, qualhora essi, a parte venuti dove molte vie faccian capo, in qual più tosto sia da mettersi non scorgendo, stanno in sul piè dubitosi et sospesi, incontrare chi loro la diritta insegni, sì che essi possano all’albergo senza errore, o forse prima che la notte gli sopragiunga, pervenire. 20  

La ricerca del ritmo appare già nella frase d’apertura, che sostituisce la precedente lezione «Suole essere a’ naviganti caro»; è confermata dalla disgiunzione, ripetuta più volte, di costituenti normalmente contigui. La dittologia è ripetuta otto volte; l’infinito occupa posizioni di rilievo: «ritrovare la tramontana / il potere et vela et governo ... dirizzare / incontrare chi loro la diritta insegni / all’albergo pervenire». Le due gerundiali conoscendo, scorgendo attuano un parallelismo a distanza e allo stesso modo agiscono i due nessi disgiuntivi o almeno dove, o forse prima che. 6. 2. L’arte del periodo Per questa parte dell’analisi recupero il titolo di un mio saggio giovanile, sul Cortegiano. Non saprei definire con un’altra formula la caratteristica fondamentale della scrittura castiglionea, che è uno degli esempi più significativi della rifondazione della scrittura in prosa del primo Cinquecento. L’arte del periodo risalta, tra l’altro in tre fenomeni che si ripetono nell’opera: l’ordine dei costituenti, la tecnica delle parentetiche e degli incisi inseriti nei periodi con fini chiarificativi, commentativi e attenuativi, l’equilibrio ottenuto con le correlazioni e le comparazioni nonché con il bilanciamento procurato dalle numerose condizionali. 6. 2. 1 L’ordine dei costituenti Nel Cortegiano, coerentemente con quanto accade nella prosa letteraria, sono quasi assenti le dislocazioni. Sono invece presenti fenomeni di messa in rilievo del tema. Il soggetto della subordinata è anticipato e quindi tematizzato: «La bona consuetudine adunque del parlare credo io che nasca degli omini che hanno ingegno» (Co I, xxxv, 19   Vediamo che cosa accade nel passaggio (Co-Sr III, xvi, p. 201) > (Co IV, xviii, p. 302-303): estimaresti (2a pers. plur., desinenza verbale settentrionale) > estimareste; può > po’, fuoco > foco, buon > bon (l’eliminazione di questo dittongo si ripete più volte); lieva > leva; nel capitolo che segue alcuni articoli mutano: il scettro > lo scettro, gli quali > li quali. 20   Cito questo passo dall’ed. Dilemmi (1991: 213); scorgano (ind. o cong.?) è in ed. Marti 1961, p. 11; scorgono è in ed. Dionisotti 1966.

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p. 61). Talvolta è l’intera subordinata a essere tematizzata: «Quelle belle bugie mo, così ben assettate, come movano a ridere, tutti sapete» (Co II, liv, p. 155), «Cesare quanta opera desse ai studii, ancor fanno testimonio quelle cose che da esso divinamente scritte si ritrovano» (Co I, xliii, p. 73). 21 Altri fenomeni hanno minor rilievo. È anticipato, rispetto al reggente a me par il soggetto grammaticale della soggettiva: «quegli che nascono così avventurosi e tanto ricchi di tal tesoro come alcuni che ne veggiamo, a me par che in ciò abbiano poco bisogno d’altro maestro» (Co I, xxiv, p. 45: rispetto a mi pare che quegli ... abbiano). È anticipato un complemento che opera una ripartizione degli argomenti e dei relativi esempi: «E delli omini che noi oggidì conoscemo, considerate come bene ed aggraziatamente fa il signor Galleazzo Sanseverino, gran scudiero di Francia, tutti gli esercizii del corpo» (Co I, xxv, p. 46). L’esclamazione dà spicco al tema nell’inizio del periodo: «che incendio suave credere si dee che sia quello, che nasce dal fonte della suprema e vera bellezza!» (Co IV, lxix, p. 355). Notiamo alcuni particolari nei passi ora citati. In (es. p. 45) il soggetto tematizzato è staccato dal verbo; in (es. p. 46) la tematizzazione riguarda un complemento; negli (ess. p. 61, p. 155, p. 355) il soggetto della subordinata è anticipato al verbo della reggente. In (es. p. 73) nella subordinata prolettica si ha l’ordine SOV. Non si ritrovano esempi con la ripresa di una subordinata anticipata mediante un pronome clitico (tipo Che Mario sia onesto lo credo), ma l’accusativo lo svolge la funzione di complemento di frase. 22 Vediamo ora alcuni passi nei quali alla prolessi della subordinata corrisponde lo spostamento della reggente alla fine del periodo. Il che produce due eπetti; nello stile, introduce una giacitura latineggiante; nell’assetto sintattico e pragmatico, opera un collegamento con quanto precede, attuando al tempo stesso una focalizzazione:  



«E di quanta importanzia siano queste impressioni, ognun po facilmente intendere» (Co I, xvi, p. 35), «E ciò come far si debba nel nostro cortegiano, lasciando li precetti di tanti savii filosofi che di questa materia scrivono, e di√niscono le virtù dell’animo, e così suttilmente disputano delle dignità di quelle, diremo in poche parole» (Co I, xli, p. 71), «e quanto lo desiderasse, io ben lo so» (Co III, xliii, p. 250), «Il fin adunque del perfetto cortegiano, del quale insino a qui non s’è parlato, estimo io che sia il guadagnarsi [...], la benivolenzia e l’animo di quel principe a cui serve» (Co IV, v, p. 292).

Alla dislocazione si oppone la sintassi legata, che è la via intrapresa più di frequente. Tuttavia, nell’ordine delle parole si evitano quelle soluzione artificiose, che ricorrono nel filone Boccaccio-Bembo. L’inversione di elementi posti di norma in successione si presenta con diversi sottotipi. Il soggetto appare posposto: i) al verbo delle didascalie e delle formule di passaggio: «Disse allor il signor Gasparo Pallavicino» (Co II, x, p. 104), «Disse il Bembo» (Co IV, lxiv, p. 350), «Rispose allora il Magnifico» (Co II, xiv, p. 109), «Rise quivi ognuno» (Co I, xlvii, p. 78), «Rise messer Federico» (Co II, xi, p. 105); ii) al gerundio sia presente sia passato: «in ultimo, dicendo la donna, “Qual è adunque il mestier vostro?”» (Co I, xvii, p.37), «Andando adunque il luchese coi suoi compagni verso Moscovia, giunse al Boristene» (Co II, lv, p. 156), 21

  Un simile ordine delle componenti si ritrova nei Dialoghi di Tasso (Bozzola 1999: 77 ss.).   Cfr.: «e se vorrà [scil. il nostro cortegiano] toccar qualche cosa che sia in laude sua propria, lo farà dissimulatamente, come a caso e per transito e con quella discrezione ed avvertenzia, che ieri ci mostrò il conte Ludovico» (Co II, viii, p. 103), «Poiché voi pur così volete, io lo crederò per amor vostro, perché in vero io farei ancor maggior cosa per voi» (Co II, lxxii, p. 174). 22

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«avendo dunque papa Iulio II [...] ridutto Bologna alla obedienza» (Co I, vi, p. 22), «Essendosi dunque ridutta il seguente giorno all’ora consueta la compagnia al solito e loco e postasi con silenzio a sedere» (Co III, ii, p. 205); iii) al verbo finito tematizzato: «Alle pendici dell’Appenino, quasi al mezzo della Italia verso il mare Adriatico, è posta, come ognun sa, la piccola città d’Urbino» (Co I, ii, p. 16), «Attendeva ognun la risposta de la signora Emilia» (Co I, vii, p. 23), «Piacciono molto in una donna i bei denti» (Co I, xl, p. 70); iv) all’ausiliare di un participio passato: «Erano dunque tutte l’ore del giorno divise in onorevoli e piacevoli esercizi» (Co I, iv, p. 18). Particolari varianti dipendono dalla qualità e dall’estensione dell’inserto situato tra il verbo e il soggetto. Osserviamo la tmesi tra ausiliare e participio passato: «e volse il savio maestro che le mani, che aveano a sparger tanto sangue troiano, fossero spesso occupate nel suono della citara» (Co I, xlvii, p. 80), «e per quelli intendesi quanto fossero appresso i gran signori e le republiche sempre onorati» (Co I, lii, p. 85). Si notino altri fenomeni. La posposizione del modale all’infinito: «raccontar non si devrìa» (Co Dedicatoria, p. 7); l’avverbio (o altro determinante) anticipato al verbo cui si riferisce: «chiaro si comprende» (Co II, i, p. 92), «avvenga che ottimamente far lo sapesse» (Co II, vi, p. 99); il distacco dell’ausiliare dal participio passato: «sempre esse state sono a’ musici inclinate» (Co I, xlvii, p. 79). La posposizione dell’ausiliare all’infinito raggiunge un eπetto particolare quando si trova in un breve segmento conclusivo contrapposto a un periodo precedente esteso: «Per esser adunque l’animo senile disproporzionato a molti piaceri, gustar non gli po» (Co II, i, p. 93). Una sottolineatura stilistica (di tono latineggiante) è ottenuta mediante una relativa situata alla fine del periodo e nella quale l’ausiliare è posposto al participio passato: «Il qual [scil. il cortegiano] voglio che nelle lettre sia più che mediocremente erudito, almeno in questi studii che chiamano d’umanità; e non solamente della lingua latina, ma ancor della greca abbia cognizione per le molte e varie cose che in quella divinamente scritte sono» (Co I, xliv, p. 74).

Queste giaciture compongono un ornatus sobrio, che è la cifra stilistica del dialogo e che si complica (moderatamente) nei passi in cui si ricercano particolari eπetti espressivi. Si è già detto che la precedenza della secondaria alla principale è attuata in modi lineari, senza forzature; il fine è espositivo e argomentativo: in Castiglione prevale la strutturazione sintattica, in Bembo l’intento retorico. Riportiamo due esempi di tale assetto, nei quali la ricchezza degli accessori, ben trattenuta in una struttura calibrata, non compromette l’architettura dell’insieme: e, come nell’animo mio era recente l’odor delle virtù del duca Guido e la satisfazione che io quelli anni aveva sentito della amorevole compagnia di così eccellenti persone come allora si ritrovarono nella corte d’Urbino, fui stimulato da quella memoria a scrivere questi libri del Cortegiano (Co, Dedicatoria, p. 5). E, perché la laude del ben far consiste precipuamente in due cose, delle quai l’una è lo eleggersi un fine dove tenda la intenzion nostra, che sia veramente bono, l’altra il saper ritrovar mezzi opportuni ed atti per condursi a questo bon fine desegnato, certo è che l’animo di colui, che pensa di far che ’l suo principe non sia d’alcuno ingannato, né ascolti gli adulatori, né i maledici e bugiardi e conosca il bene e ’l male ed all’uno porti amore, all’altro odio, tende ad ottimo fine (Co IV, v, p. 292).

Nel primo passo lo schema è “causale come + principale”, nel secondo è “causale perché + principale”; in entrambi i casi si nota il preciso corrispondendersi delle componenti: come nell’animo mio ... fui stimulato da quella memoria; il sostantivo memoria riprende l’odor delle virtù e la satisfazione; l’intentio della causale perché la laude... è

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ripresa e raπorzata da certo è, elemento che funge da segnale discorsivo e, al tempo stesso, da introduttore della proposizione soggettiva che segue. Una finale implicita precede la principale nei due esempi che seguono; nel primo la successione è immediata, nel secondo è diπerita per la presenza di una relativa e di una participiale anteposta alla principale: Così, per eseguire questa deliberazione, cominciai a rileggerlo; e subito nella prima fronte, ammonito dal titulo, presi non mediocre tristezza, la qual ancora nel passar più avanti molto si accrebbe, ricordandomi la maggior parte di coloro, che sono introdutti nei ragionamenti, esser già morti (Co, Dedicatoria, 6); Per non tardare adunque a pagar quello che io debbo alla memoria de così eccellente signora e degli altri che più non vivono, indutto ancora dal periculo del libro, hollo fatto imprimere e publicare tale qual dalla brevità del tempo m’è stato concesso (Co, Dedicatoria, 8). 23  

La corrispondenza delle parti rappresenta una delle strutture portanti del periodo castiglioneo. Lo schema “secondaria + principale” si realizza in una prosa attentamente calibrata e in una discorsività alta, che dà unità di tono a tutte le componenti: argomentative, espositive, narrative e celebrative. Mancano scansioni marcate e segnali discorsivi forti. Nella parte finale del periodo la complessità dell’inizio è compensata da frasi, anche estese, ma sempre lineari; spesso si ritrova una dittologia verbale binaria. Nel passo che segue, tratto dal discorso di Bembo sull’amore platonico, due infiniti segnano la fine di un’ampia sequenza testuale: e però, benché [scil. la imaginazione] consideri quella bellezza universale astratta ed in sé sola, pur non la discerne ben chiaramente né senza qualche ambiguità per la convenienza che hanno i fantasmi col corpo, onde quelli che pervengono a questo amore sono come i teneri augelli che cominciano a vestirsi di piume, che, benché con l’ale debili si levino un poco a volo, pur non osano allontanarsi molto dal nido né commettersi a’ venti ed al ciel aperto (Co IV, lxvii, p. 354).

Talvolta alla fine del periodo, una o più relative impongono una cadenza conclusiva ritmica: però l’anima, aliena dai vicii, purgata dai studii della vera filosofia, versata nella vita spirituale ed esercitata nelle cose dell’intelletto, rivolgendosi alla contemplazion della sua propria sustanzia, quasi da profondissimo sonno risvegliata apre quegli occhi che tutti hanno e pochi adoprano e vede in se stessa un raggio di quel lume che è la vera imagine della bellezza angelica a lei communicata, della quale essa poi communica al corpo una debil ombra» (Co IV, lxviii, p. 354).

La prima parte è scandita da cinque aggettivi-participi: aliena . . . purgata . . . versata . . . esercitata . . . risvegliata. Ritmo e struttura mutano nella seconda parte, dove appaiono due relative restrittive («quegli occhi che tutti hanno» e «quel lume che è la vera imagine») e una relativa che congiunge due frasi («della quale essa poi communica»); questo insieme di relative funge da contrappeso alla “pentapodia” aggettivale dell’inizio. 23   Dall’esame di una serie di campioni tratti dai quattro libri del Cortegiano risulta che i casi di precedenza della secondaria alla principale (presenti soprattutto nelle parti espositive) sono minoritari rispetto ai casi di non precedenza. I tipi proposizionali che appaiono più di frequente sono nell’ordine: le proposizioni introdotte da quando, come, perché, le gerundiali, le infinitive precedute da per, le protasi del periodo ipotetico, le participiali.

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6. 2. 2. Inserimenti Le concessive sono tra le avverbiali più frequenti. Il tipo introdotto da benché si realizza spesso come incidentale. In (es. p. 354) questo schema è ripetuto due volte; vediamone ancora due esempi: «e, benché in ultimo siano stati scoperti e conosciuti, pur per molti dì ci hanno ingannato» (Co I, xvi, p. 35), «Virgilio, il quale, benché con quello ingegno e giudicio tanto divino togliesse la speranza a tutti i posteri che alcun mai potesse ben imitar lui, volse però imitar Omero» (Co I, xxx, p. 54). Il tipo ancora che ha varia collocazione, ma preferibilmente si pone all’inizio o alla fine del periodo: «ancor che avessero riverenzia all’antiquità, non la estimavan però tanto che volessero averle quella obligazion che voi volete che ora le abbiam noi» (Co I, xxxii, p. 57), «Già non fu rifiutato Tito Livio, ancora che colui dicesse aver trovato in esso la patavinità» (Co I, xxxv, p. 61), «non attendono ad altro che a propor cose che dilettino e dian piacere all’animo loro, ancora che siano male e disoneste» (Co IV, vi, p. 293); nei passi stilisticamente più elaborati appare il tipo avvenga che, frequente nella prosa del xiv secolo: «[scil. il duca Guido] vivea con somma dignità ed estimazione appresso ognuno; di modo che, avvenga che così fusse del corpo infermo, militò con onorevolissime condicioni a servicio dei serenissimi re di Napoli» (Co I, iii, p. 18), «le parole e tutti i sui movimenti sono talmente di questa grazia composti ed accommodati, che tra i più antichi prelati, avvenga che sia giovane, rappresenta una tanto grave autorità, che più presto pare atto ad insegnare, che bisognoso d’imparare» (Co I, xiv, p. 32), «Ché, avvenga che le statue siano tutte tonde come il vivo e la pittura solamente si veda nella superficie, alle statue mancano molte cose che non mancano alle pitture, e massimamente i lumi e l’ombre» (Co I, li, p. 84). Le incidentali sono di varia natura: brevi frasi predicative, gerundiali, participiali, relative. Hanno una funzione analoga le non rare apposizioni sostantivali. Singole o in coppia, le incidentali sono collocate in modo da ottenere, di volta in volta, un eπetto ritardante o una ripresa pragmaticamente e√cace. Gli esordi dei quattro libri, tutti dedicati ad Alfonso Ariosto, e le descrizioni di luoghi e di personaggi presentano uno stile più elaborato. Urbino richiama i modi della descriptio medievale con il suo schema canonico: collocazione nello spazio geografico, celebrazione della bellezza e prosperità del sito ecc. Incidentali di diverse forme e funzioni s’inseriscono nel cotesto: Alle pendici dell’Appenino, quasi al mezzo della Italia verso il mare Adriatico, è posta, come ognun sa, la piccola città d’Urbino; la quale, benché tra monti sia e non così ameni come forse alcun’altri che veggiamo in molti lochi, pur di tanto avuto ha il cielo favorevole che intorno il paese è fertilissimo e pien di frutti; di modo che, oltre alla salubrità dell’aere, si trova abundantissima d’ogni cosa che fa mestieri per lo vivere umano (Co I, ii, p. 16). 24  

Non è raro il caso di un’incidentale collocata in una secondaria; ne deriva il consueto incontro di congiunzioni: che, benché...; perché, benché...; che, se...; ché, sebbene...; perché, se...; ché, oltre a...; nientedimeno, acciò che; ché, avvenga che... ecc. Del fenomeno, che conferma la tendenza analitica di questa prosa, vediamo i tipi che ricorrono con maggiore frequenza. 24   Spesso l’incidentale s’inserisce in una relativa (Co II, xxxiv, p. 131), oppure separa il che subordinante dalla subordinata (Co II, lxxxv, p. 187).

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la prosa del cinquecento – Concessiva avvenga che inserita in una relativa: «dicovi che io ho a’ miei dì conosciuto un gentilomo, il quale, avvenga che fosse di assai gentil aspetto e di modesti costumi ed ancor valesse nell’arme, non era però in alcuna di queste condizioni tanto eccellente che non se gli trovassino molti pari ed ancor superiori» (Co II, xxxiv, p. 131). – Concessiva avvenga che inserita in una consecutiva: «un contadin bergamasco [...], il qual fu tanto ben divisato di panni ed acconcio così attillatamente che, avvenga che fosse usato solamente a guardar buoi né sapesse far altro mestiero, da chi non l’avesse sentito ragionare saria stato tenuto per un galante cavaliero» (Co II, lxxxv, p. 187). – Concessiva benché inserita in una causale ché: «ché, benché alcune qualità siano communi e cosi necessarie all’omo come alla donna, son poi alcun’altre che più si convengono alla donna che all’omo» (Co III, iv, p. 208). – Concessiva benché inserita in una causale perché: «perché, benché gl’incontinenti pecchino con quella ambiguità e che la ragione nell’animo loro contrasti con l’appetito e lor paia che quel che è male sia male, pur non ne hanno perfetta cognizione» (Co IV, xvi, p. 301).

Altri tipi d’incidentali appaiono soprattutto in contesti argomentativi: – La proposizione aggiuntiva oltre che inserita nella causale ché: «ché, oltre al gran pericolo che la dubbiosa sorte seco porta, chi in tal cose precipitosamente e senza urgente causa incorre, merita grandissimo biasimo, avvenga che ben gli succeda» (Co I, xxi, p. 41). – L’insieme di “protasi se + perciò deduttivo-conclusivo” inserito in una causale ché: «ché, se in esse [scil. nelle donne] più po la vergogna che l’appetito e perciò si astengono dalle cose mal fatte, estimo che questa vergogna, che in fine non è altro che timor d’infamia, sia una rarissima virtù e da pochissimi omini posseduta» (Co III, xl, p. 248). 25 – La finale acciò che inserita nella concessiva: «nientedimeno, acciò che non possiate dire che per raccontarvi cose antiche io vi narri fabule, voglio allegarvi una donna de’ nostri tempi di bassa condizione» (Co III, xlii, p. 250).  

I modi di comporre e collocare le incidentali, aspetto saliente dello stile dell’opera, riguarda anche le relative con antecedente. In questo caso dobbiamo considerare, sia l’ampliamento dei periodi sia il nuovo assetto ad essi imposto. Trattando del mestiere delle armi, «principale e vera profession del cortegiano», a proposito de «l’altre qualità che ad un capitano si convengono», si osserva: «ché, per esser questo troppo gran mare, ne contentaremo, come avemo detto, della integrità di fede e dell’animo invitto e che sempre si vegga esser tale» (Co I, xvii, p. 37); qui la relativa restrittiva crea una clausola ben delineata. Altrove troviamo, all’inizio, una relativa “specificante” e, alla fine, un’ampia relativa “espositiva” articolata in due membri: Questa virtù dunque contraria alla aπettazione, la qual noi per ora chiamiamo sprezzatura, oltre che ella sia il vero fonte donde deriva la grazia, porta ancora seco un altro ornamento, il quale, accompagnando qualsivoglia azione umana per minima che ella sia, non solamente subito scopre il saper di chi la fa, ma spesso lo fa estimar molto maggiore di quello che è in eπetto (Co I, xxviii, p. 50).

Il periodo consiste in una principale breve, cui si riferiscono due relative e due incidentali «oltre che ella sia [...] e accompagnando qualsivoglia azione»: ne risulta una 25  Sulla coordinazione conclusiva introdotta da dunque, quindi, perciò, pertanto v. Serianni (1988: 456-457).

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struttura complessa ma ben analizzabile e rapidamente progrediente, grazie anche alla correlazione non solamente ... ma spesso e alla comparativa molto maggiore di quello. Ecco un passo famoso del iv libro, in cui, con le parole di Bembo, si dimostra la verità di un principio e, al tempo stesso, si rievoca un mito: Ma, parlando della bellezza che noi intendemo, che è quella solamente che appar nei corpi e massimamente nei volti umani e move questo ardente desiderio che noi chiamiamo amore, diremo che è un influsso della bontà divina, il quale, benché si spanda sopra tutte le cose create come il lume del sole, pur quando trova un volto ben misurato e composto con una certa gioconda concordia di colori distinti ed aiutati dai lumi e dall’ombre e da una ordinata distanzia e termini di linee, vi s’infonde e si dimostra bellissimo, e quel subietto ove riluce adorna ed illumina d’una grazia e splendor mirabile, a guisa di raggio di sole che percuota in un bel vaso d’oro terso e variato di preciose gemme; onde piacevolmente tira a sé gli occhi umani e per quelli penetrando s’imprime nell’anima, e con una nova suavità tutta la commove e diletta, ed accendendola da lei desiderar si fa (Co IV, lii, p. 339).

Una gerundiale (Ma parlando) e due relative che esplicative («che è quella solamente» ... e «che noi chiamiamo amore») precedono il centro del periodo, costituito da una verbum dicendi e da un’oggettiva («diremo che è un influsso della bontà divina»); a questo nesso centrale si aggancia un’estesa relativa il quale, posta in rilievo, grazie anche alle incidentali che, interrompendone il corso, ne accrescono la tensione. In eπetti, le relative svolgono un ruolo essenziale nella sintassi castiglionea, sia assicurando ai periodi un’architettura stabile sia agevolando lo svolgersi di argomentazioni e dichiarazioni, con il loro seguito di circostanze e particolari. Se la relativa quale assume una posizione di rilievo nell’ambito del periodo, i connettori la qual cosa, per la qual cosa hanno una funzione di collegamento interfrasale e interperiodale: «parevami con tal imitazione far testimonio d’esser discorde di giudicio da colui che io imitava; la qual cosa, secondo me, era inconveniente» (Co Dedicatoria, ii, p. 9), «né era alcuno che non estimasse per lo maggior piacere che al mondo aver potesse il compiacer a lei [scil. alla duchessa Elisabetta], e la maggior pena il dispiacerle. Per la qual cosa quivi onestissimi costumi erano con grandissima libertà congiunti» (Co I, iv, p. 19). Una variante “forte” di questo tipo di collegamento è rappresentata dal nesso è “Prep + SN + quale”: «Spesso ancor nella pittura una linea sola [...] scopre chiaramente la eccellenzia dell’artifice, circa la opinion della quale ognuno poi si estende secondo il suo giudicio; e ’l medesimo interviene quasi d’ogni altra cosa» (Co I, xxviii, p. 51), «e spesso solamente con quel splendore e dignità [scil. le parole toscane] fanno la elocuzion bella, dalla virtù della quale ed eleganzia ogni subietto, per basso che egli sia, po esser tanto adornato, che merita somma laude» (Co I, xxx, p. 53). I connettori comprendenti il relativo quale imitano i connettori latini quo in genere, quod si ita est, quo facto, qua de causa, quam ob rem (Menge 2009: 871). Al pari delle infinitive e dell’ordine delle parole, rendono una stilizzazione latineggiante. Al polo opposto troviamo lo svolgimento lineare dei brevi racconti, che recuperano i modi della narrativa del Due-Trecento. In due exempla ambientati nel mondo classico la brevitas trionfa. Vi è lo scambio di battute tra Scipione Nasica ed Ennio (Co II, lxxv, p. 177), 26 dove ricorrono frasi brevi, gerundiali e semplici moduli discorsivi  

26   Nei dialoghi in volgare di L. B. Alberti gli exempla relativi al mondo classico perseguono un latineggiamento più intenso: Dardano (1992: 318-321). Ricordando i numerosi racconti presenti nel Cortegiano, si è sostenuto che nell’opera avviene «una contaminazione fra trattatistica e novellistica»:

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ripetuti; e vi è l’episodio di Senocrate (Co III, xlv, p. 253), dove in breve spazio (una sequenza testuale di 71 parole) si susseguono ben sei incidentali: E certo non si potea già trovar miglior esempio per laudar la continenzia degli omini che quello di Senocrate; che, essendo versato negli studii, astretto ed obbligato dalla profession sua (che è la filosofia, la quale consiste nei boni costumi e non nelle parole), vecchio, esausto del vigor naturale, non potendo né mostrando segno di potere, s’astenne da una femina publica, la quale per questo nome solo potea venirgli a fastidio (Co III, xlv, p. 253).

6. 2. 3. Correlazioni e comparazioni Di frequente si mettono in rapporto due parti del periodo, ottenendo un evidente parallelismo, che si raπorza quando alla correlazione avversativa non ... ma si agganciano proposizioni causali: «non già perché ci paia che voi siate così bon cortegiano che sappiate quel che si gli convenga, ma perché, dicendo ogni cosa al contrario, come speramo che farete, il gioco sarà più bello» (Co I, xiii, p. 30) o avverbi o segnali discorsivi: «non solamente si laudano e contentano dei grati aspetti, care parole e sembianti suavi delle lor donne, ma tutti i mali condiscono di dolcezza» (Co I, x, p. 28). La correlazione comparativa (sì) come ... così si svolge in un più ampio giro di frase: «sì come il voler formar vocabuli novi o mantenere gli antichi in dispetto della consuetudine, dir si po temeraria presunzione: così il voler contra la forza della medesima consuetudine distruggere e quasi sepelir vivi quelli che durano già molti seculi [...], oltra che sia di√cile, par quasi una impietà» (Co Dedicatoria, p. 11); «E, come la pecchia ne’ verdi prati sempre tra l’erbe va carpendo i fiori, così il nostro corteggino averà da rubare questa grazia da que’ che a lui parerà che la tenghino» (Co I, xxvi, p. 47), «e da quella corruzione son nate altre lingue, le quai, come i fiumi che dalla cima dell’Appennino fanno divorzio e scorrono nei dui mar, così si son esse ancora divise» (Co I, xxxii, p. 56).

Le proposizioni comparative verbali si dividono in due tipi di base: di analogia e di grado, nelle prime la comparazione è globale (ed è attuata dagli introduttori così ... come, come ... altrettanto ecc.), nelle seconde si distinguono le comparative di uguaglianza (introdotte da tanto ... quanto e simili) e di ineguaglianza, distinte a loro volta in comparative di maggioranza e di minoranza, aventi come introduttori più ... che, maggiore ... che, meno ... che, minore ... che. 27 Comparazione di analogia, attuata per lo più mediante così ... come, ai quali si aggregano un predicato verbale (nella maggior parte dei casi) o sintagmi nominali e oggettivali; in (es. p. 213) così e come sono contigui, in (es. p. 232) manca così:  

«Non ho ancor voluto obligarmi alla consuetudine del parlar toscano d’oggidì, perché il commerzio tra diverse nazioni ha sempre avuto forza di trasportare dall’una all’altra, quasi come le mercanzie, così ancor novi vocabuli» (Co Dedica, ii, p. 9), «Altri dicono che, essendo tanto di√cile e quasi impossibile trovar un omo così perfetto come io voglio che sia il cortegiano, è stato superfluo il scriverlo» (Co Dedica 3), «Costui adunque, seguendo il corso della natura, già di sessantacinque anni, come era visso, così gloriosamente morì» (Co I, iii, p. 17), «come dello F. Tateo, La civil conversazione, cit., p. 69; in questo saggio si segue la trasformazione, nel corso del Cinquecento, del «discorso dottrinale intorno alla natura dell’amore». 27   Cfr.: A. Belletti (1991), in GGIC, ii, (20012: 832 ss), Serianni (1988: 518 ss.), Riegel et Al. (2014: 864- 866). Per le comparative presenti nella prosa di Machiavelli vedi 3.7.6.

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stato, così parve che di tutte le virtù paterne fosse erede» (Co I, iii, p.17), «E di tal sorte voglio io che sia lo aspetto del nostro cortegiano, non così molle e feminile come si sforzano d’aver molti» (Co I, xix, p. 40), «Basta che sì come un bon soldato sa dire al fabro di che foggia e garbo e bontà hanno ad esser l’arme, né però gli sa insegnar a farle, né come le martelli o tempri, così io forse vi saprò dir qual abbia ad esser un perfetto cortegiano, ma non insegnarvi come abbiate a fare per divenirne» (Co I, xxv, p. 46), «e conoscendo in sé una bellezza vaga ed allegra, [scil. questa donna] deve aiutarla coi movimenti, con le parole e con gli abiti, che tutti tendano allo allegro; così come un’altra, che si senta aver maniera mansueta e grave, deve ancor accompagnarla con modi di quella sorte» (Co III, viii, p. 213), «“E che dispiacere,” disse il Magnifico, “possono far le mogli ai mariti, che sia così senza rimedio come son quelli che fanno i mariti alle mogli?”» (Co III, xxv, p. 230), «Viemmi adunque incontra, signor mio, ed accogli voluntieri questa anima, come essa voluntieri a te ne viene» (Co III, xxvi, p. 232), «e gli innamorati veri, come hanno il core ardente, così hanno la lingua fredda, col parlar rotto e sùbito silenzio» (Co III, lv, p. 266), «perch’io non son così nemica degli omini, come voi siete delle donne» (Co IV, iii, p. 290), «così contrastariano per non regnare, come contrastano per regnare» (Co IV, viii, p. 295). In alcuni contesti la comparativa assume un valore temporale: «alla quale [scil. stradetta] come esso fu giunto, così ficcò un chiodo nel muro, a cui annodò il spago» (Co II, lxxxix, p. 194).

Alcune comparazioni si distendono in un periodo ampio, come accade nella rievocazione di un episodio storico: E come si scrive che, avendo Dario, l’anno prima che combattesse con Alessandro, fatto acconciar la spada che egli portava a canto (la quale era persiana) alla foggia di Macedonia, fu interpretato dagli indovini che questo significava che coloro, nella foggia de’ quali Dario aveva tramutato la forma della spada persiana, verriano a dominar la Persia; così l’aver noi mutato gli abiti italiani nei stranieri parmi che significasse tutti quelli, negli abiti de’ quali i nostri erano traformati, dever venire a subiugarci (Co II, xxvi, p. 122).

Il periodo complesso (una gerundiale, una relativa incidentale, la coniunctio relativa ripetuta e posta in parallelo nella foggia dei quali ... negli abiti de’ quali) è racchiuso in una comparativa-cornice, che ha la funzione d’isolare l’evento esaltandone l’esemplarità. Più di frequente l’inquadramento di una breve narrazione è compiuto da un predicato verbale, che presenta l’antefatto dell’evento; nella storia di Camma, si ricorre a due soggettive introdotte da un verbo di accadimento (Intervenne che ... s’inamorò ... fece ammazzar): Intervenne che un altro gentilomo, il quale era di molto maggior stato che Sinatto e quasi tiranno di quella città dove abitavano, s’inamorò di questa giovane; e, dopo l’aver lungamente tentato per ogni via e modo d’acquistarla, e tutto in vano, persuadendosi che lo amor che essa portava al marito fosse la sola cagione che ostasse a’ suoi desiderii, fece ammazzar questo Sinatto (Co III, xvi, p.231).

Nei due periodi che compongono la narrazione la principale appare alla fine; nel primo è preceduta da una relativa, ampliata con l’aggiunta di un’apposizione; nel secondo è preceduta da un’infinitiva e da una gerundiale, le quali creano il solito sbilanciamento a sinistra, che qui risulta funzionale alla rappresentazione della scena cruenta della principale che segue. Il medesimo eπetto, ma in una successione contraria, si produce all’interno delle singole proposizioni, opponendo due membri di diverso peso fonico; vedi nel passo ora citato: e quasi tiranno di quella città dove abitavano e tutto in vano.

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Comparazione di uguaglianza, resa con tanto ... quanto (o quanto ... tanto) «Quanto più dunque sarà eccellente il nostro cortegiano in questa arte, tanto più sarà degno di laude» (Co I, xvii, p. 36), «e perciò interviene che tante donne quante sapete ardeno dell’amor mio» (Co I, xix, p. 39), «perché niun male è tanto malo quanto quello che nasce dal seme corrotto del bene» (Co II, ii, p. 96), «perché tanto [scil. la bellezza] è più perfetta quanto meno di lui participa, e da quello [scil. il corpo] in tutto separata è perfettissima» (Co IV, lxii, p. 348), «Tanto dunque è maggiore e più felice questo amor degli altri, quanto la causa che lo move è più eccellente» (Co IV, lxix, p. 356).

Comparazione d’ineguaglianza, nella quale è costante la presenza della negazione espletiva: «Creder si po che que’ che erano imitati fossero migliori che que’ che imitavano» (Co I, xxxxvii, p. 64), «Però basti solamente dire che al nostro cortegiano conviensi ancor della pittura aver notizia, essendo onesta ed utile ed apprezzata in que’ tempi che gli omini erano di molto maggior valore che ora non sono» (Co I, lii, p. 86), «per certo so avere molto maggior piacere di vedere alcuna donna che non arìa, se or tornasse vivo, quello eccellentissimo Apelle che voi poco fa avete nominato» (Co I, lii, p. 83), «Era il signor Prefetto, benché di età puerile, saputo e discreto più che non parea s’appartenesse agli anni teneri» (Co I, lv, p. 89), «aπermando quelle [scil. corti] di che essi hanno memoria esser state molto più eccellenti e piene d’omini singolari che non son quelle che oggidì veggiamo» (Co II, ii, p. 94); fare vicario appare nel secondo componente della comparativa: «penso che molto più godesse Apelle contemplando la bellezza di Campaspe che non faceva Alessandro» (Co I, liii, p. 87), «sì come quelli che si voltano al bene fanno molto meglio che non faceano quelli suoi» (Co II, ii, p. 95).

Come esempi di corrispondenza tra i vari membri del periodo o tra parole in fine di periodo, citiamo ancora: onde intervenne che, sentendo ragionare così aπettuosamente di questo giovine, il qual essa mai non aveva veduto, e conoscendo che quella donna, la quale ella sapeva ch’era discretissima e d’ottimo giudicio, l’amava estremamente, subito imaginò che costui fosse il più bello e ’l più savio [...] omo (Co II, xxxiv, p.177); Voi adunque, messer Alfonso mio, per la medesima ragione, da questa piccol parte di tutto ’l corpo potete chiaramente conoscer quanto la corte d’Urbino fosse a tutte l’altre della Italia superiore, considerando quanto i giochi, li quali son ritrovati per recrear gli animi aπaticati dalle facende più ardue, fossero a quelli che s’usano nell’altre corti della Italia superiori (Co III, i, p. 204).

Nel primo caso il parallelismo tra le due gerundiali e le due relative, nonostante la loro diversa collocazione, è costruito in modo evidente. Nel secondo invece la struttura binaria è evidenziata mediante la ripetizione delle parole finali. Parallelismi e antitesi sono elementi essenziali dell’architettura del Cortegiano. Si hanno strutture complesse nei prologhi di ciascun libro e nel discorso bembiano sull’amore platonico, mosso da un entusiasmo discorsivo, che si riflette nel giro più ampio dei periodi e nella presenza di un ornato retorico. Comparative ipotetiche: «Questa denominazione allude alla circostanza che un enunciato “Q come se P” è composto di una proposizione comparativa e di un periodo ipotetico con apodosi sottintesa» (Colella 2010: 100); altre denominazioni in uso

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sono: modali, modali comparative, proposizioni di maniera; come se è il connettore composto usato più frequentemente. «Non sapete che Alessandro Magno, sentendo che opinion d’un filosofo era che fussino infiniti mondi, cominciò a piangere, ed essendoli domandato perché piangeva, rispose, “Perch’io non ne ho ancor preso un solo”; come se avesse avuto animo di pigliarli tutti?» (Co I, xviii, p. 39), «io, al quale essa di sua voluntà ogni cosa confidentemente dicea, non altrimenti che s’io non dirò fratello, ma una sua intima sorella fussi stato» (Co III, xliii, p. 250).

6. 2. 4. Il periodo ipotetico Le proposizioni condizionali hanno un’evidente funzione argomentativa; i due segmenti che le compongono, interagiscono formando un’unità o “schema sintattico”(una sequenza composta di più elementi); al tempo stesso, hanno un’unica “mira illocutiva” (Muller 2002: 82). Seguendo un criterio topologico distinguiamo i seguenti tipi. Pro. ind./ Apo. ind.: «Perciò, se io non ho voluto scrivendo usare le parole di Boccaccio che più non s’usano in Toscana [...], parmi meritare escusazione» (Co Dedicatoria ii, p. 11), «alla imagine della quale s’io non ho potuto approssimarmi col stile, tanto minor fatica averanno i cortegiani d’approssimarsi con l’opere al termine e mèta» (Co Dedicatoria III, p. 12), «le quali [scil. parole], s’io non m’inganno, debbono esser proprie, elette, splendide e ben composte, ma sopra tutto usate ancor dal populo» (Co I, xxxiii. p. 58), «“E come?” disse; “s’io ho fatto ammazzar il prete, perché non mi volete voi dar il beneficio?”» (Co II, lxxxii, p. 184), «nella qual cosa s’io non arò satisfatto in tutto, basterammi almen aver dimostrato che qualche perfezion ancora dar si gli potea oltra le cose dette da questi signori» (Co IV, xliii, p. 329). Nel passo che segue l’apodosi è costituita da una lunga esclamativa, che segue una protasi altrettanto estesa: «Se adunque le bellezze, che tutto dì con questi nostri tenebrosi [= ottenebrati] occhi veggiamo nei corpi corruttibili [...], ci paion tanto belle e graziose che in noi spesso accendon foco ardentissimo e con tanto diletto che reputiamo niuna felicità potersi agguagliar a quella che talor sentimo per un sol sguardo che ci venga dall’amata vista di una donna, che felice maraviglia, che beato stupore pensiamo noi che sia quello che occupa le anime che pervengono alla visione della bellezza divina! che dolce fiamma, che incendio suave credere si dee che sia quello che nasce dal fonte della suprema e vera bellezza!» (Co IV, lxix, p. 355). Pro. cong./Apo. condiz.: «s’io mi pensassi dir cosa che ad alcuno di noi fusse nova, io addurrei molti li quali, nati di nobilissimo sangue, son stati pieni di vicii» (Co I, xv, p. 34), «E, se nello scrivere fosse licito quello che non è licito nel parlare, ne nascerebbe un inconveniente al parer mio grandissimo: che è che più licenzia usar si porria in quella cosa nella qual si dee usar più studio; e la industria che si mette nello scrivere, in loco di giovar nocerebbe» (Co I, xxix, p. 52), «– Signora, se io la tenessi per bella [scil. questa vostra donna], la mostrarei senza altri ornamenti» (Co III, ii, p. 205), «nientedimeno io crederei che, se voi formaste con quelli il vostro principe, più presto meritareste nome di bon maestro di scola che di bon cortegiano» (Co IV, xxxvi, p. 321). Pro. cong. /Apo. ind.: «e certo s’io vi addimandassi quali siano, o siano state queste gran donne tanto degne di laude, quanto gli omini grandi ai quali son state moglie,

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sorelle o figliole, o che siano loro state causa di bene alcuno, o quelle che abbiano corretto i loro errori penso che restareste impedito» (Co III, xxi, p. 226), «S’io avessi la grazia di qualche principe ch’io conosco e li dicessi liberamente il parer mio, dubito che presto la perderei» (Co IV, xxvi, p. 312), «Però s’io mi sentissi esser quell’eccellente cortegiano che hanno formato questi signori ed aver la grazia del mio principe, certo è ch’io non lo indurrei mai a cosa alcuna viciosa» (Co IV, xxxvi, p. 321). Pro. cong./Apo. condiz.: «se insin a qui vivuti fossero, non le usarebbono più» (Co I, xxxi, p. 55), «che se ’l Petrarca e ’l Boccaccio fossero vivi a questo tempo, non usariano molte parole che vedemo ne’ loro scritti» (Co I, xxxvi, p. 62), «Questi dunque, se vivuti fussero, penso che sariano giunti a grado che ariano ad ognuno che conosciuti gli avesse potuto dimostrar chiaro argumento quanto la Corte d’Urbino fusse degna di laude e come di cavalieri nobili ornata» (Co IV, ii, p. 288). La successione Apodosi / Protasi appare meno frequentemente; è un tratto questo che segna uno stacco rispetto all’uso delle condizionali nella Storia di Guicciardini: «siami perdonato s’io, avendo a contradire, dimanderò» (Co I, xxiii, p. 44), «Né vi maravigliate s’io desidero questa parte, la qual oggidì forse par mecanica e poco conveniente a gentilomo» (Co I, xlix, p. 81), «Signori, troppo nociva sarebbe stata la venuta mia qui, s’io avessi impedito così bei ragionamenti» (Co I, liv, p. 88), «perdonatime s’io dico il vero» (Co III, xlvi, p. 254), «Non vi maravigliate adunque, messer Cesare, s’io ho detto che dalla temperanzia nascono molte altre virtù» (Co IV, xviii¸ p. 304); nei due ultimi esempi l’apodosi è un imperativo. Tipo come se: «ma piglian odio alla cosa amata, quasi che l’appetito si ripenta dell’error suo e riconosca l’inganno fattogli dal falso giudicio del senso» (Co IV, liii, p. 340), «Le cose che a voi ed a molt’altri riescono minori assai che la fama, son per il più di sorte, che l’occhio al primo aspetto le po giudicare; come se voi non sarete mai stato a Napoli o a Roma, sentendone ragionar tanto imaginarete più assai di quello che forse poi alla vista vi riuscirà» (Co II, xxxiii, p. 130), «io metterei pegno che esso tutta quella notte sino al giorno seguente ad ora di desinare dormì come morto, sepulto nel vino; né mai, per stropicciar che gli facesse quella femina, poté aprir gli occhi, come se fusse stato allopiato» (Co III, xlv, p. 254). Le avverbiali mostrano una notevole varietà di forme e di collocazioni; in ciò si vede un adeguamento alla flessibità discorsiva che è propria del genere dialogico. A tale proposito, si può parlare di uno “stile del dialogo”. Analizziamo ora le componenti di base della sintassi periodale: le proposizioni completive, le proposizioni avverbiali e i costrutti assoluti, cercando di riferire le scelte operate dall’Autore alle esigenze argomentative che sono presenti nell’opera. Di alcuni fenomeni si tratterà nel paragrafo dedicato alla testualità. 6. 3. La subordinazione 6. 3. 1. Le completive soggettive e oggettive È il settore in cui risaltano maggiormente i caratteri di base della sintassi dell’opera. Rispetto alla prosa latineggiante dell’Alberti, l’uso dell’accusativo con l’infinito appare notevolmente ridotto. L’ellissi del che subordinante, fenomeno tipico della

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prosa quattrocentesca, è praticamente scomparsa; al contrario il complementatore è ripetuto in proposizioni che si succedono; è questa una prova della tendenza analitica propria della prosa castiglionea: «Vorrei adunque che questa sera il gioco nostro fosse che ciascuno dicesse di che virtù precipuamente vorrebbe che fusse ornata quella persona ch’egli ama» (Co I, vii, p. 23). Frequente è anche la successione di che subordinanti e relativi: «il quale perciò voi vorreste che si credesse che potesse esser molto più perfetto che quello che hanno formato questi signori» (Co III, lxxvii, p. 286), «perché, se’l cortegian è tanto giovane che non sappia quello che s’è detto ch’egli ha da sapere, non accade parlarne» (Co IV, xlvi, p. 332). Il fenomeno, che appare prevalentemente negli scambi dialogici, rivela l’intento di accostarsi a modi tipici del parlato, opponendosi alla stilizzazione latineggiante della prosa umanistica, tesa a ridurre l’uso di parole vuote. Distinguiamo, come di consueto, tra proposizioni soggettive e oggettive, subordinazione di modo finito e infinitive, tra coreferenza e non coreferenza dei soggetti, tra le diverse classi dei verbi reggenti. Infine esamineremo costruzioni che tendono alla complessità, vale a dire la subordinazione multipla, mista e di 2° grado. Le proposizioni soggettive con verbo di modo finito I reggenti che si ritrovano più spesso sono sintagmi aggettivali e sostantivali con verbo copulativo “è + Agg”, “è + N”, i verbi bisognare, intervenire ‘accadere’, parere, e verbi passivi. agg + è: «Vero è che [...] nascono alcuni accompagnati da tante grazie che par che non siano nati» (Co I, xiv, p. 33), «E perciò è ragionevole che in questa [scil. nella scrittura] si metta maggior diligenzia per farla più culta e castigata» (Co I, xxix, p. 52), «e credibil cosa è che ella grata a lui sia ed egli a noi data l’abbia per dolcissimo alleviamento delle fatiche e fastidi nostri» (Co I, xlvii, p. 80), «fate che ognuno dica il parer suo, onde è che le donne quasi tutte hanno in odio i ratti ed aman le serpi» (Co I, ix, p. 25); accadere: «Avete voi posto cura talor, quando, o per le strade andando alle chiese o ad altro loco, o giocando o per altra causa, accade che una donna tanto della robba si leva, che il piede e spesso un poco di gambetta senza pensarvi mostra?» (Co I, xl, p. 70), «Onde accade che ad un amante è carissimo talor vedere una finestra» (Co II, i, p. 94); bisognare: «bisognerà che con molte fatiche e con tempo nella mente degli omini imprima la bona opinion di sé» (Co I, xvi, p. 35), «bisogna che abbia ardir di farle e confidenzia di se stesso e non sia d’animo abbietto o vile» (Co I, xviii, p. 39), «ma bisogna che voi diciate circa questo ciò che ne sapete» (Co I, xxxi, p. 54: pleonasmo), «Ma il condimento del tutto bisogna che sia la discrezione» (Co II, xiii, p. 108), «per tener l’amor secreto bisogna fuggir le cause che lo publicano» (Co III, lxxiii, p. 282); intervenire: «e perciò spesso interviene che quello che all’uno è gratissimo, all’altro sia odiosissimo (Co I, vii, p. 23), «Però intervien quasi sempre che e nelle arme e nelle altre virtuose operazioni gli uomini più segnalati sono nobili» (Co I, xiv, p. 32), «Interviene ancor spesso che, come gli altri nostri sensi, così la vista s’inganna e giudica per bello un volto che in vero non è bello» (Co IV, lx, p. 347); N + è: «– Gran cosa è pur – rispose il signor Gaspar – che sempre alle donne sia licito aver questa esenzione di fatiche» (Co I, vii, p. 23), «e troppo maraviglia saria che così presto il lor nome e la fama, se erano boni, fusse in tutto spenta» (Co I, xxxvii, p. 64: concordanza a senso); parere: «quegli che nascono così avventurosi e tanto ricchi di tal tesoro come alcuni che ne veggiamo, a me par che in ciò abbiano poco bisogno d’altro maestro» (Co I, xxiv, p. 45: prolessi del sogg. della subordinata), «e tai cose universali non dilettano, perché pare che possano essere pensate» (Co II, lix, p. 159), «ragionevole pareva che ognun si dolesse della

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morte d’un giovane di boni costumi, piacevole, e di bellezza d’aspetto e disposizion della persona rarissimo» (Co IV, i, p. 288).

“N (o Agg) + che + completiva”, reggente che sostituisce perifrasi più ampie o costrutti con l’infinito: «sentendo che opinion d’un filosofo era che fussino infiniti mondi» (Co I, xviii, p. 39: subord. 2° grado), «ne nascerebbe un inconveniente al parer mio grandissimo: che è che più licenzia usar si porria in quella cosa nella qual si dee usar più studio» (Co I, xxix, p. 52), «perché quello è gran testimonio che sian bone e significative de quello perché si dicono» (Co I, xxx, p. 53), «per maggior argumento che d’ogni fatica e molestia umana la modulazione, benché inculta, sia grandissimo refrigerio» (Co I, xlvii, p. 81), «Seguitiamo adunque i ragionamenti del nostro cortegiano, con speranza che dopo noi non debbano mancare di quelli che piglino chiari ed onorati esempii di virtù dalla corte presente d’Urbino, così come or noi facciamo dalla passata» (Co IV, ii, p. 289), «con opinion che per quella sera più non s’avesse a ragionar del cortegiano» (Co IV, iii, p. 290), «con desiderio estremo che quella resti vincente e l’altra perda» (Co I, xvi, p. 36), «sono causa che i signori dian favore a chi si sia» (Co II, xix, p. 115), «perché nelli animi delli circostanti imprime opinione che chi così facilmente fa bene sappia molto più di quello che fa e, se in quello che fa ponesse studio e fatica, potesse congiuntivo pro condizionale farlo molto meglio» (Co I, xxviii, p. 50), «ne nascerebbe un inconveniente al parer mio grandissimo, che è che più licenzia usar si poria in quella cosa, nella qual si dee usar più studio» (Co I, xxix, p. 52). Dimostrativo introduttore: «e questo è che quasi tutti laudano i tempi passati e biasmano i presenti» (Co II, i, p. 92).

Soggettive con infinito accadere: «non accade parlarne» Co IV, xlvi, p. 332); agg + è: «Conveniente è ancor saper nuotare, saltare, correr, gittar pietre» (Co I, xxii, p. 43), «se è vero quello ch’io già ho inteso, essersi trovato omo tanto ingenioso ed eloquente che non gli sia mancato subietto per comporre un libro in laude d’una mosca» (Co II, xvii, p. 112); bastare: «bastandoci aver dimostrato le corti de’ nostri tempi non esser di minor laude degne che quelle che tanto laudano i vecchi» (Co II, iv, p. 98: subord. 2° grado); bisognare: «Però non bisognava, signor Gasparo, disputar di questo, o almen con tante parole» (Co III, lii, p. 264); parere: «ciascun conosce facilmente l’error del compagno e non il suo, ed a tutti ci pare essere molto savii» (Co I, viii, p. 24), «né par loro d’esser obligati passar più avanti» (Co I, xiv, p. 32); «non un palazzo, ma una città in forma de palazzo esser pareva» (Co I, ii, p. 16); passivo / si passivante: «Dicesi ancor esser stato proverbio presso ad alcuni eccellentissimi pittori antichi troppo diligenza esser nociva ed esser stato biasmato Protogene da Apelle che non sapea levar le mani dalla tavola» (Co I, xxviii, p. 49: subord. 2° grado), «quella età d’oro che si scrive essere stata quando già Saturno regnava» (Co IV, xviii, p. 305), «Però si po dir quella esser vera arte, che non appare esser arte» (Co I, xxvi, p. 46), «ma certo ben si poria dir la colpa d’alcuni pochi aver dato [...] perpetuo biasmo [...] e la vera causa delle nostre ruine [...] esser da quelli proceduta» (Co I, xliii, p. 74), «Per il che se scrive Alessandro alcuna volta esser stato da quella così ardentemente incitato» (Co I, xlvii, p. 79); cfr. un es. con verbo finito: «e credesi che le Piramide d’Egitto fossero fatte per tener i populi in esercizio» (Co IV, xxviii, p. 315).

Oggettive con verbo di modo finito Esaminiamo alcuni esempi nei quali appaiono i reggenti verbali più frequenti: credere: «Ma tra le maggior felicità che se le possono attribuire, questa credo sia la principale» (Co I, ii, p. 16), «di che sorte di pazzia si crede ch’io impazzissi e sopra che cosa» (Co

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I,viii, p. 25: interpretabile anche come interrogativa ind.), «né da me credo che si potesse imparar condimento bastante per addolcirgli» (Co I, xi, p. 29), «e credo che essi ancor, se insin a qui vivuti fossero, non le usarebbono più» (Co I, xxxi, p. 55), «Però questa credo io che fosse una tacita laude di se stesso ed un desiderar quello che aver non gli pareva, cioè la suprema eccellenzia d’un scrittore, e non quello che già si prosumeva aver conseguito, cioè la virtù dell’arme, nella quale non estimava che Achille punto gli fosse superiore» (Co I, xlvi, p. 78), «né credo che ben fosse che uno, da natura veemente e concitato, si mettesse a scriver cose placide» (Co I, xxxviii, p. 66: subord. 2° grado); dire: «io dico che non solamente di queste parole antiche ma né ancor delle bone faccio tanto caso ch’estimi debbano senza ’l suco delle belle sentenzie esser prezzate ragionevolmente» (Co I, xxxiii, p. 58); disperarsi: «gran miseria saria [...] disperarsi che tanti e così nobili ingegni possano mai trovar più una forma bella di dire in quella lingua che ad essi è propria e naturale» (Co I, xxxvii, p. 66: subord. 2° grado); ordinare: «ordinò che tutti, finita quella danza, si mettessero a sedere al modo usato» (Co IV, iii, p. 290); stimare: «Estimo ancora che molto più sia necessario l’esser inteso nello scrivere che nel parlare» (Co I, xxix, p. 52), «Estimo poi che la marmoraria sia più di√cile» (Co I, l, p. 83); vedere: «Vedete dunque come il mostrar l’arte ed un così intento studio levi la grazia d’ogni cosa» (Co I, xxvi, p. 48), «Vedete come un cavalier sia di mala grazia, quando si sforza d’andare così stirato in su la sella» (Co I, xxvii, p. 49); volere: «Voglio adunque che questo cortegiano sia nato nobile e di generosa famiglia (Co I, xiv, p. 32), «Voglio adunque che ’l nostro cortegiano, se in qualche cosa, oltr’all’arme, si trovarà eccellente, se ne vaglia e se ne onori di bon modo; e sia tanto discreto e di bon giudicio» (Co II, xxxviii, p. 136).

Oggettive con infinito (accusativo con infinito) Nel Cortegiano l’accusativo con l’infinito, costrutto minoritario rispetto alla subordinazione con verbo di modo finito, è rappresentato per lo più dal tipo con essere, il quale prevale anche nelle infinitive soggettive (meno numerose delle oggettive). 28 Il costrutto appare soprattutto nel discorso riferito e laddove l’A. decide di introdurre una stilizzazione latineggiante; a tale proposito si veda l’esordio del terzo libro, che riprende un passo di Aulo Gellio:  

Leggesi che Pitagora sottilissimamente e con bel modo trovò la misura del corpo d’Ercule; e questo che, sapendosi quel spazio nel quale ogni cinque anni si celebravan i giochi olimpici in Acaia presso Elide inanzi al tempio di Iove Olimpico esser stato misurato da Ercule, e fatto un stadio di seicento e vinticinque piedi, de’ suoi proprii; e gli altri stadii, che per tutta Grecia dai posteri poi furono instituiti, esser medesimamente di seicento e vinticinque piedi, ma con tutto ciò alquanto più corti di quello: Pitagora facilmente conobbe a quella proporzion quanto il piè d’Ercule fosse stato maggior degli altri piedi umani; e così, intesa la misura del piede, a quella comprese tutto ’l corpo d’Ercule tanto esser stato di grandezza superiore agli altri omini proporzionalmente, quanto quel stadio agli altri stadii (Co III, i, p. 204). 29  

28   Il costrutto, in cui non vi è coreferenza tra soggetto della reggente e soggetto dell’infinitiva (dico Mario essere buono), mostra un grado maggiore di adeguamento alla sintassi latina. Rispetto ai trattati in volgare di L. B. Alberti, nel Cortegiano l’uso dell’accusativo con infinito è meno frequente; anche la classe dei reggenti appare più circoscritta. 29   Cfr. A. Gellius, Noctium Atticarum libri xx, ed. C. Hosius, Lipsiae, Teubner mcmiii: I, 1 «Plutarchus in libro, quem de Herculis, quantum inter homines fuit, animi corporisque ingenio atque virtutibus conscripsit, scite subtiliterque ratiocinatum Pythagoram philosophum dicit in reperienda modulandaque status longitudinisque eius praestantia. Nam cum fere constaret curriculum stadii,

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L’accusativo con l’infinito appare per lo più in dipendenza da una principale reggente (tale circostanza è indizio del rilievo e della dignità stilistica riconosciuta a tale costruzione latineggiante); meno frequentemente appare in dipendenza da una proposizione secondaria; nei due passi che seguono è posto di seguito a una concessiva e, rispettivamente, a un’infinitiva: «Quanto più adunque sarà eccellente il nostro cortegiano in questa arte, tanto più sarà degno di laude, bench’io non estimi esser in lui necessaria quella perfetta cognizion di cose e l’altre qualità che ad un capitano si convengono» (Co I, xvii, p. 36), «e, bastandoci aver dimostrato le corti de’ nostri tempi non esser di minor laude degne che quelle che tanto laudano i vecchi, attenderemo ai ragionamenti avuti sopra il cortegiano» (Co II, iv, p. 98).

Vediamo ora una serie di reggenti, scegliendo tra quelli che ricorrono con maggiore frequenza: affermare: «aπermando ogni bon costume e bona maniera di vivere, ogni virtù, in somma ogni cosa, andar sempre di male in peggio» (Co II, i, p. 92), «aπermando quelle [scil.corti] di che essi hanno memoria esser state molto più eccellenti» (Co II, ii, p. 94); allegare: «Non vorrei già che qualche avversario mi adducesse gli eπetti contrarii per rifiutar la mia opinione, allegandomi gli Italiani col lor saper lettere aver mostrato poco valor nell’arme da un tempo in qua» (Co I, xliii, p. 74: tre infinitive in un periodo); confermare: «confemano i nostri fanciulli aver più ingegno che non aveano i loro vecchi» (Co II, iii, p. 97); con verbo finito: «confermarete voi, che la pittura sia capace di maggior artificio che la statuaria?» (Co I, l, p. 83); conoscere: «conosce essere vero» (Co I, xliv, p. 76), «Voglio adunque che ’l cortegiano, oltre lo aver fatto ed ogni dì far conoscere ad ognuno sé esser di quel valore che già avemo detto, si volti con tutti i pensieri e forze dell’animo suo ad amare e quasi adorare il principe» (Co II, xviii, p. 112: subord. di 2° grado, coreferente); credere: «sforzavansi di far credere ad ognuno sé non aver notizia alcuna di lettere» (Co I, xxvi, p. 47: coreferente), «credendo di far bene ed or il mio sarebbe stato conoscendo di far male» (Co Dedicatoria, ii, p. 9), «Per reprimere adunque molti sciocchi, i quali per esser prosuntuosi ed inetti si credono acquistar nome di bon cortegiano» (Co I, xii, p. 30: coreferente); dire: «sempre con dir così fatte novelluzze, non esser suo mestiero» (Co I, xvii, p. 37), «Ma perché voi diceste questo spesse volte esser don della natura e de’ cieli, ed ancor quando non è così perfetto potersi con studio e fatica far molto maggiore» (Co I, xxiv, p. 45: accusativo con infinito ripetuto), «E però ben dicea Socrate parergli che gli ammaestramenti suoi avessino fatto buon frutto quando per quelli chi si fosse s’incitava a voler conoscer ed imparar la virtù» (Co I, xli, p. 71: subord. 2° grado), «[potrei dirvi] Metrodoro, filosofo e pittore eccellentissimo, essere stato da’ Ateniesi mandato a Lucio Paolo per ammaestrargli i figlioli ed ornargli il trionfo che a far avea» (Co I, lii, p. 86: il reggente potrei dirvi appare otto righi prima), «dicono in questi tempi esser tutto l’opposto» (Co II, ii, p. 95), «e dicono non convenirsi ai giovani passeggiar per le città cavallo» (Co II, iii, p. 95), «dicendo non si accordar in questo con la opinione di Socrate, né esser cosa da filosofo il dir mai di non sapere» (Co II, xxxix, p. 137: subord. plurima, coreferenza nella 1a subord.); quod est Pisis apud Jovem Olympium, Herculem pedibus suis metatum idque fecisse longum pedes sescentos, cetera quoque stadia in terra Graecia ab aliis postea instituta pedum quidem esse numero sescentum, sed tamen esse aliquantulum breviora, facile intellexit modum spatiumque plantae Herculis ratione proportionis habita tanto fuisse quam aliorum procerius, quanto Olympicum stadium longius esset quam cetera. Comprehensa autem mensura Herculani pedis secundum naturalem membrorum omnium inter se competentiam modificatus est atque ita id collegit, quod erat consequens, tanto fuisse Herculem corpore excelsiorem quam alios, quanto Olympicum stadium ceteris pari numero factis anteiret».

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estimare: «tra le quali [scil. cause] estimo la fortuma esser precipua» (Co I, xv, p. 34), «bench’io non estimi esser in lui necessaria quella perfetta cognizion di cose e l’altre qualità che ad un capitano si convengono» (Co I, xvii, p. 36), «Ed io estimo quel solo esser vero filosofo morale che vole esser bono» (Co I, xli, p. 71), «anzi estimo [...] esser la musica non solamente ornamento, ma necessaria al cortegiano» (Co I, xlviii, p. 81), «onde per fruirla estima essere necessario l’unirsi più intimamente che po con quel corpo» (Co IV, lii, p. 340); mostrare: «mostravan le loro orazioni esser fatte simplicissimamente e più tosto secondo che loro porgea la natura e la verità che lo studio e l’arte» (Co I, xxvi, p. 46), «Platone ed Aristotele [...] mostrano la forza della musica in noi essere grandissima e [...] doversi necessariamente imparare da puerizia [...] e non solamente non nocere alle cose civili e alla guerra, ma loro giovar sommamente» (Co I, xlvii, p. 80: quattro infinitive); presumere: «Così noi desideriamo che tutti quelli [...] presumano e per fermo tengano la corte d’Urbino esser stata molto più eccellente ed ornata d’omini singulari che noi non potemo scrivendo esprimere» (Co III, i, p. 205: due reggenti, subord. di 2° grado); promettere «e prometta nella fronte quel tale esser degno del commercio e grazia d’ogni gran signore» (Co I, xiv, p. 34); vedere: «Avemo veduti altri al principio in pochissima estimazione, poi esser all’ultimo riusciti benissimo» (Co I, xvi, p. 35).

La subordinazione di 2° grado dipende per lo più dalla presenza di verba dicendi e del Discorso riportato. 30  

6. 3. 2. La composizione dei periodi Esaminiamo ora i fenomeni riguardanti i rapporti che s’instaurano tra le completive in un periodo complesso e che fondano l’architettura di questa prosa. Subordinazione multipla il tipo più diπuso è che ... e che; ma in (es. p. 327) da un unico complementatore che dipendono quattro completive. I reggenti più comuni sono i verba dicendi e i verba voluntatis: «non si po dire che questi tali non s’ingannino e che lo amante non divenga cieco circa la cosa amata» (Co I, vii, p. 23), «Però vorrei che questa sera il gioco nostro fusse il disputar questa materia e che ciascun dicesse: avendo io ad impazzir publicamente, di che sorte di pazzia si crede ch’io impazzissi e sopra che cosa» (Co I, viii, p. 25), «Anzi a cortegian tanto eccellente e così perfetto non è dubbio che l’uno e l’altro è necessario a sapere, e che senza queste due condizioni forse tutte l’altre sariano non molto degne di laude» (Co I, xxxi, p. 54), «e ricordano che in quei tempi non si saria trovato [...] e che non erano combattimenti [...] e che nelle corti allor regnavano» (Co II, ii, pp. 94-95), «Però, se a me toccasse instituirlo, vorrei che egli avesse cura non solamente di governar le cose già dette, ma le molto minori, ed intendesse tutte le particularità appartenenti ai suoi populi quanto fosse possibile, né mai credesse tanto, né tanto si confidasse d’alcun suo ministro, che a quel solo rimettesse totalmente la briglia e lo arbitrio di tutto ‘l governo» (Co IV, xli, p. 327).

La subordinazione multipla si accompagna sovente all’accumulo di secondarie: Allora il magnifico Iuliano: - Vorrei, - disse - messer Federico, poiché avete fatto menzion di questi che s’accompagnano cosi voluntieri coi ben vestiti, che ci mo30   La sintassi del Discorso riportato è stata analizzata, «in autori diversissimi tra di loro del Cinque e Seicento», da Bozzola (2004: 47-85), che si è soπermato in particolare sulle frasi infinitive e sui fenomeni d’ibridazione con il Discorso indiretto libero.

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la prosa del cinquecento straste di qual manera si debba vestire il cortegiano e che abito più se gli convenga e, circa tutto l’ornamento del corpo, in che modo debba governarsi; perché in questo veggiamo infinite varietà: e chi si veste alla franzese, chi alla spagnola, chi vol parer tedesco; né ci mancano ancor di quelli che si vestono alla foggia de’ Turchi; chi porta la barba, chi no (Co II, xxvi, p. 122).

La struttura ternaria riguarda le interrogative indirette e la coda di esplicative; un periodo indipendente, ma con la stessa funzione, chiude il brano. A volte la serie di proposizioni dipendenti da un unico reggente è più estesa. Subordinazione mista Si considerano vari fenomeni subordinativi: l’accoppiamento di un complemento con una subordinata o di due subordinate di diversa natura (con verbo finito e con infinitiva). L’alternarsi di queste modalità di uso conferma quell’ideale di variatio stilistica che è al fondo dell’opera e che, in determinate circostanze, sembra ridurre a una condizione di normalità anche le riprese di tratti sintattici del latino. Complemento + completiva di modo finito «la signora Emilia Pia, la qual per esser dotata di così vivo ingegno e giudicio, come sapete, pareva la maestra di tutti, e che ognuno da lei pigliasse senno e valore» (Co I, iv, p. 19), «ne contentaremo, come avemo detto, della integrità di fede e dell’animo invitto e che sempre si vegga esser tale» (Co I, xvii, p. 37). Complemento + infinitiva «Avendo adunque il cortegiano, nel motteggiare e dir piacevolezze, rispetto al tempo, alle persone, al grado suo e di non essere in ciò troppo frequente [...], potrà esser chiamato faceto» (Co II, lxxxiii, p. 185). Infinitiva + completiva di modo finito: «né però gli sa insegnare a farle [scil. l’arme] né come le martelli e tempri» (Co I, xxv, p. 46), «dicono in questi tempi esser tutto l’opposto, e che non solamente tra i cortegiani è perduto quell’amor fraterno e quel viver costumato, ma che nelle corti non regnano altro che invidie e malivolenzie, mali costumi e dissolutissima vita in ogni sorte di vicii: le donne lascive senza vergogna, gli omini eπeminati» (Co II, ii, p. 95).

In (es. p. 95) si ha una sorta di gradatio subordinativa: accusativo con l’infinito, due proposizioni con verbo finito introdotte dal che, due proposizioni ellittiche del verbo (nominali). Interessa la sintassi del periodo l’alternanza tra verbo finito e infinito nella subordinazione di primo e secondo grado: e ricordarò quanto sempre appresso gli antichi [scil. la musica] sia stata celebrata e tenuta per cosa sacra, e sia stato opinione di sapientissimi filosofi il mondo esser composto di musica, e i cieli nel moversi far armonia, e l’anima nostra pur con la medesima ragione esser formata, e però destarsi e quasi vivificar le sue virtù per la musica (Co I, xlvii, p. 79).

Subordinazione di 2° grado In questa struttura, che si sviluppa soprattutto dall’esigenza d’introdurre il discorso riferito, i reggenti che appaiono con maggiore frequenza sono mostrare, i verba dicendi e demonstrandi: «Quivi, mostrando messer Cesare non restar satisfatto né voler consentir per modo alcuno che altri che esso medesimo potesse gustare quel piacer ch’egli sentiva di contemplar la bellezza d’una donna, ricominciò a dire» (Co I, liii, p. 87), «parmi, signor conte, che voi questa sera più volte abbiate replicato che ’l cortegiano ha da compagnar l’operazion sue, i gesti, gli abiti, in somma ogni suo movimento con la

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grazia (Co I, xxiv, p. 45), «e ricordarò quanto sempre appresso gli antichi sia stata celebrata e tenuta per cosa sacra [scil. la musica] e sia stato opinione di sapientissimi filosofi il mondo esser composto di musica, e i cieli nel moversi far armonia, e l’anima nostra pur con la medesima ragione esser formata, e però destarsi e quasi vivificar le sue virtù per la musica» (Co I, xlvii, p. 79: subord. mista e multipla), «e, bastandoci aver dimostrato le corti de’ nostri tempi non esser di minor laude degne che quelle che tanto laudano i vecchi, attenderemo ai ragionamenti avuti sopra il cortegiano» (Co II, iv, p. 98), «il quale [scil. cortegiano] perciò voi vorreste che si credesse che potesse esser molto più perfetto, che quello che hanno formato questi signori» (Co III, lxxvii, p. 286), «Non negherò già che al mondo non sia possibile trovar ancora delle belle donne impudiche, ma non è già che la bellezza le incline alla impudicizia» (Co IV, lix, p. 346).

Le infinitive appaiono anche in altri cotesti; si connettono a un verbo reggente mediante le preposizione di e a, formando un sintagma verbale, che può rappresentare una modalità dell’azione. Dopo aver citato alcuni ess. d’infinito apreposizionale, si riporteranno ess. d’infinito preposizionale, distinti in base alla preposizione. Infinito apreposizionale: «Berolado, che aπermava voler in ogni modo andare a Bologna» (Co II, lxiii, p. 164); l’inf. aprep. dipendente da un reggente verbale o aggettivale, pur minoritario rispetto al tipo con preposizione, conta ancora numerosi esempi: «cominciate aver paura» (Co III, iii, p. 207), «e certo molto minor fatica mi saria formar una signora che meritasse esser regina del mondo» (Co VIII, iv, p. 208), «mostrano non credere ed estimar quasi un mostro che una donna sia impudica» (Co III, v, p. 210), «ma dubito non saper imitare altro che le cose che fanno ridere» (Co II, l, p. 150), «finse volersi attaccare una scarpa» (Co III, xlvii, p. 255), «monsignor il vescovo era deliberatissimo castigarlo» (Co II, lxi, p. 161); si ritrova la successione di due infinitive preposizionali, costruzione evitata nella prosa umanistica: «credo che [...], sia necessario fare ancor qualche altra dimostrazione di questo amore tanto chiara che la donna non possa dissimular di conoscere d’essere amata» (Co III, lxiv, p. 274). Separata dal reggente, a causa di un’interposizione, la preposizione prende rilievo nel periodo: «Questo medesimo diπetto parmi che abbia il nostro fra Serafino, di non saper levar le mani dalla tavola»(Co I, xxviii, p. 50), «al cortegian basterà esser tale che, se ’l principe n’avesse bisogno, potesse farlo virtuoso; e con lo eπetto poi potrà satisfare a quell’altra parte, di non lassarlo ingannare e di far che sempre sappia la verità d’ogni cosa e d’opporsi agli adulatori» (Co IV, xlvi, p. 333). “Di + inf.” appare talvolta in luogo di “a + inf.”: «e già ognun si preparava di parlar sopra tal materia» (Co I, xi, p. 28); «consueto di trattar cose importanti» (Co II, xix, p. 114), «è stata costante di non palesar mai questo a persona del mondo» (Co III, xlix, p. 259). A + infinito: «ben furono bastanti a far fede che la fortuna, come sempre fu, così è ancor oggidì contraria alla virtù» (Co Dedicatoria, 1, p. 7), «si mettono a dar favore» (Co I, xvi, p. 35), «credo che possa ragionevolmente mettersi a far quello che più la ragione e ’l giudicio suo gli detta» (Co II, xxiv, p. 120), «E già cominciava a dir sue novelle» (Co I, ix, p. 25), «io ho pensato benissimo dove e’ s’abbia a mettere» (Co II, li, p. 152), «pregovi ad ascoltarmi con attenzione» (Co IV, li, p. 338). Da + infinito: «Questo ci avete [...] da insegnar voi» (Co I, xviii, p. 38), «il cortegiano abbia da saper lottare e volteggiare» (Co I, xxv, p. 45). Di + infinito: «sforzavansi di far credere ad ognuno sé non aver notizia alcuna di lettere» (Co I, xxvi, p. 147), «quelli che restavano di far male per non saperlo fare» (Co II, iii, p. 96), «Questo mercatante [...] deliberò di comperare una quantità di zibellini, con opinion di portargli in Italia» (Co II, lv, p. 155). In + infinito: dipende da un aggettivo e assume spesso un valore limitativo: «sia cauto in supprimergli» (Co I, xliv, p. 75), «ardito in parlar sicuramente con ognu-

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la prosa del cinquecento no» (Co I, xliv, p. 75), «parco in dire» (Co I, xliv, p. 76); dipendente da un verbo ha valore nominale: «il quale sempre stia in sul laudar se stesso» (Co I, xxvi, p. 46), «ed in tal modo l’omo mette studio e diligenza in acquistar un vicio odiosissimo» (Co I, xxviii, p. 51), «gusta quel piacere che s’ha nel conseguir le cose di√cili» (Co I, xxx, p. 53), «la qual cosa intendendo il signore, amorevolmente si dolse col padre, dicendo che gli pesava molto, perché, in avergli veduti una sol volta, gli eran parsi molto belli e discreti figlioli» (Co II, li p. 152). Con + infinito ha valore mediale e circostanziale: «Però secondo che col laudarci molto questa qualità a tutti avete, credo, generato un’ardente sete di conseguirla, per lo carico dalla signora Emilia impostovi siete ancor, con l’insegnarci, obligato ad estinguerla» (Co I, xxiv, p. 45), «voglio che questa donna abbia notizia di lettere, di musica, di pittura, e sappia danzar e festeggiare; accompagnando con quella discreta modestia e col dar bona opinion di sé ancora le altre avvertenzie che son state insegnate al cortegiano» (Co III, ix, p. 214). Per + infinito ha valore causale e finale: «dove di tali ragionamenti maraviglioso piacere si pigliava per esser, come ho detto, piena la casa di nobilissimi ingegni» (Co I, v, p. 20), «Signora, poiché l’aver io desiderato molt’altre bone qualità nel cortegiano si batteggia per promessa ch’io le abbia a dire, son contento parlarne, non già con opinion di dir tutto quello che dir vi si poria, ma solamente tanto che basti per levar dell’animo vostro quello che ierisera opposto mi fu, cioè ch’io abbia così detto più tosto per detraere alle laudi della donna di palazzo, con far credere falsamente che altre eccellenzie si possano attribuire al cortegiano» (Co IV, iii, p. 290: tre infinitive prepos.), «Chi adunque vorrà esser bon discipulo, oltre al far le cose bene, sempre ha da metter ogni diligenzia per assimigliarsi al maestro e, se possibil fusse, transformarsi in lui» (Co I, xxvi, p. 46: tre infinitive prepos.).

La presenza compatta di queste infinitive preposizionali, variamente strutturate, è un aspetto rilevante della sintassi del Cortegiano. Le interrogative indirette hanno forme ed estensione varie in rapporto alle necessità e alle circostanze che si presentano nel dialogo: interrog. che, che cosa: «ma a me non sanno già essi dare ad intendere che cosa sia stile né numero, né in che consista l’imitazione, né perché le cose tolte da Omero o da qualche altro stiano tanto bene in Virgilio» (Co I, xxxix, p. 68: interrog. multipla), «e dimandandogli un di que’ suoi compagni che sorte di musica più gli era piaciuta [...], disse» (Co II, liii, p. 154); interrog. come ‘in quale modo’: «mostratemi come acquistino i vecchi questa felicità d’amore» (Co IV, lvi, p. 343), «Ah, – disse messer Pietro – voi dianzi avete dannati i Franzesi che poco apprezzan le lettre e detto quanto lume di gloria esse mostrano agli omini e come gli facciano immortali; ed or pare che abbiate mutata sentenzia» (CoI, xlv, p. 77: interrog. multipla); interrog. quale, cui: «Dichiarate dunque un poco più minutamente questa forma del corpo, quale abbia ella da essere» (Co I, xix, p. 40), «intenderò ancora quali esse [scil. quelle bone condizioni] siano» (Co I, lv, p. 89), «credere si po che essi ancor avessero l’animo indirizzato alla imitazione, benché noi non sappiam di cui» (Co I, xxxvii, p. 64); interrog. quanto: «la qual cosa quanto paresse a Filippo re di Macedonia importante, si po comprendere, avendo voluto che Aristotele [...] fosse quello che insegnasse i primi elementi delle lettere ad Alessandro suo figliolo» (Co I, xxv, p. 46: prolessi iniziale), «[scil. un Bresciano] in presenzia mia narrava a certi suoi compagni le belle cose che v’avea vedute; e quante mercanzie, e quanti argenti, speziarie, panni e drappi v’erano; poi la Signoria con gran pompa essere uscita a sposar il mare in Bucintoro» (Co II, liii, p. 154: le belle cose, nome generale che anticipa la serie, la quale è conclusa con un accusativo con l’infinito, subordinazione mista);

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interrog. onde: «Ma avendo io già più volte pensato meco onde nasca questa grazia, lassiando quegli che dalle stelle l’hanno, trovo una regula universalissima» (Co I, xxvi, p. 47), «Non senza meraviglia ho più volte considerato onde nasca un errore» (Co II, i, p. 92); interrog. se: «vorrei sapere, essendomi imposto da un mio signor terminatamente quello ch’io abbia a fare in una impresa o negocio di qualsivoglia sorte, s’io, ritrovandomi in fatto, e parendomi con l’operare più o meno o altrimenti di quello che m’è stato imposto, poter fare succedere la cosa più prosperamente o con più utilità di chi m’ha dato tal carico, debbo io governarmi secondo quella prima norma senza passar i termini del comandamento» (Co II, xxiv, p. 119: interrog. indiretta con estese interposizioni), «Non so già però s’io mi creda che Aristotile e Platone mai danzassero o fossero musici in sua vita, o facessero altre opere di cavalleria» (Co IV, xlviii, p. 90); interrog. multipla: «Vorrei ben che dechiaraste in che modo questa e l’altre qualità che voi gli assignate, siano da esser operate, ed a che tempo e con che maniera» (Co I, xlviii, p. 81); v. supra altri ess. di interrog. multipla: che cosa ... perché, quanto ... come.

6. 3. 3. La forma dei periodi Le circostanze dell’enunciazione sono esposte per lo più in capo al periodo; alla seconda parte di esso è riservato il compito di chiarire le cause, i fini, le conseguenze di quanto è stato detto in precedenza. Causali, esplicative, concessive, consecutive, finali, modali formano, singolarmente o combinandosi tra loro, sviluppi subordinativi di diversa estensione; si seguono schemi di periodo di varia forma e struttura: le scelte si attuano tra i due poli della linearità e della complessità, ma, come sempre in Castiglione, prevale una scelta ispirata alla medietas. In alcuni casi, soprattutto negli scambi di battute, per riprodurre l’andamento del parlato, si attua una successione di frasi coordinate. Nel brano che segue notiamo alla fine un’esplicativa interrotta da due secondarie; la complessità strutturale non limita la chiarezza dell’esposizione: Ma, ditemi per qual causa non s’è ordinato che negli omini così sia vituperosa cosa la vita dissoluta come nelle donne, atteso che se essi sono da natura più virtuosi e di maggior valore, più facilmente ancora poriano mantenersi in questa virtù della continenzia e i figlioli né più né meno sariano certi; ché, sebben le donne fossero lascive, purché gli omini fossero continenti e non consentissero alla lascivia delle donne, esse da sé a sé e senza altro aiuto già non porian generare (Co III, xxxviii, p. 246).

Nella seconda parte del periodo appare un seguito di congiunzioni e nessi subordinanti: atteso che, ché, sebben, purché, i quali formano incisi e riprese, aventi una funzione di correctio e di precisazione discorsiva. Questa tendenza impone talvolta la successione di due proposizioni dello stesso tipo; nell’es. che segue si tratta di due causali: Ma i principi di questa sorte sono tanto peggiori quanto che i colossi per la loro medesima gravità ponderosa si sostengon ritti; ed essi, perché dentro sono mal contrapesati e senza misura posti sopra basi inequali, per la propria gravità ruinano se stessi e da un errore incorrono in infiniti, perché la ignoranzia loro, accompagnata da quella falsa opinion di non poter errare e che la potenzia che hanno proceda dal lor sapere, induce loro per ogni via, giusta o ingiusta, ad occupar stati audacemente, pur che possano (Co IV, vii, p. 294).

In pochi casi un’esigenza di esattezza e, al tempo stesso, la volontà di prevenire possibili obiezioni danno origine a un accumulo di secondarie (si noti di nuovo

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la presenza di due causali), poste alla fine del periodo; costante è, in ogni modo, l’attenzione alla composizione dell’insieme e alla perspicuità di ogni singola parte: Io, circa questo, vi darei la sentenzia con lo esempio di Manlio Torquato che in tal caso per troppo pietà uccise il figliolo, se lo estimasse degno di molta laude, che in vero non l’estimo benché ancor non oso biasmarlo contra la opinion di tanti seculi: perché senza dubio è assai periculosa cosa desviar dai comandamenti dei suoi maggiori, confidandosi più del giudicio di se stessi che di quegli ai quali ragionevolmente s’ha da ubedire; perché, se per sorte il pensier vien fallito e la cosa succeda male, incorre l’omo nell’error della disubidienzia e ruina quello che ha da far senza via alcuna di escusazione o speranza di perdono; se ancor la cosa vien secondo il desiderio, bisogna laudarne la ventura e contentarsene (Co II, xxiv, p. 120).

Da un sondaggio riguardante la complessità dei periodi risulta che la media delle proposizioni per ogni frase è 6 unità, con un massimo di 10 e un minimo di 2; l’alternanza di frasi brevi e lunghe appare in alcuni luoghi dell’opera, ma non ha un carattere artificioso; risulta inoltre che le proposizioni relative sono circa il triplo delle gerundiali. Pur nella loro elementarità questi dati sembrano confermare quanto si è detto sull’equilibrio fondamentale che sostiene la sintassi del periodo e lo stile del Cortegiano. La tendenza al continuum della linea sintattica risalta nell’uso delle congiunzioni coordinanti, che appaiono di frequente sia all’inizio dei periodi, sia al loro interno; in quest’ultima posizione risultano collegate tra loro frasi di varia estensione, carattere che si accorda allo stile di quelle scene, in cui sono descritti, per lo più con intento ironico, rapidi movimenti: Ma, quando si trova l’omo esser entrato tanto avanti che senza carico non si possa ritrarre, dee, e nelle cose che occorrono prima del combattere e nel combattere, esser deliberatissimo e mostrar sempre prontezza e core; e non far com’alcuni, che passano la cosa in dispute e punti e, avendo le elezion dell’arme, pigliano arme che non tagliano né pungono, e si armano come s’avessero ad aspettar le cannonate; e, parendo lor bastare il non essere vinti, stanno sempre in sul difendersi e ritirarsi, tanto che mostrano estrema viltà; onde fannosi far la baia da’ fanciulli, come que’ dui Anconitani, che poco fa combatterono a Perugia e fecero ridere chi gli vide (Co I, xxi, p. 41: si noti omo impersonale).

Un diverso modo di avviare il periodo consiste nel ricorrere alla coniunctio relativa, nesso frasale frequente nella prosa letteraria del tempo, ma che nel Cortegiano è riservato per lo più a passaggi in cui il cotesto richiede un particolare impegno stilistico: «e spesso solamente con quel splendore e dignità fanno la elocuzion bella, dalla virtù della quale ed eleganzia ogni subietto, per basso che egli sia, po esser tanto adornato che merita somma laude» (Co I, xxx, p. 53), «Appresso gli mostrarei che delle cure, che al principe s’appartengono, la più importante è quella della giustizia; per la conservazion della quale si debbono eleggere nei magistrati i savii e gli approvati omini, la prudenzia de’ quali sia vera prudenzia accompagnata dalla bontà, perché altrimenti non è prudenzia ma astuzia» (Co IV, xxxii, p. 317).

In quest’ultimo es. la coniunctio relativa appare due volte a breve distanza; è un tratto che possiamo confrontare con la successione di due relative quale nel passo che segue: «In Massilia fu già una consuetudine, la quale s’estima che di Grecia fosse traportata, la quale era che publicamente si servava veneno temperato con cicuta e concedevasi il pigliarlo a chi approvava al senato doversi levar la vita» (Co III, xxiv, p. 229). Anche la presenza del nesso il che, posto all’inizio del periodo, riduce l’uso del dimostrativo nonché del tipo e questo è che:

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«parmi necessario che e’ sappia componere tutta la vita sua e valersi delle sue bone qualità universalmente nella conversazion de tutti gli omini senza acquistarne invidia: il che quanto in sé di√cil sia, considerar si po dalla rarità di quelli che a tal termine giunger si veggono» (Co II, vii, p.100), «Ma ciò non intervien degli omini, i quali governano le città, gli eserciti e fanno tante altre cose d’importanzia: il che, poi che voi volete così, non voglio disputar come sapessero far le donne» (Co III, xxxixv, p. 24).

I nessi che abbiamo ora descritto indicano una moderata tendenza latineggiante nella scelta dei collegamenti interfrasali, quasi a compensare la discorsività che ricorre, spesso con toni colloquiali, nell’intero Cortegiano. 6. 4. Le proposizioni avverbiali Esaminiamo ora i principali tipi di proposizioni avverbiali, le quali svolgono un ruolo di primo piano nella costruzione del periodo castiglioneo e nella composizione del testo. Un tratto saliente di questo settore è la varietà di tipi sintattici disposti in ordine vario nell’ambito del periodo; in ogni modo, si nota la preferenza per determinate dispositiones. 6. 4. 1. Causalità Sono avviate da vari introduttori dei quali il più frequente è perché; seguono: ché, imperocché e i tipi participiali atteso che, considerato che (il primo dei quali sembra aver raggiunto un notevole grado di grammaticalizzazione); sono invece assenti dato che e visto che. Il tipo perché è il più frequente e ottiene una varia collocazione nel periodo, anche se la precedenza alla principale gode di un favore particolare: «Voglio adunque che questo cortegiano sia nato nobile [...] perché la nobiltà è quasi una chiara lampa, che manifesta e fa vedere l’opere bone e le male» (Co I, xiv, p. 32), «dubitano d’ingannar se medesimi e sempre aspettano qualche cosa di nascosto: perché pare che queste opinioni universali debbano esser pur fondate sopra il vero e nascere da ragionevoli cause e perché gli animi nostri sono prontissimi allo amore ed all’odio» (Co I, xvi, p. 36), «E perché de gli Italiani è peculiar laude cavalcare alla brida, il maneggiar con ragione massimamente cavalli asperi, il correr lance e ’l giostrare, sia in questo de’ migliori Italiani» (Co I, xxi, p. 42), «Questi tali inamorati dunque amano infelicissimamente, perché ovvero non conseguono mai li desiderii loro, il che è grande infelicità; ovver, se gli consegueno, si trovano aver conseguito il suo male e finiscono le miserie con altre maggior miserie» (Co IV, lii, p. 340: causale perché con disgiunzione ovvero ... ovvero).

Rare sono le causali introdotte da ché e imperò che: «E ’l nome di queste bone condicioni si acquisterà facendone l’opere in ogni tempo e loco; imperocché non è licito in questo mancar mai» (Co I, xvii, p. 36), «ché, per esser questo troppo gran mare, ne contentaremo, come avemo detto, della integrità di fede» (Co I, xvii, p. 37: incrocio di due causali), «ma bisogna che voi diciate circa questo ciò che ne sapete, ché del resto n’averemo per escusato» (Co I, xxxi, p. 54).

Le causali participiali sono rappresentate da atteso che, considerato che (la mancanza di dato che, visto che è significativa): «e questo e molte altre cose son più al proposito che ’l formar questa donna di palazzo, atteso che le medesime regule che son date per lo cortegiano, servono an-

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la prosa del cinquecento cor alla donna» (Co III, iii, p. 207), «non so come, essendo di età provetto, se gli convenga l’essere inamorato; atteso che, come questa sera s’è detto, l’amor ne’ vecchi non riesce e quelle cose che ne’ giovani sono delicie e cortesie, attillature tanto grate alle donne, in essi sono pazzie ed inezie ridicule» (Co IV, xlix, p. 336), «Pur desidero io d’intendere qualche particularità ancor della foggia dell’intertenersi con omini e con donne: la qual cosa a me par di molta importanzia, considerato che ’l più del tempo in ciò si dispensa nelle corti» (Co II, xxxi, p. 128).

La causale “per + infinito” non è rara e appartiene alla moderata tendenza latineggiante del trattato: «dove di tali ragionamenti maraviglioso piacere si pigliava per esser, come ho detto, piena la casa di nobilissimi ingegni» (Co I, v, p. 20), «Questa dunque è stata lungamente incomposta e varia per non aver avuto chi le abbia posto cura, né in essa scritto, né cercato di darle splendore e grazia alcuna» (Co I, xxxii, p. 56). 31  

Vediamo un passo in cui la causale esplicita e quella implicita (che specifica la prima) si susseguono: Per questo dunque, messer Federico mio, credo, se l’omo da sé non ha convenienza con qualsivoglia autore, non sia bene sforzarlo a quella imitazione; perché la virtù di quell’ingegno s’ammorza e resta impedita per esser deviata dalla strada nella quale avrebbe fato profitto, se non gli fusse stata precisa (Co I, xxxvii, p. 66: nota omo impersonale).

Le gerundiali assumono non raramente valore causale. Negli ess. citati il significato predominante è “motivo di fare”: perché (ess. pp. 32, 36, 42, 340), imperocché (es. p. 36), per + inf. (ess. pp. 20, 36, 56); “motivo di dire” (ess. atteso che, condiderato che). 6. 4. 2. Consecutività La strutturazione ipotattica si manifesta nell’uso frequente di queste proposizioni, le quali abbracciano sovente brani di notevole estensione, sviluppando più piani sintattici. Non è rara la successione di due consecutive, fenomeno che corrisponde alla tendenza binaria che governa molte scelte di sintassi e di stile: «Ritrovansi poi ancor alcun’altri tanto freddi che fuggono il consorzio degli omini troppo fuor di modo e passano un certo grado di mediocrità, tal che si fanno estimare o troppo timidi o troppo superbi» (Co II, xxii, p.117), «Da questo interviene che i signori, oltre al non intendere mai il vero di cosa alcuna, inebbriati da quella licenziosa libertà che porta seco il dominio e dalla abundanzia delle delizie, sommersi nei piaceri, tanto s’ingannano e tanto hanno l’animo corrotto, veggendosi sempre obediti e quasi adorati con tanta riverenzia e laude, senza mai non che riprensione ma pur contradizione, che da questa ignoranzia passano ad una estrema persuasion di se stessi talmente che poi non ammettono consiglio né parer d’altri (Co IV, vii, p.293).

Gli introduttori più frequenti delle consecutive sono così .... che e tanto ... che: «tiene una certa dolcezza e così graziosi costumi che forza è che gli parla o pur lo vede gli resti perpetuamente aπezionato» (Co I, xiv, p. 33), «non era però in alcuna di queste condizioni tanto eccellente che non se gli trovassimo molti pari ed ancor superiori» (Co II, xxxiv, p. 131). Ma un’impronta particolare è data dalla frequenza dei sottotipi talmente che e di modo che: 31

  Altri esempi di causali “per + infinito” sono in 6.11., par. dedicato all’infinito preposizionale.

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«Ma la fortuna, invidiosa di tanta virtù, con ogni sua forza s’oppose a così glorioso principio, talmente che, non essendo ancor il duca Guido giunto alli venti anni, s’infermò di podagre» (Co I, iii, p. 17), «Il fine dunque del perfetto cortegiano [...] estimo io che sia il guadagnarsi, per mezzo delle condicioni attribuitegli da questi signori, talmente la benevolenza e l’animo di quel principe a cui serve, che possa dirgli e sempre gli dica la verità d’ogni cosa» (Co IV, v, p. 292), «deve [...] talmente chiuder i passi al senso e agli appettiti che né per forza né per in inganno vi entrino» (Co IV, lxii, p. 348); «il paese è fertilissimo e pien di frutti; di modo che, oltre alla salubrità dell’aere, si trova abundantissima d’ogni cosa che fa mestieri per lo vivere umano» (Co I, ii, p. xxx), «[scil. Giulio II] passò per Urbino; dove quanto era possibile onoratamente e con quel più magnifico e splendido apparato che si avesse potuto fare in qualsivoglia altra nobil città d’Italia, fu ricevuto; di modo che, oltre il Papa, tutti i signor cardinali ed altri cortegiani restarono summamente satisfatti» (Co I, vi, p. xxx), «tutti boni e l’un l’altro diversissimi: di modo che chi potesse considerar tutti gli oratori che sono stati al mondo, quanti oratori tante sorti di dire trovarebbe» (Co I, xxxvii, p. 65).

Una diπusione media raggiungono le consecutive prive d’introduttori e nelle quali è la semantica dell’aggettivo o di altro componente della frase a esprimere il senso e lo scopo della consecuzione: «Se adunque degli omini literati e di bono ingegno e giudicio [...] fussero alcuni, li quali ponessino cura di scrivere del modo che s’è detto in questa lingua cose degne d’essere lette, tosto la vederessimo culta ed abundante de termini e belle figure, e capace che in essa si scrivesse così bene come in qualsivoglia altra» (Co I, xxxv, p. 60), «però, se in loco alcuno son omini che meritino esser chiamati bon cortegiani e che sappiano giudicar quello che alla perfezion della cortegiania s’appartiene, ragionevolmente si ha da creder che qui siano» (Co I, xii, p. 30).

6. 4. 3. Concessività Le proposizioni concessive raggiungono una discreta frequenza, soprattutto nei passi argomentativi. S’incontra spesso il sottotipo ancora che, il quale appare anticipato alla principale, posposto ad essa o in forma d’incidentale. Insieme ad ancora che, appaiono le congiunzioni subordinanti avvegna che, se bene, purché: ancora che: «ancora che non faccia altro, ad ognuno si dimostra esser perfettissimo in quello esercizio» (Co I, xxviii, p. 50), «non solamente non mostrano di non intendere chi lor parla d’amore, ancora che copertamente, ma alla prima parola accettano tutte le laudi che lor son date» (Co III, liv, p. 265), «Poiché tutte l’altre condicioni, disse, attribuite al cortegiano se gli confanno ancora che egli sia vecchio, non mi par già che debbiamo privarlo di questa felicità d’amare» (Co IV, xlix, p. 337), «spero farvi vedere che qui non è omo a cui si disconvenga l’esser inamorato, ancor che egli avesse quindici o venti anni più che ’l signor Morello» (Co IV, li, p. 338); un nesso raπorzato è avvegna ancora che: «sicché questo più tosto un stratogema militare dir si poria, che pura continenzia: avvegna ancora che la fama di questo non sia molto sincera» (Co III, xliv, p. 252); avvegna che: «Dico ben che delle burle e motti che voi, signor Gasparo, allegate, quello che disse Alonso alla signora Boadiglia, avvegna che tocchi un poco la onestà, non mi dispiace» (Co II, xciii, p. 197), «ora pensar dovete, reprimendo così acerbo nemico nostro, d’obligarvi molto più tutte le donne, e tanto che, avvenga che mai non si faccia altro che pagarvi, pur l’obligo debba sempre restar vivo, né mai si possa finir di pagare» (Co II, xcvii, p. 200), «Onde forse per l’avenire non mancherà chi per questo ancor porti invidia al secol

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nostro; ché non è alcun che legga le maravigliose cose degli antichi, che nell’animo suo non formi una certa maggior opinion di coloro di chi si scrive, che non pare che possano esprimer quei libri, avvegna che divinamente siano scritti» (Co III, i, p. 205), «Ma la timidità nelle donne, avvegna che dimostri qualche imperfezione, nasce però da laudabil causa, che è la sottilità e prontezza dei spiriti» (Co III, xviii, p. 222); se bene: «E se bene non la eserciteranno, per aver fattone già nell’animo un certo abito la gustaran molto più udendola, che chi non ne avesse cognizione» (Co II, xiv, p. 109). 32 purché: «A me pare – disse messer Federico – che ’l debito debba valer più che tutti i rispetti; e pur che un gentilomo non lassi il patrone quando fosse in su la guerra o in qualche avversità [...], credo che possa con ragion e debba levarsi da quella servitù» (Co II, xxii, p. 118), «tutti i peccati, per gravi che siano, facilmente perdona Iddio, pur che stiano secreti e non ne nasca il mal esempio» (Co III, xx, p. 224), «ché, sebben le donne fossero lascive, purché gli omini fossero continenti e non consentissero alla lascivia delle donne, esse da sé a sé e senza altro aiuto già non porian generare» (Co III, xxxviii, p. 264), «escuso quelli che vincer si lassano dall’amor sensuale, al qual tanto per la imbecillità umana sono inclinati; purché in esso mostrino gentilezza, cortesia e valore e le altre nobil condicioni che hanno dette questi signori; e quando non son più nella età giovenile, in tutto l’abbandonino» (Co IV, liv, p. 342). Sull’uso di purché v. Ageno (1981).  

6. 4. 4. Finalità Le proposizioni finali si distinguono in due tipi: le esplicite, introdotte da acciò che, e le implicite, introdotte da per. In entrambi i casi precedono per lo più la principale. Finale acciò che: «Acciò che il nostro gioco abbia la forma ordinata e che non paia che noi estimiam poco l’autorità dataci del contradire, dico che nel cortegiano a me non par così necessaria questa nobiltà» (Co I, xv, p. 34), «Signori, poiché l’ora è tarda, acciò che messer Federico non abbia escusazione alcuna di non dir ciò che sa, credo che sia bone diπerire il resto del ragionamento a domani» (Co I, lvi, p. 83). Finale “per + infinito”: «per eseguire questa determinazione, cominciai a rileggerlo [scil. il libro]» (Co Dedicatoria, i, p. 7)¸ «Per non tardare adunque a pagar quello che io debbo alla memoria de così eccellente signora [...] hollo [scil. il libro] fatto imprimere e publicare» (Co Dedicatoria, i, p. 8), «[scil. Crasso Muziano] mandò a domandare uno de’ dui alberi da nave che esso in Atene avea veduto, per fare un ariete da battere il muro (Co II, xxiv, p. 121), «la cosa fu assai palese, ed andò di modo che molte donne, oltre a queste, parte per far dispetto all’altre, parte per far come l’altre, posero ogni industria e studio per goder dell’amor di costui» (Co II, xxxiv, p. 132); espressioni formulari: «per dir il vero» (Co III, xxxix, p. 246), «Ma, per dirvi come io intendo, si trovano alcune operazioni, che, poi che son fatte, restano ancora, come l’edificare, scrivere ed altre simili» (Co II, xxviii, p. 125).

Poste in capo al periodo, le finali infinitive tematizzano il contenuto esposto, attuano un legame con il contesto e hanno sovente una funzione d’inquadramento; invece, le infinitive che sono poste alla fine del periodo, veicolano un contenuto aggiuntivo e conclusivo. 33  

6. 5. Testualità e progressione Come si è già visto, la chiarezza e l’equilibrio della composizione sono caratteri rilevanti dello stile del Cortegiano, non oπuscati dalla tendenza retorica che spinge, in particolari occasioni alla complessità periodale, vale a dire alle reggenze verbali a 32   È questo l’unico es. di se bene introduttore di concessiva; diverso è, ovviamente, il caso dell’espressione «se bene ho inteso» (Co IV, xvii, p. 302). 33   Sulla infinitiva con valore finale v. Charolles/Lamiroy (2002: 394, 398).

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lunga gittata, all’aπollamento iniziale di circostanziali e di parentetiche al centro del periodo. Risalta la qualità di una scrittura, lontana sia dall’imitazione del Decameron, sia dalle incertezze latineggianti della prosa umanistica. 34 Il Cortegiano presenta una sintassi del periodo regolare, la quale nei passi argomentativi predilige una struttura disposta su due piani fondamentali: una proposizione principale, dalla quale dipendono più subordinate, e un seguito di avverbiali aventi una funzione esplicativa.  

6. 5. 1. Riprese Ai periodi estesi e sintatticamente complessi si alternano riprese discorsive, dove il soggetto enunciatore è evidenziato da avvii del tipo: «parmi ... Io dubito assai che ... e so che voi ... e credo che» (Co II, xxi, p. 116). L’asindeto provoca un alleggerimento della struttura e conferisce il giusto movimento alla descrizione di un rapido succedersi di azioni: Spesso s’urtano giù per le scale, si dan de’ legni e de’ mattoni l’un l’altro nelle reni, mettonsi pugni di polvere negli occhi, fannosi ruinare i cavalli addosso ne’ fossi o giù di qualche poggio; a tavola poi, minestre, sapori, gelatine, tutte si danno nel volto, e poi ridono (Co II, xxxvi, p. 134);

presenta una serie di qualità positive, disposte in una progressione ascendente: «Rimovasi adunque dal cieco giudicio del senso e godasi con gli occhi quel splendore, quella grazia, quelle faville amorose, i risi, i modi e tutti gli altri piacevoli ornamenti della bellezza; medesimamente con l’audito la suavità della voce, il concento delle parole, l’armonia della musica (se musica è la donna amata)» (Co IV, lxii, p. 349), «e quivi trovaremo felicissimo termine ai nostri desidèri, vero riposo nelle fatiche, certo rimedio nelle miserie, medicina saluberrima nelle infirmità, porto sicurissimo nelle turbide procelle del tempestoso mar di questa vita» (Co IV, lxix, p. 357).

L’apposizione nominale serve a esprimere un commento o un giudizio: «liberalità veramente degna d’Alessandro: non solamente donar tesori e stati, ma i suoi proprii aπetti e desiderii» (Co I, lii, p. 85), (a proposito delle morte di Gaspare Pallavicino) «perdita grandissima non solamente alla casa nostra ed agli amici e parenti suoi, ma alla patria e a tutta la Lombardia» (Co IV, i, p. 287). 35 L’intento di comporre una summa delle pratiche sociali, degli ideali e delle aspirazioni della società delle corti lascia sovente spazio alle riflessioni dello scrittore. I temi passibili di uno svolgimento descrittivo – come gli esercizi del corpo (i, 24-26) e le regole dell’abbigliamento (ii, 26-28) – sono presentati con frasi brevi, diversamente da quanto accade nei passi in cui in cui sono aπrontati temi cortigiani, civili, filosofici e storico-culturali. La dialettica del reale e dell’apparente si riproduce di continuo nel Cortegiano. Si consiglia di «fuggir quanto più si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la aπettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò, che si fa e dice, venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi» (Co I, xxvi, p. 47; mio il c.vo). Aneddoti e brevi narrazioni assecondano gli intenti di una variatio tematica e stilistica: sono, per il lettore, un diversivo e una forma d’intrattenimento, al tempo stesso, contrastano e√cacemente con i brani espositivi estesi dal carattere “trattati 

34   Spongano (1941) tratta dell’incontro tra la componente volgare e quella latineggiante nella prosa dell’Alberti; ma la presenza di costrutti volgari nel latino umanistico di questo autore è negata da Rizzo (1985). Sulla prosa di L. B. Alberti v. Ghinassi (1961). 35   La costruzione nominale è un tipo di enunciazione, che fa apparire il contenuto non assunto direttamente, ma considerato come qualcosa che preesiste al discorso stesso.

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stico”. La pluralità di livelli stilistici ed espressivi risponde ai fini di docere et exempla ponere. Limitato e reso gradevole l’intento pedagogico, risalta la volontà di analizzare circostanze e personaggi mediante una scelta di vocaboli ed espressioni adeguate alle situazioni e mediante una precisa indicazione dei rapporti tra i costituenti del periodo. È una tendenza, che si oppone all’uniformità della sintassi latineggiante e che si consoliderà in vari settori della prosa rinascimentale del secondo Cinquecento. La riduzione delle gerundiali e delle participiali – entrambe soggette a un processo di “normalizzazione – corrisponde allo sviluppo di proposizioni avverbiali esplicite di vario tipo e di diversa funzione; 36 questo fenomeno, la tendenza all’isomorfia sintattica e la riduzione di periodi estesi e strutturalmente complessi sono i caratteri innovativi, destinati a consolidarsi nel corso del secolo. 37  



6. 5. 2. Le virtù del dialogo Il Cortegiano è un seguito di conversari notturni, cui il narratore non prende parte. Nel dialogo umanistico e rinascimentale la scelta della scena non è un elemento secondario; si può spaziare in una vasta gamma di situazioni: le riunioni si svolgono nel chiuso di una dimora o all’aperto (con la vista o l’assenza di un paesaggio); gli interlocutori sono personaggi celebri o uomini comuni, sono veri o fittizi, morti o vivi; talvolta s’incontrano divinità e persino fiere. Genere a più dimensioni, il dialogo, in virtù di tale carattere, ha conosciuto in passato periodi di splendido sviluppo. Il successo dipende anche dall’assenza di confini tematici, carattere che apre agli argomenti, alle intenzioni e ai fini più diversi, e, di riflesso, a una gamma piuttosto estesa di scelte formali. Mutevole è il rapporto tra i contenuti e lo spirito del dialogo, da una parte, la scena in cui il dialogo si svolge, dall’altra. Vi possono essere partecipazione e ricerca comune di un accordo, oppure opposizione e contrasto. Il binomio docere et delectare, persegue diversi fini: può fornire istruzioni e precetti, animare una polemica, alimentare la lode o la calunnia, l’ossequio o l’aggressione. Spesso si sviluppano interferenze e contaminazioni con altri generi: l’epistola e la novella, in primo luogo, ma anche la commedia e l’egloga. Si è giustamente osservato che i lettori di quei tempi amavano ritrovare nel dialogo spunti polemici e digressioni narrative (Altieri Biagi 2002: 65-74). Al culmine del successo, non potevano mancare riflessioni su un genere di ampia diπusione: il De dialogo liber (1562) di Carlo Sigonio, l’Apologia dei dialogi (1574) di Sperone Speroni e Dell’arte del dialogo (1585) del Tasso sono importanti punti di riferimento. 38 L’ultimo di questi scritti è una densa trama di idee, che coinvolge i temi trattati nei vari tipi di dialogo. L’aristotelico Castelvetro condannò questo genere, Piccolomini, promotore culturale e vicino all’Aretino, lo difese.  

«Nell’imitazione o s’imitano l’azioni degli uomini o i ragionamenti» (Tasso). È l’avvio di una classificazione che prevede tre sottogeneri: il dialogo mimetico, che può essere recitato a 36   L’alta frequenza e la vaghezza semantica delle gerundiali incontrano limiti; la loro presenza diminuisce: sono preferite, in varie occasioni, avverbiali ben definite, nella forma come nel significato; anche l’ampio uso di proposizioni infinitive, introdotte dalle preposizioni per, con, in, limita l’uso delle gerundiali. 37   Appare indicativa la rarefazione di gerundiali nel discorso di Bembo sull’amore platonico, discorso che è costruito su una trama di proposizioni secondarie, usate spesso come parentetiche: si riproduce in tal modo una caratteristica dello stile degli Asolani. 38   Speroni (sull’Apologia v. Pozzi 1978: 471-503) sostiene il primato della sapienza sull’eloquenza e aπerma che la lingua del Decameron non è su√ciente per le scritture di storia. I Dialoghi di Speroni, pubblicati nel 1542, confermano il definitivo trionfo del volgare. L’opera di Sigonio Historiae de regno Italiae ab anno 570 ad annum 1200 libri xx (1574) anticipa i lavori di Muratori.

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teatro: (i suoi massimi rappresentanti sono Platone e Luciano); il dialogo diegetico, nel quale prevale la vena narrativa e storica (non può essere portato in scena e ha tra i massimi rappresentanti Cicerone); il dialogo misto, dove con l’intervento dell’autore in prima persona, dalla narrazione storica si passa alla libera conversazione (anche in questo caso il modello è Cicerone); questa distinzione risale a Laerzio (Pignatti 2001: 117). Oltre a questi sottogeneri Tasso propone un’altra partizione, fondata sulla natura dei ragionamenti: il dialogo può essere dottrinale (il maestro insegna a un allievo), dialettico (argomentando, si ricerca la verità), tentativo (destinato alla confutazione perché si dimostrano assurde le tesi dell’avversario), contenzioso (alla maniera dei sofisti, si vuole dimostrare il successo sull’avversario, senza ricercare la verità). Nel dialogo dialettico si manifesta l’opposizione tra opinio e scientia: da una parte, abbiamo un’argomentazione costruita su opinioni e verità relative, valide soltanto in determinati contesti, dall’altra, una dimostrazione basata su premesse certe, da cui si possono inferire verità oggettive ed eterne; alla doxa si oppone dunque l’episteme. La peculiarità del dialogo si basa sul suo stretto legame con l’argomentazione; i ragionamenti dialettici e retorici si fondano su opinioni che si riferiscono a tempi e luoghi determinati. Ma nel dialogo, oltre alla disputa, vi sono tre altre componenti: la sentenza, il costume e l’elocuzione. Poco presente nel dialogo mimetico, il decorum è al centro del dialogo diegetico, dove si fondono poetica e retorica, letteratura e argomentazione. Il De oratore di Cicerone è il modello per eccellenza di quest’ultimo tipo.

Gli Asolani e il Cortegiano rappresentano esempi insigni di dialogo diegetico; e per l’ampio orizzonte esaminato, possono definirsi «modelli antropologici totali» (Ordine 1999: 9). Lo spazio concesso al decorum è avviato dal prestigio di due scene fondamentali: il giardino di Asolo e il palazzo ducale di Urbino; nel giardino si celebra il matrimonio di una damigella della regina di Cipri, nel palazzo si svolgono i festeggiamenti per la visita di Giulio II (1507). Si confrontano due paradigmi: la conversazione sull’amore condotta da una compagnia di giovani, la ricerca, cui concorrono personaggi eminenti, del cortigiano perfetto. In entrambi i casi un inevitabile ritualismo caratterizza molti passi della conversazione. 6. 5. 3. Varietà di temi Il Cortegiano è un dialogo svolto, di volta in volta, da un interlocutore principale, un adiuvante e due contradditori. A dirigere la discussione sono: Gaspare Pallavicino (l. i), Federico Fregoso (l. ii), Giuliano de’ Mediici (l. iii) e Ottaviano Fregoso (l. iv). Lo schema dialogico, in parte compromesso dai lunghi interventi dell’interlocutore principale, si annulla in due occasioni: il discorso di Bibiena sulle facezie (ii libro) e il discorso di Bembo sull’amore (iv libro); sono le occasioni maggiori per variare il tessuto compositivo, dove si a√na la tecnica del domandare e del rispondere. 39 I temi principali si dispongono in questo ordine. Nel primo libro, su proposta di Federico Fregoso, si delibera di “formar con parole un perfetto cortegiano” e quindi si trattano diversi argomenti: se sia necessario al cortigiano essere nobile, come debba essere esperto nel mestiere delle armi, nella caccia e nel cavalcare; si esalta la virtù della sprezzatura; si aπrontano questioni linguistiche; si discute della musica e delle arti. Nel secondo libro si passano in rassegna «il bon giudicio del cortegiano e i suoi esercizii»; si aπronta la sua conversazione con il principe e con i pari; l’amicizia e l’amore sono oggetto di analisi e di riflessioni; segue l’ampia e particolareggiata trattazione delle facezie e dei motti svolta da Bibbiena. Nel terzo libro si tratta della formazione della donna di palazzo. Nel quarto, dopo aver discusso su temi politici (come il bon principe sia preferibile a una bona republica; quali  

39   Si delineano con maggiore chiarezza i ruoli locutivi e le tipologie macrotestuali: v. l’analisi dei Dialoghi di Tasso computa da Bozzola (1999).

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siano i vantaggi e i difetti dei tre modi classici di governare), Bembo aπronta il grande tema dell’amore platonico. «Il fin adunque del perfetto cortegiano, del quale insino a qui non s’è parlato, estimo io che sia il guadagnarsi, per mezzo delle condicioni attribuitegli da questi signori, talmente la benivolenza e l’animo di quel principe a cui serve, che possa dirgli e sempre gli dica la verità d’ogni cosa» (Co IV, v, p. 292). Il passaggio del cortegiano all’u√cio di consigliere del principe è dichiarato in modo esplicito, ma non si tratta di un tema fondamentale; con ciò si spiega la breve estensione di questa parte, che si può definire un compendioso e allusivo regimen principis. Rispetto alla prima ideazione dell’opera è questo un inserimento tardo; si ha un tema nuovo che si allontana dai temi trattati nei primi tre libri, dove vige un discorso fondato su regole e norme, che si alimentano di dimostrazioni e di esempi. In eπetti il quarto libro segna uno stacco rispetto ai temi precedenti: al cortegiano è assegnato un compito etico-politico. 40 Poi, al cap. xlix, si apre il lungo discorso sull’amore, dove ricorrono citazioni e riprese stilistiche dagli Asolani. 41 I conversari tra i partecipanti si svolgono su un piano di parità; ma le donne non hanno un ruolo attivo, sono per lo più semplici ascoltatrici; fa eccezione la signora Emilia, che con le sue uscite, per lo più impreviste, anima la scena, ironizzando su alcuni particolari e stimolando gli interlocutori ad aπrontare i problemi in una prospettiva non convenzionale. A diπerenza degli altri temi, i principi dell’amore perfetto cristiano-platonico, non richiedono commenti. Si noti un’analogia: come nelle Prose della volgar lingua lo Strozzi decide di cimentarsi nell’uso del volgare, così la conversione all’amore platonico conclude il Cortegiano, opera che, al di là delle divagazioni, viene recepita come «un testo coerente ed organico, profondamente unitario» (Quondam 1980: 17). La sprezzatura e la dissimulazione sono principi regolatori di un conversare aperto a una pluralità di temi. La testualità, variamente modulata, dell’opera appare adatta a riprendere argomenti di viva attualità. Siamo lontani dal trattato-dialogo monotematico, riguardante una sola questione (tipicamente quella della lingua), 42 dove la scena si restringe e la conversazione si limita ad argomenti piuttosto particolari. Nel Cortegiano l’interazione verbale è costante: spesso, nello scambio dialogico, gestito da più personaggi, i ruoli dell’enunciatore e dell’enunciatario s’invertono; vi è una costante apertura alla negoziazione, tra correzioni di tiro, malintesi (veri e presunti), repliche, conferme. Una scena-situazione tipica si ha nello scambio di battute tra i partecipanti; i toni accesi manifestano la pluralità delle opinioni, necessaria premessa al lungo intervento di Bembo sull’amore platonico. 43 Che questo  







40   Per la tarda inserzione di questa parte v. Carella (1992: 1110). Secondo Ordine (1994: 512) i primi tre libri sono un metadialogo, una conversazione sulla conversazione. 41   Cfr. Ordine (1994: 513): «l’orazione del Bembo, costruita in chiave di autocitazione [...] si contrappone all’esordio dell’ultimo libro, dominato dal triste ricordo di alcuni personaggi scomparsi. Al di là della dimensione disgregatrice della morte, la scrittura può garantire fino in fondo la sopravvivenza del modello». 42   Anche nelle sue prove migliori, come Il Cesano di Tolomei (scritto probabilmente nel 1525, pubblicato nel 1555, v. ed. Castellani Pollidori 1974, p. 127), o L’Ercolano di Varchi (scritto negli anni 1560-1565 e pubblicato postumo nel 1570). 43  Cfr. Co IV, xlix pp. 336-337. Al quesito se il cortegiano anziano possa innamorarsi Gaspar Pallavicino risponde negativamente, ricordando l’episodio topico di Aristotile; di parere contrario è il signor Ottaviano; secondo Bembo il cortegiano vecchio deve amare da saggio; segue una schermaglia tra Bembo e la Duchessa, sostenuta dalla signora Emilia. Sulla funzione del rapido scambio di battute all’interno di un dialogo-trattato qual è il Cortegiano si può riprendere quanto è stato notato per la narrativa: «Sacchetti accentua l’uso dei dialoghi, che danno vivacità e pluralità dei punti di vista» (Romanini 2014: 224).

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tema sia trattato per ultimo non è casuale: si tratta di confermare la centralità del connubio amore-filosofia. Al tempo stesso, il confronto con la morte domina l’inizio della quarta serata: «Tornami adunque a memoria – si legge nel prologo – che non molto tempo dapoi che questi ragionamenti passarono, privò morte importuna la casa nostra di tre rarissimi gentilomini». Il dialogo è un universo ideologico, che in primo piano pone i comportamenti comunicativi dei partecipanti, le interazioni verbali che permettono di confrontare personaggi, idee, credenze, punti di vista. 44 Anche se sono rispettate alcune priorità, gli interventi non seguono un ordine gerarchico: la subalternità femminile, evidenziata dalle battute polemiche di Pallavicino, è riscattata in parte dagli interventi di Emilia (v. partic. il finale del quarto libro). Il fine è quello di convincere, dopo un’ampia disamina di opinioni e di possibili soluzioni alternative, i destinatari ad accogliere idee e ad assumere determinati comportamenti. 45 Qual è il rapporto tra la testualità e la forma del dialogo? Si cercherà di rispondere a questa domanda, illustrando tre aspetti (o insiemi di fenomeni) che caratterizzano lo svolgimento dell’opera: i) la progressione tematica, ii) i passaggi discorsivi obbligati (ideologicamente e/o per convenzione), iii) i passaggi discorsivi “liberi” (battute e diversivi).  



6. 5. 4. Facezie e perfezione Per analizzare esempi di progressione tematica nell’argomentazione si sono scelti due episodi del Cortegiano, nei quali il fenomeno appare con caratteri diversi: il discorso di Bibbiena sulle facezie (libro ii) e il monologo di Bembo sull’amore perfetto, che occupa gran parte del libro quarto. Sollecitato dalla Duchessa e da Emilia a parlare delle cose che muovono il riso, Bibbiena comincia con l’esporre alcune premesse generali (tratte dalle opere di Aristotele e Cicerone), illustrando lo statuto ambiguo della facezia. 46 Il discorso, interrotto da interventi (tutti piuttosto brevi), ha una forma varia: dalla narrazione si passa alla battuta breve – dove dominano il motto arguto e il gioco di parole – e alla burla, che dà luogo a una breve azione e a un aneddoto. Riferendo il pensiero di Cicerone, ma avendo presente anche Pontano, si ricorda che il riso ha un fine terapeutico. «Il loco adunque e quasi il fonte onde nascono i ridiculi consiste in una certa deformità; perché solamente si ride di quelle cose che hanno in sé disconvenienza, e par che stiano male senza però star male» (Co II, xlvi, p. 146). Mosso da un’apparente contraddizione, il riso dipende dai luoghi e dalle circostanze che alla facezia convengono o non convengono. Quali siano le cause del riso è il tema trattato in aneddoti e brevi racconti: le novelluzze, per lo più ambientate nel presente e aventi come protagonisti gli stessi personaggi della corte di Urbino. Le facezie  

44   Il “sistema dei turni di parola” nell’attività dialogale (per il quale v. Kerbrat-Orecchioni, I (1990: 159-192) diπerisce ovviamente dal sistema vigente nel testo letterario, tuttavia il confronto tra i due percorsi evidenzia fenomeni che sono utili alla nostra analisi, per individuare l’organizzazione strutturale della conversazione. 45   Sulla struttura del dialogo v. Schlieben Lange (1980: 92-99). Per le restrizioni imposte dalla forma linguistica all’interpretazione degli enunciati, vedi Nølke (2005). 46   Cfr. J. Guidi, “Festive, narrazioni, motti” et “burle (beπe)”. L’art des facéties dans “Le Courtisan”, in Formes et signification de la “beπa” dans la littérature italienne de la Renaissance, Deuxième série, Paris, Université de la Sorbonne nouvelle, 1975, pp. 171-210; L. Mulas, Funzioni degli esempi, funzione del ‘Cortegiano’, in La Corte e il ‘Cortegiano’ I. La scena del testo, a cura di C. Ossola, Roma, Bulzoni, 1980, pp. 97-117. Accanto ai caratteri della facezia, nel Cinquecento, è da considerare anche «l’alto grado d’ibridazione della novella» (Bragantini 1989: 453). Per la progressione tematica si veda Combettes (2012).

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del presente prevalgono su quelle riprese dal Decameron e, in ogni caso, le vecchie storielle vengono volentieri attualizzate da interlocutori condiscendenti e divertiti. Bibbiena sorride, risponde cortesemente, riprende il controllo della situazione, quando minaccia di decadere nella maldicenza e nel contrasto. Il discorso procede lungo due assi, passando in rassegna una varia tipologia del comico (le facezie che nascono dall’ambiguità delle parole, i giochi di parole e sui nomi propri, i bischizzi, i doppi sensi, i fraintendimenti, le ambiguità dei significati) e richiedendo la collaborazione dei presenti. La regia dei dialoghi può cambiare, tant’è che una volta l’esempio su cui dibattere è proposto da Pallavicino. Si accende la rivalità dei luoghi e delle nazioni: i fiorentini contro i veneziani e contro i senesi. Nel passaggio alla burla (Co II, lxxxiv) ritorna il repertorio di Boccacio; la beπa è performativa, come la battuta di spirito; le burle assomigliano ad azioni teatrali; nel ricordo di famosi episodi decameroniani Bibbiena conclude il suo intervento. 47 In modi diversi progredisce il monologo di Bembo sull’amore perfetto. Una tipica modalità argomentante consiste nell’iniziare con un assioma, subito seguito da una dichiarazione di buon senso. 48 «Io non vorrei, signora, che ’l mio dir che ai vecchi sia licito lo amare fosse cagion di farmi tener per vecchio da queste donne; però date pur questa impresa ad un altro» (Co IV, l, p. 337). Bembo fa precedere una facezia e una divagazione a un tema impegnativo: se sia lecito e in quali modi, l’amore del cortigiano che è avanti negli anni. Si procede con battute leggere, con autocitazioni dagli Asolani, con premesse (non tutte necessarie). La mobilità è la grande risorsa del discorso castiglioneo, interrotto da pause («avendo prima alquanto taciuto»), che rendono lieve un tema impegnativo e ricco d’implicazioni; anche i confronti aiutano la progressione tematica: «Così adunque come il senso non conosce se non cose sensibili, l’appetito solamente quelle desidera» (Co IV, li, p. 339); dopo un abile divagare si giunge infine al tema: la condizione degli innamorati alle soglie della vecchiaia.  



6. 5. 5. Descrivere La mobilità discorsiva ha un suo riscontro nelle rare esibizioni mimetiche, dove si riprendono movimenti, come quelli di un danzatore maldestro; ma anche in questo caso il consueto procedere dell’elocutore impone la presenza di un’interrogativa di alleggerimento: Qual di voi è che non rida quando il nostro messer Pierpaulo danza alla foggia sua, con que’ saltetti e gambe stirate in punta di piede, senza mover la testa, come se tutto fosse un legno, con tanta attenzione che di certo pare che vada numerando i passi? (Co I, xxvii, p. 48).

E lo stesso espediente discorsivo ricorre nel tratteggiare (garbatamente) il ridicolo suscitato da un trucco eccessivo: Non vi accorgete voi, quanto più di grazia tenga una donna, la qual, se pur si acconcia, lo fa così parcamente e così poco, che chi la vede sta in dubbio s’ella è concia o no, che un’altra, empiastrata tanto, che paia aversi posto alla faccia una maschera, e non osi ridere per non farsela crepare, né si muti mai di colore se non quando la mattina si veste; e poi tutto il remanente del giorno stia come statua di 47   L’inserimento di battute spiritose nel Cortegiano ha sovente una funzione di alleggerimento (Zorzi Pugliese 2001. 65). Sulla dimensione comica nella letteratura del Cinquecento v. Borsellino (1986: 442-457), Zaccarello (2014). 48   Questa alternanza di modi si verifica anche nel trattare della forma repubblicana di governo (Co IV, xx, p. 306).

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castiglione legno immobile, comparendo solamente a lume di torze o, come mostrano i cauti mercatanti i lor panni, in loco oscuro? (Co I, xl, p. 69-70).

Abili espedienti discorsivi appaiono nella conduzione del dialogo, nei modi d’inserire una domanda o una battuta in un discorso che rischia di diventare serioso: Allor la signora Emilia, rivolta a Ioan Cristoforo Romano, che ivi con gli altri sedeva: – Che vi par – disse – di questa sentenzia? confermarete voi, che la pittura sia capace di maggior artificio che la statuaria? (Co I, l, p. 83).

Emilia dimostra di saper interrompere l’esposizione del conte di Canossa; la dama sa bene che Cristoforo Romano, essendo uno scultore, darà un parere diverso e che ciò animerà la conversazione. Agli incentivi si alterna la cautela diplomatica: un susseguirsi di diversivi e attenuazioni, atti a prevenire le polemiche. Con una battuta Gonzaga smorza il ragionamento teso di Canossa (Co I, liii, p. 86); qualcosa di simile accade quando Federico Fregoso, per attenuare i toni di un discorso sulla foggia degli abiti alla moda, propone un exemplum, nel quale compaiono inopinatamente Alessandro Magno e Dario (Co II, xxvi, p. 122). Alla fine del iii libro la Duchessa chiude i conversari e nel licenziare i suoi ospiti, si rivolge al signor Ottaviano: aspettando insino a domani aremo più tempo; e quelle laudi e biasimi, che voi dite essere stati dati alle donne dall’una parte e l’altra troppo eccessivamente, frattanto usciranno dell’animo di questi signori di modo che pur saranno capaci di quella verità che voi direte.

Il congedo conciliante e ironico, interpreta lo spirito del dialogo. Il finale si compone di due scene. Prima, lo scambio di battute scherzose tra il signor Prefetto e la signora Emilia, poi la visione che si apre all’esterno con una descrizione dell’alba, dove rivivono vaghe immagini letterarie: Aperte adunque le finestre da quella banda del palazzo che riguarda l’alta cima del monte di Catri, videro già esser nata in oriente una bella aurora di color di rose e tutte le stelle sparite, fuor che la dolce governatrice del ciel di Venere, che della notte e del giorno tiene i confini; dalla qual parea che spirasse un’aura soave, che di mordente fresco empiendo l’aria, cominciava tra le mormoranti selve de’ colli vicini a risvegliar dolci concenti dei vaghi augelli (Co IV, lxxiii, p. 360). 49  

Elementi descrittivi, corrispondenti a un’intertestualità partecipata, ricorrono nel discorso di Bembo sull’amore, quando sono delineati i tratti di una particolare avvenenza corporea: Ma parlando della bellezza che noi intendemo, che è quella solamente che appar nei corpi e massimamente nei volti umani e move questo ardente desiderio che noi chiamiamo amore, diremo che è un influsso della bontà divina, il quale, benché si spanda sopra tutte le cose create come il lume del sole, pur quando trova un volto ben misurato e composto con una certa gioconda concordia di colori distinti ed aiutati dai lumi e dall’ombre e da una ordinata distanzia e termini di linee, vi s’infonde e si dimostra bellissimo, e quel subietto ove riluce adorna ed illumina d’una grazia e splendor mirabile, a guisa di raggio di sole che percuota in un bel vaso d’oro terso e variato di preciose gemme; onde piacevolmente tira a sé gli occhi 49   Il monte Catri (posto fra Cagli e Pergola) è ricordato in Pd xxi, 109; Cian (1947: 501) aveva pensato anche al sonetto di Bembo Or ch’io ho le mie fatiche tante e gli anni.

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la prosa del cinquecento umani e per quelli penetrando s’imprime nell’anima, e con una nova suavità tutta la commove e diletta, ed accendendola da lei desiderar si fa (Co IV, lii, p. 339).

Il lume del sole, il paragone tra gli alberi in fiore e il volto degli uomini, tra le parti di una nave e l’architettura di un edificio (Co IV, lviii, p. 345) preparano la scena in cui «le virtù sopite e congelate nell’anima», destate dal sentimento amoroso, «mandano fuor per gli occhi quei spirti, che son vapori sottilissimi, fatti della più pura e lucida parte del sangue, i quali ricevono la imagine della bellezza e la formano con mille varii ornamenti» (Co IV, lxv, p. 352). 6. 5. 6. Formule e finali Se questi sono gli elementi della scena simbolica, descritti minutamente nelle loro forme e nel loro manifestarsi, la progressione dialogica si vale di segnali discorsivi e di didascalie che avviano, organizzano e concludono i singoli interventi: «Allor il signor Ottaviano» (Co IV, xxi, p. 307), «Disse allora il signor Gaspar» (Co IV, xxii, p. 308), «Rise il signor Ottaviano e disse» (Co IV, xxvi, p. 312), «Rispose allor il signor Ottaviano ridendo» (Co IV, xxxvii, p. 323), «Suggiunse il signor Ottaviano» (Co IV, xxxviii, p. 326), «Quivi il signor Ottaviano, rivolto alla signora Duchessa con maniera d’aver dato fine al suo ragionamento» (Co IV, xliii, p. 329), «Allora messer Pietro, avendo prima alquanto taciuto, poi rassettatosi un poco come per parlar di cosa importante, così disse» (Co IV, li, p. 338), «Quivi fece Bembo un poco di pausa, quasi come per riposarsi; e, stando ogun cheto, disse il signor Morello di Ortona» (Co IV, lv, p. 342), cfr. «Quivi avendo fatto il signor Ottaviano un poco di pausa come per riposarsi, disse il signor Gaspare» (Co IV, xix, p. 305), «Quivi messer Federico, per acquetar il signor Morello e divertir il ragionamento, non lassò rispondere il conte Ludovico, ma interrompendolo disse» (Co IV, lvi, p. 343).

Con la loro ripetitività queste formule fanno risaltare, per contrasto, la vivacità del parlato, animato da battute e alleggerito da didascalie “giocose”: «Rise la signora Duchessa e disse», «Disse il conte Ludovico, ridendo» (Co IV, lv, p. 342). Gli interventi estesi acquistano scorrevolezza dalle interrogative e da arguzie teatralizzanti: «Qual sarà adunque, o Amor santissimo, lingua mortal che degnamente laudar ti possa?» (Co IV, lxx, p. 357), «E, perché mi riconosco indegno di parlare dei santissimi misterii dell’Amore, prego lui che mova il pensiero e la lingua mia» (Co IV, lxi, p. 347). «Qual sarà adunque, o Amor santissimo, lingua mortal che degnamente laudar ti possa? Tu, bellissimo, bonissimo, sapientissimo, dalla unione della bellezza e bontà e sapienzia divina derivi ed in quella stai, ed a quella per quella come in circulo ritorni» (Co IV, lxx, p. 357). Degli introduttori discorsivi (fra i quali primeggia il tradizionale dico adunque che) ne ricordiamo alcuni che reggono proporsizioni completive e hanno finalità argomentativa: «Parmi ancora che» (Co IV, vi, p. 293), «da questo interviene che» (Co IV, vii, p. 293), «Dico adunque che» (Co IV, ix, p. 296), «Direi adunque che» (Co IV, xxxiv, p. 319), «Non è adunque da dir che [...]. Non negherò già che» (Co IV, lix, p. 346), «Ma lassando questo, dico che» (Co I, v, p. 20), «Ma lassando gli antichi, qual più nobile e gloriosa impresa e più giovevole potrebbe essere, che se i Cristiani voltasser le forze loro a subiugare gli infideli?» (Co IV, xxxviii, p. 324), «Lassate la natura e venite all’arte» (Co IV, lviii, p. 345).

Rispetto ad altri dialoghi del tempo, 50 assumono un rilievo particolare le formule di ripresa che inglobano una comparazione («Così adunque come il senso non co 

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  Formule introduttive tratte dalle prime pagine del Cesano di Tolomei (ed. Castellani Pollidori,

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nosce se non cose sensibili, l’appetito le medesime solamente desidera; e, così come l’intelletto non è vòlto ad altro che alla contemplazion di cose intelligibili, quella voluntà solamente si nutrisce di beni spirituali», Co IV, li, p. 339) e accompagnano le similitudini: Pensate or della figura dell’omo, che si po dir piccol mondo; nel quale vedesi ogni parte del corpo esser composta necessariamente per arte e non a caso, e poi tutta la forma insieme esser bellissima; tal che di√cilmente si poria giudicar qual più o utilità o grazia diano al volto umano ed al resto del corpo tutte le membra, come gli occhi, il naso, la bocca, l’orecchie, le braccia, il petto e così l’altre parti (Co IV, lviii, p. 345).

Il dialogo si vale di riprese discorsive ad verbum e di contrasti oppositivi, entrambi inseriti in una leggera trama di didascalie. «Io non esiterei ad aπermare che questo è uno dei libri più tristi del rinascimento: qui la debolezza di un popolo si specchia nella coscienza d’un uomo di buona fede». Il giudizio di G. Toπanin, formulato nel 1927, riprende la condanna di F. De Sanctis, che descriveva «una società pulita ed elegante, tutta al di fuori, in mezzo alla quale vivevano il Casa e il Castiglione, e che poneva la principale importanza della vita ne’ costumi e ne’ modi». Con l’opera era condannati la lingua e lo stile: «i periodi, con tanto artificio congegnati, del Bembo, del Casa o del Castiglione». 51 All’autore del Cortegiano si riconosceva tutt’al più il merito di aver prodotto un ritratto e√cace di personaggi e ambienti, svolgendo un dialogo brillante, ma nulla più. Ancora negli anni Sessanta del secolo scorso, Castiglione era considerato da molti un “minore”, nonostante che illustri critici avessero riconosciuto l’eccellenza di un’opera che soltanto più tardi conquisterà un posto di primo piano nella nostra letteratura. 52 La rivalutazione del Cortegiano ha avuto un fondamento: l’aver verificato un parallelo tra pensiero e stile. Equilibrio è il termine usato da alcuni critici e ripreso in questo studio per definire la qualità fondamentale di un capolavoro; equilibrio è un termine che pone in rapporto la scrittura con i modelli sociali rappresentati nel dialogo. L’ideale estetico e morale del Rinascimento rivive nella visione della corte di Urbino, luogo reso ideale dal ricordo, ma vivo alla mente dell’autore. Rispetto alle scene descritte nei trattati quattrocenteschi (quali il De cardinalatu di Paolo Cortese e la Institutio principis christiani di Erasmo), il libro di Castiglione mostra la percezione inquieta del mutamento. Il contrasto evidente o allusivo tra il decoro delle scene e il presentimento della morte, tra gioia di vivere e malinconia, tra la prestanza del cortigiano e l’infermità di Guidubaldo, perennemente assente, è una nota costante e implicita sottesa all’intera opera.  



1974): «Dunque temerò io che», «Parve a me perciò che», «Ancora dirò che», «Aggiungesi a queste cose che»; poi nel discorso di Castiglione (ivi, pp. 106 ss.) si notano avvii del discorso con interrogative. Sulla posizione di Tolomei nella questione della lingua: Vitale (19782: 80-83). 51   Cfr. De Sanctis (1954, ii: 149). La citazione di G. Toπanin è dal suo saggio Il Cinquecento (1927), Milano, Vallardi, 1960 p. 244. Cfr. De Sanctis, 1954, ii, p. 78. Quanto al confronto tra italiano letterario e il toscano popolare, il critico osservò: «La lotta durò un bel pezzo tra la fiorentinità e quella forma comune e illustre, che battezzavano lingua italiana, cioè a dire tra la forma popolare o viva, ed una forma convenzionale e letteraria» (ivi, i, p. 408). 52   La grandezza di B. Castiglione era stata riconosciuta da N. Sapegno (19548: 127-134) e da C. Segre, in un saggio del 1953 (poi in Segre 1963: 355-382). Una ricostruzione complessiva dei caratteri dell’autore e dell’opera si è avuta con A. Quondam (2000, 2010).

7. La Storia d’Italia di Guicciardini

7. LA STORIA D’ITALIA DI GUICCIARDINI 7. 1. La composizione

L

a Storia d’Italia, scritta negli anni 1537-1540 (dopo una revisione di Giovanni Corsi, Guicciardini riprese a lavorarvi nel 1539, senza riuscire a completare le correzioni), narra gli avvenimenti di 44 anni (1490-1534), dall’epilogo del governo di Lorenzo de’ Medici, che morirà nel 1492, all’elezione al papato di Paolo III Farnese. 1 Destinata a un pubblico non ristretto di eruditi e particolarmente curata nell’esposizione, l’opera, che dai 19 libri iniziali era passata, per i consigli del revisore, agli attuali 20 libri, cominciò a circolare manoscritta almeno dal 1545, rispondendo alla diπusa esigenza di rendere pubbliche le scritture riguardanti eventi attuali e adatti a una lettura estesa e partecipe (Cassiani/Figorilli 2014: xiv). In seguito, nel 1561, presso l’editore Torrentino, apparve un’edizione che aveva subito una duplice revisone, letteraria e politico-religiosa (Vincenzo Borghini vi era intervenuto); tolti gli ultimi quattro libri, perché considerati soltanto abbozzati e non finiti, aggiunta una dedica a Cosimo I, espunte le pagine critiche nei riguardi del papato, l’opera ebbe successo, tanto che nel 1564, presso Giolito, apparve una nuova edizione comprendente i libri xvii-xx, profondamente rivisti: alcune parti erano state soppresse, altre aggiunte. Nel periodo 1561-1645, oltre alle due citate, si ebbero ben trenta edizioni o ristampe (riguardanti i primi 16 libri, o gli ultimi 4, o l’intera opera). Vi furono traduzioni in latino e in varie lingue dell’Europa occidentale; se ne fecero inoltre compendi e sommari. L’atteggiamento antipapale favorì la fortuna della Storia nei Paesi protestanti, nei quali i passi anticattolici, concernenti i costumi corrotti dei Borgia, il potere temporale dei papi nel libro iv, la tirannide sacerdotale (libri iii, iv e x) ebbero una diπusione anche in stampe autonome.  

Per quanto riguarda le edizioni moderne dell’opera, si ricorderà che soltanto nella seconda metà del xviii secolo si fece ricorso, passando oltre le stampe, al codice Mediceo Palatino 166 della Laurenziana, che contiene il testo dell’opera trascritto per l’ultima volta e per volontà dell’autore: è questa la redazione cui sono ricorsi fin dal 1561 gli editori dell’opera (Trovato 1994: 275). Si sono avute le edizioni: cosiddetta di Friburgo, curata da Bonso Pio Bonsi (1774-76) e quelle curate da Niccolò Conti (Firenze 1818-19) e da Giovanni Rosini (Pisa 1819-20); in quest’ultima i libri appaiono divisi in capitoli e i capitoli in paragrafi; a ciascun capitolo è premesso un sommario; inoltre, nel tentativo di favorire la lettura, sono state introdotte nel testo parentesi “chiarificatrici” e periodi estesi e complessi sono stati arbitrariamente divisi in periodi più brevi: v. ed. Seidel Menchi, “Storia del testo”, cxv-cxxvi, cxxiii. Nel 1903 iniziò il lavoro di Alessandro Gherardi, al quale si deve la prima edizione critica della Storia (Sansoni, 1919-1920), fondata sul codice Mediceo-Laurenziano 166, studiato filologicamente e collazionato con l’originale, riveduto dall’autore, e con l’archetipo, anch’esso dettatto ed emendato dall’autore. Con l’intento di controbattere all’accusa di plagio formulata da Leopold von Ranke (Storie dei popoli latini e germanici dal 1494 al 1535, ed. it. 1824), Gherardi iniziò a studiare le fonti dell’opera. Questo lavoro di scavo fu proseguito 1   Seguo l’ed. F. Guicciardini, Storia d’Italia, a cura di Silvana Seidel Menchi, 3 voll., Einaudi, 1971, che riproduce il testo fissato da C. Panigada (1929), che dipende dall’ed. A. Gherardi (1919-1920), tratto dal cod. Magliabechiano ii, iii, 60-63. Giova ricordare che l’autore non attribuì un titolo preciso alla sua opera, alla quale si riferiva con l’espressione «cose accadute alla memoria nostra in Italia» (F. Gilbert, Introd. all’ed. cit., p. lxxiv). Sulla vita, il carattere e la personalità di Guicciardini si vedano: D. Cantimori, in Stolett, iv (1966: 87-150) e Ridolfi (1982).

la storia d’italia di guicciardini

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da Pasquale Villari, che mise in luce i cospicui materiali preparatori e documentari, tutti di prima mano, messi insieme dall’autore della Storia. L’ed. del Gherardi apparve postuma a Firenze, per i tipi di Sansoni (1919-1920). Riserve furono espresse da Plinio Carli (“GSLI”, lxxvi, 1929, pp. 306-341), riguardanti in particolare la non utilizzazione del ms. Magliabechiano ii, iii, 60-63, e soprattutto l’ammodernamento della grafia, l’eliminazione dei demotismi drento, drieto, dua, duoi, dunche, sanza e le “correzioni” apportate alla sintassi. Sulle manipolazioni subite dal testo v. Trovato (1994: 276). Deriva in sostanza dall’ed. Gherardi, tenendo conto delle osservazioni di P. Carli, l’ed. di Costantino Panigada, Storia d’Italia, 5 voll., Bari, Laterza 1929; nella quale sono riprodotte le partizioni e i sommari introdotti dal Gherardi, ma con alcuni miglioramenti (i paragrafi furono trasformati in capitoli, i sommari migliorati ed estesi ai capitoli). Sulla genesi e le vicende del testo hanno dato contributi fondamentali Roberto Ridolfi e Paolo Guicciardini, promotore della “Collana di pubblicazioni guicciardiniane” edita da Olschki.

Come nelle Storie fiorentine (1508-1509) e maggiormente nelle Cose fiorentine (15271534), la Storia d’Italia ha un’organizzazione annalistica, che non coincide se non occasionalmente con la suddivisione della materia. 2 La svolta segnata dalle Cose fiorentine (1527-1528) subisce un definitivo aggiustamento nella Storia, che riassorbe i Commentari della luogotenenza, composti da Guicciardini quando era consigliere di Clemente VI. 3 Vi rientrano anche i copiosi materiali raccolti durante l’attività politica dell’A., che aveva consultato fonti italiane e straniere; e si era portato a casa l’intero archivio del Consiglio dei Dieci. Questa volonà di documentarsi, accuratamente avvertita e attuata, allontana ogni tentazione autobiografica, che pure avrebbe avuto fondati motivi per aπermarsi e imporsi (Guglielminetti 1990: 85-86). L’evocazione della vita e della morte di Lorenzo de’ Medici conclude le Istorie fiorentine di Machiavelli e apre la Storia d’Italia di Guicciardini. 4 Si è discusso su quale sia il rapporto che corre tra i Ricordi e la Storia. 5 «Dalla sola ricognizione di esse [scil. delle massime] si ricava un quadro dell’ideologia guicciardiniana perfettamente identico a quello dei Ricordi del 1530, da cui la maggior parte delle massime presenti nella Storia sono tratte. Ma in realtà [...] l’ideologia guicciardiniana appare alquanto mutata rispetto a quella degli ultimi Ricordi» (Scarano 1981: 67). 6 I Ricordi (titolo che allude alle “cose da ricordare”, distinte dalle  









2   Bausi (1996: 333). La struttura annalistica è evidenziata dal ricorrere di formule del tipo: «Nel principio di questo anno» (StI I, vi, 2), «Nella fine di questo anno» (III, iv, 2), «Perché e’ questo anno medesimo» (III, viii, 5). Lo spoglio dei vari fenomeni è stato condotto in prevalenza sui primi cinque libri dell’opera. La banca dati “Biblioteca italiana Zanichelli” (2010) mi ha aiutato a ricavare esempi dagli altri libri e a fissare dati relativi ai vari fenomeni studiati. 3   R. Ridolfi, Genesi della Storia d’Italia (1939), in Studi guicciardiniani, Firenze, Olschki, 1978: 79-130, dimostra che i Commentari sono il primo nucleo della Storia. Cutinelli Rèndina (2009: 188) evidenzia il passaggio «dall’intenzione di stendere un documento per sé e i contemporanei a quella di erigere un monumento per la posterità». 4   J.-J. Marchand, Lorenzo da Machiavelli a Guicciardini. La saldatura/frattura tra “Istorie fiorentine” e “Storia d’Italia”, in Berra/Cabrini (2012: 119-135, 119). Sulla figura, l’attività politica e l’opera letteraria di G. v. Atti Guicciardini 1997 e Atti Guicciardini 2005. Cfr. anche Pozzi (2012). 5   Cfr.: Zancarini (1998), Quondam (2010: 433-520); v. anche P. Floriani, I fiori e i frutti delle corti. (dal ‘Cortegiano’ ai ‘Ricordi’), in «Italies», 2007, pp. 597-621. I Ricordi (il primo nucleo risale al 1512, un ampliamento al 1530), rivolti non ai familiari e ai conoscenti, ma a un pubblico più ampio, sono un libro di comportamento, come il Cortegiano (Guglielminetti 1990: 97); il critico nota come «nei Ricordi i legami con la sintassi ciceroniana e boccacciana sono naturalmente recisi»; paradigmatica dell’atteggiamento dell’autore è la famosa aπermazione: «spesso tra ’l palazzo e la piazza è una nebbia si folta o un muro sì grosso che non vi penetrando l’occhio degli uomini, tanto sa il popolo di quello che fa chi governa o della ragione perché lo fa, quanto della cose che fanno in India» (C 141, ed. Fubini, p. 153). 6  In StI II, iv, p. 164, è citata una massima che conclude il capitolo (e sulla quale si soπerma Scarano, ivi, p. 66). Nel passaggio dai Ricordi alla Storia avviene una transmodalizzazione dell’enunciazione: questo concetto, formulato da Genette (1997: 134-139), è adottato da E. Pasquini, L’approdo dei “Ricordi” nella “Storia d’Italia”, in Berra/Cabrini (2012: 137-155, 140).

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la prosa del cinquecento

ricordanze) rappresentano uno scritto “privato” diretto a una cerchia selezionata di persone colte ed esperte dell’arte di governo, mentre la Storia è l’unico dei suoi scritti che l’A. intendeva destinare alle stampe. Dalla diversità dell’atteggiamento dell’autore, del genere prescelto e del contesto derivano altre diπerenze, riguardanti innanzi tutto il carattere dell’enunciazione: i Ricordi sono 221 pensieri, alcuni molto brevi, alcuni simili ad aforismi, e con tratti stilistici vicini al parlato; Fubini (1997: 55) ha evidenziato «le risolute sentenze iniziali» e gli avvii del periodo con «un fierissimo “Io”». Il punto di partenza è l’osservazione della realtà, come risulta anche dai numerosi riferimenti personali, messi in rilievo da note: «Dissi già io a papa Clemente», «Osservai quando ero imbasciadore in Spagna», «Dissemi il marchese di Pescara». Tra i Ricordi, da una parte, la Storia e altre opere storicopolitiche dell’autore, dall’altra, si muovono idee e propositi resi con stilemi relativamente costanti: basti ricordare il ricorrere di perché all’inizio di molti periodi. 7 Spesso dall’osservazione analitica e attenta ai particolari si passa, con modi che ricorrono lungo l’intera opera, a una visione ampia degli eventi, nella quale la riflessione porta a un bilanciamento dei fattori in gioco. Alcune sentenze della Storia hanno il tono perentorio dei Ricordi: «Niuna cosa è certamente più necessaria nelle deliberazioni ardue, niuna da altra parte più pericolosa, che ’l domandare consiglio; né è dubbio che manco è necessario agli uomini prudenti il consiglio che agli imprudenti; e nondimeno, che molto più utilità riportano i savi del consigliarsi» (StI, xvi, pp. 108-109). Nelle Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli sopra la ‘Prima deca’ di Tito Livio (scritte probabilmente nel 1528 nel ritiro di Finocchietto) risaltano alcune formule oppostive che avranno un seguito nella Storia: «Quanto al membro delle città edificate da’ forestieri, non è vero semplicemente che», «È posto troppo assolutamente che», «Non fu adunche la disunione tra la plebe ed el senato che facessi Roma libera e potente», «Quanto alle altre parte del governo romano, dico quanto a quelli ordini che riguardano la forma del governo della republica, non voglio ora discorrere particularmente; ma non credo fussino tali», «Certo è che ...; ma io non so già se sia vero che». 8 Nei libri che compongono la grande opera – a parte il primo che ha la funzione di un proemio – si alternano vari “generi”: il profilo biografico, l’argomentare privato o pubblico e a più voci, le orazioni (in discorso sia diretto sia indiretto), le narrazioni, che talvolta si aprono ad ampie digressioni (la storia della Chiesa, nel libro iv, le scoperte geografiche, nel libro vi). «Questa assenza di singoli proemi ai vari libri è ovviamente indizio di una concezione diversa della storiografia ed in particolare dell’impossibilità di trarre insegnamenti o regole di comportamento dalla storia» ( J.-J. Marchand, art. cit. alla n. 4: 123). In ogni caso, l’orizzonte dell’opera va liberato da alcune nubi: l’interpretazione moralistica di Montaigne (Essais ii, 10), che vi vedeva una descrizione di costumi corrotti e di vizi, quella “pedagogica”, di De Sanctis, che nel saggio L’uomo del Guicciardini (1869) dava libero sfogo alla sua passione risorgimentale. 9 Ne ha fatto giustizia la critica serena  





7   Cfr. Fubini (1997: 59), che analizza Ricordi n. 160. Per un confronto tra i Ricordi e la Storia v. Cantimori (1966: 131); si passa dallo «stile analitico stretto al particolare del momento, minuzioso e preciso, qual è proprio delle legazioni, relazioni, lettere, ai toni pacati e solenni del trattato, che è criterio umanistico» (ivi: 136). 8   Cito dall’antologia, Guicciardini, Opere a cura di Vittorio De Capraris, vol. i, Milano-Napoli, 1953, pp. 331, 332, 334, 339. Cfr. Guglielminetti (1990: 81). 9   Nuovamente edito in Saggi critici, a cura di L. Russo, Bari, 19572.

la storia d’italia di guicciardini

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di M. Fubini: «Ci troviamo qui di fronte al contrasto di due età, un uomo del Rinascimento giudicato da un uomo del Risorgimento, quel che nel Guicciardini è severo senso della realtà, lucida comprensione degli altri e di se medesimo viene scambiata per indiπerenza, interesse esclusivo per il proprio particolare da un uomo tutto inteso al dover essere, alla resurrezione della patria che ancora troppo gli sembra legata a quel passato» (Introd. ed. Ricordi, 1997: 61). In eπetti De Sanctis, dopo aver esaltato la scrittura del Principe e aver riconosciuto a Machiavelli l’invenzione di un «linguaggio purificato della scoria scolastica e del meccanismo classico, e ridotto nella forma spedita e naturale della conversazione e del discorso», giunto a parlare di Guicciardini, loda lo stile dei Ricordi, simile alla «precisione lapidaria di Machiavelli», ma all’autore della Storia rimprovera l’aver aderito al costume letterario del tempo: Lo scrivere è per lui, come per i letterati di quel tempo la traduzione del parlare e del discorso naturale in un certo meccanismo complicato e a lui faticoso. [...] La sua chiarezza intellettuale e la sua rapida percezione è in visibile contrasto con quei giri avviluppati e aπannosi del suo periodo. Li diresti quasi artifici diplomatici per inviluppare in quelle pieghe i suoi concetti e le sue intenzioni, se non fosse manifesta la sua franchezza spinta fino al cinismo (De Sanctis 1954, ii: 107, 113).

Allo stile e, in particolare, ai lunghi e complessi periodi della Storia non erano state risparmiate critiche severe. Traiano Boccalini si dichiarava pronto alla tortura pur di evitare una lettura che giudicava defatigante. Di diverso parere era Paolo Beni, il quale sulla scorta del paragone fatto dal Tassoni fra Giovanni Villani e Guicciardini, confrontava gli stili di Sallustio, Livio, Boccaccio e Guicciardini, mettendo sullo stesso piano la chiarezza espositiva di quest’ultimo e quella dei due storici latini, opponendogli i “difettosi” periodi boccacciani. Un’altra critica negativa è quella di Leopardi, il quale si dichiarava perplesso nel ritrovare «un intero sistema o circuito d’idee in un solo periodo». 10 Negli ultimi cinquant’anni le qualità di una scrittura, che rende pienamente la forza e la precisione dell’argomentare e appare essere la forma necessaria allo svolgimento di un’originale visione delle cose, hanno cominciato ad attirare lettori di qualità, mentre il giudizio, in un primo tempo assolutamente positivo, sulle virtù dello storico, si è fatto progressivamente più cauto. 11 In un saggio del 1984, che è ancora oggi l’unica ricerca estesa sulla lingua e lo stile dell’opera, Giovanni Nencioni sottolineava la «strenua volontà di intelligenza eziologica» dimostrata dall’autore, del quale risaltano la capacità di tracciare «rapidi scorci», il «potere di sintesi» e la «virtuosità architettonica» (Nencioni 1988). A diπerenza di quanto accade nel filone Boccaccio-Bembo, la prosa della Storia non ricerca il ritmo e l’eufonia, ma privilegia l’incatenarsi dei concetti, lo sviluppo raziocinante in cui prendono corpo gli eventi e i giudizi che li riguardano. 12 Con tale parere positivo contrasta una nota di uno dei primi lettori dell’opera, quel Giovanni Corsi, che a Guicciardini rimpro 





10   Ragguagli di Parnaso, ed. G. Rua, Bari, 1934, i, p. 32; per l’Anticrusca v. G. Casagrande, Introduzione a Beni (1982: xxxiv-xxxvii), alla p. xxxv; Leopardi, Zibaldone 1295 ss., 2099 ss. 11   I giudizi di coloro che ritengono la prosa di Guicciardini probabilmente la più alta che sia stata composta in Italia non tengono nel dovuto conto l’opera di altri grandi del passato, quali Machiavelli e Galilei. 12   Nencioni rilevava inoltre la «densità» e l’«e√cacia compendiaria» di una prosa prodotta da «un grande sintatticista». Serianni (1993: 506) ha sottolineato il «serrato impianto dell’argomentazione che si traduce in una prosa con un forte indice subordinativo, come quella di tradizione boccacciano-bembiana, dipendente però non da fattori ritmico-eufonici bensì dalla naturale complessità del discorso scientifico (nella fattispecie storiografico)».

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verava la caduta nella colloquialità: «In delectu tamen verborum atque orationis cultu nimis interdum a senatu recedis et ad forum declinas» (Sapegno M. S. 1993: 163); è una critica da leggere in un contesto storico in cui qualcuno attribuiva lo stesso “difetto” di colloquialità nientemeno che all’elaboratissimo periodare degli Asolani. Si tratta di un’incomprensione di lunga durata, se ancora De Sanctis (1954: 148-149), facendo di ogni erba un fascio, poneva su uno stesso piano lo stile di Sperone Speroni, del Bembo, del Casa e del Castiglione. 13 Quella diπerenza di forme che il critico vedeva tra i Ricordi e la Storia, a tutto vantaggio dei primi, ha ricevuto in seguito la giusta interpretazione da chi ha riconosciuto la diversità d’intenti e di fini che distingue le due scritture. 14 Il che non esclude punti di contatto, interferenze e suggestioni. Pur nella linearità delle strutture, un celebre passo dei Ricordi, con il ricorrere degli incisi e l’emergere finale di un perché, che spiega la precedente aπermazione, ricorda la discorsività e il tono della Storia:  



Avvertite bene nel parlare vostro di non dire mai sanza necessità cose che referite possino dispiacere a altri: perché spesso in tempi e modi non pensati nuocono grandemente a voi medesimi; avvertitevi, vi dico, bene, perché molti etiam prudenti vi errano, e è di√cile lo astenersene; ma se la di√cultà è grande, è molto maggiore el frutto che ne risulta a chi lo sa fare (n. 7, ed. Spongano, p. 12).

Tra le prime opere e il capolavoro della maturità si osserva uno sviluppo progressivo di costrutti e di sequenze testuali. Tutta la produzione storiografica dell’autore possiede, pur nelle diπerenze degli intenti e delle situazioni, una sostanziale unità di stile (Cutinelli Rèndina 2009: 265). 15  

7. 1. 1. Confronti Per interpretare correttamente lo stile della Storia giovano alcuni confronti con le opere precedenti dell’autore. Fisseremo l’attenzione su alcuni tratti della sintassi del periodo e della testualità. Le Storie fiorentine, scritte negli anni 1508-1509, riguardano il lungo spazio di tempo che intercorre fra il tumulto dei Ciompi (1378) e il 1509, anno del quale è ricordato un episodio della riconquista di Pisa. L’andamento di un «racconto per sentito dire, non per esperienza diretta» (Guglielminetti 1990: 82) caratterizza l’opera, la quale presenta una struttura annalistica non troppo marcata (vi ricorrono comunque i capoversi propri del genere e le consuete formule introduttive); 16 l’ispirazione viene da quella tradizione di memorie e di cronache che aveva avuto in Italia un rigoglioso sviluppo. Ma, quanto ai contenuti e ai modi dello svolgimento, le Storie fiorentine interpretano l’esigenze di una nuova storiografia, come risulta dall’analisi concentrata sugli eventi politici importanti; un motivo d’interesse consiste nel fatto che l’attenzione va soprattutto agli avveni 

13   Speroni, mettendo a confronto le cadenze (lat. numeri) delle poesia e della prosa, osserva: «Sono adunque i suoi [scil. della prosa] numeri meno sensibili ma assai più nobili, un po’ più liberi ma non men certi di quei del verso» (Dialogo della retorica, in Pozzi 1978: 673). 14   Cfr. De Sanctis (1954, ii: 113, 149); a Fubini (1947) si deve l’avvio di uno studio consapevole dello stile di Guicciardini. 15   Il critico sottolinea: «l’epistolario guicciardiniano è, quanto ai contenuti e all’intonazione di fondo, pragmatico, attento cioè all’immediatezza e alla perspicuità dell’informazione». 16   Il titolo Storie fiorentine è moderno: Sapegno M. S. (1993: 125). Sulle occasioni che indussero l’autore alla scrittura, v. Ridolfi (1981: 27-29). Capoversi che presentano l’improna annalistica sono, per es.: «Dal 1420 al 1434 venne la guerra del duca Filippo» (p. 158), «Conclusesi, come di sopra, nel 1470, la lega» (p. 175), «Ne l’anno medesimo e del mese di ... morì papa Innocenzio» (ed. Lugnani Scarano cit.: 63, 82, 111).

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menti successivi alla pace di Lodi, non ancora osservati con la dovuta attenzione da cronisti e da storici. Per tali caratteri si è vista nell’opera la presenza di un programma, atto a risolvere la crisi che Firenze attraversava in quegli anni (Cutinelli-Rèndina 2009: 149 e 74). In luogo delle riflessioni morali e delle orazioni recitate dai protagonisti (modi espositivi tradizionali di un genere che per tali vie incontrava il gusto retorico del tempo), ricorrono procedimenti nuovi: frequente è il Discorso indiretto libero, incorniciato da gerundiali e da participiali, le quali introducono, senza eccessivo peso, premesse e circostanze, fungendo al tempo stesso da sostegni della complessa architettura dei periodi. La solennità della scrittura dipende dalla fitta presenza d’infinitive e da un ordine dei costituenti che imita i modi del latino, in particolare nel Discorso riferito (sia diretto sia indiretto) e nelle riflessioni dei maggiori protagonisti. I pensieri e le intenzioni di costoro sono rivelati impressivamente tramite l’Indiretto libero: non vi è una prise en charge diretta dell’autore, che si limita a introdurre e a commentare, per lo più brevemente, tali esposizioni. È indicativo il discorso con cui Lorenzo il Magnifico, nel 1479, informa i cittadini, della sua intenzione di recarsi a Napoli per stringere un accordo con il suo nemico Ferdinado I d’Aragona: «una comunicazione diretta e vibrata, è una lunga successione di infinitive appese a un disse». 17 Ed ecco il sovrano francese meditare sulla strategia da seguire nei riguardi di una città che gli è palesemente ostile:  

El re Carlo partito da Pisa, come di sopra è detto, e presa la volta di Firenze con animo pessimo, e, come fu opinione, con disegno di saccheggiare la città, avendo inteso la mutazione dello stato e come tutto el popolo in sulla cacciata di Piero aveva prese le arme ed ancora non le posava, e presentendo essere uno popolo grandissimo, non solo cominciò a credere di non potere sforzare e saccheggiare la città, ma ancora a dubitare che, entrando in Firenze, el popolo che era in sull’arme non gli facessi villania; e per questo, fermo per la via, mandò a fare intendere che el desiderio suo era entrare pacificamente nella città, ma che avendo nello esercito suo gente assai e di varie lingue e nazione, ed avendo inteso el popolo nostro essere in sulle arme, dubitava non nascessi qualche disordine, e però soprasederebbe tanto el popolo si disarmassi, per potere amichevolmente e sanza tumulto venire in Firenze (Storie fiorentine xii). 18  

Confrontati con passi analoghi presenti nella Storia d’Italia, questi due periodi appaiono di una complessità media. Il primo presenta la principale (non solo cominciò a credere ... ma ancora a dubitare), preceduta da due participiali (partito ... e presa la volta), due incidentali (come di sopra ... come fu opinione), due gerundiali, delle quali la prima ha duplice reggenza (avendo inteso la mutazione ... e come), la seconda introduce un accusativo con infinito (presentendo essere). Il secondo periodo, costruito intorno alla principale mandò a fare intendere, prosegue con una gerundiale, da cui dipende un altro accusativo con infinito (avendo inteso el popolo nostro essere in sulle arme), che conferma la marcatezza aulica del passo. L’impegno argomentativo è a√dato alla centralità delle avversative, poste all’interno della subordinazione: ma ancora a dubitare ... ma che avendo ... e però soprasederebbe e si vale di una contrapposizione dialettica inserita nella principale (non solo cominciò a credere ... ma ancora a dubitare) e ripetuta nella subordinata (a dubitare che ... ma che...); si tratta di «riprese contrapponenti» (Nencioni 1988: 185). L’indiretto libero emerge nel finale con e però soprasederebbe 17   L’andata di Lorenzo de’ Medici a Napoli è narrata nelle Storie fiorentine, vi; la cit. è tratta da Nencioni (1988: 179), che analizza il discorso di Lorenzo. 18   Cito dall’ed. De Caprariis, p. 205; cfr. Guicciardini, Opere LS, vol. i: 127.

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tanto [= finché]; il condizionale presente corrisponde al nostro condizionale passato. Incontriamo qui le stesse strutture periodali che spesseggiano nella Storia; ma i legamenti sono meno serrati: vi è un uso ridotto della coniunctio relativa (Fubini 1947: 173); il Discorso diretto è escluso; sono frequenti i costrutti nominali; quanto alle scelte del lessico, si noti il ricorrere di espressioni del parlato: «Messer Luca rimase in Firenze, ma spennecchiato e senza stato e credito» (Storie fiorentine, ii), «per avere un bastone a loro posta, col quale potessino stiacciare el capo a chi volessi malignare ed alterare el governo» (v), «era entrato in questo farnetico» (xv). Il procedere annalistico (con le caratteristiche formule di scansione temporale) appare con maggiore evidenza nelle Cose fiorentine: ciò dipende dal fatto che quest’opera incompiuta – tanto da risultare in alcune parti un abbozzo – riguarda eventi lontani nel tempo, per i quali chi scrive si serve di fonti non sempre sicure. Stese probabilmente negli anni compresi tra il 1527 e il 1534, le Cose fiorentine intendevano raccontare le vicende della città dal 1375 fino al presente, ma il progetto non ebbe compimento. È seguito il modello della storia umanistica, che in un primo tempo l’autore aveva respinto. 19 Le orazioni, che mancano invece nelle Storie e che hanno fatto pensare a un influsso di Machiavelli, esibiscono una sintassi e uno stile non troppo diversi dalle parti espositivo-argomentative e diegetiche: in eπetti, la subordinazione completiva multipla (e di secondo grado), l’uso esteso di causali e di circostanziali e la coniunctio relativa sono fenomeni ricorrenti nelle opere del nostro. Alcuni tratti dell’enunciazione (procedimenti allocutivi, esclamazioni, interrogazioni), presenti nel Discorso diretto, creano uno stacco rispetto al cotesto. Le giovanili Storie, come le Cose fiorentine, presentano gli stessi costrutti e tratti di microsintassi (l’uso di chi e che in luogo di quale, la mancata risalita del clitico ecc.), che ritorneranno nell’opera maggiore: da una parte, l’alta frequenza di gerundiali e di participiali, di correlazioni (e di riprese), di relative, dall’altra, l’uso degli stessi connettori periodali (il che, la coniunctio relativa). Quanto all’ordine dei costituenti, spicca la ricorrente prolessi, sia di singoli elementi sia d’intere proposizioni, rispetto al nucleo della frase. Scritto negli anni 1521-1526, il Dialogo del Reggimento di Firenze ha come interlocutori di una discussione, che s’immagina avvenuta nel 1494 (due anni dopo la morte di Lorenzo il Magnifico e all’indomani della cacciata di Piero), Piero Capponi, Pagolantonio Soderini (seguace di Savonarola), Piero Guicciardini (padre dello scrittore) e Bernardo del Nero (decapitato nel ’97, perché ritenuto erroneamente partigiano di Piero de’ Medici); quest’ultimo personaggio, presentato come «cittadino già vecchissimo e molto savio», tratta della riforma dell’assetto istituzionale di Firenze, avendo come modelli la repubblica di Venezia e il senato immaginato da Guicciardini. Il tema, già toccato nel Discorso di Logrogno, porta a una riflessione generale sulla politica e sui rapporti tra il potere e la società civile. 20 La struttura dialogica, che consente di contrapporre una tesi all’altra, e la rassegna degli avvenimenti fiorentini compiuta dagli interlocutori, permettono di esprimere un giudizio storico sugli stessi. Compaiono non soltanto indicazioni sull’agire pratico, ma anche riflessioni di carattere generale sullo Stato e sulla natura umana. La forma del dialogo, che induce a un confronto con Bembo e Castiglione nonché con il Machiavelli dell’Arte della guerra, ha i tratti consueti al genere. E tuttavia,  



19  Le Cose fiorentine furono pubblicate per la prima volta nel 1945 a cura di Roberto Ridolfi. Sul modello dell’opera v. M. S. Sapegno (1993: 126, 160); Colussi (2014: 138) ha parlato di un possibile influsso di Machiavelli. 20   Sul modello veneziano e sul senato guicciardiniano, v. Cutinelli Rèndina (2009: 40, 85-86).

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l’autore, sia perché guarda a un passato prossimo sia perché si riferisce a una tradizione familiare («ho voluto scrivere con quel modo ed ordine che più volte mi fu recitato da mio padre»), 21 adotta un periodare agile, costruito con battute brevi e con attacchi discorsivi vicini al parlato: «Sì forse, quando le [scil. le alterazioni] sono di quella sorte che sono state l’altre de’ tempi vostri», «Deh, per amore di Dio, [...] seguitiamo el parlare di prima», «È bella dubitazione, ma per ora non necessaria», «Non ci darai mai a credere che tu desideri stare neutrale», «Piero dice bene», «Tu di’ bene». 22 Nel secondo libro il lungo intervento di Bernardo del Nero sul vero reggimento ha il passo del trattato, con le sue formule di ripresa e di collegamento: «Resta adunche pensare», «Io ho ragionato di sopra», «Questi sono e’ difetti principali», «Posto el consiglio grande che, come è detto, è fondamento della libertà e del vivere populare». 23 Nel Proemio la retorica sembra imporsi con i periodi estesi, il frequente ricorrere di coordinate disgiuntive, di dittologie, della doppia negazione non si può dire se non che, e del né all’inizio del periodo (ed. cit.: 241, 242). Il dialogo si apre con una battuta di Piero Capponi, un periodo reso faticoso dal tono enfatico, 24 cui segue tuttavia il recupero di un normale svolgimento, come appare in questa dichiarazione di Bernardo:  







La città non è sì povera di uomini, che mai in tempo alcuno abbia avuto o sia per avere bisogno del consiglio mio, e ora massime che per la vecchiezza è declinato e è consumato non manco forse che sia el corpo; in modo che non solo non debbo pensare di ritornare alle fatiche del Palagio, ma se vi fussi drento, bisognerebbe che io pensassi di levarmene. Mi dispiace bene che di quello che io dovevo fare volontariamente già qualche anno, ne sia stata causa la mutazione dello stato e la cacciata di Piero de’ Medici, la quale mi è doluta e per la aπezione che io ho sempre portato a quella casa, e molto più perché in tanto tempo che io ho, ho veduto per esperienzia che le mutazioni fanno più danno alla città che utile, di che vi potrei molti esempi allegare (ivi: 303).

Delle due consecutive che aprono il passo, la prima si trova all’interno della frase non è sì povera di uomini, che ..., la seconda, introdotta da in modo che, sostiene la correlazione non solo ... ma. Questo schema periodale apre alla maniera argomentativa della storia. L’uso degli anaforici (di levarmene ... ne sia stata causa) e le relative di diversa estensione (la quale mi è doluta ... di che vi potrei) confermano il carattere legato di questa prosa che procede speditamente mantenendo saldi i collegamenti tra tutte le sue componenti. Conservato in tre stesure, che precedono cronologicamente le Prose di Bembo, il Dialogo presenta una finitezza formale che lo distingue da altre opere guicciar21   La dichiarazione appare nel Proemio: v. ed.: De Capraris: 242. La più recente ed. dell’opera è stata curata da G. M. Anselmi e C. Varotti, Torino, Bollati Boringhieri, 1994. Sul padre dell’A., Piero Guicciardini (1454-1513), v. Ridolfi (1982: 14-20). 22   Per le espressioni colloquiali, che rappresentano un seguito di felici variationes nel tessuto del dialogo, vedi: «Tu mi hai cavato di bocca, Piero, quello che io volevo dire» (p. 306), «ma non allargare tanto la briglia che e’ venisse in mano alla moltitudine» (p. 316), «si debbe però o gettare via il tempo che si può spendere utilmente» (p. 318). 23   Nel discorso di Bernardo del Nero si ritrovano modi proverbiali popolari: «ma è di√cile trovare la medicina appropriata, perché bisogna sia in modo che medicando lo stomaco non si oπenda il capo», «Non bisogna mettere la salute dello infermo in mano di medico imperito», cfr. Cutinelli Rèndina (2009: 99, note). 24   «Noi abbiamo preso grandissimo piacere dell’essere venuti a visitare questo santissimo luogo; ma ce l’ha ancora augumentato l’avere occasione di vedere voi, la assenzia del quale dal Palagio e dal governo della città reputiamo fuora d’ogni dovere, che non ci pare, in una mutazione di stato sì grande, come è stata questa certamente, cosa più strana veduto avere» (ivi: 245).

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diniane (Cutinelli Rèndina 2009: 269, 92). Non vi appaiono quei tratti di oralità riflessa, che ricorrono, per es., nel Principe e in alcuni narratori tra Quattro e Cinquecento. Non vi sono vistose figure retoriche, è assente quella maniera che dipende dall’uso di espressioni latine in voga nelle cancellerie, non vi è abuso di termini burocratici e giuridici. 25 Altri caratteri lo avvicinano alla Storia d’Italia: vi ricorrono infatti gli stessi tipi di consecutive, di condizionali, di causali (perché posto all’inizio periodo e il tipo per + N / perché + causale), di participiali e d’infinitive preposizionali. 26 Non è evitata la subordinazione di 2° grado né la subordinazione multipla: «Adunche lasciata a un altro tempo la agricoltura, gli orti e le fabriche, vi preghiamo di nuovo che ci diciate per che conto non paia utile questa mutazione che si è fatta, e quale sia circa el governo della nostra città la vostra opinione» (ivi: 306). 27 Il fervore che anima il Dialogo viene meno nei tre libri delle Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli, 28 composte presso la corte papale nel 1530, proprio nei mesi in cui si preparava la stampa di quell’opera. Risaltano riferimenti e spunti polemici, che nascono da un preciso intento critico: «È posto troppo assolutamente che»; «Io ho altra volta scritto più largamente», «Ma perché i casi sono vari, e lo autore confonde gli esempli», «Però, questi pensieri che e’ tiranni deponghino le tirannide [...] si dipingono più facilmente in su’ libri e nelle immaginazioni degli uomini, che non se ne eseguiscono in fatto». 29 È evidente il distacco dall’argomentare machiavelliano e dall’ideale umanistico della historia magistra vitae: le regole si sviluppano con la riflessione sullo stato presente delle cose, non derivano dalla conoscenza dei fatti del passato. All’inizio si ricorda come nascono le città e, in particolare, si ricorda come è nata Roma:  









El principale fondamento della potenzia e ricchezze della cittá è avere grosso populo: e male può ingrossare di populo una cittá che sia posta in luogo sterile, se giá non ha la aria molto generativa, come Firenze, o la opportunità del mare, come Vinegia; e però è meglio porsi in paese fertile, perché piú facilmente vi concorrono gli abitatori; ma quando fussi possibile fermare abitatori assai in uno sito, io non dico al tutto sterile, ma non grasso, non è dubio che piú conferirebbe a farlo virtuoso la necessitá del provedersi che le buone legge; perché quelle si possono variare dalla voluntá degli uomini, ma la necessitá è una legge ed uno stimulo continuo. E questa indirizzò bene Roma, la quale, se bene posta in paese fertile, tamen per non avere contado ed essere cinta di populi potenti, fu forzata allargarsi con la virtú 25   Vocaboli ed espressioni latini rimangono in scritti di rapida composizione; si tratta per lo più di residui del gergo burocratico e giuridico. Fubini (1947: 174) ricorda che nel Dialogo avvengono alcuni cambiamenti grammaticali: lui > egli, suo plurale > loro. 26   Cfr.: «Però non direi che la ruina di Piero non mi sia dispiaciuta, perché direi il falso; e se lo dicessi...», «se io credessi che questa mutazione fussi in parte alcuna utile alla città, io la arei cara quanto alcuno altro» (ed. cit.: 248-249); segnalo la presenza di un verbo quasi-modale: «Credo ancora che più spesso si abbatta a essere cattivo [= finisca per essere cattivo] el governo di uno che quello di molti perché ha più licenzia e manco ostaculi» (ivi: 250). 27   Sono da notare: il relativo che e chi in luogo di quale: «del tempo in che fu gonfaloniere Piero Soderini» (ivi: 241), «per el sospetto grande in che erano quasi tutti» (ivi: 242), «come persona in chi hanno avuto [...] somma confidenzia» (ivi: 243); la presenza del passivo: «sarà tutto una sincera e fedele narrazione di quello che altra volta ne fu ragionato da più nostri cittadini gravissimi e savissimi» (ivi: p. 242); e del su√ssato N-tore: «non come autore o consultore di cose simili, ma come non rivelatore, fu decapitato» (ivi: 243). 28   Questo è il titolo adottato da Cutinelli Rèndina (2009: 172); De Caprariis (ed. cit.) ha preferito: Discorsi del Machiavelli sopra la ‘Prima Deca di Tito Livio’. 29   Gli esempi sono tratti dall’ed. De Caprariis: I, i: 332; I, iv: 334; I, x: 337; I, x: 338.

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delle arme e con la concordia; e questo si discorre non in una cittá che voglia vivere alla filosofica, ma in quelle che vogliono governarsi secondo el commune uso del mondo, come è necessario fare, altrimenti sarebbono, essendo debole, oppresse e conculcate da’ vicini. 30  

Si procede mediante riprese e aggiustamenti del già detto: è un prevenire-parare le possibili obiezioni, è un discorso incline all’equilibrio e al contemperamento delle idee e delle proposte. Ciò è interpretato dai continui parallelismi e correlazioni: come ... come ..., perché più ..., ma quando..., perché quelle ... ma ... se bene ... tamen ..., io non dico ... ma non ..., ma in quelle ... come ..., altrimenti. La ripetizione a breve distanza dello stesso vocabolo prevale sull’uso di deittici anaforici. I due periodi – in cui si divide il flusso discorsivo ricco di riferimenti e di proposte – si svolgono tra opposizioni, correlazioni (e male ... o la opportunità ... e però ... ma quando ... ma non grasso ... ma la necessità ... ma in quelle) e legami discorsivi (E questa indirizzò bene Roma ... e questo si discorre ...). Appropriata appare la scelta degli altri costrutti: una condizionale (se già non ha la aria ...), tre causali (due sono introdotte da perché, una è un’infinitiva per non avere contado), una concessiva se bene; la relativa ha un particolare rilievo (Roma, la quale, se bene posta ...); si noti la presenza del tamen cancelleresco. A parte le diπerenze che dipendono dalla diversità “generica”, la Storia d’Italia presenta, rispetto alle tre opere che la precedono, una sostanziale continuità nelle scelte riguardanti la sintassi del periodo e la testualità. Nel progresso di tempo il discorso, depurato delle superfluità espressive, mira, nella Storia, a un’essenzialità dimostrativa e conoscitiva, anche se dal xx libro una maggiore attenzione ai particolari modifica in parte questo disegno. 31 Anche la tecnica argomentiva mostra una continuità di procedure. Un deciso stacco di tono appare invece nelle tre orazioni, scritte in occasione del sacco di Roma, a testimonianza del fallimento della politica sostenuta in precedenza dall’autore, che tenta il riscatto in una prosa costruita su note retoriche. In difesa degli onori e dell’onore, egli scrive i tre testi, scegliendo «uno slancio, un’e√cacia, un’esaltazione di scrittura che possa tentare l’adeguazione, la parità, o, almeno, la comprensione e la forza morale e filosofica rispetto all’evento traumatico». 32  



7. 1. 2. “Io ho deliberato” Io ho deliberato di scrivere le cose accadute alla memoria nostra in Italia, dappoi che l’armi de’ franzesi, chiamate da’ nostri prìncipi medesimi, cominciorono con grandissimo movimento a perturbarla: materia, per la varietà e grandezza loro, molto memorabile e piena di atrocissimi accidenti; avendo patito tanti anni Italia tutte quelle calamità con le quali sogliono i miseri mortali, ora per l’ira giusta d’Iddio ora dalla empietà e sceleratezze degli altri uomini, essere vessati (StI I, i, p. 5) 30   Considerazioni I, i, ed. De Caprariis, p. 332. I corsivi sono miei, ad eccezione di tamen, che è nel testo. 31   Su questo cambiamento di stile v. R. Rinaldi, Le forme e i fatti. Modernità di Guicciardini, in Berra/ Cabrini (2012: 169-180, 176-177) e Gilbert (1970: 243): «la narrazione guicciardiniana muta stile, diventando più particolareggiata e oggettiva». 32   Cfr. Bàrberi Squarotti (2005). Tutto il finale della Oratio accusatoria (v. Guicciardini, Opere LS: 565-568) è costruito con periodi brevi, sostenuti da anafore retoriche; l’enunciazione appare diversa, rispetto a quella della Storia d’Italia. Sulla lega di Cognac e le disastrose conseguenze per Guicciardini v. Ridolfi (1982: 173-235). I caratteri dell’alta oratoria del sec. xvi sono illustrati da S. Albonico, Approssimazioni all’oratoria del Casa, in Barbarisi/Berra (1997: 437-456).

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L’incipit definisce un’istanza enunciativa; 33 non si stabilisce né un disegno generale né si vuole fissare l’ordine dei fatti da esporre (come avviene di norma negli annali); si presenta un io, quale fonte di un’enunciazione storica, non personale né autobiografica. In seguito, alla prima si alterna la terza persona; l’autore, in poche e particolari circostanze, interpreta se stesso come personaggio, confermando la testimonianza de visu quale criterio di veridicità . 34 Chi è il personaggio che riferisce gli eventi? È stato notato che qui, al pari di precedenti illustri, come i Commentari di Cesare e quelli di Piccolomini, che racconta le gesta di sé come come Pio II (1458-1464), avviene «uno sdoppiamento fra autore e narratore». 35 Dagli illustri predecessori Guicciardini ha imparato a parlare di sé in terza persona. Trattando dell’ambasceria a Ferdinando il Cattolico nel 1512, autore, narratore ed attore del racconto si fondono:  





Anzi, procedendo con queste incertitudini mandorono [scil. i governanti di Firenze], con dispiacere grande del re di Francia, al re d’Aragona imbascadore Francesco Guicciardini, quello che scrisse questa istoria, dottore di legge, ancora tanto giovane che per l’età era, secondo le leggi della patria, inabile a esercitare qualunque magistrato (StI X, viii, p. 998).

In seguito, nel 1521, quando sarà governatore di Modena e Reggio, il personaggio Guicciardini compare nella Storia per difendersi da sospetti; ricompare poi, all’interno della storia, nell’episodio dell’assedio di Parma (StI XIV, x); ma, come si è detto, lo storico, attento ricercatore di notizie e testimonianze, respinge ogni tentazione autobiografica. Descrivere e interpretare le strutture sintattiche e testuali non deve impedire l’analisi del discorso, che si concentrerà sulla presenza dell’enunciatore, colui che conduce la parola riferita, servendosi di riformulazioni, aggiustamenti e segnali discorsivi: l’enunciatore è soggetto a tutte le operazioni che definiscono il suo status e i caratteri di un genere. La dimensione locale si confronta con il quadro generale dell’atto comunicativo e delle tradizioni discorsive. 36 Chi produce il discorso lascia tracce enunciative, che vanno indagate e messe in rapporto tra loro e con il contesto generale. La postura assunta dall’enunciatore della Storia rispetto ai discorsi del potere è persuasiva, non agonistica; il suo compito consiste nell’ordinare tali discorsi, stabilendone una gerarchia, formulando commenti e critiche. Come abbiamo appena visto, in alcuni luoghi, colui che scrive si autonomina attribuendosi un titolo o una funzione. In un altro passo ritorna, ancora in terza persona, la figura del protagonista-autore. Ma qui la sua apparizione è preceduta dal racconto di circostanze, che costituiscono quasi un antefatto. Nominare dapprima tre illustri comandanti accresce il rilievo attribuito a chi occupa il sommo di questa gerarchia militare e civile, Francesco Guicciardini, nominato per ultimo. Questi ordini, gradi di “dignità” riguardanti personaggi ed azioni rappresentano criteri dell’elaborazione interna del discorso:  

33   «Il linguaggio si trasforma in situazioni di discorso, caratterizzato dal sistema di referenze interne la cui chiave è io, e che definiscono l’individuo attraverso la costruzione linguistica particolare di cui si serve quando si enuncia come parlante» (É. Benveniste, Problemi di linguistica generale, vol. I. Trad. it. Torino, Einaudi, 1971, p. 305. Ed. orig.: 1956). 34   Cfr. P. Jodogne, L’autoritratto di Francesco Guicciardini nella “Storia d’Italia”, in Berra/Cabrini (2012: 1-14). Sul criterio di veridicità fondata sulla testimonianza oculare, che Montaigne apprezza in Guicciardini, v. G. M. Barbuto, in Berra/Cabrini (2015: 362). 35   Guglielminetti (1990: 486). Con termine tecnico si parla di auktoriale Erzählsituation. 36   Le quali s’inscrivono nel paradigma coseriano: cfr. F. Lebsanft, A. Schrott, Discours, textes, traditions, in “Revue de linguistique romane”, tome 80 ( Janvier-Juin 2016): 5-39.

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E però il pontefice, il quale prima aveva mandato a Piacenza con le sue genti d’arme e con cinquemila fanti il conte Guido Rangone governatore generale dello esercito della Chiesa, vi mandò di nuovo con altri fanti e con le genti d’arme de’ fiorentini Vitello Vitelli, che ne era governatore, e Giovanni de’ Medici, quale fece capitano generale della fanteria italiana; e per luogotenente suo generale nello esercito e in tutto lo stato della Chiesa, con pienissima e quasi assoluta potestà, Francesco Guicciardini, allora presidente della Romagna (StI XVII, iii, p. 1720).

Per assicurarsi un precedente prestigioso, colui che scrive ricorda un incarico politico svolto dal padre presso Massimiliano: «A Verona ricevette similmente il giuramento della fedeltà: e in quella città gl’imbasciadori fiorentini, tra’ quali fu Piero Guicciardini mio padre, convennono con lui in nome della loro republica» (StI VIII, xi, p. 797). La prima persona autoriale ritorna poche volte nella Storia e non occupa un grande spazio nella narrazione; 37 si accompagna all’indicazione del tempo: «l’anno mille quattrocento novantaquattro (io piglio il principio secondo l’uso romano)» (StI I, vi, p. 50), 38 e all’indicazione della fonte della notiza, raπorzandone il valore testimoniale: «Ma io udi’ già da persona gravissima [...] confutare e√cacemente questo romore» (StI II, ix, p. 98), «Né è questa opinione confermata, se io non m’inganno» (StI II, ix, p. 199), «Nondimeno io intesi già da autore degno di fede e per mano del quale passava allora tutto il governo dello stato di Mantova, essere stata molto diversa la cagione» (StI IX, viii, p. 866), «sperando, come io udi’ poi dire al cardinale de’ Medici conscio di tutti i suoi secreti, cacciati i franzesi di Genova e del ducato di Milano, potere poi facilmente cacciare Cesare del reame napoletano» (StI XIV, i, p. 1385). L’infinitiva latineggiante alza il tono di questi passi; la correctio ne definisce l’ispirazione prudente, la quale si manifesta spesso con brevi parentetiche, capaci di attenuare un’aπemazione e di ridimensionarne il contenuto cognitivo: 39 «non ricompensando questi mali (io eccettuo sempre il Morone) con alcuna diligenza o intelligenza di spie» (StI XIV, vi, p. 1423), «si poteva entrarvi [scil. nella porta] per una via coperta naturale, senza pericolo di essere battuto o oπeso, da i fianchi della città (essendo già, come io credo, statovi e partito il duca di Urbino)» (StI XVII, v, p. 1730), «perché il viceré e per molte altre cagioni desiderava la concordia e (per quello che io ho udito da uomini degni di fede) trattava che l’esercito si voltasse subito contro a’ viniziani» (StI XVIII, vi, p. 1845). Discorrendo della restaurazione del governo dei Medici (1512), l’io autoriale fa capolino in una parentetica che spezza il periodo separando l’apodosi dalla protasi: «In tale modo fu oppressa con l’armi la libertà de’ fiorentini, condotta a questo grado principalmente per le discordie de’ suoi cittadini: al quale si crede non sarebbe pervenuta se (io passerò la neutralità imprudentemente tenuta, e l’avere il gonfaloniere lasciato pigliare troppo animo agli inimici del governo popolare) non fusse stata, eziandio negli ultimi tempi, negligentemente procurata la causa  





37   Altre autocitazioni: Francesco Guicciardini (StI XIV, x, p. 1446; XV, iv, p. 1517); Guicciardino (StI XIV, xi, p. 1453; XV, v, p. 1527), il commissario Guicciardino (StI XIV, vii, p. 1428). 38   Altre indicazioni dell’anno: «Finì in questo stato delle cose l’anno mille cinquecento dieci» (StI IX, xiii, p. 897), «Seguita l’anno mille cinquecento diciotto, nel quale Italia (cosa non accaduta già molti anni) non senti movimento alcuno, benché minimo, di guerra» (StI XIII, ix, p. 1242), «Seguita l’anno mille cinquecento diciotto» (StI XIII, ix, p. 1342). 39   Il condizionale epistemico funge da marcatore misto, il quale esprime la mediazione “per prestito” (il contenuto cognitivo è mutuato) e la mediazione zero (rifiuto di prendersi carico); nel primo caso appaiono quadri di discorso introdotti da secondo X; per il concetto di prise en charge v. P. Dendale, D. Coltier, La notion de prise en charge ou de résponsabilité dans la théorie scandinave de la polyphonie linguistique, in Bres et Al. (2005: 125-140) ss.

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publica» (StI XI, iv, p. 1091); dall’impersonale si passa alla prima persona: si crede ... io passerò. I personaggi parlano sovente in prima persona; il pronome è ripetutto a breve distanza: si vedano gli interventi di Carlo da Barbiano (StI I, iv, p. 29), di Ferdinando d’Aragona (StI I, xix, p. 127), di Pierpaolo Soderini (StI II, ii, p. 143), del gran cancelliere e del viceré alla corte dell’imperatore (StI XVI, xiv, pp. 1675 ss.) Il discorso diretto era usato correntemente nei dispacci, con l’eccezione di quelli di Machiavelli, dove ricorre «un coagulo linguistico tra la forma dell’oralità e dell’epistolografia». 40 La Storia è l’opera cui l’autore dedicò maggiori cure, riguardo al progetto generale, ai contenuti e alla forma. Diversamente da tutti gli altri suoi scritti, ne aveva a√dato la lettura a un attento revisore. Aveva spogliato le Prose del Bembo, ricavandone suggerimenti ortografici, grammaticali e stilistici. Alla ricerca di una codificazione storiografica della sua opera, ne discusse con Corsi, consultò il De oratore ciceroniano, 41 rilesse le Deche di Livio, anche attraverso il commento machiavelliano. Inoltre, ricercando modi vigorosi e di eπetto, già sperimentati, recuperò alcuni dei suoi Ricordi, attivò rapporti con i Commentari della luogotenenza e con le Storie fiorentine, avendo particolare riguardo a quei passi in cui emerge la consapevolezza della tragedia italiana. Leggiamo un passo di quest’ultima opera:  



Ora per questa passata de’ Franciosi, come per una subita tempesta rivoltatasi sottosopra ogni cosa, si roppe e squarciò la unione d’Italia ed el pensiero e cura che ciascuno aveva alle cose communi in modo che vedendo assaltare e tumultuare le città, e’ ducati ed e’ regni, ciascuno stando sospeso cominciò attendere le sue cose proprie né si muovere per dubitare che uno incendio vicino, una ruina di uno luogo prossimo avessi a ardere e ruinare lo stato suo. Nacquono le guerre subite e violentissime, spacciando ed acquistando in meno tempo uno regno che prima non si faceva una villa; le espugnazione delle città velocissime e condotte a fine non in mesi ma in dí ed ore, e’ fatti d’arme fierissimi e sanguinosissimi. Ed in eπetto gli stati si cominciorono a conservare, a rovinare, a dare ed a tôrre non co’ disegni e nello scrittoio come pel passato, ma alla campagna e colle arme in mano (Storie fiorentine, xi).

L’elaborata composizione è governata da due similitudini (una subita tempesta ... uno incendio vicino ... ardere), nonché dal rilievo delle dittologie (si roppe e squarciò ... le guerre subite e violentissime ... ardere e ruinare ... spacciando ed acquistando ... fierissimi e sanguinosissimi ... a dare ed a tôrre ... alla campagna e colle arme in mano) e dei superlativi. Il finale richiama la celebre conclusione della machiavelliana Arte della guerra: «Credevano i nostri principi italiani [...] che ad uno principe bastasse sapere negli scrittoi pensare una acuta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne’ detti e nelle parole arguzia e prontezza». 42 Queste cure assidue dimostrano la convinzione di Guicciardini di avere dinanzi a sé un “monumento” da tramandare alle future generazioni. Il narratore è onnisciente, ma il punto di vista cambia spesso. Autore e personaggio si confrontano con l’irriducibile complessità del reale. Chi scrive si enuncia scri 

40   Cfr. C. Negrato, Il discorso diretto, centro dell’informazione diplomatica. Il caso di Gasparo Contarini (14821542), in Fournel et Al. (2014: 143-160, 153). 41   Per assumere uno stile adatto a un’opera storica, Guicciardini s’ispirò all’ insegnamento di Cicerone (De oratore ii, 15), v. Cutinelli Rèndina (2009: 187-188). 42   Cfr. Machiavelli, Arte della guerra (2001: 287). Il tema della guerra è presente, tra gli altri, in Boiardo: «Mentre che io canto, o Dio redemptore,/Vedo la Italia tutta a fiamma e a foco/Per questi Galli, che con gran valore/Vengon per disertar non sciò che loco» (Innamoramento, III, ix, 26).

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vendo e fa sì che i personaggi compiano lo stesso atto nella scrittura. 43 Il Valentino non è l’eroe descritto nel Principe, è un individuo in fuga: «mancò poco che [scil. Bartolomeo d’Alviano] non pigliasse il cardinale di Valenza, il quale, uscito di Roma a cacciare, fuggendo si salvò» (StI III, xi, p. 308); «d’animo totalmente alieno dalla professione sacerdotale», è l’assassino del fratello: «incitato dalla libidine e dalla ambizione (ministri potenti a ogni grande sceleratezza), lo fece, una notte che e’ cavalcava solo per Roma, ammazzare e poi gittare nel fiume del Tevere secretamente» (StI III, xiii, p. 323). Al suo primo apparire Alessandro VI è descritto come dedito al malaπare: «comperò palesemente, parte con danari parte con promesse degli u√ci e benefici suoi, che erano amplissimi, molti voti di cardinali» (StI I, ii, p. 11). L’autore entra nei personaggi e all’istante ne dà un giudizio perentorio. Nella Storia l’incipit del Decameron è applicato al contrario: non l’orrore della peste cui segue il «bellissimo piano e dilettevole» delle novelle, ma l’idillo laurenziano seguito dalla tragedia dell’Italia. 44 Di seguito si ripete la dialettica degli eventi: è posto un problema, si propone la soluzione, si mostra la non praticabilità delle alternative, si ritorna al punto di partenza. Un meccanismo, di√cilmente riducibile a unità, ma di un’assoluta razionalità: dubbi, incertezze, timori, divagazioni, impedimenti procedono irresistibilmente verso la soluzione. 45 L’ordinamento della materia non mira a un fine. Il carattere annalistico della Storia è evidenziato dalla suddivisione in venti libri, che hanno varia lunghezza e struttura. 46 Come si è detto, i capitoli, assieme ai sommari, sono nati in epoca moderna, per facilitare la lettura di un continuum, che già mostrava una predisposizione a dividersi in parti più facilmente fruibili. Inizi e finali sono stati scelti sia per ripartire i fatti secondo una logica interna alla storia, sia per creare riprese e scene ad eπetto. 47 Ininterrotto è il flusso degli eventi: «solo di tanto in tanto le date si accampano a inizio di libro [...] sempre a segnalare e a preannunciare lo scatenamento di nuove e ancora più terribili guerre, quasi a scandire le tappe salienti del disastro italiano, gli “atti” della “tragedia” nazionale» (Bausi 1996: 333). I finali dei libri non contengono elementi sensazionali e ciò conferma la disposizione antiretorica dell’Autore. È da respingere la tesi, secondo la quale la fiamma che anima il Principe dipenderebbe dalla scelta “italiana” dell’Autore, che avrebbe ritagliato soltanto i temi della riscossa nazionale, escludendo una visione “europea” e adottando una lingua vicina al parlato di Firenze. Lo scritto nasce piuttosto da una visione realistica dei  









43   Una chiave di lettura di molti discorsi e colloqui tenuti da personaggi illustri si trova nelle aπermazioni di É. Benveniste, Problemi di linguistica generale, vol. ii. Trad. it., Torino, Einaudi, 1985 (ed. orig. 1974), pp. 105-106; si veda anche Sapegno M. S. (1993: 138). 44  Nella descrizione degli eventi bellici convivono elementi tradizionali (premonizioni, prodigi, fantasmi), i quali hanno ascendenze classiche, e fermenti nuovi legati all’ideologia anticuriale; è da ricordare che la descrizione del sacco di Roma del 1527 evita i toni tragici ed epici. 45   Sapegno M. S. (1993: 137, 139) parla di Guicciardini come di un lettore lontano dalla scena dell’azione, e, ricordando una sorta di promemoria, una scaletta di temi da trattare, contenuta nel libro xix, rivela i procedimenti della scrittura guicciardiniana (ivi: 174). Sulla genesi e struttura della Storia d’Italia v. Bausi (1996: 332). G. Ferroni, Tempo della vita tempo della scrittura, in Cassiani/Figorilli (2014: 3-13, 4), definisce la diπusa prolissità di alcune parti dell’opera «una leggibilità che si dispone nel tempo». La dissociazione argomentativa è studiata in Gât¸ a˘ (2009). 46   Dei primi sei libri soltanto il primo supera le 100 pagine: libro i: pp. 126; libro ii: pp. 98; libro iii: pp. 100¸ libro iv: pp. 100; libro v: pp. 91; libro vi: pp. 91. Sulla divisione in capitoli v. Sapegno M. S. (1993: 133). 47   L’avvio di ciascun libro (esclusi il primo e pochi altri) non ha un’apertura tematica: si riassume il già detto, si trae una conclusione, si mostrano le conseguenze di quanto è avvenuto. Il finale è spesso occupato da un evento significativo: l’entrata di Carlo VIII a Napoli (i libro), il diπondersi del mal francese (iii libro).

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fatti, mirata all’azione e alla riscossa nazionale. Come il Principe apre a un’analisi spietata del “politico”, così la Storia d’Italia indaga le cause e le eccezioni spingendo a riflettere. Al prevalere dell’entusiasmo succede la rivincita del raziocinio e dell’analisi, ai toni eroici la ricerca delle circostanze e delle eccezioni. Cambiano l’enunciazione e i modi dell’argomentare. Lo stile di Guicciardini è ispirato dall’alta densità dei concetti, si compone nell’architettura dei periodi, è mosso da un argomentare che si elabora per lunga riflessione. 7. 1. 3. L’ordine del discorso Le aree semantiche più frequentate nella Storia guicciardiniana riguardano l’agire dei politici, le cause degli eventi, i giudizi sui fatti e sulle persone. Azioni, pensieri e sentimenti organizzano insiemi e sottoinsiemi di vocaboli e di espressioni che attirano lo sguardo degli studiosi della lingua e dello stile. 48 Il lessico della Storia non è un obiettivo della presente ricerca, tuttavia, sembra utile accennare a tre campi semantici presenti nell’opera, i quali hanno rapporto con la scelta dei costrutti: la speranza (sperare, credere, ingannarsi, illudersi, persuadersi, ignorare), la simulazione (simulare, dare ad intendere, ingannare, agire sotto nome, sotto colore, occultamente, secretamente), il dubbio (dubbio, sospetto, menzogna, tradimento, incertezza, timore). All’interno di queste tre aree si hanno distinzioni, precisazioni, rettifiche, eccezioni: sono fattori che influiscono indirettamente sullo svolgimento e sull’ampiezza dei periodi. I vocaboli ora citati veicolano concetti che ritornano di continuo nell’opera creando una fitta rete di rapporti che ne condizionano la lettura. Ricordo soltanto un motivo ricorrente. Nella storia l’irrazionale prende il sopravvento, manifestandosi in una conflittualità e in un disordine perenni, che influenzano l’agire umano e dimostrano come sia vana la speranza di un progresso reale delle coscienze e delle istituzioni. Ciononostante sopravvive la volontà di osservare, analizzare e comprendere. Procedimenti tipici del comporre guicciardiniano sono: all’inizio di un episodio, un disegno della situazione; alla fine, un riepilogo delle conseguenze. Un esempio della prima modalità: «Tale era lo stato delle cose, tali erano i fondamenti della tranquillità d’Italia [...]. Quando nel mese di aprile dell’anno mille quattrocento novantadue, sopravenne la morte di Lorenzo de’ Medici» (StI I, ii, p. 10). Il senso degli avvenimenti evocati è condensato in un termine capace di riepilogare e definire lo stato dei fatti. Abbiamo cioè un incapsulatore testuale che prepara il terreno a un giudizio o a una dimostrazione:  

«si ristrinse [scil. Piero] talmente con Ferdinando e con Alfonso, da’ quali Verginio dependeva, che ebbe Lodovico Sforza causa giusta di temere che qualunque volta gli Aragonesi volessino nuocergli arebbono per l’autorità di Piero de’ Medici congiunte seco le forze della republica fiorentina. Questa intelligenza, seme e origine di tutti i mali, se bene da principio fusse trattata e stabilita molto segretamente, cominciò quasi incontinente, benché per oscure congetture, a essere sospetta a Lodovico, principe vigilantissimo e di ingegno molto acuto» (StI I, ii, p. 13); «Ricevette adunque il senato per publico decreto in protezione i pisani, promettendo espressamente di difendere la loro libertà. La quale deliberazione non fu da principio considerata dal duca di Milano quanto sarebbe stato conveniente» (StI III, iv, p. 262); «non procedesse il capitano in alcuna causa criminale benché minima senza l’assessore: fussino i pisani trattati bene da’ fiorentini, secondo l’uso delle altre 48

  Sul lessico politico di Guicciardini si veda la ricerca di Bruni (2012).

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città nobili d’Italia; né potessino essere poste loro nuove gravezze. La quale dichiarazione non fu procurata perché i viniziani desiderassino che la fusse osservata ma per raπreddare l’ardore degli oratori pisani» (StI IV, vii, p. 389).

Si noti nei due ultimi passi il rilievo assunto dalla coniunctio relativa, uno snodo sintattico e testuale che ricorre con alta frequenza e con una notevole varietà lessicale e stilistica; si tratta di un nesso evidenziato, dotato di forza pragmatica e di un tono elevato e latineggiante. 49 Tra i modi d’introdurre nuovi contenuti o di rifinire e precisare quanto è stato aπermato, assume un particolare rilievo la gerundiale a inizio di periodo, una struttura tradizionale realizzata per lo più con verbi di “descrizione storica” e variata con l’uso di artifici topologici (come la tmesi tra ausiliare e participio passato):  

«Ma essendo dipoi, per la morte di Ruberto senza figliuoli maschi, succeduta Giovanna figliuola di Carlo duca di Calavria, il quale giovane era morto innanzi al padre, cominciò presto a essere dispregiata, non meno per l’infamia de’ costumi che per la imbecillità del sesso, l’autorità della nuova reina» (StI I, iv, p. 34); «Ma essendo già incominciata, benché da principio con autori incerti, a risonare in Italia la fama di quello che oltre a’ monti si trattava, si destorono vari pensieri e discorsi nelle menti degli uomini» (StI I, v, p. 38); «Perché essendo un dì egli e i compagni suoi alla presenza del re, e leggendosi da uno secretario regio i capitoli immoderati i quali per ultimo per la parte sua si proponevano, egli con gesti impetuosi, tolta di mano del secretario quella scrittura la stracciò innanzi agli occhi del re, soggiugnendo con voce concitata: – Poiché si domandano cose sì disoneste, voi sonerete le vostre trombe e noi soneremo le nostre campane –» (StI I, xvi, p. 109).

A raπorzare la funzione di collegamento tra le frasi o i periodi si noti la presenza di una congiunzione iniziale: si evidenzia in tal modo la continuità tematica con quanto precede. Uno stacco è realizzato, invece, con un verbo impersonale di accadimento, che imita sovente analoghi costrutti latini, 50 e che, con l’inserimento successivo di una circostanziale, appare distanziato dalla completiva soggettiva che segue:  

«E accadde per avventura che, pochi dì innanzi che gli oratori franzesi arrivassino in Firenze, erano venute a luce alcune pratiche» (StI I, vi, p. 57); «Ma accadde presto che il duca, alienissimo sempre dallo spendere e inclinato da natura a procedere con simulazioni e con arte, né parendogli che per allora potesse pervenire in lui il dominio di Pisa, cominciando a somministrare parcamente le cose che dimandavano i pisani, dette loro occasione di inclinare più l’animo a’ viniziani» (StI III, iv, p. 257); «E accadde che essendo cavalcato un giorno insino appresso al bastione il cardinale da Esti, nel ritornarsene, un colpo d’artiglieria scaricata da uno de’ legni degli inimici levò il capo al conte Lodovico della Mirandola» (StI VIII, xiv, p. 810); «E accadde anche, in questi dì medesimi, che i fanti i quali erano stati lasciati da’ franzesi alla guardia di Rocca Guglielma, non potendo sostenere le molestie che dalle genti che guardavano Roccasecca e le terre circostanti quotidianamente sostenevano e però ritornandosene all’esercito, furono nel cammino rotti» (StI VI, vii, p. 580). 49  La coniunctio relativa resiste a lungo nella lingua letteraria; è ancora frequente nella prosa epistolare del primo Ottocento, v. Magro (2014: 165). 50   Cfr. gli introduttori accidit, conducit ‘importa’, expedit ‘giova’ in Hofmann/Szantir (1972: 416); per evenit ut, contingit ut, fit ut, sequitur ut v. Ernout/Thomas (1953: 304).

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Si ritrova anche la versione negativa del costrutto: «Non accadde in questo anno altra cosa memorabile, eccetto che...» (StI V, xi, p. 510). Più interessante è lo spostamento del costrutto al centro del periodo, fenomeno dal quale consegue quel sensibile sbilanciamento a sinistra del periodo che caratterizza la prosa letteraria del tempo: Perché avendo il duca d’Atri e Luigi d’Ars, uno de’ capitani franzesi che avevano le genti loro sparse in Terra di Otranto, deliberato d’andare insieme a unirsi col viceré, perché presentivano che Pietro Navarra con molti fanti spagnuoli era in luogo da potere loro nuocere se fussino andati separati, accadde che Luigi d’Ars, avendo avuta opportunità di condursi sicuro da se stesso, partì senza curarsi del pericolo del duca d’Atri (StI V, xv, p. 530).

Il predicato verbale accadde, posposto a una circostanziale, introduce anche un oggetto diretto; si ottiene in tal modo una versione semplificata della precedente struttura: Nella quale città, essendo poco innanzi morto Ercole da Esti e succedutogli nel ducato Alfonso suo figliuolo, accadde, alla fine dell’anno, uno atto tragico simile a quegli degli antichi tebani, ma per cagione più leggiera, se più leggiero è l’impeto sfrenato dell’amore che l’ambizione ardente del regnare (StI VI, xvi, p. 630).

Da altra parte, senza che, inoltre, sono marcatori discorsivi che impongono nel testo una distinzione (orientativa, di rinforzo, aggiuntiva) rispetto a quanto precede. In particolare, da altra parte introduce sovente un nuovo tema; senza che ha per lo più una funzione aggiuntiva (Frenguelli 1999); entrambi appaiono all’inizio del periodo e, nella versione orale, sono preceduti da una pausa forte: «Da altra parte si sforzava il re di Francia [...] rimuovere le di√coltà e gli ostacoli» (StI I, v, p. 46), «Da altra parte il re di Francia [...] deliberò di difendere il duca di Ferrara» (StI IX, ix, p. 872) «E da altra parte Alfonso [...] comandò all’oratore che si partisse da Napoli» (StI I, vii, p. 61), «e da altra parte [scil. il re] lasciò la cittadella vecchia in mano de’ pisani» (StI I, xv, p. 104), «Da altra parte, [scil. il pontefice] avendo recuperato, benché con grossi beveraggi, per la commissione portata dal cardinale di Santa Croce, le fortezze di Ostia e di Civitavecchia, aveva pratiche più occulte e più fidate con Cesare» (StI XIX, vii, p. 1982). «Senza che, la persuasione immoderata che ciascuno arà di se medesimo gli desterà tutti alla cupidità degli onori, né basterà agli uomini nel governo popolare godere i frutti onesti della libertà» (StI II, ii, p. 148), «Senza che, l’azioni sue nella lega passata, e quando venne in Italia, furono tali che io non so per che causa s’abbia tanto a desiderare di averlo congiunto seco» (StI IV, vi, p. 376), «[scil. il cardinale di San Piero a Vincola] entrando in conclave già papa certo e stabilito, fu, con esempio incognito prima alla memoria degli uomini, senza che altrimenti si chiudesse il conclave [...] assunto al pontificato» (StI VI, v, p. 565: val. modale), «Senzaché in Germania, eziandio da quegli che seguitavano le opinioni cattoliche, era desiderato molto il concilio perché si riformassino i gravamenti e gli abusi trascorsi della corte di Roma» (StI XX, iii, p. 2049).

Inoltre ha una collocazione varia; prima e dopo il predicato, tra il verbo e il soggetto, ma, nella maggior parte dei casi, s’interpone tra predicato verbale e soggetto, introducendo nell’esposizione dei fatti una correctio debole: «I quali essendosi convenuti insieme più volte; e inoltre andati, in diversi dì, alcuni di essi, dall’uno esercito all’altro, si ristrignevano principalmente le diπerenze alla

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città di Novara» (StI II, xii, p. 222), «Speravano inoltre Verginio e Piero de’ Medici d’ottenere ricetto e qualche comodità da’ perugini (StI III, ii, p. 245), «Movevagli inoltre la speranza d’avere, per la passata del re, a recuperare Pietrasanta e Serezana» (StI III, viii, p. 293), «Trovavasi inoltre il re privato interamente delle speranze della corcordia» (StI X, xi, p. 1021).

Il rilievo del capoverso è ottenuto anche iniziando il periodo con un predicato verbale munito di enclisi pronominale: trattavasi (trattavansi), fermossi. Il lungo uso nei testi letterari fa di queste forme verbali degli e√caci introduttori, atti a evidenziare determinati passaggi dell’esposizione. Il primo di questi verbi, costruito con il si passivante, ha due funzioni. Segna una ripresa tematica: «Trattavansi queste e molte altre cose da ogni parte» (StI I, viii, p. 67) (la ripresa «Queste cose furono cagione...» segue alla distanza di una pagina del testo); introduce un evento considerato parallelo al precedente: «Trattavasi in questo tempo medesimo strettamente la pace tra il re di Francia e i re di Spagna» (StI VI, xii, p. 606), «Trattavansi altre controversie tra il pontefice e gli imbasciadori del re d’Aragona» (StI XI, v, p. 1095). I sintagmi in questo tempo medesimo e altre controversie hanno una funzione anaforica. Il verbo segna talvolta una pausa interna alla narrazione: «Fermossi dipoi Carlo a Signa» (StI I, xvi, p. 106), «Fermossi Cesare, o per cattivo consiglio o tirato dalla mala fortuna sua, a campo ad Asola» (StI XII, xx, p. 1271). Un eπetto analogo è ottenuto con la tematizzazione del verbo venire, che segnala, all’inizio del periodo, un cambiamento di scena e l’ingresso di uno o più attanti; essendo un verbo di moto lo stacco assume una connotazione dinamica: «Venne oltre a questo il re a Lione, per potere di luogo più propinquo fare le provisioni necessarie all’acquisto di tutto il reame» (StI V, vii, p. 483), «Vennono i svizzeri, come furno congregati, da Coira a Trento» (StI X, vii, p. 1055), «Vennono poi gli spagnuoli alle Torri appresso a Vicenza» (StI XII, viii, p. 1203). 51  

7. 1. 4. Collocazioni Alle collocazioni sono a√dati i compiti di un ornatus, latineggiante, non ritmico, estraneo alle cadenze tipiche del Decameron. Si opera il distanziamento tra costituenti che sono di norma contigui: verbo ausiliare-participio passato, verbo modaleinfinito, soggetto-predicato verbale. Tra questi termini s’inseriscono sintagmi che servono a precisare, spiegare, correggere quanto è esposto in precedenza. In tal modo si ottiene l’eπetto di smorzare aπermazioni perentorie, di graduare l’esposizione di fatti, approfondire o sfumare caratteri e atteggiamenti, chiarire le fasi di un procedimento o di un’azione, rendere più netto il disegno di un luogo o di una scena. 52 Il fenomeno si manifesta con maggiore evidenza quando l’interposizione di elementi avviene nella proposizione principale. Infatti, il verificarsi del fenomeno al centro del periodo è un incentivo a sviluppi sintattici complessi. 53 Non raramente le interposizioni si accavallano e s’intrecciano tra loro; sono le completive oggettive, le causali e le consecutive (entrambe esplicite) a inglobare più di frequente una digressione o una pausa discorsiva interna. 54  





51   Il verbo venire entra in varie espressioni: v. in potestà, v. a luce ‘scoprirsi’, v. a soccorso, v. in sentenza, v. a contenzione. Tutte le espressioni citate conseguono un eπetto di marcatezza e di focalizzazione. 52   Come es. di distanziazione tra ausiliare e participio passato vedi l’inizio di StI II, ii, p. 142, dove tra avevano e costituita s’interpongono oltre quattro righi di testo; come es. di distacco del soggetto dal verbo, vedi StI II, ii, p. 144, dove tra altri e desiderano s’interpongono cinque righi di testo. 53   È questo un fattore di sviluppo dell’incassatura sintattica. 54   Esempi analoghi illustrati in: Bozzola (2002: 150-157), Rigon (2007: 113).

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la prosa del cinquecento Né mancava tra i principali del suo consiglio chi alla restituzione di Piero de’ Medici lo confortasse, e specialmente Filippo monsignore di Brescia, fratello del duca di Savoia, indotto da amicizie private e da promesse; in modo che, o prevalendo la persuasione di questi, benché il vescovo di San Malò consigliasse il contrario, o sperando con questo terrore fare inclinare più i fiorentini alla sua volontà, o per avere occasione di prendere più facilmente in sul fatto quello partito che più gli piacesse, scrisse una lettera a Piero e gli fece scrivere da Filippo monsignore, confortandolo ad accostarsi a Firenze, perché per l’amicizia stata tra i padri loro e per il buono animo dimostratogli da lui nella consegnazione delle fortezze, era deliberato di reintegrarlo nella pristina autorità (StI I, xvi, p. 107).

La consecutiva in modo che è spezzata da una gerundiale binaria, nel primo componente della quale s’inserisce una concessiva benché; il secondo componente è ampliato dall’aggiunta della finale implicita per avere occasione. In breve, tra in modo che e il verbo che ne dipende scrisse s’insinuano quasi tre righi di testo. È un esempio d’“interpolazione specificante” guicciardiniana. Lo spostamento del verbo alla fine del periodo è un fenomeno di routine; ciò vale anche per la tendenza a rinviare nella stessa posizione le infinitive. La tecnica del distanziamento ha alcuni punti fissi; uno di essi è la tmesi “ausiliare-participio passato”, la quale è realizzata soprattutto con il verbo avere: «gli instrumenti i quali nella oppugnazione delle terre avevano, con tanta fama di Archimede e degli altri inventori, usati gli antichi» (StI I, xi, p. 84), «contro al consiglio loro aveva tutte le cose imprudentemente governate» (StI I, xv, p. 102), «aveva, prima che ’l re partisse di Roma, alzate le sue bandiere» (StI I, xviii, p. 120), «avendo con maraviglioso corso di inaudita felicità, sopra l’esempio ancora di Giulio Cesare, prima vinto che veduto» (StI I, xix, p. 130); con l’occasione si segnala la reggenza plurima, fenomeno che risponde ai caratteri di una sintassi sintetica (e latineggiante): «[scil. quella nazione] aveva già corso e depredato quasi tutta Italia, saccheggiata e desolata con ferro e con fuoco la città di Roma, soggiogato nell’Asia molte provincie» (StI I, ix, p. 74). Vediamo alcuni ess. di tmesi che coinvolgono l’ausiliare essere: «ma erano queste virtù avanzate di grande intervallo da’ vizi» (StI I, ii, p. 12), «si erano, subito che Obignì fu entrato con le genti franzesi in Romagna, deposta la simulazione, dichiarati soldati del re di Francia» (StI I, xii, p. 87), «se ne erano, per la incomodità delle vettovaglie e di√coltà di sicuri alloggiamenti, partiti in più volte più di mille cinquecento cavalli e moltissimi fanti» (StI IV, vii, p. 382). Frequente è anche la tmesi dei modali potere e dovere rispetto all’infinito: «non poteva né di vendicarsi contro a Ferdinando né di acquistare stati onorati per i figliuoli avere speranza alcuna» (StI I, iv, p. 28) «e però dovere, se non volevano nuocere a se stessi, qualunque volta Borbone si movesse per oπendere la Toscana, muoversi anche essi con tutte le forze loro per difenderla» (StI XVIII, vi, p. 1843). Frequente è la posposizione del verbo modale all’infinito, particolarmente alla fine del periodo: «il che, senza la conservazione della pace e senza vegghiare con somma diligenza ogni accidente benché minimo, succedere non poteva» (StI I, i, p. 6), «il che non rendeva manco stabile la pace, anzi destava in tutti maggiore prontezza a procurare di spegnere sollecitamente tutte quelle faville che origine di nuovo incendio essere potessino» (StI I, i, p. 9). Un fenomeno topologico di compendiosità è l’uso di un unico ausiliare riferito a participi passati appartenenti a diversi nuclei frasali: «essendo massime egli imperito delle cose della guerra, e Pisa, città d’animo inimico, non fortificata e poco proveduta

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di soldati e di munizioni, e così tutto il resto del dominio fiorentino mal preparato a difendersi da tanto impeto» (StI I, xiv, p. 97). Accanto alle secondarie esplicite o implicite, sintatticamente collegate alla principale, vi sono le incidentali irrelate, che provocano un frangimento della frase più marcato; vediamo due passi, il primo tratta dell’ingratitudine di Alessandro VI, il secondo dell’indecisione di Carlo VIII riguardo l’impresa italiana: «non si ricordando (tanto poco può spesso negli uomini la memoria de’ benefici ricevuti) che per opera d’Alfonso, ne’ cui regni era nato e cui ministro lungo tempo era stato, aveva ottenuto l’altre degnità ecclesiastiche e aiuto non piccolo a ottenere il pontificato» (StI I, iii, p. 16); «sorse uno grave mormorio per tutta la corte, mettendo in considerazione chi le di√coltà ordinarie di tanta impresa, chi il pericolo della infedeltà degli italiani, e sopra tutti gli altri di Lodovico Sforza, ricordando l’avviso venuto da Firenze delle sue fraudi (e per avventura tardavano ad arrivare certi danari che s’aspettavano da lui): in modo che non solo contradicevano audacemente (come interviene quando pare che ‘l consiglio si confermi dall’evento delle cose) quegli che avevano sempre dannata questa impresa; ma alcuni di coloro che ne erano stati principali confortatori» (StI I, ix, p. 75).

La parentetica – un altrove discorsivo a forte densità soggettiva 55 – non è rara nella Storia, dove svolge due funzioni principali: i) indica la fonte dell’informazione; ii) manifesta una riserva mentale (nella forma di animadversio e di apostrophe–´). 56 La frattura sintattica, non corrisponde alla ricerca di un eπetto retorico, ma a un’esigenza enunciativa. È un modo di presentare i fatti tipico di Guicciardini; un carattere dell’enunciazione si traduce in uno schema di periodo. Piero de’ Medici ha ceduto a Carlo VIII alcuni castelli, suscitando lo sdegno dei fiorentini:  



La deliberazione di Piero non solo assicurò il re delle cose della Toscana ma gli rimosse del tutto gli ostacoli della Romagna, dove già declinavano molto gli aragonesi. Perché (come è di√cile a chi appena difende se stesso dagli imminenti pericoli provedere nel tempo medesimo a’ pericoli degli altri), mentre che Ferdinando sta sicuro nel forte alloggiamento della cerca di Faenza, gli inimici ritornati nel contado d’Imola, poiché con parte dell’esercito ebbono assaltato il castello di Bubano, ma invano, perché per il piccolo circuito bastava poca gente a difenderlo, e per la bassezza del luogo il paese era inondato dall’acque, preseno per forza il castello di Mordano, con tutto che assai forte e proveduto copiosamente di soldati per difenderlo; ma fu tale l’impeto dell’artiglierie, tale la ferocia dell’assalto de’ franzesi che, benché nel passare i fossi pieni di acqua non pochi d’essi v’annegassino, quegli di dentro non potettono resistere: contro a’ quali talmente in ogni età, in ogni sesso, incrudelirono che empierono tutta la Romagna di grandissimo terrore (StI I, xiv, p. 99).

La spina dorsale del passo (che abbiamo evidenziato) è una causale esplicativa di quanto aπermato in precedenza: Perché ... gli inimici ... preseno per forza il castello di Mordano. Con essa convivono: una temporale mentre, una participiale, una temporale poiché, una causale perché, un complemento causale, una concessiva con tutto che, 55   S. Boucheron, Parenthèse et double tiret: remarque sur l’accessoirité syntaxique de l’ajout montré, in AuthierRevuz/Lala (2002, 123-130, 124); ivi: 131, si sottolinea la circostanza che l’aggiunta è un anello metaenunciativo che cumula il dire e la sua rappresentazione, è l’inclusione della voce del narratore nella narrazione. 56  Cfr. Cignetti (2001: 92-94). Secondo Pozzi (1975: 65), le parentetiche della Storia sono tali «grammaticalmente, non logicamente».

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una consecutiva binaria tale che, una concessiva benché, una consecutiva che. Non si concede spazio al lettore, la scrittura impone una logica stringente dei fatti. Fubini (1947: 175) ha parlato, a tale proposito di «avvertimento parentetico», Nencioni (1988: 198) di «aπastellamento delle premesse». In ogni caso siamo lontani dal “sovraccarico nella parte sinistra del periodo”, fenomeno tipico del filone BoccaccioBembo. Le dislocazioni non sono frequenti nella Storia d’Italia. Carlo VIII è deciso a passare in Italia, ma la mancanza di risorse sembra ostacolare la spedizione: «Perché la pecunia che aveva raccolta prima, delle entrate di Francia, e quella che gli era stata prestata da Lodovico, n’aveva spesa parte nelle armate di mare [...] parte, innanzi si movesse da Lione, n’aveva donata inconsideratamente a varie persone» (StI I, ix, p. 75); il tema la pecunia, che si sporge in testa alla causale ed è seguita da alcune specificazioni, è ripreso dal clitico ne. Alla dislocazione la prosa di alto livello del xvi sec. preferisce in genere la tematizzazione di un componente del periodo, ottenuta con la prolessi, come vedremo tra breve. Il pronome ne ha funzione anaforica a lunga gittata: «Sopra la quale altercazione erano stati contenti, l’anno dinanzi, di partire in parti eguali l’entrata della dogana; ma il seguente anno, non contenti alla medesima divisione, ne aveva ciascuno occupato il più che aveva potuto» (StI V, vii, p. 482) e cataforica: «i pisani [...] feciono in pochissimi dì [...] uno riparo [...] non gli spaventando che mentre che lavoravano ne erano feriti e morti molti dalle artiglierie, o per proprio colpo o per reverberazione» (StI IV, x, p. 409). Ne appare di frequente nelle relative restrittive: «ma da apprezzare molto più per il profitto e per i comodi infiniti che ne perverranno a questo reame» (StI I, iv, p. 31), «ma alcuni di coloro che ne erano stati principali confortatori» (StI I, ix, p. 76). Una prolessi fondata sul relativo quale, imita una costruzione latina: «stavano attenti e preparati a valersi di ogni accidente che potesse aprire la via allo imperio di tutta Italia: al quale che aspirassino si era in diversi tempi conosciuto molto chiaramente» (StI I, i, p. 9). La prolessi riguarda un singolo elemento, un sintagma o un’intera proposizione: «Queste opinioni e presupposti essere stati falsi ha dimostrato a’ tempi nostri la navigazione de’ portogallesi» (StI VI, ix, p. 590: prolessi di un’infinitiva), «I quali quanto sia facile ordinare, e quanto frutto partorischino, non solo si può dimostrare con molte ragioni ma eziandio apparisce chiarissimamente per l’esempio» (StI II, ii, p. 145: prolessi di un’interrogativa indiretta). 57 L’ordine dei costituenti di un periodo dipende spesso dalla posizione occupata da quest’ultimo nel cotesto. All’inizio di una nuova sequenza testuale la tematizzazione del verbo produce l’ordine VOS: «Possedeva l’Anguillara, Cerveteri e alcun’altre piccole castella vicino a Roma Franceschetto Cibo genovese» (StI I, iii, p. 15). Lo stesso ordine appare in una costruzione passiva: «cominciò presto a essere dispregiata, non meno per l’infamia de’ costumi che per la imbecillità del sesso, l’autorità della nuova reina» (StI I, iv, p. 24). La tematizzazione del verbo produce l’ordine VSO: «Costrinse questo caso il pontefice a querelarsi della ingiuria franzese con tutti i principi cristiani» (StI I, xii, p. 87), «Pervenne, perché Carlo morì senza figliuoli, il regno di Francia a Luigi duca di Orliens, più prossimo di sangue per linea mascolina che alcun altro» (StI III, xv, p. 333); qui il procedimento evidenzia un evento storico, il mutamento della linea dinastica francese. Nelle relative l’ordine OSV può rispondere a un’esigenza  

57  Nella Storia d’Italia la prolessi incide meno dell’interposizione, cioè in una proposizione reggente su cinque (Rigon 2007 pp. 99 ss.).

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unificante: «il quale [scil. Giovan Galeazzo Sforza] il re, passando per quella città e alloggiato nel medesimo castello, andò benignissimamente a visitare» (StI I, xiii, p. 91), «[scil. Lodovico il Moro] deliberò [...] di tentare ogni cosa per muovere Carlo ottavo re di Francia ad assaltare il regno di Napoli, il quale per l’antiche ragioni degli Angioini appartenersegli pretendeva» (StI I, iii, p. 23); la distanza del verbo dal relativo soggetto è notevole. 58 Vi sono particolari strutture e collocazioni che servono a equilibrare, nella dimensione e nella strutture, interi periodi o parti di essi. Le correlazioni, che possono avere o non avere carattere simmetrico, sono realizzate dalle coppie ora ... ora, parte ... parte, non solo ... ma, quanto ... tanto, le quali sono seguite da proposizioni esplicite o implicite e da sintagmi nominali:  

ora ... ora: «avendo patito tanti anni Italia tutte quelle calamità con le quali sogliono i miseri mortali, ora per l’ira giusta d’Iddio ora dalla empietà e sceleratezze degli altri uomini, essere vessati» (StI I, i, p. 5), «per l’esempio de’ vostri gloriosi predecessori; i quali usciti tante volte armati di questo regno, ora per liberare la Chiesa d’Iddio oppressa da’ tiranni ora per assaltare gli infedeli ora per recuperare il sepolcro santissimo di Cristo, hanno esaltato insino al cielo il nome e la maestà de’re di Francia» (StI I, iv, p. 32), «cominciò a interporre varie di√coltà; ora dando interpretazione fuora del vero senso alle patenti regie, ora aπermando d’avere avuto da principio comandamento di non le restituire se non riceveva contrasegni occulti da Lignì» (StI III, i, p. 242); parte ... parte: «L’oppugnazione del qual castello riuscì vana: parte perché i capitani [...] s’accamporono dalla banda di sotto verso Bientina [...]; parte perché Pagolo Vitelli con la compagnia sua e de’ fratelli, ricevuti tremila ducati da’ pisani, v’entrò alla difesa» (StI III, i, p. 240), 59 «col quale furono trattate varie cose, parte con saputa della città in beneficio, parte occultamente da Malatesta contro alla città» (StI XX, i, p. 2038); non solo ... ma: «non solo era abbondantissima d’abitatori, di mercatanzie e di ricchezze; ma illustrata sommamente dalla magnificenza di molti prìncipi» (StI I, i, p. 6), «Irritarlo di presente contro a lui non solo l’esempio degli altri re, non solo la cupidità sua naturale del dominare, ma di più il desiderio della vendetta per la memoria delle oπese ricevute da Calisto suo zio» (StI I, iii, p. 17); quanto ... tanto: «Gli uomini non sono tutti savi, anzi sono pochissimi i savi; e chi ha a fare pronostico delle deliberazioni d’altri debbe, non si volendo ingannare, avere in considerazione non tanto quello verisimilmente farebbe uno savio quanto quale sia il cervello e la natura di chi ha a deliberare» (StI VII, x, p. 692), «della quale quanto pare che sia maggiore il pericolo tanto sarà il nome nostro più glorioso e maggiore: quanto sono maggiore numero gli inimici che noi, tanto più ci arricchiranno le spoglie loro» (StI XI, xii, p. 1137).  

Questi nessi hanno valori e funzioni diverse: per es., non solo ... ma «dà particolare rilievo al secondo elemento» (Serianni 1988: 458). Trattando delle proposizioni concessive incontreremo casi di correlazione evidenziata: ancora che ... nondimeno (StI II, ii, p. 143). Non sono frequenti le suddivisioni delle parti del tipo: «il che consiste principalmente in due fondamenti. Il primo è che ... Il secondo fondamento principale è che» (StI II, ii, pp. 144-145). 58   Qui, come avviene sovente nella prosa del nostro, il peso maggiore dei costituenti sintattici è spostato nella parte finale del periodo. 59   Serianni (1988: 458-460) esamina i nessi correlativi sia... sia, sia ... che, o che... o che , vuoi ... vuoi, non solo ... ma anche.

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Distanziamento, incidentali, prolessi, correlazioni sono gli strumenti topologici e retorici della costruzione dei periodi; in parte sono tratti tipici della sintassi latina, in parte rielaborano modi tradizionali della nostra prosa d’arte. 60 Rappresentano lo sfondo su cui possiamo osservare nella giusta prospettiva le strutture periodali e testuali di un’opera come la Storia.  

7. 1. 5. Aspetti dell’enunciazione L’enunciazione riguarda lo studio dei procedimenti linguistici (segni indessicali, modalizzatori, elementi valutativi ecc.), mediante i quali l’enunciatore manifesta la sua presenza nell’enunciato, e rispetto a quest’ultimo stabilisce il proprio rapporto (distanza enunciativa). 61 In questo par. si tratteranno soltanto alcuni fenomeni concernenti l’enunciazione: un particolare uso di aggettivi, l’avverbio ora, la congiunzione avversativa ma, la modalità e la diatesi passiva, gli avverbi in -mente, la descrizione dei gesti che accompagnano il discorso parlato. Sono aspetti con cui l’enunciazione si manifesta nella Storia d’Italia; degli altri fenomeni relativi all’indessicalità si parlerà in altre parti di questo capitolo.  

Litote aggettivale All’interno del discorso un’attenuazione espressiva è ottenuta con il tipo aggettivale non mediocre; si ha la formulazione attenuata di un giudizio o di un’idea attraverso la negazione del suo contrario: non raro ‘abbastanza frequente’, non ignaro ‘esperto’. Usati di frequente, non mediocre, non mediocremente assumono, in alcuni cotesti, la funzione di marcatori della soggettività: 62  

«Sollevorno questi nuovi consigli non mediocremente gli animi di tutta Italia, poiché il duca di Milano rimaneva separato da quella lega, la quale più di dodici anni aveva mantenuta la sicurtà comune» (StI I, iii, p. 22), «ma alcuni di coloro che [scil. della spedizione francese in Italia] ne erano stati principali confortatori, e tra gli altri il vescovo di San Malò, cominciorno non mediocremente a vacillare» (StI I, ix, p. 76), «E acciocché questo più sollecitamente si facesse, Lodovico, che non mediocremente temeva che sopravenendo i tempi aspri non si fermassino per quella vernata nelle terre del ducato di Milano, prestò di nuovo danari al re, il quale n’aveva necessità non mediocre: e nondimeno, scoprendosegli quel male che i nostri chiamano vaiuolo, soggiornò in Asti circa a uno mese» (StI I, xi, p. 83).

La stessa funzione si riconosce ad altre forme di litote, come non molto, non manco, non piccolo, non molto, non senza + N: «Fu dipoi esaminato con tormenti, benché non molto gravi, il Savonarola» (StI III, xv, p. 336), «avere in tempo non molto lungo a recuperare grande parte del suo dominio» (StI VIII, xi, p. 791), «Ricordavangli questa deliberazione essere non manco necessaria per la sicurtà sua che desiderabile per la gloria» (StI I, xvii, p. 60   Il latinismo topologico (iperbati, prolessi, accumulazione a sinistra) assume un rilievo non minore rispetto alla profondità ipotattica e alla complessità (numero e intreccio delle proposizioni). 61   Kerbrat-Orecchioni (2002: 36). Il termine shifter si applica a tutte le unità deittiche i cui significati possono cambiare, spostarsi (ingl. to shift) corrispondentemente al mutare della situazione: il sign. di qui si sposta a seconda della posizione assunta da chi parla, il sign. di oggi si sposta in relazione al giorno in cui questa parola è pronunciata ecc. (Matthews 2014, alla voce “shifter”). Si noti che indessicalità, deissi e embrayage si applicano allo stesso campo d’indagine, anche se hanno origini concettuali diverse (Neveu 2004, alla voce “indexicalitè”). 62   Mediocre raggiunge 27 occorrenze, 20 delle quali hanno forma negativa non mediocre (due sole occorrenze ha il plurale mediocri); mediocremente ha 29 occorrenze, tutte nella forma negativa non mediocremente.

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117), «si attribuiva laude non piccola alla industria e virtù di Lorenzo de’ Medici» (StI I, i, p. 6), «Soprastette alcuni dì Carlo in Piacenza non senza inclinazione di ritornarsene di là da’ monti» (StI I, xiii, p. 93), «Ma innanzi che ’l re partisse si trattorono tra il pontefice e lui varie cose, non senza speranza di concordia» (StI II, v, p. 168), «non erano senza speranza d’avere a trovare qualche modo di onesta composizione» (StI IV, iii, p. 355), «considerato che senza molta confusione non si potrebbero eseguire questi atti» (StI I, ii, p. 14), «Non fu udita con allegro animo questa proposta da’ signori grandi di Francia» (StI I, iv, p. 32), «Non potette essere che queste parole non fussino udite con molta compassione» (StI I, xix, p. 129), «desideroso di compiacergli, ma non tanto che totalmente ne dispiacesse a Lodovico» (StI I, ii, p. 14), «potevano co’ danari e con le genti loro, essendo massime situati nel mezzo d’Italia, fare eπetti di non piccola importanza» (StI III, xiii, p. 319).

“Ora segnale discorsivo” all’inizio del periodo, è usato per avviare una situazione enunciativa nuova; unendosi ad altre congiunzioni, ora ne raπorza la pregnanza enunciativa: «[Gli Sforza si sono opposti in passato all’ingerenza francese in Italia] Ora, variate l’opinioni degli uomini ma non già forse variate le ragioni delle cose, e Lodovico chiamava i franzesi di qua da’ monti» (StI I, iv, 37); «[Discorso diretto di monsignore della Tramoglia] Poteva la Maestà Vostra, subito che fu giunta in Asti, con molto minore vergogna sua ritornarsene in Francia, dimostrando che a lei le cose di Novara non attenessino; ma ora, poiché fermata qui con l’esercito suo ha publicato d’essersi fermata per liberare dallo assedio Novara e, per questo, fatto venire di Francia tanta nobiltà, e con intollerabile spesa condotti tanti svizzeri, chi può dubitare che, non la liberando, la gloria vostra e del vostro reame non si converta in eterna infamia?» (StI II, xii, p. 225), «[Discorso di Massimiliano] Ma ora, che escusazione si potrebbe pretendere? con che velame si potrebbe ricoprire la ignominia nostra?» (StI VII, vii, p. 672).

“Ma congiunzione avversativa” è uno degli strumenti principali del periodo argomentante; da solo o in unione con altri avverbi avversativi determina l’andamento del discorso; appare all’inizio del periodo per indicare un cambiamento di prospettiva o per introdure un nuovo tema: «Ma le calamità d’Italia (acciocché io faccia noto quale fusse allora lo stato suo, e insieme le cagioni dalle quali ebbeno l’origine tanti mali) cominciorono con tanto maggiore dispiacere e spavento negli animi degli uomini quanto le cose universali erano allora più liete e più felici» (StI I, i, p. 5); all’inizio del periodo per attuare un’opposizione-contrasto rispetto a quanto precede: «Ma non fuggì [scil. Alessandro VI], per ciò, né poi il giudicio divino né allora l’infamia e odio giusto degli uomini, ripieni per questa elezione di spavento e di orrore, per essere stata celebrata con arti sì brutte» (StI I, ii, p. 11).

Non raramente l’avversativa è replicata più volte di seguito e si associa ad altri segnali discorsivi per orientare l’interpretazione di eventi riguardanti la situazione politica italiana; in questo passo appaiono le di√coltà di prendere una decisione: Ma in questo mezzo i fiorentini, avendo qualche indizio dal duca di Ferrara e da altri che i viniziani avevano inclinazione alla concordia, ma che vi si indurrebbono più facilmente se, come pareva convenirsi alla degnità di tanta republica, si procedesse con loro con le dimostrazioni non come con eguali ma come con maggiori, mandorono, per tentare la loro disposizione, imbasciadori a Vinegia [...]: la qual

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la prosa del cinquecento cosa si erano astenuti di fare insino a questo tempo, parte per non oπendere l’animo del re Carlo parte perché, mentre si conobbono impotenti a opprimere i pisani, avevano giudicato dovere essere inutili i prieghi non accompagnati né con la riputazione né con le forze; ma ora che l’armi loro erano potenti in campagna, e il duca di Milano scoperto totalmente contro a’viniziani, non erano senza speranza d’avere a trovare qualche modo di onesta composizione (StI IV, iii, p. 355).

Alla presenza di due avversative nella prima parte corrisponde, nella seconda, un’ossatura ragionativa sorretta da parte per non ... parte perché ... ma ora. Minore rilievo hanno il ma dedicato all’opposizione di singoli costituenti del periodo: «quanto siano perniciosi, quasi sempre a se stessi ma sempre a’ popoli, i consigli male misurati di coloro che dominano» (StI I, i, p. 5), e il ma metalinguistico, che orienta la lettura del testo e si risolve per lo più in espressioni quasi-formulari: «Ma ritornando al principale proposito nostro» (StI IV, xii, p. 428). 63  

Aspetti della modalità rivelano l’atteggiamento di chi scrive nei confronti della propria scrittura; nella Storia d’Italia la trasformazione del linguaggio in situazioni di discorso avviene all’insegna di una cautela raziocinante. Nel sistema di referenze interne che determinano l’atteggiamento autoriale rispetto agli enunciati prodotti, scegliamo di analizzare brevemente i verbi modali potere e dovere; la loro caratteristica consiste nel possedere un senso sottodeterminato che permette loro di assumere, a seconda dei contesti, accezioni ed eπetti di senso diversi. 64 “Dovere + infinito” appare nel Discorso indiretto con i valori deontico, teleologico ed epistemico-inferenziale.  

Modalità deontica: [Discorso di Francesco Soderini] «Essere permesso a ciascuno il desiderare di pervenire a migliore fortuna, ma dovere anche ciascuno pazientemente tollerare quello che la sorte sua gli ha dato» (StI II, i, p. 141). Modalità teleologica: [Discorso riferito del cardinale Della Rovere per incitare Carlo VIII all’impresa italiana]: «Che dunque dovere fare a una vittoria, a uno trionfo già preparato e manifesto?» (StI I, ix, p. 77); il verbo dovere indica necessità, il perché occorre fare qualcosa per raggiungere un certo fine. Modalità epistemico-inferenziale: [Visita di Carlo VIII a Giovan Galeazzo Sforza infermo nel castello di Pavia] «tenendo ciascuno per certo la vita dello infelice giovane dovere, per le insidie del zio, essere brevissima» (StI I xiii, p. 91), «Lodovico si persuadeva il dominio di Pisa avergli presto a pervenire, non sapendo tale cosa dovere, dopo non molto tempo, essere cagione di tutte le sue miserie» (StI I, xv, p. 104), «onde meritamente dubitava [scil. Alessandro VI] dovere essere del medesimo valore la fede che e’ ricevesse dal re che quella che il re aveva ricevuta da lui» (StI I, xvii, p. 115), [Discorso di Burgundio Lolo a Carlo VIII in difesa di Pisa] «perché era fatale che tutte le cose del mondo fussino sottoposte alla corruzione; ma la memoria della nobiltà e della grandezza loro dovere più presto generare nella mente de’ vincitori compassione che accrescere acerbità e asprezza, massime che ciascuno aveva a considerare, potere anzi dovere, a qualche tempo, accadere a sé quel medesimo fine che è destinato che accaggia a tutte le città e a tutti gl’imperi» (StI II, i, p. 139).

63   La coordinazione avversativa tra frasi, nell’it. mod., è presentata da M. Scorretti in GGIC, I (20012: 278). Più specificamente, sui marcatori del percorso del dire v. Berthoud (1996: 47). 64   I verbi modali potere e dovere esprimono soltanto modalità quando si riferiscono al verbo fare; invece, quando si uniscono al verbo essere, esprimono modalità ed evidenzialità (inferenziale). Cfr. C. Vetters, in “Langue française” 173, mars 2012, pp. 31-47.

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In alcuni di questi esempi, la modalità epistemico-inferenziale richiede che siano rese esplicite le circostanze sottese agli eventi riferiti. In (StI I xiii), sulla base di alcune premesse (le insidie dello zio), si sostiene che il giovane sarebbe morto entro breve tempo; l’espressione tenendo ciascuno per certo è una cornice che racchiude un’evidenzialità riportata: l’enunciatore riferisce il discorso di altri. In (StI I, xv) il sintagma verbale cui fa capo dovere esprime un “futuro del passato” sarebbe stata cagione e raπorza il senso d’inevitabilità dell’evento. In (StI I, xvii) la modalità epistemica è sostenuta dal verbo dubitava. In (StI II, i) è espressa una certezza, che deriva da un ragionamento. Passando a un altro costrutto, si osserva che la perifrasi “avere + a + infinito”, equivalente a dovere, rappresenta un obbligo imposto dall’esterno: «non si temeva ma né si poteva facilmente congetturare da quali consigli o per quali casi o con quali armi s’avesse a muovere tanta quiete» (StI I, ii, p. 10), «si credea che appresso al pontefice avesse a essere grande l’autorità di Lodovico Sforza» (StI I, ii, p. 16), «Aggiugnersi la carestia di danari, de’ quali si stimava avesse a bisognarne grandissima quantità» (StI I, iv, p. 33), «Considerava [scil. Ferdinando] profondamente dovere avere la guerra con inimici bellicosissimi e potentissimi [...] del resto la maggiore parte [scil. del suo regno] cupida per l’ordinario di nuovi re, e nella quale avesse a potere più la fortuna che la fede, ed essere maggiore la riputazione che il nervo delle sue cose» (StI I, v, p. 40), «spaventato di questo accidente, [scil. il duca d’Atri] stette sospeso di quello che avessi a fare» (StI V, xv, p. 530). 65  

Uso del passivo come mezzo per presentare un evento in una determinata prospettiva e quindi per orientare l’interpretazione. La diatesi passiva rende possibile, oltre all’omissione dell’agente, la continuità del tema e l’isometria del periodo; negli esempi che seguono l’aspetto quasi-formulare dei predicati verbali dipende dal particolare cotesto; si nota che una quasi-formula al passivo appare alla fine di un’orazione politica, resa con il Discorso diretto o con l’oratio obliqua, per esprimere, in modo impersonale, il giudizio dell’uditorio: «Non fu udita con lieto animo questa proposta» (StI I, iv, p. 32), «Fu udito con grandissima attenzione e approvazione, e messo con somma celerità in esecuzione, il consiglio del principe» (StI VIII, x, p. 787), «Fu udito da Cesare questo consiglio» (StI XVI, v, p. 1623); è da notare l’uso passivo di parlare: «Ma in contrario fu per [Andrea Gritti] parlato così» (StI VII, x, p. 693; l’integrazione è nel testo), «Finalmente, poiché fu parlato così per lungo spazio, il marchese di Pescara, parendogli avere già compresa la mente degli altri, disse» (StI XIV, v, p. 1416), «fu in lettere separate aggiunto non essere consuetudine del sacro imperio concedere alcuno stato a chi l’avesse prima con l’autorità di altri tenuto» (StI I, v, p. 47).

In (StI VIII, x) si hanno due passivi riguardanti l’accoglimento favorevole e l’esecuzione del consiglio; in (StI VII, x) e (StI XIV, v) si ha, secondo l’uso antico e letterario, il verbo parlare transitivo. La scelta dei verbi, usati in una particolare situazione enunciativa, ricorda i modelli latini del tipo his auditis, audito sermone. Un costrutto passivo ricorre anche per annunciare l’esecuzione di un ordine e il predicato verbale è preceduto da un complemento che indica l’agente dell’azione: «fu per ordine suo fatto il medesimo di quelle [scil. fortezze] di Pisa e di Livorno» (StI I, xiv, p. 99), «fu per publico decreto proibito, seguitando in questo l’esempio 65   Cfr. anche: «speranza che quel governo immaginato da lui [scil. da Platone] avessi a essere introdotto e seguitato dagli ateniesi» (Reggimento, Proemio, p. 241).

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la prosa del cinquecento degli ateniesi, che de’ delitti e delle trasgressioni commesse per il passato circa le cose dello stato non si potesse riconoscere [= istituire il processo]» (StI II, ii, p. 152), «e passando senza sospetto per il ducato di Milano [...], fu [scil. Guidantonio Vespucci] per commissione del duca ritenuto in Alessandria, toltegli tutte le scritture» (StI III, i, p. 239), «della qual cosa essendo sospetto più che gli altri Alessandro Bentivogli, fu per commissione del re citato in Francia» (StI VII, xi, p. 703), «e il capitano della fortezza che era medesimamente capitano della terra, gentiluomo viniziano, fatto prigione, fu per comandamento del re insieme col figliuolo a’ merli medesimi impiccato» (StI VIII, v, p. 753).

In StI III, i la participiale spostata a destra rappresenta una collocazione insolita, nella quale sembra agire un modello latino. A parte i costrutti quasi-formulari ora descritti, l’uso del passivo si ritrova in tutte le occasioni in cui si vuol dare rilievo a un tema, già trattato in precedenza: «Levossi Carlo con l’esercito, la seguente mattina innanzi giorno, senza sonare trombette, per occultare il più poteva la sua partita; né fu per quel dì seguitato dall’esercito de’collegati» (StI II, ix, p. 199), «La quale pratica, piena di molte di√coltà e concorrendovi diversi fini e interessi, fu per molti mesi trattata variamente» (StI IV, v, p. 369), «cedemmo con troppo subita disperazione al colpo potente della fortuna; né fu per noi rappresentata a’ figliuoli nostri quella virtù che era stata rappresentata a noi da’ padri nostri» (StI VIII, x, p. 785), «La quale, trattata lungamente nella corte del re di Francia e avendo molte di√coltà, fu per poco consiglio del cardinale di Roano [...] condotta a perfezione» (StI VIII, xv, p. 815), 66 «La città andò a sacco, e vi fu per otto dì continui usata da’ franzesi crudeltà grande e fatti molti incendi» (StI XVIII, xiii, p. 1887). 67  



Il si passivante, al pari del costrutto passivo, ottiene spesso la prima posizione nella frase: «si concitò in tutta la città ardentissima indegnazione» (StI I, xv, p. 101), «Credettesi che questo disegno avesse avuto origine a Milano» (StI III, ii, p. 244), «si cominciò per il pontefice e i viniziani nuovo disegno per divertire con violenza i fiorentini dalla amicizia franzese» (StI III, xiii, p. 320). 68  

Avverbi in -mente hanno semantica debole (da considerare alla stregua di segnali discorsivi) o semantica forte; in quest’ultimo caso possiedono un potere modalizzante, come si vede in palesemente (o scopertamente e sim.) vs occultamente (o secretamente e sim.); vi sono anche sintagmi avverbiali dal significato pregnante: sotto colore, sotto specie, sotto pretesto, sotto titolo, sotto nome; di quest’ultimo sintagma, che nella Storia raggiunge 35 occorrenze, vediamo un paio di esempi: «In questo modo, per la temerità di uno giovane, cadde per allora la famiglia de’ Medici di quella potenza la quale, sotto nome e con dimostrazioni quasi civili, aveva, sessanta anni continui, ottenuta in Firenze» (StI I, xv, p. 103); 66

  Il sintagma poco consiglio ha nella Storia quattro occorrenze.   Esempi di questo uso del passivo si ritrovano anche in altri scritti di Guicciardini: «Fu per parte della città risposto gagliardamente a questa ingiuria» (Storie fiorentine, v), «Fu per voluntà di Piero, che per intercessione degli Orsini si era tutto dato al re di Napoli, contro al parere di tutti e’ savi cittadini, negato l’uno e l’altro» (Storie fiorentine, x1). 68   L’uso di per agentivo risulta ben attestato: «non posso persuadermi che non si conosca per ciascuno essere necessario fare ogni opera possibile per vendicarcene» (StI IV, vi, p. 371), «Ma in Firenze, per quegli a’ quali apparteneva il fare deliberazione per provedervi, non fu da principio considerato su√cientemente quanto importasse questo accidente» (StI V, viii, p. 485); cfr. anche: «Né si fece da parte alcuna altro eπetto di guerra che leggiere correrie» (StI IV, ix, p. 398). 67

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«[scil. Cesare] fece instanza col pontefice che almanco gli concedesse di pigliare centomila ducati i quali, riscossi prima in Germania sotto nome della guerra contro a’ turchi, ed essendo a questo eπetto custoditi in quella provincia, non si potevano senza licenza della sedia apostolica in altro uso convertire» (StI VII, xi, p. 700).

Per quanto riguarda la posizione dell’avverbio (o del sintagma avverbiale) nella frase, si nota che, in un buon numero di casi, esso precede il predicato verbale: «ricorreggere quel che insino a quel dí imprudentemente si era fatto» (StI I, iii p. 22), «deliberò pertinacemente di continuare nell’amicizia aragonese» (StI I, vi, p. 57), «anzi si riputasse gravemente ingiuriato che Lodovico [...] avesse la sua venuta in Italia procurata» (StI I, xiii, p. 93), «da potere più gagliardamente soccorrere il regno di Napoli» (StI II, xii, p. 229), «che scandalosamente predicasse contro a’ costumi del clero» (StI III, xv, p. 334), «nuovi accidenti che improvisamente sopravennono» (StI IV, xiii, p. 432), «onde agevolmente potrebbe contro al re nascere congiunzione di molti prìncipi» (StI IX, xv, p. 914), «Carlo scopertamente il dominio di Firenze dimandava» (StI I, xvi, p. 108). Avverbi in posizione postverbale: «sperando di espugnarlo agevolmente» (StI I, xii, p. 87), «Sollevorno questi nuovi consigli non mediocremente gli animi di tutta Italia» (StI I, iii, p. 22).

L’aπollamento di più avverbi e sintagmi avverbiali in una frase denota un particolare modo di presentare gli eventi e le azioni; l’attenzione e la cura nel descrivere si rivelano anche in questi particolari: il paese [...] è sì di√cile a cavalcare, che chi disegna d’andare distesamente [= in ordine di battaglia] a trovargli, e non d’accostarsi loro di passo in passo con le comodità e co’ vantaggi e (come si dice) guadagnando il paese e gli alloggiamenti opportuni a palmo a palmo, non cerca altro che avventurarsi con grandissimo e quasi certissimo pericolo (StI II, xii, p. 228).

Talvolta l’Avv-mente ha il grado superlativo: «ammazzato crudelissimamente in Fermo» (StI I, xii, p. 150), «Scusavasi e√cacissimamente Ferdinando» (StI I, v, p. 49), «la città se ne fusse seco diligentissimamente giustificata» (StI I, xvi, p. 106). Vediamo ora altri sintagmi avverbiali: «oπerivano di occupare all’improviso Roma» (StI I, iii, p. 22), «assaltato allo improviso da fanti usciti di Pisa» (StI III, viii, p. 294), «non si sarebbe, per avventura [= forse], la pace d’Italia così presto perturbata» (StI I, iii , p. 21), «ricercò senza indugio il senato viniziano» (StIt IV, xiv, p. 439). Vi sono sintagmi avverbiali formati da un sostantivo e da un aggettivo: «risguardati con grandissimo silenzio» (StI V, xiii, p. 524), «aiutò con tanta prontezza Ferdinando che da lui fu principalmente riconosciuta la vittoria » (StI I, iv, p. 36), «si era con tanta circospezione astenuto non solo da i fatti ma da tutte le dimostrazioni» (StI II, iv, p. 158). Vi sono anche coppie (concordi o oppositive) formate da un Avv-mente e da un sintagma avverbiale: «simulatamente ma con tutto il cuore» (StI I, iii, p. 22), «lietamente e con grande onore» (StI I, viii, p. 68). L’uso di determinati avverbi e sintagmi avverbiali vivacizza alcune descrizioni, come vedremo tra breve analizzando un passo relativo allo scontro di Barletta (StI V, xii, p.524-525). Sono ripresi atteggiamenti corporei che accompagnano i discorsi; 69 la rappresentazione dell’esplicito verbale e figurale si vale di sintagmi aggettivali impressivi. Tra il cardinale “di San Piero a Vincola” e Carlo VIII si svolge un colloquio in cui si decide l’invasione d’Italia: «Queste cose, dette in sostanza dal  

69   Un’analisi del rapporto tra linguaggio verbale e corporeità dovrebbe essere svolta, in particolare, nei settori della trattatistica e dei dialoghi: posizione e atteggiamenti dei partecipanti, gesti ecc.

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cardinale ma, secondo la sua natura, più con sensi e√caci e con gesti impetuosi e accesi che con ornato di parole, commossono tanto l’animo del re» (StI I, ix, p. 77); ecco la reazione del vescovo di Gurk, luogotenente di Massimiliano, alla vista dell’ambasciatore veneziano: «contro al quale egli, pieno di fasto inestimabile, si voltò con parole e gesti molto superbi, sdegnandosi che uno che rappresentava gli inimici di Cesare avesse avuto ardire di presentarsi al cospetto suo» (StI IX, xvi, p. 921). Ecco infine una scena di massa, che vede la folla milanese manifestare contro i cardinali del concilio: «e la moltitudine, quando apparivano in publico, gli maladiceva gli scherniva palesemente con parole e gesti obbrobriosi, e sopra gli altri il cardinale di Santa Croce riputato autore di questa cosa» (StI X, vii, p. 985). 70 Una nitida evidenza e un detto di rara e√cacia si coniugano nell’episodio della «virtù di Piero Capponi»: «egli con gesti impetuosi, tolta di mano del secretario quella scrittura la stracciò innanzi agli occhi del re, soggiugnendo con voce concitata: – Poiché si domandano cose sì disoneste, voi sonerete le vostre trombe e noi soneremo le nostre campane. –» (StI I, xvi, p. 110). Il rispetto dimostrato, anche dai nemici, nei riguardi del gran capitano (Gonzalo Fernández de Córdoba, 14531515) risalta nella presentazione del personaggio: «e accresceva l’ammirazione degli uomini la maestà eccellente della presenza sua, la magnificenza delle parole, i gesti e le maniere piene di gravità condita di grazia» (StI VII, viii, p. 680).  

7. 1. 6. Oratoria e argomentazione Una tradizione di pensiero distingue il ragionamento dimostrativo da quello persuasivo, il primo vale indipendentemente dalle persone cui è diretto, il secondo vale soltanto con riferimento a determinati allocutari. Nella Storia d’Italia le orazioni di vari personaggi, rese con il discorso diretto o con l’oratio obliqua, devono persuadere gl’interlocutori sia interni all’opera sia esterni. A tale proposito appare in primo piano la ricerca svolta dall’oratore nell’adattare il suo dire a un uditorio, che deve essere concreto (la classe politica del suo tempo), non universale. Il valore retorico di un enunciato non è annullato, se l’argomentazione è posta dopo l’enunciato stesso. 71 Una cura particolare è dedicata alla presentazione e all’intreccio degli argomenti, che possono essere di volta in volta quasi logici, basati sulla struttura del reale, su un esempio, su un’analogia, ma che appaiono sempre associati a prove e confrontati con la psicologia di coloro che sono sulla scena e con la realtà degli eventi. Il problema che riguarda lo storico in particolare è la giustificazione delle azioni dei politici, un tema introdotto dall’esame di un pluralità di cause e di circostanze, la quale spiega il fitto viluppo di costituenti sintattici compresi in periodi piuttosto estesi. Far pronunziare orationes a personaggi eminenti è una consuetudine avviata dalla storiografia greca e latina e proseguita nelle epoche medievale e umanistica. 72 La tecnica regina consiste nel mettere a confronto due partiti contrari, presentati da due abili oratori, che pronunciano di seguito discorsi contrapposti. 73 Le orazioni  





70   Queste scene sono rese con una pregnanza gestuale e un’espressività che ricordano l’Anonimo romano (Seibt 2000: 49). 71   Riprendo questi concetti da Perelman/Olbrechts-Tyteca (19762); di questo saggio si veda anche la densa presentazione di N. Bobbio; cfr. Perelman (1981). 72   Cfr. R. Rinaldi, in Stocli, ii, 1 (1990: 47); P. P. Vergerio, in De ingenuis moribus, assegna all’oratoria il terzo posto, dopo la historia (ivi, p. 57). Per una prospettiva storica si veda: A. Cavarzere, Oratoria a Roma. Storia di un genere pragmatico, Roma, Carocci, 2000. 73   Sono proposti argomenti di reciprocità (Perelman/Olbrechts-Tyteca 1966: 233), l’argomentazione per mezzo dell’esempio (ivi: 370), il ragionamento per analogia (ivi: 392).

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della storiografia classica servono in particolare a rendere manifesti i valori (coraggio, amor patrio, democrazia ecc.), al tempo stesso, hanno il fine di suscitare emozioni e assecondare sentimenti che spingono all’azione. Lo scritto di storia è un’opera retorica, intesa come capacità di argomentare su questioni fondamentali e persuadere l’uditorio; pertanto si avvicina alla dialettica dei dialoghi. I discorsi contrapposti (dìssoi lògoi) evidenziano le forze in gioco, propongono un confronto di idee e di propositi, in vista di una scelta. Nella Storia d’Italia esempi di discorsi contrapposti sono quelli di Paolantonio Soderini e di Guidantonio Vespucci, a favore di un governo popolare, il primo, di un governo di ottimati, esemplato sul senato veneziano, il secondo (StI II, ii), di Niccolò Foscarini e di Andrea Gritti, che a Venezia dibattono sulla risposta da dare agli ambasciatori di Massimiliano (StI VII, x). Tutti e quattro gli interventi sono svolti con il Discorso diretto, ognuno di essi è incorniciato da due brevissime formule, una di avvio, l’altra di conclusione. Ai discorsi del Soderini e del Vespucci (Discorso diretto), privi di elementi di parlato ma sostenuti dai connettori del tipo cosa che, il che, da suddivisioni interne, come Il primo ... Il secondo fondamento, da riprese e ripetizioni, 74 animati da interrogative, retoricamente impostate e collocate strategicamente nelle parti salienti del loro dire, segue un breve intervento di Savonarola (Discorso indiretto), concernente la prossima «venuta d’eserciti forestieri in Italia»: il tono diventa solenne anche per la presenza di costrutti latineggianti (StI II, ii, p. 151). In conclusione, abbiamo due orazioni e il compendio di un’orazione; i caratteri, l’indole e le intenzioni dei tre personaggi si riflettono nello stile; la diversità compositiva e il diverso tono degli interventi ci fanno comprendere le capacità di adeguamento alle situazioni e di mimesi della scrittura di Guicciardini. Il discorso persuasivo rivolto a una sola persona è realizzato spesso con l’oratio obliqua, più adatta a svolgere un unico tema e mantenere una concentrazione dialettica e un tono retorico più uniformi rispetto a quelli attuati con il Discorso diretto. L’allocutario, se è convinto, non risponde con le parole ma con i fatti; così accade quando Lodovico Sforza conforta il papa a opporsi all’espansionismo degli Aragonesi (StI I, iii: vedi 7.2.7), e quando il cardinale di San Piero a Vincola incita Carlo VIII a invadere l’Italia (StI I, ix). Da una parte, il papa mette in atto una politica difensiva, dall’altra, il re di Francia, «non uditi più se non quegli che lo confortavano alla guerra, partì il medesimo dì da Vienna, accompagnato da tutti i signori e capitani del reame di Francia» (StI I, ix, p. 78). La successione “discorso persuasivo-azione” dimostra l’e√cacia della parola, fattore primario della dialettica interna alla Storia d’Italia. Discorsi e brevi narrazioni “dinamiche” si alternano lungo l’intera opera. Brani più ampi di Discorso indiretto si ritrovano in vari luoghi della Storia. Ecco gli Orsini difendersi dalle accuse e chiedere al pontefice Alessandro VI di essere lasciati in libertà; richiesta seguita dalla replica di Louis de Luxembourg, conte di Ligny: «Raccontavano l’antica divozione della famiglia degli Orsini [...]. Ma non meno prontamente si rispondeva per la parte di Lignì» (StI II, v, p. 171); reso con l’oratio obliqua, il passo comprende la richiesta e la replica, entrambe accompagnate da circostanze, commenti, deduzioni, controdeduzioni: un organismo compatto, che qui come in altri episodi, sembra uscire da un’aula di tribunale. Vi è il Discorso diretto privo di replica, come l’appassionato intervento del doge Lionardo Loredano presso il senato della sua città, in difesa di Padova e contro  

74

  Cfr. M. S. Sapegno (1993: 169), che evidenzia la funzione delle riprese e delle salienze discorsive.

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le mire espansionistiche di Massimiliano (StI VIII, x, pp. 782-787). L’intento celebrativo prevale, ma è sempre funzionale alla persuasione del nobile uditorio. L’elaborazione retorica, qui più attiva che in altre occasioni, appare fin dal periodo ipotetico iniziale, che ha un fine compositivo più che logico, prosegue poi con le interrogative e con lo sviluppo del climax e di anafore retoriche. 75 Inventio, dispositio ed elocutio procedono, in questa come in altre orazioni, di pari passo. In StI III, xiv, p. 330 si dibatte su un tema politico di grande momento: nella corte papale si progetta un’alleanza antifrancese, per la quale si chiede la partecipazione di Venezia, ma il senato di questa repubblica non accetta la proposta perché vede nel progetto l’intenzione di Firenze di estendere il proprio dominio in Toscana. I discorsi che riguardano questa faccenda si svolgono, con un vario intreccio di voci, in due centri di potere costituzionalmente diversi. Il tono solenne del dibattito si esprime con l’oratio obliqua e l’uso ripetuto dell’accusativo con l’infinito; periodi ampi e unitari raccolgono pareri, propositi ed elaborate argomentazioni. Il Discorso indiretto è usato in varie circostanze per entrare nella mente dei personaggi ed è questo un aspetto che distingue la Storia guicciardiniana da altre opere storiche di quel tempo. Si scoprono i pensieri di Giulio II alle prese con la malattia e con un tentativo di ribellione della nobiltà romana (StI X, iv, p. 961); si manifestano i dubbi di Luigi XII sulla campagna da condurre in Italia; la decisione finale ha una rapida attuazione, quanto lunghe erano state le ambasce che l’avevano preceduta: il re «comandò a Fois che con quanta più celerità potesse andasse contro all’esercito degli inimici» (StI X, xi, p. 1022). L’oratoria, rivolta a un ampio uditorio o riservata a una ristretta accolita di persone, recitata con il Discorso diretto o contratta nell’indiretto, arricchita o priva di un apparato retorico, è una presenza continua e agisce come un controcanto all’esposizione dei fatti e alla fitta rete di commenti autoriali.  

7. 1. 7. Quadri, scene, figure Nella Storia d’Italia mancano vere e proprie descrizioni, le quali hanno bisogno di configurazioni complete e di piani espositivi distinti. 76 Negli episodi salienti, dove altri storici avrebbero prodotto quadri ricchi di figure e di azioni, Guicciardini focalizza un particolare, per poi tornare rapidamente allo svolgimento dei fatti e ai commenti. Veniamo alla famosa “disfida di Barletta”. 77 La scena, ripresa nelle fasi dinamiche dello scontro, è seguita dall’elenco dei combattenti italiani (a ogni nome è apposto il luogo di provenienza) e da considerazioni riguardanti lo sconforto procurato dall’evento nel campo nemico; in breve dalla scena si ritorna rapidamente alla storia:  



Ma essendosi già combattuto per non piccolo spazio e coperta la terra di molti pezzi d’armadure e di molto sangue di feriti da ogni parte, e ambiguo ancora l’evento della battaglia, risguardati con grandissimo silenzio, ma quasi con non 75

  Si noti il rilievo concesso all’avverbio popolarmente ‘con concorso di popolo’, ripetuto due volte.   Cfr. Adam/Petitjean (1989: 81), dove si tratta dei tipi della descrizione (ornamentale, espressiva, rappresentativa) e dei modi e livelli in cui la descrizione si struttura. 77   Nel 1500 Luigi XII di Francia e Ferdinando II di Aragona firmarono un accordo per la spartizione in parti uguali del Regno di Napoli, all’epoca governato da Federico I di Napoli. Dopo la vittoria dei due eserciti alleati nacquero disaccordi fra le forze occupanti, seguiti da aperte ostilità fra i due eserciti; ma più che scontri campali si ebbero disfide cavalleresche. La più famosa fu quella di Barletta del 13 febbraio 1503, nella quale si aπrontarono tredici cavalieri italiani, capitanati da Ettore Fieramosca, e altrettanti cavalieri francesi. 76

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minore ansietà e travaglio d’animo che avessino loro, da’ circostanti, accadde che Guglielmo Albimonte, uno degli italiani, fu gittato da cavallo da uno franzese; il quale mentre che ferocemente gli corre col cavallo addosso per ammazzarlo, Francesco Salamone correndo al pericolo del compagno ammazzò con uno grandissimo colpo il franzese, che intento a opprimere l’Albimonte da lui non si guardava; e di poi insieme con l’Albimonte che s’era sollevato, e col Miale che era in terra ferito, presi in mano spiedi che a questo eπetto portati avevano, ammazzorono più cavalli degl’inimici: donde i franzesi, cominciati a restare inferiori, furono chi da uno chi da un altro degli italiani fatti tutti prigioni (StI V, xiii, p. 524).

Il passo si articola in tre parti: una gerundiale con quattro membri (dei quali gli ultimi tre sono ellittici del verbo) 78 fornisce una premessa; segue la scena dello scontro, introdotta da un tradizionale accade che; la rapida descrizione è a√data a una struttura poco idonea allo scopo: due relative, la prima oggettiva («uno franzese, il quale ... Francesco Salamone ... ammazzò»), la seconda soggettiva («il franzese, che ... da lui non si guardava»); la dinamicità dell’azione è a√data non alla sintassi, ma alla ripresa di vocaboli espressivi: «fu gittato ... gli corre col cavallo addosso per ammazzarlo ... correndo ... ammazzò ... ammazzorono»; nel centro del periodo, il passaggio dal passato remoto al presente contribuisce a ricreare la rapidità dei movimenti descritti. Per narrare il supplizio di Savonarola e di altri due frati si ricorre di nuovo a una participiale e a una relativa: «lasciato in potestà della corte secolare; dalla quale furono impiccati e abbruciati»; si notino la mancata concordanza e il distanziamento dei costituenti della frase: «gli furono ... aboliti ... gli ordini sacri». 79 In un seguito di episodi legati e tra loro conseguenti, il supplizio è l’inevitabile conclusione di una volontà persecutoria nonché di atti impolitici e improvvidi; l’episodio della sfida alla prova del fuoco lanciata dal francescano Francesco di Puglia è menzionato solo per significare il crollo del favore popolare:  



Sopra il quale processo [scil. intentato a Savonarola], confermato da lui in presenza di molti religiosi, eziandio del suo ordine, ma con parole, se è vero quel che poi divulgorono i suoi seguaci, concise e da potere ricevere diverse interpretazioni, gli furono, per sentenza del generale di San Domenico e del vescovo Romolino, che fu poi cardinale di Surrento, commissari deputati dal pontefice, insieme con gli altri due frati, aboliti con le cerimonie instituite dalla Chiesa romana gli ordini sacri e lasciato in potestà della corte secolare; dalla quale furono impiccati e abbruciati: concorrendo allo spettacolo della degradazione e del supplicio non minore moltitudine d’uomini che il dì destinato a fare l’esperimento di entrare nel fuoco fusse concorsa nel luogo medesimo, all’espettazione del miracolo promesso da lui (StI III, xv, pp. 336-337).

Con modalità analoghe sono narrate la prigionia e la morte di Lodovico Sforza, avvenuta in Francia nel 1508; una sentenza funge da epilogo: «tanto è varia e miserabile la sorte umana, e tanto incerte a ognuno ne’ tempi futuri le proprie condizioni» (StI IV, xiv pp. 440-441). L’esecuzione di due ribelli da parte del Valentino è narrata con la consueta prestezza: «fece strangolare in una camera Vitellozzo e Liverotto» (StI V, xi, p. 510); il primo «non aveva potuto fuggire il fato di casa sua, di morire di morte violenta, come erano morti tutti gli altri suoi fratelli»; una serie di riprese verbali, dominate dal verbo morire suggella le sceleratezze sue. 78   Si noti il riferimento “improprio” dell’ausiliare essendosi a quattro participi passati: «essendosi già combattuto ... coperta ... ambiguo ... risguardati». 79   Sugli scritti di Savonarola si veda M. Ciccuto, in Stolit, iii (1996: 945-947).

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Alessandro VI, tristo personaggio odiato per i suoi misfatti, ha occupato a lungo il soglio pontificio, è stato protagonista di più vicende italiane e europee. La sua fine improvvisa, è sentita dal popolo come una liberazione. La morte di «un serpente ... che aveva attossicato tutto il mondo» è la punizione divina per un ultimo crimine, ideato ma non portato a termine e infine rivoltosi a suo danno. Ma ecco che nel colmo più alto delle maggiori speranze (come sono vani e fallaci i pensieri degli uomini) il pontefice, da una vigna appresso a Vaticano, dove era andato a cenare per ricrearsi da’ caldi, è repentinamente portato per morto nel palazzo pontificale e incontinente dietro è portato per morto il figliuolo: e il dì seguente, che fu il decimo ottavo dì d’agosto, è portato morto secondo l’uso de’ pontefici nella chiesa di San Piero, nero enfiato e bruttissimo, segni manifestissimi di veleno; ma il Valentino, col vigore dell’età e per avere usato subito medicine potenti e appropriate al veleno, salvò la vita, rimanendo oppresso da lunga e grave infermità. Credettesi costantemente che questo accidente fusse proceduto da veleno; e si racconta, secondo la fama più comune, l’ordine della cosa in questo modo: che avendo il Valentino, destinato alla medesima cena, deliberato di avvelenare Adriano cardinale di Corneto, nella vigna del quale doveano cenare (perché è cosa manifesta essere stata consuetudine frequente del padre e sua non solo di usare il veleno per vendicarsi contro agl’inimici o per assicurarsi de’ sospetti ma eziandio per scelerata cupidità di spogliare delle proprie facoltà le persone ricche, in cardinali e altri cortigiani, non avendo rispetto che da essi non avessino mai ricevuta oπesa alcuna, come fu il cardinale molto ricco di Santo Angelo, ma né anche che gli fussino amicissimi e congiuntissimi, e alcuni di loro, come furono i cardinali di Capua e di Modona, stati utilissimi e fidatissimi ministri), narrasi adunque che avendo il Valentino mandati innanzi certi fiaschi di vino infetti di veleno, e avendogli fatti consegnare a un ministro non consapevole della cosa, con commissione che non gli desse ad alcuno, sopravenne per sorte il pontefice innanzi a l’ora della cena, e, vinto dalla sete e da’ caldi smisurati ch’erano, dimandò gli fusse dato da bere (StI V, iv, p. 555).

Il segnale discorsivo, 80 iniziale produce uno stacco rispetto all’episodio precedente (“Forze del re di Francia in Italia. Sospetti del re per la politica sempre ambigua del pontefice e del Valentino”) e, al tempo stesso, sottolinea l’eccezionalità di quanto si sta per raccontare. Come di consueto, la narrazione, priva di enfasi, appare sobria nella scelta dei particolari. Vi sono due inserimenti significativi: una parentetica di commento («come sono vani e fallaci ...») e l’eposizione dell’antefatto («perché è cosa manifesta essere stata consuetudine ... stati utilissimi e fidatissimi ministri»). La scena cruciale è resa con pochi tratti: «il pontefice, da una vigna appresso a Vaticano, ... è repentinamente portato per morto»; il distanziamento procurato dal passivo è proseguito dagli impersonali che seguono: «Credettesi ... e si racconta ... narrasi adunque...». Non tanto interessa la narrazione dell’evento, quanto la visione di un un corpo «nero, enfiato e bruttissimo, segni manifestissimi di veleno». Per tre volte si ripete «è portato per morto» (la seconda volta riguarda il Valentino); cinque volte è ripetuto veleno: vocaboli ed espressioni pregnanti di un racconto spoglio di ridondanze e mirato all’esposizione dei fatti. La fine della storia è dominata da una moralità: Adriano VI intendeva avvelenare «Adriano cardinale di Corneto», per impossessarsi dei suoi beni, ma giunge all’appuntamente prima del tempo e, assetato, beve quel tal vino e muore. Il succedersi fatale degli eventi e narrato con brevi tratti: «sopravenne per sorte il pontefice».  

80

  Sull’avverbio deittico rinforzato ma ecco, che ha funzione presentativa, v. Koban (2012: 163).

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L’episodio conferma l’originalità di uno stile, fondato non sull’ornatus e sull’espansione retorica, ma sulla rapidità dei trapassi, sulle immagini, su una gravitas che poggia su vocaboli scelti e sulla nettezza di frasi brevi. 81  

7. 1. 8. Preliminari sulla sintassi del periodo Gli aspetti formali della prosa guicciardiniana sono stati finora studiati secondo tre prospettive: i) la formazione culturale dell’autore, ii) i fini che l’autore si è proposto, iii) i contenuti dell’opera. Esemplare a tale proposito è il saggio di G. Nencioni. 82 E’ mancata tuttavia un’analisi approfondita dei singoli fenomeni sintattici e testuali, della quale si propongono qui di seguito alcune linee. La riflessività e l’allargamento della scena storica generano nuove prospettive e giustificano quella gravitas, che appare estranea al gusto e alla sensibilità dei lettori del nostro tempo, ma che alla metà del xvi secolo si poneva come il segnale di una svolta rispetto alla storiografia precedente. La scrittura di Guicciardini si sviluppa da un intento politico, che mira a un’esposizione puntuale degli eventi e, a tal fine, ricerca uno stile coeso, privo di discontinuità, pur nel variare delle scene e dei modi dell’esposizione. 83 L’ampiezza dei periodi dipende dalla scelta dei costrutti, dal livello d’incassatura sintattica e da un’architettura del testo studiata in rapporto alla qualità dei temi trattati. La coordinazione non ricorre di frequente nella Storia: è riservata a poche frasi situate all’inizio di un nuovo episodio o alla presentazione “impressiva” di un evento. In tali circostanze s’incontrano frasi brevi, puntellate dalle congiunzioni ma e né: «E già non solo le preparazioni fatte per terra e per mare ma il consentimento de’ cieli e degli uomini pronunziavano a Italia le future calamità» (StI I, ix, p. 74); «Ma il dì medesimo che il re arrivò nella città di Asti, cominciando a dimostrarsigli con lietissimo augurio la benignità della fortuna, gli sopravennono da Genova desideratissime novelle» (StI I, x, p. 80). 84 La linearità sintattica è accompagnata spesso dalla brevità delle frasi: «La nuova della ribellione di Novara sollecitò Carlo, che era a Siena, ad accelerare il cammino» (StI II, vii, p. 179), «Nella fine di questo anno si terminorono le cose della cittadella di Pisa» (StI III, iv, p. 254). Posto all’inizio del periodo, il passato remoto (spesso munito di un -si enclitico) segna l’avvio di una fase del racconto. 85 Più lunghi sono i periodi avviati da nondimeno, congiunzione che ricorre di frequente e che ha un valore avversativo-limitativo rispetto a quanto  







81   Alla scena della morte di Alessandro VI sarà da accostare, per lucido realismo e penetrazione psicologica, il doppio ritratto di Leone X e di Clemente VII (StI XVI, xiii). Questo fortunato topos della storiografia umanistica è qui realizzato con una serie di contrapposizioni caratteriali e comportamentali rese con acuta incisività. 82   Sul condizionamento che il lessico può esercitare sulla sintassi v. Blanche Benveniste (2000: 90, 119). Cfr. S. G. Thomason/T. Kaufman, Language Contact, Creolization and Genetic Linguistics, Berkeley, University of California Press, 1988, p. 2: «furthemore one has to keep in mind that a syntactic change that is related to the borrowing of a lexical element may occur sooner than a syntactic change that is no related to it». Nella prosa di Guicciardini la sintassi periodale ha un’indiscussa supremazia sia quantitativa (i periodi altamente complessi sono assai più numerosi di quelli di media complessità) sia qualitativa (alta frequenza dei nessi relativali e delle consecutive, frequente intersecarsi delle proposizioni avverbiali all’interno del periodo). 83   Si pensi agli Asolani, al Cortegiano e alle Istorie di Machiavelli: le parti iniziali introduttive di queste opere presentano tratti sintattici diversi, rispetto al prosieguo del testo. 84   Per l’incipit con ma vedi anche StI I, xv, p. 101; II, vi, p. 175. 85  «Fermossi dipoi Carlo a Signa, luogo propinquo a Firenze a sette miglia, per aspettare, innanzi che entrasse in quella città, che alquanto fusse cessato il tumulto del popolo» fiorentino», il quale (StI I, xvi, p. 106), «Dimorò Carlo in Roma circa un mese, non avendo per ciò cessato di mandare gente a’ confini del regno napoletano» (StI I, xviii, p. 120).

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detto in precedenza. Più forte e più incisiva rispetto a ciò nonostante e a tuttavia, nondimeno, posta all’inizio del periodo, raπorza con l’avversativa, il ragionamento: «E nondimeno Ferdinando, avendo più innanzi agli occhi l’utilità presente che l’antica inclinazione o la indegnazione del figliuolo, benché giusta, desiderava che Italia non si alterasse» (StI I, i, p. 7). Talvolta nondimeno si correla a un nesso precedente: «Ma non avendo facoltà di difendere Pisa e Livorno, se bene non si confidassino di rimuovere il re dalla volontà d’avere quelle fortezze, nondimeno, per separare i consigli della republica da’ consigli di Piero, e perché almeno non fusse riconosciuto dal privato quel che al publico apparteneva, gli mandorno subito molti imbasciadori» (StI I, xv, p. 101). Al polisindeto è a√data sovente la descrizione di un rapido succedersi di azioni: E nondimeno Lodovico, per non si partire subito così impudentemente, ma con qualche colore, dalla capitolazione, adempié quello che e’ non poteva negare che fusse in arbitrio suo: dette gli statichi, fece liberare i prigioni pagando del suo proprio le taglie loro, restituì i legni presi a Rapalle, rimosse di Pisa il Fracassa, il quale non poteva dissimulare che fusse stipendiario suo; e infra ’l mese convenuto ne’ capitoli, consegnò il castelletto di Genova al duca di Ferrara, che andò in persona a riceverlo (StI III, i, p. 238).

L’alleggerimento delle strutture, variazione episodica ma necessaria in una prosa di tale complessità, è ottenuto non soltanto con il polisindeto, ma anche con il ricorso ad apposizioni descrittive (applicate a una singola entità) e valutative (applicate a una situazione). Apposizione descrittiva: «La città di Siena, città popolosa e di territorio molto fertile, e la quale otteneva in Toscana, già lungo tempo, il primo luogo di potenza dopo i fiorentini, si governava per se medesima, ma in modo che conosceva più presto il nome della libertà che gli eπetti» (StI I, xvii, p. 112), «Lionardo Loredano, loro doge, uomo venerabile per l’età e per la degnità di tanto grado, nel quale era stato seduto molti anni, levatosi in piedi parlò in questa sentenza» (StI VIII, x, p. 782). Apposizione valutativa: posta alla fine di un periodo, esprime un giudizio, a conclusione di un ragionamento: «Io ho deliberato di scrivere le cose accadute alla memoria nostra in Italia [...] materia, per la varietà e grandezza loro, molto memorabile e piena di atrocissimi accidenti» (StI I, i, p. 5), «sopravenne la morte di Lorenzo de’ Medici [...] morte acerba a lui per l’età [...] acerba alla patria [...]. Ma e’ fu morte incomodissima al resto d’Italia» (StI I, ii, p. 10), «il re di Napoli [...] significò alla reina sua moglie [...] essere creato uno pontefice che sarebbe perniciosissimo a Italia e a tutta la republica cristiana: pronostico veramente non indegno della prudenza di Ferdinando» (StI I, ii, p. 11), [si parla dei portoghesi e delle spezie] «conducendole per mare in Portogallo le mandano, eziandio per mare, in quegli luoghi medesimi ne’ quali le mandavano prima i viniziani. Navigazione certamente maravigliosa e di spazio di miglia sedicimila, per mari al tutto incogniti, sotto altre stelle e altri cieli» (StI VI, ix, p. 591). 86 Un sintagma nominale è posto all’inizio del periodo con il fine d’inquadrare un situazione dandone, al tempo stesso, un giudizio complessivo: «Spettacolo certamente memorabile, vedere insieme due re potentissimi tra tutti i prìncipi cristiani, stati poco innanzi sì acerbissimi inimici, non solo reconciliati e congiunti di parentado ma,  

86  Il sintagma nominale di tale apposizione funziona come un’incapsulatore frasale (shell-word) rispetto a quanto è stato esposto in precedenza.

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deposti tutti i segni dell’odio e della memoria delle oπese, commettere ciascuno di loro la vita propria in arbitrio dell’altro» (StI VII, viii, p. 679). Questo tipo di apposizione è più raro del precedente. Tende alla formularità il sintagma “con + N”, il quale serve a esprimere l’eπetto che consegue a un evento o a un’azione: «Ma pervenuta a Firenze la notizia delle convenzioni fatte da Piero de’ Medici, con tanta diminuzione del dominio loro e con sì grave e ignominiosa ferita della republica, si concitò in tutta la città ardentissima indegnazione» (StI I, xv, p. 101), «entratavi dentro per forza, la messe a sacco con uccisione di molti» (StI II, v, p. 172), «Questa fu la battaglia fatta tra gl’italiani e franzesi in sul fiume del Taro, memorabile perché fu la prima che, da lunghissimo tempo in qua, si combattesse con uccisione e con sangue, in Italia» (StI II, ix, p. 196), «onde quella terra insieme con la sua fortezza fu presa da Ferdinando, con uccisione grande de’ seguaci de’ franzesi» (StI III, iii, p. 251). Un’espressione retta da una diversa preposizione è: «[scil. Giovanni Bentivogli] mordacemente nel primo congresso lo riprese che, in pregiudicio non solo proprio [...] avesse così vilmente [...] abbandonata tanta grandezza» (StI I, xv, p. 102). Ha certamente carattere formulare il sintagma senza saputa ‘senza che (lo) sapesse’, che raggiunge 20 occorrenze: «Perché il pontefice, pretendendo che, per la alienazione fatta senza saputa sua, fussino, secondo la disposizione delle leggi, alla sedia apostolica devolute» (StI I, iii, p. 16), «fu fatta, ma senza saputa di altri che del vescovo di San Malò e del siniscalco di Belcari, convenzione con lo imbasciadore di Lodovico» (StI I, iv, p. 36 ). Il nomen agentis N-tore, usato come sostantivo o in nessi appositivi e predicativi, può essere annoverato tra i fattori di una sintassi compendiosa: «i quali, disprezzatori dell’evangelico ammaestramento, non si vergognorono di vendere la facoltà di tra√care col nome della autorità celeste i sacri tesori» (StI I, ii, p. 11), «in modo che non solo contradicevano audacemente [...] quegli che avevano sempre dannata questa impresa, ma alcuni di coloro che ne erano stati principali confortatori» (StI I, ix, p. 76), «se già non si dice provocare o irritare chi non porge il collo o il petto aperto allo assaltatore» (StI X, vi, p 977), «Dio, scrutatore de’ cuori degli uomini, non mancherebbe d’aiutare il santissimo proposito suo» (StI X, xiv, p. 1043), «Martino Lutero, frate professo dell’ordine di Santo Augustino, suscitatore per la maggiore parte, ne’ princìpi suoi, degli antichi errori de’ boemi» (StI XIII, xv, p. 1371). La coordinazione, la linearità sintattica, le congiunzioni ma, né, nondimeno in capo al periodo, la serie di coordinate, le apposizioni descrittive e valutative, il sintagma “con + N”, la formula senza saputa di, l’agentivo N-tore, sono fenomeni (diversi tra loro per caratteri, funzioni e frequenza), i quali hanno in comune lo snellimento e la semplificazione delle strutture. Si tratta di una tendenza minoritaria, antitetica alla prevalente complessità dei periodi. 7. 2. La subordinazione completiva Esaminiamo qui di seguito i seguenti tipi di completive: Soggettive con verbo di modo finito, Soggettive con infinito (distinguendo il sottotipo: Soggettiva retta da si passivante o da verbo passivo), Oggettiva con verbo di modo finito, Oggettiva retta da un complemento nominale, Infinitiva preposizionale retta da un verbo, Infinitiva preposizionale retta da un sostantivo, Infinitiva preposizionale indipendente con valore di mezzo o di modo, Costruzione “accusativo con infinito”, Infinitiva usata

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come sostantivo, Oratio obliqua, Forme di subordinazione multipla, Interrogative indirette. 87 Sono tracciate le prime linee di un archivio di costrutti, al quale si potrà fare riferimento in studi dedicati ad altri testi della nostra prosa cinquecentesca. Come negli altri capitoli si compie una classificazione dei costrutti in base ai reggenti, segue una selezione di esempi accompagnati da note di carattere sintattico, stilistico e semantico.  

7. 2. 1. Le proposizioni soggettive con verbo finito I reggenti sono verbi bivalenti come bastare, bisognare, piacere, e perifrasi “essere + Agg/N”; il sintagma verbale precede di norma la completiva; la congiunzione subordinante è omessa in alcuni casi; nella subordinata prevale il congiuntivo. Il nesso verbale si trova nella prima parte del periodo e ha una preminenza pragmatica anche quando non appare in una principale e ha un modo indefinito (gerundivo). bastare: «Perché come alla sostentazione di un corpo non basta solamente il bene essere del capo [...], così non basta che il principe sia senza colpa delle cose se ne’ ministri suoi non è proporzionatamente la debita diligenza e virtù» (StI VI, vi, p. 586), «non basta che i provedimenti fatti siano tali che si possa avere grandissima speranza che Padova s’abbia a difendere» (StI VIII, x, p. 782), «Non potette San Polo rimuovergli da questa sentenza, ma non approvò mai il fermarsi col suo esercito a Biagrassa, allegando che ad aπamare Milano bastava che le genti viniziane si fermassino a Moncia, le sforzesche a Pavia e a Vigevano» (StI XIX, x, p. 1998); bisognare: «ma bisogna sieno tanto potenti che, per quel che si può provedere con la diligenza e industria umana, si possa tenere per certo che abbino ad assicurarla da tutti gli accidenti» (StI VIII, x, p. 782); è cosa meravigliosa: «ed era certamente cosa maravigliosa che in uno tempo medesimi i pisani fussino difesi dalle genti del re di Francia e aiutati similmente da quelle del duca di Milano e nutriti di speranze da’ viniziani» (StI III, i, p. 241); è cosa perniciosa: «sarebbe cosa molto perniciosa che il figliuolo di Giovan Galeazzo di età d’anni cinque succedesse al padre, ma essere necessario avere uno duca che fusse grande di prudenza e d’autorità» (StI I, xiii, p. 92); è cosa vera: «Ma è certamente cosa verissima che non sempre gli uomini savi discernono o giudicano perfettamente: bisogna che spesso si dimostrino segni della debolezza umana» (StI I, iii, p. 16); è manifesto: «Perché manifesto è che [...] non aveva giammai sentito Italia tanta posterità, né provato stato tanto desiderabile» (StI I, i, p. 5); «È manifesto e certo che gli antichi filosofi e gli uomini principali della gentilità non errorono, quando quella essere vera, salda, sempiterna e immortale gloria aπermorono la quale si acquista dal vincere se medesimo» (StI VIII, vi, p. 757); è necessario: «Perché come alla sostentazione di uno corpo non basta solamente il bene essere del capo ma è necessario che gli altri membri faccino lo u√cio suo» (StI VI, vii, p. 566); è verisimile: «Né è fuora del verisimile che [...] Carlo e tutta la corte [...] avesse in orrore il nome suo; anzi si riputasse gravemente ingiuriato che Lodovico [...] avesse la sua venuta in Italia procurata» (StI I, xiii, p. 93); è vociferazione: «e era vociferazione per tutto l’esercito che per l’esempio degli altri si dovesse abbruciare» (StI I, xvi, p. 107); 87  Si osserva lo stesso ordine dell’esposizione seguito nei capitoli precedenti. Sulle subordinate argomentali cfr. Verjans (2013: 61). Rigon (2007: 83) ha cercato di misurare i rapporti numerici tra principali e subordinate, limitatamente a una parte della Storia d’Italia.

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parere: «Era paruto che insino a questo dì le cose del duca di Calavria fussino procedute con maggiore riputazione» (StI I, xii, p. 89), «parendo che insieme con la sua vita la concordia e la felicità d’Italia fussino mancate» (StI I, xv, p. 103), «pareva che i magistrati e gli onori publici si distribuissino molto più ne’ suoi seguaci che negli altri» (StI III, xiii, p. 320); piacere / dispiacere: «ove Cesare, non gli piacendo che passasse in Ispagna forse per non dare perfezione al matrimonio, come era il suo desiderio, mandatogli per Beuren il titolo di luogotenente suo generale in Italia, lo confortò che si fermasse» (StI XV, vi, p. 1536), «al quale [scil. al duca di Milano] non piaceva che egli pigliasse Lecco» (StI XVIII, xviii, p. 1923), «Questa disposizione, già quasi di tutta la città, era accesa da molti cittadini nobili a’ quali sommamente dispiaceva il governo presente, e che una famiglia sola s’avesse arrogato la potestà di tutta la republica» (StI I, xiv, p. 97), «Donde il re, dispiacendogli che in tempo tanto propinquo a muovere l’armi cercasse di privarlo degli aiuti de’ suoi confederati, rinnovò le pratiche passate col re cattolico» (StI XII, vii, p. 1202). Bastare (es. p. 586) la soggettiva è compresa in uno schema comparativo. Bisognare (es. p. 782) bisogna regge una consecutiva. Introduttore “è + N + Agg” regge il congiuntivo (es. p. 241) o l’indicativo (es. p. 16) in rapporto alla semantica dell’Agg. Così accade anche per l’introduttore è + Agg.: è manifesto (es. p. 5), è necessario (es. p. 566), è verisimile (es. p. 93). Parere presenta tre ess. con il congiuntivo. Piacere /dispiacere: la soggettiva è sempre al congiuntivo; in piacere (es. p. 1536) si ha la risalita del clitico: non gli piacendo; in piacere (es. p. 97) si ha l’ abbinamento di un sintagma nominale e di una soggettiva.

Soggettive con verbo finito rette da si passivante o da verbo passivo; la reggente occupa la prima posizione: considerarsi: «perché si considerava che, aggiunti alle genti stabilite nella dieta gli aiuti che gli darebbono i sudditi suoi, e quel che egli poteva fare da se medesimo, arebbe esercito molto potente» (StI VIII, iii, p. 839); credersi: «e si credeva che, avendo regnato Ferdinando trenta anni e spogliati e distrutti in vari tempi tanti baroni, avesse accumulato molto tesoro» (StI I, iv, p. 33), «Perché si credeva per molti che, per l’ardente disposizione che aveva di ritornare in Italia, arebbe pure una volta, o per propria cognizione o per suggestione di quegli che emulavano alla grandezza del cardinale di San Malò, rimosse le di√coltà» (StI III, xv, p. 333); ritenersi: «non si riteneva per altro che per la memoria di essere stato de’ primi a incitare il re alle cose di Napoli, e dipoi, senza essergliene stata data cagione alcuna, avere con l’autorità co’ consigli e con l’armi fattagli pertinace resistenza» (StI I, xvii, p. 115). In considerarsi tra la cong. subordinante e il verbo è immessa un’incidentale articolata in tre proposizioni. In credersi (es. p. 333) si noti la tmesi arebbe ... rimosse. In ritenersi si nota un interessante cambio di costruzione: non si riteneva che ... avere fattagli.

7. 2. 2. Le proposizioni soggettive con infinito Sono assai meno frequenti rispetto alle soggettive con verbo di modo finito; inoltre compaiono con un numero più circoscritto di reggenti; il costrutto si ritrova sovente nel Discorso riferito, al quale conferisce una stilizzazione latineggiante. è necessario: «era necessario congiugnersi lo stato di Bologna e le città d’Imola e di Furlì» (StI I, viii, p. 69), «Dove da’ principali del consiglio ducale, subornati da lui, fu proposto che [...] sarebbe cosa molto perniciosa che il figliuolo di Giovan Galeazzo di età d’anni cinque succedesse al padre, ma essere necessario avere uno duca che fusse grande di prudenza e d’autorità» (StI I, xiii, p. 92), «rispose Francesco Soderini [...] dimostrando il titolo della sua republica essere giustissimo, perché avevano [...] comperato Pisa da Gabriel Maria Visconte legittimo signore; dal quale non prima stati messi in possessione, i pisani avernegli violentemente spogliati, e però essere stato necessario cercare di ricuperarla con lunga guerra (StI II, i, p. 139);

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è pericoloso: «ma molto più perché era pericoloso provocarsi la inimicizia di vicini tanto potenti» (StI III, xiv, p. 328); «E nondimeno Lodovico, parendogli pericoloso l’essere solo a suscitare movimento sì grande» (StI I, iv, p. 28), «e perché si stimava pericoloso il fare la guerra nel reame di Napoli lasciandosi alle spalle inimica la Toscana (I, xiv, p. 95); si cfr. gli ess. cit. con: «era pericolosissimo non ne nascesse uno scisma» (StI XX, vi, p. 2062). è utile: «Essere più utile usare l’occasione della vittoria dove, se bene il frutto fusse minore, la facilità senza comparazione fusse maggiore, né perciò non senza notabile profitto» (StI VI, xv, p. 624), «Più utile e più sicuro essere il voltarsi verso Modona o verso Bologna» (StI IX, xiv, p. 903), «niuna cosa potere essere più utile al re che, col congiugnersi con Cesare, rompere l’unione degli inimici» (StI XI, vii, p. 1111). In due passi il reggente della soggettiva infinitiva è a sua volta un infinito: è necessario (es. p. 92) e è utile (es. 624). La nominalizzazione mediante l’articolo determinativo si riscontra in è pericoloso (es. p. 28 e p. 95); cfr. la preposizione con articolata appare in è utile (es. p. 1111). Per quanto riguarda la configurazione generale dei periodi si nota, in è necessario (es. p. 92), un confronto tra la prima parte costruita con verbo di modo finito sarebbe cosa molto perniciosa che e la seconda parte costruita con due infinitive; nel passo che segue (es. p. 139) il reggente è all’infinito e collocato alla fine del periodo dopo altri infiniti; in è necessario (es. p. 139) da dimostrando dipende essere giustissimo, per attrazione di quest’ultimo segue l’infinitiva avernegli spogliati. Il ricorrere d’infiniti indica il carattere latineggiante di questo sottotipo di subordinata, carattere che risalta dal confronto con una soggettiva esplicita (è pericoloso, es. p. 2062).

Soggettive con infinito rette da si passivante o da verbo passivo: comprendersi: «e per molti indizi si comprendeva essere il pensiero del re di indurre i fiorentini col terrore delle armi a cedergli il dominio assoluto della città» (StI I, xvi, p. 106); «Perché, se bene per molti segni si comprendesse il re di Francia essere malcontento degli accordi fatti con Cesare [...] nondimeno [...], non era ancora il tempo opportuno a suscitare innovazioni» (StI XX, iii, p. 2051); è detto: «donde per la strettezza del passo è detto meritamente San Germano essere una delle chiavi delle porte del regno di Napoli» (StI I, xix, p. 124); presupporsi: «[Altri allegavano] «Presupporsi per ciascuno essere necessario piantare intorno a Parma le artiglierie in due luoghi diversi» (XIV, iv, p. 1406); risolversi: «si risolveva essere necessario che [...] Cesare [...] navigasse per il Danubio nella Bossina» (XIII, ix, p. 1345); si confronti con una soggettiva di modo finito «secondo il suo consiglio, si risolvé che Montigian voltasse, da Alessandria dove erano arrivati, a Genova tremila fanti tedeschi e svizzeri» (StI XIX, v, p. 1968). Il verbo con si passivante è usato spesso per omettere l’agente; il reggente precede sempre l’infinito che a sua volta precede il soggetto (comprendersi, es. p. 106). In è detto il soggetto precede l’infinito e il predicato nominale. Suscita interesse la semantica di due verbi “politici” introduttori delle infinitive: comprendersi e risolversi, il primo indica la comprensione di un fatto che in un primo tempo appariva oscuro; il secondo indica il passaggio da un’iniziale incertezza a una risoluzione.

7. 2. 3. Le proposizioni oggettive con verbo finito È sempre stato il settore più ricco di forme della subordinazione oggettiva. La Storia non fa eccezione; si può osservare che il gran numero di discorsi riferiti (ripresi da varie fonti) orienta la scelta dei reggenti verso una tipologia di verbi di atteggiamento proposizionale (credere, intendere, ritenere, ricordare, sperare, temere, dubitare) e verbi illocutivi (accusare, conchiudere, giudicare, stimare); la complessità delle frasi e delle strutture sintattiche si manifesta soprattutto nei discorsi riferiti.

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accusare: «Il quale [scil. Savonarola], essendo molto prima stato accusato al pontefice che scandalosamente predicasse contro a’ costumi del clero e della corte romana, che in Firenze nutrisse discordie, che la dottrina sua non fusse al tutto cattolica, era per questo stato chiamanto con più brevi apostolici a Roma» (StI III, xv, p. 334); affermare: «aπermando che [...] opera alcuna opportuna a ritenere la degnità e le ragioni di quella sedia non pretermetterebbe» (StI I, iii, p. 17), «aπermava il re palesemente che in potestà sua non era di fare altra deliberazione» (StI III, vi, p. 274); avere autori: «Ho autori da non disprezzare che Piero [...] aspirasse a più assoluta potestà e a titolo di principe» (StI I, vi, p. 57); avere speranza: «avendo forse qualche speranza che [...] allenterebbe per avventura ne’ sudditi il desiderio de’ francesi» (StI I, xviii, p. 121); conchiudere: «Però unitamente conchiuseno che i viniziani spignessino a’ confini loro, verso il fiume dell’Adda, il duca d’Urbino con le loro genti d’arme e seimila fanti italiani; e il pontefice mandasse a Piacenza il conte Guido Rangone con seimila fanti» (StI XVII, ii, p. 1712); confortare: «confortorono Piero de’ Medici che con l’aiuto di Verginio Orsino, il quale fuggito del campo de’ franzesi il dì del fatto d’arme del Taro era tornato a Bracciano, tentasse di ritornare in Firenze» (StI III, ii, p. 244), «né mancando anche, assiduamente, molti de’ più intimi del re, e il pontefice molte volte, di confortarlo [scil. il marchese di Pescara] che per fuggire tanto pericolo si discostasse con l’esercito da Pavia, per essere necessario che, per la penuria che avevano gli inimici di danari, ottenesse in brevissimo tempo e senza sangue la vittoria» (StI XV, xv, p. 1589); considerare: «considerando in che estremità fusse ridotto il castello, e che la concordia col duca non giovava alle cose di Cesare se non quanto fusse mezzo a stabilire la concordia col pontefice e co’ viniziani, giudicasse inutile il comporre con lui solo» (StI XVII, iv, p. 1723); consigliare: «aveva Lodovico Sforza [...] consigliato che tutti gli imbasciadori de’ collegati entrassino in uno dì medesimo insieme in Roma, presentassinsi tutti insieme nel concistorio» (StI I, ii, p. 13); convenire: «Convennono adunque palesemente che tra loro fusse confederazione [...]; concedesse il pontefice a Alfonso l’investitura [...] e mandasse un legato apostolico a incoronarlo [...]; creasse cardinale Lodovico suo figliuolo [...]; pagasse il re incontinente al pontefice ducati trentamila; desse al duca di Candia stati nel regno d’entrata di dodicimila ducati l’anno [...]; conducesselo per tutta la vita del pontefice a’ soldi suoi [...], a don Giuπré che [...] andasse a abitare appresso al suocero, concedesse [...] il protonotariato [...]» (StI I, vi, p. 52); desiderare: «E nondimeno Ferdinando, avendo più innanzi agli occhi l’utilità presente che l’antica inclinazione o la indeganzione del figliuolo, benché giusta, desiderava che in Italia non si alterasse» (StI I, i, p. 7); dimostrare: «non dimostrando che dispiacesse loro il matrimonio ma mettendo di√coltà nello stato dotale, non sodisfacevano ad Alessandro» (StI I, iii, p. 21); dubitare: «o perché [...] dubitasse che le discordie italiane non dessino occasione a’ franzesi di assaltare il reame di Napoli; o perché [...] conoscesse essere necessaria l’unione sua con gli altri» (StI I, i, p. 7); fare istanza: «fu necessario a’ fiorentini fare nuova instanza col re [...] che facesse provisione a questo disordine» (StI III, i, p. 242); giudicare: «Io certamente giudico che in tutta la grandezza della Maestà vostra non sia la più maravigliosa la più degna parte che questa gloria di essere stato insino a oggi invitto» (StI XVI, v, p. 1622); gloriarsi: « Andrea Gritti [...] lasciando giusta cagione a Lodovico Sforza di gloriarsi che aveva [...] scherniti gli avversari» (StI I, x, p. 81); instare: «instavano che si facesse ogni opera per farvi condescendere i viniziani» (StI XX, xvi, p. 2060);

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mandare ‘ordinare’: «[scil. Prospero Colonna] mandò subito a Francesco Sforza che con la moltitudine armata del popolo venisse senza indugio all’esercito» (StI XIV, xiv, p. 1475); ricercare: «Ed essendo il re tutto intento a guadagnare l’animo suo [scil. del papa], lo ricercò che facesse venire la nipote a Marsilia» (StI XX, vii, p. 2067); ricordare: «non si ricordando [...] che [...] aveva ottenuto l’altre degnità ecclesiastiche e aiuto non piccolo a ottenere il pontificato» (StI I, iii, p. 16); riputare: «[scil. Lodovico Sforza] si riputava assai sicuro che gli Aragonesi non sarebbono accompagnati da altri a tentare contro a lui quello che soli non erano bastanti a ottenere» (StI I, i, p. 8); rispondere: «A’ quali rispose che consulterebbe la risposta che avesse a fare, ma essere necessario che, anche innanzi alla partita loro, gli oratori suoi fussino in luogo sicuro» (StI XVIII, xv, p. 1902); ritenere: «e perché niuna diligenza bastava a ritenere che i guastatori non si fuggissino» (StI IX, xiii, p. 898); stimolare: «non cessava di stimolare continuamente il padre e l’avolo che, se non gli moveva l’infamia di tanta indegnità del marito e di lei, gli movesse almanco il pericolo della vita» (StI I, iii, p. 20). In accusare: il reggente è una gerundiale al passivo che sostiene una reggenza multipla: tre completive al congiuntivo precedute da complementatore. Aπermare (es. p. 17): il verbo della subordinata occupa la posizione finale. Si notino i reggenti polirematici: avere autori, avere speranza, fare istanza. In considerare una gerundiale esprime una reggenza multipla, realizzata con un’interrogativa indiretta al congiuntivo e una oggettiva all’indicativo. In consigliare il verbo regge due congiuntivi, soltanto il primo è preceduto da che. In convenire sostiene una subordinazione multipla con sette subordinate al congiuntivo. Dimostrare e ricordare: la reggente è una gerundiale. Gloriarsi regge una completiva con verbo finito in luogo dell’infinitiva. Il reggente instare ‘insistere’ è un pretto latinismo. Riputare e rispondere reggono una completiva al condizionale. Stimolare introduce una completiva interrotta da una condizionale.

La Storia possiede una subordinazione completiva che ha caratteri ricorrenti nella prosa letteraria fin dal xiv secolo; la subordinazione: i) può essere mista (esplicita e implicita nello stesso periodo), ii) non raramente raggiunge il 2° grado e talvolta, con i verba dicendi, va oltre, iii) può essere multipla, cioè composta di più subordinate. Aggiungiamo altri esempi a quelli già riportati. Subordinazione mista. “Infinitiva + completiva introdotta da che”: «ma dubitando [scil. Lodovico Sforza], per i fini del pontefice e del senato viniziano diversi da’ suoi, non potere fare lungo tempo fondamento nella confederazione fatta con loro, e che per ciò le cose sue potessino per vari casi ridursi in molte di√coltà, applicò i pensieri suoi più a medicare dalle radici il primo male che innanzi agli occhi se gli presentava, che a quelli che di poi ne potessino risultare» (StI I, iii, p. 23), «fu proposto che [...] sarebbe cosa molto perniciosa che il figliuolo di Giovan Galeazzo d’anni cinque succedesse al padre, ma essere necessario avere uno duca che fusse grande di potenza e di autorità» (StI I, xiii, p. 92). Nel primo esempio dalla gerundiale reggente dipendono l’infinitiva oggettiva, seguita dalla completiva oggettiva esplicita (la coordinazione tra i due membri è fornita dalla congiunzione e); nel secondo esempio si ha l’ordine inverso: la soggettiva esplicita subordinata di 1° grado sarebbe cosa molto perniciosa precede la soggettiva infinitiva di 1° grado essere necessario, la coordinazione avversativa è resa da ma. Subordinazione di 2° grado. Oltre all’esempio cit. da ultimo, si vedano due altri passi: «[scil. il re] operò che il pontefice comandasse a’ genovesi e a lui, sotto pena delle censure, che non lasciassino cavare di Genova legni di alcuna sorte al re di Francia» (StI III, i, p. 239); «[scil. il cardinale] fu operatore che ’l re concedesse che Borghese

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suo figliuolo, mandato in Francia per sicurtà dell’osservanza delle promesse paterne, se ne ritornasse a Siena» (StI VI, vi, p. 574); nei due passi entrambe le subordinate sono introdotte da che e hanno un livello medio d’incassatura sintattica. “Reggente + oggetto diretto (o indiretto) + subordinata”: «[scil. la corte papale] non avendo intratanto cura alcuna della salute delle anime né che le cose ecclesiastiche fussino governate rettamente» (StI XX, iii, p. 2050). 88 Subordinazione multipla (due o più completive dipendono da un unico reggente): si vedano gli esempi citati ai verbi accusare, considerare e convenire ‘essere d’accordo’. Cambio di costruzione. Di questo fenomeno non raro nella prosa del xiv sec. si cita un esempio in cui al complementatore che segue una completiva all’infinito: «Sforzossi Cesare fare capace al papa che se, contro alla promessa fattagli in Bologna [...] aveva pronunciato, doversi lamentare non di sé ma del vescovo di Vasone nunzio suo» (StI XX, iv, p. 2054).  

La proposizione subordinata retta da un sintagma nominale o aggettivale non è rara ed è rappresentata da vari tipi (anche se il reggente “con + N” sembra prevalere); il costrutto è una riprova della tendenza abbreviativa che caratterizza alcuni settori della sintassi della Storia. colore: «Questo parere, proposto nel consiglio sotto colore che, poi che al presente cessava il timore della guerra [de’] franzesi, era da usare la venuta di Cesare per indurre i fiorentini a unirsi con gli altri confederati contro al re di Francia, piaceva a Cesare, malcontento che la venuta sua in Italia non partorisse eπetto alcuno» (StI III, viii, p. 292); commissione: «Per i consigli di Lodovico, mandò Carlo al pontefice quattro oratori, con commissione che nel passare per Firenze facessino instanza per la dichiarazione di quella republica» (StIt I, vi, p. 54); con subordinata infinitiva prep.: «Rimasono a Lione il duca d’Orliens, il cardinale di San Malò e tutto il consiglio, con commissione di accelerare le provisioni: alle quali se il cardinale era proceduto lentamente in presenza del re, procedeva molto più lentamente essendo assente» (StIt III, vi, p. 278); desideroso: «Cesare, desideroso che innanzi a ogni cosa entrassino nella lega» (StI III, ix, p. 299), «’l gran capitano, desideroso che non si turbasse la quiete d’Italia [...], non solo faceva ogni diligenza [...], ma gli aveva [...] comandato» (StI VI, xiv, p. 619); fondamento: «[il re] ebbe sempre per uno dei saldi fondamenti della sicurtà sua che da sé dependessino o tutti o parte de’ baroni più potenti del territorio romano» (StI I, iii, p. 16); patto: «con patto che i viniziani e il duca di Milano fussino tenuti a mandare subito a Roma [...] dugento uomini d’arme per ciascuno» (StI I, iii, p. 22), «la confederazione la quale, per l’autorità del re Luigi suo padre, era stata fatta con Ferdinando, con patto che dopo la morte sua si distendesse ad Alfonso» (StI I, vi, p. 58); speranza: «[scil. il ritorno in Francia del re] lasciò negli animi degli uomini speranza non mediocre che Italia [...] avesse presto a rimanere del tutto libera» (StI III, i, p. 237),«con speranza che, arrivandovi quasi improviso in sul fare del dì, avesse facilmente, o per disordine o per tumulto il quale sperava aversi a levare in suo favore, a entrarvi» (StI III, xiii, p. 322); con questo reggente nominale s’incontra più di frequente l’infinitiva: «Sopra le quali di√coltà non essendo interamente concordi ma con speranza di introdurre qualche forma conveniente [...], ritornò il cardinale in Francia» (StI V, vi, p. 478). Colore: vedi anche la completiva retta dall’aggettivo malcontento. Commissione, munito della preposizione con, costituisce un sintagma che ha funzione modale ed è da confrontare con la subordinata infinitiva. Con patto costituisce un sintagma modale. Fondamento è accompagnato da un aggettivo che ne raπorza la funzione di reggente: saldi fondamenti. Il sost. speranza appare da solo o nel sintagma con speranza che. 88

 Nella Storia l’avverbio intratanto raggiunge 25 occorrenze.

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la prosa del cinquecento 7. 2. 4. Reggente verbale + di + infinito

Delle oggettive coreferenziali costruite con l’infinito preposizionale diamo alcuni esempi, scegliendo tra i reggenti che ricorrono più di frequente: avere ardire: «il quale ritornava per soccorrerla, impedito dalla grossezza dell’acque a passare il fiume del Serchio, né avendo avuto ardire di pigliare il cammino allato alle mura di Lucca» (StI II, v, p. 166), «uno arciere privato ebbe ardire di minacciare il cardinale di San Malò» (StI II, vii, p. 181); cessare: «non cessava di stimolare continuamente il padre e l’avolo che [...] gli movesse almanco il pericolo della vita» (StI I, iii, p. 20); disperarsi: «don Federigo [...] si era [...] allargato in alto mare, disperandosi di potere fare per allora più frutto alcuno» (StI I, x, p. 8); perseverare: «Nelle quali pratiche vedendosi che Piero de’ Medici perseverava di seguitare l’autorità del re, e essere vana ogni diligenza che per rimuovernelo si facesse, Lodovico Sforza [...], deliberò alla salute propria con nuovi remedii provedere» (StI I, iii, p. 19); procurare: «il che non rendeva manco stabile la pace, anzi destava in tutti maggiore prontezza a procurare di spegnere sollecitamente tutte quelle faville» (StI I, i, p. 9); tentare: «[scil. i viniziani] tentorono[...] di farsi signori di quello stato; e più frescamente [...] di occupare il ducato di Ferrara si sforzorono» (StI I, i, p. 9); vergognarsi: «i quali [...] non si vergognorono di vendere la facoltà di tra√care col nome dell’autorità celeste i sacri tesori» (StI I, ii, p. 11). Si noti che: perseverare regge un’infinitiva preposizionale, mentre deliberare è costruito senza preposizione; nell’es. con tentare si ha una costruzione a chiasmo “reggente + infinitiva / infinitiva + reggente”; con il reggente vergognarsi si hanno due infinitive preposizionali tra loro embricate.

Più rare sono le infinitive apreposizionali: «dalla quale [scil. città di Parigi] non otterrebbe essere accomodato se non vi andasse personalmente» (StI III, vi, p. 277), dove appare inoltre un cambio di costruzione, dalla subordinata esplicita all’infinitiva; «Negò quel senato volere fare nuova confederazione o ampliare le obligazioni che in quella si contenevano» (StI XX, vi, p. 2060). 7. 2. 5. Nominalizzazione dell’infinito L’infinito dipendente da una testa nominale è un costrutto ricorrente: «[scil. in Alessandro sesto fu] ardentissima cupidità di esaltare in qualunque modo i figliuoli i quali erano molti» (StI I, ii, p. 12), «e Carlo ardeva di desiderio di fare guerre in Italia» (StI I, iv, p. 37), «Soprastette alcuni dì Carlo in Piacenza non senza inclinazione di ritornarsene di là da’ monti» (StI I, xiii, p. 93), «[scil. i portogallesi] hanno trasferito in sé quel commercio di comperare le spezierie che prima solevano avere i mercatanti di Alessandria» (StI VI, ix, p. 591). La presenza dell’articolo rende evidente l’avvenuta nominalizzazione dell’infinito: «Alfonso [...] recusò sempre il consentirvi» (StI I, iii, p. 21), «parendogli pericoloso l’essere solo a suscitare movimento sì grande» (StI I, iv, p. 28), «Ma si credette che la più vera e principale cagione fusse l’essere egli innamorato in camera della reina, la quale poco avanti era andata a Torsi con la sua corte» (StI III, vi, p. 277: ‘innamorato di una damigella della r.’). Si noti l’uso di più infinitive nominali nello stesso periodo: «Deliberossi pure finalmente l’andare innanzi, come continuamente sollecitava Lodovico, promettendo di ritornare al re in pochi giorni; perché e il soprasedere del re in Lombardia né meno il ritornarsene precipitosamente in Francia,

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era del tutto contrario alla sua intenzione» (StI I, xiii, p. 93), «e a’ franzesi faceva molto timore l’essere il popolo grandissimo e l’avere dimostrato, in quegli dì che fu mutato il governo, segni maggiori d’audacia che prima non sarebbe stato creduto» (StI I, xvi, p. 108). Questi costrutti possono condizionare la struttura del periodo, come accade quando da un’infinitiva nominalizzata dipende una completiva: «Ma soprattutto gli accresceva la molestia il non si potere più dubitare che gli Aragonesi e Piero, poi che in tale opere procedevano unitamente, non avessino contratta insieme strettissima congiunzione» (StI I, iii, p. 17). Esempi di infinito preposizionale: «[scil. gli imbasciadori] più volte andorno a Signa per risolvere seco il modo dello entrare in Firenze» (StI I, xvi, p. 106); rara è l’infinitiva introdotta da da e avente valore finale o deontico: «artiglierie da battere le muraglie» (StI I, xi, p. 84); l’infinitiva introdotta da con ha valore mediale: «e’ non ebbe modo a provedere a’ presenti bisogni se non con lo impegnare [...] certe gioie» (StI I, ix, p. 75), «Lodovico Sforza, ottenuto, con pagare certa quantità di danari, che la investitura di Genova [...] si trasferisse in sé e ne’ discendenti suoi» (StI I, xv, p. 102), «il che avendo ricusato con allegare diverse escusazioni, era [...] stato dal pontefice separato con le censure dal consorzio della Chiesa» (StI III, xv, 334), «col congiugnersi con Cesare, rompere l’unione degli inimici» (StI XI, vii, p. 1111); cfr. anche: «con lo scambiare prigioni [...] con lo ammazzargli o imprigionargli tutti» (Reggimento, in Opere LS, p. 463). Più rara è l’infinitiva introdotta da in sia indipendente (il valore è simile a quello di una gerundiale circostanziale): «e con quanto danno proprio si ingannano i prìncipi che, nel fare elezione delle persone alle quali commettono le faccende grandi, hanno più in considerazione il favore di chi eleggono che la virtù» (StI IV, ix, p. 402), sia subordinata: «era molto celebrata la liberalità dimostratasi nel fare innanzi alla partita sua grandissimi doni» (StI VII, viii, p. 678 ),«si entrò nel praticare gli articoli della confederazione» (StI XX, vi, p. 2061). L’infinito nominalizzato corrisponde alla tendenza ad attuare una sintassi compatta, che, riducendo l’uso di parole vuote, si accosta al latineggiamento, reso con varia gradualità: si va da fenomeni circoscritti e “locali”, come la tmesi (o distacco dell’ausiliare), allo spostamento del verbo alla fine del periodo e all’oratio obliqua estesa, con la quale si ottiene la ristrutturazione d’intere sequenze testuali e uno stile solenne. Contrariamente a Giovanni Corsi, che giudicava la lingua della Storia d’Italia troppo fiorentina, Gerolamo Muzio e Benedetto Varchi la ritenevano troppo latina (Fubini 1947: 172-173). L’adesione a modelli latini non riguarda soltanto la sintassi, il lessico e lo stile; nel cap. ix del primo libro, si parla, alla maniera di Livio e degli altri storici romani, dei prodigi apparsi in Italia a preannunciare la venuta dell’esercito francese. 7. 2. 6. Le proposizioni oggettive con infinito (accusativo con infinito) L’infinitiva non coreferente con il verbo della reggente, il sottotipo più rilevante del costrutto, rappresenta un tratto notevole della sintassi periodale, per la varietà dei verbi reggenti, per la sua notevole diπusione e per la varietà delle configurazioni, che assumono spesso forme complesse (anche se, proseguendo una tendenza antica, ritroviamo nella maggior parte dei casi essere predicativo o ausiliare). Un carattere ampiamente condizionante la diπusione dell’accusativo con infinito è la fitta presenza di passi di oratio obliqua, delegati a riprodurre discorsi e riflessioni di personaggi:

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affermare: «aπermando [scil. Lodovico Sforza] non essere stato alcuno di essi legittimo duca di Milano, se ne fece come di stato devoluto allo imperio investire da Massimiliano» (StI I, vi, p. 46), «aπermavano [scil. coloro che facevano profezie] con una voce medesima apparecchiarsi maggiori e più spesse mutazioni, accidenti più strani e più orrendi che per multi secoli si fussino veduti in parte alcuna del mondo» (StI I, ix, p. 74), «aπermandogli alcuni de’ suoi, che erano presenti, essere domanda giusta [...], il re [...] rispose subito essere contento» (StI I, xv, p. 103), «feciono instanza che e’ [scil. il papa] consentisse al re l’entrare in Roma; aπermando questo essere sommamente desiderato da lui» (StI I, xvii, p. 116), «[scil. Savonarola] ritornò di nuovo publicamente al medesimo u√zio; aπermando le censure promulgate contro di lui, come contrarie alla divina volontà e come nocive al bene comune, essere ingiuste e invalide» (StI III, xv, p. 334), «Per le quali ragioni ciascuno di quel senato aπermava essere necessario aderirsi scopertamente a una delle parti» (StI VII, x, p. 689); allegare: «Né Ferdinando, contro il quale tali cose si macchinavano, dimostrava d’averne molto timore, allegando essere impresa durissima» (StI I, v, p. 38), «e allegavano che la guerra era tutta in Italia, però non essere né conveniente né necessario parlare se non delle cose d’Italia» (StI VII, xii, p. 713), (Carlo VIII a Lodovico Sforza), «al quale similmente recusava di dare il principato di Taranto, allegando non essere obligato se non quando avesse conquistato tutto il reame» (StI II, iv, p. 159); avere avviso: «perché essi, parte confidandosi nel salvacondotto il quale avevano avviso da i suoi essere stato conceduto dal re, parte menati dallo stesso terrore [...] senza contrasto s’arrenderono» (StI I, xix, p. 130); cfr. anche: «sopragiunsono avvisi a Obietto [...] appropinquarsi Gianluigi dal Fiesco con molti fanti» (StI I, x, p. 81); avere notizia: «[scil. il duca] avuta notizia aspettarsi di nuovo nel campo degli inimici dugento lancie e mille fanti svizzeri [...], si ritirò nella cerca di Faenza» (StI I, xii, p. 89); conchiudere: «ove tutti unitamente conchiudevano più utile essere alla republica (poi che aveano talmente fortificate Padova e Trevigi che non temevano di perderle) conservarsi i danari» (StI IX, xvi, p. 922); conoscere: «conobbe non essere altro rimedio a tanti pericoli che o il rimuovere [...] la mente del re di Francia da questi pensieri o levargli parte de’ fondamenti che lo incitavano alla guerra» (StI I, v, p. 40), «e perciò Piero, conoscendo questo essere principio di mutazione dello stato, per provedere alle cose sue innanzi nascesse maggiore disordine, si partì dal re» (StI I, xv, p. 101), «Da altra parte il re di Francia [...] conoscendo essere necessario provedere che non sopravenissino allo stato suo nuovi pericoli, deliberò di difendere il duca di Ferrara, stabilire quanto poteva la congiunzione con Cesare» (StI IX, ix, p. 872), «Perciò il re, escluso da’ svizzeri, conosceva essere necessario il riconciliarsi o con Cesare o co’ viniziani» (StI XI, vii, p. 1110); considerare: «il re considerando la potenza de’ pontefici essere instrumento molto opportuno a turbare il regno di Napoli [...], ebbe sempre per uno de’ saldi fondamenti della sicurtà sua che da sé dependessino o tutti o parte de’ baroni più potenti del territorio romano» (StI I, iii, p. 15), «Ma quel che più angustiava l’animo suo era il considerare essere sommamente esoso il suo nome» (StI I, iii, p. 20), «Consideravano il re essere poco capace a sostenere da solo un pondo sì grave» (StI I, iv, p. 33), «Considerasse non essere più in potestà propria i consigli suoi, troppo oltre essere andate le cose» (StI I, ix, p. 77); contenere: «replicando spesso con alta voce [...] il versetto del salmo del profeta che contiene essere vane le vigilie di coloro che custodiscono la città la quale non è da Dio custodita» (StI I, xix, p. 129); credere: «gli fu da quel ministro, che credeva riservarsi come vino più prezioso, dato da bere del vino che aveva mandato innanzi Valentino» (StI VI, iv, p. 555); dimostrare: «dimostrandogli non essere meno glorioso al nome suo liberare dalla tirannide d’un papa scelerato la Chiesa d’Iddio» (StI I, xvii, p. 117), «io mai per cagione alcuna tanto desiderai di pervenire alla corona quanto per dimostrare a tutto il mondo gli acerbi governi del padre e dell’avolo mio essermi sommamente dispiaciuti» (StI I, xix, p. 127),

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«dimostrò essere necessario, dispregiati gli altri pericoli, fermarsi alla guerra di Lombardia» (StI XV, xii, p. 1569); dubitare: «dubitando [...] non potere fare lungo tempo fondamento nella confederazione fatta con loro, e che per ciò le cose sue potessino per vari casi ridursi in molte di√coltà» (StI I, iii, p. 23), «Conoscevano i capitani viniziani quali fussino i pensieri del re, né dubitavano essere necessario di mettersi in uno alloggiamento forte propinquo agli inimici» (StI VIII, iv, p. 746); fare instanza: «facendo instanza apertamente il pontefice e gli oratori de’ re di Spagna e del duca di Milano e quello del re di Napoli con lo imbasciadore viniziano, essere necessario per sicurtà comune unire con questo mezzo i fiorentini contro a’ franzesi» (StI III, xiv, p. 330); giudicare: «Però il duca di Calavria e Piero de’ Medici, giudicando essere più sicuro alle cose loro il prevenire che l’essere prevenuti, udirono con grande inclinazione Prospero e Fabrizio Colonna» (StI I, iii, p. 22), «giudicavano non potere essere altro che guerra piena di molte di√coltà e pericoli» (StI I, iv, p. 33); «i quali giudicavano non dovere pretermettersi l’opportunità di insignorirsene» (StI I, xvi, p. 107), «giudicò non doversi procedere più oltre » (StI X, x, p. 1011), «giudicò essere più utile ingegnarsi di fermare con questi ragionamenti l’armi del re» (StI X, xiv, p. 1046), «si fermorno nella città, abbruciati pure per consiglio de’ proveditori viniziani i borghi: i quali consigliorono così o perché giudicassino essere necessario alla difesa di quella terra o perché, con questa occasione, volessino sodisfare all’odio antico che è tra i milanesi e i viniziani» (StI XII, xx, p. 1273); intendere: «[scil. Ferdinando] inteso per lettere dalla reina essere in Napoli nata, per la perdita di San Germano, sollevazione tale che non vi andando lui susciterebbe qualche tumulto, vi cavalcò con piccola compagnia» (StI I, xix, p. 125), «fece il cardinale sedunense intendere al duca non essere necessario che, poi che era ottenuta la vittoria contro a’ comuni inimici, passasse più innanzi» (StI XI, i, p. 1067); lamentarsi: «Né solo interpose tutta la diligenza e autorità sua per comporre la diπerenza delle castella comperate da Verginio Orsini, la cui durezza si lamentava essere stata causa di tutti i disordini, ma ricominciò col pontefice le pratiche del parentado trattato prima tra loro» (StI I, v, p. 41); persuadere: «Aπaticossi Piero de’ Medici di persuadere a Ferdinando queste dimande importare sì poco alla somma della guerra» (StI I, v, p. 48), «si persuadeva il dominio di Pisa avergli presto a pervenire» (StI I, xv, p. 104), «sforzandosi di persuadergli non essere l’intenzione del re di mescolarsi in quello che apparteneva all’autorità pontificale» (StI I, xvii, p. 116); «la commissione de’ quali fu di persuadergli non essere necessario di procedere ad alcuna dichiarazione (StI III, ix, p. 299); presupporre: «il re presupponeva la autorità del cardinale essere tale appresso al pontefice che, se gli fusse stato grato il matrimonio con Anna, arebbe ottenuto tutto quello che avesse voluto» (StI XIX, viii, p. 1991); proporre: «i quali empiendolo di pensieri vani gli proponevano questa essere occasione di avanzare la gloria de’ suoi predecessori» (StI I, iv, p. 27); ricordare: «ricordandosi delle controversie le quali il padre e egli aveano molte avute con loro, e essere sempre parata la materia a di nuove contenzioni» (StI I, iii, p. 15), «Ricordavangli questa deliberazione essere non manco necessaria per la sicurtà sua che desiderabile per la gloria» (StI I, xvii, p. 117); risolversi: «[scil. i senatori] si risolvevano essere necessario consentire più presto, poi che altrimenti non si poteva, che l’onestà cedesse in qualche parte all’utilità che, per mantenere pertinacemente la fede data, perseverare in tante molestie» (StI IV, vii, p. 386); rispondere: «[scil. Cesare] rispondeva: conoscere questo pericolo, ma aversi anche a considerare il pericolo che partorirebbe da ogni banda; ed essere, in materie sì gravi, troppo di√cile il bilanciare le cose sì perfettamente e trovare consiglio che fusse totalmente netto da questi pericoli: restare in ogni evento allo stato di Milano la difesa de’ svizzeri, ed essere necessario, in deliberazioni tanto incerte e tanto di√cili, rimetterne una parte all’arbitrio del caso e della fortuna» (StI XII, v, p. 1194);

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significare: «a Ivo d’Allegri [scil. il Triulzio] significò essere necessario che, partendosi dal Valentino, ritornasse con le genti d’arme franzesi e co’ svizzeri con grandissima celerità a Milano» (StI IV, xiii, p. 433). soggiungere: «Soggiugnevano, lo usare frequentemente questa medicina essere non solamente utile ma necessario al corpo infermissimo della Chiesa» (StI IX, xviii, p. 939). Aπermare: è uno dei reggenti che ricorre più di frequente; dei sei ess. quattro presentano una gerundiale come reggente; in eπetti aπermando che è una quasi-formula; in (es. p. 74) la completiva infinitiva ingloba una comparativa di maggioranza; in (es. p. 103) l’acc. con inf. appare a seguito sia della gerundiale sia della principale: entrambi sono verba dicendi; in (es. p. 334) il predicato verbale è preceduto dall’apposizione nominale come contrarie alla divina volontà e come nocive al bene comune; in (es. p. 689) dall’acc. con inf. dipende un’infinitiva. Allegare: anche la gerundiale allegando che, presente nella Storia con 82 occorrenze e di norma posposta alla principale, è una quasi-formula; notiamo in (es. p. 173) un cambio di costruzione, dalla subordinata esplicita all’infinitiva. Due reggenti polirematici: avere avviso e avere notizia; quanto al primo, si noti che l’infinitiva è contenuta in una relativa (del costrutto si ha una variante: sopragiunsono avvisi + infinitiva apreposizionale, es. p. 81). Conchiudere: subordinazione di 2° grado: reggente + completiva oggettiva + completiva soggettiva. Conoscere: dei quattro passi due hanno come reggente una gerundiale (es. p. 101 e p. 872). Considerare: in (es. p. 15) il reggente è una gerundiale; in (es. p. 20) il reggente è un infinito sostantivato, in (es. p. 77) è un congiuntivo esortativo. Contenere: il reggente è una relativa. Dimostrare: reggente gerundiale (es. p. 117), reggente infinitiva con valore finale (es. p. 127), l’infinitiva soggettiva regge un infinito nominalizzato (es. p. 1569). Dubitare: in (es. p. 23) infinitiva coreferente con la reggente e subordinazione mista. Fare instanza: reggente polirematico di una trafila subordinativa che giunge al 2° grado. Giudicare: in (es. p. 22) si ha una gerundiale reggente, nella subordinata si ha la comparativa di diseguaglianza; in (es. p. 1273) la reggente è una causale al congiuntivo (si noti la presenza della participiale assoluta abbruciati ... i borghi). Intendere: preceduto da fare, è verbo fattitivo: in (es. p. 125) il reggente è il verbo di una participiale coreferente con la principale; in (es. p. 1067) dall’infinitiva dipende una soggettiva al congiuntivo. Lamentarsi: è reggente di un’infinitiva apreposizionale. Persuadere: in (ess. p. 116 e p. 299) dall’infinitiva dipende un’altra infinitiva. Ricordare: in (es. p. 15) il gerundio regge un oggetto indiretto e un’infinitiva; in (es. p. 117) l’infinitiva comprende una comparativa. Risolversi: dall’infinitiva dipende un’altra infinitiva, che regge un’oggettiva al congiuntivo cui segue una comparativa priva di introduttore. Rispondere: in un passo di oratio obliqua dal reggente dipendono cinque infinitive. Significare ‘far sapere’: dall’infinitiva dipende un’oggettiva al congiuntivo.

Da questo campione di esempi risultano quattro caratteri: i) la varietà dei reggenti la costruzione “accusativo con infinito”; ii) la presenza non rara di reggenti polirematici; iii) la collocazione del costrutto in periodi sintatticamente complessi; in particolare si nota il ricorrere di comparative con finalità “architettonica”; iv) il combinarsi del costrutto implicito con costrutti al congiuntivo. Ricordiamo i reggenti che abbiamo ora analizzato: aπermare, allegare, avere avviso, avere notizia, conchiudere, conoscere, considerare, contenere, credere, dimostrare, dubitare, fare instanza, giudicare, intendere, lamentarsi, persuadere, presupporre, proporre, ricordare, risolversi, rispondere, significare, soggiungere. I reggenti di questo tipo d’infinitiva sono, nella maggior parte dei casi, verbi di atteggiamento proposizionale, i quali manifestano il comportamento del soggetto [+ umano] nei riguardi di un un’entità: il soggetto la pensa, la conosce, la desidera, la teme ecc. Si definiscono verbi “situazionali” e verbi “azionali” quelli che presentano l’atteggiamento verso una situazione (S crede che p) e, rispettivamente, verso un’azione che deve essere compiuta perché il contenuto di p sia vero (S vuole che p); in quest’ultimo sottotipo possono rientrare: fare instanza, persuadere, proporre. 89  

89   La distinzione attitudine/atteggiamento verso la situazione o verso l’azione è presentata in Ray Jackendoπ, Language, consciousness, culture: Essays on mental structure, Cambridge MA, MIT Press, 2007.

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7. 2. 7. Oratio obliqua L’oratio obliqua è un modo di espressione, derivato dal latino, con il quale si vuole riprodurre ad verbum le parole o il pensiero di altri. Di norma all’oratio obliqua precede un verbum dicendi o sentiendi (o di significato analogo). L’oratio obliqua è usata dall’enunciatore per riferire pensieri e propositi propri, soprattutto se questi si sono manifestati nel passato. In latino tale procedimento sembra essersi aπermato dapprima nella lingua dell’amministrazione, nella quale si dovevano riferire in modo compendioso i testi delle decisioni u√ciali; in seguito è entrato nella lingua letteraria. Per attuare questa costruzione, sono necessarie alcune trasformazioni morfologiche e sintattiche. Le proposizioni enunciative passano all’infinito, le proposizioni volitive al congiuntivo, le interrogative, a seconda dei contesti e delle intenzioni, si rendono sia con l’infinito sia col congiuntivo (Ernout/Thomas 1953: 423-424). Il passaggio dal Discorso diretto all’indiretto comporta la sostituzione del pronome di 1a pers. col pron. di 3a (sibi, sui, se, suus); il nominativo ego, nos è sostituito in alcuni cotesti con ipse; la 2a e la 3a pers. del Discorso diretto sono rese per lo più con ille; gli avverbi di tempo sono adeguati alla diversa prospettiva temporale; hic > ibi, hinc > inde, nunc > tum ecc. L’oratio obliqua è ripresa nell’italiano letterario come manifestazione del latineggiamento sintattico. 90 Il fenomeno ebbe la sua massima diπusione nel xvi secolo. Nella Storia d’Italia l’oratio obliqua appare spesso in lunghi brani (da una a più pagine dell’edizione a stampa), non sempre introdotti da un verbum dicendi o sentiendi; è un particolare che ricorre già nel De bello gallico di Cesare. La frequente ellissi della copula e degli ausiliari essere e avere, produce uno “stile sintetico”, aspetto saliente del latineggiamento, che attirò non poche critiche dei commentatori. L’alternanza tra Discorso diretto e indiretto e il netto prevalere, in alcune parti, di quest’ultimo influiscono sulla struttura dell’informazione, in particolare sulla progressione del tema. Al centro del passo che segue spicca l’oratio obliqua, presidio di un argomentare stringente:  

aveva Lodovico Sforza [...] consigliato che tutti gli imbasciadori de’ collegati entrassino in uno dì medesimo insieme in Roma, presentassinsi tutti insieme nel concistorio publico innanzi al pontefice, e che uno di essi orasse in nome comune, perché da questo, con grandissimo accrescimento della riputazione di tutti, a tutta Italia si dimostrerebbe essere tra loro non solo benivolenza e confederazione, ma più tosto tanta congiunzione che e’ paressino quasi un principe e un corpo medesimo. Manifestarsi, non solamente col discorso delle ragioni ma non meno con fresco esempio, l’utilità di questo consiglio; perché, secondo che si era creduto, il pontefice ultimamente morto, preso argomento della disunione de’collegati dall’avergli con separati consigli e in tempi diversi prestato l’ubbidienza, era stato più pronto ad assaltare il regno di Napoli (StI I, ii, p. 13).

Il passo si divide in due parti: nella prima il consiglio (illocuzione) descrive con tre verbi al congiuntivo la procedura entrassino, presentassinsi, orasse; nella seconda parte il commento, che spiega il significato della procedura, si avvia con un infinitiva esposta, che è priva dell’appoggio di una gerundiale di atteggiamento: allegando, aggiungendo, chiarendo e sim. Un altro tipo di progressione tematica dispiega una serie di frasi iussive al congiuntivo e di frasi constatative all’infinito. Vi corrispondono propositi e azioni espo90   L’uso dell’oratio obliqua nella prosa volgare del sec. xv ebbe un particolare sviluppo nei dialoghi di L. B. Alberti: v. Dardano (1992: 322-323); la costruzione si ritrova anche in molti volgarizzamenti. Una messa a punto della costruzione presente nelle lingue indoeuropee è Calboli (2017).

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sti da Lodovico Sforza, nel tentativo di convincere il papa a non fidarsi di Ferdinando di Aragona; per facilitare l’analisi si separano con accapo le unità discorsive: Non credesse che la cupidità di Verginio o l’importanza delle castella, non che altra cagione avesse mosso Ferdinando, ma il volere, con ingiurie che da principio paressino piccole, tentare la sua pazienza e il suo animo: dopo le quali, se queste gli fussino comportate, ardirebbe di tentare alla giornata cose maggiori. Non essere l’ambizione sua diversa da quella degli altri re napoletani, inimici perpetui della chiesa romana; per ciò avere moltissime volte quegli re perseguitati con l’armi i pontefici, occupato più volte Roma. Non avere questo medesimo re mandato due volte contro a due pontefici gli eserciti, con la persona del figliuolo, insino alle mura romane? non avere quasi sempre esercitato inimicizie aperte co’ suoi antecessori? Irritarlo di presente contro a lui non solo l’esempio degli altri re, non solo la cupidità sua naturale del dominare, ma di più il desiderio della vendetta per la memoria delle oπese ricevute da Calisto suo zio. Avvertisse diligentemente a queste cose, e considerasse che, tollerando con pazienza le prime ingiurie, onorato solamente con cerimonie e nomi vani, sarebbe eπettualmente dispregiato da ciascuno e darebbe animo a più pericolosi disegni; ma risentendosene, conserverebbe agevolmente la pristina maestà e grandezza, e la vera venerazione dovuta da tutto il mondo a’ pontefici romani. Aggiunse alle persuasioni oπerte e√cacissime ma più e√caci fatti, perché gli prestò prontissimamente quarantamila ducati (StI I, iii, p. 17).

La serie di raccomandazioni, conclusa con una frase “a eπetto” sulla potenza del denaro, il rilievo concesso alle infinitive nell’ambito della frase, 91 la tendenza alla brevitas (si noti la gerundiale con valore condizionale: ma risentendosene conserverebbe agevolmente), le due interrogative dirette poste in rilievo al centro del brano, tutto concorre a fondare l’e√cacia dimostrativa del discorso. Con la variazione di questi fattori si ottengono risultati diversi. L’accrescimento delle interrogative (e di conseguenza delle infinitive) caratterizza il lungo intervento con il quale il cardinale di San Piero in Vincola incita Carlo VIII alla guerra:  

E per che cagione avere adunque, con la restituzione delle terre del contado d’Artois, indebolito da quella parte le frontiere del regno suo? per che cagione, con tanto dispiacere non meno della nobiltà che de’ popoli, avere aperto al re di Spagna, dandogli la contea di Rossiglione, una delle porte di Francia? Solere consentire simili cose gli altri re o per liberarsi da urgentissimi pericoli o per conseguirne grandissime utilità. Ma quale necessità, quale pericolo avere mosso lui? quale premio aspettarne? quale frutto risultargliene se non l’avere comperato con carissimo prezzo una vergogna molto maggiore? Che accidenti essere nati, che di√coltà sopravenute, che pericoli scopertisi, dopo l’avere publicato la impresa per tutto il mondo? e non più tosto crescere manifestamente ognora la speranza della vittoria? (StI I, ix, pp. 76-77).

Con l’oratio obliqua si confronteranno due tipi di elocuzione diretta. Il discorso breve appare in determinate circostanze, in particolare quando lo s’interpreta quale fattore risolutivo di una decisione, volta a superare di√coltà e incertezze; in questi casi la brevitas si traduce nell’icasticità di un motto. È celebre la battuta con cui Piero Capponi (StI I, xvi, p. 110) risponde all’oltracotanza di Carlo VIII. Il discorso (esortativo, accusativo o difensivo) di un personaggio è sovente incorniciato da una 91   Un tratto che ricorre anche altrove, cfr. per es.: «Consideravano il re essere poco capace [...]. Aggiugnersi la carestia di danari» (StI I, iv, p. 33).

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formula introduttiva: «parlò, secondo si dice, in questa sentenza», ed è concluso con un giudizio conciso che non può non essere autoriale: «Non fu udita con allegro animo questa proposta». Così accade nel lungo discorso tenuto da Carlo da Barbiano (StI I, iv, pp. 29-32). 92  

7. 2. 8. Le proposizioni interrogative indirette 93  

Si raccolgono in due tipi principali: l’interrogativa chi, che cosa e l’interrogativa quanto. 94 Nella maggior parte dei casi sono introdotte da avverbiali, tra le quali spicca, per l’alta frequenza e per la sottolineatura discorsiva attribuita all’intero passo, la gerundiale. A seguito dei reggenti conoscere, domandare, sapere si nota un prevalere di interrogative indirette introdotte da chi e da che cosa. Un’attenzione particolare richiede l’ultimo dei passi qui sotto riportati, dove l’interrogativa del tipo se è introdotta da stare ambiguo ‘essere incerto’, infinitiva introdotta a sua volta da un verbum dicendi contenuto in una concessiva:  

conoscere: «A questo modo caverete frutto grande, onorevole, giusto e sicuro, di questa vittoria; altrimenti, o io non ho intelligenza di cosa alcuna o questo accordo metterà lo stato vostro in sì grave pericolo che io non so conoscere che cosa ve ne possa liberare, se già la imprudenza del re di Francia non sarà maggiore che la nostra» (StI XVI, xiv, p. 1680); domandare: «Il quale [scil. il vescovo di Pistoia], dopo le parole generali avute insieme presente il capitano Alarcone, e l’avere il re supplicato il pontefice che per lui facesse buono o√cio con Cesare, gli domandò con voce sommessa quel che fusse del duca di Albania» (StI XVI, iv, p. 1616); sapere: «E nondimeno il re, contrario a se medesimo né sapendo che cose si concedesse, volle che vi restassino gli u√ciali de’ fiorentini a esercitare la solita giurisdizione» (StI I, xv, p. 103), «Ritornava al termine promesso Ferdinando, avendo, col dare speranza della difesa di Capua, quietati secondo il tempo gli animi de’ napoletani, né sapendo quel che dopo la partita sua fusse accaduto» (StI I, xix, p. 126), «la quale voce [...] mésse senza altro scontro o impedimento in fuga tutta la gente, non sapendo alcuno da chi cacciati o per quale cagione si fuggissino» (StI III, ii, p. 247); stare ambiguo: «Così si liberorono per allora i franzesi da quel pericolo, non stimato poco da loro: ancora che il re, magnificando sopra la verità le cose sue, aπermasse stare ambiguo se fusse stato utile alle cose il lasciargli passare, e che cosa facesse più debole il pontefice, o essere senza armi o avere armi che lo oπendessino come oπenderebbono i svizzeri; i quali egli, con tante forze e con tanti danari, aveva avuto infinite di√coltà a maneggiare» (StI IX, vii, p. 861). Conoscere, preceduto da un verbo epistemico negativo (es. p. 1680), rappresenta il secondo termine di una consecutiva. Il reggente domandare (es. p. 1616) (per conoscere qualcosa) non è frequente nell’opera. Sapere: il reggente gerundiale è una quasi-formula (non/né sapendo quanto) ricorrente più volte nella Storia. La polirematica stare ambiguo ‘essere incerto’ rientra nel novero dei verba dubitandi; regge una doppia interrogativa indiretta se e che cosa. Queste interrogative indirette sono costruite con il congiuntivo e cadono in periodi sintatticamente complessi. 92   Una cornice analoga delimita l’intervento del re Ferdinando (StI I, xix, p. 127-128): «usò con loro queste parole», «Non potette essere che queste parole non fussino udite con molta compassione», dove nella conclusione appare una doppia negazione, di indubbia e√cacia retorica. Nei discorsi, sia diretti sia indiretti, grandeggia l’eπetto ottenuto con varie figure di parola e di pensiero: fenomeno a cui si accompagnano l’alternarsi dei piani discorsivi, i motti e le sentenze, le prolessi e le dislocazioni. 93   Secondo Verjans (2013: 66) le subordinate percontative presuppongono un’interrogativa soggiacente, espressa con il discorso diretto; secondo alcuni linguisti conviene sostituire la denominazione di percontative a quella di interrogative indirette. 94   Rispetto ad altri trattati, nella Storia d’Italia, le interrogative indirette appaiono con frequenza minore.

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Interrogativa quanto, quale. I reggenti sono i verbi: apparire, avere esperienza, congetturare, conoscere, considerare, intendere, ricordare, sapere. apparire: «apparirà a quanta instabilità, né altrimenti che uno mare concitato da’ venti, siano sottoposte le cose umane» (StI I, i, p. 5); avere esperienza: «della amicizia del quale [scil. del re di Francia] quanto fusse fedele e sicura avevano sì fresca l’esperienza» (StI XI, ix, p. 1123); congetturare: «né si poteva facilmente congetturare da quali consigli o per quali casi o con quali armi s’avesse a muovere tanta quiete» (StI I, ii, p. 10); conoscere: «né vi paia grave sostenere spese e di√coltà per conservare la vostra libertà: la quale quanto sia preziosa conoscereste meglio, ma senza frutto, quando (io ho orrore di dirlo) ne fuste privati» (StI XI, iii, p. 1082); considerare: «Ma Ferdinando, il quale considerava quanto si diminuirebbe della riputazione e sicurtà sua se i fiorentini si separassino da lui, non accettava queste ragioni» (StI I, v, p. 48); intendere: «con furore grande esclamava nelle diete la moltitudine [...] essere necessario fare intendere una volta a tutto ’l mondo quanto imprudentemente discorreva chi alla nazione degli elvezi preponeva i fanti tedeschi» (StI X, xvi, p. 1055); ricordare: «né si ricordando quanto sia pernicioso l’usare medicina più potente che non comporti comparativa la natura dell’infermità e la complessione dell’infermo [...] deliberò [...] di tentare ogni cosa per muovere Carlo ottavo re di Francia ad assaltare il regno di Napoli» (StI I, iii, p. 23), «mandò senza dilazione a domandare con grande instanza aiuto al re di Francia, ricordandogli quanto in ogni caso potesse valersi più del pontefice e di lui che degli inimici suoi, e quanto poco potesse confidarsi di Vitellozzo e di Pandolfo» (StI V, xi, p. 504); sapere: «[scil. Lodovico Sforza] l’aveva ricevuto lietamente e con grande onore, ma come pari, non sapendo quanto presto in potestà di lui avesse a essere costituito lo stato e la vita sua» (StI I, viii, p. 68). Apparire (es. p. 5): l’interrogativa indiretta è una soggettiva. Il reggente avere esperienza (es. p. 1123) è situato in una relativa posta alla fine di una struttura segmentata a causa della coniunctio relativa iniziale. Congetturare (es. p. 10): l’int. ind. ha tre membri tutti introdotti dall’aggettivo quale. Conoscere: l’int. ind. è prolettica. Considerare (es. p. 48): l’int. ind. è costruita con il condizionale. Intendere: il sintagma fattitivo fare intendere è una subordinata di 2° grado, da cui dipende l’int. ind. (subordinata di 3° grado). Ricordare è presente con due gerundiali: la prima (es. p. 23) contiene una comparativa di diseguaglianaza, la seconda (es. p. 504) si compone di due membri. Sapere appare con la consueta gerundiale. Tutte le int. ind. (ad eccezione di una costruita con il condizionale) sono rese con il congiuntivo.

Nell’uso di queste subordinate appaiono le seguenti tendenze: estendere i confini della subordinazione, presentare i reggenti in espressioni quasi-formulari, imporre un ordine delle parole che si rivela talvolta particolarmente artificioso, soprattutto quando si ottengono sequenze latineggianti, nelle quali le infinitive hanno una posizione di spicco. Dopo avere esaminato le completive, analizziamo le relative, che con le prime presentano alcune analogie strutturali, per passare successivamente al vasto dominio delle avverbiali. 7. 3. Le proposizioni relative La relativa con antecedente è una proposizione subordinata che modifica un elemento nominale antecedente (o testa) della relativa. Questi due elementi formano un insieme che è talvolta discontinuo. La relativa è sempre posposta e completa o modifica semanticamente e pragmaticamente l’antecedente a seconda degli inten-

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dimenti dell’enunciatore. In una prospettiva semantica e funzionale, le relative si distinguono in: restrittive (preferisco i romanzi che sono scritti da giovani autori), predicative (vedo l’uomo che cammina) e appositive (ho conosciuto Luisa, che è una brava ragazza). Nel loro percorso storico le relative presentano alcune diπerenze morfologiche. Un tratto morfologico dell’ital. ant. che si conserva ancora nel Cinquecento, è l’uso frequente di che a seguito di una preposizione: con che ‘con il quale’, a che ‘al quale’, per che ‘per il quale’ ecc. Il fenomeno è largamente attestato nella Storia d’Italia, opera in cui le relative presentano caratteri che dipendono in parte dalla sopravvivenza di costrutti antichi, in parte riflettono gli eπetti di una nuova fase del latineggiamento sintattico. 95 Non vi appare il che polivalente, vivo nell’italiano antico e nel parlato di ogni tempo; è questo un tratto distintivo di cui bisogna tener conto. 96 Il carattere “legato” della prosa guicciardiniana è raπorzato da due fenomeni. Dopo una pausa forte il nesso il che e, in certe condizioni, il pronome il quale introducono periodi sintatticamente indipendenti ma collegati, quanto al significato, con la frase o il periodo che precede; entrambi questi strumenti di collegamento si diπondono a spese di quei nessi avviati dalla congiunzione (e ciò, e questo fatto, ed egli, e costui e sim.), i quali ricorrono nella prosa antica. 97 Esaminiamo un passo in cui la presenza di relative pone problemi d’interpretazione:  





Concorreva nella medesima inclinazione della quiete comune Ferdinando di Aragona re di Napoli, principe certamente prudentissimo e di grandissima estimazione; con tutto che molte volte per l’addietro avesse dimostrato pensieri ambiziosi e alieni da’ consigli della pace, e in questo tempo fusse molto stimolato da Alfonso duca di Calavria suo primogenito, il quale malvolentieri tollerava che Giovan Galeazzo Sforza duca di Milano, suo genero, maggiore già di venti anni, benché di intelletto incapacissimo, ritenendo solamente il nome ducale fusse depresso e soπocato da Lodovico Sforza suo zio: il quale, avendo più di dieci anni prima, per la imprudenza e impudichi costumi della madre madonna Bona, presa la tutela di lui e con questa occasione ridotte a poco a poco in potestà propria le fortezze, le genti d’arme, il tesoro e tutti i fondamenti dello stato, perseverava nel governo (StIt I, i, p. 7). 95   L’uso di chi o che in luogo di cui è frequente nell’it. ant.: v. F. Ageno, Particolarità grafiche di manoscritti volgari, Padova, Antenore, 1961, pp. 5-6. Con che (13 ess.), in luogo di con il quale, uso aggettivale: «e con che discorso, con che considerazione, con che esperienza delle cose, si poteva promettere» (StIt II, ix, p. 199); uso pronominale: «si convertì in sommo odio il desiderio incredibile con che era stato ricevuto nel reame di Napoli» (StIt IV, vi, p. 374), «quasi tutta la gente con che era entrato in Roma, carica della preda, si era dissipata in diverse parti» (StIt XVII, xiii, p. 1788), «considerando massime i modi con che si era proceduto in tutta la guerra» (StIt XVIII, iv, p. 1830). Riporto qui di seguito esempi di cui preposizionale. A cui, 24 occorenze per lo più contigue, del tipo «a cui corseno» (StIt II, iv, p. 159); le interposizioni sono estese o brevi; da notare: «contro a cui Cesare per questo gravissimamente si lamentò» (StIt VII, xi, p. 701). Di cui, 5 occorrenze: «di cui [scil. di Cesare] non essendo ancora morto il figliuolo molto temeva» (StIt VII, v, p. 657), «aveva ricevuto grandissimi benefici da colui di cui prigione era stato» (StIt VIII, viii, p. 768), «di cui [= di quale] di loro dovesse essere prigione» (StIt VIII, xiii, p. 808); questi tipi di relative non sono studiati da G. Cinque, La frase relativa, in GGIC, I (20012: 457-521, 471). Con cui, 8 occorrenze, il nesso è seguito per lo più da forme del verbo essere (non appaiono ess. della costruzione infinitiva, che ricorre nell’it. moderno). Per cui un solo es.: «conservava sotto la divozione del re di Francia; seguitando l’autorità di Gianiacopo da Triulzi suo padre naturale, per cui opera i piccoli figliuoli n’aveano da Cesare ottenuta la investitura» (StIt IX, xii, p. 891) ‘per l’opera del quale’. Non risultano ess. di da cui e di per cui, profrase dell’it. moderno corrispondente a ciò. 96   Considerando la natura del che polivalente, alcuni studiosi hanno avvicinato i caratteri e le funzioni dell’introduttore relativo ai caratteri e alle funzioni del che completivo; cfr.: Cinque art. cit., E. De Roberto, in SIA (2012: 196-269). È una proposta che non risolve alcun problema. 97   Segnalo l’uso anomalo di una relativa quale preceduta dalla congiunzione e: «La città di Siena, città popolosa e di territorio molto fertile, e la quale otteneva in Toscana, già lungo tempo, il primo luogo di potenza dopo i fiorentini, si governava per se medesima, ma in modo che conosceva più presto il nome della libertà che gli eπetti» (StI I, xvii, p. 112).

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la prosa del cinquecento

Le due relative introdotte da il quale non integrano quanto precede, ma aggiungono contenuti nuovi. Potrebbero essere precedute da un punto, come accade spesso nelle edizioni di testi antichi; per es., nell’edizione curata da V. Branca del Decameron, dove il periodo è avviato non raramente dal pronome il quale (tipo sintattico denominato “il quale in capo al periodo”). Nella Storia si nota che una relativa quale può trovarsi all’inizio di un periodo che apre un nuovo episodio: «Le quali [scil. provisioni] mentre che si sollecitano, crescevano continuamente i pericoli di Lodovico Sforza» (StI IV, viii, p. 392). Non si tratta di un espediente usato dagli editori moderni per facilitare la lettura dell’opera, ma di un modo d’introdurre un nuovo tema o di prolungare il tema che precede. 98 Il quale, all’inizio di periodo, ha una funzione di collegamento tra i periodi e, allo stesso tempo, di evidenziazione di sequenze testuali o capoversi; 99 si veda il seguente passo:  



onde risonavano per tutto le laudi del senato viniziano e del duca di Milano che, prese l’armi, con savia e animosa deliberazione, avessino vietato che sì preclara parte del mondo non cadesse in servitù di forestieri: i quali se, acciecati dalle cupidità particolari, non avessino, eziandio con danno e infamia propria, corrotto il bene universale, non si dubita che Italia, reintegrata co’ consigli e le forze loro nel pristino splendore, sarebbe stata per molti anni sicura dall’impeto delle nazioni oltramontane (StI III, i, p. 237).

La prima relativa che ... avessino vietato, costruita con il congiuntivo, può essere interpretata anche come una subordinata con valore causale, dipendente da risonavano ... le laudi; segue una relativa paraipotattica: i quali se ... non avessino vale ‘e se questi’ contenente la protasi di un periodo ipotetico, concluso con non si dubita che; la linea sintattica già di per sé impervia, si complica ulteriormente per la presenza di incidentali e di tmesi che rendono frastagliati i contorni dell’intero passo. La successione di tre relative quale nella stessa sequenza rivela la forte “tendenza congiuntiva” presente nel testo, causa frequente di periodi complessi: Le quali [scil. le provisioni del re] mentre che s’aspettano, non mancavano da altre parti a’ fiorentini nuovi e pericolosi travagli, suscitati principalmente da’ potentati della lega. I quali, a fine di interrompere l’acquisto di Pisa e di costrignergli a separarsi dalla confederazione del re di Francia, confortorono Piero de’ Medici che con l’aiuto di Verginio Orsino, il quale fuggito del campo de’ franzesi il dì del fatto d’arme del Taro era tornato a Bracciano, tentasse di ritornare in Firenze (StI III, ii, p. 244). 100  

Le tre relative hanno funzioni diverse: la prima «le quali mentre che si aspettano» è una temporale, anteposta alla principale; la seconda «I quali ... confortorono» è una relativa indipendente con pronome esposto in capo al periodo; la terza «il 98   L’interesse di alcuni grammatici cinquecenteschi per la punteggiatura (L. Dolce, Osservazioni nella volgar lingua, 1550; O. Lombardelli, L’arte del puntare gli scritti, 1585) dimostra che si riflette anche sulla divisione delle frasi (Fornara 2002: 320). Cfr. Marazzini (1993a: 211-214) e i saggi di B. Richardson e N. Maraschio, in Mortara Garavelli (2008: 110-121, 122-137). 99   Questa funzione evidenziatrice ha, nello scritto, un risvolto iconico analogo alla posposizione del soggetto [+umano] al verbo nell’inizio del periodo: «Concorreva nella medesima inclinazione della quiete comune Ferdinando di Aragona» (StI I, i, p. 7), «Da altra parte si sforzava il re di Francia» (StI I, v, p. 47), «Dimorò Carlo in Roma circa un mese» (StI I, xviii, p. 120). 100   La relativa quale posta all’inizio del periodo e seguita da mentre costituisce un dispositivo capace di evidenziare il tema esposto in precedenza: «Le quali cose mentre che da ogni parte si sollecitano, il papa mandò le genti sue a Ostia, sotto il governo di Niccola Orsino conte di Pitigliano» (StI I, vii, p. 62).

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quale ... era tornato a Bracciano» è una relativa appositiva all’inizio del periodo, che giustifica il consiglio dato a Piero de’ Medici. La scelta di collegamenti (inter- e intraperiodali) così vistosi rivela l’influsso della sintassi latina, il quale aiuta l’intento di stringere in un rapporto di causa ed eπetto il succedersi degli eventi. Il legame intraperiodale, eπetto del latineggiamento sintattico, è un fenomeno che favorisce la paraipotassi relativa, come appare in questo passo, dove un relativo flesso è posto all’inizio della frase: [scil. i viniziani] stavano attenti e preparati a valersi di ogni accidente che potesse aprire loro la via allo imperio di tutta Italia: al quale che aspirassino si era in diversi tempi conosciuto molto chiaramente (StI I, i, p. 8);

‘si era conosciuto molto chiaramente che i veneziani aspiravano all’impero di tutta l’Italia’: l’ordine normale è alterato dalla tendenza latineggiante; il relativo al quale sostituisce il nesso analitico e a questo. Un caso diverso è rappresentato dal relativo del quale posto (in posizione di rilievo) al centro di un periodo, dove la tmesi verbale ricorre due volte dovendosi ... mandare e aveva ... consigliato: Perché dovendosi, secondo la consuetudine inveterata di tutta la cristianità, mandare imbasciadori a adorare, come vicario di Cristo in terra, e a oπerire di ubbidire il nuovo pontefice, aveva Lodovico Sforza, del quale fu proprio ingegnarsi di parere, con invenzioni non pensate da altri, superiore di prudenza a ciascuno, consigliato che tutti gli imbasciadori de’ collegati entrassino in uno dì medesimo insieme in Roma (StI I, ii, p. 13).

Costituente fondamentale dell’architettura del periodo, la relativa con antecedente si trova al centro di fenomeni riguardanti l’ordine delle parole e rappresenta un fattore di primo piano dell’architettura periodale. Inoltre, inserendosi come una parentetica o all’interno del periodo o aggiungendosi alla fine di esso, la relativa apporta un commento, una precisazione, un’illustrazione del tema. Due sono i “difetti” conseguenti a un uso esteso delle relative: lo squilibrio di periodi troppo ampi, che rendeno faticosa la lettura, e la paraipotassi. In un’accezione ristretta con coniunctio relativa s’intende il nesso “articolo determinativo + quale + sostantivo” avente un rapporto anaforico con un “attacco” precedente; minoritaria è la variante che vede il sostantivo in prima posizione v. infra (es. p. 20). 101 Questa struttura appare di frequente nella Storia d’Italia, perché asseconda la tendenza, viva nell’opera, a legare strettamente tra loro le componenti delle sequenze testuali. Dai primi due capitoli del primo libro citiamo alcuni esempi:  

«Nella quale felicità, acquistata con varie occasioni, la conservavano molte cagioni» (StI I, i, p. 6), «la quale vanità giovenile fu confermata dagli ambiziosi conforti di Gentile vescovo aretino» (StI I, ii, p. 14), «nella quale domanda il re, desideroso di compiacergli, ma non tanto che totalmente ne dispiacesse a Lodovico, gli sodisfece più dell’eπetto che del modo», «dalla quale speranza insino non restò escluso prestò più gli orecchi che l’animo alla confederazione proposta da Lodovico» (StI I, iii, p. 20), «il temperamento della quale [scil. città] soleva essere il fondamento 101  Nella Storia d’Italia i nessi relativali assumono diverse forme, funzioni e disposizioni; tra le più frequenti: i) il relativo al seguito di un nome proprio (dove interviene talvolta la coniunctio relativa): «Ma Ferdinando, il quale considerava» (StI I, v, p. 48), «Verginio Orsino, la cui durezza» (StI I, v, p. 41), «Lodovico Sforza, del quale fu proprio» (StI I, ii, p. 13), «Né Ferdinando, contro il quale tali cose si macchinavano» (StI I, v, p. 38); ii) relativo all’inizio del periodo; iii) coniunctio relativa nelle sue diverse realizzazioni: «Nelle quali pratiche vedendosi che Piero de’ Medici perseverava» (StI I, iii, p. 19), «Sopra il quale processo [...] gli furono aboliti [...] gli ordini sacri» [StI III, xv, p. 336]; iv) vari modi della ripresa parziale coinvolgenti il relativo.

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la prosa del cinquecento principale della sua sicurtà» (StI I, iii, p. 19), «Alla quale esposizione avevano [...] risposto» (StI I, vi, p. 59), «Nel quale tempo Alfonso e Piero de’ Medici [...] s’ingegnorono di inganare Lodovico Sforza» (StI I, viii, p. 72). «Le quali cose mentre che da ogni parte di sollecitano» (StI I, vii, p. 62). In quest’ultimo es. il relativo funge da incapsulatore riassuntivo; costrutto che si alterna con una variante priva di relativo: «Cose tutte contrarie nella milizia italiana» (StI I, xi, p. 85).

Mutuata dal latino, la coniunctio relativa è stata rifunzionalizzata e adattata a nuovi cotesti; alla sua espansione cinquecentesca corrisponde la contemporanea riduzione di usi sinttatici “popolari”, presenti nella prosa del xv sec.: si pensi all’omissione di che relativo e di che complementatore. Entrambi i fenomeni hanno nella Storia una diπusione assai ridotta. I casi di omissione del relativo riguardano soprattutto il nesso “quello (che)”: «Piero [...] si partì dal re, sotto colore di andare a dare perfezione a quello gli aveva promesso» (StI I, xv, p. 101), «recusava di concedere a Carlo Castel Sant’Angelo per assicurarlo di quello gli promettesse» (StI I, xvii, p. 117), «non era da confidarsi di loro se non davano sicurtà bastante di osservare quello promettessino» (StI III, xiii, p. 320), «con la quietazione di tutto quello gli dovessino per il tempo passato» (StI VIII, xi, p. 797), «ottenendo più di quello desiderava» (StI VI, iv, p. 555), «mostrando non tenere conto di quello gli era ricordato» (StI XI, ii, p. 1074), «temendo di loro per essere più grossi di quello gli era stato referito» (StI XIV, xiv, p. 1471), «confortandogli a pigliare gli accordi potevano» (StI XX, i, p. 2040).

Come appare, nei primi tre ess. (p. 101, p. 117, p. 320) il fenomeno dell’omissione avviene in un cotesto fisso, in cui il relativo in questione è oggetto del verbo promettere. La circostanza ripropone il problema delle frasi fatte o espressioni quasi-formulari che finiscono con l’imporre usi sintattici particolari. In quale misura le scelte sintattiche sono condizionate dal semantismo? In quale misura subiscono l’influsso di tradizioni discorsive? Sono domande necessarie per comprendere il meccanismo con cui si producono fenomeni di questo tipo. Negli altri ess. si hanno circostanze in parte diverse; in due di essi sussiste la struttura con dimostrativo: «più di quello desiderava» (p. 555), «di quello gli era ricordato» (p. 1074); l’ultimo es. è privo di dimostrativo e corrisponde a un tipo diπuso nei secoli precedenti: «gli accordi potevano» (p. 2040). La prosa colta cinquecentesca si distingue per l’alta frequenza del relativo il quale; il fenomeno ha un precedente nella prosa umanistica, nella quale si rivela essere un aspetto sensibile del latineggiamento. L’uso del che relativo si riduce a due ruoli: i) che relativizzatore di pronomi: quello che, quegli che, ognuno che, colui che, coloro che e ii) che introduttore di relative restrittive: «e gli anni che a quello e prima e poi furono congiunti» (StI I, i, p. 6), «tutti gli instrumenti i quali nella oppugnazione delle terre avevano, con tanta fama di Archimede e degli altri inventori, usati gli antichi» (StI I, xi, p. 84: rel. restrittiva introdotta da i quali). Spesso appaiono in prossimità relative aventi diverse funzioni; nel passo che segue, tratto dal discorso di Carlo da Barbiano al re di Francia, a una relativa restrittiva ne segue una di collegamento: Così con somma facilità arete recuperato al sangue vostro uno regno, che, se bene non è da agguagliare alla grandezza di Francia, è pure regno amplissimo e ricchissimo, ma da apprezzare molto più per il profitto e per i comodi infiniti che ne perverranno a questo reame: i quali racconterei tutti, se non fusse notorio che maggiori fini ha la generosità franzese (StI I, iv, p. 31). 102  

102

  La medesima successione di relative appare in: «il desiderio che si credeva che avesse il senato

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Della relativa restrittiva, meno frequente di quella esplicativa e costruita di norma con il congiuntivo, consideriamo due esempi: «Considerava [...] sospetta ogni cosa, pieno il regno quasi tutto o di odio grande contro il nome aragonese o di inclinazione non mediocre a’ rebelli suoi, del resto, la maggiore parte cupida per l’ordinario di nuovi re, e nella quale avesse a potere più la fortuna che la fede, ed essere maggiore la riputazione che il nervo delle sue cose» (StI I, v, p. 40); «onde meritamente dubitava dovere essere del medesimo valore la fede che e’ ricevesse dal re che quella che il re aveva ricevuta da lui» (StI I, xvii, 4, p. 115). 103  

Il primo passo è costituito da un brano di oratio obliqua, in cui si manifestano i timori di Ferdinando d’Aragona; nel secondo i timori del pontefice generano un’e√cace comparazione di reciproci inganni. Appare evidente che in questi casi le relative concorrono a costruire periodi sintatticamente compatti, nonostante che in essi ricorrano parentesi e precisazioni. Quando è posposta a una frase contenente il tema, la coniunctio relativa serve a introdurre un giudizio su quanto precede, riassumendone, al tempo stesso, la linea espositiva: Ma si movevano [scil. Milano, Venezia e il pontefice] principalmente per la cupidità d’insignorirsi di Pisa; alla quale preda, disegnata molto prima da Lodovico, incominciavano medesimamente a volgere gli occhi i viniziani, come quegli che per essere dissoluta l’antica unione degli altri potentati e indebolita una parte di coloro che solevano opporsegli, abbracciavano già co’ pensieri e con le speranze la monarchia d’Italia: alla quale cosa pareva che fusse molto opportuno il possedere Pisa (StI III, i, p. 239).

Il costrutto appare due volte a breve distanza (particolarità non rara nella Storia): alla quale preda riprende e definisce il fine dell’azione militare progettata ai danni di Pisa, alla quale cosa è un connettore generico che riassume il sintagma nominale precedente; i connettori relativali alla quale cosa, della quale cosa, nella quale cosa ricorrono più volte nella Storia e in vari cotesti. 7. 4. Le proposizioni avverbiali Di questo ampio settore della sintassi del periodo esaminiamo quegli aspetti formali, semantici e pragmatici che maggiormente caratterizzano la Storia d’Italia. La collocazione delle varie componenti nell’ambito del periodo risponde agli intenti di una prosa che si caratterizza per l’impegno conoscitivo, il tono oratorio e la capacità di adattarsi alle esigenze del cotesto. L’uso dei modi e dei tempi verbali è spesso in rapporto con le tecniche dell’argomentare messe in atto dall’autore: è una parte dell’analisi che richiede confronti e comparazioni. Ciò vale anche per le avverbiali, da una parte, le relative e le proposizioni implicite (participiali e gerundiali), dall’altra. La notevole varietà di tipi con cui le avverbiali si presentano nella Storia è un fattore distintivo di questo capolavoro della prosa cinquecentesca. viniziano che si scompigliasse quella confederazione per la quale era stata fatta molti anni opposizione a’ disegni suoi» (StI I, iii, p. 20). 103   È utile un confronto con le relative restrittive presenti nell’it. ant.: per le quali v. De Roberto (2010: 373-499). Anche nelle Istorie di Machiavelli le relative appositive prevalgono sulle restrittive (Rigon 2007: 116). Sulle relative restrittive v. Kleiber (1987).

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la prosa del cinquecento 7. 4. 1. Causalità

«La Storia d’Italia è una complessa e vastissima rete di cause ed eπetti». 104 La causale è uno strumento privilegiato dell’argomentare di Guicciardini; si distingue dalle altre proposizioni avverbiali per l’alta frequenza e per la posizione di rilievo che occupa nel periodo. La causalità, esigenza enunciativa primaria per lo scrittore, diventa spesso il centro in cui convergono la rappresentazione e la spiegazione degli eventi narrati. Gli strumenti della causalità (congiunzioni e connettori) appaiono spesso evidenziati dalle correlazioni: Ma ... Perché ... Perché ... All’inizio dell’opera Guicciardini espone le cause della rovina dell’Italia. Due causali perché estese spiegano come la catastrofe sia apparsa tanto più grave, in quanto si è verificata all’improvviso e subito dopo un periodo di pace prosperosa. Carattere essenziale dell’opera è un argomentare continuamente sorretto da comparazioni, precisazioni e chiarimenti:  

Ma le calamità d’Italia (acciocché io faccia noto quale fusse allora lo stato suo, e insieme le cagioni dalle quali ebbeno l’origine tanti mali) [finale] cominciorono con tanto maggiore dispiacere e spavento negli animi degli uomini quanto [comparativa] le cose universali erano allora più liete e più felici. Perché manifesto è che, dappoi che lo imperio romano, indebolito principalmente per la mutazione degli antichi costumi, cominciò, già sono più di mille anni, di quella grandezza a declinare alla quale con maravigliosa virtù e fortuna era salito, non aveva giammai sentito Italia tanta prosperità, né provato stato tanto desiderabile quanto era quello [comparativa] nel quale sicuramente si riposava l’anno della salute cristiana mille quattrocento novanta, e gli anni che a quello e prima e poi furono congiunti. Perché, ridotta tutta in somma pace e tranquillità, coltivata non meno [comparativa] ne’ luoghi più montuosi e più sterili che nelle pianure e regioni sue più fertili, né sottoposta a altro imperio che de’ suoi medesimi, non solo era abbondantissima d’abitatori, di mercatanzie e di ricchezze; ma illustrata sommamente dalla magnificenza di molti prìncipi, dallo splendore di molte nobilissime e bellissime città, dalla sedia e maestà della religione, fioriva d’uomini prestantissimi nella amministrazione delle cose publiche, e di ingegni molto nobili in tutte le dottrine e in qualunque arte preclara e industriosa (StI I, i, p. 5).

Se le due causali costituiscono la spina dorsale del passo, le tre comparative ne assicurano la strutturazione, alla quale collaborano le incidentali strategicamente collocate, le strutture binarie, le dittologie, un ordine delle componenti modellato sul latino. Collocata dopo la principale, in coda al periodo, la causale perché si abbina non di rado con un complemento di causa: Assentì a questo disegno il pontefice [...] né contradisse il duca di Milano, non gli parendo potere fare fondamento o intelligenza stabile con quella città per il disordine del presente governo, se bene da altra parte non gli piacesse il ritorno di Piero, sì per le oπese fattegli come perché dubitava non avesse a dipendere tropo dall’autorità de’ viniziani (StI III, xiii, p. 321).

La correlazione sì ... come, che opera l’abbinamento, è l’espressione di una ricorrente tendenza binaria che appare tra l’altro nelle causali dilemmatiche: «Ferdinando [...] desiderava che Italia non si alterasse; o perché [...] dubitasse [...] o perché [...] co104   Cfr. Lugnani Scarano, in Guicciardini, Opere, iii (1981: 48). Cfr.: M. Barbera, in GIA (2010: 973-1014); G. Frenguelli, in SIA (2012: 308-337); G. Giusti, in GGIC, ii (20012: 738-751).

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noscesse [...]» (StI I, i, p.7). 105 Nel Principe la struttura dilemmatica è più frequente, perché è l’espressione di una dinamicità stilistica ignota a Guicciardini, campione del ragionamento ricco di circostanze e di precisazioni. 106 In eπetti, qui si procede per gradi, dopo una riflessione attenta ai particolari. Poste di seguito, due causali 107chiariscono gradualmente (la seconda introdotta da imperocché sembra avere più forza della prima) i motivi del crescere dell’opposizione al duca:  





Sollevorno questi nuovi consigli non mediocremente gli animi di tutta Italia, poiché il duca di Milano rimaneva separato da quella lega, la quale più di dodici anni aveva mantenuta la sicurtà comune, imperocché in essa espressamente si proibiva che alcuno de’ confederati facesse nuova collegazione senza consentimento degli altri (StI I, iii, p. 22).

In altri passi imperocché all’inizio del periodo ha una maggiore forza pragmatica, soprattutto quando introduce un’interrogativa: Imperocché quale maggiore felicità può avere principe alcuno che le deliberazioni dalle quali risulta la gloria e la grandezza propria siano accompagnate da circostanze e conseguenze tali che apparisca che elle si faccino non meno per beneficio e per salute universale, e molto più per l’esaltazione di tutta la republica cristiana? (StI I, iv, p. 32).

La causale esplicita, usata come parentetica, chiarisce circostanze, introduce riflessioni, spiega il verificarsi degli eventi: «Ma soprattutto gli accresceva la molestia il non si potere più dubitare che gli Aragonesi e Piero de’ Medici, poi che in opere tali procedevano unitamente, non avessino contratta insieme strettissima congiunzione» (StI I, iii, p. 17). La causale infinitiva appare per lo più come incidentale e ha un’estensione contenuta; si associa non raramente con un complemento causale: «[scil. il re] compose le diπerenze che aveva con Ferdinando e con Isabella, re e reina di Spagna, prìncipi in quello tempo molto celebrati e gloriosi per la fama della prudenza loro, per avere ridotti di grandissime turbolenze in somma tranquillità e ubbidienza i regni suoi, e per avere nuovamente, con guerra continuata dieci anni, recuperato al nome di Cristo il reame di Granata, stato posseduto da’ mori di Aπrica poco manco di ottocento anni» (StI I, v, p. 43); «Per i quali apparati, e per avere seco i fuorusciti, si era mossa da Napoli con grande speranza della vittoria» (StI I, viii, p. 67).

La gerundiale causale ricorre non raramente prima della proposizione principale; talvolta si associa a un’altra gerundiale e insieme avviano uno svolgimento narrativo: «E avendosi egli nuovamente congiunto con parentado, e ridotto a prestare fede non mediocre a’ consigli suoi Innocenzo ottavo pontefice romano, era per tutta Italia grande il suo nome, grande nelle deliberazioni delle cose comuni l’autorità. E conoscendo che alla republica fiorentina e a sé proprio sarebbe molto pericoloso se alcuno de’ maggiori potentati ampliasse più la sua potenza, procurava con ogni studio che le cose d’Italia in modo bilanciate si mantenessino che più in una che in un’altra parte non pendessino» (StI I, i, p. 6), «La quale pratica, piena di molte di√coltà e concorrendovi diversi fini e interessi, fu per molti mesi trattata variamente» (StI IV, 105   Cfr. M. Mazzoleni, Dalla comparazione di analogia alla casualità: ‘(Sì) come’ e ‘siccome’ tra il Duecento e la lingua di oggi, in “SLI”, xxxvii, 2, 2011: 232-249. 106   Anche nei Ricordi abbondano i «soliti perché guicciardiniani» (Fubini 1941: 184), ma nella Storia il contesto e l’ambientazione di questo tipo sintattico sono diversi. 107   Per alcuni testi Colussi (2014: 125-126) parla di una «serie graduata di causali».

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la prosa del cinquecento v, p. 369) ; «e il capitano della fortezza che era medesimamente capitano della terra, gentiluomo viniziano, fatto prigione, fu per comandamento del re insieme col figliuolo a’ merli medesimi impiccato: inducendosi il re a questa crudeltà acciò che quegli che erano nella fortezza di Cremona, spaventati per questo supplicio, non si difendessino insino all’ultima ostinazione» (StI VIII, v, p. 753).

Si ritrovano esempi della relativa come colui (quello) che, costrutto causale presente nella narrativa trecentesca: «incominciavano medesimamente a volgere gli occhi i viniziani, come quegli che [...], abbracciavano già co’ pensieri e con le speranze la monarchia d’Italia» (StI III, i, p. 239), «[scil. il conte di Gaiazzo] cominciò, come colui che desiderava, la prima cosa, insignorirsi del porto [...], a battere con molti cannoni il Magnano (StI III, x, p, 302). 7. 4. 2. Consecutività La causalità testuale è rappresentata dalle causali in modo regressivo, in modo progressivo dalle consecutive; 108 queste ultime, a diπerenza delle prime, si collocano sempre dopo la proposizione principale. L’antecedente delle consecutive è costituito da un sintagma aggettivale o nominale, accompagnato da un elemento correlativo (tanto, sì, così): «Lorenzo de’ Medici, cittadino tanto eminente sopra ’l grado privato nella città di Firenze che per consiglio suo si reggevano le cose di quella republica» (StI I, i, p. 6), «Scusavasi e√cacissimamente Ferdinando di non potere piegare a questo il Vincola, insospettito tanto che qualunque sicurtà gli pareva inferiore al pericolo» (StI I, v, p. 49), «volavano con sì orribile tuono e impeto stupendo per l’aria le palle, che questo instrumento faceva [...], ridicoli tutti gli instrumenti» (StI I, xi, p. 84), «si erano rassicurati tanto che la sera medesima della giornata ebbono qualche ragionamento» (StI II, ix, p. 198). Meno frequente è la consecutiva costruita con il congiuntivo: «nella quale domanda il re, desideroso di compiacergli, ma non tanto che totalmente ne dispiacesse a Lodovico, gli sodisfece più dell’eπetto che del modo» (StI I, ii, p. 14). Il quantificatore talmente che evidenzia il rapporto consecutivo e si ritrova in vari cotesti, ma sempre in una posizione di evidenza; nel primo dei passi qui sotto citati si nota la presenza di un’infinitiva dopo la subordinata di modo finito preceduta dalla congiunzione consecutiva:  

«[scil. i fiorentini], i quali gli avevano retti con giustizia e con mansuetudine, e trattati talmente che sotto loro non era Pisa diminuita né di ricchezze né d’uomini; anzi avere con grandissima spesa ricuperato da’ genovesi il porto di Livorno» (StI II, i, p. 140); «[scil. Guidantonio Vespucci] aπermava la volontà di Dio essere che e’ s’ordinasse uno governo assolutamente popolare, e in modo che non avesse a essere in pote108   Cfr.: L. Zennaro, in GIA (2010: 1094-1107); G. Frenguelli, in SIA (2012: 338-359); G. Giusti, in GGIC, II (20012: 825-832). Delle consecutive coordinate, nelle quali il rapporto di consecuzione è rappresentato da congiunzioni, come allora, dunque, quindi, perciò, non si parla in questo paragrafo; alcuni cenni si trovano nei punti in cui si analizzano queste congiunzioni. Talvolta il significato consecutivo della subordinata dipende soltanto dalla semantica del verbo reggente; ciò accade, per es., con un antecedente costituito dal verbo aspettare, verbo che comprende un significato consecutivo-finale: «Imperocché alla fine del mese di maggio il re, quando ciascuno aspettava che non molto poi si movesse per passare in Italia, deliberò di andare a Parigi» (StI III, vi, p. 277), «Assentì finalmente Gurgense, con intenzione che ’l vescovo di Parigi, aspettando a Parma che partorisse l’andata sua [= che il suo viaggio a Roma portasse frutti, Seidel Menchi, ivi], vi andasse anch’egli, se così piacesse al suo re, di andare al pontefice» (StI IX, xv, p. 919).

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stà di pochi cittadini alterare né la sicurtà né la libertà degli altri: talmente che, congiunta la riverenza di tanto nome al desiderio di molti, non potettono quegli che sentivano altrimenti resistere a tanta inclinazione» (StI II, ii, p. 151); «Sopra che poi che si fu disputato alcuni dì, furono condotti a Baia, simulando Ferdinando di volergli lasciare partire: dove, sotto colore che ancora non fussino a ordine i legni per imbarcargli, furno sopratenuti tanto, che sparsi tra Baia e Pozzuolo, per la mala aria e per molte incomodità, cominciorno a infermarsi; talmente che e Mompensieri morì, e del resto della sua gente, che erano più di cinquemila uomini, ne mancorno tanti che appena se ne condusseno cinquecento salvi in Francia» (StI III, vii, p. 285).

Talvolta la consecutiva s’inserisce in un’altra avverbiale; nel passo che segue l’inserimento avviene in una temporale terminativa insino a tanto che: «[scil. Ferdinando] non meno mordacemente che argutamente gli rispose, che aspettasse insino a tanto che da sé gli fusse consolidato talmente il regno che egli non avesse un’altra volta a fuggirsene» (StI II, x, p. 211). La consecutiva in modo che evidenzia il modo in cui si verifica una conseguenza: «[scil. gli aragonesi] dettono più ore invano la battaglia, in modo che, perduta la speranza di espugnarla, si ritirorno nel porto di Livorno» (StI I, viii, p. 68), «sorse uno grave mormorio per tutta la corte [...] in modo che non solo si contradicevano audacemente [...] quegli che avevano sempre dannata questa impresa; ma alcuni di coloro che ne erano stati principali confortatori» (StI I, ix, p. 75), «La città di Siena [...] si governava per se medesima, ma in modo che conosceva più presto il nome della libertà che gli eπetti» (StI I, xvii, p. 112).

Vediamo un passo in cui il rapporto consecutivo è espresso in due proposizioni tra loro coordinate, la prima introdotta da donde, la seconda (che approfondisce la circostanza enunciata dalla prima) da in modo che: [scil. Piero dei Medici] discostatosi in molte cose dai costumi civili e dalla mansuetudine de’ suoi maggiori: donde quasi insino da puerizia era stato sempre odioso all’universalità de’ cittadini, e in modo che è certissimo che il padre Lorenzo, contemplando la sua natura, si era spesso lamentato con gli amici più intimi che l’imprudenza e arroganza del figliuolo partorirebbe la ruina della sua casa (StI I, xiv, p. 97). 109  

Le consecutive senza antecedente non sono numerose; prevalgono quelle nelle quali la principale ha forma negativa: «Non assaltarono giammai il reame di Napoli i piccoli duchi d’Angiò che non lo riducessino in gravissimo periculo» (StI I, iv p. 30), «non si trovava più luogo niuno che resistesse, niuno più che non cedese all’impeto loro» (StI I, xvii, p. 114). Vediamo un esempio di relativa consecutiva coordinata a un sintagma aggettivale: «però, non avendo modo a fare scopertamente guerra gagliarda e che partorisse rimedi sì subiti, volsono l’animo e i pensieri a opprimere con insidie il pontefice» (StI XVII, xiii, p. 1784). La consecuzione riguarda talvolta il rapporto tra due frasi (o due periodi) separati da una pausa. In questi casi si ricorre sovente ai connettori donde, onde, equivalenti a ‘pertanto, di conseguenza’: Donde: «Alla qual cosa Ferdinando arebbe acconsentito, ma Alfonso repugnò; donde Lodovico, escluso di questa speranza, presa altra moglie e avutine figliuoli, 109   A proposito delle consecutive introdotte da tanto, così, e delle consecutive introdotte da talmente che, Hybertie (1996: 73, 93) parla di “correlazione d’intensità” e, rispettivamente, di “correlazione di maniera e consecuzione”, con conseguente sovrapposizione di valori.

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la prosa del cinquecento voltò tutti i pensieri a trasferire in quegli il ducato di Milano» (StI I, vi, p. 51), «Ma come il re, [...] consentì che in Vercelli entrassino de’ suoi soldati; donde e a lui, per l’opportunità di quel luogo, era accresciuta la speranza di potere, come fussino arrivati tutti suoi sussidi, soccorrere Novara, e i confederati cominciavano a starne con non piccola dubitazione» (StI II, xi, p. 214). Onde: «onde per innumerabili esempli evidentemente apparirà a quanta instabilità, né altrimenti che uno mare concitato da’ venti, siano sottoposte le cose umane» (StI I, i, p. 5), «Così senza investitura continuò Galeazzo suo figliuolo, e continuava Giovan Galeazzo suo nipote: onde Lodovico, in uno medesimo tempo scelerato contro al nipote vivo e ingiurioso contro alla memoria del padre e del fratello morti, aπermando non essere stato alcuno di essi legittimo duca di Milano, se ne fece come di stato devoluto allo imperio investire da Massimiliano» (StI I, v, p. 46).

Le consecutive implicite, non numerose, sono rappresentate da infinitive preposizionali: «si opponevano agli inimici a modo di un muro, stabili e quasi invitti, dove combattessino in luogo largo da potere distendere il loro squadrone» (StI I, xi, p. 86), «né fu la partita vostra da Napoli per fermarsi a fare la guerra nel Piemonte ma per ritornare in Francia, a fine di riordinarvi di danari e di genti, da potere più gagliardamente soccorrere il regno di Napoli» (StI II, xii, p. 229), «oπerendo finalmente, per maggiore dichiarazione dell’animo loro, che se da lui si dimostrasse qualche modo da potere, fuggendo tanto danno, sodisfare al desiderio suo sarebbeno parati a eseguirlo» (StI IV, viii, p. 396). Ecco un esempio di consecutiva implicita introdotta da un reggente verbale: «non poteva mancare di non favorire la impresa del pontefice» (StI V, xi, p. 502). Di uso frequente nella Storia, le consecutive, nelle loro varie forme, partecipano alla costruzione di frasi e di periodi di varia ampiezza. Rappresentano la fase avanzata di un processo, iniziato agli inzi della nostra letteratura, quando le consecutive – le subordinate più frequentemente usate, nella prosa e soprattutto nei versi – esprimevano un rapporto ipotattico debole, un modo per sottrarsi alla prevalente paratassi. Nella prosa della Scolastica e umanistica le consecutive diventeranno strumenti dell’argomentare e della logica; il Rinascimeno segna il consolidarsi di questa tendenza. 7. 4. 3. Concessività Le concessive compaiono quando all’esposizione dei fatti seguono commenti, confronti con altri fatti, ragionamenti e previsioni, quando alle obiezioni si oppongono correzioni e repliche. Le concessive aprono alla gara tra la doxa e l’episteme, tra l’opinione dei molti e quella che si ritiene la conoscenza autentica. La doxa possiede un valore di probabilità, non di verità, e quindi si pone a fondamento della verosimiglianza e del plausibile. 110 Prima di aπrontare la descrizione dei vari tipi di concessive, notiamo due caratteri “in negativo”: nella Storia non si ritrova tamen, congiunzione tipica del linguaggio cancelleresco, usata di frequente nel Principe e in pochi casi nei Discorsi; di avvenga che (non avegna che) si hanno due soli 110   Concessive, cfr.: GIA (2010: 1043-1065), concessive fattuali (M. Barbera), (ivi: 1065-1077) condizionali concessive (M. Mazzoleni); (ivi: 1077-1086) costrutti a-condizionali (M. Mazzoleni); SIA (2012: 413-420), concessive (I. Consales); GGIC, ii (20012: 784), concessive (M. Mazzoleni). «Se nei Ricordi dominano le causali nella Storia d’Italia prevalgono le concessive»; questo iter è giudicato «un atto di grande coraggio» (Pozzi 1975: 67, 71). Cfr. Lausberg (1960: § 856, concessio); per il concetto di doxa, v. Amossy (2014: 113).

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esempi. 111 Guicciardini attribuisce una particolare importanza all’espressione della concessività: in eπetti, molte argomentazioni privilegiano questo rapporto ragionativo, che ricorre con una frequenza più alta rispetto agli scritti di Machiavelli. 112 Nell’individuare i vari tipi e sottotipi di concessive ci fondiamo in prima istanza su un criterio formale, distinguendo tra le diverse congiunzioni: ancora che, benché, se bene, con tutto che, pure che, quando pure; questi tipi di proposizioni si costruiscono con il congiuntivo. Ancora che: con le sue 123 occorrenze è uno dei tipi più frequenti; precede di norma la principale, introdotta spesso dall’elemento avversativo nondimeno; ne nasce uno schema correlativo che ricorre sovente nella Storia: 113 «Non è dubbio che ’l re, per l’opposizione che gli era stata fatta, aveva contro al nome fiorentino grandissimo sdegno e odio conceputo; e ancora che e’ fusse manifesto non essere proceduta dalla volontà della republica, e che la città se ne fusse seco diligentissimamente giustificata nondimeno non ne restava con l’animo purgato» (StI I, xvi, p. 106), «E’ sarebbe certamente, prestantissimi cittadini, molto facile a dimostrare che, ancora che da coloro che hanno scritto delle cose civili il governo popolare sia manco lodato che quello di uno principe e che il governo degli ottimati, nondimeno, che per essere il desiderio della libertà desiderio antico e quasi naturale in questa città, e le condizioni de’ cittadini proporzionate all’egualità, fondamento molto necessario de’ governi popolari, debba essere da noi preferito senza alcuno dubbio a tutti gli altri» (StI II, ii, p. 143: discorso di P. A. Soderini). Benché: ha una diπusione ridotta, rispetto ad altri testi dell’epoca; appare esclusivamente nelle concessive-fattuali (Elgenius 2000: 90-91) e nelle incidentali; la reggente posposta presenta talvolta nondimeno. Notiamo alcune varianti contestuali. Con ellissi del verbo: «Ma essendo già incominciata, benché da principio con autori incerti, a risonare in Italia la fama di quello che oltre a’ monti si trattava, si destorono vari pensieri e discorsi nelle menti degli uomini» (StI I, v, p. 38). Correlazione benché ... nondimeno: «E in Francia benché molti credessino che, per l’incapacità del re e per le piccole condizioni di quegli che ne lo confortavano e per la carestia de’ danari, avessino finalmente questi apparati a diventare vani; nondimeno per l’ardore del re [...] si attendeva ferventemente alle provisioni della guerra» (StI I, vii, p. 60). Il correlativo nondimanco (frequente nel Principe) si presenta con tre occorrenze: «Il quale odio benché si fusse conosciuto molto innanzi potere partorire qualche grande alterazione, nondimanco non si erano però né allora astenuti da abbracciare l’occasioni che se gli oπerivano» (StI VIII, i, p. 730). Con ciò sia che: il suo uso limitato dipende dal possedere anche un valore causale: «né si credeva che il pontefice, ancora che gli fusse molestissimo, recusasse di  





111   Cfr.: «Alla venuta del Triulzio si pose, per gli stimoli del senato, il campo a Brescia; avvenga che l’espugnazione senza l’esercito franzese paresse molto di√cile» (StI XII, xvii, p. 1258), «Premevagli [= li opprimeva], oltre a questo, che nelle case proprie erano costretti, secondo l’uso di Francia, alloggiare continuamente gli u√ciali e i soldati franzesi; il che se bene non fusse con loro spesa, nondimeno, essendo cosa perpetua, era di somma incomodità e molestia: e avvenga che questo peso medesimo sostenessino al tempo del re passato, il quale, scusando con l’esempio della città di Parigi, non aveva mai voluto concederne grazia a’ milanesi, nondimeno, accompagnato da’ mali già detti, pareva al presente più grave» (StI XIV, iii, p. 1401). 112   Ho presenti i risultati cui sono pervenute le ricerche di Consales (2005) e di Elgenius (2000), il quale tuttavia, tra gli autori del sec. xvi esaminati, non comprende Guicciardini. 113   Nella prosa dei primi secoli il sottotipo ancora che non raggiungeva un’alta frequenza. La successione di ancora e di che appare anche in altri cotesti e non ha valore concessivo: «ma quegli ancora che [= anche quelli che] già erano entrati nel fatto d’arme, vedendo i compagni suoi ritornarsene agli alloggiamenti carichi di spoglie, incitati dalla cupidità del guadagno, si voltorono a rubare i carriaggi» (StI II, ix, p. 194).

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concedere che per mano di legati apostolici Cesare ricevesse in Germania in suo nome la corona dello imperio, con ciò sia che lo andare a incoronarsi a Roma, se bene con maggiore autorità della sedia apostolica, fusse per ogn’altro rispetto più presto cerimonia che sostanzialità» (StI XIII, xi, p. 1354: si noti la presenza di due concessive), «ma Giulio ebbe molte condizioni diverse da quello che prima era stato creduto di lui: con ciò sia che e’ non vi fusse né quella cupidità di cose nuove né quella grandezza e inclinazione di animo a fini generosi e magnanimi che prima era stata l’opinione, e fusse stato più presto appresso a Lione esecutore e ministro de’ suoi disegni che indirizzatore e introduttore de’ suoi consigli e delle sue volontà» (StI XVI, xii, p. 1668: da con ciò sia cosa che dipendono due concessive). 114 Con tutto che: si presenta con 90 occorrenze; per lo più posposta alla principale: «Concorreva nella medesima inclinazione della quiete comune Ferdinando d’Aragona [...] con tutto che molte volte per l’addietro avesse dimostrato pensieri ambiziosi e alieni da’ consigli della pace, e in questo tempo fusse molto stimolato da Alfonso duca di Calavria suo primogenito» (StI I, i, p. 7), «passorno quasi fuggendo per la via de’ monti, via molto aspra e di√cile, in valle di Pozzeveri, che è all’altra parte della città; donde, con tutto che di paesani e di genti mandate in loro favore dal duca di Savoia molto ingrossati fussino, s’indirizzorono con la medesima celerità verso il Piemonte» (StI II, ix, p. 201). Pure che: si presenta, con 41 occorrenze; la prop. è per lo più posposta alla principale: «Alle quali cose il re rispose con gratissime parole accettando l’oπerte de’ capuani e de’ soldati, e la venuta eziandio di Ferdinando, pure che e’ sapesse non avere a ritenere parte alcuna benché minima del reame di Napoli ma a ricevere stati e onori nel regno di Francia» (StI I, xix, p. 126: ‘sebbene sapesse, anche se sapeva’), «voleva non manco che gli altri stare a sua ubbidienza e divozione, pure che da lui gli fusse conceduta qualche parte del reame» (StI II, iii, p. 155). Quando pure: le 19 occorrenze di questo tipo si ritrovano per lo più in strutture complesse: «e quando pure per qualche giusta causa impediti fussino, concedessino almanco passo e vettovaglia per il dominio loro, a spese dell’esercito franzese» (StI I, vi, p. 54), «Da altra parte si facevano innanzi i franzesi, pieni di arroganza e d’audacia, come quegli che, non avendo trovato insino ad allora in Italia riscontro alcuno, si persuadevano che l’esercito inimico non s’avesse a opporre, e quando pure s’opponesse avere senza fatica a metterlo in fuga: tanto poco conto tenevano dell’armi italiane» (StI II, viii, p. 186), «e quando pure potessino farlo, sarebbe con tanta diminuzione della reputazione » (StI VIII, iv, p. 744). Quantunque: si distinguono due usi, come modificatore di aggettivi: «è [...] pericolosissimo ogni quantunque minimo movimento» (StI I, x, p. 80), «perché nello animo tanto feroce non era incredibile concetto alcuno quantunque vasto e smisurato» (StI XI, viii, p. 1115) e, come incidentale, in periodi di una certa complessità: «altri, discorrendo più sottilmente, interpretavano potere per avventura essere che il pontefice, quantunque il re cattolico gli protestasse d’abbandonarlo e richiamasse le sue genti, confidasse che egli, considerando quanto nocerebbe a sé proprio la sua depressione, avesse sempre ne’ bisogni maggiori a sostenerlo» (StI IX, xvi, p. 924). Se bene: con le sue 131 occorrenze è il tipo pù frequente; precede la principale, ma  

114  Cfr. con ciò sia che causale: «Perché in Napoli augumentava giornalmente la carestia, massime di vino e di carne, non vi entrando più per mare cosa alcuna; con ciò sia che le galee de’ viniziani, in numero ventidue, fussino, pure dopo sì lunga espettazione, giunte a’ dieci dì di giugno nel golfo di Napoli» (XIX, iii, p. 1949); su questo tipo di causali v. Frenguelli (2002a: 416); con ciò sia che «nel Cinquecento diventa abbastanza frequente con valore causale» (Elgenius 2000: 211).

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talvolta funge da incidentale; nondimeno compare raramente; in un buon numero di casi la concessiva se bene interrompe la causale perché, producendo quell’incrocio di proposizioni avverbiali che ricorre sovente nella Storia (v. qui sotto StI IV, vi, p. 379) e che accresce la carica argomentativa di alcuni passi. Lo stesso eπetto è ottenuto con la presenza, nello stesso periodo, di due concessive (v. es. StI V, xii, p. 515: benché ... se bene); il valore concessivo-fattuale prevale su quello concessivoipotetico (Elgenius 2000: 173-74): «E se bene gli fussino sospetti sempre i pensieri di Ferdinando e di Alfonso d’Aragona, nondimeno [...] si riputava assai sicuro che gli Aragonesi non sarebbono accompagnati da altri a tentare contro a lui quello che soli non erano bastanti a ottenere» (StI I, i, p. 8), «Questa intelligenza, seme e origine di tutti i mali, se bene da principio fusse trattata e stabilita molto segretamente, cominciò quasi incontinente, benché per oscure congetture, a essere sospetta a Lodovico» (StI I, ii, p. 13), «Donde che di√coltà fussino per nascere, essendo congiunti i viniziani e Lodovico, dimostrarsi, se non per altro, per la esperienza degli anni passati; perché se bene nella lega fatta contro a Carlo fusse concorso il nome di tanti re, nondimeno le forze solamente de’ viniziani e di Lodovico avergli tolto Novara, e difeso sempre contro a lui il ducato di Milano» (StI IV, vi, p. 379). Le concessive sono uno dei fattori principali della complessità periodale, come risulta dalla loro ampiezza e dalla capacità d’inserirsi in altre avverbiali. 7. 4. 4. Finalità 115  

Una qualità attiva è presentata, nelle causali, dall’evento causante; nelle finali dall’eπetto, il quale spiega il verificarsi di una causa. Nella Storia le finali ricorrono con alta frequenza. 116 In it. ant. i sottotipi più frequenti sono quelli introdotti da: acciò che, perché, che, a√nché; vi sono poi il costrutto “per + SN + che” e le finali implicite “per + infinito” e “a + infinito”. La situazione presente nella Storia è in parte diversa: non vi sono causali a√nché; la finalità si esprime mediante alcune congiunzioni che, con un diverso cotesto, introducono il rapporto di consecuzione; ciò accade in particolare con gli introduttori di una maniera / di un modo tale che; d’altra parte, con gli introduttori sì ... che, tanto ... che, tale ... che si ha una correlazione tra intensità e consecuzione; sì può correlare intensità e comparazione o intensità e concessione; tanto e tale si riferiscono al primo di questi due tipi. 117 Acciò che (80 occorrenze), acciocché (37 occorrenze); appaiono per lo più dopo la principale; meno frequentemente la precedono o si pongono come incidentali; si ha il congiuntivo imperfetto, quando la principale possiede l’indicativo imperfetto o passato remoto: «si sforzava di tenergli addormentati in questa speranza, acciocché, innanzi che le cose di Francia fussino bene ordinate e stabilite, contro a lui qualche  



115   Cfr.: M. Pantiglioni, in GIA (2010: 1086-1094); G. D’Arienzo/G. Frenguelli, in SIA (2012: 360380); M. Bertuccelli Papi, in GGIC ii (20012: 818- 825). Fondamentale è la monografia di Prandi/ Gross/De Santis (2005). Nell’it. mod. M. Prandi (2010), “Finalità, espressione della”, in EncItaliano, i (2010: 466-468) distingue tra finali tipiche e atipiche, esplicite e implicite. «Mentre la causa ha una temporalità semplice (la causa precede necessariamente l’eπetto), il fine ha una temporalità complessa e stratificata, divisa tra la sfera esterna e quella interna. [...] La sfera interna del soggetto presenta un’impressionante ricchezza di atteggiamenti e di sfumature» (ivi: 466). 116   Occuperebbero il secondo posto dopo le causali, secondo Rigon (2007: 113): dopo le causali, «seguono in ordine di frequenza le finali (circa la metà delle causali), più nella forma implicita infinitiva che in quella esplicita, e con presenza quasi paritetica le temporali e le modali, le prime in entrambe le forme, le seconde quasi esclusivamente nella forma di implicite gerundive. Altri tipi di subordinate come le condizionali, le concessive, le comparative si incontrano meno che in posizione interposta». 117   Il sovrapporsi di questi valori è studiato, per il francese, da Hybertie (1996: 103, 113).

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movimento non si facesse» (StI I, v, p. 42), «e acciocché non si ritardasse poi l’esecuzione delle cose deliberate, vi mandò [scil. Alfonso], dando voce fusse chiamato dal re, Galeazzo da San Severino» (StI I, vi, p.53), «fece ammazzare quasi tutti quegli di loro che erano in Bologna; usando per ministri di questa crudeltà, insieme con Ermes suo figliuolo, molti giovani nobili, acciò che per la memoria di avere imbrattate le mani nel sangue de’ Mariscotti fussino, essendo divenuti inimici di quella famiglia, costretti a desiderare la conservazione dello stato suo» (StI V, iv, p. 463), «Lorenzo, acciò che il viceré avesse cagione di partirsi più presto, ritirò a Parma e Reggio le genti che erano a Piacenza» (StI XII, xvi, p. 1252), «ritirati tutti gli altri soldati dalla muraglia, fu lasciata la facoltà di assaltarlo a’ guasconi soli, acciò che soli lo saccheggiassino» (StI XIII, iv, p. 1315). Questa consecutio temporum non è osservata quando la finale appare in forma di incidentale metalinguistica: «Ma le calamità d’Italia (acciocché io faccia noto quale fusse allora lo stato suo, e insieme le cagioni dalle quali ebbeno l’origine tanti mali) cominciorono con tanto maggiore dispiacere e spavento negli animi degli uomini quanto le cose universali erano allora più liete e più felici» (StI I, i, p. 5). In questa occasione non esaminiamo le completive che hanno valore finale: «procurava con ogni studio che le cose d’Italia in modo bilanciato si mantenessino che più in una che in un’altra parte non pendessino» (StI I, i, p. 6: regg.+finale+consecutiva). Perché finale: questa congiunzione, che raggiunge ben 3397 occorrenze, introduce, per lo più una causale; il che conferma la tendenza eziologica dell’opera; soltanto in un numero limitato di casi introduce una finale; la distinzione non è sempre agevole; la finale segue per lo più la principale, più raramente la precede o ha forma di parentetica: «aveva Lodovico Sforza [...] consigliato che tutti gli imbasciadori de’ collegati entrassino in uno dì medesimo insieme in Roma, presentassinsi tutti insieme nel concistorio publico innanzi al pontefice, e che uno di essi orasse in nome comune, perché da questo, con grandissimo accrescimento della riputazione di tutti, a tutta Italia si dimostrerebbe essere tra loro non solo benivolenza e confederazione, ma più tosto tanta congiunzione che e’ paressino quasi un principe e un corpo medesimo» (StI I, ii, p. 13: il condizionale presente rappresenta il futuro del passato), «I Visconti [...] cercorono, secondo il progresso comune delle tirannidi (perché quello che era usurpazione paresse ragione), di corroborare prima con legittimi colori e dipoi di illustrare con amplissimi titoli la loro fortuna» (StI I, v, p. 45: la finale è un’incidentale), «per separare i consigli della republica da’ consigli di Piero, e perché almeno non fusse riconosciuto dal privato quel che al publico apparteneva, gli mandorno subito molti imbasciadori» (StI I, xv, p. 101: una finale implicita e una esplicita sono coordinate tra loro), «ma perché la vittoria non fusse del tutto lieta, quando volleno ritirarsi, Francesco Secco, il quale quella mattina si era unito con Ercole, fu morto da uno archibuso» (StI III, viii, 294: la finale precede la principale), «In contrario, s’aπaticavano scopertamente il pontefice e i svizzeri perché nel grado paterno fusse restituito, come sempre si era ragionato da principio, Massimiliano figliuolo di Lodovico Sforza» (StI XI, ii, 1071). La proposizione segue i due introduttori nominali grammaticalizzati, “SN fine + che + subordinata esplicita” e “SN fine + di + infinitiva” (“a fine di + infinitiva”); questo tipo di finale è posta per lo più dopo la principale: «siamo necessitati (se io non mi inganno) dirizzare tutte le nostre deliberazioni a questo fine: che il ducato di Milano non sia né del re di Francia né dello imperadore (StI XV, ii, p. 1502: congiuntivo presente), «il quale [scil. il re], non partendo dal consiglio del cardinale eboracense, pareva che avesse per fine principale di diventare talmente cognitore delle

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diπerenze tra gli altri prìncipi che tutto il mondo potesse conoscere dependere da lui il momento della somma delle cose» (StI XVI, vi, p. 1632: infinitiva), «tanti altri movimenti, che si erano fatti a questi anni in Italia, non avevano avuto altro fine che il volere che il ducato di Milano fusse di Francesco Sforza, come fondamento necessario alla libertà d’Italia e alla sicurtà universale» (StI XVI, x, p. 1659), «I quali, a fine di interrompere l’acquisto di Pisa e di costrignergli a separarsi dalla confederazione del re di Francia, confortorono Piero de’ Medici che con l’aiuto di Verginio Orsino, [...] tentasse di ritornare in Firenze» (StI III, ii, p. 244). Nell’ultimo es. citato si hanno due finali: in eπetti, il verbo confortare è il reggente di una completiva avente significato finale. Questa caratteristica ricorre anche con i reggenti verbali indurre che e operare che: «Ma Lodovico Sforza [...], dimostrato a Carlo quanto grande impedimento ne risulterebbe a’ disegni suoi, lo indusse a ordinare di mandare a Genova dumila svizzeri e a fare passare subito in Italia trecento lancie» (StI I, vii, p. 63: infinitiva), «e per molti indizi si comprendeva essere il pensiero del re di indurre i fiorentini col terrore delle armi a cedergli il dominio assoluto della città» (StI I, xvi, p 106: infinitiva), «gli aveva fatto oπerire per terze persone di indurre Ferdinando a dargli di presente qualche somma di danari e costituirgli censo di cinquantamila ducati l’anno» (StI III, iii, p. 253: infinitiva), «[scil. il duca di Milano] operò che’l pontefice e gli oratori de’ re di Spagna [...] proponessino che, per levare d’Italia ogni fondamento a’ franzesi e ridurla tutta in concordia, sarebbe necessario indurre i fiorentini a entrare nella lega» (StI III, xiii, p. 319: si noti la presenza di un’altra finale per levare ..., implicita e in forma di parentetica; nella prima parte del periodo vi è una subord. di 2° grado). Un esempio di sintagma nominale avente valore finale è per sicurtà (55 occorrenze), il quale appare dopo la principale: «con patto che i viniziani e il duca di Milano fussino tenuti a mandare subito a Roma, per sicurtà dello stato ecclesiastico e del pontefice, dugento uomini d’arme per ciascuno, e a aiutarlo con questi» (StI I, iii, p. 22), «le genti viniziane, mandate in quello stato solamente per sicurtà e salute sua, non arebbono discrepato dalla volontà de’ suoi capitani» (StI II, ix, p. 199). La finale implicita (“per + infinito”) appare quando vi è coreferenza tra i soggetti della principale e della finale: «il quale [scil. il re], per essere più espedito, compose le diπerenze che aveva con Ferdinando e con Isabella, re e reina di Spagna» (StI I, v, p. 43), «e sopra tutti il siniscalco di Belcari [...] cominciava, secondo le variazioni delle corti, a essere discordante da lui, per la medesima ambizione per la quale, per avere compagnia a sbattere gli altri, l’aveva prima fomentato» (StI II, i, p. 137), «E da altra parte i fiorentini [...] avevano augumentato l’esercito loro, per potere, subito che arrivassino l’espedizioni regie, costrignere i pisani a ricevergli» (StI III, i, p. 240), «[scil. il pontefice] si partì da Bologna per andare all’esercito, a fine di indurre con la presenza sua i capitani a combattere con gli inimici» (StI IX, xvii, p. 928), «né fu la partita vostra da Napoli per fermarsi a fare la guerra nel Piemonte ma per ritornare in Francia, a fine di riordinarvi di danari e di genti, da potere più gagliardamente soccorrere il regno di Napoli» (StI II. xii, p. 229); negli ultimi due ess. si susseguono due tipi di finali “per + inf.” e “a fine di + inf.”. Come appare, l’infinitiva con valore finale ha varia collocazione nel periodo. Ecco un esempio di relativa con valore finale: «Perché quando fu fondata da principio l’autorità popolare non erano stati mescolati quegli temperamenti che [...] impedissino che la republica non fusse disordinata dalla imperizia a licenzia della moltitudine» (StI III, xiii, p. 320). Una delle caratteristiche della sintassi periodale della Storia è l’intreccio di avverbiali diverse; nel passo che segue si allacciano tra loro una finale a fine di e una causale perché; nella parte finale, la conclusione è introdotta da una consecutiva onde:

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la prosa del cinquecento Fu grata questa cosa al pontefice, non a fine di pace o di concordia ma perché, persuadendosi potere disporre il senato viniziano a comporsi con Cesare, sperava che Cesare liberato per questo mezzo dalla necessità di stare unito col re di Francia si separerebbe da lui; onde agevolmente potrebbe contro al re nascere congiunzione di molti prìncipi (StI IX, xv, p. 914).

7. 4. 5. Le proposizioni temporali Non si prendono in considerazione le coordinate che rappresentano una successione temporale di eventi; si analizzano le subordinate che collocano in una dimensione temporale l’evento presentato dalla proposizione principale. 118 I rapporti tra princ. e temp. sono di tre tipi di base: anteriorità, posteriorità, contemporaneità.  

Temporali di anteriorità L’azione espressa dalla reggente è anteriore a quella espressa dalla subordinata; il verbo è al congiuntivo presente se nella principale c’è un tempo presente o futuro, al congiuntivo imperfetto se nella principale c’è un tempo passato. Prima che: si costruisce per lo più con il congiuntivo: «l’Aquila e quasi tutto l’Abruzzi aveva, prima che ’l re partisse di Roma, alzate le sue bandiere» (StI I, xviii, p. 120: nota la concordanza ad sensum e l’uso del pronome sue in luogo di loro), «per giusto giudicio di Dio, concitato per molte loro iniquità e scelerate operazioni, e per le lunghe discordie civili e inimicizie tra essi medesimi, era, [scil. Pisa] molt’anni prima che fusse venduta a’ fiorentini, caduta d’ogni grandezza e di ricchezze e d’abitatori» (StI II, i, p. 140). Un tipo di temporale con l’indicativo è rappresentato da: «non prima arrivò in quella città che, interponendosene Piero, vendé quelle castella per quarantamila ducati a Verginio Orsino» (StI I, iii, p. 15). 119 Innanzi (che) presente con 77 occorrenze, introduce una subordinata al congiuntivo e precede per lo più la principale: «si sforzava di tenergli addormentati in questa speranza, acciocché, innanzi che le cose di Francia fussino bene ordinate e stabilite, contro a lui qualche movimento non si facesse» (StI I, v, p. 42), «E accadde per avventura che, pochi dì innanzi che gli oratori franzesi arrivassino in Firenze, erano venute a luce alcune pratiche» (StI I, vi, p. 57), «essendo re sapientissimo e giustissimo, si rendevano certi non si lascerebbe sollevare da querele e calunnie tanto vane e si ricorderebbe da se stesso quel ch’avesse promesso innanzi che l’esercito suo fusse ricevuto in Pisa, quel che sì solennemente avesse giurato in Firenze» (StI II, i, p. 141), «Ma gli parve necessario, innanzi procedesse più oltre, di essere a parlamento col pontefice» (StI I, vii, p. 64). «[scil. il legato e altri] conchiuseno essere da confortare il pontefice che restituisse i Bentivogli in Bologna innanzi che essi, preso animo  

118   Sulle temporali nell’it. ant. v.: L. Zennaro, in GIA (2010: 954-971); F. Bianco/R. Digregorio, in SIA (2012: 270-307); per l’it. mod. v. G. Giusti, in GGIC, ii (20012: 720-738). 119   S’incontrano espressioni temporali avviate da non prima: «ma la tardità di muoversi del regno e la sollecitudine di Lodovico Sforza aveva fatto che non prima arrivò Ferdinando a Cesena che Obignì e il conte di Gaiazzo [...], entrorono nel contado d’Imola» (StI I, viii, p. 70), «i quali [scil. denari] non prima avuti che, secondo la sua consuetudine, gli spese inutilmente» (StI VIII, vii, p. 764), «Però, non prima che del mese di luglio passorono gli inghilesi il mare; e stati più dì in campagna presso a Bologna, andorono a campo a Terroana» (StI XII, i, p. 1171), «aspettando la maturità dell’erbe per nutrimento de’ cavalli, non solevano uscire alla campagna prima che alla fine del mese di aprile» (StI I, vii, p. 62: si noti il sintagma nominale per nutrimento); «Perché non prima entrato Piero nella amministrazione della republica che [...] si ristrinse talmente con Ferdinando e con Alfonso [...], che ebbe Lodovico Sforza causa giusta di temere» (StI I, ii, p. 12: si noti l’ellissi dell’ausiliare).

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dalla declinazione delle cose o incitati da altri, facessino qualche movimento» (StI XIII, v, p. 1320). Nella Storia mancano alcuni introduttori ricorrenti nell’it. ant.: pria che, anzi che, avanti che. Temporali di posteriorità L’azione espressa dalla reggente è posteriore a quella espressa dalla subordinata; il verbo è all’indicativo, a meno che non intervenga un senso di eventualità, che richieda il congiuntivo. La temporale di posteriorità presenta vari introduttori. 120 Come e quando avviano spesso una temporale al passato remoto avente valore conclusivo. Come: «Il quale accordo come fu fatto, Carlo andò da Nepi a Bracciano, terra principale di Verginio» (StI I, xvii, p. 115), «il quale [scil. il cardinale Borgia] avendola, come fu fatto pontefice, levata dal primo marito come diventato inferiore al suo grado, e maritatala a Giovanni Sforza signore di Pesero, non comportando d’avere anche il marito per rivale, dissolvé il matrimonio già consumato» (StI III, xiii, p. 323), «il quale [scil. Francesco Sforza], raccolti al suono della campana quattrocento cavalli e seimila fanti, fu da lui come giunse collocato alla guardia del ponte» (StI XIV, xiv, p.1475: come assume qui il valore di ‘appena che’). Quando: «[scil. il re di Francia] confermato molto più in questa sentenza quando ebbe convenuto col pontefice, perché sperò dovere avere seco, stabile confederazione e amicizia» (StI I,VIII, ix, p. 776), «Altri [...] riprendevano che in lui non fusse stata né la providenza né l’ordine conveniente; perché non avendo mandato comandamento alle genti destinate al soccorso, [...] che si movessino, se non quando ebbe notizia che i fanti mandati innanzi aveano occupato Vauri, tardorono per necessità insino a mezzo dì» (StI I, XIV, ix, p. 1437). Le temporali introdotte da poi che, dappoi che, dopo che hanno la funzione di fissare un momento del passato da cui prende inizio un evento; poi che rende più evidente questo rapporto e introduce soprattutto verbi eventivi al trapassato remoto; queste avverbiali si ritrovano preferibilmente prima della principale. Poi che: «Perché il cardinale, poi che ebbe simulatamente dato speranza quasi certa di accettare le condizioni che si trattavano, si partì all’improvviso una notte, in su uno brigantino armato, da Ostia» (StI I, vi, p. 53), «ma poi che per spazio di qualche ora [scil. Ferdinando] gli ebbe aspettati indarno nella pianura, comodissima per la sua larghezza a combattere, essendo di manifesto pericolo l’assaltargli a quello alloggiamento, andò ad alloggiare a Barbiano villa di Cotignuola» (StI I, xii, p. 88). Dappoi che (da poi che): «Perché manifesto è che, dappoi che lo imperio romano [...] cominciò, già sono più di mille anni, di quella grandezza a declinare alla quale con maravigliosa virtù e fortuna era salito, non aveva giammai sentito Italia tanta prosperità» (StI I, i, p. 5), «Nella quale per potere perseverare non solo mandorono imbasciadori al re, da poi che fu partito da Firenze, che difendessino la causa loro (StI II, i, p. 135), «Queste cose erano succedute l’anno mille cinquecento cinque; il quale benché avesse lasciato speranza che la pace d’Italia, dappoi che erano estinte le guerre nate per cagione del regno di Napoli, s’avesse a continuare, nondimeno apparivano da altra parte semi non piccoli di futuri incendi» (StI VII, i, p. 633), «Alloggiorono, sopravenendo la notte, da poi che alquanto fu scaramucciato, vicini a un  

120   Rispetto al’it. ant. si nota la scomparsa di alcuni sottotipi particolari, come quelli con ripresa lessicale: «giunsero al castello e dopo che furono giunti al castello» (F. Bianco, in SIA 2012: 281).

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mezzo miglio allo alloggiamento de viniziani» (StI XI, xv, p. 1158), «Partì adunque Cesare da Bologna, il dì da poi che fu stipulata la confederazione» (StI XX, vii, p. 2065). Dopo che: «[scil. Vitellozzo] aveva, dopo che si era arrenduta la cittadella di Arezzo, occupato il Monte a San Sovino» (StI V, ix, p. 489); «Per il quale discorso apparisce che se i fiorentini avessino, dopo che furno cacciati i franzesi, procurato diligentemente di assicurare mediante la concordia le cose loro, o se si fussino fortificati di armi di soldati esperti, o non si sarebbe il viceré mosso contro a loro, o trovata di√coltà nello opprimergli arebbe facilmente composto con danari» (StI XI, iv, 1092: la temporale si ritrova all’interno di un periodo ipotetico). Fatto che ebbe: è un tipo di temporale della posteriorità diπuso nella prosa del XVI sec., particolarmente con verbi fattitivi; esprime un’azione compiuta, considerata il presupposto di quanto è espresso dalla principale che segue; interpreta pienamente quella relazione di diagrammaticità, necessaria alla narrazione di fatti storici: «Il quale, intesa che ebbe la partita del figliuolo da Roma, entrò in tanto terrore che [...] deliberò di abbandonare il regno» (StI I, xviii, p. 120), «Ma in questo mezzo il re di Francia, acquistato che ebbe Napoli, attendeva, per dare perfezione alla vittoria, a due cose principalmente» (StI II, iii, p. 153), «e battuto che ebbe a su√cienza, massime al portone che è tra ’l borgo e la terra, dette il quinto dì la battaglia» (StI V, ii, p. 454), «Acquistato che ebbe il Valentino Faenza si mosse verso Bologna» (StI V, iv, p. 461), «l’esercito fiorentino presa che ebbe Librafatta, distribuitosi in campagna in più parti di quello contado, si ingegnava di proibire la coltivazione delle terre per l’anno futuro» (StI VI, xi, p. 603). Dato che introduce una temporale di posteriorità alla quale è associato un sign. causale: «Fu la prima fatica dello esercito franzese la oppugnazione di Roccasecca; dalla quale, dato che v’ebbono invano uno assalto, si levorono» (StI VI, vii, p. 576), «e pochi dì poi entrorno di nuovo in Pisa mille cinquecento fanti spagnuoli; i quali, poiché non era necessario il presidio loro, dato che ebbono per suggestione de’ pisani uno assalto invano alla terra di Bientina, continuorono la navigazione sua in Ispagna» (StI VI, xv, p. 627). La relazione di posteriorità della principale è realizzata spesso mediante participiali e gerundiali. Temporali di contemporaneità L’azione espressa dalla subordinata è presentata come contemporanea di quella espressa dalla principale. Queste avverbiali sono introdotte dalle congiunzioni quando, mentre, come e dalle locuzioni temporali al tempo che, nel momento che. Si possono distinguere alcune “classi di contemporaneità”: coincidenza, simultaneità, incidenza, incidenza inversa, terminatività, incoatività (Mäder 1968, Bianco, in SIA 2012: 292 ss.). Quando: la temporale con significato esclusivamente temporale richiede l’indicativo, con significato temporale-condizionale il congiuntivo; l’insieme dei due sottotipi fa di questa congiunzione subordinante plurifunzionale una delle più frequenti (239 occorrenze). 121 Le temporali possono essere coestensive oppure può intervenire una gradualità. La temporale quando precede o segue la principale o s’inserisce in  

121   Nella lingua ant. non sembra ancora essersi verificato un fenomeno sviluppatosi nella fase moderna; accanto alla funzione di reggenza circostanziale, quando, è diventato anche un marcatore di continuazione: stavo studiando quando Marco bussò alla porta; v. Berrendonner (2002: 23-41, 39): «une séquence textuelle morphosyntaxiquement connexe se trouve ré-analysée en une suite de deux clauses indépendantes, et du même coup, un marqueur de rection qu’elle contient se voit réintérprété en connecteur pragma-syntaxique».

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essa: «Sisto, quando più ardeva la guerra contro al duca di Ferrara, alla quale prima gli aveva concitati, mutata sentenza, procedé con l’armi spirituali, e pigliò l’armi temporali insieme col resto d’Italia contro a loro» (StI I, iii, p. 21), «Il quale Lodovico, passato in Italia con potentissimo esercito, essendo prima stata violentemente morta Giovanna e trasferito il regno in Carlo chiamato di Durazzo discendente similmente di Carlo primo, morì di febbre in Puglia, quando era già quasi in possessione della vittoria» (StI I, iv, p. 21: si noti la gerundiale assoluta essendo stata morta), «E trall’altre cose è manifesto che, quando Isabella figliuola d’Alfonso andò a congiugnersi col marito, Lodovico, come la vide, innamorato di lei, desiderò di ottenerla per moglie dal padre» (StI I, vi, p. 51), «essendo andati i pisani [...] per ricuperare il bastione fatto da loro al Ponte a Stagno, il quale avevano perduto quando Cesare si partì da Livorno» (StI III, xii, p. 318: la temporale è compresa in una relativa). La locuzione se non quando ha valore limitativo e pertanto talvolta introduce un’incidentale: «[scil. Luigi d’Orliens] non tentò quella impresa se non quando, per l’occasione di essere per commissione del re rimaso in Asti, entrò con poco successo in Novara» (StI IV, i, p. 343), «avendo condotti in Francia ventimila fanti tedeschi, né potuto avergli tutti se non quando il re d’Inghilterra era a campo a Tornai, aveva, per avergli a tempo se venisse nuovo bisogno, ritenutogli in Francia» (StI XII, viii, p. 1193). Mentre (che): enfatizza la contemporaneità delle azioni espresse dalla principale e dalla temporale; mentre raggiunge 167 occorrenze; la congiunzione raπorzata mentre che (127 occorrenze) sottolinea il rapporto subordinativo; entrambi i sottotipi hanno una varia collocazione nel periodo: «[scil. Giovanna] cacciato con l’armi Alfonso di tutto il regno, lo conservò mentre visse pacificamente» (StI I, iv, p. 26: nota la posizione dell’avverbio), «Ma mentre che ’l re impedito dalla infermità si stava in Asti, nacque nel paese di Roma nuovo tumulto» (StI I, xii, p. 87), «Le quali [scil. provisioni] mentre che si sollecitano, crescevano continuamente i pericoli di Lodovico Sforza» (StI IV, viii, p. 392: relativa quale all’inizio del cap.), «Nel qual luogo mentre stavano, avendo inteso che duemila fanti tedeschi, partiti da Basciano erano andati a predare a Cittadella, mossisi a quella parte gli rinchiusono in Vallefidata» (StI VIII, xiii, p. 805). È da notare la correlazione mentre ... ecco, che ha una funzione analoga al cum inversum latino (Koban 2012: 163): «Ma non fu necessitato a procedere più oltre, perché, mentre che le genti di terra vi stanno intorno con piccola ubbidienza e ordine, ecco che all’improviso sopravengono il duca di Ferrara e Ciattiglione coi soldati franzesi» (StI IX, xiv, p. 911), «Il quale mentre va innanzi e indietro con le risposte, ecco scoprirsi l’esercito inimico che camminava lungo il fiume» (StI X, xiii, p. 1030). Temporali introdotte da nel tempo che, la volta che, il giorno che, all’ora che: «nel tempo che in Italia non appariva segno alcuno se non di grandissima tranquillità, [scil. Savonarola] avea nelle sue predicazioni predetto molte volte la venuta d’eserciti forestieri in Italia» (StI II, ii, p. 151), «il quale consiglio, se forse anticipato arebbe fatto qualche frutto, diπerito a tempo che le cose non solo erano in veemente movimento ma già cominciate a precipitare, non bastava più a fermare tanta rovina» (StI I, xviii, p. 121), «e se bene la prima volta che si accostò alle mura fusse vano il conato suo, nondimeno la seconda volta che vi si accostò, Iacopo Rossetto convenne di dargli la terra» (StI XIII, i, p. 1300), «Messonsi, il terzo giorno che erano venuti, in ordinanza» (StI XIV, xiii, p. 1468), «Ebbe il re di Francia, all’ora medesima che si partiva di Roma, avviso della sua fuga» (StI I, xviii, p. 122: nota tmesi verbooggetto), «ora rispondeva avere promesso di dare le navi ma non obligatosi che le si

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potessino fornire di gente franzese, ora che il dominio che aveva di Genova non era assoluto» (StI III, i, p. 239: nota ellissi ausiliare ma non (si era) obligato). Temporali di durata nel tempo La temporale rappresenta un evento o un’azione coestensivi alla principale: «Ma nel tempo medesimo che dal re di Francia si movevano l’armi contro al ducato di Milano, Pagolo Vitelli, raccolte le genti e le provisioni de’ fiorentini, per potere più facilmente attendere alla espugnazione di Pisa, pose il campo alla terra di Cascina; la quale, se bene fusse proveduta su√cientemente di difensori e delle altre cose necessarie, e similmente munita di fossi e di ripari, ottenne, dappoi che furono piantate l’artiglierie, in ventisei ore» (StI IV, x, p. 407); si noti la presenza di tre diverse temporali: nel tempo medesimo che ... raccolte le genti.. dappoi che), «allo arrivare del quale [scil. del marchese di Rotellino] fu publicata sospensione delle armi, per terra solamente, tra l’uno e l’altro re, per tutto il tempo che il generale stesse nell’isola» (XII, vi, p. 1195: nota l’ellissi dell’articolo in pubblicata sospensione). Temporali di istantaneità Subito che + trapassato remoto: «[scil. Calisto terzo pontefice] arebbe, subito che fu morto Alfonso padre di Ferdinando, se la morte non si fusse interposta a’ consigli suoi, mosse l’armi per spogliarlo del regno di Napoli» (StI I, iii, p. 16), «il quale [scil. don Federigo], subito che ebbe posti i fanti in terra, si era, per non essere costretto a combattere nel golfo di Rapalle con l’armata inimica, allargato in alto mare» (StI I, x, p. 81: nota la tmesi dell’ausiliare del part. pass. si era ... allargato), 122 «Ma non bastavano questi rimedi alla sua salute, perché Carlo, non ritenendo l’impeto suo né la stagione del tempo né alcun’altra di√coltà, subito che ebbe recuperata la sanità, mosse l’esercito» (StI I, xiii, p. 91); con ellissi del verbo: «Ma Alfonso, subito morto il padre, mandò quattro oratori al pontefice» (StI I, vi, p. 51); con il congiuntivo: «[scil. Cesare] voleva le dodici galee dal re di Francia per l’andata sua in Italia, ma non più né cavalli né fanti: e che, subito che fusse stipulata la concordia, si partissino tutte le genti franzesi di Italia» (StI XVIII, xiii, p. 1888: il costrutto è compreso in una completiva oggettiva), «Perché Francesco Sforza, presentatosi, subito che arrivò in Bologna, al cospetto di Cesare, e ringraziatolo della benignità sua [...], gli espose confidare tanto nella giustizia sua» (StI XIX, xvi, p. 2032). Appena + participio passato. La temporale introdotta da (non) appena (che) «sottolinea il succedersi immediato di due azioni»: 123 «non pochi di loro morirono appena arrivati a Vercelli» (StI II, xii, p. 223), «appena furono piantate l’artiglierie che il castellano si arrendé a Consalvo a discrezione» (StI III, xi, p. 311), «ecco che appena deposte l’armi tra Cesare e i viniziani, anzi non essendo ancora consegnata la città di Verona, si scopersono princìpi di nuovi tumulti» (StI XIII, i, p. 1295), «Non aveva adunque il pontefice capitolato appena col viceré che sopravennono le oπerte grandi di Francia per incitarlo alla guerra» (StI XVI, vii, p. 1635). La congiunzione composta non prima ha un significato analogo: «non prima entrato Piero nella amministrazione della republiche che [...] si ristrinse talmente con Ferdinando e  



122   Della tmesi “ausiliare-participio passato cfr. questo es. particolare: «[scil. una confederazione] era stata nell’anno mille quattrocento ottanta, aderendovi quasi tutti i minori potentati d’Italia, rinnovata per venticinque anni» (StI I, i, p. 8). 123   Cfr. Serianni (1988: 511). R. Digregorio, in SIA (20012: 285-286), ricorda che «il valore di come, che esprime per lo più coincidenza, non è sempre univoco, ma determinato dai tempi e dall’aspetto dei verbi che l’accompagnano».

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con Alfonso [...] che ebbe Lodovico Sforza causa giusta di temere» (StI I, ii, p. 12), «non prima arrivò in quella città [...] che vendé quelle castella» (StI I, iii, p. 15), «avevano impresso nell’animo che gli aiuti miracolosi di Dio si avessino a dimostratre, ma non prima che condotte le cose a termine che quasi più niente di spirito vi avanzasse» (StI XX, ii, p. 2046). Temporali terminative Sono introdotte da insino che e presentano l’indicativo, se si tratta di un fatto reale, il congiuntivo, se si indica un’eventualità (in tal caso si ha talvolta la negazione espletiva): 124 «[scil. i fiorentini] malvolentieri si disponevano, insino che la necessità gli costrignesse, a fare più oltre che per virtù di quella fussino tenuti» (StI I, vii, p. 64), «dicendo avere lettere dal re e comandamento dal generale di Linguadoca [...] di difendere, insino che altro non gli fusse ordinato» (StI III, i, p. 241), «[scil. il Valentino] andò innanzi non aspettata la risposta, dando agli imbasciadori che gli erano stati mandati da’ fiorentini benigne parole, insino che ebbe passato lo Apennino» (StI V, iv, p. 464: si noti la participiale assoluta non aspettata la risposta). Rispetto ad altri prosatori del primo Cinquecento Guicciardini presenta importanti innovazioni nel settore delle temporali: alcuni tipi sono scomparsi, altri si sono imposti, altri ancora si presentano in forme e in cotesti inconsueti. Le temporali appaiono in gran numero nella Storia, opera che richiede un’attenta scansione del succedersi degli eventi presentati. La precisione nell’indicazione dei rapporti di tempo fa sì che in uno stesso periodo ricorra più di una proposizione temporale di forma e funzione diversa.  

7. 4. 6. Il periodo ipotetico Il carattere argomentativo dell’opera comporta un uso frequente di proposizioni condizionali, delle quali esaminiamo i seguenti aspetti: i) i modi e i tempi verbali, ii) la posizione della protasi e dell’apodosi (al fine d’individuare il componente tematizzato o focalizzato), iii) i rapporti con il cotesto. 125  

La protasi del periodo ipotetico è introdotta abitualmente da se: il contenuto proposizionale è “se p, q”; ma se non introduce soltanto il senso ipotetico; è infatti il quadro oπerto dalla situazione a distinguere l’ipotesi: se venisse mi farebbe piacere /se viene, mi fa piacere, dall’opposizione: se è forte con i deboli, è pavido con i forti) e dalla concessione: se è vero che è di√cile, voglio comunque tentare e dalla temporalità.

Il periodo ipotetico con protasi introdotta da se presenta nella Storia questi tipi principali (l’ordine “Apodosi-Protasi” è marcato ed è in rapporto con la progressione tematica): – Apodosi condiz. pres / Protasi cong. imperf.: «i quali [scil. i comodi infiniti] racconterei tutti, se non fusse notorio che maggiori fini ha la generosità franzese, che più degni e più alti pensieri sono quegli di sì magnanimo, di sì glorioso re» (StI I, iv, p. 31). – Apodosi condiz. pass. / Protasi cong. trapass. «Dettono queste condotte riputazione 124

  Cfr.: Serianni (1988: 511), F. Bianco, in SIA (20012: 302-303).   Sulle condizionali in it. ant. v. M. Mazzoleni, in GIA (2010: 1014-1043), G. Colella (2010) e in SIA (2012: 381-412); per le ipotetiche in it. mod.: M. Mazzoleni, in GGIC, ii (20012: 751-784). Nella Storia d’Italia si notano diπerenze rispetto ai sette tipi di condizionali presenti nel Principe (tra parentesi quadre i tipi che mancano nell’opera di Guicciardini): 1) Apodosi condiz. / Pro. cong. – [2) Apodosi cond. / pro. ind.] – 3) Apodosi ind./ Pro. cong.– 4) [Pro. cong. / Apodosi condiz.] – 5) Pro. cong. / Apodosi ind. – [6) Pro. ind. / Apodosi cond.] - [ 7) Pro. ind. / Apodosi ind.]. Per il “controfattuale falsificatore” e il “controfattuale verificatore”, v. Colella (2010: 217-218). 125

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grande all’esercito di Ferdinando, ma molto maggiore l’arebbono data se con questi successi fusse entrato prima in Romagna» (StI I, viii, p. 70), «il quale [scil. Calisto III] per desiderio immoderato della grandezza di Pietro Borgia suo nipote, arebbe, subito che fu morto Alfonso padre di Ferdinando, se la morte non si fusse interposta a’ consigli suoi, mosse l’armi per spogliarlo del regno di Napoli» (StI I, iii, p. 16), «Fornì nondimeno di nuove guardie la cittadella nuova, e arebbe fornito la vecchia se glien’avessino consentito i pisani» (StI II, i, p. 142), «la quale arebbe ottenuta l’esercito de’ confederati se non gli avessino nociuto più i disordini propri che il non avere maggiore numero di gente» (StI II, ix, p. 198). – Apodosi ind. imperf. / Protasi cong. trapass.: «i viniziani, vinti nel mare e a∫itti per la perdita di Chioggia, ricevevano qualunque condizione avesse voluta il vincitore se a tanto preclara occasione non fusse mancato moderato consiglio» (StI I, xi, p. 84: si noti la presenza di un imperfetto controfattuale verificatore). – Protasi ind. pres. / Apodosi ind. futuro «Abbiamo da una parte i turchi, che per le nostre discordie hanno fatto contro a’ cristiani tanto progresso, e ora minacciano l’Ungheria, regno del marito della sorella vostra; e se pigliano l’Ungheria (come, se i prìncipi cristiani non si uniscono, senza dubbio piglieranno) aranno aperta la strada alla Germania e alla Italia» (StI XVI, v, p. 1620). – Protasi cong. imperf. / Apodosi condiz. pres.: «Se il governo ordinato, prestantissimi cittadini, nella forma proposta da Paolantonio Soderini producesse sì facilmente i frutti che si desiderano, come facilmente si disegnano, arebbe certamente il gusto molto corrotto chi altro governo nella patria nostra desiderasse» (StI II, ii, p. 148). 126 Osserviamo un passo, in cui il periodo ipotetico si complica entrando nell’oratio obliqua; in eπetti, dopo l’inserimento di due completive oggetive implicite, viene inserita una seconda apodosi:  

Né Ferdinando, contro al quale tali cose si macchinavano, dimostrava d’averne molto timore, allegando essere impresa durissima: perché, se e’ pensassino assaltarlo per mare, troverebbono lui proveduto d’armata su√ciente a combattere con loro in alto mare, i porti bene fortificati e tutti in sua potestà, né essere nel regno barone alcuno che gli potesse ricevere come era stato ricevuto Giovanni d’Angiò dal principe di Rossano e da altri grandi; l’espedizione per terra essere incomoda, sospetta a molti e lontana, avendosi a passare prima per la lunghezza di tutta Italia, di maniera che ciascuno degli altri arebbe causa particolarmente di temerne» (StI I, v, p. 38).

– Protasi cong. imperf. / Apodosi ind. imperf.: «[scil. il duca di Milano] operò che ’l pontefice e gli oratori de’ re di Spagna, proponessino che [...] sarebbe necessario indurre i fiorentini a entrare nella lega comune [...]; perché stando separati dagli altri non cessavano di stimolare il re di Francia a passare in Italia e, in caso passasse, potevano co’ danari e con le genti loro [...], fare eπetti di non piccola importanza» (StI II, xiii, p. 319: si noti la presenza del congiuntivo imperfetto in caso passasse in luogo del cong. piuccheperfetto). – Protasi cong. imperf. / Apodosi ind. futuro/ Pro. ind. futuro: «Se alcuno, per qual si voglia cagione, avesse, cristianissimo re, sospetta la sincerità dell’animo e della fede con la quale Lodovico Sforza, oπerendovi eziandio comodità di danari e aiuto delle sue genti, vi conforta a muovere l’armi per acquistare il reame di Napoli, rimoverà 126   L’ipotesi è considerata come contraria allo stato di cose attuale, vale a dire, vi è uno stacco tra il processo indicato e il momento dell’enunciazione; pragmaticamente la situazione permette un senso potenziale (Riegel et Al. 2014: 853).

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facilmente da sé questa male fondata suspicione se si ridurrà in memoria l’antica divozione avuta in ogni tempo da lui, da Galeazzo suo fratello» (StI I, iv, p. 29); questo tipo misto appare sovente quando si manifesta un’intenzione argomentativa, dalla quale dipende anche lo schema “Se A allora B se C”. – Protasi cong. trapassato / Apodosi condiz. passato: «Per il quale discorso apparisce che se i fiorentini avessino [...] procurato diligentemente di assicurare mediante la concordia le cose loro, o se si fussino fortificati di armi di soldati esperti, o non si sarebbe il viceré mosso contro a loro, o trovata di√coltà nello opprimergli arebbe facilmente composto con danari» (StI XI, iv, 1092). Configurazioni particolari Nell’ultimo passo cit. abbiamo il seguente ordine: Protasi aut Protasi + Apodosi aut Apodosi. Altrove troviamo tre protasi posposte a un’apodosi, introdotta da una congiunzione avversativa: «Ma è senza dubbio molto pericoloso il governarsi con gli esempi se non concorrono, non solo in generale ma in tutti i particolari, le medesime ragioni, se le cose non sono regolate con la medesima prudenza, e se, oltre a tutti gli altri fondamenti, non v’ha la parte sua la medesima fortuna» (StI I, xiv, p. 98). Questo noto passo antimachiavelliano mostra in quali modi l’insistenza argomentativa si fondi spesso sulle ripetizioni e sulle riprese. Ricorrente è la tendenza all’ellissi, che può riguardare l’ellissi dell’ausiliare nella protasi: «il quale consiglio, se forse anticipato arebbe fatto qualche frutto, diπerito a tempo che le cose non solo erano in veemente movimento ma già cominciate a precipitare, non bastava più a fermare tanta rovina» (StI I, xviii, p. 121); interpreterei: ‘e questo consiglio, se fosse stato anticipato forse avrebbe dato qualche frutto, ma poiché era stato diπerito [...] non bastava più’; se forse anticipato ... è un periodo ipotetico che s’inserisce come un inciso in un’altra costruzione. Nell’apodosi si passa dal condizionale passato (ipotesi) all’indicativo imperfetto (fatto reale). Il futuro nel passato è espresso, come di consueto, con il condizionale presente, ma in un periodo controfattuale interviene il condizionale passato: «La morte di Ferdinando si tenne per certo che nocesse alle cose comuni; perché, oltre che arebbe tentato qualunque rimedio atto a impedire la passata de’ franzesi, non si dubita che più di√cile sarebbe stato fare che Lodovico Sforza della natura altiera e poco moderata d’Alfonso s’assicurasse che disporlo a rinnovare l’amicizia con Ferdinando, sapendo che ne’ tempi precedenti era stato spesso inclinato, per non avere cagione di controversie con lo stato di Milano, a piegarsi alla sua volontà» (StI I, vi, p. 51), «voleva [scil. Carlo VIII] nondimeno lasciare in Firenze certi imbasciadori di roba lunga, (così chiamano in Francia i dottori e le persone togate), con tale autorità che, secondo gli instituti franzesi, arebbe potuto pretendere essersegli attribuita in perpetuo non piccola giurisdizione» (StI I, xvi, 108). In caso che è presente con 33 occorrenze; questa congiunzione introduce un’ipotetica che, in taluni cotesti, può assumere un valore restrittivo; 127 abbiamo già citato l’es. StI II, xiii, p. 319, ora si vedano: «i quali soccorso potente gli promettevano, in caso che con le persuasioni e con l’autorità non potessino questa impresa interrompere» (StI I, v, p. 47), «oπerivano di occupare all’improviso Roma con le genti d’arme delle compagnie loro e con gli uomini della fazione ghibellina, in caso che gli  

127   Riportando l’opinione di Ageno (1981: 6), Serianni (1988: 500) ricorda che: «[le condizionali restrittive] – benché tradizionalmente descritte nell’àmbito del periodo ipotetico – “non presentano ipotesi, ma solo condizioni”, indicando “un’esigenza che deve essere soddifatta perché un fatto qualsiasi possa verificarsi”».

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seguitassino le forze degli Orsini e che il duca si accostasse prima in luogo che, fra tre dì poi che e’ fussino entrati, potesse soccorrergli» (StI I, iii, p. 22), «si facesse allora uno deposito di somma quasi pari alle contribuzioni, che non si potesse spendere se non in caso che si vedesse in pronto le preparazioni di assaltare Italia» (StI XX, vi, p. 2062). Quando ‘nel momento in cui’ 128 introduce nella condizionale un senso temporale: «imperocché prima aveva molte volte predicando aπermato che per segno della verità delle sue predizioni otterrebbe, quando fusse di bisogno, grazia da Dio di passare senza lesione per mezzo del fuoco» (StI III, xv, p. 335), «il popolo, quando fusse restato certificato che Valentino avesse altro fine che la partita di Pandolfo, sarebbe stato unito a resistergli» (StI V, xii, p. 514), (Ferdinando d’Aragona manda un’ambasceria al re di Francia) «e vi deputò, oltre a questi, Cammillo Pandone, statovi altre volte per lui: a√ne che, tentando privatamente i principali con premi e oπerte grandi, e proponendo al re, quando altrimenti non si potesse mitigarlo, condizione di censo e altre sommissioni, si sforzasse di ottenere da lui la pace» (StI I, v, p. 41). Come se è presente con 63 occorrenze; questo introduttore di una comparativa ipotetica dimostra che nella Storia è viva l’istanza di un confronto di eventi, azioni e conseguenze che ne derivano: «e benché egli si sforzasse di fare sospetti gli Aragonesi di cupidità di insignorirsi di quello stato, come se essi pretendessino appartenersi a loro per l’antiche ragioni del testamento di Filippo Maria Visconte [...] e che per facilitare questo disegno cercassino di privare il nipote del suo governo, nondimeno non conseguitava con queste arti la moderazione dell’odio conceputo» (StI I, iii, p. 20), «Ma perché consumo io più tempo in queste ragioni? come se non sia più conveniente e più secondo l’ordine della natura il rispetto del conservare che dell’acquistare!» (StI I, iv, p. 32: si noti l’interrogativa diretta retorica), «E da altro canto Massimiliano, seguitando in questo matrimonio più i danari che il vincolo della a√nità, si obligò di concedere a Lodovico, in pregiudicio di Giovan Galeazzo nuovo cognato, l’investitura del ducato di Milano, per sé, per i figliuoli e per i discendenti suoi; come se quello stato, dopo la morte di Filippo Maria Visconte, fusse di legittimo duca sempre vacato» (StI I, v, p. 45), «perché, oltre a quello a che gli persuadeva forse la necessità, era incredibile l’ardore che il re e tutta la corte avevano di ritornarsene in Francia: come se il caso che era stato bastante a fare acquistare tanta vittoria fusse bastante a farla conservare» (StI II, v, p. 167). 129 Pure che (purché) introduce una condizionale che ha un senso restrittivo: «Alle quali cose il re rispose con gratissime parole accettando l’oπerte de’ capuani e de’ soldati, e la venuta eziandio di Ferdinando, pure che e’ sapesse non avere a ritenere parte alcuna benché minima del reame di Napoli ma a ricevere stati e onori nel regno di Francia» (StI I, xix, p. 126); «aggiugnendo che non si di√dava di condurre a lui la persona di Ferdinando, purché volesse riconoscerlo come sarebbe conveniente» (StI I, xix, p. 126), «il pontefice e il re, obligatisi alla protezione l’uno dell’altro, convennono di potere ciascuno di loro con qualunque altro principe convenire, purché non fusse in pregiudicio della presente confederazione» (StI VIII, ix, p. 774).  



128

  Per l’uso del congiuntivo nelle proposizioni temporali v. F. Bianco, in SIA (2012: 290).   Per un utile confronto con il tedesco v. F. Eggs. Die Grammatik von “als” und “wenn”, Tübingen, Narr, 2006: 172 ss., “Hypothetische Vergleichsätze mit den Subjunktoren als, als ob, als wenn und wie wenn”. 129

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7. 4. 7. Le proposizioni comparative Le comparative hanno una funzione strutturante dei periodi, la quale assume spesso maggior rilievo rispetto alla semantica dei costrutti. 130 Come in altre circostanze, l’architettura testuale prevale sulle esigenze e sulle scelte sintattiche. Ciò vale per le comparative di analogia e per le comparative di grado; quest’ultime esprimono uguaglianza e disuguaglianza (a sua volta distinta in maggioranza e minoranza). Rispetto all’it. mod. le diπerenze riguardano la scelta non di strutture, ma piuttosto di particolari: una maggiore frequenza del non espletivo (o fraseologico), l’uso di che come introduttore del secondo termine di paragone (Mario è più alto che Luigi invece di M. è più alto di L.). La comparazione di analogia, resa con la coppia così ... come o (più raramente con come ... così), si applica a sintagmi nominali: «Il primo è che tutti i magistrati e u√ci, così per la città come per il dominio, siano distribuiti» (StI II, ii, p. 144), «fu fatta pace; con inclinazione molto pronta così del pontefice, alienissimo per natura dallo spendere, come degli Orsini» (StI III, xi, p. 310), e a predicati verbali: «Né si potendo questa e l’altre di√coltà che accadevano risolvere così presto come arebbono avuto di bisogno quegli che erano in Novara» (StI II, xii, p. 222), «e il numero grande de’ svizzeri [...] ci è forse così nocivo come sarebbe inutile il piccolo numero» (StI II, xii, p. 229), «non poteva essere così presto come sarebbe stato di bisogno» (StI III, v, p. 268); «allegando avere così potuto farla senza saputa de’ collegati come era stato lecito al duca di Milano fare senza saputa loro la pace di Vercelli» (StI III, xiv, p. 327), «la quale come ha i movimenti diversi così ha diverse e discordanti l’operazioni» (StI IV, vi, p. 376). 131 Le comparative di uguaglianza (non) tanto ... quanto, così ... come, del medesimo N ... che rispondono all’esigenza, sempre viva nella Storia, di confrontare tra loro eventi, personaggi, pensieri: «non aveva giammai sentito Italia tanta prosperità, né provato stato tanto desiderabile quanto era quello nel quale si riposava l’anno della salute cristiana mille quattrocento novanta» (StI I, i, p. 6: ripresa del SN con l’anaforico quello), (Lodovico Sforza convince Alessandro VI a guardarsi dagli Aragonesi e da Piero dei Medici) «ricordandogli che si ponesse davanti agli occhi non tanto quello che di presente si trattava quanto quello che importava l’essere stata [...] disprezzata così apertamente da’suoi medesimi vassalli la maestà di tanto grado» (StI I, iii, p. 17), (l’esercito di Carlo VIII è da temere per il valore dei soldati) «facendo ciascuno a gara di servire meglio, così per lo istinto dell’onore, il quale nutrisce ne’petti degli uomini l’essere nati nobilmente, come perché dell’opere valorose potevano sperare premi» (StI I, xi, p. 85: sono messi in rapporto il SN così per e la proposizione come perché), «Era continuamente moltiplicato il dispiacere che la città di Firenze aveva da principio ricevuto dall’opposizione che si faceva al re, non tanto per essere stati di nuovo sbandeggiati i mercatanti fiorentini di tutto il reame di Francia quanto per il timore della potenza de’ franzesi» (StI I, xiv, p. 96: sono messi in rapporto “non tanto per + infinito” e quanto per + SN”), «onde meritamente dubitava [scil.  



130   Per l’it. ant. v.: A. Belletti, in GIA (2010: 1135-1143), A. Pelo, in SIA (2012: 441-464).; per l’it.. mod. v. A. Belletti, in GGIC, II (20012: 832- 853). 131   In presenza di un elemento correlativo così, tale, nella principale la comparativa può essere anteposta alla principale; quando manca tale elemento e di conseguenza il parallelismo tra principale e subordinata, quest’ultima può essere interpretata come una modale. Prive di elementi correlativi sono le comparative incidentali parentetiche del tipo come vedi. Il modo tipico delle comparative di analogia è l’indicativo per il costrutto esplicito; il condizionale per indicare l’eventualità.

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Alessandro VI] dovere essere del medesimo valore la fede che e’ ricevesse dal re [scil. Carlo VIII] che quella che il re aveva ricevuta da lui» (StI I, xvii, p. 115: ripresa del SN con l’anaforico quella). Le comparative di ineguaglianza (di maggioranza, introdotte da più ... che, maggiore ..., e di minoranza, introdotte da minore ... che) si costruiscono per lo più con il congiuntivo, usato soprattutto quando il paragone con qualcosa o qualcuno è considerato irreale e si vuole indicare la frustrazione dell’attesa; il modo indicativo, che appare più raramente, è usato quando il paragone riguarda due eventi reali. 132 Più ... che: «Ma nocevano più che giovavano questi conforti e ammunizioni» (StI I, iii, p. 19), «Poiché il regno di Francia era in quel tempo più florido d’uomini, di gloria d’arme, di potenza, di ricchezze e di autorità intra gli altri regni, che forse dopo Carlo magno fusse mai stato» (StI I, iv, p. 27), «Perché era in lui ardentissima come prima la inclinazione del passare in Italia, e aveva, più che avesse avuto mai, potentissime occasioni» (StI III, xiv, p. 328), «Queste cagioni potevano muovere Enrico ottavo alla guerra, sicuro più che fusse stato alcuno degli antecessori nel suo reame» (StI XV, ix, p. 1550), «né si ricordando quanto sia pernicioso l’usare medicina più potente che non comporti la natura della infermità e la complessione dello infermo» (StI I, iii, p. 23). Il secondo termine di paragone è accompagnato da riprese: del tempo verbale (nocevano ... giovavano), del verbo del primo termine, volto al congiuntivo (era ... fosse, aveva ... avesse); nell’ultimo es. interviene la forma verbale fusse stato. Maggiore che: «Dimostrò di questa subita variazione maggiore molestia Lodovico che per se stessa non meritava l’importanza della cosa» (StI I, ii, p. 14: il secondo termine è all’indicativo), «si conservò [scil. Ferdinando] il regno [...] e lo condusse a maggiore grandezza che forse molti anni innanzi l’avesse posseduto re alcuno» (StI I, vi, p. 51: secondo termine al congiuntivo); «ma finalmente dette principio alla guerra d’Italia l’andata di don Federigo alla impresa di Genova, con armata senza dubbio maggiore e meglio proveduta che già molti anni innanzi avesse corso per il mare Tirreno armata alcuna (StI I, viii, p. 67: sec. term. al congiuntivo), «imperocché in Piero de’ Medici non fu né maggiore animo né maggiore costanza nelle avversità che fusse stata o moderazione o prudenza nelle prosperità» (StI I, xiv, p. 96: sec. term. al congiuntivo), «si indirizzò [scil. Carlo VIII] al cammino di Roma; insolente più l’un dì che l’altro per i successi molto maggiori che non erano giammai state le speranze» (StI I, xvii, p. 112: sec. term. all’indicativo). Con questo tipo sintattico si può confrontare un’infinitiva soggettiva introdotta da un nesso comparativo, la quale a sua volta regge una completiva oggettiva: «non è migliore rimedio che fare conoscere, a chi pensa di oπendervi, che voi siete determinati di non pretermettere cosa alcuna per difendervi» (StI X, vi, p. 979). Minore che: «Perché se bene alloggiavano con minore incomodità che non alloggiavano gli spagnuoli» (StI VI, vii, p. 580: sec. term. all’indicativo); «commettere ciascuno di loro la vita propria in arbitrio dell’altro, con non minore confidenza che se sempre fussino stati concordissimi fratelli» (StI VII, viii, p. 679: il sec. term. è un’ipotetica), «è natura comune degli uomini temere prima i pericoli più vicini e stimare più che non conviene le cose presenti, e tenere minore conto che non si debbe delle future e lontane» (StI VII, x, p. 691: si noti il parallelismo tra più che non e minore conto che).  

132   Cfr. C. De Santis, “Comparative, frasi”, in EncItaliano, i (2010: 238-240). Le comparative introdotte da più che, piuttosto che sono dette da A. Belletti, in GGIC, ii (20012: 832-853, 852), “pseudocomparative”, perché stabiliscono soltanto una correlazione avversativa; gli ess. ivi cit. sono: Questo problema più che di√cile è complesso, Questo p. è c. piuttosto che d.

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Più tosto che: «mandò a Genova Michele Riccio, dottore e fuoruscito napoletano, a confortargli che sapessino usare l’occasione della sua benignità, più tosto che [...] lo mettessino in necessità di procedere contro a loro con la severità dello imperio» (StI VII, v, p. 657), «Il quale insulto mitigò più tosto che accendesse l’animo del pontefice contro al re di Francia» (StI VII, xi, p. 703), «fu cagione non che si deliberasse ma più tosto che [...] si precipitasse ad arrenderci a viniziani» (StI IX, iii, p. 835), «non pareva che di nuovo deliberasse la guerra ma più tosto che continuasse la deliberazione già fatta; perciò, per non essere oppressi allo improviso» (StI XII, x, p. 1217); il secondo termine, reso con il congiuntivo, è spesso preceduto da un’incidentale. Vediamo alcuni esempi di comparazione di maggioranza tra sintagmi nominali: «Ma non è già minore la facilità a conquistarlo che la giustizia» (StI I, iv, p. 29), «E certamente, quando io considero in che grado sia ridotto lo stato della cristianità, non veggo che cosa alcuna sia né più santa né più necessaria né più grata a Dio che la pace universale tra i prìncipi cristiani» (StI XVI, v, p. 1619), «La ritornata poco onorata del re di Francia di là da’ monti, benché proceduta più da imprudenza o da disordini che da debolezza di forze o da timore, lasciò negli animi degli uomini speranza non mediocre che Italia [...] avesse presto a rimanere del tutto libera» (StI III, i, p. 237), «con la quale [scil. la vita] aveva con maggiore impeto che virtù turbato il mondo, ed era pericoloso non lo turbasse di nuovo» (StI III, xv, p. 333), «ove i pisani, lavorandovi, secondo il solito, con non minore animo le donne che gli uomini, aveano, mentre si batteva, tirato uno riparo con uno fosso innanzi» (StI VI, xv), «dette una lunghissima battaglia ad Anghiari, terra più forte per la fede e virtù degli uomini che per la fortezza della muraglia o per altra munizione» (XIII, viii, p. 1337). Nello sviluppo della comparazione sono sovente messi in rapporto elementi che hanno la stessa funzione ma forma diversa: come sintagmi verbali e sintagmi nominali, la preposizione per e la congiunzione perché, completive con verbo finito e infinitive. 7. 4. 8. Le proposizioni modali

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Introdotte per lo più da come e da secondo che, hanno aspetto e valore di parentetiche; s’inseriscono nelle proposizioni avverbiali, rappresentando in determinati cotesti, un incentivo alla complessità del periodo. Spesso riportano una testimonianza, introdotta da un verbum dicendi; dal momento che rivelano la fonte della notizia, queste proposizioni possono interessare il tema dell’evidenzialità (vedi 7. 1. 5). Distinguiamo dalle parentetiche estese gli incisi brevi del tipo come si dice, come sapete, i quali non influiscono sensibilmente sull’architettura del periodo: «il paese per la fortezza de’ fossi e per l’impedimento dell’acque è sì di√cile a cavalcare, che chi disegna d’andare distesamente a trovargli, e non d’accostarsi loro di passo in passo con le comodità e co’ vantaggi e (come si dice) guadagnando il paese e gli alloggiamenti opportuni a palmo a palmo, non cerca altro che avventurarsi con grandissimo e quasi certissimo pericolo» (StI II, xii, p. 228), «ma non bastando, come voi sapete, l’entrate publiche alle spese che occorreranno (StI X, vi, p. 977), «Perché il castellano, il quale, secondo che si credé, aveva ricevute [...] commissioni contrarie» (StI III, i, p. 242), «entrorno (secondo che alcuni dicono) per la ferrata 133   Serianni (1988: 520) ingloba le proposizioni modali nelle comparative e pertanto pone in questa categoria le parentetiche del tipo come dice, come aπerma ecc.

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per la quale il fiume, che ha il medesimo nome, entra nella città; invano resistendo i franzesi» (StI X, x, p. 1011). Incisi più estesi e di diversa natura s’inseriscono in proposizioni avverbiali o in costrutti assoluti; per es., in una gerundiale: «perché ricordandosi, come è natura di chi oπende, delle ingiurie che avea fatte si persuadeva non potere più sicuramente commettersi alla sua fede» (StI III, i, p. 238), in una relativa: «Perché il castellano, il quale, secondo che si credé, aveva ricevute per altra via occultamente da Lignì commissioni contrarie [...] fece intendere a’ commissari fiorentini che si presentassero con l’esercito alla porta predetta» (StI III, i, p. 243), in un periodo ipotetico: «il che quando succedesse, secondo che lo consigliasse il rispetto dell’utilità publica, alla quale sempre più che allo interesse proprio aveva riguardato, o lo riterrebbe per sé o lo restituirebbe a Federigo» (StI V, v, p. 469), all’interno di una oratio obliqua: «il re di Francia [...] si escusava [...] ricordando [...] essere ancora nelle medesime obligazioni il pontefice e il re di Aragona, co’ quali era conveniente si procedesse comunemente, secondo che erano comuni la confederazione e la obligazione, si risolveva niuno rimedio essere più pronto alle cose sue che indurre il re di Francia ad abbracciare la impresa» (StI VIII, xvi, p. 818). La modale conclude un periodo esteso: «fu dopo molte disputazioni conchiuso unitamente da’ capitani [...] che, fortificato il campo tutto con fossi e con ripari e con copia grande d’artiglierie, si pigliassino giornalmente l’altre deliberazioni secondo che insegnassino gli andamenti degl’inimici» (StI II, xi, p. 215). Secondo (che): «confortato al medesimo da qualcuno de’ ministri suoi corrotto, secondo si disse, da’ doni di Alfonso, deliberò pertinacemente di continuare nell’amicizia aragonese» (StI I, vi, p. 57), «Pagol’Antonio Soderini, cittadino savio e molto stimato, parlò, secondo che si dice, così» (StI II, ii, p. 143), «Però deliberando di tentare di passare il fiume furtivamente, il che succedendo non si dubitava della vittoria, dette la cura allo Alviano, autore, secondo dicono alcuni, di questo consiglio, che fabricasse il ponte secretamente» (StI VI, vii, p. 581). 134  

7. 4. 9. Le proposizioni eccettuative Sono introdotte da congiunzioni composte: se non che, eccetto che, salvo che. Se non che introduce sia un sintagma sia una proposizione: «e allegavano che la guerra era tutta in Italia, però non essere né conveniente né necessario parlare se non delle cose d’Italia» (StI VII, xii, p. 713), «non furono concordi a fare altra risposta o deliberazione se non che se ne rimettevano alla determinazione del pontefice futuro» (StI XIV, x, p. 1444), «Nello stato del quale [scil. del pontefice], non essendo né chi lo guardasse né chi lo difendesse, se non quanto da se stessi per interesse proprio facevano i popoli, occupò Sigismondo Malatesta con la medesima facilità la città e la rocca di Rimini» (StI XVIII, x, p. 1868). Eccetto che: presente non raramente in un sintagma nominale, 135 introduce una proposizione eccettuativa, situata per lo più nella parte terminale del periodo: «i  

134   Consideriamo due tipi: i) la citazione (senza formula) della fonte d’informazione: «non solo era preposto all’amministrazione delle entrate regie, che in Francia dicono sopra le finanze» (StI I, iv, p. 35), «ma eziandio Ravenna col suo esarcato, sotto il quale dicono includersi tutto quello che si contiene da’ confini di Piacenza, contigui al territorio di Pavia, insino ad Arimini» (StI IV, xii, p. 421); ii) la citazione (con formula) della fonte informazione: «Ripigliò il duca d’Orliens le parole del principe di Oranges» (StI II, xii, p. 230). 135   Eccetto con sintagma nominale: «avendo prima liberati di carcere, eccetto il principe di Rossano e il conte di Popoli, tutti i baroni» (StI I, xix, p. 129). Altro sintagma nominale è in fuora: «Andoro-

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deputati ritornorono al re, riportando [...] che al re fusse lecito armare a Genova, suo feudo, quanti legni volesse, e servirsi di tutte le comodità di quella città, eccetto che in favore degl’inimici di quello stato» (StI II, xii, p. 223), «essendo stati tra loro più tosto leggieri assalti e dimostrazioni di guerra che alcuna cosa notabile, eccetto che da’ franzesi fu presa in brevissimo tempo e abbruciata la terra di Sals» (StI III, xii, p. 313), «E aveva ne’ medesimi dì ricevuta per accordo la fortezza di Cremona, con patto che a tutti i soldati fusse salva la vita e la roba, eccetto quegli che fussino sudditi suoi» (StI VIII, vii, p. 763: si noti la presenza nello stesso periodo dei “limitatori” con patto che ed eccetto che), «non facendosi cosa alcuna memorabile: eccetto che, essendo stati condotti con trattato doppio per entrare nel castello di Gifone, vicino alla terra di Sanseverino, circa a settecento cavalli e fanti di Ferdinando, vi rimasono quasi tutti o morti o prigioni» (StI III, iii, p. 251: si noti il distacco della congiunzione subordinante dal predicato verbale); lo stesso fenomeno si ripete nel passo che segue, dove l’eccettuativa salvo che appare spezzata in tre parti: «Non accadde questo anno in Italia cosa degna di memoria: salvo che, essendo in Perugia Giampaolo e Gentile della medesima famiglia de’ Baglioni, o perché nascesse tra loro contenzione o perché Giampaolo, non gli bastando avere più parte e più autorità nel governo, volesse arrogarsi il tutto, cacciò Gentile di Perugia» (StI XIII, xvi, p. 1376). 136  

7. 5. Costrutti assoluti 7. 5. 1. Le gerundiali Nell’ambito del periodo le gerundiali e le participiali hanno la funzione di circostanziali (nella maggior parte dei casi si tratta di causali e di temporali). Entrambe queste proposizioni implicite svolgono un ruolo di primo piano nel fondare l’architettura dei periodi e delle sequenze testuali; entrambe, nello svolgere questa funzione, riprendono sovente, riadattandoli e rifunzionalizzandoli, modelli latini. Nello studio delle gerundiali si devono considerare: i) i loro rapporti di reggenza e di coreferenza rispetto alla sovraordinata, ii) la posizione nel periodo, iii) i caratteri del verbo. Le gerundiali sono assolute o dipendenti; il soggetto di queste ultime è identico al soggetto della sovraordinata. 137 Le gerundiali con continuità referenziale rispetto alla sovraordinata si suddividono in due sottotipi, a seconda che presentino un predicato nominale o un predicato verbale. Precedono per lo più la sovraordinata le gerundiali che contengono essendo (come predicato o come ausiliare di un participio passato in una proposizione circostanziale o temporale); la seguono, in ordine di frequenza, le gerundiali che contengono un predicato verbale costituito con un verbo transitivo o intransitivo.  

Gerundio presente coreferenziale «Né Ferdinando, contro al quale tali cose si macchinavano, dimostrava d’averne molto timore, allegando essere impresa durissima» (StI I, v, p. 38), «Carlo scoperno, da Alfonso Davalo marchese di Pescara in fuora» (StI II, iii, p. 154), «i cherici, da quello in fuora che era necessario per il moderatissimo vitto loro, tutto il rimanente, parte nelle fabriche e paramenti delle chiese parte in opere pietose e caritative, distribuivano» (StI IV, xii, p. 418); cfr. «eccetto la città di Firenze» (StI XX, i, p. 2037) con «da’ viniziani in fuora» (StI XX, vi, p. 2061). 136  Nella Storia d’Italia le eccettuative, con le loro particolari collocazioni, contribuiscono in modo sostanziale al frangimento dei periodi. 137   Secondo Valente (2013: 366) è necessario distinguere tra vari gradi di assolutezza, infatti anche se i soggetti non coincidono, il soggetto delle frasi al gerundio può coincidere con un componente topics, generalmente ripreso da un pronome atono nella frase principale.

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la prosa del cinquecento tamente il dominio di Firenze dimandava, allegando che, per esservi entrato in quel modo armato, l’aveva [...] legittimamente guadagnato» (StI I, xvi, p. 108), «Ma il re, essendo intento solamente al passare innanzi, non voluto udire pratica alcuna, seguitò con celerità il suo cammino» (StI II, ix, p. 200), «e però [scil. Gian Galeazzo] tentando di conseguire col consiglio quello che non poteva ottenere con le forze, operò che ’l pontefice e gli oratori de’ re di Spagna [...] proponessimo» (StI III, xiii, p. 319), «il che [scil. riconoscere Modena e Reggio in feudo dalla sede apostolica] non si potendo fare, in modo che fusse giuridicamente valido, senza consenso degli elettori e prìncipi dello imperio, metteva Cesare in una di√coltà che non aveva esito» (StI XX, vi, p. 2061: la gerundiale impersonale non si potendo fare esprime, con un discorso reticente, una conseguenza che riguarda Cesare).

Gerundio passato coreferenziale: «Ma essendo delle guerre tra Alfonso e Renato rimasto vincitore Alfonso [...], e morendo poi senza figliuoli legittimi [...], lasciò per testamento il regno di Napoli [...] a Ferdinando figliuolo suo naturale» (StI I, iv, p. 26), «essendo passati senza ostacolo per il bolognese, entrorono nel contado d’Imola» (StI I, viii, p. 70), «[scil. il senato viniziano] il quale, essendo perseverato nella prima deliberazione di conservarsi neutrale, si era con tanta circospezione astenuto non solo da i fatti ma da tutte le dimostrazioni che lo potessino fare sospetto di maggiore inclinazione all’una parte che all’altra» (StI II, iv, p. 158).

La gerundiale “essendo + part. pass.”, preposta alla reggente, riferisce un fatto precedente (es. p. 70) o illustra una premessa (es. p. 158); lo stesso eπetto è ottenuto con tentando (es. p. 319), preposto; con allegando posposto (ess. p. 38 e p. 108) si specifica il motivo di un’azione; il sottotipo con essendo rappresenta un centro d’interesse focalizzato, che fa concorrenza al tema della reggente, diversamente da quanto accade nelle gerundiali costruite con altri verbi. Gerundiali assolute con discontinuità referenziale rispetto alla principale: Essendo: «Essendo adunque in Ferdinando, Lodovico e Lorenzo, parte per i medesimi parte per diversi rispetti, la medesima intenzione alla pace, si continuava facilmente una confederazione» (StI I, i, p. 8), «[scil. la confederazione] la quale, cominciata molti anni innanzi e dipoi interrotta per vari accidenti, era stata l’anno mille quattrocento ottanta, aderendovi quasi tutti i minori potentati d’Italia, rinnovata per venticinque anni» (StI I, i, p. 8), «Ma essendo già incominciata [...] a risonare in Italia la fama di quello che oltre a’ monti si trattava, si destorono vari pensieri e discorsi nelle menti degli uomini» (StI I, v, p. 38) «Ma essendo nota a don Federigo la deliberazione del nipote, [...] rispose con gravi parole» (StI II, iii, p. 155), «la quale vittoria la negligenza e i consigli imprudenti del re lasciorono loro facilmente conseguire, essendo il soccorso disegnato da lui, quando si partì d’Italia, restato vano» (StI III, i, p. 237) «Così essendo per tutto fermate l’armi o già in procinto di fermarsi, il duca di Milano [...] operò che ’l pontefice e gli oratori de’ re di Spagna [...] proponessino che [...] sarebbe necessario indurre i fiorentini a entrare nella lega» (StI III, xiii, p. 319), «Ma essendo destinato che nelle calamità de’ due fratelli si mescolasse con la mala fortuna la fraude, [scil. il cardinale Ascanio] si fermò la notte prossima» (StI IV, xiv, p. 439 ), «Nel quale [scil. senato] essendo uno giorno convocati per farne l’ultima determinazione [scil. Antonio Grimanno], 138 uomo di grande autorità, parlò in questa sentenza [segue DD]» (StI IV, vi, p. 371), «Essendo adunque ridotte tutte le guerre de’ due re nel regno di Napoli, erano volti a quella parte gli occhi e i pensieri di ciascuno» (StI VI, vii. p. 576).  

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  L’integrazione è nel testo.

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Con altri verbi: «il re, benché mosso dall’età e dalla forma dimostrasse averne compassione, nondimeno, non si potendo per cagione così leggiera fermare un movimento sì grande, rispose che» (StI I, xiii, p. 90), «sopravenneno lettere di Germania che lo sollecitavano a trasferirsi di là facendone instanza gli elettori e i prìncipi» (StI XX, i, p. 2040), «alcuni de’ suoi [scil. di Barbarossa] sacchegiorono Fondi [...]; non sapendo di questo accidente cosa alcuna il pontefice» (StI XX, vii, p. 2069).

La discontinuità referenziale provoca uno stacco tra le due unità informative, entrambe tematizzate e poste in un rapporto di quasi-asindeto in ess. p. 8, p. 155; mentre in ess. p. 90, p. 237, p. 2040 si ha un rapporto di causalità; in ess. p. 371. p. 2069 si rappresenta una circostanza, cha ha un senso avversativo. Si è visto che la gerundiale assoluta si colloca sovente all’inizio del periodo; aggiungiamo ora che con tale costrutto si attua un tipo di progressione tematica ricercato in particolare nella presentazione di eventi storici: Ma dubitando poi il pontefice che l’armata franzese, la quale era fama dovere andare da Genova al soccorso d’Ostia, non avesse ricetto a Nettunno, porto de’ Colonnesi, Alfonso, raccolte a Terracina tutte le genti che il pontefice ed egli avevano in quelle parti, vi pose il campo, sperando di espugnarlo agevolmente; ma difendendolo i Colonnesi francamente, e essendo passata senza opposizione nelle terre loro la compagnia di Cammillo Vitelli da Città di Castello e de’ fratelli, soldati di nuovo dal re di Francia, il pontefice richiamò a Roma parte delle sue genti che erano in Romagna con Ferdinando (StI I, xii, p. 87).

Il passo è aperto da una gerundiale assoluta «dubitando poi il pontefice» (il medesimo attante ritorna nel seguito del periodo), seguono la principale «Alfonso ... vi pose il campo», una participiale «raccolte tutte le genti» e una gerundiale, coreferente con il verbo della reggente «sperando di espugnarlo», seguono ancora due gerundiali assolute, che chiudono la sequenza testuale: «ma difendendolo i Colonnesi ... e essendo passata ... la compagnia». Un fenomeno ricorrente è la serie di più gerundiali, usate per descrivere le varie fasi di un evento; 139 nel raccontare la controversia tra Savonarola e il pontefice (StI III, xv, p. 335) si susseguono (in circa due pagine del testo) venti gerundiali al presente e al passato, variamente disposte nei periodi e dotate di diversi soggetti. In genere tuttavia le gerundiali di una serie sono riferite allo stesso soggetto: v. StI I, vi, p. 53. Per descrivere, nelle sue varie fasi, una complessa operazione bellica è messa in atto una serie di gerundiali e participiali:  

e essendo oltre a questo nel tempo medesimo infestati gli aragonesi per fianco dall’artiglierie dell’armata franzese, accostatasi al lito quanto poteva, cominciorono a sostenere di√cilmente l’impressione degli inimici; e essendo già spuntati dal ponte, sopragiunsono avvisi a Obietto, in favore del quale i suoi partigiani non si erano mossi, appropinquarsi Gianluigi dal Fiesco con molti fanti: per il che, dubitando di non essere assaltati dalle spalle, si messono in fuga, e Obietto il primo, secondo l’uso de’ fuorusciti, per la via della montagna; restando, parte nel combattere parte nel fuggire, morti di loro più di cento uomini (StI I, x, p. 81).

Più frasi o periodi costruiti sullo schema “principale + gerundiale” formano sequenze testuali contigue, le quali risultano funzionali alla descrizione di eventi e di 139   Si ritrova anche nella nostra prosa antica: v. Colussi (2014: 125), che parla di «frequenti casi di gerundiali in serie».

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operazioni. Nel passo ora cit. la prima gerundiale ha valore temporale (cosi come la participiale che segue), le altre gerundiali essendo già spuntati e dubitando hanno valore causale; l’ultima gerundiale restando morti ha valore conclusivo. Un’altra tecnica costruttiva di periodi si fonda sulla coppia di gerundiali appaiate e con varia collocazione: Così essendo per tutto fermate l’armi o già in procinto di fermarsi, il duca di Milano [...] esaltando publicamente con magnifiche parole la virtù e la potenza veneta, e commendando la providenza di Giovan Galeazzo primo duca di Milano che avesse commesso alla fede di quello senato l’esecuzione del suo testamento, nondimeno non potendo tollerare che la preda di Pisa, levata e seguitata da lui con tanta fatica e con tante arti, restasse a loro, come appariva manifestamente avere a essere, e però tentando di conseguire col consiglio quello che non poteva ottenere con le forze, operò che ’l pontefice e gli oratori de’ re di Spagna, a’ quali tutti era molesta tanta grandezza de’ viniziani, proponessino che, per levare d’Italia ogni fondamento a’ franzesi e per ridurla tutta in concordia, sarebbe necessario indurre i fiorentini a entrare nella lega comune col reintegrargli di Pisa, poiché altrimenti indurre non vi si potevano; perché stando separati dagli altri non cessavano di stimolare il re di Francia a passare in Italia e, in caso passasse, potevano co’ danari e con le genti loro, essendo massime situati nel mezzo d’Italia, fare eπetti di non piccola importanza (StI III, xiii, p. 319).

Dopo la prima gerundiale assoluta al passato «essendo fermate le armi», che ha valore temporale, le gerundiali coreferenziali e al presente che seguono hanno valore causale e disegnano lo svolgersi di un’azione politica («esaltando ... e commendando, non potendo tollerare ... e però tentando»), indirizzata a un fine («operò che il pontefice»); nell’ultima parte del passo è spiegato come un’azione diversa avrebbe portato a un esito negativo; in tale parte ricorrono due gerundiali al passato («i fiorentini ... stando separati ... essendo situati»). Si vede chiaramente come l’uso ripetuto di gerundiali sia utilizzato ai fini della progressione tematica. Appaiono spesso gerundiali poste in corrispondenza tra loro: «perché non cadendo nell’intelletto d’ognuno la cognizione di queste faccende, bisogna sieno governate da quegli che n’hanno la capacità: e ricercando spesso prestezza o secreto, non si possono né consultare né deliberare con la moltitudine» (StI II, ii, p. 145), 140 «non avendo ardire quegli che con la volontà aderivano a Piero di opporsi, né con le parole né con le forze, a tanta inclinazione. Ma non avendo facoltà di difendere Pisa e Livorno [...] gli madorno subito molti imbasciadori» (StI I, xv, p. 101). In conclusione, nella Storia si conservano alcuni aspetti tradizionali, come la serie e l’aπollamento di più gerundiali, la loro disposizione quasi simmetrica. Ne derivano alcuni modi e sequenze quasi-formulari, che talvolta presentano il vantaggio di sveltire la costruzione dei periodi. Nell’uso delle participiali si notano invece alcune innovazioni costruttive che riproducono, rifunzionalizzandoli, schemi periodali del latino classico.  

7. 5. 2. Le participiali Le participiali congiunte, riferite cioè a un sintagma nominale, hanno tra l’altro la funzione di proporre un antefatto di quanto è detto nella principale, riducendo

140   Prestezza appare 38 volte nella Storia d’Italia, 6 volte nelle Storie fiorentine, 8 volte in varie opere di Machiavelli, nove volte nelle Vite di Vasari.

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l’estensione dei periodi e semplificandone la struttura; 141 si ritrovano soprattutto nelle parti narrative dell’opera:  

«l’armi de’ franzesi, chiamate da’ nostri príncipi medesimi» (StI I, i, p. 5); «tali erano i fondamenti della tranquillità d’Italia, disposti e contrapesati» (StI I, ii, p. 10), «Il reame di Napoli, detto [...] il regno di Sicilia» (StI I, iv, p. 24), «da questo ebbono origine le guerre [...], fatte da loro più con le forze del reame medesimo» (StI I, iv, p. 26), «per gravissime oπese ricevute da Alfonso» (StI I, iv, p. 36), «I Visconti [...], cacciati finalmente i guelfi, [...] diventorno padroni di tutta la città» (StI I, v, p. 45), «Spaventato adunque Piero dal pericolo [...], si risolvé precipitosamente d’andare» (StI I, xiv, p. 97).

Delle participiali congiunte sarà bene distinguere due sottotipi: uno breve, nel quale si ritrovano talvolta participi che si avvicinano a un valore aggettivale, e uno esteso, nel quale appaiono participiali coreferenziali estese, portatrici spesso di strutture essenziali all’architettura del periodo. Non sono ovviamente coreferenziali con la sovraordinata le participiali assolute, le quali occupano di frequente la posizione iniziale del periodo (più raramente appaiono come incidentali), hanno diatesi attiva o passiva, hanno breve estensione e sono per lo più costruite con verbi terminativi delegati a una funzione connettiva rispetto a quanto precede: «Ma finita la linea mascolina [...], Francesco Sforza [...] occupò con l’armi quel ducato» (StI I, v, p. 46), «i quali, terminata la quantità della sua compagnia, [...] non avevano altro intento» (StI I, xi, p. 85), «Ma poiché da lui si diπeriva il rimedio, mandatavi gente, recuperorno [...] tutto quello che era stato occupato» (StI II, i, p. 137), «Finita in ultimo la mina e stando l’esercito armato per dare incontinente la battaglia [...], fece il Navarra dare il fuoco alla mina» (StI X, ix, p. 1007), «Sedato nel principio dell’anno mille cinquecento ventuno questo piccolo movimento [...], cominciorono, pochi mesi poi, a perturbarsi le cose d’Italia» (StI XIV, i, p. 1383), «Spugnata la terra s’arrendé la rocca, pattuita la salute di quegli che vi erano dentro» (StI XV, viii, p. 1544). 142  

La participiale assoluta collocata all’inizio del periodo attua una forte scansione tematica e temporale alla maniera di quanto avviene nei classici latini: Quibus rebus cognitis, Bello Helvetiorum confecto, Eo concilio dimisso, Ea re constituta (v. Hofmann/ Szantir 1972: 383-395). Il condizionamento operato dal modello ricorda quanto è avvenuto dell’oratio obliqua (in ispecie cesariana) continuamente riprodotta nella Storia. La sovraordinata presenta di solito il primo piano, mentre alla participiale è a√data la rappresentazione dello sfondo; 143 si tratta di uno schema variamente realizzato. Vero è che talvolta le participiali conquistano il primo piano, disponendosi in una successione, quasi fossero proposizioni esplicite:  

Né mancava nell’animo di Carlo inclinazione a cercare d’acquistare con l’armi il regno di Napoli, come giustamente appartenente a sé, cominciata per un certo 141   Raro è il participio presente con reggenza oggettiva: «di modo non si movendo cosa alcuna nella città, né Piero potente a sforzare la porta della città alla quale s’era accostato per un tiro d’arco» (StI III, xiii, 322), «il pontefice, aborrente dallo spendere per cose simili» (StI III, xiii, 322); si veda un caso di participio presente assoluto: «gli pareva fare troppa ingiuria al re di Francia se, pendenti questi ragionamenti, la maritasse a uno inimico suo» (StI XX, vi, p. 2063). 142  Nella Storia ricorrono con frequenza due tipi di subordinate participiali, le causali e le circostanziali. Per quanto riguarda i testi antichi, Valente (2013: 329) osserva: «in modo analogo alle gerundive assolute, le attestazioni di frasi participiali sono concentrate nei testi narrativi». 143   Cfr. Valente (2013: 353) ricorda che «le participiali esprimono talvolta motivazioni di ordine psicologico che sottendono l’azione denotata dalla frase participiale».

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la prosa del cinquecento istinto quasi naturale insino da puerizia e nutrita da’conforti di alcuni che gli erano molto accetti; i quali empiendolo di pensieri vani gli proponevano questa essere occasione di avanzare la gloria de’ suoi predecessori, perché, acquistato il reame di Napoli, gli sarebbe agevole il vincere lo imperio de’ turchi (StI I, iv, p. 27).

Collocate all’inizio del periodo o, come parentetiche, al suo interno, 144 le participiali collaborano alla progressione tematica; in esse appare sovente la premessa dell’evento o dell’azione espressi dalla principale:  

«Queste cose deliberate, e fatta la mostra generale di tutto l’esercito, Lodovico Sforza se ne tornò a Milano» (StI II, xi, p. 216), «Fatta la lega co’ viniziani, il re, senza fare più menzione di Pisa, propose a’ fiorentini condizioni molto diverse dalle prime» (StI IV, vii, p. 381), «Ricuperato Urbino, voltò Francesco Maria l’animo a insignorirsi di qualche luogo posto in sulla marina» (StI XIII, i, p. 1301), «Spaventati da tanti accidenti, il legato e gli altri che intervenivano nel consiglio, esaminato lungamente quello che per rimedio delle cose a∫itte fusse da fare, [...] conchiuseno essere da confortare il pontefice che restituisse i Bentivogli in Bologna» (StI XIII, v, p. 1320), «Partito adunque di Romagna con questa deliberazione, dichiarato già dal pontefice dopo l’acquisto di Faenza, con approvazione del concistorio, duca di Romagna, e ottenutane l’investitura, entrò con l’esercito nel territorio di Bologna, con grandissima speranza di occuparla» (StI V, iv, p. 463: si noti il mantenimento della continuità tematica).

Il participio passato di forma passiva precede di norma il soggetto: fa eccezione il primo es. (p. 216), dove i costituenti dei due costrutti formano un chiasmo. In es. (p. 1320) è presente il complemento d’agente. Nell’ultimo es. i tre participi sono: un inaccusativo, un passivo, un attivo. In alcuni passi, sono diversi i soggetti grammaticali della participiale e della principale, ma un clitico oggetto, presente in quest’ultima recupera la coreferenzialità: «Assicurati adunque i capitani di Cesare dal timore dell’armi e della fame, anzi sperando di mettere in di√coltà delle vettovaglie gli inimici, niuna cosa più gli tormentava che il mancamento de’ danari» (StI XV, v, p. 1526). Quanto all’uso parentetico della participiale, si deve considerare che il fenomeno si manifesta sia in una principale, dove aiuta la coesione dell’insieme rispetto all’agens (StI I, iii, p. 22), sia in una secondaria, dove esalta una circostanza, necessaria ad accrescere il rilievo di una scena. Posta alla fine del periodo, la participiale assume in varie occasioni la funzione e il valore di una relativa: «Perché chi non sa di quanta infamia vi sarebbe, invitandovi massime sì grandi occasioni, il tollerare più che Ferdinando vi occupi uno regno tale? stato posseduto per continua successione poco manco di dugento anni da’ re del vostro sangue (StI I, iv, p. 32), «dette loro sopra le cose occorrenti nuove commissioni; e vi deputò, oltre a questi, Cammillo Pandone, statovi altre volte per lui » (StI I, v, p. 41). 144   La participiale come parentetica appare sia in una proposizione principale: «Ma Ferdinando, desideroso non di irritare più, ma di mitigare l’animo del pontefice e di ricorreggere quel che insino a quel dì imprudentemente si era fatto, rifiutati totalmente questi consigli, i quali giudicava partorirebbono non sicurtà ma travagli e pericoli molto maggiori, deliberò di fare ogni opera, non più simulatamente ma con tutto il cuore» (StI I, iii, p. 22), sia tra una circostanziale e la principale: «e nondimeno, per la violenza del salnitro col quale si fa la polvere, datogli il fuoco, volavano con sì orribile tuono e impeto stupendo per l’aria le palle, che questo instrumento faceva, eziandio innanzi che avesse maggiore perfezione, ridicoli tutti gli instrumenti i quali nella oppugnazione delle terre avevano, con tanta fama di Archimede e degli altri inventori, usati gli antichi» (StI I, xi, p. 84; (nota due ess. di tmesi: faceva ... ridicoli ... avevano ... usati).

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Il participio passato appare talvolta in espressioni ellittiche dell’ausiliare: «le quali terre, per farsi scala alla ardentissima cupidità che aveva di Pisa, [scil. Lodovico Sforza] domandava, come tolte ingiustamente, pochissimi anni innanzi, da’ fiorentini a’ genovesi» (StI I, xv, p. 102), 145 «e passando senza sospetto per il ducato di Milano [...], fu [scil. Guidantonio Vespucci] per commissione del duca ritenuto in Alessandria, toltegli tutte le scritture » (StI III, i, p. 239: si noti il tema sospeso, in luogo di ‘e gli furono tolte tutte le scritture’). 146  



7. 6. Cenni sulla morfologia Una conferma delle tendenze che abbiamo individuato nella sintassi del periodo si coglie in taluni aspetti della morfologia. Premesso che, al pari delle precedenti edizioni, anche quella curata da S. Seidel Menchi (1971) ammoderna la grafia originaria, ricostruibile fino ad una certa altezza cronologica dalla consultazione del Mediceo Palatino 166, ricordiamo con Trovato (1994: 280) che: «nonostante la lettura attenta del Bembo, il Guicciardini modificò solo in parte le sue abitudini linguistiche, sostanzialmente quattrocentesche, accogliendo o mantenendo in qualche caso forme fiorentine dell’uso vivo (potrebbeno, el, drento, sanza)». 147 Questo atteggiamento provocò l’intervento del correttore della tipografia del Torrentino: «La revisione editoriale del 1561 condivide inoltre abbastanza largamente la tendenza, bembesca e cinquecentesca matura, a sostituire i latinismi lessicali con sinonimi di tradizione fiorentinotrecentesca» (ibidem). Non adeguandosi agli insegnamenti di Bembo, Guicciardini presenta vari punti di contatto con le scelte linguistiche di Machiavelli e degli scrittori municipali. Si segnalano qui di seguito alcuni aspetti della morfologia, riportando esempi che appaiono, a vario titolo, significativi della lingua letteraria primocinquecentesca (metaplasmi di classe nominale, sollevamento del clitico, uso dei pronomi personali e dei relativi, forme verbali notevoli).  

Omissione dell’articolo indeterminato: «non aveva [...] provato stato tanto desiderabile» (StI I, i, p. 6), «appresso a tutte le nazioni nome e fama chiarissima riteneva» (StI I, i, p. 6), «Ma variazione d’importanza non minore aveano fatta» (StI I, ii, p. 12), «propose all’uno e all’altro di loro insieme, per beneficio comune, nuova confederazione» (StI I, iii, p. 20). Il fenomeno avviene particolarmente nelle serie: «Perché in Alessandro sesto [...] fu solerzia e sagacità singolare, consiglio eccellente, e√cacia a persuadere maravigliosa» (StI I, iii, p. 12); v. Trolli (1972: 109). Omissione dell’articolo determinativo con i nomi geografici: «avesse con piccola fatica, anzi quasi per se stessa, Italia nello stato di prima a ritornarsi» (StI I, iii, p. 23); omissione nel secondo membro di una coppia: «per la riputazione e prudenza sua» (StI I, ii, p. 10). 145

  Tmesi ed ellissi dell’ausiliare sono fenomeni che riprendono per lo più tratti latineggianti.   P. V. Mengaldo, Note sulle proposizioni participiali nella “Storia d’Italia” di Guicciardini, in “Lingua e stile”, li: 65-73, 67 osserva: «La fitta presenza dei due tipi di participiali si spiega ovviamente con la ben nota complessità del periodare della Storia d’Italia, e più in concreto con la sua tendenza ad ammassare subordinate (circostanziali) per giungere alla principale – che è un aspetto della concezione guicciardiniana della realtà come intrico e molteplicità di cause, circostanze e concomitanze. Sicché spesso subordinate di vario tipo si addossano o inframezzano l’una con l’altra, mentre s’inseriscono in contesti dominati o comunque attraversati dalle espressioni della causalità (le celebri serie di perché del Guicciardini)». 147   Riprendo da Trovato (1994: 276) alcuni esempi di grafie presenti nel codice citato: exemplo, exequire, absente, obstaculo, adversità, advertire, circumdando, constante, subfocare; quanto all’uso delle consonanti doppie, si vedano: dubio (alla latina), ammazare, debileza, mezo. Questi, come altri tratti, sono contrari all’uso proposto da Bembo nelle Prose. 146

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Nomi (casi notevoli): condottiere (StI II, v, p. 172), conquisto (StI I, xix, p. 124), fuorisciti (StI I, x e passim), imbasciadori (StI I, xvi, p. 108), ritornata (StI III, i, p. 327), salvocondotto (StI II, v, p. 170), le castella (StI I, iii, p. 16), v. Trolli (1972: 77). Prefissati (casi notevoli): inubbidienza (StI III, xv, p. 334), costumi inonesti (StI III, xv, p. 336), ricondursi (StI I, vii, p. 65), riconfermare (StI IV, i, p. 345). 148 Pronomi personali: la ‘ella’: «aveva permesso che la navicella sua fusse travagliata dal mare, non voleva che la perisse» (StI X, xv, p. 1051), «Soggiugnendo che benché questa vittoria gli potesse parere giustamente tutta sua, per non essere stato seco ad acquistarla alcuno degli amici, voleva nondimeno che la fusse comune a tutti» (StI XVI, v, p. 1619). Ella è pron. soggetto di persona o cosa; dopo preposizione essa è pron. obliquo [-umano] (ma v. StI XX, vii, p. 2066). Coppie di pronomi, ordine “accusativo + dativo”: «il primo male che innanzi agli occhi se gli presentava» (StI I, iii, p. 23), «appartenersegli pretendeva» (StI I, iii, p. 23), «cominciando a dimostrasigli» (StI I, x, p. 80),«cominciò a presentarsigli» (StI II, iv, p. 158), ma cfr.: negargliene (StI III, 1; VII, x; XIII, xiii), «che gliene desse» (StI IV, xiv, p. 439). Risalita del clitico: «non si ricordando delle spesse variazioni della fortuna» (StI I, i, p. 5), «né si dimostrando» (StI I, xiv, p. 97), «non si accorgendo ancora che» (StI VII, iii, p. 645). Cfr. anche: «ma tutte le dimostrazioni che lo potessino fare sospetto» (StI II, iv, p. 158), «molti altri lo dovevano seguitare» (StI IX, xv, p. 917), ma «quando Pagolo volle farlo cadere» (StI IV, x, p. 411). Pronome soggetto 3a pers. sing.: è pressoché costante egli soggetto, anche dopo la congiunzione: «si era compreso essere stato trattato [...] che uniti insieme Consalvo ed egli assaltassino la Toscana» (StI VI, iii, p. 552); lui soggetto: «[scil. Ferdinando] inteso per lettere dalla reina essere in Napoli nata, per la perdita di San Germano, sollevazione tale che non vi andando lui susciterebbe qualche tumulto, vi cavalcò con piccola compagnia» (StI I, xix, p. 125); lui soggetto appare più di frequente in opere precedenti di Guicciardini: «e lui dava volentieri loro ogni larghezza», «Di che lui ne acquistò Milano e nacquene la salute di Italia» (Storie fior., pp. 66, 67); 3ª pers. plur. soggetto: essi è più frequente di eglino. Pronomi possessivi: si ritrovano vari esempi di suoi, sue in luogo di loro: «non avevano altro intento che meritare laude appresso al suo re» (StI I, xi, p. 85), «i capitani dello esercito. I quali, vedendo la oppugnazione riuscire continuamente più di√cile, feciono andare nel campo suo mille dugento fanti tedeschi, condotti di nuovo dai viniziani a spese comuni del pontefice e loro» (StI XVII, xi, p. 1772). Preposizioni ripetute nei due costituenti di una coppia: «per sé proprio e per bene publico» (StI I, i, p. 5), «ripieni per questa elezione di spavento e di orrore» (StI I, ii, p. 11); non ripetute: «dalla sedia e maestà della religione» (StI I, i, p. 6), «alla industria e virtù di Lorenzo de’ Medici» (StI I, i, p. 6). Costante l’uso di contro a X, fuora di X, dinanzi a X. Non concordanza, nel numero: «Aggiunsesi alle genti di Marano, pochi dì poi, quattrocento cavalli e mille dugento lanzchenech che erano stati a Vicenza» (StI XII, v), «Dimostrossi certamente animoso l’uno esercito e l’altro quando vedde l’inimico inferiore» (StI I, xii, p. 89), «sempre se ne può cavare documenti accomodati e utili» (Reggimento, Proemio), «Adunche lasciata a un altro tempo la agricoltura, gli orti e le fabriche» (ivi, p. 248); non concordanza nel genere: «quella resistenza che fu sperato da molti» (StI I, xvii, p. 113); accordo del participio passato con ausiliare avere: «avendo [...] presa la tutela di lui e [...] ridotte a poco a poco in potestà sua le fortezze» (StI I, i, p. 7), «delle ingiurie che avea fatte» (StI III, i, p. 238), «aveva ricevute [...] commissioni contrarie» (StI III, i, p. 242); non accordo: «alzato le bandiere del re» (StI II, v, p. 170) Verbi (forme notevoli). Passato remoto, 3a pers. sing.: mésse ‘mise’ (StI III, ii, p. 247), vedde ‘vide’ (StI I, xii, p. 89); 3a pers. plur.: andorno (StI I, xiv, p. 98), assaltorono (StI I, x, p. 80), convennono (StI I, xvii, p. 115), credettono (StI I, iii, p. 16), dissono (StI II, vii, p. 181, manca dissero), feciono (58 ess., manca fecero), incominciorno (StI I, xvii, p. 113), messono (StI I, x, p. 81), potettono (StI I, xiv, p. 99), veddono ‘videro’ (StI I, xviii, p. 122). Passato remoto in Storie fiorentine: aperse, potette; ampliorono, apersono, feciono, furno, nacquono, partorirono,  

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  Per la formazione delle parole nella prosa di Bembo v. Matarrese (2000).

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potettono, riposorono, richiesono, seppono, vennono, vollono. Congiuntivo imperfetto, 3 pers. sing.: avesse (StI I, i, p. 7), fussi (StI XIX, x, p. 1998), 2a pers. plur.: se voi fussi stato (StI XVI, xiv, p. 1684); 3ª pers. plur.: amassino (StI XV, xiv, p. 1579), avessino (StI I, xvii, p. 113), dessino (I, i, p. 7), fussino (StI I, vii, p. 63), diminuisseno (StI I, ix, p. 78). Condizionale presente: arebbe (StI I, iii, p. 16), sarebbe (I, i, p. 6); arebbono (StI I, xvii, p. 113), sarebbono (StI I, i, p. 8), doverebbono (StI II, v, p. 171). Participio passato: si ritrova di norma stato (e derivati), di suto (e derivati) si hanno soltanto tre esempi: StI III, iv, p. 262; VI, vii, p. 580; VI, xi, p. 602. Uso del verbo stare + aggettivo / participio passato: «Stava molto perplesso il marchese di Saluzzo» (StI XVIII, vi, p. 1843), «stava preparato per opporsi agl’inimici» (StI V, xv, p. 531), «la Romagna [...] stava quieta» (StI VI, iv, p. 558), «Imola [...] stava sospesa» (StI VI, vi, p. 568); «stavano attenti e preparati a valersi» (StI I, i, p. 8), «stavano vigilanti a questa occasione» (StI IV, vii, p. 382); con gerundio: «certo è che stava alla mensa desinando» (StI XII, xii, p. 1230); cfr. anche «se l’esercito stava insieme» (StI XIII, v, p. 1318). Verbi pseudoriflessivi: essersi (vari casi), «penseranno più a fuggirsi» (StI I, iv, p. 31), «data la fede di non partirsi» (StI II, v, p. 170). 149 Lessico. Sono numerosi i latinismi: abolire, augumentare (e derivati), Capitolio, industria (e industrioso), interpellazione, laude (e laudabile, accanto a lodare), mediocre (e mediocremente), opinione, partecipe, scrutinio, somministrare, stabile, suave, vilipendio, vulgare ‘divulgare’; di contra consideriamo: conchiudere, particolare, pontefice, soave (accanto a suave). I latinismi sono assai meno frequenti nelle Storie fiorentine. a



7. 7. Conclusioni sulla lingua di Guicciardini Gli studi compiuti negli ultimi decenni hanno messo in luce i caratteri dell’architettura dei periodi, la loro complessità, le fitte ramificazioni delle proposizioni e dei sintagmi, proponendo omologie tra le strutture sintattico-stilistiche e il sistema concettuale, tra le strutture di pensiero e la visione del mondo, riprendendo talvolta i percorsi di una stilistica di tipo spitzeriano. La nostra analisi, invece, ha cercato di descrivere i costrutti e i fenomeni sintattici presenti nell’opera, secondo una prospettiva linguistica, con il fine d’individuare alcuni tratti di una norma della prosa letteraria sul punto di stabilizzarsi. L’analisi ha condotto a risultati che si possono riassumere nei seguenti punti: i) La morfosintassi dell’italiano antico e la mescidanza di forme tipica della seconda metà del Quattrocento appaiono superate (rari sono i fenomeni residuali): la via seguita è in parte quella indicata da Bembo, in parte consegue a un latineggiamento (contrario alle idee di Bembo) riguardante l’ipotassi e il discorso riferito. ii) Sono abbandonati i costrutti misti, come la paraipotassi e la mescidanza nella subordinazione di costrutti con verbo finito e con infinito, la segmentazione eccessiva dei periodi, la ripetizione in prossimità di congiunzioni e di nessi subordinanti; a tale proposito si è parlato di una “razionalizzazione” della sintassi del periodo, formula corretta se con essa s’intende il rifiuto di riprendere nella lingua letteraria i tratti ora ricordati e ogni colloquialismo non adattato al cotesto. iii) L’imitazione del latino riguarda sia la costruzione di periodi complessi (ipersintatticità argomentativa), spesso esemplati sul modello ciceroniano, sia la ripresa frequente di singoli fenomeni: l’oratio obliqua, l’accusativo con l’infinito, la participiale assoluta. Quest’ultima limita sensibilmente l’uso delle gerundiali, che nell’it. ant. erano il mezzo predominante per esprimere circostanze, premesse, chiarimenti ecc. Il fattore distintivo, rispetto all’uso di altri prosatori del xvi sec., è l’alta frequenza di tutti questi costrutti. 149   Dei verbi a supporto ricordiamo quelli aventi come nucleo predicativo consiglio: dare c. (Ds, StI), domandare c. (StI), mancare c. (StI), mutare c. (Ds) cfr. Schøsler (2006).

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iv) Il rapporto tra periodi estesi e periodi brevi cambia a vantaggio dei primi: l’equilibrio tra questi due fattori, che si ritrova nel Principe e nel Cortegiano, è superato. Muta anche il rapporto tra parte sinistra e nucleo frasale: la preponderanza della prima rispetto al secondo, caratteristica del filone Boccaccio-Bembo è sostituita da un ampliamento dell’insieme “reggente+subordinata” e dell’ultima parte del periodo. L’“inframezzamento” delle avverbiali, caratteristica saliente della sintassi periodale della Storia, è un fattore che distingue nettamente quest’opera sia dalla “recitazione” ritmica bembiana sia dall’equilibrio compositivo di Castiglione. v) La diversa utilizzazione degli schemi cognitivi nella progettazione sintattica e testuale è in parte condizionata dalla struttura annalistica della Storia e dalla ripresa di organismi tipici del discorso, come l’orazione singola e le due orazioni contrapposte recitate da personaggi famosi. vi) L’evoluzione della scrittura è un riflesso della novità delle intenzioni manifestate e della prospettiva adottata dallo storico. Nella disposizione, presentazione, elaborazione degli argomenti appare chiaro che ciò che interessava soprattutto a Guicciardini era determinare razionalmente il rapporto tra le cause e gli eπetti, descrivere la psicologia dei personaggi, esaminare gli eventi storici secondo criteri non trascendenti, ma immanenti al processo storico. Machiavelli e Guicciardini rappresentano due tendenze della prosa rinascimentale che appaiono in contrasto tra loro. La diversità, che si riscontra ai livelli della sintassi e dello stile, dipende anche dalle diverse istanze enunciative che muovono le loro opere: Machiavelli guarda a Firenze e all’Italia, Guicciardini guarda all’Europa. L’impegno di fronte ai tragici eventi d’Italia appartiene a Machiavelli, mentre l’eloquenza di Guicciardini, quale si rivela nelle tre orazioni del 1527, non è priva di ambiguità e contraddizioni. L’aria che si respira dopo il sacco di Roma non è quella del tempo in cui le speranze erano vive e una riscossa sembrava possibile e perfino vicina. 150 Chi scrive la Storia d’Italia è entrato per tempo nelle stanze del potere. Le giovanili Storie fiorentine mostrano un Guicciardini conoscitore dei retroscena della politica; altri scritti testimoniano un’attenta lettura del Principe, una lettura che non risparmia le critiche. Il Dialogo del reggimento di Firenze respinge la tesi machiavelliana sulla positività della componente popolare nel governo di Roma antica. Le Considerazioni intorno ai Discorsi di Machiavelli discutono di un politico che non sa cogliere la particolarità dei tempi e delle circostanze: «Quanto si ingannano coloro che a ogni parola allegano e’ romani! Bisognerebbe avere una città condizionata come era loro, e poi governarsi secondo quello esemplo: il quale a chi ha le qualità disproporzionate è tanto disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino facessi il corso di un cavallo». 151 Guicciardini non ha l’ardire progettuale di Machiavelli, ma possiede una capacità di osservazione estesa e profonda, con la quale supera per la prima volta l’ottica ristretta dell’Umanesimo, ferma al municipio e alla regione. Machiavelli è un autore privo di destinatari, è l’esperto che vuol essere la guida del principe, in un perio 



150   Cfr.: «il Machiavelli, in forza dell’estrema tensione della scrittura verso il sublime tragico, può ancora immaginare il capovolgimento della storia, sia pure come visione e rappresentazione ideale» (Bàrberi Squarotti, 2005: 364-365), dove si evidenzia l’eloquenza esasperata della conclusione dell’Accusatoria. 151   Ricordi, n. 110; lo stesso concetto ricorre in StIt I, xiv. Sulla retorica dell’azione, si vedano: Jean-Marc Rivière, Rhétorique de l’action dans les “Consulte e pratiche della Repubblica fiorentina”, in Fournel et Al. (2014: 161-175); Jean-Claude Zancarini, Sens et usage d’“esperienza”chez Machiavel et Guichardin (ivi: 199-211).

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do in cui l’Europa degli Stati nazionali impone una visione nuova del presente e del passato e spinge a modi di organizzazione prima sconosciuti. Erede delle concezioni del secolo precedente, Machiavelli si rivolge a un pubblico in ritardo con i tempi: il popolo è legato a una realtà cittadina e provinciale, gli ottimati non hanno referenti politici europei; il contatto con il presente appare perduto. Guicciardini, isolato dal mondo per propria scelta, osserva la politica delle monarchie nazionali e ne coglie i riflessi nella tragedia della Penisola. Nella prospettiva della nostra prosa d’arte la Storia d’Italia rappresenta, pur con la sua ipertrofia parentetica, un laboratorio di esperienze compositive valide per una lingua letteraria giunta a una piena maturità di forme e di strutture. L’opera è tesa a nuovi orizzonti e, al tempo stesso, è un modello di classicismo che mantiene una presa diretta sulla realtà dell’agire politico e degli eventi. L’unità della Storia presuppone un’idea sovrana che tutta la percorre e anima dal principio alla fine, un’unità che non doveva dispiacere in un’epoca di diπuso aristotelismo. Tutto ciò si accorda con quella tendenza espansiva che la letteratura mostra di possedere a metà del secolo: testimonianza di una società delle lettere aperta agli artisti, indispensabile presupposto delle Vite vasariane, dell’autobiografia e dei trattati di Cellini. In Guicciardini tale progresso significa superamento di quelle incertezze del passato, nate dal contrapporsi di diπerenti modelli: la trattatistica volgare, il bembismo, i classici latini, la colloquialità fiorentina. Si comprende allora il giudizio di Leopardi, che definirà purissima la lingua dei cinquecentisti, al successo della quale si accompagnano due fenomeni: l’accoglimento di una norma, che fa sentire la sua pressione nel campo fonomorfologico e regola il classicismo cinquecentesco, limitando altri possibili sviluppi, e l’aπermazione di una letteratura dialettale riflessa, che può avvenire soltanto dopo la codificazione linguistica e letteraria del toscano.

8. Le Vite del Vasari (1550)

8. LE VITE DEL VASARI (1550) * 8. 1. Ritrarre i grandi

N

el Quattrocento e nel Cinquecento apparvero varie biografie di celebri personaggi; era un genere che attirava un pubblico numeroso. Benché fossero scritte in una lingua povera, ebbero successo le Vite di Vespasiano da Bisticci (1421-1498); uguale sorte ebbero le traduzioni del De claris mulieribus di Boccaccio, condotte da Jacopo Filippo Foresti (Ferrara, 1497) e da Giuseppe Betussi (Venezia,1545); Paolo Giovio, già noto per le sue Vitae, divenne famoso per gli Elogia veris clarorum virorum imaginibus apposita. Quae in Musaeo Ioviano Comi spectantur (1546), originale confronto tra celebrazioni e ritratti. 1 La fortuna del genere fece sì che si cominciò ad anteporre alle biografie una presentazione dell’autore, che giovò certamente al successo di queste opere. Oltre al paratesto, anche la testualità si evolve: alle sue Vite Vasari applica il modello, di lungo corso, dell’agiografia. 2 L’opera, che riguarda ben tre secoli di storia artistica, è pubblicata la prima volta da Lorenzo Torrentino (1550), la seconda dai Giunti (1568). 3 Per lungo tempo l’interesse degli studiosi è andato alla seconda edizione, diversa dalla prima per varie modifiche e numerose aggiunte; più recentemente l’attenzione si è spostata sulla Torrentiniana, la quale (ristampata soltanto nel 1927, senza commento, a cura di Corrado Ricci) ha visto di nuovo la luce nell’edizione curata da L. Bellosi e A. Rossi (1986), che è il testo tenuto presente in questo studio. 4 La Torrentiniana, meno ricca di notizie e di spunti eruditi, interpreta più compiutamente l’idea dell’arte e più a fondo coinvolge il lettore, mostrando gli sviluppi degli stili, delle “maniere” e delle mode: di qui il motivo della nostra scelta. 5 Negli ultimi decenni un confronto attento tra le due edizioni ha messo in luce il diverso uso delle fonti cui Vasari ha fatto ricorso a distanza di tre lustri. Rispetto alla prima edizione delle Vite, la Giuntina accresce il carattere ibrido ed eclettico della prima edizione: sono aggiunte altre monografie, sono introdotti particolari eruditi, si esibiscono nuovi documenti. A dimostrare la sua dimestichezza con Michelangelo, Vasari pubblica le lettere scambiate con il grande artista, del  









* Questo saggio è stato anticipato da un mio contributo più breve e circoscritto, di cui riprendo qui alcune linee: La progressione tematica nella prosa del Vasari, in V. Casale e P. D’Achille (a cura di), Storia della lingua e storia dell’arte in Italia. Dissimmetrie e intersezioni. Atti del iii Convegno asli (Roma, 30-31 maggio 2002), Firenze, Franco Cesati, 2004, pp. 331-47. 1   Si veda ora la traduzione italiana: Elogi degli uomini illustri, a cura di F. Minonzio, Torino, Einaudi, 2006. 2   Sul modello agiografico ripreso nelle Vite v. Burke (1999: 291-293). Circa le due edizioni dell’opera, cfr.: «La successiva rivalutazione della Torrentiniana – riproposta dalla ristampa a cura di Ricci (1927) e di recente dall’edizione a cura di Bellosi e Rossi (1986) – e il sempre più approfondito confronto con la Giuntina hanno più tardi sollecitato una lettura comparativa intesa a mettere in giusto rilievo la diversa e complessa orchestrazione delle fonti e a valorizzare la nascita di un linguaggio specifico e unitario che, partendo da due diverse culture del maturo Cinquecento, Roma e Firenze, riesce a vivificare in vario modo più di tre secoli di storia artistica» (P. Barocchi, “Giorgio Vasari”, in Enciclopedia dell’arte medievale, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2000: 508-510). Si vedano anche i saggi contenuti in Atti Vasari 1976. 3   Bettarini (1976) studia il passaggio dalla prima alla seconda ed. dell’opera anche dal punto di vista dei mutamenti intervenuti nello stile. 4   Le citazioni sono tratte da Vasari (19912). Avverto che ho sostituito il Perché, posto all’inizio del periodo e avente valore consecutivo, con Per che. 5   Ho presente la seconda edizione dell’opera, Torino, Einaudi, 19912, della quale ho compiuto spogli parziali.

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quale descrive infine il solenne funerale. D’altra parte, la Giuntina lascia apparire più distintamente la consapevolezza di aver tracciato una storia dell’arte italiana, degna di quella civile e politica, paragonabile alla Storia guicciardiniana. 6 Superata la condizione di semplici esecutori di opere, all’inizio del Cinquecento gli artisti mostrano interessi culturali, scrivono prose e versi, ambiscono a costituire, insieme con gli umanisti, un’aristocrazia dell’ingegno; tra artisti e letterati nascono rapporti di amicizia e di collaborazione. Vasari fu amico di personaggi, quali Giovio, Caro, Tolomei, Molza, Amaseo e Aretino: si giovò, tra l’altro, del loro aiuto per raccogliere una grande quantità di notizie e di documenti. Per la scrittura dell’opera, ebbe come consulenti Vincenzo Borghini, Matteo Faetani e Pier Francesco Giambullari.  

8. 2. Il progetto Nelle Vite è celebrata l’evoluzione dell’arte italiana, distinguendo tre periodi: da Cimabue a Giotto, da Iacopo della Quercia a Masaccio, Botticelli e Signorelli, infine da Leonardo a Michelangelo. Nel Duecento e Trecento l’arte è imperfetta; Giotto è lodato per due motivi: ha «la maniera greca», ha dato «migliori attitudini alle sue figure»; non mancano tuttavia le riserve, riguardanti in particolare la tecnica pittorica. 7 Il Quattrocento segna un innegabile progresso, ma persiste «una certa maniera secca e cruda». La perfezione viene ultima, quando superato l’aborrito «stile gotico», si manifesta «la terza maniera che noi vogliamo chiamare la moderna». Leonardo, Raπaello e soprattutto Michelangelo, «che ha passato e vinto gli antichi», segnano la perfezione delle arti figurative. Il corpo umano è il soggetto principale degli artisti, il centro della scultura e della pittura. Lo schema proposto da Vasari, che guarda a un’arte fondata su una perfetta imitazione della realtà, non può più essere accolto sul piano estetico, ma ha un significato storico e psicologico. Ai concetti di un’idealizzazione della bellezza e di una sua perfezione, acquisita progressivamente, fa seguito l’idea di una prevedibile decadenza. Nel comporre le Vite Vasari non trasse grande giovamento dai pochi scritti che trattavano dell’argomento: i Commentarii di Ghiberti, le pagine lasciate da Ghirlandaio e da Raπaello, il Trattato d’architettura di Filarete; ma la novità e l’originalità della sua trattazione non si spiegano con queste opere e neppure con le note latine su Cimabue e Giotto, presenti nel De origine civitatis Florentiae et eiusdem famosis civibus di Filippo Villani, o con i profili di artisti, tracciati da Bartolomeo Facio nel De viris illustribus. Vero è che la curiosità di Vasari e il senso vivo che egli ebbe della scena rappresentata in un’opera spingono a cercare più fonti. Nella spigliata presentazione di Brunelleschi egli avrà avuto sott’occhio gli scritti di Antonio Manetti e avrà ricavato particolari non tanto dalla sua galleria di Uomini singulari in Firenze dal MCCCC innanzi, quanto dalla Novella del Grasso legnaiuolo, alla cui stesura Manetti collaborò e nella quale è in scena il grande architetto, che, riprendendo lo scherzo giocato a Calandrino da Bruno e Buπalmacco, fa credere al protagonista di essere un altro. 8 L’originalità dello scrittore si rivela nella cura rivolta alla realizza 



6   Cfr. Guglielminetti (1990: 493), che accenna anche alle reazioni negative suscitate dalla pubblicazione del’opera; sui precedenti della quale v. Tanturli (1976). 7   Per l’uso di maniera nelle Vite v. Weise (1950); il vocabolario tecnico usato da Vasari è studiato da Le Mollé (1976, 1988). 8   Cfr. M. Ciccuto, La novella come forma della cultura visiva: il caso del ‘Grasso legnaiuolo’, in Favole parabole (2000: 379-388), dove si ricorda che «la novella precede la biografia del grande architetto Brunelleschi nei due manoscritti che la conservano».

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zione della figura umana (tema che non suscitò l’interesse di coloro che trattarono dell’attività degli artisti) e nel senso dell’arte come creazione individuale. I caratteri della testualità risaltano in due capitoli, che presentano un prologo più esteso rispetto alla misura ricorrente nella quasi totalità dell’opera. I due artisti sono Andrea del Sarto (si accenna al «male uso de’ suoi costumi») e il Parmigianino (si ricorda il fallimento delle sue ricerche alchemiche, causa della sua morte precoce). Si segue l’ordine che ricorre abitualmente nelle Vite: è esposto un principio generale o un giudizio o un detto, riguardante la morale o le regole del vivere civile o i principi dell’arte; segue poi, dopo un semplice raccordo, la narrazione della vita e delle opere dell’artista. È una dispositio che ricorda l’avvio riflessivo di molte novelle del Decameron, dove la narrazione spicca il volo da un tema o da un commento iniziali. Vi è tuttavia una diπerenza: nelle Vite il prologo è breve, quando il giudizio è positivo (fa eccezione l’apoteosi finale di Michelangelo), è lungo quando il giudizio è negativo. Il discorso, sostenuto da argomenti analoghi a quelli che alimentano le biografie umanistiche, si sviluppa nelle critiche e nei rimproveri che l’autore rivolge a determinati artisti, per i loro umani comportamenti o per i loro difetti artistici. I capoversi della Vita del Parmigianino sono segnati da riprese, che suonano avversione e distacco; invece premesse “positive” introducono le Vite di Leonardo, Bramante, Raπaello, Sansovino e Rosso pittor fiorentino, nelle quali i periodi scorrono per lo più agilmente. 9 L’ampio prologo alla Vita di Michelangelo è una lode del genio, inviato dal Rettor del Cielo per risollevare la sorte di tutte le arti (il tono è simile a quello con cui Beatrice è celebrata nella Vita nova). La storia, come accade nell’atmosfera dell’Umanesimo, è sempre magistra vitae. Nelle pagine di Vasari scorre una filosofia che si richiama talvolta all’astrologia. 10 La vita di Raπaello, la più compatta e la più felicemente costruita, inizia con un elogio di tono castiglioneo. La musica cambia quando si castigano le stranezze compiute, di giorno in giorno, da Piero di Cosimo e da Leonardo. La varietà dello stile certamente non manca nelle Vite. La funzione dimostrativa e militante dell’opera, intesa a spiegare, tenendo fermo il criterio dell’imitazione della natura da parte dell’artista, il continuo progresso dell’arte, trova un riscontro nella testualità. Alla salda struttura non corrisponde la qualità dello stile. La proporzione e l’equilibrio non sono qualità del Vasari: «invano cercheremmo nelle Vite la superba, sapiente economia di costruzione, di ritmo, d’impasto che fa del periodo castiglionesco una forma pura, godente di sé e per sé godibile». 11 Le Vite hanno più di un fine. Il primo consiste nel presentare gli artisti e le loro opere, soπermandosi su una descrizione minuta di forme e di temi, accompagnata sovente da dati tecnici. Si rappresenta l’intensa attività degli artisti alle prese con strumenti, materiali e adiuvanti. Ricorrono aneddoti e spunti narrativi; si pronunciano riflessioni sulle arti, sul loro divenire e progresso. All’ascesa e al raggiungimento del culmine segue l’inarrestabile decadenza. Nel Proemio alla III parte è ripreso un tema assai dibattuto in quegli anni: il confronto tra pittura, scultura e architettura.  





9

  Cfr. Vasari (19912: 545, 572, 610, 666, 749).   E. Garin, L’universalità di Leonardo, in Garin (2009, ii: 171-186, 173-177); cfr. Guglielminetti (1990: 491-492). 11   Cfr. Nencioni (1983: 82). Lo studioso ha presente la redazione Giuntina (1568), nell’edizione curata da G. Milanesi, Firenze, Sansoni, 1878-1885; la quale si legge in: Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed architetti, nelle redazioni del 1550 e del 1568, a cura di R. Bettarini e P. Barocchi (“Testo”, 6 voll., e “Commento secolare”, 2 voll., Firenze, 1966-87). 10

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Il discorso coinvolge l’arte antica e l’arte moderna, di quest’ultima si distinguono periodi, tendenze e maniere diverse. 12  

8. 3. La composizione La scrittura delle Vite non appare sempre adeguata alla varietà dei temi trattati; la discontinuità è inevitabile in questo che è il primo tentativo di storicizzazione dell’arte moderna. Un fatto tuttavia è certo: rispetto ai precedenti scritti riguardanti le arti, le Vite segnano un progresso che non ammette confronti. «Il fattore decisivo, nell’impostazione nuova della teoria dell’arte fu il balzo in avanti fatto dal ruolo dell’artista nella società cortigiana, con la fisionomia sempre più diπusa dell’artista cólto [...] e il clima favorevole all’arte grandiosa e classicheggiante soprattutto nei centri della Firenze di Cosimo I e della Roma dei papi medicei» (Tateo 1996: 1050). Vasari presenta eventi, tratta compiutamente di artisti e di opere, analizza tecniche e influssi, discorre di luoghi, committenze, mode, scuole, tempi di esecuzione; non trascura aneddoti curiosi e accattivanti. L’occasionale inadeguatezza della scrittura è riscattata dall’inquadramento preciso della materia. A un proemio che occupa dieci pagine ed è posto dopo la dedica a Cosimo de’ Medici, seguono tre parti introduttive riguardanti le tre arti, [Architettura], De la scultura, De la pittura; ciascuna di esse è divisa in capitoli, nei quali prevalgono i dati e le tecniche: 13De’ cinque ordini d’architettura, Che cosa sia la scultura, De’ bassi e de’ mezzi rilievi, De gli schizzi, disegni, cartoni et ordine di prospective, Del dipingere a olio su le tele ecc. (Vasari 19912: 31, 43, 48, 60, 70). Emergono descrizioni e s’impongono prescrizioni; non mancano note “pratiche”, riguardanti, tra l’altro, la fattibilità materiale, il trasporto e la conservazione delle opere:  

Gli uomini per potere portare le pitture di paese in paese, hanno trovato la comodità delle tele dipinte, come quelle che pesano poco, et avvolte sono agevoli a trasportarsi. Queste a olio, perch’elle siano arrendevoli, se non hanno a stare ferme non s’ingessano, atteso che il gesso vi crepa su arrotolandole; però si fa una pasta di farina con olio di noce, et in quello si metteno due o tre macinate di biacca; e quando le tele hanno auto tre o quattro mani di colla che sia dolce, ch’abbia passato da una banda all’altra, con un coltello si dà questa pasta, e tutti i buchi vengono con la mano dell’artefice a turarsi. Fatto ciò, se li dà una o due mani di colla dolce, e da poi la mestica o imprimatura, et a dipignervi sopra si tiene il medesimo modo che agl’altri di sopra raconti (Vasari 19912: 70).

Il primo e il terzo periodo sono brevi; il secondo, dove si parla delle varie fasi della preparazione della tela, si compone di otto proposizioni strettamente allacciate tra loro; si noti la varietà delle congiunzioni subordinanti: perché finale, se condizionale, atteso che circostanziale, però causale, quando temporale; infine appare la relativa restrittiva che sia dolce. Il periodo conclusivo è avviato dal participio passato Fatto ciò, che ha valore temporale ed è seguito da una triplice prescrizione. Piuttosto breve (meno di tre pagine) è la Conclusione della opera a gli artefici et a’ lettori, dove appaiono periodi estesi; il primo, che occupa quasi 15 righi, mostra di continuo avverbiali che precedono la principale: «Quantunque sommamente mi siano piaciute, virtuosi 12   Ho presente il saggio di P. Barocchi, che introduce agli Scritti d’arte del Cinquecento (curati dalla stessa, 3 voll., Milano-Napoli, R. Ricciardi, 1971-77. I, p. xiv), dove si evidenzia l’importanza del Proemio iii delle Vite vasariane. Garin (1975: 39-47) ha svolto il tema della Rinascita in Vasari. 13   L’esposizione comprende le seguenti parti: [Architettura]: pp. 19-24, capp. i-vii; De la scultura: pp. 43-57, capp. viii-xiii; De la pittura: pp. 58-88, capp. xv-xxxv; ciascun capitolo ha una rubrica.

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artefici miei e voi altri lettori nobilissimi, tutte quelle industriose e belle fatiche [...]; e che l’aπezzione [...] mi avesse molte volte spronato [...]; non pensava però da principio distender mai volume si largo» (ivi: 915). All’ordinamento della materia non è estraneo l’intento di favorirne la consultabilità, mediante rubriche chiare e un’esposizione ben ordinata in parti tra loro connesse. Anche da questi particolari risalta la cura messa nel grandioso progetto: disegnare il quadro storico dell’arte italiana, presentare gli artisti e le opere, gli slanci gloriosi e i ripiegamenti, le eccellenze e i momenti di crisi. Le Vite sono di varia lunghezza; alcune molto brevi, altre si distendono in più pagine. Nella maggior parte dei casi le Vite estese esprimono un giudizio del tutto positivo di Vasari, la cui scrittura si adegua – almeno in parte – alla personalità degli artisti e alle circostanze del loro operare. Ciò appare con evidenza nella Vita del Brunelleschi, forse la più “romanzata”, dove al topos dell’altezza d’ingegno che contrasta con la meschinità del corpo («non è dubbio che sotto le zolle della terra si ascondono le vene dell’oro»), seguono due componenti tipiche della biografia umanistica: il discorso e l’epistola. Con il primo l’architetto si rivolge alle maestranze; con la seconda illustra alle autorità fiorentine il progetto della cupola. Gli scambi di battute tra Brunelleschi e gli addetti all’imponente lavoro animano più volte la scena (Vasari Vite: 275, 289-291, 294-297): Così dunque romoreggiandosi, era fermo il lavoro, e quasi tutte le opere de’ muratori e scarpellini si stavano; e mormorando contro a Lorenzo dicevano: “Basta ch’e’ gli è buono a tirare il salario, ma a dare ordine che si lavori, no. O se Filippo non ci fussi, o se egli avessi mal lungo, come farebbe egli? Che colpa è la sua, se egli sta male?” Gli operai, vistosi in vergogna per questa pratica, deliberorono d’andare a trovar Filippo; et arrivati, confortatolo prima del male, gli dicono in quanto disordine si trovava la fabbrica et in quanto travaglio gli avessi messo il mal suo. Per il che Filippo con parole appassionate, e dalla finzione del male e dallo amore dell’opera: “Oh non ci è egli – disse – Lorenzo? Che non fa egli? Io mi maraviglio pur di voi”. Allora gli risposono gli operai: “E’ non vuol far niente senza te”. Rispose loro Filippo: “Lo farei ben io senza lui”. La qual risposta argutissima e doppia bastò loro (Vasari 19912: 295).

La colloquialità risulta eπicace ed espressiva. La narrazione che incornicia il dialogo comprende, oltre ai verbi di modo finito («era fermo ... si stavano ... dicevano ... deliberorono ... dicono»), due gerundiali nella parte iniziale, («romoreggiandosi ... mormorando») e due participiali nella parte finale («vistosi ... confortatolo»); in definitiva, sono due periodi che si oppongono al terzo, imbastito di battute veloci. Con questi mezzi formali Vasari cerca di legare tra loro le varie parti che compongono ciascun capitolo. Le formule di raccordo tra prologo e trattazione rivelano, pur tra le varianti, un’impronta comune: «come apertamente poté vedersi in tutte le azioni di Piero di Cosimo», «Come veggiamo al presente in Andrea di Domenico Contucci dal Monte San Savino», «Come fu nella vita più che ne l’arte lo eccellentissimo pittore Andrea del Sarto fiorentino», «come apertamente si può vedere nelle fatiche che il Rosso pittor fiorentino pose nell’arte della pittura», «come fece Francesco Parmigiano» (Vasari Vite 19912: 565, 667, 696-697, 749, 793). Contingenze particolari orientano altre scelte; se nel ricordo sono associati due artisti la formula di passaggio si fa più elaborata: «E per questo insieme col dono che a Ferrara fecero i fati de la Natività del divino M(esser) Lodovico Ariosto, accompagnando la penna col pennello, volsero che e’ nascesse ancora il Dosso pittore ferrarese» (ivi: 740). Talvolta (e ciò accade quando si vuol caricare di enfasi un giudizio) periodi ampi e complessi compaiono già nella prima presentazione dell’artista:

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Rare volte nasce uno ingegno bello che nelle invenzioni delle opere sue stranamente non sia bizzarro e capriccioso [...]. Questo manifestamente si vide in Paulo Uccello, eccellente pittor fiorentino, il quale perché era dotato di sofistico ingegno, si dilettò sempre di investigare faticose e strane opere nell’arte della prospettiva; e dentro tanto tempo vi consumò, che se nelle figure avesse fatto il medesimo, ancora che molto buone le facesse, più raro e più mirabile sarebbe divenuto (Vite: 236).

È di√cile collocare le Vite in una tradizione di scrittura. Nella prospettiva testuale sono possibili confronti con la tradizione agiografica e con taluni modi della narrativa trecentesca; in particolare, vi sono tratti che ricordano il Decameron. Quanto alla lingua, l’opera rientra nell’ambito della koinè letteraria della metà del Cinquecento, dove il bembismo si fonde, temperandosi, con influssi latineggianti e con spinte “modernizzanti”. Quello di Vasari è uno stile che non ignora l’insegnamento della grande prosa del secolo: Della Casa, Caro e Castiglione, autori accomunati da una più o meno accentuata estraneità a Boccaccio (per Della Casa vale l’accertamento compiuto da Zublena 2002). Dionisotti (1967: 195) ha osservato che, a metà del Cinquecento, si manifesta «la tendenza espansiva e associativa della nuova letteratura», cui si connette «l’improvvisa, larghissima apertura linguistica di quegli anni». 14 Ne deriva che «Scienziati e artisti cominciano a ritrovarsi, se non proprio come a casa loro, certo a loro agio, in una società letteraria più larga, più cordiale e più aperta. In tali condizioni si spiega la stesura delle Vite del Vasari, dell’autobiografia e dei trattati del Cellini, un contributo insomma fornito da artisti, che non ha forse riscontro in alcun altro periodo della letteratura italiana». La scrittura di Vasari ha rapporti con il manierismo? La risposta si ritrova in quei passi delle Vite che mostrano una ricerca dell’ecfrasi, intesa come «traduzione verbale dell’opera» o come «adeguamento dello scrittorio al figurativo». 15 Vasari scrittore, in virtù delle descrizioni particolareggiate dei caratteri formali delle opere, 16 appartiene al primo manierismo (corrente letteraria che s’inaugura con il nostro e si conclude con Tasso); Vasari artista, invece, rientra nel secondo manierismo, classicistico e accademico. L’autore delle Vite non soltanto descrive, sovente argomenta, comparando tra loro le opere e gli stili, ritrae gesti, abitudini, comportamenti, narra la vita degli artisti. L’analisi dovrà ora interpretare i diversi tipi discorsivi ed esaminare i caratteri della sintassi periodale e dell’enunciazione.  





8. 4. Argomentare sull’arte Le Vite sono, per alcuni aspetti, un ampio discorso argomentativo, nel quale l’autore non interpreta una sola parte: l’artista-cortigiano si fonda sulle convinzioni che gli appartengono; l’artista-persona “vive civilmente come uomo onorato” e guarda alla committenza; colui che celebra il mecenatismo rivolge, ovviamente, il suo pensiero al principe: «Non solo le stesse Vite vollero essere, come nucleo originario, una grande argomentazione in pro della categoria degli artisti (gli “eccellenti e cari 14   Nella trattatistica di quel periodo sembra prevalere un equilibrio di modelli e di istanze diversi: il bembismo, il fiorentino colloquiale e l’influsso dei classici latini. 15   Sulle descrizioni vasariane come traduzione verbale delle opere pittoriche, si veda Ragghianti (1942-49, i: 41-52). Dell’ecfrasi, capace di conferire alla narrazione un particolare rilievo, ha trattato Nencioni (1983), che si è interrogato sul “manierismo” di Vasari. 16   Sul passaggio del concetto di manierismo dal campo delle arti a quello della storiografia, si vedano Scrivano (1959) e Raimondi (1975). Per il rapporto tra manierismo e Rinascimento v. Panofsky (2013).

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artefici suoi”), ma, a ben vedere, all’interno stesso di esse, ogni frase prende il suo significato più vero non tanto dalla tradizione culturale da cui discende o in cui si inserisce, bensì dal destinatario cui si rivolge e dal fine che si propone». 17 Lo stile si adegua a tali funzioni: la scelta tra elaborazione retorica e sobrietà espressiva, tra periodi complessi (non frequenti) e periodi brevi dipende dai contesti e dalle reazioni che si vogliono suscitare nel pubblico dei lettori. Storici dell’arte e della letteratura hanno misurato la distanza che separa questo primo grandioso tentativo di storicizzazione dell’arte moderna, dai precedenti scritti sulle arti e sugli artisti. È una distanza enorme: da una parte, abbiamo uno sguardo che abbraccia un vasto orizzonte, dall’altra interventi brevi, note che riguardano tempi ristretti, singoli episodi, frammenti di esperienze. Altra cosa è la scrittura dell’artista che parla di se stesso. Ritornando con il pensiero al passato, Leonardo medita sulla propria esperienza ed espone riflessioni personali; Cellini compone un’apologia della propria arte e della propria vita, animata da avventure, contrasti e momenti di gloria (v. 10.2). L’ordinamento in biografie dei singoli artisti e la concezione ciclica dell’arte distinguono le Vite vasariane dai trattati storici del Lanzi e del Cicognara, che verranno dopo oltre due secoli. Le prime segnano uno «sviluppo biografico ascensionale», «una linea storico-critica», tanto che «la storiografia vasariana s’annuncia come sistema e non come serie biografica» (Riccò 1979: 16, 18, 25, 26). Nel Proemio della Prima parte si legge: «mi sforzerò di osservare il più che si possa l’ordine delle maniere loro [scil. degli artisti], più che del tempo» (ivi: 102). È un proposito che incide sulla testualità e sullo stile. Il passaggio dalla Torrentiniana (1550) alla Giuntina (1568) è segnato da tagli e da inserimenti: pochi i primi, numerosi i secondi. Le note storiche aggiunte riducono in più occasioni lo schema biografico, fornendo un’informazione più ricca e articolata; spesso i proemi e gli epiloghi sono eliminati, la descrizione lascia il campo al racconto, le “arti congeneri alle maggiori” acquistano rilievo. Appare in primo piano la «complessa trama della committenza, fruizione e divulgazione». 18 Rimangono tuttavia salde le idee-guida: la conquista progressiva della naturalezza da parte di ciascun artista, che, in un momento precisamente definibile della sua vita, raggiunge il culmine dell’ispirazione e della tecnica. I confronti, fatti finora, sulla lingua e lo stile delle due redazioni non hanno riguardato, in particolare, gli aspetti della sintassi periodale e della testualità. Si è parlato di «una scrittura capace di toccare punte di singolare vivacità nella Torrentiniana per assestarsi su un registro più omogeneo, nel nome di una maggiore precisione ed essenzialità, nella redazione della Giuntina» (Patrizi). Il gusto del racconto prevale a tratti sulla trama argomentativa: «La stessa opera d’arte è raccontata, oltreché valutata», ha osservato Guglielminetti, che ha giudicato positivamente la presenza della componente narrativa, mentre Nencioni ha accennato ai «cedimenti novellistici» dell’autore. L’ambizione storiografica del Vasari risalta nelle introduzioni, dove gli artisti sono presentati come modelli umani, e in molti passaggi dell’opera i loro profili sono improntati a un’alta oratoria (Tateo). 19 «Io ho scritto come pittore, e nella lingua che parlo, senza altrimenti considerare se ella si è fiorentina o toscana, e se molti vocaboli nelle nostre arti, seminati per tutta l’opera, possono usarsi sicuramente, tirandomi a servirmi di loro il bisogno di  





17

  Cfr. Previtali, “Presentazione” a Vasari (19912: xiv-xv).   Cfr. Barocchi (1984: 162); v. anche Bettarini (1976). 19   Cfr. Patrizi (1993a: 599), Guglielminetti (1986: 867), Nencioni (1983: 85), Tateo (1996: 1061). 18

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essere inteso da’ miei artefici, più che la voglia d’esser lodato» (Conclusione: 916-17); il tono ricorda la Dedica del Principe, dove è dichiarato il rifiuto delle «clausule ampie», delle «parole ampullose e magnifiche o di qualunque altro lenocinio o ornamento estrinseco». Una scrittura tecnica, quale vuole essere, nelle sue linee essenziali, quella delle Vite, allontana tendenzialmente la retorica, la quale tuttavia ria√ora nei passi in cui si celebra l’eccellenza delle arti e degli artisti. D’altro canto, non si dimentichi che «le Vite accolgono parole ed espressioni del linguaggio parlato spontaneo» (Siekiera 2015: 113). La posizione delle Vite, nell’ambito della prosa cinquecentesca, dipende in parte dal carattere “composito” dell’opera; dall’alternarsi di parti narrative, argomentative, aneddotiche, memorialistiche, epigrafiche. Importa intanto distinguere tra capitoli che hanno un andamento novellistico, come quello dedicato a Giotto, e capitoli più vicini ai caratteri della biografia umanistica: Leonardo, Raπaello e Michelangelo. Nel secondo tipo, si ha, alla maniera della machiavelliana Vita di Castruccio, un proemio moraleggiante, e nella chiusa un ritratto fisico e caratteriale dell’artista. Si ritrovano anche motti e aneddoti, ingredienti – è bene ricordarlo – che a√orano nella Vita di Michelangelo e che svolgono una funzione “attenuativa”, simile a quella ottenuta altrove con brevi spezzoni di parlato: abbiamo ricordato, a tale proposito, la Vita del Brunelleschi. 20 La capacità di connettere tra loro sequenze testuali di diversa struttura e registri diπerenti produce una prospettiva sostanzialmente unitaria. Su questo punto la critica si divide. Secondo Patrizi (1993: 599) la “narratività” vasariana non sarebbe una delle componenti dell’opera, ma il fattore aggregante della testualità, data «la proprietà del discorso narrativo di dare unità all’eterogeneo, per cucire assieme disegno storico e analisi critica, dissertazione tecnica e profilo biografico»: in breve, la storia nascerebbe dalla narrazione più che dalla documentazione. Invece Riccò (1979: 27) aveva sostenuto che «sia il proemio che l’elenco, che gli slarghi anedottici e descrittivi, appaiono scissi l’uno dall’altro, racchiusi in fasce ben diπerenziate e per larga parte impermeabili ad influenze reciproche». Ai fini dell’analisi formale è opportuno prelevare dall’opera una serie di passi che, come eπetto di diverse istanze compositive, presentano diversi caratteri sintattici, stilistici e testuali. Da un primo riscontro risulta che prevalgono periodi di media estensione (3-4 righi dell’ed. cit.); la subordinazione raggiunge il secondo grado quasi esclusivamente nel Discorso riferito in dipendenza da verba dicendi. Soltanto nel Proemio e in pochi altri passi introduttivi si ritrovano periodi che raggiungono (o superano) 15 righi: la complessità dipende non tanto dal sovrapporsi di piani subordinativi, quanto dall’accumulo degli accessori, inseriti per lo più tra un’avverbiale incipitaria e la principale spostata alla fine del periodo: «La qual cosa più volte meco stesso considerando e conoscendo [...] ho giudicato conveniente [...] farne quella memoria» (Vite: 7). Questa dispositio, che imita un fenomeno tipico del Decameron, è presente in un numero limitato di casi. La parte iniziale dei periodi non è caricata eccessivamente con proposizioni avverbiali e determinanti. L’ornatus retorico, che appare nei proemi, nelle occasioni celebrative e ove è richiesto da consuetudini cortigiane, si fonda su strutture binarie, correlazioni, incisi, riprese di vocaboli e di sintagmi. A questa tendenza si oppone l’uso di frasi brevi che ricorrono soprattutto nelle descrizioni e nelle circostanze in cui, con i limiti imposti dalle abitudini scrittorie del tempo, è richiesta una tonalità colloquiale.  

20

  Sullo stile della Vita di Michelangelo v. Riccò (1979: 164 ss.).

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Nelle parti più elaborate stilisticamente, oltre agli aspetti sintattici (periodi più lunghi e complessi) e topologici (l’ordo artificialis si fa più frequente), un’istanza pragmatica, orientata alla celebrazione degli artisti e alla visività delle opere, si manifesta, evidenziando, con segnali discorsivi, riprese verbali, comparazioni, passi ideologicamente importanti, dibattiti di idee e punti di vista. La progressione tematica si svolge con regolarità, evitando squilibri costruttivi e forzature stilistiche. Gli attacchi dei periodi appaiono realizzati in diverse forme e rappresentano uno degli aspetti più evidenti della varietas stilistica dell’opera: «Avvenne che, per aver Giotto nel disegno fatto una bellissima pratica, li fu fatto fare molti disegni [...]. Ma quanto e’ valesse nell’architettura lo dimostrò nel modello del campanile di Santa Maria del Fiore» (Vite: 126), «Costuma la benigna madre natura, quando ella fa una persona molto eccellente in alcuna professione, comunemente non la far sola [...]. La qual cosa [...]. E che questo sia il vero [...]. E quanto a la maniera delle pitture [...]. Con ciò sia cosa che le cose fatte innanzi a lui» (ivi: 266), «Ma perché più chiaro ancor si conosca la qualità del miglioramento che ci hanno fatto i predetti artefici, non sarà certo fuori di proposito dichiarare [...]. Fu adunque la regola nella architettura [...]. Il disegno fu lo imitare [...]. Queste cose non l’aveva fatte Giotto [...]. Mancandoci ancora nella regola una licenzia [...]. Nelle misure mancava uno retto giudizio [...]. Nel disegno non vi erano gli estremi del fine suo [...]. Vi mancavano ancora la copia de’ belli abiti [...]» (Vite, Proemio iii: 539-540).

8. 5. Lo sviluppo del testo Il tipo di progressione tematica è scelto sulla base degli argomenti trattati ed è tale da favorire un’esposizione che privilegia la variatio rispetto all’ornatus. Nel Proemio generale Vasari constata che, nonostante l’impegno assiduo e virtuoso degli artisti del passato, «la voracità del tempo» ha distrutto le loro opere e ha cancellato i loro nomi, tanto che la loro memoria si conserva soltanto nelle testimonianze degli scrittori; nel passo che segue, ai fini dell’analisi, ho introdotto accapo e lettere distintive: A) La qual cosa più volte meco stesso considerando e conoscendo, non solo con l’esempio degli antichi, ma de’ moderni ancora, che i nomi di moltissimi vecchi e moderni architetti, scultori e pittori insieme con infinite bellissime opere loro in diverse parti di Italia si vanno dimenticando e consumando a poco a poco e di una maniera, per il vero, che ei non se ne può giudicare altro che una certa morte molto vicina, B) per difenderli il più che io posso da questa seconda morte, e mantenergli più lungamente che sia possibile nelle memorie de’ vivi, C) avendo speso moltissimo tempo in cercar quelle [scil. le bellissime opere loro], usato diligenzia grandissima in ritrovare la patria, l’origine e le azzioni degli artefici e con fatica grande ritrattole dalle relazioni di molti uomini vecchi e da diversi ricordi e scritti lasciati dagli eredi di quelli in preda della polvere e cibo de’ tarli, e ricevutone finalmente et utile e piacere, D) ho giudicato conveniente, anzi debito mio, farne quella memoria che per il mio debole ingegno e per il poco giudizio si potrà fare (Vite: 7).

Il periodo, fortemente sbilanciato a sinistra, presenta un tema articolato in tre insiemi di secondarie (A, B, C) e un nucleo rematico piuttosto breve (D). (A) è costituito da due gerundiali in coppia «considerando e conoscendo»: la prima, di semplice fattura, ha l’oggetto anticipato; la seconda, dalla struttura complessa, regge una subordinata (dalla quale è separata mediante un’interposizione), attua un artificioso ordine delle parole e si conclude con una consecutiva («di una maniera

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...che»), interrotta dal segnale discorsivo per il vero. Si noti anche il ricorrere delle dittologie: «considerando e conoscendo», «vecchi e moderni», «scultori e pittori», «si vanno dimenticando e consumando» ecc. Due finali infinitive in coppia («per difenderli ... e mantenergli») costituiscono (B); la loro forza espressiva dipende dallo stacco con quanto precede e con quanto segue: l’autore vuole evidenziare la finalità del trattato. Con un eπetto di crescita e di contrasto (C) comprende ben quattro gerundiali al passato, di diversa struttura (si veda il diverso numero e grado delle dittologie) e tenute insieme da un unico ausiliare («avendo speso ... usato ... ritrattole ... e ricevutone»). Appare infine il nucleo rematico (D), costituito da un verbum iudicandi + un oggetto in forma d’inciso e con funzione di rettifica + un’oggettiva all’infinito + una relativa comprendente la consueta dittologia. Questa configurazione presenta le seguenti caratteristiche. (A) e (C) sono strutture estese, mentre (B) e (D) sono strutture brevi e lineari. Le numerose dittologie e le interposizioni attraversano l’intero brano e ne assicurano l’omogeneità stilistica. Il confronto tra strutture estese e strutture brevi, vale a dire (A) e (C) rispetto a (B) e (D), rappresenta un principio costitutivo che si ritrova anche all’interno dei singoli membri: si vedano le due gerundiali di (A). In conclusione, contrasto e omogeneità sono i due principi che regolano dall’interno un’architettura periodale volta ad attuare una progressione marcatamente ascendente; da qui si genera lo sbilanciamento a sinistra dell’intera struttura. L’enunciazione ha uno scopo evidente: in limine l’autore dichiara il fine dell’opera e il percorso che si appresta a seguire; l’istanza informativa prevale sull’elaborazione retorica. 21 Lo stile non compromette la rapidità dello svolgimento discorsivo. Pertanto non appare giustificata la critica di Annibal Caro, uno dei primi lettori delle Vite, il quale, pur ammirando lo stile dell’opera, esprimeva una riserva:  

Solo vi desidero che se ne lievino certi trasportamenti di parole e certi verbi posti nel fine talvolta per eleganza, che in questa lingua a me generano fastidio. In un’opera simile vorrei la scrittura a punto come il parlare, cioè ch’avesse più tosto del proprio che del metaforico e del pellegrino, e del corrente più che de l’aπettato. E questo è così veramente, se non in certi pochissimi lochi, i quali rileggendo avvertirete, ed ammenderete facilmente. 22  

Nel passo del Proemio ora esaminato i due momenti dell’enunciato, il tema e il rema si contrappongono nell’estensione, ampio è il primo, breve è il secondo; invece, nel periodo iniziale del capitolo dedicato a Michelangelo, il tema e il rema hanno quasi pari ampiezza; ma a tale sostanziale equilibrio delle parti si accompagna ancora una volta un sia pur ridotto sbilanciamento a sinistra: A) Mentre gli industriosi et egregii spiriti col lume del famosissimo Giotto e de gli altri seguaci suoi si sforzavano dar saggio al mondo de ’l valore che la benignità delle stelle e la proporzionata mistione degli umori aveva dato a gli ingegni loro B) e, desiderosi di imitare con la eccellenzia della arte la grandezza della natura, per venire il più che e’ potevano a quella somma cognizione che molti chiamano intelligenzia, universalmente, ancora che indarno si aπaticavano, C) il benignissimo Rettor del Cielo volse clemente gli occhi a la terra D) e, veduta la vana infinità di tante fatiche, gli ardentissimi studii senza alcun frutto e la opinione prosuntuosa degli uomini, assai più lontana da ’l vero che le tenebre 21   Lo sbilanciamento a sinistra e le interposizioni sono fenomeni che si manifestano meno frequentemente e in forme meno accentuate rispetto a quanto si riscontra nella prosa del Bembo. 22   Cfr. Caro (1957-61, ii: 50-51); Lettera n. 319, dell’11 dicembre 1547: “A messer Giorgio Vasari dipintore, a Firenze”.

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la prosa del cinquecento da la luce, E) per cavarci di tanti errori, F) si dispose mandare in terra uno spirito, G) che universalmente in ciascheduna arte et in ogni professione fusse abile, H) operando per sé solo a mostrare che cosa siano le di√cultà nella scienza delle linee, nella pittura, nel giudizio della scultura e nella invenzione della veramente garbata architettura (Vasari 19912: 880; per un fine illustrativo ho introdotto un accapo, il maiuscolo e il maiuscoletto).

Possiamo dividere il passo in tre parti: un’ampia temporale di contemporaneità che costituisce il tema (A, B), una struttura più estesa e complessa che funge da rema (C, D, E, F, G, H), nella quale si distingue un’“appendice” consecutiva (G, H), capace di bilanciare la prima parte (A, B). Proprio la duplice valenza del gruppo (G, H), componente del rema e, al tempo stesso, parte distinta dell’architettura complessiva del passo, appare come un mezzo per perseguire due fini, mantenere la costruzione ascendente e non alterare l’equilibrio del periodo. Veniamo ai particolari. La temporale ha struttura binaria: «Mentre gli industriosi et egregii spiriti [...] si sforzavano [...] e [...] si aπaticavano»; il primo verbo regge un’infinitiva cui si connette una relativa oggettiva con struttura binaria; il secondo verbo è preceduto da un inciso in forma di apposizione (desiderosi di imitare) e da una finale infinitiva (per venire [...] a quella somma cognizione), arricchita da una relativa («che molti chiamano intelligenza»). Un eπetto ritardante è ottenuto mediante interposizioni («desiderosi di imitare ..., il più che e’ potevano, ancora che indarno»). Anche il rema ha struttura binaria (C) e (F); le due proposizioni principali che lo costituiscono “fasciano”, al tempo stesso, una temporale con un triplice oggetto (D) e una finale infinitiva (E); ma da un altro punto di vista (D) ed (E) sono premesse all’azione rappresentata in (F) ed è questa la loro funzione più importante. Dalla seconda principale (F) «si dispose a mandare in terra uno spirto» dipende un insieme così composto: una relativa consecutivo-finale e una gerundiale di pari valore, che regge l’infinitiva a mostrare, cui si riferisce a sua volta una completiva costituita di quattro elementi. Questi ultimi rappresentano una clausola che segna la fine del passo. È ben viva la tendenza ad alternare strutture binarie ripetute con elementi lineari: tre dittologie in (A), tre dittologie in (D), seguite dal sintagma lineare (E). Si consideri poi che la struttura portante del rema è parimenti binaria: volse [...] e si dispose. La complessità non esclude tuttavia un ordine e una successione delle parti ispirati alla chiarezza. Dall’analisi dei due passi risulta che, pur conservando la medesima struttura, si possono ottenere risultati diversi, modificando sia l’estensione del tema e del rema, sia il grado di quello sbilanciamento a sinistra che risulta dall’opzione “ascendente” del periodo. Dopo la sequenza testuale dotata di un unico centro, esaminiamo una configurazione diversa, sviluppata in progressione con una serie di riprese che legano l’una frase all’altra: E certo fra le sue doti singulari ne scorgo una di tal valore che in me stesso stupisco: che il cielo gli dette forza di poter mostrare ne l’arte nostra uno eπetto sì contrario alle complessioni di noi pittori. // E questo è che naturalmente gli artefici nostri, non dico solo i bassi, ma quelli che hanno umore d’esser grandi (come di questo umore l’arte ne produce infiniti), lavorando ne l’opere in compagnia di Rafaello stavano uniti e di concordia tale, che tutti i mali umori nel veder lui s’amorzavano et ogni vile e basso pensiero cadeva loro di mente. La quale unione mai non fu più in altro tempo che ne suo. // Questo avveniva perché restavano vinti dalla cortesia e dall’arte sua, ma più dal genio della sua buona natura. // La quale era sì piena di gentilezza e sì colma di carità, che egli si vedeva che fino agli animali l’onoravano, nonché gli uomini (Vasari 19912: 640; i corsivi sono miei; la doppia sbarretta indica l’accapo).

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Tratto dal capitolo di Raπaello, il brano si divide in: i) un periodo iniziale con schema “prologo-svolgimento”, ii) un periodo più ampio, avviato da «E questo è che», e comprendente due incisi e una consecutiva, iii) una breve frase introdotta da «La quale unione», iv) un periodo breve collegato a quanto precede da un dimostrativo Questo avveniva, v) la relativa consecutiva «La quale era sì piena», destinata a concludere. In tal modo si stabilisce una progressione tematica continua e varia nelle forme; ne risulta una salda interrelazione delle componenti. Quali sono i mezzi più usati per ottenere il legamento interfrasale? Data la testualità “composita” delle Vite, è questo un aspetto rilevante della sintassi del periodo, il quale risente di tradizioni diverse di scrittura. Ricordiamo qui di seguito i principali tipi di connettori frasali: • Onde e laonde, in posizione incipitaria, introducono una conseguenza: «Onde ciò che si dà di accrescimento viene a consumarsi nella grossezza dello scorto» (Vite: 44); «Laonde a ragione si può dire che una anima medesima regga due corpi «Laonde si conosce che coloro» (Vite: 15), «Laonde acquistatosi in quella corte credito e nome, volle farsi conoscer fuori» (Vite: 338); meno frequente la posizione all’interno del periodo: «Chiamansi scorti di sotto in su, perché il figurato è alto, guardato dall’occhio per veduta in su e non per la linea piana dell’orizzonte, laonde alzandosi la testa a volere vederlo e scorgendosi prima le piante de’ piedi e l’altre parti di sotto, giustamente si chiama co ’l detto nome»» (Vite: 63). • Connettori composti con che: il che, per che (in alcuni casi abbiamo sostituito per che alla forma univerbata perché) per il che, ciò, da ciò: il che: «Il che mi sono ingegnato di fare» (Vite, Dedica: 4), «dicendo che la scultura vuole una certa migliore disposizione e di animo e di corpo, il che rado si truova congiunto insieme» (Vite, Proemio: 8-9), «Seccata poi questa mestica, va lo artefice o calcando il cartone, o con gesso bianco da sarti disegnando quella, e così ne’ primi colori l’abozza; il che alcuni chiamono imporre» (Vite, Introd.: 69); per che incipitario: in tale posizione assume un significato causale-consequenziale; all’inizio del cap. di Andrea del Sarto abbiamo a breve distanza: «Per il che coloro i quali seguitano la virtù, doverriano stimare il grado in che si trovano [...]. Per che [nel testo Perché] non è dubio che coloro che trascurano sé e le cose loro, danno occasione di troncare le vie alla fama e buona fortuna [...]. Per che [nel testo Perché] e’ non è che non si vegga se non sempre almeno qualche volta che siano remunerati» (Vite: 696); per il che: «E non solo per questo invaghiva Bondone, ma i parenti e tutti coloro che nella villa e fuori lo conoscevano. Per il che, sendo cresciuto Giotto in età di X anni, gli aveva Bondone dato in guardia alcune pecore del podere» (Vite, Giotto: 118), «andava ora in questa ora in quella città, lavorando il meglio che e’ poteva. Non però cose di grande spesa o di molto onore, non avendo ancora né nome né credito. Per il che deliberatosi di vedere almeno qualcosa notabile, si trasferì a Milano per vedere il duomo» (Vite Bramante: 573); a che non va compreso in questa lista perché appare nella congiunzione composta insino a che oppure come aggettivo a che fine: «ma perché l’occhio non vede i colori veri insino a che la calcina non è ben secca» (Vite Proemio: 13). • Coniunctio relativa: è un costrutto che appare sia all’inizio sia all’interno del periodo: «Alla quale opera non pensi mai scultore né artefice raro potere aggiungere di disegno» (Vite: 885); «il quale marmo Pier Soderini [...] ragionò di dare a Lionardo da Vinci» (Vite: 886), «La quale opera è veramente stata la lucerna che ha fatto tanto giovamento e lume all’arte della pittura» (Vite: 894). • Dimostrativo anaforico: cade in vari cotesti: «Gli schizzi chiamiamo noi [...]. E sono fatti in forma di una macchia [...]. E perché questi dal furor dello artefice sono in poco tempo espressi, universalmente son detti schizzi, perché vengono [...]. Da questi schizzi vengono poi rilevati [...]. Apresso, misuratili [...]. Questi si fanno con varie cose [...]» (Vite: 60). • Certamente: questo avverbio, oltre ad avere valore confermativo, attua un legame interperiodale: «Queste [scil. stampe] si stampano al torculo, e vi si rimettono sotto tre volte, ciò è

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una volta per ciascuna stampa, sì che elle abbino il medesimo riscontro. E certamente che ciò fu bellissima invenzione» (Vite: 87), «Certamente che coloro che lo amano, si muovono a una compassione» (Vite: 696). • Ma all’inizio del periodo significa prosecuzione con cambiamento di tema; per far ciò si appoggia a una gerundiale metadiscorsiva: «E tornando oramai a ’l primo proposito, dico che» (Vite: 16), «Ma tornando a Pietro della Francesca» (Vite: 339), «e non dormì [scil. Gra√one] in altro letto che in un cassone pieno di paglia senza lenzuola. Ma tornando ad Alesso, e’ finì e l’arte e la vita nel mccccxlviii». • Il quale, posto all’inizio del periodo, prosegue un tipo di collegamento tipicamente decameroniano: «nella medesima guisa che fece Taddeo di Gaddo Caddi pittore fiorentino. Il quale, dopo la morte di Giotto suo maestro, rimase valente nella pittura e di giudizio e d’ingegno grande sopra ogni altro suo condiscepolo» (Vite: 159), «Il quale, essendo stato tenuto maestro raro [...], sopraggiunto nella vecchiaia dalla cecità corporale e dalla fine della vita, non possette mandare in luce le virtuose fatiche sue» (Vite: 337). • Ripresa di vocaboli e sintagmi: «La pittura è un piano [...]. Questo sì fatto piano [...] unendosi insieme questi tre campi [...]. Bene è vero che questi tre campi [...]. Quando queste tinte [...]. Fatte dunque le mestiche [...]. Il qual disegno non può avere buon’origine [...]. Ma sopra tutto il meglio è gl’ignudi [...]. E coloro che ciò sanno, forza è che faccino perfettamente i contorni delle figure [...].[...]. Questa invenzione [...]» (Vite: 58-59).

8. 6. Strutture e stilemi A collegare tra loro frasi e interi periodi intervengono spesso proposizioni consecutive di varia estensione, le quali, poste non raramente di seguito l’una all’altra, contribuiscono a fondare la progressione tematica. Nel passo in cui si descrive il trasporto del David michelangiolesco, si hanno due consecutive, la prima intrafrasale (in tal termine, che), la seconda interfrasale (Per che Giuliano); dopo il connettore acciò che della finale binaria, s’inserisce un gerundio modale, il quale produce quel caratteristico “intarsio” di componenti di cui si è già trattato. Era questa statua, quando finita fu, ridotta in tal termine, che varie furono le dispute che si fecero per condurla in piazza de’ Signori. Per che Giuliano da San Gallo et Antonio suo fratello fecero un castello di legname fortissimo e quella figura coi canapi sospesero a quello, acciò che, scotendosi, non si troncasse, anzi venisse crollandosi sempre, e con le travi per terra piane, con argani la tirorono e la misero in opra (Vite: 887).

La descrizione dei materiali e delle tecniche che pertengono alle tre arti è attuata mediante frasi lineari e brevi, aventi una funzione presentativa e descrittiva; il modo addittivo e la segmentazione rinviano allo stile delle rubriche delle introduzioni alle tre arti. 23 Anche in questi casi siamo lontani dal “linguaggio delle botteghe”, asciutto e prescrittivo, il quale discende dall’enciclopedia medievale e vive ancora nel Libro dell’Arte di Cennino Cennini (fine del sec. xiv). Le descrizioni “operative” di Vasari hanno svolgimento sia paratattico, sia moderatamente ipotattico. Il primo, con il suo procedere lineare («ragioneremo distintamente, ma con brevità» Vite: 19) è adatto alla presentazione di materiali, tecniche e manufatti artistici:  

Fuor di questa [scil. la pietra del Fossato] n’è un’altra specie, ch’è detta pietra serena per tutto il monte, ch’è più ruvida e più dura e non è tanto colorita, che 23   Si vedano, per es.: cap. i De le diverse pietre che servono a gli architetti per gli ornamenti e per le statue alla scoltura; cap. vi Del modo di fare i pavimenti di commesso; cap. vii Come si ha a conoscere uno edificio proporzionato bene, e che parti generalmente se li convengono; cap. viii Che cosa sia la scultura e come siano fatte le sculture buone, e che parti elle debbino avere per essere tenute perfette.

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tiene di specie di nodi della pietra; la quale regge all’acqua, al ghiaccio, e se ne fa figure et altri ornamenti intagliati. E di questa n’è la Dovizia, figura di man di Donatello in su la colonna di Mercato Vecchio in Fiorenza, così molte altre statue fatte da persone eccellenti non solo in quella città, ma per dominio (Vite: 29).

Come appare, è ripetuto lo stesso tipo proposizionale; si vedano, nella prima parte, le tre relative con che e la relativa con la quale riferita al tema. Si noti anche la ripesa anaforica col dimostrativo (E di questa), che segna il passaggio alla seconda parte. Ma la descrizione può valersi anche di strutture moderatamente ipotattiche, come si riscontra nel passo in cui si spiegano le fasi preparatorie dell’aπresco: Fatti così i dissegni, chi vuole lavorare in fresco, ciò è in muro, è necessario faccia i cartoni, ancora che e’ si costumi per molti di fargli per lavorare anche in tavola. Questi cartoni si fanno così: impastansi fogli con colla di farina et acqua cotta al fuoco, et i fogli voglion esser squadrati, e si tirano al muro con lo incollarli attorno duo dita verso il muro con la medesima pasta, e si bagnano spruzzandovi dentro per tutto acqua fresca, e così molli si tirano, acciò nel seccarsi vengano a distendere il molle delle grinze (Vite: 61).

I passaggi dall’una all’altra operazione sono resi mediante i seguenti tratti enunciativi: il rema della prima frase diventa il tema della successiva: cartoni (rema) → cartoni (tema) / fogli (rema) → fogli (tema); nella seconda occorrenza si ha un rema plurimo: «e i fogli voglion esser squadrati [...] e si tirano [...] e si bagnano [...] e così molli si tirano». Intervengono elementi subordinativi: la concessiva «ancora che e’ si costumi», due infinitive avverbiali «con lo incollarli [...], nel seccarsi», una finale «acciò [...] vengano»; quest’ultima espone il risultato di quanto è stato descritto in precedenza. I due moduli principali sono costituiti dal participio passato iniziale «Fatti così i dissegni» e dalla ripresa anaforica «Questi cartoni». Caratteri propri delle parti riguardanti la preparazione dei materiali sono: la brevità delle frasi (per lo più avviate da una congiunzione), la frequenza delle relative, il dimostrativo questo usato come connettore interfrasale, la preferenza accordata al participio passato, in luogo di temporali e causali esplicite; 24 le gerundiali, che hanno una struttura lineare priva di elaborazione retorica. Un termine di confronto è il modo “compendiario” delle rubriche, dove ricorre di frequente la frase segmentata: Come si fanno e si conoscono le buone pitture, et a che; e del disegno e delle invenzioni delle storie (Vite: 58); Del dipingere in muro, come si fa; e perché si chiama lavorar in fresco (Vite: 65). In numerosi passi delle Vite si elencano le opere di un artista con un corredo di notizie e di particolari descrittivi o tecnici. Spesso alla fine della serie compare una frase-cornice, che ha funzione riassuntiva:  

Fu Ambruogio pratico coloritore a fresco, e nel maneggiare a tempera i colori operò quegli del continuo con destrezza e facilità grande, come si vede ancora nelle tavole finite da lui in Siena allo spedaletto, per sopranome Monna Agnese, nel quale dipinse e finì una storia con nuova e bella composizione. Et allo spedal grande fece la Natività di Nostra Donna in muro, e ne’ frati di Santo Agostino di detta città il capitolo, e nella volta si veggono figurate di sua mano parte delle storie del Credo. Indi nella facciata maggiore sono tre storie di Santa Caterina martire, quando disputa co ’l tiranno in un tempio, e nel mezzo la Passion di Cristo con i ladroni in croce e le Marie da basso, che sostengono la Vergine Maria 24   Le participiali, soprattutto nella forma d’incidentali, abbreviano sensibilmente i periodi: «Genserico [...] ne menò in servitù le persone [...] e con esse Eudossia, moglie stata di Valentiniano imperatore, stato ammazzato poco avanti dai suoi soldati medesimi» (Vite: 95-96).

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la prosa del cinquecento venutasi meno. Le quali cose furono finite da lui con assai buona grazia e con bella maniera (Vite: 149).

È ripetuto qui uno schema ricorrente nelle Vite: la frase iniziale costituisce il tema “l’abilità del pittore”. La presentazione del nome proprio e la ripresa pronominale hanno sovente un carattere impressivo: «Fu Ambruogio [...], operò quegli». Al tema segue, introdotto dalla modale come si vede, un rema espanso, articolato in sei operazioni pittoriche (la prospettiva sintattica cambia nel corso della descrizione), le quali sono viste nel loro prodursi, mentre prosegue la linea inaugurata dal verbo tematico operò; si vedano poi i verbi rematici “operativi” «dipinse e finì [...] fece», ai quali seguono i verbi “presentativi” «si veggono figurate [...] nella facciata maggiore sono». I connettori Et e Indi, posti all’inizio dei periodi, raπorzano i collegamenti e alludono, simbolicamente, alla continuità dell’impegno dell’artista. La rappresentazione dell’ultimo dipinto è resa mediante un breve sintagma verbale «quando disputa», seguito da una frase nominale; ci saremmo aspettati un più ampio giro di frase: ‘Santa Caterina martire dipinta nell’atto di disputare ... e nel mezzo appare la Passione’. Una frase cornice «Le quali cose furono finite» conclude il passo, che in tal modo risulta costruito secondo lo schema: “tema / sviluppo rematico / conclusione-riassunto”. Simili modi di chiusura discorsiva sono ricorrenti: «come apertamente poté vedersi in tutte le azzioni di Piero di Cosimo» (Vite: 565), «Come fu nella vita più che ne l’arte lo eccellentissimo pittore Andrea del Sarto fiorentino». (Vite: 696-697). L’enunciato conclusivo mima la compiutezza di un ciclo pittorico, inquadrato in una sequenza dimostrativa. Il modulo sono quando va avvicinato al tipo analogo fece quando e simili (cfr. «e dipinsevi quando Cristo chiama a sé da le reti Pietro e Andrea», Vite: p. 461), del quale si ritrovano nelle Vite altri esempi; si tratta di un modulo tradizionale, che rende un rapporto sintattico debole e che incontriamo già nella prosa dei primi secoli. 25 Il cotesto è sempre descrittivo e presuppone un antecedente costituito da una frase tematica:  

E nella ultima [scil. pittura] fece quando egli è morto e che i frati lo piangono, dove si vede un frate che gli bacia le mani; et invero quello eπetto non si può esprimer meglio nella pittura; senza che e’ v’è un vescovo parato con gli occhiali al naso che gli canta la vigilia, che il non sentirlo solo lo dimostra dipinto (Vite: 460).

L’ecfrasi si raπorza nei particolari, che di conseguenza acquistano risalto grazie al contrasto con i brevi commenti autoriali. 26 In accordo con la grandiosità della visione, l’ecfrasi diventa puro virtuosismo nel ritrarre le figure dei profeti e delle sibille della Sistina:  

Vedesi quel Ieremia, con le gambe incrocicchiate, tenersi una mano alla barba posando il gomito sopra il ginocchio, l’altra posar nel grembo et aver la testa chi25   Cfr. ancora: «Oltra che e’ fece nella volta quattro Sibille, e fuori della cappella un ornamento sopra l’arco nella faccia dinanzi, con una storia dentrovi, quando la Sibilla Tiburtina fece adorar Cristo a Ottaviano Imperatore» (Vite: 460). Questo costrutto si ritrova anche nel Principe: «E questi tali sono quando è concesso a alcuno uno stato e per danari o per grazia» (Pri vii, 2), «L’arme aussiliarie [...] sono quando si chiama uno potente che con le arme sua ti venga a aiutare e defendere» (Pr xiii, 1); Martelli, nel commento (ivi: 124) parla di “brachilogia”. Si hanno precedenti medievali: «Filosofia è quando l’anima e la sapienza sono fatte amiche» (Convivio, ed. Ageno, p. 226), «Il terzo luogo si è quando ... Il quarto luogo si è quando ... Il quinto luogo si è quando» (Bono Giamboni Fiore 66, ed. Speroni, p. 72). 26   Cfr. V. Caputo, Note sull’ecfrasi di Giorgio Vasari, in “Studi rinascimentali”, 11, 2013: 113-125; cfr. I. Alpers, Ekphrasis and aesthetic attitudes in Vasari’s Lives, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institute”, xxiii (1960), 3-4: 190-215. Per la presenza del fenomeno in altre letterature, v. M. Klarer, Ekphrasis. Bildbeschreibung als Repräsentationstheorie bei Spenser, Sydney, Lyly und Shakespeare, Tübingen, Niemeyer, 2001.

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nata, d’una maniera che ben dimostra la malenconia, i pensieri, la cogitazione e l’amaritudine che egli ha de ’l suo popolo; così medesimamente due putti, che gli sono dietro; e similmente è nella prima Sibilla di sotto a lui verso la porta, nella quale, volendo esprimere la vecchiezza, oltra che egli, avviluppandola di panni, ha voluto mostrare che già i sangui sono aghiacciati dal tempo et inoltre, nel leggere, per averla vista già logora, le fa accostare il libro alla vista accuratissimamente (Vite: 896).

Gli atteggiamenti e le posture figurali interpretano pensieri e sentimenti, confermati da espressioni scelte, come la serie di quattro sostantivi: «la malenconia, i pensieri, la cogitazione e l’amaritudine»; i particolari fisici sono esaltati; si sottolineano le analogie: «medesimamente ... similmente»; è isolata e√cacemente un’immagine impressiva: «i sangui sono aghiacciati»; è dato rilievo a singoli elementi che sono posti alla fine del periodo. 27 Altri scrittori, dediti a descrivere composizioni pittoriche, ricorrono all’ecfrasi, ma i risultati sono decisamente inferiori. Ecco un passo del Dialogo della pittura in cui Lodovico Dolce parla di Tiziano:  

In San Giovanni e Paolo fece la tavola del San Pietro Martire caduto in terra, con l’assassino che alza il braccio per ferirlo et un frate che fugge [...]. Mostra il frate di fuggire con un volto pieno di spavento, e par che si senta gridare, et il movimento è gagliardissimo, come di quello che aveva paura da dovero: senzaché il panno è fatto con una maniera che in altri non se ne vede esempio. La faccia del san Pietro contiene quella pallidezza che hanno il volto di coloro che si avvicinano alla morte, e il santo sporge fuori un braccio et una mano di qualità che si può ben dire che la natura sia vinta dall’arte (Dolce, in Trattati d’arte, i: 204).

La ripresa dell’immagine risulta assai meno e√cace perché è oppressa dai commenti che sopraggiungono e che attenuano le scelte espressive: «il movimento è gagliardissimo», «quella pallidezza che». Tornando alla funzione testuale delle frasi-cornice, osserveremo che servono non soltanto a descrivere le fasi preparatorie dell’esecuzione dell’opera, ma anche a presentare elenchi seriali di azioni, come accade nel capitolo di Piero di Cosimo: Nel suo ragionamento era tanto diverso e vario, che qualche volta diceva sì belle cose che faceva crepar delle risa altrui [...]. Non voleva che i garzoni [...]. Venivagli voglia di lavorare [...]. Adiravasi con le mosche [...]. Ragionava qualche volta de’ tormenti [...]. Diceva male de’ medici, degli speziali e di coloro che guardano gli ammalati e che gli fanno morire di fame; oltra i tormenti de gli sciloppi, medicine, cristeri et altri martorii, come il non essere lasciato dormire quando tu hai sonno, il fare testamento, il veder piagnere i parenti e lo stare in camera al buio, e lodava la giustizia, che era così bella cosa l’andare a la morte; e che si vedeva tanta aria e tanto popolo; che tu eri confortato con i confetti e con le buone parole; avevi il prete et il popolo che pregava per te; e che andavi con gli angeli in Paradiso; che aveva una gran sorte chi n’usciva a un tratto. E faceva discorsi e tirava le cose a’ più strani sensi che si potesse udire. Laonde per sì strane sue fantasie vivendo stranamente si condisse a tale, che una mattina fu trovato morto, appiè d’una scala, l’anno mdxxi (Vite: 570).

La frase iniziale comprende una proposizione consecutiva, la quale prelude a una serie di aneddoti, aventi diversi avvii («Non voleva che i garzoni [...]. Venivagli voglia di lavorare [...]. Adiravasi con le mosche [...]. Ragionava qualche volta 27   Sulla “tipologia della descrizione” verbale e pittorica v. C. Segre, La descrizione al futuro: Leonardo da Vinci (1978), ora in Segre (2014: 1421-1455, 1433-1434).

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dei tormenti [...]. Diceva male de’ medici [...] e lodava la giustizia», cioè la pena capitale); qui intervengono due sequenze di discorso riferito, collegate per il significato non per la sintassi: la prima, introdotta da oltra, consta di quattro sostantivi (che “logicamente” avrebbero richiesto un reggente verbale: ‘oltre a somministrare ai malati sciroppi, medicine ecc.’), la seconda esemplifica i martorii mediante quattro infiniti sostantivati: «il non essere lasciato dormire quando tu hai sonno, il fare testamento» ecc. Il passo ha un fine mimetico, riproduce asintatticamente l’aπabulare di un personaggio eccentrico: Non voleva che le stanze si spazzassino, voleva mangiare allora che la fame veniva, e non voleva che si zappasse o potasse i frutti dell’orto, anzi lasciava crescere le viti et andare i tralci per terra, et i fichi non si potavon mai, né gli altri alberi, anzi si contentava vedere salvatico ogni cosa (Vite: 566).

Le frasi brevi, la ripetizione del verbo voleva e dell’avversativa anzi, il cambiamento del soggetto grammaticale «et i fichi non si potavon mai» vogliono rappresentare, con toni dimessi che imitano la colloquialità, la crisi di un personaggio, il decadimento della sua attività. È una scelta che si ripete ogniqualvolta si vuol dare un giudizio negativo sulle opere o sulla vita di un artista. Abbiamo esaminato alcuni “modi” stilistici delle Vite applicati a una varia tematica: il racconto delle operazioni compiute dagli artisti, la celebrazione o la denigrazione di artisti e di opere, la descrizione di queste ultime, l’argomentare, talvolta sereno talvolta polemico, su questioni che si potrebbero definire di pre-estetica. Talvolta nella narrazione si nota la ricerca di eπetti particolari; si vuole ricreare un’atmosfera, suggerire un’interpretazione. Nella Vita di Giotto (1267-1337) si tenta di riprodurre tipi frasali e stilemi della prosa antica: Per il che, sendo cresciuto Giotto in età di x anni, gli aveva Bondone dato in guardia alcune pecore del podere, le quali egli ogni giorno quando in un luogo e quando in un altro l’andava pasturando, e venutagli inclinazione da la natura dell’arte del disegno, spesso per le lastre, et in terra per la rena, disegnava del continuo per suo diletto alcuna cosa di naturale, o vero che gli venissi in fantasia. E così avenne che un giorno Cimabue, pittore celebratissimo, transferendosi per alcune sue occorrenze da Fiorenza, dove egli era in gran pregio, trovò nella villa di Vespignano Giotto, il quale in mentre che le sue pecore pascevano, aveva tolto una lastra piana e pulita e, con un sasso un poco apuntato, ritraeva una pecora di naturale, senza esserli insegnato modo nessuno altro che dallo estinto della natura (Vite: 118).

Le antiche tracce sono: il connettore Per il che all’inzio di frase, la formula introduttiva «E così avenne che», l’uso di gerundiali e di participiali, per lo più con valore temporale («sendo cresciuto, e venutagli inclinazione, transferendosi»). Alla descrizione del dipinto seguono talvolta confronti con altre opere e riflessioni sul soggetto e sullo stile dell’esecuzione. Che cosa suggerisce a un vero intenditore un capolavoro come il Sogno di Costantino di Piero della Francesca? Ma sopra ogn’altra considerazione e di ingegno e di arte, è lo avere dipinto la notte et uno angelo in iscorto che, venendo a capo a lo ingiù a portare il segno della vittoria a Gostantino, che dorme in un padiglione guardato da un cameriere e da alcuni armati oscurati dalle tenebre della notte, con la stessa luce sua illumina il padiglione, gli armati e tutti i dintorni, con grandissima discrezione: perché Pietro fa conoscere in questa oscurità quanto importi lo imitare le cose vere, e lo andarle togliendo da’l proprio. Il che avendo egli fatto benissimo, ha dato cagione a’ moderni di seguitarlo e di venire a quel grado sommo, dove si veggono oggi le cose (Vite: 341).

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Allo sguardo che si sposta dall’angelo all’ambiente e alle persone che ne sono illuminati fa seguito la nota sulla «grandissima discrezione» dell’artista, spiegata con una causale che ci riporta a un principio fondamentale: si deve riprendere dal vero. Il principio è ripetuto più volte nelle Vite; è autorizzato da una citazione dantesca nel passo che racconta di Michelangelo al lavoro nella Sistina: Avvenne in questo tempo ch’egli cascò di non molto alto dal tavolato di questa opera, e, fattosi male a una gamba, per lo dolore e per la collera da nessuno non volse essere medicato [...]. Egli di questo male guarito e ritornato all’opera, et in quella di continuo lavorando, in pochi mesi a ultima fine la ridusse, dando tanta forza alle pitture di tal opera che ha verificato il detto di Dante: “Morti li morti e i vivi parean vivi”(Vite: 907).

Nell’entusiasmo della rievocazione, nel far rivivere all’immaginazione le grandi opere Vasari accosta immagini pittoriche e immagini letterarie: lo stile si adegua alla complessità delle scene rappresentate, per ritornare alla linearità nel riferire fatti quotidiani. Vasari non segue l’insegnamento di Bembo, ma non dimentica gli esempi della grande prosa primocinquecentesca. Anche nelle parti celebrative e retoricamente elaborate delle Vite, anche quando si riprende qualcosa dal filone Boccaccio-Bembo, sono evitati i carichi eccessivi all’inizio del periodo, come le filiere latineggianti; al tempo stesso, sono respinti il ritmo e le clausole bembiane. Talvolta convivono stilemi diversi, perché diverse sono le situazioni. Il discorso sulle arti si svolge in un tempo che vede una fioritura eccezionale di capolavori e una committenza di alto livello e molto attiva. I pittori e gli scultori non sono più considerati abili artigiani, sono i custodi della cultura: “la pittura è filosofia”, dice Leonardo. Si rivolgono a un uditorio più ampio; i trattati e i dialoghi sulle belle arti ricorrono a un linguaggio più aperto, non specialistico; la scelta cade su termini largamente intesi: scorti, maniere, arie. Si tiene vivo l’interesse del pubblico, si valorizzano le opere, si promuove la creazione. Il Libro della beltà e della bellezza (Firenze, 1590) di B. Varchi (Barocchi I, 1960: 85) contiene una teoria dell’espressione artistica, presentata didatticamente mediante domande e risposte e citando testi classici (Aristotele, Plinio). Nel Dialogo di pittura (Venezia 1548) Paolo Pino tratta delle proporzioni del corpo umano, della bellezza femminile, della prospettiva, della vista, delle regole vitruviane; la distinzione tra disegno, invenzione e colorire resterà fondamentale nel Cinquecento. 28 La Storia d’Italia e le Vite sono due opere di riflessione aperte a nuove esperienze cognitive, due grandi libri di storia, che illustrano e analizzano eventi, personaggi, azioni del mondo reale e del mondo dell’arte: sono due trattati che rivelano l’indole e i caratteri di una civiltà giunta a un altissimo livello. Lo sguardo di Guicciardini abbraccia l’Italia e l’Europa, le analisi di Vasari riguardano l’arte italiana, ne illustrano i protagonisti e le opere, ne distinguono le fasi di sviluppo (dalla maniera “greca” a quella “gotica”, al genio dei grandi del Rinascimento). Nella Storia si ha una successione di eventi priva di un centro stabile; le Vite evidenziano percorsi, relazioni e confronti.  

28   Si ricordino anche: il Dialogo della pittura intitolato l’Aretino di L. Dolce (Venezia 1557), il Trattato delle perfette proporzioni di V. Danti (Firenze, 1567) e le Osservazioni nella pittura di C. Sorte (Venezia, 1594). Tra le novità resistono alcuni lasciti del passato: tracce dell’astrologismo medievale sono presenti nelle Vite vasariane.

9. Una lezzione di Benedetto Varchi

9. UNA LEZZIONE DI BENEDETTO VARCHI 9. 1. Spiegare l’arte

R

is petto ai testi formalmente e retoricamente elaborati di Bembo, Castiglione e Guicciardini, le Lezzioni, per il fatto di essere recitate di fronte a un pubblico, colto ma non di specialisti, scelgono una forma non troppo ricercata, più agevole all’ascolto: le frasi sono più brevi, meno strutturate; non vi sono di√coltà lessicali. Anche la testualità si adatta al fine “didattico”, assumendo uno svolgimento lineare; una maggiore chiarezza è ottenuta suddividendo di frequente il testo in parti; la disposizione della materia si adegua a una più semplice modalità espositiva. 1 A questi mutamenti si accompagna un aumento dell’allocutività: crescono gli appelli ai destinatari, l’enunciazione si adatta ai bisogni dei discenti. Abbandonato il modello boccacciano-bembiano, seguito nella Storia fiorentina, Varchi, nelle lezioni, compone una prosa quasi priva di retorica; il tono si eleva soltanto negli esordi. Alcuni cambiamenti che si aπermano nella prosa tra Cinque e Seicento – sui quali ha richiamato l’attenzione Durante (1981: 175-210) – sono presenti in queste Lezzioni, come in altri scritti didattici di Varchi. Si aπermano procedimenti di semplificazione sintattica, come l’apposizione, non esornativa, ma integrativa, e lo stile nominale, che diventa il sostegno di costrutti lineari. In questa tendenza rientrano le parentetiche brevi, le ellissi di vario tipo e i modi abbreviativi, che richiedono una più attiva partecipazione del lettore. Alla semantica, non alla sintassi, è a√data spesso la progressione tematica. Presso l’Accademia (alla quale era stato aggregato nel 1543, e della quale fu eletto console nel 1545) Varchi tenne altre lezioni. Trattando di Dante e aπrontando l’esegesi di vari luoghi della Commedia, si soπermò su temi prossimi alla scienza, nei quali si mescolano nozioni di filosofia e teologia. Rispetto alla Storia fiorentina in 16 libri, opus magnum del nostro, le lezioni presentano diπerenze di lingua, di stile e di enunciazione: sono divise in Dispute, Capitoli, Capi ecc.; hanno un’impostazione didattica, evidenziata da formule di passaggio e da un ordine degli argomenti adatto alla pronuntiatio. Quanto alle discussioni sulla lingua, si riconosce a Varchi il merito di aver introdotto Bembo nella cultura fiorentina, programmaticamente ostile ai principi sostenuti nelle Prose della volgar lingua. Di Varchi si davano un tempo giudizi poco lusinghieri: «di professione enciclopedico [...], è obbligato a occuparsi di tutto»; e ancora: «Pensatore mediocre, egli è un eccellente professore; all’incapacità d’elaborare tesi personali s’accompagnano in lui una solerte diligenza d’informazione e una garbata lucidità d’esposizione». In seguito, si sono riconosciuti i suoi meriti: l’aver conciliato la lezione di Bembo con il fiorentino vivo e l’aver dato un’impostazione filosofica ai temi linguistici nell’Ercolano, dialogo che, per questo aspetto, s’ispira al De vulgari eloquentia. 2  



1   Si veda, per es., lo svolgimento della Lezione sopra un sonetto di Michelangelo, pubblicata con commento in Barocchi (1971-1977), ii: 1322-1341; questo scritto si può considerare esemplare di un modo di articolare e suddividere gli argomenti, presentandoli in un discorso didattico, non privo di eleganza formale. 2   Il recupero della dimensione parlata da parte di Varchi, assieme alla concezione naturalistica di Machiavelli (l’eccellenza del fiorentino è dovuta alle sue qualità intrinseche), si compongono con il bembismo nelle idee sulla lingua espresse da Lionardo Salviati. Marazzini (1993b: 269) ricorda come

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Nella Lezzione nella quale si disputa della maggioranza delle arti e qual sia più nobile, la scultura o la pittura [= Magg], tenuta all’Accademia di Firenze, la terza domenica di Quaresima del 1547, Varchi, inserendosi in un discorso a più voci, riprende un tema di gran voga: il dibattito sulle arti, il quale muoveva da idee filosofiche e da ideologie di lungo corso e dava luogo a diverse prese di posizioni e a richiami (talvolta seri, talvolta superficiali) ai pensatori del passato. Il testo si compone di 58 pagine (ed. Barocchi). Le altre 23 che seguono contengono le Lettere di più eccellentissimi pittori e scultori cavate da’ proprii originali intorno la sopradetta materia. I personaggi eminenti sono: Vasari, Bronzino, Pontormo, Maestro Tasso, Sangallo, Tribolo, Cellini, Michelangelo. 3 Le Lettere conferiscono prestigio alla Lezzione, “danno autorità” al personaggio Varchi, fondano un ethos culturalmente rilevante anche per la centralità del tema aπrontato e per l’essere dirette a interlocutori, non appartenenti al gruppo ristretto dei filosofi e filologi di professione, ma di certo frequentatori di alti temi civili e culturali. Vari sono i caratteri e il tono di queste lettere. Dopo le rituali dichiarazioni di modestia Vasari accetta di trattare i temi proposti da Varchi. La lettera di Pontormo termina con alcune allusioni scherzose. L’esposizione di Sangallo, che si soπerma su particolari tecnici, risulta nel complesso piuttosto confusa. La scrittura di Cellini è la più vivace, anche per la presenza di vocaboli ed espressioni del vernacolo fiorentino (v. il composto ingannacontadini). Breve è la scrittura di Michelangelo, che pone su piani diversi le proprie idee sull’arte e gli argomenti filosofici trattati da Varchi. Come appare, rispetto al testo scritto di carattere specialistico, il discorso recitato procede per altre vie. È la prima cosa di cui dobbiamo tener conto; l’altra riguarda aspetti testuali e paratestuali. In questa epoca gli interventi autoriali si manifestano nella forma di epistole dedicatorie, prefazioni, avvertimenti ai lettori: in essi vige un’istanza pragmatica che condiziona la scrittura e ne determina i rapporti con i lettori. 4 Il dibattito sulle arti coinvolge un largo stuolo di artisti, filosofi ed eruditi, aprendo il percorso a temi nuovi e stimolanti. È un dibattito che si fonda sui confronti e le comparazioni. Paolo Pino, nel Dialogo di pittura (1545), propone un parallelo tra dispositio: disegno / elocutio: colore. Opponendosi a Vasari, Lodovico Dolce (1557) sostiene con vari argomenti la superiorità di Raπaello su  



alcuni concetti del De vulgari eloquentia siano passati nell’Ercolano, dialogo che suscitò la reazione di L. Castelvetro: v. Correzione d’alcune cose nel Dialogo delle lingue di Benedetto Varchi (in Varchi, Opere, vol. II, Trieste, 1859: 203-246); la stessa posizione fu assunta da Girolamo Muzio nella Varchina (ivi: 247282). Sullo stile delle lettere di questo autore si veda l’Introduzione di A. M. Negri all’ed., curata dalla stessa, delle Lettere di G. M., Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2000, pp. vii-xliii, xxiii-xvi. Le idee del nostro autore sono analizzate da A. M. Sikiera, L’identità linguistica del Vasari ‘artefice’. I. ‘Due lezzioni’ di Benedetto Varchi alla vigilia della prima edizione delle ‘Vite’, in “Architettura e identità locali”, I, a cura di L. Corrain e F. P. Di Teodoro, Firenze, Olschki (Collana dell’«Archivum Romanicum», Serie i: Storia, Letteratura, Paleografia, vol. 424). 3   Ho presente il testo pubblicato in Barocchi (1960-1962) vol. I (1960), pp. 1-58; alle pp. 59-82 seguono le Lettere di più eccellentissimi ...; v. le note, pp. 357-385. Per la data di Magg v. P. Barocchi, in Scritti arte, ii (1973: 2373). Sul confronto tra pittura e scultura si veda Scritti arte, I (1971: 463-711, dove, dopo un’introduzione di P. Barocchi, sono antologizzati scritti di numerosi autori, da Leonardo a Galilei; ivi è riprodotta, accompagnata da note, la Disputa seconda di Magg “Qual sia più nobile, o la scultura o la pittura” (pp. 524-544); sono interessanti ai nostri fini le pagine di A. F. Doni e B. Cellini (pp. 554-591 e 594-599). I tre tomi di Scritti arte sono divisi in capitoli, che contengono un’antologia di passi concernenti la suddivisione delle arti, i concetti e le tecniche delle arti, i luoghi in cui si esercitano, gli artisti, ecc. 4   Cfr. Ordine (1999: 27); Kerbrat-Orecchioni (2002: 187) si occupa delle conseguenze, anche formali, che risultano da un cambiamento della fonte dell’informazione.

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Michelangelo. Diverso carattere hanno gli scritti di Leonardo da Vinci, raccolti, in epoca moderna, nel Libro di pittura, dove si leggono per lo più appunti tratti da manoscritti: si sostiene, tra l’altro, la superiorità della pittura (capace di riprodurre il movimento) sulla scultura e sulla musica; vi sono resoconti su esperienze personali e riflessioni sull’arte. 5 L’uso di un fiorentino vivo, sia pure variamente mescidato di lombardismi e termini tecnici, facilita la lettura. Il paragone tra le arti non sfocia in una teoria. Ci si soπerma per lo più su impressioni e gusti personali, e su particolari tecnici: la scultura è più di√cile a causa delle otto prospettive di cui l’artista deve tener conto, i pregi e le di√coltà della pittura consistono nel chiaroscuro e nel colorismo. Questi temi sono aπrontati partendo da una ricognizione delle opinioni espresse da artisti famosi. Si aπerma sovente la superiorità della rappresentazione visiva su quella letteraria; sono tematizzati i concetti dell’artista universale, che coltiva più arti, e della perfezione, che si raggiunge in ciascuna arte. Ritorna più volte l’idea secondo la quale la superiorità dei moderni sugli antichi si rivela soprattutto nella pittura, che rappresenta la grandezza dell’era nuova e ha conquistato la classicità. È riaπermato con vigore il principio dell’imitazione, grazie alla quale si compete con l’arte antica e la si supera. La Lezzione comprende un Proemio e tre “Dispute”, ciascuna provvista di un titolo: “Della maggioranza e nobiltà delle arti”, “Qual sia più nobile, o la scultura o la pittura”, “In che siano simili et in che diπerenti i poeti et i pittori”. 6 Una lezione, ovviamente, non è un dialogo, né un trattato: non ha i toni colloquiali e la nobiltà del primo, né l’ampiezza e la gravità del secondo. La cornice e il contesto (che comprende le otto lettere di corrispondenti), oltre che precisare l’occasione, definiscono l’intenzione sottesa allo scritto. La mutua solidarietà tra le arti è l’idea che circola nell’intero testo e che è riaπermata con forza nel finale:  



Et io per me non dubito punto che Michelagnolo, come ha imitato Dante nella poesia, così non l’abbia imitato nelle opere sue, non solo dando loro quella grandezza e maestà che si vede ne’ concetti di Dante, ma ingegnandosi ancora di fare quello, o nel marmo o con i colori, che aveva fatto egli nelle sentenze e con le parole (Magg: 57).

Nella sua opera figurativa il grande artista rievocò i concetti e le immagini di Dante. Le sue creazioni sono commentate con passi della Commedia in cui compaiono i medesimi personaggi. La funzione didascalica dei testi poetici, rispetto alla pittura e alla scultura, è un carattere ricorrente nelle scritture di questo settore ed è un’occasione di confronto tra i versi citati e il commento in prosa. All’inizio della prima Disputa è preannunciato il tema, si definisce l’ordine del discorso, si giunge a una definizione: L’intendimento nostro in questa prima disputa è di trovare qual sia fra tutte le arti la più nobile, la qual cosa non è meno faticosa che utile; e se bene potremmo dire in pochissime parole l’oppenione nostra, non di meno, volendo noi procedere filosoficamente et essere intesi da ognuno, è necessario dichiarare, prima, che cosa sia arte; poi in che modo e da che cosa si conosca quando un’arte è più o meno 5   Per la storia dei testi vinciani «nelle loro relazioni interne, e nelle relazioni con il contesto culturale in cui essi sono nati» v. Vecce (1993: 95-124, 122), dove si tratta dell’inclinazione “visiva” della scrittura vinciana: «La chiave stilistica più cara a Leonardo [...] è quella legata alla descrizione, non importa se di cose reali o puramente immaginarie: quello che conta è l’assoluta aderenza e immediatezza della rappresentazione. [...] In Leonardo la parola serve, paradossalmente, a vedere» (ivi: 123). 6   Sul rapporto tra poesia e arti plastiche nella teoria umanistica v. Renseelaer (1940).

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nobile d’un’altra. Avendo dunque veduto nel Proemio che tutte l’arti sono nella ragione inferiore, in quella seconda et ultima parte che si chiama fattibile, che è meno degna di tutti e cinque gli abiti o vero cognizioni intellettive, diciamo che, secondo la di√nizione del Filosofo, l’arte non è altro che un abito intellettivo, che fa con certa e vera ragione (Magg: 9).

9. 2. La progressione tematica 7  

La Lezzione, centrata sul confronto (anche “tecnico”) tra le arti, comporta naturaliter l’uso di particolari schemi sintattici e sequenze testuali. Il testo, povero di situazioni colloquiali, si concentra sull’esposizione di alcuni principi relativi alle arti e sui mezzi tecnici per presentarli al pubblico in modo chiaro ed e√cace. Nella “Disputa prima” il discorso didattico ha una successione accumulativa, in virtù della quale si prepara il terreno, circoscrivendolo e dissodandolo: «L’intendimento nostro ... è ... di trovare ..., è necessario dichiarare prima ..., poi, in che modo» (Magg: 9). Il riferimento a quanto è stato appena detto e le sottolineature sono resi mediante la ripetizione di verba dicendi: «Avendo dunque veduto nel Proemio che ..., diciamo che», «Et ancora che questa di√nizione..., tuttavia noi, per aprirla e spiegarla più chiaramente ..., diremo che ... La quale di√nizione ... dichiararemo a parola a parola»; cfr.: «E così avendo veduta ..., trapassaremo alla seconda ... Al che diciamo che» (ivi: 11) ecc. Adatta al fine didattico è la progressione tematica, che viene gestita e realizzata mediante riprese verbali: «Dell’arti alcune sono che ... Dell’arti alcune si chiamano liberali ... Dell’arti alcune sono ... Dell’arti alcune sono ... Dell’arti alcune sono ... Dell’arti alcune pigliano ... Dell’arti alcune dispongono ... Dell’arti alcune servono ... Dell’arti alcune fanno ... Dell’arti alcune vincono ... Alcune sono ministre della natura ... Dell’arti alcune sono subalternanti o vero principali ... Alcune si chiamano subalternate o vero inferiori ... Dell’arti alcune sono ... Dell’arti alcune hanno l’operazioni loro artifiziosissime ... Alcune sono servili di tutto» (ivi: 15); alla fine di questa sequenza (che ha quasi il carattere di un elenco) appare una frase incapsulatrice: «Di queste tante e così varie divisioni di diversi autori può conoscere ciascuno la di√colta di questa materia» (ivi : 18). Ha un rilievo minore la suddivisione dell’argomento in parti, ciascuna delle quali è introdotta da un indicatore (nel passo che segue si tratta di avverbi in -mente): «questo nome ‘arte’ si può pigliare in due modi: propriamente e comunemente. Propriamente, quando si distingue ... Comunemente, si piglia in due modi ... Alcuna volta si piglia ... Alcuna volta si piglia ... Pigliasi ancora qualche volta ... Pigliasi ancora per uno aggregato» (ivi: 13-14). Le correlazioni, spesso poste in successione, rientrano in un procedimento ricorrente nel testo: «secondo che ... così ... come ... così», «Detto dei fini dell’arti ... E come in ciascuna scienza ..., così medesimamente» (ivi: 13). Le formule che introducono sequenze testuali sono spesso avviate da una congiunzione o da un nesso congiuntivo: «E però devemo sapere che... Ancora da sapere che ... È ancora degno di considerazione che ... E questo procede in infinito; ancora che» (ivi: 11-12). «Ma venendo finalmente alla disputa principale, diciamo che» (ivi: 19 ) segue un periodo di 12 righi. Talvolta modismi, detti, proverbi sono usati come introduttori 7   Per lo studio di questo fenomeno mi collego a un mio precedente contributo: Aspetti della progressione tematica nella trattatistica del Cinquecento, in Romanische Sprachwissenschaft. Zeugnisse für Vielfalt und Profil eines Faches. Festschrift für Christian Schmitt zum 60. Geburtstag, a cura di A. Gil, D. Ostius, C. Polzin-Haumann, Frankfurt a. Main-Berlin, P. Lang, 2004, pp. 329-45.

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discorsivi: «E chi non sa che il zappare e ’l barellare sono opere per sé vilissime» (ivi: 12). Distinguiamo tre tipi di formule ricorrenti nel testo. Formule introduttive: «Ma venendo finalmente alla disputa principale, diciamo che» (ivi: 19), «Ora, innanzi che vegnamo alla seconda, pensiamo essere ben fatto [...] recitarvi alcune cose» (ivi: 22-23), «Quanto a’ dubbii e problemi che possono cadere in questa materia dell’arte, si dimanda prima onde è che i giovani ordinariamente non sono artefici perfetti» (ivi: 26). Formule di passaggio: «Bene è vero che in ciascuna di queste divisioni è larghezza, cioè si trovano più gradi» (ivi: 19), «Bene è vero che, se bene la materia è da filosofo, è però trattata, e massimamente in certi luoghi, tanto poeticamente, che si può chiamare poeta in questa parte» (ivi: 54). «Quanto alla prima ragione, gli scultori concederebbero tutte le cose che in essa si contengono» (ivi: 45), «E la ragione è che niuno sentimento comprende e conosce la sostanza, ma solamente gli accidenti» (ivi: 48), «E di qui è nato che alcuni, credendosi provare la nobiltà dell’arte, hanno provato ora la di√cultà, ora la vaghezza, ora l’eternità, ora qualch’altro accidente» (ivi: 44). Formule conclusive: «Dicono dunque primieramente la pittura essere stata sempre in grandissima riputazione appresso tutte le genti» (ivi: 35), «Dico dunque, procedendo filosoficamente, che io stimo, anzi tengo per certo, che sostanzialmente la scultura e la pittura siano una arte sola» (ivi: 43; si notino i due incisi), «Et in somma dicono che tutta la macchina del mondo dir si può che una nobile e gran pittura sia, per mano della natura e di Dio composta» (ivi: 39).

La ripetizione di uno stesso sintagma o di una stessa congiunzione in periodi successivi è un tipico tratto discorsivo-didascalico: «Se l’arte è un aggregato ... Se quello che mi disse ... Se l’arti hanno bisogno ... Se tutte l’arti, come s’è detto» e così ancora per cinque volte nella “Disputa prima” (ivi: 26-30). Talvolta allo stesso verbo si alternano verbi dal significato simile: «Argomentano ancora dagli onori e premi grandissimi ... Argomentano ancora, la pittura essere molto più universale ... Conchiudono dunque che la pittura ... Argomentano ancora dalla di√coltà dell’arte ... Arguiscono ancora dalla magnificenza et ornamento ... Argomentano ancora dalla commodità et utilità». Quest’ultimo tipo di avvio è ripetuto ancora tre volte nella “Disputa seconda” (ivi: 37-40), dove seguono altri passi e infine un breve periodo riassuntivo, avviato da una participiale: Raccontate l’autorità e le ragioni dell’una parte e dell’altra, innanzi che io venga a rispondere alle ragioni de’ pittori contro agli scultori, non voglio mancare, con buona pace e sopportazione d’amendue le parti, di dire liberamente la sentenza mia circa questa dubitazione, la qual prego che sia accettata con quell’animo che io la dico (ivi: 43).

La ripresa è segnata da una serie di aπermazioni di principi: «Dico dunque, procedendo filosoficamente, che io stimo anzi tengo per certo che ... Ora ognuno confessa che ... E di qui è nato che ... E a chi dimandandasse quale è la più nobile arte ... si deve rispondere a un modo, cioè che». In corrispondenza appare una serie di risposte: «Quanto alla prima ragione ... Alla seconda ragione. Alla terza ragione ...» e così fino «Al settimo et ultimo argomento» (ivi: 45-52). Sono messi in evidenza i passaggi dall’uno all’altro argomento: «Detto dei fini dell’arti, non sarà se non buono dire alcuna cosa del modo come si facciano et ordinino tutte l’arti» (ivi: 13), «Ma venendo finalmente alla disputa principale, diciamo che» (ivi: 19), «Dopo la medicina séguita per quanto a me ne paia, l’architettura» (ivi: 21), «Ma rimettendoci all’autorità loro, diremo solamente che» (ivi: 21). Rispetto ai grandi esempi di prosa argomentativa che abbiamo esaminato nei capitoli precedenti, la scrittura varchiana si mantiene a un livello di medietà stili-

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stica; una medietà che presenta caratteri diversi rispetto agli altri generi, per es., le lettere familiari. 8 A causa del loro stile semplice, le Lezzioni rappresentano un utile termine di confronto per le opere di più alto livello stilistico. Le Lezzioni possiedono un registro linguistico adatto a un uditorio diverso da quello delle corti. In base a quali parametri s’individua tale diversità? L’uso di connettori “meno estesi”, la misura ridotta delle correlazioni, dei bilanciamenti, delle simmetrie di frasi e delle comparazioni fanno la diπerenza; anche questa è una prosa “legata” (riguardo sia alle componenti periodali sia alle sequenze di testo), ma lo è in modo diverso. Elementi tradizionali – quali i nessi relativali e la coniunctio relativa, l’accusativo con infinito, il verbo portato alla fine del periodo, la tmesi di elementi normalmente contigui – appaiono anche in questo testo, e frequentemente, ma non hanno uno sviluppo retoricamente elaborato, per il prevalere di un’istanza didattica, adatta al ragionamento sulle arti.  

9. 3. Come si costruisce una lezione Una cellula della sintassi della Lezzione s’individua nel nesso comparativo come ... così, largamente fruibile nel cotesto di un discorso sull’arte: «E come la cagione formale non può essere senza la materiale, così la formale non può essere senza l’agente» (ivi: 23), «et io per me, come non ho dubbio nessuno che l’essere pittore giovi grandissimamente alla poesia, così tengo per fermo che la poesia giovi infinitamente a’ pittori» (ivi: 57). Questo nesso prevale sulla contrapposizione avversativa: «È ben vero che le specolazioni nelle scienze sono per cagione di loro stesse e non per altro fine che per sapere la verità delle cose, dove nell’arti non è così, perché tutte si riferiscono al fine del’arte» (ivi: 24). Nello strutturare i periodi si attua il “distanziamento tra componenti”: «Tutte le cose di tutto l’universo [intervallo di 5 righi] sono [1 rigo] o eterne o non eterne»; «e se non avesse favellato prima Vitruvio [6 righi], ne potremmo trattare diπusamente» (ivi: 21); «e concederebbero [2 righi] la pittura soprastà alla scultura, ma nelle cose sostanziali [2 righi] essere il contrario» (ivi: 47). Sovente, alla fine di un lungo periodo, si giunge a isolare un infinito, secondo la maniera latina. L’accusativo con l’infinito dipende da verba dicendi ed è rappresentato per lo più da essere: «A quello che dicono, essersi trovati scultori eccellentissimi senza disegno grande, risponderebbero che, ancora che questo sia di√cilissimo, è avvenuto ancora ne’ pittori» (ivi: 50), «Et a quegli che dicono Michelagnolo essere eccellentissimo scultore per lo essere eccellentissimo pittore, rispondono essere il contrario» (ivi: 50). Il costrutto ha una diπusione modesta in questa come nelle altre Lezzioni, raggiunge invece un maggiore sviluppo nella Storia fiorentina. Sono presenti due altri fenomeni. Ad un unico ausiliare si riferiscono più participi passati, spesso tra loro distanziati. Le parentetiche raggiungono un’estensione media: «Argomentano ancora – e questa ragione si noti bene, perché vi fanno sopra gran fondamento e, secondo a me pare, con gran ragione – : dicono dunche che amendue queste arti cercano d’imitare la natura, e che quella sarà più nobile che meglio saprà fare questo e s’appresserà più al vero; il che è verissimo» (ivi: 41), dove si noterà la ripresa del verbo: argomentano ... dicono dunche. 8   Penso in particolare alle lettere di Annibal Caro, nelle quali la medietà stilistica è rappresentata da altri fenomeni, come il frequente ricorso a strutture prolettiche, la ripetizione del tipo «non avere avuto mai, mai, mai» (Caro, 1971, i: 216).

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Le completive soggettive di modo finito sono rappresentate dai tipi strutturalmente più semplici: «Non è già dubbio che i pittori fanno meglio e imparano di più» (Magg: 50). Le completive oggettive presentano fenomeni consueti nella sintassi dell’epoca, come la subordinazione multipla: «onde gli scultori dicono che la loro arte è vera e la pittura dipinta, e che vi è tanta diπerenza quant’è dall’essere al parere» (ivi: 42); «E così avemo veduto perché la poesia si chiama arte, e che è simile alla pittura» (ivi: 54-55). Osserviamo questo fenomeno in un passo esteso: Dicono ancora che Fabio, nobilissimo cittadino romano non solo non si vergognò d’essere pittore e scrivere il nome suo nelle sue opere, ma diede il nome a così nobile famiglia, e che Marcantonio imperadore, il quale fu dottissimo e santissimo, con quelle mani con le quali dava leggi e reggeva il mondo, con quelle medesime dipigneva, et in un medesimo tempo dava opera grandissima così alla pittura come alla filosofia, e che Platone, il quale fu et è meritamente chiamato divino, fu oltremodo studioso della pittura; e Cicerone, padre e maestro della facundia romana, mostra che molto non pure se ne dilettasse, ma intendesse (ivi: 36).

Come appare, la costruzione non acquista in complessità, anzi lascia spazio, nella conclusione, a una coordinata. Le dichiarative prolettiche hanno una funzione di collegamento tra i periodi: «E che questo sia vero nollo negano i pittori medesimi [...]. E che questo sia vero ognuno sa, ché, se bene l’occhio è il più nobile di tutti e cinque i sentimenti [...], non è però il più certo» (Magg: 42), «E che e’ sia vero questo, oltra le ragioni assegnate, si può vedere manifestamente dalle bellezze che si vedono ne’corpi artificiali» (ivi: 88). 9 La dichiarativa è anticipata mediante il deittico testuale questo: «Hanno i pittori e gli scultori, come disce Cicero, ancora questo comune coi poeti buoni, che propongono l’opere loro in publico, acciocché, inteso il giudizio universale, possano ammendarle, dove fussero ripresi dai più» (ivi: 56). 10 La posposizione del soggetto è frequente soprattutto all’inizio del periodo: «Hanno ancora l’arti questa diπerenza dalle scienze, che» (ivi: 25), «Sono bene l’arti e le virtù simili in questo, che» (ivi: 26) «Sono ancora diπerenti l’arti dalle virtù» (ivi: 25), «Fu nel tempo de’ padri o avoli nostri grandissima disputa fra due greci» (ivi: 31). 11 L’uso frequente di causali, consecutive e concessive corrisponde al carattere argomentativo della Lezzione e all’intento di costruire un’adeguata strutturazione periodale. È una tendenza che risalta chiaramente in un passo in cui questi diversi tipi di avverbiali appaiono in successione:  





E così la medicina, e quanto al fine e quanto al subietto è nobilissima; e perché alcuni, credendo nobilitarla, dicono che ella non è arte meccanica, cioè fattiva, avemo a sapere che in questa parte ella è inferiore a molte altre, conciossia che ella si debba più tosto chiamare rabberciativa che fattiva, perciocché ella non fa mai di nuovo, ma racconcia sempre e corregge, onde la chiameremo correttiva; perciocché, o conservi ella la sanità o la induca, non fa altro che correggere, benché ora più et ora meno, come intendono i medici (Magg: 19). 9   Cfr.: «E che ciò sia vero, si truova che egli è così nei tre principali eπetti di questo universo» (V. Danti, Il primo libro del trattato delle perfette proporzioni, in Barocchi 1960-1962, I: 207-269, 216). 10   «E vi dico che l’Ariosto in tutte le parti del suo poema ha dimostro sempre un ingegno acutissimo, fuor che in questa: non dico di lodar Michelagnolo ch’è degno d’ogni gran lode, ma di poner fra il numero di quei pittori illustri, ch’egli nomina, i due Dossi» (Lodovico Dolce, Dialogo della pittura, in Barocchi 1961-1963, I: 150), «E disidero d’intender ciò per questa cagione: che sono alcuni pittori, i quali si sogliono ridere, quando odono alcun letterato ragionar della pittura» (Dolce, ivi: 154). 11   A proposito della prosa di Guicciardini, Nencioni (1988: 214) nota: «Assai più di frequente il soggetto segue il verbo, che, specie se posto all’inizio dell’enunciato e nel passato remoto, vede esaltato il proprio valore eventivo».

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Incontriamo: una causale perché, una causale conciossia che, due causali perciocché, una consecutiva onde, una concessiva benchè; inoltre la coerenza è assicurata dalla ripetizione per cinque volte del pronome anaforico ella e dalla correlazione non ... ma, onde. L’enunciazione che enfatizza l’intento didattico, concentra in breve spazio vincoli subordinativi e logici. La causale perché posta all’inizio del periodo e prima della principale, costrutto frequente nella prosa di Machiavelli e di Guicciardini, ritorna anche nella Lezzione, confermandosi come uno strumento tipico della prosa argomentativa: «E perché io non desidero altro che trovare puramente la verità, e sappiendo che a ciascuno si debba credere nell’arte sua, ho scritto et avuto i pareri e giudizii di quasi tutti gli scultori e pittori più eccellenti» (ivi: 34), «Ma perché l’autorità non dimostrano né conchiudono necessariamente, ma ingenerano solamente fede et oppenione, passaremo alle ragioni» (ivi: 35). 12 La causale assume varie forme; è introdotta da un sostantivo: «e la cagione è perché ha il suo fine più nobile e più degno» (ivi: 19); è ripetuta più volte di seguito: «Bene è vero che ... perché molte ... perché o in questa o in quella ... perché nell’ultima» (ivi: 18); in 18 righi si hanno 8 causali perché (ivi: 32); in 25 righi si hanno 6 causali perché e “per + infinito” causale (ivi: 43). Le causali sono sovente poste in una correlazione: «Ma devemo avvertire che la poesia si chiama arte, non perché ella sia propiamente fattibile, ma perché è stata ridotta sotto precetti et insegnamenti» (ivi: 47); appaiono all’inizio del periodo dopo una congiunzione avversativa: «Ma perché, oltra che ’l tempo nol ci consente, n’avemo disputato altra volta, non diremo se non la resoluzione di questo dubbio» (ivi: 31); si noti che la causale è interrotta da una parentetica avviata da oltra che; questo schema si ripete in: «perché, oltra che intendiamo in amendue l’arti di maestri perfetti, ch’abbiano l’arte talmente che non accaggia di levare quello che non bisogna, possono fare gli scultori [...], fare il medesimo» (ivi: 49). Nel complesso le causali appaiono per lo più anteposte alla principale; fa eccezione un tipo meno frequente, la causale conciossia che: «E si potrebbe dire che l’architettura fusse alternante, e la scultura, sotto la quale comprendo ancora la pittura, subalternata, conciossia che le sculture e le pitture si fanno per adornare gli edifizi e non all’incontro, se non se per cagione della religione, il che è per accidente» (ivi: 22). Anche la finale esplicita appare talvolta preposta alla principale: «E perché ciascuno possa meglio comprendere questa materia, porremo alcune divisioni dell’arti» (ivi: 14). Si conferma, in tal modo, la tendenza a porre la principale nella seconda parte del periodo. Le consecutive sono frequenti e si presentano con non poche varianti: «A questa ragione rispondono alcuni che, se bene il pittore non fa la persona tonda, fa quei muscoli e membri tondeggianti di sorte, che vanno a ritrovare quelle parti che non si veggono, con tal maniera che benissimo comprender si può che ’l pittore ancor quelle conosce e intende» (ivi: 42); «[scil. Apelle] diede tal sito alla figura [scil. di Antigono], che ascose quell’occhio di maniera che non si poteva vedere; la qual cosa non arebbe potuto fare uno scultore in tutto rilievo» (ivi: 56); consecutiva con struttura binaria sia nell’antecedente sia nel conseguente: «per lo che mai non si possono rendere né tante grazie alla filosofia, né tanto grandi, che non siano e poche  

12   Cfr. Dolce (ivi: 152): «Ma perché questa di√nizione è alquanto ristretta e manchevole, perciò che non distingue il pittore dal poeta, essendo che il poeta si aπatica ancor esso intorno alla imitazione, aggiungo che il pittore è intento a imitar per via di linee e di colori [...] tutto quello che si dimostra all’occhio».

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e picciole» (ivi: 21); consecutiva con antecedente deittico: «e sempre ebbe questo onore [scil. la pittura], che fu esercitata da uomini nobili e proibito con perpetuo bando che niun servo potesse mai essercitarla» (ivi; 35); consecutiva compresa in un’avversativa: «È lodato ancora il Vulcano d’Alcamene, il quale mostra bene sotto la vesta d’esser zoppo, ma in guisa però che gli dà grazia e pare che gli si convenga» (ivi: 56). Possiedono caratteristiche analoghe le concessive (ancora che, benché, se bene), seguite spesso da un correlativo di ripresa (non è però, nientedimeno). Tipo ancora che: «Et ancora che si potessero allegare molto più ragioni et essempi, questi però ci sono paruti a bastanza» (ivi: 40), «La qual risposta, ancora che sia d’uomo ingegnosissimo et amicissimo mio, pare a me che non conchiuda» (ivi: 43), «E per questo diceva Aristotile che Empedocle, ancora che avesse scritto in versi, non era poeta, ma filosofo, il che potemo noi dire medesimamente di Lucrezio. Bene è vero che, se bene la materia è da filosofo, è però trattata, e massimamente in certi luoghi, tanto poeticamente, che si può chiamare poeta in questa parte» (ivi: 54). Tipo benché: «E benché io potessi dire brevissimamente l’oppenione mia, nientedimeno mi piace di raccontare» (ivi: 35). Tipo se bene: «e se bene molte arti consistono in un certo modo nell’essercitazione sola, non è però che la vivezza dell’ingegno non possa assaissimo» (ivi: 24), «E prima diremo che, se bene l’arti pigliate propiamente si distinguono contro le scienze, non è però che in ciascuna arte non si specoli e consideri alcuna cosa» (ivi: 24). Concessiva interposta a un’altra proposizione avverbiale: «perciocché, se bene l’architettura conserva anch’ella la sanità et ha più la magnificenza e l’ornamento, non però ne la conserva in quel modo» (ivi: 22), «E che questo sia vero ognuno sa, ché, se bene l’occhio è il più nobile di tutti e cinque i sentimenti [...], non è però il più certo» (ivi: 42). Come appare, la concessiva, sia preposta sia interposta, rappresenta un fattore di complicazione sintattica. Questi caratteri rappresentano “indici sintattici” atti a definire il grado di complessità dei periodi. In una prosa, legata mediante pronomi anaforici 13 ed elementi di correlazione, si attua una “progressione uniforme” (Durante 1981), la quale contribuisce a fondare l’architettura del testo, ripetendo un vocabolo o un nesso introduttivo in più capoversi. Abbiamo visto una sequenza testuale fondata sulla ripetizione del verbo argomentano; predicati verbali come si piglia / pigliasi, si cerca sostengono delle “griglie testuali”: «Primieramente si considera e piglia il fine di quella cotale arte [...] poi si cerca di quegli mezzi [...] poi si cerca con quali mezzi [...]. Alcuna volta si piglia non per ogni scienza [...]. Alcuna volta si piglia per uno abito acquistato [...]. Pigliasi ancora qualche volta [...]. Pigliasi ancora per uno aggregato di più cose» (Magg: 13-14). Si ritrovano sequenze isomorfe con introduttore: «Quanto alla prima ragione [...]. Alla seconda ragione [...]. Alla terza ragione [...]. Alla quarta ragione [...]. Alla quinta cagione la concedono tutta [...]. Alla sesta cagione, perché contiene due cose, concederebbero la prima [...]. Al settimo ed ultimo argomento [...] (ivi: 45-51). Altri temi sono diposti in moduli suddivisi in parti: «[scil. la ragione universale] [...] e questa, la quale è propria dell’uomo, si ridivide in due parti: nella ragione superiore [...], e nella ragione inferiore [...]. Nella ragione superiore sono i tre abiti contemplativi [...]. Nella ragione inferiore [...] sono gli altri duoi abiti pratichi» (ivi: 7). L’uso di congiuntivi e di interrogative ricorre in frasi ipotetiche di stampo re 

13   Cfr., per es.: «et alcuni per avventura direbbero che questo avveniva dalla grande di√cultà della scultura, non solo del corpo, ma dell’ingegno, e che chi è occupato in ella non può dare opera ad altra cosa nessuna» (ivi: 46).

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torico: «E chi mi dimandasse perché io la [scil. l’architettura] prepongo alla scultura et alla pittura, gli risponderei» (ivi: 22); «Se l’arte è uno aggregato o vero ragunamento di più regole [...], onde è che alcune sono dannosissime, e pure si chiamano arti?» (ivi: 26). Nel periodo «a chi dimandasse quale è più nobile arte, o quella medicina che si chiama fisica, cioè naturale, o quella che si chiama cerusica, cioè manuale, si deve rispondere a un modo, cioè che tanto è nobile l’una quanto l’altra» (ivi: 44) la condizionale sembra essere stata scelta per evidenziare il collegamento con quanto precede; ciò vale anche per i due passi che seguono: «Onde, quando alcuno concedesse tutte le ragioni che s’allegano per la parte de’ dipintori, non seguirebbe che la pittura fosse più nobile; e dall’altro lato, chi concedesse tutto quello che dicono, non seguiterebbe che la scultura fusse più nobile, confessato che avessero il medesimo fine» (ivi: 44); «Oltra questo, quando bene se gli concedesse quello che dice, ad uno scultore bastarebbe che la sua statua, venisse da che si volesse, imitasse meglio la natura» (ivi: 43). 14 Le relative non sono particolarmente numerose e si presentano nei tipi consueti alla prosa colta. La relativa all’inizio del periodo: «La quale [scil. materia] a√ne che ancora s’intenda meglio e più agevolmente, devemo sapere che [...] tutte l’arte sono meccaniche» (ivi: 18, riprende il sost. materia collocato 4 righi prima); il pronome il quale separato dalla testa; la coniunctio relativa: «la qual risposta quanto vaglia lasciarò giudicare a ciascuno» (ivi: 42, riprende il predicato verbale rispondono alcuni, precede di 5 righi), «La qual risposta, ancora che sia d’uomo ingegnosissimo et amicissimo mio, pare a me che non conchiuda» (ivi: 43, riprende Alcuni altri rispondono, 11 righi prima, E questa medesima risposta, 3 righi prima), «Le quali discrezioni, accortezze, industrie et accidenti sono comuni, come ne mostrano gli essempi, così agli scultori come a’ pittori» (ivi: 56: questi sostantivi riprendono le operazioni descritte prima mediante frasi verbali). 15 Tra i costrutti assoluti notiamo l’uso di participiali, che appaiono soprattutto nella posizione d’incidentali: «Alle quali (scil. dispute), chiamato prima divotamente l’ottimo e grandissimo Dio [...], poscia pregate umilmente l’umanissime e benignissime cortesie vostre [...], è tempo oggimai di venire» (Magg: 8). 16 Le gerundiali all’inizio del periodo sostengono per lo più il discorso dell’auctor: «Ma venendo finalmente alla disputa principale, diciamo che» (ivi: 19), «Ma rimettendoci all’autorità loro, diremo solamente che» (ivi: 21), «Avendo veduto che tutte l’arti sono nella seconda et ultima parte dell’intelletto pratico [...]; et essendo il fine della poesia e della pittura il medesimo [...], vengono ad essere una medesima e nobili ad un modo» (ivi: 53). 17 L’infinito nominale appare in più cotesti, come soggetto: «diciamo che per le  







14   Della prevalenza della retorica sulla logica e sul ragionamento tratta Zublena (2000: 352). In Magg: 44 si notino quando ipotetico e il sintagma agentivo per la parte de’ dipintori. In altri passi lo schema “protasi + interrogativa” è ripetuto più volte ed è introdotto da dichiarative prospettiche del tipo: «Restaci ora a dichiarare, per compimento di questa materia, alcune quistioni» (ivi: 30); nei due ultimi ess. si ha quando introduttore di protasi. 15   Il costrutto è diπuso nella trattatistica del tempo, cfr., per es.: «Il quale studio non sarà, spero, sanza mio e forse di molti altri grandissimo frutto», «La qual cosa tanto maggiormente si mostra verissima, quanto è vero che, se in fra loro fosse alcuna sproporzione, nascerebbe alcuna volta disordine in esso tempo; il che non avviene giamai» (Vincenzio Danti, Trattato delle perfette proporzioni, in Barocchi (1961-1963, i: 212, 216). 16   Abbiamo visto in 9. 4. un es., in cui appare una participiale, posta, in posizione di rilievo, alla fine del periodo: «confessato che avessero il medesimo fine». 17   La stessa posizione è occupata da introduttori tematici: «E quanto all’autorità, diciamo che» (ivi: 35), «Quanto alla prima ragione, gli scultori concederebbero» (ivi: 45).

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cose sopraddette non è di√cile il conoscere che [...] la medicina è la più degna e la più nobile di tutte l’altre» (Magg: 19), «E per la cagione detta di sopra diceva Aristotele nell’Etica che nelle arti era molto meglio che nelle virtù l’errare e far male in prova» (Magg: 26), «et io per me, come non ho dubbio nessuno che l’essere pittore giovi grandissimamente alla poesia, così tengo per fermo che la poesia giovi infinitamente a’ pittori» (ivi: 57); 18 come complemento, con valore mediale: «Michelagnolo l’ha dimostrato [scil. che i pittori imparano pià dal rilievo] in S. Lorenzo nelle sue architetture, col fare i modelli di rilievo eguali alla grandezza dell’opera» (ivi: 50); o con valore causale: «E se Seneca non vuole che né i pittori né gli scultori s’annoverino nel numero dell’arti liberali, lo fece per lo essere egli stoico» (ivi: 35), «in eπetto sono una medesima, per lo avere un medesimo fine» (ivi: 44), «il tatto, che, per lo essere materiale, è più certo che la vista» (ivi: p. 47), «Et a quegli che dicono Michelagnolo essere eccellentissimo scultore per lo essere eccellentissimo pittore, rispondono essere il contrario» (ivi: 50); «benché di simili cose, per l’essere accidentali e fuora dell’arti, non fareici per me troppo gran caso» (ivi: 51); 19 la presenza dell’articolo determinativo completa la nominalizzazione del costrutto. Il collegamento interperiodale è attuato in vari modi, con connettori semplici e composti. Tra i primi onde ha valore consequenziale e conclusivo: «Onde potemo dire che un medico [...] si debba, se è vero medico, lodare et onorare più che niuno altro» (Magg: 20), «Onde non è dubbio che ancora nell’arti si fanno delle dimostrazioni, come nelle scienze» (ivi: 24). Come si è già osservato, oltra introduce sovente incidentali: «Ma perché, oltra che’l tempo nol ci consente, ne avemo disputato altra volta, non diremo se non la resoluzione di questo dubbio» (ivi: 31); meno frequentemente appare alla fine del periodo, dove assume un valore conclusivo: «il che è avvenuto loro, come dicono i pittori, per essere sì più faticosa di corpo e sì più lunga di tempo, oltra che, durando più, soddisfà meglio all’intendimento di colui per cui si fa» (ivi: 46). Il che è un connettore usato frequentemente per collegare a un’aπermazione, in genere estesa, una considerazione o una conclusione; si attua in tal modo una progressione tematica lineare: «perché, come dice Aristotile, egli [scil. lo scienziato] sa più et è più saggio e può insegnare l’arte, il che non può fare il pratico» (ivi: 32), «Dicono ancora che si sono trovati molti scultori molto grandi senza gran disegno, il che della pittura non avviene» (ivi: 38), «e per questa cagione si ritruovano diverse spezie di poesia. Il che non avviene nella pittura, perché tutti i corpi sono ad un modo, così quegli de’ principi come de’ privati, il che degli animi non avviene» (ivi: 55); si noti che in quest’ultimo es. il connettore è usato due volte di seguito. 20 Più rari sono i connettori al che, dal che: «al che si risponde che alla perfezzione dell’arte si ricerca non solamente la dottrina, cioè la cognizione universale [...], ma ancora l’uso e l’essercitazione» (ivi: 26), «Al che rispondendo, diciamo che» (ivi:  





18   Vediamo un esempio d’infinito nominale nel dialogo L’Ercolano: «E quello che mi colma la gioia è l’haver io trovati qui per la non pensata tutti quegli honoratissimi e a me sì cari giovani» (ii, ed. Sorella, 1995: 494). Nell’Ercolano vivono numerosi elementi di filosofia del linguaggio (Gensini 2008). 19   La causale implicita si alterna, come elemento di variatio, con la causale esplicita: «La qual risposta [...] pare a me che non conchiuda, prima per non esser vero che quello che vi si truova delle tre dimensioni sia totalmente della natura, perché, se bene tutti i corpi hanno tre dimensioni necessariamente, non però l’hanno in un modo medesimo» (ivi: 43). 20   Cfr. anche: «La contradizione è, che io ho detto che la bellezza non può essere senza la grazia, il che è verissimo, ma che la grazia può bene stare senza bellezza, il che pare falso e impossibile» (Varchi, Libro della beltà e grazia, in Barocchi 1961-1963, i: 89).

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31); «Conchiudono dunque che la pittura non solo fa più cose assai, ma ancora più perfettamente della scultura, dando i propii colori a tutte cose minutissimamente; dal che arguiscono che la pittura sprime meglio e conseguentemente imita più la natura» (ivi: 37-38). Lo stile “didattico” di Magg si allontana dall’elaborazione formale dell’Ercolano e della Storia fiorentina; da quest’ultima riprendiamo un passo in cui più proposizioni, simmetricamente strutturate e descriventi un unico tema (la corruzione del papato), si accumulano in un lungo periodo: e Fra Martino, il quale per ordine del sassone elettore s’era accostato ad Augusta, andava spargendo e colla voce e con gli scritti per tutte le città circonvicine, il pontificato di Roma non esser altro che il regno di Anticristo e di Satanasso, dove non solo non s’osservava né fede né religione, ma si faceva contra ogni religione e contra ogni fede; dove ogni dì, anzi ogn’ora, si spedivano motupropri e nuove leggi contra i canoni vecchi, e fuori d’ogni equità e giustizia; dove i figliuoli e nipoti, e altri parenti e amici de’ papi, quasi fossero sciolti da tutte le leggi divine e umane, mettevano il papato a saccomanno, togliendo indiπerentemente così l’onore come la roba a chiunque metteva loro bene, non avendo riguardo nessuno né a Dio né agli uomini; dove non s’attendeva ad altro che a sforzare con inganni o ingannare colle forze la credulità de’ poveri popoli cristiani, ora coll’autorità delle indulgenze, ora con la concessione de’ perdoni, ora col perdonare tutte le scelleraggini e fatte e fatte fare da chi che si fosse, ora colle dispense de’ matrimoni, oltra le decime e l’annate e tant’altre spese; le quali cose per empiere l’ingordigia del papa, del datario e di tanti ufiziali, si facevano nella spedizione d’un benefizio solo, sotto pretesto o della fabbrica di San Piero, o della guerra contra gl’Infedeli, l’una delle quali mai non si comincerebbe, e l’altra mai non si fornirebbe. Quivi non esser cura né pensiero alcuno né della salute dell’anime né del culto divino; quivi esser tanto in pregio ed onore i vizi, quanto schernite e vilipese le virtù; quivi in far concedere a un solo molti beneficii, ancora secondo i canoni de’ papisti medesimi, incompatibili, poter più la voglia d’un garzone solo ed il favore d’una publica meretrice, che tutte le leggi e tutti i meriti. I cardinali, nuovo e intollerabile grado introdotto da’ papisti nella Chiesa, esser ogn’altra cosa che cardinali, i vescovi fare tutti gli altri ufici da quei di vescovo in fuori, i sacerdoti, non avendo altro di sacerdoti che il nome, attendere solamente il dì e la notte a banchettare e a giuocare, e a ogni altra specie di lussuria e di libidine (Storia fiorentina XII, xxxvii). 21  

Si è osservato che «La sintassi del Varchi è classicheggiante, boccaccevole e, almeno nella Storia fiorentina, si complica di contorti iperbati che forzano la natura della nostra lingua. Per tale rispetto egli è veramente discepolo del Bembo, quantunque nell’Ercolano si pronunci contro coloro che eccedono nel “tramutar le parole per cagione del numero”». 22 Ciò non accade tuttavia nella Lezzione, dove l’impegno didattico impone uno stile semplice e disposto a uno sviluppo lineare. Diverso è il terreno da cui nasce l’Ercolano: sorto da una polemica, il dialogo finì per di 

21   Cfr. Varchi, Opere, 1858, I, p. 328a, con lievi modifiche nella punteggiatura. Nella Storia fiorentina si parla a più riprese di Guicciardini, cui non si risparmiano le critiche. Né si evita la ripresa di scene crude, come l’episodio del figlio sifilitico di Alessandro III, Pier Luigi Farnese, che violenta il vescovo di Fano: v. Guglielminetti (1990: 100-101). 22   Cfr. Pirotti (1960: 544-545). Di un Varchi diviso tra un Veneto bembiano, un Veneto speroniano e la sua Firenze parla (Afribo 2001: 18). Del resto Varchi mantiene una posizione propria nella dispute del tempo; nell’Ercolano confuta Bembo: «una favella la quale non abbia scrittori, si può, anzi si dee, solo che sia in uso, chiamar lingua»; si allontana dalle idee di Speroni e non mostra simpatia per i protagonisti dell’umanesimo (ivi: 47-49).

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ventare una summa delle discussioni linguistiche del Cinquecento. Riguardo allo stile, Varchi sostiene la minore dignità stilistica del trattato in forma dialogica, anche in confronto alla produzione epistolografica. Il dialogo appare più vicino al parlato, nonostante che la conversazione si svolga tra persone colte. Rispetto alle lezioni, che, pur nella varietà degli argomenti (si va dalla “generazione del corpo umano” al commento di vari luoghi della Commedia, di versi di Petrarca e di Bembo alle scienze naturali, dalle “quistioni d’amore” alla “generazione de’ mostri” ecc.) possiedono una propria unità di lingua e di stile, il dialogo mostra variazioni di registro e di toni, appare più aperto a una colloquialità, che a√ora soprattutto nei rapidi scambi di battute: Conte. Dunque verrà tempo che il Morgante sarà una altra volta tenuto da alcuni più lodevole che ’l Furioso? e la Risposta di messer Lodovico Castelvetri più lodata che l’Apologia di messer Annibal Caro? Varchi. Verrebbe senza fallo non dico una volta, ma infinite, se quello vero fusse che dice il maestro de’ filosofi, cioè, se il mondo fusse eterno e, come non hebbe principio mai, così mai non dovesse haver fine. Conte. Io vi dirò il vero, coteste mi paion prette heresie, e per conseguente, falsità. Varchi. Elle vi possono ben parere, poi che elle sono. Conte. Perché dunque le raccontate? Varchi. Perché, se io non v’ho detto, io ho voluto dirvi che io favellava in quel caso secondo i filosofi, e massimanente i peripatetici (L’Hercolano, pp. 524-525).

Complessivamente la varia opera di Benedetto Varchi rappresenta la varietà di forme che la prosa argomentativa e didattica assume nel Cinquecento. 23  

23   I giudizi di Varchi sul dialogo e altri generi letterari del sec. xvi sono discussi da A. Sorella nell’Introduzione alla sua ed. dell’Hercolano cit., vol. I: 146-148. Sui caratteri della testualità di questi scritti v. Siekiera (2007: 35): «La coesione testuale delle lezioni varchiane è strettamente legata allo stile nominale, imperniato su apposizioni e ellissi; i singoli costituenti si saldano attraverso un predicato espresso una sola volta»; i segnali discorsivi appunto e proprio evidenziano le glosse e danno rilievo ad alcuni passaggi dell’esposizione. Nel Varchi si possono distinguere i seguenti stili: del dialogo Ercolano, della Storia, degli scritti didattici, dell’impegno filosofico (v. l’orazione per la morte di Bembo). Sul posto che l’Ercolano occupa nella questione della lingua v. Vitale (19782: 92-94) e Pozzi (1989: 21).

10. Un altro Cinquecento

10. UN ALTRO CINQUECENTO

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n ampio e vario settore della prosa del xvi secolo si avvicina a una discorsività parlata, ne adotta tratti sintattici, stilistici e testuali. Siamo nei campi delle lettere non u√ciali, delle memorie private, delle divagazioni, delle facezie, delle scritture dai confini incerti e siamo negli spazi ampi della novellistica. La commedia è il genere che maggiormente riprende dalla colloquialità, ma non possiamo trattarne in questa sede: troppe sono le premesse e le particolarità di cui dovremmo tener conto. Per lungo tempo i testi ora ricordati sono stati considerati con sussiego e degnazione da molti inquilini dei piani alti della letteratura. La novella ha occupato a lungo una posizione marginale nel panorama letterario; a lungo è stata esclusa da quella riflessione critica che ha accompagnato lo svolgersi di generi nobili, quali l’epica, la tragedia e la commedia. Il suo peccato originale consiste nel presentare personaggi che parlano «con le voci con le quali il volgo parlava» (Bembo, Prose I, xvii); è questo un fattore di discredito nella prospettiva del classicismo. 1 Le opere che praticano una medietas della lingua e dello stile discendono da tradizioni discorsive diverse da quelle della prosa di alto livello. Con tali premesse, ci avviciniamo ad autori rivalutati soprattutto in epoca moderna: Aretino, Cellini, Folengo, Doni; seguono i novellieri: Firenzuola, Straparola, Bandello, Fortini, Morlini. 2 A tutti dedichiamo note riguardanti aspetti della lingua e dello stile, da confrontare con quanto si è detto a proposito degli autori trattati nei capitoli precedenti. Partiamo da due considerazioni. 1. Questo capitolo finale esamina passi di opere dalla testualità non tradizionale: antiche regolarità si attenuano o si dissolvono; nuovi modi compositivi si aπermano. In una letteratura in fermento, qual è quella del secolo xvi, già all’altezza cronologica del Principe non si rispetta un modello, l’insieme presenta una dispositio degli argomenti piuttosto libera. Nella sua globalità, un testo appartiene a un genere, ma ciò non impedisce che alcune sue parti si riferiscano ad altri generi e tipi testuali. Denominazioni come racconto, novella, aneddoto, detto, ricordanza, dialogo ecc. danno il senso di una rigidità dei confini che in realtà non esiste. Siamo in un periodo storico, in cui trasferimenti, sovrapposizioni, fusioni avvengono assai più di frequente rispetto al passato. 3 2. Le opere qui esaminate hanno un carattere comune: assumono, con varia modalità e continuità, tratti colloquiali. Nella letteratura esiste, non la riproduzione dell’oralità, ma il tentativo di imitarla, la sua stilizzazione. A diπerenza di quanto avviene nelle scritture d’occasione, nelle quali il parlato entra naturaliter, non indotto da una finalità artistica, le prose di Aretino, di Doni e di Firenzuola nascono da un’elaborazione formale del parlato, la quale, per il suo grado di complessità, è stata assimilata a quella attuata da Bembo e da altri autori “alti”. Tuttavia la tesi  





1   «Nel Gotha dei generi letterari, la novella ha una posizione miserevole», v. C. Segre, La novella e i generi letterari, in Novella italiana (1989: 47-57, 47). 2   Classicismo e anticlassicismo rappresentano una polarità di cui la storiografia letteraria riguardante il Cinquecento ha fatto largo uso; una polarità di√cile a definirsi, dal momento che il classicismo non ha una fisionomia unitaria. Trifone (2006: 11-14) parla di “antiRinascimento popolare”. 3   Cfr. J.-M. Adam, Genres, textes, discours: pour une reconception linguistique du concept de genre, in “Revue belge de philologie et d’histoire”, 75: 665-681, 665; dello stesso studioso v. l’intervista apparsa in “La lingua italiana”, xi (2015: 179-193).

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di un’“edonismo linguistico” di questi autori, vale a dire, del loro allineamento su un piano di un consapevole formalismo, se è un opportuno antidoto all’idea della spontaneità di tale produzione, ha il difetto di sopravvalutarne la componente colta e finisce per sminuire la portata di ciò che in questi testi viene realmente dal basso. Inoltre non va dimenticato che il rapporto tra il “polo del parlato” e il “polo letterario” è soggetto a variare nel tempo. 4 Dopo le esperienze di Bembo, Castiglione e Ariosto si stabilizza una letteratura volgare, orgogliosa dei suoi successi, e della quale il campione indiscusso è l’Aretino, il quale, mostrandosi ribelle al vivere cortigiano e ai suoi riti, intendeva, con le parole di Sperone Speroni: «vendicar la repubblica literale dell’essere stata oppressa sì lungamente da alcuni pochi potenti; li quali, ricchi solamente di parole greche e latine, per forza s’hanno usurpato il dominio delle scienzie». 5 Gli scambi di fenomeni di lingua e di stile, che nel secolo xvi, interessano il mondo della narrazione e il mondo del teatro sono stati messi in luce negli ultimi decenni. La lingua del teatro è stato oggetto di studi riguardanti anche il contesto storico-culturale che ha visto nascere le varie opere. Il plurilinguismo, l’interazione verbale, la riformulazione discorsiva sono tra i fenomeni osservati con maggiore attenzione. 6  





10. 1. Aretino «Io, che sono io, favello come mi pare [...] e do le parole come elle vengano, e non me le cavo di bocca con la forchetta». 7 Con la voce della Nanna l’Aretino parla come capofila di una letteratura provocatoria che, col volgere delle mode, vuole occupare il centro della scena. I dialoghi delle prostitute sono pubblicati negli anni 1534-1536, quando il classicismo, dopo le opere di Bembo, Castiglione e Ariosto, vede ridotto il suo spazio, di fronte all’emergere di nuove tendenze: il bilinguismo volgare e latino è in regresso e con il Dialogo delle lingue (ca. 1542) Sperone Speroni, si proporrà come nuovo campione della letteratura volgare. 8  



4   Di edonismo linguistico ha parlato Segre (1963: 355-382); a questa tesi si è associato N. De Blasi, in Manuale lett. it., ii, p. 164. Sulla variazione diacronica tra il “polo del parlato” e il “polo letterario” v. F. Magro, Lettere familiari, in SIS, iii (2014: 101-157, 136). Testa (1991) ha indagato i fenomeni di simulazione di parlato nelle novelle del Quattro-Cinquecento. L’incontro tra lingua parlata e lingua scritta avviene tra l’altro nei diari; Tuttle (2002) ha analizzato il diario di Jacopo da Pontormo, in cui si rinvengono arcaismi come: a buon’otta ‘di buon’ora’, in su, il tipo in casa Bronzino; un’ampia diπusione hanno il che polivalente e le enclisi pronominali. In generale, lo studio del parlato mostra l’importanza di quegli schemi di atti illocutivi attivi anche nella lingua scritta. 5   Il passo è commentato da Pozzi (1978: 493). 6   Irrinunciabili per lo studio della lingua della commedia cinquecentesca sono i saggi di Altieri Biagi (1980: 1-57), dove il “comico del significato” si confronta con il “comico del significante”, e di Trifone (2000: 9-62), che contrappone il “pluristilismo” di Machiavelli alla “temperata misura ariostesca”. Elam (1988) indaga la semiotica teatrale. Tuttavia, per abbracciare nella sua interezza la complessità del testo teatrale (in particolare della commedia, nella quale elementi di parlato vengono più spesso imitati), sarà necessario approfondire aspetti che non hanno attirato finora la dovuta attenzione; ne ricordo alcuni che, a mio avviso, rivestono un particolare interesse: l’“intorno enunciativo” e la pragmatica del dialogato (che ne determinano l’esecuzione), la focalizzazione delle battute, i fenomeni della metalessi e dell’evidenzialità (come analisi della fonte dell’informazione, anche in rapporto alla modalità), la performatività degli aparte, la dinamica idiolettizzante. Per questi fenomeni rinvio a J.-P. Dufiet, A. Petitjean, Approches linguistiques des textes dramatiques, Paris, Garnier, 2013; per “metalessi” s’intenda «a paradoxal contamination between the world of telling and the world of the told», cfr. J. Pier, “Metalepsis”, in Hühn et Al. (2009 : 190-203). 7  Cfr. Sei giornate, ed. G. Aquilecchia 1969, p. 165. I dialoghi delle prostitute sono stati indicati con il titolo unitario di Ragionamenti, poi, più di recente, con il titolo Sei giornate, Ragionamento, Dialogo. La frase della Nanna è commentata in Procaccioli (1993: 371, 373). Sul parlato nelle discussioni linguisti8 che del sec. xvi v. Maraschio (1977).   Cfr. Pozzi (1978: 493); v. anche Giovanardi (1994).

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Per comprendere le scelte linguistiche dell’Aretino, autore di dialoghi e di lettere, è necessario aver presente il suo teatro. 9 L’“anticanonicità” riguarda tutti i generi “minori” di cui si è ora parlato. Parodia del Cortegiano è la Cortigiana (come lo è la seconda parte dei Ragionamenti); il prologo della prima versione è una dichiarazione di assoluta libertà: si vuole seguire il vero, nei contenuti come nella lingua. Di conseguenza all’eloquio dei letterati si contrappone la parlata della plebe romana; in tale occasione, l’esperienza acquisita con le pasquinate si rivela fondamentale. Da Roma vengono anche i nomi coloriti dei personaggi e dei luoghi. Commedia e dialoghi esibiscono vocaboli espressivi, ispanismi, modismi, canzonature del petrarchismo, latinismi, doppi sensi. 10 Manca, tuttavia, il plurilinguismo che caratterizza il teatro comico del tempo; Aretino non è Andrea Calmo (1510-1571), che nelle sue commedie maggiori mette in scena fino a nove varietà linguistiche. 11 I Ragionamenti sono una ricerca di stile, che accumula e non sceglie, itera continuamente, si diverte con gli elenchi estemporanei e provocatori. 12 La lingua procede con continui artifici, ma i periodi scorrono limpidi, senza intralci: «Pietro Aretino [...] scrive un italiano composito, brillante e libero». 13 I Ragionamenti riprendono un ambiente nei suoi tratti più caratteristici e inediti; vogliono essere, al tempo stesso, un esercizio di stile; 14 non è un caso – si è detto più volte – che, nonostante la loro carica di oscenità, siano composti contemporaneamente a opere di carattere religioso. La ricca produzione di lettere, fase cruciale di una scrittura imprevedibile, oπre all’Aretino un terreno privo di ostacoli, dove è possibile esercitarsi nei temi più vari, cambiare percorsi di continuo: «io ho rifiutata ogni composizione ch’io ho fatta per l’adietro e incomincio a imparare a scrivere» (A Messer Paolo Pietrasanta. Di Venezia, il 23 di giugno 1537). La silloge epistolare è, per un pubblico divenuto sempre più numeroso, un modello di scrittura, chiara, agile, veloce. Ed è un modello di uno stile di vita, adatto a molte situazioni e circostanze. Temi gravi si alternano con divagazioni e facezie, serietà e buπoneria, ragionamenti e divagazioni. Il carattere di questa produzione emerge chiaramente dal confronto con il passato, rispetto  











9   Disponiamo di un’edizione recente di due commedie: Teatro comico. Cortigiana (1525, 1534), Il Marescalco, a cura di L. D’Onghia (v. Bibliografia primaria), dove si ritrovano precise note sulla lingua e lo stile. Sulla figura e l’opera dell’A. v. Atti Aretino 1995. 10   Vocaboli particolari: pivo ‘cinedo’, ricordanza ‘percosse’, toccare (sessualmente), uccello ‘pene’, usare (sessualmente), zazzeare ‘andare a zonzo’; ispanismi: morire di qualcuno, muciacia, mucio; modismi: agente e patiente ‘omosessuale attivo e passivo’, essere d’un pelo ‘tutti uguali’, farsi schifo, menare puzza ‘darsi delle arie’, schifa-il-poco ‘schizzinosa’, sputare tondo ‘ostentare gravità’, petrarchismi: perle ‘denti’, quinci e quindi; neologismi: napolitanamente ‘solennemente’; latinismi: prolixo ‘lungo’, tamen, tandem; deformazioni pocula per copula; mescidanze: «Perché stanno in conclavi utriusque sexus, e da la mucciaccia e dal mozzo mui lindo e agradables si fanno leggere Filosofia» (Atto II, scena 6). 11   Cfr. L. D’Onghia, Pluridialettalità e parodia. Sulla “Pozione” di Andrea Calmo e sulla fortuna comica del bergamasco, in “Lingua e stile”, xliv, 1 2009: 3-39. Irrinunciabile Folena (1991). 12   Ripetizioni di oscenità si ritrovano nel poemetto in ottave La puttana errante di Lorenzo Venier (1510-1550), ed. a cura di Nicola Catelli, Milano, Unicopli, 2005; è una tradizione che risale al Medioevo: Madeleine Jeay, Le commerce des mots. L’usage des listes dans la littérature médiévale (xii e-xv e siècles), Genève, Droz, 2006: 552 ss. Cfr. anche P. Stoppelli, Facezie oscene di Floriano Dolfo a Francesco I Gonzaga, in “Belfagor”, xxxii, 1977: 675-696. 13   Cfr. Procaccioli (1993: 371, 373). Cfr. Aretino, «io con lo stile della pratica naturale faccio d’ogni cosa istoria» (Lettere, libro ii, a cura di P. Procaccioli, Roma, Salerno Editrice, 1998: 82, 84, 5 ottobre 1538). P. Larivaille, Aretino e Michelangelo: annessi e connessi per un ripensamento, Intervento alla giornata in memoria del compianto Giancarlo Mazzacurati, Roma, Dipartimento di Italianistica e Spettacolo, novembre 2000. 14   Si descrivono infatti gli aspetti meno conosciuti di ambienti sordidi e degradati, cfr.: «Ma veniamo a la maraviglia del suo dar di piglio a tanti subietti diversi, e come sia forte a pensare che d’un medesimo autore sieno le opre sacre e lascive che di suo si leggano e leggeransi» (Aretino, Sei giornate, ed. G. Aquilecchia: 354), cit. da Bragantini (2014: 23).

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al quale il nostro crea uno stacco di contenuti e di forme, di motivazioni e di fini. L’epistolografia latina e volgare erano generi a lungo sperimentati e codificati. Il primo aveva una tradizione illustre (dal Bruni al Traversari, da Filelfo al Poliziano); non mancava di una riflessione critica: il trattato quattrocentesco, più volte pubblicato, di Aurelio Filippo Brandolini De ratione scribendi, dove era proseguito il trasferimento dello stile e dei modi dell’oratoria al genere epistolare. 15 Una riflessione sul genere mancò all’epistolografia volgare, la quale ebbe autori famosi (dal Bembo al Giovio, dal Doni al Caro), coltivò uno stile più sciolto, aprendosi sovente a una generosa colloquialità; si raccolse in sillogi, ordinate per temi, sostenute da repertori e da formulari. 16 L’epistolario di Aretino è altra cosa. È un libro di lettere a stampa; questa è la prima novità, legata a una nuova situazione enunciativa. Si scrive in vista del libro stampato in una società tipografica, dove un pubblico ampio può essere facilmente raggiunto e coinvolto; ovviamente, si fa conto su giudici più numerosi rispetto al passato. I messaggi nascono da una base collaborativa, c’è un gruppo di lavoro; questa è l’altra novità. L’epistolario cresce con l’aiuto dei giovani: Franco per il primo libro, Dolce per il secondo, Domenichi per il terzo. Si evitano gli annunci, non si parla dell’origine delle proprie opere; si parla sempre di scritti stampati. 17 Tiriamo le somme sulla personalità dello scrittore. Aretino è toscano, ma non fiorentino, quindi occupa una posizione particolare nella questione della lingua; la sua cultura non è elevata, ma l’indipendenza economica, le conoscenze altolocate, l’aver attraversato molti generi letterari, la promozione “tipografica”, la scrittura brillante lo hanno reso una celebrità. Lo stile mira all’abbondanza, assai meno alla scelta e all’equilibrio. Enumerazioni, composti imperativali, prefissazione intensificante, alterati iperbolici sono procedimenti vistosi, che appaiono nelle commedie e si ripetono nelle lettere, dove in più spesseggiano le comparazioni smoderate e l’uso di termini astratti. 18 Il primo libro di lettere appare nel 1538 e sembra anticipare le ricche metafore di un Tesauro. L’esuberanza delle figure compensa una sintassi più semplice – che pure piacerà al Leopardi –, 19 priva di quell’architettura che sostiene la grande trattatistica del secolo. È un percorso del tutto diverso da quello del classicismo, in cui la ripetizione si attua come simmetria e specularità, la dilatazione si vale d’interposizioni e di iperbati (le figure della sintassi sono traspositive, privative, ripetitive). L’Aretino procede, accumulando metafore, iperboli, definizioni sorprendenti e impreviste.  









15   Poliziano, nel corso sulle Silve di Stazio, tratta dell’epistola e del dialogo, rivelandone i rapporti con il genere oratorio, v. E. Garin, Introduzione al vol. da lui curato, Prosatori latini del Quattrocento, Milano-Napoli, R. Ricciardi, 1952, pp. ix-xix, xi; ivi, p. xvi: «tutto sembrava divenir dialogo». 16   Delle raccolte di epistole volgari, ricordiamo quella curata dai Manuzi (Venezia 1542), un’altra curata da Lodovico Dolce (Giolito, 1554) e De le lettere di xiii huomini illustri (Roma, Dorico 1554), dove è presente una sorta di canone epistolografico. In questo settore non mancano le specializzazioni: il De secretario (1564) di Francesco Sansovino, mette insieme lettere tematiche adatte all’attività politica del “principe”; Giovanni Antonio Tagliente compone sia un’Opera amorosa, dove appaiono sia epistole utili agli amanti, sia un formulario aperto a tipi diversi di lettere: cfr. F. Tateo, in Stolit, iv (1996: 1071-1074). 17   G. Baldassarri, ricorda che la situazione di questo epistolario è ancora tanto confusa che in alcuni casi si deve ricorrere all’edizione parigina del primo Seicento (L’invenzione dell’epistolario, in AttiAretino, i, 1995: 157-178). 18   Su questi caratteri v. in particolare D’Onghia (2016: 57). 19  Cfr. Zibaldone, 2516: «le lettere dov’essi [scil. i cinquecentisti] ponevano meno studio, e che stimavano essi medesimi di lingua impurissima, mentr’era quella del loro secolo, sono più grate a leggersi, e di migliore stile che l’altre opere, dove si volevano accostare ala lingua del trecento, che sola chiamavano pura, quando per noi è purissima quella del cinquecento».

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«Ha tanta forza e felicità di produzione e tanta ricchezza di concetti e di immagini che tutto esce fuori con impeto e per la via più diritta». Francesco De Sanctis non esita a dedicare un intero capitolo della Storia della letteratura italiana al nostro autore, posto senza indugi accanto all’Ariosto e al Machiavelli. Il critico doveva apprezzare quelle dichiarazioni in cui si rifiutano i modelli, si rivendica la libertà dell’intellettuale («la poesia è un ghiribizzo»), si entra in polemica con Castiglione, si dimostra una costante avversione al classicismo, ci si oppone apertamente al petrarchismo. In ogni pagina vive un’esibita teatralità, che dai personaggi si estende al discorso autoriale: «un virtuosistico amalgama di una inesauribile inventività verbale e di una gestualità istrionesca tendenzialmente intesa più a mimare che a descrivere o a narrare» (Larivaille 1996: 763). La fusione di serio e di faceto, che ha nei dialoghi lucianei il suo modello, si sviluppa nel terreno sia letterario (Aretino) sia filosofico (Bruno). Per quanto riguarda la struttura, il dialogo mimetico, in equilibrio tra gli exempla di Platone e Luciano, sarà un riferimento per molti autori. 20  

Nanna: Antonia mia, ci son dei guai per tutti, e ce ne son tanti dove tu ti credi che ci sieno delle allegrezze, ce ne sono tanti che ti parria strano; e credilo a me, credilo a me, che questo è un mondaccio. Antonia: Tu dici il vero ch’egli è un mondaccio per me, ma non per te che godi fino del latte della gallina; e per le piazze, e per l’osterie, e per tutto non si ode altro che Nanna qua e Nanna là; e sempre la casa tua è piena come l’uovo ché tutta Roma ti fa itorno quella moresca che si suole veder far dagli Ongari al giubileo (Sei giornate. Giornata Prima, p. 7).

La ripetizione di parole e di sintagmi a breve distanza si accorda con le scelte lessicali e sintattiche. Appaiono tratti tipici del parlato; appare più volte la formula presentativa ci sono, ce ne son, ci sieno; anafore e catafore s’inseguono quasi in ogni pagina; il pronome neutro anticipa la completiva oggettiva: «credilo a me, che questo è un mondaccio»; la frase è avviata dalla congiunzione: e sempre la casa; è preferita la congiunzione causale breve: ché tutta Roma ti fa. I proverbi che ricorrono di frequente esprimono un’oralità con la quale l’autore ama divertirsi; il rifiuto dei modelli è dichiarato più volte: Antonia: Perdonimi il Centonovelle: egli si po andare a riporre. Nanna: Questo non dico io, ma voglio che egli confessi almeno che le mie son cose vive, e le sue dipinte (ivi, p. 7).

La concretezza, opposta alla vacuità, è un topos ricorrente in quel tempo: «e’ dice cose e voi dite parole» (Francesco Berni, Capitolo a fra Bastian del Piombo). Si è sazi degli uopi e degli altresì, ironizza il nostro, che si dispiace di non saper scrivere in bulesco, il veneziano frammisto di gergo del suo tempo (Bosco 1970: 48). Antonia invita la sua interlocutrice a parlare alla libera e aggiunge: e dì “cu’ ”, “ca’ ”, “po’ ” e “fo’ ”, che non sarai intesa se non dalla Sapienza Capranica con cotesto tuo “cordone nello anello”, “guglia nel coliseo”, “porro nello orto”, “chiavistello nell’uscio” (ivi, p. 35).

Il mimetismo verbale è celebrato; si rievoca la memoria di un conoscente dell’autore, un tale «fio di Giampolo’, secondo me veneziano, che, tiratosi dentro a una porta, contrafece una brigata di voci» (ivi, p. 46). 21 Flora aveva isolato felicemente  

20   Luciano di Samosata fu criticato da Carlo Sigonio, per aver distrutto il decorum, ma ebbe l’ammirazione di Tasso (Ordine 1999: 19); Pignatti (2001: 115) ricorda che il dialogo imita non le azioni esterne ma le sentenze, come era già sostenuto dagli antichi. 21   Siamo agli antipodi dei contenuti e dei toni presenti nella Raπaella o Dialogo della bella creanza delle

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episodi poetici nell’opus magnum del «prevaricatore della parola». Ferroni (2014: 12) ne ha caratterizzato lo stile: «La sua scrittura epistolare è il teatro multiforme e policentrico dell’espansione della sua voce, del suo erompere in velocità». Nelle descrizioni, appare un seguito di frasi brevi, animate da un vario ordine delle componenti, da riprese e interrogazioni: Ecco a me i mazzetti de le viole mammole inanzi aprile; eccomi pieno il grembo di rose alora che non se ne vede una per miracolo. E che dico io de le mandorle tenerine che mi piacciono come a le femine gravide? A pena le ciriegie cominciano a far le gote rosse, che mature me ne fate assaggiare. Ma dove lascio le fragole sparse di grana naturale e di moscado nativo? e i cedriuoli che apena avevano spuntato il fiore, onde vedendogli faceste saltar la Perina e la Caterina? (Aretino 1960: 169).

Con questo sfoggio di “delizie”, il nostro (Venezia, il 3 giugno 1537) ringrazia l’amico Francesco Marcolini. La descrizione particolareggiata dei doni certifica la lode pubblica, il successo; è una forma di autovalutazione. Altre volte, invece dell’elenco gioioso risuonano le sta√late, che castigano le ridicolaggini dei pedanti: In somma ogniun che imbratta carte può usar “chente” e “scaltro” per agente e per paziente. Ma voi attenetevi pure a i nervi e lasciate le pelli a i pelacani, i quali si stanno là mendicando un soldo di fama con ingegno di malandrino e non di dotto. È certo ch’io imito me stesso, perché la natura è una compagnona badiale che ci si sbraca, e l’arte una piattola che bisognan che si apicchi: sì che attendete a esser scultor di sensi e non miniator di vocaboli (a Lodovico Dolce. Venezia, 25 giugno 1537, in Aretino 1960: 194).

Nervi, pelli, compagnona badiale ‘ben pasciuta’, si sbraca ‘si toglie le brache’, piattola: il corporeo s’impone; si accompagna a icastiche antitesi: attenetevi ... lasciate, di malandrino e non di dotto, scultor di sensi e non miniator di vocaboli; non manca un’e√cace deissi: «i quali si stanno là mendicando». Queste lettere sono un esempio dell’annullamento dei confini tra i generi. Le pagine si arricchiscono di spunti narrativi (vere e proprie novellette), di passaggi argomentativi (un filosofeggiare tenuto a distanza), di battute da commedia. Il tutto in un continuo variare di scene e di toni. Diverse sono le missive dettate dalla politica. Hanno origini e vita proprie: dapprima pubblicate in fogli volanti e distribuite, secondo studiati intendimenti, nelle corti, entrarono poi, arricchite di aggiunte, nei sei volumi che le raccolsero. In questo caso le istanze pragmatiche s’impongono in primo piano, tanto più quando tratta temi politici, «la scrittura acquist[a] consapevolezza competitiva nei confronti della velocità del libro a stampa». Si costruisce un «nuovo pubblico»; non si esagera se si parla di «industrializzazione della letteratura». 22 Travalicamenti e contaminazioni sono propri della letteratura del tempo, ma nell’Aretino rappresentano un plusvalore, data la sua ostilità alle regole. Al superamento dei confini induce anche «la sua personale ingorda espansione nei generi: dal dialogo alla commedia in prosa, dalle lettere private e politiche al teatro comico e tragico, dal poema all’opera ascetica, e ancora il capitolo, il pronostico, la pasquinata e la cicalata; assistiamo a uno «spericolato vagabondaggio per tutti i campi della letteratura» (Flora 1950: 421).  

donne (1530-1542), in cui Alessandro Piccolomini, «rinunciando alla dimensione drammatica e al ritmo teatrale, risolve in fermo equilibrio, in svolgimento senza scosse, le componenti che lo sostengono e che sono state depurate di ogni occasionalità, di richiami troppo diretti a fonti precise» (Scrivano 1966: 37). L’eπetto prodotto dalle voci popolari nel teatro è studiato in Favart/Petitjean (2012). 22   La citazione è da Quondam (2000: 559).

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un altro cinquecento 10. 2. Cellini

L’impulso a scrivere la Vita Cellini lo ebbe da un moto di rivalsa: emarginato da altri artisti più vicini alla politica cortigiana di Cosimo, si convinse di comporre una sorta di apologia della propria carriera, una protesta e un richiamo vibrante che proclamassero a chiare lettere la propria superiorità e genialità. 23 L’opera si rifà in parte alla tradizione di memorie della borghesia fiorentina, ma l’ispirazione nasce dall’entusiasmo dell’autore-personaggio e dalla decisione di assumere i toni municipali per rendere i colori delle scene e per animare una polemica, che divampa quasi in ogni pagina. Il confronto tra Dio e il Destino o la potenzia delle stelle allontana la Vita «dal modello delle “ricordanze” mercantili, che tanta fortuna aveva sinora riscosso tra gli artisti», fondando «la dimensione eroicizzante del libro». 24 Nel 1559 Varchi si rifiutò di compiere una revisione formale, richiesta dall’autore, di un’opera, che il celebre grammatico evidentemente apprezzava così come era, e che Altieri Biagi (1998) ha sottratto all’ambito delle scritture ingenue e spontanee, riconoscendone l’appartenenza a una letterarietà del tutto particolare. La Vita trasferisce con successo movenze del parlato in una scrittura di grande e√cacia espressiva, punto di riferimento nell’ampio panorama della prosa del xvi secolo. 25 Tratti che, con qualche approssimazione, si possono definire “popolari” contrastano con costrutti colti come il frequente accusativo con l’infinito. 26 Nell’opera confluiscono diversi modelli (agiografico, novellistico e, per quanto riguarda le composizioni in versi, stilnovistico); echi di Dante e di Villani, della Bibbia, delle prediche di Savonarola si avvertono in una prosa che riesce a comporre originalmente esperienze, modi, stilemi diversi. I significati prevalgono sui costrutti, la semantica sulla sintassi; per questo carattere e in particolare, per la prestezza della narrazione e il procedere ellittico di molti passi, la Vita ha punti di contatto con la scrittura del Principe. 27 Periodi brevi, scarsa profondità della subordinazione, svilup 









23   Né la prima né la seconda edizione delle Vite vasariane trattano del Cellini: questo può essere un motivo che ha spinto l’artista a comporre la sua opera (Guglielminetti 1986: 865). 24   Guglielminetti (1990: 475); si vedano inoltre: Cicchetti (1993), Tateo (1996: 1063); secondo Tomasin (2014: 332), «la Vita celliniana può esser letta come polemica e amplificata scrittura alle Vite del Vasari». 25   Altieri Biagi (1998: 130) vede inoltre all’origine della Vita «una mutata concezione dell’artista», che si aπerma con l’esempio di Michelangelo e si consolida con le Vite del Vasari. L’opera risulta composta in gran parte nella primavera del 1559, ma l’autore continuò a lavorarvi ancora nel 1567; la stesura del manoscritto sembra risalire in gran parte a «un fanciullino di anni xiii», al quale Cellini avrebbe dettato il testo. La prima edizione è del 1728, la seconda (condotta sul manoscritto) è del 1829; negli anni 1796-1797 Goethe ne fece una traduzione in tedesco. Mosso da spiriti antimanzoniani, Carducci, considerando la Vita un esempio di «prosa viva e parlata», indusse O. Bacci a prepararne un’edizione scolastica (1902). La Vita rappresentò un modello di scrittura; sul concetto di imitazione nella letteratura e nelle arti figurative del Rinascimento v. P. Sabbatino, “Imparare sotto la bella maniera di Michelagnolo”. L’imitazione nelle opere di Benvenuto Cellini, in “Studi rinascimentali”, 9, 2011: 129-139. Per un aspetto particolare della sintassi celliniana, v. I. Raeder Taraldsen, Un’analisi delle costruzioni participiali assolute nella “Vita” di Cellini, in “Revue romane”, x, 1975: 306-327. 26  Per la fonologia ricordiamo: masti ‘maschi’, bun ‘buon’, figliulo ‘figliuolo’; cfr. ancora: collora ‘collera’ e coccetto ‘concetto’, entrambi con assimilazione; obrigo ‘obbligo’ (rotacismo); rispiarmar ‘risparmiare’ con metatesi; per la morfologia si vedano: mie aggettivo possessivo valido per tutti i generi e numeri, al pari di tuo e suo; v. anche sua ‘suoi’ e ‘sue’; cito, un po’ a caso, altri fenomeni: parechi invariabile, gnene ‘gliene’ e polivalente, che relativo polivalente, al cui ‘al quale’, il tipo aspettavi ‘aspettavate’; per la sintassi: la participiale assoluta «aggiunto insieme le vechie palme» (I, iii), il verbo singolare dipendente da un soggetto plurale, il tipo «non considerato che» (I, xi). 27   Va detto che varie incongruenze sintattiche si risolvono nel parametro della “paraipotassi relativa”, che interpreta il tipo li quali con ‘e questi’ (Ghinassi 1971).

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po di costruzioni prolettiche e la cosiddetta “periferia sinistra” occupata da participiali e gerundiali, causali e concessive, sono alcuni tratti caratterizzanti la sintassi. Le deroghe alla grammaticalità non mancano; la subordinazione presenta deviazioni: «gloriandomi molto più essendo nato umile et aver dato qualche onorato prencipio alla casa mia» (I, ii), in luogo di di essere nato e di aver dato; non sono rari i casi di tema sospeso: «Quella arme, che era al palazzo de’ Medici, mentre che loro erano stati fuori, era stato levato da essa le palle» (I, vi), «Ulivieri mio maestro, gli venne occasione di venire a Firenze» (I, xii) e di ellissi: «Il papa mandò a dirgli che andasse là, che buon per lui» (I, vi), «mi usciva la voglia di tornare dove lui» ‘dove lui si trovava’ (I, xi); la concordanza ad sensum è frequente e non mancano esempi di paraipotassi. L’espressività è a√data sovente ai diminutivi, come ammalatuccio, bizzarretto, tavolaccino, i quali si addensano nella descrizione di persone: «Questo omicciattolo con certe sue manine di ragnatelo e con una vociolina da zanzara, presto com’una lumacuza» (II, liv). I tratti fonomorfologici confermano che abbiamo di fronte «l’ultimo dei quattrocentisti, in fuga dalla codificazione cinquecentesca». 28 Rapide sequenze e frasi brevi, rendono un seguito di azioni inframezzate da battute di dialogo.  

Per la qualcosa io li dissi che io li direi e farei delle cose che gli dispiacerebbono; sí che attendessi al fatto suo, e lasciassici stare. Rispose che aveva in culo il Duca e noi di nuovo, e che noi e lui eramo un monte di asini. Alle qual parole mentitolo per la gola, tirai fuora la spada; e ’l vecchio, che volse essere il primo alla scala, pochi scaglioni in giú cadde, e loro tutti l’un sopra l’altro addòssogli. Per la qual cosa, io saltato innanzi, menavo la spada per le mura con grandissimo furore, dicendo: «Io vi amazerò tutti», e benissimo avevo riguardo a non far lor male, che troppo ne arei potuto fare. A questo romore l’oste gridava, Lamenton diceva: «Non fate!», alcuni di loro dicevano: «Oimè il capo!», altri: «Lasciami uscir di qui!». Questa era una bussa inistimabile: parevano un branco di porci. L’oste venne col lume, io mi ritirai sù e rimessi la spada (I, lxxvi, p. 276).

L’asindeto accelera il ritmo finale, superando gli indugi dei tratti consueti, quali la participiale mentitolo (l’enclisi pronominale appare anche in lasciassici, addossogli) e il nesso Per la qual cosa. E si noti l’e√cace formula Questa era una bussa [= aπanno] inistimabile, che chiude la baraonda di minacce e lamenti. 10. 3. Folengo toscano Phantasia mihi plus quam phantastica venit historiam Baldi grassis cantare Camoe­ nis. Altisonam cuius phamam, nomenque gaiardum terra tremat, baratrumque metu sibi cagat adossum. Sed prius altorium vestrum chiamare bisognat, o macaroneam Musae quae funditis artem. «Mi è venuta la fantasia - una matta fantasia – di cantare la storia di Baldo con le mie grasse Camene. La sua fama altisonante, il suo nome gagliardo fa venire ancora la tremarella alla terra, e la voragine infernale, nella sua nera paura, si caga addosso. Ma prima l’aiuto vostro bisogna chiamare, o Muse che spandete la bell’arte macaronica» (Baldus, a cura di G. Dossena, trad. di G. Tonna, Milano, Feltrinelli, 1958, p. xx).

È ancora valido quanto di Folengo disse a suo tempo E. G. Parodi: «quella sua speciale lingua maccheronica, mezzo latino e mezzo mantovano, irregolarissima e 28   La definizione è di Altieri Biagi (1998). In eπetti nella sua lingua si ritrovano tratti tipici del fiorentino del xv sec.: mastio ‘maschio’ (già cit.), stiatta ‘schiatta’, rastiò ‘raschiò’; dua ‘due’, mia ‘miei’; lui usato come pronome soggetto; forme verbali, come comperorno, mandorno. La studiosa (ivi: 194) respinge «l’ipotesi dell’assunzione edonistica di moduli popolari nella direzione che Cesare Segre ha indicato per tanti scrittori “letterati” del Cinquecento».

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pur regolare, capricciosa e pur regolata dal freno dell’arte, stravagante e bizzarra eppur capace di dir tutto quello che vuole con una stupefacente chiarezza». Una letteratura dialettale riflessa poté aπermarsi soltanto dopo la codificazione linguistica e letteraria del toscano avvenuta nel Cinquecento, secondo il noto rilievo di Croce. 29 Il mantovano Folengo (1491- 1544), che si era eletto a maestri Dante e il Pulci e che respingeva con fermezza ogni forma d’imitazione, dà impulso alla sua ricerca linguistica, dove si fondono latino e volgare, lingua alta e bassa, toni epici e romanzeschi. La mobile prospettiva del racconto e la varia configurazione delle frasi sono i pregi dell’opera. 30 Il maccheronico appartiene a quella linea eterodossa, viva fin dalle origini nella nostra letteratura: la “funzione Gadda”, etichetta apposta retroattivamente da G. Contini agli “irregolari” e in primis all’autore del Baldus. Ha osservato Dionisotti (1967: 82): «Folengo, Ruzzante e altri in tanto possono aprirci uno spiraglio sulla vita popolare dell’età loro, in quanto non scrivono in lingua italiana». Nel quadro della nostra ricerca il maccheronico è soltanto una premessa; c’interessa il Folengo toscano, lo scrittore tanto abituato a una lingua mista che nuota a fatica in un elemento non suo (ma anche questa incapacità interessa lo storico della lingua); ecco un incipit tratto dal Caos del Triperuno (1526):  



Or pervegnuti siamo al centro confusissimo di questo nostro Caos, lo quale ritrovasi ne la presente seconda “selva” di varie maniere d’arbori, virgulti, spine e pruni mescolatamente ripiena, cioè di prose, versi senza rime e con rime, latini, macaroneschi, dialoghi, e d’altra diversitade confusa, ma non anco sí confusa e rammeschiata che, dovendosi questo Caos con lo’ntelletto nostro disciogliere, tutti gli elementi non subitamente sapessero al proprio lor seggio ritornarsi (Folengo, Opere volgari, ii, p. 220).

Le tre selve rappresentano allegoricamente la triplice personalità dell’autore, ra√gurata in tre «figure ipostatiche» (Folena 1991: 151): Merlino, poeta macaronico e materialista, Limerno, poeta volgare cortigiano, Fùlica scolastico, autore di opere teologiche: Nomine sub ficto “triperuni” cogimur idem: / infans et iuvenis virque, sed unus inest. 31 Le xilografie che accompagnano il testo ne rappresentano un’indispen 

29  Cfr. Parodi (1923), Croce (1927: I, 222-234), Formentin, (1996: 239), Bonora (1958: 45-49). Folengo si pronuncia a più riprese contro il bembismo; nell’Orlandino, elogia Boiardo e Ariosto e delle “tre corone” mostra di apprezzare soprattutto Dante (Daniele 2013: 50-51); questo giudizio lo accosta a N. Liburnio, che, nelle Vulgari eloquentiae (1521) e nelle Tre fontane (1526), antepone nettamente il poeta della Commedia a Petrarca e a Boccaccio (Daniele 2013: 55, 59). Sul confronto tra le varierà linguistiche, usate dall’autore, v. Bosco (1970: 36): «Fin dall’edizione Paganini, il Folengo colloca le une accanto alle altre egloghe rusticali, quasi nenciali, e il poema eroico, accomunandoli nell’uso della lingua maccheronica, che era [...] uno dei linguaggi necessari a una letterratura che volesse esser nuova». 30   Si vedano Segre (1979 e 1993): il primo saggio è una storia del maccheronico, nel secondo si sostiene che Folengo, con la sua invenzione linguistica, si allontana sia dal mondo classico sia dal mondo popolare e dalle loro realizzazioni linguistiche. Collocano l’Autore nel suo contesto storico e culturale Paccagnella (1983) e Lazzerini (1992). La linea espressionistica attiva nella letteratura italiana è illustrata da Contini (1977). Per orientarsi nell’estesa bibliografia riguardante l’A. irrinunciabile è M. Zaggia, Schedario folenghiano dal 1977 al 1993, Firenze, Olschki, 1994. 31   Cfr. T. Folengo, Caos del Triperuno, a cura di U. Renda, Bari, Laterza, 1911. Si veda Daniele (2013: 47-64 e 79-97). Dell’opera (Venezia, 1527, da Sabbio) non esiste un’ed. critica. Per quanto riguarda il Baldo si vedano: Opere di T. F., a cura di C. Cordié, Milano, Ricciardi 1977; T. F., Baldus, a cura di M. Chiesa, Torino, Utet, 1995; T. F., Baldo, 2 voll. translated by A. E. Mullaney, The I Tatti Renaissance Library, Harvard University Press, Cambridge Mass./London, England 2008. Si consulti G. Tonna, G. Dossena (a cura di), Il Baldo [di] Merlin Cocai. [Prima traduzione italiana integrale di G. Tonna. Testo maccheronico a fronte, con 40 illustrazioni dall’edizione veneziana del 1521, 47 facsimili dall’edizione veneziana del 1552, Milano, Feltrinelli, 1958: riedito da C. e T. Tonna, Giorgio Bernardi Perini, Reggio Emilia, Diabasis, 2004].

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sabile integrazione. La visione del mondo trova il suo omologo in un labirinto di parole: un prosimetron, in cui dialoghi e argomenti in prosa volgare (inframezzata da versi latini) si alternano con la narrazione in terzine e con le egloghe. 32 Al lettore, abituato alla felice scorrevolezza del Baldus, fa un certo eπetto incappare nel periodo ora citato, quasi una mise en abîme del volgare intralciato dell’opera. Folengo toscano adotta un periodare involuto, nel quale risaltano un’incongrua densità ipotattica e l’inciampo continuo delle incidentali:  

Piacquemi sommamente quella foggia di dire, senza ch’avessevi egli, come si sòle, faticosamente avanti ripensato. Ma levandosi quella [scil. la tortorella] un’altra fiata su le penne, giuso in una valle portata, da gli occhi di quello si tolse. Ed esso, rallentata la corda del canto piú de l’altre aπaticata, mettesi a passeggiare accanto il fiume, tutto sopra di sé, come penseroso, levandosi, non avendo ancora scorto lo mio maestro di lá dal fiume, su la ripa del pane fresco, agiatamente disteso. Ma vedutolo cosí sprovveduto, ritenne il passo e, tutto il viso in riso cangiatosi, cominciò ad interrogarlo in questo modo (Opere volgari, ii, p. 220).

I periodi non sono estesi, ma è il mutamento ripetuto del soggetto grammaticale a renderne faticoso lo svolgimento; inoltre, il verbo, per un intento latineggiante, è spostato continuamente a destra: il participio passato è staccato dall’ausiliare mediante un’interposizione o è posposto a un complemento; posposti sono del pari i verbi di modo finito e il gerundio semplice; l’ordine artificioso delle parole si presenta in varie forme. 33 I versi, invece, hanno un’andamento sciolto e una facile leggibilità; riappare il solito divario tra una prosa inesperta e un verseggiare educato dal petrarchismo. Non è facile dare la definizione di un libro multiforme e continuamente mutevole: «Il Chaos del Triperuno è opera ingegnosa e complessa, imbastita su sensi diversi e nascosti dietro una simbologia spesso oscura, su riferimenti privati e autobiografici, su prese di posizione di poetica e di linguistica». 34 Sulla scena letteraria, negli stessi anni, appaiono scritture tra loro inconciliabili: al rispetto della norma si oppone l’eversione, al toscano le varietà regionali, all’unità la mescolanza degli stili. In un primo tempo il progetto bembiano sembra impotente a produrre un fondo comune di scelte sintattiche e stilistiche, disponibili alla scrittura letteraria. La vena sperimentale, già vigorosa nel secolo precedente, nel Cinquecento si alimenta di nuovi umori e s’irrobustisce.  



32   A questi caratteri del paratesto si accompagna un’esaltazione continua del simbolo. Oltre agli acrostici, ricorre la magia del numero tre, che occupa un posto non secondario nell’immaginazione folenghiana, dove ricorrono anche allusioni personali, una sofisticata elaborazione di dati, richiami enigmatici e perfino un’anabasi che conduce Triperuno-Folengo dalla confusione e dal disordine iniziali verso la chiarezza e la salvazione. 33   Nei campioni di prosa studiati in questo capitolo risalta la continuità dei fenomeni topologici ora citati. Secondo Lazzerini (1992: 1053), quello di Folengo è «un realismo “creaturale” (per usare il termine auerbachiano) radicato nella mescolanza degli stili, nutrito sì di lingua e vita quotidiana, ma anche di ben collaudati topoi». Un’estesa letteralizzazione stilistica si oppone alla “naturalità” del volgare: l’ordine diretto dei costituenti della frase è di continuo contrastato dall’influsso, a vari livelli, del latino. 34   Daniele (2013: 55); lo studioso spiega il significato del battibecco tra Merlino e Limerno, il primo oppositore, il secondo sostenitore della lingua dei grandi autori del Trecento; il Chaos è «un prosimetro che alterna sapientemente volgare, latino umanistico e latino macheronico, chiudendoli in una moltitudine di forme metriche e prosastiche diversificate e sperimentali, quasi si trattasse di un vero e proprio laboratorio linguistico-formale». Secondo Folena (1991: 154) la specificità di questa opera si comprende meglio dal confronto con l’Ameto di Boccaccio, che è «il prototipo del prosimetro volgare e dell’allegorismo autobiografico»; trattando del rapporto di Folengo con la lingua, il Chaos è definito «una tragicommedia dei diversi linguaggi messi a confronto» (ivi: 167).

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10. 4. Doni Alla lettera, che da scrittura privata si fa pubblica – riprendendo e sviluppando, in modi nuovi e con nuovi canali di diπusione, una tendenza antica –, da mezzo per comunicare diventa genere letterario, acquisendo sempre più modalità narrative, A. F. Doni (1513-1594) fa compiere un altro passo in avanti, mediante l’inserimento di spunti comici o parodici, in una misura maggiore rispetto al passato: la lettera si mescola col racconto, l’aneddoto, il ribobolo, il ghiribizzo, la chiacchiera. Questo fenomeno appare in tutta la sua ampiezza nella silloge (in Vinegia: per Girolamo Scotto, 1544), più volte riedita, dove si ritrovano composizioni aperte ad intermezzi narrativi e a divagazioni. Ne nascono microtesti, microracconti, microsaggi, assemblati in insiemi confezionati in fretta (su alcuni di essi incombe il sospetto di plagio). Sono scritti animati dall’aπannosa ricerca di un successo che non si fa attendere. Varie opere sono pubblicate più volte, con o senza variazioni. “Polimatia di riuso” e “testi misti” sono due etichette che definiscono l’attività di un autore eslege. 35 Nel mutamento interviene l’influsso del modello decameroniano (linguistico, strutturale e tematico), che viene adattato alle esigenze del momento e al variare delle mode. La mescolanza di generi e tipi testuali è una caratteristica che riguarda tutti gli scritti di Doni. L’ultimo editore della sua opera merita una lunga citazione:  

La struttura aperta alla replicazione seriale, la sua natura summatoria rendono la Zucca di√cilmente classificabile e inquadrabile. Collocandola nella collana dei “Novellieri” [pubblicata dalla Salerno editrice] già se ne propone implicitamente un’interpretazione: la Zucca è anche una raccolta di novelle, o per meglio dire, gli intarsi narrativi che si ritrovano in ampie sezioni del testo e che, presi singolarmente, possono in misura variabile ricondursi al genere novellistico, costituiscono il contenuto predominante dell’opera; per quel che riguarda la struttura, invece, siamo di fronte a un caso senza precedenti. La Zucca presenta infatti una complessa e a volte inestricabile contaminazione di tipologie letterarie: il genere novellistico si intreccia a quello epistolografico, alle raccolte di facezie e proverbi, all’apoftegmatica, ai florilegi, alla letteratura onirica e allegorica, alle raccolte d’invenzioni, all’ekfrastica, all’invettiva, il tutto complicato dalla volontà del Doni di dissimulare, nascondere i propri debiti letterari e le proprie fonti (Pierazzo, Introduzione a Doni 2003, p. x).

Un aspetto analogo presentano la Moral filosofia e i Trattati, che recuperano il modello della raccolta novellistica con cornice; «narrazione come un genere parassitario» è la qualità attribuita ad entrambe le opere, definite «scritture che non appartengono a nessun genere e a nessun tipo testuale» e che mostrano «eterogeneità dei contenuti e singolarità delle strutture». 36 I periodi hanno diversa estensione e varia struttura; sono avviati sovente dalla solita gerundiale: «Desiderando i savi delle antiche nazioni, e in tutte le scienze periti, manifestare ai secoli avenire la sapienza loro, con risoluto animo e buon consiglio ordinarono di fare un trattato» (La moral filosofia, in Doni 2002: 14), o dall’altrettanto tradizionale concessiva: «Ancora che fra voi e noi sia non piccola distanza, signor mio magnifico e generoso, non resta per questo che la fama non ci porti all’orecchie in un batter d’occhio la realtà del vostro proce 

35   La prima definizione si trova in Cherchi (1998). Sulla lettera come strumento di comunicazione e genere letterario v. Magro (2014: 103). 36   Cfr. Pellizzari, Introduzione a Doni 2002: ix e xi; cfr., alla p. xviii, la lettera a Polissena di Neri che si apre con un dialogo del Cima e del Burla, ivi, 428 e ss. Sull’adozione da parte di Doni di modi di dire e di movenze di parlato: ivi, lvii-lviii.

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dere» (I cicalamenti della Zucca, in Doni 2003: 16). La narrazione si svolge per lo più lungo una linea paratattica, che si applica sovente anche alle descrizioni e ai passi argomentativi. I modi del parlato appaiono nelle riprese verbali e nel frangimento delle frasi mediante brevi incidentali, rapidi commenti o sottolineature ironiche: «L’uomo non doverebbe mai (non favello de’ ladri) per una picciola cosa (per non dire grandissima) rovinare, distruggere e oπendere la creatura umana, come se ne vede oggi mille esempi» (Cicalamento, in Doni 2003: 36). 37 Nel dialogo a√orano modi e stilemi tradizionali e perfino tratti della narrativa antica.  

Avendo maestro Canocchio dal Finale a dar moglie a un suo amico, per sorte gnene fu mostrata una la quale era sparutina, piccola e mingherlina, ma attilata come un fior di pesco. Egli vedutala, gli piacque molto e menato l’amico a vederla perché se ne contentasse, dicendogli poi: – Piaceti ella? – Non a me – disse colui. – O perché?– – Per esser piccola non la voglio. – Deh fratel mio – disse Canocchio – tu non te ne intendi: della moglie quanto meno se ne piglia, meglio è – (Le foglie della zucca, in Doni 2003: 424).

In queste pagine ritroviamo fenomeni quali: il tema sospeso, la concordanza a senso, l’uso (alla maniera della narrazione medievale) di serie di aggettivi caratterizzanti l’aspetto o il carattere dei personaggi. Nel dialogato risalta lo scambio rapido delle battute; una di esse, scelta tra le più corpose ed “impressive”, chiude sovente un breve racconto. A questi tratti corrispondono, sul piano lessicale, vocaboli ed espressioni colloquiali nonché fraseologismi fiorentini. 38 La ripetizione di aggettivi («una bella canzona nuova nuova» I marmi I, 115, «dotti dotti dotti» II, 85), il ricorrere di proverbi e modi dire (sovente scompaginati e visibilmente alterati), la riformulazione di detti, l’estensione imprevedibile della metafora, l’accompagnare determinati vocaboli con una specie di traduzione o di commento, il ricorso a segmenti nominale («San Giovanni Boccadoro: parecchi migliaia di ducati» II, 51) sono gli espedienti di uno stile che vuole vivacizzare la lingua trecentesca. 39 Doni non rappresenta un caso isolato: mescidanza di tipi testuali e di stilemi di vario tipo e di varia provenienza, prove d’imitazione del parlato, ricerca di nuove modalità enunciative appaiono anche in altre opere, diverse per forme e intenti. La raccolta preparata da Francesco Sansovino, Cento novelle scelte da più nobili scrittori della lingua volgare (1563) è un’antologia di autori post-boccacciani sottoposti a una riscrittura e a un riadattamento di scene e di situazioni. Il Decameron si allontana dalla selettività bembiana per diventare un repetorio aperto di contenuti e di forme. Se è di√cile dare una collocazione testuale a un’antologia di testi parzialmente riscritti, ancor più arduo risulta collocare un’opera come il Commentario delle più notabili e mostruose cose d’Italia e altri luoghi (1548), in cui Ortensio Lando ci accompagna in uno stravagante itinerario lungo la Penisola. Le divagazioni si susseguono, i fitti elenchi di cose e di luoghi rendono quel senso di “pienezza” che riscuote il plauso  



37   Sulla tecnica dell’aggiunta v. J. Authier-Revuz, Du dire “en plus”: dédoublement réflexif et ajout sur la chaîne, in Authier-Revuz/Lala (2002: 147-167). 38   Sono da notare i termini con i quali s’indicano i capitoli, i sottocapioli, i paragrafi ecc. in cui sono divisi e suddivisi La zucca: Cicalamenti, Baie, Chiachiere; i Fiori della zucca: Grilli, Passerotti, Farfalloni; e le Foglie della zucca: Dicerie, Sogni, Favole. In questa compagine s’inseriscono: Post Scritte, Istorie, Allegorie, Descrizioni, Dichiarazioni ecc. 39   Questi ultimi esempi sono ripresi da F. Chiappelli, Sull’espressività della lingua dei “Marmi” del Doni, in “LN”, vii, 2, 1946: 33-38. La ripetizione di dotti ha valore pragmatico: v. Albelda Marco (2007: 72-74).

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del tempo. 40 Esemplificano questa tendenza due brevi passi; il primo è tratto da una sorta di guida gastronomica; il secondo è un avvertimento sui pericoli che si possono incontrare viaggiando:  

«Goderai in Milano il cervelato di Peragallo, cibo re de’ cibi, con quale ti conforto mangiar delle oπelette e bervi dopo della vernaciuola di Cassano, d’Inzago e d’Avanzo, goderai certi verdorini [= vini asprigni, cfr. franc. verdelet] della buona delli arrosti. Non ti scordar la luganica sottile e le tomatelle di Moncia, non le trotte di Como, non li agoni di Lugano, non le erbolane e fagiani montanari che dai deserti di Grisoni a Chiavenna capitar sogliono, non anche i maroni chiavennaschi, non il cacio di Malengo e della valle del Bitto, non le truttalle [= trote] della Mera» (Commentario, ed. Pendragon: 12); «Guardati da lombardo calvo, toscano losco, napolitano biondo, siciliano rosso, romagnuolo ricciuto, viniziano guercio, e marchegiano zoppo» (ivi: 15).

La variatio dei verbi, la negazione ripetuta sette volte sono gli strumenti di un’enunciazione, adatta a presentare, con un gran dispiego di toponimi, cibi e bevande prelibati, gli uni e le altre riferiti a una precisa toponomastica. Nel secondo passo i tipi umani sono “segnati” da difetti fisici o da stranezze (un napoletano non dovrebbe essere biondo), avvertimenti dettati dalla superstizione e forniti da un’improbabile guida per un improbabile viaggiatore. 10. 5. Tanti modi di narrare Analizziamo alcune forme della novella della prima metà del Cinquecento, da Firenzuola (m. 1543) a Bandello (m. 1561) e pertanto torniamo alla sintassi del periodo e alla testualità, anche per stabilire confronti con quanto si è visto nelle opere finora esaminate. La novella si trasforma, accogliendo elementi da altri generi e sviluppando rapporti con la colloquialità. Al pari della commedia, la novella è un genere debole: acquisisce in ritardo livelli di letterarietà alta; non gode di quell’elaborazione critica, che fu riservata ai generi forti, come l’epica e la tragedia; tuttavia questa debolezza (conseguente anche a una sua originaria etereogeneità) può rivelarsi un vantaggio, perché permette al genere di evolversi più rapidamente. 41 La tecnica narrativa del Decameron e, in particolare, la scansione imposta dalla cornice, il suo stile, vario nelle diverse parti dell’opera, il taglio delle scene, i modi di presentare azioni ed eventi, la vivacità del dialogo non cessano di esercitare il loro fascino nei primi decenni del secolo, anche in generi diversi, come la commedia. In seguito l’opera sarà ammirata per motivi non legati alla forma: per la ricchezza dei temi trattati e la varietà degli argomenti. Poi, progressivamente, cesserà  

40   Gli elenchi che appaiono di frequente nelle opere di questo tipo rappresentano varie modalità di listing che attendono ancora studi appropriati. 41  Nella Lezione sopra il comporre delle novelle (1574), in Trattati poetica, iii (1972: 135-173), Francesco Bonciani, prendendo le mosse dal Decameron, tratta dei rapporti tra novella e teatro, della funzione del prologo, del parlato-recitato (per il quale si imitano sovente i modelli classici). Importanti sono le sue dichiarazioni, secondo le quali la novella è l’«imitazione d’una intera azione cattiva secondo ’l ridicolo»; non si può ridere delle istituzioni: «rea usanza è farsi beπe de potenti uomini»; il riso accompagna l’alienazione: le novelle «non potranno usare acconciamente quella grandezza del favellare che la tragedia e l’epopeia userebbono»: v. Guglielminetti (1984: 129, 131). Cfr. R. Bragantini, Alcune economie della narrazione cinquecentesca, in Dal primato allo scacco. I modelli narrativi italiani tra Trecento e Seicento, a cura di G. M. Anselmi, Roma, Carocci, 1998: 153-170; un panorama della novellistica del xvi sec. è oπerto da E. Bonora, in Stolett (1965: 302-330); notevole la sintesi presentata da Mazzacurati (1996); per il primo Cinquecento si vedano Guglielminetti (1984) e R. Bruscagli, La novella e il romanzo, in Stolit iv (1996: 835-907); per l’epoca della Controriforma, v. Q. Marini, La prosa narrativa, in Stolit v (1997: 989-1056).

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di suscitare interesse. 42 Ma anche nei momenti di maggiore fortuna, l’imitazione del Decameron è spesso parziale e discontinua: chi ne riprende le scelte grammaticali, chi lo stile, chi le strutture portanti. È evidente la diπerenza con quanto avviene nel campo della lirica, dove il petrarchismo è un modello accolto nella sua integrità. Già nel Novellino (1476) di Masuccio era avvenuto il recupero di tessere lessicali e sintattiche dal Decameron. 43 Si trattava di una soluzione stilistica inadeguata. D’altra parte, la continuità e la coerenza della raccolta erano a√date alla presenza, in ciascuna novella, di un “esordio” – un indirizzo rivolto a un titolato di rango – e di una conclusione moraleggiante, recitata dall’autore, divenuto personaggio. La novella cinquecentesca appare in forme diverse: è breve o lunga, “spicciolata” o inserita in un organismo narrativo, libera o ‘incorniciata’ (preceduta da una dedica o da una lettera, quindi legata eπettivamente o fittiziamente alla realtà presente), di attualità o storica. 44 Spunti novellistici o intere novelle entrano nei dialoghi, nelle lettere e nelle cronache. La mescidanza di tipi testuali e di generi si diπonde progressivamente. Resta il fatto che i contenuti e i modi della novella non sono ben visti dai custodi del classicismo; preoccupato per gli eccessi di espressività nelle scritture, Bembo ricorda come Boccaccio,  





massimamente nelle novelle, secondo le proposte materie persone di volgo a ragionare traponendo, s’ingegnasse di farle parlare con le voci con le quali il volgo parlava, nondimeno egli si vede che in tutto ’l corpo delle composizioni sue esso è così di belle figure, di vaghi modi, e dal popolo non usati, ripieno, che meraviglia non è se egli ancora vive e lunghissimi secoli viverà (Prose I, 18).

Il decoro formale deve dominare la partecipazione emotiva; l’arte è sottomessa alla regola. Si tenta, ma senza successo, di trasferire costrutti e stilemi nati per la narrazione ad altri generi. Non si ripete il fortunato passaggio che era avvenuto con il Decameron, opera in cui i vecchi generi, come l’exemplum, la novella e il lai, erano stati rifunzionalizzati dalla descrizione individualizzante dei personaggi, delle azioni e situazioni, fino a trasformare il carattere didascalico di queste forme letterarie in svolgimenti narrativi. 45 La volontà e il piacere di narrare crescono, sostenute dal successo presso ampie cerchie di lettori. Punto d’incontro tra letteratura alta e letteratura d’intrattenimento, la novella si adegua allo spirito dei tempi: si raccontano avventure di personaggi borghesi, con un seguito di beπe e motteggi. La consuetudine del narrare in circoli di persone legate da vincoli di amicizia e di a√nità di gusto e di cultura è celebrata nel Cortegiano, dove si esaltano i pregi del conversare libero ed elevato. Al di fuori della Toscana l’adesione al bembismo è diπusa; ma, a Firenze, proporre  

42   Un punto di svolta è segnato dalle Lettere sopra le diece giornate del Decamerone (1542) di Francesco Sansovino, nelle quali s’individuano tre componenti: epistolare, interpretativa e narrativa; il testo di Boccaccio è interpretato essenzialmente come un manuale di comportamento amoroso (Bragantini, in Novella italiana 1989, I: 457). Nelle Cento novelle scelte da’ più nobili scrittori della lingua volgare dello stesso Sansovino la presenza di Boccaccio risulta minoritaria rispetto ad altri autori e il Decameron appare immesso in una dimensione eroico-patetica (ivi: 462 e 465). In ogni caso, il capolavoro riscuote, con intensità e orientamenti diversi, un successo che dura ben tre secoli, v. M. Guglielminetti, Il circolo novellistico. La cornice e i modelli, in Novella italiana (1989: 83-102, 83). 43   Sulla lingua di quest’opera è irrinunciabile il saggio di S. Gentile, Repatriare Masuccio al suo lasssato nido. Contibuto filologico e linguistico, in Atti del Convegno nazionale di studi su Masuccio Salernitano (Salerno, 9-10/5/1976), ii, Galatina, Congedo, 1979 (estratto pp. 3-191). 44   La presenza di una lettera (che funge da dedica e/o da prologo) può essere considerata un sostegno a un genere costituzionalmente debole. 45   È la tesi sostenuta da H. J. Neuschäfer, Boccaccio und der Beginn der Novelle. Strukturen der Kurz­ erzählung auf der Schwelle zwischen Mittelater und Neuzeit, München, Finck, 1969.

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modelli trecenteschi contro l’uso vivo della lingua suscita opposizioni; mentre nel Settentrione la materia “cortigiana” si diπonde assorbendo tratti linguistici locali. I Ragionamenti d’Amore di Agnolo Firenzuola (scritti probabilmente negli anni 1523-1525 e pubblicati postumi nel 1548) sono il primo libro cinquecentesco di novelle in volgare dotato di una struttura testuale definita. 46 Dell’opera si conserva la Prima giornata, composta di un’ampia introduzione (in cui la brigata discute dell’amore platonico e di questioni grammaticali) e di sei novelle; della Seconda giornata sopravvivono soltanto le novelle quinta e sesta. La narrazione è a√data a una brigata di tre giovani e tre donne. L’architettura compositiva e i modi dell’enunciazione s’ispirano, ma con una certa libertà, al Decameron, dal quale si riprendono anche singoli tratti stilistici, come appare fin dalle prime pagine della raccolta:  

Fra’ più verdi colli assai vicini a Firenze siede una valletta di spazio per ciascun verso di mille passi o poco più, gli abitatori della quale con corrotto vocabolo la chiamano oggi Pazolatico, con ciò sia che gli antichi Pozolargo la nominassero; il cui bel seno con lento corso rigando un fiumicello, che riceve tutte le acque dei colli che la incoronano, la rende assai bella e dilettevole a’ riguardanti (Ragionamenti, I, Introd.: 18); Folchetto il Corfinio, che lo un de’ tre giovani era, come quello che naturalmente era molto sollazevole, poi che la Reina taceva, voltosi verso le donne sogghignando disse (ivi: 28); Già si taceva Fioretta e da tutti era stata meritamente comendata, quando la Reina le prese a dire: – Non per biasimare, accorta giovane, la tua canzone, la quale come ognun di noi ha già detto è stata bellissima, ma per chiarirmi d’un dubbio voglio io con tua buona grazia dir sopra quella alquante parole (ivi: 63).

L’esordio che descrive un locus amoenus, la didascalia che precede il Discorso diretto, le formule usate per passare dall’uno all’altro interlocutore e per richiedere un intervento sono riprese, con poche varianti, dal Decameron. Le sette canzoni, tutte recitate da un solo componente della brigata (Celso) e tutte comprese nell’Introduzione della Giornata prima, riprendono, alterandolo vistosamente, il paradigma del modello trecentesco. 47 Dopo la terza canzone, il credo linguistico dell’autore è a√dato al discorso di Fioretta, la quale a sua volta confida nell’autorità degli antichi:  

Quello che scrisse ad Erennio e Cicerone nel suo Oratore, accordandosi con Orazio o, per dir meglio, Orazio con loro, dicono in più luoghi che doviamo usar parole che sieno nella bocca degli uomini tutto il giorno e lasciare quelle che son già dismesse e abbandonate (Ragionamenti I, Introd.: 66).

Rientra nelle abitudini del tempo lo stile elaborato della prima parte dell’Introduzione e, soprattutto, della Dedica a Caterina Cibo, duchessa di Camerino. Nelle novelle, lo svolgimento regolare della sintassi e il decoro di una scrittura, priva di eccessi retorici, richiama piuttosto il Cortegiano, con il quale si condividono motivi e stilemi. Il fattore “peste”, che crea l’iniziale solennità del Decameron, manca; ma è sostituito dal dibattito sull’amore e sulla lingua da adottare nella scrittura letteraria. Escluso l’elemento tragico, sono preferite le storie liete. Al rifiuto del canone 46   Si segue l’ed. Ragni (1971), la quale, come le edizioni procurate da G. Fatini (1957) e da A. Seroni (1958), si fonda sul ms. Corsiniano 44 E 23. 47   Lo schema del prosimetron, ordinato nel Decameron, appare alterato nei Ragionamenti: tale “disordine” può alludere alla diversa visione del mondo che è propria dell’autore.

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bembiano (Firenzuola ignorava probabilmente le Prose, ma conosceva di certo gli Asolani, dove è imitato il Boccaccio delle opere minori, più nella lingua che nello stile, v. 5.2) corrisponde la ripresa di forme dal grande capolavoro del Trecento: gerundiali e participiali all’inizio dei periodi, frequente ricorso a nessi relativali, ai tradizionali connettori di frasi e ai segnali discorsivi, sviluppo di strutture correlative, particolari scelte topologiche (la tmesi di costituenti normalmente contigui, il verbo alla fine del periodo ecc.), le costruzioni prolettiche. 48 «Una declamazione rappresentativa» vide Carducci a fondamento dell’opera; la critica moderna ha considerato Firenzuola «[lo] sperimentatore di moduli espressivi in cui la tradizione – trecentesca, quattrocentesca, apuleiana – si armonizz[a] con l’uso popolaresco, dando luogo a forme lussureggianti ma nel contempo scorrevoli e moderne». 49 Il dialogo tra don Giovanni e Tonia (nov. iv) imita il vivace scambio verbale tra il prete di Varlungo e Belcolore:  



– Che Abate o non Abate! Che io ho a far con l’Abate o co’ monaci, io? Alla buona, alla buona che se voi fuste lo Abate, che voi non sareste qui a questa otta; ché io so ben che i buon preti com’è egli non vanno fuor la notte dando noia alle donne altrui e massimamente in casa le persone da bene (Ragionamenti I, iii: 123).

Ripetizione a breve distanza degli stessi vocaboli e sintagmi, esclamative, interrogative, uso del che polifunzionale, avverbi e segnali discorsivi particolari sono gli strumenti di un’oralità stilizzata, di cui vedremo tra breve altri modi di esecuzione. Le due novelle “pratesi” – la prima «accaduta nuovamente», la seconda «sopra un caso accaduto in Prato» – «debbono considerarsi fra gli esempi più liberi e felici del genere, neppure tanto per la loro relativa autonomia dalla tradizione boccacciana». 50 Prive della cornice, queste composizioni contengono dati topografici relativi a Firenze e a Prato, elementi che, per altra via, raggiungono un “eπetto di reale” analogo a quello procurato dalle epistole, indirizzate a personaggi illustri e preposte da Masuccio e da Bandello alle loro raccolte. 51 L’io narrante impone a lungo la sua presenza, favorendo la continuità del Discorso diretto dei protagonisti, sempre ricco di colloquialismi e forme popolari. 52 Della Seconda novella, in cui la scambio dialogico diventa più fitto, citiamo il passo in cui uno dei due stravaganti protagonisti cerca di convincere se stesso e il compare di non essere stato imbrogliato:  





48   Tali costruzioni (con o senza ripresa pronominale) sono analoghe a quelle presenti nel Decameron: «Che cuore fusse quello della povera giovane e del suo sfortunato Niccolò e di Coppo similmente quando e’ sentiron così trista novella, e che strida e che pianti e che preghiere, a me non darrebbe mai il cuore di raccontarne la millesima parte» (Ragionamenti I, i: 103), «e s’ella ne fu contenta il processo della mia novella ve lo farà manifesto senza che io vel dica» (ivi, I, iii: 126). 49   Cfr. Carducci, Opere, xiv, Bologna, Zanichelli, 1936: 197; v. Ragni, Introduzione, p. x. La citazione è tratta da Porcelli (1973: 160). 50   Guglielminetti (1984: 11). In un primo tempo le due novelle furono erroneamente aggregate ai Ragionamenti, come settima e ottava composizione di questa raccolta. 51  Il Novellino di Tommaso Guardati fu pubblicato postumo in un incunabolo del 1476: prima di questa raccolta, curata dall’autore, alcune novelle erano apparse come “spicciolate”. Nella redazione finale l’autore «fa precedere ogni “narrazione”, oltre che da un “argomento”, dalla dedica in forma epistolare con scopo di “esordio”; segue una pagina di commento e ammaestramento morale dell’autore (firmata dunque “Masuccio”), che funge anche da collegamento con la novella successiva» (E. Pasquini, in Stolit, iii 1996: 885). 52  Nella Prima novella abbondano alterati (omicciatto, garzonastro, cattivaccio, pazzarello, biancastronaccio, attucci, traforello ‘ladruncolo’) e forme popolari (imbecherare ‘lusingare’, sbavigliare ‘sbadigliare’, rombazo ‘chiasso’, scacazare ‘sperperare’). Nei Ragionamenti i demotismi apparivano in misura ridotta: diace ‘giace’, grillanda ‘ghirlanda’, (io) parevo in luogo di (io) pareva, suo femminile, Tigoli ‘Tivoli’; meno numerosi erano i diminutivi: vaghetto, stranetto, malizietta.

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Eh, tu vuoi ragionare? Non vedi tu che la comare ci strazia? Mostral qua a me; o non ti diss’io che la voleva la baia? Cagna, e’ gli un bel rubino! Che dich’io? Ell’è una corniola; no, no, pazzo! L’è una turchina: tant’è, sia che vuole, e’ gli è un bell’anello; io voglio andare giù al compare che mi ci presti su un fiorino per comprare i capretti posdomani, che ce ne verrà, imperò che gli è sabato, e saranno grassi (Novella seconda: 325).

Rispetto alle battute scambiate tra don Giovanni e Tonia, l’espressività del Discorso diretto appare raπorzata: interrogative, esclamative, segnali discorsivi, riprese verbali s’infittiscono; oltre al che subordinante generico, appare un verbo associato a un avverbio, che mi ci presti su un fiorino. Compassato è invece il dialogo nella Prima veste dei discorsi degli animali, dove ventiquattro favole, talora inserite l’una nell’altra, entrano nella cornice del racconto del filosofo; 53 talvolta l’impronta letteraria si fa evidente, distaccandosi dallo stile dei Ragionamenti:  

Orsù dunque, – disse il Re, – stando la cosa come tu di’, che partito dobbiamo pigliare per fuggire senza scandalo o inconveniente alcuno il soprastante pericolo? A cui il Carpigna: Potentissimo Sire, i fisici soglion bene spesso tagliare un membro guasto e magagnato perché l’infermo non si guasti tutto; e ’l buon pastore leva del gregge la rognosa pecora e amazala acciò ch’ella non corrompa tutto l’ovile (Prima veste: 257).

Firenzuola fonde elementi colti e popolari, 54 e difende in modo coerente l’uso del toscano. Il suo comportamento è diverso da altri scrittori toscani che appaiono preoccupati di conservare strambi localismi; L. Russo definì il Lasca (A. F. Grazzini) un «vivaista di vocaboli». Nei due dialoghi Delle bellezze delle donne Firenzuola descrive il corpo femminile, non soltanto per celebrarne la bellezza, ma anche al fine di dare consigli di cosmetica, alle interessate, e di disegno delle loro forme, agli artisti. A metà strada tra il rifacimento e la traduzione dell’opera di Apuleio si pone l’Asino d’oro. A tale proposito va ricordato che tradurre un’opera, fondata sull’eclettismo e la varietà dello stile, era, nella prima metà del Cinquecento, una scelta controcorrente, opposta al trionfante ciceronianismo promosso dal Bembo. 55 L’allontanamento dai temi e dai modi del Decameron (e quindi la fuga dal canone bembiano) avviene facendo prevalere gli elementi del comico. È questa la via scelta dagli autori toscani, mentre la narrativa settentrionale si orienta su storie esemplari e tragiche. Oltrepassando la metà del secolo, incontriamo le novelle di Giovan Francesco Straparola e di Matteo Bandello, nati rispettivamente nelle province di Bergamo e di Alessandria. Il primo, che con le Piacevoli notti (1550) esibisce un patrimonio folclorico-fiabesco, passato successivamente a Basile, a Perrault e ai fratelli Grimm, si mantiene nel circolo di un decameronismo rivisitato mediante dialoghi, battute, indovinelli. Accanto alle fiabe, si ritrovano novelle che svolgono il tema  



53   L’opera conclude una lunga trafila: dal Panciatantra a una versione ebraica, da questa al Directorium humanae vitae di Giovanni da Capua (1250 ca. - 1310 ca.), testo all’origine delle varie traduzioni romanze. Nel caso della Prima veste è probabile anche l’influsso di una traduzione spagnola. 54   Romanini (2014: 239): «Firenzuola, nei Ragionamenti (1552), recupera materiale di tradizione attraverso la geniale invenzione dei titoli ironici, quali “novella accaduta nuovamente”, e annullando quindi il discrimine fra scrittura e oralità, ricerca un tono uniforme, che eviti distonie in alto o in basso, e poi scende nel colloquiale rivolgendosi ai lettori». 55   L’asino d’oro di Lucio Apuleio, volgarizzato da Agnolo Firenzuola..., Milano, G. Daelli, 1863. L’opera era già stata resa in volgare da Boiardo, v. Zanato (2015: 133-144).

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della beπa uxoria, adattata agli schemi narrativi dell’iterazione, del divieto e dell’esecuzione di un compito. La raccolta comprende – fatto eccezionale – due novelle (V 3 e 4) scritte, rispettivamente, in pavano e in bergamasco; del resto, anche le composizioni in lingua pullulano di «connotati regionali». 56 La costruzione del dialogo avviene mediante un seguito di riprese verbali comprese in brevi battute:  

– Iddio vi salvi messere –. A cui rispose pre’ Scarpacifico: – Ben venga il mio fratello. – E di dove venete voi? – disse il masnadiero. – Dal mercato – rispose il prete. – E che avete voi di bello comperato? – disse il compagnone. – Questo muletto – rispose il prete. – Qual muletto? – disse il masnadiero. – Questo che ora cavalco – rispose il prete. – Dite voi da dovero, overo burlate meco? – E perché? – disse il prete. – Per ciò che non un mulo, ma un asino, mi pare. – Come asino? – disse il prete (Straparola, Piacevoli notti I, iii, ed. Pirovano, p. 51).

Nello Straparola si ritrovano innovazioni riguardanti le trame, la testualità, l’alternanza di codici diversi: aspetti che confermano la mobilità dei generi e dei tipi testuali dell’epoca. 57 In un primo tempo lo stile di questo autore è stato giudicato piatto, ine√cace a rendere scene drammatiche ed emotivamente mosse. Di recente è stato rivalutato il procedere rapido, di una narrazione, fondata sulla paratassi e sull’ellissi di nessi logici e causali. Sono caratteri in controtendenza rispetto a quanto avviene nella novellistica coeva. 58  



10. 6. Bandello Nell’ordinare la sua imponente raccolta di novelle, il domenicano Matteo Maria Bandello (1485 -1561) si dice mosso dal proposito di attenersi alla verità di fatti realmente avvenuti. Pertanto la sua è stata giudicata da alcuni critici l’opera di un 56   L’autore, che «ha il gusto della contrapposizione tra lingua letteraria e dialetto», alterna il toscano bascio a basi, che è variante della Padania, da cui provengono inoltre: cusivano ‘cucivano’, giozzo ‘goccio’, ladronezzi ‘ladronecci’ (Stussi 1989: 211-212). Per alcuni confronti tra le scelte lessicali di Straparola e di altri novellieri del secolo, v. Porcelli (1973: 135-137). Dopo l’ed. di G. Rua, in due voll. (Bari, Laterza, 1927), si è avuta l’ed. di D. Pirovano (Roma, Salerno Editrice, 2000). Le Giornate de’ Novizi e, in particolare, Le piacevoli e amorose notti dei Novizi di Pietro Fortini (ed. A. Mauriello, Roma, Salerno Editrice 1988) hanno il carattere di testi misti: alla recita delle novelle si alternano rime, questioni d’amore, scene da commedia; ciò si manifesta nella «dimensione notturna» della seconda di queste due opere, mentre «durante il giorno si tende a seguire piuttosto lo schema decameroniano» (Mauriello, Introduzione, p. xiii). La struttura delle frasi appare incerta, la sintassi e lo stile appaiono poco curati; le sequenze testuali non rispondono a un disegno preciso (vedi Le piacevoli e amorose notti, pp. 170 ss.). In virtù della sua eccentricità linguistica, Straparola trova ospitalità in Trovato (1994: 342-352). 57   Quella dello Straparola è «una produzione che vede inserire in una cornice diligentemente boccacciana [...] novelle nel senso più tradizionale del termine, favole ed enigmi» (Perocco 2000: 465). Si noti che nell’ed. Rua (1927) erano stati eliminati gli enimmi, poi reintrodotti in un’ed. successiva. 58   L’autore ricorre a strutture paratattiche e a forme di “sintassi parlata”: cfr. Cella (2013: 89) e Romanini (2014: 239). Secondo Stussi (1989: 211-212) la noncuranza linguistica di Straparola è frutto della scelta di un autore che bada alla novità dei contenuti e non alla forma. Si vedano: M. CottinoJones, Il “picciol dono” di Giovan Francesco Straparola: “Le piacevoli notti”, in Ead., Il dir novellando: modello e deviazioni, Roma, Salerno Editrice, 1994: 129-190; D. Perocco, Trascrizione dell’oralità: il gioco delle forme in Straparola, in Favole parabole (2000: 465-481). Per la paratassi v. Jamrozik (2002: 75-126).

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cronista impassibile. Opponendosi a questa interpretazione, Getto (1955) ha parlato, invece e tra i primi, di una «nuova illusione di verità». 59 Si è anche sostenuto che la descrizione di fatti e di personaggi serve a costruire un ambiente storicosociale, in cui collocare una narrativa dagli intenti nuovi; pertanto le dedicatorie, premesse alle novelle, ma scritte dopo la loro stesura, lungi dall’essere documenti veritieri, sarebbero strumenti della testualità, intesi a costruire schemi narrativi più volte ripetuti nell’opera. 60 La sostituzione della cornice con tali lettere è la scelta che demolisce l’edificio decameroniano, fondato sul rapporto delle novelle con una struttura che le organizza. Tale innovazione e il mancato ordinamento dei singoli componimenti non preoccupano l’autore: «Il che certamente nulla importa, non essendo le mie novelle soggetto d’istoria continovata, ma una mistura d’accidenti diversi, diversamente e in diversi luoghi e tempi a diverse persone avvenuti e senza ordine veruno recitati». 61 L’epistola è una chiave di lettura e al tempo stesso il mezzo usato dall’autore per raggiungere tre fini: i) rievocare episodi della propria vita cortigiana, ii) attribuire un colorito storico ai fatti narrati da illustri personaggi, iii) dimostrare (con evidente eπetto perlocutorio) di godere di amicizie prestigiose. Sono fini che impongono una particolare dimensione pragmatica alla raccolta di novelle, dove la narrazione risulta spesso disarticolata dall’emergere di spunti biografici e cronachistici nonché da diπusi toni apologetici. Questa raccolta di 100 novelle, divise in 10 giornate, su un modello divenuto famoso, godette di una grande fortuna; alcune trame furono riprese da Shakespeare, da Cervantes e da Lope de Vega. I “ragionamenti” che le precedono trovano talvolta riscontri in altre narrazioni del secolo, come gli Ecatommiti (1565) di G. B. Giraldi Cinzio. Negli ultimi decenni le Novelle di Bandello hanno attirato l’interesse degli studiosi per vari motivi: il rapporto lettere-novelle, la presenza di componenti non narrative, la mescidanza di elementi fantastici e reali, i numerosi passi raziocinanti presenti nella raccolta. 62 Manca ancora un approfondimento della qualità dei temi (erotici, tragici, comici, orrorosi), della prospettiva della narrazione, della lingua e dello stile dell’opera. Vi sono racconti privi di un centro e ricchi di divagazioni. La storia di don Diego (I, xxvii) è interrotta di continuo da frasi che suonano come precetti e brani oratori; talvolta si ricalcano in modo evidente episodi e immagini  







59   Le parti i-iii dell’opera furono pubblicate a Lucca; la iv parte (postuma, 1554) a Lione. Cfr. G. Getto, Significato di Bandello, in “Lettere italiane”, vii, 3, 1955, pp. 317 ss.; dell’«impassibilità del cronista» ha parlato Porcelli (1973: 135). I caratteri delle novelle sono presentati da Menetti (2000: 439-464). Sulla figura e l’opera di B. vedi Atti Bandello 1982 e Atti Bandello 1985. 60   «Il B. non è infatti un trascrittore dell’accaduto, ma vuole suggerire al lettore l’idea dell’ambiente e della circostanza sociale, in cui si è discusso un problema ed è stata delineata una “vera storia”, insistendo sul particolare metodo con cui si può arrivare all’unica verità possibile, quella dell’individuazione del singolo caso» (D. Maestri, Introduzione alla sua ed. delle Novelle, 1992). Bragantini (1989: 461), parla di «preminenza nell’uso del materiale narrativo a fine di precettistica sociale». È da ricordare che negli anni 1560-1570 il pubblico conosceva per lo più la versione della stampa milanese del 1560 (curata da Ascanio Centorio degli Ortensi e ripresa a Venezia nel 1566), non conosceva il testo delle prime tre parti, quale era stato voluto da Bandello e quale noi leggiamo; nella stampa milanese il corpus era stato ridotto di circa un quarto e le dedicatorie erano state soppresse e sostituite con una premessa; in seguito fu fatta una cernita di novelle tragiche (Perocco 2000: 470). 61  Bandello, Novelle, iii Parte, “Ai lettori” (ed. Flora vol. ii, p. 247). Menetti (2000: 447, 450), ricordando che la carriera di novelliere inizia per tempo con la traduzione in latino della novella di Tito e Gisippo (1509), evidenzia come «la mediazione umanistica incida profondamente non solo nel processo di metamorfosi della novella come “genere”, ma anche nell’organizzazione macrotestuale delle novelle»; si distinguono cinque piani compositivi: 1- Presentazione dell’argomento. 2- Contesto della brigata. 3- Dedica dell’autore. 4- Introduzione del narratore. 5- Novella del narratore. 62   È significativa la circostanza che un critico abbia considerato l’opera un epistolario inframezzato da novelle: v. M. Bandello, Lettere dedicatorie, a cura di S. S. Nigro, Palermo, Sellerio, 1994.

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di autori celebri: la descrizione di Fenicia (I, xxii) deriva da quella dell’Alcina ariostesca; le novelle II, xvi e xxxviii ripetono vocaboli ed espressioni di Machiavelli; in varie occasioni è il proverbio a proporre un principio o una legge che sono verificati puntualmente nella narrazione. Ma ad attirare l’attenzione è soprattutto il rapporto con i temi del Decameron, che si rivela in numerosi particolari; un solo esempio: il “gergo”omosessuale della storia di Porcellio romano (I, vi, p. 89) riprende i modismi di ser Ciappelletto: «sempre la carne di capretto gli piaceva molto più che altro cibo che se gli potesse dare, di maniera che questo era il sommo suo diletto d’andar in zoccoli per l’asciutto». 63 L’ordine delle novelle bandelliane assomiglia a quello di un catalogo, quasi l’autore abbia voluto passare in rassegna e ordinare una serie di casi umani. 64 Nell’indirizzo Ai lettori (iii parte dell’opera) l’autore dichiara di non scrivere «in fiorentin volgare» e di aver cura non della forma ma dei contenuti, con la convinzione «che l’istoria e cotesta sorte di novelle possa dilettare in qualunque lingua ella sia scritta» (Bandello 19523: 4). Quanto alla scrittura, egli dichiara perentoriamente: «io son lombardo e non faccio professione di prosatore», dove è evidente la rivendicazione di quelle ascendenze “gotiche” quattrocentesche di cui si parla a proposito della sua opera. Siamo dunque lontani dal bembismo e vicini invece alle idee di Castiglione, dal quale peraltro è ripresa la storia di Giulia da Gazuolo (Novelle I, vii; cfr. Cortegiano III, xlvii). La grande opera, in cui si riflette l’ideologia e la moralità del Rinascimento è, assieme ai trattati neoplatonici del Cinquecento, all’origine di vari svolgimenti narrativi, trame, riflessioni messi in atto da Bandello, autore che rientra a pieno titolo nella corrente “cortigiana”: in eπetti egli predilige una lingua non elaborata e un periodare piuttosto lineare. Dietro all’ammissione di una mancanza di stile si cela la qualità di una scrittura “fattuale”, historia non fabula. 65 Due caratteristiche della raccolta sono il ricorrere di temi erotici, comici, orrorosi e «quel nuovo carattere tragico che la letteratura nostra non conosceva così intensamente» (Flora 1950: 360). Spesso i racconti nascono dalla constatazione di un’analogia con fatti recenti, vissuti o noti ai novellatori e agli ascoltatori che fanno parte del circolo virtuoso; gli uni e gli altri sono spesso confrontati tra loro, quasi con l’intento di delinearne una tipologia e di facilitarne la riconoscibilità. La conversazione in circolo e i ragionamenti dei partecipanti rendono superflua un’introduzione, alla maniera del Decameron. L’ambiente è richiamato da allusioni e riferimenti al mondo degli ascoltatori, dai loro appelli (I, iv, p. 62) e dagli interventi dell’io narrante (I, iii, p. 46). Non sorprende pertanto la presenza di novelle “corali”, legate alla vita dei presenti mediante un gioco di analogie e di rispecchiamenti, entrambi sostenuti da discorsi in cui la partecipazione emotiva ha gran parte. «Io non ho stile», proclama l’autore all’inizio della sua opera: è una dichiarazione di poetica “realistica” e “fattuale”, che agisce in senso contrario a una possibile elaborazione stilistica e retorica. 66  







63   Confrontando le due opere Nigro (1983: 129) evidenzia «la lessicalizzazione delle novelle erotiche operata da Bandello; la riduzione a vocabolario del tessuto espressivo e tematico di uno dei filoni della raccolta trecentesca». 64   Cfr. Porcelli (1973: 146-149). Secondo Nigro (1983: 149) le novelle di Bandello sono descritte, cioè trascritte senza ordine, non inserite in una cornice o «istoria continovata». 65   Sul carattere di historia del novelliere ha insistito Patrizi (1993b: 536-9); Menetti (2006) esamina gli scarti e le riscritture di Bandello rispetto al Decameron, giungendo a una valutazione positiva dell’opera. Mazzacurati, in Mazzacurati/Plaisance (1996: 199), ha sostenuto che il novelliere di Bandello è un “laboratorio” di linguaggi e di stili, non un “magazzino” o un campionario dei medesimi. 66   A proposito di questa dichiarazione, si è osservato: «La naturalezza di chi è senza stile coincide

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Tra il fitto paratesto (dediche, lettere) e le novelle non vi è un sensibile stacco formale. Ciò segna una diπerenza rispetto alla maggiornaza dei novellatori del tempo. Se si osserva la resa stilistica dell’intera opera si nota che sono distribuiti in modo omogeneo dittologie, costrutti binari, polisindeti, parallelismi. Alcuni fenomeni richiamano superficialmente, nel loro comporsi, il modello decameroniano: l’aggettivo anteposto, le inversioni, il verbum in clausola ecc. Manca una vera unità e coerenza di stile; talvolta il discorso procede stancamente, anche a causa del ripetersi degli stessi costrutti, in particolare, delle relative. I periodi non sono estesi, si evità per lo più la subordinazione su più piani. Un tratto ricorrente, soprattutto nella diegesi, è l’aggiunta di brevi frasi aventi valore conclusivo. Non vi sono procedimenti di evidenziazione e la progressione tematica è attuata per lo più nella modalità “a tema costante”. Il protagonista della vicenda, inquadrato all’inizio della novella in un contesto storico e sociale, ritorna in sequenze testuali contigue oppure è riattivato a distanza, dopo pause che fanno emergere altri personaggi e altri piani narrativi. Il racconto si sviluppa con riprese verbali e “nomi generali” che riassumono quanto precede, fornendone al tempo stesso un giudizio: «andò a trovare la vedova, e quello istesso dì celebrò le male essaminate nozze. Come queste intempestive e precipitate nozze furono per la città sapute, fu generalmente reputato che ...» (Bandello, Novelle, I, i, p. 12), «fu [...] gettato da cavallo e crudelissimamente ucciso. Questo omicidio, sendo commesso in persona così notabile, fu cagione che Firenze tutta si divise» (ivi).

Ricorrono di frequente segnali di apertura e di chiusura del discorso, formule raccordanti o introduttive: ora avvenne che, onde, il che, il dimostrativo anaforico quello, strumenti ben noti a Boccaccio ma qui usati in un cotesto quasi privo di ornato. 67 La parte iniziale del periodo è occupata da determinanti semplici oppure da participiali, gerundiali e avverbiali esplicite di semplice struttura (sono frequenti la causale perché e la concessiva ben che), ma non vi sono gli addensamenti tipici del Decameron e degli Asolani. Nell’insieme prevalgono le strutture tendenti alla linearità. Lo scambio dialogico evita le battute brevi; si serve piuttosto di frasi di media lunghezza; l’imitazione del parlato ha scarso rilievo e si vale di segnali discorsivi convenzionali (ohimé, deh, mai sì). Proverbi e frasi sentenziose a√orano quasi in ogni pagina; un’espressività contenuta è a√data ai diminutivi: cosette, gagliardetto, parolucce. Nell’ordine delle parole la marcatezza non ha un particolare rilievo. La dislocazione a sinistra con la ripresa del clitico, come accade nei testi letterari di questo secolo, è evitata; 68 la messa in rilievo è realizzata con la prolessi di singoli elementi; per es., l’oggetto appare in capo al periodo: «Il perché egli che l’ammi 



con “l’arte” di chi si è educato alla più alta padronanaza della tecnica di scrittura. È insomma la sprezzatura del Cortegiano» (Nigro 1983: 135). Cfr. Patrizi (1993b: 536-7). 67   Cito alcune formule di avvio: «Né di questa cosa senza ragion si contrasta» (I, ii, p. 14), «Ora, se egli si ritrova» (I, ii, p. 15), «Dicovi adunque che» (ibidem), «Devete adunque sapere che» (I, viii, p. 108), «Statemi ad ascoltare» (I, x, p. 129), «Non è molto tempo, signori miei, che» (I, xi, p. 138). Cfr.: G. Herczeg, Sintassi e stile dei dialoghi delle “Novelle” di Matteo Bandello, in Oralità e scrittura (1980: 265-282); Idem, Sintassi delle frasi finali nelle novelle del Bandello, in Herczeg (1972: 239-276). 68   D’Achille (1990: 135-168) ha notato che, nei testi di livello basso e medio, la dislocazione a sinistra è in costante crescita, dalle Origini al xviii secolo; nei testi alti appare la tendenza opposta: dopo uno sviluppo, manifestatosi tra il periodo ii (1250-1375) e il periodo iii (1375-1525), il fenomeno, a seguito della pressione normativa cresciuta nel Cinquecento, appare condannato a una progressiva decadenza. Le diπerenze di distribuzione dei tratti nei diversi livelli di scrittura, che fino al ’500 sono tendenzialmente quantitative (maggiore o minore presenza), tendono nel periodo successivo a diventare qualitative (presenza in un livello di lingua, assenza in un altro). 

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razion di quelli poteva di leggero indovinare, in questa maniera disse loro» I, iv, p. 54). Ricorrono di frequente sia la tmesi tra l’ausiliare e il participio passato sia lo spostamento del verbo (soprattutto l’infinito) alla fine del periodo: «Aveva ella alcune entrate da per sé, per una eredità che le era da una sua zia stata lasciata, da la quale non picciolo profitto cavava; per questo parevale poter liberamente col marito giocare» (I, iii, p. 50). L’intertestualità è attiva in alcuni episodi. Ecco come uno dei più autorevoli novellatori presenti nell’opera, racconta l’episodio di Lucrezia e di Sesto Tarquinio; «essendo io – chiarisce la voce di Bandello – semplice recitatore di quanto il gentile, dotto e facondo Castiglione disse» (II, xxi, p. 844): Per questo il libidinoso giovine ebbe il corpo in suo potere e, seco giacendo, quanto volle amorosamente si trastullò, conoscendo perciò che quasi come con una statua era con lei giaciuto, ché in atto nessuno né in parole se gli mostrò pieghevole. Partissi poi il feroce e trascurato giovine, e seco stesso de la disonestissima sua vittoria gloriandosi, in campo ad Ardea tutto ridente se ne ritornò, non pensando di quanta amarezza quel poco piacere gli deveva esser cagione. L’a∫itta e sconsolatissima Lucrezia, levatasi per tempissimo e tutta di panni negri vestita, piena d’amarissime lagrime, subito mandò un messo a Roma a suo padre e un altro a l’oste d’Ardea a Collatino suo marito, facendo lor intendere che senza punto tardare eglino, con i piú fidati e cari amici che avessero, a Collazia devessero venire, ché cosí era necessario di fare, e non perder tempo, perciò che l’era occorso un’atroce e nefandissima cosa che dilazione non soπeriva (ivi: 848-849).

Il passo, in cui si narra di un caso di virtù esemplare (tema peraltro anticipato nella nov. di Giulia di Gazuolo I, viii, p. 114), 69 si compone di tre periodi; il primo presenta due gerundiali (giacendo e conoscendo) ed è concluso da una causale esplicativa contenente una dittologia (in atto nessuno né in parole); nel secondo tornano due gerundiali (gloriandosi e pensando); il terzo, che descrive la reazione di Lucrezia, inizia con due participiali (levatasi e vestita) e prosegue con l’azione (mandò un messo), cui si lega una gerundiale reggente il discorso indiretto, dove compaiono più subordinate. L’articolazione binaria, ripetuta più volte, muove il racconto; è una struttura che si ritrova a più livelli, nei sintagmi, come nelle frasi e nei periodi. Sono tratti di uno stile che abbiamo già osservato nel Cortegiano. La subordinazione non raggiunge la complessità, anche se talvolta prolunga il suo corso mediante correlazioni e riprese discorsive; ciò accade soprattutto nell’argomentare, assai meno nella narrazione:  

Questionato s’è più volte, amabilissima signora e voi cortesi signori, tra uomini dotti ed al servigio de le corti dedicati, se opera alcuna lodevole, o atto cortese e gentile che usi il cortegiano verso il suo signore, si deve chiamar liberalità e cortesia, o vero se più tosto dimanderassi ubligazione e debito (Bandello, Novelle, I, ii, p. 14); E perché mi pareva non aver né luogo né tempo comodo a manifestarvi il mio ferventissimo amore, e come per voi era privo d’ogni pace e riposo, avendone perduto il cibo e ancora il sonno, mi deliberai pigliar quella comodità che a me pareva d’aver trovata, quando mi fu detto che il consorte vostro era andato in villa (I, iii, p. 52).

Nella narrazione, i periodi diventano talvolta complessi, quando si spiegano, con l’intervento di relative e di incidentali, i motivi dell’agire dei personaggi in scena o le circostanze in cui un evento si è svolto: 69   La novella in questione ha un’origine composita. Non deriva soltanto dalla fonte liviana: «Nella parte dilemmatica Bandello utilizza come cartone un testo di Coluccio Salutati, la Declamatio Lucretiae»: O. Besomi, Un cartone umanistico per Bandello (II, 21), in Novella italiana (1989: 861-883).

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un altro cinquecento Da l’altra parte, conoscendo [scil. il conte] la malignità de la donna e che il signor Ardizzino era persona nobilissima e amico suo, dal quale mai non aveva ricevuto dispiacere alcuno, deliberò di non gli voler nuocere, e tanto più parendogli che più tosto il signor Ardizzino averebbe avuto qualche color di ragione di reputarsi oπeso da lui, che l’aveva, nol sapendo perciò, cacciato de la possessione amorosa de la signora Bianca Maria (I, iv, p. 60).

Né mancano costrutti latineggianti, come l’accusativo con infinito con soggetti non coreferenti: «La signora Bianca Maria, veggendo il conte esser partito [...], tornò a cangiar l’odio in amore» (I, iv, p. 61), «Poteva la donna persuadere al signor Ardizzino questa sua favola esser vera» (I, v, p. 63). Frequente è l’uso del participio passato, assoluto o coreferente con la principale: «Ora fatte le nozze, che sontuose si fecero, mandò Ariabarzane al re un’altra dote come era stata la prima» (I, ii, p. 29), «Udita egli questa istoria, e fatta chiamar la reina, e da quella altresì del tutto certificato, mostrò meravigliosa contentezza» (I, ii, p. 31). S’incontrano costrutti che alleggeriscono lo spessore del testo: frasi brevi che s’interpongono a periodi estesi, apposizioni nominali, la causale perché in apertura di periodo. Per meglio definire la posizione di Bandello nell’ambito della novellistica cinquecentesca, giova qui ricordare alcune cause che ne assicurarono la fortuna. Vi sono immagini, scene e motivi “bassi”, che possono essere accolti in un genere “mediocre”, qual è la novella, la quale, inorgoglita per il successo di pubblico che tali motivi riscuotono, vuole competere con i generi “alti”. Il fallo enorme, la vulva, il coito, gli atti di sadismo, la defecazione appaiono alla ribalta in un genere destinato a circolare presso un pubblico più numeroso e vario. Di questo fenomeno si deve considerare non soltanto l’eπetto esercitato sui lettori ma anche il realismo esibito nella rappresentazione di personaggi e di eventi. Campioni di scene erotiche e scatologiche sono il senese Pietro Fortini e il napoletano Girolamo Morlini. I particolari sadici, le beπe e controbeπe che finiscono tragicamente ricorrono nel Lasca. L’opposizione dell’autorità ecclesistica non si fece attendere, ma la sua azione non produsse grandi eπetti; il Concilio bandì la novella; si ebbero edizioni purgate di Bandello e di Boccaccio, ma la moda degli episodi licenziosi sopravvisse, com’è testimoniato dagli Ecatommiti di Giambattista Giraldi Cinzio, dal Fuggilozio di Tommaso Costo e dalle Ducento novelle di Celio Malespini, con le quali siamo ormai alle soglie del Seicento. 70 Prima raccolta cinquecentesca del genere, le Novellae di Morlini (1520), scritte in latino, proseguono una tradizione umanistica di scrittura, 71 conservandone i caratteri, vale a dire l’avversione nei riguardi del volgare e il culto dei classici, anche se l’esecuzione dell’opera smentisce in gran parte questi intenti. In eπetti, l’autore trae dalle Metamorfosi non trame e motivi narrativi, ma piuttosto vocaboli ed espressioni; talvolta ricorre anche a Virgilio, Orazio e Ovidio, mescolando al latino espressioni del dialetto nativo, tanto che si è parlato di una sorta di latino maccheronico. Le  



70   Il ferrarese Giambattista Giraldi Cinzio (1504-1573) pubblicò gli Ecatommiti (1563), raccolta che mescola variamente novelle e aneddoti, ed è famosa per aver suggerito a Shakespeare la trama dell’Otello; l’autore ebbe fama, ai suoi tempi, come scrittore di tragedie e come teorico (scrisse un Discorso sul romanzo, 1544). Il Fuggilozio del napoletano Costo apparve nel 1596: tra gli aspetti linguistici ricordiamo la presenza di battute in lingua spagnola e di dialettalismi. Con le Ducento novelle del veneto Malespini, composte tra il 1595 e il 1605, siamo ormai entrati in una nuova fase del genere. 71   Della novellistica in latino si ricorda in particolare la Historia de duobus amantibus di Enea Silvio Piccolomini (ed. 1467-1470) e il dittico novellistico bilingue del Tancredi e Seleuco, nel quale Lionardo Bruni riprende il tema della novella di Tito e Gisippo Dec. X, viii: v. Martelli (2000).

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novelle sono per le più brevi e mostrano una rapida esposizione dei fatti, che si conclude con un insegnamento, preceduto dalla formula novella indicat. 72 L’autore, infatti, «tende a piegare le forme auliche o rare, i sottocodici epici o elegiaci del latino, a situazioni estremamente basse e grottesche, portando ad eπetto una vera eversione di modelli linguistico-culturali, con esiti di alta espressività». Nella nov. xxiv la descrizione dell’accoppiamento di una monaca di straordinaria bellezza e di un rozzo carrettiere, denominato auriga, non evita particolari realistici:  

Illa quidem tenacissimis amplexibus aurigam detinebat, et adeo subtus spinam quatiebatur suam, adeo lingua illum alliciebat, quin bis antequam seperarentur venerem consumarunt. Et educto e vulva priapo, propriis palmis illum volatili linteo tersit, diuque deosculata est (Morlini 1983: 114).

La morale della novella ne conferma il tono dissacratorio; vi si dice infatti che alle donne, «quae in magnitudine, non parvitate delectantur», piacciono più i giovani rozzi, perché sessualmente più dotati. Dalle Novellae diπeriscono le Fabulae che nello stile risentono, soprattutto nei passi argomentativi, dell’influsso del linguaggio giuridico. 73 Entrambe le raccolte morliniane sono lontane dal modello del Decameron, tenuto presente invece nel novelliere di Pietro Fortini (1496?-1562), rimasto inedito fino al sec. xviii a causa della spessa patina oscena. Le Giornate de’ Novizi sono otto e iniziano con un invio a una nobile destinataria e con un appello “al lettore”, dove appare una breve presentazione della brigata dei novellatori: cinque donne e due giovani, che hanno, secondo tradizione, nomi allusivi. L’imitazione del Decameron si avverte nelle rubriche, nelle sequenze di passaggio, negli incipit e nelle conclusioni delle “giornate”, le quali terminano con una recita di versi. L’ordine decameroniano non è rispettato; per es., la Prima giornata si compone di otto novelle e si conclude con la recita di due sonetti e di una canzone di undici strofe. Si evitano le strutture sintattiche complesse, scegliendo i tipi proposizionali più comuni nella tradizione narrativa e abbandonando i periodi troppo lunghi; si veda un passo che comprende una citazione alloglotta, 74 fenomeno non raro nelle novelle dell’epoca:  



Ed essendo già trapassato in questo pazo amore interamente il secondo mese, consumato tutto il tempo intorno alla fiamenga, ed essendo ella donna molto giambevole, li andava molte fiate insegnando qualche motto in suo linguaggio; tanto che, infra molti detti, li insegnò a dire in che modo si dice quando uno omo vòle richiedere di quella faccenda una donna, e come poi si risponde, volendo. E così ogni volta che volevano insieme sollazarsi, diceva: – Ansi, visminere ? – Antonio, che inparato aveva bene, desideroso di farlo rispondeva dicendo: – Io – (Fortini, Giornate I, ii: 47).

La ripetizione della battuta da parte di chi ne ignora il significato provoca nella seconda parte una scena movimentata. Non è rara la comicità che nasce dall’equivoco linguistico. Nella lingua di Fortini non mancano incertezze costruttive: anacoluti, 72   Guglielminetti (1984: 1-2) sottolinea il frequente ricorso a scene di «sadismo, mascherato dalla legge del taglione». La citazione che segue è tratta da G. Villani, in Morlini 1983, Introd.: xxix. 73   Come appare nell’abile discorso del gallo (Fabula I), il quale dissuade le galline dal seguire il consiglio fraudolento del corvo. Il finale comprende, come al solito, una morale: «Fabula indicat hominem debere ad audiendum velocem esse, ad credendum vero tardiorem» (ed. cit., p. 394). 74   Ansi visminere? sembra essere l’alterazione della frase Hans, wils minnen + pronome personale femminile ‘Hans, vuoi fotterla?; Io è per ja ‘sì’; flamenga ‘fiamminga’ è forma senese senza anafonesi; giambevole vale ‘scherzosa’: v. A. Mauriello, ed. cit., p. 47 nota.

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svolgimenti ellittici e paraipotattici, periodi privi della principale; 75 s’incontrano anche i soliti giri di frase: «Né di questa cosa senza ragion si contrasta» (I, ii, p. 14), «Ora, se egli si ritrova» (I, ii, p. 15), «Dicovi adunque che» (ibidem); questo tipo allocutivo è ripetuto più volte nell’opera. Nonostante tali incoerenze, la progressione tematica si sviluppa agevolmente, grazie a un dialogato sciolto e adatto alle situazioni; si veda questo passo della nov. I, iv, dove una suocera in calore convince un genero falsamente ingenuo all’amplesso; è questo un motivo già presente nella novella xxi di G. Sermini:  

– O che ho ora da fare? – Allora disse la suocera: – Ora pinge tanto che sia bene dentro, e che li tua arcioni si tochino co’ mia –. Non ebbe ella così tosto detto, che Biagio cominciò così forte a corere tanto in qua e in llà, che in un medesimo tempo ambedue furno forzati che se lo’ riverciasse lo stomaco a modo che a medesimo tempo feceno. La vedova disse: – Ora hai tu imparato come si fa? – Rispose egli: – Eh si crede Biagio! – (Fortini, Giornate I, iv: 85-86). 76  

Gli stessi caratteri ritornano nelle Piacevoli e amorose notti dei novizi, la cui «dimensione notturna» riduce la presenza degli stilemi decameroniani, più attivi nelle novelle “diurne”, mentre aumentano sia la componente spettacolare (fatta di descrizioni di feste e di eventi straordinari) sia il carattere ‘misto’ del testo: le narrazioni sono inframezzate variamente con rime, questioni d’amore, scene da commedia. La descriptio, con il potere delle immagini e dei gesti, con i colori delle scene, impone una visione particolare degli eventi. Sulla scorta degli esempi di Boccaccio, Masuccio e Sabadino, si svolgono episodi tipici: la beπa, il motto risolutivo, il triangolo amoroso, la richiesta di partecipazione del lettore. Erotismo e oscenità, che «non entrano mai in conflitto con le ferree leggi del sociale» (Mauriello 1988: xxiv), hanno un grado di ruvidezza del tutto ignoto al Decameron. Il divertimento non esclude, anzi ricerca il particolare lascivo. I filtri per tale materia non sono usati costantemente e ciò ritardò la pubblicazione di alcune opere. Fortini ricorre talvolta ai “dispositivi eufemistici e di attenuazione” messi in atto da Boccaccio; 77 talvolta media le trame scabrose ispirandosi al cronachismo di Sacchetti; Morlini s’ingegna a smorzare gli eπetti di scene e situazioni scabrose con il suo latino maccheronico. Alla metà del secolo, si manifesta la volontà di innovare gli statuti della narrazione ricorrendo a vari mezzi. Oltre ai particolari indecenti o macabri, si sceglie il fatto di cronaca, si  

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  Cfr. il commento di Mauriello alla nov. II, vi, p. 119.   Pinge ‘spingi’; che se lo’ riverciasse lo stomaco ‘rovesciasse’, cioè ‘raggiungessero l’orgasmo’; questi due verbi rientrano nella schiera di senesismi presenti nel testo, nel quale si segnalano ancora: il dittongo in nieve, la i protonica in missere, la pretonica -u- in ricuperse, la mancanza di anafonesi in fameglia e lengua, agiógnare; -ar- postonico e intertonico in luogo di -er-: bàttare ‘battere’, essare, mettarle, rispondare, avacinarà, mancarò; la sibilante postconsonantica si muta in aπricata: falza, penziero (è documentato il passaggio contrario: alsare, s’asasiava ‘si saziava’, attensione, credensia, sensa, visi ‘vizi’); si notino ancora: le sonorizzazioni (afatigati), il passaggio skj- > stj- (stiavo, stiavone, stiuma ‘schiuma’), e varie forme verbali: sonno ‘sono’ (1ª pers. sing. e 3ª pers. plur.), imperfetto in -ia, iano, -ieno, passato remoto, 3ª pers. plur.: preseno, arivoro ‘arrivarono’, congiuntivo imperfetto: avesse ‘aveste’, credessemo; vedi anche gli infiniti corrire e ricorrire (con metaplasmo di coniugazione), ordenare; notevoli anche due preposizioni: intu ’l letto, in sur un luogo; vocabolo senese è agguatto ‘nascondiglio’. Per questi fenomeni cfr.: Castellani (1953: 21); Serianni, Introduzione a Bargagli (1976: 222-231). 77   Si veda l’analisi di Tesi (2012), che riguarda la sociologia dei comportamenti linguistici e distingue: i) fraseologismi cristallizzati e ii) vocabolario attenuativo e sostitutivo, distribuito in due canali (interno ed esterno). 76

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sperimentano scene inusuali, si adotta la fiaba, si mutuano dialettismi e forestierismi. Nell’anticlassicismo rientrano le “novelle del lettore”, popolate di personaggi bu√ o stravaganti, che agiscono in situazioni allegre, curiose, spesso licenziose e spettacolari. Il divertimento in comune ha allargato i suoi confini nella società del tempo. Rispetto ai trattati e ai dialoghi di cui ci siamo occupati nei primi nove capitoli, tre caratteri distinguono i campioni di prosa esaminati nelle ultime pagine: i) la tendenza anticlassicistica; ii) la testualità mobile e talvolta incerta (tipi testuali e generi diversi s’incontrano e si fondono); iii) la variabililità stilistica in rapporto ai contenuti e alle situazioni. Nel giudizio di coloro che occupano i piani alti della letteratura e della cultura cinquecentesca queste prose non meritano troppa attenzione; la modernità ha restituito alle opere “basse” un pieno valore letterario e in molti casi ha rovesciato l’ordine del merito: è superfluo ricordare che da tempo la Vita di Cellini ha più lettori di tante opere cinquecentesche un tempo celebrate. Quest’ultimo capitolo ha dato rilievo all’enunciazione, osservandone i caratteri in diversi autori; si è mostrata la varietà d’ispirazione e di stile che si manifesta nel Cinquecento. L’analisi “a maglie larghe” ha riguardato la forma delle frasi, la creazione di strutture testuali nuove o rinnovate (come il libro di lettere e il dittico narrativo composto di una lettera e di una novella), l’emergere di scritture diπormi (Doni, Cellini). Si sono in tal modo fissati dei termini utili per un confronto con i testi di quegli autori, ai quali, negli altri capitoli, abbiamo dedicato un’analisi “a maglie strette”, riguardante in particolare gli aspetti sintattici. Si sono evidenziati quei fenomeni che distinguono questa varia e multiforme produzione (epistole, ricordi, novelle) dalla trattatistica e dal dialogo in forma di trattato. Le diπerenze riguardano la testualità, la sintassi del periodo, lo stile e l’enunciazione. Comuni a tutti i generi e tipi testuali, alcuni fenomeni si distinguono in termini di frequenza: il ricorrere dell’ipotassi complessa e di vari tipi di proposizioni avverbiali distingue la trattatistica “alta” del Cinquecento dalla coeva narrativa, più incline alla linearità delle frasi e dei periodi. 10. 7. La spinta del Cinquecento All’inizio del xvi secolo il volgare scritto viveva nell’anarchia: in gran parte d’Italia era di√cile scrivere in una lingua che quasi nessuno parlava, che non aveva grammatiche né vocabolari e che dal latino, conosciuto e scritto anche a livelli medio-alti, aveva ricevuto e continuava a ricevere vocaboli, costrutti e stilemi. Il prestigio della lingua dei classici era dovuto alla sua universalità e “regolarità”, al suo essere super partes. Un fatto significativo sarà la traduzione in latino, nel 1620, dell’Istoria del concilio tridentino di Paolo Sarpi. La soluzione per il volgare letterario non venne dal centro dell’Italia ma dai suoi margini orientali: dal veneziano Bembo e dal friulano Fortunio. I toscani non intuirono che dai padri della loro lingua, Dante, Petrarca e Boccaccio, potevano nascere una grammatica e uno stile degni di gareggiare con i classici. A comprendere il valore di questi modelli furono i non toscani, coloro che dovevano impegnarsi con fatica per apprendere un ra√nato strumento della letteratura elaborato due secoli prima e dal futuro ancora incerto. Non tutti accettarono questa scelta: alcuni sostenevano il fiorentino parlato a Firenze in quegli anni, altri una lingua cortigiana, variamente definita e interpretata; alcuni erano favorevoli, altri contrari al contributo che il latino poteva dare alla costituzione del volgare letterario. Alla codificazione

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di una lingua scritta che lentamente si stava aπermando giovarono, con un’e√cacia inaspettata, le discussioni e le teorizzazioni cresciute in quegli anni. ll progresso della prosa si legò a due fenomeni, entrambi dipendenti dall’invenzione della stampa: relativo, il primo, alla ricezione delle opere, l’altro alla loro composizione e revisione. Lettori colti entravano in un processo di appropriazione delle scritture letterarie, che sovente erano discusse e commentate con gli autori e, con tale scambio d’idee e di critiche, acquisivano notorietà e più rapidamente si diπondevano; talvolta, si modificavano nei contenuti e, soprattutto, nella forma. Nel Cinquecento aumenta il numero di accademici e persone di cultura che danno giudizi su ciò che la letteratura propone. Il parere dei “professori” diventa un fattore rilevante nella vita di un’opera. L’altro fenomeno emergente è la considerazione del tempo di esecuzione delle opere stesse; prestezza e tardità della scrittura diventano elementi osservabili direttamente, che coinvolgono domande vecchie e nuove: come si scrive? perché si scrive? per chi? in quali condizioni? Le forme e lo stile della trattatistica mutano nel tempo. All’uniformità del trattato scolastico succede il dialogo, vario nelle forme e nei caratteri. A una gerarchia di suddivisioni e di schemi si sostituisce un discorso, che si alimenta della discussione e del dibattito, che ricerca la contrapposizione e tollera il dissenso. Da un periodare che coltiva cadenze ritmiche si passa a una successione più libera delle frasi e dei sintagmi, più attenta a esaltarne i valori enunciativi e pragmatici. Gli innesti di colloquialità promossi dall’anticlassicismo contribuiscono allo snellimento delle strutture e a una maggiore vivacità espressiva. Una sensibile innovazione della sintassi periodale e della testualità sarà promossa dalla prosa di Galilei: brevità dei periodi, sviluppo delle nominalizzazioni, tendenza alla brachilogia, crescita delle correlazioni, forme abbreviate della subordinazione (aumentano i nomi che introducono una subordinata), riduzione delle proposizioni avverbiali a vantaggio delle participiali sono gli aspetti di una prosa volta alla modernità. Nel Seicento l’uso scientifico della lingua fa progredire la razionalizzazione delle strutture e, parallelamente, del lessico. Nel Settecento lo style coupé di origine illuminista e francesizzante proseguirà con decisione verso una nuova testualità, dove cresce la tendenza a dare più spazio ai rapporti impliciti rispetto a quelli grammaticalizzati: “dare fiducia al lettore” potrebbe essere la parola d’ordine degli scrittori, che alla verticalità gerarchica sostituiscono rapporti orizzontali. Era questa una tendenza già viva nel Principe. Vero è che la spinta per tale innovazione viene dal Cinquecento. È in questo secolo che si avvia il processo di formazione di un italiano letterario moderno, capace di assumere una gamma estesa di funzioni cognitive. La prevalenza dei generi-guida, il trattato e il dialogo (che del primo assume spesso i caratteri), favoriscono questo sviluppo. La regolarizzazione della sintassi è il fenomeno che più caratterizza la prosa del Cinquecento. Scompare il “disordine” compositivo (anacoluto, paraipotassi, costruzioni miste), che caratterizza molti testi del Trecento e del Quattrocento; la complessità è regolata dalla progettazione; cresce la frequenza delle frasi isomorfe; l’imitazione del latino è frenata dalla ridotta flessività morfologica dell’italiano, privo di un sistema di casi. La rifunzionalizzazione dei costrutti già esistenti è un fenomeno attivo. La regolarità nella strutturazione sintattica e testuale è il criterio di base su cui si fondano le correzioni di Paolo Beni al Decameron, un sorta di canone silenzioso al quale si accostano opere di primo piano: il Cortegiano, il Galateo, i Dialoghi dello Speroni e del Tasso. La letteratura del Cinquecento possiede, grazie alla lingua, un’estesa capacità di espressione. L’ibridismo dei generi e l’imitazione della colloquialità ne sono le

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prove. Secolo di sperimentazioni letterarie che coinvolgono la lingua e la testualità, il Cinquecento accoglie contaminazioni e generi misti, che diventano archetipi modellizzanti; si manifestano fenomeni innovativi: l’attraversamento dei generi, la polifonia e il rovesciamento dei codici. «Il cinquecento fu vera continuazione del trecento e il colmo della nostra letteratura» (Zibaldone, 2). Leopardi adottò un periodare e uno stile vicini agli istituti formali di quell’epoca, ma resi più semplici e più “razionali”, cioè adattati alle necessità del suo tempo. Con la definitiva aπermazione del toscano nello scritto, gli altri volgari italoromanzi divennero “dialetti”; rimasero tuttavia come strumenti di un parlato in uso presso la stragrande maggioranza degli italiani. Da lingua letteraria il toscano diventerà lingua della nazione. L’avvio di questa trasformazione avviene nel Cinquecento, secolo che ha impresso la spinta decisiva alla nostra lingua.

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Indice linguistico e delle cose notevoli

INDICE LINGUISTICO E DELLE COSE NOTEVOLI accademie, azione delle, 21, 235 e n, 390, 391, 429 acciò che (finale), 88, 182, 251, 272, 345 accordo, del soggetto e del predicato verbale, 66; - del participio passato con l’oggetto, 61, 123, 124, 193, 195, 230n, 368; di nome e participio pass. in costrutti assoluti, 194, 195 accusativo con infinito: 79-80, 164-165, 216217, 229n, 261-263, 325-328, 395, 409, 429 additivo, stile, 37, 45, 64; v. anche testualità agentività, 72 e n, 150, 151, 231, 308, 317, 399n alla quale cosa, 337 allocutività, 32, 112, 205, 288, 427 allotropi, 132n, 240 anafonesi, 24, 132n, 240, 241, 426n, 427n anafora, 44; - retorica, 118; anaforici pronomi, 157, 163n, 385, 398, 423; - avverbi, 181; vedi anche catena anaforica analogia, 40n, 49, 113, 117, 310n; analogiche, forme, 59 anamnesi, 106 antonomasia, 162 apò koinòu, costruzione, 215 apoftegma, 111 apposizione, 127-141, 191, 205, 206n, 220, 225n, 229n, 251n, 273, 316-317; - modaleassociativa, 191 arcaismi, 201, 235, 404n argomentale, struttura, 144, 153, 207, 278; cfr. anche valenza argumentatio, 31n argomentazione, tecnica e modi dell’-, 19n, 44, 49, 53, 84n, 100, 112n, 114-117, 181, 204, 234-235, 285n, 291, 310-312, 377-380 aristocrazia/democrazia (Machiavelli), 37 aristotelismo, 16n, 26, 233, 371 arte del governo, 110 artes dictandi, 27 arti, liberali, 16, 21, 393, 400; - meccaniche, 16, 21 articolo, determinativo, 27, 58, 128, 132n, 243; omissione dell’- determinativo e indeterminato, 53n, 60, 128, 130, 352, 367 artiglierie, 110, 115

asindeto, 70-71, 125, 273, 363, 410 Asolo, 206 attualizzazione, narrativa, 278 ausiliari, verbi, 61, 74, 96, 100n, 161, 165, 194, 206, 212, 229, 249, 329; ellissi dei -, 69, 206n, 348n, 355, 367n; venire e andare non usati come -, 150 avverbi, anaforici, 18; - frasali, 140, 147n, 181; - modali, 122, 141n, 147n; vedi anche modalità avverbiali, proposizioni, v. causali, concessive, consecutive, finali (proposizioni) ecc. avvio, del discorso, 227; - di una sequenza testuale, 192, 295n, 374, 394n; formule di -, 423n battuta dialogica, 219, 278 Bibbia, traduzione della, 16, 20 binaria, struttura, 47, 54, 91, 139, 157, 159, 245, 256, 270, 338, 382, 424 brachilogia, 49, 123, 386n, 429 brevitas, 42, 71, 94, 253, 330 cambio, di costruzione, 62, 68, 123, 319, 323, 328; - di progetto, 67n; - del soggetto grammaticale, 50, 70, 124 cancelleresca, lingua, 21, 22, 39n, 342; v. anche latino cancelleresco catafora, 163, 172 categorizzazione, 29 catena anaforica, 44, 67, 117, 119, 206 causale, proposizione, 37, 84-86, 99, 176178, 218, 269-270, 338, 340, 396, 397, 423; - perché all’inizio del periodo, 42, 45, 179, 397, 425; - infinitiva, 62, 266; frequenza della - 345n; gerundiale -, 95n, 192n, 193; relativa con valore -; tipo la cagione è perché, 110; tipo come colui che 85, 340; infinitiva con valore -, 85 che complementatore, 51, 63, 154; omissione di -, 51, 72, 78, 161; ripetizione di - 162, 231; v. anche come complementatore; - polivalente, 61, 63, 130, 175, 231, 233, 333n, 404n; che fu (nesso), 51, 6; v. anche è che chiasmo, 53, 64, 88, 120, 126 e n, 222, 324, 366 Chiesa, cattolica, 19n, 20n, 197; politica linguistica della -, 21

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indice linguistico e delle cose notevoli

cioè, 108n circostanziali, proposizioni, 41n, 137, 177, 212, 228; - sintagmi, 41, 84, 94, 153, 175; gerundiali con valore -, 194, 229: participiali con valore -, 125, 229 citazioni, da classsici latini, 39, 44, 59, 112, 143, 148; - da classici italiani, 102, 204, 208, 210, 389; autocitazioni, 278, 293n classicismo, 16, 25, 31n, 199, 202, 213, 232, 238n, 242, 371, 403n; anticlassicismo, 16, 57, 234 clitico, pronome, 45, 67, 70, 100, 131, 182, 193; - di ripresa, 138, 149, 157; risalita del -, 61, 131, 368; - coppia di clitici, 129, 231; enclisi con -si, 315; ne enclitico, 217, 302; proclisi, 159 codificazione linguistica 16, 371, 411, 429 coerenza testuale, 44, 49, 102, 118, 196, 397 coesione, 117, 118, 120, 366, 402; vedi anche periodo; ipercoesione, 119 cognitivo, 46, 139, 148, 152, 153, 157, 225, 293, 370, 389, 429 cognizione-emozione, 115 colloquialità, 13, 19, 24, 38, 53, 57, 286, 371, 376, 402, 415, 429 colore ‘apparenza’, 150, 323; sotto colore, 296, 308, 336 come complementatore, 76, 78, 159 commedia del Cinquecento, 403, 404n, 415 commento (di testi), 16, 108n, 109 e n, 112, 116, 125, 202, 314, 329, 335, 374, 392, 414, 418n; - ad Aristotele, 26; - a Dante, 402; - a Livio, 105, 196, 294 comparative, proposizioni, di uguaglianza (o di analogia), 30n, 84, 90-92, 121, 187189, 222, 254, 328, 338, 345n, 357; - di analogia, 188, 222; - di grado, 187, 222, 254-255; d’ineguaglianza, 358; - ipotetiche, 189n., 256-257; - con comparativi organici, 92 completive, proposizione, vedi oggettive -; soggettive concessive, proposizioni, 87-88, 107, 117, 180-182, 220, 251-252, 271-272, 342-345, 385, 398 con ciò sia cosa che, 218, 245, 343, 344n conclusivi, elementi, 47, 53, 61, 85, 88, 97, 98, 118, 137, 143, 219, 249, 250, 252n, 349, 364, 375, 386, 394, 400, 423 concordanza a senso, 30 e n, 49, 57, 66-67, 81, 123, 259, 414 condizionale, modo, 240 condizionali, proposizioni, 53, 84, 91n, 92n, 93, 176, 185-187, 210, 213, 218, 222-223,

247, 257-258, 290, 353-356; - concessive, 342n; - formule, 99; - connettivi, 190n, solo che, 230n congiuntivo, forme verbali del -, 58, 59, 131, 240, 369; - trapassato, 147; - in luogo del condizionale, 39n, 59, 70, 81, 260; - e indicativo, 62, 70. 74; usi del - nelle completive, 76, 154-155, 160-163, 215-216, 318, 322; - nelle concessive, 181, 220; nelle comprative, 358; - nelle condizionali, 186, 222, 353; - nelle consecutive, 340; - nelle finali, 182, 345; - nelle interrogative indir., 171-172, 217; - nelle temporali, 89, 183-184, 348; - nelle relative, 82, 179, 224, 334 congiunzioni, - coordinanti, 53, 268; e cong. aggiuntiva ed esplicativa, 133; e contrastiva, 60; - subordinanti, 60, 271, 375; - composte, 73, 352, 360; incontro di - subordinanti, 219, 251-252, 299; vedi anche: acciò che, con ciò sia cosa che, dove, ma, mentre, nondimanco, onde, perché, quando; v. anche nessi congiuntivi coniunctio relativa, 42, 45, 55, 83, 84n, 96, 119, 161, 173, 224, 255, 268, 288, 297, 304, 332, 335n, 383, 395, 399 connettori, 30, 47, 51, 52, 54, 62, 67, 75, 87, 88, 90, 97, 112, 115, 118, 175; - argomentativi, 47, 116; - causali, 177; - composti, 178; - conclusivi, 98; - confermativi, 133; - esplicativi, 108; - frasali, 63, 180; - temporali; - e progressione tematica 44, 117; il che, 119; ne, 139; talché 141n; ché c. generico, 161; vedi donde consecutio temporum, 346 consecutive, proposizioni, 37, 53, 54, 86, 87, 110, 133, 179-180, 270-271, 289, 300, 302, 340-342:; - con quantificatore, 340; introdotte da in modo che; introdotte da donde onde, 180, 341; relative -, 95, 180; - implicite, 180, 342; - causali. 219; - finali, 54 contesto, 18, 49, 102, 112, 115, 272, 284, 392; v. anche cotesto contrapposizione, dialettica, 35, 152, 287, 429; - bestia-uomo, 40; - di strutture frasali, 121; - lingua-dialetto, 420n controfattuale, futuro, 144n; - condizionale, 185; costrutto -, 186; - verificatore, 353n, 354; periodo -, 355 coordinazione, 29, 70, 151-152; - disgiuntiva, 120, 306n coreferenza, 62, 74, 78, 94, 259, 345n, 361 cornice del testo, 18, 27, 29n, 193, 202, 209,

indice linguistico e delle cose notevoli 227, 237, 243, 255, 307, 331n, 385, 392, 413, 415, 418, 420, 421 corporeità, 309n correlazioni, 30, 54, 64, 97, 93, 213, 218, 222, 228, 254-257, 289, 303, 338, 341n, 343, 351, 398; - distributive, 115n, 135, 212; - e simmetrie, 303; - d’intensità, 341n; - di ripresa, 398 cortigiana, lingua, teoria, 23e n, 24 e n, 38, 58, 201, 209, 241, 242, 243n, 375, 417, 422, 428 coscienza linguistica, 25 così (avverbio), 75, 114, 115n, 116, 179, 340, 364, 376; così ancora, 222; così ... che, 270; così ... come, 64, 91, 213, 254, 357; così medesimamente, 117, 211, 393; come ... così, 188, 222, 254, 393 costrutti assoluti, 4n, 94, 151, 191, 360, 361, 399; vedi gerundiali, participiali cotesto, 70, 122n, 150, 159, 161, 228, 251, 386, 423 Crusca, Vocabolario della, 203n Decameron, vedi Indice autori, Boccaccio deissi, 119, 304n, 408 deittici, 67, 79, 124, 140, 144, 162, 163 e n, 178, 222, 291, 398; - testuali, 97, 133, 163, 396; tempi verbali -, 147; vedi anafora, catafora demotica componente, 36, 39n, 49, 65, 245, 283, 418n deontici verbi, v. modalità descrizione, di personaggi, luoghi, eventi, oggetti ecc., 70, 102, 116, 125, 207, 226, 251, 273, 284, 295n, 297, 304, 312, 374, 384-388, 408, 414, 416, 422, 426 desiderio / potenza (Machiavelli), 110 deverbali, 231; - con suπ. zero, 81, 82, 120; dialetti, italiani, 22, 27, 28, 208, 371, 411, 425n, 430; dialettalismi, 22, 24, 27, 425n dialettica, 63, 102, 122, 234, 273, 311; v. anche argomentazione dialogo, come genere, 35, 203, 205 dichiarative, frasi, 47, 71, 139n, 396, 399n, dictum/modus, 47 didattico, discorso, 393 diegesi, 29, 423 dilemmattico, schema, 63-64, 102, 121 dimostrazione, ratio - conclusio, 109 discontinuità, stilistica, 43, 122-125, 138, 160, 315, 375 discorso ‘messa in opera della lingua’, ordine del -, 296, 392; - e discussione, 429; - autoriale, 399, 407; analisi del -, 19; coerenza del -, 118; generi del - 36n, 122; marcatori del -, 116, 121; quadro del -,

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29n; metadiscorso, 95; eterogeneità discorsive, 49, 65, 116, 413 Discorso diretto [= DD], 46, 70, 93, 127, 226, 228; cornice del -, 331, 418, 419 Discorso indiretto [= DI], 46, 70, 284, 287, 306, 311, 312, 329, 424, splitting dal DI al DD, 70 Discorso indiretto libero [=DIL], 263n, 287 Discorso riferito (o riportato), 46, 166, 193, 205, 263, 388 disegno ‘progetto, piano’, 16, 308, 338, 356; fare -, 145; con - di, 287 dislocazione, a destra, 100, 136, 140n; - a sinistra, 41n, 42, 52n, 61n, 136, 138, 139, 423 e n; - a sin. con prepos. tematizzante, 99 dispositio v. ordine dei costituenti dittologia, 30, 53, 76, 121, 205, 228, 247, 250, 289, 294, 338, 381, 423 donde, 64, 81, 86 e n, 133-134, 171, 180, 341 dove, 141, 223, 247, 395 doxa, 112; - opposta all’episteme, 275, 342 dunque, adunque, 85, 98, 117, 159, 252n, 340n; che dunque, 306; dico dunque, 47, 394 (lat. dico igitur quod); dunque, se ti piace, 218; vedi tu dunque, 215; adunque, 45, 47, 113, 427; v. anche donc (franc.), 112n è che (nesso), 52, 62 eccettuative, proposizioni, 84n, 93, 157, 190-191, 360-361 ecfrasi, 377 e n, 386 editoria, in Venezia, 25, 27; - nell’Italia sett., 200; - dei classici lat. e it., 202; - dei Manuzi, 233; revisione editoriale, 367 edonismo linguistico, 57n, 404 e n, 410n ellissi, 49, 65, 67, 122, 160; - dell’articolo, 352; - dell’ausiliare, 69, 194, 206n, 352, 367; - di essere, 79, 165, 195; - della preposizione, 80, 161; - del predicato, 91, 187; - del che complementatore, 154, 160161; - del che relativo, 51, 61, 130; - della copula, 329 embrayage/débrayage, 98n, 304n enclisi pronominale, 45, 67, 131, 157, 182, 193, 35, 315, 410; gruppi enclitici pronominali, 231 entimema, 113 enumerazione, 60n, 121, 152 enunciazione, 19 e n, 31, 34, 38, 50, 64, 66n. 98n, 104, 112, 136, 177, 304-310, 390, 435; ancoraggio dell’ -, 45; scena dell’-, 113; tempo dell’-, 147, 345n, 354n; transmodalizzazione, 283; co-enunciatori, 47

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episteme, 275 epistole, epistolario, vedi lettere esistenziali, costrutti, vi è, ci è espressività, 65, 102, 410, 416, 419, 423, 426 ethos, 98, 113 e n, 391 evidenzialità, 46, 96 e n, 141, 143, 147-149, 306n, 307, 404n; marcatori evidenziali, 121, 140 fattitivi, verbi, 92, 144, 158, 159, 167, 328, 332, 350 femminismo, 267, 276 Ferrara, 15, 46, 201 figure, arciere, lione, volpe, centauro (Machiavelli), 40 e n, 116 filologia, 202, 223 finali, proposizioni, 345, - introdotte da acciò che, 345; - da perché 346; - implicite, 347 fiorentino (varietà ling.), 22, 24, 27, 35, 38, 57n, 128-129, 131n, 200, 211, 234, 377n, 391, 410n Firenze, 15, 19, 21, 25, 35, 38, 100, 108, 200, 287, 295, 391, 401n, 416, 418, 428 focalizzazione, 85, 299n fonomorfologia, 35, 37n, 38, 58-59, 202, 240-241, 371, 410 formazione delle parole, 368; Avv-mente, 30, 206, 231, 304, 308, 309, 393; diminutivi, 410, 418n, 423; su√ssato N-tore, 30n, 231, 290, 317; formule, 18, 19n, 37, 46, 52, 280; - di apertura, 93, 181, 227, 286, 331, 393, 394, 425n; - cancelleresche, 19; discorsive, 280; - esortative, 47; - evidenziali, 141, 360n; introduttive, 280; - oppositive, 284; - presentative, 6, 82, 137, 407; - riassuntive, 106, 311, 394; - di ripresa, 280, 289; - di transizione, 248, 390, 394, v. anche conclusivi, elementi fortuna/virtù (Machiavelli), 40n fortuna (successo delle opere), della Storia d’Italia, 282; delle biografie, 372; delle Novelle di Bandello, 421 frame, 127n; v. anche scenario argomentativo fraseologismi, 414, 427n frasi, brevi, 29n, 121, 345, 423; - coordinate, 35; - ellittiche, 57; - medie, 423; - estese, 61, 68; - isomorfe, 429; - scisse, 30n, 41, 140; segmentate, 43, 49, 62, 81, 301; forma delle -, 428; linearità delle -, 79, 428; collegamento delle -, 45; elementi subfrasali, 152. generi letterari, 16 e n, 21, 26, 27 e n, 33, 51, 65, 116, 203, 235, 402n, 403, 406, 415,

428; contaminazione di -, 19, 199, 253, 274, 404, 408, 413, 430; ibridismo dei -, 429 generi testuali, vedi argomentazione, descrizione, narrazione, novella gerarchizzazione, fenomeni di, 42, 55, 116, 119, 125-126, 151, 166, 209, 243n, 277, 292, 429 gerundiali, proposizioni, 29, 42, 51, 94-95, 191-193, 206, 225-229, 247-253, 287, 328, 361-364, 376, 418; - assolute, 125, 178, 191, 192, 351; - causali, 85, 178, 192n, 270; - d’inquadramento, 137; moduli -, 95n, 189-190, 194; - temporali, 107; - al presente, 227; - al passato, 228 gerundio, converbo, 225; - di predicato, 226; - di frase, 226 giudicare per essempli (Machiavelli), 111 giuridica, lingua, 34, 106n, 164n, 290n, 426 gnene (polivalente), 58, 409 gradatio, 64, 152n, 264 grafia, 27, 128n, 132, 201, 204n, 240, 241, 283, 367n grammatica, norma della, 25, 29, 35, 38, 45; regole della -, 48, 58. 61, 65, 95, 209; modello della -, 205; contro la -, 410 grammaticalizzazione, 178, 230, 269, 346, 429 guerra, tema della, 19 Hypnerotomachia Poliphili, 200 ibridismo linguistico, 27 identità, artistica, 391n; - culturale e linguistica nazionale, 20, 26n, 35n, 38; nazionale, 238 illocuzione, 40, 42n, 43, 47, 72, 84, 98, 105, 115, 257, 329; verbi illocutivi, 158, 320; atti illocutivi, 404n impersonali, frasi, 50, 68; locuzioni -, 72n; si -, 116, 123n; pronomi -, 129, 149; verbi -, 76, 157, 168, 178, 216, 297, 362; vedi anche omo implicito, presenza dell’, 49, 68 e n, 114 incapsulatori, frasali, 97n, 116, 119, 163n, 296, 316n, 336 incassatura sintattica, 29, 299n, 315, 323 incidentali, proposizioni, 55, 84, 94, 118, 124, 127, 141n, 142 e n, 160, 194, 216, 226, 244, 251-254, 301, 346, 357n, 365, 385, 399, 400, 412, 414, 424 indessicalità, 304n indicativo, modo, 62, 70, 76, 78n, 89, 157, 162, 184, 215, 349, 353 Indice tridentino (Index librorum prohibitorum), 20n

indice linguistico e delle cose notevoli induzione, 102, 113 inferenza, 41, 122, 147, 148, 185, 191, 306 infinitive, proposizioni, - soggettive, 75, 154-157, 168, 261, 320; - oggettive, 7678, 157, 261; vedi accusativo con infinito; - preposizionali, 52, 62-88, 169-170, 190, 265-266, 324, 342 infinito, apreposizionale, 169; - preposizionale, vedi infinitive inquadramento, elementi d’, 29, 41, 118, 137, 195, 255, 272, 375 intensificazione pragmatica, 45, 65 intenzioni comunicative, 48 interazione discorsiva, 276 interfrasali, rapporti, 119, 224, 269, 384 intermediazione, discorsiva, 81 interposizione v. ordine delle parole interrogative, dirette, proposizioni, 81n, 108, 330, 419; - indirette, 74, 78, 80-82, 127, 139n, 153, 171-173, 204n, 217-218, 266-267, 281n, 311, 331-332, 398-399, 418 intra + SN, 134 introduttori sintattici e discorsivi, 39, 41, 46, 72, 80, 86, 89, 93, 96, 133-135, 139, 148, 154, 162, 189, 254, 260-270, 280, 299, 356, 399n iperbati, 29, 39, 126, 135, 142, 207, 244, 304, 401, 406 ipertestuale, 125 ipotassi, vedi subordinazione ipotetiche proposizioni, 30 n, 353-355 v. anche condizionali, proposizioni koinai, linguistiche settentrionali, 23 apódeixis (o evidens probatio), 139n latinismi, grafici, 33n, 128n; - lessicali, 23n, 39n, 290n; - morfosintattici, 53n, 304n; - semantici, 39n; v. anche accusativo con infinito; opposizione ai -, 114 latino, ambito d’uso del -, 21, 22, 25, 28; classico, 36, 39, 44, 53, 58n, 59, 102, 202; - delle cancellerie, 102; - umanistico, 59, 102; locuzioni del -, 72n lessico, 22, 36, 37, 39, 59, 114, 205, 288, 296, 315, 325, 369, “razionalizzazione” del -, 429 v. anche latinismi, spagnola lingua, demotica componente lettere ‘comunicazioni scritte’, 15, 19, 20, 26 e n, 32, 34, 67 n, 100, 166, 232, 274, 286n, 297n, 391, 405, 406n, 408, 416n, 418, 421; libro di -, 26 e n, 27, 406, 428; - d’indulgenza, 16; - di negozio, 101n; diplomatiche, 100; - familiari, 100 lingua comune, 25, 27, 35, 38 logos, 113; logos-pathos, 115 lombardismi, 27, 241n, 247n, 392

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ma, congiunzione avversativa, 304, 305, 315, 397; - all’inizio del periodo, 106, 384; argomentativo, 98; - metadiscorsivo, 98 macrotesto, 421n, manierismo, 377 e n Mantova, 201, 237; dialetto di -, 410-11 marcatezza (ingl. markedness), 17, 41 e n, 42, 56n, 115, 119; marcatori discorsivi, 90n, 96 e n, 98, 107, 116, 117 e n, 120, 121 e n, 133-135, 137, 138, 140, 149, 159, 160, 181, 187, 293n, 298, 304, 350n; vedi anche ma, pertanto materiali, referenti, 40 mentre (prop. temporale) 224, 351 mercantesca, scrittura, 21 metafonesi, 23 metafora, 16n, 116, 381, 406, 414 metalessi, 112 e n, 404n metaplasmo di declinazione, 128, 130, 240, 404n; - di coniugazione, 427n metatestuali funzioni, 107 mimesi, 278 modali, proposizioni, 91n, 189-190, 221, 257, 267, 345n, 359-360; gerundiali -, 95n modali, verbi, 147n, 300, 306 e n; rimanere quasi-modale, 150 modalità (determinazione enunciativa), 118, 144, 147-149; - deontica, 39, 47, 52, 59, 62, 98, 136, 145, 147n, 148, 175, 217, 306, 325; - epistemica, 47, 49, 66, 96n, 115n, 121n, 141n, 147 e n, 148, 192n, 293n, 306, 307; - teleologica, 148, 306; modalizzatori, 113, 148, 304; modalizzazione, 46n; transmodalizzazione, 283 , modello letterario, 13, 16n, 18, 22, 38, 44, 57, 104, 113, 119, 202, 203n, 209, 230, 246, 275, 365, 369, 372, 390, 407, 409, 416, 421, 426 morfologia, 329, 367-9; vedi anche articolo, clitico, pronomi, verbali forme mutamento di progetto, 166 narrazione, 26, 43, 49, 54, 55, 56, 96, 101, 109, 113, 152, 183, 198, 204, 229, 237, 255, 273, 291n, 299, 311, 314, 374, 388, 409, 413, 416, 421-422; - in versi, 412; prospettiva della -, 116, 192, 207, 237, 305, 307, 329, 377, 379, 389, 411, 421 naturalismo linguistico, 200 nominale, frase o nesso, 29, 39, 54, 91, 142143, 347, 357; - predicato, 157, 162, 361 nominalizzazione, 30n, 62, 74, 153, 169, 217, 320, 324-325 nondimanco, 88n,

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indice linguistico e delle cose notevoli

notarili, scritture, 73 novella, 215n, 274, 277n, 373n, 403, 415416, 421n, 425 occasione (Machiavelli), 39n, 40, 81, 173, 187 oggettive, proposizioni, con verbo finito, 157-159; - con infinitiva; omissione, dell’articolo, vedi articolo; - del complementatore, v. che compl.; - della preposizione, 62, 132; del relativo, 336 omo, impersonale, 268, 270 omologia forma-contenuti, 71 omori (Machiavelli), 101n onde (congiunzione), 43, 53, 61, 69n, 253, 267, 341-342, 347, 383, 397, 400, 423; che, 86-87 ora (congiunzione), 305 oralità riflessa e stilizzata, 65, 290; vedi anche parlato oratio obliqua, 73n, 311, 329-331 oratoria, 310-312; tenzone -, 112 ordine dei costituenti della frase, 29: posposizione dell’agg. personale al nome, 99; posizione dell’avverbio, 56, 100; posposizione del soggetto al predicato verbale, 138; anteposizione di un complemento, 140; participio passato distaccato dall’ausiliare, 95, 100 e n, 136, 206, 299 e n, 352 e n, 412; ordine delle subordinate, 322 ordini (Machiavelli), 40 ordo verborum v. ordine dei costituenti Orti Oricellari, 109n, 112 ortografia, 17n parafrasi, 53, 72, 82, 94 paratassi, 29, 342, 420 paraipotassi relativa, 51 parallelismo, 52, 55, 64 e n, 126, 152n, 244, 24; - e antitesi, 256; - e cadenze ritmiche, 215; - e correlazione, 120, 291; - tra pensiero e stile, 246 paratesto, 208 parentetiche, proposizioni, 54, 64, 121, 135, 141-142 e n, 149, 167, 187, 205, 213, 243, 247, 273, 293, 301, 314, 339, 357n, 359n, 366 e n, 371, 390, 395; vedi anche incidentali, proposizioni parlato, imitazione del, 58, 280 participiali, proposizioni, 48; senza aus. avere, 61 participio passato, 72, 89, 94, 100 e n, 123, 165, 184, 193, 206, 230, 299, 366, 375, 385, 412, 425; - accorciato, 240; - alla greca, 95n; - assoluto, 195; - suto, 131 participio presente, 230 e n, 365n passiva diatesi, 63, 71, 75, 116, 137, 149, 151, 213, 215, 260, 307-308, 314, 319

perché (congiunzione), 43, 338; - e per che (non univerbato) percontative, frasi, 331 perifrasi verbali. 145-146; “andare + gerundio” (valore continuativo) “venire + gerundio” e “trovarsi + participio passato” (valore risultativo), 72 perifrastiche, costruzioni, 94 periodo ipotetico vedi condizionali, proposizioni periodo, struttura del-, 143, 160, 325; - complesso, 127, 255, 263; architettura del -, 29, 74, 175, 223, 253, 287, 296, 335, 357, 361, 365, 369, 369; simmetria del -, 30 e n, 94, 126, 210, 244, 364, 395, 401, 406; asimmetria del -, 57; coesione del -, 120, 366, 402n; periferia sinistra del -, 29 e n, 42, 54, 107, 213, 410; bilanciamento / sbilanciamento del -, 30, 64n, 193, 205, 211, 298, 247, 381, 395; circolarità del -, 57; falsa partenza, 30, 166; suddivisione del -, 244; inserimento di proposizioni, 222, 224, 297, 344, 354 pertanto, 47, 85, 87, 96n, 98, 107, 117, 159 pleonasmo, 49, 123, 124 platonismo, 15, 16n, 35n, 203 e n, 209, 233e n, 234, 422 polimorfia, 23 polirematiche, 144, 145-146, 163, 322, 328, 331 politico, linguaggio, 37, 39n, 59 polivalenza, 161 pragmatiche istanze, 13, 26n, 27, 36n, 49, 52, 55, 58, 63-64, 67, 68, 97n, 102, 107, 111, 113, 122, 125, 136, 139, 145, 164, 171, 176, 248, 297, 318, 354n, 380, 391, 408, 429; pragmatico-testuale, livello, 68, 139, 171 predicazione seconda, 168 prescrittiva, funzione, 53 presentativa, funzione, 52, 60, 82, 133, 314n, 384, 386, 407 presentazione di un personaggio, 82, 106, 107, 152, 310, 373, 376, 386, 426 prestezza, 16, 313, 409, 429 prestigio della lingua, 25 prestito linguistico, vedi latinismi, spagnola lingua proemio, stile del, 110, 245, 284, 289, 375, 379, 381, 392 progressione tematica, 49n, 56, 117, 118n, 120 e n, 122, 125, 151, 206n, 272, 277, 278, 329, 353, 363, 364, 366, 372n, 380-384, 390, 393-395, 400, 423, 427

indice linguistico e delle cose notevoli prolessi, 55, 124, 139, 157, 218, 248, 259, 266, 288, 302, 331n, 423 pronomi, profrase, 83, 98, 133, 260, 307, 333n; lui soggetto, 60, 368, 410n pronuntiatio, 390 prosimetron, 33, 234, 412, 417n punteggiatura, 16n, 17, 177, 233, 334n, 401n qualificazione, 48, 141 quando (prop. temporale), 90, 184, 350 que (franc.), 153n, 161 questione della lingua, 199, 247, 281n, 402n, 406 regimen principis, 32, 276 registri della lingua, 35 relative, proposizioni, 332-337; - libere, 82 - con antecedente, 82 e n, 84, 173, 174, 224, 252, 332, 335; - senza antecedente, 174; - restrittive, 335, 337; - appositive (o esplicative), 82, 337n; - soggettive con antecedente, 174; nessi relativali, 225, 315n, 335n, 395, 418 repubblica/principato (Machiavelli), 37 restat ut, 72 retorica, elaborazione, 30, 36n, 111, 207, 228, 245, 312, 378, 381, 385; ornatus, 52; v. anche metafora riassuntiva, strategia (resumptive strateg y), 119, 142, 385 ricorrenza parziale, 45, 97, 119, 120, 152n Riforma protestante, 19 rifunzionalizzazione di costrutti, 79n, 429 ripetizione lessicale, 45 e n, 97, 119, 120, 135, 233n, 256, 291, 397, 406, 407, 414 e n, 418 ripresa, discorsiva, 273-274; - parziale, 45, 68, 226; - verbale, 18, 41, 44, 47, 53, 62, 64; - discorsiva, 273 risolversi, 320 Roma, storia di, 41, 44, 104, 106n, 108, 114-117; plebe e senato, 109; Romolo e Numa, 40n, 117 rovina/esaltazione (Machiavelli), 40 scenario argomentativo (script), 47n, 115 segnali discorsivi, 30, 45, 47, 98n, 120, 121, 175, 191, 204n, 250, 256, 280, 292, 305, 308, 380, 402n, 418, 419, 423 semantica, della connessione, 133; - e sintassi, 122, 153; iperonimi, 113; meronimi, 66 sillessi, 122 similitudini, 112, 210, 211n, 281, 294 sintagmi, 86, 90n, 91, 96, 118, 131, 142, 143144, 151, 212, 299, 318, 382, sintassi, criteri di analisi, 29; - della frase, 136, 144; - del periodo, 122, 143, 153, 166,

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202, 222, 264, 315-317; micro-, 72, 128, 288; morfo-, 136, 231; - mista, 70: - “sintetica”, 163, 212, 300; deviazione della -, 57; sconcordanza della -, 67n; sovrapposizione di costrutti, 69, 123, 124; “errori” di -, 69; - e semantica, 69; isomorfismo tra - e semantica, 68n; - latina, 79, 95, 164, 195, 261n, 274, 304 soggettive, proposizioni con verbo finito, 154-157 - con infinito, 75-76, 214, 260, 319-320 spagnola, lingua, 161, 171, 264, 419n, 425n sprezzatura (Castiglione), 243 stampa, invenzione della, 16 - e storia linguistica, 17 stato (Machiavelli), 40n; stato stretto (Guicciardini), 40n stile, 20, 31, 37-38, 48, 56, 63, 85, 101, 102, 196, 203 e n, 232, 252, 272, 296, 370, 381, 408, 419, 422n, 429; stilemi, 18, 137, 200, 232, 384, 409, 414, 427 subordinazione, vedi: avverbiali, proposizioni; oggettive, p.; soggettive p.; accusativo con infinito; infinitive p.; - a più livelli. 168, 424; - “debole”, 167; - di 2° grado, 73, 93, 139, 158, 163, 166, 175, 215, 259, 263, 264-265, 322-323; - mista, 73, 78, 166, 188, 218, 259, 264, 322; - multipla, 73 e n, 160, 168, 215, 259, 263, 290, 322, 323, 396; profondità della -, 29, 222, 304n, 409; estrazione di un elemento della subordinata, 67n, 74, 140, 168 tamen (lat.) nel volgare, 39n, 291, 342, 405n teatralizzazione, 100n, 115n téléscopage, 49 tema/rema, 138, 140, 381, 382, 385 tema sospeso, costruzione a, 30, 49, 50, 57, 62, 67n, 123, 126, 134, 149, 229n, 367, 410, 414 tematizzazione 88, 98, 99, 126, 136 n, 140, 142, 149, 157, 248, 299, 302; - con quanto a, 134; - del rema, 138 tempi verbali, uso dei: passato remoto, 41n, 58, 70, 131, 313, 315, 345, 349, 368, 427n; trapassato remoto, 147, 205, 232, 349, 352 temporali, proposizioni: - di anteriorità. 348-349; - di contemporaneità, 350-352; - di durata nel tempo, 352; - d’istantaneità, 352-353; - di posteriorità, 349-350 terminologia, linguistica, 24n, 29n, 201 testuale, assetto (o architettura) -, 29, 63, 296, 357; coerenza -, 45, 49, 66n; coesione -, 402; contenitore -, 26n; discontinuità -, 43; incapsulatore -, 296; ordinato-

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indice linguistico e delle cose notevoli

re -, 180; prominenza (o salienza) -, 95, 138; referente -, 119; sequenza -, 96, 118, 120, 250, 254, 363, 382, 398; strategia -, 119; tipo -, 32, 108, 413 testualità; mutamenti nella -, 33; subordinazione testuale, primo piano (foreground), 67, 225; testi misti, 420; gerarchia di strutture, 42, 55n, 119, 125-126, 151, 292, 429; messa a testo, 111; ricomposizione del testo, 109 tipi testuali: - argomentativi, vedi argomentazione; - descrittivi, v. descrizione; - informativi; - narrativi, v. novella; - regolativi, v. cancelleresca, lingua, giuridica, lingua, notarili, scritture titoli dei capitoli, 126 tmesi, ausiliare/participio passto, 300 topics, topicalizzazione, 29, 47n, 118, 136n, 183; vedi anche tematizzazione topologia, 29; interposizione, 30; vedi ordine dei costituenti toscano (varietà ling.), 13, 21, 235, 239, 240n, 281n, 371, 411, 419, 420n, 430; naturalismo -, 38; - e italiano, 200; opposizione al -, 26n; arcaismi del -, 201; codificazione del -, 371; toscanizzazione, 208, 241, 242 vedi anche vocalismo del trattato (genere), 16, 24, 30-33, 39, 49n, 52, 63, 109, 126, 198, 200, 253n, 276n, 281, 371, 406; - dialogo, 276 Urbino, 19, 199, 201, 207, 237, 238, 242, 251, 275, 284

Venezia, 15, 17, 20, 25, 27, 36, 135, 205, 208, 237, 278, 288, 311, 312, 335, 428 valenza del verbo, 39n, 51n, 80, 143, 144, 145n veramente (avverbio), 64, 117 e n, 140-141 verbali forme, con ar- in luogo di -er-, 24; - sintagmi, 107, 359; vedi anche polirematiche verbi a supporto, 369n; - deontici, 59; di dubbio, 331; stare ambiguo, 331; - fattitivi, 144, 350; - inaccusativi, 61, 137, 149n, 193, 366; - iussivi, 160, 167; - di volontà, 78, 144, 159, 261, 263; v. anche valenza verbi reggenti di subordinate: dire, 76, 79, 80, 158, 164, 261, 262; vedere, 78, 79, 80, 81, 156, 165, 261, 263 verbi, tempi: indicativo presente, 58, 130; ind. imperfetto, 58, 131, 159 345, 355; futuro semplice, 58, 131, 348, 354; futuro perifrastico, 144, 146; futuro nel passato, 147, 307, 346, 355; trapassato remoto, 147, 205, 232, 345, 352, 355 virtù/fortuna (Machiavelli), 40 e n, 101-102 visività, 46 e n, 392n vocalismo del toscano, atono, 24, 240; - tonico (dittongamento), 24, 128, 247, 427 volgare, uso del -, 21, 233, 276; standardizzazione del -, 17, 25 volgarizzamenti, 22, 35n, 36, 52, 200, 329n zeugma, 69, 123, 124

Indice degli autori e dei personaggi storici

INDICE DEGLI AUTORI E DEI PERSONAGGI STORICI* Achillini, Giovanni Filoteo, 23n, 201n Alberti, Leon Battista 21, 22, 27, 33, 35, 36, 52, 53, 73, 128n, 131n, 141, 199, 204, 229n, 245, 253n, 258, 261n, 273n, 329n Albizzi, Luca d’Antonio, 105n Alessandro di Afrodisia, 26 Alighieri, Dante, 22, 24, 38, 101, 200, 201, 202, 209 e n, 390, 392, 409, 411 e n, 428, Amaseo, Romolo, 28 Anonimo romano, 34n Aretino, Pietro, 13, 16n, 26, 210, 373, 403, 404-408 Arienti, Giovanni Sabadino degli, 427 Ariosto, Lodovico, 26, 28, 33, 36, 111n, 208, 232, 376,404, 411n Ariosto, Alfonso, 236, 237, 251 Aristotele, 20, 24, 26, 113n, 115, 235, 277, 389, 400 Averroè, 26 Bandello, Matteo, 19, 27, 131, 403, 415, 418, 419, 420-425 Becchi, Ricciardo, 196 Bembo, Carlo, 23n Bembo, Pietro, 13, 18, 19, 20, 23 e n, 25, 27, 28n, 29, 31n, 33n, 35, 36, 37n, 38, 39n, 42, 54n, 57, 58 e n, 72n, 104, 111n, 123n, 128n, 130n, 132 e n, 136, 168n, 175, 194n; Asolani, 3, 15, 16, 21, 23 e n, 27, 29n, 33, 36, 49n, 66n, 132, 199-235, 418, 423; Prose della volgar lingua, 19-20, 27, 199 e n, 200, 202, 208-209, 276, 390; Rime, 17 Beni, Paolo, 29n, 203n, 204, 285, 429 Betussi, Giuseppe, 203, 204, 372 Boccaccio, Giovanni, 18, 19, 21, 22, 23, 27, 39, 53, 57, 59, 130, 132, 175, 199, 202, 203 e n, 205, 207, 209, 225, 230n, 231n, 232, 238, 245; Comedia delle ninfe fiorentine o Ninfale d’Ameto, 202, 207; Decameron, 18, 27, 28, 57, 85, 131, 136, 199, 202, 204, 215, 233, 238, 273, 278, 295, 374, 414, 418n, 422, 426, 429; Fiammetta, 202, 233; Filocolo, 202, 231n, 233 Boiardo, Matteo Maria, 26 e n, 201, 232, 294, 411, 419

Boscán, Juan, 20 Bracciolini, Poggio, 32, 34n, 41 Brancati, Giovanni, 35 Bruni Leonardo, 40, 41, 101, 406, 425n Buonarroti, Michelangelo, 18, 55, 372, 374, 379, 381, 389, 390n, 391, 392, 405n, 409 Burchiello (Domenico di Giovanni), 21 Burton, Robert, 18 Calmeta, Vincenzo, 23n, 25, 201, 209 Cammelli, Antonio (detto il Pistoia), 21 Capponi, Neri di Gino, 102 Capponi, Piero, 288, 289, 310, 330 Carafa, Diomede, 32 Carlo V d’Asburgo (imperatore), 28, 222n Carlo VIII di Francia, 163, 295n, 301, 302, 306, 309, 311, 330 Castelvetro, Lodovico, 25, 200n, 201, 234, 274, 391n Castiglione, Baldassarre, 13, 17, 19n, 24, 27, 35, 36, 42, 56, 111n, 201 e n, 202, 229 e n, 236-281, 286, 288, 370, 374, 377, 390, 404, 407, 422 Caro, Annibal, 373, 377, 381, 395n, 402, 406 Cavalcanti, Giovanni, 34n, 102-103 Cavalcanti, Guido, 39n Cellini, Benvenuto, 13, 57n, 61, 74n, 80, 84, 85 e n, 89n, 90, 371, 377, 378, 391n, 403, 409-410, 428 Cesare, Caio Giulio, 197n, 292 Cicerone, Marco Tullio, 22, 27, 199, 203n. 227, 275, 277, 294n Cinonio (Marcantonio Mambelli), 29n Clemente VII (papa), 28, 208, 315 Collenuccio, Pandolfo, 52, 53, 56 Colonna, Egidio, 32 Colonna, Fabrizio, 106n Contarini, Gaspare, 40n, 294n Corbinelli, Jacopo, 24n Cortese, Paolo, 22, 239, 281 Costo, Tommaso, 425 e n Della Casa, Giovanni, 29n, 222, 377 Dolce, Lodovico, 29n, 243, 334n, 387, 389n, 391, 397n, 406 e n, 408

* In questo indice compaiono i nomi degli autori e dei personaggi storici più importanti citati nel saggio; i nomi che ricorrono negli esempi non si riportano se non in casi particolari

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indice degli autori e dei personaggi storici

Doni, Anton Francesco, 17, 27, 210, 236n, 391, 403, 406, 413-419 Du Bellay, Joachim, 20 Equicola, Mario, 23 e n, 27, 201, 203, 208, 242 Erodiano, 43 Filelfo, Francesco, 406 Firenzuola, Agnolo, 403, 415-419 Florido, Francesco, 28 Foglietta, Umberto, 28 Folengo, Teofilo, 13, 25, 201, 403, 410-412 Fortini, Pietro, 403, 420n, 426-427 Fortunio, Giovan Francesco, 23n, 72n, 200, 208, 428 Franco, Nicolò, 26 Galilei, Galileo, 24, 58n Gelli, Giambattista, 24, 38n, 234, 235n Giambullari, Pier Francesco, 24, 25n, 29n, 38n, 133n, 235n, 373 Giovanni da Capua, 419n Giraldi Cinzio, G., 48n, 421, 425 Giulio II (papa), 40n Guicciardini, Francesco, 13, 16, 27, 36 e n, 40n, 41, 42, 54 e n, 55n, 56, 57n, 61, 83, 85, 100n, 108, 130n, 166, 170n, 203n, 208, 237, 258, 282-371, 389, 390, 396n, 397, 401n Hegel, G. W. F., 101 Lasca (A. F. Grazzini), 419, 425 Lascaris, Costantino, 199 Lenzoni, Carlo, 24, 38n Leonardo da Vinci, 21n, 373, 374, 378, 379, 387n, 389, 391n, 392 e n Leone X (papa), 19n, 199, 315n Leone Ebreo, 203 Leopardi, Giacomo, 38, 67n, 79n, 204, 206n, 232, 285 e n, 371, 406, 430 Liburnio, Niccolò, 23 e n, 35, 411n Linacre, Thomas, 29n, Livio, Tito, 13, 20, 32, 34e n, 101n, 103, 104-198, 203n, 251, 284, 285, 294, 325 Lodovico il Moro, 19 Luciano di Samosata, 16n, 35, 275, 407 e n Lutero, Martin, 19n Machiavelli, Niccolò, Arte della guerra, 19, 29; Dialogo intorno alla nostra lingua, 32, 38, 57, 200 e n; Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, 16, 20, 104-198; Ghiribizzi al Soderino, 101 e n, 197; Mandragola, 33, 34, 51, 60n, 68n; Principe 13, 16, 19, 20, 24, 27, 29n, 31-103, 105 e n, 109, 110, 112, 113, 114, 115 e n, 116, 118, 122, 123, 135, 152, 176n, 177, 178, 193, 195, 196, 197, 198; Rapporto delle cose della Magna, 101 Macinghi Strozzi, A., 97n

Majo, Iuniano, 32 Malespini, A., 425n Manuzio, Aldo, 17n Marco Aurelio (imperatore), 43 Marcolini da Forlì, Francesco, 17, 408 Masuccio Salernitano (Tommaso Guardati), 416, 418 e n, 427 Medici Lorenzo de’ (il Magnifico), 15, 21, 22 Medici Lorenzo di Piero de’, 32 Medici Piero di Cosimo de’, 35 Melantone (Philippus Melanchthon), 20n Minerbetti, Giovanni, 102 Morlini, Gerolamo, 403, 425-426 Orazio, Flacco Quinto, 26 Palmieri, Matteo, 40, 52, 53, 56 Panofsky, E., 16 Passavanti, Iacopo, 203n Patrizi, Francesco, 32 Petrarca, Francesco, 13, 16n, 18, 20, 22, 23, 26, 27, 28, 43, 130n, 132, 199, 201, 208, 209, 229, 232 e n, 233, 235n, 402, 411n, 428 Piccolomini, Enea Silvio, 32n Pico della Mirandola, Giovanni, 199 e n, 239 Platina (Bartolomeo Sacchi), 32 Platone, 16n, 35, 202, 247, 275, 407 Plinio il Vecchio, Gaio Secondo, 35e n, 389 Plutarco, 127 Polibio, 104 Poliziano (Agnolo Ambrogini), 129, 130, 199, 200n, 233, 239, 406 e n Pontano, Giovanni, 32, 277 Pulci, Luigi, 22, 23, 26, 411 Raπaello, Sanzio, 56 Robortello, Francesco, 26n Ronsard, Pierre de, 20 Rosso Fiorentino (Giovan Battista di Jacopo di Gasparre), 55 Ruzante (Angelo Beolco), 26n Sabellico, Marcantonio (Marcantonio Coccio), 22 Sacchetti, Franco, 276n, 427 Sachs, Hans, 20 Salviati, Lionardo, 23, 25, 28, 39, 47n, 48, 65, 114, 133, 233n, 235n, 239, 390n Sannazaro, Iacopo, 15, 33 e n, 36, 199, 208n Sansovino, Francesco, 26n, 234, 374, 406n, 414, 416 Sarpi, Paolo, 20, 428 Savonarola, Gerolamo, 32, 104, 196 e n, 288, 311, 313 e n, 363, 409 Scroπa, Camillo, 25

indice degli autori e dei personaggi storici Sercambi, Giovanni, 21 Sermini, Gentile, 427 Sidney, Philip, 20 Sigonio, Carlo, 28 Soderini, Francesco, 105n Soderini, Piero, 290n Soderini, Giovan Battista, 101 e n Spenser, Edmund, 20 Speroni, Sperone, 28, 234, 235, 274 e n, 286 e n, 401n, 404, 429 Straparola, Giovan Francesco, 403, Sultzbach, Johannes, 17 Tacito, Cornelio, 48, 65, 144 Tasso, Bernardo, 16n Tasso, Torquato, 41n, 234, 248n, 274, 275 e n, 377, 407, 429

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Trissino Giangiorgio, 23, 24 e n, 35, 38, 209, 242 Valentino, Il (Cesare Borgia), 44, 96, 101n, 295, 313, 314 Valeriano Pierio, 23n, 35 Valla, Giorgio, 26n, 204 Varchi, Benedetto, 22-23, 25, 26, 57n, 133, 199n, 201, 210n, 232, 276n, 325, 389, 390-402, 409 Vasari, Giorgio, 13, 55 e n, 56, 57n, 364, 372-389 Vega, Garcilaso de la, 20 Vega, Lope de, 421 Vettori, Francesco, 175, 200 Virgilio Marone, Publio, 22, 199, 222, 224, 251, 425

Indice degli studiosi

INDICE DEGLI STUDIOSI* Acquaviva, P., 164n Acquilecchia, G., 405n Adam, J.-M., 19n, 45n, 47n, 98n, 111, 118n, 120n, 125, 312n, 403n Adorno, Th. W., 49 Afribo, A., 235n, 401n Ageno, F., 61n, 130n, 147 e n, 150, 209n, 333n, 355n, 386n. Agostini, F., 91n Aguzzi Barbagli, D., 243n Albelda Marco, M., 97n, 414n Alfano, G., 28 Alhaique Pettinelli, R., 243n Altieri Biagi, M. L., 16n, 57n, 274, 404n, 409 e n, 410 Amossy, R., 113, 116n, 139n, 178 n, 342n Andersen, H.L., 153n Anselmi G. M., 16n, 27n, 40n, 289n, 411n Antonelli, G., 67n, 123n Apel, K. O., 18n, 22 Ariani, M., 25n Atayan, V., 31n, 113, 116n Authier-Revuz, A., 301n, 414n Bachtin, M. M., 36 e n, 48n Baldassari, G., 26n, 406n, Baratto, M., 26 Barbarisi, G., 291n Barbera, M., 338n Bàrberi Squarotti, G., 86, 291n, 370n Barbet, C., 96n Barocchi, P., 243n, 372n, 374n, 375n, 378n, 389, 390n, 391 e n, 396n, 399n, 400n Battaglia Ricci, L., 17n Bausi, F., 34n, 43n, 47n, 58n, 60n, 61n, 63, 65n, 69n, 73n, 80, 123, 125, 147, 233n, 283n, 295, Bazzanella, C., 114n Beaugrande, de, R. A., 120, 126, 160 Bec, Chr. 15n, 112n Belletti, A., 254n, 357n, 358n Belloni, G., 15n, 25n Benincà, P., 83n Benveniste, É., 98n, 105n, 292n, 295n Berra, C., 29n, 204 e n, 207n, 208, 211n, 291n Berrendonner, A., 90n, 350n

Berretta, M., 68 e n Berthoud, A.-C., 126n, 134n Bertin, A., 152 Bertinetto, M., 147n Besomi, O., 424n Bettarini, R., 372n, 374n, 378n Bianco, F., 90, 190n, 348n, 349n, 350, 353n, 356 Blanche-Benveniste, C., 30n, 85n, 142n, 225n, 315n, Bobbio, N., 310n Bochnann, K., 21n Bodelot, C. 78n, 171n Bologna, C., 200n Bonora, E., 411n, 415n Borillo, A., 90n Borsellino, N., 278n Bosco, U., 16n, 407, 411n Boucheron, S., 301n Bozzola, S. 49n, 57 e n, 68, 136, 203n, 225, 248n, 263n, 275n, 299n, 403n Bragantini, R., 17n, 25, 26n, 29n, 277n, 405n, 415n, 416n, 421n Branca, V., 334 Bres, J., 293n Bruni, F., 36n, 40n, 296n Bruscagli, R., 200, 415n Buonmattei, B., 29n Burckhardt, J., 15, 21n Burdach, K., 20n Burke, P. 15n, 17n, 18, 372n Cabrini, A. M., 102n, 120n, 283n, 284, 291n, 292n, 296n Camesasca, E., 21n Cantimori, D., 20n, 282n, 284n, Cappi, D., 93n Caputo, V., 386n Cardini, F., 35n Cardona, G., 17n Carducci, G., 418n Carella, A. 276 Carrai, S., 22n Casale, V., 372n Cassiani, C., 236n, 282, 295n Castellani Pollidori, O., 276n, 280n Castellani, A., 42n, 60n, 129n, 240n, 241n, 427

* Il presente indice è selettivo: restano di norma esclusi i nomi di studiosi citati per puro rinvio bibliografico.

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indice degli studiosi

Cella, R., 200n Cernecca, D., 64n Chabod, F., 40n, 105n Charaudeau, P., 48, 105n, 113n Charolles, M., 29n, 183, 272n Cherchi, P., 413n Chiappelli, F., 37, 39n, 47n, 48 e n, 57n, 59, 63 e n, 64, 65 e n, 68, 71, 72, 83, 84n, 85 e n, 87n, 92n, 98n, 121, 123, 178n, 414 Chiesa, M., 411n Cian, V., 236n, 242n, 279n Cicchetti, A., 409n Ciccuto, M., 313n Cignetti, L., 45n, 141n, 142n, 301n Cinque, G., 83n Colella, G., 91n, 92n, 93n, 148, 189n, 190n, 256, 353n Colombo, A., 108n, 115n, 122, 126n, 140n, 171n, 175 Coltier, D., 293n Coluccia, R., 35n Colussi, D., 363n Comanducci, R. M., 112n Combettes, B., 19n, 176, 277n Consales, I., 87n, 152n, 342n Contini, G., 28n, 411 e n Cordié, C., 236n, 411n Cortelazzo, A. M., 164n Cottino-Jones, M., 420n Croce, B., 28n, 32n, 411n Croft, W., 127n, 225n Cruse, D. A., 127n, 225n Cutinelli Rèndina, E., 100n, 105n, 283n, 286, 287, 288n, 289n, 290 e n, 294 D’Achille, P., 41 e n, 66n, 140n, 372n, 423n D’Arienzo, M., 88n, 345n D’Onghia, L., 28, 405n, 406 Daniele, A., 411n, 412n Dardano, M., 19n, 30n, 39n, 41n, 51n, 73 e n, 79n, 81n, 153n, 242n, 253n, 329n De Blasi, N., 404n De Caprariis, V., 284n De Caprio, C. 69n, 241 De Meijer, P., 33n De Robertis, T., 40n De Roberto, E., 82n, 119n, 225n, 333n, 337n De Sanctis, F., 31, 55n, 204, 233 e n, 281, 284, 285, 286n, 407 De Santis, C., 358n Delaveau, A., 153n Dendale, P., 293n Despierres, C., 34n Digregorio, R., 348n, 352n

Dilemmi G., 204, 205n, 207n, 247n Dionisotti, C., 23 e n, 32, 33, 34, 35, 36, 46, 108, 199n, 200 e n, 201, 203, 204, 208 e n, 219 e n, 221n, 223n, 232 e n, 233 e n, 241, 377, 411 Dotti, U., 32n, 197 e n Doury, M., 111n Dressler, W. U., 120, 126, 160 Drusi, R., 15n, 25n, 201n, 242n Ducrot, O., 98n, 105n, 112n, 116n Dufiet, J.-P., 404n Durante, M., 23 n, 24n, 68n, 98, 241, 390, 398 Egerland, V., 94n, 154n Eggs, F., 356n Elam, K., 404n Elgenius, B., 343 e n, 344n Ernout, A., 297n, 329 Fachard, D., 34, 40n, 63n, 101n, 105 Faithfull, R. G., 29n Fava, E., 81n Favart, F., 408 Fedi, R., 15n, 18n, 20n, 26n, 35n Ferrari, A., 79n Ferroni, G., 58n, 295n, 408 Fido, F., 37 Figorilli, M. C., 236n, 282, 295n Firbas, J., 136 Flora, F., 407, 408, 421n, 422 Floriani, P., 208n, 238n, 283n Folena, G., 30n, 48, 51n, 65, 73, 201, 241, 405, 411, 412n Formentin, V., 24, 133n, 205n, 210n Fornara, S., 29n., 334n Fournel, J.-L., 19n, 36n, 38n, 68n, 101n, 196n, 294n, 370n Franceschini, F., 60n, 100n, 121 Frédéric, M., 45n, 97n Frenguelli, G., 30n, 63n, 84n, 86n, 108n, 298, 338n, 340n, 344n Freyermuth, S., 36n Frosini, G., 34, 37n, 128n Fubini, M., 283n, 284 e n, 285, 286n, 288, 290n, 302, 325, 339n Furlan, F., 35n Gaatone, D., 78n, 153n, 154n, 171n Gardes Tamine, J., 136n, 142n, 143, 176 Garin, E., 15n, 20n, 203n, 374n, 375n, 406n. Gât,a˘, A., 116, 295n Gazzeri, C., 232n Geerts, W., 27n Genette, G., 283n Genovese, G., 16n, 44n

indice degli studiosi Gensini, S., 400n Gentile, S., 416n Getto, G., 421 e n Gherardi, A., 282n Ghinassi, G., 22, 51, 58, 69n, 73, 236 e n, 237, 241, 242n, 243, 273n, 409 Giannelli, L., 28n, 29n Gilbert, F., 54n, 58n, 282n, 291n Giovanardi, C., 23n, 201n, 242 e n, 404n Girardi, R., 27n Girotto, C. A., 236n Giusti, G., 338n, 340n, 348n Givón, T., 47n, 119 Godard, D., 136, 144 Goπman, E., 112 Gorni, G., 238n, 242 Grandi, N., 71n, 136n, 150n Grayson, C., 33 Grice, H. P., 114 Gualteruzzi, C., 201 Guglielminetti, M., 202, 283 e n, 284n, 286, 292n, 373n, 374n, 378 e n, 401 n, 409 n, 415n, 416 n, 418 n, 426 Guidi, A., 31n Guidi, J., 238n, 277n Guillemain, B., 43-44 Guimier, C., 41n, 173 Hanning, R. W., 238n, 283 Hempfer, K. W., 33n Herczeg, G., 43, 63 e n, 70, 423n Herrero Ruiz de Loizaga, F. J., 171 e n Hofmann, J. B., 79n, 82n, 365 Hühn, P., 404n Hybertie, Ch., 341n, 345n Inglese, G., 34, 37n, 38, 43, 57 e n, 63, 64n, 65, 69, 109 e n, 111 Jackendoπ, R., 328n Jamrozik, E., 118n, 420n Jeandillou, J.-F., 112, 113, 116n, 118n Jeay, M., 405n Jezek, E., 51n, 144n Jodogne, P., 292n Kaufman, T., 315n Kerbrat-Orecchioni, C., 19n, 238n, 304n, 391n Klarer, M., 386n Kleiber, G., 118n, 223n, 337n Koban, F. I., 68e n, 314n, 351n Koch, P., 66n, 151n Koenisberger, H. G., 15n, 58n, Lamiroy, B., 29n, 272n Larivaille, P., 17n, 105n, 405n, 407 Lausberg, H., 31n, 139n, 342n Lauta, G., 81n, 106n

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Lazzerini, L., 26n, 411n, 412n Le Go√c, P., 63n Le Mollé, R., 373n Le Querler, N., 177n Lebsanft, F., 292n Lévrier, F., 118n Lisio, G., 30n, 57n, 65, 69, 123 Lo Cascio, V., 45n, 116 Longhi, J., 48n Lonzi L., 140n Loporcaro, M., 194n, Mäder, R. Chr., 90, 350 Magro, F., 26n, 67n, 160n, 297n, 304n, 401n Maier, B., 236n, 243n Maingueneau, D., 105n, 113n, 115 e n, 116 en Manni, P., 36, 58, 132n Manzotti, E., 90n, 93n, 190n Marandin, J.-M., 41 Maraschio, N., 334n, 404n Marazzini, C., 24n, 28n, 334n, 390n Marchand, J.-J., 37n, 100n, 198, 283n, 284 Marini, Q., 415n Marra, M., 70 Martelli, M., 15n, 34, 38, 40n, 47n, 48, 50 e n, 57 e n, 60n, 65n, 66n, 67, 69, 71n, 72n, 76n, 79n, 88n, 93n, 97n, 98n, 101, 104, 105n, 123, 128, 386n, 425 Marti, M., 199n, 233n, 247n Matarrese, T., 368n Matt, L., 27n Matteucci, N. 37n Matthews, P. H., 304n Mauriello, A., 420n, 426n, 427 Mazzacurati, G., 15n, 31n, 199n, 201n, 202, 205n, 209 e n, 235n, 238n, 405n, 415, 422n Mazzoleni, M., 92n, 189n, 339n, 342n, 353n Mazzucchi, A., 108n Medici, D., 16n Meinecke, F., 32n Menetti, E., 19, 421n, 422n Menge, H., 253 Mercuri, R., 243n Meyer, M., 40n Migliorini, B., 28, 129 Moirand, S., 111n Molinelli, P., 152n Molinier, Chr., 118 Monte, M., 179 Morgana, S., 232n Mulas, L., 277n

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indice degli studiosi

Muller, C., 41n, 151n, 153n, 161, 171n, 257 Munaro, N., 81n Negrato, C., 294n Negri, A. M., 391n Nencioni, G., 28n, 36, 56, 57n, 209, 233, 285 e n, 287, 302, 315, 374n, 378, 396n Nesi, A., 200n, Neuschäfer, H. J., 416n Neveu, F., 304n Nigro, S. S., 421n, 422n, 423n Nølke, H., 46n, 141n, 181n Norden, E., 232 Oesterreicher, W., 66n Olbrechts-Tyteca, L., 310n Ordine, N., 16 n, Ossola, C., 277n Paccagnella, I., 29n, 238n, 411n Pacella, G., 38 Palermo, M., 36, 42n, 45n, 61n, 99, 119, 140n, 160 Paltridge, B., 19 Panigada, C., 282n Panofsky, E., 16, 377n Paolini, P., 32 Parodi, E. G., 410-411 e n Pasquali, G., 35 Pasquini, E., 283n, 418n Paternoster, A., 243n, Patota, G., 72n, 81n, 120n, 121, 177n, 199n Patrizi, G., 378 e n 379n, 442n, 423n Pellizzari, P., 413n Pelo, A., 90n, 91n, 357n Perelman, Ch., 235, 310n Perocco, D., 420n, 421n, Peruzzi, E., 38 Pescarini, D., 72n, 123n Petitjean, A., 408 Petteruti Pellegrino, P., 243n Philippe, G., 176n, 179 Pierrard, M., 160 Pignatti, F., 275, 407n Pincin, C., 40n Piot, M., 151n Pirazzini, D., 31n Pirotti, U., 201, 401n Pirovano, D., 420n Plantin, Chr., 115 Poggi Salani, T., 200n Poggiogalli, D., 29n Pop, L., 48n, 49n, 66n, 67n, 68, 152 Porcelli, B. 418n, 420n, 421n, 422n Pozzi, M., 32, 39n, 199n, 201, 203n, 205, 209n, 211n, 224n, 238n, 274n, 283n, 301n, 342n, 404n

Prandi, M., 92n, 151n, 153n, 154, 157, 182, 185, 345n Previtali, G., 378n Procaccioli, P., 17n, 26n, 404n, 405n Quondam, A., 236n, 237n, 238 e n, 241 e n, 247, 276, 281n, 283, 408 Rabatel, A., 98n, 139 Ragghianti, C., 377 Ragni, E., 418n Raimondi, E., 40n, 377 Rajna, P., 241 Ranke (von), Leopold, 282 Rati, M. S., 78n Renseelaer, W. L., 392n Renucci, P., 18n Ricci, A., 67n, 206n, 242 Ricci, C., 372n Ricci, L., 23n, 72n, 242n Riccò, L., 378, 379 e n Richardson, B., 17n, 208, 334n Ridolfi, R., 282n, 283n, 289n Riegel, M., 152, 175, 189n, 254n, 354n Rigon, A., 299n, 302n, 318n, 337n, 345n Rinaldi, R., 16n, 18n, 22n, 23, 34, 46n, 101 e n, 109 e n, 111n, 188, 291n, 310n Rivara, R., 218 Rivière, J.-M., 370n Rizzo, S., 273 Roggia, C. E., 41n, 68n, 136 Rohlfs, G., 128, 129, 131 Romanini, F., 18n, 420n Roncaccia, A., 40n Rosand, D., 238n, 283 Rubinstein, N., 40n Russo, L., 31, 64, 198 Salvi, G., 72 Sapegno, M. S., 286 e n, 288n, 295, 311n Sapegno, N., 243, 281n Sasso, G., 101n, 104 e n, 105n, 108n, 196, 197 Sasso, G., 32n, 101n, 104 e n, 195n, 108n, 196n, 197 e n Scarano Lugnani, E., 283 e n, 286, 338n Scavuzzo, C., 24n, 37n, 39n, 59n, 88n Schlieben-Lange, B., 277n Schmitt, Chr., 393n Schøsler, L., 369n Schrott, A., 292n Schwarze, Chr., 91n Scrivano, R., 234, 377n, 408n Segre, C., 23n, 35, 57n, 65, 79n, 164n, 205n, 208, 242, 281n, 387n, 403n, 404, 410n, 411n Seidel Menchi, S., 54n, 282, 340n, 367

indice degli studiosi Seiler, S., 194n Serianni, L., 39n, 59, 89n, 91n, 154, 185, 241, 285n, 303, 355n, 359n Siekiera, A., 402n Skytte, G., 35n, 62n, 153n Sorella, A., 400n Stefanelli, R., 90n Stein, A., 140n Steinbrick, B., 31n Stussi, A., 28, 231n, 420n Szantir, A., 79n, 82n, 365 Tanturli, G., 373n Tateo, F., 35n, 254n, 375, 378, 406n, 409n Tavoni, M., 21, 131n, 132n Tavosanis, M., 199n, 210n, 232n Telve, S., 30n, 63n, 69n, 76, 80, 92n, 147n, 150 Tesi, R., 23n, 24n, 26n, 29n, 35, 47n, 73n, 79n, 146n, 204n, 208n, 229n, 232n, 427n Testa, E., 404n Thomas, F., 297n, 329 Thomason, S. G., 315n Tinkler, F., 35n Toπanin, G., 281n Tomasin, L., 140n 242n, 409n Tonna, G., 411n Topolski, J., 43 Toulmin, S., 111n Trifone, P., 16n, 63n, 242, 403n, 404n.

471

Trips, C., 140n Trolli, D., 58, 59, 66n, 79n, 80, 82n, 92, 128, 130n, 169n, 181n, 240, 367, 368 Trovato, P., 15n, 16n, 17n, 27, 33, 38 e n, 54n, 132n, 200n, 201, 233, 282, 283, 367 e n, 420n Tucci, I., 142n Tuttle, E., 404n Ubersfeld, A., 115n Ueding, G., 31n Ulleland, M., 157, 178n, 189, 219 Valente, S., 48n Vecce, C., 22n, 33n, 199n, 208n, 392n Vela C., 209, 210 Verjans, Th., 30n, 151n, 153n, 318n, 331n Vetters, C., 306n Villani G., 426n Vitale, M., 23n, 25n, 28n, 38n, 57n, 201n, 241, 281n, 402 Walton, 115n Weise, G., 373n Zaccarello, M. 278 Zaggia, M., 411n Zanato, T., 26n, 419n Zancarini, J.-C., 19n, 36n, 101n, 283n, 370n Zennaro, L., 340n, 348n Zorzi Pugliese, O., 237n, 278n Zublena, P., 29n, 30n, 91, 211, 377, 399n

c om p osto in carat t ere baskervi lle s er r a da lla fa bri zio serra edit ore , p i s a · rom a . impresso e ril egato in i ta li a n ella tipografia di agnano, agna no p i s a no (p i s a ).

* Settembre 2017 (cz2/fg13)

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I TA L I A N A p e r l a st o r i a de lla li n g u a s cri t t a in i t al ia c olla na dir e tta da luca s erianni * 1. M. L. A ltieri B iagi , Fra lingua scientifica e lingua letteraria, 1998, pp. 272. 2. P. T rifone , L’italiano a teatro. Dalla commedia rinascimentale a Dario Fo, 2000, pp. 180. 3. G. A ntonelli , Tipologia linguistica del genere epistolare nel primo Ottocento. Sondaggi sulle lettere familiari di mittenti colti, 2003, pp. 274 4.  D. C olussi , La grammatica e la logica. La lingua e lo stile di Benedetto Croce, 2007, pp. 368. 5. C. F abrizio , Idee linguistiche e pratica della lingua in Giovanni Gentile, 2008, pp. 108. 6. C. S cavuzzo , Un modello di prosa d’arte. L’italiano di Emilio Cecchi, 2011, pp. 216. 7. F. M agro , L’epistolario di Giacomo Leopardi. Lingua e stile, 2012, pp. 332. 8. M. O rtore , La lingua della divulgazione astronomica oggi, 2014, pp. 268. 9. M. S. R ati , Aπermare e negare nella storia dell’italiano, 2015, pp. 244. 10. M. D ardano , La prosa del Cinquecento. Studi sulla sintassi e la testualità, 2017, pp. 480.

FABR I ZIO SER RA EDI TORE P I S A · ROMA

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