La canzone nel primo Cinquecento. Metrica, sintassi e formule tematiche nella rifondazione del modello petrarchesco

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La canzone nel primo Cinquecento. Metrica, sintassi e formule tematiche nella rifondazione del modello petrarchesco

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L’Unicorno Collana di testi e di critica letteraria diretta da Luigi Blasucci n° 31

Questo volume è stato realizzato con il contributo del Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari dell’Università di Padova.

© Copyright ebook: 2015 maria pacini fazzi editore Via dell’Angelo Custode, 33 - 55100 Lucca www.pacinifazzi.it [email protected] Printed in Italy Proprietà letteraria riservata

isbn 978-88-6550-034-7

gAiA gUiDoLin

LA CAnzone neL Primo CinQUeCento metrica, sintassi e formule tematiche nella rifondazione del modello petrarchesco

maria pacini fazzi editore

PreSentAzione

il volume che qui si presenta muove da un’idea istituzionale di stile e di metrica, e proprio per questo viene incentrato su un insieme di autori – ragionato con argomenti persuasivi dall’Autrice nelle sue pagine introduttive. Possiamo discorrere di metrica e stilistica dei corpora, o se si vuole degli istituti, che interagisce, divenendone segno, con il dato culturale (talché il libro può concludersi sull’influenza della «cultura umanistica» nella canzone del primo Cinquecento). in questa prospettiva, viene approfondita, rispetto ai precedenti, una via che potremmo definire «integrata» della metrica italiana, secondo indicazioni che vengono dai suoi riconosciuti maestri (da mengaldo a Praloran, ripetutamente citato), ma che non avevano ancora trovato riscontro in una ricerca sistematica e appunto istituzionale (non un autore, non un testo, ma una forma): la metrica – e qui più specificamente la forma-canzone – è osservata in quanto principio formale che agisce a livelli vieppiù profondi del testo, fino a determinarne le dinamiche argomentative e gli orientamenti tematici. il libro sembra in tal senso seguire una linea progressiva, secondo un grado crescente di complessità e di implicazione del dato nudamente metrico (gli schemi di canzone e il loro rapporto con i Rerum vulgarium fragmenta, cap. 2), prima con la sintassi (cap. 3), poi con le strutture argomentative (cap. 4), fino alla sua proprietà (iuxta Petrarca) di veicolare nuclei semantici (se non proprio psicologici), cioè la sua «vischiosità» (cap. 5): secondo l’idea, appunto, che la forma non sia un recipiente passivo, ma il vettore dei procedimenti costruttivi e delle dinamiche contenutistiche. ma subito tra le osservazioni più tecniche concernenti gli schemi di canzone, gaia guidolin può inquadrare, ad esempio, l’imitazione ravvicinata e quasi pedissequa di Sannazaro degli schemi petrarcheschi nell’idea 5

prospettica e culturalmente ricca del «cimento tutto umanistico dell’imitazione e dell’aemulatio». oppure osservare, nelle canzoni contenute nella silloge bembesca delle Rime, come la riduzione di Petrarca nel primo petrarchismo cinquecentesco prenda qui la forma della riduzione della canzone al sonetto, la cui quartina è arieggiata nelle movenze d’attacco del metro maggiore privilegiate da Bembo. Da cui la deduzione della scarsa capacità del veneziano di «maneggiare e dare impulso alla dialettica interna di una forma lirica lunga»: poeta poco dialettico, cioè poeta di sonetti e non di canzoni? che sarebbe un tradimento alla seconda potenza di Petrarca: nel quale, si sa, l’opposizione tra le due forme non è così netta, ed egli può essere «dialettico» e stratificato anche nello spazio ridotto e prevedibile del metro più breve. Potremmo seguitare, suggerendo al lettore ad esempio la novità che, ancora nel capitolo sugli schemi metrici, consiste nella valutazione della loro posizione nel libro: come si vede nelle osservazioni dedicate a trissino, che inaugura la propria raccolta di rime con strutture autorizzate da Petrarca e consolidate, ma la chiude con esperimenti di una forma precoce ed embrionale di «canzone libera» o semilibera: «estremi di escursione latamente metapoetica» – scrive la guidolin – che fanno da pendant alla ben nota esposizione teorica del vicentino. o ancora, nel capitolo dedicato a Metrica e sintassi, viene indicata proprio in questa prospettiva la peculiarità della canzone cinquecentesca rispetto alla sua tradizione umanistica (già studiata da Balduino e Santagata), peculiarità che inutilmente si cercherebbe nella foggia esteriore della strofa o del verso. e i fenomeni e le strutture, qui e ovunque, sono sempre riportati ad un confronto ravvicinato con Petrarca, oggetto secondo del libro e diciamo pure suo deuteragonista, cui sono destinate pagine di analisi che saranno di prima utilità anche già solo a chi vorrà capire di più della canzone nei Fragmenta. ne esce un’interpretazione complessa e organica della forma canzone, nella quale la metrica, nella sua evidenza tecnica come nei suoi dettagli più sottili, diviene il luogo del testo da cui si dipartono e verso cui ritornano le sue diramazioni nervose. L’impianto dicotomico e banalmente riflesso dell’interpretazione classica della forma poetica, che cercava nel metro il corrispettivo dei contenuti del testo, viene così sovvertito e anzi proprio superato. il lettore potrà derivarne una grande ricchezza di informazioni e la persuasiva ricostruzione storica di un momento cruciale della lirica italiana. Sergio Bozzola 6

Pensando a come congedare questo lavoro, mi sono ritrovata a considerare, in consonanza con la temperie culturale degli argomenti trattati, che l’esito di questa, come di qualsiasi altra ‘impresa’, non deriva sempre e solo dalla ‘virtù’ di chi la compie, ma piuttosto da come essa, trovandosi a convergere con la ‘fortuna’, sia stata messa a frutto. È in tale prospettiva che desidero menzionare con riconoscente consapevolezza quali sono state le circostanze fortunate e gli incontri proficui che mi hanno permesso, al di là di ogni mia aspettativa, di portare a termine questo libro, che nasce dalla revisione e dall’ampliamento della mia tesi di laurea, discussa a Padova nell’anno accademico 2006/2007. Ringrazio, pertanto, coloro che mi hanno aiutata in questi anni incoraggiandomi a definirne il progetto, ad attuarlo e a precisarlo: primo fra tutti il mio maestro, il prof. Sergio Bozzola, al quale devo non soltanto l’idea di affrontare un argomento così ambizioso, ma anche un vivo senso di gratitudine per avermi seguita con disponibilità e per avermi spronata pazientemente; il prof. Andrea Afribo, il prof. Pier Vincenzo Mengaldo, il prof. Marco Praloran, il prof. Franco Tomasi e il dott. Emilio Torchio che hanno letto nella fase iniziale questo saggio o parte di esso e mi hanno fornito numerosi e utili consigli per integrarlo e migliorarlo. Ringrazio, infine, il prof. Luigi Blasucci per aver voluto accogliere il volume in questa collana e per averne curato le fasi della pubblicazione per conto dell’editore. Con affetto consegno questo scritto nelle mani della mia famiglia, di Gabriele, Rachele ed Angela, ai quali mi legano quei sentimenti sinceri e profondi che spesso rimangono silenziosi o impliciti ma che, certo, oltrepassano l’occasione di una semplice dedica. Padova, marzo 2010 7

introDUzione

nei primi decenni del XVi secolo, periodo cruciale per la ricollocazione dei confini del petrarchismo lirico, la canzone, assieme ad altri metri chiusi, ma forse più di quanto accada per il sonetto, la ballata e la sestina, attraversa un momento di passaggio decisivo ed è animata da un estremo moto di reviviscenza, che si rivelerà covare già in sé i germi di un rapido declino, se è vero che torquato tasso deve essere reputato l’ultimo grande interprete di tale forma. Consacrato dalla teorizzazione dantesca a più alta espressione del fraseggio lirico e canonizzato in un ampio ventaglio di soluzioni morfologiche e di intonazioni dai Fragmenta, agli occhi dei cinquecentisti, che si assumono il compito di depurarlo dalle scorie accumultesi nell’esperienza della poesia cortigiana per riqualificarlo secondo gli intendimenti del maestro Petrarca, questo metro si mostra in tutta la sua complessità e dotato di una serie ben definita di caratteristiche che sembrano collidere con le nuove tendenze in atto nella lirica coeva. mentre si preparano l’affermazione e il successo di forme progressivamente sempre più svincolate da coercizioni di misura – è al Cinquecento, al di là di precisazioni archeologiche, che si fanno risalire l’inizio autentico della storia degli sciolti, così come la progressiva disgregazione che porta il madrigale da forma a modulo ternario a forma ‘libera’ e la dissoluzione delle partizioni interne alla strofa di ballata – per completare una sincera imitatio dello spirito tematico e stilistico del Canzoniere, oppure, sul versante opposto, per ridisegnare la fisionomia della poesia italiana su basi di più stretto classicismo, seguaci e antagonisti di Bembo non possono relegare in un angolo della loro officina poetica il congegno metrico tradizionalmente più autorevole. ragion per cui, seppure in tentativi isolati, 9

seppure con la già matura convinzione di doversi subito dopo rivolgere a misure diverse, nessuno si esime dal confronto con la canzone, ora per scrivere dei versi in un’occasione solenne, ora per licenziare una raccolta con le dovute credenziali di autorevolezza o di canonicità. Dunque, come si possono interpretare le ragioni di una forma che fa della compattezza una delle sue peculiarità individuanti, una forma necessariamente lunga ma chiusa, costituita da moduli replicabili ma non comunicanti tra loro, ampia ma provvista in ogni cellula strofica di ulteriori suddivisioni interne che tenderebbero ad irregimentare il discorso in porzioni di durata limitata? e poi, accettate le regole del gioco e riconosciuta la possibilità di scarto su di un diverso piano, magari nella dialettica tra metrica e sintassi, in che modo è possibile gestire l’eredità petrarchesca di formule argomentative e di temi che sembrano vischiosamente associati alle testure? e, in un atteggiamento di ossequio al modello, quali sono i margini di intervento per rifunzionalizzare il bagaglio acquisito al servizio dell’omaggio e della celebrazione, strumenti affatto necessari per un poeta nella società delle corti? La compresenza problematica di questi interrogativi nutre la riflessione e le sperimentazioni cinquecentesche sulla canzone, il cui profilo cercherò di delineare nei capitoli seguenti mediante la selezione di una campionatura significativa di testi (cap. 1) e la loro successiva disamina dal punto di vista metrico (cap. 2), metrico-sintattico (cap. 3), argomentativo (cap. 4) e intertestuale (cap. 5 e 6).

il capitolo 3, qui riadattato, ampliato con analisi effettuate su una compagine testuale più ampia e variegata e arricchito da esempi e nuove considerazioni, è stato anticipato in «Stilistica e metrica italiana», Viii, 2008, pp. 107-152.

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i iL CORPUS teStUALe

1.1 Selezione degli autori in un’indagine paradigmatica che si proponga di registrare alcune annotazioni sulle caratteristiche e sulla fortuna della canzone nel primo scorcio del Cinquecento, la scelta di un corpus testuale significativo da porre al vaglio e, conseguentemente, l’individuazione di un opportuno taglio prospettico, devono essere oggetto di valutazioni minuziose perché decisive per un esito obiettivo dello studio stesso. eppure, in questo caso, circoscrivere un giustificato novero di testi è risultata, almeno sulla carta, un’operazione abbastanza agevole dal momento che sono state le stesse coincidenze cronologiche a fornire orientamenti precisi. Carlo Dionisotti, nella memorabile introduzione alla pubblicazione degli scritti di Pietro Bembo affermava che la data del 1530, che aveva visto da un lato la concomitante uscita a stampa di due raccolte poetiche rivelatesi solidali negli esiti pur di origine poligenetica, cioè delle Rime del suddetto poeta veneziano e di Sonetti e Canzoni di Jacopo Sannazaro, e dall’altro la riedizione degli Asolani, già apparsi una prima volta nel 1505, segnava, non solamente in modo simbolico, l’inizio del fenomeno del petrarchismo lirico, destinato ad un successo plurisecolare che sarebbe durato almeno fino al Settecento.1 È quindi attorno al decisivo discrimine Cfr. Dionisotti (ed. Vela), 59 «Perciò nel 1530, insieme alla seconda edizione degli Asolani, [Bembo] si decise anche a pubblicare per la prima volta la raccolta delle sue Rime. […] Poiché nello stesso anno apparvero a stampa anche le rime del Sannazaro, che per diversa via era giunto a conclusioni e risultati analoghi, si può ben dire che il 1530 sia la data di nascita del petrarchismo lirico cinquecentesco». Corroborano la posizione del 1

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temporale degli anni trenta che sono stata indotta gioco forza a soffermarmi per la selezione dei testi, sia con l’intento di attingere direttamente alle sorgenti da cui sgorgò la «svolta»2 cinquecentesca che sancì il distacco dalla maniera cortigiana, sia per osservare da vicino, sotto la lente di ingrandimento, il complesso e interessante brulichio di questo periodo di indubbio fermento culturale. né ho sottovalutato la duplice opportunità che tale indirizzo apriva, cioè quella di appurare se qui, a questa altezza, sia da collocarsi il principio anche di opzioni formali e strutturali, oltre che linguistiche e tematiche, rivelatesi successivamente portanti, e quella di considerare, d’altra parte, la rilevanza effettiva degli altri spunti sperimentali emersi, spunti che alla lunga ebbero forse minor seguito ma che nondimeno meritano di essere analizzati con cura poiché funzionarono da alternativa o da controcanto negli «anni di formazione e di fondazione»3 del nuovo modello lirico. il dinamismo del panorama poetico di questo frangente si evince tracciando un semplice catalogo editoriale delle più importanti raccolte di rime che, con stupefacente sincronia,4 videro la luce tra il 1529 e il 1537: nel breve intervallo di meno di un decennio, dopo una non trascurabile ma certamente preliminare e più ristretta circolazione manoscritta,5 il mercato della stampa salutò la divulgazione ufficiale e capillare in volume di opere

Dionisotti anche le successive indagini statistiche sulle cifre dell’editoria del petrarchismo cinquecentesco, condotte da Antonio Vassalli. in base ai dati raccolti, Vassalli afferma infatti: «… si è assunto per termine di inizio della perizia la data del 1530 che corrisponde all’effettiva nascita, editorialmente parlando, del petrarchismo cinquecentesco. […] La risoluzione è apparsa oltremodo legittima nella misura in cui essa è stato confortata dalla constatazione che negli stessi anni, a cavallo del ’30, mentre acquista sempre più credito tra i poeti che vanno in tipografia l’opzione bembiana, si registra, sul fronte della tradizione, la scomparsa, in modo radicale, quasi un azzeramento, della poesia cortigiana. il 1530 non è solo una data di comodo: in termini di editoria lirica è proprio l’inizio di un nuovo corso che soppianta ogni precendente impulso.» (Vassalli 1987, 92). 2 Cfr. Erspamer 1994b. 3 il riferimento terminologico è desunto dalla recente antologia Anselmi, elam, Forni, monda 2004, i cui due capitoli iniziali della sezione dedicata al petrarchismo italiano, che trattano del primo trentennio del secolo, sono così denominati con soluzione felice. 4 Cfr. Cremante 1996, 401. 5 Cfr. Albonico 2001b, 693: «la poesia del Cinquecento si caratterizza per la protratta coesistenza, ben addentro il secolo, di tradizione manoscritta e tradizione a stampa».

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fondamentali per la definizione, anche per contrasto, del classicismo rinascimentale.6 Sono queste le raccolte, cronologicamente adiacenti, da cui ho stabilito di trarre il nucleo più consistente del corpus di canzoni oggetto dei rilievi in questa indagine. La prima, in stretto ordine di pubblicazione, è il libro delle Rime di gian giorgio trissino (1478-1550) edito nel 1529, cui l’anno successivo seguirono la raccolta delle Rime e i secondi Asolani di Pietro Bembo (1470-1547) e i Sonetti e canzoni, di poco postumi, composti da Jacopo Sannazaro (1457-1530); nel 1531 fu la volta del Libro primo de gli Amori, approntato con premura dal più giovane Bernardo tasso (1493-1569); tra 1532 e 1533 uscirono, prima in Francia e poi in italia, i due tomi delle Opere toscane dell’esule Luigi Alamanni (1495-1556), e da ultimo nel 1534 comparve una riedizione modificata del già citato Libro primo congiunta all’inedito Libro secondo de gli Amori, che sarebbe poi stata completata nel 1537 dall’ultimo volume del ciclo triadico tassiano (Libro terzo de gli Amori). Al solo scorrere l’elenco, colpisce il ritmo serrato con cui si avvicendano una dopo l’altra le stampe, talché si potrebbe avvertire l’impressione che questi autori primo cinquecenteschi abbiano percepito la necessità di intervenire con una certa sollecitudine nel dibattito che pian piano veniva snodandosi tra le pagine delle raccolte. essi probabilmente avevano intuito l’urgenza di dire la loro in una polemica letteraria che sempre più chiaramente si delineava come il preludio di un riassetto di vasta portata che avrebbe coinvolto trasversalmente la penisola, unifinota non trascurabile per la descrizione del panorama di fervore di studi è il fatto che gli anni contermini al 1530 vedono l’uscita in tipografia non solo di capitali raccolte di liriche di stampo petrarchista, ma anche di una seconda generazione – sensibilmente diversa da quella tardo quattrocentesca – di commenti umanistici al Canzoniere: basti ricordare quelli di Vellutello (1525), di Sebastiano Fausto da Longiano (1532), di giovan Battista da Castiglione (1532), di Silvano da Venafro (1533), di giovanni Andrea gesualdo (1533). tali opere possono dirsi propiziate, se non proprio incoraggiate, dall’edizione aldina di Petrarca del 1501 ed instaurano una ricca fase di critica ‘moderna’, come stigmatizza anche Bonora 1966, 261 («è giusto, tuttavia, come volevano il Carducci e il Ferrari, fissare al 1525 l’inizio di una nuova e feconda stagione dei commenti e delle vite del Petrarca»). esse, inoltre, sono caratterizzate da un’ampia e pubblica diffusione, e con ciò si pongono in contrasto soprattutto con la pratica anteriore della chiosa manoscritta o dell’edizione postillata, entrambe generalmente confinate all’interno dello studiolo di «lettori ‘litterati’» o al massimo divulgate in una ristretto cenacolo di amici e sodali (cfr. Belloni 1992, in partic. pp. 59-62). 6

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candola, dal punto di vista letterario, nel segno di Petrarca e superando, così, su di un piano diverso, la perdurante frammentazione politica che la lacerava. in effetti, poi, quando si osserva che trissino, Alamanni, e B. tasso, accanto al lavoro di cesello poetico, hanno anche formulato testi di valore programmatico, siano essi asciutte lettere dedicatorie o minuziosi trattati teorici, ci si convince che non è una supposizione troppo azzardata quella di ravvisare una volontà di partecipazione militante alla disputa letteraria dietro all’atteggiamento di tempestività con cui ciascuno di questi autori cercò, attraverso l’edizione dei suoi componimenti, di rispondere pubblicamente e a livello pratico all’interrogativo sul ripensamento del sistema di modelli linguistici e stilistici volgari lanciato con energia nel 1525 dalla codificazione presentata nelle Prose7 bembiane. Fu l’edizione di questa capitale opera di grammatica, critica e retorica a sollecitare con impellenza l’applicazione concreta del discorso sulla lingua e sui modi della lirica nella nuova poesia italiana, sia da parte di chi avesse voluto confutare le idee ivi esposte, sia da parte di chi avesse voluto comprovarne la validità. Dice Dionisotti che con le Prose Bembo «aveva aperto a tutti la strada, ma voleva dimostrare anche come egli sapesse percorrerla per primo»8 e che proprio dal proposito di rendere patente e risolutiva la coerenza complementare di teoria e pratica scaturì la scrupolosa sistemazione nel canzoniere delle Rime di alcune sue prove liriche giovanili, sorrette da altri componimenti architettati in tempi più vicini o addirittura per l’occasione, e l’operazione ancillare di revisione del precoce prosimetro degli Asolani, non apprezzato a sufficienza nel 1505, quando i tempi non erano ancora maturi perché si potesse comprendere appieno il significato e l’importanza di una riproposizione sobria, sincera e fedele dell’insegnamento di Petrarca, soprattutto nei componimenti di carattere amoroso. C’era, però, chi non riusciva a persuadersi delle argomentazioni messe in campo con misurata eleganza dal sempre più autorevole Bembo, chi, come trissino, non si dimostrava affatto disposto a vedere obliterata la varia articolazione della tradizione lirica italiana che era intercorsa tra il tardo Duecento e il recente Quattrocento per additare ai moderni scrittori l’imitazione dei Fragmenta come punto di riferimento esclusivo. tuttavia, il brillante intellettuale vicentino non poteva sperare di riuscire a scalfire 7 8

Cfr. Bembo (ed. Vela). Le Prose sono ivi consultabili nell’edizione della princeps del 1525. Cfr. Dionisotti (ed. Vela), 58.

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la perentorietà del modello poetico consacrato dalle Prose e riconosciuto dopo non molto dalla repubblica delle lettere alla quasi unanimità,9 senza proporre, accanto ad un esercizio lirico alternativo ben congegnato, un programma esibito con altrettanta consapevolezza e solidità di presupposti. Così, trissino, prevenendo Bembo che ancora stava riorganizzando le sue carte per portare il canzoniere alla stampa, nel 1529 sferra un poderoso attacco editoriale con la pubblicazione quasi simultanea, perché racchiusa nel giro del medesimo anno, del Dialogo intitulato il Castellano nel quale si tratta della lingua italiana, con a fianco il puntello teorico della traduzione da lui stesso procurata del riscoperto De vulgari eloquentia dantesco,10 e della ristampa dell’Epistula de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana11. Sempre nel 1529 escono, infine, le Rime e le prime quattro «divisioni» della Poetica, un ampio trattato modulato in sei parti che affronta con pertinenza questioni di metrica, di stile e di retorica, mettendo a frutto una estesa ricognizione di quella lirica rimasta ai margini della teorizzazione di Bembo12 per indicare poi – senza scansioni prospettiche e priorità gerarchiche di tempo e di luogo – la sequela parimenti dei

Cfr. Dionisotti (ed. Vela): 58 «Se il trionfo delle Prose richiese tempo, il successo fu però immediato. gia nel dicembre del 1529, trovandosi a Bologna dove per il convegno del Papa e dell’imperatore erano accorsi nobili e notabili d’ogni parte d’italia, il Bembo apparve ai presenti come il letterato principe. Passando in rassegna i “gentili ingegni” coi quali a Bologna si sarebbe potuta discutere la questione della lingua, il toscano tolomei in una lettera al Firenzuola concludeva “ma la somma e il fondamento è nel Bembo”». 10 È noto che la ‘teoria italiana’ della lingua sostenuta dal trissino, che contestava il primato fiorentino, moderno o arcaico che fosse, pretendeva di trovare conferma nelle pagine del trattato dantesco in cui si condannava ogni variante vernacolare e municipale della lingua, compresa quella fiorentina, a favore di un autorevole idioma sovraregionale e nazionale. 11 il trattatello era stato pubblicato nel 1524 con dedica a Clemente Vii e proponeva una riforma ortografica che rendesse meno equivoca la corrispondenza tra grafia e pronuncia; donde l’introduzione di cinque grafemi presi a prestito dall’alfabeto greco per sciogliere le ambiguità e consentire la distinzione tra vocali aperte e chiuse, tra vocali e semivocali e tra sibilante sorda e sonora. 12 Cfr. Trissino (ed. Quondam), introduzione a p. 9. il critico giudica il programma editoriale di trissino attuato nel 1529 «una sorta di opera omnia, tra novità e ristampe, una scoperta intenzione di situarsi in modo assai articolato, ma soprattutto agguerrito, su tutti i fronti delle questioni in atto nel campo della comunicazione letteraria, […] una evidente necessità […] di produrre allo stesso tempo il proprio discorso progettuale e la sua esemplificazione pratica». 9

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Siciliani, di Dante, di Cino e di guido Cavalcanti con gli altri stilnovisti, di Petrarca, di Sacchetti, persino di Lorenzo de’ medici.13 Particolarmente significativi risultano queste ultime due imprese editoriali, Rime e Poetica, per il fatto che si richiamano in continuazione e che sono concepite per essere strettamente connesse e per compenetrarsi nel mutuo sostegno che la descrizione normativa procura all’attuazione pratica e che, viceversa, l’evidenza dell’esito assicura all’astrazione delle premesse concettuali.14 Quello che importa qui sottolineare è che, contestualizzate in un simile quadro teorico, le poesie delle Rime non possono essere reputate accidenti casuali, prove leziose che si collocano fuori dal tracciato bembiano per ingenua arbitrarietà di gusto, esperimenti privi di quell’intrinseco progetto che le vede contrapposte frontalmente, seppur in maniera a volte implicita, alle Prose.15 Se l’atteggiamento trissiniano di cosciente riflessione metaletteraria su canoni e modelli è abbastanza esposto, un po’ più defilato appare quello degli altri autori menzionati, Bernardo tasso e Luigi Alamanni, che in questi anni non si addentrano in circostanziate trattazioni, ma ciò nonostante non trascurano di difendere i loro libri di rime potenzialmente eversivi nella sede emblematica delle lettere dedicatorie che li inaugurano, dimostrando piena maturità nelle scelte operate. nelle epistole proemiali, rivolte ai benemeriti committenti, tra le lodi e gli omaggi di rito con cui si intesse la captatio benevolentiae, entrambi gli autori approfittano per pronunciare stralci di dichiarazioni di poetica e spesso chiamano in causa l’autorità degli antichi in funzione apologetica. il Libro primo de gli Amori nel 1531 è mandato alla stampa con il suggello delle pagine di dedica alla Signora ginevra malatesta, nelle quali, con qualche timida esitazione, B. tasso annuncia di aver incluso nella sua opera, in coda ad un tradizionale canzoniere da lei ispirato, alcune liriche tratte dalle muse greche e latine, che sarebbero potute risultare irragionevolmente anticonvenzionali, se non fossero state debitamente motivate. Quindi, il poeta delucida i pregi delle forme classiche che i «provenzali e Erspamer 1994b, 197 parla di «multipolarità del canone» letterario. Cfr. Trissino (ed. Quondam) 1981, 11: «Le Rime non fanno che ripercorrere con assoluta precisione e fedeltà il tracciato “teorico” della Poetica, ne esemplificano la proposta attorno alle forme metriche.». 15 Cfr. Trissino (ed. Quondam) 1981, 12. 13 14

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toschi» e – con sfiorata allusione a Bembo e sostenitori – «gli altri che il loro stile seguirono»16 non erano stati in grado di eguagliare con mezzi volgari. ma subito dopo, calibrando la temerarietà di quest’affermazione, si atteggia a relativizzare la portata del suo tentativo di integrazione delle due tradizioni e precisa: «considerando la via, il modo e l’arte degli antiqui, egli m’è piaciuto di fare a loro imitazione quella prova che qualcuno altro pellegrino ingegno prima di me già fece. e quantunque malagevolmente si possa delle cose vecchie far nove, et alle nove dar autorità, nondimeno ho voluto tentare; non già ch’io speri di quest’opera gran loda, ma sol per dar appresso quel degli altri, di me ancora un certo saggio, per lo quale si veggia quel che ’n cotal guisa si possa sperar di seguirne».17 A chiudere lo stringato intervento compare, come stemma polemico, un accenno colmo di gratitudine al nome di Antonio Brocardo, sodale di B. tasso e agli esordi discepolo del Bembo. A lui, ribellatosi accesamente al maestro veneziano per voler guardare con apertura eclettica non solo al Petrarca ma anche alla poesia della classicità, al convinto oppositore del bembismo scomparso proprio in quel 1531, il poeta degli Amori consegna idealmente la sua opera schierandosi dalla parte di chi proseguiva nella ricerca di un modello altro, nonostante il plauso ottenuto dalle Prose e, a questa data, ormai anche dalle Rime. il programma poetico tassiano, in questa sede solo abbozzato, è esposto con maggiore convinzione nella più articolata epistola al principe Ferrante Sanseverino18 con la quale, tre anni dopo, si apre la pubblicazione del Secondo Libro de gli Amori e con cui si chiariscono anche le ragioni della vistosa revisione del Libro primo, allegato in una veste riaccomodata accanto all’inedito. Basta soffermarsi sulle prime parole: «Porto fermissima opinione, illustrissimo Signor mio, che la novità de’ miei versi, cosa non meno invidiosa che dilettevole, moverà molti a vituperarli: e di questa novella tela altri le fila, altri la testura biasimerà, parendoli forse mal convenirsi

La citazione è tratta dalla suddetta epistola dedicatoria a ginevra malatesta, che si può leggere integralmente in B. Tasso (ed. Chiodo), vol. i, 15-17. 17 Cfr. B. Tasso (ed. Chiodo), vol. i, 16-17. 18 La dedicatoria al Sanseverino è ritenuta dai critici di Bernardo tasso «il più importante manifesto teorico della sperimentazione classicistica e metrica tassiana» (Cremante, 1996, 400) anche perché è riproposta in apertura al volume del 1560 che raccoglie i cinque libri di Rime del poeta. 16

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alla lingua volgare, posto da canto le muse toscane, alle greche e alle latine accostarsi…»19 e indugiare poco oltre sull’amara constatazione tassiana che a queste sue rime «danno alcuni grandissimo biasimo, parte per essere a l’altrui dissimili et a lor modo senza exempio, parte per mancare […] de l’armonia,20 della quale ad alcuni giudiziosi e grand’uomini paiono privi i miei versi non altrimenti che se mute fossero le note loro» per osservare e concludere che il silenzio intercorso tra la prima frettolosa21 uscita editoriale e la seconda del 1534, consentì a B. tasso di ripensare criticamente la sua posizione e di trovare argomenti per rafforzarla, replicando con cognizione di causa alle accuse, benché ormai a sei anni dall’uscita delle Prose la consacrazione del Bembo a maestro indiscusso del nuovo umanesimo gli sconsigliasse di arrischiarsi in qualcosa di più del «contraddittorio virtuale»22 che poteva inscenare nella dedicatoria, smontando in anticipo presunte obiezioni contro le sue scelte poetiche. Anche Alamanni si avvale dello spazio della lettera di dedica al cristianissimo re Francesco i, alla cui corte si era rifugiato esule da Firenze fin dagli anni Venti, per licenziare il primo volume delle sue Opere toscane già provvisto di un deciso rinforzo apologetico. il centro dell’epistola sono infatti «le giustificazioni di linguaggio (fondate sull’esigenza nuova di gareggiare con gli antichi, come tibullo e Properzio) e le rivendicazioni di primato in materia metrica, forse tanto più insistenti perché volte a con-

B. Tasso (ed. Chiodo), vol. i, 5-13. in queste parole si potrebbe intuire un riferimento nemmeno troppo obliquo alle qualità tonali di alternanza melodiosa di gravità e di piacevolezza (oppure alla stessa funzione armonica della rima ravvicinata) che per Bembo dovevano essere espresse dal dettato poetico e che erano esperite nelle liriche petrarchesche in modo insuperato e quindi di per sé degno di imitazione. inoltre, a proposito di questo, poche righe dopo, Bernardo dichiara che molti denigratori della sua opera, non comprendendo la sua volontà di rifarsi all’antico, avevano valutato come difetto il suo «celar l’armonia della rima»: ma di questo ci sarà occasione di parlare in seguito (cfr. in particolare § 3.2.2). 21 È lo stesso Bernardo tasso a confessare, nella lettera alla malatesta, di sentire l’impellenza di pubblicare almeno una parte delle sue rime, benché incomplete e già inserite in un piano più vasto che si delineerà poi nei suoi contorni nel corso degli anni trenta, con l’uscita del Secondo (1534) e del Terzo Libro de gli Amori (1537): «De’ tre miei libri adunque, che tanti appunto sono, intitolati gli Amori, non potendo ora per nove occupazioni fargli tuttatre imprimere, solo in luce ne verrà il primiero» (cfr. B. tasso, ed. Chiodo, 16). 22 Cfr. Spaggiari 1994, 120. 19 20

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trastare le analoghe rivendicazioni coeve del trissino, in materia di “metrica barbara”, ovvero di adattamento ai volgari moderni dei metri classici,23 nonché le altre opzioni tematiche e stilistiche preferite nella raccolta. Ciò dimostra che, pur nella effettiva distanza della relegazione francese, Alamanni non intende in alcun modo sottrarsi al dibattito sulla nascente poesia cinquecentesca, ma desidera anzi partecipare in maniera dinamica, con idee di cui denuncia l’originalità e la fondata coerenza, alla definizione dei nuovi modelli in corso in italia. L’atteggiamento di appassionata adesione alle conversazioni letterarie è il medesimo che aveva assunto solo un decennio prima quando era intervenuto recitando i suoi sonetti e le sue elegie nei dotti convegni degli orti oricellari, durante i quali era entrato in contatto con lo stesso trissino, con poeti come guidetti e Cosimo rucellai, con l’umanista iacopo del Diacceto e con machiavelli. tra gli autori che mandarono a stampa i loro libri di rime nei primissimi anni trenta solo Sannazaro non evidenzia in scritti dedicati un intento programmatico, una qualche consapevolezza illuminata da una base teorica perspicua e pare sottrarsi al circuito delle discussioni letterarie sulla lirica volgare. in realtà, quello delle rime del poeta napoletano è un caso particolare e apparentemente eterogeneo rispetto al destino che si tracciano le altre raccolte coeve di Bembo, trissino, B. tasso ed Alamanni. negli ultimi anni della sua vita Sannazaro, affrontando quello stesso bivio a cui giunse il filologo Bembo fra tradizione umanistica ligia all’uso della lingua di Cicerone e libera emancipazione espressiva del volgare, si era definitivamente votato alla produzione in latino, senza ripensamenti, e aveva distolto del tutto il suo interesse dalle poesie di stampo petrarchista che aveva composto sullo scorcio del secolo.24 il fatto che nel momento denso di significato e gravido di conseguenze rappresentato dal 1530 i suoi Sonetti e canzoni si siano inseriti tempestivamente accanto alle Rime bembiane in quel mosaico dialettico che si preparavano a completare via via letterati di ogni parte d’italia, è un merito da ascrivere agli amici dell’appena scomparso Sannazaro, i quali vollero fare un atto di reverenza

Cfr. Mazzacurati 1996 b, 104. Benché le rime di Sannazaro escano per la prima volta a stampa solo nel 1530, la loro composizione risale a molti anni addietro, al periodo a cavallo tra XV e XVi secolo (1494-1504), e allo stesso modo è ragionevole pensare che il processo di correzione e sistemazione non si spinga oltre il primo decennio del Cinquecento (cfr. Mengaldo 1962 e Dionisotti 1963). 23 24

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all’esimio umanista raccogliendo i manoscritti in cui erano sparse le sue liriche e procurando che ne venisse allestita una stampa. L’edizione postuma, benché probabilmente rispettosa dei materiali autografi, non poteva essere sostanziata da autocoscienti premesse di poetica per il semplice fatto che era un prodotto confezionato da altri, che non rispettava l’ultima volontà del suo autore, almeno nella misura in cui egli aveva in vecchiaia deciso di affidare la sua fama futura a scritti di natura e di lingua diversa e aveva confinato le rime volgari al rango di «vane e giovanili fatiche».25 Allora, vista la passività del Sannazaro, qual è il senso di considerare queste rime nel corpus, congiuntamente a quelle degli altri poeti ben più convinti della loro proposta letteraria? La risposta si ottiene interrogando la tradizione successiva, dall’esame della quale si evince che «i Sonetti e canzoni furono accettati e divennero oggetto di imitazione da parte del medesimo pubblico che sancì il trionfo di Bembo».26 Poco importò quindi, in termini di forza persuasiva e di capacità di propagazione del modello, che queste liriche non fossero state impreziosite da una arrovellata riflessione del Sannazaro; diversamente, in prospettiva, apparvero ben più decisivi i contatti tra il poeta napoletano e il Bembo, che fin dai primi del Cinquecento si erano dimostrati reciproca stima.27 Ciò, unito ai risultati comuni a cui giunsero le produzioni poetiche volgari dei due, fece sì che il nome di Sannazaro si legasse durevolmente a quello di Bembo28 e che, 25 Queste sono le parole con cui Sannazaro presenta i suoi componimenti nella dedicatoria a Cassandra marchese che precede le sue liriche nel manoscritto autografo (cfr. ed. mauro 1961). 26 Cfr. Sabbatino 1983, 35. 27 Sabbatino 1983 analizzando la proliferazione di grammatiche e di meno tecnici resoconti letterari prodotti a napoli a partire dagli anni trenta, nota con interesse che l’apparente unità di intenti dimostrata dagli incontri e dagli scambi epistolari di Bembo e Sannazaro è alla base della nascita di una sorta di «modulo narrativo» ricorrente nella critica cinquecentesca che considera inscindibilmente i due autori e li istituzionalizza a modelli solidali in sede normativa. 28 Sabbatino 1983, 35. L’epigrafe celebrativa che orna il basamento della tomba del Sannazaro fu composta, secondo le fonti, da Bembo stesso, come «estremo attestato di riconoscimento». Anche Caruso 2000, 172-174 documenta scambi epistolari e una certa rivalità poetica e mutua influenza che caratterizzò i rapporti dei due letterati soprattutto nei primissimi anni del secolo XVi; tali atteggiamenti furono poi colti dalla società letteraria che fin da subito cominciò a celebrarli insieme, come testimoniano le parole di Baldassar Castiglione, niccolò Liburnio e dello stesso Aldo manuzio.

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d’altra parte, il modello bembiano penetrasse e circolasse a napoli con immediata fortuna anche perché congiunto in modo inscindibile a quello dell’amato autore partenopeo. Quello che sino a qui ho tentato di chiarire è che il nucleo centrale del corpus così costituito attorno all’emblematico 1530 rivela la sua organicità e la sua giustificazione non solo per motivi cronologici, sebbene ,come si è avuto modo di spiegare, anche la sincronia sia tutt’altro che un dato esteriore o accidentale. L’allineamento temporale in un contesto caratterizzato, in un certo senso, dalla volontà di ripristinare una verginità poetica incontaminata da devianze e corruzioni comporta logicamente. ma non tuttavia per inevitabile implicazione, la presenza in queste raccolte di segnate qualità di consapevolezza programmatica e dunque consente la riconoscibilità in esse di valori fondativi. Bembo in primis, in anticipo e sopra tutti gli altri,29 ma pure trissino, B. tasso e Alamanni sono autori che all’inizio della loro esperienza lirica si fanno promotori di un rinnovamento di avanguardia del sistema poetico italiano e in questo loro energico porsi al di fuori della tradizione quattrocentesca stancamente ereditata sono interpellati da pressanti interrogativi sui modelli da acquisire. Proprio tramite tali quesiti, con livelli differenziati di capacità e autocoscienza compresi in uno spettro che si estende, per così dire, dai toni carichi delle esplicite asserzioni del trattato, alle più sfumate gradazioni delle dichiarazioni asistematiche contenute in lettere dedicatorie che fungono da prefazioni, fino alla pallida evanescenza dell’attribuzione concorde ma postuma di una riflessione sotterranea rimasta implicita nell’autore,30 questi poeti inseriscono la loro opera nel primigenio processo di formazione del canone lirico rinascimentale. Di qui il valore e la rilevanza di uno studio condotto all’interno del cerchio tracciato da tali determinanti raccolte. e tuttavia, benché gli autori sopra elencati costituiscano le pietre miliari, sia per la produzione poetica che per i contributi di riflessione critica, 29 non va dimenticato che è realmente fin dagli Asolani del 1505 che Bembo enuclea l’essenza della sua nuova poetica petrarchista, che poi verrà precisata con rigore teorico nelle Prose. Per questo motivo l’influenza del suo pensiero è esercitata latamente dai primi del Cinquecento, sebbene poi assuma vigore dirompente con la grammatica del 1525. (Cfr. Dionisotti, ed. Vela, 73: «nel 1505 i primi Asolani aprirono nella storia della lingua e della letteratura italiana, prosa e poesia insieme, una breccia risolutiva.») 30 mi riferisco al significato che venne attribuito all’opera lirica di Sannazaro fin dagli anni immediatamente successivi alla sua scomparsa.

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di quel processo che prenderà poi il nome di petrarchismo lirico, è necessario corredare il quadro delineato con alcune integrazioni significative per non tradire con taglio semplificatorio il reale aspetto dello scenario letterario di primo Cinquecento, ben più fitto di presenze. Fino a questo punto ho preso in considerazione i canzonieri o le più composite (seppur compatte e coerenti) raccolte di rime31 che condividono la caratteristica di essere uscite sul mercato editoriale attorno al quarto decennio del XVi secolo perché ritengo indubbio che solo l’edizione a stampa, attraverso la quale l’autore indica con gesto formale la sua posizione e contemporaneamente si segnala all’attenzione degli altri intellettuali, alla ricerca di un dialogo, abbia un rilevante valore pubblico e ufficiale.32 tanto è vero che molti artisti che poetavano in quegli anni e di cui è testimoniata (soprattutto manoscritta, ma anche in volumi miscellanei) una non trascurabile compagine di prove liriche scelsero volutamente di evitare il confronto con la perentorietà della stampa o perché non parve loro di aver raggiunto un sufficiente grado di politezza stilistica; o perché si dedicarono all’attività lirica senza pretese e in margine a ben più ambiziose opere letterarie; Carrai 2006 parla di due modelli di riferimento per la costruzione del volume di rime organico nel primo Cinquecento, vale a dire quello del canzoniere di stampo petrarchesco da un lato, e quello della raccolta suddivisa al suo interno in più libri, secondo il modello classico di ovidio o dei libri delle elegie di Properzio e tibullo, dall’altro. A questo secondo principio di articolazione macrostrutturale soggiacciono, tra le succitate, l’opera poetica di Bernardo tasso e parte di quella di Luigi Alamanni. 32 tale convinzione è suffragata anche da Castelvecchi, il quale sottolinea come non si possa ignorare che, con l’introduzione e la diffusione della stampa, si va «verso una fenomenologia della produzione culturale dove quello stampato è un pensiero pubblico, quello manoscritto un pensiero latente, privato, quasi segreto» (cfr. l’introduzione a Trissino ed. Castelvecchi, XXXVii). Si tengano, inoltre, presenti le considerazioni di erspamer 1994a, 185-186 che, reputando primarie le sollecitazioni prodotte dall’avvento della stampa sul mercato culturale della lirica (visto nella duplice prospettiva di autori e lettori), azzarda l’anticipazione del termine di periodizzazione storico-letteraria del petrarchismo, fissato da Dionisotti al 1530, al 1501, data del Petrarca aldino. in proposito, elenca poi alcuni dei cambiamenti più evidenti verificatesi nella produzione poetica letteraria: «la rivoluzione tipografica non consentiva più di indirizzare un’opera, neppure per mera convenzione ad un pubblico specifico, riconoscibile e circoscrivibile in una dimensione cittadino-regionale». Poco oltre si legge inoltre che «la stampa agì come fattore di mutamento. innanzitutto imponendo, anche ad un genere così poco narrativo e frammentario, un ordine, addirittura una fabula» per contrastare la fruizione sommaria ed antologica tipica della copia manoscritta, confezionata trascegliendo qua e là singoli componimenti.

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o, infine, per l’uno e l’altro motivo insieme, vale a dire perché il lavoro incostante e non risolutivo di perfezionamento e la ricerca di un destinatario a cui indirizzare la raccolta per nobilitare le poesie in essa incluse e riscattarle dal ruolo di esercizi occasionali e discontinui fecero sì che ad un certo punto abbandonassero il progetto o che la morte li cogliesse prima che il loro lavoro avesse trovato un approdo definitivo. Accanto agli autori che potevano fregiarsi dell’onore di essere intervenuti nel dibattito culturale degli anni ’30 con compiute raccolte edite, vi sono dunque autori che furono attivi in quegli stessi anni di sperimentalismo ma che non ebbero il modo o l’occasione o il tempo di incaricarsi in proprio di una edizione dei loro testi, lasciando a curatori contemporanei o di molto successivi la responsabilità di raccogliere la loro produzione e ricostruirne il profilo e la posizione. e, senza smentire quanto detto poco sopra, in uno studio che si occupa della riformulazione del canone lirico della canzone, importa, nonostante ciò, prenderli in considerazione per due ordini di ragioni: in primo luogo perché alcuni di essi (molza, guidiccioni) raggiunsero comunque nel XVi secolo un’impressionante notorietà e un cospicuo riconoscimento come lirici, essendo la loro fama prima acclarata dalla circolazione manoscritta e poi sancita e autoalimentata dalla moda delle antologie mediocinquecentesche,33 tanto che diventarono subito dei modelli di stile; in secondo luogo perché altri, che avevano intrapreso e poi interrotto un progetto di sistemazione del materiale per la stampa oppure che ad esso si stavano applicando in quegli anni preparandosi ad un appuntamento editoriale obbligato per i letterati di corte del tempo, permettono di problematizzare e di ampliare l’indagine sotto il profilo dei centri geografici e di produzione culturale esaminati (Ariosto, Bandello,34 Britonio). Cfr. Tomasi 2001b. L’archetipo di tutte le antologie, il Libro primo (1545) uscito dai torchi di giolito, riservava uno spazio privilegiato alle poesie di molza e di guidiccioni approfittando della loro recente scomparsa e anche della grande attesa del pubblico, sempre tradita, per la stampa delle rime volgari dei due poeti. il giudizio di plauso era anche condiviso dall’élite dei poeti che risulta considerasse il molza uno dei più grandi interpreti della poesia lirica del secolo. 34 Cfr. in proposito il giudizio espresso da Fedi 1990c, 170: «il Bandello sistema un suo volume di rime secondo l’immagine non univoca di un petrarchismo ancora vitale, non codificato in norme, e quindi passibile di utilizzazioni diverse e legate al reale pur nell’esigenza di una omogeneità di lingua e stile che il vicino esempio bembiano imponeva anche a chi, come lui, aveva iniziato a comporre ben prima delle Prose del 1525 e delle 33

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i nomi che arricchiscono il nucleo originario di questo corpus sono pertanto quelli di Lodovico Ariosto, di matteo Bandello, di girolamo Britonio, di giovanni guidiccioni e di matteo maria molza, né, smussato il parametro della comparsa a stampa negli anni ’30, si pretende che la loro inclusione nella rassegna degli autori spogliati risolva la complicazione di stilare un repertorio di testi più o meno ‘sommersi’ che sia allo stesso tempo orientato alla completezza e all’esemplarità. tanto più che l’apparante monostilismo che informa la poesia petrarcheggiante di primo Cinquecento si è rivelato, grazie alle acquisizioni degli studi più recenti, alla stregua di un canto corale: un insieme armonico e compatto se inteso da lontano, ma che si mostra assai più differenziato ad un ascolto più accurato in grado di percepire come un’ analoga traccia melodica possa essere interpretata da linee vocali distinte, con variazioni ritmiche e di tono anche consistenti, a volte persino opposte, contrappuntistiche.35 Di una simile articolazione è illusorio, a mio avviso, dare conto se non con uno studio letteralmente onnicomprensivo, perché sovente le stesse etichette entro le quali vengono ricondotte le produzioni del singolo si rivelano a loro volta strette e compromissorie, al punto che volendo anche scegliere di illustrare il petrarchismo lirico primocinquecentesco per categorie, non

successive Rime del ’30 e del ’35. Questa dicotomia, certamente avvertita, fra una storia privata di poeta che durava da almeno un trentennio e le urgenze di una rilettura ormai obbligata, è senz’altro uno dei caratterei che fanno di questo libro un caso tutt’altro che modesto di pertinace, consapevole operazione critica». Dopo una disamina degli aspetti tematici, stilistici e linguistici eterogenei della produzione lirica bandelliana ricondotti nel 1544 all’unità del libro di rime Fedi conclude: «Forse anche per questo Bandello destinò il suo canzoniere alla circolazione limitata e privata, essa pure occasionale, di un omaggio cortigiano che facesse però fede di una vita certo dignitosa e “minore” anche nelle sue manifestazioni pubbliche: consapevole di tanta frammentarietà, e forse anche della fine di un’esperienza che non avrebbe potuto andare oltre» (p. 200). 35 il carattere di differenziazione interna della lirica cinquecentesca appare, a volte, persino esasperato e rifranto in una proliferazione di sottocategorie, come quelle enumerate nel saggio di gigliucci 2005 (il petrarchismo è riportato alle correnti di p. classicista, p. grave, p. bucolico, p. antigrave, p. filosofico-petroso, p. madrigalistico-concettoso, p. con sperimentazioni metriche a-petrarchesche, p. femminile e omofilo, p. uxorio, p. spirituale, p. artificioso, p. neocortigiano). A correttivo dell’eccessiva dispersione critica di un fenomeno che, nonostante tutto, conserva degli indiscutibili caratteri di koiné originata con l’intervento di normalizzazione grammaticale e stilistica di Bembo, si esprime, invece, Quondam 2006.

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se ne ritroverebbero fedeli e monolitici rappresentanti. Dati tali presupposti, la scelta qui operata è consapevolmente parziale e incompleta ed è stata guidata, oltre che dai due sopraccitati, anche da un terzo criterio inerente alla disponibilità di consultazione dei testi in edizione critica o moderna. tra le personalità letterarie, tutte operanti tra il primo e il terzo decennio del Cinquecento, figurano ‘maggiori’ (molza, guidiccioni, Ariosto) e ‘minori’ (Bandello e Britonio),36 autori di zona settentrionale (Bandello e Ariosto), affiliati alla corte papale37 (molza e guidiccioni) o uniti alla vicenda della lirica meridionale (Britonio), ma, al di là delle generalizzazioni esteriori, utili solo ad intuire, sfocato, quale potesse essere il panorama di quegli anni, ognuno di essi conta per sé e non è delegato a rappresentare qualche cosa d’altro. Prima di passare alla descrizione specifica delle opere, un’ultima puntualizzazione esige il caso di girolamo Britonio. il nome e il profilo intellettuale di questo lirico cinquecentesco sono pressoché ancora sconosciuti, ma la sua vicenda è particolarmente significativa se non addirittura un’emblematica cartina di tornasole che rende conto della difficoltà critica di inquadrare lo scenario della lirica primocinquecesca in una cornice definita senza perderne di vista gli episodi salienti. Solo in anni recenti e da parte di due illustri personalità come Dionisotti e raimondi è stata espressa la necessità di esplorare la produzione dell’autore lucano, visto che la sua opera, il canzoniere intitolato Gelosia del sole, si presentava come un vero e proprio ‘caso editoriale’. La raccolta esce, infatti, per la prima volta nel 1519 per la cura del suo stesso autore e con un’organizzazione interna che mira ad accostare quella petrarchesca (unità macrotestuale del ‘libro’, divisione in due parti, scelta di soli metri petrarcheschi, compatte opzioni tematiche e linguistiche).38 Ciò sorprende perché mostra Britonio in anticipo in alcuni risultati sebbene non nelle dichiarazioni programmatinon si tratta di un giudizio di merito ma semplicemente di una constatazione della risonanza della produzione lirica degli autori, sia tra i contemporanei che dopo il Cinquecento. 37 Ariani 2007, 970 precisa che a questa altezza cronologica roma non «va vista certo come un luogo specifico di produzione lirica (come, del resto, Firenze), ma come sede di riferimento di alcuni rimatori che fanno parte, da protagonisti, di un vero e proprio canone di lirici esemplari, da tutti, nel Cinquecento, riconosciuto». 38 Cfr. anche Erspamer 1994a, 188. 36

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che,39 sulla diffusione del bembismo e testimonia come sia la stessa temperie culturale primocinquecesca ad indurre una rifondazione della letteratura volgare mediante l’assunzione rigorosa del codice lirico-petrarchesco che viene abbracciata in ambienti diversi come scelta autonoma e poi confortata dalla convergenza con il teorico delle Prose. Se non si può parlare di dipendenza diretta da Bembo, non se ne può trascurare la rilevanza, tanto che quel 1530, che saluta la pubblicazione delle Rime, inaugura una fase di discussione pubblica a mezzo della stampa a cui non ci si può sottrarre. Come abbiamo visto non mancheranno le liriche di Sannazaro fatte uscire per mano dei congiunti40 e non manca nemmeno un poeta minore come Britonio che solo un anno dopo (1531) ripubblica, significativamente a Venezia, presso marchio Sessa, il suo canzoniere. Le differenze tra prima e seconda edizione, distanziate da poco più di dieci anni, sono minime e in sostanza constano della correzione di qualche refuso. ordine e composizione del libro non mutano, a significare due cose: in primo luogo che la princeps era un prodotto già maturo (come quello degli altri autori di questo corpus, che operano per la gran parte tra gli anni ’10 e gli anni ’20); in secondo luogo che l’autore voleva inserirsi a pieno titolo nel solco tracciato dal Sannazaro e che in questo trovò la compiacenza di un mercato letterario che intuiva la produttività della riedizione di una raccolta di rime di stampo petrarchesco proprio in quegli anni. nonostante la vicinanza al maestro napoletano, esistono delle discordanze non sottovalutabili nella produzione dei due. Considerata l’identità del contesto geografico e di formazione, in proposito marcella grippo nota «l’impossibilità della riduzione del fenomeno ‘petrarchismo’ a un sistema, pur se è possibile delineare delle direttive comuni e delle strategie compositive attinenti ad una pratica diffusa della ‘citazione’ e della ‘riscrittura’, per usare termini cari a Quondam».41 e questo valga da ulteriore prova di quanto si diceva sopra.

È questa una delle ragioni che mi ha indotto a includerlo nella seconda tranche degli autori del corpus, benché la sua sia un’opera edita nel primo trentennio del Cinquecento. 40 Ceserani 2007, 680: «Quando Bembo spedì a napoli, nel 1530, due copie delle sue Rime, una per Sannazaro e una per Vittoria Colonna, la copia per Sannazaro arrivò pochi giorni dopo la morte del poeta e venne consegnata a Cassandra marchese, che aveva ricevuto da Sannazaro, in privato, le sue poesie volgari. È possibile che siano state proprio le Rime di Bembo a suggerire alla marchese e agli altri amici superstiti l’idea di pubblicare postume le rime di lui». 41 Grippo 1996, 19.

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1.2 Descrizione delle opere Dopo aver esposto le ragioni che hanno presieduto alla costituzione del corpus testuale, sembra utile soffermarsi su una descrizione più circostanziata di ciascuna raccolta poetica presa in considerazione e indicare, prima di tutto, l’edizione di cui si è deciso di disporre o il testo a cui ci si è appoggiati in mancanza di un lavoro critico. Secondariamente, si intende inquadrare le canzoni all’interno del contesto delle opere in cui si inseriscono e valutare, laddove sia possibile e pertinente, la loro rilevanza numerica rispetto ad altri metri o una eventuale dislocazione in punti significativi dell’opera al fine di raccogliere così indizi extratestuali che permettano di gettare luce sull’interesse dimostrato dagli autori per la forma stessa.

1.2.1 g. g. trissino, Rime (1529) Per conoscere il libro di lirica di gian giorgio trissino lo strumento più agevole da consultare è la ristampa moderna curata da Amedeo Quondam42 della princeps delle Rime uscita a Vicenza nel 1529 per i tipi di tolomeo ianiculo. L’elegante raccolta ha la conformazione di un canzoniere con una struttura che rispetta almeno in parte la cronologia compositiva; all’interno della consueta trama della vicenda amorosa, ritmata in varie fasi (lode della donna, successiva lontananza, desiderio doloroso poi appagato) ed espressa in liriche risalenti ai primi anni del Cinquecento, sono inseriti solo in un momento successivo e prossimo alla pubblicazione testi di carattere celebrativo. Le dimensioni del libro sono abbastanza ridotte dal momento che i componimenti ammontano ad un numero di 79 e si ripartiscono in 47 sonetti, 14 ballate, 10 canzoni (di cui 8 di carattere amoroso e 2 di argomento encomiastico), 2 sestine, 2 madrigali, 2 sirventesi e 2 eglo-

Cfr. Trissino (ed. Quondam). nelle citazioni prelevate da questa edizione e riportate nel prosieguo ho applicato, nel rispetto delle attuali norme grafiche dell’italiano, una normalizzazione delle «lettere nuovamente aggiunte», ossia dei nuovi segni introdotti dall’autore vicentino (ε, ω, κ, ç, j consonante, v consonante) che erano stati fedelmente mantenuti dal curatore moderno.

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ghe. il canone metrico43 è essenzialmente petrarchesco, con alcune lievi eccezioni, la cui ragione d’essere è facilmente interpretabile: i sirventesi invocano il modello dei Trionfi, le egloghe recano un omaggio all’Arcadia di Sannazaro il cui successo aveva portato il genere bucolico-pastorale al centro della lirica volgare, mentre sembra che l’ampia diffusione della ballata, che è numericamente seconda solo al sonetto, si debba far risalire all’ammirazione nutrita dal trissino nei riguardi della tradizione poetica duecentesca44. il nucleo delle canzoni è, tutto sommato, consistente e costituisce, nel giudizio unanime degli studiosi, la zona metrica sottoposta agli esercizi più trasgressivi dell’intera raccolta; tralasciati i casi, non troppo eclatanti nel polimorfo panorama metrico del Cinquecento, di testure non petrarchesche,45 ciò che colpisce sono alcune originali rielaborazioni e contaminazioni con l’antico. Due dei componimenti trissiniani (XXXi e LXV) inclusi nel corpus, infatti, pur denunciandosi come canzoni per l’architettura delle stanze, si sforzano di avvicinare in versi volgari la struttura classica dell’inno pindarico a schema triadico46 con raggruppamenti di strofe, antistrofe ed epodo, mentre uno (LXXVii) addirittura abbandona la rima e nell’articolazione strofica adotta un’alternanza regolata di settenari ed endecasillabi sciolti. il tentativo di forzatura del tracciato volgare della canzone attraverso l’applicazione di interferenze classiche da un lato si spiega con la peculiare malleabilità di questa forma e dall’altro con la consapevolezza, maturata dal trissino, della necessità di un rinnovamento del metro al fine di riportarlo ai livelli di magniloquenza e di prestigio che lo avevano contraddistinto fino al trecento. ma lo sforzo sperimentale che preme su questa forma è direttamente proporzionale alla fiducia che il poeta ripone nelle potenzialità sublimi che la sola canzone è in grado di sprigionare. tale opinione si manifesta nella scelta di modificare il metro

43 nel canzoniere sono rappresentate quelli che la Poetica dello stesso trissino indica come «le cinque forme di poemi […] in uso appresso i buoni autori» (cfr. trissino, ed. Weinberg, 98), vale a dire sonetti, ballate, canzoni (incluse le sestine), madrigali e sirventesi. 44 Cfr. Bartuschat 2000. Questo modello di lirica era stato rinverdito, tra l’altro, dalla recente pubblicazione, solidale al clima che si respirava a Firenze negli orti oricellari, della cosiddetta giuntina di rime antiche (Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani, 1527). 45 Cfr. Gorni 1973. 46 Per i particolari di carattere metrico si veda la tavola alle pp. 95-96.

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nel senso di un’ ulteriore complicazione e non di una riduzione e nello sguardo rivolto ad un modello non propriamente lirico nel senso moderno del termine47 ma collocato all’apice del canone classico della poesia alta. nonostante il valore gerarchicamente prioritario e ‘tragico’ riconosciuto alla canzone sia nelle Rime che nella Poetica, dove il confortante appello è alle ben note classificazioni dantesche del De vulgari eloquentia,48 bisogna a rigore registrare che non è una canzone a chiudere il libro trissiniano bensì le due egloghe. in realtà, scavando sotto la superficie di una valutazione sommaria, si intuiscono le ragioni di questa disposizione: i due testi pastorali sono tematicamente estranei alla raccolta e il loro posto non può essere che quello in margine al libro, come dichiarazione di un temperata apertura classicistica, aliena tuttavia da sperimentazioni contaminanti. Se si omette l’ultima sottile propaggine rappresentata dalle egloghe, si ritrovano allora ben tre canzoni addensate in crescendo sul finale con il proposito di coronare il canzoniere amoroso (LV) e di congedarlo tramite il marchio dell’omaggio a personaggi illustri come il papa Clemente Vii (LVi) e il cardinale ridolfi (LVii), interpellato anche nella dedicatoria che inaugura il volume, con effetto di chiusa e perfetta circolarità.

La lirica antica, e greca in particolare, aveva manifestazioni numerose e poliedriche, di cui la poesia amorosa era solo un ritagliato aspetto, accanto ai testi di argomento militare, politico, civile, morale, encomiastico. 48 È considerata solidale alla ricezione del trattato dantesco e alla classificazione degli stili che esso propone, la scelta da parte di trissino di riportare la canzone ad un alto statuto di gravitas. Ciò avviene in primo luogo nel campo prettamente lirico, con la ricostituzione della macrostruttura interna in triadi, in senso pindarico, ma anche con l’elezione della forma a involucro atto a contenere la risonanza morale e riflessiva dei cori nella tragedia Sofonisba. A intervallare le parti dialogate a struttura metrica abbastanza libera, con alternanza di endecasillabi sciolti intercalati a settenari, nell’opera drammatica trissiniana, databile al secondo decennio del Cinquecento, gli inserti corali sono scritti sulla partitura di canzoni che si avvalgono ora di schemi precisamente petrarcheschi, ora di schemi di matrice petrarchesca e che, con la loro presenza all’interno di un testo di natura tragico, denunciano l’alto concetto che si vuole restituire alla forma metrica, anche al di fuori della tradizione di genere nella quale essa si è originata, esercitata, e replicata fino all’estenuazione e in taluni casi allo svilimento. Quanto a particolari più strettamente tecnici, Cremante 2005, 205 nota che « nessuno schema di canzone fra quelli presenti nella Sofonisba termina con un settenario […], ben cinque presentano un settenario in prima sede, secondo un uso ripreso anche nelle Rime (Xiii, LiX) e autorizzato da Petrarca, ma non da Dante». 47

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1.2.2 P. Bembo, Gli Asolani (1505, 15302) L’edizione critica curata pochi anni or sono da giorgio Dilemmi consente di apprezzare nel dettaglio il processo redazionale49 che caratterizza il prosimetro degli Asolani, dalle prime incomplete indicazioni ravvisabili nel manoscritto queriniano di fine Quattrocento, passando per la princeps del 1505, e poi alla stampa del 1530 (che apporta delle modifiche sulla scorta delle Prose ed è edita a Venezia presso i fratelli da Sabbio, come le Rime) sino a giungere, da ultimo, alla versione definitiva ma postuma del 1553. Se le differenze tra il testo del 1553 e quello del 1530 hanno la consistenza di minuziosi aggiustamenti relativi all’aspetto grafico, fonetico, o al più morfologico, quelle tra la stampa del 1530 e la princeps sono macroscopiche e denunciano un caso di riscrittura più che di mera revisione,50 che concerne sia la parte in prosa, con riformulazioni, tagli e ampliamenti, sia – ed è ciò che qui più interessa – il canone dei pezzi poetici. Queste discrepanze organiche rendono più significativo il già fondamentale quesito che sorge a proposito dell’opportunità di seguire la prima edizione o piuttosto la seconda. Per motivi di sincronia editoriale rispetto alle altre componenti del corpus la scelta dovrebbe cadere senza esitazioni sul testo degli Asolani del 1530, ma perplessità sono generate da alcune precisazioni di Dionisotti che impongono per la loro incontrovertibilità di meditare con maggiore consapevolezza un’opzione apparentemente scontata. il più autorevole critico di Bembo ha occasione di sottolineare che quella del 1530 è certo una felice e ben riuscita rielaborazione destinata ad essere consacrata senza particolari variazioni nella vulgata del 1553, ma che d’altra parte ciò non toglie che il valore innovativo specifico dell’opera degli Asolani sia quello propagato dall’editio princeps.51 Dunque, posto che uno degli scopi Ulteriore importante riferimento per questo aspetto va a Berra 1996. Dalla radicale disomogeneità tra l’ed. 1505 e l’ed. 1530 deriva, secondo Dilemmi, l’impossibilità di riprodurre in un’unica soluzione il testo di una versione prescelta, con l’altra indicata in un apparato che diventerebbe troppo farraginoso e malagevole da consultare. Perciò l’edizione critica è strutturata in tre sezioni distinte, la prima delle quali offre un’immagine della primissima redazione manoscritta del queriniano, ancora lontano dall’esaustività del piano finale dell’opera, la seconda presenta il testo secondo la princeps, e l’ultima propone la versione della vulgata del 1553, da cui, attraverso le lievi varianti evidenziate in apparato, si può ricostruire facilmente anche il testo del 1530. 51 Cfr. l’appendice alla seconda edizione degli scritti di Bembo ora in Dionisotti (ed. 49 50

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di questa indagine sia quello di individuare modelli fondanti per il metro della canzone nel Cinquecento, e appurato che il segno più incisivo lasciato dagli Asolani è quello folgorante della prima edizione, a cui si ascrive il merito di precorrere, nel panorama della letteratura brillante e manierata delle corti, la teoria del petrarchismo formale e sostanziale che si leggerà più compiuta e definitivamente elaborata nelle Prose, è opportuno chiarirsi i dubbi che nascono a riguardo della liceità di privilegiare l’edizione del 1530 sostanziando la riflessione con ulteriori spunti. Dal confronto tra la versione del 1505 e quella del 1530 emerge che il numero delle liriche sparse nei tre libri passa da 20 a 16, a causa dell’espunzione di una ballata, di un madrigale e di due canzoni.52 Perciò, qualora si assumesse il riferimento al testo del 1530, queste ultime due liriche scomparirebbero dal tracciato dell’indagine, sebbene ingiustamente perché conosciute e introiettate dal pubblico dei lettori fin dal 1505. tuttavia, una simile duplice perdita non avviene ma si tramuta anzi in acquisizione e riaffermazione dal momento che le medesime canzoni eliminate dai secondi Asolani vengono in un certo senso promosse di grado e confluiscono nella nuova raccolta delle Rime del 1530, dimostrando così l’unità di intenti di Bembo nella riedizione del prosimetro e nella pubblicazione del canzoniere, usciti a stampa entrambi nel medesimo anno. Pertanto, poiché il gruppo delle canzoni che alla fine rappresenta la produzione di Bembo all’altezza degli anni trenta, pur ricombinato e distribuito in modo diverso rimane invariato qualsiasi decisione si prenda,53 nella scelta del testo prevale, rafforzata dal rilievo dell’esistenza di una comunicazione solidale tra il dialogo sull’amore e le Rime e di una permeabilità tra le due opere, l’iniziale motivazione cronologica per cui si tendeva a prediligere i secondi Asolani del 1530.54 Prima di inoltrarci Vela) 2002, 71-76. 52 Si tratta della caduta della ballata Quel che sì grave mi parea pur dianzi e del madrigale Che giova saettar un che si move che erano situati nel primo libro e dell’eliminazione delle due canzoni del secondo libro Solingo augello, se piangendo vai e A quai sembianze Amor Madonna agguaglia. 53 Più precisamente, considerando i primi Asolani e le Rime del 1530 l’unica differenza sarebbe la presenza ridondante delle due suddette canzoni nelle schedature di entrambe le opere. 54 Pertanto d’ora in avanti tutte le citazioni relative ai testi degli Asolani saranno tratte dalla terza parte della già citata edizione Dilemmi e la lezione del 1530 sarà dedotta dalla vulgata per differenza dalla consultazione dell’apparato.

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nella rassegna dettagliata del contenuto poetico dell’opera, è necessario esplicitare e contrastare un’altra potenziale obiezione circa la decisione di includere il testo stesso degli Asolani nel novero degli elementi costitutivi del corpus. A differenza degli altri libri da cui si sono tratte le liriche qui analizzate, i quali hanno tutti l’aspetto di raccolte di rime se non di veri e propri canzonieri, gli Asolani si segnalano per la loro peculiare morfologia di dialogo di carattere filosofico condotto sul doppio binario della prosa e dei versi: come è ovvio, questo è un elemento che crea una pesante disomogeneità. Ciò nonostante, la discriminante che ha portato a rendere il prosimetro parte integrante della ricerca è stata l’osservazione che sarebbe stato contraddittorio e insensato, in uno studio imperniato sulla canzone, con particolare riguardo a quella di argomento amoroso, tralasciare le poesie di un’opera che tratta coerentemente, in maniera programmatica e spiccata di tale tema. Se poi si ipotizza, tra l’altro, che produrre un discorso sulla passione, sui suoi effetti e sulla sua possibile sublimazione in direzione edificante e spirituale, così come avviene tra le pagine degli Asolani, potrebbe essere il pretesto o, alternativamente, la conseguenza di un esercizio poetico che riporta alla luce la vena autentica della musa di Petrarca, appare lampante la necessità di non sorvolare su questa parte del repertorio poetico del Bembo nell’ambito di un’indagine che sonda il Cinquecento, secolo del petrarchismo per definizione. infine, fatto non di secondaria importanza, la tradizione successiva conferma, soprattutto dal punto di vista strutturale e metrico, che certi esperimenti che germogliano dalla base della canzone petrarchesca, come l’ode di stampo oraziano, e che sono allusi in quest’opera destinata ad essere totalmente canonizzata perché di mano del maestro Bembo, ebbero una notevole importanza nell’evoluzione della lirica e furono a lungo ricordati e considerati come precedenti legittimanti per lo sviluppo di forme prima ritenute non ortodosse. Pare, invero, che i primi esempi di canzone a stanze brevi e semplificate, sul modello classico delle odi di orazio in strofi di 4 versi, rimonti proprio agli Asolani, dove questo tipo di testura è diffusa in modo capillare e sembra sostituire, quanto a tono e ad estensione, il ruolo ricoperto nei libri di lirica dall’agile sonetto (in effetti qui assente) attraendolo nella logica strofica della canzone. il nucleo dei 16 testi poetici contenuto nell’edizione del 1530 degli Asolani consta di una sestina, un madrigale, 6 odi-canzonette e 8 canzoni. Le liriche appaiono distribuite con densità decrescente nei tre libri di Perottino (8), gismondo (5) e Lavinello (3), mentre alla progressiva 32

rarefazione delle prove poetiche corrisponde un innalzamento di tono, di argomento e di stile, che culmina nel trittico di canzoni omometriche55 e “sorelle” del terzo libro. Del resto, si può dire che l’ordine di comparsa delle forme metriche determini un climax ascendente da esemplari che guardano alla poesia cortigiana a prove di più stretta osservanza petrarchesca. Questo vale non solo nel complesso dell’opera ma anche in ciascun libro perché non è giudicabile fatto casuale che il discorso del primo giovane interlocutore Perottino, punteggiato in principio da odi oraziane, evolva fino a trovare la chiusura con una sestina e due canzoni,56 né che Lavinello, a cui spetta di parlare con razionalità dell’aspetto principe del sentimento amoroso, ossia l’elevazione dell’amante, non pronunci nessun altro testo all’infuori delle tre canzoni vicine, né infine che ciascuno dei tre discorsi sull’amore che hanno spazio nei rispettivi libri preveda all’apice non solo il metro lungo e prestigioso della canzone ma anche la sua sottolineatura tramite la serializzazione, vale a dire la presenza ravvicinata di più liriche con il medesimo schema e il medesimo argomento.57 Dagli Asolani la forma poetica strofica58 e, più in particolare il metro della canzone come sua espressione più prestigiosa, esce estremamente valorizzato sia per il fatto che il suo impiego diffuso va contro la pratica coeva tardo-quattrocentesca che si concentrava di preferenza sul sonetto o sulla terza rima59 sia perché viene indicato come mezzo più compiuto per tentare l’imitazione di Petrarca. A ciò si aggiunga, infine, un’indicazione di Claudia Berra, la quale nota che nel momento in cui, nell’ultimo passaggio del dialogo, il discorso sull’amore si stacca dal riferimento, idealizzato ma pur sempre terreno,

Cfr. le tavole metriche a p. 97. Si tratta della sestina i, 24 I più soavi e riposati giorni e delle canzoni 1, 32 Poscia che ’l mio destin fallace et empio e 1, 33 Lasso ch’i fuggo e per fuggir non scampo. 57 Questo tema verrà successivamente approfondito. Chiarisco, comunque, fin da subito che nel secondo libro la canzone finale è unica ma rientra nel catalogo delle serializzazioni perché è interpretabile come una canzone doppia che unifica due modelli. 58 Colpisce negli Asolani da un lato la totale assenza di sonetti, dall’altro la presenza diffusa di forme magari brevi (come nel caso di alcune canzonette e anche di alcune canzoni) ma comunque articolate in stanze. 59 Cfr. Dionisotti 1974, 109. L’opzione di Bembo ripristina «la tradizione poetica rappresentata dalle canzoni di Petrarca, di contro a quella tanto più familiare e gradita ai suoi [di Bembo] contemporanei, rappresentata dai sonetti e dai Trionfi». 55 56

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alla passione per additare il culto della bellezza divina, eterna e perfetta,60 svaniscono anche le liriche e il campo viene interamente invaso e dominato dalla prosa, come se con ciò Bembo volesse ribadire che, in opposizione «allo sperimentalismo tematico quattrocentesco, la poesia petrarchesca e petrarchista è esclusivamente poesia d’amore».61 in conclusione, dunque, si evince che il rigetto dell’artificiosità cortigiana e il recupero della retta imitazione dei Fragmenta si lega, nelle prime prove asolane di Bembo, da un lato al metro della canzone,62 e dall’altro al tema amoroso.

1.2.3 P. Bembo, Rime (1530) Le canzoni delle Rime sono desunte dall’edizione critica curata da guglielmo gorni,63 che ha avuto il merito di aver reso finalmente disponibile agli studiosi il profilo della fondamentale princeps del 1530 a fianco del testo vulgato. Prima di questa impresa la versione postuma del 1548 era l’unica via comunemente disponibile per conoscere la raccolta lirica bembiana, perché era quella scelta e riportata nelle due edizioni moderne di riferimento di Carlo Dionisotti e di mario marti. Le Rime attraversano propriamente tre fasi editoriali che ne determinano un progressivo incremento: il gruppo iniziale di 114 testi (101 sonetti, 6 canzoni, 2 ballate, 2 madrigali, una sestina, uno strambotto e un capitolo) della princeps stampata presso i fratelli da Sabbio (come i coevi Asolani) viene integrato nella versione del 1535 da 20 nuovi sonetti, un L’ultimo interlocutore del dialogo, il romito, sostiene che il godimento perfetto non è quello che deriva dall’amore terreno depurato dagli elementi istintivi e passionali e che fa intuire la bellezza divina, ma quello che scaturisce direttamente e senza mediazioni femminili dalla contemplazione dell’amore celeste e immortale di Dio. 61 Cfr. Berra 1996, 260. 62 L’importanza conferita a canzoni, odi-canzonette e stanze di canzone negli Asolani induce Caruso 2000, 161 ad indicare negli anni della revisione dell’opera (1500-1505) il «momento alto della canzone» bembesca. Con questa prospettiva, inoltre, concorda il rilievo che sono da ascrivere a quello stesso periodo pressocché tutte le altre canzoni incluse nelle Rime (XXVi, Li, LXViii, LXiX). 63 il testo critico dell’intera raccolta è contenuto in una sezione apposita dell’antologia Gorni, Danzi, Longhi 2001, pp. 51-189. 60

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madrigale e tre ballate e ulteriormente espanso nell’edizione Dorico del 1548 con l’aggiunta di un nuovo gruppo di sonetti e della canzone Donna, de’ cui begli occhi alto diletto in morte della morosina. Se la vulgata è di capitale importanza perché fissa nella tradizione del maturo Cinquecento e dei secoli seguenti l’immagine standard del canzoniere petrarchista, e se l’edizione del 1535 è concordemente reputata una meno rilevante tappa transitoria verso questo esito, la princeps riveste un ruolo cruciale che esige di essere riscoperto e ristabilito nelle sue coordinate. È questa la felice intuizione che ha sostenuto l’opera di gorni, il quale nella nota al testo che accompagna il suo lavoro rivela che la sua scelta editoriale muove dalla convinzione che «è sulla stampa del 1530, e insomma sulla testualità bembiana del primo trentennio che si sono formati i poeti lirici italiani del Cinquecento».64 Da una prospettiva che concentri lo sguardo sulla canzone, la raccolta del 1530 dimostra un’inversione di tendenza rispetto a quello che potremmo definire il petrarchismo amoroso in stile alto degli Asolani, certo ammodernati nel 1530, ma fondamentalmente eredità di una stagione poetica precedente. Come nel prosimetro il dominio del territorio poetico era affidato a canzoni e canzonette oraziane e la forma del sonetto non era neppure annoverata, così, all’opposto, nel canzoniere bembiano signoreggia incontrastato il sonetto, mentre invece il già esiguo elenco delle 6 canzoni incluse sarebbe a rigore ancora più minuto se non fosse rimpolpato dai due testi estratti dagli Asolani nella versione del 1505 e qui ricollocati.65 La concentrazione dell’interesse verso il metro breve a discapito della canzone e delle altre forme è confermato anche dalle risultanze delle due stampe successive, in vista delle quali il Bembo appare completamente assorbito dall’impegno di procurare nuovi esemplari per arricchire a dismisura e fuori da ogni proporzione petrarchesca proprio la compagine dei sonetti. D’altro canto l’impressione è che da una stampa all’altra le canzoni siano ereditate solo perché componente formale necessaria nell’inventario di un canzoniere ma che ad esse Bembo riservi ben poche cure. ne sia

Cfr. Bembo (ed. gorni) 2001, 44. Si allude, come già ricordato sopra, al transito delle canzoni asolane Solingo augello, se piangendo vai (poi diventato O rossigniuol, che ’n queste verdi fronde) e A quai sembianze Amor Madonna agguaglia, dalla princeps del 1505 alle Rime, a partire dal 1530. 64 65

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testimonianza il fatto che, in quasi quindici anni di perfezionamenti e di ampliamenti della raccolta, l’unica canzone aggiunta è quella di argomento funebre per la donna amata. Si potrebbe in conclusione asserire che il Bembo delle Rime adatta l’espressione del sentimento amoroso, che aveva trovato larghezza di respiro nelle ampie testure delle canzoni asolane, nell’angusta gabbia del sonetto dalla quale aveva inizialmente voluto rifuggire con gesto di consapevole ribellione contro la prassi quattrocentesca. Quindi, invece che segnalare il rinnovamento proposto dalla sua lirica con la riqualificazione del trascurato metro petrarchesco della canzone, come aveva suggerito negli Asolani, il poeta veneziano finisce per spendere tutte le energie attorno alla forma del sonetto fino a trasformarlo e a produrre torsioni sintattiche e intonative lontane dalla poesia cortigiana, cercando con questo espediente lo stacco definitivo dal passato più recente.66 Per quanto riguarda la disposizione delle forme all’interno della raccolta, anche nel canzoniere bembiano come nel prosimetro, benché in maniera meno spiccata, vi è la tendenza ad accorpare se non a serializzare le canzoni,67 da un lato per non disperderne la forza identitaria nella proliferazione di tanti sonetti, dall’altro per costituire nuclei metrici compatti, sul modello della zona 125-129 o 71-73 dei RVF. tale atteggiamento è una sorta di filo rosso che contrassegna i modi di strutturazione delle raccolte bembiane, la cui importanza è forse meglio individuabile seguendo l’evoluzione successiva della morfologia delle Rime. Come emerge dalle verifiche eseguite da Simone Albonico nella stampa del 1548, a proposito della quale è doveroso ricordare l’acquisizione, tra i nuovi testi immessi, di 14 liriche degli Asolani,68 il criterio che guida l’inserimento delle canzoni Cfr. Ariani 2001, 169: «Pietro Bembo si è assunto consapevolmente una duplice funzione normativa e sperimentale […]; molti sonetti della maturità hanno offerto ai seguaci della maniera petrarchesca moduli innovativi come il calcolato, ma pungente allargamento del lessico […], un allentamento della tenuta metrico sintattica del sonetto (continuità logico-sintattica con rigetto trans-strofico), puntuale infrazione ritmico sintattica (enjambement, anche in “spezzature” aspre)». 67 Delle 6 canzoni della raccolta solo la prima in ordine di comparsa Felice stella il mio viver segnava e l’ultima Alma cortese che dal mondo errante sono isolate, mentre le altre quattro compaiono raggruppate l’una di seguito all’altra in nuclei di due (Li, Ben ho da maledir l’empio Signor e Lii O rossigniuol che ’n queste verdi fronde; LXViii Gioia m’abonda al cor tanta e sì pura e LXiX A quai sembianze Amor Madonna agguaglia). 68 Cfr. Albonico 2006b che descrive in dettaglio l’originaria veste della stampa postuma 66

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che appartenevano al prosimetro nella nuova compagine testuale è l’esito di una mediazione tra la coerenza nello sviluppo tematico richiesta dalla macrostruttura del canzoniere e il fattore strettamente metrico, per cui Bembo disloca secondo un criterio di omogeneità le forme. Per questo le canzoni della raccolta compaiono in assembramenti serrati o abbinate ad altre forme presenti in modo minoritario (come madrigali e ballate)69 e per questo, più significativamente, si ottengono accostamenti come quello tra la canzone Felice stella il mio viver segnava e l’asolana Preso al primo apparir del vostro raggio, due testi che nella coincidenza tematica sul motivo dello scambio dei cuori tra gli amanti e nella uniformità di architettura realizzano con successo un potenziamento reciproco.70

1.2.4 J. Sannazaro, Sonetti e canzoni (1530) Le rime di Sannazaro sono prelevate dall’edizione critica allestita da Alfredo mauro che, dopo quattro secoli di tradizione basata su stampe rimaneggiate indebitamente da curatori intraprendenti, torna a rifarsi alla princeps del 1530 edita nel novembre presso Sultzbach, vale a dire l’unica tra le numerose – addirittura trentotto – versioni medio cinquecentesche, sebbene anch’essa postuma, ad essere stata condotta con scrupolo di fedel-

delle Rime di Bembo. Una grave pecca inficia, infatti, le edizioni moderne (ed. Dionisotti, ed. marti), che riproducono la successione dei testi della vulgata ma ne propongono una versione lacunosa che sottrae tacitamente quelle 14 liriche prelevate dagli Asolani che l’autore aveva stabilito di unire, assieme ad altre 27 poesie inedite, ai 138 pezzi già conosciuti fin dalla stampa del 1535. La razionalità complessiva fornita da Bembo alle Rime nell’ultima edizione e l’organico profilo di canzoniere, grazie alla considerazione dei testi asolani, risultano chiariti e rafforzati. 69 Cfr. Albonico 2006b, 23-27 (Tavola di concordanza) per avere un quadro generale dell’alternanza delle forme metriche ottenuta dalla dislocazione dei componimenti nella raccolta. 70 Albonico 2006b, 10-11 asserisce che «un esame ravvicinato mostra che i legami tra i due individui sono molto fitti e si concentrano in particolare nelle rime e nei rimanti» e che per tale ragione poi, valutando l’effetto sortito dall’accostamento si può giungere a pensare ad una voluta interazione tra le due canzoni ed affermare che «è come se 27 [Preso al primo apparir del vostro raggio] provvedesse a conferire compostezza allo schema eccentrico di 26 [Felice stella il mio viver segnava]».

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tà su materiale autografo.71 il testo critico di mauro opta per il ripristino del titolo originale Sonetti e canzoni imposto alla raccolta dal Sannazaro e poi sostituito a partire dall’edizione giolitina del 155272 dal più generico e diffuso Rime. in realtà, l’antologia del poeta napoletano non si esaurisce nella rassegna dei soli due metri indicati nell’intestazione, ma tra le 101 liriche che contempla spazia dal madrigale, al capitolo, alla sestina.73 il libro si sostiene, tuttavia, quasi esclusivamente sui sonetti (ben 80) e sulle canzoni (9, di cui 6 amorose) e questo induce a pensare che la scelta del titolo, da una parte non tradisca il contenuto dell’opera e dall’altra sia motivata dalla volontà di fornire sin dal frontespizio una dichiarazione non scontata di sequela formale ai metri petrarcheschi in un frangente di sperimentalismo metrico accusato, qual è il passaggio tra Quattrocento e Cinquecento,74 a cui rimonta la compilazione del manoscritto che sta a fondamento della princeps. La raccolta appare scandita in due sezioni di misura differente: la prima comprende 32 componimenti (28 sonetti, 2 canzoni, 1 sestina e 1 madrigale) mentre la seconda, più consistente, si articola su 66 pezzi (52 sonetti, 7 canzoni, 3 sestine e 4 madrigali). in questa suddivisione mauro aveva riconosciuto un rifacimento della bipartizione del Canzoniere di Petrarca, ma tale ipotesi è stata confutata da un intervento di Dionisotti75 che ha messo in evidenza come il raggruppamento

Cfr. Sannazaro (ed. mauro) 1961, 436-451, la nota al testo per maggiori dettagli di carattere filologico. 72 il mutamento del titolo è probabilmente una delle più lievi modifiche che il testo sannazariano subisce in questa edizione, destinata a diventare la vulgata. Chi si occupa di dare alle stampe le rime «nuovamente corrette e riviste» è Ludovico Dolce, famoso per le sue abitudini di curatore propenso ad una trasmissione a dir poco attiva del testo. egli in qualche caso arriva al punto di ritenere lecita non solo la sistematica uniformazione grafica e fonetica ma anche, se necessario, la riformulazione dei versi. 73 Unica assente dal tradizionale canone del Canzoniere è la ballata, verso cui diversi scrittori afferenti dell’ambiente aragonese nutrono una certa diffidenza a causa di due effetti dell’evoluzione quattrocentesca del metro: la stretta parentela venutasi a creare con la barzelletta e lo scadimento formale rispetto alla regolamentazione che si desume Petrarca abbia seguito nelle sue applicazioni dei Fragmenta (cfr. Santagata 1979, 266). 74 metri eterogenei rispetto al canone petrarchesco usati con larghezza nei canzonieri del tardo Quattrocento e del primo Cinquecento erano ad esempio il rondò, il motto confetto, la barzelletta, lo strambotto, la caccia, la frottola e il sonetto caudato o rinterzato. 75 Cfr. Dionisotti 1963.

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dei testi non produca l’esito di tenuta organica che caratterizza un’autobiografia lirica, ma si riduca solamente a ragioni di somiglianza di motivi. La disposizione delle poesie in due parti distinte sarebbe, secondo la tesi sostenuta nell’articolo, motivata dal fatto che le rime della seconda parte, per alcuni indizi di studiata coesione intratestuale,76 porterebbero labili ma certe tracce di un progetto di canzoniere che Sannazaro probabilmente attorno al 1504 abbozzò e poi abbandonò. Di qui deriverebbe la necessità di tenere distinte nelle carte di lavoro da cui promana la princeps un primo gruppo di pezzi disposti senza un’apparente compattezza o ambizione di carattere strutturale e una seconda parte in cui si poteva intravvedere l’aspetto di un canzoniere. Si può congetturare che fu proprio la mancanza di un’operazione di riassetto definitivo della raccolta poetica in tempi ravvicinati rispetto alla composizione dei testi, e quindi attorno agli anni Dieci, la ragione che determinò la rinuncia da parte dell’umanista Sannazaro ad affidare le sue rime alla «testualità perentoria» della stampa.77 Questo fatto non ci permette di tentare considerazioni su un’ eventuale rilevanza della posizione delle canzoni all’interno del libro; tuttavia, riusciamo a valutare da altri aspetti, non ultimo il titolo voluto dall’autore, che la canzone nell’opera di Sannazaro ha un peso non marginale. Sarebbe tendenzioso voler negare per questo poeta una predominanza del sonetto nella pratica lirica, come d’altro canto, però, sarebbe anche ingiusto non scorgere che la proporzione numerica delle canzoni rispetto al complesso dei testi (9 su 101) supera, anche se di poco, quella petrarchesca. inoltre il metro solenne della lirica tradizionale è inteso e riprodotto da Sannazaro nelle sue duplici funzioni di struttura adatta a contenere sia un sentito discorso amoroso (6) che ispirati argomenti politici ed encomiastici (3) con uguale cura ed efficacia.

Cfr. Dionisotti 1963. L’elemento determinante per la ricostruzione è la scansione temporale della vicenda amorosa. in LXXVi, v. 11 si allude all’undicesimo anno dello svolgimento della storia, in LXXXiX, v. 2 al quattordicesimo, in XCViii, v. 1, al sedicesimo. 77 Cfr. Prandi 2001, 3. 76

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1.2.5 B. tasso, Libri de gli Amori (1531-1537) L’opera poetica di Bernardo tasso non è stata ancora oggetto di un lavoro critico completo; tuttavia, attualmente, un buon esito sortiscono le scelte editoriali sostenute da Domenico Chiodo nella sua moderna ristampa dei tre Libri de gli Amori e della produzione tassiana successiva degli altri due volumi di rime.78 in tale edizione, che ho assunto a base per lo spoglio delle canzoni, il testo riportato è in ogni caso quello della princeps: quindi per il Libro primo si riproduce il volume stampato nel 1531 a Venezia presso i fratelli da Sabbio, per il Libro secondo, il testo pubblicato per gli stessi tipi tre anni più tardi, nel 1534, e per il Libro terzo, quello uscito ancora a Venezia, ma per Bernardino Stagnino, nel 1537. Da questa prima parziale descrizione, il modus operandi del curatore sembrerebbe abbastanza prevedibile; in realtà, la situazione testuale è sufficientemente complessa da richiedere analisi scrupolose. L’ultima volontà dell’autore è in teoria consegnata all’edizione, da lui stesso supervisionata, del 156079 e d’altra parte, senza spingersi così oltre nel cuore del secolo, per complicare il quadro basterebbe anche ricordare solo che il Libro Primo mostra varianti macroscopiche tra la versione della princeps e quella riveduta e corretta che appare a stampa accanto al Libro secondo, poco più tardi. Un’opzione lecita dell’editore moderno poteva essere quella di stampare tutti i libri nella veste del 1560 riportandone le differenze contrastive rispetto allo stato raggiunto dal testo nel 1534, giusto per sondare la distanza tra le prime prove degli anni trenta e l’atteggiamento più maturo di metà secolo. Chiodo, invece, coglie innanzitutto l’importanza di mostrare la facies della raccolta del 1531, perché riconosce che questa edizione, arrivando subito dopo l’uscita delle rime di Bembo e di Sannazaro, è storicamente connotata e, solo dopo, valuta la possibilità di rilevarne gli aspetti discordanti rispetto alla revisione del 1534 per ripercorrere il processo di evoluzione e di affermazione della poetica di B. tasso che si compie nei suoi tratti Cfr. B. Tasso (ed Chiodo) 1995, in due volumi, il primo dei quali contiene i tre Libri de gli Amori mentre il secondo raccoglie il quarto e quinto libro delle Rime, i Salmi e le Ode. 79 Si tratta di un volume giolitino realizzato per le cure di girolamo ruscelli che conteneva la ristampa dei tre libri degli Amori pubblicati negli anni ’30 e del quarto delle Rime (uscito nel 1555) e la stampa del nuovo quinto libro corredato da un’appendice separata di Salmi (30 odi sacre) e di Ode (quelle già edite scorporate dai libri precedenti e integrate con testi inediti).

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fondamentali in questo decennio, più che nel Cinquecento inoltrato.80 il Libro primo, così come esce nel 1531 con dedica a ginevra malatesta, è articolato in due sezioni separate tematicamente ma anche dal punto di vista tipografico mediante l’interposizione di una pagina bianca; i primi 124 componimenti (115 sonetti, 4 capitoli in terza rima, 2 sestine e 3 canzoni, di cui 2 amorose e una celebrativa dedicata ad ercole d’este) completano l’immagine di un canzoniere di stampo tradizionale, mentre le successive 23 liriche (20 sonetti votivi con frequenti allusioni mitologiche e 3 odi oraziane) rappresentano lo stadio più innovativo del tentativo di ibridazione tra orizzonte classico e romanzo a cui ambisce B. tasso. in entrambi i casi la forma del sonetto dilaga, secondo una tendenza che sembra accentuarsi sempre più nei libri di rime cinquecenteschi a danno degli altri metri e in specie della canzone, la quale, pur avendo una stabile tradizione secolare alle spalle, declina in questa raccolta fino a raggiungere una consistenza numerica pari a quella, comprensibilmente esigua, dell’ode oraziana. Una simile lettura degli interessi di B. tasso trova conferma nell’edizione del 1534, che contiene una nuova versione del Libro primo. È interessante rilevare che nel volume iniziale degli Amori «nuovamente corretto», sono conservati, dopo un intervento di radicale epurazione, solamente i sonetti, mentre sestine, capitoli e canzoni vengono espunti in modo irrevocabile e le odi prelevate per essere ricollocate in un’apposita partizione del Libro secondo.81 Anche alcuni sonetti vengono cassati e la loro esclusione dalla nuova versione della raccolta è con buone probabilità motivata da mere ragioni di gusto o dall’inopportunità di ripubblicare testi occasionali che a distanza di tempo suonavano anacronistici. il giudizio complessivo non può non appuntarsi sul risultato di ricercata omogeneità

Cfr. B. Tasso (ed. Chiodo) 1995, 419-420. Chiodo scarta l’opportunità di riportare i primi libri di lirica di B. tasso secondo l’edizione del 1560 anche perché nota che questa stampa è corrotta da errori e da fraintendimenti banali che devono essere imputati al curatore e non già all’autore. Da ciò si deduce che B. tasso, pur essendo presente a Venezia al momento della pubblicazione delle rime, delegò il lavoro editoriale allo stampatore, perché probabilmente più interessato a seguire gli sviluppi tipografici del poema eroico Amadigi, che stava raggiungendo la stampa proprio in quello stesso anno. 81 Queste annotazioni sono possibili perché l’edizione Chiodo, pur riportando per il Libro primo il testo dell’editio princeps permette al lettore di intuire anche l’aspetto della revisione del 1534 nella misura in cui appone un asterisco accanto ai testi destinati ad essere eliminati o dislocati in una diversa sede. 80

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delle forme cui perviene il libro che è presumibilmente fondata sulla selezione tassiana dei soli esercizi metrici ritenuti solidi e felici. Allegato al Libro primo ormai ridotto ad un’antologia di sonetti, nel 1534 esce anche il Libro secondo de gli Amori, che rappresenta il volume più importante dell’intera produzione lirica di B. tasso per le fiere scelte annunciate nella dedicatoria al principe Sanseverino82 e per le numerose e originali prove poetiche spiccatamente classicheggianti che qui sono esposte. il profilo del volume interpreta in maniera creativa l’esigenza di varietà messa a tacere nella revisione di quello che lo precedeva. esso è scandito in diverse sezioni occupate da testi poetici multiformi via via sempre più lontani dai criteri lirici canonici, con un procedimento analogo a quello applicato in maniera più parca nella princeps del 1531, che presentava solo in coda le poche odi oraziane. L’inizio della rassegna poetica del secondo volume si fonda su un rassicurante gruppo petrarchesco di 81 sonetti e 9 canzoni, ma a seguire, con una progressione ascendente, compaiono 9 odi affiancate dalle 3 che provenivano dal primo tomo degli Amori, una selva scritta per la morte di Luigi gonzaga, un epitalamio, una favola in versi (Favola di Piramo e Tisbe), 6 egloghe pastorali e una piscatoria precedute da una dedica a Vittoria Colonna e infine 6 elegie: insomma, un repertorio di generi dal sapore antico veramente ricco di sfaccettature e alimentato dalla vena del tasso più sperimentale. Si può dire che nel Libro secondo il poeta bergamasco si risolva ad uscire definitivamente allo scoperto, dal momento che, messe da parte le insicurezze dettate dalla preoccupazione di violare i criteri del bembismo, non nasconde più di essere sedotto dal fascino dei ritmi, degli stili, dei temi della pura classicità e di conseguenza si impegna senza remore nell’imitazione di forme obliterate dalla tradizione romanza. Sul più trascurato versante petrarchistico, invece, B. tasso giudica degni di attenzione solo il sonetto e la canzone, metro che sembra rivalutato – se non altro in base alla considerazione della frequenza d’impiego – rispetto a quanto si evinceva nella originaria versione del 1531 del Libro primo. nel gruppo dei 90 testi che ascrivono il loro involucro formale al normale costume della moderna poesia volgare, sonetti e canzoni mantengono una proporzionalità numerica reciproca affine a quella dei Fragmenta e il metro della canzone è anche 82

Cfr. B. Tasso (ed. Chiodo) 1995, 5-13.

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quello cui spetta il solenne compito dell’explicit.83 Se è vero, però, che la canzone è portata ai massimi livelli da Petrarca nell’ oscillante effusione del sentimento amoroso, allora B. tasso compie un vistoso fraintendimento del modello perché tende ad enfatizzare a dismisura questa forma nell’ossequio solenne84 mentre solo di rado la sostanzia di vibrazioni più intime, come se, in una polarizzazione semplificata, volesse attirare il più lieve argomento erotico nelle maglie del sonetto e riservare l’impianto sontuoso della canzone a temi più artefatti. D’altro canto, è chiaro che le canzoni più convincenti sono quelle che traggono la materia non già da movenze riconoscibili nel Canzoniere ma dall’elegia antica, come la lirica 2, XXXii, Or che con fosco velo, che, per narrare le sofferenze dell’amante abbandonato, si ispira al tragico mito di Arianna raccontato da Catullo nel carme 64 o la 2, XC, Come potrò giamai, Notte, lodarti, estatico notturno dominato dal canto delle ninfe e dalla Luna che contempla malinconica endimione. La vena encomiastica, già serpeggiante nei metri romanzi del Libro secondo, dilaga nel Libro terzo, pubblicato nel 1537 a conclusione della triade degli Amori che era stata preannunciata fin dalla lettera prefatoria del 1531.85 il volume si apre con una breve lettera di omaggio86 a ippolita Pallavicina de’ Sanseverini e consta di un canzoniere di modeste dimensioni (solo 66 testi, di cui 3 odi, 6 canzoni, 56 sonetti e l’epistola in versi al Cardinale Cornelio);87 in coda a questo, quasi come un’appendice separata dal corpo principale del testo, compare una sezione più innovativa, costituita dalle stanze per giulia gonzaga e da La favola di il piccolo canzoniere che occupa la prima sezione del Libro secondo è concluso dalla canzone 2, XC Come potrò giamai, Notte, lodarti. 84 ricordo, solo per fare qualche esempio che la 2, Xii in 15 ampie strofe è dedicata al Cristianissimo re di Francia, la 2, XLiX e la 2, LXii a Vittoria Colonna, regina di un celebre circolo culturale durante il suo soggiorno ad ischia, la 2, LXXVi al papa Clemente Vii. 85 Cfr. nota 21 a p. 18. inoltre si consideri che, per l’unitarietà di ispirazione, nonché per la contiguità cronologica, nell’ultima ristampa i tre volumi saranno compattati tramite la numerazione delle pagine continua. 86 in questo caso la dedicatoria è scevra di dichiarazioni di poetica e si risolve nella sola captatio benevolentiae. 87 È la lirica 3, LXV Ben potrò, Signor mio, ne l’urna grave e si tratta di un esperimento metrico che consiste in un sistema di quartine incatenate ad imitazione dell’esametro. (Martignone 2003, 392). 83

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Leandro ed Ero, i primi approcci di Bernardo rispettivamente all’ottava e all’endecasillabo sciolto. il libro, come entrambi i precedenti, mantiene dunque una composizione ibrida e ciò manifesta la persistente volontà dell’autore di segnare una strada alternativa per la lirica rispetto a quella proposta da Bembo, una via che non si chiuda nell’esclusivismo degli archetipi petrarcheschi ma che, traendo linfa dall’esempio dei classici, si assicuri margini di sperimentazione, soprattutto nei metri lunghi. in questo panorama, le tradizionali canzoni, specie se osserviamo la proporzione con gli altri metri, formano ancora una compagine numericamente consistente, benché, nel loro dipanarsi a volte con fatica attraverso le molte stanze (in media 10), appaiano ormai stanchi tentativi cristallizzati su tematiche occasionali e solo raramente riservino guizzi di luminosità. nonostante ciò, il metro principe del canone petrarchesco mantiene un ruolo di indiscusso rilievo nella parte più canonica della raccolta, come si può arguire dal fatto che è proprio alla maestosa canzone di pentimento a l’anima che spetta il compito di suggellare la raccolta d’amore dedicata alla Pallavicini, ultima frazione di quell’ideale canzoniere, ritmato in tre parti, che aveva avuto inizio nel Libro primo. 88

1.2.6 L. Alamanni, Opere toscane (1532-1533) La produzione lirica a cui Alamanni dà pubblica diffusione è contenuta, assieme ad un ampio repertorio di altre forme e generi, all’interno dei due volumi complessivi delle Opere toscane, dedicate al Cristianissimo re di Francia Francesco i e date alle stampe tra 1532 e 1533 in due coedizioni, una presso gryphius a Lione e l’altra per i tipi di giunti a Firenze (vol. i) e Piccolomini da Sabbio a Venezia (vol. ii).89

La sopravvivenza di un autografo manoscritto del Libro terzo, che presenta numerose varianti formali nonché mutamenti nella collocazione dei testi all’interno della raccolta, testimonia che Bernardo tasso era particolarmente attento alla strutturazione dei propri canzonieri e assegnava precisi significati alle posizioni che le liriche occupavano nell’economia del libro. (martignone 2003, 389). 89 Cfr. Mazzacurati 1996, 101.

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nonostante l’importanza che questa raccolta poetica riveste nella codificazione del linguaggio lirico del Cinquecento, la situazione testuale con cui sono costretti a confrontarsi gli studiosi moderni è del tutto insoddisfacente. oltre alla mancanza di un’edizione critica, che tuttavia non stupisce visto che la conoscenza dell’opera di autori ben maggiori è penalizzata da questa stessa menda, si deve accusare anche l’assenza di una ristampa moderna attendibile che renda la stessa consultazione più agile. il testo di riferimento a cui generalmente si ricorre per ragioni pragmatiche è la stampa ottocentesca assemblata da Pietro raffaeli,90 che riproduce assieme al contenuto delle Opere toscane anche altri scritti in versi o in prosa di Alamanni, come ad esempio le lettere a Benedetto Varchi, il poema virgiliano La coltivazione o pezzi poetici inediti compulsati da varie carte manoscritte. i difetti di tale edizione sono molteplici e consistono da un lato negli interventi sulla lettera del testo con varianti morfologiche o correzioni delle lezioni originali, dall’altro nel fatto che il curatore, raccogliendo il corpus di testi, incappa talvolta anche in attribuzioni fuorvianti91 e, in ogni caso, tende a mescolare materiali di provenienza eterogenea con l’intento di riorganizzarli secondo una presunta ricostruzione cronologica. il risultato è che la fisionomia autentica della raccolta del poeta toscano viene irrimediabilmente offuscata. Versi e Prose vengono proposti al lettore come una sorta di canzoniere organico, quando, invece, nelle Opere toscane vige uno stretto ordinamento metrico, per cui i testi sono raggruppati secondo una classificazione delle forme e non in una successione che ambisca a costruire un’autobiografia poetica. il primo volume contiene 4 libri di elegie, 14 egloghe, 178 sonetti, intervallati da 5 ballate e 2 canzoni (di cui una di argomento amoroso e Cfr. Alamanni (ed. raffaeli) 1859, ora disponibile anche in versione digitale all’interno di ATL, 1997. 91 Raffaeli 1859, ad esempio, nel ii volume pubblica 10 canzoni inedite dichiarando di averle tratte dal codice magliabechiano 670, classe vii n. 27 (nota 1 p. 149). insospettito dal fatto che le canzoni figurino adespote in un manoscritto redatto da un copista particolarmente scrupoloso nel riportare accanto ai testi i nomi degli autori, Hauvette 1903, 422-426, propone prove di carattere filologico e contenutistico e confuta l’attribuzione ad Alamanni di quasi tutti questi componimenti ad eccezione di i, 209, Quanto di dolce avea e di i, 282, Poi che il fero destin al mondo ha tolto. in effetti, nel gruppo delle canzoni figurano alcune liriche di paternità diversamente accertata, tra cui Vorrei tacere amor (di giovanni guidiccioni, qui CXXiX), Perché tornar non veggia, Da poi che il mio terreno, Occhi vaghi e lucenti e Mentre nel vostro viso (tutte di Francesco maria molza e qui rispettivamente siglate iii, V e mol iii). 90

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l’altra di argomento funebre), il poemetto in endecasillabi sciolti Il diluvio romano (incentrato sul sacco di roma del 1527), 12 satire e 7 salmi penitenziali; il secondo esibisce 17 selve, 8 inni, La Favola di Fetonte, la tragedia Antigone, 72 stanze in ottave e infine ancora 68 sonetti per Francesco i. nel complesso la raccolta, soprattutto per la tassonomia dei generi su cui appare strutturata, si denuncia come un saggio che Alamanni volle dare delle sue competenze tecniche, nonché come un repertorio di tutte le possibilità del linguaggio lirico, elegiaco, satirico, tragico, offerto al protettore Francesco i e alla cultura francese che in quel frangente storico di rinnovamento «aveva fame di tradizione e di “know how”».92 inutile sottolineare come, all’interno di una così smisurata produzione, se anche i circa 200 sonetti sostengono a fatica il confronto numerico con le forme di ascendenza classica, il metro della canzone, rappresentato da soli due esemplari abbia un ruolo praticamente insignificante, ma tuttavia ben individuato. Una delle due canzoni è di argomento erotico (i, 209 Quanto di dolce havea) e ruota attorno ai sentimenti alterni di trasporto e amara disillusione a cui la passione conduce, mentre l’altra (i, 282, Poi che ’l fero mio destin dal mondo ha tolto), che è posta, come nella tradizione più ortodossa, in prossimità della conclusione della sezione dedicata ai metri romanzi,93 è un patetico compianto in morte della madre del committente. in questo modo lo spazio ritagliato alla canzone rimane quello tradizionale di carattere amoroso e quello sempre più diffuso della celebrazione mediante l’encomio funebre. Se la cinquecentina resta la base testuale più affidabile di cui è possibile avvalersi, l’esiguità del gruppo delle canzoni censite nella raccolta a stampa è tale che ho ritenuto opportuno prendere in considerazione in questo studio anche altri componimenti, indicati come autentici da Henri Hauvette nella sua ancora fondamentale monografia su Alamanni.94 Si tratta della canzone Spirto beato a cui del padre eterno contenuta nel secondo volume dell’antologia curata da Dionigi Cfr. Mazzacurati 1996, 102. Alamanni si rivolge ad un pubblico di letterati che è alla ricerca di un linguaggio poetico provvisto di una adeguata patina retorica e di tecniche metriche e prosodiche innovative e allo stesso tempo fondate sul prestigio dei classici. ragion per cui, l’autore toscano esibisce un vero e proprio caleidoscopio di forme che non si limita a quelle comunemente diffuse sin dal medioevo romanzo. Analogo caso che chiarisce la temperie francese avida di modelli è quello delle Rime toscane dell’ignoto Amomo, edite nel 1535 a Parigi e premiate con immediato successo come esempio di classicismo volgare per il fatto di contenere testi come l’Epitaffio di Adone e la Favola di Piramo e Tisbe. 93 La canzone di compianto è seguita solo da un sonetto conclusivo alla Vergine, Vergine Madre pia, celeste luce. 94 Cfr. Hauvette 1903, 194-198, 422-426, 470-479. 92

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Atanagi,95 della canzone Poiché Madonna el mio fero destino, riportata nell’appendice i di Hauvette 190396 ma già segnalata anche nel Giornale dei Letterati e della canzone Cari Signori che per voler divino che compare nell’edizione ottocentesca di Versi e prose.97 reputo, infatti, un’operazione che garantisce un minor rischio di faziosità all’indagine allegare queste canzoni nel corpus al fine di pronunciare giudizi sugli elementi di ricorsività degli esercizi poetici di Alamanni avendo la possibilità di un confronto su più testi, piuttosto che fondare le valutazioni su due uniche prove e caricare di significato elementi che sarebbe stato allo stesso modo difficile far rientrare nella norma di un presunto usus autoriale o viceversa additare come insoliti ed extra-ordinari. naturalmente l’inclusione del suddetto materiale manoscritto è funzionale solo all’esame della struttura formale della canzone di Alamanni e non modifica in nulla il giudizio già espresso a proposito dello scarso interesse dimostrato dall’autore nei confronti dell’applicazione lirica98 di questo metro nelle opzioni determinanti dell’opera a stampa.99 Cfr. Atanagi 1565, vol. ii, 172 v. «La canzone est écrite sur un cahier de quatre feuillets doubles, dont une partie est restée en blanc, et qui se trouve relié au milieu de poésies ayant une origine toute différente, dans un manuscrit de la magliabechiana, provenant de la collection Strozzi, classe Vii, n° 1185.» (Hauvette 1903, 470) 97 Cfr. Alamanni (ed. raffaeli) 1859, vol. ii, 145. 98 il metro canzone è impiegato da Alamanni anche per redigere i cori della sua versione italiana della tragedia sofoclea Antigone. il poeta toscano si pone sulla scia degli esperimenti di rifondazione della tragedia volgare sull’esempio dell’antica portati avanti da trissino e discussi con ogni probabilità nel circolo classicista degli orti oricellari tra il 1513 e il 1515 (cfr. qui p. 29, nota 48). immessa in un differente genere, quello tragico, la canzone di Alamanni rispetta rigorosamente l’impaginazione metrica di stampo petrarchesco (cfr. in proposito Hauvette 1903, 197, nota 5 e 240-250) ma, per uniformità di tono rispetto al resto dell’opera, assurge a cadenze più sostenute e retoricizzate di quanto risultino quelle espresse negli analoghi tentativi in ambito lirico amoroso o encomiastico (Alamanni, ed. Spera 1997). 99 Su questo aspetto cfr. anche Hauvette 1903, 196: «A dire vrai, les canzoni sont fort raree dans son oeuvre; depuis ses essais de jeunesse, qu’il ne jugea pas dignes d’ètre publiés [Poiché Madonna el mio fero destino], jusqu’à ce gènàreux appel au papa marcel ii, qui fut sans doute son chant du cygne dans le genre lyrique [Spirto beato a cui il Padre eterno], Alamanni n’a laissé que cinq canzoni, si l’on écarte celles dont l’authenticité est insuffisamment démontreéé» e rinaldi 1993, 1501 che, interpretando le scelte metriche dell’ampia raccolta lirica dell’Alamanni, puntualizza che «scarseggia significativamente la forma più complessa della canzone. Al suo posto, con una scelta che concilia la ricerca di maggiore facilità e la ricreazione di un genere classico» sono inseriti altri metri, in primis le elegie. 95

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1.2.7 L. Ariosto Per la produzione lirica di Lodovico Ariosto (1474-1533) faccio riferimento all’edizione delle Opere Minori curata da Cesare Segre, che si basa a sua volta, apportando qualche precisazione, sul lavoro di giuseppe Fatini. Quest’ultimo, condotto sui tre principali testimoni allora noti della tradizione ariostesca, vale a dire due manoscritti affini della biblioteca comunale di Ferrara (F1 e F2) e la princeps del 1546 approntata dal modenese iacopo Coppa,100 attribuisce con certezza all’Ariosto 5 canzoni, 38 sonetti, 3 sonetti caudati, 6 madrigali e 6 ballate, 27 capitoli e due egloghe.101 il canone metrico illustrato da questa compagine di testi ci mostra il profilo di un autore ancora influenzato dal suo retroterra culturale e cioé da alcune consuetudini tipiche della poesia quattrocentesca delle corti padane, come si inferisce dalla presenza preponderante dei componimenti in terza rima e dalla pratica del sonetto caudato. tuttavia, alla metà degli anni ’80, la riscoperta e poi l’esame minuzioso compiuto da Bozzetti del manoscritto Vaticano-rossiano 639 (Vr) ha reso possibile modificare lievemente i dati generali di questo quadro. Quello riportato alla luce è infatti un codice di rime ariostesche assemblato presumibilmente dopo il 1522 e che sembra presentare tutte le qualità di un canzoniere d’autore. il manoscritto contiene un numero più ristretto (48 liriche) di quel gruppo di testi riprodotti concordemente dalla frangia più autorevole della tradizione (F e Cp), ma disposti secondo un ordine tematico e formale che fa intuire un preciso intento di organizzazione macrotestuale. Ariosto, dunque, per certi aspetti come il contemporaneo Bandello, percepisce ad una Cfr. LE RIME DI M. LO/DOVICO ARIOSTO NON/ più viste, & nuovamente stampate à in =/stantia di Iacopo Modenese, ciò è/ SONETTI. MADRIGALI./ CANZONI. STANZE./ CAPITOLI. // In Vinegia con Priuilegio del Sommo Pontefice, / & del Eccelso Senato Veneto. mDXLVi. il Coppa, a partire dal materiale ariostesco fornitogli dagli eredi compie una vera e propria «contraffazione a canzoniere di quelle rime» (Bozzetti 1985, 117) per il fatto che, intercalando tra loro i componimenti che, con tutta probabilità, nell’antigrafo risultavano ripartiti in sezioni metricamente omogenee, cerca di effettuare un sapiente montaggio che porti all’esito finale di un libro strutturato dal punto di vista della forma e del contenuto. il curatore modenese era intenzionato a lanciare sul mercato un prodotto editoriale allineato con le tendenze degli ultimi anni, che avevano visto, tra l’altro, tre ristampe del canzoniere di Bembo (1544) e l’uscita della prima antologia giolitina (1545). 101 Fatini 1924 riporta anche una nutrita sezione di rime dubbie, che Segre 1954 sceglie di espungere definitavamente. 100

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certa altezza cronologica la necessità di intessere le sue prove poetiche in un’unica trama, salvo poi abbandonare questo proposito per dedicarsi con maggiore profusione di impegno alla revisione del Furioso o per ritornare alla scomposizione della bozza di raccolta e all’inesausto perfezionamento dei singoli pezzi. Benché Vr non sia il documento che rispecchia l’ultima volontà dell’autore,102 ciò nonostante merita un’attenta focalizzione critica se non altro perché questo codice, al contrario degli altri testimoni, fotografa un preciso e coerente stadio della maturazione della sensibilità lirica ariostesca e, in particolare, la fase di accostamento all’esperienza del canzoniere di ascendenza petrarchesca attraverso la selezione e la riorganizzazione complessiva delle poesie nella cornice di un libro. in Vr, infatti, si scorge una maggiore attenzione formale giacché, a parte la più ridotta rappresentanza dei capitoli, tutti i componimenti inclusi si rifanno a modelli metrici dei Fragmenta. Dal momento che i manoscritti F sono di ignota paternità e la fisionomia di Cp è da ritenersi una manipolazione del suo curatore Coppa, le poche considerazioni sulla rilevanza e la posizione del metro canzone all’interno della produzione ariostesca devono esercitarsi con un punto di osservazione preferenziale su Vr, l’unica raccolta d’autore. Si nota, allora, che nel codice cinquecentesco il numero delle canzoni è piuttosto esiguo: i soli due esempi esperiti in questo metro, l’uno di ispirazione amorosa (Quante fiate io miro), l’altro di tema luttoso (Spirto gentil, che sei nel terzo giro), non occupano nemmeno una posizione troppo rilevante nell’economia strutturale della silloge, la quale, nei suoi snodi tematici fondamentali (non ultimi l’incipit e l’explicit), risulta preferibilmente scandita da sonetti. Diversi studiosi, a partire da Walter Binni,103 hanno poi sottolineato che Ariosto attua in genere una marcata diversificazione tonale passando da un metro all’altro, secondo una prassi sempre più diffusa con l’attecchimento del magistero di Bembo. L’autore riserva ai sonetti le riflessioni intellettuali, ai madrigali le divagazioni leggere, ai capitoli la narrazione Anna Carlini 1958, grazie ad uno studio delle varianti riportate da F, Cp e Vr ha dedotto che Cp e F sono testimoni stemmaticamente indipendenti e che, inoltre, rappresentano due fasi redazionali diverse, rispettivamente la più antica e la più recente, di un archetipo in movimento. Bozzetti 1985 ha poi chiarito come si pone Vr in questo contesto, illustrando che, precedente a quella di F, l’ulteriore fase redazionale che Vr attesta è anche più antica di quella di Cp. 103 Binni 1996, 28. 102

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più spiccatamente realistica, mentre alle canzoni attribuisce il compito di interpretare la vena più solenne del petrarchismo. in effetti, il territorio delle canzoni ariostesche è percorso da un’intonazione piuttosto sostenuta, da temi di carattere spirituale, da suggestioni del neoplatonismo imperante nei primi decenni del secolo, da una classica compostezza, insomma da un ventaglio di possibilità alieno e quasi stridente rispetto all’ammicco ironico e alla predilezione per particolari realistici e sensuali che segnano come marca autoriale inconfondibile le altre parti della sua opera lirica. Per quanto riguarda, da ultimo, la composizione del corpus ariostesco funzionale all’analisi che qui si propone, sebbene sia indubbia la superiore rilevanza del codice Vr, ho scelto, per ragioni di consistenza numerica e di proporzionalità rispetto agli altri poeti censiti, di prendere in considerazione, accanto alle due canzoni riportate dal piccolo canzoniere, anche gli altri tre testi di certa paternità dell’autore forniti dall’edizione Segre, tra cui si annoverano un componimento che rievoca l’innamoramento per Alessandra Benucci (Non so s’io potrò ben chiudere in rima), una canzone incentrata sul tema clessico-elegiaco del servitium amoris (Dopo mio lungo amor, mia lunga fede) e, infine, un testo di argomento luttuoso (Anima eletta, che nel mondo folle) che fa coppia con l’analogo Spirto gentil, che sei nel terzo giro.

1.2.8 m. Bandello, Alcuni Fragmenti de le Rime (1544) novelliere di spicco, matteo Bandello (1485-1561) non conobbe in vita medesima fama come poeta volgare, a quanto possiamo ragionevolmente giudicare dalla sua assenza dai florilegi del XVi secolo. tuttavia si dedicò alla creazione di rime sin dal secondo decennio del Cinquecento e attorno al 1544 si impegnò anche nella ricomposizione organica della sua produzione con l’intento di confezionare un canzoniere. il codice autografo che ce ne dà testimonianza è intitolato, inaspettatamente a questa altezza cronologica, Alcuni Fragmenti de le Rime104 e fu donato dal poeta

in questi anni il Canzoniere di Petrarca, a cui Bandello ammicca nel titolo, era citato abitualmente non come Rerum vulgarium fragmenta ma come Le cose volgari, o il Petrarcha volgare o Sonetti e canzoni (cfr. Gorni 1984, 509 e ss.) 104

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stesso a margherita di Francia,105 andata sposa ad emanuele Filiberto di Savoia. in deposito presso la Biblioteca nazionale di torino,106 esso andò quasi del tutto perduto nell’incendio divampato nel 1904; per fortuna, in precedenza, nel 1816 ne era stata tratta una copia per realizzare la prima pubblicazione a stampa delle poesie del Bandello.107 Così su questo importante testimone e sui pochi relitti dell’autografo si basa anche l’edizione critica moderna di riferimento, a cura di massimo Danzi. il volume è suddiviso in tre sezioni, la prima delle quali riproduce il contenuto del canzoniere bandelliano, la seconda un gruppo di 28 rime estravaganti e la terza una serie di 6 rime dubbie. Dato il numero piuttosto consistente di testi, per questa analisi ho intenzione di focalizzare l’attenzione sulle canzoni incluse nel primo blocco, ossia quelle selezionate dall’autore per la sua raccolta e di tralasciare, quindi, il materiale disperso ma di sicura paternità bandelliana. il manoscritto per margherita di Francia registra 205 componimenti, di cui 162 sonetti, 15 ballate, 9 madrigali, una stanza di canzone isolata, 4 sestine e 14 canzoni, anche se, secondo Fedi, le due canzoni (i, CCV) che aprono e chiudono la raccolta non dovrebbero essere considerate, a rigore, parte integrante del canzoniere, ma piuttosto elementi che appartengono alla cornice occasionale dell’omaggio e della dedica.108 Dalla carrellata schematica sulla composizione dell’opera emerge, dunque, un’impressione di varietà, tipica delle raccolte di area settentrionale ma esperita all’interno del repertorio delle forme romanze più consacrate, senza la tentazione di scivolare, almeno in ambito metrico, in scelte dal sapore cortigiano e quattrocentesco.109 il sonetto, pur rimanendo anche nella produzione il manoscritto è corredato da una lettera di dedica nella quale Bandello offre a margherita di Francia il primo testo da lei ispirato e annuncia il corredo di altre rime rimaste indenni dopo la «diruba degli Spagnuoli», ossia il saccheggio e l’incendio della sua casa del 1525, durante il quale pare che una sua prima raccolta fosse andata dispersa. 106 Si tratta del codice con collocazione to BnU n Vii 71 (già K i 33). 107 Cfr. Costa 1816. 108 La canzone i sarebbe parte integrante della dedica a margherita di Francia e la CCV farebbe da simmetrico pendant al quadro di esordio pur essendo rivolta ad un’altra destinataria, Lucrezia gonzaga di gazuolo (cfr. Fedi 1990, 176 nota 24). 109 Dal punto di vista degli spunti, delle immagini e dei motivi tematici, invece, il Bandello spesso si rifà a rimatori tardogotici come giusto de’ Conti e, in ogni caso, non individua Petrarca come modello esclusivo per la sua poesia. 105

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bandelliana una presenza proporzionalmente egemone, lascia insospettati spazi a metri più defilati nel canone di Bembo, come la sestina, il madrigale e soprattutto la ballata, che supera per attestazioni anche la canzone ed è così il secondo metro più presente nei Fragmenti. Se l’attenzione al madrigale in Bandello può essere letta come un indizio che presagisce la fortunata stagione mediocinquecentesca riservata alla misura cantabile, il recupero intensivo della forma ballata denuncia, d’altro canto, uno sguardo ad ampio raggio sulla tradizione toscana110 due-trecentesca, del resto portata in auge con la sua pluralità di voci esemplari attraverso la cosiddetta giuntina di rime antiche, testo di riferimento fondamentale per la prassi scrittoria di poeti petrarchisti e non.111 Com’è noto, la raccolta propone la fisionomia poetica di autori portanti che hanno gettato le basi della lirica italiana, ricorrendo se non esclusivamente, certo in maniera massiccia ad esemplificazioni di metri lunghi, vale a dire ballate, sestine e soprattutto canzoni. Che Bandello possa aver risentito di quest’opera è ipotizzabile non solo per la rivalutazione numerica del metro canzone (aspetto tutt’altro che scontato in un poeta cinquecentesco di provenienza settentrionale), ma anche per la riproposizione di schemi metrici di autori come Cavalcanti, Cino e Dante,112 antologizzati nel florilegio giuntino e, in qualche caso, esposti per la prima volta a stampa. Coerentemente con il ruolo aulico che rivestiva nell’antica tradizione italiana, in Bandello, la canzone appare riservata per lo più agli ampi fraseggi della lode occasionale, pur essendo sperimentata anche in precoci liriche di argomento sacro.113 il metro mantiene un peso rilevante nell’orizzonte lirico Questa caratteristica accomuna Bandello agli altri lirici primocinquescenteschi che operano nella milano degli Sforza, i quali generalmente accantonano la propria tradizione municipale per accostare di preferenza quella toscana, come fa notare tissoni Benvenuti 1983, 333. 111 Cfr. De Robertis 1977. 112 Cfr. § 2.2, p. 77. 113 Ci si riferisce all’imponente canzone estravagante sul tema della visita dei magi alla grotta della natività (Che furor santo, che splendor, che luce commentata da Dionisotti 1968), ed a CL, testo che raffigura l’inquieta vicenda della maddalena. il primo componimento testimonia il travaso di un tema declamatorio e retorico dalla letteratura umanistica in latino al volgare, mentre il secondo, per gli aspetti di dissidio interiore che il motivo della peccatrice convertita porta con sé, risulta un esperimento inusistato e premonitore di un gusto che sarà più tardi particolarmente congeniale alla poesia dell’età della Controriforma. 110

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(e non)114 del poeta tanto che si addensa soprattutto nella seconda parte della sua raccolta; sul finire del canzoniere si trova una delle poche zone di significativa uniformità metrica, data proprio da tre canzoni sullo stesso schema messe in serie e incentrate, come in Petrarca, sul tema degli occhi (CLXXXii-CLXXXiii- CLXXXiV).115 infine, è importante ricordare che l’alternanza metrica e l’interesse per modelli molteplici è una caratteristica che individua il canzoniere bandelliano non solo dal punto di vista delle forme. Come ha ben notato Fedi, l’opera lirica di Bandello è il prodotto di compromesso tra la memoria della recente tradizione umanistica lombarda in latino e in volgare116 e il richiamo al bembismo ormai imperante a metà degli anni ’40.117 i Frammenti della raccolta sono concepiti già nei primi decenni del Cinquecento ed esercitano con la loro natura occasionale forti spinte centrifughe, ma il riassetto linguistico e l’idea della composizione organica in canzoniere sono più tardi e rispondono all’imperativo classicistico della non dispersione, più che dell’unitarietà del libro. Questo fa di essi una silloge aliena dalla monotonalità e in sorprendente equilibrio tra vecchio e nuovo.

114 giova notare che Bandello non rimane estraneo, come alcuni suoi contemporanei (trissino, Alamanni), al nodo della cultura letteraria primocinquecentesca stretto attorno alla rifondazione della tragedia volgare. A questo scopo, nella sua trasposizione italiana dell’Ecuba di euripide, databile al quarto decennio del secolo, egli utilizza il solenne metro della canzone non solo per le parti liriche di ‘commento’ riservate al coro, ma anche per i brani dialogati più estesi. gli ampi interventi dei personaggi, che variano per lunghezza dalle tre alle dieci strofe, si innervano di schemi quasi sempre fedelmente petrarcheschi, con una alternanza di soluzioni davvero notevole (tra l’altro, sono riprese le testure di RVF 23, 128, 28, 125, 126, 129, 53, 270, 70, 360, 50). 115 Ciò si metta a contrasto con il fatto che Fedi 1990, 186 nota nei Fragmenti de le Rime un «alternarsi continuo di metri diversi, si ché difficilmente si creano quegli “slarghi” tipici dei Rerum vulgarium e lo stesso sonetto sembra utilizzato prevalentemente in funzione di connettivo generico in serie non lunghissime». 116 Cfr. anche Albonico 1990. 117 Fedi 1990, 191: «Se, insomma, il Bandello poeta di sonetti, canzoni, ballate e madrigali può con tranquillità rifarsi alla lunga serie di rimatori da giusto fino ai contemporanei dell’area lombarda, solo riveduti e corretti alla luce di un scelta linguistica quasi sovra regionale, e trarne spunti, tipologie, motivi subito utilizzabili, quando compie il pericoloso passo della trascrizione critica sente il bisogno di un ritorno all’exemplum». Ceserani 2007, 689 parla di un canzoniere «“riverniciato” secondo il gusto del nuovo petrarchismo cinquecentesco».

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1.2.9 g. Britonio, La Gelosia del sole (1519, 15312) il corposo libro di rime del lucano girolamo Britonio (1491?-1549) intitolato La Gelosia del sole è ancora scarsamente studiato e, in generale, poco noto ai più, forse anche a causa dell’inesistenza di una qualsivoglia riproduzione moderna e della conseguente necessità di ricorrere alla consultazione delle cinquecentine. Si tratta di un’opera poetica giovanile che conosce, come si è visto, una prima edizione con dedica a Vittoria Colonna e sottotitolo Sonetti e canzoni nel 1519 a napoli per i tipi di Sigismondo mayr e una seconda uscita, altrettanto significativa all’interno del panorama letterario del XVi secolo, di circa dieci anni seriore e che vede la luce a Venezia presso marchio Sessa nel 1531 con epistola introduttiva e sottotitolo inalterati. i due particolari relativi al paratesto forniscono chiarimenti determinanti a proposito delle circostanze di composizione dell’opera poiché, da un lato la dedicatoria sottolinea quanto sia stata anche per Britonio fondamentale la frequentazione del circolo ischitano, dall’altra la didascalia metrica premessa ai componimenti poetici denuncia la matrice neo-petrarchesca del libro, a dispetto del titolo vero e proprio ancora di sapore cortigiano. Quanto al corpo del testo, mentre si sa che la prima pubblicazione napoletana avvenne per esplicita volontà e cura dell’autore, non è chiaro se quella veneziana sia stata seguita da editori autorizzati o dal Britonio stesso. Ciò che conta è, d’altra parte, che le uniche varianti introdotte tra le due edizioni, hanno la consistenza di correzioni di refusi o di modifiche meramente grafiche laddove aspetti sostanziali come l’impianto strutturale, la veste linguistica, il numero dei testi e la loro successione rimangono inalterati tra le redazioni. Per questa effettiva equivalenza tra le due edizioni nonché per ragioni di aderenza cronologica con il canone di testi selezionato, trarrò per questa analisi i riferimenti dalla stampa del 1531. La silloge annovera complessivamente 454 componimenti, di cui 344 sonetti, 45 madrigali, 43 canzoni, 20 sestine e due capitoli ternari e mostra una suddivisione petrarchesca in due sezioni tramite eloquenti didascalie alla fine del primo blocco di 357 liriche118 (di cui 27 canzoni) e all’inizio del secondo di 97119 (di cui 16 Si legge «Fine della prima parte del libro di girolamo Britonio». La didascalia qui recita: «Seconda et ultima parte del primo libro della opera volgare di girolamo Britonio di Sicignano intitolata gelosia del sole».

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canzoni). Ancora una volta il metro aulico della tradizione italiana giace quasi sommerso tra la proliferazione di forme brevi, in particolar modo sonetti, ma anche madrigali, che sembrano quasi preludere alla moda che si propagherà nel Cinquecento maturo. nonostante tutto, se affiancata al più che discreto numero di sestine e di sestine doppie, la canzone sfoggia una nutrita rappresentanza bilanciata proporzionalmente nelle due tranche del libro, che potremmo anche giudicare piuttosto insolita nei canzonieri coevi se non tenessimo presente che tale forma metrica mantiene in genere un prestigio maggiore nella lirica meridionale rispetto che in quella settentrionale.120 nelle diciture che Britonio impiega per scandire l’opera in sezioni, occhieggia ripetutamente il termine ‘libro’, tanto che marcella grippo ha scorto a ragione in questo appellativo la volontà dell’autore di evidenziare attraverso un indizio di lettura critica «il carattere compatto e unitario» dell’opera e «la strategia strutturante ad esso sottesa».121 Se per la Gelosia si può dunque parlare di consapevole canzoniere e di canzoniere tenuto insieme da una serie compatta di connessioni di natura tematica, lessicale ma anche metrica, allora è lecito valutare il significato della disposizione e dell’impiego della canzone, focus della presente analisi, al suo interno. nella generale alternanza melodica di metri lunghi e metri brevi di petrarchesca memoria, salta immediatamente agli occhi la predilezione del Britonio per l’agglutinamento delle canzoni in serie monotematiche o segnalate dal punto di vista formale: una compagine di canzoni sorelle (dalla 235 alla 239) si isola nella prima parte per fisionomia quasi omometrica unita a tematica e riferimenti lessicali e retorici comuni; analogamente, ma con l’aggiunta del fatto che marca l’inizio di una nuova sezione, all’avvio della seconda parte del libro si situa un gruppo di metri lunghi tra cui 7 canzoni (oltre che una terza rima e una sestina, da 358 a 366) intonate sul medesimo motivo. Da ultimo, il dato più interessante. Che il libro britoniano ripercorra le orme del Canzoniere emerge apertis verbis dalla collocazione in clausola alla raccolta di una maestosa canzone di pentimento (la 454) su schema di RVF 366, ripresa che nel panorama dei

120 Questa è un’annotazione che, sulla scia di Dionisotti 1974, registra anche Santagata 1979, 268-269. La contrapposizione tra canzonieri meridionali, in cui spiccano metri lunghi come canzoni e sestine e canzonieri settentrionali, dai quali sestine e canzoni sono esclusi, non sarebbe valida solo per la seconda metà del Quattrocento, ma anche per i primi del Cinquecento. 121 Grippo 1996, 22.

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canzonieri cinquecenteschi è a dir poco rara, non solo per quanto concerne lo schema ma soprattutto per la funzionalizzazione spirituale del metro a fine libro.122 Dato il numero cospicuo delle canzoni britoniane, per non sbilanciare l’analisi su questo autore, darò un quadro metrico completo e, di volta in volta, rilievi tematici o di carattere argomentativo riguardanti tutti i 43 testi ma selezionerò solo 15 canzoni su cui applicare analisi di natura metrico-sintattica, rispettivamente 10 tratte dalla più consistente prima parte del libro e le restanti 5 dalla seconda parte.123

1.2.10 g. guidiccioni Per esaminare la produzione di giovanni giudiccioni (1500-1541), che per la gran parte si colloca negli anni ’20 del secolo,124 disponiamo di una recente edizione curata da emilio torchio. A differenza del precedente lavoro critico di Chiorboli,125 torchio distingue tra rime certe, dubbie e spurie dal momento che individua la necessità di una più vasta ricognizione della tradizione manoscritta, benché attribuisca un’importanza decisiva al manoscritto originale incompiuto siglato P (ms. Parmense 344 della Biblioteca Palatina). tale testimone, inviato con una dedica all’amico Annibal Caro, riporta il nucleo più prestigioso della tradizione lirica di giudiccioni, cioè un gruppo di 73 sonetti trascelti dall’autore attorno al 1539 per costituire un corpus compatto e organico e che verrà individuato gorni 1989 sottolinea che lo schema di 366 è in generale uno dei meno ripresi e che, sebbene diverse raccolte terminino con rime di pentimento, raramente l’ultimo testo è una canzone e più spesso è un sonetto. L’altra eccezione rilevante che emerge dal corpus è quella della canzone che chiude gli Amori di B. tasso, che, pur avendo schema e orchestrazione dei contenuti diversa rispetto all’analogo archetipo petrarchesco, si configura a tutti gli effetti come palinodia della lirica d’amore e ripiegamento verso argomenti di più alto afflato spirituale. 123 i testi-campione sono i, 30; i, 68; i, 84; i, 122; i, 165; i, 235; i, 236; i, 289; i, 331; i, 353; ii, 362; ii, 365; ii, 379; ii, 404; ii, 450. 124 Secondo Ariani 2007, 972 le liriche amorose risalgono ad un periodo compreso tra il 1520 e il 1531. Quanto alla canzone per la morte del fratello, sappiamo da testimonianze epistolari che fu redatta attorno al 1531. 125 Chiorboli 1912. 122

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come la base per la prima pubblicazione postuma delle liriche dell’autore lucchese, avvenuta all’interno del libro primo delle Rime diverse di molti eccellentissimi autori (giolito 1545).126 il manoscritto parmense non risulta, però, del tutto affidabile e deve essere sottoposto al vaglio del filologo sia per quanto riguarda l’ordinamento dei testi (pare infatti che l’attuale fascicolazione non corrisponda a quella originaria), sia per la presenza di alcune varianti a margine attribuibili alla mano di Annibal Caro e che non si può dire siano state definitivamente approvate dal giudiccioni. Dal complesso dell’edizione di torchio si desume che lo stesso guidiccioni, autore che lavora soprattutto nei primi decenni del Cinquecento sotto una moderata influenza di Bembo ma anche con una buona disposizione a lasciarsi permeare dagli ideali classicistici dell’ambiente della corte romana, si riconosce con consapevolezza ‘scrittore di sonetti’, come aveva fatto Bandello. Questo fatto è evidente non solo se si considera che il poeta «quando decise di raccogliere la sua produzione e di organizzarla in un macrotesto, si limitò ad una monodia metrica che sentiva evidentemente congeniale»127 ma anche se si analizza quale parte della sua produzione figuri nelle antologie medio cinquecentesche, nelle quali compare come autore canonico e sempre in posizione di spicco. Ciò nonostante, è possibile individuare, all’interno della compagine di poesie di certa attribuzione, non solo sonetti ma anche nove madrigali, una satira in terza rima e quattro canzoni, tutte estravaganti e conservate in modo isolato, oltre che nelle sillogi compendiarie del Settecento, in una manciata di manoscritti miscellanei del XVi secolo. i componimenti nel metro disteso sono, dunque, non solo un tipo di produzione lasciata in margine e apparentemente dettata da un’ispirazione occasionale, come dimostra l’esclusione dal gruppo di poesie raccolte in vista della revisione del Caro, ma anche dei testi che circolano in maniera abbastanza limitata già nel Cinquecento, visto che sono tramandati in un numero esiguo di manoscritti, a volte senza l’indicazione o con il fraintendimento della paternità guidiccioniana. L’unica lirica lunga a fare eccezione è la canzone in morte del fratello Spirto gentil,

La prima pubblicazione in proprio di liriche di guidiccioni è ancora più tarda e risale al volume Orazione con alcune rime, Firenze, torrentino 1557. in guidiccioni (ed. torchio) 2006, LVii il curatore precisa che la compagine delle liriche contenute nella stampa era costituita da 95 sonetti e una satira. 127 Torchio 2006, 205. 126

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che ne’ tuoi più verdi anni (CXXViii), che esce a stampa sia nel Libro terzo delle rime di diversi (1550) che nell’altra raccolta giolitina di tre anni posteriore Rime di diversi raccolte da i libri da noi altre volte impressi (1553), a cura del Dolce e deve la sua notorietà e la sua inclusione nei florilegi antichi probabilmente al riecheggiamento dell’incipit bembiano riservato ai testi di argomento luttuoso.

1.2.11 F. m. molza Al contrario di matteo Bandello, Francesco maria molza (1489-1544) raggiunse prestissimo notevole fama come lirico tra i contemporanei, sebbene, critico e assiduo revisore dei suoi lavori, non avesse provveduto a curare l’edizione anche solo di parte della sua vasta produzione volgare e latina, evidentemente mai giudicata rifinita a sufficienza per la pubblica divulgazione.128 La ritrosia ad esporsi in una stampa, che fu ribadita in diversi frangenti dal molza in risposta alle insistenze di cui era fatto oggetto da letterati amici consapevoli del suo talento,129 non ebbe il potere di impedire né una significativa circolazione manoscritta di sonetti e canzoni130 né l’approdo di un nemmeno troppo esiguo manipolo di versi alla pubblicazione, vivente l’autore, senza contare poi la costante presenza di rime molziane all’interno dei florilegi medio cinquecenteschi.131 L’edizione non licenziata dal poeta che uscì a Venezia nel 1538 era stata confezionata su iniziativa di Francesco Amadi, che intendeva proporre tre il ritrovamento nella Biblioteca Casanatese di roma di un manoscritto (2667 o XXiV 61) riconosciuto come autografo del molza e contenente una raccolta di 149 sonetti in bella copia dimostra, del resto, che nell’autore si era manifestata l’intenzione di dare una «prima e privata sistemazione ai propri versi» (Bianchi 1992a, 77). 129 Si ricordino a questo proposito soprattutto gli appelli di Annabal Caro. 130 La tradizione manoscritta molziana è «paragonabile per ampiezza solo a quella dei massimi autori primocinquecenteschi» (Albonico 2001b, 710). 131 Cfr. Albonico 2001b, 709: «importanti, per quantità e qualità delle testimonianze, sono le sillogi [molziane] che comparvero nel Libro primo 1545 (30 testi), nelle Rime scelte 1553 (103 testi), nei Fiori 1558 (115 testi) e nell’Atanagi 1565 (48 testi)». Attraverso una ricerca effettuata nella banca dati Ali rasta, Antologie della lirica italiana raccolte a stampa si verifica che molza è il primo autore per numero di poesie nelle antologie spogliate in quel corpus. 128

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canzonieri di limitate proporzioni accostati l’uno all’altro per il loro non pacifico allineamento rispetto all’indirizzo dato dal petrarchismo bembiano. il libro offriva, infatti, una sezione di poesie di nicolò Delphino, una dedicata ad Antonio Brocardo e, da ultimo, la più nutrita serie delle rime del poeta modenese. L’Amadi, nella lettera di prefazione indirizzata al magnifico m. Andrea Legge, lamentava di non aver potuto riportare, nonostante l’impegno, che una minima parte delle poesie del molza e con questa cautela presentava un gruppo di 56 testi, di cui 48 sonetti, 8 canzoni, un capitolo in terza rima e tre componimenti in ottave. in base a recenti ricerche si ha ragione di credere che questa impresa editoriale, apparentemente illegittima, così com’era, priva dell’assenso dell’unico dei tre autori annoverati ancora in vita,132 avesse invece ricevuto un’implicita approvazione da parte del molza, che avrebbe visto in essa un’occasione per diffondere in modo più capillare le sue rime.133 Ammesso che il rilievo testimoniale della stampa Amadi è, alla luce di ciò, ancora da rivalutare pienamente dopo secoli di discredito,134 resta il fatto che l’assenza di un’edizione definitiva d’autore ha posto i testi molziani a rischio di manipolazioni e soprattutto ha dato adito in molti casi ad incertezze di attribuzione che sono tutt’ora motivo di discussione tra gli studiosi. non esiste, invero, ad oggi un lavoro critico esaustivo che metta in chiaro l’effettiva consistenza dell’opera molziana e che ne fornisca un testo depurato dalle molte mende presumibilmente accumulatesi nei passaggi della tradizione. Lo studio che raccoglie in modo più completo ed approfondito gli esiti poetici del molza resta quindi ancora la «farraginosa»135 edizione complessiva procurata a metà del XViii secolo dall’abate erudito Pierantonio Serassi e da questo sono tratte le citazioni che riporto in questo studio, sal-

nicolò Delphino era morto già dieci anni prima, nel 1528, mentre Antonio Brocardo era mancato nel 1531, subito dopo la fase più acuta dell’aspra controversia che lo aveva visto contrapposto al Bembo (cfr. Vitaliani 1902). 133 Cfr. Bianchi 1992a, 82. 134 già Antonio Blado nel 1539, dando alla stampa il commento di Annibal Caro al Capitolo dei fichi del molza, aveva bollato la raccolta dell’Amadi come deturpata da innumerevoli errori. 135 Questo il giudizio di gorni che recalcitra ad affidarsi ad un’edizione certo «ancora fondamentale», ma condotta con «difettivo discernimento filologico» (in Gorni, Danzi, Longhi 2001, 463-464). 132

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vo diversa indicazione.136 L’opera è suddivisa in tre volumi che riportano, precedute da una Vita dell’autore e da un’articolata Prefazione scritte dal Serassi, sia le «cose altre volte stampate» che «le cose inedite». il curatore settecentesco giustifica con una certa circospezione le sue scelte editoriali, come si legge nella prefazione:137 «Una cosa però io debbo a’ miei cortesi Leggitori avvertire, che non essendo, com’io dissi, queste rime state giammai dall’Autor loro pubblicate, ma bensì da chi leggendole qua e là manoscritte contro il voler del Poeta le raccolse e le stampò, n’é avvenuto che alcuni Sonetti d’altri Poeti scorsero per entro, e sotto il nome del molza furono insieme con l’altre rime pubblicati». tale atteggiamento di prudenza è fondato visto che, in tempi più recenti, Stefano Bianchi in un apposito contributo dà notizia di ben 42 apocrifi molziani – 14 dei quali contenuti anche nell’accorta edizione del Serassi – dopo averli individuati confrontando vari testimoni manoscritti e a stampa nel corso dei lavori preparatori dell’edizione critica delle Rime dell’autore modenese.138 Per quanto interessa questo studio, è da tener presente che la maggior parte dei componimenti nel metro della canzone riconducibili alla penna del molza e attualmente a disposizione, era già illustrata dalla stampa dell’Amadi e quindi anteriore al 1538. Alle 8 canzoni che si riscontrano nel volume cinquecentesco139 se ne possono poi aggiungere unicamente 3 di inedite fino al XViii secolo, grazie alle indagini sulle carte manoscritte effettuate dal Serassi140 ed una emersa solo nel nostro secolo da un codice Per le canzoni iV e Viii mi avvalgo del testo critico procurato da Gorni in Gorni, Danzi, Longhi 2001, 468-472 e 474-476. Per la canzone di compianto per raffaello mi appoggio, invece a Danzi 1983. 137 Molza (ed. Serassi) 1808, 12-13. 138 Cfr. Bianchi 1995. 139 gioverà notare a dimostrazione della complessa trafila attributiva delle rime dell’autore modenese, che, nonostante siano state precocemente pubblicate dall’Amadi sotto il nome di molza, alcune di queste otto canzoni sono state ascritte ad autori diversi: Occhi vaghi e lucenti (Vi) all’Ariosto, Da poi che il mio terreno e Perché tornar non veggia all’Alamanni da parte di Raffaeli 1856. 140 nel secondo volume, dedicato alle opere inedite del molza, Serassi riporta tre canzoni, Alma real, ne le cui lodi stanca e Sul fiume, a cui bagnar fu dal ciel dato tratte da un «antichissimo manoscritto» non meglio precisato, e Mentre nel vostro viso, copiata da «un antico manoscritto presso il celebratissimo Signor Apostolo zeno». Quest’ultima si trova anche all’interno di una silloge manoscritta di testi sannazariani reputata da Bozzetti 136

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custodito in una biblioteca americana,141 mentre due canzoni indicate già da antologie del XVi secolo come molziane e poi riprese nelle edizioni posteriori fino alla vulgata settecentesca, sono da espungere come spurie dal corpus della produzione d’autore.142 Ad un mero spoglio quantitativo, più in generale si inferisce che la canzone, all’interno dell’ampio orizzonte poetico del molza, riveste un ruolo abbastanza ragguardevole ed è avvertita ancora come punto di riferimento ineludibile per un autore che, pur tentato dal recupero eclettico della poesia greca e latina e dell’idillio pastorale sotto l’impulso del classicismo coltivato nella roma farnesiana, intenda cimentarsi con le muse volgari. non pare certo concepibile alcun paragone con la sterminata messe dei sonetti, forma riscontrata per più della metà delle oltre 400 liriche conosciute, in linea con un gusto sempre più comune tra i poeti del XVi secolo; e, ciononostante, tra tutti gli altri, il metro lungo petrarchesco è in percentuale quello più praticato dal molza, se per il resto si contano qualche madrigale, una sestina, un capitolo in terza rima e cinque componimenti in ottave. La selezione metrica dell’autore modenese è operata, pertanto, in un circuito decisamente tradizionale, sia per quanto riguarda le forme esperite, sia per quanto riguarda il loro rapporto proporzionale. riassumendo i risultati degli spogli delle varie raccolte, in questo corpus di canzoni primo cinquecentesche risultano, pertanto, inclusi 10 testi 1997, 115-116 la testimonianza di una raccolta d’autore di Sannazaro. il critico sembra attribuire in modo implicito la canzone, pur estravagante rispetto al nucleo di testi che entrerà nell’edizione del 1530, al poeta napoletano, e tuttavia ammette che la tradizione a stampa la assegna concordemente al molza. 141 Si tratta della canzone O beato et dal Ciel diletto Padre, solenne compianto funebre per la morte di raffaello Sanzio concepito sicuramente tra l’aprile del 1520 e il dicembre del 1521. il testo, mutilo, è stato rintracciato per la prima volta da roberto Fedi «in un importantissimo manoscritto di rime quattro e primo-cinquecentesche conservato presso il J. P. getty Center for the History of Art and the Humanities, Los Angeles California», come risulta in Fedi 1985, 212. Successivamente la lirica è stata recuperata nella sua integrità in seguito al rinvenimento del codice Laurenziano Ashburnhamiano 564; ora la si può leggere nel contributo di Danzi 1983, 550-554. 142 il riferimento va a due testi censiti come nona e decima canzone in Serassi 1747: Sacro Signor, che da’ superni giri è una lirica del raineri, mentre Ne l’apparir del giorno si deve ascrivere al Caro (cfr. Bianchi 1995, 36-37).

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di trissino, 8 del Bembo degli Asolani, 6 del Bembo delle Rime, 9 di Sannazaro, 18 di B. tasso, 5 di Alamanni, 14 di Bandello, 5 di Ariosto, 12 di molza, 15 di Britonio, 4 di guidiccioni. Sul totale di queste 106 liriche si applicano le analisi metrico-sintattiche, mentre sul novero complessivo dei testi i rilievi metrici, tematici e argomentativi dei quali proverò a dar conto nei capitoli successivi.

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ii ASPetti metriCi

2.1 Schemi petrarcheschi Dal punto di vista delle opzioni metriche, nel corpus di testi preso in esame si riscontra una situazione che necessariamente è differente da autore ad autore. Benché sia possibile individuare dei percorsi comuni per quanto concerne l’adozione di schemi petrarcheschi o la composizione di nuove testure a partire da altri modelli della tradizione volgare, mi è sembrato opportuno indagare in prima istanza le scelte dei singoli con le loro peculiarità, per poi trarre parziali considerazioni d’insieme. il caso che rende l’analisi più semplice, presentandosi con una coerenza così rigida da risultare quasi innaturale, è quello di Sannazaro, per il quale la critica ha già avuto modo di evidenziare il rigoroso ossequio alle indicazioni petrarchesche. Per le canzoni sannazariane la fedeltà agli schemi del Canzoniere è totale sotto ogni aspetto:1 scrupolosa fino al rispetto del numero delle stanze previste dall’antecedente ed attenta fino alla corrispondenza dell’intonazione dello schema all’argomento prescelto, sempre con lo sguardo rivolto al maestro trecentesco. Per questo è lecito affermare non solo e semplicemente che Sannazaro riprende, ad esempio, gli schemi di RVF 125, 126, 129 (come del resto hanno fatto nel Quattrocento e continueranno a fare per tutto il Cinquecento moltissimi lirici),2 ma che il poeta napoletano compone e sistema con accortezza 1 2

Cfr. Santagata 1981. Balduino 2008, 53-54, nota 58.

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nella raccolta la sua 125, la sua 126 e la sua 129, come se cogliesse nella realizzazione petrarchesca un’intima connessione tra forma, misura e contenuto e come se questa connessione non potesse essere violata se non a rischio di compromettere il cimento tutto umanistico dell’aemulatio, che è competizione e tentativo di superamento attuato attraverso gli strumenti stessi offerti dal modello. Partendo da una simile prospettiva, non si dovrà valutare un caso il fatto che l’unica licenza che Sannazaro si riserva in una così scaramantica3 coincidenza con gli schemi del Canzoniere – quasi come se l’involucro metrico formale petrarchesco fosse l’esteriore feticcio a cui ci si aggrappa come garanzia di buona riuscita del testo poetico – è l’aumento di una strofe nell’ultima canzone della raccolta (2, LXXXiX). Si allude alla lirica Sperai gran tempo, e le mie Dive il sanno, che prende a schema la canzone della gloria Una donna più bella assai che ’l sole (RVF 119) ed ha naturalmente tema affine, ossia la speranza di raggiungere una fama eterna attraverso una poesia sublime, ma porta per l’appunto il numero delle stanze da 7 a 8 in un non troppo audace certamen con un rivale ritenuto impareggiabile. tra tutti gli autori del corpus Sannazaro è quello che fa mostra di maneggiare con maggior disinvoltura le architetture metriche del Petrarca dal momento che per le 9 canzoni pubblicate nell’edizione del 1530 utilizza 9 diversi schemi, mentre, generalmente, gli altri poeti primo cinquecenteschi, qualora intendano rifarsi a modelli metrici consolidati dal Canzoniere, gravitano attorno ad un più ristretto manipolo di testure preferite. Questa scelta di diversificare le possibilità metriche presenti all’interno del libro e di spaziare tra schemi con caratteristiche armoniche anche molto dissimili4 suggerisce un’esigenza di rappresentazione della varietà come qualità intrinseca riconosciuta all’archetipo petrarchesco. La precoce maturazione della coscienza metrica e la scrupolosa fedeltà a Petrarca, particolarmente evidenti negli esiti poetici di Sannazaro, si denunciano come tratti distintivi anche in altri lirici napoletani tardoGorni 1984, 464 definisce l’ossequio di Sannazaro ai metri petrarcheschi un atteggiamento di «manieristica superstizione». 4 Come si vede dalla tavola a p. 57, Sannazaro non pone apparenti preclusioni di gusto nel prelievo degli schemi delle canzoni di RVF. Accanto alla ripresa delle inconfondibili testure ad attacco e a maggioranza di settenari (125, 126), opta anche per canzoni a dominante endecasillabica (53, 129) così come, insieme a schemi con piedi ternari, sceglie di dare saggio anche di fronti con moduli tetrastici, generalmente meno frequenti (37, 119). 3

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quattrocenteschi e primo-cinquecenteschi. Certo, nessuno può negare che a Sannazaro si debba riconoscere più che ad ogni altro l’ambizione di realizzare nelle sue rime un petrarchismo metrico rigoroso, né che gli spetti la prerogativa di aver raggiunto un trasversale classicismo volgare nei suoi testi, dal lessico, ai motivi tematici, all’impaginazione sintattica. tuttavia è bene ricordare che, almeno relativamente alla metrica, il quadro di certa lirica della stagione aragonese funge da sfondo preparatorio perché il disegno sannazariano si inscriva con chiarezza. Come ha provato marco Santagata, a napoli, le esperienze poetiche di Sannazaro o dello stesso Cariteo (si tenga presente che delle 20 canzoni dell’Endimione del 1509,5 17 sono ricalcate su precedenti dei Fragmenta) sono propiziate da alcune figure ponte della cosiddetta “vecchia guardia” – in particolare da Aloisio e Caracciolo, attivi nei primi decenni della seconda metà del ’400 – e quindi accreditate dalla presenza di un ambiente sensibile all’esigenza di un rinnovamento della lirica.6 La tradizione napoletana sembra proseguire solo in parte con girolamo Britonio, poeta della generazione successiva a quella del Sannazaro, nonostante la princeps della sua opera esca più di dieci anni prima di quella del maestro. Delle 43 canzoni presenti nella Gelosia del sole, 24, ossia poco più di metà, ripercorrono le trame dei Fragmenta e 4 accostano schemi petrarcheschi con variazioni davvero minimali, per un totale di 28 componimenti autorizzati, dal punto di vista metrico, dalla tradizione.7 L’Endimione, canzoniere pubblicato per la prima volta a napoli nel 1506 e poi ampliato nella seconda edizione del 1509, servì assieme all’opera di Sannazaro e di Britonio da modello di riferimento per successivi sviluppi ai rimatori meridionali della seconda metà del secolo (Antonio minturno, Angelo di Costanzo, Luigi tansillo). Le differenze tra le pur ravvicinate prima e seconda edizione pertengono sia alla veste linguistica che alla selezione metrica, giacché l’opera di revisione conduce il poeta aragonese all’espunzione di 32 strambotti e di 6 canzoni con rima al mezzo inizialmente inseriti nella compagine del libro (cfr. Barbiellini Amidei 1999). 6 Cfr. Santagata 1979, 296: «il mio intento era di mostrare che essi [Sannazaro e Cariteo] non si accampano all’improvviso su una scena letteraria deserta o popolata da attori recitanti un copione ai due più giovani indifferente: in altri termini, che la “vecchia guardia” napoletana non è un gruppo monolitico rispetto al quale Sannazaro e Cariteo possano essere visti solo in chiave di contrapposizione o di irriducibile alterità (irriducibile più per il Sannazaro che per il Cariteo)». 7 rettifico in parte i dati forniti da Grippo 1996 nel paragrafo dedicato alla metrica britoniana (pp. 45-50, in particolare p. 48 nota 113). 5

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Sintomo di una pronunciata sensibilità melodica e della sua non superficiale conoscenza del repertorio del Canzoniere è il fatto che il conio di testure petrarchesche non sia in Britonio un processo ripetitivo e fissato su pochi schemi, ma, al contrario, spazi all’interno di tutte le possibilità offerte da Petrarca. nelle 24 canzoni britoniane si trovano rappresentati ben 18 schemi dei 27 dei Fragmenta con una notevolissima varietà di soluzioni che arrivano a riprodurre anche testure meno frequentate come quella della canzone 331,8 della canzone-frottola 105,9 della canzone a coblas unissonans 29 o quella della canzone alla Vergine 366. gli schemi petrarcheschi che sono ripetuti in più di un testo appartengono alla serie dei più amati dai poeti del Cinquecento: 125 ritorna in ben 4 liriche (i, 68; i, 117; i, 222; ii, 404), seguito dalle due riproduzioni di 126 (ii, 365; ii, 433)10 e di 128 (i, 272; i, 353);11 infine, inaspettatamente guadagna terreno anche il paradigma metrico di 325 (ii, 362; ii, 450), che propone una fronte di due piedi tetrastici. tale soluzione è poco diffusa per la prima parte della stanza, come si può apprezzare da quanto emerso dallo spoglio degli autori di questo corpus. nei casi di ripresa fedele dello schema del modello, Britonio generalmente (17 volte su 24) asseconda, come Sannazaro, anche la quantità di strofe prescritta; quando ciò non accade, la variazione consiste nell’aggiunta di una strofa (i, 68; i, 117; i, 331; i, 361; i, 396), di due strofe (i, 272) o al massimo di tre (ii, 362; ii, 379), senza quindi un’eccessiva forzatura della dimensione di partenza. Possono

8 Lo schema del Canzoniere è ripreso con qualche modifica nel congedo, che risulta più lungo di un verso e con una rima in più rispetto all’originale. Dallo spoglio di gorni 2008 risultano altre 13 riprese della testura petrarchesca, prevalentemente collocabili nella seconda metà del secolo. Significativa anche in questo caso la presenza di un testo dell’ambiente napoletano-aragonese, ossia della canzone S’alcun conforto al misero è concesso del Cariteo. 9 Della singolarità di questa ripresa parla anche Balduino 2008, 47, affermando che, a causa del non generoso giudizio espresso in merito all’organizzazione di tale canzone petrarchesca da Bembo («alquanto dura»), la testura di Mai non vo’ più cantar nel Cinquecento non è riattivata che dal Sannazaro in un testo delle Disperse, e attraverso la mediazione del maestro napoletano, da Britonio in Mai non andrà mia spene ov’ella suole, benché siano censite anche due canzoni tardoquattrocentesche, rispettivamente Mai più lieto son, com’io soleva dell’Augurello e Se de’ sempre tacer, se de’ amutarse di niccolò Lelio Cosmico. 10 in i, 433 il congedo non è quello del modello RVF 126, ma quello dell’omologa RVF 125. 11 in entrambi i casi, seppur con due alternative differenti, non viene ripreso il congedo proposto da Petrarca.

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essere considerati in qualche modo petrarcheschi anche gli schemi di 4 canzoni, che, in effetti, non trovano esatto riscontro nel Canzoniere, ma che tuttavia alludono a soluzioni petrarchesche: si tratta della testura di i, 200, praticamente identica a quella di RVF 126, con la sola sostituzione del penultimo settenario con un endecasillabo (abC. abC. cdeeDFF); della testura di i, 227, con la variante della presenza di un endecasillabo anziché un settenario nel quinto verso della fronte (AbC. BAC. cDeeDdfgfg); di quella di i, 289 (ABC. BAC. addeeFeF), che ricalca RVF 50, a parte per la prima rima della sirma; infine di quella di ii, 366 piuttosto vicina alle movenze metriche delle cantilenae oculorum ma con alcune variazioni negli ultimi quattro versi della sirma.12 Per quanto concerne Alamanni, il poeta toscano nella composizione delle sue canzoni applica con precisione schemi del Canzoniere, riportandone per lo più l’estensione complessiva, ossia il numero originario delle stanze, salvo nel momento ufficiale del planctus per la madre del Cristianissimo re di Francia e in occasione dell’omaggio al Papa marcello ii.13 A proposito della meticolosa fedeltà del poeta fiorentino nei confronti della tradizione petrarchesca si pronuncia Henri Hauvette, che, da una parte lo scusa per la mancanza di originalità ammettendo che la ligia imitazione metrica era una prassi non solo comune ma quasi obbligata, dall’altra attesta come la sua solerte attenzione a riprodurre testure tradizionali riguardi precipuamente il versante lirico delle Opere toscane, laddove, invece, la sua vena poetica in altri generi si esprime in una multiforme produzione dalle scelte metriche talvolta molto innovative (si pensi ai libri di Elegie in terza rima, alle Selve in endecasillabi sciolti, alle Stanze in ottave, alle satire in terzine, alle egloghe, alle favole di soggetto ovidiano in sciolti, agli epigrammi, ai salmi, per citare solo alcuni degli esempi più significativi del fervore poetico dell’autore). rispetto a quanto sostiene provocatoriamente il critico francese, andrebbe precisato che anche personalità molto vicine all’Alamanni si concedevano pesanti divergenze dalla strada maestra del 12 La sirma di RVF 71-72-73 presenta lo schema CDeeDfDFF, con sole 4 rime, mentre la canzone britoniana ha una sirma dalla fattura CDeeDFgFg, con 5 rime, con la collocazione di un settenario in terz’ultima posizione invece che in quart’ultima e con la mancanza del distico finale a rima baciata. 13 nel primo caso l’ampiezza della lirica si dilata dalla misura iniziale di 7 strofe a quella di 11, nel secondo si replica il modulo strofico per una sola volta in più rispetto a quanto previsto (da 7 strofe a 8).

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petrarchismo metrico: se non è conveniente evocare la figura di Francesco guidetti, ortodosso compositore di sonetti, madrigali, sestine tutte con schemi tratti da RVF, benché nell’unica sua canzone Terrestre Giove, a cui i sacrati et santi adotti una testura inedita,14 molto più d’impatto è l’accostamento con l’amico Cosimo rucellai, che sia nelle ballate che nei sonetti è aperto a tematiche e soluzioni metriche eccentriche rispetto al canzoniere e orientate verso recuperi preziosi da Cino da Pistoia e da Dante. Dopo essersi cimentato con i cartoni di RVF 125 e 359 in due testi (Solinga riva aprica e Nella queta stagion del dolce oblio), rucellai si spinge, nell’ultima delle sue tre canzoni attestate (Quanta forza abbi il lume de’ begli occhi), a riprodurre l’ingegnosa costruzione della canzone-sestina dantesta Amor, tu vedi ben che questa donna.15 tornando all’Alamanni, da una prima considerazione sommaria sulla gamma delle testure applicate dal poeta delle Opere Toscane, si potrebbe trarre almeno l’impressione di un panorama sufficientemente articolato se messo in rapporto all’esiguità del numero dei testi. tolte le due canzoni sopra citate di argomento luttuoso e politico, che guardano rispettivamente a RVF 268 e 128, per le tre liriche amorose gli schemi selezionati da RVF sono infatti 126, 23 e 53. A ben guardare, queste testure si addensano attorno a due poli che delimitano i margini di oscillazione formale: da un lato la canzone 126 è l’unica rappresentante di una tipologia con marcata intonazione settenaria, segnatamente petrarchesca; dall’altro 23 e 53 (abbastanza simili tra loro, se non per estensione almeno per disposizione delle rime e alternanza delle misure versali) esemplificano una tipologia con un solo verso breve. Come Alamanni, anche Ariosto per i suoi cinque testi guarda quasi esclusivamente a Petrarca e l’unico scarto che si concede nei confronti di una norma che sembra ormai salda, scivola verso un’opzione bembiana, dunque un’alternativa quanto mai suffragata da un’eminente auctoritas.16 Si tratta di una canzone dedicata al Papa Clemente Vii in dieci strofe di 18 versi a schema ABC.ABC. CDeeDFggFFHH con congedo ABCcBDeeDDFF (cfr. Hauvette 1904, 99). 15 Per le considerazioni sugli schemi delle canzoni di guidetti e rucellai, cfr. tomasi 2010, 359-360. 16 La canzone in questione è Rime iii Dopo mio lungo amor, mia lunga fede che assume lo schema di Bembo, Rime LXViii anche se non escluderei nemmeno l’azione del riverbero trissiniano della omometrica Rime LXXii nella coscienza metrica ariostesca.

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Solo la testura di RVF 126 è ripresa con identico numero di strofe, mentre negli altri tre casi di emulazione petrarchesca gli schemi del Canzoniere sono sottoposti ad un lieve accrescimento (cfr. Rime iV e V, con una e due strofe in più se messa in rapporto al modello) o finanche ad un forzato ipertrofismo, tanto che le 7 stanze della canzone-sinopia RVF 268 vengono raddoppiate nell’ariostesca Non so s’io potrò ben chiudere in rima (14 strofe). Quanto alla conformazione delle testure, in controtendenza rispetto alla maggior parte degli individui metrici di primo Cinquecento qui registrati, due delle cinque canzoni ariostesche si piegano ad esempi petrarcheschi con ariosa fronte a piedi tetrastici. Alludo alle canzoni Spirto gentil, che sei nel terzo giro (Rime iV) e Anima eletta che nel mondo folle (Rime V), che mostrano di riecheggiarsi oltre che mediante esplicite spie contestuali, anche grazie all’impronta metrica piuttosto simile. gli schemi ripresi sono, infatti, per la prima quello di RVF 270 o 32517 e per la seconda quello di RVF 264, cioè sagome strofiche con identica composizione e successione rimica nella fronte e con analogo attacco della sirma mediante la terna di endecasillabi CDe. Sostanzialmente petrarchesco sia nella scelta degli schemi che nell’individuazione del numero di stanze18 si dimostra anche il molza, per la maggioranza delle cui canzoni (10 su 12) è possibile rintracciare un precedente nei Fragmenta. il prelievo dal ventaglio delle opzioni disponibili è estremamente diversificato al punto che l’unico schema usato per più di un testo è quello arcinoto di 126 (in Perché tornar non veggia e in Mentre nel vostro viso). Dettaglio estremamente interessante è inoltre il fatto che il poeta modenese si cimenti anche con modelli di testure che sembrerebbero poter essere giudicati piuttosto infrequenti nel XVi secolo, se è lecito ritenere il corpus testuale qui selezionato uno spaccato dello scenario poetico di primo Cinquecento sufficientemente rappresentativo. testure come la petrarchesca 135, 50 e 323 non vantano riprese, eccetto quelle non è possibile accertare quale delle due opzioni funga da precedente dal momento che si tratta di schemi che differiscono solo per la strutturazione del congedo e in Ariosto quest’ultimo è una terza originale possibilità (ABbACC) non riconducibile con esattezza né a 270 (ABB) né a 325 (ABCcBDD). 18 Benché molza non riproduca sempre con scrupolo filologico il numero di stanze che imporrebbe lo schema petrarchesco selezionato, ciononostante oscilla sempre attorno ad una vigilata medietas (da 5 a 8 strofe) e nemmeno nelle liriche più sostenute o encomiastiche indulge al dilagare dell’espressione in una quantità sproporzionata di versi.

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molziane e britoniane, negli altri autori esaminati e RVF 331, stando a quanto emerge anche dalle indagini di gorni, non sarebbe stata imitata che poco più di dieci volte da Petrarca fino a torquato tasso.19 tra l’altro, se si analizzano con più attenzione le caratteristiche dei primi tre schemi sopra menzionati, ci si rende conto che si tratta di prototipi che realizzano le più celebri ‘canzoni a polittico’ petrarchesche. il dato potrebbe sembrare una coincidenza inifluente, se non si accertasse, poi, in molza una spiccata predilezione per l’organizzazione argomentativa a quadri giustapposti delle sue liriche.20 La consuetudine con il vivace archetipo discorsivo petrarchesco è dunque consentanea con la disinvoltura con cui molza seleziona tutti i rispettivi schemi metrici delle canzoni a polittico, sia che essi siano consacrati anche nel canone cinquecentesco (non mancano invero nel manipolo delle canzoni molziane le più comuni testure di RVF 23 e 127), sia che essi si rivelino più peregrini. Qualora si scegliesse di proseguire il discorso in termini di ampiezza e di varietà di selezione dal complesso degli schemi del Canzoniere, prendendo in esame la produzione di canzoni di B. tasso ci si imbatterebbe in un fenomeno opposto rispetto a quello riscontrato in molza, vale a dire in un evidente intervento di restrizione del canone o meglio nella pratica di pochi prototipi preferenziali. Delle 18 canzoni tassiane disseminate nei tre libri degli Amori, una è esemplata sull’antecedente RVF 126, una su RVF 23, una (1, LXX) sulla estravagante petrarchesca Quel ch’à nostra natura in sé più degno, due su RVF 127, cinque su RVF 129 e sette,21 con soluzione non prettamente petrarchesca benché molto simile a quella incarnata da RVF 129, sullo schema della pseudo-dantesca canzone trilin-

RVF 331, oltre che dal molza è adoperata anche dal Britonio, ma solo il poeta modenese riprende con scrupolosa esattezza sia la strutturazione del congedo che il numero delle stanze previste nell’originale. 20 Per l’analisi più dettagliata di questo punto si rinvia al § 4.2.4. 21 tale testura è applicata, dunque, diffusamente nel secondo e nel terzo libro; in un ottavo componimento, cioé in 2, LXii Donna gentil, che gloriosa e sola, compare inoltre con un’ulteriore piccola modifica (la trasformazione in endecasillabo del quart’ultimo verso). 19

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gue Aï faux ris, pour quoi traï avés.22 gli ultimi tre schemi menzionati,23 applicati complessivamente in 13 canzoni, si agglutinano nella percezione per le caratteristiche armoniche simili (strofe di 13-14 versi, piedi ternari di endecasillabi, sirma con concatenatio seguita da una quartina a rime incrociate DeeD, explicit in combinatio endecasillabica su rima FF), e ciò dà luogo ad una inevitabile impressione di ripetitività nell’adozione delle testure. Senza dubbio l’autore degli Amori predilige schemi con strofe quasi perfettamente bipartite tra fronte e sirma e a predominanza endecasillabica, come si evince osservando che sia la testura-modello di RVF 127 che quella di RVF 129 presentano solo due settenari, entrambi nella sirma. Per quanto riguarda la realizzazione della fronte è vincente il tipo ABC.BAC,24 che soppianta di gran lunga quello a piedi replicati, mentre nella sirma più di frequente si registra quello di RVF 129, caratterizzato della dislocazione di uno dei due settenari nella posizione strategica di chiave (cDeeDFF). Un altro particolare che salta agli occhi è che le realizzazioni tassiane in qualche modo amplificano oltre misura gli esemplari di riferimento dei Fragmenta a causa del notevole incremento del numero delle strofe.25 Se la non puntuale riproduzione della quantità di stanze prevista dall’antecedente metrico potrebbe in astratto essere giudicata una forma di dialogo Balduino 2008, 79 individua il preciso antecedente delle canzoni di B. tasso nella prova di tutt’ora incerta attribuzione, che per altro figurava a stampa sotto il nome di Dante nella giuntina di rime antiche uscita nel 1527 (libro ii, 22 v.). tuttavia, ritengo che sia ipotizzabile che tale tipo di testura sia stata accolta e reiterata di buon grado dall’autore del Cinquecento anche perché molto vicina a giri melodici petrarcheschi. Lo schema ABC.BAC. cDeeDFF potrebbe difatti essere visto come una minuta variazione di RVF 129 (ABC.ABC. cDeeDFF) orchestrata tramite la sola inversione di due rime nel secondo piede. grazie alla consultazione di gorni 2008 trovo che questo schema è riproposto da B. tasso nei libri degli Amori (canzoni già qui individuate) e anche nel iV libro delle Rime (Donna Real, de le cui lodi il mondo, Rime iV LXi 8 str + congedo = sirma) e poi solamente in un’altra canzone di Betussi, Raverta i, 20, Vorrei, signor, col più degno pensiero (5 str. + congedo = sirma) 23 RVF 127 (ABC.BAC. CDeeDeFF); RVF 129 (ABC.ABC. cDeeDFF); Aï faux ris (ABC.BAC. CDeeDFF) 24 Sono ben 13 su 18 i testi tassiani che presentano questa conformazione nella fronte. 25 L’unico caso in cui B. tasso diminuisce il numero di strofe rispetto a quelle del testo petrarchesco di partenza è la canzone 1, LXX, Lasso, se desiando corro a morte in 5 strofe anziché in 7 come pretenderebbe l’archetipo di riferimento, ossia la petrarchesca estravagante Quel ch’a nostra natura in sé di più degno. 22

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con il modello, tuttavia rasentare, come fa B. tasso, l’ordine delle 8, 9, 10 stanze anche per testi di omaggio amoroso deve essere interpretato come prima perspicua prova di tensione interna alla codificazione del genere canzone, codificazione che si mostra nella coerenza della pratica di Petrarca.26 tutto ciò, poi, lo si afferma senza contare che misura ancora maggiore raggiungono i testi di argomento grave e solenne come quelli eminentemente politici: in 15 strofe di 13 versi è la canzone 2, Xii per il Cristianissimo re di Francia; in 12 strofe di 13 versi la 3, XXXii per il Principe di Salerno Ferrante Sanseverino e in 9 strofe di 20 versi è infine la 2, LXXVi dedicata a papa Clemente Vii. Di misura decisamente ampia – con un numero di stanze sovrabbondante che di rado scende sotto le 6 – risultano anche i componimenti del Bandello, che per lo più possono essere ricondotti all’interno di una prassi metrica di stampo petrarchesco, poiché 8 delle 14 canzoni dei Fragmenti de le Rime assecondano testure del Canzoniere. tra i modelli sperimentati vi sono i celeberrimi a dominante settenaria (RVF 125 e 126), il provenzaleggiante RVF 70, il sontuoso RVF 53 su cui si intona l’encomio proposto dal testo incipitario della raccolta, lo schema di RVF 323 e infine quello di RVF 268, prescelto dal Bandello per essere riverberato con diverso numero di strofe in immediata successione da quelle che, nell’intenzione dell’autore, dovrebbero esemplificare il rifacimento delle cantilenae oculorum.27 Alle canzoni strettamente petrarchesche deve altresì essere aggiunta una lirica molto prossima ad archetipi autorizzati dal poeta trecentesco. mi riferisco a CCV, costruita sulla falsa riga di RVF 71-72-73 tranne che per la successione delle rime della fronte, che prevede due piedi a rime replicate (aBC. aBC) senza riproporre l’inversione dei primi due versi così come risuona in Petrarca (aBC. bAC). La parte restante della rappresentanza delle canzoni bandelliane soggiace invece a diverse suggestioni, come si vedrà di seguito. 26 Cfr. Gorni 1984, 463: «si ponga mente […] al Canzoniere: su ventinove canzoni, venticinque si distendono su stanze da 5 a 7, due su 8 (XXiii e XiX), nessuna su 9, e due, le ultime due del libro (CCCLX e CCCLXVi), su 10; fatto capitale che non si scenda mai sotto le 5: la codificazione del genere col Petrarca si chiude». 27 Se in Petrarca le tre canzoni degli occhi RVF 71, 72 e 73 variano solo per il numero di strofe, rispettivamente di 7, 5 e 6, in Bandello i tre componimenti ne presentano, in maniera del tutto analoga, 7, 6 e 8.

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guidiccioni, infine, eccezion fatta per il planctus dedicato al fratello nicolao (CXXViii), che assume uno schema bembiano, compone tutte le sue prove liriche «distese» esclusivamente sul cartone di RVF 126, rispettandone con scrupolo l’estensione strofica e la conformazione del congedo. il risultato è senza dubbio di notevole compattezza benché riveli probabilmente una scarsa disponibilità dell’autore a cimentarsi con le numerose soluzioni disponibili nell’ambito della tradizione autorizzata oppure solo una limitata consuetudine con l’orchestrazione di metri pluristrofici complessi.28 giungendo infine a parlare delle opzioni metriche che si segnalano nei testi del trissino e del Bembo, si deve registrare un punto di forte discontinuità in questa schematica gradatio che va delineandosi. Sarebbe un errore di prospettiva classificare i riscontri esatti di schemi petrarcheschi (due in Bembo29 e uno in trissino)30 come estremo assottigliamento del complesso di testure prese in considerazione. Per entrambi gli autori, infatti, il riutilizzo fedele di scheletri compositivi collaudati da Petrarca, quantomeno nell’ambito delle canzoni, si configura non già come un compatto nucleo normativo esemplificato da varie risultanze e dal quale eventualmente si possano dipartire scarti limitati, ma viceversa, come prassi sporadica per non dire isolata, puntiforme.

Torchio 2006, 210: «l’esiguità dei tentativi unita alla ripetitività mostra un qualche disagio con il metro disteso». 29 L’unico schema petrarchesco rintracciabile tra le canzoni delle Rime bembiane è quello ipercaratterizzato di Nel dolce tempo de la prima etade (RVF 23). esso, come è noto, è amplificato dal poeta veneziano tramite l’aggiunta di due ulteriori stanze e di un doppio congedo perché tale maestosa architettura informi il solenne compianto funebre per il fratello Carlo Bembo (Alma cortese, che dal mondo errante). Per altro, l’espediente del doppio congedo non consuona con la pratica petrarchesca ed è prescelto, oltre che per ragioni di gravitas, anche per il motivo contingente di riservare uno spazio d’elogio a colei che ospitava il poeta al momento della composizione del carme (vv. 210-214), senza trascurare il saluto finale al destinatario (vv. 201-209), come nota Caruso 2000, 158. tra le liriche degli Asolani, invece, occhieggiano solamente due riprese della testura di RVF 129 in canzoni tra loro legate e disposte in rapida successione. Cfr. la tavola a p. 97. 30 Si tratta, non a caso, di un calco di RVF 126, ennesima cinquecentesca “variazione su schema”. 28

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2.2 Schemi non petrarcheschi Come si accennava poco sopra, per Francesco maria molza gli schemi non petrarcheschi assunti per le canzoni sono piccole sbavature in un disegno che mira a riprodurre con accuratezza le sagome dei Fragmenta. talché, sebbene l’unico componimento del poeta modenese difficilmente ascrivibile ad archetipi del Canzoniere sia Signor, che ’n sul fior degli anni vostri (Vii), nel quale si ravvisa con un certa fatica una riformulazione di RVF 23,31 si puntualizzerà anche il fatto che per Occhi vaghi lucenti (Vi) il percorso di risalita verso uno schema canonico è mediato dalle sperimentazioni di Bembo32 solo per non invalidare il proposito di obiettività dell’indagine e non per una reale pregnanza di queste eccezioni in un panorama ormai sufficientemente nitido. Casi che invece si rivelano parzialmente problematici perché difficili da collocare in un’ideale classificazione netta, sono quelli da un lato di B. tasso e di Bandello e dall’altro di Britonio. i tre autori, accanto ad una serie discretamente numerosa di riprese petrarchesche, annoverano un nucleo di canzoni che si richiamano a modelli diversi della tradizione oppure contravvengono apertamente alle regole di strutturazione esemplificate dal Canzoniere trecentesco. Quanto è stato detto su Britonio in precedenza sarebbe potuto sembrare sufficiente per tracciarne un profilo di rispettoso petrarchista tale da non poter essere oscurato da altre prove originali e senza riscontri nel repertorio di possibilità petrarchesche. in realtà, eccettuate le quattro canzoni leggermente innovative suddette e due canzoni (ii, 383 e ii, 405) la cui architettura è articolata in ossequio alle basilari regole della forma canzone benché con strofe ipertrofiche rispettivamente di 19 e 21 versi, le restanti hanno orditure di cui non solo non è immaginabile trovare attestazioni, se non in Petrarca, nemmeno in altri autori della tradizione, Signor, che ’n sul fior degli anni vostri è una canzone con stanze di 22 versi e a dominante endecasillabica; il parallelo più immediato che si può istituire è dunque quello con lo schema sontuoso di RVF 23, per la lunghezza delle stanze, per l’identità di strutturazione della fronte e per la presenza, in entrambi i casi, di un unico settenario all’interno; tuttavia la foggia della sirma molziana è piuttosto diversa a cominciare dall’assenza del verso di concatenatio. 32 Per la fronte di questa canzone sono tenuti presenti gli esempi di RVF 125 e 126, mentre la sirma allude al modello proposto da Bembo in Asolani iii, 8-9-10, con la sostituzione del quart’ultimo endecasillabo e di quello di chiave con due settenari.

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ma che infrangono anche alcune delle consuetudini struttive ormai più consolidate presso i poeti cinquecenteschi contemporanei. i 13 schemi britoniani in questione rivelano la loro eccentricità nel mancato rispetto di norme o di abitudini compositive a questa altezza conclamate, come la simmetria nella riproposizione delle misure versali o della sequenza rimica nei piedi,33 la perspicua divisibilità della stanza in piedi e sirma,34 il tacito divieto di ripetere nella sirma rime già proposte nella fronte,35 la saldatura tra le due parti della strofa data dalla concatenatio pulchra, la compaginazione di un congedo di misura uguale o inferiore a quella della sirma.36 Sono provviste di fronte con piedi asimmetrici o eterodossi la i, 19 (ABb. ABA), la i, 36 (aB. AB. AB), la i, 237 (ABC. ABc), la i, 238 (ABa.BCb), la i, 267 (aBC. AbC), la i, 322 (aBC. bCa) e la ii, 402 (aBc. BaC). 34 Le canzoni i, 8 (aBaBCbcDedeDeFf ); i, 30 (ABcABCBa. DeFeDfDD); la i, 165 (ABAbACCA. deDeFfgg), i, 239 (ABaBCa. DeDFgFgfHfH); i, 258 (ABCaBCABAB. deeDeeFF); i, 295 (aBCAcBaB. DeDeFgFg) presenterebbero a rigore una stanza indivisa vista l’assenza di piedi o di volte riconoscibili. Ci si rende conto, però, che etichettare in questo modo tali schemi significa non darne un’esauriente decodificazione perché esiste un elemento di non trascurabile regolarità: la strofa è sempre bipartita in due sezioni, ciascuna delle quali è provvista di rime proprie. in altri termini, non si verifica mai l’evenienza che la rima A o la rima B compaiano oltre che in principio anche negli ultimi versi della strofa (come accade ad esempio più chiaramente nella canzone a stanze indivise di Bembo, Rime XXVi). La possibilità di intendere una strofa articolata in fronte e sirma in assenza di parti simmetriche individuabili è esclusa da Dante nel De vulgari eloquentia (ii, X, 3), ma a confortare questa tesi intervengono gli esempi accertati e non infrequenti dei poeti del trecento, come dimostrato da Pelosi 1990, 110. Ciò è avvertito evidentemente anche da Gorni 2008 che propone gli schemi di questi testi segmentati in due parti. tuttavia, a mio avviso, per quanto riguarda le canzoni britoniane, una simile interpretazione resta un’ipotesi plausibile ma astratta, dal momento che l’organizzazione sintattica piuttosto libera e varia non aiuta ad individuare con certezza l’eventuale collocazione del confine di diesis all’interno della strofa. 35 riprende nella sirma rime già presenti nella fronte la canzone i, 19. 36 mentre la consuetudine, praticamente mai infranta dagli altri poeti del corpus, è quella di riproporre nel congedo la formula metrica della seconda parte della sirma o della sirma stessa, in 5 liriche della prima parte (i, 30; i, 165; i, 237; i, 258; i, 267) Britonio ordisce un congedo superiore a questa misura, che replica la seconda parte della stanza a partire dall’ultimo verso della fronte. tale procedimento sembra essere connesso con la mancanza, riscontrata negli schemi strofici di tutti i componimenti in questione, del verso di chiave, che, se non fosse supplita con il recupero dell’ultimo verso della fronte, impedirebbe al congedo di essere provvisto di un verso iniziale irrelato, tratto caratteristico in tutti gli invii che riprendono integralmente la testura della sirma. 33

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essi si dispongono quasi esclusivamente nella prima parte del libro (solo uno schema “sregolato” penetra nella seconda parte), ma la mancanza o l’effettiva impossibilità di compiere uno studio approfondito sui tempi di composizione dei singoli pezzi dell’opera impediscono di decidere se tale netta bipartizione degli esiti metrici sia il prodotto di una mera coincidenza o se piuttosto la seconda parte del libro non rifletta una stagione poetica di maggiore padronanza degli strumenti formali e la prima parte un più impacciato maneggiamento dell’orditura della canzone laddove si decida di uscire dal solco rassicurante della puntuale imitazione petrarchesca.37 Discorso diverso è doveroso spendere per B. tasso e per Bandello. Per il primo, al di là dell’unico schema realmente innovativo, cioè quello di Principe Sacro, il cui gran nome suona (2, Xii) che pur utilizza lacerti del Canzoniere, ossia la fronte di RVF 127 innestata sulla sirma di RVF 325 (CDeeDFF),38 non è affatto trascurabile il massiccio impiego della testura attribuita a Dante di Aï faux ris, pour quoi traï avés, per quanto possa dirsi convergente con due dei modelli più fortunati della metrica del Petrarca (RVF 127 e 129).39 A causa dell’insistenza nel reimpiego di tale schema metrico, il panorama delle testure dei tre libri degli Amori è illuminato da due luci di intensità non così dissimile: 9 riprese puntuali dal Canzoniere e 7 calchi metrici danteschi, con assunzione di un modello quasi totalmente negletto dai lirici cinquecenteschi. Quanto a Bandello, se concentrassimo l’attenzione sulle 5 testure dei Fragmenti de le Rime che sfuggono dai tracciati del Canzoniere, ci accorgeremmo che esse, indubbiamente regolari sebbene non petrarchesche, non fanno che riflettere dal punto di vista formale la resistenza ad appiattirsi su un’emulazione esclusiva che l’autore manifesta nella sua opera anche nell’ibridismo tematico e strutturale e nel rigetto della monotonalità. nella composizione delle sue liriche Bandello non si arrende ad un supino ossequio al petrarchismo che si stava in quegli anni sempre

Le canzoni della prima parte sono 27, di cui 12 petrarchesche, 3 quasi petrarchesche e 12 eccentriche; le canzoni della seconda parte sono invece 16, di cui ben 12 petrarchesche, una quasi petrarchesca, due congegnate in base alle regole di costruzione della canzone fondate da Petrarca, e una sola veramente eccentrica (ii, 402). 38 già si è detto a proposito del fatto che l’altro schema tassiano senza riscontri in Petrarca – quello di 2, LXii Donna gentil che gloriosa e sola – è ancora una volta una variante di RVF 129. 39 Cfr. p. 71, nota 23.

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più affermando, nella misura in cui non condivide l’esclusività dei tipi metrici dei RVF e ripropone soluzioni di poeti che, nella sua percezione e in quella degli estensori e dei lettori della giuntina, hanno dato tanto prestigio e lustro alla tradizione lirica italiana quanto Petrarca e pertanto possono essere soggetti ad imitazione da parte dei cinquecentisti con pari legittimità. Per questo il compositore dei Fragmenti sembra non scorgere alcun ragionevole motivo per relegare in un angolo le soluzioni, anche metriche, date da capostipiti come Cavalcanti, Dante e Cino, autori che sono evidentemente sentiti come pietre miliari del patrimonio poetico italiano. Da ciò consegue che, accostati a schemi di matrice petrarchesca, Bandello rivitalizza anche testure dantesche (in LXXXiX risuona lo schema di Così nel mio parlar voglio esser aspro),40 ciniane (CL ha la testura di La dolce vista e ’l bel guardo soave, amplificata in ben 12 stanze) o a tratti subisce suggestioni cavalcantiane.41 Sia la canzone CXXiV che la canzone CLVii, invero, ben raffigurano l’ambivalenza di ispirazione che Bandello matura, per il fatto che esse, come centauri, presentano una fronte di otto endecasillabi del tipo ABBC. BAAC rintracciabile in Io non pensava che lo cor giammai di Cavalcanti, e poi rispettivamente la petrarchesca sirma di RVF 264 (CDeeDdFfgg)42 e di RVF 127 (CDeeDeFF). non si tragga, La ripresa della testura della petrosa dantesca è senz’altro molto significativa: benché gorni 2008 ne segnali la sterminata diffusione indicando ben 59 riprese, si deve altresì notare che tutti i calchi metrici di Così nel mio parlar voglio esser aspro citati sono databili tra il trecento e il Quattrocento, mentre l’unico riutilizzo dello schema in ambito cinquecentesco è proprio del Bandello (cfr. anche Balduino 2008, 79 nota 109). Si ricordi, inoltre, a chiosa di quanto detto precedentemente, che la prima comparsa a stampa di questa canzone dantesca risale proprio alla giuntina del 1527. 41 naturalmente le letture di questi autori tardo-duecenteschi sono con tutta probabilità mediate dalla suddetta stampa di Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani del 1527 che contiene, oltre a Così nel mio parlar voglio esser aspro, anche la canzone ciniana e, seppur con non dichiarata paternità nel libro X, 125 r. tra le Canzoni antiche di autori incerti, il componimento di Cavalcanti Io non pensava che lo cor giammai (ABBA. BAAC. DeDFeF). 42 È vero che CXXiV (ABBC. BAAC. CDeeDdFfgg) potrebbe essere considerata più semplicemente come una rielaborazione della sola RVF 264 (ABbC. BAaC. CDeeDdFfgg) con la variazione in endecasillabi di tutti i versi della fronte, ma è altrettanto vero che difficilmente può essere ritenuta di genuina ispirazione petrarchesca una fronte di 8 versi interamente endecasillabica. nel Canzoniere, infatti, in presenza di piedi tetrastici, vi è sempre l’inserto di almeno un settenario per piede. 40

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però, per forza la conclusione che Bandello sia un polemico avversatore di Bembo. Con lui condivide la scelta di Petrarca come vettore attraverso cui tendere ad un’uniformità linguistica, come filtro per raggiungere un seletto linguaggio lirico sovraregionale e, visto che in Ciii riproduce, persino con identità di numero di strofe, lo schema dell’asolana Se ’l pensier, che m’ingombra, non è affatto improbabile che abbia presente anche l’atteggiamento bembiano, seppur non orientato verso precisi modelli alternativi della tradizione, tutt’altro che pedissequo nei confronti della metrica del Canzoniere. Proseguendo nella carrellata dei risultati emersi dallo spoglio, non suscita dubbi riconoscere che l’autore che meno esperisce nelle sue canzoni schemi metrici collaudati nel Canzoniere è sorprendentemente colui che si dichiara seguace più devoto di Petrarca.43 Bembo, invero, nella sede teorica delle Prose, si dimostra trattatista consapevole del magistero impresso dai RFV nella tradizione italiana e pertanto richiama i poeti moderni ad una comprensione più profonda e sincera della perfezione formale di quello che lui considera il libro di poesia per eccellenza; ma nella pratica, mentre attinge a piene mani alla lingua e alle movenze sintattiche dei testi petrarcheschi, accoglie, si direbbe distrattamente o in maniera solo epidermica i principi metrici struttivi della forma lirica più complessa, alta ed eloquente qual è la canzone. A considerare solo gli schemi attraverso i quali si realizzano le canzoni bembiane si sarebbe indotti a sospettare della capacità del poeta veneziano di dominare le ragioni formali del metro per poi riprodurre o produrre in autonomia testure rimiche regolari. Forse, seguendo le critiche che sorgono da parte di trissino nella Poetica, sarebbe opportuno ravvisare come spiegazione per questi esiti nelle intelaiature compositive davvero poco incoraggiati dalla tradizione la percezione da parte di Bembo e di gran parte dei suoi contemporanei di una scarsa rilevanza o comunque di un’importanza accessoria dei fattori di morfologia metrica,44 con una del A questo proposito si meditino le riflessioni di Balduino 2008, 50-52. Gorni 1987a, 223 subito dopo aver presentato una rassegna degli schemi di canzone rilevati nei testi del Sesto libro delle Rime di diversi eccellenti autori nuovamente raccolte dal ruscelli nel 1533, annota che «Le poetiche rinascimentali, con la notevole eccezione del trissino (dal quale, per questa parte, tutti i trattatisti attenti ai fatti metrici derivano) sono mute o quasi sulla morfologia delle testure» e che pertanto questo tacitamente autorizza una incontrollata autonomia interna alla forma metrica. 43 44

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tutto conseguente approssimazione nella cura di questi. Le sferzanti valutazioni del trissino si spingono anche oltre, fino a toccare con lucidità il cuore della questione, come si arguisce da dichiarazioni come queste: «…alcuni gentili e leggiadri ingegni, come furono il Sannazaro e il Bembo et alcuni altri, componendo in rime, non ardivano partirsi dalla semplice imitazione del Petrarca. e come punto da quella si partivano e si scostavano, incorreano in non piccioli errori, talché alcuni di costoro non sapevano distinguere i madrigali dalle ballate, né quelle dalle canzoni, né discernevano i sirventesi dall’altre sorti di poemi…».45 Del resto, con il severo giudizio del trissino circa la competenza metrica dell’antagonista conviene implicitamente gorni quando, nella nota introduttiva alle Rime di Bembo,46 giudica con severità le canzoni della raccolta,47 per le quali, oltre alla difficoltà di sostenere un discorso di articolato respiro, rintraccia un’origine «bastarda», ossia un procedimento di composizione che, per quanto attiene agli schemi, accusa un’ibridazione con forme metriche eterogenee. Avvicinabile alla ballata, per la ripresa delle rime iniziali in coda alla strofe, è giudicato lo schema della prima canzone delle Rime, Felice stella il mio viver segnava (XXVi), che, al di là di questa supposta contaminazione, emerge tra le altre perché è in stanze assai lunghe (20 versi) e indivise, vale a dire prive della bipartizione interna in fronte e sirma, praticamente imprescindibile nella lirica italiana.48 Prossima alla struttura del rispetto, che è modificata e leggermente protratta mediante l’anticipazione di un modulo bX di settenario + endecasillabo a rima irrelata ma ricorrente prima del distico finale, è la stanza di Ben ho da maledir l’empio Signor (Li), che poi stilisticamente si riallaccia ai modi sentenziosi della frottola. Profilata sulla sagoma di un sonetto è, infine, O rossigniuol, che ’n queste verdi fronde (Lii).49 eccezion fatta per

Cfr. Trissino 1562, 8. Cfr. Gorni, Danzi, Longhi 2001, vol. i, p. 51. 47 Alma cortese è considerata a parte, come unico esito bembiano soddisfacente della forma canzone. 48 Caso a sé è quello degli schemi a coblas unissonans, i quali ostentano una logica costruttiva più rigida nel reimpiego delle medesime rime di stanza in stanza e che guarda all’illustre modello di Verdi panni, sanguigni oscuri o persi (RVF 29). 49 in effetti, la canzone parte dal motivo del sonetto Solingo augello, se piangendo vai (XLiV) e lo dispiega, senza significativi arricchimenti di particolari, in un più esteso spazio metrico.

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la magniloquente Alma cortese (LXXXiii), che è plasmata a partire dalla veste grandiosa e istituzionale di RVF 23 proprio per rispetto all’argomento che espone, l’incidenza degli schemi di canzone petrarcheschi si riduce alla modificazione di una testura, peraltro periferica nell’universo del Canzoniere: Gioia m’abonda al cor tanta e sì pura (LXViii) accosta infatti la traccia metrica di RVF 70 (ABBA AccADD) e la riduce a sole 3 strofe, le quali sono ulteriormente scorciate dall’eliminazione del verso lungo centrale della sirma (A) e dalla conversione, per compenso, del verso che segue alla concatenatio da settenario in endecasillabo. Con tutto ciò, se si può individuare un tratto tendenziale e comune nel panorama metrico atipico delle testure bembiane delle Rime, questo riguarda certo la morfologia dell’attacco, per cui ha valore il modello soggiacente della quartina a rime incrociate, assunta sia come misura del piede (Lii), sia come vera e propria fronte (XX, LXViii, LXiX). nel canzoniere petrarchesco, che raccoglie un ampio spettro di possibilità, tale indicazione costruttiva appare decisamente minoritaria50 rispetto a quel nocciolo centrale che farà norma, cosicché è consentito supporre che ad agire in questi schemi di canzoni sia piuttosto l’esercizio, reiterato fino a diventare in un certo qual modo pervasivo, della forma sonetto. Per completare il quadro, non si può non segnalare la mancanza di congedo in tre liriche su sei (XXVi, Li e LXiX) e l’estensione dei componimenti che si attesta sulla misura preferenziale delle sole 3 strofe, che palesano la difficoltà del poeta nel maneggiare e dare impulso alla dialettica interna di una forma lirica lunga. Anche l’articolazione contratta è, poi, un aspetto che evidentemente stride con le aspettative canoniche di un lettore educato sul Canzoniere. La situazione cambia sensibilmente quando si passa ad analizzare l’inventario delle occorrenze delle canzoni degli Asolani, che mostrano di mettere a frutto con maggior attenzione le proposte petrarchesche, seppur con significativi adattamenti. mentre in Preso al primo apparir del vostro raggio (ii, 9)51 si rileva ancora una volta una strutturazione semplificata

50 gli unici esempi che si possono invocare sono RVF 206, 70 e 359, tutte con fronte AB.BA; inoltre, nell’assetto delle pur rare fronti con piedi tetrastici Petrarca evita accuratamente la composizione su due sole rime e lo schema ad incrocio. 51 «È una canzonetta metricamente notevole, perché la bipartizione ridotta all’essenziale della stanza è segnata da un verso che non rima con gli altri, bensì col verso corrispondente

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della stanza, con fronte su quartina incrociata e sirma ridotta ad un terzetto XCC con innesto di rima ricorrente, d’altro canto si segnalano per disposizione e compattezza numerosi esperimenti di accostamento al Canzoniere. ecco, allora, non solo i già menzionati prelievi dello schema di RVF 129 in due testi adiacenti, ma anche Si rubella d’Amor, né sì fugace (ii, 16), che riproduce una preziosa intelaiatura a coblas unissonans e ammicca a RVF 29 senza ricalcarne con perfetta sovrapposizione la figura; ecco Se ’l pensier che m’ingombra (ii, 28), che trae per la fronte lo schema di RVF 126 (abC.abC. cdeeDfF) e lo varia nella sirma, visto che, tralasciate la concatenatio e la combinatio, la restante quartina centrale a rime incrociate è ampliata da Bembo attraverso l’inserimento di un’ulteriore coppia di rime baciate; ecco, da ultimo, le tre canzoni omometriche del terzo libro, che si intonano su una ben petrarchesca fronte a rime replicate ABC.ABC e si sviluppano su 5 strofe, con articolazione bilanciata. È significativo notare che il Bembo degli Asolani, senz’altro più vicino al Canzoniere nelle strutture metriche rispetto a quello delle Rime, attraverso gli esiti della sua officina poetica rivela di aver colto la specificità della canzone petrarchesca nel suo organizzarsi a livello macrotestuale in brevi sequenze omogenee per tematiche e/o per orchestrazione dello schema. Le vere e proprie canzoni in senso convenzionale, e se vogliamo stereotipato, del prosimetro, quelle che assumono schemi consolidati (i, 32; i, 33) o che li aggiustano leggermente (iii, 8-9-10), tutte ricercano una serializzazione, si collocano l’una si seguito all’altra, replicano un motivo analogo. naturalmente, in coda a questa rassegna di testi apparentati e attigui non deve mancare anche il caso in un certo senso simmetrico e speculare di Asolani ii, 28, componimento che quasi raddoppia le stanze dello schema petrarchesco soggiacente (da 6 strofe di RVF 125 a 10) proprio per il fatto che in questa canzone, nei temi e nelle figure, Bembo «sperimenta una forma che abbina le due canzoni sorelle […] realizzando un hapax che unisce alla perizia imitativa uno scoperto intento emulativo».52 Da un celebre e più volte citato passo delle Prose è noto che Bembo aveva registrato come pregevole saggio di variatio il raggruppamento stilistico e tematico raggiunto da un lato dalle Cantilenae oculorum (RVF 71,

delle stanze successive». (cfr. Bembo, ed. Dionisotti, 397). 52 Cfr. Berra 1996, 259.

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72, 73)53 e dall’altro – ed è detto subito di seguito – dalle due canzoni sorelle RVF 125 e 126. il compiacimento del teorico cinquecentesco verso tale metodo di compaginazione testuale, come portato peculiare della musa del Petrarca, si staglia contro un panorama assai avaro di indicazioni prettamente tecniche54 e per questo è tanto più significativo additarlo e trovarne accusata applicazione negli Asolani. Un’obiezione lecita potrebbe venire dall’osservazione che il prosimetro ha una dichiarata veste dialogica che porta con sé prevedibili botta e risposta e quindi necessarie esposizioni a breve distanza e sotto una prospettiva diversa del medesimo argomento, magari con contiguità di veste formale, come in una sorta di tenzone. ma tale precisazione non intacca il ragionamento, bensì lo corrobora, perché la finzione vuole che a pronunciare questi pezzi poetici e a sottolinearne la complementarietà siano singoli personaggi e non diversi interlocutori impegnati in uno stringente scambio dialettico, cosicché è Perottino ad annunciare insieme le due canzoni i, 32 e i, 33 separandone l’esecuzione con la sottile distanza di un silenzio e di un accorato sospiro,55 per non inficiare l’efficacia di quello che si presenta come un dittico nella didascalia posta all’interno dei due rispettivi congedi.56 Allo stesso modo, è il solo Cfr. Bembo (ed. Dionisotti), libro ii, cap. XViii, p. 171: «[Petrarca] più canzoni compose d’alcuna particella e articolo del suo soggetto; il che egli fece più volte, né pure con le più corte canzoni, anzi ancora con le lunghissime; sì come sono quelle degli occhi, le quali egli variando andò in così meravigliosi modi, che quanto più si legge di loro e si rilegge, tanto altri più di leggerle e di rileggerle divien vago». 54 Si ricordi che Bembo indica solo genericamente che «nelle canzoni puossi prendere quale numero o guisa di versi e di rime a ciascuno è più grado, e compor di loro la prima stanza» cfr. Bembo (ed. Dionisotti, libro ii, cap. Xi, p. 153. 55 Alla fine del capitolo 31 del i libro Perottino esprime il proposito di precisare il suo ragionamento attraverso due canzoni: «Sì come hora col mio misero esempio vi potete, donne, far chiare, di cui tale è la vita, chente suonano le canzoni, et vie anchora peggiore; delle quali per aventura quest’altre due, appresso le ramemorate, poi che tanto oltre sono passato, non mi penterò di ricordarmi». Subito di seguito, inizia il capitolo successivo (32) interamente occupato dal testo poetico Poscia che ’l mio destin fallace et empio. La canzone sorella Lasso ch’i fuggo e per fuggir non scampo si trova immediatamente dopo, introdotta solo da un breve cappello: «tacquesi, finiti quei versi, Perottino et, poco taciutosi, appresso alcun doloroso sospiro, che parea di mezzo il cuore gli uscisse, verissimo dimostratore delle sue interne pene, a questi altri passando seguitò e disse» (cfr. Bembo, ed. Dilemmi, libro i, capitoli 31-33, pp. 250-255). 56 il congedo di i, 32 «Canzon, homai lo tronco ne ven meno/ ma non la doglia che mi 53

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Lavinello ad aver concepito «ad un corpo», cioè seguendo un’ispirazione unitaria, i tre componimenti finali sulle dolcezze derivanti da un retto amore (iii, 8-9-10) che egli espone in successione serrata per assecondare le cortesi insistenze della “reina”.57 Un ultimo appunto circa i modelli metrici a cui soggiacciono le canzoni di Bembo, infine, ci è suggerito da un intervento di Simone Albonico, il quale annota che l’autore degli Asolani e delle Rime «si confronta con gli esempi più impegnativi della tecnica poetica petrarchesca, in particolare con alcuni di quelli di ascendenza trobadorica».58 Schemi come quello a coblas unissonans di Asolani ii, 16 o quello di Rime LXiX in cui è stata in parte ravvisata una manipolazione dell’occitanica tessitura di RVF 70 (ABBA. AccADD) sicuramente devono essere messi in relazione con l’attenzione riservata a questa tradizione antica già nei testi del Canzoniere; ma, oltre all’imprescindibile mediazione petrarchesca, forse sarebbe proficuo rivalutare anche quale influenza abbiano esercitato in questo senso gli attestati interessi bembiani per il recupero in presa diretta dei canzonieri provenzali.59 Al risultato preponderante di schemi eccentrici e parzialmente defilati rispetto al canone petrarchesco giunge non solo il Bembo, ma anche il trissino nelle sue Rime,60 benché attraverso un percorso differente. Per strugge et sforza/ ond’io ne vergherò quest’altra scorza» annuncia con un deittico l’imminenza della canzone successiva, mentre il congedo di i, 33, continuando la metafora dell’intaglio arboreo, viceversa, punta indietro alla prima canzone: «Canzon, tu viverai con questo faggio/ appresso all’altra, et rimarrai con lei;/ et meco ne verranno i dolori miei». 57 Dopo il testo della canzone iii, 8 Perché il piacer a ragionar m’invoglia, si trova scritto: «Detta questa canzone, volea Lavinello a’ suoi ragionamenti tornare, ma la reina, che del suo dire di tre canzoni nate ad un corpo non s’era dimenticata, essendonele questa piaciuta, volle che egli etiandio alle altre due passasse, onde egli la seconda in questa guisa incominciando seguitò, et disse». La seconda canzone Se ne la prima voglia mi rinvesca è staccata dalla terza Dapo ch’Amor in tanto non si stanca da una tanto rapida quanto funzionale riga di intermezzo: «et poi di questa passò Lavinello etiandio alla terza senza dimora, et disse» (cfr. Bembo, ed. Dilemmi, libro iii, capitoli 8-10, pp. 322-329). 58 Albonico 2006b, 14. 59 Dionisotti, ed. Vela, 159 allude al proposito, poi abbandonato, che Bembo vagheggiò, nonostante le difficoltà oggettive contro cui questo tipo di filologia volgare si scontrava, di «pubblicare una raccolta di antiche poesie provenzali». 60 molte e particolareggiate sono le indicazioni specifiche sulla forma canzone, così come è trattata nel canzoniere di trissino, che si trovano nell’ampia nota metrica curata da g.

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quest’ultimo autore non ci si può esimere dal rilevare un esercizio metrico più consapevole, meditato e interiorizzato, che si fa evidente nella lucida giustificazione teorica dispiegata con dovizia di puntualizzazioni nella Poetica. La disinvoltura con cui trissino segue il filo delle membrature della forma canzone non è frutto di una riflessione solitaria, ma è un’acquisizione senz’altro da ascriversi allo studio paziente del trattato del primo metricologo della nostra letteratura. in effetti, se il lirico vicentino è in grado di osservare da vicino il complesso meccanismo della stanza e di sezionarlo riconoscendone agevolmente la chiave di interpretazione in sottopartizioni regolate da precise norme tendenziali è grazie agli affilati strumenti terminologici offerti dal De vulgari eloquentia, le cui pagine erano state recentemente sottoposte dal trissino ad un sino ad allora intentato scandaglio. La conoscenza delle tessere base che costituiscono lo strutturato mosaico di piedi, fronte e sirma gli consente di padroneggiare con sicurezza le architetture canonizzate e, nel momento in cui stabilisce di lanciarsi in ardite sperimentazioni, gli dà altresì l’opportunità di calcolare accortamente il rischio delle licenze che si riserva, per evitare di piegare oltre il dovuto la pur malleabile forma della canzone e ritrovarsi pericolosamente al di là di quei confini ideali tracciati dalla tradizione lirica italiana, tradizione all’interno della quale egli ha, in fin dei conti, deciso di insediare la sua opera. Figura di questo immaginario sporgersi in avanti rimanendo ancorati all’appiglio petrarchesco per conservare, nonostante tutto, un composto equilibrio è la disposizione che assumono le stesse canzoni all’interno delle Rime, con attenzione particolare alla foggia delle estremità. Dunque, il punto di esordio sicuro è la ripresa della testura di RVF 126: adoperato in Amor da che ’l ti piace (Xiii), questo calco petrarchesco è doppiamente significativo perché è l’unico delle Rime e perché viene selezionato proprio per la lirica che inaugura la presenza della forma canzone nel libro trissiniano. oscuro e temerario è viceversa l’approdo a Vaghi superbi e venerandi colli (LXXii), ultimo componimento rappresentativo di questo tipo formale, la cui orchestrazione metrica è quasi del tutto estranea a ciò che in italia a questa altezza cronologica si sarebbe inteso per canzone. Si tratta di un testo in 6 strofe individuate dalla successione di endecasillabi milan, che precede la già citata edizione critica approntata da Quondam 1981 e a cui senz’altro si rinvia (in particolare alle pp. 46-50).

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e settenari sciolti, in cui, in completa assenza di rima, l’unica ricorsività riconoscibile consiste nel ripetersi di strofe in strofe delle stesse misure versali in posizioni predeterminate, salvo che poi a complicare il quadro interviene la rottura del principio di identità strutturale della stanza. Ciò si esplica nel fatto che in questa canzone si trovano ad agire due moduli strofici alternativi, uno di 13 versi valido per le strofe i, ii, iv e v e caratterizzato dalla presenza di due soli settenari in 9a e 11a sede, e uno di 14 versi seguito dalle strofe iii e vi, con settenari in 3a, 7a, 10a e 13a sede. in mezzo a questo incipit e a questo explicit, nell’intervallo di possibilità che si apre tra due testi che hanno la significatività di margini concretamente spaziali nella raccolta in riferimento al metro canzone e allo stesso tempo l’importanza di estremi di escursione latamente metapoetica per quanto riguarda la forzatura trissiniana esercitata sulle forme della lirica, prolifera una sfumata serie di esiti intermedi. Dall’esame dei restanti 8 individui si evince uno spaccato di sostanziale rispecchiamento della metrica petrarchesca, variata ma pur sempre riconoscibile.61 in alcuni casi è possibile recuperare integralmente la traccia di partenza: trissino gareggia con l’ordito di RVF 29 [AbC(d3)eF(g5)Hi] nel saggio in coblas unissonans di La bella Donna a cui donaste il cuore, nel cui schema tralascia però di riprendere le cadenzate rime interne, e si richiama a RVF 70 (ABBA AccADD) nella breve Deserte piagge e boschi ombrosi et hermi, dichiarando palesemente la mediazione bembiana di Gioia m’abonda al cor.62 Per il resto si osserva che nell’economia generale della canzone è di preferenza la sirma a ritagliare nella stanza lo spazio per riformulazioni originali che comunque fruiscono di una libertà disciplinata, nella misura in cui rispettano sempre rigorosamente le indicazioni melodiche essenziali fornite dall’autorità dantesca circa la concatenatio e la combinatio.63 La È utile precisare che spesse volte (6 su 10) trissino omette il congedo, con scelta assai poco in linea con i dettami della morfologia della canzone proposti nei Fragmenta, dove tale opzione è veramente minoritaria e si realizza in soli due testi (RVF 70 e 105). 62 La canzone trissiniana riproduce esattamente (salvo la mancanza del congedo) la variazione che Bembo propone per lo schema petrarchesco, come si può notare dalle tavole alle pp. 95-96 e a p. 98. 63 Altri elementi di regolarità e di tradizione possono essere ravvisati nella composizione delle strofe trissiniane a partire dalla descrizione dell’aspetto dello schema tipo della canzone petrarchesca fornita da Fulco 1969, 73-74: «la sirma, in genere più lunga della fronte, è costruita in 61

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fronte, invece, esibisce caratteri più conservativi ed individuabili64 anche nell’alternanza delle misure versali AbC. AbC in cui si presenta in Ben mi credeva in tutto esser disciolto (LXiV), che ha un unico precedente nel Canzoniere (RVF 268) ma che segnala altresì l’influsso dell’antica corrispettiva Ben mi credeva in tutto esser d’Amore di Bonagiunta orbicciani. L’insolita presenza in un canzoniere cinquecentesco di un così ampio angolo visuale sulla tradizione è del tutto consentanea alle descrizioni che numerosi studiosi hanno da tempo fornito a riguardo del profilo poetico del trissino, per il quale si deve parlare di un esplicito tentativo di rifondazione del genere non messo in atto tramite la selezione esclusiva dell’insegnamento del Petrarca, bensì condotto pensando alla lirica come ad un armonioso concento di «diverse istanze stratificatesi nel corso di una pratica plurisecolare».65 in realtà, nel corso dello studio anche del solo gruppo delle canzoni e magari limitatamente ai meri fattori metrici, si viene catturati dall’affascinante idea di estendere il campo di azione del suddetto attributo “plurisecolare” fino ad includere il circuito italiano che va dalle origini alla pratica cortigiana del Quattrocento (e che è il referente a cui intende rimandare l’etichetta di Quondam), all’interno del più vasto milieu a cui esso geneticamente appartiene, cioè quello che invoca come propri maestri i grandi autori greci e latini. Questo, nella fattispecie, avviene nel momento in cui ci si imbatte nei due testi Quella virtù che del bel vostro velo (XXXi) e Per quella strada ove il piacer mi scorge (LXV) i quali, pur essendo denominati dall’autore “canzoni” e non altrimenti, rimontano, con diretta conferma proveniente dalle pagine della Poetica,66 al possente congegno dell’ode pindarica, principalmente per gran parte su rime baciate, ed ha spesso come nucleo una quartina a rime incrociate suggellata da una coppia baciata (per lo più del tipo DeeDFF o ff)…». Questo profilo strofico si attaglia molto bene all’interpretazione di alcuni schemi di trissino che non hanno precedenti nei Fragmenta, in particolare quello delle canzoni XXXi (entrambi gli schemi) e LiX. 64 Sono ben petrarchesche le fronti endecasillabiche a schema ABC.ABC (cfr. RVF 129, 323, 331) e a schema ABC.BAC (cfr. RVF 23, 50, 53, 127, 207, 366) e la fronte aBC. bAC (cfr. RVF 71, 72, 73). 65 Cfr. Trissino (ed. Quondam), 21. 66 Cfr. Trissino, ed. Weinberg, vol. i, p. 138 «io ad imitazione di Pindaro (il quale fa la stropha e la antistropha simili e poi induce l’epodo diverso da loro) ho fatto canzoni le quali hanno le prime due stanzie simili di compositura a guisa di stropha e di antistropha; e la terza diversa da esse come epodo» (Trissino, ed. Weinberg, vol. i, p. 138). Più oltre trissino specifica che sta alludendo a due testi inclusi nelle sue Rime, e precisamente a XXXi e LXV.

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la rifrazione dell’originaria stanza di canzone volgare nell’immagine triadica cara alla lirica corale classica di strofe, antistrofe ed epodo, a formare una nuova macrostruttura di livello superiore, a sua volta potenzialmente modulare. in sostanza Rime XXXi e LXV si distendono entrambe su 6 stanze, dove le coppie formate dalla i e ii e dalla iv e v stanza si rispondono in contrappunto tramite l’utilizzo della stessa serie rimica e versale (come nel dittico pindarico di strofe e antistrofe), mentre la iii e la vi stanza fungono da conclusioni rispettivamente parziale e definitiva, segnalate da uno schema altro rispetto a quello delle stanze precedenti (analogamente a quanto è previsto nell’epodo). Lo spunto strutturale dell’organizzazione in triadi, liberato in questi due componimenti trissiniani, si segnalerebbe con quella forza destabilizzante caratteristica dell’inedito se ad addomesticare l’ignoto congegno greco per restituirlo al territorio della canzone tradizionale non intervenisse la scelta di utilizzare ancora una volta materiale che graviti attorno al perno petrarchesco o che ne rispetti le convenzioni. Questo finalmente è il motivo per cui gli schemi per le strofi e antistrofi e per gli epodi sono riprese di tessere dei Fragmenta67 oppure al massimo variazioni non particolarmente stravaganti rispetto alle testure delle altre canzoni della raccolta.68 Che trissino si rifaccia ad un’autorità classica per rinverdire con nuova linfa la forma tutta appartenente ai ‘moderni’ delle canzoni (le quali sono indicate in consonanza al giudizio espresso da Dante nel De vulgari eloquentia come «i più nobili di tutti i poemi italiani, che per la excellentia loro hanno il nome comune a sé appropriato»),69 non appare una scelta nella canzone LXV Per quella strada ove il piacer mi scorge strofi e antistrofi guardano a RVF 53, mentre gli epodi assumono la stanza, più lunga di un verso, degli schemi RVF 270/325. Cfr. tavola a p. 95. 68 Per gli schemi delle partizioni della canzone XXXi Quella virtù, che del bel vostro velo non è possibile procurare riscontri puntuali. tuttavia la fisionomia di strofe e antistrofe ripropone l’avvio di LXiV già contrassegnata dalla ripresa di uno schema di Bonagiunta; d’altra parte l’epodo accosta il modello della canzone di Petrarca a fronte tetrastica (RVF 359) senza collimare perfettamente con esso, secondo un procedimento che si è già osservato per l’analoga canzone su piedi binari LXii Deserte piagge e boschi ombrosi et hermi, rispetto a RVF 70. Si aggiunga in margine che anche le canzoni che costituiscono i cori della Sofonisba sono, ad eccezione di Che farò io? Debbo chiamar di fuore, impaginate su un modello triadico, le cui cellule di strofe, antistrofe ed epodo si avvalgono se non di testure dei RVF, di schemi che rispecchiano una metrica ‘petrarchesca’ e avvicinano con variazioni modelli del Canzoniere. 69 Cfr. Trissino (ed. Weinberg), iV divisione, p. 122. 67

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particolarmente eclatante nel contesto del rinascimento, né tanto meno stupisce il fatto che si instauri un canale di comunicazione tra forme eterogenee (la canzone e l’ode), vista l’intrinseca impossibilità di creare – qualora se ne fosse avvertita l’esigenza – una perfetta sovrapposizione tra i due sistemi metrici, antico e romanzo. eppure, al lettore di lirica greca suona, se non anomalo, almeno singolare ed inatteso che il parallelo imitativo con i carmi pindarici, famosi per i loro tratti di piccole epopee celebrative,70 sia da trissino istituito, in prima istanza, non comprensibilmente per testi di carattere occasionale ed encomiastico ma per canzoni amorose e in particolare di lode alle virtù della donna (XXXi, LXV). Con buona probabilità questa discrepanza tematico-formale rispetto ai carmi di Pindaro può essere raccolta come indizio del fatto che l’intento principale dell’archeologia metrica trissiniana non era tanto quello di autocompiacersi nella citazione dotta e peregrina di un genere quasi dimenticato71 e fondare un archetipo di ode italiana con forza programmatica, quanto piuttosto quello di promuovere con slancio rinnovato proprio l’antica canzone come forma principe della lirica innalzandone il dettato mediante i recenti mezzi forniti dall’umanesimo greco. e se questo era lo scopo, quale tipologia poteva essere più marcatamente romanza e italiana della canzone di lode? Del resto, posto che uno dei modi in cui le definizioni e i giudizi scaturiscono è la valutazione contrastiva delle differenze di elementi messi a confronto, per illuminare l’operato di trissino gioverebbe una rapida considerazione dei coevi esercizi di Alamanni. Anche l’autore delle Opere toscane rivisita, infatti, la struttura metrica dell’inno pindarico, ma gli 8 componimenti che ne risultano72 mantengono come tema, in ottemperanza al Si ricordi che della vasta produzione lirica di Pindaro si sono conservati solo i cosiddetti epinici, cioè quel particolare tipo di odi che venivano composte per gli aristocratici vincitori delle gare dei giochi panellenici e in cui il pretesto strettamente occasionale veniva incorniciato tra episodi mitologici e lapidarie frasi sentenziose, a significare che l’arte del poeta che li immortalava aveva il potere di conferire ad essi la rinomanza senza tempo del mito e della saggezza orale. 71 Del resto questo atteggiamento sarebbe dissonante con la morfologia del canzoniere di trissino che riduce di molto la possibile escursione metrica e annovera praticamente solo i generi autorizzati dalla tradizione. 72 Si tratta delle liriche contenute nel secondo volume dell’edizione lugdunense. (Cfr. 70

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modello, l’encomio dei nobili committenti, i reali di Francia Francesco i e margherita, o al massimo la spersonalizzata celebrazione dell’immortalità della poesia. ed è questa intonazione dei contenuti, unita naturalmente ad una rielaborazione della morfologia delle partizioni delle liriche tale da renderle cellule diversificate rispetto alle stanze di canzone, a garantire che il risultato finale, ottenuto per approssimazioni progressive, sia la consapevole riproposizione di un organismo ben individuabile: la forma dell’ode antica non celata dalla sua veste volgare.73 tuttavia, una volta cimentatosi nel singolare connubio tra tema amoroso e forma encomiastica, trissino collauda il metro della canzone-ode in uno dei due testi celebrativi delle Rime e precisamente in quello dedicato al Cardinale ridolfi (LXXVii), ancora una volta in 6 strofe. Alla luce di tutte le precedenti osservazioni si può riconoscere retrospettivamente che si tratta di un più mimetizzato procedimento di marca pindarica la già notata diversificazione della misura e dell’alternanza versale delle stanze irrelate, Alamanni 1533, 196-232). 73 La diversa volontà dei due autori considerati diventa ad un certo punto anche una questione definitoria e nominalistica. nei suoi inni Alamanni marca gli elementi della triade (a differenza di trissino che lo fa solo in sede teorica) con i nomi di ballata, controballata e stanza. L’ostentazione di queste etichette per le partizioni permette di spacciare per ode l’inno sesto Santa compagna antica (ii, 220), che è in effetti un calco metrico della canzone RVF 126 camuffato attraverso la serializzazione ternaria delle stanze e i due componimenti Alme sorelle chiare (ii,196) e Ritorniam, Muse, ancora (ii, 202) che nella strutturazione violano la regola dell’omometria tra i primi due elementi della triade. Quello di Alamanni pare, poi, un più esplicito rifacimento degli inni pindarici anche perché all’adesione formale segue quella contenutistica. Cfr. Carducci 1902, 1398: «Circa lo stesso tempo [rispetto a quello in cui trissino componeva le canzoni a schema triadico inserite nelle Rime] lavorava Luigi Alamanni gli otto inni al cristianissimo re Francesco con versi quasi tutti settenari rimati per ballate, controballate e stanze, co i quali nomi toscani intendeva rispondere ai nomi greci di strofe, antistrofe epodo; e in questo il poeta aveva l’intenzione a Pindaro anco nell’invenzione, nel sentenziare, cioè, favoleggiare e divagare, se bene non molto floridamente». Cfr. anche Hauvette 1903, 227, che dopo aver definito gli inni di Pindaro delle prove ben dissimulate tra le canzoni della raccolta e in definitiva «une curiosité et rien de plus», aggiunge: «Alamanni montra un peu plus d’initiative et de décision. Les noms nouveaux dont il se servit pour désigner ces pièces et leurs diverses parties, la structure des strophes nettement soulignée par la disposition et les titres qu’il leur donna dans l’édition, tout révélait, même à un lecteur peu attentif, une tentative ambitieuse et hardie. en même temps, il abordait des sujets dont le caractère devait être en harmonie avec la poésie héroïque de Pindare, toute pleine des éloges décernés aux vainqueurs des jeux de la grèce.»

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polarizzata attorno a due schemi concorrenti (per strofi/antistrofi ed epodi) che contrassegna la canzone finale.74 Va da sé, poi, come questo dettaglio non faccia che evidenziare l’esistenza di una solidarietà che lega nel segno dell’antico l’adozione del pattern soggiacente dell’ode e l’obliterazione della rima e come pertanto esso rafforzi la suddetta impressione che LXXVii sia la canzone più sperimentale ed oltranzista e – forse proprio per questo – marginalizzata all’estremità del libro. Pare, inoltre, significativa l’impaginazione grafica che a questo testo viene fornita nell’edizione cinquecentesca, trasposta da Quondam in modo del tutto fedele, e che sembra riportarlo a suggestioni petrarchesche. nonostante l’assenza di rime imporrebbe di includere il componimento tra quelli a forma «continua», a causa della difficoltà di riconoscere una strutturazione interna unicamente a ragione della riproposizione nello stesso ordine delle misure versali, sulla pagina le stanze compaiono provviste di rientri di capoverso ad indicare l’articolazione in piedi di tre o quattro versi e della sirma di sette o sei versi, secondo una delle misura più diffuse.75 Anche la modulazione del discorso sintattico è solidale con questa accortezza grafica, tanto che quando ad ogni comparto metrico non corrisponda un periodo conchiuso, esiste comunque una separazione tra subordinate e principali che rispetta le pause di stacco tra i comparti.76 Concludendo, per schema e presenza degli sciolti la più pindarica delle canzoni è proprio l’encomio d’occasione Vaghi superbi e venerandi colli (LXXVii), ma ciò non nega alle due canzoni amorose il valore e il significato che consegna a loro la priorità cronologica.77

Lo addita anche milan nella già citata nota metrica alle Rime, p. 47, mentre invece trissino, quando nella Poetica parla di imitazione da Pindaro, nominerebbe solo le due canzoni amorose (XXXi e LXV). 75 grazie al layout del testo si riconosce che la canzone LXXVii è così concepita: i, ii, iv, v strofa con due piedi di tre endecasillabi e sirma di 7 versi con settenari in terza e quinta sede; iii e vi strofa con due piedi di quattro versi di cui il terzo settenario e con due volte ciascuna di tre versi di cui il secondo settenario. 76 È lecito chiedersi se sia stato trissino a disporre tale impaginazione per le strofe di LXXVii oppure se l’editore, lasciandosi guidare dai criteri grafici tradizionali, abbia individuato simmetrie e di conseguenza segmentato il testo in questo modo attraverso espedienti di stampa. Dal momento che l’edizione non è postuma e dopo aver considerati i rilievi sintattici suddetti, credo plausibile che si tratti di una scelta autoriale, al limite implicita. 77 Cfr. Trissino (ed. Quondam), 20: «le rime di occasione (per papa Clemente Vii, per il cardinal ridolfi, per la morte di Cesare trivulzio) si situano negli anni immediatamente 74

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2.3 oltre Petrarca. Apporti metrici esogeni ed endogeni Come si ha modo di constatare tramite la consultazione delle tavole metriche alle pp. 95-111, le canzoni prese in esame nel 56% dei casi (73 su 130) ricalcano perfettamente schemi del Canzoniere, mentre ancora nel 44% degli esiti (57 su 130) si discostano da precisi antecedenti. Ciò nonostante, la non perfetta collimazione degli schemi primo cinquecenteschi registrati con tessiture di matrice petrarchesca è un dato che non può e non deve essere interpretato sempre in modo univoco. Uno schema, infatti, può essere solo lievemente innovativo (qui in 6 casi); innovativo ma ordito seguendo principi metrici di ascendenza petrarchesca, cioè orchestrazione di strofe divise e di una determinata lunghezza, con alcune costanti struttive, come accade per la maggioranza dei casi inclusi tra gli “schemi non petrarcheschi”; infine, può essere, oltre che innovativo, irregolare, a causa della non totale padronanza delle regole metriche da parte di chi lo pratica (circa una quindicina di esempi, osservati in Britonio e in minima parte in Bembo). in ogni caso, ciò che importa rendere esplicito è che i componimenti censiti nel corpus rispondono nel complesso ad una morfologia ben definita in senso petrarchesco, al di là di scelte autoriali specifiche e caratterizzanti. Per la stanza prevale nettamente la misura mediana di 13 versi, benché sia testimoniata episodicamente un’escursione che va dai 7 versi (in tre tentativi bembiani) ai 21-22 (in una canzone rispettivamente del Britonio e del molza). Salvo circoscritti e già giustificati esempi di canzoni a strofe indivisibili o di testi a coblas unissonans, si trovano sempre strofe di piedi e sirma, mentre non si registra alcuna realizzazione di strofe di fronte e volte. La prima parte della stanza è organizzata quasi sempre in piedi di tre versi; assai meno frequenti ma non inesperite sono invece le fronti di quattro o di otto versi. È chiaro, dunque, che i diversi schemi presuppongono che esista un meridiano rispetto al quale ci si orienta e che questo consista nella linea esemplare tracciata dal Petrarca. A correttivo di tale premessa, motivatamente data per scontata a questa altezza cronologica, è necessario puntualizzare che nel novero delle canzoni considerate si ravvisa talvolta anche

a ridosso dell’edizione; il nucleo amoroso delle Rime risale, molto più addietro, agli anni cortigiani del trissino, alle sue relazioni con milano, mantova, Ferrara, ai primi anni del Cinquecento, insomma.»

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l’influsso di modelli “altri”, benché con minore potenza di irradiazione rispetto a quella che si spriogiona dal Canzoniere. A Dante, e in particolar modo alle sue prove più preziose ed ardue, si collegano con significativo interesse tre autori citati non ascrivibili, per diverse ragioni, anche di formazione culturale, ad un petrarchismo totale e totalizzante, ossia Bandello, con la ripresa della petrosa Così nel mio parlar voglio esser aspro; B. tasso che replica ad oltranza il modello della plurilingue Aï faux ris, pour quoi traï avés (oltre al già ricordato rucellai, che si cimenta virtuosisticamente con il congegno chiuso della canzone-sestina Amor, tu vedi ben che questa donna). Lo sguardo sul tardo Duecento e sul primo trecento, poi, per le canzoni di Bandello è addirittura a più ampio raggio, considerato il fatto che il poeta include altri antichi poeti toscani celebrati nella giuntina del 1527, ossia Cavalcanti e Cino da Pistoia. in trissino, invece, malgrado i chiari echi tematici che riverberano dalla lirica dello Stil novo, non rimane traccia di incidenza metrica di modelli anteriori alla legislazione petrarchesca, come del resto ben dimostra la milan riconducendo i tentativi sperimentali del poeta vicentino alla rielaborazione di noti pattern del Canzoniere.78 Archetipi significativi non vanno, però, ricercati solo negli illustri maestri della lirica italiana che affiancano Petrarca, ma anche all’interno dello stesso complesso e «sfuggente contesto culturale»79 di fine XV e inizio XVi secolo e in primo luogo nei nuovi autori che saranno consacrati come canonici proprio dai loro contemporanei. nella fattispecie un riferimento obbligato va a Bembo: non è affatto trascurabile che in questo corpus, certo rappresentativo del panorama di inizio secolo, ma anche, per ovvie ragioni, limitato, compaiano ben tre riprese di moduli strofici forgiati dall’autore delle Prose, rispettivamente due dello schema di Gioia m’abonda al cor tanta e sì pura da parte di trissino e di Ariosto, e una dello schema dell’asolana Se ’l pensier che m’ingombra da parte del Trissino (ed. Quondam), 1981, nota metrica di milan, pp. 46-50. Balduino 2008, 40 «non si insisterà mai abbastanza sul fatto che, per la sua stessa durata ed estensione, il petrarchismo è per non piccola parte anche fenomeno destinato crescere su stesso, ossia sulla scorta anche di apporti endogeni. Sia che si occupi di protagonisti di primo piano, e sia a maggior ragione che si rivolga a esercizi più dozzinali [...], nessuna seria indagine potrà perciò limitarsi alle concordanze del Canzoniere, ma dovrà tenere conto di un più ravvicinato e sfuggente contesto culturale, della concomitante incidenza di altri petrarchisti sul singolo petrarcheggiante.» 78 79

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Bandello. Pietro Bembo, dunque, l’autore che si attesta su una posizione metrica piuttosto defilata perché rispetto a tutti quelli presi in considerazione vanta in proporzione il minor numero di riprese puntuali dal Petrarca, diventa modello di soluzioni strofiche e di testure, alla stregua di altri lirici classici, anche se, ad onor del vero, si dovrà osservare che tra i suoi eterogenei esiti architettonici vengono trascelti per l’emulazione quelli che minimamente si discostano dall’essere calchi petrarcheschi.80 e tuttavia non solo per questa ragione indiziaria ha senso confermare, cogliendo il suggerimento di Balduino, l’esistenza di un «bembismo metrico»81 applicato anche al campo della canzone. La scarna precettistica sulle forme poetiche illustrata nelle Prose unita alla possibilità di applicare il principio di una moderata variatio nell’orditura della strofa di canzone sono le chiavi di lettura inclusive di cui Bembo si dota per interpretare e normalizzare quanto si sta verificando nel panorama primo rinascimentale. Accanto a questo, poi, c’è dell’altro: ad esempio, l’elogio bembiano degli schemi delle canzoni pastorelle è congruente con la loro massiccia ripresa nei libri di rime cinquecenteschi;82 la censura alla complicata RVF 105 è rispettata per lo più e trasgredita solo per accusate prove di virtuosismo; il plauso alla serializzazione di testi “gemelli” su schema identico o analogo, dopo gli Asolani, è un’indicazione condivisa da parte di molti, da Bandello (CLXXXii, CLXXXiii, CLXXXiV su schema di RVF 268), ad Ariosto (V, Vi su schema di RVF 270 e 264), a Britonio (con due vere e proprie sezioni di canzoni contigue all’inizio e alla fine della seconda parte del suo canzoniere). Quella operata da Bembo è ancora una volta una forma di mediazione del magistero petrarchesco, una riduzione esemplare consegnata allo studio e alla meditazione dei poeti coevi a fronte di un’altra alternativa possibile, ossia il recupero molto più ampio, ligio ed integrale prospettato da Sannazaro. La flessuosa linea bembiana e quella sannazariana, certo più ortodossa, nei loro esiti pur dissimili, convergono, però, in un punto: la consacrazione di formule liriche che consistono nell’abbinamento di un determinato schema ad un suo contenuto tematico specifico, ora nella Gioia m’abonda il cor tanta e sì pura è variazione minimale di RVF 70; Se ’l pensier che m’ingombra riecheggia e amplia il giro melodico di RVF 126. 81 Balduino 2008, 55. 82 Anche in questo corpus sono in tutto 20 le riprese di RVF 125 e 126.

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fissazione di nuclei metrico-semantici inediti, ora nella prosecuzione leggermente sfasata di uno schizzo già petrarchesco.83 A questo proposito, per il primo caso è notorio il successo della scelta bembiana di sposare lo schema di RVF 23 all’occasione del compianto funebre,84 mentre, quanto al secondo, parimenti accertata è la predilezione che si accorda, a partire dall’arcadica Alma beata e bella di Sannazaro, allo schema di RVF 126 per cantare non già la fantasia di morte propria come in Petrarca, quanto la morte altrui.85

2.4 tavole metriche Qui di seguito è riprodotto in tavole riassuntive l’elenco di tutte le canzoni che figurano all’interno delle raccolte di rime prese in considerazione nella costituzione del corpus al fine di fornire uno specimen complessivo ed esauriente delle scelte dei singoli autori. Per ciascuna raccolta la prima colonna segnala, oltre all’ordine di collocazione del testo all’interno del libro, anche la presenza di eventuali sezioni o suddivisioni interne. Vista la frequente tendenza ad utilizzare più o meno rigorosamente calchi metrici petrarcheschi, si è indicato in apposite colonne di riscontro il numero del testo matrice, l’incipit e il numero di strofe da cui era caratterizzato, per permettere un confronto immediato.

Cfr. cap. 5. Gorni 1984, 444-445 ricorda che scrivono canzoni di planctus sullo schema di RVF 23 oltre a Bembo anche Sannazaro (Spirto cortese, che sì bella spoglia, nelle Disperse) e torquato tasso (Già spiegava le insegne oscure ed adre). A queste esemplificazioni sono da aggiungere, come indica Balduino 2008, 55, nota 60, riprese con firma di Bernardo tasso, Chiara matraini e Domenico Vernier. Da questo corpus emerge inoltre la canzone in morte di raffaello del molza. 85 Cfr. Torchio 2006, 211. oltre che nella guidiccioniana Fidi, riposti et cheti «si hanno altri esempi di un consimile sfruttamento tematico dello schema metrico: Lega la benda negra di giulio Camillo fu scritta in morte del Delfino di Francia (1536); Se mai, Muse, aspre e note e Le profonde caverne di giovan Battista Susio costituiscono, mi sembra, un dittico per marco grimani (1544); Alma celeste e pura di gaspara Stampa per una monaca veneziana; Spirto gentil, che ’n terra di Pietro Dainerio per l’amico manuccio.» 83 84

94

G. G. Trissino, Rime n° testo Xiii

XXXi

LV

LiX LXiV

LXV

incipit

n° strofe Schema metrico

Amor, da che 6 str. + ’l ti piace cong

abC.abC. cdeeDfF + AbB

Quella virtù, 6 str. che del bel vostro velo

i-ii-iV-V str.: AbC.AbC. CDeeDdedFF

Donna gentil, che dal consiglio eterno Gentil Signora, i’ volio Ben mi credeva in tutto esser disciolto Per quella strada, ove il piacer mi scorge

6 str.

La iii- Vi str.: AB. BA. ACCDeeDFF ABC.ABC. CDDeeFFgg

Calco Incipit di RVF 126 Chiare, fresche et dolci acque /

/

7 str.

aBC. bAC. CDeeDFfgg

/

5 str. + cong

AbC.AbC. cDdeeFF + aBbCCDD

/

6 str.

i-ii-iV-V str.: ABC.ABC. CDeeDdFF

iii-Vi str: ABbC.BAaC. CDeeDFF

n° strofe 5 str. + cong.

53

Spirto 7 str. + gentil che cong. quelle membra reggi/

7 str. + 270- Amor, se cong. 325 vuo’ ch’i’ torni al 7 str. + doloroso cong. giogo/ Tacer non posso et temo non adopre

95

LXXii

Deserte piagge e boschi ombrosi et hermi LXXV La bella Donna a cui donaste il cuore LXXVi Signor, che fosti eternamente eletto LXXViii Vaghi superbi e venerandi colli

3 str.

AB. BA. ACcDD

/

7 str. + cong

AbCDeFgH + gH Coblas unissonans

/

7 str. + cong.

ABC.BAC. CDDeeFF Sirma + ABBCcDD 270325

6 str.

Stanze continue di endecasillabi e settenari irrelati229

86

86

La i-ii-iV-V stanza presentano 13 versi; la iii e la Vi 14 versi.

96

/

P. Bembo, Asolani n° testo230 incipit

n° strofe Schema metrico

i, 32

Poscia che ’l mio destin fallace et empio

5 str. + cong.

i, 33

Lasso, ch’i’ fuggo et per fuggir non scampo

5 str. + cong

ii, 9

Preso al primo apparir del vostro raggio Sì rubella d’Amor, né sì fugace Se ’l pensier, che m’ingombra Perché ’l piacer a ragionar m’invoglia Se ne la prima voglia mi rinvesca Dapoi ch’Amor in tanto non si stanca

3 str.

Calco di incipit n° rVF strofe ABC.ABC. cDeeDFF 129 Di 5 str. + + ABB pensier in cong. pensier, di monte in monte ABC.ABC. cDeeDFF 129 Di 5 str. + + ABB pensier in cong. pensier, di monte in monte AB.BA XCC231 /

8 str. + cong.

AbCDe(f)gh + (f)gh coblas unissonans232

/

10 str. + cong.

abC.abC. cdeeFfDgg + AbB

/

5 str. + cong.

ABC.ABC. CDdefFegg + AbB

/

5 str. + cong.

ABC.ABC. CDdefFegg + AbB

/

5 str. + cong.

ABC.ABC. CDdefFegg + AbB

/

ii, 16 ii, 28 iii, 8

iii, 9 iii, 10

87 88 89

87 il prosimetro degli Asolani si articola in tre libri. il numero romano indica il numero del libro, il numero arabo il capitolo all’interno del quale è inserito il testo poetico. 88 La rima X è irrelata all’interno della singola stanza, ma si ripete identica in tutte le stanze. 89 Le stesse rime ricorrono in tutte le stanze, ma all’interno della medesima stanza non ci sono corrispondenze rimiche.

97

P. Bembo, Rime n° testo incipit XXVi Li

Felice stella il mio viver segnava

Ben ho da maledir l’empio Signor Lii O rossignuol, che ’n queste verdi fronde LXViii Gioia m’abonda al cor tanta e sì pura LXiX A quai sembianze Amor Madonna agguaglia LXXXiii Alma cortese che dal mondo errante

n° strofe 2 str.

Schema metrico

7 str

ABbA CCBDdBeA BeFFggH(h)A233 (strofe indivisa) AB.AB.AB. bXCC234

3 str.+ cong 3 str.+ cong. 3 str.

ABBA.ABBA. CcDD + aBB AB.BA ACcDD + AaBB Ab.bA AcDDCCee

10 str. ABC. BAC. CDeeDFgHHgFFii + doppio congedo235

Calco Incipit di RVF /

n° strofe

/ / / / 23

Nel dolce 8 str. tempo de + la prima cong. etade

90 9192

90 91 92

nella seconda stanza il distico FF è mutato in Ff. La rima X è irrelata all’interno della singola stanza, ma si ripete identica in tutte le stanze. il doppio congedo è composto di due parti asimmetriche a schema ABCCBAA + ABBCC.

98

J. Sannazaro, Sonetti e canzoni n° testo236 1, Xi

incipit O fra tante procelle invitta e chiara

1, XXV Ben credeva io che nel tuo regno Amore 2, XLi

Or son pur solo e non è chi mi ascolti

2, Liii

Amor, tu voi ch’io dica

2, LiX

Valli riposte e sole

2, LXiX Incliti spirti, a cui Fortuna arride 2, LXXV Qual pena, lasso, è sì spietata e cruda 2, In qual dura alpe, in LXXXiii qual solingo e strano 2, Sperai gran tempo, e LXXXiX le mie Dive il sanno

n° strofe 7 str. + cong 7 str. + cong 7 str. + cong 6 str. + cong 5 str. + cong 7 str. + cong. 7 str. + cong 5 str. + cong. 8 str. + cong

Schema metrico Calco di RVF ABC.BAC. 53 CDeeDdFF + ABCCBbDD AbC.AbC. 268 cDdee + aBbCC

Incipit

Spirto gentil che quelle membra reggi Che debb’io far? Che mi consigli, Amore ABC.BAC. 207 Ben mi credea cDdeeFF + passar mio aBbCcDD tempo omai abC.abC. cdeeDff 125 Se ’l pensier che + Abb mi strugge abC.abC. cdeeDfF + AbB

126 Chiare, fresche et dolci acque

AbC.BaC. cDeeDdfgfg + aBCcBbdede AbbC.BaaC. cddeeDFF + abbCcBDD ABC.ABC. cDeeDFF + aBCcBDD ABbC.ABbC. CDdeFeF + ABbCDcD

128 Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno 37 Sì è debile il filo a cui s’attene 129 Di pensier in pensier, di monte in monte 119 Una donna più bella assai che ’l sole

n° strofe 7 str. + cong. 7 str. + cong. 7 str. + cong 6 str. + cong. 5 str. + cong. 7 str. + cong. 7 str. + cong. 5 str. + cong. 7 str. + cong.

93

93

i numeri romani indicano che la raccolta di Sannazaro presenta una suddivisione interna in due parti.

99

B. Tasso, Amori n° incipit testo237 1, XXii Ben era assai, fanciul crudo e spietato 1, LXX Lasso, se desiando corro a morte 1, Cii Qual sì candido augel, sì chiara tromba 2, Vii Chiara mia stella, al cui raggio lucente 2, Xii Principe sacro, il cui gran nome suona 2, Almo mio sol che XXVii col bel crine aurato 2, Or che con fosco XXXii velo 2, Alma gentil, che XXXiX dal più puro cielo 2, XLiX

Illustre Donna, il cui valore inchina

2, LXii Donna gentil, che gloriosa e sola 2, Gran Padre, a cui LXXVi l’augusta e sacra chioma

100

n° Schema metrico strofe

Calco incipit di RVF 8 str. ABC.BAC. 127 In quella parte + CDeeDeFF + dove Amor mi cong. ABCcBCDD238 sprona 5 str. ABC.BAC. / Quel ch’a nostra + CDeeDdFfgg + natura in sé di cong. ABCcBbDdee239 più degno 6 str. ABC.ABC. cDeeDFF 129 Di pensier + + aBCcBDD in pensier, di cong. monte in monte 9 str. ABC.ABC. cDeeDFF 129 Di pensier + + aBCcBDD in pensier, di cong. monte in monte 15 ABC. BAC. CDeeDFF Sirma str. + + ABCcBDD 325 cong. 8 str. ABC.BAC. cDeeDFF / + + aBCcBDD cong. 10 abC.abC. cdeeDfF + 126 Chiare, fresche str. + AbB et dolci acque cong. 7 str. ABC.BAC. cDeeDFF / + + aBCcBDD cong. 10 ABC.BAC. cDeeDFF / str. + + aBCcBDD cong 11 ABC.BAC.cDeeDFF / str. + + aBCCBDD cong. 9 str. ABC.BAC. 23 Nel dolce tempo + CDeeDFgHHgFFii de la prima cong. + ABCCBAADD etade

n° strofe 7 str. + cong. 7 str. + cong. 5 str. + cong. 5 str. + cong.

5 str. + cong.

8 str. + cong.

2, XC Come potrò giamai, Notte, lodarti 3, Xi È ben ragion che ’l fortunato giorno

ABC.BAC. cDeeDFF + aBCcBDD

/

ABC.BAC. cDeeDFF + aBCcBDD

/

3, XXV

ABC.ABC. cDeeDFF + aBCcBDD

3, XXXii 3, XLVii 3, LVii 3, LXVi

7 str. + cong. 10 str + cong. Come potrò giamai 8 str. solcar quest’onda + cong. Perch’al vostro valor 12 sempre nemica str. + cong. Temo, Donna 10 gentil, ch’alzarmi str. + in alto cong. Se ne le piagge 7 str. dilettose e sole + cong. Odi dal cielo un 10 grido alto e canoro str. + cong.

ABC.BAC. cDeeDFF + aBCcBDD

129 Di pensier 5 str. in pensier, di + monte in monte cong. /

ABC.BAC. CDeeDeFF + ABCcBcDD ABC.BAC. cDeeDFF + aBCcBDD

127 In quella parte 7 str. dove Amor mi + sprona cong. /

ABC.ABC. cDeeDFF + aBCcBDD

129 Di pensier 5 str. in pensier, di + monte in monte cong.

94 9596

94

Per Bernardo tasso sono accorpati in un’unica tabella le canzoni che compaiono nel Libro primo (1), nel Libro secondo (2) e nel Libro terzo (3) degli Amori. 95 Si noti la leggera imperfezione nella struttura del congedo, che sostituisce il terzultimo settenario con un endecasillabo. 96 nella v strofe non è realizzato il primo verso del secondo piede.

101

L. Alamanni n° incipit testo240 i, 209 Quanto di dolce avea

n° strofe

Schema metrico

Calco Incipit di RVF 5 str. + abC.abC. cdeeDfF + 126 Chiare fresche cong AbB et dolci acque

n° strofe

5 str. + cong. i, 282 Poi che il fero 11 str. AbC.AbC. cDdee + 268 Che debb’io 7 str. destin al mondo + cong. aBbCC far? Che mi + ha tolto consigli, Amore cong. Ala i Cari Signor, che 7 str. + AbC. BaC. 128 Italia mia, 7 str. per voler divino cong. cDeeDdfgfg + benché ‘l parlar + aBCcBbdede sia indarno cong. Ala ii Poi che Madonna 8 str. + ABC. BAC. 23 Nel dolce tempo 8 str. il mio fero destino cong. CDeeDFgHHgFFii de la prima + + ABCCBAADD etade cong. Ala iii Spirto beato, a cui 8 str. + ABC. BAC. 53 Spirto gentil, 7 str. del Padre Eterno cong. CDeeDdFF + che quelle + ABCCBbDD membre reggi cong. 97

97

il numero dei primi due testi è quello riportato nell’edizione cinquecentesca delle Opere toscane, con l’indicazione in numero romano del tomo. Per gli altri tre testi, non comparsi in un’edizione dedicata, si ricorre ad una numerazione progressiva che ha semplicemente la funzione di permettere nel corso della trattazione di indicare sinteticamente il componimento.

102

Lodovico Ariosto, Rime n° incipit testo i Non so s’io potrò ben chiudere in rima ii Quante fiate io miro

n° strofe 14 str. + cong. 5 str. + cong.

iii

3 str. + AB.BA. ACcDD + cong. AaBB

/

8 str. + ABbC. BAaC. cong. CDeeDFF + ABbACC 9 str. + ABbC. BAaC. cong. CDeeDdFfgg + ABCcBbDdee241

270 o 325

iV V

Dopo mio lungo amor, mia lunga fede Spirto gentil, che sei nel terzo giro Anima eletta, che nel mondo folle

Schema metrico

Calco Incipit di RVF AbC. AbC. cDdee 268 Che debb’io + AaBbCC far?che mi consigli, Amore? abC. abC. cdeeDfF 126 Chiare fresche et + AbB dolci acque

n° strofe 7 str. + cong. 5 str. + cong.

264 I’ vo pensando, et 7 str. nel penser m’assale + cong.

98

98

il dodicesimo verso della Vii, Viii e iX strofa da endecasillabo viene ridotto a settenario; cosa analoga accade anche per il quarto verso del congedo (cfr. Carrai 2000, 387).

103

M. Bandello, Alcuni Fragmenti de le rime n° testo

incipit

Schema metrico n° strofe

i

Di tanti eccelsi et glorïosi Eroi

9 str. ABC.BAC. + CDeeDdFF + cong. ABCCBbDD

LiX

Se quanto è ’l gran desir, ch’a dir mi sprona

7 str. AB. BA. AccADD

LXXXiX

Anima afflitta, che così sovente,

XCV

Dolce cantar d’Amore

Ciii

Se tu snodassi

3 str. + cong. 7 str. + cong. 10 str. + cong. 3 str. + cong.

ABbC. ABbC. CDdee + ABbCC abC. abC. cdeeDff + Abb

Calco Incipit di RVF 53 Spirto gentil, che quelle membra reggi 70 Lasso me, ch’i’ non so in qual parte pieghi / 125 /

CXXiV

Da que’ begli occhi, da’ begli occhi ond’io

abC. abC. cdeeFfDgg + AbB ABBC. BAAC. CDeeDdFfgg + ABCCBbDdee

CL

È questo il luogo, 12 AB. AB. BccdD la spelonca e ’l str. + + AbbcC sasso, cong.

/

CLVii

In quel bel viso dove impresse Amore Occhi leggiadri, amorosetti e vaghi

3 str. + cong. 7 str. + cong.

/

CLXXXii

CLXXXiii Tempo è, begli occhi, omai che pur vi debbia

104

ABBC. BAAC. CDeeDeFF + ABCcBCDD AbC. AbC. cDdee + aBbCC

6 str. AbC. AbC. + cDdee + aBbCC cong.

n° strofe 7 str. + cong 5 str.

Se ’l pensier che mi strugge

6 str. + cong.

Che debb’io far? Che mi consigli, Amore Che debb’io far? Che mi consigli, Amore

7 str. + cong.

/

268

268

7 str. + cong.

CLXXXiV Stancar si può la lingua in dir, begli occhi

8 str. AbC. AbC. + cDdee + aBbCC cong.

268

CLXXXiX O bella man gentile

7 str. + cong. 9 str. + cong 8 str. + cong.

abC. abC. cdeeDfF + AbB

126

ABC. ABC. cDeeDD + aBB

quasi 331

aBC. aBC. CDeeDfDFF + ABB

sirma 71

CXCii CCV

Nelle fiorite piagge, e fertil piano Amor più volte mostro

Che debb’io far? Che mi consigli, Amore Chiare fresche et dolci acque

7 str. + cong. 5 str. + cong.

105

Girolamo Britonio, La Gelosia del sole n° incipit testo i, 8

i’ son vinto e pregione

i, 19 Dove oriente i be’ vostri occhi fanno i, 30 Al dolce mormorar d’un chiaro fonte i, 36 Sel poder fusse tale i, 68 Tacer non posso Amore i, 84 La rimembranza dell’eta mia prima i, Hor ch’io m’accorgo 117 e veggio i, Per gli più strani e 122 inhabitati lidi i, Hor ch’io mi trovo 132 senza il mio bel sole i, Non per quanto 153 riscalda il chiaro sole i, Quella ch’al suo 165 volar spiega tante ali i, Diletta ombrosa 200 valle

106

n° Schema metrico strofe

Calco Incipit di RVF 7 str. aBaBCbcDedeDeFfgg / + + aBB cong. 5 str. ABb.ABA. ccDAccDDede / + + aBBCbC cong. 8 str. ABcABCBa. / + DeFeDfDD + cong. aBCDCBdBB 6 str. aB.AB.AB. / + ccDcDceFefgg + cong. ABbCC 7 str. abC. abC. cdeeDff + Abb 125 Se ’l pensier + che mi strugge cong. 8 str. ABC. BAC. 23 Nel dolce + CDeeDFgHHgFFii + tempo de la cong. ABCCBAADD prima etade 7 str. abC. abC. cdeeDff + Abb 125 Se ’l pensier + che mi strugge cong. 5 str. ABC. ABC. cDeeDFF + 129 Di pensier + aBCcBDD in pensier, cong. di monte in monte 7 str. AbbC. BaaC. cddeeDFF + 37 Sì è debile + abbCcBDD il filo a cui cong. s’attene 8 str. AbC(d3)eF(g5)Hi + (g5)Hi 29 Verdi panni, + sanguigni, cong. oscuri o persi 9 str. ABAbACCA. / + deDeFfgg + cong. AbCBCDdee 5 str. abC. abC. cdeeDFF + quasi Chiare, fresche + ABB 126 et dolci acque cong.

n° strofe

6 str. + cong. 8 str. + cong. 6 str. + cong. 5 str. + cong. 7 str. + cong. 8 str. + cong.

5 str. + cong.

i, Sì son del pianger 6 str. 222 stanco + cong. i, Dir non volea: 7 str. 227 ma dir mi sforza + Amore cong. i, Quella speranza 7 str. 235 ond’io nudrir solea + cong. i, Di speranza in 5 str. 236 speranza amor + m’inganna cong.

125 Se ’l pensier che mi strugge AbC. BAC. cDeeDdfgfg quasi + aBCcBbdede 128

6 str. + cong.

ABC. BAC. cDdeeFF + aBbCcDD

7 str. + cong. 5 str. + cong.

i, Hor poi che di mia 237 donna il freddo core i, Come il dolor 238 mi sprona a lamentarmi i, Mentre più cresce 239 il duol, ne l’alma afflitta i, Gradito ingegno, in 258 cui si gloria e mira

ABC. ABc. DeDeeFF + aBCBccDD

7 str. + cong. 7 str. + cong. 7 str. + cong. 9 str. + cong. i, Signor, per che sei 9 str. 267 giunto + cong. i, Sacre sorelle gloriose 9 str. 272 e vaghe + cong.

abC. abC. cdeeDff + Abb

ABC. BAC. cddeeFeF + abbCCDcD

ABa.BCb. CDdeDee + ABbCBcC

/

ABaBCa. DeDFgFgfHfH + AbCBcDcD ABCaBCABAB. deeDeeFF + AbCCBCcDD aBC. AbC. deDeFgfgHhii + AbCBcDedeFfgg AbC. BaC. cDeeDdfgfg + ABbCcdede

/

i, Quando l’Aurora 289 con vermiglia fronte

5 str. ABC. BAC. addeeFeF242 + + abbCCDcD cong.

i, Quando in voi 295 Donna i’ giro

7 str. + cong. 7 str. + cong.

i, Madonna non è 322 spento

207 Ben mi credea passar mio tempo omai 50 ne la stagion che ’l ciel rapido inchina /

aBCAcBaB. DeDeFgFg + ABcBC aBC. bCa. aDedede + AbCbC

/ / 128 Italia mia, benché ’l parlar sia indarno quasi Ne la 50 stagion che ’l ciel rapido inchina /

7 str. + cong. 5 str. + cong.

/

107

i, Poi che fuor di 331 speranza e di ben privo i, Raro, elevato e 353 glorioso spirto ii, Qui non fia pur 359 ch’il ragionar mi nieghi ii, Dove fia più che’l 360 mio sperar s’appoggi ii, Mentr’io nudri 361 di qualche spene il core ii, Sì vago io son 362 d’andar di Piaggia in Piaggia ii, Quanto d’intorno 363 il Ciel più ’l Carro gira ii, Lieti e verdi 365 arboscelli ii, Però che Amor mi 366 guida ii, Nel bel principio 379 che Natura volse ii, Se l’aspro mio 383 tormento ii, Mai non andrà 396 mia spene ov’Ella suole ii, Riposto almo Paese 402

108

8 str. ABC. BAC. CDeeDeFF + 127 In quella + ABCcBcDD parte dove cong. Amor mi sprona 7 str. AbC. BaC. cDeeDdfgfg 128 Italia mia, + + aBCcDdeFeF benché ’l cong. parlar sia indarno 10 AbBC. BAaC. CDdeeFF 360 Quell’antiquo str. + + ABbCcDD mio dolce cong. empio signore 6 str. AB. BA. ACcDdee + 359 Quando il + aBbCC soave mio fido cong. conforto 6 str. ABC. ABC. CDeeDD + 331 Solea da la + ABbCC fontana di cong. mia vita 10 ABbC. BAaC. CDeeDFF 325 Tacer non str. + + ABCcBDD posso et temo cong. non adopre 7 str. ABbC. BAaC. CDeeDFF 270 Amor, se vuo’ + + ABB ch’i’ torni al cong. giogo antico 5 str. abC. abC. cdeeDfF + AbB 126 Chiare + fresche et cong. dolci acque 8 str. aBC. bAC. quasi + CDeeDFgFg243 + ABbCC 71cong. 2-3 9 str. ABC. ABC. cDeeDD + 323 Standomi un + aBB giorno solo a cong. la fenestra 8 str. abC. abC. cdCdeceefeFgg / + + Abb cong. 7 str. (x)A(a)B(b)C. 105 Mai non vo’ (x)A(a)B(b)C. più cantar (c)D(d)e(e5)Dde(e)FggF com’io soleva 8 str. aBc. BaC. / + ADdeeFfeggHH + cong. ABbCC

7 str. + cong. 7 str. + cong. 10 str. + cong. 6 str. + cong. 5 str. + cong. 7 str. + cong. 7 str. + cong. 5 str. + cong.

6 str. + cong.

6 str.

ii, Se quel incendio rio 6 str. 404 + cong. ii, Sì affettuose le tue 7 str. 405 Prose e i versi + cong. ii, Folti boschetti e 5 str. 433 rive + cong. ii, Quanto la vita più 7 str. 450 trapassa inanzi + cong. ii, Vergine di bellezza 10 454 eterno exempio str. + cong.

abC. abC. cdeeDff + Abb ABC. ABC. cDDefeggFfHiiHH + ABcBDDCcefFee abC. abC. cdeeDfF + Abb ABbC. BAaC. CDeeDFF + ABCcBDD ABC. BAC. CddCeF(f5)e + AbbACd(d5)C

125 Se ’l pensier 6 str. che mi strugge + cong. / 126 Chiare fresche 5 str. et dolci acque + cong. 325 Tacer non 7 str. posso et temo + non adopre cong. 366 Vergine bella, 10 che, di sol str. + vestita cong.

99100

Solo la prima strofa della canzone di Britonio riproduce lo schema esatto di RVF 50 (ABC. BAC. cddeeFeF). 100 La testura della prima stanza del componimento manca di un verso e assume lo schema aBC.bAC. CDeeDfDF. 99

109

Giovanni Guidiccioni, Rime n° testo

incipit

n° strofe CXVi Fidi, riposti 5 str. + et cheti cong. CXXii I dì gia 5 str. + involan cong. parte CXXViii Spirto 3 str. + gentil, che cong. ne’ tuoi più verdi anni CXXiX Vorrei 5 str. + tacere, cong. Amore

Schema metrico abC. abC. cdeeDfF + AbB abC. abC. cdeeDfF + AbB AB. BA. ACcDD + AaBB abC. abC. cdeeDfF + AbB

Calco Incipit di RVF 126 Chiare fresche et dolci acque 126 Chiare fresche et dolci acque /

n° strofe 5 str. + cong. 5 str. + cong.

126 Chiare fresche 5 str. + et dolci acque cong.

Matteo Maria Molza n° testo244

incipit

i

Dappoi che 6 str. + portan le cong. mie ferme stelle

ABC.BAC. cddeeFeF + abbCCDcD

50

Ne la 5 str. + stagion che cong. ’l ciel rapido inchina

ii

Sacri pastor 5 str. + perché a la cong. vostra cura

ABC. BAC. CDeeDdFF + ABCCBbDD

53

Spirto gentil 7 str. + che quelle cong. membra reggi

iii

Perché tornar non veggia

5 str. + cong.

abC. abC. cdeeDfF + AbB

126

Chiare, fresche et dolci acque

5 str. + cong.

iV

Tutto questo 7 str. + infinito cong.

aBbC. cDdA. aBeeBF(f)A + aBCcBD(d)A

135

Qual più diversa et nova

6 str. + cong.

110

n° strofe Schema metrico

Calco Incipit di RVF

n° strofe

V

Da poi che il mio terreno

6 str. + cong.

abC. abC. cdeeDff + Abb

125

Vi

Occhi vaghi 5 str. + e lucenti cong.

abC. abC. cDdeffegg + AbB

/

Vii

Signor, che 6 str. + in su’l fiorir cong. de gli anni vostri

ABC. BAC. DeFFgDeeDgHiHiLL + aBCDDCBeFefgg

/

Viii

Fra le sembianze, onde di lunge avrei

6 str. + cong.

ABC. ABC. cDeeDD + aBB

323

Standomi un 6 str. + giorno solo a cong. la fenestra

mol i

Alma real, ne le cui lodi stanca

5 str. + cong.

ABC. ABC. CDeeDD + AaBB

331

Solea da la fontana di mia vita

5 str. + cong.

mol ii

Sul fiume, a 7 str. + cui bagnar cong. fu dal ciel dato

ABC. ABC. CDeeDeFF + ABCcBcDD

127

In quella parte dove Amor mi sprona

7 str. + cong.

mol iii

Mentre nel vostro viso

5 str. + cong.

abC. abC. cdeeDfF + AbB

126

Chiare fresche et dolci acque

5 str. + cong.

mol iV

O beato e dal Ciel diletto Padre

8 str. + cong.

ABC. BAC. CDeeDFgHHgFFii + ABCCBAADD

23

Nel dolce tempo de la prima etade

8 str. + cong.

Se ’l pensier che mi strugge

6 str. + cong.

101

il numero dei primi otto testi è quello con cui sono riportati nel primo volume dell’ed. Serassi. Per le altre canzoni si ricorre ad una numerazione progressiva.

101

111

iii metriCA e SintASSi

3.1 Sintassi e partizioni metriche nelle stanze di canzone La rassegna della morfologia delle testure costituisce certo l’imprescindibile punto di partenza per avviare uno studio ragionato sulla fisionomia della canzone primo cinquecentesca e per formulare osservazioni circa la misura formale dell’ossequio a Petrarca o, viceversa, il distacco dalla metrica del Canzoniere in vista di un nuovo diverso sistema da fondare, magari contaminato con reminescenze classiche.1 tuttavia, se si ripercorre la linea di sviluppo della poesia che si snoda tra la seconda metà del XV e la prima metà del XVi secolo, si constata che la temperie del petrarchismo, così influente sul piano di una normalizzazione linguistica e tematica, non provoca un’inversione di tendenza altrettanto sensibile sul versante metrico, dal momento che anche all’interno di questo corpus permangono, come nel Quattrocento, diversi casi di autonomia nella configurazione degli schemi accanto ad una buona percentuale di suggestioni ricavate dai Fragmenta.2 Di qui deriva la conmi riferisco a quei metri come l’ode-canzonetta di stampo oraziano e la canzone-inno che si affermano proprio a partire dal Cinquecento e che ospitano la convergenza del modello romanzo della canzone e di spunti prelevati dall’orizzonte delle forme classiche (per la prima l’eliminazione dell’articolazione interna alla stanza e per la seconda il raggruppamento di strofe per triadi). 2 Da Balduino 2008, si evince che tra seconda metà del Quattrocento e prima metà del Cinquecento aumenta innegabilmente la percentuale di riprese integrali di schemi di canzone petrarcheschi, ma che, comunque, già nel XV secolo il modello metrico dei Fragmenta era stato assunto in modo privilegiato. L’impressione è che la differenza più in1

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vinzione che le ricerche tese a rintracciare quale sia la specificità formale della canzone cinquecentesca, qualora essa esista e sia individuabile con una certa chiarezza, debbano essere orientate all’esplorazione del territorio in cui il dato metrico si interseca con l’organizzazione sintattica. È evidente che una testura con determinate qualità influisce sulle possibilità di svolgimento del periodo e di conseguenza dell’argomentazione, ma, ammettendo che «metrica e sintassi costituiscono due diversi livelli di strutturazione, due dimensioni della medesima linea del discorso»,3 si deve, d’altro canto, tenere anche presente che è la realizzazione sintattica a imprimere sostanza e realtà al modello astratto della forma metrica. Uno stesso schema, dunque, può essere alternativamente assunto, con le sue sottounità, come modello di distribuzione inflessibile e cadenzato oppure riempito con disinvoltura attraverso un flusso sintattico intenzionalmente sfuggente rispetto ai limiti e alle aspettative di scansione ingenerate dal suo impianto soggiacente di piedi e sirma. Ciò prefigura quanto già provato in diversi studi sul linguaggio poetico rinascimentale,4 cioè come, pur non essendoci spesso differenze rilevanti tra i tipi di testure adottate nella seconda metà del Quattrocento e quelli prescelti nel secolo successivo, possano altresì verificarsi notevoli scarti nella gestione degli spazi e delle partiture ritmiche. inoltre, un’analisi che osservi la dialettica tra cellule metriche e archi sintattici non consente solo di valutare le tensioni interne alla forma e le correlate virtualità espressive che scaturiscono dalla tecnica di allineamento ovvero da quella di sfasatura dei blocchi, ma, se applicata in particolare alla canzone, mostra un’ulteriore rilevanza, di carattere costruttivo ed argomentativo, che è data dalla proprietà strofica del metro. giacché la canzone si basa sulla ripetizione statutaria di moduli metricamente identici, le strofe appunto, allora la diversificazione che produce la sintassi può essere oggetto di interesse sia in una generale visione intertestuale che proteressante tra i due periodi riguardi la selezione delle forme metriche da inserire nei libri di poesia (più rigorosa ed esclusiva nei petrarchisti del XVi secolo), piuttosto che la struttura specifica degli schemi della singola forma. Per questi aspetti, cfr. anche Santagata 1979, 254-274. 3 Cfr. Soldani 2003a, 385. 4 Mengaldo 1962 e Spaggiari 1994, solo per citare alcuni dei contributi più noti, sottolineano come acquisizione della rinnovata poetica rinascimentale la facoltà di forzare la collimazione statica di metrica e sintassi per creare asincronismi e sottili sfasature.

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ceda delineando preferenze stilistiche di un autore o di più autori messi a confronto, sia in una più specifica visione intratestuale che si soffermi a scrutare l’esistenza di una logica sottesa a questa ordinata distribuzione. riprenderò le considerazioni sul valore argomentativo delle combinazioni di tipologie di stanze in uno stesso componimento nel cap. 4, all’interno di una contestualizzazione più coerente del problema. Per ora intendo soffermarmi sul trattamento sintattico delle strofe di canzone considerate in sé e per sé: rifletterò dunque sulle modalità in cui i vari autori organizzano l’espressione facendola interagire con i vincoli metrici della forma e noterò di volta in volta se la sintassi funzioni da elemento «divaricatore»5 o venga impiegata come veicolo di sfumatura dei contorni. Con qualche necessario adattamento, traggo i presupposti per quest’indagine dal contributo di Arnaldo Soldani sulla scansione del sonetto duecentesco e petrarchesco.6 in tale saggio si cerca di valutare in quali casi e con quali procedimenti l’orchestrazione degli enunciati si prolunghi oltre la misura delle partizioni (quartine e terzine) determinando legamenti e scavalcando le pause che segnano il passaggio tra una suddivisione e l’altra. Ciò che è registrato in prima istanza non è tanto il numero e l’estensione dei periodi,7 quanto la loro dislocazione a cavallo di due o più sottounità metriche e quindi l’esistenza di una giuntura tra partizioni, sia essa operata grazie ad una coordinazione tra sintagmi o tra subordinate dello stesso grado, ad un rapporto di subordinazione oppure ad un’inarcatura:8 due o più comparti metrici adiacenti sono ritenuti connessi quando contengano segmenti testuali appartenenti al medesimo periodo.9 5 Con l’attributo “divaricatori” Menichetti 1975, 11 indica tutti quegli elementi «intesi a mettere in rilievo le singole articolazioni della struttura metrica e a sottolinearne in special modo la bipartizione». 6 Soldani 2003a. 7 Questo taglio interpretativo è proposto invece dallo studio di Tonelli 1999. 8 i criteri per valutare la rilevanza dei legamenti tra partizioni sono quelli adoperati da Soldani 2003a, 390-407 e pertanto ad essi si rinvia. nell’impossibilità di elencarli tutti, si precisa solo che in questa classificazione non è reputato un fautore di autentica subordinazione, e pertanto un nesso legante, il cosiddetto che/ché para-coordinativo, annoso problema della sintassi italiana antica e moderna (p. 403), mentre, invece, l’anticipazione di vocativo espanso è considerata a tutti gli effetti un rapporto di dipendenza ipotattica (p. 399). 9 Per periodo si intenda «unità sintattica composta di una sola frase principale, più un numero indefinito di frasi subordinate», come postula Renzi 1988, 190.

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La differenza sostanziale che non rende perfettamente sovrapponibile il metodo di indagine dei rapporti tra metrica e sintassi nel sonetto e nella stanza di canzone consiste in un dato di base. mentre il sonetto è costituito da un numero prestabilito di versi e di partizioni, ciascuna con estensione fissa, la facies della stanza può variare di molto da una canzone ad un’altra, sia sotto l’aspetto dell’articolazione interna (si danno piedi di due o anche di quattro versi, ad esempio), che sotto quello dell’alternanza versale e infine quello della dimensione complessiva. L’intrinseca polimorfia del metro lungo sembra scontrarsi, dunque, con l’esigenza di ricondurre gli esiti delle analisi ad un canone ristretto di tipi significativi, di ‘arcimodelli’ che permettano considerazioni di insieme. tuttavia, il problema si supera se si raggruppano le realizzioni strofiche per tipi che enunciano semplicemente la presenza e la posizione di eventuali legamenti sintattici tra le partizioni.10 Questo perché si ritiene significativo osservare prima di tutto come vengano percepiti e quanto vengano assecondati gli stacchi interni alla strofa. Solo una volta ricondotte le stanze nei quattro macrotipi11 (P + P),12 (P + S),13 (P + P + S)14 in questo studio, dunque, non verranno riferite a tipi diversi le strofe con piedi di tre versi e quelle con piedi di quattro versi: ciò significa che qualora si verifichi un collegamento sintattico all’interno della fronte, esso viene indifferentemente segnalato in entrambi i casi con la sigla (P + P), dove “P”, intuitivamente sta per “piede”. Una simile classificazione porta con sé un non trascurabile grado di approssimazione, poiché è evidente che il collegamento sintattico instaurato tra due piedi composti ciascuno da tre settenari e quello che si stabilisce tra due piedi tetrastici di endecasillabi hanno implicazioni e pesi diversi. Ciò nondimeno, per una prima raccolta dei dati adottare tale criterio garantisce sintesi e chiarezza; in un secondo momento, tenere presenti le considerazioni sugli schemi metrici specifici permetterà un’adeguata interpretazione dei risultati rilevati. in ogni caso conta notare che lo spettro di possibilità, pur variegato, non lo è proporzionalmente, per cui, nella maggioranza dei casi registrati nel corpus, gli schemi di stanza sono assimilabili ad un tipo che prevede due piedi di tre versi e una sirma che va dai sette ai nove versi. 11 i tipi strofici sono ridotti per economia a quattro perché all’interno del corpus non è stato riscontrato nessuno schema strofico che preveda l’articolazione della sirma in volte. 12 nello schema (P + P) confluiscono tutte le strofe che presentano un collegamento sintattico tra i due piedi e uno stacco tra fronte e sirma. 13 (P + S) vale per le stanze in cui un periodo iniziato nel secondo piede si protrae nello spazio metrico della sirma, tendendo un ponte sull’ideale intervallo di diesis. 14 tale tipo include le strofe nelle quali tutte le partizioni sono sintatticamente coese, ossia le strofe nelle quali si realizza sia un legamento tra il primo e il secondo piede, sia un 10

115

e (P/P/S),15 si è passati a individuare l’organizzazione frastica interna, evidenziando in quali casi la nuova campata prodotta dall’obliterazione della presunta pausa di partizione fosse occupata da un unico periodo e in quali casi fosse segmentata in modo differente e più libero. Da ultimo, prima di inoltrarci nell’esame dei testi, è essenziale ricordare che esiste una «gerarchia di importanza»16 che scandisce i diversi confini metrici del modello di articolazione della strofa. Lo stacco che organizza la fronte nei due piedi individuando elementi perfettamente simmetrici se non quanto a rima almeno relativamente alle misure versali è dotato, proprio in virtù della rispondenza speculare che realizza, di una perentorietà minore rispetto al taglio metrico che bipartisce la strofa nelle due eterogenee macrounità di fronte e sirma, spesso scalate in contrapposizione dialettica o alla pausa ancora più consistente e manifesta anche a livello grafico, che individua la progressione delle diverse strofe. Di conseguenza, il travalicamento che l’arco periodale compie rispetto alle partizioni interne alla canzone è provvisto di una risonanza e di un’intensità che dipendono dalla posizione che occupa. Seguendo il filo di tali premesse, ci si aspetterà che sia eccezionale la dipendenza interstrofica; raro il continuum prodotto dalla violazione del limite di diesis (P + S); episodico il collegamento tra tutte le partizioni previste (P + P + S); più naturale e frequente la connessione tra piedi (P + P); tradizionale e originario, infine, l’allineamento giustapposto delle partizioni (P/P/S).17 Questo quadro teorico trova una prima conferma fattiva nella tradi-

legamento tra il secondo piede e la sirma. 15 Per differenza si ricava quest’ultima categoria strofica nella quale tutte le partizioni risultano giustapposte e non collegate da fattori significativi di dipendenza sintattica. 16 Cfr. Di Girolamo 1983, 59-60. 17 Descrivendo il quadro standard della forma canzone con riferimento alle origini trobadoriche, menichetti 1993, 496-497 ricorda che «il fenomeno [del debordamento sintattico] è non normale, ma molto più frequente [rispetto ai casi di collegamento interstrofico] nel punto di sutura principale all’interno della strofa, quello cioè tra piedi e sirma, e piuttosto comune tra le partizioni minori, cioè tra primo e secondo piede, prima e seconda volta. La regola mentale doveva comunque essere la concordanza dei due livelli, sintattico e metrico […]. Certo, […] il disporsi della sintassi, delle frasi, dei periodi e anche delle immagini e dei motivi in parallelo con la partitura strofica ed infrastrofica o invece in discordanza con essa è sempre significativo dell’atteggiamento con cui il poeta ha assunto la forma, ora di aderenza e conformità, ora invece di contrapposizione e di rottura».

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zione. Passando in rassegna le strofe delle 29 canzoni di Petrarca si riscontra nel 25% dei casi il tipo (P + P), nel 16% quello (P + P + S) e nel 7% quello (P + S),18 mentre il 52% delle stanze non presenta nessun collegamento tra partizioni (P/P/S).19 A partire da questi crudi dati, è interessante focalizzare l’attenzione su come si distribuiscano e si modifichino le proporzioni tra i tipi di organizzazione metrico-sintattica della stanza messi in atto dai poeti del primo Cinquecento, i quali si confrontano consapevolmente con i Fragmenta, selezionandone e canonizzandone alcuni campioni emblematici. Vedremo infatti che, come per la normalizzazione di altri aspetti del codice lirico (scelta lessicale, vaglio dei temi, etc.), anche per gli esiti sinuosi e per le interazioni dialettiche tra schema metrico e orchestrazione sintattica i petrarchisti del XVi secolo imitano il precedente illustre e finiscono per accentuare in maniera personale e caratterizzante delle tendenze ‘apparentemente antitradizionali’, ossia tendenze che nel modello sono già attestate ma, forse, di primo acchito sfuggono poiché si armonizzano in un contesto che grazie alla sua compattezza di fondo assorbe l’urto anche delle spinte eversive.

3.1.1 il tipo strofico (P + P) i poeti del corpus praticano abbastanza spesso, con una frequenza assolutamente paragonabile a quella petrarchesca (25%), la giuntura (P + P) e il fatto che questa operazione sia tesa a risollevare la coesa struttura

resta da chiarire il perché sia più frequente trovare collegamenti tra tutte le partizioni strofiche piuttosto che tra il solo secondo piede e la sirma. Si potrebbe pensare che l’infrazione del limite di diesis sia avvertita come meno dirompente qualora essa sia preparata da un’organizzazione fluida della sintassi, manifesta sin dalla fronte. 19 C’è un’unica lieve oscillazione rispetto ai dati emersi dallo spoglio delle sole canzoni a soggetto erotico dei Fragmenta (Guidolin 2008, 118); nei testi politici, encomiastici o di altro argomento non si presenta alcun caso di strofe a struttura (P + S), probabile indizio che tale disposizione che prevede un repentino allargamento della sintassi dalla fronte alla sirma si abbina all’empito lirico-sentimentale delle grandi canzoni amorose. Figurativamente essa rappresenta la ‘rottura’ degli schemi previsti che produce il tentativo di applicare il ragionamento e la forma contenuta della strofa alla tematica del desiderio e delle sue contraddizioni. 18

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soggiacente della fronte emerge dall’osservazione che quando si realizza un legamento tra i piedi, essi concorrono praticamente nella quasi totalità dei casi a formare un unico periodo. La modalità di fusione dei piedi in un’unità sintattica nuova e più estesa che collimi con i bordi della fronte si risolve in prevalenza nel nesso di subordinazione, il quale ha tendenzialmente la proprietà specifica di conservare, come elemento di razionalità distributiva, la separazione logica di frase matrice e frase dipendente nei due rispettivi comparti interessati. il che, pur nell’audace saldatura monoperiodale, deve essere letto come un meccanismo di sincronizzazione che recupera un allineamento, se non periodale, almeno frasale e sintagmatico con i segmenti metrici. Si offrono copiosi gli esempi per questa fattispecie, ma forse i più rappresentativi sono quelli in cui vengono sfruttate come ponte di comunicazione tra le suddivisioni iniziali della stanza i tipi di subordinate con preciso carattere correlativo e misura per lo più proporzionata alla loro principale (ipotetiche, comparative, consecutive), che, stanziate nei piedi, ne esaltano la struttura bipolare e simmetrica ai fini di una costruzione convenzionale della fronte. Di ciò è facile reperire esemplificazioni nei testi di Bandello, che con discreta frequenza opta per una disposizione tradizionale della sintassi nel metro e volentieri realizza il tipo strofico (P + P): e se talor attorno i suoi begli occhi ardenti lieta girava con onesto modo, Amor a lei d’intorno scherzando, le cocenti facelle ardeva, ond’io m’abbrucio e godo. (Bandello, XCV, str. vi, vv. 66-71)

L’equilibrio del giro versale è pesato dalla prolessi non marcata dell’ipotetica e da una commisurata protasi, il cui verbo principale in un imperfetto descrittivo cade nel terzo verso del secondo piede sotto accento di 4a («ardeva»), in una posizione equivalente rispetto a quella occupata dal verbo dell’apodosi («girava»), certo inserito in una serie ritmicamente meno densa di ictus e priva delle numerose sinalefi del v. 71. i bilanciamenti, al di là del livello sintattico e prosodico, si ripercuotono anche sul piano fonico del ripassamento della punta di verso, con la scelta di rimanti derivativi per la rima A e di rimanti non solo con desinenza participiale 118

ma anche in rapporto di sinonimia per la rima B, e, sul piano lessicale, con la ripresa etimologica tra primo e secondo piede sul tema dell’ardore d’amore (v. 67 «ardenti», v. 71 «ardeva»). Ancora si può osservare la fronte di una stanza trissiniana, sullo stesso schema metrico della precedente: Ben sì come a rispetto de l’ampio Ciel stellato la terra è nulla, o veramente centro, così del mio concetto quel c’haggio fuor mandato, è proprio nulla a par di quel ch’i’ ho dentro. (trissino, Xiii, str. vi, vv. 66-71)

il confronto paradossale che è inscenato nella fronte dell’ultima strofa del componimento per descrivere la situazione di impotente inadeguatezza stilistica del poeta rispetto alle qualità superbe dell’amata che egli si era proposto di celebrare è veicolato da uno schema comparativo. i due membri in gioco, da un lato l’esiguità e allo stesso tempo la centralità della terra nell’universo sconfinato, dall’altro la lode espressa nella lirica colta nel panorama assai più vasto delle lodi rimaste implicite, compaiono ordinatamente preceduti dalle congiunzioni correlate disposte nel primo verso di ciascun piede (v. 66 «sì come» e v. 69 «così») e si richiamano tra loro volutamente nell’esiguità delle conclusioni tramite una ripetizione bruta ma icastica, «nulla», che ritorna sotto l’accento di 4a nei terzi versi (v. 68 e v. 71). La disposizione variata delle altre tessere, che vuole che i corrispondenti «a rispetto» e «a par» compaiano l’uno nel primo, l’altro nell’ultimo verso, che ribalta e confonde con effetto sorprendente la prospettiva interno-esterno, tutto-nulla su cui poggia la similitudine20 e che, in genenel paragone, dal punto di vista strutturale, alla terra è associata la lode espressa e al Cielo quella inespressa. Le premesse incrociano, dunque, le prospettive di interno-esterno e di tutto-nulla nel momento in cui si precisa che la lode appena espressa è stata in qualche modo ‘esternata’ (al contrario della terra che è nucleo interno e centrale del sistema tolemaico) mentre quella inespressa, cui dovrebbe corrispondere il Cielo che sovrasta tutto, è condensata nelle ampie profondità interiori del poeta. Così, mentre nel caso astronomico, ciò che rimane nel nocciolo centrale è poca cosa rispetto a ciò che sta fuori, nel caso del poeta, al contrario, 20

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rale, determina che l’ordine degli elementi si rimescoli sensibilmente tra un piede e l’altro, tuttavia non scardina l’impressione di incasellamento strategico del discorso in misure di tre versi e di distribuzione lineare della sintassi. rivolgendo lo sguardo a Petrarca, si nota che anche nelle canzoni dei RVF la fronte monoperiodale mantiene sovente, attraverso l’opzione per una struttura coesiva di stampo ipotattico, istanze di simmetria che, stemperate da abili sfumature, mostrano in filigrana le due sottounità dei piedi nonostante l’unica colata sintattica:21 Come a forza di venti stanco nocchier di notte alza la testa a’ duo lumi ch’à sempre il nostro polo, così ne la tempesta ch’i’ sostengo d’Amor, gli occhi lucenti sono il mio segno e ’l mio conforto solo. (RVF 73, str. iv, vv. 46-51)22

Un fitto intreccio di corrispondenze fa risuonare nel secondo piede il primo e connette entrambi preservandone l’individualità di momenti concatenati ma distinti: tramite i correlativi «come» (v. 46) e «così» (v. 49), disposti ad inizio partizione, si suddivide con chiarezza lo spazio metrico, mentre la variatio semantica, funzionale e distributiva incentrata sul tema della tempesta23 screzia il paragone e il ribaltamento prospettico tra il soggetto e l’oggetto dello sguardo smarrito mostra un climax discendente, dalla maggiore risoluzione del «nocchiero», stanco ma capace nonostante ma in maniera speculare, il non detto che resta nel cuore perché non trova parole adeguate supera di molto il contenuto delle poche parole che sono state pronunciate. 21 Un esempio petrarchesco altrettanto chiaro è rappresentato dalla iv strofa di RVF 125. 22 Salvo diversa indicazione, tutte le citazioni testuali dei RVF che seguiranno da qui in avanti sono tratte dal testo continiano, così com’è riportato nell’edizione a cura di Santagata. 23 Si intuisce l’esistenza di un magistrale – perché imperfetto e non meccanico – parallelismo tra «a forza di venti» (v. 46) e «ne la tempesta/… d’Amor» (vv. 49-50). Vi è una variazione semantica giacché «venti» è sineddoche rispetto a «tempesta», una variazione funzionale perché i due sintagmi circostanziali hanno funzione l’uno causale, l’altro spazio-temporale, una variazione distributiva dato che entrambi compaiono nel primo verso di ciascun piede, ma il secondo è inarcato e interrotto da un iperbato.

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tutto di «alzare la testa» (v. 47), alla totale soggezione dell’io lirico, il cui destino è completamente deputato a «gli occhi lucenti» (v. 50), in questo caso attori primari dell’enunciato.24 A causa dell’altissima frequenza con cui nelle canzoni primo-cinquecentesche il legamento tra i piedi dà luogo ad un arco sintattico monoperiodale,25 richiedono un’attenzione particolare quei casi in cui nella fronte, nella quale viene ridotta la frattura centrale, si apre un’altra faglia spostata leggermente in avanti oppure arretrata rispetto al limite metrico del piede, ad ogni modo con effetto di troncamento inatteso del flusso poetico. Dapoi ch’Amor in tanto non si stanca dettarmi quel, ond’io sempre ragioni, e ’l piacer più che mai dentro mi punge, anchor dirò; ma se dal vero manca la voce mia, madonna il mi perdoni, che ’n tutto dal nostr’uso si disgiunge. (Bembo, Asolani iii, 10, str. i, vv. 1-6)

Si consideri, per esempio, l’esordio dell’ultima canzone asolana riprodotto qui sopra. Dopo un’introduzione temporale dipanata nel primo piede e che sembrerebbe annunciare un colon altrettanto esteso, la principale elude le attese, si ritrae con piglio incisivo e prolettico nelle angustie di un emistichio quinario e, particolare più risentito, apre dietro a sé una pausa improvvisa e dirompente sia per la posizione (al centro del quarto verso piuttosto che sul ben più consono taglio di piede), sia perché staccata da un bisillabo ossitono (v. 4 «dirò»), sia perché subito seguita da una coordinazione avversativa «ma», che indica una svolta oltre che sintattica anche logica.26 in altre occasioni (specie nelle canzoni di Bembo), l’organizzazione Che gli occhi di Laura siano protagonisti dell’azione è un aspetto che non stupisce nell’economia dell’argomentazione generale della canzone 73, ultima tavola del trittico delle cantilenae oculorum. 25 in tutte le canzoni del corpus cinquecentesco sono poco meno di una trentina le stanze con modello (P + P) in cui accade che la nuova campata creata dal collegamento delle due partizioni non sia occupata da un unico periodo. 26 È evidente che le aspettative del lettore sarebbero state più prevedibilmente assecondate dalla coincidenza del passaggio avversativo con il cambio di partizione.

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asimmetrica della sintassi nei piedi legati dipende dall’impiego del discorso diretto che, facile da immettere all’interno dell’effusività lirica di prima persona, si incastona quale punto di fuga ulteriore a cui dà adito la principale stessa,27 oppure è dovuta al fatto che il raccordo tra le sottounità è realizzato attraverso procedimenti inarcanti. A differenza della subordinazione e della coordinazione tra sintagmi o dipendenti dello stesso grado, i cui segnali distintivi compaiono sin dall’inizio del comparto metrico coinvolto e che non implicano l’obliterazione totale dello stacco di partizione, nella misura in cui questo continua a segnalare un passaggio tra costituenti della frase, l’uso dell’enjambement e quindi la spartizione delle componenti di un sintagma tra i due blocchi metrici contigui tende a cancellare ogni traccia intonativa di potenziale respiro tra di essi, come avviene ad esempio nella fronte di questa strofa di B. tasso: in mezzo chiari e lucidi ruscelli con dolci pomi sovra il capo appesi, di quei bramoso et assetato vive tantalo, e co’ desii caldi et accesi cerca di tor, digiuno, or questi or quelli, e di gustar l’acque correnti e vive, (B. tasso, 1, XXii, str. iv, vv. 43-48)

Le dittologie continuate che intonano tutti i versi, eccetto il secondo, al melodico e rassicurante ritmo binario della coppia sembrano architettate a bella posta dall’autore per conferire poi più evidenza alla separazione di verbo e soggetto (vv. 45-46 «vive/ tantalo») che si consuma con effetto di fulminea destabilizzazione sullo scalino metrico di metà fronte e che, seppur di poco, compromette il rispecchiamento proporzionale dei piedi. Altri casi di inarcatura propongono diverse risegmentazioni in strofe a fronte coesa (P + P): Al suo sparir seco disparve amore che l’esser sanza lei sempre gli spiacque. et quella riva, e ’l bosco

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ne la tósca città, che questo giorno più riverente onora, la fama avea a spettacoli solenni

Cfr. Asolani i, 32, str. iii oppure Asolani i, 33, str. iV.

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remase tutta un soletario horrore, e i monti, e gli arboscelli, e i fiori e l’acque un aer denso turbulento e fosco. (Britonio, i, 30, str. viii, vv. 113-118)

fatto raccor, non che i vicini intorno, ma li lontani ancora; ancor io, vago di mirar, vi venni. (Ariosto i, str. vi, vv. 56-61)

nella stanza di Britonio viene assecondato un andamento per distici,28 per cui i primi due versi, compattati sul ritorno fonico della sibilante, anche in combinazione con la bilabiale sorda («suo sparir disparve», «esser sanza», «sempre», «spiacque»), dichiarano la dipartita della donna e l’azione congiunta di allontanamento da parte di amore. Ad essi segue, ancora in uno spazio binario, la catena degli effetti innescati dal triste evento. La desolazione che interessa il fiume e il bosco è tratteggiata a cavallo tra i due piedi grazie ad un enjambement che scivola sulla pausa centrale della fronte; il periodo, poi, sembra proseguire in un ulteriore scatto in avanti, con una coordinazione parallela e corrispondente a quella che aveva inaugurato il v. 115, salvo il fatto che, arrivati al termine dell’ultimo verso del secondo piede, si impone una riformulazione a ritroso per salvare il senso attraverso il riscatto della completa ellissi del predicato. Sebbene l’espediente di giuntura tra partizioni sia il medesimo, il ritmo della fronte ariostesca è ben altro, potremmo dire tipicamente narrativo. Da un particolare di localizzazione spaziale, espanso da una appositiva, parte il progressivo zoom sull’evento che il poeta intende focalizzare gradualmente, ritardando di verso in verso la comparsa dei particolari salienti attraverso vari espedienti retorico-stilistici, tra cui l’iperbato tra ausiliare e forma semanticamente piena del verbo reggente, per altro posti in una giacitura metrica di inarcatura (vv. 58-59 «avea…/fatto raccor»), e una sorta di correctio incidentale che anticipa il complemento oggetto di minore rilevanza («non che i vicini intorno») per scaricare la tensione sul secondo («ma li lontani ancora»). Qui il periodo si arresta, un verso prima della pausa tradizionale di diesis; il lettore avverte la necessità del completamento di quell’ultimo verso della fronte rimasto sottratto all’ampio abbraccio della campata sintattica. Carico di tutti gli effetti di questa sospensione, il discorso si riavvia in seguito ad una pausa medio forte con un’anadiplosi, un ponte anaforico gettato all’indietro che porta a legare la Una distribuzione sintattica per distici si osserva anche nella fronte della str. vii della canzone di molza per la morte di raffaello, qui a p.415.

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situazione dell’io lirico a quella della massa solo dopo averla inquadrata. Si noti come, per altro, è sul centro di simmetria della reduplicatio che si innesta la corrispondenza e non sul punto di scambio di piedi, poiché, pur nel contenuto raggio di un endecasillabo, a partire da quell’«ancor» si ripete la strategia del rinvio, con esposizione del soggetto, interposizione di un inciso e posizionamento della componente saliente al termine. Dunque, l’opzione per la frattura metrico-sintattica – è evidente – non viene percepita dall’Ariosto come gratuita infrazione delle regole, quanto piuttosto risulta la funzionalizzazione a fini espressivi di un’intonazione marcata rispetto a quella tradizionalmente attesa. La disseminazione nella fronte di elementi dilatori unita all’improvviso arresto del periodo sul penultimo verso permette non solo di accrescere la suspense ma anche, dopo un attimo di ‘staccato’, di calamitare con forza l’attenzione fino all’individualità dell’io poetante, vero protagonista, con il suo punto di vista che tutto assorbe in sé nella dizione lirica. Se non stupisce il fatto di trovare molte occorrenze di tipi (P + P) a sintassi lunga nelle canzoni del corpus, tutto sommato nemmeno il trattamento delle fronti coese ma non monoperiodali, in cui la sfasatura che deborda dal limite di partizione interna è riequilibrata dal terminare dell’ultimo periodo in coincidenza della diesis, dovrà apparire un fenomeno eccessivamente segnalato, specie se si presta attenzione agli esiti paralleli del Canzoniere. Petrarca, infatti, applica con una frequenza quasi doppia lo schema strofico che prevede la saldatura tra i piedi e contemporaneamente la segmentazione frastica interna alla fronte,29 secondo quelle stesse modalità già riscontrate sopra. oltre ai modelli di organizzazione sintattica asimmetrica fondata su procedimenti inarcanti30 non mancano, pertanto, esempi di cambio repentino del piano enunciativo e di innesto del discorso diretto.31 e tuttavia, una forma petrarchesca del tutto peculiare in cui si realizza questa redistribuzione delle misure metrico-sintattiche nei poeti del corpus il 16% delle fronti con legamento tra i piedi non sono monoperiodali mentre in Petrarca le occorrenze salgono al 27%. 30 Cfr. RVF 331, str. iv, vv. 37-42; RVF 50, str. i, vv. 1-6. tuttavia, si tratta sempre di inarcature sintattiche più che di enjambement forti come quello rilevato nell’esempio di B. tasso. 31 Cfr. RVF 72, str. ii, vv. 16-21; RVF 331, str. v, vv. 49-54. Sono diverse le canzoni di Petrarca che presentano intere parti dialogiche, con un superamento del lirismo esclusivo e un’audace apertura alla drammatizzazione. Cfr. § 4. 2. 3, p. 289 e ss. 29

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appare quella ottenuta attraverso la combinazione di vari procedimenti coordinativi di accumulazione che danno la sensazione di un crescendo costante e non completamente dominato: l’introduzione tramite «e» di blocchi aggiunti progressivamente, la correctio e l’ellissi, come si rileva in due strofe simili, che propongo accostate: Così di ben amar porto tormento, et del peccato altrui cheggio perdono: anzi del mio, che devea torcer li occhi dal troppo lume, et di sirene al suono chiuder li orecchi; et anchor non me ’n pento, che di dolce veleno il cor trabocchi. (RVF 207, str. vii, vv. 79-84)

Amor, tu ’l senti, ond’io teco mi doglio, quant’è ’l damno aspro et grave; e so che del mio mal ti pesa et dole, anzi del nostro, perch’ad uno scoglio avem rotto la nave, et in un punto n’è scurato il sole. (RVF 268, str. ii, vv. 12-17)

3.1.2 il tipo strofico (P + P + S) Le occorrenze per il tipo strofico con presenza di un ponte periodale sia tra i due piedi che tra fronte e sirma ammontano al 33% del totale, secondo una proporzione doppia rispetto a quella che si riscontra nel Canzoniere (16%) e, pertanto, con una percentuale che ricopre un terzo del complesso delle stanze censite. in via indiziaria si potrebbero trarre già significative conclusioni circa la percezione più fluida della strofe, o per converso, meno perentoria delle partizioni interne da parte dei poeti cinquecenteschi. tuttavia, per valutare con più precisione la portata di questo dato è utile soffermarsi a riflettere sulle modalità di scansione dei periodi nei comparti legati. grazie a tale operazione si nota che nelle canzoni del corpus la riduzione di tutte le fratture tra le sottounità della stanza spesso va di pari passo con un riassetto dello spazio versale che implica l’orchestrazione di un periodo ampio di 8, 9, 11 versi, seguito da frasi più brevi di 1, 2 o 3 versi.32 È possibile, quindi, congetturare che il trattamento unitario o disinvolto dei contorni della strofe trovi una prima motivazione

Sono, invero, abbastanza frequenti anche i casi in cui il nuovo spazio metrico prodotto dalla griglia (P + P + S) viene occupato da periodi se non equivalenti tra loro, almeno di estensione paragonabile. 32

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nell’esigenza di ricavare spazi estesi per una ricca articolazione sintattica. inoltre, subito di seguito, si rileva che il periodo lungo viene generalmente avviato in concomitanza con l’esordio della stanza (e questo implica il coinvolgimento dell’intera fronte e di parte della sirma) piuttosto che in corrispondenza della seconda parte (con legamento unico tra secondo piede e sirma). Ciò dimostra come venga preferita, di norma, una disposizione a tensione digradante, con ampio fraseggio concluso da cola minori, invece che una disposizione a tensione ascendente, con rapida premessa (della misura approssimativa di quel piede rimasto isolato) e successivo rigoglio sintattico.33

3.1.2.1 Strofe monoperiodali Passando in esame le collocazioni preferenziali dei periodi estesi nelle stanze a partizioni unificate, in cui compattezza e dilatazione degli spazi sono recuperate ricucendo sia il taglio metrico tra i piedi che quello tra fronte e sirma, non possono non attirare l’attenzione i casi in cui i margini della campata arrivano a sovrapporsi con i confini di stanza sino a raggiungere la monoperiodicità. e allora, quando il risultato dei legamenti tra tutti i comparti metrici si risolve in un ininterrotto continuum sintattico, non ci sono dubbi che chi adopera questa figura sia mosso soprattutto dalla volontà di spalancare un ampio varco al fraseggio poetico per espanderlo, a volte, su più di 12 versi. in Petrarca le strofe monoperiodali non sono molto numerose (solo 5 casi) ma ciò che impressiona, soprattutto, è che esse siano concentrate – con l’unica eccezione di un esempio presente in RVF 366 – nella zona centrale dei Fragmenta, una in RVF 125 (str. i), due in RVF 126 (str. i, iii) e una in RVF 127 (str. iv). nel corpus cinquecentesco, invece, ho rilevato quasi una cinquantina di casi di stanze monoperiodali (il 22% del totale della tipologia P + P + S, contro il petrarchesco 17%), con un indice di fre-

Questo è in generale valido anche per la fisionomia della strofe petrarchesca. L’unica eccezione evidente che ho rilevato a questo proposito è la vi strofa di RVF 325 (vv. 76-90), nella quale, ad un periodo iniziale di 5 versi, ne segue uno più ampio percorso da una lunga enumerazione di 10 versi.

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quenza che va da un paio in Ariosto, Sannazaro e trissino alle 11 di B. tasso o del campione britoniano. non pare strano notare che le stanze pervase da un’unica colata sintattica si collochino spesso, senza distinzione tra gli autori censiti, nella posizione di ingresso o di chiusa della canzone, poiché un’organizzazione marcata dello spazio metrico nel segno della sontuosità ben si addice alla sede incipitaria cui spetta il compito di avviare lo slancio dell’intero testo, ovvero alla posizione finale nella quale è necessario suggellarlo con una conclusione solenne. naturalmente sarebbe ingiusto collegare in maniera sistematica la dilatazione del periodo ad una proporzionale complicatezza sintattica. in proposito basti un esempio eloquente tratto dagli Asolani di Bembo: Se ’l pensier, che m’ingombra, com’è dolce et soave nel cor, così venisse in queste rime, l’anima saria sgombra del peso, ond’ella è grave, et esse ultime van, ch’anderian prime; Amor più forti lime useria sovra ’l fianco di chi n’udisse il suono; io, che fra gli altri sono quasi augello di selva oscuro humile, andrei cigno gentile poggiando per lo ciel, canoro et bianco, et fora il mio bel nido di più famoso et honorato grido. (Bembo, Asolani, ii, 28, str. i, vv. 1-15)

in questi versi risuona in maniera molto chiara la stanza d’ingresso di RVF 125, la prima strofa di canzone monoperiodale in cui ci si imbatte nei Fragmenta. Bembo cerca di imitarne i complessi rapporti interni di dipendenza tra le proposizioni. Del precedente petrarchesco egli assume la griglia espositiva che prevede da un lato la collocazione nel primo piede (dunque in sede non marcata) della protasi, in combinazione con una proposizione comparativa e, dall’altro lato, nel restante spazio metrico di secondo piede e sirma, la disposizione di una ritmica serie di apodosi al condizionale rilanciate cataforicamente dalla coordinazione 127

(v. 4 «saria sgombra», v. 8 «useria», v. 12 «andrei», v. 14 «fora»), con una sola lieve asimmetria (v. 6 «et esse ultime van, ch’anderian prime») non del tutto paragonabile al corto circuito logico-semantico petrarchesco dei vv. 4-5.34 nonostante la lunghezza del periodo e i vari innesti ipotattici, soprattutto di proposizioni relative, la costruzione a colata unica della strofa di Bembo non è nell’insieme particolarmente ardita, giacché, una volta definita l’intonazione ipotetica del discorso nella fronte, le progressive aggiunte in coda di principali legate dal comune riferimento alla medesima subordinata creano una spinta sì «potenzialmente inesauribile»,35 ma, allo stesso tempo, anche rassicurante, perché non si fa che incrementare in modo ordinato36 un elenco di conseguenze prevedibili derivanti dall’assunto dei primi versi. Più spesso l’elemento che accomuna le strofe iniziali improntate alla monoperiodicità non è tanto lo scopo di accrescere la complessità dell’esposizione, quanto piuttosto quello di mostrare con maggiore enfasi ed evidenza retorica la declinazione lirica del carattere proemiale che è loro tributato, ossia l’inflessione allocutiva, analogamente a quanto avviene nella memorabile prima stanza di RVF 126.37 A tal proposito si potrebbe citare la prima strofa di 2, LiX di Sannazaro, oppure l’incipit della prima canzone che compare nella raccolta di trissino (Xiii):

in RVF 125 «emblematica è in particolare la realizzazione molto complessa dell’ipotetica d’avvio che si pone ai limiti delle possibilità sintattiche dell’italiano. […] Si assiste ad un’inversione dei rapporti logici tra la sovraordinata e la relativa tanto è vero che il condizionale, che ci aspetteremmo nella reggente dell’ipotetica:*forse tal m’arderebbe e fuggirebbe, viene dislocato nella relativa (ch’avria) che dovrebbe invece stare all’indicativo: si prova uno sconcerto di tipo semantico perché la struttura logica, definita dai tempi verbali, è negata da quella sintattica e ne rovescia i valori. […] Si noti, a prova di questa impressionante dissonanza d’apertura […], come tutte le successive apodosi coordinate siano al condizionale e non, come la prima, in modo quasi aporetico, all’indicativo» (Praloran 2002, 213). 35 Praloran 2002, 213 per questo aspetto ambivalente della coordinazione, non sempre riconducibile a pura paratassi, rinvia anche a Soldani 2003a e a Tonelli 1999. 36 Si osservi come le apodosi terminino in ogni caso in coincidenza con la fine di un’unità versale (vv. 5, 9, 13, 15). 37 Per completezza ricordo che la prima strofa di Chiare, fresche et dolci acque, presente nella memoria di qualsiasi poeta cinquecentesco, costruiva la sua monoperiodicità sull’accumulo di vocativi lasciati in sospeso fino al distico finale. Cfr. qui a p. 164. 34

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Amor, da che ’l ti piace che la mia lingua parle de la sola beltà del mio bel sole, questo anco a me non spiace, pur che tu vogli darle a tant’alto subietto, alte parole, che accompagnate, o sole, possino andar volando per bocca de le genti, e con soavi accenti mille belle virtù di lei narrando faccian per ogni cuore nascer qualche disio di farle honore. (trissino, Xiii, str. i, vv. 1-13)

Questo è il solo caso di stanza a sintassi continua in una canzone di argomento amoroso38 presente nella raccolta del poeta vicentino; anche qui l’elaborazione di un’unica campata è abbinata all’espediente del vocativo, che riecheggia maestosamente fin dall’esordio (v. 1 «Amor») ed è ripreso nel tessuto interno attraverso il pronome di seconda persona singolare (v. 5 «tu vogli darle»). Per il resto, l’espansione del lungo periodo attraverso i comparti non risulta per nulla difficoltosa, grazie all’inserimento progressivo delle subordinate in coda e all’attivazione di corrispondenze parallelistiche che conferiscono ai versi un solido senso di ordine. in proposito, si osservi unicamente la costruzione dei terzi versi dei piedi, entrambi bipartiti e caratterizzati da un poliptoto semplice (v. 6 «a tant’alto subietto, alte parole») o da una figura etimologica complicata da una paronomasia (v. 3 «de la sola beltà del mio bel sole»). Degni di un’analisi più minuziosa sono, infine, un paio di esempi tratti da due canzoni di B. tasso, che sembrano particolarmente significativi proprio perché la loro somiglianza è il probabile indice della presenza di uno schema con tratti distinti, di una sorta di cliché sotteso alla loro realizzazione e ben presente nell’officina poetica dell’autore. L’altra stanza monoperiodale di trissino si rileva nella lirica occasione al cardinal ridolphi (LXXVii, str. iv). 38

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Chiara mia stella, al cui raggio lucente, come a luce maggior, rendeno onore tutti i be’ lumi de la nostra etate; sereno occhio del ciel, che con l’ardente virtute spogli d’ogni vano errore l’alme, e le rendi chiare et onorate; donna, a la cui beltate mi volgo ognor, sì come Clizia al sole, senza il vostro splendore io non potrei cogli occhi infermi e rei scorger se non la notte e l’ombre sole, come faccio or da voi, lasso, lontano, che nulla veggio e mi lamento invano. (B. tasso, 2, Vii, str. i, vv. 1-13)

Almo mio sol, che col bel crine aurato spargete il ciel di luce eterna e viva, e fate Cinzia chiara e l’altre stelle; splendor del mondo, da cui sol deriva quanto fa parer bel l’umano stato, quanto men bel le cose adorne e belle; queste certo son quelle bellezze cui mirar mai non si sazia occhio o pensiero uman, ma più s’invoglia, tal che di voglia in voglia trasportato dal bel che in voi si spazia, a l’ombra de le vostre altere ciglia contempla Amor, che vosco si consiglia. (B. tasso, 2, XXVii, str. i, vv. 1-13)

in entrambi i casi, l’ampio periodo è introdotto da sintagmi metaforici con funzione di vocativo, espansi da proposizioni relative e che si dispongono con un certo ordine e con estensione quasi equipollente nelle partizioni (nei due piedi e all’inizio sirma in 2, Vii, solo nei due piedi in 2, XXVii). La prima apostrofe si distende sul quinario iniziale e prevede la partecipazione diretta dell’io lirico tramite la collocazione di un aggettivo possessivo di prima persona; la seconda, sempre in ingresso di piede, ha la struttura di un sintagma preposizionale e funge da ripresa anaforica amplificante. Se nella fronte compaiono allocuzioni perifrastiche all’amata lontana a cui il poeta indirizza i suoi sospiri, nella sirma si concentrano riferimenti più diretti, privi di mediazione figurale perché espressi nella forma pronominale di seconda persona plurale: la successione serrata in tre versi adiacenti di «in voi», «vostre altere ciglia», «vosco» (2, XXVii, vv. 11-13) è replicata in 2, Vii da due segnali più distanziati (v. 9 «vostro splendore» e v. 12 «da voi») che, pur non essendo in serie, recuperano pari incisività dato che puntano alla prima emblematica parola della partizione, v. 7 «donna». infine, la preziosa cifra classica tutta contenuta nei nomi evocativi di Clizia e di Cinzia contribuisce insieme alla gradatio ritmata e solenne delle apostrofi e all’atmosfera lessicale di forte contrasto chiaroscurale, in cui si staglia la luminosità della donna, a produrre un’intona-

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zione sostenuta, degna di un inizio fortemente caratterizzato.39 A questo punto per procurare profondità diacronica alle considerazioni appena esposte è proficuo riallacciarsi alla premessa petrarchesca enunciata sopra. Visto che nella prassi dei poeti del Cinquecento aumenta la frequenza di impiego di strofe monoperiodali in sede iniziale e visto che due delle quattro stanze monoperiodali dei RVF compaiono in avvio di canzone40 è plausibile che su B. tasso, trissino, Bembo e Sannazaro agisca con forza il modello di strutturazione petrarchesco, selezionato e riprodotto in maniera seriale, tanto più che le canzoni sorelle 125 e 126 sono le più riprese e imitate lungo tutto il corso del secolo.41 ecco allora che un prototipo di impostazione strofica tutto sommato isolato nel Canzoniere viene individuato dai petrarchisti per il suo carattere di “modernità” quanto al trattamento libero delle partizioni interne e dà origine ad una pratica quasi istituzionalizzata. Se le strofe a sintassi continua collocate all’inizio di canzone poggiano in genere sull’elemento architettonico dell’enumerazione ordinata e sulla giustapposizione di nuclei paralleli42 o tutt’al più scalati in uno sfondo prospettico solo accennato, un rapido excursus attraverso il campionario residuale delle strofe monoperiodali interne ai componimenti registra situazioni di complessità maggiore, possibili senza rischi di oltranza sperimentale perché incamerate in sedi meno esposte (ad esempio da parte

Sconfinando per un attimo nel territorio dell’intertestualità, suggerisco l’osservazione che la strofe iniziale della canzone 2, XXVii sembra risentire da vicino dell’influsso delle strategie di orchestrazione monoperiodale attuate da Petrarca nei sonetti, in particolare in RVF 351. in entrambi i casi si riscontra un’analoga struttura formale fondata su una serie ritmata di sintagmi nominali, riassunti da un’espressione deittica (in Petrarca al v. 13 «questo bel variar», in B. tasso anticipata ai vv. 7-8 «queste certo son quelle/ bellezze») che fungono grammaticalmente da tema dell’unica campata sintattica (cfr. Renzi 1988). 40 Sono monoperiodali la prima stanza di RVF 125 e di RVF 126. 41 Appurato che gli schemi metrici di queste due canzoni sono i più diffusi per tutto il Cinquecento, si potrebbe aggiungere anche che RVF 125 e 126 costituiscono, nella corrente della tradizione, due autonomi e solidi exempla sintattici e argomentativi, due forti «nuclei formali, anche in parte semantici, che si irradiano e che sono soggetti ad una fortuna storico-istituzionale» nella misura in cui continuano a rivivere in riprese e rifacimenti (cfr. Praloran 2003b, 81). 42 Sull’enumerazione e sulla coordinazione di sintagmi è innalzata l’architettura monoperiodale della prima strofa della canzone Li delle Rime di Bembo. 39

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di Alamanni) o perché motivate da un preparato accumulo di tensione che è maturato nelle strofe precedenti e che si scarica con comprensibile forza, come avviene nella v strofe della canzone 1, XXV di Sannazaro riprodotta qui di seguito: e perché ancora lamentar conviemmi43 de la mia cruda donna, che di tanti pensieri il petto m’empie, dico che ’l dì che tal percossa diemmi, che mi passò la gonna insino al cor con piaghe acerbe et empie, tal che pria queste tempie imbiancheranno ch’io saldar le senta; a pena fu contenta ch’io respirasse al colpo del suo dardo, ma fuggì presta, più che tigre o pardo. (Sannazaro, 1, XXV, str. v, vv. 45-55)

Dopo quattro stanze frammentate in sospiri esclamativi e in fremiti interrogativi che non raggiungono un’estensione superiore ai tre versi e risentono dell’azione disgregante dell’anafora44 ripetuta a singhiozzo, questa compatta quinta strofa sembra giungere inopinata. tuttavia, la stretta dipendenza con le parti precedenti è resa esplicita fin dall’esordio. il morbido addentellato sindetico (v. 45 «e») mette in atto un cosiddetto È evidente il riecheggiamento del v. 57 di RVF 50 «et perché un poco nel parlar mi sfogo». il richiamo non è ingenuo se si considera che tra la strofa di Sannazaro e quella petrarchesca si potrebbe istaurare un parallelo strutturale, benché la prima sia a sintassi continua e la seconda articolata su più periodi. Ciò che accomuna le due stanze è il fatto che esse arrestano un’intonazione dominante instaurata nelle strofe precedenti. Se in Sannazaro la v stanza interrompe una sequenza di stanze a partizioni giustapposte, correggendo la modulazione metrico-sintattica, in Petrarca lo spostamento si consuma sul piano retorico-argomentativo dal momento che la v stanza sovverte e riorganizza la distribuzione dei tre nuclei tematici (inquadramento temporale, personaggi-emblemi, io lirico) che si ripete pressoché invariata nelle stanze precedenti (cfr. Folena 1978). 44 emblematico per compendiare il clima delle stanze precedenti è la fronte della iv strofa, invasa dall’affastellarsi delle domande: vv. 34-39 «Qual pregio, qual onor, qual tanta gloria/ ti sprona a far tue prove/ non con tuoi par, ma contra uom pur mortale?/ qual palma o spoglie avrai di tal vittoria?/ quali inudite e nove/ lodi? qual carro aurato e trionfale?».

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«costrutto a festone»45 che collega ma anche subito rilancia il discorso carico di emozione tramite una causale punteggiata da spie lessicali (v. 45 «ancora lamentar»; v. 47 «tanti pensieri») tese a richiamare un già detto su cui si ritorna con tono esasperato. Quanto all’elaborazione del periodo che si scorge negli 11 versi centrali, essa è indubbia e si fonda sulla trazione che separa il verbum dicendi (v. 48 «dico») e il suo naturale completamento costituito dalla proposizione oggettiva, che è ritardata fino al terzultimo verso (v. 53 «a pena fu contenta»); lo spazio ricavato dalla rottura di questo nesso è riempito da subordinate via via di grado maggiore (fino al quarto) aggiunte l’una in coda all’altra. nella canzone di compianto per il fratello che guidiccioni scrive in tre brevi strofe (AB.BA. ACcDD) si presenta una situazione diversa, eppure, per certi versi, equivalente dal punto di vista dell’effetto finale: Ché, quando torna alla memoria, quando torna per me quel sempre acerbo giorno che salisti all’eterno alto soggiorno, tremo della pietà, vo lagrimando et tremo, agghiaccio meco ripensando come morte habbia quei duoi lumi spenti ch’i miei lieti et contenti fecero spesso, et hor, di pianger vaghi, non hanno in tanto mal che più gl’appaghi. (guidiccioni, CXXViii, str. ii, vv. 10-18)

in questo caso la stanza non compare improvvisa dopo una serie replicata di strofe con partizioni sottolineate, ma segue a stretto contatto la prima stanza, l’unica che la precede e che è anch’essa intonata alla monoperiodicità. Ciononostante, per quanto detto in precedenza a proposito della caratterizzazione dell’incipit, una strofa d’esordio sintatticamente improntata ad un’unica campata periodale e che si avvalga del vocativo prolettico in funzione di legamento tra i comparti, non può essere percepita come una soluzione marcata. D’altro canto, invece, la seconda strofa, qui sopra riprodotta, porta dichiarati i germi di destabilizzazione intonaCfr. Segre 1975, 257. È definito “costrutto a festone” «l’uso di iniziare un periodo con una congiunzione, che viene distaccata dalla principale di cui fa parte da una secondaria prolettica».

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tiva. La scelta per la saldatura tra le partizioni ostenta in questo caso la necessità di creare una frizione, un singhiozzo ripetuto. La sintassi stride con la metrica perché la scavalca e ne oblitera gli snodi e stride molto di più perché non ha un progetto costruttivo regolato e ad ampio raggio ma vive di espansioni coordinate che servono solo a ribattere in modo disarmonico i pochi essenziali punti della questione (il ricordo del lutto e il dolore), come si vede dal disordine delle pause intonative. non in anafora ma sotto la trazione di un’inarcatura si ripete e si specifica la medesima temporale (vv. 1-2 «quando torna alla memoria/ quando torna per me quel sempre acerbo giorno»); l’accenno al tremito (vv. 13-14) si replica, analogamente, in un’anafora ‘depotenziata’ che a livello melodico suona come un’epanalessi, se è vero che valgono molto di più, da un lato, la collocazione del verbo in una dittologia enjambée sul crinale fronte/sirma («vo lagrimando/ et tremo»), dall’altro, il fatto che esso sia seguito subito da un’ulteriore forma verbale in giustapposizione asindetica.

3.1.2.2 Strofe a partizioni inanellate il modello (P + P + S) censito nel corpus ospita, oltre a vasti periodi iniziali che, protraendo l’abbraccio con cui stringono la fronte, arrivano a lambire circa la metà dei versi della sirma, ed oltre a campate monoperiodali che sviluppano esiti strutturati di continuum musicale, anche – sebbene in misura minore – casi che potremmo definire di ‘partizioni inanellate’, in cui la congiunzione esile tra le suddivisioni interne alla stanza non è che l’aggancio di ciascun circolo della catena strofica al successivo, senza interruzioni brusche che spezzino l’unità sottostante comunque garantita, ma con fasi diversificate. Se il collegamento tra partizioni si accompagna a brevi archi periodali e a slanci che si esauriscono sulla soglia o sul finire del secondo comparto interessato, l’intento da cui esso è promosso è quello di provocare sensibili slittamenti delle pause intonative e di inscenare accenni di fuga per la sintassi dall’intelaiatura dello schema metrico, come accade ad esempio in 2, LXXXiii di Sannazaro, nella v strofa: 46

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Cfr. anche trissino, Xiii, str. iv e XXXi, str. vi.

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oh chi fia mai che di quest’empia guerra pace m’apporte? oh perc’al mondo io nacqui, se veder non devea del mio mal fine? se luttar con un’idra che mi atterra? con un Anteo, sotto il qual vinto giacqui, con mille ispide fiere peregrine, tra boschi folti e spine, come irata giunon seppe guidarme? ma tu che pòi, Signor, movi al mio scampo, che con disnore in campo non pèra, anzi al bisogno stringa l’arme; c’a generoso spirto o viver bene o morir altamente si convene. (Sannazaro, 2, LXXXiii, str. v, vv. 53-65)

tralasciati gli ultimi cinque versi della sirma, che sono introdotti da una congiunzione avversativa e denotano uno stacco risoluto, un contrasto tematico rispetto alla prima parte (v. 61 «ma tu che poi», di contro ad un io lirico abbattuto dalla disperazione e dall’incertezza), la stanza è pervasa dall’incalzare incessante delle domande. il poeta, pur volendo mantenere il senso di concitazione del dubbio angosciato, evita sia di separare le interrogative disponendole in partizioni distinte, che di martellarle tramite uno schema anaforico e propone, invece, una costruzione periodale che coniuga in modo inaspettato l’intermissione di respiri e la fluidità del legato sintattico. Ciò è possibile grazie all’ellissi, e in particolare all’omissione progressivamente sempre più estesa di elementi della proposizione che si possono sottintendere e ricostruire guardando a ritroso. nel primo piede la seconda domanda è articolata in un’apodosi (v. 54 «perch’al mondo io nacqui») e in una protasi (v. 55 «se veder non devea del mio mal fine?»); il secondo piede all’inizio allude alla medesima struttura, ma riporta solamente la protasi, per altro sostenuta sull’infinito e privata dell’appoggio del verbo servile (v. 56 «se luttar con un’idra che mi atterra?»); mentre, dal secondo verso prende avvio l’ennesima domanda che questa volta si sostiene sui soli complementi (vv. 57-60 «Con un Anteo…»), elemento minimo ed essenziale per prolungare la variazione ed estenderla sino all’interno della sirma. in questo modo, pertanto, il ripetersi sempre più rarefatto dei medesimi stilemi costruisce una catena di dipendenza sintattica che raccorda le partizioni amalgamandole insieme senza rilevarne in 135

alcun modo i confini. non di un’avvolgente effusione lirica, bensì dell’imperfetta compenetrazione di suddivisioni metriche e distribuzione delle unità narrative si sostanzia la v strofe di 2, XXXii di B. tasso: talor rivolta al mare le vele negre aperte rimiravi fuggir co’ lumi intenti, e veloci solcare l’acque per strade incerte; ond’angosciosa riprendevi i venti, che del tuo mal contenti portavan di lontano il tuo caro tesoro: al crine crespo e d’oro facendo oltraggio, e l’una e l’altra mano tenendo insieme stretta, chiedei di tanto inganno al ciel vendetta. (B. tasso, 2, XXXii, str. v, vv. 53-65)

Dalla sintassi compatta della fronte, basata sulla coordinazione di due oggettive (vv. 54-56 «le vele negre aperte/ rimiravi fuggir…/ e veloci solcar»), è escluso solo l’ultimo verso allo scopo di incatenare la partizione successiva innescando il secondo anello della diegesi (v. 58 «ond’angosciosa riprendevi i venti») ed evitare così una sovrapposizione prevedibile del punto di scarto con il taglio della sirma. Contro la facilità e la levitas sembra andare anche l’altro procedimento di dislocazione dell’ulteriore dettaglio della vicenda, che si osserva nel quartultimo verso della stanza, preceduto da una pausa medio forte (v. 62). nel primo caso preso in esame l’esito di sfasatura è dato dall’anticipazione della pausa sintattica e tematica al penultimo verso della fronte, mentre nel secondo caso, appena accennato, ad essere disattesa è l’eufonia del distico di settenari a rima baciata (vv. 61-62), divaricati tra due periodi distinti e distanziati nella cadenza intonativa specie a causa dell’enjambement che collega i vv. 62-63 («al crine crespo e d’oro/ facendo oltraggio»). Accostata all’esempio appena commentato si veda poi la strofa seguente:

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Ma poi che orrido verno di nubi vela il ciel e ’l mondo attrista, e forza armato acquista tra le stelle orïone e l’aër tigne di notti atre e ferrigne, cauto nocchier che ciò contempla e geme, timor dubbioso preme; ma io, ch’un nembo accolto umido eterno di gravi sdegni scerno, cerco pur lei, che per mia doglia trista ricca di tanti doni al mondo venne, e al mio gioir le penne precide, or sì turbata e fiera in vista, ch’io nol penso giamai ch’io non disprezze tutte altre asprezze – e ’l gran dolore interno. (molza, iV, str. vi, vv. 76-90)

Ancora una volta, seppure all’interno di uno schema metrico con differenti caratteristiche di estensione dei comparti, solo l’ultimo verso della compagine della fronte è sottratto alla dinamica sintattica del periodo iniziale. La stanza, che si presterebbe per testura soggiacente (4 + 4 + 7) ad una quasi perfetta contrapposizione giocata sul filo della diesis, e che, del resto, appare costruita su due estesi periodi che si ammiccano anaforicamente l’un l’altro nell’attacco avversativo (v. 76, v. 90), oltre che per atmosfera semantica, reinterpreta di fatto con libertà le ragioni del principio di simmetria. La corrispondenza bimembre, in effetti, c’è: è sintattica, è motivica ma non metrica, o meglio, il dato metrico è quello forzato, l’elemento che preme dal basso e instilla il dubbio inquieto che una perfetta corrispondenza in realtà non si possa inscenare o non possa essere sostenuta fino in fondo, anche se il senso ritmico di una pari durata viene salvaguardato nella nuova riformulazione degli spazi (la griglia 8 + 7 viene realizzata specularmente con campate di 7 e 8 versi). tra i poeti che praticano con maggior frequenza il tipo strofico (P + P + S) non monoperiodale, Ariosto spicca per una peculiare organizzazione sintattica che prevede, dopo la saldatura tra i piedi, l’arresto immediato del periodo, in corrispondenza della fine del primo verso coinvolto nel legamento.

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trovò gran pregio ancor, dopo il bel volto, l’artificio discreto, ch’in aurei nodi il biondo e spesso crine in rara e sotil rete avea raccolto; soave ombra dirieto rendea al collo e dinanzi alle confine de le guance divine, e discendea fin all’avorio bianco del destro omero e manco. Con queste reti insidïosi Amori preson quel giorno più di mille cori.

(Ariosto, i, str. ix, vv. 89-99)

Come possibil è, quando sovviemme del bel sguardo soave ad ora ad ora, che spento ha sì breve ora, o di quel dolce e lieto riso estinto, che mille volte io non sia morta o mora? Perché, pensando all’ostro ed alle gemme ch’avara tomba tiemme, di ch’era il viso angelico distinto, non scoppia il duro cor dal dolor vinto? Come è ch’io viva, quando mi rimembra ch’empio sepolcro e invidïosa polve, contamina e dissolve le delicate alabastrine membra? Dura condizïon, che morte e peggio patir di morte e insieme viver deggio! (Ariosto, iV, str. iv, vv. 46-60)

Simili disposizioni sintattiche frangono l’unità tendenziale della fronte e insediano nella stanza un diverso ritmo di enunciazione e di arresti, come se le partizioni fossero ormai considerate una successione di tessere i cui margini combaciano perfettamente, senza alcuna demarcazione. La forzatura non ingenua della griglia sottostante si manifesta, però, sia nel momento in cui, dopo un flessuoso riempimento sintattico, si mira a ritornare all’equilibrio metrico-eufonico con la sottolineatura della combinatio (in entrambe le stanze), sia nel gioco ironico delle anafore attraverso cui l’autore innesca una competizione tra dispositio e spazi assegnati dalla testura. Ciò si vede in iV, str. iv, ripartita con precisione in tre domande retoriche, la prima delle quali distesa sul primo piede tetrastico con l’aggiunta di un verso (vv. 46-50), la seconda iniziata a partizione già avviata e conclusa sul verso di chiave (vv. 51-54) e l’ultima impostata anaforicamente ma con lieve variatio rispetto alla prima a partire dal secondo verso della sirma (vv. 55-58). Un altro esempio merita di essere analizzato da vicino all’interno del novero delle stanze contraddistinte da un’organizzazione dei comparti a catena perché mostra in modo altrettanto scoperto la volontà del poeta di produrre asincronismo attraverso questa figura compositiva:47 47

Simile per certi aspetti ed espedienti all’organizzazione di questa stanza a partizioni

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Vita, che, di tormenti e d’error piena, sei pur di pianto e di sospir albergo; vita, che mai non riposasti un’ora, quando mi lascerai, falsa sirena? maligna Circe, per cui volto e tergo portai cangiati sempre e porto ancora, quando sarò mai fòra di tuoi stretti legami, o forte maga? quando ricovrarò l’antica forma? ché già non metto un’orma che bisulca non sia, ferina e vaga, poscia che dietro a te perdei la luce che data mi era qui per segno e duce. (Sannazaro, 2, LXXXiii, str. iv, vv. 40-52)

La libera distribuzione della sintassi, che disattende l’allineamento delle pause e dei confini di partizione e che provoca risentiti enjambement (vv. 46-47 «fora/ di tuoi stretti legami») o accorte epifrasi (v. 51 «bisulca non sia, ferina e vaga»),48 formalmente dovrebbe collidere con qualsiasi tracciato retorico predeterminato, ma, viceversa, qui convive in proficua simbiosi con la griglia serrata che espedienti anaforici stendono sul tessuto versale. Sono proprio le sottolineature del vocativo «vita» (v. 40, v. 42) o dell’avverbio interrogativo «quando» (v. 43, v. 46, v. 48) in posizione incipitaria che, anziché ridisegnare con tratto calcato i profili dei piedi ternari e della sirma, suggeriscono una sorprendente spartizione alternativa dello spazio metrico,49 con quella energica persuasività che solo la ripetizione è in grado di procurare. Così, nella percezione del lettore che cerca di orientarsi nel testo e di ancorare i suoi punti di riferimento ripercorrendo le diramazioni-guida della sintassi, lo schema prestabilito (3 + 3 + 7) viene per un attimo soppiantato in controluce dal delinearsi di due quartine con struttura reiterata, che prevedono un vocativo espanso dalla relativa, inanellate è anche la vii di Bembo, Asolani, ii, 28. 48 L’epifrasi, staccando dalla serie l’aggettivo peregrino, ma bucolico, «bisulca» ottiene l’effetto di metterlo ulteriormente in risalto. 49 Per la segmentazione dello spazio versale in nuclei periodali che avvicinano la misura delle quartina, si potrebbe parlare di sintassi ‘sonettistica’.

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un quesito retorico espresso al discorso diretto e nella forma futura, e, a cornice, un’apposizione di nuovo a carattere allocutivo (v. 43 «falsa sirena» e v. 47 «forte maga»). Dopo una domanda monoversale con l’ennesimo ritorno anaforico (v. 49) conclude la strofe ancora una misura tetrastica, una quartina finale ad andamento conclusivo introdotta da «ché» pseudosubordinante.50 È solidale a tale organizzazione strofica del maestro napoletano anche un passaggio che si legge in una canzone parenetica nella quale Britonio invita un «raro, elevato e glorioso spirto» a non rimanere nel silenzio poetico e a mostrare le sue rime per ottenere una fama paragonabile a quella di cui si fregiano autori illustri ed eruditi umanisti come Petrarca, Pontano, Carbone, Bembo, Sadoleto, Alfeo e, anche il «colto e dotto Sannazaro»: Guarda com’è remaso eterno il nome del gran Pontan gentile: che con vigilie e con la dotta Penna quasi Phenice vive in vario stile, et pensa talhor come vive quel, ch’arse in l’honorata Ardenna la cui memoria accenna e ’mpiaga ogn’aspro cor d’amor ribello, pon mente al colto e dotto Sannazzaro come in suoi giorni e chiaro et doppo lor fia più pregiato bello: qual gemma in puro anello; riguarda anchor talhora al Carbon, Bembo, Sadoleto, e Alpheo, come scrivendo ognihora vincono in pregio, et l’uno e l’altro orpheo. (Britonio, ii, 353, str. vi, vv. 81-96) il «ché» al v. 53 è il cosiddetto nesso paracoordinativo, di cui è difficile individuare l’esatta natura. Formalmente potrebbe essere assimilato ad una congiunzione causale, ma in effetti, quando si trova come in questo caso, avulso da una stretta contiguità semantica con quanto precede, assume il significato di collegamento logico-consequenziale e la funzione conclusiva ed asseverativa del nam latino. Per ulteriori approfondimenti e indicazioni bibliografiche su questa crux interpretativa della sintassi italiana si rinvia alla nota 19 di p. 403 di Soldani 2003a. 50

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La misura della stanza (16 versi) avvicina l’estensione del sonetto e sembra trarne vischiosamente la ripartizione sintattica, almeno in avvio, con l’eccezione che il numero pari di versi permette di proseguire l’andamento per quartine fino in fondo. Seguendo una tecnica già osservata in altri poeti, Britonio si avvale di un procedimento simmetrico-anaforico fondato sugli imperativi di inizio verso, tutti in relazione sinonimica e seguiti da interrogative indirette (v. 81 «guarda», v. 85 «pensa», v. 89 «pon mente», v. 93 «risguarda»). Ciò, invece che convenire con l’organizzazione soggiacente, vi fa resistenza al punto che si manifesta un equilibratissimo modello distributivo (4 + 4 + 4 + 4), mentre, ormai solo in controluce, si legge l’originario scheletro metrico (3 + 3 + 10). È notevole come nel nuovo assetto strofico acquisti significato demarcativo, in luogo dei termini di partizione, il posizionamento dei settenari, in corrispondenza dei quali i periodi coordinati sono alternativamente iniziati o conclusi. Anche a questo livello funziona un principio di sottile e quasi perfetto chiasmo che, se usassimo A per simboleggiare gli endecasillabi e B per i settenari, potremmo astrarre nello schema, curiosamente anch’esso vicino a quello sonettistico, AA.BA.AB.BA: la prima frase è infatti inaugurata e arrestata su un verso lungo (v. 81, v. 84), la seconda esordisce su settenario (v. 85) e finisce su endecasillabo (v. 88), la terza vi corrisponde in termini rovesciati, la quarta riprende l’andamento della seconda. Sebbene non con esiti così eversivi nella dialettica tra dislocazione dei periodi e snodi metrici, anche in Petrarca, sorprendentemente, si rintracciano efficaci antecedenti per il tipo strofico a partizioni inanellate. Basti osservare, ad esempio, questa ardita orchestrazione che risponde ad un modello equilibrato di 4 + 4 + 3 + 3, di contro allo schema soggiacente, in effetti, speculare (3 + 3 + 8). Poi che la dispietata mia ventura m’à dilungato dal maggior mio bene, noiosa, inexorabile et superba, Amor col rimembrar sol mi mantene: onde s’io veggio in giovenil figura incominciarsi il mondo a vestir d’erba, parmi vedere in quella etate acerba la bella giovenetta, ch’ora è donna; poi che sormonta riscaldando il sole,

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parmi qual esser sòle fiamma d’amor che’n cor alto s’endonna; ma quando il dì si dole di lui che passo passo a dietro torni, veggio lei giunta a’ suoi perfecti giorni. (RVF 127, str. ii, vv. 15-28)

Se lo mettiamo a confronto con le stanze di Sannazaro o di Britonio riportate sopra, che prese in sé avrebbe potuto far pensare ad inediti ammicchi cinquecenteschi realizzati tra la strofa di canzone e il congegno del sonetto, questo esemplare petrarchesco appare tutt’altro che datato. Al contrario, la fluida linea melodica rinascimentale trae spunto proprio dalla sensibilità metrico-sintattica di Petrarca,51 che forza la gabbia di piedi e sirma pur mantenendo un’impressione generale di armonia, dovuta al fatto che i legami tra sottounità avvengono per via di subordinazione.52 La temporale in posizione prolettica introdotta da «poi che» (v. 15) fa slittare la comparsa della principale al primo verso del secondo piede; da questo, a sua volta, tramite un procedimento di paracoordinazione avviato dallo pseudo-relativo «onde»,53 si diparte un colon equipollente, all’interno del quale è mimetizzato con grande perizia lo stacco di diesis grazie all’organizzazione per distici del costrutto ipotetico e all’anticipazione della protasi. Dal terzo verso della sirma, quindi, con l’avvio del nuovo periodo prende inizio la seconda parte della stanza, alla quale, mediante sottili strategie di ripresa è data la foggia di corrispondenza a minore di quanto già detto. L’eco anaforica della locuzione temporale (v. 23 «poi che»), nonché, al verso successivo, la ripetizione del verbo reggente «parmi» (v. 24) riproduce in uno spazio più contratto il disegno iniziale, rafforzato per altro dalla continuità semantica del poliptoto sul verbo «vedere» (v. 19 «s’io veggio», v. 21 «parmi vedere», v. 28 «veggio»). in questo modo l’elemento di prevedibilità che gratifica le aspettative del lettore è spostato da Petrarca, con gesto estremamente abile, dalla pacata sovrapposizione di trama metrica e ordito sintattico, alla ricorsività rassicurante di analoghe strutture periodali. 51 52 53

Ancora una volta il modello di riferimento è la nota canzone 127. Cfr. sopra p. 118. Per il trattamento di onde vedi Soldani 2003a, 402.

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Caratterizzato da un maggior grado di complessità si presenta, invece, un altro caso: ei sa che ’l grande Atride et l’alto Achille, et Hanibàl al terren vostro amaro, et di tutti il più chiaro un altro et di vertute e di fortuna, com’a ciascun le sue stelle ordinaro, lasciai cader in vil amor d’ancille: et a costui di mille donne electe, excellenti, n’elessi una, qual non si vedrà mai sotto la luna, benché Lucretia ritornasse a roma; et sì dolce ydïoma le diedi, et un cantar tanto soave, che penser basso o grave non poté mai durar dinanzi a lei. Questi fur con costui li ’nganni mei. (RVF 360, str. vii, vv. 91-105)

Qui Amore parla davanti al tribunale della ragione per discolparsi dalle accuse mossegli dal poeta che lamenta di essere stato intrappolato in un’esiziale rete di inganni. i sofismi che innervano l’argomentazione dell’imputato sembrano trovare una corrispondenza icastica con l’assetto sfuggente della sintassi, nel segno di un’ironia dispiegata in modo solidale a livello del significato e del significante. La misura del primo piede si allenta sotto l’accumulazione incalzante e polisindetica di grandi personaggi della storia e del mito. L’elenco sospinge il verbo dell’oggettiva (v. 96 «lasciai cadere») fin nel cuore del secondo piede così da mettere a punto una giustapposizione inaspettata e stridente: Amore intende sostenere che al poeta sia stato riservato un trattamento di assoluto riguardo, eppure lo introduce nell’elenco esattamente come gli altri, con una congiunzione coordinativa. tuttavia la «e» rivela ben presto il suo valore ancipite, fin dal momento in cui il contrasto tra Laura e le «ancille» è sottolineato e ribattuto da una figura etimologica inequivocabile (v. 97-98 «di mille/ donne electe… n’elessi una»). il fulcro della difesa di Amore, cioè la dimostrazione per assurdo che sia un tranello aver instillato nel poeta la passione per la donna più onesta e nobile di tutte, è collocato nel centro spaziale della 143

stanza, ma a cavallo tra due partizioni (con il legamento per subordinazione consecutiva e la distribuzione per distici già osservata nell’esempio precedente). L’ultima porzione della stanza, se si esclude la stoccata finale racchiusa nell’endecasillabo di clausola, è affidata ad un terzo periodo che riarmonizza insieme le due sequenze tramite la combinazione della coordinazione esposta con «e» (vv. 101-102) e della struttura consecutiva.

3.1.3 il tipo strofico (P + S) nei poeti del Cinquecento la frequenza d’impiego del tipo strofico in cui si registra solamente la violazione del confine tra fronte e sirma (P + S) e non di quello tra piede e piede ammonta al 13%, ma il dato non è affatto trascurabile se si considera che risulta quasi raddoppiato rispetto alle consuetudini petrarchesche (7%). nel corpus, sulla percentuale di strofe a partizioni giustapposte (solo il 29% contro il 52% di Petrarca) guadagnano terreno sia i tipi (P + P + S), nella versione provvista di nuova frammentazione interna sovrascritta a quella metrica soggiacente, ma anche l’altro tipo di modelli asimmetrici, ossia gli schemi (P + S), abbastanza inconsueti e individualizzati nei Fragmenta. Considerato ciò, si potrebbe ipotizzare che a partire dal Cinquecento, assieme alla diffusione intensiva della tecnica dell’inarcatura, si sviluppino o si accentuino altri fenomeni di frizione tra metrica e sintassi, tra cui il trattamento fluido delle partizioni strofiche, e che venga, in definitiva, elaborata una visione più consapevole ed elastica delle suddivisioni interne della stanza. Del resto, un indizio che quella di unire il secondo piede e la sirma lasciando isolato il primo piede non sia una pratica che i poeti del corpus intendono ordinaria o priva di caratterizzazione particolare potrebbe venire dalla constatazione che essi non scelgono quasi mai questa sagoma strofica per inaugurare una canzone. L’assetto di tipo (P + S) è risospinto in genere in una collocazione riposta all’interno del componimento, a partire dalla seconda sede, quasi come per evitare un attacco troppo duro o, viceversa, per immettere con efficacia la tessera eversiva del ponte teso tra fronte e sirma quale unico collegamento tra i tre comparti della stanza, solo dopo aver almeno evocato le memorie della tradizione nella cornice iniziale. illustro qui di seguito un caso isolato di trasgressione del solo limite di diesis nella prima strofa di canzone censito tra i componimen144

ti di trissino perché per i suoi aspetti di razionalità distributiva rafforza indirettamente la tendenza normativa individuata, da cui formalmente sembrerebbe sfuggire come eccezione: gentil Signora, i’ voglio per consiglio d’Amor poner in carte la vostr’alma beltà, che ’l mondo honora, e se l’ingegno e l’arte così sapesser, com’io la raccoglio dentr’al mio petto, dimostrarla fuora, io crederei che le mie rime anchora fra perle e rose in bocca de le nymphe si dovesseno udir mill’anni e mille; ma voi, Donne gentil, che le tranquille, chiare, soavi e dilicate lymphe del fonte di Parnaso in guardia havete, date a la mia gran sete qualche poco liquore, acciò che in tutto non sia diverso a la speranza il frutto. (trissino, LiX, str. i, vv. 1-15)

Seguendo la traccia della testura metrica ci aspetteremmo per questa strofa uno schema sintattico del tipo 3 + 3 + 9, mentre, in concreto, attraverso la tensione dell’arco del secondo periodo oltre lo spazio del secondo piede, la segmentazione che si realizza è illustrata dal modello 3 + 6 + 6. il risultato è una partizione versale riformulata nei comparti periodali e che sposta il fuoco di simmetria, dapprima individuabile al centro della fronte, tra i due piedi metricamente equipollenti, al punto mediano del nuovo complesso unitario di secondo piede e sirma (v. 9), diviso ora dalla sintassi in due parti corrispondenti. Ciò ha l’effetto di sollecitare la sensibilità del lettore e di scardinare le sue aspettative, ma prima di tutto, e forse con intento meno provocatorio di quanto sembri in astratto, permette di distribuire con maggiore sistematicità i contenuti, come si addice ad un inizio ben profilato nelle sue componenti retoriche. nel primo piede si adagia con la necessaria evasività prolettica l’argumentum, che è l’esaltazione della bellezza della donna; poi, nella campata esastica centrale (vv. 4-9), il poeta lega, con il tenue ma ardito laccio dell’ipotesi, la professione di umiltà che intende preparare un atteggiamento 145

di indulgenza e di comprensione nella destinataria (secondo piede) ad uno speranzoso augurio di fama per le sue rime (primi tre versi della sirma). Perché il quadro si ricomponga in tutti i suoi particolari, interviene infine lo scarto avversativo dell’invocazione alle muse (v. 10 «ma voi, Donne gentil») con prezioso intarsio petrarchesco nei versi successivi che riecheggiano il locus amoenus della lirica in «chiare, soavi e dilicate lymphe/ del fonte di Parnaso» (vv. 11-12). 54 L’allocuzione è ancora una volta spartita con equilibrio, in due misurati nuclei ternari che contengono rispettivamente un vocativo espanso (vv. 10-12) e la richiesta di assistenza (vv. 13-15). Se i due periodi di 6 versi si equivalgono, si nota, però, anche un circuito allusivo accennato tra il primo piede e la parte centrale della sirma, che si innesca grazie alla scelta non ingenua dello stesso epiteto per l’amata (v. 1 «gentil Signora») e per le custodi della sorgente della poesia (v. 10 «Donne gentil»). inutile sottolineare che l’impressione finale che scaturisce dalla lettura ininterrotta della stanza non è per nulla quella di un esperimento sintattico oltranzistico, quanto quella di un rimodellamento funzionale del contenitore strofico. Ancora una volta, però, si è costretti a ridimensionare lo sperimentalismo del Cinquecento, appurando che esiste anche per la scansione (P + S) applicata alla strofe incipitaria della canzone un unico ma significativo archetipo petrarchesco: Che debb’io far? che mi consigli, Amore? tempo è ben di morire, et ò tardato più ch’i’ non vorrei. madonna è morta, et à seco il mio core; et volendol seguire, interromper conven quest’anni rei, perché mai veder lei di qua non spero, et l’aspettar m’è noia. Poscia ch’ogni mia gioia per lo suo dipartire in pianto è volta, ogni dolcezza de mia vita è tolta. (RVF 268, str. i, vv. 1-11)

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evidente il richiamo lessicale al primo verso di RVF 126 «Chiare, fresche et dolci acque».

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Anche qui la nuova distribuzione dei respiri sintattici, non allineata rispetto alle direttive dello schema metrico, mira a creare una simbiosi funzionale tra i comparti e l’articolazione del discorso. La strofa funge da prologo ragionato nel quale si dispiegano, secondo studiate proporzioni, una premessa breve e incalzante (v. 1), seguita in modo brachilogico da una ipotesi drastica di azione (vv. 2-3). Fin qui non vi è conflitto giacché un piede di tre versi è il contenitore ideale per l’esposizione dell’exordium; ma la tensione sopraggiunge nel secondo piede, insufficiente a racchiudere tutti i passi della narratio e dell’argumentatio, che sconfinano pertanto nel territorio della sirma. gli ultimi tre versi (vv. 9-11), ricavati dal tornito periodo centrale, sono lasciati all’epilogo e alla commiseratio attraverso la quale il poeta ordisce una patetica mozione degli affetti. È chiaro, dunque, che il Canzoniere si configura come un inesauribile repertorio di soluzioni che i poeti successivi conoscono fin nelle più impercettibili varianti55 e da cui essi attingono paradigmi non necessariamente vulgati. malgrado l’obliterazione della pausa di diesis possa essere giudicata una prassi in genere provocatoria rispetto alle attese del lettore, non vanno trascurate le evenienze in cui una saldatura (P + S), a causa soprattutto dell’estensione ampia della sirma, provvede, anche in strofe interne, lo spazio adeguato per dar corso con più ampie volute sintattiche ad uno spunto accennato nel primo piede, il quale resta sapientemente isolato con la funzione di preludio: non è fra il bel contesto vostro, stelle, chi segni più benigna la vita che m’avanza? tu, che col volto mesto mi miri, che gli sdegni d’Amor provasti in questa fera danza, quando senza speranza abbandonata e sola ne l’erme incolte arene il giovene d’Atene

Questa è del resto una delle idee chiave che guida la distinzione tra un petrarchismo quattrocentesco cortigiano ed eclettico ed un petrarchismo cinquecentesco più preciso e puntuale. 55

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chiamavi ingrato e crudo, or ti consola, che ’l mio danno è maggiore, e vincati pietà del mio dolore. (B. tasso, 2, XXXii, str. iii, vv. 27-39)

nella canzone all’interno della quale è inserita questa stanza, l’io lirico, affranto dalle pene d’amore, cerca rifugio nelle tenebre per nascondere le lacrime alla luce impietosa del giorno e, allo stesso tempo, per trovare compassione nell’atmosfera fosca, che egli sente conforme al suo animo turbato.56 ecco che allora, rivolgendo uno sguardo interrogativo verso la volta celeste, nella terza strofa il poeta invoca gli astri affinché lo confortino con la speranza di un destino favorevole. Per quanto concerne la distribuzione sintattico-argomentativa, nel primo piede (vv. 27-29) si abbozza una domanda vagamente indirizzata alle stelle, senza che chi parla possa ancora fissare l’attenzione su di un punto preciso, come del resto si nota dall’espressione partitiva generale «fra il bel contesto/ vostro» (vv. 27-28) e dall’uso dell’indefinito relativo sfumato dall’abbinamento con il verbo al congiuntivo (v. 28 «chi segni»). in seguito, però, il sintetico quesito retorico si rivela un accenno ben ponderato che prepara una transizione tematica significativa. nella successiva campata periodale, più distesa perché prodotta dall’unione tra il secondo piede e la sirma, l’allocuzione del poeta si focalizza con l’effetto di uno zoom repentino sulla sola costellazione di Arianna,57 per interpellare con enfasi l’eroina tradita. La rassegna minuziosa dei particolari biografici utili ad identificare il personaggio mitologico (vv. 31-37), contenuta nella sospensione che si realizza tra la comparsa del soggetto (v. 30 «tu») e quella del predicato verbale (v. 37 «or ti consola»), serve ad esplicitare i presupposti di empatia tra il poeta e l’ogCfr. vv. 20-21, con riferimento alla notte, invocata poco prima «tu, ch’a me sei simile,/ scura, com’è il mio stato». 57 Secondo la versione più nota del mito, Arianna dopo essere stata abbandonata da teseo a nasso, fu richiesta in sposa da Dioniso; il dio come dono di nozze le offrì un diadema d’oro che, lanciato in cielo, andò a costituire la costellazione della Corona Boreale. tuttavia in questo punto della lirica non c’è dubbio che B. tasso si rivolga non alla corona ma ad Arianna stessa trasformata in stella, come risulta nei versi successivi (vv. 92-101 «tu dopo breve doglia/ Ariadna felice,/ avesti il tuo destin grato e cortese,/ e con l’umana spoglia/ là (dove a pochi lice)/ t’alzasti al ciel fra mille luci accese,/ ove senza contese/ godi del bene eterno,/ cinta di sette stelle,/ chiare e leggiadre ancelle»). 56

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getto dell’invocazione e giustifica la lunga narrazione nelle strofe seguenti (str. iv-viii) della vicenda tragica svoltasi a nasso. Un altro esempio che realizza il tipo sintattico (P + S) conciliando insieme istanze di ordine e di musicale disposizione del materiale, al di là di qualsiasi rigido schematismo, è la iii stanza della canzone CXVi di guidiccioni: et quanto havrò di vita, c’omai troppo s’allunga, di dolermi giamai non sarò satio: et o a lei, che n’è gita al ciel volando, giunga l’aura de’ miei sospir per tanto spatio in guisa che lo stratio ch’io soffro habbia homai fine, che può per morte s’ella lo impetra, o così bella ritorni a consolar l’egre meschine mie luci e ’l cor, mentr’io di memoria mi pasco et di desio. (guidiccioni, CXVi, str. iii, vv. 27-39)

L’attacco in coordinazione mediante «e» (v. 27) suggerisce un inizio intimamente legato a quanto detto prima dello stacco strofico e, in effetti, la stanza si situa come naturale prosecuzione di tutto ciò che era stato affermato negli ultimi versi della stanza precedente. Dopo aver rifiutato l’idea del suicidio, istintivo mezzo per sottrarsi alla sofferenza per la morte dell’amata ma, allo stesso tempo, espediente la cui empietà sarebbe da temersi più dello stesso cordoglio che esso dovrebbe mettere definitivamente a tacere,58 nel primo piede della iii stanza il poeta si pone di fronte alla constatazione dell’irrimediabilità del dolore che lo attende e lo accompagnerà sempre, senza speranza di sazietà (vv. 27-29). Di fronte a questo vicolo cieco esistenziale racchiuso con perento-

Cfr. Guidiccioni, CXVi, vv. 21-26 «et, se non c’ho temenza/ che maggior duol m’ingombre/ giù tra le pallid’ombre/ ne’ verdi ombrosi mirti, sarei senza/ questo vil carco et frale/ ch’io porto essempio al mondo d’ogni male.» 58

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rietà nel primo terzetto, si aprono inopinatamente due alternative espresse all’ottativo (v. 31 «giunga», v. 37 «ritorni») che unificano lo spazio metrico successivo nel segno della correlazione disgiuntiva. La prima opzione agognata è drastica ma risolutiva. i lamenti del poeta, giunti fino all’amata la potrebbero commuovere fino a spingerla a chiedere pietosamente al cielo la morte e la cessazione dei mali del suo cantore (vv. 30-36). L’altra soluzione, attesa perché preparata fin dall’inizio dal fatto che la congiunzione “o” precedeva anche la prima alternativa, si affaccia al centro del quarto verso della sirma, un settenario (v. 36). il poeta si augura che la sua pena solitaria si interrompa almeno temporaneamente grazie ad una apparizione in sogno della donna, presente e ancora vivida nella sua memoria (vv. 36-39). il secondo colon coinvolto nella correlazione, a causa della sintassi molto inarcata di questo scorcio di testo, non si ritrova allineato con nessun segnale metrico che ne assicuri la piena autonomia intonativa (non è sincronizzato né con l’inizio di partizione, né con l’inizio di verso e inoltre non si trova nemmeno in corrispondenza di emistichio).59 tale organizzazione sintattica e distributiva che, grazie ad una colata monoperiodale che attraversa i comparti di secondo piede e sirma, salda in una struttura unitaria i due rimedi al dolore individuati, non fa che mettere in evidenza come le due possibilità di riscatto prospettate siano se non congiunte, quanto meno affini. entrambe si sostanziano, infatti, dell’intervento dell’amata ma la riuscita di entrambe, altresì, dipende per la gran parte dalle capacità dell’io lirico, ora del suo canto suadente (v. 32 «l’aura de’ miei sospir»), ora della fermezza del suo desiderio e della forza evocativa della sua memoria (v. 39 «di memoria mi pasco e di desio»). Lo stesso Petrarca applica con parsimonia il solo legamento tra fronte e sirma e, proprio per questo, ricorre all’organizzazione (P + S) a largo respiro sintattico con estrema consapevolezza delle virtualità che tale orchestrazione sprigiona se oculatamente dosata all’interno di una successione di stanze ad impianto più regolare. in un caso paradigmatico il poeta trecentesco arriva a modellare una strofa in cui i due comparti legati ospitano

Cfr. Torchio 2006, 214: «non hanno significativa rilevanza sull’organizzazione del periodo le partizioni interne in piedi e sirma: si veda, ad esempio, come ne siano indipendenti gli unici due casi di parallelismo marcato, nella terza e nella quarta stanza, o v. 30/ o v. 36, mi risoviene v. 40, soviemmi v. 47». 59

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un’unica colata monoperiodale al fine di esprimere un contrasto tra due realtà non paragonabili: oïmé, terra è fatto il suo bel viso che solea far del cielo et del ben di lassù fede fra noi; l’invisibil sua forma è in paradiso, disciolta di quel velo che qui fece ombra al fior degli anni suoi, per rivestirsen poi un’altra volta, et mai più non spogliarsi, quando alma et bella farsi tanto più la vedrem, quanto più vale sempiterna bellezza che mortale. (RVF 268, str. iv, vv. 34-44)

i tre scarni versi del primo piede bastano a rievocare la parabola terrena di Laura; d’altro canto, giacché non esiste proporzione tra l’imperfetta esperienza mondana e l’eterna vita spirituale (vv. 43-44 «quanto più vale/ sempiterna bellezza che mortale»), quest’ultima non può essere descritta nello spazio rispettivo e parallelo del secondo piede ed esige di espandersi sino al limite della sirma.60 e tuttavia, sia nel Canzoniere che nelle raccolte del corpus cinquecentesco non sono poi molte le strofe in cui si genera una connessione tra fronte e sirma che lascia fuori il primo piede dal nuovo blocco al solo fine di accrescere la misura di una potenziale campata o di stanziare un periodo piuttosto lungo nella seconda parte metrica. Più diffusi e significativi sono, all’opposto, i casi in cui questi due comparti metrici disomogenei sono tenuti insieme solo grazie ad un sottile lembo sintattico, per il fatto che il periodo iniziato nel secondo piede infrange di un solo verso la pausa che precede la sirma, come avviene nella iv str. di

Berra 1992, 76 sottolinea che l’impiego della comparativa ‘proporzionale’, testimoniato in questo come in altri casi, assume in Petrarca la rilevanza di «strumento sintattico della sottigliezza analitica». 60

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trissino LXV, che riporto, tralasciando per il momento il primo piede:61 L’alta bellezza che s’adorna in lei, le grazie e le virtù, s’hanno fra loro concordi questa per su’albergo eletta, fin da quel dì che in culla pargoletta giacque, e crescendo poi così l’ornaro che non si vidde mai sotto la luna cosa più rara; e ben solo in quest’una si può dir che natura e Dio mostraro tutte lor forze: o caro dono del Cielo, e di que’ spirti eletti, per supplire a gl’humani altri difetti. (trissino, LXV, str. iv, vv. 47-57)

il panorama delle due unità compattate insieme dalla subordinazione temporale è frastagliato da accidenti che cooperano ad increspare continuamente l’intonazione. tra l’inversione combinata all’iperbato del secondo piede (vv. 48-49 «s’hanno…/ … eletta»), gli enjambement cataforici62 (vv. 50-51 «pargoletta/ giacque»; 56-57 «mostraro/ tutte lor forze» e vv. 57-58 «o caro/ dono del Cielo») e le interruzioni inattese delle brevi frasi in emistichio, anziché in punta di verso, il trattenuto debordamento del primo periodo è, così, ben mimetizzato al punto da sembrare quasi spontaneo in questo contesto ridisegnato. Altrove la campata che poggia sul verso iniziale del secondo piede si arresta poco prima del limite di sirma e lascia che l’esiguo spazio metrico escluso venga attratto nell’orbita della partizione successiva come in Sannazaro, 2, LXXV, str. vi, riprodotta per intero qui di seguito:63

Cfr. anche B. Tasso, 1, XXii, str. ii e 2, Vii, str. vii o in Bembo, Asolani, iii, 9, str. ii o in Rime Lii, str. ii. 62 Secondo la categorizzazione procurata da Soldani 2003b, 247, un’inarcatura è detta cataforica quando produce un senso di legato tra i versi poiché il rejet si caratterizza come parte necessaria alla completezza del sintagma. Viceversa, l’inarcatura anaforica veicola un effetto di staccato giacché alla pacata esaustività suggerita dalla sintassi del primo verso coinvolto si sovrappone il senso di improvvisa discontinuità dato dalla comparsa inattesa di un completamento accessorio del sintagma, nel secondo verso. 63 Cfr. anche B. Tasso, 1, XXii, str. iii. 61

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in una rota poi volubil molto vede a forza legarsi, et in giro voltarsi col vento sempre, senza aver mai posa. Ahi stelle, ahi fati nel mio ben sì scarsi, come da quel bel volto m’avete escluso e tolto? e l’alma più nel ciel tornar non osa, poi che la sua nascosa speranza discoverse, e ’l suo desire aperse a tutto ’l mondo, che celar devea; onde quella sua dèa con ragion sì turbata a lei s’offerse. or par che nel girar si fugga e segua, né, fuggendo o seguendo, ha pace o tregua. (Sannazaro, 2, LXXV, str. vi, vv. 81-96)

Si tratta di una stanza desunta da quella che definirei ‘canzone delle pene’, un testo nel quale le sofferenze dell’amante sono rappresentate allegoricamente attraverso allusioni ai supplizi dei dannati classici, in una serie di quadri allineati. Dopo aver paragonato il dolore amoroso ai patimenti delle Danaidi, di Sisifo, di tantalo (visto sia in preda alla fame e alla sete, sia atterrito da una selce che incombe sul suo capo),64 a questo punto del componimento il poeta si accinge a illustrare l’ennesima figurazione (v. 81 «poi») e a descrivere la sua anima come se fosse soggetta agli stessi tormenti di issione, che, secondo il mito, per essersi vantato di aver posseduto la dea era, fu legato con serpi ad una ruota in fiamme destinata a girare in eterno. La materia del parallelo è distribuita da Sannazaro con una logica precisa che prevede la spartizione della descrizione in due momenti intervallati da una domanda accorata, che è immessa per l’appunto nel comparto centrale per movimentare la stanza ed incrementarne il patetismo. nell’organica suddivisione l’elemento di scarto è dato proprio

Questo secondo Lucrezio (iii, 980-981), mentre non è chiaro a chi si riferisca Virgilio nell’omologo passo dell’eneide (Vi, 602-603 «quo super atra silex iam iam lapsura cadentique/ imminet adsimilis»). Cfr. Parenti 1993, 54-55.

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dall’assetto della sintassi che, eludendo schematismi prevedibili, non rispetta confini di partizione e pause convenzionali. Se la rappresentazione allucinata della tortura della ruota è stanziata perfettamente nel primo piede (vv. 81-84) e si conclude con un verso bipartito dalla scansione dei due perentori avverbi temporali (v. 84 «col vento sempre, senza aver mai posa»), il lamento lirico, che nell’iniziale articolazione dittologica in variatio (v. 85 «Ahi stelle, ahi fati nel mio ben sì scarsi») sembrerebbe avviare nel secondo piede una risonanza interiore a corrispondenza di quanto detto, si arresta improvvisamente al terzo verso (v. 87) senza colmare la misura tetrastica. Con evidente asincronismo della dislocazione delle unità periodali rispetto alla griglia metrica, nell’ultimo verso del secondo piede, e non già nel più prevedibile verso di concatenatio, riprende in coordinazione copulativa (v. 88 «e l’alma…»), come se il filo narrativo non si fosse in realtà mai interrotto, il riferimento all’archetipo classico ed in particolare alle ragioni della pena (la violazione della complicità segreta con l’amante, il cui strappo è espresso ironicamente dalla spezzatura ai vv. 89-90 «nascosa/ speranza»). Così il nuovo arco sintattico che si protende non solo crea una stretta contiguità tra l’estrema propaggine della fronte e la sirma ma, proprio a causa dell’attacco intempestivo nell’ultimo verso del secondo piede, destabilizza la segmentazione metrica soggiacente. il senso di chiara successione delle sottounità della stanza viene ripristinato solo dal rassicurante distico finale di combinatio, i cui endecasillabi sono saldati insieme e in qualche modo spiccati dal corpo strofico oltre che dalla cadenza della rima baciata, anche dal poliptoto giocato su enunciati giustapposti che combinano i verbi antitetici e complementari, «fuggire» e «seguire» (cfr. vv. 95-96 «or par che nel girar si fugga e segua/ né, fuggendo o seguendo, ha pace o tregua.»). infine, in altre occasioni ancora, il periodo comincia al centro del piede e coinvolge pochi versi o un solo verso della sirma, spezzettando in molteplici cellule le partizioni legate e compromettendo tutti gli incasellamenti distributivi prefissati. ne riporto due esempi significativi:65 A pie’ de l’alpi, che parton Lamagna dal campo, ch’ad Antenor non dispiacque,

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Cfr. anche Trissino, LiX, str. iii.

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non è sì alpestra fera ch’udendo el mio gran pianto

con le fere e con gli arbori e con l’acque ad alta voce un uom d’amor si lagna. Dolor lo ciba, e di lacrime bagna l’erba e le piagge, e da che pria li piacque pensier di voi, quanto mai disse o tacque va rimembrando, e ’ntanto ogni campagna empie di gridi, u’ pur che ’l pie’ lo porte, e sol desio di morte mostra negli occhi e ’n bocca ha ’l vostro [nome, giovene ancor al volto et a le chiome

non cangi in pia la sua orgogliosa mente. Quanto da quel ch’io era mutato sono et quanto era el mio meglio in quel punto dolente morir, sì dolcemente moriva risguardando ne gli occhi et nel bel volto, ch’hora a doler mi volto sempre el suo nome e ’l mio destin [chiamando! Lasso, più non ho io altro ch’un dolce di morir desio. (Bembo, Rime Lii, str. iii, vv. 25-36) (guidiccioni, CXXiX, str. ii, vv. 14-26)

La realizzazione del tipo sintattico (P + S) in strofe come quella bembiana66 è notevole non solo perché elide lo stacco mediano, ma soprattutto perché porta con sé, grazie ad un uso intensivo di procedimenti di coordinazione, un minuto sfrangiamento dei periodi, il quale contrasta con quella presunta volontà di allargare la campata sintattica che dovrebbe invece animare come pretesto principale i casi più tradizionali di saldatura tra comparti. Le frasi che percorrono lo spazio metrico risultante dalla fusione dell’ultima parte della fronte con la sirma, infatti, frammentano il discorso e procurano respiri intonativi in sedi inattese: al centro del secondo endecasillabo del secondo piede (v. 30) e in emistichio sull’ultimo verso della fronte (v. 32), anziché alla fine dello stesso. La continuità tra le due partizioni collegate è ribadita allora, oltre che dal permanere del medesimo referente (v. 28, l’uomo che «d’amor si lagna»), anche dalla forza dell’inarcatura protesa sullo stacco di diesis (vv. 32-33 «ogni campagna/ empie di gridi»), dall’andamento incalzante dell’esposizione, quasi sussultoria e fondata su brevi aggiunte progressive, dal proliferare, nelle sedi esposte del verso, di coppie coordinative o disgiuntive (v. 26 «l’erba e le piagge», v. 27 «disse o tacque», v. 32 «al volto et a le chiome»). Analogamente, nella strofa di guidiccioni, la continuità tra le due partizioni è ribadita, pur nelle sinuosità intonative, dal rincorrersi non alData la configurazione metrica un po’ atipica, ricordo che lo schema della canzone Lii di Bembo è ABBA.ABBA. CcDD. 66

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lineato delle riprese che prevede l’anafora sintattica dell’avverbio esclamativo a scandire l’inizio e la metà esatta del secondo piede (v. 17 «quanto», v. 18 «et quanto»), così come il poliptoto (v. 20 «morir», v. 21 «moriva») tra il verso di concatenatio e il secondo verso della sirma, il quale accoglie una lugubre persistenza armonica destinata a durare fino al termine della stanza (cfr. l’ulteriore poliptoto al v. 26 «di morir desio»). La frammentazione sintattica innestata all’interno dei tipi (P + S), già di per sé fortemente antitradizionali, caratterizza, infine, anche una strofa di molza, chiaro rifacimento di un celebre passaggio bucolico di Virgilio:67 A mopso nisa si congiunge, o sorte! o destin più d’ogn’altro empio e fallace! o stelle congiurate ne’ miei affanni! Che non lece sperar nella tua corte o neghittoso Arcier? Dunque avran pace le dame e i veltri, e degli usati danni securi senza lite e senza inganni da un fonte stesso si trarran la sete? e giunti a grifi tra l’ombrose valli veloci alti cavalli andran pascendo fresche piagge e liete? Voi che per gli altrui falli l’ali sciogliete spesso ai larghi pianti sperate pur ciò, che vi piace, Amanti. (mol ii, str. iii, vv. 29-42)

molza è l’autore che impiega con più frequenza l’inarcatura (semplice enjambement ovvero differimento della comparsa dei costituenti fondamentali della frase, non ottenuta per prolessi subordinativa) quale modalità attraverso cui mettere in comunicazione le sottounità strofiche e disorientare le aspettative di ripartizione logica dei nuclei in comparti separati. emblematici sono i casi come questo, nei quali il poeta connette Virgilio, egloga Viii, vv. 26-28: « mopso nysa datur: quid non speremus amantes?/ iungentur iam grypes equis, aeuoque sequenti/cum canibus timidi ueniet ad pocula dammae». 67

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la fronte e la sirma dislocando una spezzatura tra un sintagma coeso e complicandola con l’anastrofe (vv. 34-35 «degli usati danni/ securi»). esclamazioni, domande non sempre irregimentate nella misura di un verso o di un distico, ma che sorgono improvvise anche in emistichio, al centro metrico di un piede (v. 33) e, in generale, una sintassi che avanza per via coordinativa, sfrangiano il tessuto strofico e rendono la concitazione dell’io lirico che osserva, alla stessa stregua di un adynaton, il matrimonio dell’amata con un rivale indegno. tranne che per quest’ultima fattispecie, segnata da una frantumazione interna per così dire a singhiozzo dell’ideale campata prodotta tramite il legamento del secondo piede con la sirma, il Canzoniere petrarchesco non lesina precedenti – naturalmente ben acclimatati in un contesto circostante di strofe a scansione tradizionale – di contrappunti metrico-sintattici giocati sul profilo della diesis. ecco, dunque, periodi avviati all’inizio del secondo piede e interrotti in modo brusco nel mezzo della chiave settenaria:68 Un’altra fonte à epiro, di cui si scrive ch’essendo fredda ella, ogni spenta facella accende, et spegne qual trovasse accesa. L’anima mia, ch’offesa anchor non era d’amoroso foco, appressandosi un poco a quella fredda, ch’io sempre sospiro, arse tutta: et martiro simil già mai né sol vide né stella, ch’un cor di marmo a pietà mosso avrebbe; poi che ’nfiammata l’ebbe, rispensela vertù gelata et bella. Così più volte à ’l cor racceso et spento; i’ ’l so che ’l sento, et spesso me n’adiro. (RVF 135, str. v, vv. 61-75)

Ho omesso di riportare il primo piede della stanza e ho evidenziato il verso di chiave tramite il carattere corsivo. 68

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oppure, per converso, brandelli sintattici dell’ampio secondo piede tetrastico, ricuciti asimmetricamente assieme alla tela della sirma:69 e’ non si vide mai cervo né damma con tal desio cercar fonte né fiume, qual io il dolce costume onde ò già molto amaro; et più n’attendo, se ben me stesso et mia vaghezza intendo, che mi fa vaneggiar sol del pensero, et gire in parte ove la strada manca, et co la mente stanca cosa seguir che mai giugner non spero. or al tuo richiamar venir non degno, ché segnoria non ài fuor del tuo regno. (RVF 270, str. ii, vv. 20-30)

Lo scenario complessivo delle interazioni tra metrica e sintassi nei comparti caratteristici della forma canzone, che ho sin qui cercato di ricostruire attraverso connessioni, confronti e ipotesi di interpretazione dei dati raccolti, si mostra, al termine, complesso, articolato in modo plurimo, percorso da chiaroscuri contrastanti, non riducibile all’univocità. Ciò sembra derivare dal fatto che del congegno strofico i poeti del corpus risollevano, alternativamente e con diversi indici di predilezione, le duplici virtualità di vasto contenitore per una sintassi protratta, e, sull’altro versante, di spazio ben segmentato al suo interno, ideale per sperimentare gli sfuggenti scarti di periodi sfasati, ondeggianti, sospesi, sciolti dai vincoli perentori di partizione. La registrazione non sporadica di interruzioni periodali inopinate o di connessioni morbide tra comparti adiacenti è un indizio di come la cadenza irregolare della sintassi rispetto allo schema metrico sia sfruttata con consapevolezza riflessa dai poeti cinquecenteschi non solo per ragioni di distribuzione dei contenuti, ma anche per la mera movimentazione dell’onda melodica e che i sottili artifici contrappuntistici siano ideati per ottenere effetti elaborati ed avvolgenti. tuttavia, i raffronti con il modello petrarchesco indicano che la novità sintattica della Anche per questa strofe si tace il primo piede e si marca in corsivo la parte del periodo attratta nell’orbita della sirma. 69

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lirica rinascimentale non è sperimentalismo originale in senso stretto, né gioco con presunte forme elementari di cui si sondano virtualità inesplorate. Quanto appare non tradizionale e moderno nei cinquecentisti è già presente nelle strofe del Canzoniere, molto più articolate e diversificate dal punto di vista sintattico di quanto si sia abituati a pensare. Se uno scarto esiste, esso si consuma a livello quantitativo, nella misura in cui i lirici rinascimentali, attraverso uno spoglio in equilibrio tra tradizione e innovazione, tentano nella canzone di dare dignità di canone anche ad alcune di quelle opzioni che in Petrarca si ritagliano uno spazio minoritario.

3.1.4 il tipo strofico a partizioni indipendenti (P/P/S) in generale, solo il 29% delle strofe prese in esame nel corpus cinquecentesco mostra un’organizzazione periodale che rispetta rigorosamente i confini metrici, tratteggiando in tal maniera un profilo sintattico che si potrebbe definire ‘a partizioni indipendenti’(P/P/S). Questa percentuale di primo acchito stupisce poiché, da un punto di vista puramente teorico, la giustapposizione di comparti autonomi, con relativo ossequio degli stacchi reciproci previsti, dovrebbe essere la distribuzione maggioritaria se non normale del discorso poetico all’interno dell’architettura della stanza, posto che del pattern fornito dallo schema si avvertano con forza e poi si vogliano interpretare le ragioni formali e il significato originari. D’altro canto, lo stesso dato appare l’ennesima conferma del fatto che il primo Cinquecento si identifica come il denso punto cronologico in cui, attraverso un processo di dialogo-scontro con consuetudini stabilizzate,70 vengono riformulate in modo nuovo e moderno le condizioni di pacata convivenza o piuttosto di trasgressione del periodo e, nel complesso, della sintassi entro la gabbia dei metri chiusi, canzone e sonetto in primis. e tutLa sintassi poetica cinquecentesca nei metri tradizionali deve essere rapportata senza dubbio a quella dei modelli trecenteschi a cui si rifà, ma in primo luogo segna un movimento di affrancamento dalle tipologie del vicino Quattrocento. non si deve dimenticare, infatti, che nella lirica cortigiana vengono esasperate le tendenze di allineamento metricosintattico. il nuovo classicismo del Cinquecento, pertanto, recupera e accentua tratti dello stile petrarchesco per trovare un punto di fuga rispetto al linearismo quattrocentesco. (Per le peculiarità della sintassi del XV secolo, cfr. Weise 1957). 70

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tavia, quantunque non si intenda enfatizzare eccessivamente il pur innegabile cambiamento che si riscontra nell’assetto delle stanze delle canzoni utilizzate da campione nell’indagine, la svolta che emerge coerentemente dalle ricostruzioni degli esiti statistici può essere forse meglio compresa e contestualizzata tramite ulteriori rilievi, non precipuamente sintattici, come imporrebbe la logica dei criteri di Soldani fin qui adottati. Seguendo un’ipotesi di sviluppo alternativa71 e ripristinando ai fini di un retto intendimento del fenomeno di allineamento o di sfasatura, l’intersezione innegabile che nei testi poetici si realizza non solo tra metrica e sintassi, ma anche tra sintassi e argomentazione, si potrebbe avanzare la suggestiva congettura che la dipendenza e i collegamenti tra sottounità metriche, rilevati nello specimen grazie al «criterio fondamentale dell’appartenenza al medesimo periodo»,72 possano essere intesi come una sorta di definitiva radicalizzazione di manifestazioni coesive intrinseche alla stanza, da sempre in atto nella tradizione. Alludo in particolare a quei segni di saldatura tra comparti, di carattere retorico, che procurano un senso di corrispondenza interna alla strofe e che, sebbene non con un’energia paragonabile a quella che sprigiona un nesso di subordinazione o un’inarcatura, permettono al lettore di percepire la stanza come un nucleo dotato di una certa continuità. Si comprenderà pertanto che lo scopo delle annotazioni che verranno espresse in questo paragrafo circa pregi e limiti delle caratteristiche costruttive di parallelismi, anafore, ripetizioni e anadiplosi applicati ai comparti strofici sintatticamente indipendenti, è, innanzitutto, evitare che i dati finora raccolti vengano travisati e che cioè si deduca erroneamente che le stanze di tipo P/P/S siano schematici accostamenti di suddivisioni che affidano solo a valori semantici e contenutistici e minimamente a valori retorico-formali la loro ragione aggregativa. Secondariamente, soffermarsi ad analizzare le partizioni autonome ma strette nella rete delle simmetrie e delle corrispondenze anaforiche porterà in evidenza come la peculiare sensibilità sintattica cinquecentesca, già provata dall’uso frequente di ponti armonici tra spazi distinti, intervenga a scompaginare anche quei parallelismi retorici che, per riscattare la paratassi dal rischio di frammentazione, generalmente do71 72

Provo ad assumere l’ottica che ha guidato lo studio di tonelli 1999. Cfr. Soldani 2003a, 407 a riguardo del paragrafo Limiti operativi dell’indagine.

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vrebbero inasprirne le qualità di ritmica e prevedibile giustapposizione. nel nuovo quadro anche l’organizzazione delle stanze a comparti indipendenti riacquisterà il suo posto coerente di possibilità di sfumatura accanto agli altri tipi strofici in cui risalta più perspicuamente una vocazione all’asincronismo. Per cominciare, va detto che tra le occorrenze di strofe a partizioni indipendenti osservate all’interno del corpus si individuano ancora esempi di evidente sottolineatura retorica della scansione metrica, estremo retaggio delle tanto aborrite quanto virtuosistiche impaginazioni quattrocentesche. Pertanto non sarà un caso che i poeti che, seppur in misura limitata, ne fanno mostra siano quelli cronologicamente più vicini alla stagione cortigiana: il riferimento, infatti, va tanto a Sannazaro,73 quanto al primo Bembo. negli Asolani, ad esempio in ii, 28, str. viii74 il poeta reitera ad inizio del secondo piede (v. 109) e in attacco di sirma (v. 112) un costrutto interrogativo-consecutivo di poco variato (da un lato «chi fia, che…», dall’altro «chi verrà mai, che…») che in entrambi i casi appare proteso verso un rejet cataforico al verso successivo: riva frondosa et fosca, sonanti et gelid’acque, verdi, vaghi, fioriti et lieti campi, chi fia, ch’oda et conosca quanto di lei vi piacque, et meco d’un incendio non avampi? Chi verrà mai, che stampi l’andar soave et caro col bel dolce costume […] (Bembo, Asolani, ii, 28, str, viii, vv. 106-114)

Un possibile esempio a cui si rinvia è quello riportato a p.366, nel quale è ben evidente la ripercussione a partire dall’inizio del secondo piede e poi, a intervalli regolari, per tutta la sirma dell’anafora «ivi». 74 Anche nella strofa successiva (Asolani ii, 28, str. ix), trascritta nel prosieguo della trattazione alle pp. 378-379, sono le congiunzioni e i pronomi interrogativi gli elementi costruttivi utilizzati come espedienti anaforici per rafforzare lo stacco tra partizioni. 73

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Lo stesso Bembo in Asolani i, 33, str. ii propone in modo se vogliamo ancor più chiaro un’articolazione modulare della stanza, scandendo gli snodi dello schema tramite l’anafora della congiunzione ipotetica «se» che occhieggia all’inizio di ciascun piede e della sirma, a delimitare di volta in volta uno spazio periodale di tre versi: Se in alpe odo passar l’aura fra ’l verde, sospiro et piango et per pietà le cheggio che faccia fede al ciel del mio dolore; se fonte in valle o rio per camin verde sento cader, con gli occhi miei patteggio a farne un del mio pianto via maggiore; s’io miro in fronda o ’n fiore, veggio un che dice: “o tristo pellegrino, lo tuo viver fiorito è secco et morto”. et pur nel penser porto lei, che mi diè lo mio acerbo destino; ma quanto più pensando io ne vo seco, tanto più tormentando Amor ven meco. (Bembo, Asolani i, 33, str. ii, vv. 14-26)

La messa in serie delle partizioni risulta in parte animata da alcuni accorgimenti, come la mobile collocazione del circostanziale di luogo («in alpe», al v. 14, immediatamente dopo la congiunzione; «in valle», al v. 17, a seguito del complemento oggetto; «in fronda o ’n fiore», al v. 20, sdoppiato in dittologia subito dopo il verbo) oppure la diversa ampiezza di respiro riservata alla protasi – e conseguentemente all’apodosi – nei tre periodi ipotetici (si trascorre da una protasi endecasillabica al v. 14, ad una distesa su endecasillabo + quinario ai vv. 17-18, ad una concentrata in uno spazio settenario al v. 20). Ciò nonostante, gli efficaci elementi di ricorsività fissano la distribuzione ordinata dei nuclei argomentativi e rafforzano le virtualità strutturanti del modello metrico soggiacente, non solo ricordando la suddivisione della fronte in due terzetti, ma suggerendo anche la spartizione della sirma in 3 + 2 + 2, cioè in un primo nucleo della dimensione di tre versi per contiguità con la fronte, in un distico serrato dall’inarcatura (vv. 23-24 «porto/ lei») e nella combinatio finale isolata da uno scarto di contrapposizione (al v. 25 «ma») esposto ad inizio verso. Benché in Petrarca la percentuale di strofe che rispondono al tipo 162

distributivo P/P/S ammonti a circa la metà del totale (52%), di contro alla drastica riduzione praticata dai poeti cinquecenteschi, che adoperano questa modalità solo per poco meno di un terzo delle stanze (29%), non si rintraccia all’interno delle canzoni dei Fragmenta alcun archetipo di organizzazione retorico-sintattica per i due esempi bembiani appena commentati. tutt’al più si scorgono territori strofici in cui si applicano più moderati parallelismi costruttivi e intonativi, come nell’esempio seguente, a schema soggiacente 2 + 2 + 7: ma io che debbo altro che pianger sempre, misero et sol, che senza te son nulla? Ch’or fuss’io spento al latte et a la culla, per non provar de l’amorose tempre!» et ella: «A che pur piangi et ti distempre? Quanto era meglio alzar da terra l’ali, et le cose mortali et queste dolci tue fallaci ciance librar con giusta lance, et seguir me, s’è ver che tanto m’ami, cogliendo omai qualchun di questi rami!» (RVF 359, str. iv, vv. 34-44)

il modulo di organizzazione della fronte, costituito da una domanda retorica e poi da un’irrealizzabile asserzione ottativa dell’io lirico e stanziato con criterio perfettamente binario nei primi due piedi-distici, si ripercuote nella sirma rispettivamente con un quesito e con l’espressione di un desiderio inattuale da parte di Laura. Si tratta di un botta e risposta tra i due personaggi coinvolti in un dialogo sognato e pertanto la scansione ben definita delle parti dialoganti all’interno delle suddivisioni metriche e la ripresa dei termini da parte dell’interlocutore a cui è rivolta la prima battuta (cfr. v. 34 «pianger» e v. 38 «piangi») paiono aspetti connaturati alla situazione. eppure, un particolare come la variata dilatazione degli spazi concessi ai due momenti, interrogativo ed esclamativo, con l’accelerazione verso il secondo (cfr. l’istanza monoversale di contro all’esteso augurio), turba l’equilibrio e la scansione di rispondenze perfette e produce non solo un’intensificazione dei toni, ma anche il ribaltamento degli argomenti, per cui lo stesso desiderio luttuoso che il poeta impiega per autocommiserare la sua presente situazione 163

diventa, nelle parole della donna, una positiva opportunità per redimersi e contemplare il vero bene rinunciando a querimonie inutili. in altri termini, da uno spoglio sistematico sul Canzoniere risulta che mancano nel pur ampio repertorio petrarchesco paradigmi strofici nei quali i procedimenti anaforici impiegati sottolineino e riscattino la perentorietà divaricante delle partizioni individuate dallo schema. Di più, è rimarchevole il fatto che se l’anafora sintattica si trova metricamente allineata a ribattere l’inizio di partizione, in Petrarca questo avviene nelle stanze a partizioni legate, ad ulteriore dimostrazione della medietas del poeta trecentesco, il quale così manifesta da un lato di evitare un’organizzazione statica dei comparti attraverso una paratassi enfatizzata dalla ripetizione e, parimenti, dall’altro di propendere per una distribuzione armoniosa e disciplinata degli elementi frastici in presenza di una connessione sintattica tra sottounità strofiche. Per questo, si rinvia, ad esempio, all’armonica scansione delle enumerazioni presenti in RVF 126, str. i o in RVF 37, str. vi, nelle quali si rileva una costruzione latamente anaforica, con movenze sinuose e non meccaniche. Chiare, fresche et dolci acque, ove le belle membra pose colei che sola a me par donna; gentil ramo ove piacque (con sospir’ mi rimembra) a lei di fare al bel fiancho colonna; herba et fior’ che la gonna leggiadra ricoverse co l’angelico seno; aere sacro, sereno, ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse: date udïenza insieme a le dolenti mie parole extreme.

(RVF 126, str. i, vv. 1-13)

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Le treccie d’or che devrien fare il sole d’invidia molta ir pieno, e ’l bel guardo sereno, ove i raggi d’Amor sì caldi sono che mi fanno anzi tempo venir meno, et l’accorte parole, rade nel mondo o sole, che mi fer già di sé cortese dono, mi son tolte; et perdono più lieve ogni altra offesa, che l’essermi contesa quella benigna angelica salute che ’l mio cor a vertute destar solea con una voglia accesa: tal ch’io non penso udir cosa già mai che mi conforte ad altro ch’a trar guai. (RVF 37, str. vi, vv. 81-96)

L’enumerazione espansa si dimostra una collaudata tecnica per ampliare la sintassi mantenendo, allo stesso tempo, un certo senso dell’ordine; è indubbio, poi che questo tipo di orchestrazione sia virtualizzata come stampo ideale per la variatio, per il cambiamento innestato in un quadro di rispondenza parallelistica. Per discernere i due esempi succitati, si evidenzierà che in RVF 37 l’enumerazione, il polisindeto e l’espansione relativa dei costituenti dell’elenco non mirano a plasmare una strofa di un solo periodo, cosa che invece accade nell’incipit di 126. in entrambi i casi i diversi nuclei di senso che si ripetono sono variamente dislocati75 ma i richiami costruttivi sono abbastanza stretti,76 e inoltre – ed è ciò che più di tutto garantisce un senso di pacata armonia – l’elemento del catalogo, su cui si fonda il costrutto Sn + relativa, ritorna programmaticamente sempre ad inizio verso, in RVF 126, in particolare, anche ad inizio partizione. A riprova della non prevedibilità dello schema architettonico e dell’intreccio sapiente di simmetrie e scarti messa in atto dal poeta del Canzoniere si osservi però che, considerato lo schema (AbbC.BaaC. cddeeD), nella strofa di RVF 37 il primo elemento dell’enumerazione «le treccie d’or» compare all’inizio del primo piede, il secondo «’l bel guardo» a metà del secondo piede e il terzo «l’accorte parole» addirittura in una posizione non marcata del secondo piede. Visto ciò, è corretto concludere che la coesione argomentativa nelle stanze di canzone petrarchesche a partizioni indipendenti non sia mai affidata a figure di parola che si basano sulla ripresa e la ripetizione? niente affatto, anzi, si potrebbe dimostrare come Petrarca fornisca un’ampia casistica di strofe nei cui comparti si riverberano anafore, poliptoti o figure etimologiche senza che, d’altra parte, questo impli-

Solo per fare un esempio: in RVF 126 la relativa con «ove» compare nel verso successivo a quello in cui viene presentato il Sn nel primo caso e nell’ultimo (vv. 1-2 «Chiare, fresche et dolci acque/ ove» e vv. 10-11 «aere sacro, sereno/ ove»), ma nello stesso verso nel secondo caso (v. 4 «gentil ramo ove piacque»); inoltre il Sn è variamente aggettivato, dapprima con tre attributi preposti (v. 1), poi con un solo attributo, ma sempre preposto (v. 3), poi si presenta privo di attributi ma formato da due costituenti quasi in funzione di endiadi (v. 7 «l’herba et fior’»), e infine compare con due attributi, ma posposti (v. 10). 76 Si noti in RVF 126 la costruzione delle espansioni con relativo locativo «ove» (ad eccezione del v. 7 che ha il relativo «che») ed in RVF 37 la doppia replicazione del costrutto fattitivo ‘fare + infinito’, variata da forme in poliptoto che spaziano tra i diversi valori aspettuali del verbo (vv. 81-82 «… devrian fare il sole/ d’invidia molta ir pieno»; v. 85 «che mi fanno anzi tempo venir meno») e il ritorno lessicale, nel terzo membro relativo, del verbo ‘fare’ con un’altra funzione (v. 88 « che mi fer già di sé cortese dono»). 75

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chi prevedibilità o stretto adeguamento a principi simmetrici.77 gentil mia donna, i’ veggio nel mover de’ vostr’occhi un dolce lume che mi mostra la via ch’al ciel conduce; et per lungo costume dentro là dove sol con Amor seggio, quasi visibilmente il cor traluce. Questa è la vista ch’a ben far m’induce, et che mi scorge al glorïoso fine; questa sola dal vulgo m’allontana: né già mai lingua humana contar poria quel che le due divine luci sentir mi fanno, e quando ’l verno sparge le pruine, et quando poi ringiovenisce l’anno qual era al tempo del mio primo affanno. (RVF 72, str. i, vv. 1-15)

L’esempio forse più lampante78 lo si ritrova nella prima strofa della canzone 72, unica in tutto il componimento a presentare un’orchestrazione di tipo P/P/S, dove le figure etimologiche sono disposte come segnacoli sia a delimitare gli estremi della fronte (al v. 1 il verbo «i’ veggio» e al v. 6 l’avverbio «visibilmente») che ad indicare l’ingresso nello spazio metrico della sirma (al v. 7 il sostantivo «vista» che tramite il deittico «questa» assume valore di ricapitolazione). il raccordo tra le tre partizioni e soprattutto la saldatura in corrispondenza della diesis, già portata in evidenza dai Cfr. anche come in RVF 125, str. iv l’uso del poliptoto sul verbo «dire» e sul verbo «udire» non rimarchi i bordi di partizione ma li ripassi in modo quasi inavvertito e in generale assecondando il movimento della sintassi che, pur nel rispetto delle partizioni, è un po’ tortuosa. inoltre si tenga presente l’organizzazione della fronte della str. vii di RVF 270 che, anche nella divaricazione sintattica tra i due piedi, è analogamente gestita nel segno della compattezza. Le ripartizioni metriche vengono sfumate mediante la forza coesiva del poliptoto (qui sul verbo «legare» liberamente distribuito nei versi, in merito al tradizionale tema del nodo d’amore). 78 Si possono prendere in considerazione per effetti del tutto simili anche RVF 71, str. iv; RVF 270, str. vii; RVF 125, str. iv; RVF 135, str. ii.

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procedimenti fonico-semantici appena descritti, sono rafforzati da altre più sottili procedure di variatio, quali la ripresa dell’espressione «che mi mostra la via», al terzo verso del primo piede (v. 2) nell’analoga «mi scorge a» del secondo verso della sirma (v. 8), oppure la condensazione metaforica che fa scattare l’assimilazione degli occhi dell’amata a punti luminosi (vv. 11-12 «le due divine/ luci»), laddove in precedenza si riconoscevano ancora elementi discreti (v. 1-2 «i’ veggio/ nel mover de’ vostr’occhi un dolce lume»). A tale soluzione, per altro, non sembra per nulla estranea una componente di eco armonica, per cui i sintagmi sul limite di verso («dolce lume» e «divine/ luci») non solo si riprendono etimologicamente sul tema della luce, coinvolgendo anche la punta del mediano v. 6 («traluce»), ma sono anche giocati sulla ricombinazione di un quasi identico set consonantico di dentale sonora, nasale, liquida e affricata palatale sorda. Da non trascurare, infine, l’omogeneità conferita alla sirma dalla replicazione del costrutto anaforico a cornice, ossia nella parte iniziale (anafora su «questa» ai vv. 7 e 9) e in conclusione di strofa (anafora su «e quando» ai vv. 13 e 14). La tecnica petrarchesca di imbricazione di anafora, poliptoto e figure etimologiche viene metabolizzata dai poeti primo cinquecenteschi come utile escamotage per superare le strette della giustapposizione dei comparti e, allo stesso tempo, assicurare una fluida coesione alle strofe. Svariati casi osservati nel corpus mostrano come la tenuta di una stanza, qualora non poggi su stretti nodi di dipendenza sintattica fra comparti, venga garantita da fili retorici abilmente tessuti in punti strategici: Anchor dirò più avante, pur che ’l mi sia creduto (ma chi no ’l crede possa il ver sentire), sotto le care piante più volte haggio veduto l’herba lasciva a pruova indi fiorire, visto ho dove il ferire de’ suoi begl’occhi arriva in valle, in piaggia o in colle, rider l’herbetta molle, e di mille color farsi ogni riva, l’aere chiarirsi, e ’l vento fermarsi al suon di sue parole attento. (trissino, Xiii, str. v, vv. 53-65)

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in questa strofe, per esempio, ad un primo piede introduttivo e prolettico, mosso da un’inflessione parentetica come spesso in trissino, sono collegate paratatticamente le altre due partizioni, che si segnalano come solidali membri coordinati di un discorso diretto. nel secondo piede viene espresso in sermo brevis ciò che con più larghezza si rintraccia nella sirma attraverso riprese lessicali puntuali in tenue variatio: ad «haggio veduto», in punta del penultimo verso della fronte (v. 57), corrisponde in chiasmo e con una differenziazione incisiva che gioca sul polimorfismo linguistico del verbo «visto ho» (v. 59), all’inizio del secondo verso della sirma, ed a «l’herba lasciva… fiorire» (v. 58) risponde con l’uso di un diminutivo per il sostantivo, di un sinonimo per l’aggettivo e di un traslato metaforico per il predicato «rider l’herbetta molle» (v. 62). Un’anafora secca, che avrebbe potuto ricordare l’andamento stilizzato tipico di alcune liriche quattrocentesche, è in tal modo prudentemente elusa, mentre allo stesso tempo la ripetizione variata sotto il profilo lessicale, così come sul piano della dispositio, procura una rassicurante impressione di compattezza tra le partizioni. Del resto, da Sannazaro, poeta che vi ricorre con dovizia per le sue numerose stanze prive di legami stringenti tra partizioni, la stessa anafora è dosata con oculatezza e risente di quei procedimenti di abile ritocco o di sfasatura che, non senza un certo ardimento, verranno introdotti e applicati in maniera sempre più capillare in sede di maggiore complicazione sintattica, non in frasi semplici ma in costrutti articolati: 79 Chi pensò mai che dentro a duo begli occhi tante faville ardenti, tante reti e lacciuoli fussin tesi? Quante fiate avvien che l’arco scocchi, tante voci dolenti, tanti vedi cattivi al varco presi. (Sannazaro, 1, XXV, str. ii, vv. 12-17)

Qual pregio, qual onor, qual tanta gloria ti sprona a far tue prove non con tuoi par, ma contra uom pur mortale? qual palma o spoglie avrai di tal vittoria? quali inudite e nove lodi? qual carro aurato e trïonfale? (Sannazaro, 1, XXV, str. iv, vv. 34-39)

nella prima fronte di stanza riprodotta qui sopra, scorrendo il profilo esterno del testo si sarebbe indotti a scorgere un perfetto parallelismo tra i due piedi, i cui secondi e terzi versi sembrano dapprima insistere su una patente anafora metrica o al massimo su un altrettanto chiaro poliptoto 79

Cfr. ad esempio il trattamento dell’anafora in Sannazaro LiX, str. ii, p. 366.

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(vv. 13, 14, 16 «tante», v. 17 «tanti»). in realtà, la lettura completa ed attenta del brano dissipa in parte l’apparente simmetria. La corrispondenza tra gli aggettivi indefiniti del primo piede e quelli del secondo viene incrinata dal fatto che questi ultimi appartengono ad un costrutto correlativo e, oltre a ciò, il senso di proporzione intonativa tra i versi sobbalza nella chiusa della fronte, dove si assiste all’interposizione di un destabilizzante iperbato («v. 17 «tanti vedi cattivi»). nel secondo esempio, tratto dalla stessa canzone, i due piedi, chiaramente inseriti in un unico continuum sequenziale grazie al rivestimento retorico, sono pervasi da quesiti cadenzati dal punto di vista intonativo mediante la ripetizione ternaria del pronome interrogativo “qual”, riferito di volta in volta con poliptoto agli attanti di ciascun enunciato. ma se nel primo piede il tricolon anaforico è condensato nel verso iniziale (v. 34), nel secondo esso si distende in tutti i versi a disposizione, senza che tuttavia tale organizzazione risulti meccanica. mentre il primo e il secondo verso di quest’ultima partizione ostentano un parallelismo metrico ponendo “qual” in avvio, la comparsa dell’interrogativo nel medesimo punto anche nell’ultimo endecasillabo è disattesa dal prolungamento del periodo precedente e dall’inserimento di una pausa medio-forte in posizione non canonica (dopo bisillabo).80 il precedente petrarchesco più prossimo,81 dal quale si può pensare che Sannazaro abbia tratto spunto per elaborare questa tecnica di variazione armonica dell’anafora, si riscontra nel Canzoniere non in fronti di stanze, bensì in due sirme dalla misura e costruzione del tutto comparabili:

Simile la fronte della strofa vi di B. Tasso, 3, XLVii, vv. 71-76: «Altre grazie, altre voci, altre manere,/ altri costumi, altri atti, altre parole/ l’anima vostra fan vaga et adorna;/ altre rose vermiglie, altre viole/ le dipingono il volto; altro piacere/ piove dagli occhi, u’ casto amor soggiorna». Alla tripartizione dei due endecasillabi iniziali del primo piede mediante l’anafora sull’aggettivo indefinito ‘altro’, martellato quindi sei volte, il poeta fa corrispondere nel secondo piede tre sole comparse del medesimo aggettivo che peraltro, all’interno di una sintassi inarcante, provvedono una risegmentazione dello spazio versale in due soli cola di misura decrescente. 81 La figura qui non crea legamento retorico tra partizioni distinte, ma si insedia a conferire continuità nella medesima partizione.

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Qual fior cadea sul lembo, qual su le treccie bionde, ch’oro forbito et perle eran quel dì a vederle; qual si posava in terra, et qual su l’onde; qual, con un vago errore girando, parea dir: Qui regna Amore. (RVF 126, str. iv, vv. 46-52)

Così sol si ritrova lo mio voler, et così in su la cima de’ suoi alti pensieri al sol si volve, et così si risolve, et così torna al suo stato di prima: arde, et more, et riprende i nervi suoi, et vive poi con la fenice a prova. (RVF 135, str. i, vv. 9-15 )

e tuttavia, nonostante la suggestione indubbia che i Fragmenta esercitano sulla memoria di Sannazaro, al poeta tardo quattrocentesco non va negata una certa dose di innovazione. in Petrarca l’espediente è usato con un diverso equilibrio e con inalterata compostezza perché da un lato manca l’ammicco all’equivocazione semantica (presente invece come abbiamo visto in 1, XXV, str. ii); d’altro canto, nei luoghi in cui l’allineamento dell’anafora salta e non è preservata la corrispondenza tra i segmenti da essa identificati e lo spazio metrico, lo scarto si ricompone, a differenza del v. 39 di 1, XXV, in modo equilibrato (l’anafora segmenta rispettivamente l’endecasillabo del v. 50 di RVF 126, in un settenario + quinario e quello del v. 10 di RVF 135 in un quinario + settenario) e comunque senza brusche inversioni nel prototipo di ordo verborum fissato nel primo verso della serie. Anche Bernardo tasso si avvale in qualche caso di figure di replicazione nelle strofe a partizioni indipendenti, con una sensibilità ancor più sfumata. ma dove sete voi ride ad ognora la terra lieta, et ha le spalle erbose, senza temer del freddo tempo e duro: bianca e vermiglia a voi surge l’Aurora, di gigli ornata il crin, cinta di rose, per menarvi più bello il dì futuro; a voi candido e puro latte correno i fiumi; a voi soave mele sudan le piante; il vostro lume fugge con lievi piume ogni cosa che sia noiosa e grave; né s’ode mesto suon, ma cogli Amori cantar le grazie i vostri sacri onori. (B. tasso, 2, Vii, str. v, vv. 53-65)

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Qui è l’insistenza allocutiva su pronomi o aggettivi di seconda persona plurale a fare da collante tra le tessere metriche in cui è suddivisa la stanza. eppure, sebbene scandisca con ordine ciascun comparto, la presenza costante del «voi» non funge semplicemente da monotono basso continuo, ma è modulata, o meglio, dislocata con una dinamica variabile. nel secondo piede il pronome personale cade al primo verso, sotto accento di 6a e prelude ad un contraccento di 7a, esattamente come accadeva nel primo piede (v. 53), però non si può dire che la corrispondenza vada oltre il richiamo prosodico giacché nel primo periodo «voi» è soggetto della frase subordinata (v. 53 «ma dove sete voi»), mentre nel secondo è in funzione di complemento (v. 56 «a voi»). L’inizio della sirma, invece, riprende fedelmente il complemento di vantaggio (v. 59) e tuttavia manipola il modello di sviluppo frastico, per cui il sintagma si ritrova sbalzato nell’incipit del periodo anziché in una posizione più interna. Di contro, la frase successiva ricalca lo stesso cartone di quella appena focalizzata perché utilizza il medesimo attacco con il complemento di vantaggio, riproduce anche l’inarcatura tra attributo e sostantivo, come pochi versi sopra (vv. 59-60 «candido e puro/ latte» e vv. 60-61 «soave/ mele») e impiega in senso transitivo un verso normalmente intransitivo (a «latte correno i fiumi» del v. 60 fa da pendant «mele sudan le piante» del v. 61). Ciò che, però, non combacia ancora nella costruzione di un’anafora in senso proprio è la posizione metrica, nel senso che il primo dei due periodi è allineato rispetto all’inizio del verso, mentre il secondo ha un avvio sfasato, in corrispondenza del secondo emistichio (v. 61). Parte al secondo emistichio, d’altro canto, il terzo periodo della sirma, ma disattende ancora una volta il riscontro simmetrico perché la seconda persona è allusa tramite un aggettivo possessivo e non più attraverso il pronome (v. 62 «il vostro lume»), così come nella chiusa della stanza (v. 65 «i vostri sacri onori»). Altrove, con maggior rilevanza argomentativa, sono parole chiave o richiami tematici – e non soltanto l’anafora – a susseguirsi tra le partizioni,82 come nella stanza seguente, dove la difficoltà dell’espressione

82 Cfr. anche Bandello LXXXiX, str. iii: si nota una continuità lessicale e di motivi sul tema del ritorno, parola che si replica variata nel terzo verso del primo piede (v. 29 «torno»), in rima inclusiva nel secondo verso del secondo piede (v. 32 «ritorno») e, infine, nel secondo verso della sirma sotto accento di 8a (v. 36 «tornando»).

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poetica, del “dire”, in contrasto con la volontà, il “voler”, si presentano fin dall’esordio e poi si incalzano in maniera asistematica così da compattare la catena metrica senza scandirne troppo i contorni:83 Amor, tu vòi ch’io dica quel ch’io tacer vorrei, né par che ’n tanto error vergogna curi. Dirò con gran fatica gli affanni e’ dolor miei, non perché speri dir quanto sian duri, ma, se tu m’assicuri di tue percosse acerbe, vo’ che mi veda e senta quella che mi tormenta, quasi un languido cigno su per l’erbe, c’allor che morte il preme getta le voci extreme. (Sannazaro, 2, Liii, str. i, vv. 1-13)

tra primo e secondo piede non scorgiamo semplicemente una ricorrenza lessicale, bensì un vero e proprio poliptoto (v. 1 «voi ch’io dica» e v. 6 «speri dir») che stringe la cornice esterna della fronte senza dimenticarne la membratura centrale (v. 4 «Dirò»). Analogamente, anche la sirma, nel suo terzo verso è caratterizzata da una spia costruttiva nonché semantica che la collega al verso incipitario della stanza per esprimere il senso di una limitata ed estrema reazione. Dopo aver sottolineato che Amore lo sforza a dire ciò che vorrebbe tacere per inadeguatezza, il

Un esempio petrarchesco per certi versi analogo è quello che si ritrova nella str. ii di RVF 135, nella quale, grazie naturalmente alla compaginazione comparativa, tra le parzioni si ripercuotono variati i medesimi elementi lessicali, ‘furare’, ‘affondare’, ‘ferro’ (in marcata allitterazione), ma anche ‘trarre’, ‘carne’ e ‘duro’. (Cfr. RVF 135, vv. 16-30 «Una petra è sì ardita/ là per l’indico mar, che da natura/ tragge a sé il ferro e ’l fura/ dal legno, in guisa che’ navigi affonde./ Questo prov’io fra l’onde/ d’amaro pianto, ché quel bello scoglio/ à col suo duro argoglio/ condutta dove affondar conven mia vita:/ così l’alm’à sfornita/ (furando ’l cor che fu già cosa dura,/ et me tenne un, ch’or son diviso et sparso)/ un sasso a trar più scarso/ carne che ferro. o cruda mia ventura,/ che ’n carne essendo, veggio trarmi a riva/ ad una viva dolce calamita!». 83

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poeta impone la sua risoluzione in quello spazio che la passione soverchiante, nonostante le sue resistenze, gli concede angusto e circoscritto, ed enuncia il proposito che madonna veda, se non altro, almeno le pene cui soggiace per lei (v. 9 «vo’ che mi veda e senta»), allorché, esangue, trova la forza per esalare il suo ultimo canto di cigno (vv. 11-13). oltre a Sannazaro, anche Bandello, che predilige nelle sue canzoni un’organizzazione strofica per partizioni indipendenti (49%), raffina le tecniche di coesione mediante elementi retorici: anafora, poliptoto, figure etimologiche, risonanze sintattiche. Si vedano a titolo esemplificativo due strofe consecutive tratte dal componimento che apre la raccolta per margherita di Francia: Vorrai forse lodar l’altiera e umana maniera, ch’ella in ogni cosa mostra, di maestà servando il bel decoro? non vedi come in Lei di pari giostra, con quel divin favor che l’allontana da cose basse, d’ogni grazia il coro? Quai donne al mondo mai famose foro, tra le più celebrate in elicona, u’ tant’umanità mai si vedesse, che ’n lor superbia parte non avesse? indarno a Lei s’aguaglia o paragona qual più famosa suona. Chi dunque dirla quanto merta sape, s’umano ingegno il suo valor non cape?

o pensi di cantar la cortesia, che ’n Lei sfavilla sovr’ogn’altra chiara, tant’è gentil e liberal, cortese? Quest’una dote in Lei sì larga e rara fiorisce, e frutto fa di leggiadrìa, tanto mai sempr’ a farsi chiara attese! ma chi può farla col cantar palese, se l’uno e l’altro stile quest’eccede? Chi puote il giorno numerar le stelle, e la virtù narrar a pien di quelle, esser potrà di tanta grazia erede, che canti e faccia fede dell’alta cortesia che ’n questa splende, sì ch’a adorarla tutto ’l mondo accende. (Bandello, i, str. iv-v, vv. 43-70)

L’intonazione interrogativa pervade e scandisce tutti i comparti della quarta stanza e, ad eccezione del secondo piede, anche quelli della quinta. Per comprensibili esigenze di variatio gli introduttori delle domande cambiano di volta in volta, benché la retoricità delle questioni, che mira ad eludere, per via negativa, il problema di una poesia che prende a oggetto l’ineffabilità della virtù, non sposti sensibilmente in avanti l’argomentazione se non sul finale della seconda delle strofe riportate, che propone una conclusione sul filo della tautologia per il suo carattere di indeterminatezza iperbolica. entrambe le stanze sono accomunate dalla riproposizione circolare di un tema ricorrente, esposto con spie lessicali e figure etimologiche nei versi iniziali, in un punto intermedio 173

e all’interno della combinatio. nel primo caso, dunque, il giro strofico si appunta sul concetto di ‘umanità’, considerato sia nell’alta accezione classica e rinascimentale di humanitas, ma anche nel suo significato limitativo che pone l’accento sull’imperfezione e l’immanenza. «Umana» è fin dall’inizio l’attributo positivo conferito alla donna in punta del primo verso (v. 43) e l’«umanità» è la dote che, a livello insuperato, lei rappresenta (v. 51), mentre troppo «umano» è il talento poetico di qualsiasi mortale ardisca celebrarla (v. 56). il circolo si ripete nella strofa successiva per l’elogio della «cortesia», termine ribattuto ancora una volta come rimante del primo verso, ripreso, sempre in posizione di rima nel terzo (v. 59 «cortese») e ribadito nel momento di chiusa eufonica del distico baciato (v. 69 «cortesia»). Le partizioni sono sintatticamente divaricate, ma gli accorgimenti semantici e retorici che Bandello mette in campo in luoghi sapientemente trascelti per la loro rilevanza (la sede di rima e la combinatio)84 riportano in evidenza la stretta coesione che sussiste tra le tessere strofiche. Petrarca, dal canto suo, dimostra come gli espedienti anaforici, di ripresa lessicale o strutturale, benché diramati in strofe che sintatticamente rispettano gli stacchi metrici, possano essere usati in alcuni casi anche con la finalità di ridistribuire la suddivisione tra partizioni. Consideriamo questa stanza che si legge nel Canzoniere: Chi nol sa di ch’io vivo, et vissi sempre, dal dì che ’n prima que’ belli occhi vidi, che mi fecer cangiar vita et costume? Per cercar terra et mar da tutti lidi, chi pò saver tutte l’umane tempre? L’un vive, ecco, d’odor, là sul gran fiume; io qui di foco et lume queto i frali et famelici miei spirti. Amor, et vo’ ben dirti, disconvensi a signor l’esser sì parco. tu ài li strali et l’arco:

84

Cfr. § 3.2.2.

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fa’ di tua man, non pur bramand’io mora, ch’un bel morir tutta la vita honora. (RVF 207, str. v, vv. 53-65)

L’esposizione del pronome interrogativo «chi» in attacco di verso (v. 53, v. 57) e il ritorno del poliptoto sul verbo «saver» (v. 53 «nol sa», v. 57 «pò saver») mirano a costruire una simmetria centrale con punto medio installato tra i due piedi. in realtà, il chiasmo non si compone di due membri equipollenti nella loro contrapposizione frontale, poiché le circostanziali, vuoi temporali (vv. 54-55), vuoi concessive (v. 56), che si accompagnano alla domanda retorica stichica, hanno estensione diversa. Ciò comporta che questa prima fase argomentativa del discorso strofico, basata sull’appello non solo all’interlocutore dei Fragmenta, ma anche ad un “chi” tanto generico da diventare autoinclusivo,85 si arresti in anticipo di un verso rispetto al termine della fronte, di modo che solo il primo quesito combacia esattamente con l’estensione di un piede. Subito di seguito si registra un cambio di tono e dal procedere dubitativo, simulato più che reale, si passa all’asciutta asserzione. L’ultimo verso del secondo piede, apparentemente autonomo e in sé conchiuso, si inarca intonativamente sulla sirma grazie alla presenza di un pronome indefinito con sfumatura correlativa (v. 58 «l’un»), destinato a riprendere il pronome personale «io» (v. 59), anche per corrispondenza nel posizionamento che in entrambi i casi coincide con l’inizio del verso. Questi due brevi periodi, l’uno che coinvolge l’estrema propaggine della fronte e l’altro il primo distico della sirma, benché sintatticamente isolati sia tra di loro che rispetto all’incipit della stanza, vengono percepiti come solidali e compattati per motivi che trascendono la mera correlazione accennata sopra. Anche se appartengono a zone metriche eterogenee, essi formano un blocco unico che si oppone ai primi cinque versi della stanza o, meglio, vi corrisponde. Come all’inizio si leggono due domande evidenziate dall’anafora sul «chi», una riguarL’interrogativa retorica, con la quale il poeta ribadisce la notorietà della sua vicenda amorosa, rimanda in un qualche modo al sonetto proemiale e all’amara ammissione del fatto che l’amore per Laura lo ha reso motivo di chiacchiere e di biasimo da parte del «popol tutto». D’altro canto, attraverso la seconda domanda, il poeta sembra schierarsi con modestia dalla stessa parte dei suoi interlocutori nel momento in cui riconosce l’infinita varietà delle abitudini degli uomini, difficilmente dominabile anche da un dotto che abbia viaggiato a lungo. 85

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dante l’io lirico, l’altra gli uomini in generale, così qui riecheggiano, in modo esattamente speculare, due puntuali risposte, la prima che prende ad esempio un caso particolare individuato fra i molti possibili («l’un» del popolo degli Astomi che si cibano di odori), la seconda che torna sul soggetto. Del resto, poi, tutta la strofa è percorsa, fino al ribaltamento finale della combinatio, da figure etimologiche o più precisamente poliptoti che rimandano al campo semantico della vita. esse si addensano nel primo piede (v. 53 «vivo e vissi», v. 55 «vita») e sono riprese rapidamente alla fine del secondo (v. 58 «vive»), per poi incorniciare tutto il discorso con un’ultima comparsa al termine della strofa (v. 65 «vita»). numerosi, quindi, i rimandi interni alla strofe e segmentazione retorico-argomentativa non banale, anzi dialettica rispetto alle indicazioni metriche, specie in un contesto di giustapposizione tra partizioni. La tecnica petrarchesca dell’impiego dell’anafora o della ripetizione come accorgimenti che favoriscono la variazione e che vanno a sovrapporsi allo schema metrico in modo risentito e allo stesso tempo intrinsecamente rassicurante, si riverbera anche nella produzione del Cinquecento. Amor, il tempo che di te fui privo, veramente non vissi, perch’io stava come huom che è fuor di vita; che quel che è senz’amor, già non è vivo. Però di te non scrissi, né feci cosa mai molto gradita. Tu se’ colui ch’invita gl’ingegni humani a gloriose imprese. Tu gentil, tu cortese sai fare ognun che sta ne la tua corte. timido, riverente, ardito, forte, prudente, largo, facile e giocondo fai chi ti serve, onde s’adorna il mondo. (trissino, LXiV, str. iii, vv. 27-39)

in questa strofa trissiniana, sebbene non vi siano legami di stretta connessione sintattica86 tra alcuna delle partizioni, non si può non eviden86

Ciò è vero posto che si ritenga plausibile il valore paracoordinativo del «che» al v. 30.

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ziare come il primo verso del secondo piede (v. 30), più che inaugurare un nuovo movimento autonomo, sia l’ultimo corollario tautologico del primo piede. Per questo basti solo soffermarsi sulla scelta orientata dei rimanti e delle loro adiacenze (v. 28 « non vissi», v. 29 «fuor di vita», v. 30 «non è vivo», ma anche «di te fui privo» del v. 27 rispetto al v. 30 «senz’amor»). Che il secondo passaggio del discorso sia coerentemente inaugurato dal secondo verso del secondo piede è poi segnalato dalla topicalizzazione del complemento «di te» (v. 31 «di te non scrissi»), che riprende la struttura sintattica prolettica dell’incipit di strofa (v. 27 «di te fui privo») e in generale mantiene la dominante negativa (v. 31 «non»; v. 32 «né… mai»), in maniera analoga a quanto accade nei primi due periodi (v. 27 «privo», v. 28 «non», v. 29 «fuor di», v. 30 «senz’» e «non»). La transizione alla sirma si allinea al richiamo allocutivo ad inizio verso, talché ad «Amor» in attacco di fronte fa da pendant il «tu» all’ingresso di sirma. A sua volta la sirma, sempre grazie alla guida dell’anafora, viene scandita in due tronconi; il primo distico introduce la presentazione delle potenzialità benefiche di amore, mentre il corpo restante della partizione le descrive con maggior dovizia di dettagli. il pronome di seconda persona singolare ribattuto al v. 35 è solo la manifestazione più evidente di una combinazione di chiasmi (ad esempio la comparsa degli aggettivi «gentil» e «cortese» al v. 35 rispetto a quella di «timido, riverente, ardito, forte/ prudente, largo, facile e giocondo» ai vv. 37-38) e di variazioni sinonimiche (v. 36 «ognun che sta ne la tua corte», v. 39 «chi ti serve»; v. 36 «sai fare» e v. 39 «fai») che investe l’ultimo movimento argomentativo della stanza. Al termine di questa rassegna, in cui ho illustrato varie sottigliezze di impiego di procedure simmetriche e di meccanismi di riecheggiamento fonico, propongo ancora un esempio attardato su una ostentata ciclicità ricorsiva (assente in ogni caso nei Fragmenta). Si tratta di una strofa desunta dalla canzone Li delle Rime del Bembo, testo di cui ho sopra menzionato sia la brevità delle strofe (di 3 piedi di 2 versi e sirma di 4), sia la mancata tensione di archi periodali tra comparti, che conseguentemente suona inaspettata. Ahi quanto aven di quello, onde si dice: chi solca in lito, perde l’opra e ’l tempo. ogni frutto si trae da la radice, ma non aprono i fior’ tutti ad un tempo.

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già fu ch’io m’ebbi caro, e gir felice sperai solo per voi tutto ’l mio tempo; né giamai sì per tempo a ripensar di voi seppi destarme, né Phebo i suoi destrier’ sì lento mosse, che ’l giorno al desir mio corto non fosse. (Bembo, Rime, Li, str. ii, vv. 11-20)

La seconda stanza, che riporto perché credo sia emblematica, sembra non ambire a nessuno slancio protratto. i tre piedi, distici di endecasillabi a rima alternata, si innalzano e si ripiegano su se stessi assecondando una precisa attesa ritmica, mentre, sul piano dei contenuti, i nessi logici tra un movimento e l’altro sono scorciati e assorbiti nel battito monocorde. in questo senso l’elemento che richiama senza posa l’attenzione alla tonalità della strofa, il basso continuo che fonde insieme i periodi di due versi è la rima B, che chiude ciascun distico e compare sempre associata al medesimo rimante, anche nell’estrema ripresa nel verso di concatenatio. Dal punto di vista retorico si tratta di un’epifora, mentre dal punto di vista metrico di una rima identica-equivoca, perché la parola «tempo» è usata in locuzioni avverbiali con accezioni diversificate seppur sempre legate ad un unico campo semantico (v. 12 «’l tempo», con significato e funzione di sostantivo; v. 14 «ad un tempo», cioè “contemporaneamente”; v. 16 «’l mio tempo», come nella prima occorrenza; v. 17 «per tempo», vale a dire “tempestivamente”). Benché si sia indotti a ritenere che nello scarno panorama delle 5 canzoni amorose delle Rime bembiane ogni componimento sia significativo per la definizione di un modello di sviluppo, tuttavia è opportuno riconoscere che il caso di questa canzone è isolato ma soprattutto che esso è caratterizzato da una precisa pressione imitativa. La lirica Li cerca di avvicinare «specialmente a partire dalla seconda stanza»87 i modi della canzone-frottola petrarchesca RVF 105, nella quale, pure, il divagare di proverbi e i salti logici tra le frasi di marca sentenziosa sono ricondotti all’unità dall’aggancio «mnemonico»88 della rima. tale riferimento formale attenua l’estremismo dell’assetto sintattico e impedisce che le ipotesi iniziali sulla manipolazione libera e armonica dei fenomeni retorici simmetrici nelle par87 88

Cfr. Bembo (ed. gorni) 2001, 109. Cfr. Beltrami 2002, 121.

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tizioni, già presenti nei modelli petrarcheschi come è stato abbondantemene illustrato, vengano inficiate o perdano di mordente.

3.1.5 Profili individuali Dopo aver recuperato il quadro d’insieme, pare ora conveniente riesaminare ad uno ad uno i singoli autori per accertare eventuali peculiarità nella prassi poetica o discrasie rispetto alle tendenze comuni ed allineare alcuni elementi utili per definire profili individuali.89 Per quanto riguarda il gruppo delle canzoni di trissino, noto che sono abbastanza scarsi (6) i casi in cui il poeta stabilisce un collegamento sintattico forte tra tutte e tre le partizioni della stanza, ma il fatto che i tipi (P + P + S) siano concentrati in tre canzoni (Xiii, XXXi e LXXVii) induce a pensare che si tratti di una scelta stilistica legata a singoli componimenti piuttosto che una consuetudine messa in atto con puntiforme ma ben ripartita ricorrenza. Allo stesso modo, abbastanza infrequenti e pertanto accusate nell’economia del testo risultano le connessioni che obliterano il solo confine di diesis tra fronte e sirma: invero, quando questo avviene, in quattro casi su sei vi è una forte destabilizzazione delle attese del lettore. Quindi, nella generale opzione trissiniana per schemi tradizionali di stanza, con raccordo nella fronte (P + P) o con chiara suddivisione della sintassi in partizioni indipendenti tra loro (P/P/S), si scorge poi che limitate sono pure le connessioni innescate tramite inarcatura (XXXi, str. iv; LXXii, str. ii, LXXVi, str. vi, LiX, str. iii), cioè attraverso il mezzo che è più portato a movimentare le cadenze di arresto perché elide il confine di partizione sottraendogli anche il ruolo di divisorio tra costituenti autonomi del periodo e tramutandolo in cerniera coesiva del sintagma franto. Se la spezzatura non viene utilizzata al fine di ricombinare gli spazi delle partizioni con connubi inattesi, ciò è da imputare all’audacia dell’espediente collocato al limite di partizione piuttosto che al rigetto della connessa possibilità di pause in sedi non regolari, le quali per altro non mancano all’interno dei versi o dei comparti metrici, soprattutto grazie all’impiego intensivo di esplicite parentetiche o di inflessioni incidentali, entrambe 89

Cfr. anche il prospetto riassuntivo a pp. 224-225.

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decisamente più copiose in questo autore che negli altri esaminati. All’opposto di trissino, ma in generale in controtendenza rispetto ai poeti del corpus, Sannazaro risolleva molto raramente la compattezza della fronte attraverso un legame tra i piedi (12%), mentre invece nelle sue canzoni si prelevano con maggior dovizia occorrenze di strofe a comparti divaricati (44%) o esempi di debordamento del periodo avviato nel secondo piede all’interno della sirma (24%). Poiché, dopo un veloce sguardo a questi ultimi casi (P + S), risalta subito come elemento tipico e ricorrente l’autonomia che caratterizza il distico o il verso finale, si inferisce che la giuntura che si instaura tra tali partizioni, qualora non sia promossa a fini di asincronismo ma di ampliamento della campata sintattica, tende a preservare intatto e autonomo lo scorcio di strofe, spesso proclive ad un chiusa sintetica e a volte epigrammatica, e quindi a far reagire con pronunciata frizione un arco periodale medio-lungo con la susseguente fulminea frase di explicit. il Bembo delle Rime non è spesso citato nelle osservazioni che si tessono nei paragrafi relativi ai tipi strofici con legamento tra partizioni e la ragione patente è che le stanze dei componimenti amorosi del canzoniere sono piuttosto brevi, con sottounità esigue per non dire risicate, la cui unificazione non desta pertanto meraviglia e risponde in primis a necessità intrinseche di sviluppo del discorso poetico su cui non occorre soffermarsi.90 Per converso, più degni di attenzione sono gli stessi brevi comparti nel caso in cui siano reciprocamente svincolati, con l’intuibile risultato di un’estrema frantumazione del periodo. tuttavia, volendo esprimere un qualche giudizio sulle tecniche di legamento tra partizioni delle canzoni di questa raccolta, si può notare che spesso il poeta sfrutta le medesime strategie di connessione tra sottounità in buona parte delle stanze della stessa lirica e raggiunge di conseguenza esiti di stanca omogeneità (quanto meno dalla prospettiva della dialettica tra metrica e sintassi nelle suddivisioni strofiche) che poi devono essere riscattati attraverso espedienti di variatio giocati su altri piani (ad esempio quello lessicale o della dispositio, o della gestione interna al verso delle pause intonative). Per le canzoni degli Asolani si può parlare di organizzazione, di regola, molto ortodossa della stanza, con moderati collegamenti di carattere 90

tali considerazioni non valgono per l’ampia e magniloquente Alma cortese.

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prevalentemente subordinativo tra i piedi, circoscritte infrazioni della sola pausa di diesis e sostanziale predominio di strofe con comparti ben segmentati. A questo panorama si sottraggono come comprensibili eccezioni le due liriche del secondo libro,91 le quali presentano strofe compatte, l’una (ii, 9) per ragioni intrinseche di povertà di materia versale, l’altra (ii, 28) perché caratterizzata dall’aspirazione ad imitare le due canzoni pastorelle (RVF 125 e 126) e dunque incentivata a supportare con un’adeguata baldanza sintattica l’ambizioso cimento. riservo solo un breve accenno ai testi vagliati per Alamanni. Sulla scia di Bembo e con valori allineati alla media primo cinquecentesca, il poeta delle Opere toscane assottiglia il numero di stanze a comparti indipendenti (P/P/S); ciò va a vantaggio delle strofe, ancora sostanzialmente tradizionali, con fronte compatta (P + P), ma anche di quelle a partizioni legate (P + P + S), usate di preferenza per calarvi una sintassi lunga (con periodi dai 9 ai 16 versi) e caratterizzata dalla subordinazione. Le canzoni di B. tasso sembrano non discostarsi troppo dalla media dei riscontri totali del corpus tranne che per il fatto che la ricorrenza di strofe in cui tutte le partizioni sono interessate da legamento è inaspettatamente bassa (16%) e soprattutto inferiore, anche se di poco, a quella di strofe con legame sbilanciato in avanti, tra seconda parte della fronte e sirma (20%). D’altro canto, la scelta dei tipi strofici da impiegare è assai vicina a quella petrarchesca, fatta eccezione per le sole strofe a comparti indipendenti che anche in questo autore, come in generale in tutto il primo Cinquecento, subiscono una sensibile riduzione, seppure non tanto drastica quanto quella dei valori registrati in media (dal 52% in Petrarca al 39% in tasso, di contro alla media del 29%). Degno di rilievo è, inoltre, il fatto che, stando all’analisi puntuale della segmentazione della sintassi nei comparti soggetti a connessione, spesso B. tasso sente l’esigenza di collocare le pause di scambio tra periodi coordinati in emistichio o all’interno di verso, sia come espediente per ottenere un’intonazione increspata, sia per evitare che il respiro si adagi nelle sedi di rima, sottolineandone le ricorrenze melodiche. Come è stato già in precedenza accennato, il poeta degli Amori guarda con proposito imitativo alla tradizione classica antica di cui apprezza con convinzione ricordo che nel ii libro sono tre le canzoni che si riscontrano, ma solo due sono passibili di un’analisi sulle partizioni, perché la terza rimanente (ii, 16) è a strofe indivise. 91

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particolare la libera effusione in ‘versi sciolti’, versi cioè che sembrano trarre beneficio dall’assenza di costrizioni imposte dai ritorni rimici dal momento che godono della facoltà, geneticamente connessa all’assenza di rimanti, di arrestarsi con l’esaurirsi dello slancio del discorso, senza confini da profilare con la piacevole cantilena degli omoteleuti. ragion per cui B. tasso, non volendo snaturare la canzone o il sonetto, tipici metri moderni, privandoli dell’artificio romanzo dell’alternanza delle rime su cui essi fondano la loro struttura, attacca il problema su un altro versante e propone una marginalizzazione armonica della punta di verso non solo attraverso un energico ricorso agli enjambement, ma anche con la collocazione di significative pause sintagmatiche interne alla trama versale, non esposte sul margine. in Bandello la proporzione tra strofe provviste di almeno un collegamento tra le partizioni interne (P + P oppure P + P + S oppure P + S) e strofe a partizioni giustapposte (P/P/S) è quasi perfettamente equilibrata (51% contro 49%), come accadeva in Petrarca (48% contro 52%), anche se cambiano i bilanciamenti interni ai due sottogruppi perché nell’autore cinquecentesco il tipo (P + P) è l’unico a guadagnare terreno a scapito di tutti gli altri. Si può, pertanto, affermare che nelle strofe con legamento Bandello predilige un’orchestrazione che metta in opposizione o successione dialettica la fronte con la sirma. in controtendenza rispetto alla media del Cinquecento, fa un uso parco (e ancora più ristretto rispetto a quello registrato in RVF) delle stanze con armonica allacciatura di tutte le suddivisioni interne e inoltre non sembra manifestare interesse né per la sintassi lunga, né per asincronie metricosintattiche giocate sul filo di partizione (come del resto comprova anche il numero molto basso di configurazioni P + S). il tessuto della stanza, gestita preferibilmente con fenomeni di parallelismo, è pervaso in genere da una dizione piana e, quando assurge a toni più ispirati, viene movimentato sul versante dell’ordo verborum con l’introduzione di iperbati e anastrofi piuttosto che su quello della frizione metrico-sintattica. non trascurabile nemmeno la quantità di periodi inarcanti, che per altro sono in generale una delle modalità di collegamento più adoperate per una costruzione cataforica della frase e, più in particolare, la tipologia di connessione proporzionalmente maggioritaria che caratterizza le sue strofe (P + P), con conseguente trazione della pacata simmetria della fronte. Agli antipodi rispetto a Bandello si pone senz’altro molza. entram182

bi i poeti, per la diversità delle opzioni estreme, per almeno due valori non risultano rappresentati dagli indicatori medi del Cinquecento. Se da un lato il primo impiega assai limitatamente il legamento tra tutti i comparti ed incrementa di pari passo la giustapposizione, dall’altro lato il secondo manifesta intenti diametralmente opposti perché il suo usus sembra convergere prioritariamente verso il solo tipo (P + P + S), illustrato nel 61% dei casi con il risultato di elidere quasi completamente (4%) quella considerata la dispositio sintattica più tradizionale (P/P/S). Preso atto che in molza le strofe in cui sia i piedi che la sirma sono sintatticamente indipendenti sono percentualmente minoritarie rispetto a qualsiasi altra proporzione emersa in generale e per i singoli autori del corpus, e che, oltre tutto, tra le tipologie strofiche che pongono in relazione gli spazi interni, dominano le stanze (P + P + S) non di necessità percorse da periodi ampi ma quasi esclusivamente contraddistinte da periodi di ridotto raggio posti a cavaliere tra i confini di partizione, ne deriva che questo sia, tra quelli censiti, il lirico che applica con più sistematicità i procedimenti di attrito tra metrica e sintassi al fine di rimodellare flessuosamente e con minori inibizioni il contenitore strofico.92 Anche Ariosto è tutt’altro che estraneo a tale prassi tecnica, come si arguisce dalla proliferazione di strofe con comunicazione tra sottounità (P + P + S) contestuale allo scarso numero di stanze a colata sintattica unica. in tali tipi di orchestrazione l’autore predilige, infatti, la facies ‘inanellata’ e, principalmente, una distribuzione che preveda l’innesto di un primo periodo che deborda di un solo verso nella partizione successiva, di un secondo periodo inarcato con le stesse modalità sulla sirma

92 L’abilità tecnica grazie a cui molza e altri autori del corpus innestano, con effetto di spontaneità, la sintassi poetica forzando i rigidi schemi delle forme liriche tradizionali preannuncia alcuni esiti a cui perverrà nel Cinquecento la scrittura degli sciolti. La principale qualità di questi versi che vogliono pareggiare gli effetti dell’esametro classico (e che è una caratteristica che sembra a tratti acquisita anche nella produzione delle liriche lunghe nel metro della canzone) è il fatto che essi consentono al flusso del discorso di distendersi liberamente senza le costrizioni indotte dalle partizioni strofiche. A tal proposito, cfr. Soldani 1999, 297: «è evidente che nella poesia in sciolti, mancando del tutto la strofa e le sue partizioni interne, le misure sono fornite solo dai versi e dalle “emissioni linguistiche”, insomma dagli enunciati (frasi e periodi sintattici). La cui durata, senza più gli argini dei contenitori metrici, si dilata e si contrae liberamente, variamente intersecandosi con la misura dei versi».

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e, infine, della chiusa eufonica e riequilibrante con sottolineatura della combinatio. A causa della gestione organica, anche se sintatticamente non ampia e totalizzante della strofa, hanno scarso rilievo (4%) i tipi (P + S), che scorporano il primo piede da una dizione legata e, nel suo complesso, liberamente sovrapposta alla griglia delle partizioni metriche. A fungere da contrappeso tradizionale sopravvivono quasi esclusivamente i tipi (P + P) mentre sono numericamente sfrondati fino alla soglia del 13% i tipi (P/P/S). Britonio, invece, intacca sia la compagine delle strofe a comparti giustapposti (10%) che quella a fronti compattate (18%) per incrementare i legamenti più arditi tra le partizioni – anche quelli che interessano solo secondo piede e sirma (16%) – mediante una sintassi non troppo ampia ma molto di frequente scheggiata da paracoordinazioni e movimentata da inarcature. infine, per quanto concerne guidiccioni, le canzoni sono veramente poche e troppo poco estese perché i dati percentuali ricavati dalla classificazione possano assumere un reale rilievo, sia presi in sé e per sé che utilizzati per stabilire confronti con le consuetudini scrittorie degli altri poeti del corpus. Volendo tentare un’analisi sommaria, si dirà, tuttavia, che nelle poche evenienze (sono in tutto 18 le strofe guidiccioniane) si nota una tendenziale predilezione per l’instaurazione di ponti sintattici tra tutte le partizioni (nella metà dei casi) e per la tornitura di periodi a lunga gittata (si segnalano in particolare 3 strofe monoperiodali, 2 riempite da un periodo lungo seguito da un’appendice di due versi e una sola strofa a partizioni ‘inanellate’93 con rimodellamento dei confini di partizione). Vengono, invece, drasticamente marginalizzate non tanto le strofe a partizioni indipendenti, attestate su valori medi rispetto al corpus (sono in numero di 5 e rappresentano il 28% del totale contro il 29% della media cinquecentesca), quanto piuttosto quelle dell’altro tipo non marcato con legamento tra i piedi, per il quale si offre un solo esempio.94 3.2 Proprietà strutturante della rima Le partizioni strofiche, sulle quali ho finora riflettuto esaminando la forza di attrazione cogente che esse sono in grado di propagare ai fini 93 94

Cfr. p. 238. Cfr. Guidiccioni CXXiX, str. i.

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della distribuzione della sintassi, sono definite e individuabili esclusivamente grazie all’aspetto formalizzato dello schema metrico, che esprime un’ordinata alternanza rimica oltre che versale. Per chiarire basti un caso esemplare: che di norma la sirma sia una parte concorrente e scalata in progressione rispetto alla fronte, almeno a partire dalla codificazione petrarchesca, che è quella a cui il Cinquecento si riferisce, si vede dal fatto che nel passaggio dall’una all’altra cambia radicalmente il set di rime. Pertanto, se, dopo averne ammesso la qualità di immediata ed esposta marca struttiva della testura metrica, si stabilisce di assumere la rima a guida in quel percorso che si prefigge di interpretare gli aspetti architettonici della stanza, allora, risulta utile porre al vaglio non solo piedi, fronte, sirma, ma anche altre figure ricorrenti di organizzazione dello schema basate sulla rima, che nel corso della tradizione si istituzionalizzano e si caricano di significato. naturalmente mi riferisco all’uso, raccomandato già da Dante ma poi stabilizzato con valore praticamente normativo da Petrarca, di concludere la strofa con un distico a rima baciata (la combinatio) e di riprendere la medesima rima dell’ultimo verso della fronte nel primo della sirma (la cosiddetta chiave o concatenatio pulchra). riguardo a queste figure metriche è possibile individuare negli schemi petrarcheschi persino una sorta di progressiva specializzazione che sembra essere stata percepita e di conseguenza accolta anche dai poeti primo cinquecenteschi. intendo dire che se, ad esempio, prendiamo in esame la figura metrica della combinatio, notiamo che in Petrarca quasi tutte le canzoni ne sono provviste: più precisamente, la gran parte delle canzoni dei Fragmenta (18 su 29) è conclusa da una coppia di endecasillabi baciati (tipo XX), la sola 126 da un settenario ed un endecasillabo a rima baciata (xX), la sola 125 da una coppia di settenari a rima baciata (xx).95 Una stretta compagine di testi presenta, invece, una chiusa rallentata, cioè arricchita dall’interposizione di un settenario tra due endecasillabi a rima baciata (XyX) e che si potrebbe definire come ‘combinatio slabbrata’. non sarà poi un caso che aderiscano a questo prototipo di explicit tutte le canzoni di argomento non amoroso, ad esclusione della 53 (quindi 28, 119, 128, 366),96 componimenti che, evidentemente, per tono ed argomento Si noti come l’alta densità di settenari nelle due canzoni boscherecce intacca anche il modulo della combinatio. 96 Ha una chiusa su concatenatio ‘slabbrata’ anche la canzone 50, unica tra le amorose. 95

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esigevano un andamento piuttosto sostenuto e lontano da una conclusione troppo cantabile.97 Se vagliamo il corpus di testi primo-cinquecenteschi troviamo un riscontro sostanziale di questa situazione, anche negli schemi inediti che non sono prelevati dai Fragmenta. nel formulare la testura rimica e versale i lirici rinascimentali hanno l’accortezza di suggellare praticamente sempre98 la strofa mediante una coppia di rime baciate a stretto contatto o attraverso una combinatio slabbrata, con una predominanza della soluzione del distico omometrico (68%), ma con rilevante presenza anche del modulo settenario + endecasillabo (16%), a testimonianza del successo e della risonanza dello schema di RVF 126. Analogo discorso si potrebbe sostenere per il verso di concatenatio, che risulta formalizzato come elemento pressoché fisso degli schemi del Canzoniere, quasi sempre endecasillabico in testi a tema non erotico (RVF 28, 53, 119, 366, ma 128 ha chiave settenaria), settenario o endecasillabico in proporzioni paragonabili (13 contro 9)99 in tutte le canzoni amorose, assente solo in due casi, RVF 29 e 105, peraltro già segnalati per l’assenza della combinatio. in queste stesse misure la chiave viene fedelmente riprodotta100 Ciò conferma il rigetto di Petrarca per regole troppo stringenti. 97 Ex silentio si deduce che la combinatio è del tutto assente solo in quattro canzoni petrarchesche, da un lato in RVF 29, a coblas unissonans, dall’altro in RVF 105, la canzone frottola, e in RVF 206, a coblas doblas unissonanti con retrogradatio, vale a dire testi che si segnalano già dopo un’osservazione sommaria per l’eccentricità metrica all’interno della media del Canzoniere. È priva di combinatio anche la ‘diversa e nova’ canzone dei prodigi RVF 135, dove la rima del penultimo verso è ripresa nell’ultimo solo come rima interna secondo lo schema F(f5)A. 98 mancano di qualsiasi tipo di combinatio la canzone in versi sciolti di Trissino (LXXVii), le canzoni a coblas unissonans di Bembo (Asolani ii, 16), Trissino (LXXV), Britonio (i, 153), le canzoni esemplate su RVF 135 (Molza iV) o su RVF 105 (Britonio ii, 396) e una canzone di Bembo a stanze indivise su schema inedito (Rime XXVi). 99 Bozzola 2003, 199 nota che in Petrarca si trova «frequente apertura settenaria della sirma (10 su 25)», per il fatto che il settenario acquista in densità ritmica e attenua i suoi connotati di levitas. il totale di 25 è ricavato dallo studio di Pelosi 1990 che esclude dal computo delle canzoni le due che sono prive del verso di chiave e inoltre considera una sola volta la testura delle tre cantilenae oculorum. Se si dà conto proporzionalmente della quantità delle realizzazioni piuttosto che dello schema in sé, il dato delle chiavi settenarie si distribuisce con una frequenza pari a 10 su 29. 100 Sono prive del verso di concatenatio, a parte le canzoni a stanza indivisa (Bembo,

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anche nei testi del corpus, benché Sannazaro, Alamanni e il secondo B. tasso prediligano di gran lunga la soluzione settenaria per le canzoni amorose. Ciò considerato, viene spontaneo affermare che, nel momento in cui tali consuetudini morfologiche vengono rispettate senza eccezioni di rilievo nella formulazione degli schemi cinquecenteschi allo stesso modo in cui non si prescinde dalla suddivisione in piedi e sirma, tutto concorre a suggerire il sospetto che esse si rivestano, nella coscienza o anche solo nella pratica degli autori, di un valore costruttivo nell’economia della stanza. Così, come la discrepanza o la dialettizzazione di fronte e sirma si inferisce dalla diversità delle rime o dalla contrapposizione frontale della misura dei comparti, via via tendenzialmente simmetrica, allo stesso modo, ho ritenuto legittimo ricercare un eventuale significato di “ponte” nel verso di concatenatio, unico che assicura una continuità armonica tra prima e seconda parte della stanza101 ed a valutare le potenzialità di clausola ad effetto del distico di combinatio.102 3.2.1 La concatenatio Anche se le dimensioni di fronte e sirma non fossero pressappoco equivalenti – come invece nelle canzoni di questo corpus accade di norma – al verso di concatenatio sarebbe comunque attribuito il ruolo dirimente Rime XXVi) e a coblas unissonans (Trissino, LXXV; Bembo, Asolani ii, 16), la ii, 9 degli Asolani, la Lii delle Rime di Bembo, la Vii di molza. Un caso a parte costituisce Britonio, la cui metrica non sempre regolare quando tralascia l’assunzione di schemi petrarcheschi è stata esaminata anche in precedenza (cfr. qui alle pp. 74-76). 101 in un certo senso si potrebbe dire che la rima di concatenatio, presente in maniera quasi obbligatoria nelle stanze di canzone, in quanto ripercussione melodica al bordo di fronte e sirma, viene a rivestire istituzionalmente il ruolo di connettore o «unificatore centrale» di tipo fonico che nei sonetti a fronte coesa è stato in più di un caso individuato in lessemi, rime o strutture dislocate tra v. 8 e v. 9. (estendo analogicamente i termini di una questione studiata da Tonelli 1999, 59-73). 102 Chiarisco fin da subito che negli esempi proposti nei paragrafi seguenti, non essendo sempre necessario riportare intere strofe per illustrare i fenomeni di cui intendo occuparmi, riprodurrò solo le parti significative della stanza avendo la cura di marcare con lo stile corsivo il verso di concatenatio o quelli di combinatio per permettere al lettore di collocare visivamente i suoi punti di riferimento.

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di segnalare la bipartizione della stanza e di connetterne o allontanarne gli elementi posti nelle due sezioni che emergono dalla suddivisione. Scorrendo e annotando le liriche dei vari autori si trova che a tale osservazione teorica corrispondono dei riscontri pratici facilmente individuabili. in più di un’occasione il verso di chiave si segnala come baricentro sintattico della strofe o del periodo focale: tutto questo infinito tratto, ch’è fonte in noi di vital lume, non ha d’oprar costume cosa che ’l mio bel sol non rappresenti. ecco mentre gli ardenti fulmini crïa di sottil vapore, onde poi con furore incenda or questo et or quell’altro lito, rassembra il mio gradito tesor, quando talor l’audaci piume con le due di dolor turbate stelle al desir arde e svelle, acciò ch’inanzi tempo io mi consume. Così il pensier mio fulminato giace, che dianzi pace - era a sperar sì ardito. (molza, iV, str. i, vv. 1-15)

e se per questa vita alma terrena seppe alcun mai trovar la vera strada, ne la qual dritto a quel bel fin si vada fra sterpi e bronchi, onde la selva è piena, fu l’alma di costei, che per serena fortuna non tardò dal suo viaggio, né si rivolse mai, per nullo oltraggio che le facesse. et altre cose molte meco ragiona, ch’io non so ritrarle, et pur vuol ch’io ne parle. Però, Canzon, con queste c’hai raccolte prima n’andrai, e s’io ti veggio grata sarai da due sorelle accompagnata. (trissino, XXXi, str. vi, vv. 78-90)

tra i non pochi esempi,103 ho scelto di riportare per prima una strofa di molza, perché sufficientemente chiara per delineare gli estremi del fenomeno. All’interno di essa, più precisamente tra il prologo del primo piede e la chiusa eufonica in distico baciato, il poeta orchestra un periodo di 9 versi, il cui quinto centrale è stanziato proprio a cavallo di fronte e sirma. Dalla sede di concatenatio, pertanto, si dirama e si bilancia l’arco sintattico, sospeso tra un’anticipazione prolettica temporale (vv. 5-6 «mentre…») a cui si aggancia una pseudo relativa (vv. 7-8 «onde…») e la coda completiva corrispondente di pari passo perché ancora una volta temporale (vv. 10-12 «quando…») con subordinazione di secondo graCfr. tra i più rilevanti anche Trissino, LiX, str. i; Sannazaro, 2, LiX, str. i, 2, LXXV, str. iii, 2 LXXXiii, str. iv; Alamanni, i, 209, str. v; Bandello CLXXXiii, str. iv.

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do a carattere finale («acciò ché» v. 13). Una distribuzione per certi aspetti simile si ravvisa anche nella stanza conclusiva della canzone XXXi di trissino. Qui, la chiave endecasillabica sostiene la strofe e ne assicura l’equilibrio di assetto interno perché, contenendo il nucleo settenario della frase principale (v. 82 «fu l’alma di costei»), da un lato regge il peso dell’apodosi distesa sui due distici della fronte (vv. 78-81) e dall’altro permette al periodo un’ulteriore espansione relativa inarcata (vv. 82-83 «serena/ fortuna»), di dimensioni praticamente equivalenti (vv. 82-85). Allo stesso modo, perpetuando il ritmo pacato e simmetrico del movimento, la conclusione della stanza è su due enunciati ciascuno di tre versi, l’uno (vv. 85-87) con ruolo di scorciatura sintetica e risolutiva di un discorso – come quello di lode dell’amata – potenzialmente illimitato, l’altro (vv. 88-90) con funzione analoga, ma strutturalmente istituzionalizzata, di congedo. in Bandello, poi, l’attribuire alla chiave il ruolo di radice attorno a cui il periodo si ramifica con espansioni equivalenti verso la fronte e verso la sirma è una pratica consolidata e, in particolar modo, relativa alla gestione di rimodellamenti metrico-sintattici ascrivibili al tipo (P + S), che si presentano piuttosto di rado nell’autore settentrionale. Chi l’ode, e non le resta servo eterno, uomo non è, ché quel soave suono fermar i fiumi può, far gir i monti. e chi dal ciel acquista tanto dono, che dinanzi le stia l’estate e ’l verno, e gusti le parole e i motti pronti dirà che d’eloquenza tutti i fonti sorgono in questa, così freschi e chiari, che senza par faconda ella si trova. indi forza è che l’uom allor si mova, e mille cose degne quivi impari; dolci parlari e cari, che l’uom dal ben alzate a far il meglio e sète delle grazie il vero speglio. (Bandello i, str. viii, vv. 99-112)

ella cantava allora con tanta maestate, che mortal lingua nol potrìa scoprire. e ben che mostri ognora nova divinitate, che tutto ’l mondo fa di sé gioire, faceva allor uscire tante dolcezze e tali, e non so che da quelli coralli schietti e belli, vago uscio a vere perle orïentali, ch’ogni uom di lei dicea: donna non è, ma Dea. (Bandello XCV, str. iv, vv. 40-52)

nella stanza tratta dalla canzone i, il secondo piede riprende anaforicamente una struttura inaugurata nel primo e la espande, anche mediante l’uso 189

di dittologie (in antinomia «l’estate e ’l verno» al v. 103, in sinonimia «le parole e i motti» al v. 104), tanto da permettere l’allineamento del verbo principale con il centro dell’unità strofica e la conclusione del periodo con la necessaria appendice completiva richiesta dal verbum dicendi e corredata, per simmetria rispetto alla cadenza binaria della prima parte, con coppia sindetica di aggettivi in clausola di verso («freschi e chiari» al v. 106). L’altro esempio, costituito da una strofe più agile perché breve e prevalentemente di tessuto settenario, mostra una soluzione di più ampio respiro, nella quale la clavis è centro solo perché su di essa poggia la frase matrice di un periodo che, invece, scivola fino al fondo della stanza con un’unica campata, se si esclude l’ultimo verso, collocato su un diverso piano enunciativo (v. 65). Se quanto detto finora vale per i poeti primo-cinquecenteschi, in Petrarca la situazione muta. non sono troppo frequenti i casi in cui alla chiave sia ritagliato il ruolo di centro del periodo, di spazio, in equilibrio tra fronte e sirma, adatto a collocare il verbo della frase principale. Se ne possono, tuttavia, osservare almeno due significativi esempi nelle canzoni RVF 127 (str. ii)104 e 73 (str. vi). Lasso, che disiando vo quel ch’esser non puote in alcun modo, et vivo del desir fuor di speranza: solamente quel nodo ch’Amor cerconda a la mia lingua quando l’umana vista il troppo lume avanza, fosse disciolto, i’ prenderei baldanza di dir parole in quel punto sì nove che farian lagrimar chi le ’ntendesse; ma le ferite impresse volgon per forza il cor piagato altrove, ond’io divento smorto, e ’l sangue si nasconde, i’ non so dove, né rimango qual era; et sonmi accorto che questo è ’l colpo di che Amor m’à morto. (RVF 73, str. vi, vv. 76-90)

La strofa è riportata qui alle pp.141-142 ed è simile al caso commentato non solo per la suddivisione in blocchi periodali di moderate dimensioni ma anche per il fatto che la chiave endecasillabica è il punto di appoggio della frase matrice del periodo, espanso poi ancora per un verso, e che la struttura sintattica che permette la tensione tra fronte e sirma è, di nuovo, quella ipotetica. 104

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La stanza, a struttura soggiacente 3 + 3 + 9, è organizzata in un certo senso ‘a cornice’ e il poeta ha l’accortezza di lasciare isolato tanto il primo piede quanto la coda della strofa, seppure su due intonazioni di segno diverso, una diretta ed emozionale, l’altra mediata dal ragionamento e dalla presa di consapevolezza. nel cuore si installa, drammatico nella sua contraffattualità, un periodo di moderate dimensioni che aggancia fronte e sirma costruendo espansioni attorno al verso di chiave, che ospita non solo il verbo principale, ma anche il verbo della subordinata ipotetica in prolessi. Da notare che tutti e tre i segmenti che scandiscono i blocchi logici sono inaugurati da un settenario (v. 76, v. 79, v. 85) e conclusi da un endecasillabo (v. 78, v. 84, v. 90). Altrove, la concatenatio funge da centro semantico focale all’interno di una sintassi lunga sbilanciata su procedimenti prolettici, come si osserva nella str. ii di RVF 331: Come a corrier tra via, se ’l cibo manca, conven per forza rallentare il corso, scemando la vertù che ’l fea gir presto, così, mancando a la mia vita stanca quel caro nutrimento in che di morso die’ chi ’l mondo fa nudo e ’l mio cor mesto, il dolce acerbo, e ’l bel piacer molesto mi si fa d’ora in hora, onde ’l camino sì breve non fornir spero et pavento. nebbia o polvere al vento, fuggo per più non esser pellegrino: et così vada, s’è pur mio destino. (RVF 331, str. ii, vv. 13-24)

il verbo principale dell’ampio giro periodale, che si espande per nove versi a partire dall’esordio della stanza, compare, dopo una sostenuta dilazione della pausa intonativa, solo nel secondo verso della sirma (v. 20), mentre nel verso di chiave (v. 19) ne sono collocati i soggetti e i rispettivi complementi predicativi, termini antitetici posti a stretto contatto e nella posizione di svolta della strofa a significare iconicamente che il cuore della poesia è il sentimento contraddittorio e sfuggente di contrasto. L’elemento saliente della frase matrice, attesa dall’inizio 191

della stanza grazie alla costruzione di tipo correlativo e ritardata non solo dalla prolessi della comparativa ma anche mediante l’interposizione di subordinate in dipendenza dalla causale implicita al gerundio (v. 16 «mancando»), è rilevato dal posizionamento in sede strutturalmente marcata, la quale indica per sua natura una svolta e dunque una componente di enfasi. tuttavia, molto più spesso nelle strofe di canzone dei Fragmenta si ha l’impressione che il debordamento della sintassi oltre il limite di diesis non sia un espediente per trasmettere l’idea di disposizione programmatica, e quindi preordinatamente aperta a soggiacere ad un ordine simmetrico o proporzionale, ma piuttosto un’emergenza che trabocca in espansioni inattese, come in effetti risulta dalla predominanza di collegamenti fronte-sirma determinati da inarcature o da coordinazioni tra subordinate o tra sintagmi.105 esempi petrarcheschi emblematici del trattamento teso del verso di chiave sono ad la str. v di RVF 135, dove la concatenatio settenaria è suddivisa in due tronconi (v. 69 «arse tutta: et martiro»), il primo dei quali porta il necessario completamento al periodo precedente mentre il secondo rilancia una coordinata alla principale,106 oppure casi come RVF 127, str. vii e RVF 126, str. iii, per i quali si può parlare di una sorta di ‘cadenza d’inganno’ che fa perno sulla chiave. tempo verrà anchor forse ch’a l’usato soggiorno torni la fera bella et mansueta, et là ’v’ella mi scorse nel benedetto giorno

Ad una ad una annoverar le stelle, e ’n picciol vetro chiuder tutte l’acque, forse credea, quando in sì poca carta novo penser di ricontar mi nacque in quante parti il fior de l’altre belle,

mentre in Petrarca i casi di collegamento sintattico tra fronte e sirma sono relativamente contenuti e, tra questi, i più rimarchevoli sono determinati da procedimenti anaforici di inarcatura, nei cinquecenteschi il ridisegnamento sintattico del confine metrico di diesis è, in generale, assai più esperito dai poeti. L’aumento della tecnica della sintassi allungata su più partizioni porta conseguentemente ad un depotenziamento dello stilema stesso che non sempre, proprio per motivi di frequenza d’impiego, sortisce effetti di ‘rottura’ analoghi a quelli suscitati nelle poche occorrenze petrarchesche. 106 Cfr. il testo completo della strofa qui alle p.157. 105

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volga la vista disiosa et lieta, cercandomi: et, o pieta!, già terra infra le pietre vedendo, Amor l’inspiri in guisa che sospiri sì dolcemente che mercé m’impetre, et faccia forza al cielo, asciugandosi gli occhi col bel velo. (RVF 126, str. iii, vv. 27-39)

stando in se stessa, à la sua luce sparta a ciò che mai da lei non mi diparta: né farò io; et se pur talor fuggo, in cielo e ’n terra m’à rachiuso i passi, perch’agli occhi miei lassi sempre è presente, ond’io tutto mi struggo. et così meco stassi, ch’altra non veggio mai, né veder bramo, né ’l nome d’altra ne’ sospir miei chiamo. (RVF 127, str. vii, vv. 85-98)

entrambe le strofe sono costruite in modo da procurare l’impressione, indotta non solo dall’autosufficienza del periodo presentato nei piedi, ma anche supportata dall’interiorizzazione della statutaria separazione tra fronte e sirma, che la campata sintattica si arresti al sesto verso. tale aspettativa è infranta in tutti e due i casi da un prolungamento anaforico del discorso, che genera un’improvvisa accelerazione là dove ci si stava per adagiare su un’intonazione discendente e procura subito dopo un arresto, ovvero un indugio che contravviene al repentino rilancio (cfr. l’esclamazione «o pieta» in 126 e l’arresto definitivo del periodo al termine della chiave in 127). in RVF 126 la parola-frase «cercandomi», pur essendo subordinata aggiunta in coda, è tutt’altro che accessoria perché anzi manifesta i meccanismi psichici della rimozione per cui l’elemento problematico attorno a cui si rielabora un discorso patisce dapprima un tentativo di marginalizzazione per poi riemergere inopinatamente. Al poeta, invero, non preme di augurarsi un ritorno di Laura a Valchiusa a meno che esso non sia connesso ad una radicale riformulazione dei rapporti e ad un’inversione della dinamica vittima-carnefice che veda non più il poeta ma la donna soffrire ed essere soggetta ad un amato lontano e irraggiungibile. L’esempio di RVF 127 è meno marcato, ma improntato ai medesimi procedimenti. La concatenatio è completamento anaforico della fronte che, da un contesto che sarebbe stato defilato se non fosse caduto in coincidenza con la frattura strofica, denuncia il centro della questione, ossia il potenziale di legame di cui godono le immagini che Laura ha disseminato nel paesaggio e che il poeta si è illuso di poter sciorinare. A dimostrazione di ciò è proprio la dichiarazione di fedeltà che apre il successivo sviluppo e fa volgere al termine la stanza con movimento argomentativo circolare rispetto all’apertura della canzone (cfr. vv. 12-14 «Dico che, perch’io miri/ mille cose diverse attento e fiso,/ sol una veggio, e ’l

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suo bel viso» e i vv. 97-98 sopra riportati).107 nell’inclusione della chiave nell’organismo sintattico della fronte non è, infine, da escludere l’effetto di addensamento fonico procurato sui margini del verso. non solo la rima ricca (vv. 90-91 «sparta»:«diparta») di inizio sirma riprende e sottolinea musicalmente l’ultimo verso del piede, ma anche il valore semantico dei rimanti suggerisce l’opposta e complementare azione di dispersione e di aggregazione a cui si arrende l’io lirico, soggetto al sentimento amoroso. in diverse strofe cinquecentesche108 è appunto l’identità di rima a cooperare a che il verso di concatenatio sia attratto nella sintassi della fronte quale unico ed esile lembo che produce continuità armonica con la sirma: Da l’altra parte un suo ben leve sdegno di sì duri pensier’ mi copre e ’ngombra, che, se durasse, poca polve et ombra faria di me, né poria umano ingegno trovar al viver mio scampo o ritegno: e sel trovasse, non si prova e sente pena giù nel dolente cerchio di Stige e ’n quello eterno foco, che, posta col mio mal, non fosse un gioco.109 (Bembo, Rime, LXViii, str. ii, vv. 10-18)

Simili fattispecie sono al contempo interessanti e controverse da vagliare poiché sembrano giocare sul doppio filo della violazione di partizione, con sensibile sfasatura metrico-sintattica, e della concessione ad una cadenza supportata dallo schema. La diversa ripartizione del materiale versale, sottolineata anche dalla ripresa consequenziale del poliptoto sui margini della nuova faglia (vv. 1415 «né poria…/ trovar», v. 15 «e sel trovasse»), consente, oltre che di riportare a contatto la rima B, anche di affrancare i due coesi distici finali a rima baciata (per

Si noti, per altro, il fatto che l’ultima stanza riprende nella parte finale oltre che lo stesso tema, anche lo stesso profilo strutturale, provvedendo ai versi un’organizzazione che stacca non la combinatio ma più propriamente un terzetto inaugurato dal settenario, con valorizzazione argomentativa-conclusiva del verso breve (cfr. Bozzola 2003, 210-213). 108 Cfr. anche Sannazaro, 2, XLi, str. iv; B. Tasso, 1, XXii, str. ii, 2, XXXii, str. vii; Molza, V, str. vi; Guidiccioni, CXXiX, str. ii. 109 La strofe bembiana è qui riportata nella sua interezza. 107

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altro agganciati tramite l’anello dell’enjambement ai vv. 16-17 «dolente/ cerchio di Stige»). ma osserviamo ora l’attacco di queste due stanze: Poiché quell’harmonia giù nel mio cuor discese, ch’uscio fra ’l mezzo di coralli e perle, dentr’a la anima mia così forte s’apprese, che le note di lei mi par vederle, non che ’n l’orecchie haverle. (trissino, Xiii, str. iv, vv. 40-46)

Però che da quel dì, ch’io feci imprima seggio a voi nel mio cor, altro che gioia tutto questo mio viver non è stato; et se per lunghe prove il ver s’estima, quantunque ch’io mi viva o ch’io mi moia, non spero d’esser mai se non beato, sì fermo è ’l piè del mio felice stato. (Bembo, Asolani, iii, 9, str. ii, vv. 16-22)

negli esempi, affiancati qui sopra a motivo dei risultati affini cui pervengono, la contiguità sintattica tra il secondo piede e la clavis è tanto stretta quanto inopinata o meglio, secondo una definizione più tecnica, “anaforica”, poiché il periodo iniziato nella fronte (fin dal principio per trissino, dal secondo piede per Bembo) disporrebbe di una sua plausibile compiutezza anche senza il completamento del settimo verso. Per la qual cosa, la rima di concatenamento che inaugura la sirma è trattata alla stregua di un’appendice eufonica, come fosse una nota da ribattere in coda per chiudere in modo risentito l’enunciato. nel complesso, gli ultimi due versi del periodo (in trissino, vv. 4546 e in Bembo, vv. 21-22) risultano pertanto bilanciati dal punto di vista intonativo come se costituissero un distico, una sottounità metrica individuabile all’interno di una stessa partizione e non già un prolungamento ardito tra due sezioni strofiche ben distinte. Per altro qui è assente la componente di patetismo che era stata osservata negli esempi petrarcheschi e viene fatta più larga concessione ad effetti di musicalità (aspetto che in trissino sembra inoltre confermato anche sul piano semantico). Che l’appartenenza della concatenatio al set rimico della fronte in contrapposizione a quello della sirma possa giungere al punto di condizionare la disposizione della sintassi della stanza si può valutare perspicuamente da questo esempio asolano di Bembo: già sai tu ben, sì come facean qui vago il cielo de le due chiare stelle i santi ardori,

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et le dorate chiome scoperte dal bel velo, spargendo di lontan soavi odori empiean l’herba di fiori; et sai, come al suo canto correano inverso ’l fonte l’acque nel fiume, e ’l monte spogliar del bosco intorno si vedea, ch’ad ascoltar scendea, et le fere seguir dietro et da canto, et gli augelletti inermi sovra in su l’ali star attenti et fermi. (Bembo, Asolani, ii, 28, str. vii, vv. 91-105)

tramite un’anafora esposta (v. 91 «già sai tu ben, sì come» e v. 98 «e sai, come…») che sottolinea il secondo verso della sirma lo spazio versale è riorganizzato in due sezioni di misura praticamente equivalente, che sembrano quasi generate sulla scia del carattere di peculiare omogeneità fonica che ostentano rispettivamente nei margini esterni di punta di verso. mentre la prima parte della strofa, che abbraccia i versi della fronte e la chiave (concorde appunto alla rima C), è accorpata dal ricorso a rime vocaliche (ome, eLo, ori), la seconda parte, che affonda nel terreno della sirma, cambia sensibilmente registro e introduce, accanto alla iconica vibrazione della rima in iato (eA), deboli rime consonantiche (Anto, onte, ermi), rafforzando così l’inusitata linea di demarcazione non coincidente con la frattura di diesis. Anche se la situazione appare ben più sfumata, qualcosa di simile, come precedente petrarchesco, si può riscontrare nella vi strofa di RVF 23. Ben mi credea dinanzi agli occhi suoi d’indegno far così di mercé degno, et questa spene m’avea fatto ardito: ma talora humiltà spegne disdegno, talor l’enfiamma; et ciò sepp’io da poi, lunga stagion di tenebre vestito: ch’a quei preghi il mio lume era sparito. ed io non ritrovando intorno intorno ombra di lei, né pur de’ suoi piedi orma,

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come huom che tra via dorma, gittaimi stancho sovra l’erba un giorno. ivi accusando il fugitivo raggio, a le lagrime triste allargai ’l freno… (RVF 23, str. vi, vv. 101-113)

Ciò che fa risaltare l’attrazione della concatenatio – posta per altro nell’ibrido statuto sintattico della paracoordinazione – verso il territorio della fronte è la divaricazione tra la sostanza fonica delle rime dei piedi e quella delle prime rime della sirma. Questa deriva non tanto da un mutamento radicale dei tipi di rima impiegati nelle due sezioni della stanza, quanto dalla compattezza armonica generata nel giro dei vv. 108-111, che fanno blocco a sé così da costituire un cuneo che demarca una divisione sensibile. Si noti l’omogeneità dei quattro rimanti collocati tra il secondo e quinto verso della sirma: «intorno», «ormA», «dormA», «giorno». Le due serie di rime consonatiche assuonano nella vocale tonica, e si appuntano sul nesso liquida + nasale; i rimanti echeggiano, poi, a ritroso anche all’interno di verso, aumentando il loro potenziale armonico, grazie a svariati espedienti come la semplice reduplicatio (v. 108 «intorno intorno»), una sorta di paronomasia in epanadiplosi (v. 109 «ombrA», «ormA») e, più in generale, dalla disseminazione fonica di sillabe implicate e provviste di liquida (v. 108 «ritrovando», v. 110 «tra», v. 111 «soVra l’erBa»). in un caso simile non si può certo parlare di dialettizzazione tra fronte e sirma, in primo luogo perché quest’ultima è piuttosto lunga (14 versi) e comprensibilmente per tal motivo articolata in molteplici nuclei di senso, e in secondo luogo perché la fronte non è provvista di un’omogeneità fonica pari a quella evidenziata nei versi commentati e viene in un certo senso sbalzata dal resto della stanza ‘per sottrazione’, ossia dopo aver individuato il nucleo coeso che segue il verso di chiave. Varrà la pena di osservare, in margine e a conferma di quanto detto sinora, seppure per contrasto, una strofe britoniana: mentre l’ardor fu lieve per lieve il tacer tenni. Hor che più cresce il più tacer m’è noia perché come al sol neve manco, e mai non sostenni quel ch’or sostegno, fuor di spene e gioia.

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giusto non è ch’io moia celando ognihor mia morte. e se non voi che’l dica ov’è l’empia nemica di mia tranquilla pace e di tua corte almanco hor tu consenti ch’i’ sol qui mi lamenti. (Britonio, i, 68, str. ii, vv. 14-26)

Proprio perché il poeta è consapevole del potenziale che, per attrazione rimica, la fronte esercita sulla concatenatio, quando voglia mantenere, esaltando uno schema con insite proprietà di rispecchiamento simmetrico, una suddivisione della stanza fedele agli statuti metrici, si prodigherà ad allontanare i rimanti posti sul confine di diesis sfruttando una forza semantica centrifuga che li ancori rispettivamente ai due orizzonti di originaria appartenenza, la fronte e la sirma. È così che la scelta della figura etimologica tra le parole rima dei primi due versi della sirma (vv. 20-21 «moia»:«morte»), li rende intimamente solidali, specie se si considera che tutta la prima parte della stanza è giocata su ripetizioni binarie (su «lieve» ai vv. 14-15, su «tacer» ai vv. 15, 16), su poliptoti (vv. 18-19 «… mai non sostenni/ quel ch’or sostengo») e su strutture correlate a due cola (vv. 14-15 e v. 16). Quanto invece al rimante dell’ultimo verso del secondo piede (v. 19 «gioia»), questo è calamitato verso il suo omologo del primo piede (v. 16 «noia»), sia per ragioni di apparente antinomia (smentita dalla considerazione dell’intero sintagma «fuor di spene e gioia»), sia per l’orchestrazione sintattica, che prevede una spartizione non troppo tradizionale della fronte110 sul tipo 2 + 4. La quale si ripete nella sirma, con tendenziale evocazione di simmetria (2 + 5) ed effetto di deciso rimarco dei confini di partizone. oltre che dal radicale cambiamento del set rimico della sirma, l’inclusione della chiave nella fronte è talvolta autorizzata dalla presenza di procedimenti anaforici sfasati, ossia simmetrie innestate non sul primo verso della fronte e sul primo della sirma, al fine di riprendere parallelisticamente le due sezioni della strofa, ma ad inizio strofa e poi, con provocatorio Della prevalente strutturazione monoperiodale delle fronti in cui si genera un legamento tra piede e piede si è già detto qui a p. 118 e ss. 110

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slittamento, nel verso immediatamente successivo alla concatenatio. Spesso mi risoviene de l’harmonia gentile, che più volte arrestar fe’ l’aure et l’acque et me di larga spene di condir dolce stile, poi ch’ei fu tal ch’indi ’l bel suon ne nacque che sì a la gente piacque; soviemmi anchor di quelle divine gratie tante non viste poscia od ante cosparte in lei come su in ciel le stelle, onde vòlto a lagnarmi disusata pietà sento destarmi. (guidiccioni, CXVi, str. iv, vv. 40-52)

nella ripartizione del volume dei versi in due blocchi costituiti da fronte + clavis e sirma funzionano evidentemente molto di più i fattori sintattici (giustapposizione di due periodi) e retorici (ripresa con variatio di un verbo rievocativo, v. 40 «mi risoviene», v. 47 «soviemmi») che quelli di organizzazione metrica preordinata (testura dello schema). L’effetto, per altro, è analogo a quello esaminato prima per la strofa di Bembo, Asolani ii, 28 (p. 127). in situazioni di connessione sintattica tra fronte e sirma il verso di chiave assume talvolta un’intonazione diametralmente opposta rispetto a quanto visto sopra e, da congeniale completamento eufonico di un periodo sospeso che presagisce l’opportunità di un arresto se non al termine del secondo piede, almeno subito dopo il passaggio del segnale di stacco strofico mediano e in continuità di rima, può diventare uno strumento di ulteriore differimento, un inserto che ritarda la comparsa della pausa intonativa:111 Poscia che ’l mio destin fallace et empio ne i dolci lumi de l’altrui pietade

111 Cfr. anche i casi, meno suggestivi ma consentanei a questo, in Trissino, Xiii, str. iv, XXXi, str.v; Bembo, Asolani, ii, 28, str. ii; Sannazaro, 1, XXV, str. v, 2, LXXXiii, str. v; B. Tasso, 2, XXVii str. ii; Alamanni, 2.90, str. vi.

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le mie speranze acerbamente ha spento, di pena in pena et d’uno in altro scempio menando i giorni, et per aspre contrade morte chiamando a passo infermo et lento nebbia et polvere al vento son fatto et sotto ’l sol falda di neve; (Bembo, Asolani, i, 32, str. i, vv. 1-8)

Qui, l’inversione, che interessa i costituenti del predicato verbale su cui si sostiene la frase principale, fa del breve settenario di concatenatio un ponte armonico che alimenta l’attesa di un largo prosieguo e che quindi, per converso, acuisce l’impressione di brusca interruzione dopo trisillabo, destinata ad essere moderata solo in parte dal breve riflusso della coda in epifrasi (v. 8 «et sotto ’l sol falda di neve») e dalla persistenza dell’allitterazione del timbro sibilante. Così accade, talvolta, anche in Petrarca: Quando il soave mio fido conforto per dar riposo a la mia vita stanca ponsi del letto in su la sponda manca con quel suo dolce ragionare accorto, tutto di pieta et di paura smorto dico: «onde vien’ tu ora, o felice alma?» Un ramoscel di palma et un di lauro trae del suo bel seno, et dice: «Dal sereno ciel empireo et di quelle sante parti mi mossi et vengo sol per consolarti». (RVF 359, str. i, vv. 1-11)

tra i pochi casi ascrivibili alla fattispecie sopra proposta figura questa strofe, la cui struttura soggiacente (2 + 2 + 7) incoraggia certo un prolungamento del periodo ben al di là della fronte, soprattutto se esso è incorniciato da espansioni circostanziali e da rigoglio ipotattico. Come nel caso osservato precedentemente, che tuttavia era calato in uno spazio strofico meno angusto, il verso di chiave non costituisce la chiusa eufonica del periodo ma causa una repentina riformulazione delle attese del lettore ed inscena una dilazione che trasferisce il punto di flessione discendente della voce al verso successivo, qui con la comparsa del verbum dicendi. La maestria del Petrarca si dimostra nel 200

fatto che simile trattamento del margine di diesis, con il rapido passaggio da subordinata a sovraordinata e annessa variazione del soggetto, porta a mettere in contatto e, per una sorta di corto-circuito, a sbalzare per contrasto, in un luogo intonativamente rilevato in termini di dizione poetica per i motivi già detti, l’etopea dei due personaggi coinvolti nel dialogo, l’uno presentato nel segno della pacificante razionalità (v. 4 «dolce ragionar accorto»), l’altro in preda a pulsioni angosciose (v. 5 «tutto di pietà e di paura smorto»). generalizzando la descrizione di questa categoria, si potrebbe affermare che, per quanto emerge dal corpus cinquecentesco, si tratta di casi in cui, sulla faglia più ampia e decisa che individua sottounità nella strofe, vale a dire attorno al limite di diesis, si stanziano, combinandosi tra loro, inarcature e accidenti che perturbano l’ordine normale degli elementi frastici e disorientano l’intonazione, portata a non collimare né con i termini di partizione (e perciò ad arrestarsi alla fine della fronte), né con l’indicazione della rima (cioè a concludere l’enunciato con un distico baciato che si plachi appunto sulla ripercussione della concatenatio): Poi, perché mai non vegna, ch’i’ abbia intera allegrezza, interrompe il timor tanta mia gioia; ma se ’l mio cor non sdegna vostra nobil altezza, né sì oscura fortuna unqua l’annoia; forse, innanzi ch’io moia, vedrò ancor voi dolce pietate aprire, la qual mi porga ardire a pregar sol, poiché ’l desir mi sprona, che non aggiate a schivo, se di voi parlo o scrivo per quel, che dentro amor meco ragiona: ch’un mi diletta e piace; con l’altro non poss’io non aver pace. (molza, Vi, str. v, vv. 61-75)

Così avviene anche nella realizzazione di molza qui riprodotta, in cui il settenario di chiave riveste addirittura un ruolo di inflessione marginale perché ritaglia una minima distanza di iperbato tra fronte e sirma, già intimamente rifuse insieme dalla dislocazione in essi dei due componenti 201

del periodo ipotetico (protasi ai vv. 64-66 e apodosi al v. 68). il significato strutturale della concatenatio, in simili evenienze, appare per così dire manipolato in un estremo gioco ironico. il tradizionale procedimento di passaggio dolce tra comparti differenziati che l’identità di rima poteva agevolare è un problema del tutto superato, mentre, paradossalmente, si incorre nell’estremo opposto, nel senso che la preoccupazione principale sembra essere quella di recuperare in qualche modo (anche attraverso la temporanea interruzione data dall’interposizione di un’ulteriore subordinata prima della comparsa della principale) una pausa attorno al confine di diesis per una colata sintattica flessuosa che non si cura più di assecondare nell’intonazione alcuna indicazione metrica fissa. trovandosi sulla frattura centrale della stanza, la chiave può essere, infine, totalmente assorbita nelle più segnate e compromettenti strategie di asincronismo e mimetizzarsi, senza più distinzione, nell’avvolgente spirale dei versi, quale estremo effetto del drastico abbattimento, da parte dei poeti rinascimentali, di presunte regole distributive. e ciò, come a dimostrare che, dopo essere stata insignita progressivamente di una funzione strutturale,112 anch’essa sconta la pena di esserne programmaticamente privata, nel generale rincorrersi delle sfasature. nel parlare di una delle molteplici manifestazioni in cui si declina la non collimazione tra metrica e sintassi, non mancano ancora una volta esemplificazioni di Ariosto, di molza e di B. tasso, autori davvero proclivi all’uso smussato del flusso periodale:

A questo proposito, la critica ha messo in evidenza il ruolo di demarcazione tematica attribuito al verso di concatenatio, specie se settenario, prima da Dante e poi, con più decisione, da Petrarca stesso. nelle canzoni dei RVF, infatti, la frequente apertura settenaria della sirma mostra come «l’autorità per così dire pregressa, istituzionale, della concatenatio sia rilanciata da un investimento funzionale più ricco, nel quale una responsabilità determinante è assunta dalla configurazione ritmica del verso breve» (cfr. Bozzola 2003, 199201). Ad esempio, nella canzone 323 il settenario di trapasso tra fronte e sirma ricopre un ruolo strutturale che determina la distribuzione organica e differenziata dei motivi. D’altro canto, Petrarca non affida meccanicamente alla clavis la funzione di cardine tematico, secondo la sua abitudine a «sfuggire serialità troppo ovvie, e a minare dall’interno, e come a sfocare simmetrie esibite a livello macrostrutturale», come si apprende con chiarezza in RVF 23 (cfr. Santagata 1990). Per cui, si inferisce che spesso l’inserimento del settenario all’interno della stanza, e in particolar modo nella sede di inizio sirma, funge da spia di svolta sintattica o tematica. 112

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Questo è più onor che scender da l’augusta stirpe d’antiqui ottoni, estimar déi; di ciò più illustre sei, che d’esser de’ sublimi, incliti e santi Filippi nata ed Ami ed Amidei, che fra l’arme d’italia e la robusta, spesso a’ vicini ingiusta, feroce gallia, hanno tant’anni e tanti tenuto sotto il lor giogo costanti con li Alobrogi i populi de l’Alpe; e de’ lor nomi le contrade piene dal nilo al Boristene, e da l’estremo idaspe al mar di Calpe. Di più gaudio ti palpe questa tua propria e vera laude il core, che di veder al fiore di lise d’oro e al santo regno assunto chi di sangue e d’amor t’è sì congiunto. (Ariosto, V, str. vii, vv. 109-126)

La stanza è estrapolata dalla canzone che Ariosto immagina pronunciata dal defunto giuliano de’ medici all’indirizzo della moglie affranta per il recente lutto. il principe fiorentino esorta la donna non solo a non abbattersi, ma a mantenere con fermezza durante la vedovanza la condotta piena di ritegno che le sta acquistando molti più onori di quanto non abbia fatto l’illustre casato da cui si può vantare di provenire. il lungo periodo, che si confà alla sostenutezza dell’argomentazione esposta dalla voce lirica, se non avvolge completamente la strofa, tuttavia instaura un collegamento solido tra tutti i suoi comparti metrici. L’ampia campata fluisce attraverso piedi e sirma increspata da costanti enjambement e intonativamente franta da oculati procedimenti di perturbazione dell’ordo verborum, in particolar modo iperbati giocati sul profilo dei versi che generano inarcature ‘a lungo raggio’ sovrapposte ad enjambement ‘a contatto’, come ai vv. 112- 113 «… d’esser de’ sublimi, incliti e santi/ Filippi nata…», e ai vv. 116-118, ossia attorno alla clavis. Compreso in una raffinata tecnica di sfasatura, il verso di concatenatio patisce una trazione che da un lato lo sospinge, pur con il sussulto di un iperbato, al di qua del confine di diesis (cfr. l’inarcatura sintattica che scinde una forma verbale perifrastica ai vv. 116-117 «… 203

hanno tant’anni e tanti/ tenuto…») e dall’altro lo proietta naturalmente nella sirma mediante una costruzione predicativa che lascia in sospeso fino al v. 118 la comparsa del complemento oggetto, il quale, per altro, in simmetria rispetto a quanto visto sopra sul margine della fronte, è anticipato, con anastrofe in lieve iperbato, da un complemento di compagnia (vv. 117-118 «[hanno] tenuto sotto il lor giogo costanti/ con li Alobrogi i populi de l’Alpe»). Da ultimo, poi, in alcuni casi, anziché dividere la fronte dalla sirma, il verso di chiave contribuisce a rendere l’onda sintattica quanto più legata e avvolgente possibile attraverso l’occultamento anche dei singoli contorni versali. non è che da’ begli occhi, e da l’avaro seno, che de le sue ricchezze è sì tenace, fino al cor non trabocchi l’amoroso veleno, e l’aura dolce, a cui pensando, pace mi viene, e quanto piace al mondo, ho per negletto. Che s’al desir eguale il mio stil pigro e frale movesse, col parlar pien d’intelletto riscalderei d’amore ogni indomito petto, ogni aspro core. (mol iii, str. ii, vv. 14-26)

giacché i legami tra sottounità strofiche avvengono o per inarcatura sintattica o per enjambement, gli snodi del periodo si collocano con estrema autonomia rispetto alle indicazioni date dalla testura rimica e istituiscono dei respiri in sedi non previste. La prima parte della stanza si presta ad una lettura complessivamente piana, che è sottoposta solo alla tensione sospensiva connaturata al pattern della frase scissa d’attacco e per altro mitigata da rassicuranti dittologie copulative (vv. 14-15 «da’ begli occhi/ e da l’avaro seno»; vv. 18-19, con studiato chiasmo «l’amoroso veleno/ e l’aura dolce»), mentre è quasi trascurabile lo zeugma tipicamente poetico al v. 17 («trabocchi» è alla terza persona benché riferito a due soggetti). D’altro canto, i fenomeni più interessanti si 204

riscontrano nel cuore della stanza e in particolare nell’ardito enjambement tra fronte e verso di chiave (vv. 19-20 «pace/ mi viene») che trae vigore dalla brevità dei costituenti coinvolti, dalla pausa medio-forte che subito segue il rejet e dall’esitazione della relativa tra virgole che precede l’innesco. Dalla stessa concatenatio germina poi un’altra inarcatura, il cui attacco è una parola rima in rapporto quasi paronomastico con il rimante del verso precedente e che, tuttavia, nonostante gli echi, scivola nella dizione trascinata in avanti dalla sospensione cataforica della struttura frastica. Con il procedere della strofa l’oltranza si smorza fino a che l’armonia è riconquistata nel distico finale, con la tradizionalissima rima lirica «amore»:«core» e la bipartizione dell’endecasillabo di clausola in due membri perfettamente paralleli. Analoghi, ancora due esempi: ivi le piante belle e verdeggianti carche di frutti inusitati e strani, fan le selve fiorite e dilettose: fiumi di voluptà chiari e stagnanti bagnano i sempre verdi e lieti piani, e per li colli, e per le piagge ombrose in vece di dogliose voci di Progne e de la sora, ognora s’ode armonia angelica e soave: ivi forza non have morte, o Fortuna che i men degni onora, né la bianca vecchiezza in un momento torna le chiome di color d’argento. (B. tasso, 3, LXVi, str. vii, vv. 79-91)

Se ’l ciel vago e sereno miro qual esser suol, quando l’oscura faccia d’intorno fura a le campagne ’l sol, e l’aure molli per verdi piagge e colli sospiran dolcemente, al cor mi riede quella che col bel piede sparge l’erbe di fior’ e chiude a pieno negli occhi vaghi e ’l seno quanto di bel ordir possa natura; ma bene ha forza il caro e dolce riso scoprir il paradiso e far lieta fortuna d’atra e dura. Questa è l’imagin che dì e notte bramo e spesso chiamo - alor che ’l cor vien meno. (molza, iV, str. v, vv. 61-75)

Dell’assetto sinuoso dei periodi calati nello schema di queste due strofe, rispettivamente a struttura soggiacente (3 + 3 + 7) e (4 + 4 + 7) si osserva che la concatenatio – ancora una volta settenaria, come già spesso in Petrarca – è organizzata in modo tale che gli elementi che contiene fungano contemporaneamente da rejet per un enjambement avviato nell’ultimo verso della fronte e da innesco per un’ulteriore inarcatura che coinvolge l’emistichio successivo. tuttavia, ciò che deve far riflettere è che questo fenomeno risentito di 205

spezzatura non garantisce alla chiave di condensare su di sé l’interesse o eventualmente la sorpresa e quindi di mantenere, seppur rinnovata dalla logica libera della sintassi poetica cinquecentesca, l’evidenza di cuore della strofa, poiché, soprattutto in molza, ma anche a tratti nella strofa di B. tasso, tutte le membrature, eccetto il riequilibrante distico di combinatio, sono ridisegnate con la stessa tecnica (ad es. nella strofe molziana il collegamento tra i due piedi è ad opera di un’inarcatura sintattica arricchita da un iperbato circostanziale ai vv. 64-66 «… e l’aure molli/ per verdi piagge e colli/ sospiran dolcemente…») e qualsiasi ancoraggio metrico è abbandonato, lasciando l’impressione di una forte rottura con le ragioni della forma.113Dunque, per ricapitolare quanto emerso, diremo che, a parte eccezioni certo emblematiche di un processo corrosivo, ma ciò nonostante, se non isolate, almeno minoritarie, il verso di chiave rivela la sua importanza o nell’essere punto mediano di equilibrio del periodo o nell’essere pedina privilegiata dei giochi di infrazione tra metrica e sintassi. esiste, inoltre, un terzo aspetto che può essere annoverato anche in un discorso sull’organizzazione del periodo nelle partizioni, benché forse sia più pertinente in un ragionamento imperniato sui procedimenti argomentativi.114 Come primo verso della sirma, che per ragioni di uniformità fonica finale si riallaccia alla fronte, la concatenatio è anche la sede in cui si esplicitano immediate conclusioni e stretti passaggi logici tra i due versanti della strofa, come si può vedere dalla quantità di versi di chiave che iniziano con la congiunzione avversativa «ma»,115 con il nesso pseudo-locativo «onde»,116 specializzato di

A questo esempio di oltranzismo, allego per completare il quadro anche il riferimento ad altri casi in cui il verso di chiave contiene il rejet di un’inarcatura, con il risultato di procurare una saldatura audace tra fronte e sirma: cfr. Trissino, LiX, str. iii; Bembo, Asolani, ii, 28, str. vi; Sannazaro, 1, XXV, str. v; B. Tasso, 1, XXii, str. iii, 2, XXXii, str. x; Molza mol iii, str. ii, Molza V, str. ii. 114 Davvero sottile, a volte, il discrimine tra osservazioni di carattere sintattico e note argomentative. tuttavia, il lettore sarà indulgente se, per non disperdere l’attenzione, ho deciso di non penetrare più a fondo la questione ma di raccogliere tutti insieme in questo paragrafo i dati emersi dall’analisi del verso di chiave. 115 Cfr. Trissino, LiX, str. vii, LXiV str. ii, LXXii, str. i; Bembo, Asolani, iii, 10, str, ii; Sannazaro, 2, XLi, str. v; 2, Liii, str. i, vi; Bandello i, str. v e str. ix, Ciii, str. x, CXXiV, str. iii, CLXXXiii, str. iii e str. vi, CLXXXiV, str. vi, CCV, str. vii; Ariosto i, str. iii, ii, str. iv; B. Tasso, 1, XXii, str. iv, 2, XC, str. vii, 3, XLVii, str. i; Molza mol ii, str. v e str. vi. 116 Cfr. Trissino XXXi, str. i, LXiV, str. i; Sannazaro, 2, LiX, str. iii e iv; B. Tasso, 1, XXii, str. vi; Molza Vi, str. iii; Bandello CLXXXiV, str. i e str. iii; Britonio i, 353, str. iv; ii, 404, str. i. 113

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fatto in senso profrastico e deduttivo, con la congiunzione conclusiva e asseverativa «così»117 o infine con espedienti retorici di riepilogo come la summatio,118 tutte tecniche esperite con varia frequenza già dallo stesso Petrarca.119 3.2.2 La combinatio Sul distico finale a rima baciata può agire una strutturazione surrettizia volta ad avvicinarlo alle movenze della cobbola di ottava120 e a conferirgli il ruolo di sintetica arguzia finale o di conclusione proverbiale ovvero di cellula binaria se non indipendente dal punto di vista del periodo, per lo meno intonativamente isolabile. Uno dei casi di efficace messa in rilievo della combinatio è quello delle strofe che presentano un assetto sintattico che potremmo definire, sulla scorta della terminologia impiegata da renzi 1988 per il sonetto, ‘a detonazione’. il riferimento va alle stanze che, confortate da un esempio petrarchesco molto noto come quello della str. i di RVF 126, relegano al finale la comparsa della proposizione principale sulla quale si appoggia la costruzione periodale che percorre l’intera struttura o gran parte di essa:121 tra questi boschi sì selvaggi ed ermi, cui par che maligna ombra sempre adugge, Cfr. Trissino, LXiV, str. iv, LXV, str. vi; Bembo, Asolani, i, 32, str. ii, iii, 8 str. v; Sannazaro, 2, LXXV, str. iii; Bandello, LiX, str. vii; B. Tasso, 2, Xii, str. xiv; Britonio i, 235, str. vii; ii, 362, str. x; ii, 379, str. iv e str. v; 118 Cfr. ad esempio Bembo, Asolani, iii, 9, str. v, v. 67 «tutto quel che diletta» e Britonio ii, 450, str. iii, v. 39 «Questa fu de’ miei primi dì la guerra». 119 tra tutti i segnali marcati di sviluppo argomentativo che possono inaugurare la chiave la congiunzione avversativa «ma» è il più frequente e si trova in RVF 28, str. ii; RVF 70, str. i; RVF 73, str. i, str. ii, str. iv; RVF 127, str. i; RVF 129, str. iii; RVF 135, str. iii; RVF 264, str. i; RVF 268, str. iii, str. v; RVF 270, str. v; RVF 323, str. vi; RVF 325, str. iii; RVF 331, str. iii; RVF 366, str. vi; segue poi «così», usato però non come congiunzione conclusiva, quanto piuttosto come avverbio di modo o avverbio correlativo in strutture comparative in RVF 125, str. v; RVF 135, str. i, str. ii; in RVF 207, str. iv. infine si trova un solo caso di presenza di summatio nella clavis di RVF 331, str. v. 120 Per ragioni puramente contestuali e per supportare la liceità di simili illazioni, ricordo che diversi poeti del corpus furono anche autori di stanze liriche, in particolare Bembo, B. tasso, molza ed Alamanni. 121 Anche in molza Vii, str. v; molza, mol iii, str. ii; B. tasso, i, 102, str. i nella combinatio è contenuta la principale di un periodo sospeso e introdotto nella seconda parte della strofa. 117

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fra ’l sibillar di serpi e crudi vermi, fra’ fieri mostri che natura fugge, qui dove fieramente Borea rugge, né mai si vede Flora, ma ghiaccio e nevi ognora, la stanza fu di quella che peccatrice il Vangelista appella? (Bandello, CL, str. ii, vv. 10-18)

La dimensione contenuta della stanza, unita all’impiego dell’enumerazione anaforica ed ordinata122 di sintagmi spaziali con sottolineatura deittica (v. 10 «tra questi boschi», v. 12 «fra ’l sibilar», v. 13 «fra’ fieri mostri», v. 14 «qui»), rende possibile un assetto monoperiodale non eccessivamente teso. i drappeggi della costruzione frastica, che indugiano su particolari circostanziali, riposano sul distico finale che ospita la reggente, intonativamente increspata da una coppia di anastrofi (la prima più marcata della seconda)123 ma perfettamente inserita in una ripartizione metrica strutturalmente delimitata. Dato il senso di eccessiva immediatezza che avrebbe prodotto un epilogo cantilenante e staccato per ragioni di autonomia sintattica all’interno dell’organismo strofico cinquecentesco – il quale si è mostrato finora in più occasioni propenso a raffinati contrappunti tra archi periodali e comparti metrici – non si stagliano con preponderanza quantitativa i casi di sottolineatura della combinatio attraverso trattamento aggettante del distico. e tuttavia essi non sono nemmeno completamente assenti o trascurabili e, dove intervengono addensati nel medesimo componimento, non possono non essere presi in considerazione come elementi di una presunta architettura soggiacente. Quantunque pure Alamanni ne assecondi l’attrattiva eufonica,124 sono Bembo, Bandello e Sannazaro, in particolare, ad impiegare accorgimenti legati alla clausola finale e a far brillare all’apice della stanza, forse come lieve retaggio dell’icastica poetica cortigiana, frasi sentenziose o agili battute o, ancora, rapide inversioni di rotta o rincalzi Da notare che anche nell’archimodello petrarchesco succitato funziona lo scheletro accumulativo, giocato in quel caso su vocativi espansi. 123 Cfr. v. 17 «la stanza fu di quella» e v. 18 «che peccatrice il Vangelista appella». 124 Cfr. qui p. 344 nota 126. 122

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al discorso intrapreso nella stanza. Per quest’ultima fattispecie vale la pena almeno di ricordare il valore che la figura retorica della correctio può imprimere allo scorcio di strofa: ma così va, chi da l’età sua prima fa del ver poca istima, né pentimento lo rimorde appresso: anzi fra desir vani ognhior più agogna et del suo stesso error non si vergogna. (Britonio, ii, 450, str. i, vv. 11-15)

… ho consumato, con più acerbi affanni altri sette e sett’anni, al che pensando avien più me ne scorni anzi m’adire, e poi lachrime insieme de i dì trascorsi in sì fallace speme. (Britonio, ii, 450, str. vi, vv. 86-90)

nella canzone britoniana ii, 450 l’asserverazione del «giovenile error» si accompagna, nelle diverse fasi temporali che ciascuna strofa scandisce, ad un progressivo inasprimento del tono che in ogni partizione riprende ad uno stadio più avanzato e ciclicamente culmina nel chiarimento finale, equivalente ad un ripetuto scorno. La combinatio fornisce a tale scopo un giro versale non svincolato in modo perentorio dal resto della compagine versale, ma provvisto di una sufficiente autonomia melodica, ideale per la sottolineatura della frustrazione che segue al tentativo, ripreso in ogni età della vita, di superare la propria vergognosa debolezza e svincolarsi dalla soggezione altrui. Come esempio di una diversa funzionalizzazione del luogo metrico si possono, poi, prendere in considerazione le due coppie di versi che concludono rispettivamente la prima e la seconda strofa125 di Asolani, i, 33 e che mostrano un’orchestrazione sintattica volutamente riecheggiante: tanto fa questo exilio acerbo et grave, quanto lo stato fu dolce et soave. (vv. 12-13) ma quanto più pensando io ne vo seco, tanto più tormentando Amor ven meco. (vv. 25-26) L’utilizzo marcato della concatenatio sembra significativo in questo esempio anche se non riguarda esplicitamente tutte le strofe della canzone perché segnala l’attacco del componimento. Del resto, poi, esistono elementi di continuità: il verso finale della iii strofa prevede, come quello della ii, la presenza della parola tematica «Amor» sotto ictus di 8a e il distico finale della iv strofa, pur non mostrando simmetrie con altri luoghi, è comunque provvisto di autonomia sintattica e intonativa. 125

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il chiasmo che inverte l’ordine di comparsa dei correlativi «tanto» e «quanto» o la diversità di argomento non sminuiscono la sensazione che il poeta consideri questo luogo della stanza come una sorta di micropartizione in cui far valere principi di costruzione simmetrica. oltre che dal movimento comparativo, i due distici sono accomunati anche dal parallelismo che si innesca in punta di verso e che enfatizza ancor più la cadenza rimica. Alla dittologia «acerbo et grave» risponde per antinomia «dolce et soave», così come, in uno scambio incrociato di ruoli, la frase «io ne vo seco» è ribattuta da «Amor ven meco». Ancora differente, ma lo stesso denso di significato, il trattamento del distico di combinatio nella canzone LXiX dalle Rime di Bembo. in questo testo la coppia di endecasillabi a rima baciata non gode di autonomia sintattica rispetto al resto della sirma e tuttavia è decisamente individuata nel suo profilo dalla ricorrenza alla fine del primo dei due versi di un nome-senhal associato a famose donne della lirica volgare: la dolce vista angelica beatrice, de la mia vita e d’ogni ben radice. (vv. 11-12) del suo dolce parlar lo spirto e l’aura subitamente ogni mio mal restaura. (vv. 23-24) similmente et io sempre amaria126 l’alto splendor, la dolce fiamma mia. (vv. 35-36)

Altro elemento di strutturazione ricorsiva che si nota è l’enunciazione in ciascun distico di una caratteristica riferita all’amata e corredata dall’attributo «dolce». Poiché i nomi delle donne cambiano di volta in volta, la qualità prescelta e associata sembrerebbe non essere casuale ma avere a che fare con una marca di poetica che Bembo intende portare in primo piano ed attribuire ai poeti-amanti che cita indirettamente. Così, nei versi in cui compare tra le righe il nome di Beatrice si dispone il riferimento alla «vista», per sottolineare la specificità della dinamica dello sguardo e degli

126 mentre per i primi due distici di concatenatio non sono necessarie spiegazioni, nell’ultimo l’allusione occultata nel nome è a maria Savorgnan, donna amata dal Bembo nei primi anni del Cinquecento e dedicataria ideale di alcuni altri testi giovanili rifluiti nelle Rime.

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sguardi nella lirica di contemplazione-elevazione dantesca; nei versi in cui si allude a Laura si fa cenno al «parlar», riconoscendo la cura riservata da Petrarca alla sostanza fonica dei suoi componimenti (si ricordi il primissimo verso del Canzoniere «Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono»); infine, nei versi in cui raggiunge il primo piano la donna dello stesso Bembo rifulge il segno della «fiamma», ad indicare che, superato il neoplatonismo degli Asolani, il poeta umanista vive con trasporto anche la passionalità del sentimento amoroso. L’espediente di porre come sphraghìs di ciascuna stanza l’allusione ai due rappresentanti più autorevoli della tradizione italiana e poi a se stesso, come poeta degno di entrare nell’illustre corteggio della lirica, potrebbe essere reputato affine al procedimento seguito da Petrarca nella cosiddetta ‘canzone delle citazioni’ (RVF 70), in cui i versi finali delle strofe riproducono celebri incipit di canzoni (l’ultimo dei quali è proprio petrarchesco). i capoversi memorabili hanno la funzione strutturale di richiamare, secondo l’interpretazione fornita abbastanza concordemente dai critici, maestri della giovinezza (Arnaut Daniel, guido Cavalcanti, Dante e Cino da Pistoia) e modelli di poetica, messi progressivamente da parte dal Petrarca maturo.127 Bembo, per altro, coglie ed interpreta a suo modo l’aspetto di variatio presente nell’archetipo trecentesco che consiste nel non sovrapporre alla presenza già marcata di un elemento di ricorsività paradigmatica a fine stanza (in un caso il versus cum auctoritate, nell’altro il nome di donna) un’identità di strutturazione sintattica per la combinatio. il distico è nel poeta delle Rime inglobato nel flusso sintattico fin dalla sua prima comparsa, segno della volontà di amalgamare l’ammicco retorico paronomastico nell’onda di un eloquio lirico che tende alla naturalezza e alla soavità. Petrarca sfoggia una tattica distributiva più sottile e che riproduce sul piano iconico del significante il processo descritto sul piano del significato. Se l’inizio della lirica denuncia gli influssi subiti dal poeta agli esordi, in un periodo in cui non aveva ancora potuto appropriarsi organicamente degli spunti altrui che, pertanto, riemergevano distintamente nei suoi testi come tessere rilevate, il procedere del componimento illustra la graduale maturazione di uno stile proprio che ha conquistato coerenza e compattezza senza rinnegare gli apporti ricevuti nel periodo di formazioCfr. Petrarca (ed. Santagata) 1996, 347: «le citazioni rappresentano un omaggio ai maestri, ma allo stesso tempo anche una presa di distanze». 127

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ne. osservando l’orchestrazione sintattica dei versi-citazione si è pertanto affascinati dall’ipotesi che la narrazione dell’apprendistato poetico sia in qualche modo rispecchiata, anche a livello formale, dalla pulsazione degli spazi. A mano a mano che ci si inoltra nel cuore del componimento si nota che il secondo colon del distico di combinatio – quello che contiene il centone – viene coinvolto in movimenti periodiali progressivamente sempre più lunghi e complessi fino ad integrarsi nell’ultima strofe, che riecheggia la voce petrarchesca, completamente all’interno della frase, quale dichiarazione di conquista identitaria, e fino a perdere così il suo carattere di pura citazione, di elemento allotrio.128 A differenza di Bembo, che, tutto sommato, ne fa un uso preciso ma episodico, Bandello indulge molto di frequente a ripassare il bordo strofico del distico finale (come del resto di tutte le altre partizioni strofiche interne), attribuendo alla combinatio ora la funzione di appendice quasi cantata, ora di stretta conclusiva segnalata dalla proliferazione dei nessi «così», «onde», «or», «ché» o di complemento riepilogativo. Per la prima serie si considerino due esempi tratti dalla canzone XCV, nella quale tutte le stanze tranne la prima mettono in evidenza a vario titolo i due versi brevi a rima baciata:

128 in RVF 70, nella i e nella ii strofa la citazione è introdotta in qualità di verso posto su un piano enunciativo differente rispetto a quello mantenuto nei versi precedenti (vv. 10-8 «non gravi al mio signor perch’io il ripreghi/ di dir libero un dì tra l’erba e i fiori:/ Drez et rayson es qu’ieu ciant e· m demori»; vv. 19-20 «… ma più, quand’io dirò senza mentire:/ Donna mi priegha, per ch’io voglio dire»). nella iii strofe la citazione converge sintatticamente sulla combinatio, che recupera la compattezza di distico perché introdotta da nesso pseudo-relativo a carattere conclusivo (vv. 29-30 «onde, come nel cor m’induro e ’naspro,/ così nel mio parlar voglio esser aspro»). nella iv il cerchio del periodo si allarga al terzultimo verso, ben staccato argomentativamente dal corpo strofico (vv. 38-40 «meco si sta chi dì et notte m’affanna,/ poi che del suo piacer mi fe’ gir grave/ la dolce vista e ’l bel guardo soave»). infine, nell’ultima, la campata sintattica risale a ritroso, con complesse volute ipotattiche, sino al centro della stanza, alla chiave, mimetizzando il verso conclusivo in un giro di non disprezzabile ampiezza (vv. 45-50 «et s’al vero splendor già mai ritorno,/ l’occhio non pò star fermo,/ così l’à fatto infermo/ pur la sua propria colpa, et non quel giorno/ ch’i’ volsi inver’ l’angelica beltade/ nel dolce tempo de la prima etade»).

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[…] e farsi allor più vago il bel giardino, e tal mi porge gioia, dove cantava quella che più non temo noia. dolce d’amor rubella. (Bandello XCV, str. iii, vv. 37-39) (Bandello XCV, str. v, vv. 64-65)

nella strofa v non solo l’autosufficienza del periodo, ma anche la sua articolazione bipartita su presupposti consecutivi e la messa a contatto di due rimanti antinomici («gioia»:«noia») rendono musicale l’epilogo a doppio settenario. nella strofa iii, invece, il coinvolgimento della combinatio in un periodo inaugurato in coincidenza con l’avvio della sirma non sottrae il distico ad una modulazione autonoma e cantilenante. L’armonia marcata della sequenza binaria, è, vorrei dire al contrario, ricercata non solo tramite la replicazione della medesima scansione accentuativa (1a, 4a, 6a), ma anche grazie alla corrispondenza simmetrica della sostanza fonica dei termini trascelti («dove» assuona con «dolce» in posizione corrispondente; vi è poi allitterazione sul suono dentale sonoro arricchita dall’appoggio sulla preposizione elisa «d’amor»). Quanto alla seconda fattispecie individuata, anziché commentarne le applicazioni senza dubbio numerose,129 varrà la pena di valutarne la rilevanza d’impiego, cioè come Bandello valorizzi la combinatio a fini leganti tra strofe e strofe, sfruttandola contemporaneamente quale punto di riepilogo e luogo di rilancio del discorso. Su questo aspetto dalle indubbie virtualità di spinta argomentativa strutturale, si dirà più estesamente nel prosieguo.130 Basti, per ora, citare uno scambio strofico nel quale è chiaramente messo in atto il processo per cui ad una conclusione scandita su due versi fonicamente allacciati (si noti i rimanti quasi paronomastici «segno»:«sdegno») fa da pendant un avvio riecheggiante che si avvale della tecnica della coblas capfinidas: né giunger può di vostre lodi al segno, ond’io di più cantar quasi mi sdegno.

Cfr. Bandello LiX, str. iv «or», str. v «così»; Ciii, str. i «ond’io», str. ii «ché», str. vi «ché»; CL, str. vi «ché»; CLXXXiV, str. iv «ché»; CLXXXiX, str. i, str. vi «ché», str. vii «onde»; CCV, str. viii «onde». 130 Cfr. qui a p. 262. 129

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// Sdegnasi il cor, che vede il certo danno… (Bandello LiX, str. i-ii, vv. 9-11)

Sempre nella medesima giacitura ai margini dello spazio interstrofico, si osservi un caso in cui il discorso, dopo un breve arresto per la riconsiderazione del nodo del problema nel luogo architettonicamente deputato della combinatio, continui a fluire con la continuità esposta dell’addentellato sindetico in avvio di stanza: e quest’è che m’ancide fier martire, che quanto bella sète non so dire. e pur mi sforzo con parole e cenni, come m’inspira Amor, scoprir al mondo quanto nel petto dolcemente ascondo… (Bandello LiX, str. iii-iv, vv. 29-33)

Lo stesso Sannazaro molto di frequente ricorre al distico di combinatio, ma quasi esclusivamente per concludere le stanze in modo scandito con un’inflessione gnomica. La coppia a rima baciata, isolata e conclusiva rispetto al resto della strofa, si abbina spesso al medesimo stilema di strutturazione, ossia la frase introdotta da «ché» paracoordinativo. Questa prassi tecnica è diffusa in svariate canzoni sannazariane,131 ma scelgo di illustrarla attraverso alcuni esempi in 2, LXXXiii, lirica in cui di essa si fa un uso più insistente: ché chi fugge, e ’l suo mal si tira appresso, cielo pò ben cangiar, ma non se stesso. (vv. 12-13) c’a bada star non dee nel mondo cieco chi la grazia del ciel non ha più seco. (vv. 38-39)

Cfr. anche Sannazaro, 2, XLi, str. vii; 2, Lii, str. iv, per l’utilizzo del ché paracoordinativo e per la contiguità tematica della “micropartizione”, che è eletta a spazio deputato per focalizzare il tema vita-morte. Presentano invece distici sintatticamente isolati ma con diversa struttura 2, Liii, str. ii, iii, v. 131

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c’a generoso spirto o viver bene o morir altamente si convene. (vv. 64-65)

i due endecasillabi di combinatio della i, iii e v stanza riprodotti qui sopra non necessiterebbero nemmeno di un commento tanta è la perspicuità dello scheletro sintattico e retorico che incarnano. Con la loro declinazione generalizzata di moniti epigrammatici, espressi nella forma pronominale indefinita «chi» e, contemporaneamente, con lo stretto collegamento del ché, che fornisce qualcosa di più di una semplice giustapposizione a quanto precede, i distici conclusivi procurano alla strofa una risoluzione fulminea ed eufonica e ne assicurano l’autosufficienza come cellule distinte nel discorso complessivo sostenuto nella canzone. in altri casi l’esito di chiusa apodittica è ottenuto non già spiccando la coppia versale che conclude la stanza, ma esaltando la qualità della rima baciata del distico per creare, mediante un rapido guizzo, un’appendice che suona come una nota ribattuta. Si presti attenzione, in particolare, alle soluzioni approntante in alcune altre canzoni di Sannazaro: […] benigna ti consente la terra e ’l mar con salda e lunga pace, ché raro alta virtù sepolta giace. (Sannazaro, 1, Xi, str. i, vv. 12-14)

[…] tal che, se l’aspra guerra pietà non tempra, il sol morir mi è gioia; ché a chi mal vive, il viver troppo è noia. (Sannazaro, 2, XLi, str.i, vv. 11-13)

[…] tosto fia lieta questa antica madre d’un tal marito e padre più che roma non fu de’ buoni Augusti, ché ’l ciel non è mai tardo a’ preghi giusti. (Sannazaro, 1, Xi, str. vi, vv. 81-84)

[…] corro senz’arme al campo, per far, lasso, di me l’ultima prova; ché bel fin è morir com’uom si trova. (Sannazaro, 2, XLi, str.v, vv. 63-65)

Si tratta di due coppie di stanze tratte da due componimenti, uno di carattere encomiastico, l’altro a tema amoroso. il costrutto con «ché» paracoordinativo, di sofistica pregnanza, pervade senza distinzione di ‘genere’ le liriche distese del poeta napoletano e compare non solo a segnalare la cornice della combinatio, ma anche, come si evince chiaramente dagli esempi, ad isolare un lacerto stichico che interviene, a mo’ di sottolineatura ripetuta, dopo una pausa di media intensità. 215

A riprova del grado di appropriazione da parte di Sannazaro dello stilema moraleggiante inserito nel culmine formale della stanza, si possono, infine, verificare le evenienze in cui esso è riprodotto pur in assenza delle ragioni rimiche di appoggio di cadenza, vale a dire negli schemi che presentano una combinatio ‘slabbrata’. Però con l’alma scarca di sospetto e di sdegni, e col cor pieno d’un piacer dolce ameno, al vostro stato primo ritornate, e ’l voler del ciel si segua; ché s’io non falso estimo, tempo non vi fia poi di pace o tregua.

Se le vostr’acque, o muse, adoro e còlo, se i vostri boschi con piacer frequento, se, di voi sol contento, dispregio quel che più la turba estima, non mi lasciate, prego, in preda a morte; ché dal cantar mio prima mi prometteste già più lieta sòrte.

(Sannazaro, LXiX, str. v, vv. 74-80) onde, se i fati ponno quel che per veri effetti ognor si scorge, quanto più in alto sorge l’error che acciò vi induce, tanto fia del cader maggior la pena; ché tal frutto produce ostinato voler, che non si affrena. (Sannazaro, LXiX, str. vii, vv. 106-112)

(Sannazaro, 2, LXXXiX, str. ii, vv. 24-30) […] né tacerò, se pur fia ch’io cominci […] quella che con un grido su la riva del reno, e poi su l’acque di nettuno, disperse ogni altro ucello; ché così al cielo piacque, per far più il secol nostro adorno e bello. (Sannazaro, 2, LXXXiX, str. vii, v. 95, vv. 101-105)

nello specimen sopra riportato ho inserito le porzioni finali di alcune stanze di due componimenti orchestrati rispettivamente sullo schema di RVF 128 e di RVF 119. La testura strofica delle due petrarchesche non prevede al termine la doppia cucitura della concatenatio, ma propone un modulo ternario mediante il quale due endecasillabi in rima sono distanziati dall’inserimento di un settenario. A tale scheletro metrico soggiacente, che tenderebbe a conferire compattezza costitutiva al terzetto, Sannazaro sovrappone lo stilema sentenzioso e ritaglia un frammento di due versi alla fine della stanza con procedimento apparentemente inerziale rispetto al suo usus consolidato e messo in opera in testi con schemi di altra fisionomia. eppure si ravvisa una certa consapevolezza stilistica anche in questa scelta, poiché in entrambi i testi il poeta assurge ad una dizione ispirata e allo stesso tempo resiste all’appiattimento musicale della rima, 216

in ossequio all’alta destinazione celebrativa delle due liriche. Del resto, poi, non si tratta di opzioni totalizzanti o esclusive, quanto piuttosto di una variegata alternanza di distribuzione che parte dal discernimento del differente rilievo che ciascun elemento del ventaglio di possibilità riveste a seconda della frequenza e della posizione in cui viene proposto. Se l’uso del «ché» per marcare la terzina XyX in una canzone encomiastica può suonare dura all’orecchio del poeta, non altrettanto accade per il nesso «onde», adoprato in apertura del terzultimo verso della prima strofa della stessa 2, LXXXiX per conferire un avvio risentito al testo (cfr. vv. 13-15 «onde la mente, che di viver brama,/ veggendo il tempo breve/ non ardisce sperar più eterna fama») e poi abbandonato nelle strofe successive a vantaggio di sistemazioni meno prevedibili. A proposito di poeti consci degli effetti divergenti che possono scaturire dal trattamento del distico finale di un metro strofico, un breve excursus si dovrà riservare ad Ariosto, notoriamente versato nella pratica dell’ottava narrativa e addestrato a sfruttare opportunamente le armonie della cobbola, piegandole di volta in volta alle esigenze del testo. Si potrebbero suddividere gli esiti ariosteschi in due grandi raggruppamenti: da un lato i tipi nei quali si esaltano le potenzialità della rima a stretto contatto per collocare svolte energiche al discorso lirico; dall’altro lato i tipi che sorprendono il lettore con frizioni metrico-sintattiche per dar rilievo e gravitas al dettato poetico. nella prima serie, già abbondantemente riscontrata anche in altri autori (Bandello, Sannazaro), rientrano gli esempi di combinatio estrapolata dal corpo strofico a fini di commento o riepilogo.132 Alla seconda serie, senza dubbio più ricca, fanno capo sia distici omometrici, sia distici giocati sull’accostamento di un settenario e di un endecasillabo, in entrambi i casi sintatticamente autonomi rispetto al rimanente volume versale della stanza, eppure percossi da tremiti che ostacolano una pronuncia monocorde. È comprensibile che ciò avvenga quando la coppia rimata è costituita da due membri non simmetrici, un verso breve e uno lungo, magari inarcati l’uno sull’altro

Cfr. Ariosto i, str. ix, vv. 98-99 «Con queste reti insidïosi Amori/ preson quel giorno più di mille cori»; Ariosto iV, str. i, vv. 14-15 «vedi come mutati son da quelli/ che ti solean parer già così belli»; str. ii, vv. 29-30 «S’amor non può, dunque pietà ti pieghi/ d’inchinar il bel sguardo alli miei prieghi»; str. iv, vv. 59-60 «Dura condizïon, che morte e peggio/ patir di morte e insieme viver deggio». 132

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e da la umiltà mia a vostra altezza è più ch’al ciel di via. (Ariosto ii, str. i, vv. 12-13)

ma stupisce quando si trovi in ampi distici rimati, perfettamente equipollenti: non voglio, non, s’anch’io non vengo dove tu sei, che questo o ch’altro ben mi giove. (Ariosto iV, str. iii, vv. 44-45)

né potrà far che, mentre voce e lingua formin parole, il tuo nome si estingua (Ariosto iV, str. viii, vv. 119-120)

Scivolare abilmente tra le maglie dello schema per scuotere l’eufonia della rima baciata è l’intento programmatico di simili giaciture metrico-sintattiche, obiettivo raggiunto con l’impiego della conduplicazione («non voglio, non,…») che spezza il ritmo della frase e ne fa slittare i costituenti in punta di verso fino a innescare un enjambement con rejet accentuativamente rilevato («dove/ tu sei»), oppure con la dislocazione a cavaliere tra i due versi e in inarcatura sintattica di una subordinata circostanziale di secondo grado interposta tra principale e completiva di primo grado («né potrà far che […]/ […] il tuo nome si estingua»). Ariosto non è il solo a percorre questa via. Per completare il quadro primo cinquecentesco con i suoi chiaroscuri occorre menzionare rapidamente anche il caso di Bernardo tasso, il cui manifesto intento di «celar l’armonia della rima» certo non poteva convivere con la sottolineatura strutturante della combinatio. Analogamente a quanto accade per il verso di concatenatio, anche il distico finale a rima baciata, istituzionalizzato nello schema, può essere interpretato come estrema categoria di ordine da disattendere da chi miri a divellere dai vincoli metrici il discorso lirico, con classica fluidità. in una simile prospettiva si collocano alcune scelte stilistiche di B. tasso, che si possono apprezzare soprattutto nella canzone 2, XXXii, di cui riporto due distici di combinatio particolarmente interessanti: e nel tuo fosco serba il tristo suon de la mia doglia acerba (vv. 25-26) ma ’l tuo silenzio sia rotto da suon di pena acerba e ria (vv. 90-91)

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il solo fatto che la coppia finale sia costituita da un settenario e da un endecasillabo e non da due versi di pari estensione compromette anche se non elimina completamente la possibilità che la rima baciata vincoli l’intonazione ad una ripetitività scontata. tuttavia, ciò che appare più degno di nota è che in entrambi i casi un’energica inarcatura lega indissolubilmente i distici e ingloba in posizione indebolita quella stessa rima che avrebbe dovuto assicurare una chiusa fonicamente pregnante. Altrove B. tasso ricorre ad altri metodi, da un lato per attenuare la forza struttiva della combinatio e dall’altro per evitare la messa in rilievo della rima che si otterrebbe isolando la clausola. Così, come accade ad esempio in 1, XXii, il poeta si ingegna a formare periodi finali di 3 versi133 o a smembrare il distico isolandone il verso finale o, al limite, a terminare la stanza in crescendo con periodi lunghi e compatti (cosa questa che risulta la più insolita rispetto alle consuetudini tecniche degli altri poeti del corpus, se si escludono alcune evenienze in Britonio). infine, a necessaria integrazione di quanto detto, varrà la pena di delineare una panoramica sommaria di quanto accade nelle canzoni di Petrarca, istituzionalizzatore della forma e delle sue articolazioni interne in quanto punto di confronto obbligato. La sottolineatura eufonica della combinatio, con isolamento sintattico del distico e innesto in esso di periodi di raggio contenuto in cui agisca potenziata la ripercussione della rima, è disseminata in vari luoghi del Canzoniere. A volte la spinta conclusiva della strofa è intonata ad un movimento avversativo, per cui, all’interno del discorso petrarchesco della contrapposizione, spiccano le combinatio introdotte da «ma».134 La messa in rilievo del solo ultimo verso risulta, tuttavia, la collocazione molto più spesso adottata per imprimere alla stanza un armonico segnale di stallo o per ospitare un indugio ragionativo prima dello spazio interstrofico, come si Questo stratagemma è adottato anche da trissino nella canzone XXXi, dove, in particolare nell’ultima strofa, il terzetto finale fa le veci di congedo incorporato alla stanza. Cfr. vv. 88-90 «Però, Canzon, con queste c’hai raccolte/ prima n’andrai, e s’io ti veggio grata/ sarai da due sorelle accompagnata». 134 Distici finali sintatticamente autonomi si trovano in RVF 73, str. iii; RVF 129, str. iii; RVF 207, str. ii; RVF 264, str. ii; RVF 270, str. iii; RVF 331, str. iii; RVF 359, str. ii; sono inaugurate da ma le combinatio di RVF 71, str. iv e RVF 325, str. vii. 133

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osserva diffusamente in molte liriche,135 ma in particolare in RVF 207, canzone nella quale lo stilema si dispiega con buona frequenza: Così avess’io i primi anni preso lo stil ch’or prender mi bisogna, ché ’n giovenil fallir è men vergogna. (RVF 207, str. i, vv. 11-13)

[…] et come augel in ramo, ove men teme, ivi più tosto è colto, così dal suo bel volto l’involo or uno et or un altro sguardo; et di ciò inseme mi nutrico et ardo. (RVF 207, str. iii, vv. 35-39)

o di che vaga luce al cor mi nacque la tenace speme, onde l’annoda et preme quella che con tua forza al fin mi mena! La colpa è vostra, et mio ’l danno et la pena. (RVF 207, str. vi, vv. 74-78)

Aspett’io pur che scocchi l’ultimo colpo chi mi diede ’l primo; et fia, s’i’ dritto extimo, un modo di pietate occider tosto, non essendo ei disposto a far altro di me che quel che soglia: ché ben muor chi morendo esce di doglia. (RVF 207, str. vii, vv. 85-91)

nella prima stanza il manipolo di versi staccato dal terzultimo settenario è suggellato da una massima introdotta da un ambiguo «ché» paracoordinativo, caratteristico segnale di consecutività giustapposta. medesima cadenza armonica si ripete, circolarmente, nell’ultima strofa del componimento (str. vii), dove il retroterra sul quale si insedia la stoccata finale – tipica chiusa sentenziosa sul tema della morte che sarà cara al Cinquecento e specie a Sannazaro – è un periodo di più ampia orchestrazione e complessità sintattica. Ancora differenziate sono, poi, le soluzioni Si osservino le chiuse con «ché» sentenzioso nel secondo verso di combinatio in RVF 23, v. 20 «ché tèn di me quel d’entro, et io la scorza»; RVF 270, vv. 29-30 «or al tuo richiamar venir non degno,/ ché segnoria non ài fuor del tuo regno.»; quelle con «onde», nel medesimo luogo metrico, in RVF 323, vv. 58-60 «volse in se stessa il becco,/ quasi sdegnando, e ’n un punto disparse:/ onde ’l cor di pietate et d’amor m’arse»; RVF 331, vv. 10-12 «Sol memoria m’avanza,/ et pasco ’l gran desir sol di quest’una:/ onde l’alma vien men frale et digiuna». infine, l’ultimo verso della strofa che ribatte la rima baciata può anche avere la funzione di riepilogo, come si osserva in due stanze di RVF 360 (str. vii, v. 105 «Questi fur con costui li ’nganni mei.»; str. ix, v. 135 «Di ciò il superbo si lamenta et pente».) 135

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procurate nella iii e nella vi stanza, nelle quali l’ultimo verso risuona sensibilmente più ‘staccato’: nel primo caso perché la simmetria di cui è provvista la comparativa del periodo precedente è esaltata dalla dislocazione in due distici omometrici di settenario + endecasillabo e fa avvertire l’ultimo verso lungo come una sorta di epifrasi; nel secondo caso per un repentino cambio di intonazione, dall’esclamativa ad una constatazione lucida ed amara che, figurativamente nel chiasmo e nello squilibrio numerico e semantico dei sostantivi (la sola «colpa», di contro alla reduplicazione dittologica di «danno» e «pena»), rileva l’opposto destino dei due amanti. infine, nel catalogo delle tecniche distributive petrarchesche va annoverato, in misura minoritaria, magari mimetizzata ma non per questo meno provvisto di forza modellizzante, anche quel trattamento non eufonico della combinatio che si è già commentato poco sopra a proposito della tornitura all’insegna della gravitas di alcune strofe cinquecentesche. emblematici in questo senso gli stilemi addensati nella zona delle canzoni degli occhi e nella prima delle canzoni boscherecce. oh, se questa temenza non temprasse l’arsura che m’incende, beato venir men! ché ’n lor presenza m’è più caro il morir che ’l viver senza. (RVF 71, str. ii, vv. 27-30)

onde s’alcun bel frutto nasce di me, da voi vien prima il seme: io per me son quasi un terreno asciutto, cólto da voi, e ’l pregio è vostro in tutto. (RVF 71, str. vii, 102-105)

[…] ond’io divento smorto, e ’l sangue si nasconde, i’ non so dove, né rimango qual era; et sonmi accorto che questo è ’l colpo di che Amor m’ha morto. (RVF 73, str. vi, vv. 87-90)

Si veda come il «ché», che abbiamo già visto funzionalizzato per marcare la sentenziosità della clausola all’inizio del primo o del secondo verso del distico, nella ii str. di RVF 71 è dislocato in concomitanza con la cesura dell’endecasillabo, quasi come se il patetismo dell’esclamazione precedente fosse tracimato nello spazio della combinatio facendo slittare il previsto appoggio della frase; senza contare che indizio della resistenza ad una chiusa melodica è anche il sovvertimento dell’ordo verborum che contrasta con i germi di polarizzazione simmetrica della massima (cfr. la 221

comparativa instrutta sui contrasti tra «morir» e «viver» e tra «presenza» e «[as]senza»). effetto per certi versi più forte è raggiunto dalla vii strofa del medesimo testo dal vigoroso enjambement che aggancia al centro il distico finale (vv. 104-105 «terreno asciutto/ colto da voi») e dall’espressione del giudizio in coordinazione copulativa, confinata nell’ultimo emistichio. infine, nella str. vi di RVF 73 l’isolamento melodico della combinatio è pregiudicato dalla proliferazione di coordinazioni e dalla dizione frammentata che caratterizza la seconda parte della sirma. Si intuisce, inoltre, che lo stilema risuoni meglio laddove è preparato, nelle strofi precedenti rispetto a quella in cui compare, dall’instaurazione di una cadenza ricorrente, tutt’ad un tratto elusa, come accade in RVF 125. nel testo convivono, infatti, esempi di isolamento metricosintattico della combinatio con simmetria armonica tra i due settenari (str. iii, vv. 38-39 «Lasso, così m’è scorso/ lo mio dolce soccorso»; str. v, vv. 64-65 «ma come po’ s’appaga/ l’alma dubbiosa et vaga»), esempi di autonomia intonativa e di cadenza ribattuta nel distico, pur in mancanza di una completa indipendenza sintattica (str. i, vv. 12-13 in coordinazione ad una relativa precedentemente espressa «et non lascia in me dramma/ che non sia foco e fiamma»; str. ii, vv. 25-26, apodosi di un periodo ipotetico «l’un a me nòce et l’altro/ altrui, ch’io non lo scaltro»; str. iv, vv. 51-50 come consecutiva «che sempre si ridica/ come tu m’eri amica») e, a coronamento della lirica, nella stanza finale un esempio di spostamento del baricentro intonativo del distico, dal luogo rilevato di punta di verso, ad una posizione interna al secondo settenario che dissimula la rima e la sua modulazione melodica tramite un’inarcatura piuttosto forte con rejet monosillabico (str. v, vv. 77-78 «Spirto beato, quale/ se’, quando altrui fai tale?»). e, in linea con il tono di questo finale, anche quello della canzone sorella risponde nella combinatio di settenario + endecasillabo dell’ultima stanza con un enjambement che suggerisce una ripartizione dei cola frastici su uno spazio ternario ipoteticamente sovrapposto a quello binato del distico ed elude il margine rimico depotenziandolo (RVF 126, str. v, vv. 64-65 «Da indi in qua mi piace/ questa herba sì ch’altrove non ò pace».) Petrarca, dunque, riesce ad incardinare nella combinatio – e finanche in quella costituita da una coppia di settenari – una dizione tesa che annulla l’equazione tra verso breve o rima ripetuta da un lato e facile 222

cantabilità dall’altro. in aggiunta a ciò, nel finale di RVF 125, ribadendo sul piano della realizzazione del periodo all’interno delle nervature della testura la solo apparente leggerezza del testo, forza espressivamente i legami della forma creando dei precedenti per gli esperimenti cinquecenteschi di liberazione della lirica da una gabbia metrico-sintattica troppo rigida.

223

3.3 tavole metrico-sintattiche Petrarca

Alamanni Ariosto Bandello Bembo Asolani Bembo Rime Britonio guidiccioni molza Sannazaro B. tasso trissino media ’500

(P + P) 25%

(P + P + S) 16%

P+S 7%

P/P/S 52%

36% 26% 37% 24% 35% 18% 5, 5% 22% 12% 25%

25% 56% 8% 21% 19% 57% 55, 5% 61% 20% 16%

8% 5% 6% 8% 19% 16% 11% 13% 24% 20%

31% 13% 49% 47% 27% 10% 28% 4% 44% 39%

38% 25%

19% 33%

12% 13%

31% 29%

1. Distribuzione dei tipi strofici

Petrarca

Alamanni Ariosto Bandello Bembo Asolani Bembo rime Britonio guidiccioni molza Sannazaro B. tasso trissino media ’500

(P + P) 25%

(P + P + S) 16%

P+S 7%

36% 26% 37% 24% 35% 18% 5, 5% 22% 12% 25%

25% 56% 8% 21% 19% 57% 55, 5% 61% 20% 16%

8% 5% 6% 8% 19% 16% 11% 13% 24% 20%

38% 25%

19% 33%

12% 13%

P/P/S

52% 31% 13% 49% 47% 27% 10% 28% 4% 44% 39% 31%

29%

2. in evidenza i valori più vicini alle percentuali petrarchesche.

224

Petrarca

Alamanni Ariosto Bandello Britonio Bembo Asolani Bembo rime guidiccioni molza Sannazaro B. tasso trissino media ’500

P+P 25%

P+P+S 16%

P+S 7%

P/P/S 52%

36% 26% 37% 18% 24% 35% 5, 5% 22% 12% 25%

25% 56% 8% 57% 21% 19% 55, 5% 61% 20% 16%

8% 5% 6% 16% 8% 19% 11% 13% 24% 20%

31% 13% 49% 10% 47% 27% 28% 4% 44% 39%

38% 25%

19% 33%

12% 13%

31% 29%

3 in evidenza i valori in linea con la media cinquecentesca

Petrarca Alamanni Ariosto Bandello Britonio Bembo Asolani Bembo rime guidiccioni molza Sannazaro B. tasso trissino media ’500

P+P 25% 36% 26% 37% 18% 24% 35% 5, 5% 22% 12% 25%

P + P +S 16% 25% 56% 8% 57% 21% 19% 55, 5% 61% 20% 16%

P+S 7% 8% 5% 6% 16% 8% 19% 11% 13% 24% 20%

P/P/S 52% 31% 13% 49% 10% 47% 27% 28% 4% 44% 39%

38% 25%

19% 33%

12% 13%

31%

29%

4. in evidenza i valori che più si discostano dalla media cinquecentesca

225

iV ProCeDimenti ArgomentAtiVi e SViLUPPo DeL DiSCorSo LiriCo

4.1 Strutture metrico sintattiche e strutture tematiche Ancorare la riflessione sui procedimenti di sviluppo espositivo messi in atto dalle canzoni del corpus – ma potremmo dire dalle canzoni tout court – a criteri classificatori stringenti non è immediato. il movimento di evoluzione che si insedia nel metro lungo ammette una gamma di sfumature non computabile o non prevedibile a priori, poiché solo in rare occasioni si attaglia ad uno schematismo chiaro, come ad esempio nei testi che ritornano circolarmente su se stessi (con cosiddetta ring composition) o in quelli con nette svolte tematiche che segmentano parti precise. invece, per la maggior parte dei casi, come del resto ben si intuisce, l’espressione della forma lirica, per sua natura intimistica e divagante, non segue una scansione progressiva o lineare, ma spesso cerca di dissimulare nella messa in serie delle strofe un immobilismo di fondo oppure asseconda un andamento con esitazioni e scarti impalpabili che si colgono solo avvicinandosi con pazienza puntuale alle realizzazioni specifiche dei contenuti. Di conseguenza, è evidente che se la gestione dell’argomentazione si precisa solo o principalmente penetrando gli aspetti del significato e se essa non patisce di essere ridotta ad un modello astratto determinato, in parallelo si assottiglia anche lo spiraglio delle possibilità di andare oltre descrizioni particolari che riguardino i singoli componimenti e di raggiungere il piano di una superiore visione d’insieme. Per risolvere l’impasse metodologica ed evitare di incorrere nel rischio di una dissoluzione pulviscolare dei rilievi mediante una rassegna 226

miscellanea asistematica, ritengo preferibile ricollocare i termini della questione in una prospettiva diversa che, anziché orientarsi innanzitutto sul dato semantico, parta col rivolgersi all’osservazione dei fenomeni formali di tangenza tra metrica e sviluppi sintattici, con la convizione che in ciò si installi un indizio significativo di rilevanza argomentativa. Usando un’accezione leggermente traslata indico con il termine ‘ritmico’ questo nuovo scorcio di visuale, riferendomi al fatto che il ‘ritmo’ viene tradizionalmente definito come “ordine del movimento”. Posto che l’argomentazione sia assimilabile ad un movimento effettivo o solo apparente, se essa si radica e si distende, attraverso i suoi nuclei di progressione sintattica, calandosi all’interno della forma canzone, il risultato sarà un tracciato melodico il cui ordine razionale si riconosce proprio in relazione alla griglia che tale metro, istituzionalmente modulato in sezioni, fornisce come schema-guida. L’assunto preliminare risiederà, dunque, nella constatazione che la canzone unisce alla caratteristica di metro lungo quella di metro frazionato in porzioni concretamente accertabili, in battute di durata versale stabilita. il riconoscimento di questa sua duplice peculiarità porta ad affermare che nella canzone gli slanci e gli arresti logici del fraseggio poetico non cadono in punti dispersi, vaghi, non soggetti ad una calibrata individuazione spaziale rispetto al complesso del testo – come avviene invece, ad esempio, in un flusso continuo di endecasillabi sciolti, in cui è più arduo stabilire un ordine di riferimenti – ma che viceversa gli snodi risentano, in qualche modo, della segmentazione metrica interna, la cui ragion d’essere sarebbe per l’appunto quella di svolgere un ruolo direttivo primario nella distribuzione dei concetti. inoltre non varrebbe la pena di ricordare che la canzone si ramifica in stanze, ciascuna delle quali, con una sorta di imperfetta ma allusiva mise en abîme, si rifrange in partizioni, se questa precisazione non contribuisse a rendere più minuzioso il procedimento di scandaglio effettivo dei componimenti. Ammesso che, sebbene con intensità differenziata, tutte le linee di marcatura, sia gli stacchi strofici, che le articolazioni interne alla stanza, sono parti integranti di quel pentagramma metrico su cui si produce il discorso lirico, allora lo sviluppo argomentativo di un testo si può scorgere da un lato a livello microscopico, cioè nelle interazioni che si tendono tra sottounità della stanza, dall’altro a livello macroscopico, cioè nell’architettura dialettica che le strofe stesse edificano. 227

4.1.1 La dispositio dei nuclei tematici all’interno della stanza Per quanto riguarda la strofe isolata, ho già avuto modo di suggerire qualche annotazione nel capitolo precedente, specie quando ho constatato che il punto nevralgico della concatenatio è spesso interessato dalla presenza di congiunzioni o avverbi che segnalano un rivolgimento avversativo dell’argomentazione (“ma”), oppure la maturazione di una svolta deduttiva (“onde”, “ché”, “così”)1 dopo un accertamento avvenuto nei primi versi della fronte. Concentrando lo sguardo sulle stanze a partizioni indipendenti, nelle quali la mancanza di legami sintattici stringenti permette di discernere meglio le peculiarità dei comparti isolati e la loro funzione di segmenti giustapposti in sequenza, si rileva come si delineino spesso, e specie in prossimità della conclusione della canzone, quando è necessario risolvere il ragionamento con persuasività retorica, situazioni di incalzante progressione del discorso, ostentata attraverso la dislocazione ritmica di nessi lungo ciascun tratto metricamente significativo della struttura.2 ’Deh se per mio destin voci mortali, et son di donna pur queste bellezze, beato chi l’ascolta et chi la mira; ma se non son, chi mi darà tante ali ch’io segua lei, s’aven ch’ella non prezze di star là ’ve si piagne et si sospira?’. Così pensava, e ’n quanto occhio si gira, vidi un che ’l dolce volto dipingea parte, et parte scrivea

Cfr. cap. 3, pp. 206-207. tale situazione sintattico-distributiva si ritrova in Bembo anche in Asolani iii, 9, str. iii (in avvio della stanza, v. 31 «e se», all’inizio del secondo piede, al v. 34 «ché», in coincidenza con la concatenatio al v. 37 «però s’io…», nel primo verso di combinatio v. 44 «Lasso…») e in B. Tasso, 2, LXii, str. v: (all’inizio di ciascuna partizione, v. 54 «e benché», v. 56 «indi», v. 59 «poscia»), mentre è praticamente assente dal panorama delle soluzioni petrarchesche, che si avvalgono di una minore perentorietà e conservano alle canzoni non tanto una progressione lineare quanto un incedere a spirale, caratterizzato da flussi e riflussi anche nella strofa finale, di cui si marca, tutt’al più, solo il verso iniziale e non anche le nervature interne (cfr. RVF 207, v. 79 «Così...», RVF 323, v. 61 «Alfin...»). 1 2

228

ne l’alma dentro le parole e ’l suono, dicendo: “Queste homai penne da gir con lei tu sempre harai”. Alhor mi scossi et, qual io qui mi sono, tal la mia donna bella m’era nel petto in viso et in favella. (Bembo, Asolani, iii, 8, str. v, vv. 61-75)

nell’ultima stanza della canzone iii, 8 degli Asolani, tutto concorre ad una distribuzione perspicua e scandita dell’estremo moto ragionativo. nel primo verso del primo piede viene formulata un’ipotesi speranzosa (v. 61 «Deh, se») che all’avvio del piede successivo viene ridiscussa (v. 64 «ma se non»), come nel più classico dei contraddittori; infine, il verso di concatenatio compendia, ellittico, le esitazioni (v. 67 «Così pensava»)3 per introdurre un inatteso epilogo a carattere narrativo (cfr. i verbi ed indicatori temporali al v. 68 «vidi…», e al v. 73 «Alhor mi scossi…»). Un caso che mette ancor più in evidenza la stretta consequenzialità delle sottounità è l’ultima strofe della canzone 2, Liii di Sannazaro: non sa la turba sciocca de’ miseri mortali qual pregio è rimaner dopo mill’anni. Così la morte scocca i velenosi strali, et in un punto sgombra i vani affanni. Ma chi pensa a’ suoi danni, potrà ben veder come poca polvere et ossa in una breve fossa si chiuderanno, e fia sepolto il nome. Però, mentr’ella è viva, trove di sé chi scriva. (Sannazaro, 2, Liii, str. vi, vv. 66-78)

Questo stilema riassuntivo e un po’ prosastico ritorna altre volte in Bembo a sottolineare lo snodo di sirma: ad esempio in Asolani i, 32, str. ii, v. 20 «Così dicendo», che agevola il passaggio dal discorso diretto alla parte descrittivo-narrativa. 3

229

Sulla constatazione quasi gnomica e intrisa di aristocratica superiorità che si stanzia nei tre versi incipitari si innesta un consentaneo corollario (v. 69 «Così») che getta luce retroattiva sulle premesse, per il fatto che grazie a quest’ultimo comprendiamo che se si denigra «la turba» come «sciocca» (v. 66) è perché essa accetta di consumarsi in «vani affanni» (v. 71), tollerando le sofferenze non necessarie e per giunta infruttuose che instilla un amore inappagato. Dalla sirma si innalza invece con prepotenza la voce sapiente del poeta che, in opposizione frontale agli altri, esplica la sua ragione lungimirante ed esprime la sua recusatio nei confronti di una sterile poesia elegiaca che non offre alcuna speranza di soddisfazione, nemmeno la rinomanza presso i posteri. L’effetto cangiante della stanza deriva innegabilmente dall’antinomia tra i concetti esposti, ma è procurato anche dal contributo di strappo logico che forniscono le congiunzioni divaricando i confini di partizione, compreso quello eufonico della combinatio (v. 77 «Però»). Una marcata scansione argomentativa può anche caratterizzare la strofa iniziale con l’intento palese, anche se più o meno dichiarato, di fornire il prologo ovvero il sommario del testo. Si osservi in proposito questo esempio, ancora di Sannazaro: Ben credeva io che nel tuo regno, Amore, fossin frodi et inganni, ma non tanti tormenti e sì diversi. or veggio un carcer pien di cieco orrore, di sospiri e d’affanni, che maledico il dì che gli occhi apersi. misero, a che ti offersi, senza conoscer pria tua mente cruda, l’alma semplice e nuda? Allor fusse ella di su’ albergo uscita! ché bello era il morire in lieta vita. (Sannazaro, 1, XXV, str. i, vv. 1-11)

Le partizioni strofiche procedono secondo una graduale evoluzione i cui segnali sono esposti fin dal principio di verso grazie all’uso modulato di tempi verbali, di avverbi e di accorgimenti interiettivi. i due piedi hanno un contenuto contrastante e ripercorrono il processo di disinganno del poeta che, solo dopo un’illusione iniziale (v. 1 «Ben credeva io»), ora è 230

consapevole della dura realtà (v. 4 «or veggio») delle sofferenze contraddittorie patite da chi ama, la cui descrizione occuperà la parte centrale della lirica. La sirma è introdotta da un’allocuzione accorata del poeta a se stesso che guadagna profondità allo sguardo retrospettivo (v. 7 «misero») ed è rincalzata sul finale da un ulteriore indugio patetico, procurato dal riverbero di una seconda esclamazione (v. 10 «Allor fusse ella...») sui confini della combinatio. il precedente autorevole per una simile distribuzione sintattica e argomentativa si rintraccia con facilità nei Fragmenta, in particolare nella stanza d’esordio della canzone RVF 207: Ben mi credea passar mio tempo omai come passato avea quest’anni a dietro, senz’altro studio et senza novi ingegni: or poi che da madonna i’ non impetro l’usata aita, a che condutto m’ài, tu ’l vedi, Amor, che tal arte m’insegni. non so s’i’ me ne sdegni che ’n questa età mi fai divenir ladro del bel lume leggiadro, senza ’l qual non vivrei in tanti affanni. Così avess’io i primi anni preso lo stil ch’or prender mi bisogna, ché ’n giovenil fallir è men vergogna. (RVF 207, str. i, vv. 1-13)

La strofa di Petrarca, pur nella dimensione più ampia di 13 versi di cui solo 3 settenari (di contro alla stanza di Sannazaro di 11 versi con 4 versi brevi) contiene numerosi elementi assunti nella ripresa cinquecentesca, a cominciare dall’incipit («Ben mi credea»). Fulcro della stanza è, anche in questo caso, la contrapposizione collocata nei due piedi tra un’erronea convinzione e l’attualità di un disinganno cocente. tuttavia, la costruzione sintattica e la tornitura armonica si rivelano più complesse nel pezzo di Petrarca, soprattutto se si mettono a confronto i secondi piedi e l’explicit di ciascuna delle due stanze. nel poeta cinquecentesco il corpo strofico è animato dall’equilibrio di dittologie e pacificate costruzioni simmetriche ed è individuato da un tono carico d’enfasi, laddove i versi dell’antecedente sono mossi da anastrofi (vv. 5-6) e iperbati moderati (vv. 11-12), inseriti in un tessuto ben più pacato che si nutre di richiami 231

circolari (cfr. il ritorno del polittoto ai vv. 1-2 «passar», «passato» e ai vv. 11-12 «avess’io... preso», «prender»). inoltre, la scansione di periodi e argomenti in Sannazaro è sicronizzata con i passaggi intrastrofici di piedi, sirma e combinatio, mentre in Petrarca l’ultimo scatto è impresso dal terzultimo verso (v. 11 «Così...»), con promozione della misura versale settenaria a segnale di trapasso in luogo della più convenzionale cobbola di endecasillabi a rima baciata. Scegliendo di ripassare il distico finale, nonostante anche lo schema individuato avrebbe permesso di isolare una terzina di settenario + endecasillabo + endecasillabo, Sannazaro, tuttavia, non rinuncia a intonare gli ultimi versi su quanto suggerito dal modello. ecco, allora, che in entrambe le stanze trova spazio non solo lo slargo del desiderio irrealizzato e ormai irrealizzabile (Sannazaro, v. 10 «fusse ella», Petrarca, v. 11 «avess’io»), ma anche la chiusa gnomica dell’ultimo verso avviato dalla congiunzione paracoordinativa «ché».4 Compattezza argomentativa – che potremmo in senso lato definire ‘sillogistica’ – può essere conferita alla strofa anche dalla replicazione nelle diverse partizioni del medesimo costrutto, con progressiva amplificazione e arricchimento dei termini, come si osserva in questi due esempi: gigli, caltha, viole, acantho et rose et rubini et zaphiri et perle et oro scopro, s’io miro nel bel vostro volto. Dolce harmonia de le più care cose sento per l’aere andar et dolce choro di spiriti celesti, s’io v’ascolto. tutto quel che diletta, inseme accolto et posto col piacer, che mi trastulla se di voi penso, è nulla.

non nobiltà di sangue, onde ne sete sol quanto si conviene in vista altera, non di ricchezze onor vano e di stati, non terrena bellezza, che la sera semina il tempo, e la mattina miete, vi dan pregi sì rari e sì lodati. Che la gloria del sangue è de’ passati, i quali con la mano, con l’ingegno, e col proprio valor si fero illustri;

Alle strofe di Petrarca e di Sannazaro appena descritte si può accostare anche la stanza proemiale di Trissino LXiV (vv. 1-13), in cui si ripresentano lo stesso attacco e la dinamica temporale tra passato e presente, ma non un’organizzazione della sirma comparabile: « Ben mi credeva in tutto esser disciolto/ da’ tuoi legami, Amore,/ che distretto m’havean sì lungamente;/ hor son in lor, più che mai fosse, involto,/ e sento che ’l mio cuore/ è circondato d’una fiamma ardente;/ ond’io volgo la mente/ spesse fiate al mio amoroso stato/ e dico: - Hor sia lodato/ quello ardente, leggiadro, alto disire/ ch’a Donna sì gentil mi fa servire,/ che vince di bellezza ogni altra bella,/ come di luce il Sol vince ogni stella-.» 4

232

né giurerei ch’Amor tanto s’avanzi perc’ha la face et l’arco, quanto per voi, mio pretioso incarco; et hor me ’l par veder, ch’a voi dinanzi voli superbo et dica: ‘tanto son io, quanto m’è questa amica’. (Bembo, Asolani, iii, 9, str. v, vv. 61-75)

vive a pena due lustri mortal beltà, che senz’altro sostegno è quai rose e ligustri; e dono la ricchezza è di fortuna, che non osserva mai promessa alcuna. (B. tasso, 3, XLVii, str. iii, vv. 29-42)

nella strofa di Bembo, a partire dall’impaginazione sintattica di marca ipotetica e con anticipo del complemento oggetto rispetto al verbo della frase matrice, che interessa i due piedi ternari, si propaga una sorta di ordinata suddivisione dello spazio versale in cola di tre versi che coinvolge dapprima l’avvio della sirma, ancora in consonanza con il movimento della fronte, e poi anche il finale della stanza. La simmetria, lontana dal risolversi nel meccanismo, ospita elementi di variatio che, pur nell’ambito di un’intonazione impostata e ripetuta, introducono una nota di movimentazione della linea melodica. All’accumulo nel primo piede di sei elementi distribuiti nello spazio bipartito del primo distico corrisponde nel secondo piede l’enumerazione di una dittologia quasi sinominica in posizione di trazione, non a stretto contatto e, proprio per questo, tenuta insieme nella successione dall’anafora sul medesimo attributo (v. 64 «dolce armonia» e v. 65 «dolce choro»). nella sirma l’inventario dei pregi è compendiato in un’espressione sintetica, che compare sempre ad inizio partizione. nei tre comparti, poi, sullo sfondo della costruzione ipotetica che pone in climax azioni di un processo di rarefazione che va dalla constatazione percettiva alla sublimazione intellettuale (v. 63 «s’io miro», v. 66 «s’io v’ascolto», v. 69 «se di voi penso»), muta la posizione del verbo principale, e dunque l’appoggio intonativo della frase (all’inizio del terzo verso nel primo piede, v. 63 «scopro»; all’inizio del secondo verso nel secondo piede, v. 65 «sento»; al termine ultimo nel terzo verso della sirma, v. 69 «è nulla»). Quanto all’esempio tratto dalla canzone di B. tasso, anche qui funziona lo stilema giustappositivo del catalogo, sebbene esso inneschi nello spazio strofico un principio di ordine ad un livello differente. Se, in quanto osservato sopra, la svolta argomentativa avviene nella sirma tramite l’introduzione dell’ingrediente lessicale di riepilogo-conclusione («tutto quel che diletta»), qui lo scarto coincide sempre con il valicamento della diesis ma si serve di un gesto più ampio che accentua la polarizzazione frontesirma nella stanza. Con varia estensione nel modulo binato dei piedi sono 233

inseriti tre supposti vanti che garantiscono la fama alla donna celebrata nel testo. La mise en relief replicata in anafora metrica dell’avverbio di negazione (vv. 29, 31, 32) mostra da subito l’illusorietà degli attributi elencati che fanno massa nella fronte, ma è la sirma a procurare la stretta finale del ragionamento riprendendo, in due cellule ternarie e nel distico di combinatio, i termini esposti uno per uno e illustrandone con prove dimostrative l’inconsistenza. La variatio, necessaria in questa disposizione del discorso anche a fini stilistici, assume però un rilievo di carattere ragionativo. L’inversione dell’ordine in cui sono ripresentati gli attanti non appare particolarmente significativa, mentre degna di nota risulta la loro puntualizzazione semantico-lessicale che mostra come la sirma, che non si incarica, in effetti, di confutare quanto detto nella fronte, abbia il compito di inasprire i toni e portare alle esteme conseguenze quanto in nuce era già stato esposto nelle premesse: v. 29 «la nobiltà di sangue» diventa al v. 35 «gloria di sangue», qualità estrinseca, riferibile in senso proprio non già a chi la eredita ma a chi l’ha acquisita in passato; v. 32 la «terrena bellezza», già soggetta ai rovesci del tempo (vv. 32-33 «che la sera/ semina il tempo, e la mattina miete»), si carica di una più perspicua connotazione caduca al v. 39 dove è definita «mortal beltà»; infine, la ricchezza si tramuta, secondo un sentimento tipicamente rinascimentale, da segno di distinzione («di ricchezze onor» v. 31) a mero accidente distribuito senza rispetto dei valori proporzionali di merito («dono è la ricchezza di fortuna» v. 41). Anche in mancanza di un’evidente progressione argomentativa, la ripetizione di strutture sintattiche come semplice strumento per la messa in serie agisce da collante per le partizioni giacché crea un’atmosfera unitaria all’interno della stanza e un prevedibile orizzonte d’attesa. in questo senso devono essere letti esempi come i seguenti: ohimé la bella fera ch’io cacciai tanto in vano; tolta al mio desiar d’altrui fu preda, l’anticha primavera lasciando me lontano conviene homai ch’al pigro verno ceda,

234

Dal fondo allor usciro guizzando i pesci snelli, tratti dal fuoco di que’ vivi rai. e ratto si sentiro i vaghi e pinti augelli cantar più dolce dell’usato assai.

amante più non creda a’ lieti frondi e fiori; che frutto poi non nasce, et mentre indarno pasce folle speranza de lor falsi honori; siam poi carchi alla fine di secchi rami, e di pungenti spine. (Alamanni, i, 209, str. iii, vv. 27-39)

Ben tel ricordi e sai com’in quell’ora e punto per mirar la beltate con tanta maestate quanta ne mostra quel divino volto, che Febo a lei rivolto rattenne il carro a mezzo il corso giunto: ch’innanzi al vago viso vide la gloria d’un bel paradiso. (Bandello, Ciii, str. vi, vv. 76-90)

in Alamanni, la descrizione campestre si articola, in maniera solidale con la segmentazione metrica, in tre momenti di densità metaforica. nel primo piede campeggia la donna, «bella fera» di petrarchesca memoria, ma qui cacciata invano perché preda di un altro pretendente; nel secondo, lo sguardo dell’io lirico si espande al paesaggio e riscopre la lontananza della «primavera», del tempo delle illusioni; infine, nella sirma, è squarciato anche l’ultimo velo d’inganni delle promesse amorose che, al pari di alcuni attraenti boccioli, sono parvenze destinate a sfiorire e a lasciare i rami disadorni e privi di frutti. La continuità tematica trova convalida non nell’ampia campata sintattica, ma nel riecheggiamento dei costrutti, specie nei due piedi, dove il periodo inizia ponendo in prima posizione il soggetto/attante metaforico, a cui segue un’interposizione sospensiva al secondo verso (una relativa, nel primo caso, v. 28 «ch’io cacciai tanto in vano» e una proposizione al gerundio nel secondo, v. 31 «lasciando me lontano») e solo infine la comparsa del verbo principale. Quanto alla sirma, rispetto all’inizio sopravvive solo la topicalizzazione del soggetto e la maggior parte dello spazio versale è impiegato a svolgere, sempre nel campo dei traslati metaforici ma con maggior agio e più particolari, il tema del doloroso disincanto. La strofa di Bandello funziona in base ad un principio analogo, se vogliamo ancor più semplificato. nell’ambito dell’apparizione beatificante della donna nel paesaggio in ciascuno dei piedi è inscenato un evento prodigioso con una simmetria facile e a tratti persino ‘cantabile’, specie quando arriva a mettere a contatto due rime desinenziali (vv. 76, 79 «usciro»:«sentiro»); anche nella sirma, pur con l’innesto di espansioni frastiche e di complementi, l’andamento periodale instaurato si reitera ulteriormente. 235

ma se nei poeti primo cinquecenteschi le interazioni tra archi periodali e sintassi sono, al di là delle rilevanze di normale sincronia metrico-sintattica, spesso caratterizzate da lievi sfasature rispetto alla partitura ritmica, non sorprende che non siano troppo infrequenti le strofe in cui le inversioni di tendenza o le torsioni del discorso non ribattono l’avvio delle partizioni, ma cadono in levare, con un intervallo di anticipo o di ritardo rispetto al confine musicale. tali manifestazioni di smussamento degli spigoli argomentativi si colgono a colpo d’occhio, ad esempio fissando l’attenzione sulle posizioni che assume la congiunzione avversativa, con la quale si indica convenzionalmente un chiaro scarto del pensiero. il passaggio di partizione dovrebbe favorire l’adagiarsi sul confine delle pieghe del discorso e quindi anche la contrapposizione antitetica di unità adiacenti. Quando però una sensibilità lirica spiccata faccia avvertire la strofe come un contenitore con peculiarità tradizionali da allentare o rimodellare in modo creativo, allora sarà possibile rintracciare anche casi in cui l’opposizione slitta in avanti e favorisce l’insediamento di una sovrastruttura logica che si accavalla su quella metrica:5 Quante dolcezze con amanti unquanco non eran state certo infin quel giorno, tutte fûr meco, et non la scorsi apena: vincea la neve il vestir puro et bianco dal collo a’ piedi, e ’l bel lembo d’intorno havea virtù da far l’aria serena; L’andar toglieva l’alme a la lor pena et ristorava ogni passato oltraggio; ma ’l parlar dolce et saggio che m’havea già da me stesso diviso, e i begli occhi et le chiome, che fûr legami a le mie care some, de le cose parean di paradiso

5

oltre all’esempio bembiano, si può far riferimento anche alla prima strofa della canzone LiX di trissino, che è riportata qui a p. 145, oppure alle strofe ii, iii e v della canzone 1, XXii di B. tasso, alla strofa v di molza iV, alla strofa iv di molza Vi, alla strofa i di molza Viii, alla strofa vi di Britonio i, 84 e alla strofa ix di Ariosto V, alle strofe iv e v di guidiccioni CXXii.

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scese qua giuso in terra, per dar al mondo pace et torli guerra. (Bembo, Asolani, iii, 8, str. iv, vv. 46-60)

La strofa, che – è interessante notare – precede quella con contorni intensamente ripassati, a cui accennavo poche righe sopra, instaura all’inizio una enumerazione. il poeta anticipa nel primo piede l’intenzione di stendere un catalogo delle bellezze dell’amata giusto intravista da lontano, ma ugualmente capace di propagare le sue qualità mirabili. nel secondo piede comincia, dunque, la rassegna con un infinito sostantivato a rappresentare il primo pregio che si scorge al passaggio, l’abito candido (v. 49 «il vestir puro et bianco») naturalmente espanso da una specificazione frasale all’imperfetto descrittivo-rievocativo. nella sirma prosegue la cadenza anaforica infinitiva con la nota del portamento (v. 52 «L’andar») che, disponendosi su due versi, lascia intendere che la raffigurazione prosegua con ulteriori dettagli. in effetti, però, la ricostruzione acquista un valore di gradatio ascendente nel momento in cui, nel terzo verso dell’ultima partizione, la comparsa della congiunzione avversativa «ma», che affianca ancora una volta un infinito nominale corredato da una coppia di attributi, proprio come al v. 49 (v. 54 «ma ’l parlar dolce et saggio»), segnala che gli elementi non sono semplicemente giustapposti in un elenco, bensì ordinati in un’incatenata progressione dialettica. Pertanto, arrivati in fondo alla strofa, ci si accorge che, benché non sia intaccata la sostanza normativa delle partizioni, che sono scalate senza particolari infrazioni sintattiche, ciò nonostante ragioni di rilevanza retorica impongono una redistribuzione degli spazi secondo la quale tra la fronte e i primi due versi dopo la pausa di diesis si inarca un ponte di continuità logica, mentre un movimento leggermente scostato nella prospettiva prende avvio in modo inaspettato nella sede priva di significatività metrica del terzo verso della sirma. inoltre, riconosciuta valida questa stessa linea di interpretazione, non può essere reputato fortuito lo stanziamento dell’eco del distico dantesco «et par che sia una cosa venuta/ da cielo in terra a miracol mostrare»,6 su tre versi con intonazione legata (vv. 58-60) che svicolano da una possibile chiusa marcata in combinatio sintattica. Un altro esempio degno di interesse può essere tratto dalla canzone 6

Cfr. Alighieri, Vita nova, cap. XXVi, sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare, vv. 7-8.

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CXXiX di guidiccioni, autore che già in più circostanze si è dichiarato nelle scelte testuali particolarmente incline alle linee morbide e ai contorni sfumati: gli amorosetti augelli di questo inculto loco al tristo suon degli aspri miei lamenti non più leggiadri et belli, canton lor dolce foco, ma con pietose voci et mesti accenti piangon li miei tormenti et la mia afflitta vita. Ché non fu mai né fia ugual pena alla mia , qualhor ripenso al’empia dipartita: ma ’l ciel più sordo fassi, quant’io più piango intorno a questi sassi. (guidiccioni, CXXiX, str. iii, vv. 27-39)

Se lo slittamento in avanti del movimento oppositivo dalla sede di concatenatio ad un altro verso di poco successivo, pur disattendendo la scissione polare tra le due parti della stanza, conserva tuttavia nel territorio della sirma l’intervento di scarto, l’anticipazione del «ma» e l’avvio del contrasto tematico, argomentativo e intonativo nell’ultima propaggine del secondo piede sorprende il lettore, specie se i segmenti opposti messi a reagire in asimmetria ostentano una costruzione che tenderebbe ad un parallelismo di fondo.7 Una volta fatto erompere al di là della chiusa della fronte, il flusso lirico pervade con movimento inarcante (dovuto, non lo si nasconde, alla testura ricca di settenari) la sirma e si arresta, ripristinando un qualche allineamento con l’architettura sul comparto di combinatio (vv. 37-38), a sua volta segnato da un’avversazione che sembra invalidare tutti gli sforzi profusi dal poeta e dalla compassionevole natura. Per certi versi, qualcosa di simile si osserva anche in molza:

7

Al v. 30 «Cantan lor dolce foco» risponde in simmetria il v. 32 «Piangon li miei tormenti».

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Un’altra è, che spuntando la gran face del primo Sol, in bianca vesta appare; poiché sormonta, nuovo color prende, che a porpora del tutto si conface; ma quando per bagnarsi in mezzo ’l mare col carro d’oro, e riposar discende, conforme al ciel si rende. Così cerulea resta verso la sera, e desta spesso d’altrui benigna e chiara fama, non altrimenti al ciel, quando mi chiama l’alma mia speme con diverso effetto, corregge ogni mia brama, e guida sol col varïato aspetto. (molza, i, str. iii, vv. 29-42)

L’esordio della stanza (vv. 29-32), dedicata alla descrizione di una pianta fotosensibile, capace di mutare il colore del suo fiore nei diversi momenti della giornata, farebbe presagire un pacato movimento per distici, contenibile all’interno della misura esastica della fronte. Questo andamento è tradito nel corso dell’ultimo dei tre cambiamenti di sfumatura menzionati che, oltre ad essere introdotto da una tenue avversazione (v. 33 «ma»), perde la misura binaria sconfinando nel verso di chiave. È allora il secondo verso della sirma ad avviare la pennelleta conclusiva e a precisare il quadro disegnato (v. 36 «Così») tanto da creare un attacco consono, su un terreno comune, per il secondo estremo del paragone (v. 39 «non altrimenti...»). Le similitudini ampie e, più in generale, le proposizioni comparative (sia ‘normali’ che ‘figuranti’),8 molto spesso costituiscono uno degli strumenti primari adoperati dai poeti per organizzare la stanza in ordine a principi di simmetria non solo sintattica ma anche argomentativa.9 Proprio per questo, dunque, nell’ottica di un trattamento sinuoso della strofa,

Secondo la distinzione di Berra 1992, 74, «le proposizioni comparative “normali” impostano un confronto, ma non possono definirsi similitudini né comparazioni perché prive dell’elemento figurante o traslato». 9 Cfr. qui pp. 118-119. 8

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esse sono tra le prime ad essere interessate da scarti, a sfuggire a prevedibili collocazioni all’interno della griglia delle partizioni. Come il dì chiaro aggiunto ven col sole, et con tenebre anchor giunge la sera el foco con la luce s’accompagna, con neve il Verno e fior la Primavera, et con odor rinascon le Viole, en varie guise appare ogni campagna, con pietre ogni montagna, così nacqu’io con fiera stella in terra, a sopportar la guerra di questa vita travagliosa e vana, tal che mai lingua humana dir non poterbbe il duol, ch’io sento, e provo in questo viver morto in ch’io mi trovo. (Britonio, i, 235, str. v, vv. 53-65)

Come serpente, ch’un pastor ritrova di nuove spoglie e di veneno armato, starsi al buon tempo al sol sopra l’arena, riceve il colpo, ond’ei riman fiaccato innanzi che al ferir l’arme sue mova, tal che da vendicar sua cruda pena, né da fuggir ha più vigor né lena: così stanno or i crudei turchi, e i Persi non men privi d’ardir che di possanza, perciò che credon dal valor di Franza, e da le vostre braccia esser dispersi. Dunque voi, che conversi sete a farvi immortai qua giù per fama, ch’altro s’attende, poiché ’l ciel vi chiama? (molza, ii, str. iii, vv. 29-42)

in entrambi i casi sopra riportati esiste un’estensione quasi equipollente tra fronte e sirma (nella stanza di Britonio 6 versi tutti endecasillabi contro i 7 versi della sirma di cui tre settenari; nella stanza di molza 6 endecasillabi nella fronte contro 8 versi della sirma, di cui un solo settenario). tale bilanciamento tra le due sottoarticolazioni della strofa non favorisce una pacifica disposizione del primo e del secondo termine di paragone nelle sedi metriche deputate di fronte e sirma, ma incoraggia una lieve infrazione della maglia metrica che consiste nel ritardare la principale al verso immediatamente successivo a quello di chiave. nella stanza di Britonio all’ingresso del comparato si accompagna anche una sensibile variazione dell’andamento del periodo che, da eufonica giustapposizione ripetuta di cola monoversali, si fa più tornito contenitore dell’antinomia esistenziale dell’io lirico (cfr. v. 65 «viver morto»). nella stanza della canzone di invito alla crociata composta da molza, invece, l’assimiliazione tra il nemico turco, contrassegnato dalla marca orientale della doppiezza e della lascivia, e l’insidioso aspide che ozia al sole è più equilibrata relativamente al modo in cui veicolo e tenore sono presentati, anche se una disparità c’è e si misura dal punto di vista dello spazio che ai due elementi viene assegnato. Se, infatti, 240

l’inclusione della concatenatio nel movimento argomentativo della sirma avrebbe potuto creare un perfetto rispecchiamento di 7 e 7 versi, in realtà molza riserva un respiro più esteso al momento dell’immagine ferina e sottrae spazio versale al comparto che avrebbe dovuto spiegare le ragioni della corrispondenza con l’infedele, il tutto al fine di ritagliare un epilogo di strofa dichiaratamente parenetico (vv. 40-42). Benché il risultato delle stanze sia quello dell’eliminazione dello stacco di diesis, si può convenire che l’attesa di un completamento correlativo ingenerata dalla prolessi della comparativa nonché la piana convergenza del verso di chiave verso la musicalità della fronte per insiti motivi di identità rimica contribuiscono a rendere meno risentita10 una simile dislocazione dei nuclei tematici all’interno della stanza. Diverso caso, invece, è quello in cui l’instaurazione del paragone arriva imprevista, sia per collocazione metrica nella strofa che per generale organizzazione del discorso. Di quanti al mondo mai gravi tormenti trovaro empi tiranni, se ’l vero odo, passò quel di mezenzio ogn’altro molto; lo quale i vivi a quei di vita spenti È vero che la struttura comparativa nelle strofe di Petrarca rimane per lo più ligia alla scansioni delle partizioni; spesso la stanza nel Canzoniere è dialettizzata nei due blocchi di fronte e sirma e quando questo non accade la distribuzione alternativa del secondo momento argomentativo non interessa zone che potremmo definire “ambigue”, come ad esempio il verso di chiave, ma territori meglio definibili: è sincronizzata con l’inizio del secondo piede, con il distico di combinatio, oppure con versi centrali della sirma, etc. in proposito, cfr. quanto accade in RVF 135, oppure nella ii strofa di RVF 331 (qui a p. 191), dove il secondo termine di paragone è innestato ordinatamente nel secondo piede e si prolunga poi fino al terz’ultimo verso della sirma senza destabilizzare l’intonazione, già preparata ad un prolungamento dalla costruzione prolettica della subordinata al gerundio (v. 16 «così, mancando a la mia vita stanca/ quel caro nutrimento…»). infine si veda la ii str. di RVF 72, che contiene una comparativa figurante tutta all’interno della seconda metà della sirma (vv. 40-45). tuttavia, bisogna riconoscere anche che «le forme sintattiche proposizionali, vale a dire il modello usuale della similitudine (come… così), non sono nel Canzoniere molto numerose, coerentemente con l’intento innovativo e anticonvenzionale che Petrarca manifesta nel trattamento della figura» anche attraverso la predilezione per una varietà di soluzioni di paragoni dissimulati, cioè «forme non rilevanti per la struttura sintattica della frase» (Berra 1992, 93). L’esigenza di una non prevedibile impaginazione delle figurazioni appare, dunque, già presente nel modello trecentesco. 10

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legò più volte, e con orribil nodo le mani giunse a le mani, il volto al volto. Così a le genti meschinelle tolto da quegli era lo spirto; cotal pena, se presta non chiudete i passi intorno, a voi medesma un giorno ordir vi veggio, e senza ora serena restar legata in più crudel catena. (mol i, str. iv, vv. 37-48)

La descrizione del terribile tiranno etrusco mesenzio, solito a legare a coppie prigionieri vivi a prigionieri morti, che funge da veicolo della comparazione, sconfina dalla fronte sino a comprendere la parte liminare della sirma. il secondo termine del paragone è, infatti, introdotto nel secondo emistichio del secondo verso della sirma e l’arditezza dell’ubicazione va di pari passo con l’originalità del tema proposto. L’antico supplizio descritto è ritenuto simile a quello che dovrà scontare la donna amata qualora assecondi a unirsi in matrimonio con un pretendente non degno della sua superiore e quasi celeste virtù.11

4.1.2 La dialettica tra stanze Dopo aver esposto poche ma necessarie considerazioni sul trattamento interno della stanza, che vanno a completare il quadro sintomatico delle riformulazioni ritmiche di metrica e sintassi inoculate nelle singole cellule della canzone, spostiamo finalmente il baricentro dell’interesse alla dialettica tra stanze, che più di tutto appare responsabile della fisionomia espositiva generale del componimento. Lo stacco strofico, fin dalle origini, era una delle poche marche metriche segnalate nella mise en page in scripio continua del testo12 e fungeva da

La canzone costituisce assieme a mol ii un dittico che si potrebbe definire di “antiepitalami”. in essi il poeta, anziché celebrare l’unione degli sposi, paventa e poi depreca le nozze dell’amata con un rivale indegno. 12 Se dalla consistenza grafica e materiale di una lirica si possono trarre considerazioni 11

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regolato meccanismo per l’utilizzo a tutti gli effetti autonomo delle stanze negli scambi organici delle tenzoni poetiche. in proposito basti considerare che nella matura poesia trobadorica esso era talmente accentuato che arrivava al punto di pregiudicare la possibilità di una stretta e coerente successione interna nella lirica.13 Successivamente, con l’assunzione e il graduale sviluppo della forma nella tradizione italiana, della canzone si sono iniziate ad esaltare le virtualità di ampiezza e continuata sequenza progressiva, specie ad opera dei poeti capostipiti come Dante, che in essa ha insediato le più alte meditazioni filosofiche, o come Petrarca, che, con logica meno serrata, ha sempre composto testi dotati di una raffinata e sotterranea tenuta argomentativa, a cui solo in questi ultimi anni i critici stanno restituendo il giusto peso.14 Se i lirici del Cinquecento, guardando a quei riferimenti trecenteschi con l’intenzione di potenziare gli strumenti di persistenza armonica del filo poetico nonostante l’alternanza delle suddivisioni o anche solo con il desidero di forzare le barriere metriche per il gusto di destrutturare, attraverso nuovi inserti tipologici,15 la grammatica tradizionale nel momento stesso del suo riconoscimento normativo, hanno dimostrato in più anche relative ai punti significativi della sua articolazione interna, si presti attenzione a quanto rileva Brugnolo 2006, 33 nella canzone, così come è riportata nei codici duetrecenteschi italiani e più in generale romanzi: «non si va mai a capo alla fine di ogni verso, tranne che alla fine dell’ultimo verso di ogni strofa. L’essenziale è dunque non l’autonomia e l’unità del verso, ma l’autonomia e l’unità della strofa (che comincia sempre all’inizio di una riga nuova e, in genere, con una grande iniziale maiuscola)». 13 Per confortare questo giudizio si pensi piuttosto al fatto che in diversi casi se i manoscritti non riportano concordemente la successione strofica delle canzoni provenzali è piuttosto difficile stabilire la lezione corretta inferendola da evidenze di carattere contestuale (cfr. Di Girolamo 1983, 59-60). 14 Ci si riferisce soprattutto ai lavori di marco Praloran, che cercano di riportare alla luce dell’evidenza i percorsi non lineari ma comunque necessitanti dell’argomentazione petrarchesca, premuta e indotta a parziali devianze dalle dinamiche irrazionali del desiderio. (Cfr. Praloran 2003b). 15 Cfr. Ariani 2001, p. 169: «La demiurgia ordinatrice del Bembo ha inteso mettere fine alle varie mescidazioni cortigiane di fine Quattrocento e primo Cinquecento: una volta assolta la reductio ad unum (a Petrarca, cioè) il Bembo ha inserito nelle Rime, meccanismi di combinazione e devianza dalle norme da lui stesso stabilite» e poco oltre a p. 170: «L’intervento normativo del Bembo era storicamente necessario per istituire regole che agevolassero uno sperimentalismo non centrifugo e caotico.».

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casi la tendenza a stanziare contrappunti nella ritmica delle sottopartizioni dei componimenti, non c’è ragione di pensare che simili propensioni “leganti” non abbiano interessato (senz’altro con intensità più moderata, ma comunque percepibile) anche l’assetto più generale della canzone e in particolare quanto inerisce alla forza coesiva manifestata a livello transstrofico. in virtù di tale parallelismo – si accennava sopra ad una sorta di tecnica di mise en abîme - che si crea tra piano interno e piano esterno alla cella individuale della stanza, come in precedenza sono stati analizzati i casi di connessioni tra sottounità metriche attraverso le campate periodali o mediante alcune marche di natura retorica, così, di seguito si cercherà di proseguire l’esame con i medesimi criteri anche per le macrounità adiacenti della canzone, ossia le strofe stesse e i gruppi di strofe contigue, di cui si prenderanno in considerazione le tipologie di legamento, sia retorico che sintattico. naturalmente l’orizzonte d’attesa, nonostante il provato spirito sperimentale insito nell’organizzazione periodale del classicismo del XVi secolo, sarà proiettato su risultati di proporzioni inverse a quelle affiorate nello studio del trattamento delle partizioni interne alla strofe. Data la rigida perentorietà dell’intervallo strofico e la tendenziale autosufficienza dei nuclei stessi, caratteristiche praticamente mai infrante negli archetipi petrarcheschi, si ipotizza e si riscontra concordemente che le stanze che sono messe in successione solo per ragioni contenutistiche e che quindi non presentano, accanto al dato semantico, alcuna spia formale univoca ed esposta di strutturazione seriale (ad esempio avverbi di tempo o congiunzioni conclusive e indizi di passaggi logici) sono la maggior parte. Poi, per consistenza numerica, seguono i gruppi di stanze che suggeriscono una correlazione data da manifeste riprese lessicali ai margini (coblas capfinidas), oppure quelle che sono provviste di uno schema organizzativo riecheggiante, simile e coeso per evidenze retoriche e per ricorrenza di stilemi, ovvero che ostentano tra loro nessi di sequenzialità. infine, più rari ma non inesistenti, sono censiti anche esempi di strofe appaiate coinvolte in una vera e propria dipendenza sintattica. Forse ora risulterà con più evidenza quanto si diceva all’inizio, ossia che le annotazioni di carattere eminentemente formale sul progresso del flusso argomentativo possono riguardare, a livello di astrazione tipologica, solo questi ultimi due tenui modelli di categorie alla fine evinti dalla pluralità dei riscontri e fondati su specifiche formali, retorico-sintattiche: da un lato le strofe ravvicinate in cui si ripetono in continuità gli stessi tratti 244

costruttivi, senza che la pausa interposta arresti il movimento argomentativo avviato dalla prima della serie; e dall’altro lato le coppie di strofe unite tramite un unico nucleo periodale inarcante, stanziato ai margini rispettivamente finale della prima ed iniziale della seconda, con la possibilità che la connessione che infrange i limiti metrici abbia valenza «cataforica» ed apra «verso sviluppi nel verso successivo, più o meno prevedibili» o «anaforica», per cui la comparsa del costituente dislocato «obbliga a strutturare a ritroso il pattern».16

4.1.2.1 Coblas capfinidas Comincio osservando i casi più tradizionali di connessione retorica tra le stanze, le cosiddette coblas capifinidas, suffragate da una cospicua quantità di rilievi nello stesso Canzoniere.17 tra le tecniche di allacciatura tra stanze questo di carattere retorico è senza dubbio il più esperito da Petrarca che, dato per assodato l’intento di garantire una decisa autonomia alle strofe in quanto unità minime del movimento, predilige raffinate forme di persistenza fonica tra un’unità e l’altra all’esposizione in sede incipitaria di nessi di progressione logica o a ravvicinamenti ancor più risentiti tra le stanze. non mancano, certo, i casi in cui i richiami lessicali sui bordi delle coblas sono assenti e rimpiazzati da più audaci escamotage che recuperano e conciliano su un piano diverso la continuità del discorso lirico e la sua progressione parcellizzata per unità.18 tuttavia è significativo notare che il raccordo retorico-lessicale funge da vero e proprio collante tra gli anelli strofici della canzone ed è ciò che inaugura e chiude il motivo entrambe le citazioni e le qualificazioni terminologiche sono tratte dal saggio di Soldani 2003b, 247, incentrato sui valori tipologici dell’inarcatura, che possono essere pertinenti al semplice enjambement ma hanno valore, a mio avviso, anche per le spezzature sintattiche dislocate tra comparti metrici diversi. 17 Per esemplificazioni puntuali si rinvia senz’altro alle annotazioni del commento a ciascun testo curate da Santagata 2004. 18 il riferimento va in particolar modo a RVF 23 dove, scrive Santagata 2004, 101, «i collegamenti tra le stanze, in assenza di significativi legami interstrofici, sono affidati all’impianto tematico-narrativo: ogni metamorfosi (con la sola eccezione di quella in fonte) si distende infatti su due mezze stanze contigue.». 16

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tematico non solo rafforzando inizio e fine di una stanza ma cucendo insieme in progressione stanze contingue, come si osserva in questo esempio tratto dalla canzone RVF 270:19 Passata è la stagion, perduto ài l’arme, di ch’io tremava: ormai che puoi tu farme? // L’arme tue furon gli occhi, onde l’accese saette uscivan d’invisibil foco, et ragion temean poco, ché ’ncontra ’l ciel non val difesa humana; il pensar e ’l tacer, il riso e ’l gioco, l’abito honesto e ’l ragionar cortese, le parole che ’ntese avrian fatto gentil d’alma villana, l’angelica sembianza, humile et piana, ch’or quinci or quindi udia tanto lodarsi; e ’l sedere et lo star, che spesso altrui poser in dubbio a cui devesse il pregio di più laude darsi. Con quest’armi vincevi ogni cor duro: or se’ tu disarmato; i’ son securo. (RVF 270, str. v-vi, vv. 74-90)

nella lirica il poeta mette alla prova la forza di Amore dal momento che contratta con lui le condizioni alle quali è disposto a cedere nuovamente al suo dominio: il ritorno in vita dell’amata, l’unica donna che ha potuto conquistarlo con la sua bellezza virtuosa. Si tratta evidentemente di un adynaton che nemmeno il potente dio è in grado di superare, motivo per cui l’io lirico dichiara la sconfitta dell’avversario e rivela che tutto il suo vigore risiedeva in Laura. Con la sua dipartita anche le armi di Amore sono venute meno, cosa che è circolarmente messa a punto come premessa e conclusione nei due distici isolati di combinatio (vv. 74-75; vv. 89-90)

Sempre nello stesso componimento petrarchesco sono strofe capfinidas anche la i e la ii, tenute insieme tramite la ripetizione variata della stessa frase (v. 15 «et ripon’ le tue insegne nel bel volto», v. 16 «riponi entro ’l bel viso il vivo lume»). 19

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delle str. v e vi e trattata con dovizia di particolari nell’enumerazione introdotta da legame capfinido all’inizio della str. vi (v. 76 «l’arme»). Se si scorrono, poi, le esemplificazioni degli autori del corpus cinquecentesco, si nota che l’esaltazione in senso architettonico dei legami strofici di coblas capfinidas è una prassi accolta favorevolmente dalla tradizione e una tecnica tutt’altro che isolata. talvolta essa è esaltata al punto che avvia o è avviata da più ampi movimenti concentrici di reiterazione. il ravvicinamento del margine di contatto tra due strofe adiacenti si può ben apprezzare in alcuni specimina trascelti tra i molti a disposizione: or poi che a lei non piace, la mia lira si tace. // Tacen le dolci rime e que’ pietosi accenti che rilevar solean mie pene in parte; ché se non è chi stime queste voci dolenti né chi gradisca il suon di tante carte, a che l’ingegno e l’arte perder, sempre piangendo dietro a chi non m’ascolta? s’è senno alcuna volta, per non noiar altrui, soffrir tacendo? Ché per gridar più forte, non si fugge la morte. (Sannazaro, Liii, str. iii-iv, vv. 38-52)

o cara mano quanto merti ch’io lodi e prezze quel vivo, bel colore, ch’al mondo mostra ’l fiore di tante doti tue, di tai bellezze; ché tu sei quella sola che l’alme ai corpi in un momento invola. // Tu sei quell’una, quella, man delicata e molle ch’hai d’avorio color e d’alabastro; tu sei la man sì bella, cui sovr’ il ciel estolle l’alto favor del tuo superno mastro. (Bandello CLXXXiX, str. i-ii, vv. 7-19)

nel primo brano lirico riportato, il poliptoto che Sannazaro produce sul verso “tacere” e il riverbero del suono affricato palatale sordo (v. 38 «piace», v. 39 «tace», v. 40 «tacen», «dolci», v. 41 «accenti») permettono una morbida inarcatura del discorso tra le due coblas capfinidas (v. 39 «si tace», v. 40 «tacen») per chiudere, poi, ad anello la strutturazione della seconda macropartizione coinvolta (v. 50 «tacendo»), ad esclusione del distico di combinatio, che conferma in questo caso la sua tendenziale autonomia intonativa. Di poco differisce in termini tipologici l’esempio di Bandello, nel quale a fungere da cerniera è addirittura un’intera frase, che occhieggia dal distico finale della prima delle stanze del binomio e poi si ripercuote 247

non solo all’inizio dell’unità successiva ma anche, in anafora variata (dai vv. 14-15 «tu sei quell’una, quella/ man», alla più semplice soluzione del v. 17 «tu sei la man»), nel secondo piede della stessa. Le riprese reduplicate, oltre a trasmettere la partecipazione emozionata alla lode del particolare fisico dell’amata, sono funzionali alla messa a fuoco dei dettagli che maggiormente impressionano: il colore (cfr. v. 9 «colore» e v. 16 «d’avorio color e d’alabastro») e la bellezza della mano (cfr. v. 9 «bel», v. 11 «bellezze» e v. 17 «bella»). Fili di coblas capfinidas riuniscono in una stretta finale incalzante le strofe conclusive della canzone i di Ariosto, estesa rievocazione dell’innamoramento per Alessandra Benucci. Quando men mi guardai, quei pargoletti, che ne l’auree crespe chiome attendean, qual vespe a chi le attizza, al cor mi s’aventaro, e nei capelli vostri lo legaro. // E lo legaro in così stretti nodi, che più saldi un tenace canape mai non strinse né catene; e chi possa avenir chi me ne snodi, d’imaginar capace non son, s’a snodar morte non lo viene. (Ariosto, i, str. xii-xiii, vv. 128-138)

Deh! dite come aviene che d’ogni libertà m’avete privo e menato captivo né più mi dolgo ch’altri si dorria, sciolto da lunga servitute e ria. // Mi dolgo ben che de’ soavi ceppi l’inefabil dolcezza e quanto è meglio esser di voi prigione che d’altri re, non più per tempo seppi. (Ariosto, i, str. xiii-xiv, vv. 139-147)

il nodo d’amore che avvolge il cuore del poeta all’intrigante chioma della donna è posto al centro dello stacco strofico che si consuma tra xii e xiii stanza. L’anadiplosi, focalizzata sull’azione del legare e preceduta dalla congiunzione coordinativa, nel racconto dell’amante caduto in trappola utilizza la breve pausa interstrofica per stringere figurativamente un doppio nodo o, fuori di metafora, per sottolineare la robustezza del vincolo contratto, tanto che, superato il punto critico del ponte tra le due unità, poi attorno a questo concetto prolifera una fitta serie di rispondenze lessicali (figure etimologiche, v. 132 «stretti», v. 135 «strinse»; poliptoti, v. 136 «snodi» v. 138 «snodar»). A ben guardare, dunque, ciò che rende le coblas capfinidas altro non sarà che un antecedente, una musicale anticipazione del rincorrersi delle ripetizioni all’interno della stanza. Un rilancio legato 248

interesserà, subito dopo, anche la fine della xiii e l’inizio della xiv strofa, con recupero, leggermente più distanziato e meno insistito, ma in ogni caso significativo perché anticipato dall’esempio appena descritto, di una stessa tessera verbale, variata nell’innesco dal poliptoto (v. 142 «mi dolgo», «si dorria») e asseverata nella ripresa (v. 144 «mi dolgo ben»).

4.1.2.2 Continuità retorica e figure di replicazione Accanto alla tecnica delle coblas capfinidas, con il riverbero al di là dello stacco interstrofico di una stessa parola o sintagma, esistono casi in cui tra stanze viene reiterato un più complesso blocco sintattico.20 il riproporre in immediata successione analoghi stilemi di orchestrazione periodale è una strategia dispositiva che esalta l’omogeneità metrica del modulo strofico come spazio di rifrazione speculare ed ha il significato argomentativo di rafforzare l’idea espressa nonché di intonare il testo ad una preciso ritmo. Si consideri l’inizio esemplare della canzone 2, XLi di Sannazaro, di cui riproduco le fronti delle prime due stanze: or son pur solo e non è chi mi ascolti, altro che’ sassi e queste querce amiche, et io, se di me stesso oso fidarme. o secretari di mie pene antiche, a cui son noti i miei pensieri occolti, potrò fra voi securo or lamentarme? (Sannazaro, i, XLi, str. i, vv. 1-6)

Certo le fiere e gli amorosi ucelli e i pesci d’esto ameno e chiaro gorgo il sonno acqueta, e l’aria e i vènti e l’acque. Sola tu, luna, vegli; e ben mi accorgo che vèr me drizzi gli occhi onesti e belli, né mai la luce tua, com’or, mi piacque. (Sannazaro, i, XLi, str. ii vv. 14-19)

i tre versi incipitari della lirica dipingono sinteticamente un quadro di solitudine che l’io lirico ha raggiunto; dal punto di vista sintattico il piede appare improntato ad un uso melodico della congiunzione «e» che ritorna amplificato, tramite un più esplicito procedimento polisindetico, 20 Questo, per altro, è un tratto precipuo delle canzoni a polittico, di cui si parlerà nel particolare in seguito, al § 4. 2. 4, pp. 308 e ss. Un altro esempio petrarchesco si legge nella canzone RVF 270, dove nella parte iniziale le stanze ii, iii, iv sono intonate tutte all’imperativo (cfr. v. 16 «riponi entro ’l bel viso il vivo lume», v. 31 «Fammi sentir de quell’aura gentile», v. 46 «Fa’ ch’io riveggia il bel guardo…»).

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nel primo comparto della seconda stanza. Qui il poeta si rassicura (cfr. v. 13 «Certo») ulteriormente del suo stato di ritirata lontananza, come si vede dal compiacimento con cui, sulla soglia di partizione, sono concentrati in musicale epifrasi tutti le componenti del paesaggio naturale, anch’esse placate grazie al calar dell’oscurità e al sopraggiungere del riposo notturno. Così l’atmosfera di quiete veicolata nell’esordio, che propone uno spazio sgombro di qualsiasi creatura animata, viene messa a fuoco nella partizione corrispettiva a distanza di una strofa. nella seconda stanza si chiarisce, infatti, che l’assenza di movimento negli elementi senzienti («fiere», «amorosi ucelli», «pesci») e non («e l’aria e i venti e l’acque») e l’apparente vuoto circostante sono dovuti al provvido intervento del sonno. Parimenti, nel secondo piede della prima stanza il silenzio solitario è interrotto da un’allocuzione e da una richiesta di compassionevole ascolto, così come nel secondo piede della seconda, l’eccezione che sottrae il poeta ad un totale abbandono è segnata dall’invocazione alla luna, che sola, tra tutte le creature, veglia e volge benevola il suo sguardo. in entrambi i casi, pur con necessaria variatio e aggiustamento tematico, Sannazaro ripercorre il medesimo circuito argomentativo, ravvisabile a partire dalla ricorrenza di strutture analoghe: in controluce nel primo piede una griglia paratattica, vagamente elencativa, in cui la congiunzione e funge da perno per rilanci posti in sequenza (con effetto di accumulo, che sembra in parte collidere con il senso di intimità che si vuole trasmettere mediante la descrizione); nel secondo piede appello inevitabile ad un interlocutore fidato a cui indirizzare il canto. in posizione simmetricamente ribaltata questa stessa tattica iterativa è applicata anche da guidiccioni nella canzone CXXiX, in particolare nelle stanze iv e v. Le due strofe conclusive del componimento funebre spiccano per la palese somiglianza del tessuto sintattico e anche per la continuità di intonazione. il dolore per l’allontanamento definitivo dall’amata culmina proprio con straziante ripercussione in due unità contigue:

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Dunque questo aspro colle et questi folti boschi mi chiudon l’alta via del paradiso: oh desir vano et folle, oh pensier ciechi et foschi, u’ mi guidaste voi senza ’l bel viso! ove è quel grato riso, ch’acqueta el mio martìre, et quelle chiome d’oro et l’altro bel thesoro, per cui mi sento ad hor ad hor morire? Stolti, non vi accorgete che inanzi a gli occhi mille morti havete? (guidiccioni, CXXiX, str. iv, vv. 40-52)

Almo terren felice, le chare piante tocchi, et godi quel che ’l ciel m’adombra e toglie. Deh, perché a me non lice contemplar quei begli occhi, e satiar le mie accese honeste voglie? Perché l’alte mie doglie non ponno trasformarsi nel primo dolce stato? Ahi doloroso fato, o cielo, o stelle a mia salute scarsi, qualche mercé vi giunga ch’io più non posso et questa guerra è lunga. (guidiccioni, CXXiX, str.v, vv. 53-65)

in questo caso in entrambe le strofe il primo piede contiene una frase affermativa apparentemente pacata, ma a partire dal secondo piede e poi per tutta la durata della sirma, si affastellano le domande e le esclamazioni enfatiche, quasi come se il poeta fosse impossibilitato a proseguire il suo canto perché la voce viene rotta dai singhiozzi. Dal punto di vista della marca costruttiva la presenza della modalità dell’interrogazione adagiata nella strofa con sostanziale rispetto delle partizioni interne è più evidente se si considera che le precedenti tre stanze hanno una sintassi decisamente legata. torchio inoltre nota, seppure con cautela, tracce di analogia tematica nell’atmosfera psicologica creata dagli incipit. il colle selvoso, metafora della perdita della speranza conseguente al lutto, e il terreno nel quale la salma dell’amata riposa impediscono al poeta di sentirsi in comunione con lei e di contemplarne la vista.21 Fautore delle tecniche di replicazione sintattica e lessicale come leganti argomentativi non solo liminari, ma anche inscenati all’interno del testo, è soprattutto Bandello, poeta che, specie nelle lunghe canzoni di lode o nei componimenti a dominante encomiastica, sostanzia l’altrimenti debole coesione tra le stanze in siffatta maniera.

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Torchio 2006, 220.

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Del re de’ regi la Figliuola dico, vergine saggia, e d’ogni tempo gloria, le cui vertuti chi può dir a pieno? Chi avrà l’ingegno ugual, o la memoria a tant’altezza, se del tempo antico, e del nostro verrebbe ogni stil meno? Quegli, che nacque di Parnaso in seno, ed Ulisse cantò, e ’l grande Achille, e quel che a Dite il pio troian conduce, di cui la fama ancor sì chiara luce, ben ch’ogni dir in lor Febo distille, appena una di mille spiegar potrian delle virtuti rare di questa ricca Perla e singolare. (Bandello, i, str. ii, vv. 15-28)

Chi potrà dir del bell’ingegno, quale la virtù sia, o quanto sia capace; di ciò che può capir uman sapere? Chi sarà che si mostri tant’audace, ch’all’altezza di quel dispieghi l’ale, e possa il volo dietro a quel tenere? Qual icaro costui vedrai cadere, arso dal fuoco di süa chiarezza, o qual Fetonte fulminato al basso con rovina cader e con fracasso, cieco al splendor della sublime altezza, la cui chiara vaghezza abbaglia sì col lume ogni pensiero, ch’umana lingua non arriva al vero. (Bandello, i, str. iii, vv. 29-42)

nella canzone inviata all’indirizzo di margherita di Francia Bandello declina attraverso gli strumenti del linguaggio amoroso l’omaggio alla nobile destinataria delle sue rime. L’intero componimento è percorso dal motivo conduttore della dubitatio, ossia della messa in discussione della possibilità dell’io lirico, come di chiunque altro volesse provarsi nel cimento, di eguagliare con l’espressione le prodigiose doti di colei che si intende cantare. ragion per cui, in ciascuna stanza si ripropone con insistenza, non priva di tenui variazioni, l’interrogativo retorico «chi mai potrà cantare?». già tale modulo elocutivo basterebbe di per sé a fissare, come una sorta di ritornello, la coerenza delle singole porzioni testuali. A ciò, tuttavia, si aggiunge per coppie o terne di strofe il cui tema è assimilabile o tipologicamente affine un’ancor più fondata definizione di elementi ricorrenti. ne sono prova le due stanze sopra riportate in cui si vede come, oltre ad un’analoga orchestrazione sintattica per partizioni indipendenti, vengano sciorinati con identità di passo i medesimi elementi: nel primo piede la domanda relativa all’ineffabilità della virtù della donna (v. 17 «vertuti», v. 30 «virtù»); all’inizio del secondo piede, in perfetto allineamento, la riesposizione dello stesso interrogativo (v. 18 «Chi avrà l’ingegno...», v. 32 «Chi sarà che...») che ora si focalizza sulla straordinaria elevazione morale della destinataria (v. 19, v. 33 «altezza»); infine, nella sirma, la virata verso l’orizzonte classico e verso i miti che esso porta con sé, da un lato la perizia 252

poetica insuperata ma comunque insufficiente di omero (vv. 21-22) e di Virgilio (vv. 23-24), dall’altro la tragica audacia di icaro e Fetonte che hanno osato avvicinarsi al sole22 (vv. 35-38). in Bandello non mancano poi coppie di strofe che, pur non provviste della medesima orchestrazione sintattica e argomentativa, sono tenute insieme dalla messa in evidenza di una sorta di cornice lessicale. Questo accade, ad esempio, nella canzone CLXXXiV, la terza della serie delle cantilenae oculorum del poeta cinquecentesco, nella quale la sproporzione tra la pochezza dell’io lirico e la virtù nobilitante delle sguardo della donna viene accennata nel primo piede della str. v (vv. 45-47 «Vile era anzi pur morto prima ch’io/ del vostr’altiero sguardo,/ luci serene, avessi ancor contezza») e poi precisamente ripresa dopo un’apparente progressione del discorso nella sirma della strofa subito successiva (vv. 62-66 «ma le mie forze casse/ di virtute al gentil vostro gran carco/ fan che nel dir son parco,/ per ciò che cosa voi divina e santa,/ ed io vile e mortal di terra pianta.»). A ritmo binario, costituito da coppie di strofe che procedono ripetendo analoghe movenze sintattiche vischiosamente dettate dalla ripresa degli incipit (coblas capdenals), procedono poi alcune canzoni encomiastiche di stile sostenuto che si trovano addensate nel Libro terzo degli Amori di B. tasso. esempio particolarmente significativo è il componimento 3, XXXii, all’indirizzo del principe di Salerno, di cui riporto due coppie di inizi in stanze consecutive: Quante volte v’ha visto il bel Sebeto e Partenope sua dai verdi colli aprir con l’armi le nemiche schiere! [...] // Quante volte il toscan fiume famoso v’ha visto ne le verdi e fresche rive

Tornate pur, Signor, al ricco albergo, a la patria onorata, ove v’attende la real compagnia che vi diè il Cielo; [...] // Tornate pur, Signor, dove v’aspetta e del vostro ritorno il Ciel ringrazia

22 nelle canzoni di questo corpus (soprattutto in Bandello e B. tasso) molto di frequente la vicenda di icaro si insinua tra i versi con il corredo metaforico del volo allorché i poeti, prima di iniziare l’esaltazione delle doti della loro donna o del personaggio che si prefiggono di celebrare, intendono alludere alla limitatezza delle loro capacità espressive in confronto all’impegno che richiede il soggetto, oppure alla temeraria incoscienza di chi si appresti a cantare qualcosa che eccede anche il più compito discorso.

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tinger di sangue i suoi candidi fiori! Quante fiate le sdegnose e schive ninfe ch’albergan nel suo letto erboso vidervi armato andar fra i vincitori... (B. tasso, 3, XXXii, str. vi, vv. 66-68, str. vii, vv. 79-84)

col grembo pien di fior Licori adorna... (B. tasso, 3, XXXii, str. x, vv. 118-120, str. xi, vv. 131-133)

L’elogio delle virtù belliche del nobile napoletano, snocciolato mediante un’anafora della formula di testimonianza autoptica («Quante volte v’a visto») leggermente variata, ora nella dislocazione degli elementi, ora nella configurazione lessicale, fa da pendant alla duplice invocazione del ritorno in patria del principe, tenuto lontano da napoli probabilmente dalla campagna di conquista di tunisi e dall’incertezza di non essersi sufficientemente distinto. Le coblas capdenals, che si ripetono in due punti focali dell’argomentazione, conferiscono, dunque, pregnanza ed unità di strutturazione all’intero componimento che ruota attorno alla ferma dichiarazione della fama acquisita dal protagonista nelle imprese militari grazie al suo coraggio e alle sue virtù e a dispetto della capricciosa Fortuna che, come vien ribadito nelle prime quattro strofe, spesso distribuisce i suoi favori a chi meno lo merita e penalizza i più valorosi. Perfetto principe rinascimentale, il Sanseverino dell’encomio tassiano si dimostra uomo capace di cavalcare i rovesci della sorte e di distinguersi per le sue doti personali. Una diversa modalità attraverso cui due stanze vengono messe in stretta relazione grazie al filo della retorica è il prolungamento al di là dello stacco grafico di pausa di un movimento argomentativo annunciato ma non esaurito nella prima macropartizione.23 Ciò si manifesta visibilmente, ad esempio, nella canzone LiX di trissino, di cui presento la sirma della seconda stanza e la terza stanza completa: Felice petto e fortunata madre, la qual nutrì quest’honorato Sole 23 Cfr. anche la replicazione capdenal dello stilema della litote adoperato in due strofe contigue da Ariosto per la descrizione dell’abbigliamento dell’amata: i, str. x, vv. 100-101 «non fu senza sue lode il puro e schietto/ serico abito nero…»; str. xi, vv. 111-114 «Senza misterio non fu già trapunto/ il drappo nero, come/ non senza ancor fu quel gemmato alloro/ tra la serena fronte e il calle assunto».

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che l’altro di lasù vince d’assai! Non fu nel mondo, né sarà più mai simil bellezza, che né con parole, né con arte ad alcun si può mostrare, ma chi potrà firmare per poco spazio la sua vista in ella, dirà che non fu mai cosa sì bella. // Non è, non è mortale la grazia e la beltà che ’n lei raccolse quella virtù del Ciel che la produsse. oro mai non si tolse d’alcuna vena a le sue chiome equale, né credo mai che così nero fusse guaiaco che da l’india si condusse, nuovo rimedio a l’insanabil piaghe, come le belle ciglia; e sì lucenti non sono in Ciel seren due stelle ardenti, come son di costei le luci vaghe; né gigli o neve han bianco sì perfetto, com’ella ha ’l viso e ’l petto, in cui qualche rossezza vi si posa, che pare in latte una vermiglia rosa. (trissino, LiX, str. ii-iii, vv. 22-45)

Qualora si legga di seguito questo brano della lirica, se ne avverte tutta la fluente unità melodica, che si riversa nello schema senza che le indicazioni ritmiche soggiacenti valgano a frenarne il corso. nel quarto verso della sirma della seconda stanza (v. 25) ha radice una struttura di tipo comparativo-negativo o, secondo la definizione di Berra, una «comparazione di uguaglianza negata»,24 composta da un avverbio negatiBerra 1992, 88-89 ne parla a proposito della sua applicazione massiccia nel Canzoniere. Poco oltre aggiunge che «La predilezione di Petrarca per questa struttura, che, come si è visto, è largamente sfruttata anche nelle comparative iperboliche, dipende dalla ricercatezza e duttilità sintattiche, nonché dai precedenti classici, che, in certo senso conferivano prestigio e legittimità all’accoglimento di uno stilema peculiarmente dantesco e comunque nuovo in ambito lirico». tali caratteristiche (dipendenza da antecedenti latini e applica-

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vo («non»), un avverbio temporale risolutivo («mai») e un correlativo funzionale al confronto («simil» o «sì»), con la quale il poeta dichiara l’incommensurabilità assoluta della bellezza della sua amata. Lo stilema raggiunge una sua conclusiva circolarità con l’apparente avversazione della frase seguente, che è in realtà un modo per asseverare dal versante opposto lo stesso concetto. Di fatto, dopo un fraseggio di misura ternaria come il precedente, nell’ultimo verso della sirma stessa compaiono con ordine variato i medesimi elementi, come se, immobile di fronte ad un’asserzione tanto coraggiosa quanto difficile da dimostrare per l’ineffabilità delle doti della donna, il discorso non potesse che indugiare e ripiegarsi su se stesso con ricapitolazione sintetica (vv. 25-26 «non fu nel mondo, né sarà più mai/ simil belleza» e v. 30 «non fu mai cosa sì bella»). La fronte della stanza successiva innesca, invece, lo slancio necessario per superare le secche della tautologia e riavvia lo stesso andamento di carattere negativo con la forza della ripetizione a stretto contatto (v. 31 «non è, non è») che fissa un cantilenante ritmo binario per il settenario d’esordio. Poi, nella colata unica di secondo piede e sirma, si adagiano con una libertà di disposizione inopinata, specie dopo l’assetto più che composto delle partizioni precedenti, le specificazioni straordinarie della bellezza femminile. gli enjambement ai vv. 36-37 («così nero fusse/ guaiaco») e ai vv. 39-40 («sì lucenti/ non sono») creano delle venature melodiche al fine di evitare la monotonia dell’enumerazione e allo stesso tempo continuano la ripetitività parallelistica con nuove sottili simmetrie. nonostante l’intonazione mossa dalle pause interne al verso e la cura di superare l’allineamento anaforico dei nuclei volutamente molto simili, si avverte alla fine l’impressione di una stretta compattezza delle stanze, se non proprio di un accenno di dialettizzazione per il fatto che, ripristinando a ritroso funzioni e peculiarità, la sirma della seconda stanza sembra avere un ruolo prolettico e introduttivo, mentre la terza strofa assume le caratteristiche vere e proprie di esposizione del tema, di argumentatio. Si noterà inoltre che, rispetto all’iterazione in due strofe contigue della stessa struttura, un esempio come questo di dislocazione di un periodo tematico nelle sue articolazioni di premessa e svolgimento a cavallo di zione anche in Dante) rendono ben comprensibili i motivi per cui trissino adotti di buon grado questa figura, nell’ottica di un allargamento del canone dell’imitatio.

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due stanze contravviene al principio di precisa segmentazione del discorso nelle macropartizioni. Una cosa è, infatti, accentuare la necessità seriale delle strofe, altra è ridistribuire grumi di senso senza lasciarsi condizionare dallo schema ritmico per infrangere anche a livello argomentativo i procedimenti di ordine lineare e favorire la sfumatura dei contorni, a tutti i livelli del testo. Un altro esempio più forte, ma in linea con questa tipologia di strutturazione interstrofica è visibile nel planctus di Bembo per il fratello: [...] un dardo almen avesse et una stessa lima parimente ambo noi trafitto e roso; che sì come un voler sempre ne tenne vivendo, così spenti ancor n’avesse un’ora, et un sepolcro ne chiudesse. e se questo al suo tempo o quel non venne, né spero degli affanni alcun riposo, aprasi per men danno a l’angoscioso carcere mio rinchiuso omai la porta, et esso a l’uscir fuor sia la mia scorta. // e guidemi per man, che sa ’l camino di gir al Ciel, e ne la terza spera m’impetri dal Signor appo sé loco. ivi non corre il dì verso la sera, né le notti sen’ van contra’l mattino... (Bembo, Rime LXXXiii, str. viii-ix, vv. 150-165)

nella str. viii Pietro riflette sulle circostanze dell’improvvida scomparsa di Carlo e rimpiange che alla solidarietà di pensieri che li aveva mantenuti intimamenti legati in vita non sia corrisposta una medesima unione all’insegna del destino di morte. Se non è oramai possibile una perfetta sincronia delle sorti e d’altra parte la sofferenza per il lutto non può essere in alcun modo placata, ciò a cui queste condizioni portano negli ultimi versi il poeta è l’augurio che presto avvenga la liberazione dagli insostenibili vincoli del corpo mediante l’intercessione del fratello. L’apodosi del periodo ipotetico sembra quasi proseguire nel primo piede della stanza successiva, con 257

il legamento morbido della congiunzione coordinativa «e» e la ripresa del movimento esortativo-desiderativo (cfr. al v. 158 «aprasi» e al v. 160 «sia la mia scorta» e poi al v. 161 «guidemi») che specifica i passi attraverso i quali Carlo potrà propiziare la sua dipartita: il prenderlo per mano (v. 161), la conoscenza delle vie del Cielo che ha già percorso (vv. 161-162), la perorazione presso il Signore (v. 163). A questo brandello della stanza ix, che germina naturalmente dall’orchestrazione sintattico-argomentativa della stanza precedente, segue poi un secondo movimento, staccato e differenziato, ossia la descrizione della condizione delle anime beate. il salto tematico che interviene a partire dal secondo piede (v. 164) sottolinea, in un certo senso, il legame che strutturalmente si intrattiene tra le due strofe contigue all’insegna del patetico vagheggiamento mortuario di Pietro. Lo stesso Bembo, poi, specie nelle canzoni degli Asolani, fa proprie ulteriori modalità di connessione interstrofica, tra cui quella di distribuire i passi dell’argomento mediante una scaletta che conquisti un’incatenatura ininterrotta tra le strofe piuttosto che una loro divaricazione settoriale, pur sempre nel rispetto formale della divisione sintattica. Una combinazione eloquente da questo punto di vista si vede in iii, 10. Si tratta, come è noto, di un testo in cui il poeta illustra le gioie dell’amore onesto che, con progressione sublimante, traggono linfa dallo sguardo dell’amata, dalla sua voce e dal pensiero di lei. nelle stanze ii, iii, e iv si percepisce l’intento del Bembo di focalizzare le peculiarità degli stadi del piacere amoroso senza relegare l’espressione a comparti distinti in una fredda sequenza, ma prospettando un’argomentazione che domini e non sia dominata dalla struttura strofica. Così troviamo che la fronte della ii strofa dipende concettualmente dalla prima perché insinua il dubbio dell’inadeguatezza dello stile per il canto di lode. ma perch’altrui lo mio stato sereno cerco mostrar, che sol da lei deriva, forza è talhor ch’io scriva com’ogni mio pensier indi si miete: o di quella soave aura, che del mio cor volge la chiave, o pur di voi, che ’l mio sostegno sete, stelle lucenti et care, se non quando di voi mi sete avare. (Bembo, Asolani, iii, 10, str. ii, vv. 22-30)

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La sirma (che si può leggere qui sopra) annuncia, invece, con congiunzione avversativa, (v. 22 «ma») il proposito di esporre, nonostante le difficoltà, le sorgenti dell’appagamento dell’amante, che sono subito di seguito brevemente elencate e scandite dalla correlazione in «o» (v. 26 e v. 28). Un simile costrutto sommario ed introduttivo porta con naturalezza ad una esposizione più particolareggiata che, in effetti, è proseguita con ordine nella iii stanza. Qui, la fronte, che come primo termine presenta «voi», sempre in riferimento agli occhi di madonna, esplicita tramite lo stratagemma delle coblas capfinidas la presenza di una segnalata continuità tra macropartizioni.25 La spia formale che guida l’analisi è, comunque, ancor più precisa e consiste in un procedimento di enumerazione espansa individuato da una tipica marcatura progressiva. tra iii e iv stanza, con ricollocazione chiastica, vengono ripresi i tre elementi enunciati nella sirma della ii; si inizia pertanto con l’allocuzione agli occhi, invocati con l’espressione «Voi date al viver mio l’un fido porto» (v. 31) nel verso incipitario della iii stanza e descritti per tutta la fronte. Con il passaggio alla sirma compare la seconda qualità benefica dell’amata, di cui si mantiene la natura ‘alternativa’ rispetto alla prima (si ricordi la correlazione in «o») e che è introdotta con il verso «L’altro è quando parlar madonna sento» (v. 37). infine, la fronte della iv stanza punta a ritroso e fornisce l’ultimo anello di quest’ideale catena poiché è inaugurata dal verso «il terzo è ’l mio solingo alto pensiero», il quale, senza equivoci, completa la sequenza degli elementi enumerati all’inizio.

25 Una tecnica simile di collegamento e ridistribuzione si riscontra, nella stessa posizione, anche tra ii e iii stanza della canzone iii, 8 degli Asolani. il ponte di coblas capfinidas (vv. 29-30 «ben dicea fra me stesso:/ Amor…» e vv. 31-32 «ben diss’io il ver, che come ’l dì col sole/ così con la mia donna Amore ven sempre») permette di saldare le due strofe che presentano l’una il discorso sugli occhi dell’amata e l’altra quello sulla voce senza creare uno stacco troppo schematico. Sebbene sia mantenuta una sorta di rigida simmetria nella ripresa di una congiunzione temporale nei secondi piedi di entrambe le stanze, l’unione logica dei bordi consente anche un lieve smottamento tematico per cui nella iii stanza si disloca, con appena percettibile rottura, l’ultimo lacerto della lode dello sguardo (v. 33), subito prima di inaugurare quella della voce.

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4.1.2.3 Continuità sintattica Al culmine dell’immaginaria scala che rende conto dell’intensificazione progressiva delle relazioni tra stanze si pongono quelle occorrenze di connessione che rasentano pericolosamente o addirittura raggiungono una stretta dipendenza a livello non retorico ma periodale, con il risultato di sfaldare i confini metrici tradizionali attraverso cui la logica argomentativa convenzionalmente si articola con chiare distinzioni. il tipo più debole di effettiva continuità è quello che osserviamo nelle canzoni in cui più di una strofa consecutiva è occupata dal discorso diretto pronunciato da un personaggio diverso o anche coincidente con il locutore, ma, comunque, inserito nel tessuto lirico con appositi introduttori sintattici in una strofa di cornice o in un passaggio dedicato.26 in componimenti afferenti a questo tipo argomentativo, che verranno meglio analizzati oltre (cfr. § 4. 2. 3), non si verificano, a rigore, casi canonici di dipendenza sintattica, bensì di ‘persistenza’ testuale, dal momento che i due enunciati che si trovano dislocati sui confini tra strofa e strofa non appartengono al medesimo periodo. ma ciò che, con leggera estensione,27 è considerato fattore di rilevanza, è appunto l’appartenenza al medesimo piano enunciativo – quello del discorso diretto – di stanze contigue, per cui alla pausa strofica non è fatto corrispondere una logica separazione della prospettiva in-mediata del dialogo e di quella mediata della ricostruzione narrativa.28 Stringendo con ulteriore selezione i margini della defi-

La precisazione non è pleonastica se si considera che, a rigore, tutto il discorso lirico è ‘un discorso diretto’ pronunciato dalla voce che dice io. nel caso specifico, invece, intendo riferirmi a quei testi che introducono altre voci oltre a quella dell’io lirico, oppure a quelle poesie in cui, grazie ad una cornice diegetica da lui stesso definita, l’io lirico si fa personaggio parlante di un suo racconto. 27 Si tenga presente che la dipendenza sintattica tra strofe è una categoria tipologica ardita, che normalmente non dovrebbe presentare alcuna occorrenza; per questo motivo vengono presi in considerazione anche i casi limite che ad essa si accostano e che, dato il contesto, acquistano un’indubbia incisività. 28 Prefigurazione di simili disposizioni si trova esemplicata significativamente nella petrarchesca RVF 359, nella quale, oltre all’impaginazione dialogica che scivola da una stanza all’altra, si riscontra pure «l’infrazione che scompagina più gravemente di ogni altra i rapporti tra metrica e argomentazione: lo scavalcamento di una battuta tra la terza e la quarta 26

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nizione di dipendenza sintattica, nel corpus cinquecentesco si rileva poi, in più di un’occasione, l’espediente di raccordare due stanze tramite un nesso di consequenzialità del tipo di “ché/ che” collocato proprio all’inizio della seconda strofa del binomio. Di tale tecnica di raccordo si avvalgono praticamente tutti i poeti qui censiti,29 ma in particolar modo, perché più ripetutamente, matteo Bandello:30 e quanto lunge fu da le cittati da le castella e ville, dalle sonanti squille, tanto più fue appresso a quell’in cui lo cor avea già messo. // Che qui più volte il dolce a lei maestro apparve seco stando dolcemente, e ben che fosse il luogo duro e alpestro, rideva d’ogn’intorno lietamente. (Bandello, CL, str. v-vi, vv. 41-49)

Però s’ancor son vivo fra tanti strazi, e tant’acerbe pene, dal dolce viso, e non d’altronde viene. // Ch’a quel presente mille cose i’ veggio, di cui ciascuna m’apre un paradiso, tra le quai prima, se si mostra il riso un mar di perle orïentali scopre. (Bandello, CLVii, str. i-ii, vv. 14-20)

e dov’a quelli piace volger l’onesto e fiammeggiante giro, attorno attorno, in giro, ride la terra, il mar s’acqueta, e l’aria le nubi sgombra ed in seren le varia. // Ch’esce un splendor da vostre sante luci, e tanta apporta grazie, che potrebbe allumar l’oscuro inferno. (Bandello, CLXXXii, str. iii-iv, vv. 29-36)

stanza» (Soldani 2007, 790). 29 Cfr. Bembo, Rime LXXXiii, str. vii-viii; Britonio, i, 165, str.iii-iv; Guidiccioni, CXXViii, str. i-ii; Trissino, LXXVi, str. i-ii e str. iv-v. 30 oltre ai casi segnalati, cfr. anche Bandello CXCii, str. v-vi di cui si parlerà oltre, a pp. 306307.

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il poeta dei Fragmenti de le Rime, abituato a gestire lo spazio strofico all’insegna della segmentazione paratattica e ad orchestrare periodi mediamente brevi e per lo più inseriti all’interno dei limiti delle partizioni interne,31 si mostra molto sensibile a creare raccordi esposti tra stanza e stanza e a portare in luce l’intrinseco movimento unitario che percorre le diverse battute in cui la lirica è suddivisa.32 A questo scopo il «che» ad inizio stanza si presta con particolare duttilità, dal momento che garantisce un’asseverazione rilanciata in avanti di quanto detto ovvero rimarca i rapporti di consequenzialità che informano il procedere del discorso. Ciò accade tanto nelle canzoni pervase dalla tematica della lode amorosa (CLXXXii, CLVii), quanto in testi più sostenuti e animati da un afflato religioso, come la canzone CL, dedicata alla descrizione dei luoghi solitari scelti come romitaggio di espiazione dalla maddalena. Soprattutto negli Asolani di Bembo e nelle canzoni di molza, poi, ricorrono coppie di strofe la seconda delle quali esordisce con una proposizione che può essere abbastanza distintamente indicata come causale «rematica»,33 specie se introdotta non da «ché» ma da «perché», cioè una frase in cui viene specificato in posizione posposta rispetto alla matrice una causa del contenuto dell’affermazione da poco espressa. eccone alcuni esempi che chiarificano il modello appena descritto: Lasso, ma chi pò dire le tante guise poi del mio gioire? // Che spesso un giro sol de gli occhi vostri, una sol voce in allentar lo spirto mi lassa in mezzo ’l cor tanta dolcezza, che no ’l porian contar lingue né inchiostri; (Bembo, Asolani, iii, 9, str. iii-iv, vv. 44-49)

Più dell’80% delle stanze di canzone bandelliane si risolve nei due tipi strofici P/P/S e P+P (cfr. tavola a p. 225). 32 Cfr. pp. 282-283. 33 Cfr. la classificazione di Renzi, Salvi, Cardinaletti 1991, 740, nella quale le proposizioni causali sono suddivise in “tematiche” (che esprimono l’evento che fa da cornice all’evento della frase matrice e di solito la precedono) e “rematiche” (che sono il centro della comunicazione e seguono la frase matrice stessa). 31

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or veggio, e mi diletta, che senza voi non è cosa perfetta. // Ch’ i’ avea l’alma ingombrata d’una nebbia d’errore, sì ch’io non potea mai giungere al vero.

(molza, Vi, str. i-ii, vv. 14-18) Alma degna di quanto il Sol risguarda, se non fosti tra noi scesa sì tarda. // Che se nel tempo, che fiori facea il mondo a l’ombra del suo santo velo il gran Leone, e con superbo artiglio la gloria alzava de’ suoi tempi al cielo, ch’or nube asconde tenebrosa e rea; congiunto al suo celeste alto consiglio avessin voi le stelle invidiose col secol, che d’avervi non è degno ad uom, ch’a varïar vivendo ’l pelo, e provar caldo e gelo, qua giù scendesse, non fu aperta mai la strada a studi, o ad opre sì famose, com’egli apriva al vostro chiaro ingegno. (molza, Vii, str. i-ii, vv. 21-35)

o me sempre beato, se dir potessi altrui, qual è il mio stato! // Perché ’l piacer ch’io provo, spesse volte a fermarme innanzi a voi, sol col pensier è tale, che sventura non trovo, la qual voglia appressarme; né mi par d’esser più terra mortale. (molza, iii, str. i-ii, vv. 11-18) il bel nome Cristian, che tanto onore da tutti quattro i venti ebbe pur dianzi, ed or non par, ch’altro che scorno avanzi, prega, che le discordie, ond’ei si more, cangiate in dolce amore, sicché Jerusalem tal voce n’oda, che ne segua ambedue perpetua loda. // Perché gli amor, che ’l ciel ultimo alberga, ed han di Armenia e de la Persia in mano l’alto governo, a l’una e l’altra gente rotto han le forze, del lor sangue il piano fatto vermiglio, acciocch’armato s’erga con roma e i suoi fedei tutto ’l Ponente contra gl’idol bugiardi d’oriente. (molza, ii, str. i-ii, vv. 8-21)

nella quasi totalità dei casi, a partire da quello che solleva più dubbi circa la qualità di dipendenza subordinativa34 fino a quello che presenta 34 mi sembra più debole l’esempio di Bandello, tratto dalla canzone che descrive i luoghi nei quali la maddalena espiò le sue colpe. Cfr. Bandello, CL, str. v-vi, vv. 41-49, che comunque segnalo e riporto: «e quanto lunge fu da le cittati/ da le castella e ville,/ dalle sonanti squille,/ tanto più fue appresso/ a quell’in cui lo cor avea già messo// Che qui più volte il dolce a lei maestro/ apparve seco stando dolcemente,/ e ben che fosse il luogo duro

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un’applicazione pregnante di ipotassi, si ripresenta un tracciato definito che prevede l’isolamento del distico finale di combinatio (con implicite potenzialità anaforiche) della prima stanza coinvolta nel legamento e la ripresa argomentata dello stesso nella stanza successiva. nella lirica di Bembo, dall’interrogazione a riguardo della possibilità di esprimere la gioia che suscita la donna scaturisce la motivazione logica dell’incertezza, ossia la qualità ineffabile della dolcezza dello sguardo e della voce di lei. Dunque la proposizione causale qui, più che indicare la causa dell’evento espresso dalla frase matrice, indica la causa stessa dell’atto di enunciazione.35 nella canzone Vi di molza, invece, il nesso è rafforzato dalla contrapposizione dei piani temporali: solo al momento del presente lirico (v. 14 «or») il poeta si rende conto della perfezione della donna, perché prima, in un contesto passato alluso attraverso la scelta dell’imperfetto (v. 16 e v. 18), la sua mente era ottenebrata da pensieri erronei che gli nascondevano la verità delle cose. nel secondo degli esempi amorosi molziani (iii) la presenza della congiunzione «perché» non può essere in alcun modo fraintesa come potrebbe accadere per quella più labile del «ché», il quale spesso ha più che altro valore conclusivo e paratattico, nonostante nei luoghi riportati sia abbastanza ben precisabile la funzione causale. Ancora una volta l’oggetto di discussione è la possibilità di descrivere la felicità amorosa, che, qualora si realizzi, innalzerà il poeta alla condizione di beatitudine perfetta. Come nel passaggio analogo del testo asolano di Bembo, anche qui le ragioni dell’espressione contenuta nel distico conclusivo sono collocate nell’inizio incatenato della strofe successiva e seguite da un andamento di tipo consecutivo, che compensa con una sorta di parallelismo di approssimazione l’incapacità del dire in pienezza. Più vicino alle tonalità bembiane è, però, il passaggio tra i e ii strofa che si realizza nella canzone encomiastica (Vii) composta, sempre dal poeta modenese, in omaggio al suo protettore, il cardinal ippolito de’ medici. La prima delle due stanze, dopo un’articolata invocazione al destinatario con annessa professione di modestia circa i mezzi poetici che verranno

e alpestro,/ rideva d’ogn’intorno lietamente». 35 Con ciò si intende dire che il passaggio potrebbe essere così riformulato: “chi può esprimere la mia gioia? Pongo questa domanda retorica perché so che la dolcezza che mi suscitano le bellezze della mia amata è indescrivibile”.

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messi in campo per esaltarlo, si chiude, parimenti a quella di Bembo (Asolani iii, 9), con un empito esclamativo racchiuso nella combinatio. L’io lirico rimpiange che ippolito non sia nato in un’epoca precedente e tale dichiarazione, forte e apodittica tanto da sembrare quasi avventata, alimenta implicitamente nel lettore l’attesa di ottenere chiarimenti in merito. A ciò provvede la stanza successiva e il vuoto dello stacco strofico è colmato proprio dal «ché» da cui essa è inaugurata e che appare quasi come la visualizzazione in cui si concreta lo spannung: molza si è avventurato in un vagheggiamento così ardito solo perché avrebbe voluto vedere operare il suo colto mecenate in collaborazione con l’illustre zio, il papa Leone X, tanto benemerito fautore delle arti quanto emblema del rinato prestigio culturale di roma e dell’italia tutta. infine, nell’ultimo brano molziano riportato, che appartiene al componimento di esortazione alla crociata rivolta ai sovrani paladini della cristianità, compare nuovamente l’uso della congiunzione causale «perché». Questa volta, tuttavia, essa non si associa alla spiegazione diffusa di quanto alluso in un asciutto distico che appartiene alla stanza precedente, ma si colloca nel baricentro spaziale di un ampio periodo sospeso e stanziato in modo equilibrato sui due bordi che delimitano lo stacco strofico. inutile dire che nella rassegna di fenomeni di interrelazione strofica data da nessi causali, quest’ultimo è il più smaliziato, sia per magniloquenza e complicazione del giro sintattico, sia per sfondamento dei comparti metrici (si noti che, una volta fluito nella seconda strofa, il periodo si arresta non al termine del primo piede o al termine della fronte, ma sul verso di concatenatio) e per disinvoltura del discorso enjambé (cfr. vv. 16-17, 17-18, 18-19, 19-20). Fatto inaspettato, e tuttavia verificabile, è che la dinamica tensiva tra il distico di combinatio e i primi versi della stanza successiva si innesca anche in due esempi petrarcheschi che, evidentemente, fungono, se non da modello diretto, quantomeno da antecedente per i cinquecentisti desiderosi di proporre giaciture ardite e quasi al limite delle regole della forma metrica. Se le man’ di Pietà invidia m’à chiuse, fame amorosa, e ’l non poter, mi scuse.

Con queste alzato vengo a dire or cose ch’ò portate nel cor gran tempo ascose.

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Ch’i’ ò cercate già vie più di mille per provar senza lor se mortal cosa mi potesse tener in vita un giorno.

(RVF 207, str. ii-iii, vv. 25-29)

non perch’io non m’aveggia quanto mia laude è ’ngiurïosa a voi: ma contrastar non posso al gran desio, lo quale è ’n me da poi ch’i’ vidi quel che pensier non pareggia, non che l’avagli altrui parlar o mio. (RVF 71, str. i-ii, vv. 14-21)

entrambe le soluzioni, la più tenue del ché paracoordinativo, il cui ambiguo statuto oscilla tra il causale e il conclusivo (RVF 207), e la più decisa con congiunzione «perché» (RVF 71) nell’ambito di un periodo ellittico, hanno cittadinanza nella sorvegliata lirica petrarchesca e inoltre sembrano essere specifiche modalità espressive deputate al repentino scatto autogiustificativo. Per il tramite di esse quella che potrebbe essere apparentemente la conclusione di un pensiero elaborato in precedenza (in RVF 207 la comprensibilità di essere divenuto «ladro» di sguardi36 conseguente all’improvvisa indifferenza di una Laura prima benevola e in RVF 71 la dichiarata intenzione di accingersi al canto munito di quelle «ale amorose» fornite dal soggetto sublime),37 viene subitaneamente riaperta, quasi a prevedere possibili obiezioni. tali riserve, prima di giungere da un interlocutore esterno che stia seguendo e verificando la coerenza del discorso, promanano piuttosto dal rovello di colui che parla, dalla sua interiorità avvinta dalla passione ma protesa nello sforzo di recuperare la lucidità, dalla costante dialettica tra desiderio e razionalità che si alimenta della stessa provvisorietà degli esiti a cui perviene e che è trascritta sulla carta quasi in presa diretta, con la modalità del monologo interiore in grado di dare l’impressione di una contemporaneità tra tempo del pensiero e tempo della scrittura.38 in un componimento di B. tasso troviamo una situazione che sotto-

Cfr. vv. 4-10 di RVF 207, str. i, qui riprodotta a p. 231. Cfr. RVF 71, vv. 10-13 «e chi di voi [occhi] ragiona/ tien dal soggetto un habito gentile,/ che con l’ale amorose/ levando il parte d’ogni pensier vile». 38 A proposito della complessità delle soluzioni sintattiche rinvenute nelle cantilenae oculorum e nel finale di RVF 70 che ne è considerato il prologo, Praloran 2007a, 41 dichiara: «la difficoltà dell’organizzazione sintattica nasce coerentemente dallo stimolo all’autoanalisi».

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pone la struttura unitaria della stanza ad una forzatura ancora maggiore, quasi ai limiti del cedimento dell’architettura tradizionale: … A l’ombra de le vostre altere ciglia contempla Amor, che vosco si consiglia. // non quello che dal vulgo è ’n pregio avuto, nato di van desio, di vana spene, onde vengon le lagrime e i tormenti, ma ’l nobile, ch’al certo e sommo bene drizza i nostri pensier, mal conosciuto forse dal mondo e da le sciocche genti, che co’ be’ lumi spenti de la ragion, un desir folle e strano, che scorge l’alme in sempiterno errore, hanno chiamato Amore. o cieche menti, o stolto ingegno umano, il vero amor nel viso è di costei, né può produr effetti amari e rei. (B. tasso, 2, XXVii, str. i-ii, vv. 12-26)

La strofa d’esordio della lirica39 conclude un appello solenne alla donna celebrata con la dichiarazione che le bellezze di lei sono tali che uno sguardo o un pensiero mortale, nel trasporto indotto dall’ammirazione, non possono, soffermandosi su di esse, non contemplare contemporaneamente, per moto necessario, anche Amore stesso (v. 12). Alla fine della stanza, una punteggiatura perentoria sembrerebbe delimitare, imponendo come di consueto una pausa forte, lo stacco strofico e ripassarne i bordi. tuttavia, intrapresa la lettura del lunghissimo primo periodo che anima la seconda stanza, ci si rende conto che per ricostruire la frase è necessario estrarre un riferimento per la pronominalizzazione iniziale «quello» (v. 13) dalla macropartizione precedente. Dal v. 13 si inscena, infatti, un contrasto tra due entità, una nota ai più e apprezzata, nonostante lo scarso valore, e l’altra misconosciuta benché alta e nobile, 39

Cfr. qui a p. 130.

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attraverso struttura correlata a correctio, («non quello», v. 16 «ma ’l nobile»), che ha la funzione di raddrizzare un pericoloso fraintendimento terminologico. Sul finire della campata, proprio nella posizione detonante di clausola, compare la parola che è responsabile di ambiguità, «Amore». Con tortuoso giro periodale e preziosi intarsi dati dagli accidenti che complicano la ricostruzione dell’ordo verborum, B. tasso sta alludendo al famoso mito platonico dei due diversi tipi del sentimento erotico, che discendono rispettivamente dalla Venere Urania, legata a pulsioni sublimanti, e dalla Venere pandemia, connessa alle passioni istintuali.40 il periodo protratto che enuclea questo concetto acquista pertanto i tratti di una specificazione epesegetica che dipende da quell’«Amore» nominato al v. 12, e non già dal suo doppio triviale del v. 23. La costruzione che coinvolge la parte finale della prima stanza e gran parte della seconda assume l’aspetto di una elaborata figura di antimetatesi, che permette la sovrapposizione dell’idea di chiasmo a quella di alternanza. L’incrocio è dato dal fatto che agli estremi dell’arco sintattico sono collocati le designazioni nominali di Amore mentre all’interno il loro divergente contenuto semantico; l’avvicendamento bipolare, invece, risiede nella successione alternata con cui sono allusi i riferimenti lessicali, in base alla quale, con inversione, vengono precisate prima le caratteristiche dell’amore volgare, che ai vv. 15-16 è dipinto nei termini di un sentimento « nato di van desio, di vana spene,/ onde vengon le lagrime e i tormenti», e poi quelle dell’amore celeste, di cui ai vv. 17-18 si dice che «ch’al certo e sommo bene/ drizza i nostri pensier».41 Si tratta di un tema caro all’accademia ficiniana e che si diffonde in modo capillare sia nell’iconografia rinascimentale (Panofsky 1975, 176 e ss.) che nel ventaglio tematico di alcuni poeti e critici umanisti. tra questi, a titolo esemplificativo, valgano i riferimenti a Cariteo, autore di ambiente napoletano che all’Amore derivato dalle due Veneri consacra i due sonetti proemiali dell’Endimione (Barbiellini Amidei 1999, 72 e ss.), oppure a giulio Camillo, che si serve di un simile set concettuale per chiosare RVF 72 (Camillo, ed. zaja, pp. 171 e ss., in particolare, per l’interesse del rilievo di carattere argomentativo e macrotestuale, p. 175 «nella precedente canzone ha parlato il Petrarca de l’amore vulgare et casto, in questa del divino»). 41 Se schematizziamo con A l’appellativo di Amore e con B una sua possibile specificazione semantica, il periodo ha la struttura chiastica ABBA; tuttavia se marchiamo con C l’allusione all’amore celeste e con D il riferimento a quello volgare, allo schema iniziale se ne sovrappone in controluce uno del tipo CDCD. 40

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infine, volendo riportare tutto anche sul piano minuto delle partizioni interne, balza agli occhi che la stessa organizzazione sintattica di fronte e sirma della seconda stanza, presa in sé, rappresenta un caso estremo di distorsione della forma: il travalicamento di tutti i comparti e l’obliterazione di tutti i punti di riferimento metrici, non sottolineati dalle abituali soste dell’intonazione, arrivano ad eludere di poco la monoperiodicità. Allora, verrebbe da avanzare la congettura che dal lungo arco sintattico sia lasciato fuori solo l’ultimo lembo della sirma proprio perché B. tasso comprende che il suo coraggioso esperimento ha bisogno di essere riequilibrato attraverso il respiro raccolto dei pochi versi che si staccano al termine dal corpo della strofa, smorzando l’enfasi dei toni. Allo stesso modo, il ponte trans-strofico che B. tasso realizza in questo testo attraverso mezzi retorici e legamenti a carattere periodale potrebbe di primo acchito essere interpretato come un estremo tentativo di forzare, con sguardo ai modelli dell’antichità, la stilizzata chiusura metrica della canzone, fondata sulla serializzazione di stanze isolate da qualsiasi possibilità di comunicazione ravvicinata. e in effetti, nei metri alti e solenni della classicità, a cui la canzone dovrebbe corrispondere nel parallelo istituito in modo astratto tra le due tradizioni, nessun vincolo, né la rima, del tutto inesistente, né la segmentazione strofica, che era artificio ritmico molto applicato in ambito lirico, erano trattati come deterrenti contro il libero dilagare del discorso. tuttavia, nonostante gli audaci propositi imitativi, che lo avrebbero potuto portare all’eversione incondizionata, B. tasso si trattiene da una contaminazione deformante, cioè evita di mettere in pratica nel metro petrarchesco la fisionomia svincolata del flusso poetico greco e latino, ma invece, a ben guardare, non fa che accentuare un escamotage presente già nel repertorio tecnico romanzo. Se riportiamo quanto abbiamo esaminato sopra alla categoria generale delle riprese nominali, ci ritroviamo davanti ad un probabile caso, benché macroscopico, rivitalizzato e dilatato, di coblas capfinidas, di strofe connesse dal pretesto del rilancio di una stessa parola ripetuta. Una simile deduzione è confortata dall’osservazione che l’espediente trobadorico è non di rado attuato e rafforzato da B. tasso, come accade, nella stessa canzone 2, XXVii, tra v e vi strofa o nel planctus 3, LVii tra i e ii strofa:

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Mirate dentro, o miseri mortali, ov’è più bello il bello e più gentile, al cui par quant’uom mira è cosa vile. // Mirate dentro, ove sì ricca siede, lucente e chiara de’ suoi propri raggi quest’alma che lassù dritti n’adduce. (B. tasso, 2, XXVii, str. v-vi, vv. 63-68)

[...] China le caste orecchie al pianto nostro, mentr’io ti sacro questo puro inchiostro. // China que’ lumi, onde sì bel desio nacque in ogn’alma di virtù e d’onore mentre del tuo bel sol fu degno il mondo... (B. tasso, 3, LVii, str. i-ii, vv. 12-16)

il legame lessicale incentrato sul verbo “mirare” (v. 65 «mira» e v. 66 «mirate») viene fatto agire a ritroso e viene promosso, con l’intervento di adeguati puntelli, a connessione strutturante e di sviluppo argomentativo anaforico («mirate dentro», in posizione iniziale sia al v. 63 che al v. 66). Analogamente accade per l’imperativo “china” (v. 12 e v. 14), allocuzione quasi litanica rivolta alla defunta che si immagina ascesa al cielo. Da notare, particolarmente nel secondo caso esposto, l’individuazione demarcante ed eufonica della combinatio che, oltre ad ospitare dopo una sospensione protratta la frase matrice della campata monoperiodale di cui si sostanzia la sintassi della str. i, ha una chiara funzione di rilancio del flusso argomentativo, per certi versi simile a quella osservata poco sopra negli esempi strofici inaugurati da «ché». Lo spunto di quest’ultimo esempio permette di osservare che, più in generale, i componimenti di compianto funebre, per il tono solenne e pomposo, ma soprattutto per l’empito non contenuto di dolore – sia esso sincero o di circostanza – si rivelano particolarmente prodighi di esemplificazioni di sintassi che trabocca da una stanza all’altra. ne possiamo osservare almeno due di particolarmente significative: [...]; al secol nostro è spenta sua maggior luce, e tolto il suo più raro ornamento e ’l gentil fermo riparo onde sperava, o dura morte e fella, Italia diventar più che mai bella. //

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Anima eletta, che nel mondo folle e pien d’error sì saggiamente quelle candide membra belle reggi, che ben l’alto disegno adempi del re degli elementi e de le stelle,

ma imprima l’onorata e nobil Roma, ch’egli con l’alto ingegno e più che umano disposto era a tornar ne la grandezza che dal maggior Augusto e da traiano e da i lor successori anco si noma, e mostrar la beltate e la chiarezza ch’ella ritenne infin’ che di sua altezza lascò caderla onorio, il cui difetto la strada aperse a mille altre ruine, alle quai ponea fine questi, a cui non fu mai par’ architetto, ch’a veder sol (prova ch’ogni altra excede) degli antichi edifici un picciol segno, così tutti i fingea compitamente, che †spesso ho detto† a fargli era presente o ver da la sua man nacque ’l disegno. or l’edace vecchiezza a domar riede i be’ lochi e famosi, a cui non vede simili il mondo, e nott’eterna copre secura oma’ infinite e divine opre. (mol iV, str. i-ii, vv. 16-40)

che sì leggiadramente ornar ti volle, perch’ogni donna molle e facile a piegar ne li vizi empi potessi aver da te lucidi essempi, che, fra regal delizie in verd’etade, a questo d’ogni mal seculo infetto giunt’esser può d’un nodo saldo e stretto con summa castità summa beltade; da le sante contrade, ove si vien per grazia e per virtute, il tuo fedel salute ti manda, il tuo fedel caro consorte, che ti levò di braccia iniqua morte. // Iniqua a te, che quel tanto quïeto, iocondo e, al tuo parer, felice tanto stato, in travaglio e in pianto t’ha sotto sopra ed in miseria vòlto; a me giusta e benigna, se non quanto l’odirmi il suon di tue querele drieto mi potria far men lieto, s’ad ogni affetto rio non fusse tolto salir qui dove è tutto il ben raccolto; (Ariosto, V, str. i-ii, vv. 1-27)

in entrambi i casi si tratta dell’applicazione, proprio nell’esordio del testo (str. i-ii), di forme di sintassi ellittica, ossia di ripresa periodale nella seconda delle due stanze considerate di quanto detto nella prima per specificarlo, ampliarlo, glossarlo senza tornare tramite una ripetizione sugli elementi della frase reggente. nella canzone di molza, scritta in occasione della morte di raffaello (1520), il poeta si rivolge al mecenate del grande maestro rinascimentale, papa Leone X, per farsi interprete del dolore che l’ha colto alla notizia della scomparsa di colui che avrebbe dovuto illustrare di nuovo, dopo un lungo periodo di decadenza, l’arte italiana (vv. 16-20). tale considerazione è repentinamente aggiustata nella strofa successiva, nella quale il poeta dichiara che, prima dell’italia, sarebbe toccata alla stessa roma l’occasione di riconquistare gli antichi fasti grazie all’opera del Sanzio non solo perché 271

egli era uno stretto collaboratore della corte papale, ma anche perché la sua arte si basava sulla rivitalizzazione dell’equilibrio e della compostezza classiche del primo impero, di cui l’Urbe portava ancora le frammentarie vestigia, deturpate dal tempo e dalle distruzioni dei barbari. La celebrazione del genio di raffaello procede pertanto su due piani solidali e giustapposti con accortezza, per così dire sintatticamente compenetrati: il Sanzio era un artista che interpretava un gusto italiano di cui l’intera nazione poteva fregiarsi, ma allo stesso tempo avrebbe fatto di roma il centro della sua attività perché era con il Papa che aveva progettato e condiviso un programma di renovatio dell’antico primato romano. il brano di Ariosto è tratto, invece, dalla seconda canzone del dittico incentrato sulla morte di giuliano de’ medici (1516); in essa si finge che sia lo stesso defunto a parlare alla moglie nel tentativo di consolarla. nel movimento iniziale del testo il nobile fiorentino con affetto loda la rettitudine della consorte Filiberta di Savoia e negli ultimi versi della stanza, senza dichiararlo expressis verbis, ne interpreta il dolore per la separazione che ha loro inflitto la morte, volgarmente bollata come «iniqua» (v. 18). tuttavia, dall’alto della sua condizione di beato, giuliano è subito dopo in grado di correggere questo pensiero comune che è causa opprimente del cordoglio dell’amata. egli precisa che la morte è stata apparentemente ingiusta solo se considerata dalla visione parziale e contigente della donna rimasta vedova, mentre invece è stata benigna per lui stesso, per il nuovo statuto eterno e glorioso acquistato, che è sicuro sarà riservato anche a lei. L’omissione della sovraordinata di riferimento (v. 18 «che ti levò di braccia iniqua morte») interessa dunque l’intera fronte e il verso di chiave della seconda stanza, i cui due piedi tetrastici, strutturati in funzione epesegetica della sentenza espressa nella stanza precedente, sono scanditi all’inizio da sintagmi appositivi disposti a chiasmo per sottolineare la contrapposizione semantica e il differente punto di vista dei due soggetti individuati pronominalmente (v. 19 «iniqua a te», v. 23 «a me benigna e giusta»). il ponte sintattico tra le due stanze è pertanto rilevato e si inscrive tra quelle forme di rincalzo del discorso che ben si insediano in spazi demarcati in unità per sottolineare contemporaneamente progressione e intima coesione. infine, muovendosi in tutt’altro ambito – quello del bilancio dell’esperienza amorosa –, anche Britonio eccede i limiti che circoscrivono lo spazio strofico in almeno due casi, tramite un audace prolungamento del periodo. osserviamo il primo esempio, desunto dal rifacimento del272

la petrarchesca canzone delle metamorfosi: De l’esser ov’hor son mi meraviglio gran tempo stando essanimato e losco in quel vivere istran lurido e fosco, ma più sentendo in me voglia e costume di sol girarmi inver l’etterno lume, // spatio maggior da me fu chiesto al cielo di star in quella altrui noiosa forma. (Britonio, i, 84, str. iii-iv, vv. 56-62)

Se Petrarca in RVF 23 aveva proposto una disposizione argomentativa della materia che prevedeva la collocazione dei quadri del polittico non in stretta coincidenza con le stanze, qui Britonio va oltre e, portando alle estreme conseguenze l’insegnamento, stringe veri e propri vincoli di dipendenza sintattica tra un’unità e l’altra. La strofa iii di i, 84 si chiude con il completamento della trasformazione dell’io lirico in girasole; la situazione anomala turba il poeta solo in un primo momento, fino al punto in cui si accorge che la metamorfosi gli permette costantemente di rivolgersi all’oggetto del suo desiderio, la Donna-Sole. L’inaspettato godimento di ciò che era stato concepito per essere una punizione causa la richiesta inaudita del prolungamento dello stato vegetale; dunque la stranezza e della circostanza e della reazione del poeta giustifica la disposizione del periodo, cataforicamente inarcato a cavallo tra due stanze. Ciò che qui si nota è, in un certo senso, la trasposizione ad un livello superiore – quello delle stanze intese come cellule dell’organismo canzone – di meccanismi di interrelazione e asincronia già registrati al livello più basso delle partizioni interne alla stanza. Che questa affermazione abbia un margine di fondatezza lo si può comprovare verificando un secondo esempio, tratto da una rivisitazione dello stesso Britonio della petrarchesca Chiare fresche et dolci acque. eccone l’inizio:

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Lieti e verdi Arboscelli dove talvolta il giorno verrà colei, che vive del mio danno, ben nati fior novelli che con dolce aria intorno mantiene e desta il ritornar de l’anno piaggia, che del mio affanno sarai tregua, e conforto, qualhor vedrò il bel viso formato in Paradiso, che m’ha vivendo innanzi ’l tempo morto con gli angelici rai che amando sol m’insegnan di trar guai

Se ’l cielo o ’l mio Pianeta mi rende il tempo e l’hora del bel principio di cotanta gioia, ch’io miri honesta e lieta quella che ’l mondo honora, pria che piangendo e sospirando i’ moia in tanta angoscia e noia fia verde anchor la spene pria del martir confusa, che fatto havea Arethusa de gli occhi miei, che ’n pianto, e ’n doglia tene dì e notte il mio Signore che del mio pianger vive e del mio ardore. (Britonio, ii, 365, str. i-ii, vv. 1-26)

non sorprenderebbe ritrovare nell’apertura di una canzone germinata dal tronco di RVF 126 una serie ordinata di vocativi espansi che causano una prolungata sospensione intonativa del periodo, se non fosse che, mentre tale espediente in Petrarca si stempera, grazie al distico di combinatio (vv. 12-13 «date udïenza insieme/ a le dolenti mie parole extreme») nella monoperiodicità dello spazio concluso e ben delimitato della strofa d’esordio, nel calco di Britonio la risoluzione del periodo non coincide con il finale di stanza ma subisce un’ulteriore dilazione che la trascina direttamente nella seconda strofa. La lettura, quindi, fin dall’incipit procede per replicati rilanci che continuano fino al tredicesimo verso e oltre, tanto che quella che si può riconoscere come frase matrice si ravvisa solo al v. 21 «fia verde anchor la spene». Certo, il discorso espresso dall’io lirico è rivolto in primis agli elementi del paesaggio che egli empaticamente richiama a sé e l’appello iniziale potrebbe essere considerato semplicemente una richiesta di attenzione che fa da cornice all’intero sfogo. inoltre la seconda strofa denuncia una strutturazione simile anche se non del tutto sovrapponibile all’analoga ii di Petrarca, con periodo ipotetico iniziale sul tema del destino (v. 14 «S’egli è pur mio destino…») e previsione speranzosa sul futuro (v. 20 «la morte fia men cruda»). Pertanto se per la canzone di Britonio non si può parlare di intenzionale 274

dipendenza sintattica creata tra le strofe, si riconoscerà in ogni caso la disposizione rilevata dei periodi, specie quando in controluce lo schema prescelto attira al suo interno echi di più pacate organizzazioni.42 Per riepilogare, se si osservano gli esempi più forti di pressione strutturale esercitata sull’individuo-stanza si dirà che B. tasso, molza, Ariosto e Britonio mostrano di voler solo turbare la ritmica dell’argomentazione, rompendo l’allineamento tra archi periodali e macropartizioni strofiche con l’uso di un movimento di ripresa accentuato ma non inaudito nella tradizione lirica. ma se questi poeti si trattengono al di qua di un’applicazione troppo arrischiata delle suggestioni antiche, trissino varca il confine, sperimenta in due sue liriche una disposizione sintattica davvero classicheggiante e infrange l’equazione normativa romanza che vedeva nella stanza una cellula logica decisamente autonoma, per quanto inserita in un discorso unitario. Si tratta dei testi XXXi e LXV, cioè dei componimenti che, pur avendo stanze con alternanze rimiche e versali di stampo petrarchesco, nello schema risentono delle suggestioni dell’ode pindarica e si articolano in strofe, antistrofe ed epodo, con un raggruppamento superiore che si pone tra la stanza e la canzone nella sua completezza. La vicinanza all’ode antica trascina con sé anche l’ispirazione per movenze libere del fraseggio, nonostante le strofe siano sufficientemente ampie da non imporre di necessità debordamenti del periodo da un’unità all’altra. Al contrario della quartina oraziana, la cui struttura angusta implicava per statuto la possibilità che un ampio respiro sintattico si dislocasse a cavallo delle partizioni, sia nell’antecedente dei Carmina che nella veste volgare usata dal Cinquecento in poi nel genere dell’ode-canzonetta, una strofe petrarchesca inserita nella logica triadica dell’ode, per la caratteristica articolazione distesa, avrebbe potuto benissimo mantenere autonomia rispetto alle altre. invece, in trissino, la volontà di trarre strumenti dal modello antico e pindarico (nel quale le strofe erano parimenti lunghe, eppure praticamente sempre soggette a fenomeni di imbricazione e saldatura sintattica) per rinnovare 42 La seconda strofa di RVF 126 mostra una sintassi lunga ma spartita sostanzialmente almeno nei due grandi tronconi di fronte e sirma, mentre la seconda strofa del testo di Britonio tende, esattamente come la prima, ad estendere fino al limite estremo la campata periodale. Più in generale, in merito alla relazione che spesso si instaura tra schema petrarchesco e tema o stilemi ad esso associati si dirà nel § 5.1.4

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quello italiano porta ad accogliere come virtualità inesplorata il legamento trans-strofico, pur ridimensionato e condotto a limiti di accettabilità per la forma canzone romanza. il poeta vicentino ne procura più di un esempio: Queste una voglia ardente dèstammi al cuore (e forse troppo altera) di pormi anch’io fra sì leggiadra schiera. // et esser un di quei che ’l vostro nome, le virtù vostre rare, e l’honesta beltà pingano in carte. (trissino, XXXi, str. i-ii, vv. 14-19)

nella prima delle due canzoni pindariche sono la strofe e l’antistrofe della triade iniziale ad essere rifuse insieme e a far slittare in avanti, nel secondo piede della seconda stanza coinvolta, lo stacco sintattico-argomentativo. La frase che prende avvio al terzultimo verso della stanza d’esordio e che si prolunga oltre i limiti tradizionalmente consentiti si richiama, attraverso il deittico «Queste», alle stelle (v. 5 «ogni benigna Stella»), le quali, scorgendo la virtù eccelsa della Donna, spargono i loro influssi sugli intellettuali e li ispirano a lodarla. Anche il poeta è coinvolto in questa dinamica di energie celesti e spiega il processo della sua partecipazione all’impresa elidendo la frattura strofica e dislocando un concetto unitario anche dal punto di vista logico in due diverse macropartizioni. Ciò che colpisce è l’identità e l’equiparazione dei segmenti divisi, delle due completive coordinate, che non ostentano nemmeno un minimo scarto in avanti se non quello della precisazione, nella misura in cui i vv. 17-19 esplicitano quali siano le qualità distintive di chi fa parte della «leggiadra schiera» (v. 16). i collegamenti interstrofici sono adoperati, invece, assai più pervasivamente nella seconda delle canzoni a struttura strofica triadica di trissino (LXV), collocata nella parte finale del suo canzoniere. Fin dall’inizio un raccordo è ben visibile tra strofe e antistrofe di cui si riportano sotto rispettivamente la sirma e il primo piede: Deh, fa’, Signor, che quel che mi dispoglia de l’usata mia forza, il mondo intenda,

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e quel che accresce tanto il tuo potere, acciò che anchor di questo mio volere qualche accorto giudizio mi difenda, e le mie parti prenda, mostrando ch’io lasciai né per sciocchezza quel viver primo, né per tua fierezza. // ma perch’io ritrovai cosa fra noi tal che dolce mi fu (quell’altra vita lasciando) entrar ne l’amorosa corte. (trissino, LXV, str. i-ii, vv. 7-17)

Al principio del componimento il poeta confessa di aver rassegnato nuovamente la sua libertà ad Amore e per giustificare quello che potrebbe sembrare un difetto di forza di volontà, chiama in causa Amore affinché palesi a tutti ciò che rende incontrastabile la sua potenza. il distico marginale della prima strofa contiene, dunque, le motivazioni apparenti ed erronee che potrebbero essere addotte rispetto al nuovo servitium amoris dell’io lirico mentre l’inizio della seconda stanza, mediante una proposizione causale posposta e con un risoluto scarto oppositivo che segna l’introduzione dell’elemento scatenante, la donna rivela la vera ragione dell’allontamento del poeta da una vita tranquilla. L’andamento inarcante prosegue poi parimenti nel collegamento tra ii e iii stanza (quindi tra antistrofe ed epodo). Qui trissino opta per un procedimento classico, latineggiante, quasi un allusivo blasone che legittima l’uso elastico delle strutture e che giustifica la diversità metrica tra le due stanze:43 e benché italia piena di tormento fosse, nel quale anchor trista dimora, io de la patria fuora, privo di qualche ben de la fortuna, pur trapassava senza noia alcuna.

Si ricordi che a differenza di strofe ed antistrofe che si rispondono ripetendo invariato lo schema metrico, l’epodo si avvale di una testura diversa e quindi un legame tra antistrofe ed epodo mette in contatto due macropartizioni dall’aspetto eterogeneo.

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// Quando una Donna, che dal Ciel discese cui simil non vedran mill’anni e mille, le già spente faville incominciò destar soavemente. (trissino, LXV, str. ii-iii, vv. 24-32)

Come nel caso precedente, la prima stanza coinvolta nella connessione pare concludersi in maniera definitiva, ma poi la provvisorietà della pausa è smascherata da un legamento di tipo anaforico, che si percepisce a partire da quel «Quando» al v. 29 e che impone una riformulazione all’indietro. il costrutto che procura questo esito, opposto e speculare rispetto al procedimento di risalita della subordinata, è il cosiddetto ‘cum inverso’, in virtù del quale è l’evento della frase matrice che serve a localizzare temporalmente quello della subordinata e non viceversa, con conseguente sensazione di improvviso narrativo. tra le macropartizioni si registra il previsto movimento di svolta poiché, se non altro, lo stacco strofico prepara l’introduzione di un nuovo evento inatteso. La modalità espositiva che ricerca la marca ipotattica tra stanze laddove si sarebbe potuto altrimenti preferire una meno compromettente ripresa temporale anaforica innestata in una sequenza in coordinazione è, comunque, notevole. Come si è visto, il risultato di queste strategie sintattiche e dispositive altro non è che l’interrelazione totale della prima triade di strofe, antistrofe ed epodo del componimento (str. i-ii-iii) mediante collegamenti ipotattici che si tendono tra uno stacco e l’altro. Sorprende, poi, il fatto che trissino, non appagato dell’arditezza di simili raccordi, proponga un’ulteriore infrazione della segmentazione interna del testo, ossia pregiudichi la pausa che esiste nell’ordine superiore in cui si organizza l’ode pindarica, quella tra triadi. ecco ciò che accade, infatti nel punto di contatto fra due triadi: Questa seppe così volger la mente nostra in pensar di lei, ch’altro pensiero non vuole, e non vorrà mentre ch’io viva; di questa, o parli o scriva, fian tutti i detti miei, tal ch’io mi spero in rime, piene almen di ardente zelo

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alzar la mia Cyllenia fin al Cielo. // Perché di quante mai nel mondo foro e sono e fian, si può sola costei veramente chiamar Donna perfetta. (trissino, LXV, str. iii-iv, vv. 37-46)

La seconda triade, inaugurata dalla stanza iv, principia con un nesso causale o tutt’al più dichiarativo-conclusivo, che accomuna la presente alle situazioni illustrate sopra alle pp. 262 e ss. La scelta argomentativa congiunge in modo morbido il trapasso alla seconda terna strofica del componimento e allo stesso tempo allaccia strettamente i margini delle due macropartizioni, ancora una volta cataforicamente, senza l’intervento di una ben più rassicurante struttura prolettica della subordinata che anticipi la presenza di una cadenza di norma vietata. L’impressione che risulta da questi ultimi esempi trissiniani è che la consapevole compresenza o persino l’accavallamento del modello antico e di quello petrarchesco propizi l’avvento di una fino ad allora impensabile libertà di ramificazione sintattica e argomentativa. nel panorama cinquecentesco, oltre che dalla diffusione di fenomeni di sfasamento interni alla strofe, la gabbia metrica della canzone viene intaccata anche nella sua ultima frontiera, quella della serializzazione di moduli strofici indipendenti. in questo senso è l’archetipo classico ad interagire a livello soggiacente e a traghettare la forma al di là di ogni stretta chiusura. Comprensibilmente i toni del giudizio devono essere moderati poiché non si può nascondere che i casi di infrazione dello stacco tra stanze sono sporadici e soprattutto destinati a non avere un largo seguito senza che questo implichi la perdita progressiva dell’identità formale di partenza. Se per trissino i componimenti XXXi e LXV sono variazioni metriche che tendono a dichiararsi, sebbene con piglio innovativo, comprese entro i margini dell’individuo metrico “canzone” (come mostra la denominazione incipitaria,44 la scelta di temi Si allude al fatto che nella raccolta di trissino del 1529, così com’è riprodotta nell’edizione Quondam, ciascun componimento è preceduto dalla definizione della forma metrica di appartenenza: i testi XXXi e LXV recano scritto canzone e non inno pindarico o simili. Come è già stato sottolineato (cfr. nota 73, p. 89, gli elementi della triade non sono ulteriormente individuati ma compaiono privi di differenziazioni nominali, proprio come stanze di una canzone petrarchesca tradizionale. 44

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amorosi convenzionali, nonché l’utilizzo di testure assimilabili a quelle del Canzoniere per le triadi di strofe), con il prosieguo della tradizione l’elemento di raggruppamento ternario delle strofe e gli atteggiamenti sintattici trans-strofici di sapore classico verranno estromessi dal canone della canzone, per andare a costituire un metro diverso, nuovo: l’inno pindarico.45 Dunque, la superficie di sovrapposizione delle due sollecitazioni formali, quella petrarchesca e quella classica, non è che una sottile fascia dell’asse temporale, significativa, in ultima istanza, solo per la qualità di stadio dialettico presto superato, ma testimone di un’innegabile ansia di evadere i limiti costruttivi della forma.

4.2 tecniche di distribuzione complessiva Anche se da un lato ho avuto modo di constatare che è difficile offrire griglie tipologiche nelle quali inquadrare senza approssimazioni penalizzanti i processi di sviluppo argomentativo di canzoni che presentano struttura ed estensione anche molto diversa tra loro, ma soprattutto in assenza di spie formali e sintattiche ben individuabili, e dall’altro ho appurato che, del resto, il discorso lirico cinquecentesco tende in sé a deviare da tracce prefissate e da categorie prevedibili, sia a livello microscopico di partizione interna, che a livello macroscopico di organizzazione interstrofica, pur tuttavia nei paragrafi seguenti proporrò alcune annotazioni su quei pochi esempi chiari, in cui, a partire da rilevanze oggettive e ben esposte, è possibile ricostruire nella sua totalità un movimento complessivo per la canzone e astrarlo in uno schema riconoscibile.

45 Proseguono con convinzione la tradizione dell’inno come individuo metrico a sé stante Alamanni e minturno e poi, nel Seicento, anche Chiabrera, la cui riformulazione leggera delle partizioni strofiche, con ampio uso di versi brevi o anche di parisillabi, esemplifica definitivamente il distacco dalla canzone petrarchesca.

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4.2.1 Canzoni a sviluppo logico nella generale assenza di segnali di implicazione progressiva che caratterizza comprensibilmente la lirica amorosa46 o di elogio encomiastico a differenza della poesia votata a tematiche altre (filosofiche e storiche in primis), spicca con chiara evidenza di contrasto la canzone iii del molza, nella quale, al contrario della media normale, sono diffuse in maniera capillare le congiunzioni conclusive e gli altri tipi di marche logiche, nella sede preferenziale di inizio strofe, con funzione di garantire al discorso l’impressione di una coesione stringente. in realtà, dal punto di vista tematico, nel componimento domina l’affondo ribattuto su un unico argomento, ossia l’omaggio devoto ad una donna che, dall’alto della sua virtù, ha offerto retta guida e protezione al poeta, subito abbagliato dalle doti di lei e sempre bisognoso del suo aiuto, anche solo per celebrarla degnamente. Donde consegue che, siccome il nucleo concettuale del testo rimane pressocché fisso e per sua natura risente della mancanza di particolari spunti per elaborazioni dialettiche, la compattezza del ragionamento è costantemente minata dal pericolo della ripetitività o dell’accumulo eterogeneo di motivi accessori senza una necessità legante di fondo. Consapevole di tali rischi, molza affida ad espedienti puramente esteriori il compito di simulare un drappeggio ininterrotto per le sue modulate stanze di canzone. Ad esempio, da una rassegna dei versi incipitari delle 5 stanze della lirica iii: v. 1 «Perché tornar non veggia» v. 14 «Perché il piacer che provo» v. 27 «E se non che imperfetta» v. 40 «Da indi in qua conosco» v. 53 «Onde se più l’inganni»,

Precedente petrarchesco per canzoni fondate sull’implicazione e la direzionalità di sviluppo del ragionamento sono molto probabilmente le cantilenae oculorum (RVF 71, 72, 73), prive di qualsiasi elemento esterno al pensiero («scorci paesaggistici» o «immagini dell’amata» o «immagini del luogo dell’amata») e connotate da un’argomentazione, seppur a tratti aporetica, insistita e ‘claustrofobica’ nel suo conciliarsi con le ragioni formali del metro in cui si installa, ovvero con la sucessione di stanze provviste di schema riecheggiante (Cfr. Praloran 2007a, 40 e ss.). 46

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si evince un quadro di ostentazione smaccata dei nessi, uno schema formale che potremmo definire a sviluppo logico. Del resto, tutto ciò si armonizza con un sistematico rincorrersi di stanza in stanza di parole chiave,47 come a sottolineare anche dal punto di vista lessicale i collegamenti tematici, con un tentativo di rinnovato slancio. tra gli altri poeti del corpus Bandello, soprattutto, si avvale di una tecnica di esposizione programmatica di collegamenti logico-argomentativi, anche perché nel poeta di formazione lombarda si nota una tanto scarsa disponibilità all’organizzazione legata della strofe o al contrappunto quanto diffuso è, viceversa, il piano assecondamento delle indicazioni della testura metrica, concepite come rigide griglie da rispettare. ragion per cui, accanto ai versi di inizio partizione interni alla stanza (primo verso di ciascun piede e verso di chiave), anche lo stacco strofico, anziché risentire di tattiche di dissimulazione degli scalini metrici, è concepito proprio come la sede per l’esaltazione ripassata degli snodi logici e dei movimenti retorici del discorso lirico. Basti osservare i versi incipitari delle stanze appartenenti alla seconda parte della canzone XCV (v. 40 «allora», v. 53 «indi», v. 66 «e se talor», v. 80 «Dunque») oppure quelli della canzone CCV, dedicata alle «bellezze e rarissime grazie della divina signora Lucrezia gonzaga di gazuolo» (v. 16 «ma come posso...», v. 31 «ché s’io potessi», v. 46 «indi», v. 61 «or lasso», v. 76 «Almen...», v. 91 «e ben ch’ognor», v. 106 «A che dunque...?»). in quest’ultima, in particolare, il catalogo delle virtù della donna, argomento che si presterebbe più che altro ad un’esposizione cumulativa di elementi senza tensioni progressive, viene dinamizzato mediante la convergenza del tema dell’ineffabilità. Attraverso tale accorgimento il poeta può garantire alle strofe, in cui la celebrazione si parcellizzerebbe, un collante superiore perché il dubbio sull’effettiva adeguatezza delle capacità espressive e i tentennamenti a cui esso porta il poeta sostanziano le oscillazioni che conferiscono movimento al testo, pur avviando e riLa comparsa dei fuochi tematici condensati nelle parole chiave segue una disposizione a catena: nel sesto verso della i stanza troviamo «pensier», ripreso nel terzo verso della ii con «pensieri»; tuttavia, nel frattempo nella stessa ii stanza al primo verso si stanzia «piacer», che ricompare al sesto verso della iii stanza. tra iii e iv stanza il collegamento è dato da «onestade» (al terzultimo verso) e da «onestà» (al terzo verso); infine al «lume» del penultimo verso della iv stanza risponde il «divin raggio» del sesto verso dell’ultima stanza.

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conducendo il ragionamento sempre al medesimo punto di partenza. in questi casi, si direbbe, è ininfluente l’esito a cui si perviene (che al limite può anche coincidere con il luogo stesso da cui si è avviato il discorso) perché ciò che conta è come si riempie il tempo-spazio intermedio tra inizio e fine, anche se con esitazioni, avanzamenti e complementari regressioni. È la brevità pregnante del componimento, in tre asciutte stanze screziate da decisi contrasti, che permette di reperire anche nella canzone LXViii delle Rime di Bembo una bozza argomentativa di carattere ipotetico con chiara propensione ad un indirizzo ragionativo. nella poesia, incentrata sulle gioie indescrivibili e a volte paradossali dell’amore, si riscontra la presenza di proposizioni consecutive in combinazione con periodi ipotetici misti, potremmo dire “lirici”, in cui supposizioni e poi conseguenze effettive non seguono l’articolazione prevista dai singoli tipi ma rispecchiano ciascuno le particolari intenzioni soggettive dello scrivente. Così possiamo trovare sviluppi come quelli dei vv. 5- 9 «e s’io potessi ... non è spirto sì beato/ con ch’io cangiassi»; vv. 15-18 «e sel trovasse, non si prova e sente/ pena....che....non fosse un gioco.», con protasi possibile cui fa riscontro un’apodosi reale. Ad incrementare il tono di provocatorio controsenso hanno il loro ruolo, poi, altre forme di proposizioni ipotetiche espresse (per esigenza di variatio) in modo obliquo o implicito: v. 4 «in ch’ei giacesse»; v. 18 «posta col mio mal». Ai fini della gestione generale del testo appare significativo il fatto che, mentre prima e seconda stanza propongono ipotesi che rasentano l’incongruenza più bizzarra, quasi il poeta si facesse trascinare dalla passione in mistificazioni irrazionali, come ben si vede dal verso iniziale (v. 19 «né fia per tutto ciò, che quella voglia»), nella terza strofa si recupera il contatto con la realtà. il procedimento che porta a questa svolta è attuato attraverso una costruzione sintattica che ripristina un rapporto logico-causale tra i pensieri e i sentimenti contrastanti. nell’ultima stanza, infine, sono assenti le fantasticherie ipotetiche, né le stesse consecutive sono inserite in contesto ipotetico, ma dominano i tempi del modo indicativo (della realtà) e il nesso causale “ché”.

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4.2.2 Canzoni a sviluppo narrativo Un altro tipo di svolgimento che può risentire di una schematizzazione astratta è quello narrativo,48 che caratterizza di solito i brevi passaggi rievocativi inseriti come punti di fuga prospettici all’interno di un testo pronunciato e declinato al presente, ma in alcuni casi informa anche un’intera canzone, specie se di argomento erotico. Quella d’amore, in effetti, si configura sempre come una storia, con un inizio, un percorso, con alterne vicende di corresponsione, di mancata fiducia, di separazioni, di lacrime, e, a volte, anche un tragico epilogo segnato dalla separazione finale o dalla morte dell’amata. tale complesso iter diegetico si attua il più delle volte per momenti chiaramente distinti e isolati in singoli componimenti, generando di conseguenza canzoni solo di lode trasognata o liriche unicamente consacrate al compianto per la lontananza, ma non mancano i testi in cui, nell’ambito di un generale discorso di sfogo lirico, vengono allusi eventi del passato, provocando il pretesto per innescare una più articolata dinamica narrativa. Uno sguardo, anche sommario, al Canzoniere porta in evidenza come Petrarca, forse più di altri autori, viva – e drammaticamente – del rapDella presenza di tale tipologia di dispositio avverte nel suo trattato secentesco anche il meninni che suddivide le canzoni a sviluppo narrativo in ‘naturali’ e ‘artificiali’ e conclude che i moderni poeti prediligono la seconda opzione che implica la selezione di un frangente e quello che potremmo definire un inizio in medias res. Cfr. Mennini (ed. Carminati) 2002, vol. i, 203-204: «in quanto alla narrazione sappiasi che ella sia di due sorti, o naturale o artificiale. “La naturale è più dello storico, al qual convien seguire l’ordine delle cose fatte dal principio insino al fine”. Dissi che sia più dello storico, perché s’usa talvolta da’ poeti, sì come dal Petrarca nella canzone delle visioni ed in quella Nel dolce tempo della prima etade; “ove egli dal principio narra insino alla fine i suoi amorosi avvenimenti sotto le” trasformazioni di oviddio, come avvertì prima di me Daniello, e l’Attendolo nella sposizione della canzone del Petrarca Vergine bella a c. 21. L’artificiale è solamente de’ poeti. Conforme ne’ poemi eroici la narrazione comincia dal mezzo, così nella canzone si tralascia nel principio e nel mezzo il narrar alcuna cosa, la quale in più comodo luogo si trasmette. il Petrarca nella canzone Tacer non posso non comincia dal natural ordine, cioè dal nascimento di Laura, dovendo dir prima il dì che costei nacque eran le stelle, etc. e seguir poi com’egli di lei si fosse invaghito. ma usa l’artificialedicendo Ne la bella prigione, ond’or è sciolta, come notò pure il Daniello, e poi fa dire alla Fortuna quello che prima si era taciuto, ad imitazione di Vergilio, il quale in persona d’enea il successo della guerra troiana e la sua navigazione a Didone nel secondo e nel terzo libro racconta. i moderni seguono quasi sempre la narrazione artificiale, essendo loro lecito procedere come Pindaro, con piè vago ed incerto.» 48

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porto con il tempo. in proposito Praloran ha ben dimostrato49 come il tema del ripiegamento del tempo e della circolarità ossessiva del desiderio siano tanto congeniali all’autore da diventare, in un certo senso, la ragione formale della successione strofica nella canzone nonché l’elemento che riscatta tanti suoi componimenti lirici dal rischio di «assenza di dinamica interna».50 È difficile, quindi, da un lato negare la presenza in Petrarca di canzoni a forte impronta temporale-narrativa51 e dall’altro ammettere che la temporalità si risolva in un movimento di progressione. Forse sarebbe più opportuno additare una temporalità a spirale che ritorna su stessa ma con percorsi sempre variati, mai esattamente circolari, un tempo agostinianamente inteso52 come misura interiore, dilatazione dell’esistenza dell’io lirico. non immobilità, dunque, quanto propagazione per onde concentriche che si allargano e si allontanano mantenendo sempre una forma uguale a quella di partenza.53 oltretutto queste considerazioni scaturiscono da un’analisi che per essere dimostrata esigerebbe una lettura

Cfr. Praloran 2004b, 96: «il carattere stesso del desiderio petrarchesco, il suo continuo mirare alla soddisfazione (la ricerca ossessiva di una “soluzione”) grazie a sbocchi differenti via via negati ma non perciò meno insopprimibili e continuamente risalenti nell’immaginario, questo movimento così caratteristico a ondate intermittenti, come una risacca, viene incorporato nella forma canzone, trova qui la sua necessità e nello stesso tempo la sua configurazione esatta». 50 Praloran 2007a, 305. 51 Cfr. RVF 23, universamente ritenuta la canzone di bilancio dell’esperienza amorosa o RVF 325, nella quale Picone 2007c, 703 ravvisa la volontà del poeta di illustrare le «stazioni della trascorsa passione amorosa. La descriptio dell’amata (seconda strofa), la narratio dell’innamoramento (terza strofa), la nascita di Laura (quinta strofa), la sua infanzia (sesta strofa) e la sua giovinezza (settima strofa): sono queste le tappe di una vicenda esistenziale e sentimentale che sembra svolgersi sotto il segno non solo della positività, ma addirittura della provvidenzialità». 52 Fenzi 2003, a proposito della partitura temporale di Chiare, fresche et dolci acque, dichiara che la canzone ha una «inconfondibile impronta agostiniana» che risente dell’undicesimo libro delle Confessioni. Anche Praloran 2007a, 37 cita l’analogia tra l’idea di tempo che si innesta nella forma-orchestrazione delle canzoni petrarchesche e il concetto di distensio animi, cioè «una percezione eminentemente soggettiva del tempo: l’impressione e la riflessione interiore da cui diventa possibile cogliere il tempo nella sua durata». 53 Ciò si nota più chiaramente nelle canzoni a polittico: come ha ben illustrato Berra 1986 nella sua analisi di RVF 135, il senso di ripetizione data dalla giustapposizione dei quadri è solo illusorio perché in realtà il discorso avanza e trova un punto culminante sul finire del testo.

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approfondita testo per testo o l’indicazione di precise spie retorico-formali. tale bilancio critico – e il discorso qui vale sia per l’impaginazione narrativa che per quella a ‘a sviluppo logico’ – di fatto, si fonda non tanto su segnali di demarcazione esposti, che per lo più sono assenti nella strategia del poeta trecentesco, quanto su rilievi retorici dissimulati all’interno dei singoli testi.54 i poeti primo cinquecenteschi rimangono lontani dalla sottile sensibilità petrarchesca e dal connubio di narrazione e fissità di cui essa trova la chiave di volta nella successione delle stanze di canzone e virano verso soluzioni più piane, in particolare verso la segmentazione della diegesi nei quadri successivi provvisti dalle unità strofiche. La possibilità di articolazione distinta delle varie stanze che lo schema narrativo consente si può riscontrare in modo chiaro nella breve canzone ii, 9 degli Asolani, che tratta del tema dinamico e simmetrico dello scambio di cuori tra gli amanti.55 in questo caso, osservando le varianti redazionali che distinguono la versione del 1530 da quella della princeps solo per ragioni di impaginazione, si nota che Bembo rimaneggia il testo per portarlo alla massima evidenza argomentativo-progressiva. Se il discorso lirico, distendendosi sulle uniche tre strofe, marcate per altro da congiun-

Si pensi a come Folena 1978 arrivi mediante la lettura critica di RVF 50 a stilare conclusioni circa la collimazione tra tempo della meditazione e tempo della scrittura in Petrarca. A proposito della naturalezza del discorso petrarchesco che rifugge dall’esibizione degli snodi del ragionamento, si veda anche quanto riassume Praloran 2004b, 81 alla luce di recenti studi: «tra i tanti segni importanti, si può suggerire che la fitta presenza in Cino, recentemente studiata, di congiunzioni con implicazioni ragionative: dunque, perciò, laonde, così, però, adunque, ecc…, segnali una forma di ragionamento sillogistico, appunto astratto, a differenza di Petrarca che preferisce il valore più fluttuante e libero della congiunzione e non orientata dal punto di vista logico e caratterizzata da un effetto di immediatezza, quasi fosse il segno di una trascrizione contemporanea al libero fluire delle emozioni». 55 La declinazione del tema amoroso è qui compromessa con ricordi della lirica cortigiana: infatti, si simula che il cuore del poeta, con quel genere di figurata stilizzazione e sdoppiamento emotivo che era utilizzato anche in ambito medievale per dare ragione della fenomenologia erotica, essendo stato ammaliato dalla donna, si stacchi dal corpo e penetri nel petto di lei. Con movimento speculare anche il cuore dell’amata, impaziente di dividere il posto con il nuovo arrivato, lascia le membra femminili e raggiunge il poeta che, senza questo avvicendamento, sarebbe rimasto privo di battiti. tramite questo espediente gli amanti non possono mai dirsi veramente lontani l’uno dall’altra. 54

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zioni d’esordio che non ostacolavano in nulla un’interpretazione dialettica (l’inizio della seconda strofe è al v. 8 «Indi tanta baldanza appo voi prese», quello dell’ultima è al v. 15 «Ma quei, come ’l movesse un bel desire») era già nel prototipo del 1505 ben segmentato in pannelli figurali successivi e distinti, nella nuova veste il componimento mette in evidenza la potenziale indipendenza di ciascuna strofe come momento narrativo a sé stante. Ciascuna macropartizione, con effetto di sospensione e allo stesso tempo di intermezzo a carattere di chiosa, viene allontanata dalla serrata serializzazione con la successiva tramite un inserto di prosa destinato a condurre il lettore, con razionale distacco, nei meandri del racconto.56 Ad una direzione argomentativa di tipo narrativo più spontanea, perché percorsa in maniera non precisamente schematica, si volge invece la lirica iii, 8 del medesimo prosimetro bembiano,57 nella quale Lavinello, il protagonista del terzo libro, dopo una strofe proemiale in cui auspica di raccogliere tutte le risorse che ha a disposizione perché il suo canto sia adeguato all’argomento prescelto, inscena il racconto del primo incontro con la donna amata. Dalla seconda stanza, introdotta dalla localizzazione delle coordinate di tempo e di luogo (vv. 16-20 «era ne la stagion che ’l ghiaccio perde/ da le viole, e ’l sol cangiando stile/ la faccia oscura a le campagne ha tolta/ quando tra ’l bel cristallo e ’l dolce verde/ mi corse al cor la mia donna gentile»), si diffonde l’uso dei tempi storici, passato remoto e imperfetto, con oculato appoggio di indicatori temporali disseminati in tutte le macropartizioni (v. 30 «Ben diss’io ’l ver»; v. 34 «Poi senti’»; vv. 46-48 «Quante dolcezze con amanti unquanco/ non eran state certo infin quel giorno/ tutta fûr meco et non la scorsi apena»; v. 73 «Alhor mi scossi»).

Le poche righe che distanziano le strofe commentano il contenuto di quanto espresso dalla poesia e, con funzione fàtica, attirano l’attenzione del lettore sul passo successivo, di modo che lo stacco assume la ragione formale di esitazione per aumentare lo spannung. riporto qui di seguito i due brevi passi per una maggiore perspicuità delle osservazioni. tra prima e seconda stanza si trova scritto: «Vedete voi sì come si fingono gli amanti che i loro cuori con piacere et con gioia di loro pure partire da loro si possono? ma questo non è ad essi cosa molto anchora maravigliosa. Di più maraviglia è quello che segue:», mentre tra seconda e terza: «già potete vedere non solamente che i nostri cuori da noi si partono, ma che essi sanno etiandio far viaggio. Udite tuttavia il rimanente» (le citazioni sono tratte da Bembo, ed. Dilemmi, 272). 57 Baldacci 1974, 127 rintraccia un modello per la canzone asolana in RVF 23, ricordando che quest’ultima era stata definita da Castelvetro «narratoria». 56

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nella parallela lirica di Ariosto (i), dedicata alla rievocazione delle circostanze dell’innamoramento per Alessandra Benucci, si replica un quadro argomentativo analogo. Dopo un’introduzione svolta attorno al tema della perdita della libertà a causa della soggezione ad Amore, focus lirico del testo, il poeta comincia il racconto del principio del suo servitium soffermandosi per un’intera strofa sui i dati spazio-temporali (il giorno è quello di San giovanni Battista e il luogo è Firenze).58 La contingenza e le circostanze sono, evidentemente, essenziali nella poetica ariostesca che colloca lo scambio dei primi sguardi tra gli amanti non in un passato idillico e dai contorni sfumati, ma, con maggior presa realistica, in un’occasione storicamente collocabile e definita anche dal contorno contestuale: alla festa del santo patrono si incrociano gli sguardi di Alessandra e Ludovico ma loro sono solo due tra le molte persone che accorrono in città.59 il piglio diegetico sfuma, poi, a partire dalla seconda metà della canzone, quando l’autore, dopo aver passato in rassegna le lodi dell’amata, conclude circolarmente rispetto all’inizio, sulla dichiarazione, priva di rimpianti, della sua subordinazione ad amore. Un’attenzione dominante per le determinazioni temporali si rileva anche nella canzone i, 209 di Alamanni (l’unica amorosa inserita nelle Opere toscane), che ha per tema l’antitesi stridente tra le gioie provate nella fase iniziale dell’innamoramento e l’amarezza presente, che, nonostante tutto, non avrà la forza di compromettere la fedeltà del poeta. Lo sguardo lirico si posa in maniera preminente sul passato, come evidenzia la dovizia dei riferimenti cronologici all’anteriorità (v. 2 «ne’ primi giorni», v. 19 «un tempo», v. 30 «l’antica primavera», v. 41 «giorni miei corsi», v. 44 «andati miei soccorsi», v. 53 «saldo sostegno antico», v. 65 «primo giorno»). tuttavia, benché la scansione per piani temporali suggerisca spesso un andamento lineare (o in avanti o a ritroso), qui la narrazione, dopo essersi tuffata nelle profondità del passato ed essere riemersa per un attimo nel presente (v. 20 «or»), sembra cercare una svolta nel futuro (vv. 59-61). ma,

Ariosto, i, str. v, vv. 49-55 «Dico, da che ’l suo seme/ mandò nel chiuso ventre il re celeste,/ avean le ruote preste/ de l’omicida lucido d’Achille/ rifatto il giorno mille/ e cinquecento tredeci fiate/ sacro al Battista, in mezo de la estate.» 59 Ariosto I, str. viii, vv. 78-84: «Porte, finestre, vie, templi, teatri/ vidi piene di donne/ a giuochi, a pompe, a sacrifici intente,/ e mature ed acerbe, e figlie e matri/ ornate in varie gonne;/ altre star a conviti, altre agilmente/ danzare…». 58

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in realtà, nella percezione emotiva del tempo le estremità lontane si protendono fino ad unirsi circolarmente e il futuro ancora carico di promesse si ripiega di nuovo in un’illusione di felicità che appartiene al passato: … i giorni, i mesi, e gli anni Amor, Fortuna, e ’l cielo non havran forza mai, ch’ i vostri santi rai non mi stieno entro ’l cor l’estate e ’l gielo, (et sia che vuol d’altrui) per esser quel che ’l primo giorno fui. (Alamanni, i, 209, str. v, vv. 59-65)

Da ultimo, scrive una vera e propria canzone di bilancio esistenziale a impronta narrativa (ii, 450) girolamo Britonio, che inserisce il testo tra le rime di pentimento poste a suggello del suo canzoniere di stampo petrarchesco. Ad eccezione della prima stanza, che contestualizza nel presente le ragioni dolorose della contrizione e l’anelito al ravvedimento, il componimento è innervato dalla diegesi, che parte curiosamente dalla rievocazione della più tenera infanzia (cfr. vv. 29-30 «et in quel tempo pargoletto, afflitto/ col pianger procacciava d’altri il vitto») e dalla prima giovinezza ancora ignara d’amore, e si sostanzia di una successione per quadri ordinati dal punto di vista cronologico e scandita di strofa in strofa mediante l’esposizione di nessi temporali in posizione incipitaria.60

4.2.3 Canzoni a sviluppo drammatico-dialogico Un numero non trascurabile di canzoni del corpus può essere ricondotto ad un tipo di sviluppo argomentativo che potremmo definire a carattere Cfr. Britonio ii, 450, str. ii, v. 16 «A dir il ver, dal dì che qua giù scesi»; str. iii, vv. 3132 «in simil primo corso di mia etade/ sette anni vissi di me proprio in forse»; str. iv, vv. 46-47 «indi poi d’hora in hora oltre scorrendo/ giunsi in quella altra età…»; str. v, v. 61 «D’allhor…»; str. vi, vv. 76-77 «Da questo error ritrar nulla me valse/ per avanzar di tempo e di vertute»; str. vii, vv. 91-92 «Così in tal termen del mio viver frale/ mi trovo et piaccia al ciel non scorra in peggio». 60

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drammatico-dialogico perché in esso uno svolgimento precipuamente narrativo viene contaminato attraverso l’inserto di brani in discorso diretto non necessariamente tenuti dall’io poetante. Prevedere all’interno di un componimento disteso, inquadrato in una cornice diegetica, l’intromissione di una voce diversa da quella dell’io lirico è una soluzione apparentemente innovativa, ma che trova più di un riscontro nel Canzoniere, tanto da costituire una vera e propria modalità espressiva del poeta trecentesco, una soluzione dai contorni ben definiti.61 nei Fragmenta le canzoni che contengono brani riportati nel piano enunciativo del discorso diretto sono svariate e si concentrano principalmente, anche se in modo non esclusivo, nella seconda parte del libro.62 Avvalendosi di un criterio tipologico-linguistico di situazione comunicativa, si potrebbe raccoglierle in tre sottogruppi: in primo luogo, canzoni in cui viene inscenato uno scambio di battute tra il poeta e uno o più personaggi (in RVF 23 la brevissima comunicazione tra il poeta e Laura, rispettivamente vittima e carnefice del processo metamorfico; in RVF 119 il dialogo tra il poeta e la gloria; in RVF 359 il colloquio onirico tra il poeta e Laura apparsa in sogno; in RVF 360 la disputa tra Amore e l’io lirico davanti ad un tribunale presieduto dalla ragione); secondariamente, canzoni in cui viene riprodotto il monologo di un personaggio rivolto al poeta (RVF 325, lungo intervento di Fortuna all’indirizzo dell’io lirico); da ultimo, canzoni nelle quali compare una sorta di ipostasi della voce del poeta, una concretizzazione della sua 61 Taddeo 1983 la individua tra le manifestazioni della complessa percezione e riproduzione della temporalità in RVF e la descrive come un autentico «sottosistema», ma, per ragioni di comparabilità dei dati, concentra la sua attenzione solamente sulla sua applicazione nei sonetti (quasi una cinquantina). Dal momento che è utile anche per la mia disamina focalizzata sulla canzone, cito il bilancio che il critico stende a proposito di tale modalità argomentativa: «Questo procedimento, già noto alla produzione poetica antecedente a Petrarca, dà maggiore immediatezza all’enunciato ed evidenza alla rappresentazione; evita le pesantezze del discorso indiretto; introduce, accanto a quella del narratore, un’altra voce, che parla in prima persona, e quindi contribuisce a creare le dramatis personae del testo, a promuovere alla funzione attanziale enti come la mente e lo sguardo. Locutori e interlocutori sono i più diversi […] ma i più frequentati sono l’io del poeta, che dialoga con l’anima o con i suoi pensieri, o Laura in visione. il discorso diretto […] può essere frazionato in più battute, e nelle dimensioni oscilla da poche parole a oltre 13 versi, come accade nel singolare son. XCiii» (p. 71). 62 i sonetti con discorso diretto sono, invece, «disseminati con sufficiente uniformità per tutta l’estensione dell’opera» (Taddeo 1983, 70-71).

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combattuta interiorità (in RVF 264 viene data voce ad uno dei pensieri che scuotono l’io lirico all’indomani della scomparsa di Laura; in RVF 268 si riportano le parole che Amore detta dentro al cuore del poeta). Difficile da classificare è RVF 53 per la presenza di frammenti di strofe riportati sì al discorso diretto, ma che non sembrano, in effetti, spostare significativamente l’attenzione sul personaggio a cui sono attribuiti, rimanendo nonostante tutto delle appendici del discorso dell’io lirico che mira semplicemente ad un approccio di immediatezza mimetica nell’appello che sta rivolgendo al personaggio apostrofato come Spirto gentil.63 Se, invece, si considera un criterio di rilevanza del discorso diretto stesso nell’economia generale dell’estensione del componimento, si osserva che nelle canzoni petrarchesche sono praticate sia soluzioni in cui le battute dei personaggi sono solo limitati incisi in un tessuto che conserva per lo più un’impronta narrativa (il discorso occupa una stanza in RVF 268 e due in RVF 264), sia soluzioni che confinano le coordinate diegetiche al mero ruolo di contestualizzazione (il discorso diretto si estende per metà della canzone in RVF 325 e 119 e per quasi l’intera compagine testuale in RVF 35964 e 360). Quando si applicano le stesse categorie alle canzoni primocinquecentesche si scorge un’evidente asimmetria rispetto al ventaglio delle proposte di Petrarca e soprattutto una minore varietà complessiva di tecniche nei singoli autori, accompagnata ad una specializzazione di particolari tipi e ad una scelta preferenziale che ciascun lirico applica relativamente alla dimensione degli inserti in discorso diretto (ampi e pervasivi nelle canzoni di Britonio e di molza, generalmente più contenuti in quelle di B. tasso). La prima differenza macroscopica consiste nella totale assenza dal corpus del primo sottogruppo situazionale. Ciò significa che in nessun testo si registra la presenza di uno scambio di battute tra due personaggi Cfr. RVF 53, vv. 40-42 «Come cre’ che Fabritio/ si faccia lieto, udendo la novella!/ et dice: Roma mia sarà anchor bella»; vv. 60-62 «e i neri fraticelli e i bigi e i bianchi,/ coll’altre schiere travagliate e ’nferme,/ gridan: O signor nostro, aita, aita»; vv. 96-98 «Quanta gloria ti fia/ dir: Gli altri l’aitâr giovene et forte/ questi in vecchiezza la scampò da morte!». 64 Cfr. Soldani 2007, 789: «il vero tratto distintivo della canz. 359 è la sua dialogicità, che, dopo l’introduzione narrativa e i convenevoli, tra il v. 13 e il congedo satura completamente il testo, senza residui che non siano le scarne didascalie: demando 13, et ella 14, rispondo 23, et ella 38, respond’io allora 45, et ella 47, dich’io 57, dice 59». 63

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che produca un’interazione dialettica in-mediata e diretta tra il poeta e un interlocutore. L’io lirico rimane costantemente voce narrante e non contamina mai il suo ruolo con quello di personaggio coinvolto in un dialogo; apostrofa ma non è apostrofato da alcuno, non è destinatario di battute a cui eventualmente ribattere ma si preferisce esaltarne il ruolo di registra, perché è lui a dare la parola ad altri personaggi o a scegliere figurazioni che, anche in absentia, lo rappresentino. La modalità praticamente esclusiva dei testi dialogico-drammatici è la seconda elencata nel catalogo tracciato all’inizio, vale a dire quella del monologo a carico di un personaggio diverso dall’io lirico che interviene ad ampliare nel senso della polifonia l’argomentazione testuale. Anche qui si verifica uno slittamento in relazione alla canonizzazione del Canzoniere. Se nei componimenti di Petrarca l’opzione per il monologo di un personaggio, tutt’al più una personificazione di un’entità astratta, è pur sempre rivolto all’io lirico, che attrae su di sé l’attenzione e recupera indirettamente la centralità di cui tradizionalmente è provvisto in questo genere poetico, nelle canzoni del corpus tale accorgimento non è generalmente rispettato e capita più spesso che la voce ‘altra’ che si intromette nell’effusione o narrazione del poeta sia concepita come uno strumento parallelo per rafforzare la tesi espressa ad un terzo destinatario. non c’è dunque comunicazione, anche se silenziosa, tra personaggio ed io lirico, ma comune intento discorsivo nei confronti di un ulteriore obiettivo ricevente e ciò si attua con particolare frequenza nei testi di carattere non amoroso. Ad esempio, nella canzone 2, LXXVi di B. tasso, il poeta esorta il Papa ad intraprendere una nuova crociata e, per rafforzare la sua preghiera, all’altezza delle strofe ii e iii incastona nel discorso la vivida prosopopea dell’italia, che a Clemente Vii rivolge un appello patetico come una madre colpita da un grave lutto invocherebbe in soccorso un figlio cercando di muoverne gli affetti col ricordagli la riconoscenza e il rispetto che si devono a chi ci ha dato la vita.65 il topos della terra italica che invoca pietà Cfr. B. Tasso, 2, LXXVi, vv. 21-26 «Udite italia, che col rotto crine,/ e ’n bruna gonna, in queste voci scioglie/ la lingua, e mesta vi riprega e dice:/ - Deh, volgi gli occhi a queste rotte spoglie,/ a le piagate mie membra meschine,/ tu che più d’altro mi puoi far felice» e vv. 33-40 «Se la mia vita t’è molesta e grave,/ se t’annoia il mio ben, tu istesso stringi/ il crudo ferro, e del mio sangue il tingi,/ del sangue di colei che dato t’have/ quest’aura onde ne vivi; ah figlio ingrato,/ svelli le verdi selve e l’onorato/ nido dove nascesti, ardi et atterra/ del bel paese mio ciascuna terra!». 65

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filiale al papa è replicato, del resto, anche da Alamanni che attribuisce alla toscana, regione da cui proveniva la famiglia di marcello ii, una richiesta di aiuto, in una breve battuta in discorso diretto al termine del testo composto in occasione dell’elezione del pontefice.66 Analogamente, e tuttavia in circostanze ben diverse, lo stesso autore degli Amori suggella un componimento di felicitazione per il dì natale di Donna Antonia di Cardona (3, Xi) con un canto intonato dalle Parche, che esaltano con la formula del makarismòs chiunque abbia l’occasione di incrociare il suo destino con quello della mirabile destinataria. D’altro canto, Sannazaro screzia una canzone celebrativa (1, Xi) con un’orazione di encomio pronunciata da Proteo. Britonio inserisce ampi brani di assoli drammatici estranei all’io poetante o non precisamente a lui indirizzati anche nel campo della lirica erotica dal momento che la focalizzazione intimistica non sul protagonista ma su personaggi comprimari nella storia d’amore può essere riassorbita nel tessuto lirico dall’intelaiatura macrotestuale del suo libro di rime, un vero e proprio canzoniere organico. Così, ad esempio, nella i, 30 il poeta riporta i sospiri di una ninfa (che poi si scoprirà essere la donna amata) rivolti all’Aurora; nella i, 165, interviene per l’intero testo l’antagonista dell’amante, il Sole, a promuovere il suo punto di vista; nella ii, 379 compare, all’interno di una cornice latamente narrativa nella quale l’io poetico interpella in seconda persona la donna, la rievocazione del breve dialogo tenutosi tra la natura e le stelle nei momenti in cui fu concepita la sua creazione, come sommo coronamento della virtù e della bellezza terrena e con funzione nobilitante e salvifica per il mondo.67 Per quanto concerne, infine, la terza ripartizione, cioè i testi pervasi

Cfr. Ala iii, str. viii, vv. 108-112: «et la voce esaudisci afflitta e trista/ de la tua dolce patria, e ’l pianto amaro/ che dice: ‘o figlio caro/ non puote esser congiunto al sommo bene/ chi la madre abbandona in tante pene». 67 Cfr. Britonio ii, 379, str. i vv. 1-12 «nel bel principio che natura volse/ formar voi Donna senza pare alcuna/ per illustrar di vostra luce il mondo/ ogni concetto in un pensiero accolse/ poi convocò gioiosa ad una ad una/ nel più gradito luogo e più giocondo/ con pregio alto e profondo/ le stelle elette e l’anime beate/ et disse: “Hor mi soccorra il vostro ingegno/ perché penso e dissegno/ di fare un corpo di tanta beltate/ ch’el par non sia più visto in altra etate.» L’intervento in discorso diretto della natura prosegue poi per l’intera seconda strofa. Le movenze della canzone derivano con tutta probabilità da RVF 325 in cui Petrarca mette in bocca a Fortuna la narrazione della nascita miracolosa di Laura, che inizia con la v stanza e prosegue fin sulle soglie del congedo. 66

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da soliloqui drammatizzati in cui l’interlocutore del poeta è se stesso, o meglio, una parte della sua interiorità che prende forma in una prosopopea, vi è un solo esempio significativo in una canzone di molza, benché esso presenti sintomatiche differenze rispetto a quello che potrebbe apparire come il più immediato antecedente tra le canzoni petrarchesche dialogate, RVF 268. nel componimento mol i, il poeta modenese riporta in discorso diretto le parole che Amore gli suggerisce (vv. 23-24 «e ’l mio Signor, da cui non fu divisa/ mia mente ancor, mi detta in cotal guisa:»). tuttavia l’intervento che segue a questa introduzione diegetica che prepara la comparsa di una voce altra è chiaramente indirizzato ancora una volta all’amata e non fa parte di un contraddittorio interiore o di una psicomachia che dilania il protagonista tra desiderio e ascesi, amore e redenzione, come accade nella canzone di Petrarca, dove, del resto, fin dall’inizio si prospettava questo faccia a faccia (v. 1 «Che debb’io far? Che mi consigli, Amore?»). Quella di molza è solo la diffrazione di una stessa voce che bipartisce, senza dialettica contrastante, il testo in due tronconi che si rispondono ed entrambi si rivolgono alla donna. Alla lode del poeta introdotta dall’allocuzione ai vv. 1-3 «Alma real, ne le cui lodi stanca/ le penne impigre da l’audace ibero/ al fabuloso idaspe inclito grido» risponde in accordato controcanto la verace favella di Amore ai vv. 25-27 «Bella donna gentil, che ’l ciel ne diede/ cortese e largo per esempio eterno/ d’ogni rara beltà ch’ei chiude e serra» che si incarica solo di precisare con maggiore franchezza quanto l’io lirico si permetteva solo di alludere dalla sua persona di poeta-amante, ossia l’invito a non contrarre un matrimonio con un pretendente indegno. generalmente la visualizzazione dell’interiorità (l’anima, Amore) che parla in vece o di concerto con il poeta è sostituita nelle canzoni primocinquecentesche dall’introduzione di alter ego dell’io lirico che moltiplicano, arricchendole con attraenti figurazioni analogiche e non precisamente sovrapponibili, le sue risonanze interiori. Ciò avviene, ad esempio, in due canzoni di B. tasso di ambientazione classico-pagana; nella 2, XXXii i sentimenti del protagonista, che patisce sotto il crudele dominio di amore e ha in odio la luce stessa del giorno, sono riverberati in una sorta di dialogo a distanza dal discorso, citato in assenza di inequivoche mediazioni narrative, che si immagina abbia pronunciato a nasso Arianna. Alla sventurata eroina egli stesso si era precedentemente rivolto, preso da un moto di quella solidarietà che 294

accomuna gli amanti infelici. nel lamento che riserva alla notte, l’io lirico, dopo aver riportato le esclamazioni di amara disillusione della principessa abbandonata (vv. 67-70 «... Ahi lassa!/ o fero sonno, o dispietata sorte,/ cagion de le mie gravi/ pene...» e soprattutto vv. 79-81 «Dormito avessi almeno/ una perpetua notte/ per non veder fuggir chi mi disface»), in modo repentino e senza trapassi demarcanti, prende la parola e tenta pateticamente di confortala convincendola che il suo dolore è alla fine stato riscattato dall’apoteosi in cielo (vv. 92-94 «tu dopo breve doglia/ Ariadna felice/ avesti il tuo destin grato e cortese»), mentre la sofferenza a cui lui stesso è soggetto non sarà in alcun modo risarcita ma potrà essere alleviata solo dai sospiri notturni (in riferimento alla notte, vv. 128-130 «e poi ch’io non ritrovo altro diletto/ che sempre lamentarmi/ verrò al ritorno tuo teco a lagnarmi»). Le parole di Arianna sono funzionali ad arricchire di freschezza retorica l’intarsio narrativo e, irregimentate in due uniche strofe (vi, vii), non scalzano dalla scena l’io lirico, che subentra di nuovo subito dopo e conclude il componimento ciclicamente, riprendendo l’apostrofe alla notte. Anche il secondo componimento tassiano si avvale di un’ambientazione lunare, quantunque in questo caso si configuri come un autentico inno alla notte. La tecnica narrativa è la stessa, un po’ più semplificata. L’intarsio che nel testo precedente vedeva il poeta interagire da un lato con la notte, tacita spettatrice dei suoi sfoghi e ripetutamente alloquita, e dall’altro con Arianna, tratta dal silenzio della sua condizione siderale solo tramite un flash-back dominato dalla rievocazione del suo grido di dolore, nella canzone 2, XC è una giustapposizione temporalmente lineare. il poeta è figura centrale che, apostrofando la notte come «compagna d’amore e di diletto/ conforto e degli amanti unica spene» (vv. 66-67), le dedica la descrizione di un estatico paesaggio tracciato con piccole e preziose pennellate. Solo per una strofa ai versi dell’io lirico si aggiunge l’intervento di alcune ninfe delle acque, anch’esse spinte al canto per lo stupore della scena pacificata dalla rassicurante presenza della luna. Ancora una volta i personaggi che partecipano nel testo con battute in discorso diretto, pur non essendo propriamente emanazione dell’io lirico, ne interpretano e amplificano desideri e pensieri. Basti considerare questi due passi accostati:

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Pòsati pur ne l’acque oltre l’usato, or che sì bella notte adorna il cielo, pastor d’Admeto, e non portar il giorno: che non fu mai, dal dì che caldo e gelo veste e dispoglia del suo verde il prato, di così chiara luce il mondo adorno; e se ne prendi scorno, lasciando il novo dì nel grembo a teti, specchiati ne’ suoi lumi, or che riluce, che da sua vaga luce si faranno i tuo’ rai più ardenti e lieti, e l’aere con la tua nova bellezza di gentil s’ornerà strana vaghezza. (B. tasso, 2, XC, str. v, vv. 53-65)

o compagna d’Amore e di diletto, conforto e degli amanti unica spene, notte più d’altra a me chiara e felice [...] o ’n qual lieta pendice d’esperia teti t’ha adornato il crine, per farti più che ’l dì lucida e vaga? Per te l’alma s’appaga, per te beve il desio scorto al suo fine, negli occhi di colei che mi governa, un piacer vero, una dolcezza eterna. // Deh, ferma il passo, e non portar nel fondo del vasto mar la vera gioia mia, fa’ qui co’ miei diletti ancor dimora (B. tasso, 2, XC, str. vi-vii, vv. 66-68, vv. 72-81)

Prima le nereidi Panopea, efire e galatea e subito dopo l’io lirico rivolgono alla notte la medesima preghiera, invitandola a soffermarsi nel cielo a scapito del giorno, di cui pareggia la luminosità grazie alla luna e ai suoi raggi riflessi sul mare. L’intrusione delle figure femminili rompe solo apparentemente la monodia lirica perché in realtà ne impreziosisce le sonorità e ne assevera o anticipa il tema principale. La figura del poeta si rifrange soprattutto se a sostituirne la voce è un altro poeta e cantore, come accade in un esempio del tipo testuale drammatico-dialogico che si trova nella canzone di molza Sul fiume a cui bagnar dal ciel fu dato (mol ii). il testo è, ad eccezione della stanza i di ambientazione, totalmente tenuto da un personaggio che pare corrispondere al profilo di un poeta-pastore (vv. 4-11«di bianca oliva e di verde appio coronato/ un pastor, di cui i sette incliti monti/ portano al ciel la chiara immortale fama/ cantò quasi uom che teme, e mercè chiama/ sì dolce, che ’l bel rio per udir pose/ l’usato mormorare, e l’aure e i venti/ al suon de’ primi accenti/ immobili lasciar le selve ombrose»). il ruolo di alter ego dell’io lirico non è celato e tuttavia la presenza di un personaggio diverso serve ad accreditare il discorso di ammonizione alla donna che ha ceduto a nozze indegne e contemporaneamente a garantirne un bilanciato distanziamento, almeno nella finzione. Alle casistiche sopra delineate sono da aggiungere in margine al296

tre due canzoni, una di B. tasso, Odi dal cielo un grido alto e conoro (3, LXVi), e una di trissino, La bella donna a cui donaste il cuore (LXXV) che meritano, per la singolarità e lo sperimentalismo delle opzioni attuate, osservazioni puntuali. entrambe sono difficilmente inquadrabili in modo univoco sia nelle categorie cinquecentesche che in quelle valide per le distese di Petrarca. Solo parzialmente ascrivibile alla tipologia dei dialoghi di cui il poeta è attore comprimario, la canzone tassiana si configura come il momento culminante delle rime di pentimento e dell’intera parabola degli Amori. in essa il poeta bergamasco si rivolge, sotto la guida di un’ispirazione celeste, alla sua anima per richiamarla a seguire i sentieri della redenzione e ad abbandonare definitivamente le pulsioni passionali. Per rendere più convincente il monito, l’io lirico, fin dall’esordio del testo, dichiara che è espressa volontà del «gran re di quel celeste coro» (v. 4) che l’anima si ricongiunga a lui nella beatitudine. Del Signore stesso il poeta immagina di riportare in un esteso discorso diretto le parole di richiamo a quella che, con linguaggio biblico, definisce sua «sposa» spirituale. non odi che ’l Signor ti prega e dice: “Bagnati, anima trista, al sacro fiume di penitenza, e ’n quel ti lava e tergi; [...] // Deh vieni, sposa mia, che già passato è l’aspro verno, e le pruine, e ’l ghiaccio, e depingono i fior la terra nostra; spiran le viti il lor odore usato, portano i fichi i verdi figli in braccio, e già la tortorella a noi si mostra: quella terrena chiostra lascia, colomba mia, mostrami il volto, ch’io feci a mia sembianza ardente e bello; e con un ramuscello di verde palma novamente colto, non attendendo che la carne moia, riedi a cibarti de l’eterna gioia. (B. tasso, 3, LXVi, str. ii-iii, vv. 14-16, 27-39)

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il componimento è percorso, specie nelle prime cinque stanze, da esortazioni all’anima, in posizione anaforica (v. 1 «odi», v. 4 «senti», v. 7 «ascolta», v. 14 «non odi che...?», v. 27 «vieni», v. 40 «vieni», v. 47 «e vieni», v. 53 «non intendi...?») affinché si disponga all’ascolto della voce divina che le risuona dentro e che la attira a sé. Le strofe ii, iii e iv riproducono, poi, il discorso stralciato del creatore che agogna a ricongiungersi con la sua diletta e per esse (in particolar modo per la terza), B. tasso si avvale di strutture linguistiche e metaforiche che preleva direttamente dal Cantico dei Cantici,68 testo le cui espressioni oscillano ambiguamente dai modi propri del rapimento estatico a quelli del trasporto passionale e che per questo si configura come la fonte sacra che meglio è destinata ad acclimatarsi con il contorno di rime amorose nel quale è calata. tramite il riferimento quasi letterale alle parole dello sposo il poeta sembra voler facilitare la conversione della sua anima dalla stretta del desiderio mondano ad un amore, sempre appassionato, ma rivolto verso un oggetto più alto e degno. Con questo consuona anche la descrizione dei chiostri beati che attendono l’anima, tratteggiati, per omogeneità strutturale rispetto alla prima parte del testo, ancora una volta grazie al ricorso all’anafora (sull’avverbio deittico di luogo «ivi», ai vv. 69, 79, 88, 92) e provvisti di caratteristiche che li accostano ora al topos del locus amoenus, visto in versione profana come scenario di molti incontri lirici, ora, più propriamente, agli immobili splendori paradisiaci: ivi non volan gli anni, i mesi o l’ore, scorte dal tempo fuggitivo e lieve, né cede unqua a la notte il chiaro giorno; la vaga Cinzia non rinasce e more, né l’aere è d’atre nubi oscure e greve; col carro d’or non si rivolge intorno Febo: ad un modo adorno Cfr. Ct. 2, 10-14 «ora parla il mio diletto e mi dice: alzati, amica mia, mia bella, vieni!/ perché ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata;/ i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna./ il fico ha messo fuori i primi frutti e le viti fiorite spandono fragranza. Alzati, amica mia, mia bella e vieni/ o mia colomba che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è leggiadro/».

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è sempre l’alto seggio, con la luce onde piglia splendor la Luna e ’l Sole; sempre pien di viole le tempie e ’l biondo crine, il dì riluce negli occhi ardenti, e ne la chiara fronte di lui che fece il bel nostro orizzonte. (B. tasso, 3, LXVi, str. viii, vv. 92-104)

Dal punto di vista della tipologia testuale siamo di fronte ad una lirica che ibrida diverse soluzioni: vi è la presenza dell’ipostasi dell’io (l’anima) che permette al poeta di parlare a sé stesso in un dialogo distanziato, ma ciò che complica il quadro è che al cospetto di questo destinatario silenzioso (l’anima) vi sono in realtà due interlocutori (il poeta e il Signore) che pronunciano battute. e tuttavia lo schema non riprende il clima di quello di RVF 360 perché gli attori non sono contedenti in un dibattito che li vede su posizioni antagonistiche, ma piuttosto cooperano allo stesso fine persuasivo nei confronti del destinatario, annullando così i campi di tensione dialettica. infine, manca la cornice di contestualizzazione della scena che, così, finisce per svolgersi in presa diretta davanti agli occhi del lettore, senza filtro di rielaborazione. L’io lirico non patisce di diventare personaggio di un racconto da lui stesso rievocato e rimane il centro catalizzatore di un discorso che si fa tutto al presente. Al minimo la contestualizzazione diegetica anche nell’ultima canzone amorosa del libro di trissino (LXXV), dedicata alla morte dell’amata. il racconto degli ultimi istanti di vita della donna e delle manifestazioni del dolore per la perdita da parte del poeta non è condotto in prima persona dall’io lirico, ma è orchestrato in un’insolita terza persona con cospicui inserti di dialogo ed effetto centrifugo. A parlare è Amore, inviato come messaggero a far risuonare le parole di conforto della donna e a spiegare la ragione ultima, determinata dal pietoso disegno divino, per la quale i due si sono trovati lontani nel momento estremo. nelle parole dell’illustre messo, che assume su di sé, senza alcuna mediazione, la responsabilità di avviare il flusso poetico e di additare il poeta con una seconda persona allocutoria (cfr. il verso d’esordio «La bella donna a cui donaste il cuore»), si inseriscono in discorso diretto i ragionamenti dell’amata (per tutta la ii, la iii, la iv e la v strofa), come se venissero rievocati narrativamente nel momento stesso in cui sono riferiti. tale modalità argomentativa risulta di singolare efficacia, pur suscitando un senso antilirico di straniamento, 299

dato dall’intervento di due personaggi sulla scena, dalla marginalizzazione dell’amante protagonista nel ruolo di destinatario della poesia e dallo sfondamento dell’unica consueta prospettiva. esemplare in questo senso è la iii strofe, nella quale si accostano i piani del discorso con effetto di vertigine prospettica: Amore sta già riportando al discorso diretto le parole della donna, che qui rievoca il momento in cui ha commissionato l’ambasceria all’amato. Questo comporta che Amore e madonna si trovino pertanto a parlare entrambi di se stessi alla terza persona: Per me li parli e lo conforti Amore, le cui parole intese forse fien più che s’io parlasse istessa, e dicali: - Signor, quell’altra vita del suo voler non spoglia la cara Donna tua, benché no ’l mostri; se non dimori al suo bel viso a canto, pur hai dentr’al suo cuor ferma radice. (trissino, LXXV, str. iii, vv. 17-24)

La logica espositiva della canzone, indubbiamente sperimentale e ai margini di ciò che si intende per lirica amorosa, trova una sua giustificazione a livello macrotestuale poiché il quadro in cui si dà voce alla donna sembra fare da pendant rispetto ai tanti altri componimenti tipicamente di lode, in cui la donna è solo una passiva tributaria della celebrazione, quasi eterea entità astratta. Del resto, la lirica trissiniana non è che uno dei numerosi esempi di come il dialogo o, per meglio dire, la battuta pronunciata da un personaggio diverso dall’io lirico (come in parte abbiamo osservato per RVF 53) nel primo Cinquecento si innesti spesso nelle canzoni luttuose tanto da costituirne un elemento formale quasi obbligato. La propensione per l’inserimento nei compianti di esternazioni dirette a carico di personaggi comprimari rispetto al poeta da un lato è giustificata dall’intento di interpretare icasticamente attraverso una riproduzione immediata il dolore di amici o congiunti del defunto, dall’altro è legittimata anche dal punto di vista storico-letterario dal planctus inserito nella princeps delle Rime di Bembo (LXXXViii), testo cinquecentesco esemplare per questo genere:

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e ’l cantar de le Dee, già lieto tanto, uscì doglioso e lamentevol pianto, e fu più volte in voce mesta udito di tutto ’l colle: «o Bembo, ove se’ ito?». // Sovra ’l tuo sacro et onorato busto cadde grave a se stesso il padre antico, lacero il petto e pien di morte il volto. e disse: «Ahi sordo e di pietà nemico, destin predace e reo, destino ingiusto, destino a impoverirmi in tutto vòlto, perché più tosto me non hai disciolto da questo grave mio tenace incarco, più che non lece e più ch’io non vorrei, dando a lui gli anni miei, che del suo leve inanzi tempo hai scarco? Lasso, alor potev’io morir felice: or vivo sol per dar al mondo essempio quant’è ’l peggio far qui più lungo indugio, s’uom dê perder in breve il suo refugio dolce, e poi rimaner a pena e scempio. o vecchiezza ostinata et infelice, a che mi serbi ancor nuda radice, se ’l tronco, in cui fioriva la mia speme, è secco, e gelo eterno il cigne e preme?». (Bembo, Rime LXXXViii, str. v-vi, vv. 97-120)

È noto che la canzone Alma cortese non è esclusivamente riservata al cordoglio privato di Pietro per il fratello, ma dà testimonianza in un certo senso “polifonica” dell’affetto che tutti gli altri familiari stretti nutrivano per Carlo. Ciò che conta dal punto di vista delle modalità espositive, però, è che, oltre alla possibilità di mostrare lo sconforto dei parenti assorbendolo in un passaggio di carattere diegetico-descrittivo (come nel caso dell’esternazione del dolore di Antonia),69 Bembo si riserva anche la Cfr str. vii, vv. 121-126 nei quali la pena della sorella è assimilata a quella patita dalle eliadi: «Qual pianser già le tristi e pie sorelle,/ cui le treccie in sul Po tenera fronde/ e l’altre 69

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tecnica di aprire squarci all’interno del suo lamento per rievocare direttamente le parole di altri, in particolare un’eco dei numi tutelari dei luoghi e l’implacabile sgomento del vecchio padre Bernardo. Se nel primo caso si tratta di un accorgimento dal sapore letterario, con funzione esteriore di sottolineare l’innaturalità di quanto accaduto (non si dimentichi che la domanda delle “Dee” è preceduta da un elenco di fenomeni catastrofici),70 nel secondo, i commossi accenti del padre producono un risultato di grande efficacia e patetismo, benché anche il tema tragico dei genitori che sopravvivono ai figli sia tutt’altro che privo di specifiche credenziali retoriche risalenti alla gravitas del registro epico.71 L’eredità di Bembo è recuperata in differenti maniere, ma l’intuizione di dar voce a personaggi diversi dall’io lirico è sfruttata soprattutto per restituire ai componimenti luttuosi occasionalmente commissionati un più condivisibile e realistico tono di turbata partecipazione. Per esempio, la costernazione espressa dai luoghi ritorna nel compianto di molza per raffaello,72 mentre l’idea del poeta-io lirico di farsi da parte per lasciar risuonare la desolazione del genitore campeggia in un planctus di Bandello (CXCii). nella canzone, scritta per la scomparsa di un bambino in seguito ad un improvviso incidente, non erompono fin da subito i lamenti per la disgrazia; invece, come in un cammeo, l’autore, nel corso delle prime due stanze, incide a brevi tratti un’ambientazione naturale e vi inserisce un personaggio dolente.73 Dalla cornice narrativa così definita si stacca membra un duro legno avolse,/ tal con li scogli e con l’aure e con l’onde,/ misera, e con le genti e con le stelle,/ del tuo ratto fuggir la tua si dolse». 70 Cfr. il testo riportato qui a p. 415. 71 oltre che a vari esempi disseminati nell’orizzonte romanzo, basti tenere presente quanto il motivo sia caro all’epica “anticonvenzionale” di Virgilio, che fa proprio della tragedia di giovani prematuramente scomparsi e pianti dai vecchi genitori (la madre di eurialo, Eneide iX, 473-97; il padre di Lauso Eneide X, 840 e ss.) la bandiera contro l’insensatezza della guerra e l’incomprensibilità del Fato. Quanto all’effetto emblematico di solennità stilistica prodotto dal giro strofico, bastino le parole di Baldacci 1974, 147-148: «Un simile procedimento esterno, narrativo secondo un gusto scopertamente oratorio, tutto affidato all’enfasi delle iterazioni, fu dunque identificato con la stessa categoria della gravità; ed abbiamo altrove ricordato la fortuna che l’esperimento del Bembo ottenne nel XVi secolo». 72 Cfr. Mol iV, str. vii, vv. 137-140 qui a p. 415. 73 Cfr. Bandello CXCii, vv. 1-4 «nelle fiorite piagge, e fertil piano/ d’ombrose selve e folti boschi pieno,/ che la bell’Adda press’insubria bagna,/ Pan dio d’Arcadia venne...» e,

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a questo punto un lungo discorso pronunciato dalla madre del defunto, Lodovica Sanseverino: onde chiavate insieme ambe le mani, con gli occhi fissi al ciel si lagna e grida, tal ch’a pietate il marmo può piegarse. e dice sospirando: – ahi sciocchi e vani nostri pensieri, e pazzo chi si fida in ciò ch’ogni momento suol cangiarse! invide Parche e scarse, che ’l caro mio figliuol sì tosto a morte tiraste, con sì duro e orrendo caso, che dall’orto all’occaso del sol, non fu già mai sì fiera sorte tra quanti qui n’ancide l’empia morte. (Bandello, CXCii, str. iii, vv. 25-36)

Di strofa in strofa per bocca della donna il poeta riesce a rievocare le circostanze della morte del fanciullo: il crudele destino, la caduta dalle scale (vv. 40-42 «i’ vidi, ahimé, la pargoletta spoglia/ d’alto cadendo pallidetta e esangue/ restar come tra l’erbe un secco fiore»), la disperazione dei familiari, i vani soccorsi tentati (vv. 77-78 «ma non puotè esculapio, o Apollo, a bada/ l’alma tener in tante doglie estreme»), l’ultimo saluto dato alla spoglia (vv. 91-94 «e ’l viso bel distrutto,/ e la soave bocca in ogni lato/ bacia più volte, stand’intenta allora/ ch’uscisse l’alma fora»). il tutto è descritto con una vivacità e un coinvolgimento mimetico che a fatica Bandello avrebbe altrimenti potuto sortire. estrememante teatrale anche la scelta del finale con la chiusura della cornice narrativa: Dunque, figliuol, l’acerbo mio cordoglio s’hai teco quell’amor che ’n terra avevi, mira dal ciel, e vieni a consolarmi. tu sai che giustamente pur mi doglio, dopo ulteriori precisazioni, vv. 13-24 «Quivi la bella e glorïosa donna,/ ch’a’ nostri giorni di virtute e grazia,/ e di beltate albergo si ritrova,/ stassi con sparso crine in nera gonna/ e sol di lagrimar s’appaga e sazia,/ tant’in lei doglia il duol ognor rinova,/ il duol a cui non giova/ altrui conforto: sì l’affligge e sface/ la morte di un figliuol, tal ch’ella suole,/ dall’uno all’altro sole,/ piagnendo sempre priva d’ogni pace/ starsi, qual neve al sol che si disface.»

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da poi che fur i giorni tuoi sì brevi, ch’assai più tempo lieta dovean farmi. Ahimè, perché donarmi non volle grazia il ciel, ch’a questo passo teco, figliuol... –. Qui tacque, né più disse: ch’ambe le luci fisse al ciel avendo, il corpo quasi casso parve di vita, ed ella farsi un sasso. (Bandello, CXCii, str. ix, vv. 97-108)

Le ultime parole di Lodovica sono un’invocazione al figlio affinché le stia vicino, coprendola con lo sguardo dal cielo. giacché il dolore di una madre è insopprimibile e difficilmente può essere contenuto o anche solo alleviato da un’arrendevole consapevolezza, Bandello fa sì che, dopo l’apostrofe al bambino, il discorso ritorni sulle battute iniziali e sul desiderio di morte – quasi a significare in modo figurato una ossessiva disperazione, che, cieca alla ragione, non trova vie d’uscita. mentre, però, all’inizio, la madre l’aveva indirettamente espressa chiedendosi incredula come avesse potuto sopravvivere alla scomparsa del figlio (vv. 37-39 «Come non puotè in me tanto la doglia/ ch’i’ ne morissi, allor ch’i’ vidi il sangue/ da quelle membra uscir sì caldo fuore?»), provata dal penoso soliloquio in cui ha ripercorso tutte le pieghe del suo tormento, alla fine la donna non è capace di concludere il discorso, che cade interrotto da una significativa reticenza. i fili sono allora riallacciati dall’io lirico di nuovo nella “persona” del poeta, che si focalizza ancora sull’estrema immagine del patimento, sulla fissità dello sguardo (cfr. v. 26 «con gli occhi fissi al ciel si lagna e grida» e vv. 106107 «ch’ambe le luci fisse/ al ciel avendo...»). nei componimenti funebri di Ariosto, poi, il filtro della voce narrante del poeta è addirittura completamente rimosso e la scomparsa di giuliano de’ medici, che in essi si celebra, nel primo è affidata in toto al lamento della moglie (iV), che, nel testo successivo, si immagina venga placato da un discorso pronunciato dallo stesso defunto (V). Che a parlare siano rispettivamente i due sposi divisi dalla tragica circostanza della morte lo si inferisce non grazie ad una qualche introduzione, ma mediante riferimenti interni al testo, subito organizzato nell’immediatezza dello sfogo allocutivo. Filiberta di Savoia apre la lirica invocando il destinatario (v. 1 «Spir304

to gentil, che sei nel terzo giro») e si manifesta solo più di trenta versi dopo (vv. 31-32 «io sono, io son ben dessa; or vedi come/ m’ha cangiata il dolor fiero ed atroce»); analogamente giuliano rivolge le prime parole all’amata (v. 1 «Anima eletta...») e si dichiara al termine della prima strofa (vv. 16-17 «il tuo fedel salute/ ti manda, il tuo fedel caro consorte»). La risposta rassicurante dello spirito ormai nei cieli dei beati è un espediente singolare, ma più vicina al modello stabilizzato del compianto è la canzone intonata dalla moglie, che, non a caso riprende anche il topos del pianto che prorompe dai luoghi: Del danno suo roma infelice accorta, disse: – Poi che costui, morte, mi tolli, non mai più i sette colli duce vedran che trionfando possa per sacra via trar catenati colli. De l’altre piaghe, onde son quasi morta, forse sarei risorta, ma questa è in mezo il cor quella percossa che da me ogni speranza m’ha rimossa. – turbato corse il tibro alla marina, e ne die’ annonzio ad ilia sua, che mesta gridò piangendo: – or questa di mia progenie è l’ultima ruina. – Le sante ninfe, i boscarecci dèi trassero al grido a lacrimar con lei.

e fu sentito in l’una e l’altra riva pianger donne e donzelle e figlie e matri, e da’ purpurei patri alla più bassa plebe il popul tutto; e dire: – o patria, questo dì fra li atri d’Alia e di Canne a’ posteri si scriva: quei giorni che captiva restasti e che ’l tuo imperio fu distrutto, né più di questo son degni di lutto. – il desiderio, signor mio, e il ricordo che di te in tutti gli animi è rimaso, non trarrà già all’occaso sì presto il vïolento fato ingordo; né potrà far che, mentre voce e lingua formin parole, il tuo nome si estingua. (Ariosto, iV, str. vii-viii, vv. 91-120)

É Filiberta di Savoia ad assolvere il compito che sarebbe stato più propriamente del poeta, vale a dire quello di raccogliere la disperazione della città di roma, del tevere, dei numi tutelari del paesaggio, ma anche testimoniare la dimensione pubblica del lutto, della quale partecipano tutti i cittadini di ogni sesso, età e condizione sociale (vv. 107-109), presso cui giuliano si è conquistato fama immortale, al punto che la sua dipartita segna un giorno tanto nefasto quanto quello delle più gravi sconfitte subite dal popolo romano nella sua lunga e prestigiosa storia. La minaccia di un declino subitaneo, paragonabile a memorabili disfatte militari, che attende roma in seguito alla morte di persone che erano destinate a costruirne la gloria, ritorna, con riecheggiamento di 305

rime e di riferimenti, anche nel planctus molziano in obitu Raphaelis: Però tal dì, seguendo ï suoi gran’ Patri, aggiunga roma agl’infelici et atri, e gli occhi ogni anno abbia d’el pianger molli, gridando infino al ciel da tutti i colli. // Anzi, via più ch’ella non pianse allora ch’Alia vide suoi figli e ’l trasimeno e Canne (la maggior de le sue doglie) bagnar col lor gentil sangue ’l terreno, pianga questa ruina ultima ogni ora. (mol iV, str. iii-iv, vv. 57-65)

Segnalo il passo non tanto per inseguire tracce di topoi tematici quanto piuttosto perché dà prova di un’ulteriore caratteristica formale e dispositiva che i testi luttuosi del corpus paiono in più casi condividere. oltre alla polifonia, come già precedentemente accennato, le canzoni funebri sono accomunate dall’organizzazione ora in sostenuti giri sintattici, ora in singhiozzi rotti da ripetizioni o da riprese epanalettiche che, in alcuni casi, simulano collegamenti tenui e frastagliati tra stanza e stanza. nell’esempio sopra riportato, la correctio costruita sul poliptoto (v. 59 «e gli occhi ogni anno abbia d’el pianger molli», v. 61 «Anzi, via più ch’ella non pianse allora», v. 65 «pianga questa ruina») riavvicina i bordi slabbrati delle stanze con una spezzatura patetica e successiva ripresa del dettato. Una distribuzione non pacata tra le stanze degli snodi sintattici e dello stesso periodo argomentativo interessa anche la lirica funebre di un autore come Bandello, altrove molto docile relativamente al rispetto delle direttive metriche: Ahi vita amara, e piena d’aspri tormenti! i’ veggio ben ch’omai sperar non debbo più diletto o gioia, ma sol angoscia e noia, che con dogliosi e sempiterni lai, mi tengan sempre fin ch’io viva in guai. // Ché se per morbo il mio figliuol la vita

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finit’avesse, a poco a poco quale suol avvenir in tal’età sovente, forse ch’all’aspro mio dolor aìta darei. ma quand’i’ penso all’alte scale, cagion della rovina sì repente, mancami allor la mente, né come viva resti dir saprei. Ahimè figliuolo, ahimè figliuol mio caro, in tanto duol amaro il resto lasci delli giorni miei, che se morta non fossi i’ ne morrei. (Bandello, CXCii, str. v-vi, vv. 55-72)

Colpisce non tanto il nesso paracoordinativo che inaugura la seconda delle due strofe riportate (dato che tale espediente, pur essendo senza dubbio accusato, ricorre in diversi casi nelle canzoni bandelliane), ma piuttosto il trattamento interno che questa subisce e come il periodo si arresti e riavvii rotto da un’improvvisa pausa (v. 65) e frantumato da poderose inarcature che coinvolgono praticamente tutti i versi. Da una prospettiva ritmica, poi, risulta di singolare impatto la scelta di collocare lo scarto avversativo non ad inizio partizione o ad inizio verso o in corrispondenza della cesura, ma dopo un bisillabo, peraltro rejet di inarcatura. Con ciò l’elocuzione perde la sincronia con il metro e genera lo sfondamento dello stacco di diesis mediante l’accorpamento nel nucleo del periodo del verso di chiave e del successivo. La trazione a cui sono sottoposte sintassi e argomentazione in relazione al riquadro metrico chiuso entro il quale si attuano è contemperata da elementi che recuperano al complesso del discorso punti di riferimento diversi, prima di tutto la reiterazione del costrutto esclamativo (v. 55 «Ahi vita amara» e v. 69 «Ahimé») nei versi che ho considerati come facenti parte di un blocco unico (sirma della str. v + strofa vi) e poi la stessa angosciata ma musicale geminatio (v. 69 «Ahimé figliuolo, ahimé figliuol mio caro»). L’increspatura sintattica dello stacco interstrofico per lo sfogo malinconico o paraossistico del cordoglio caratterizza, infine, un’altra soluzione dello sperimentale molza: e li Fauni ch’alberga il dextro monte, chini la lor cornuta ispida fronte,

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sovente dove il bosco era men folto, gridaron: – Raphael, chi te n’ha tolto? – // “Vale” – aggiungendo. o cara e felice alma per cui l’italia, che di gloria d’armi vincea l’Asia e la grecia, è gita avante [...] (mol iV, str. vii-viii, vv. 137-143)

Sempre nel planctus per raffaello il poeta non solo disloca tra due unità strofiche un discorso diretto affidato a personaggi altri rispetto all’io lirico (cosa che accade del resto anche nelle liriche dialogate di Petrarca), ma genera un rapporto anaforico di dipendenza sintattica tra di esse, mediante la giustapposizione di un gerundio. il breve grido dei Fauni, protratto fino all’inizio della seconda delle due stanze per far risuonare un’estrema nota dolente, tace all’improvviso e dà luogo all’invocazione del defunto e all’enumerazione dei suoi meriti. il lacerto costituito dal primo emistichio del v. 141 esprime figurativamente l’omaggio rispettoso che, dopo la scoperta desolata dell’assenza – a questo pare servire la pausa di silenzio tra le stanze – giunge composto e classicamente asciutto (cfr. il semplice «Vale»).

4.2.4 Canzoni a polittico Complice l’impianto della testura, che prevede la ripetizione di moduli metrici omogenei, la canzone ospita in diversi casi discorsi lirici non votati ad una progressione evidente, ma piuttosto incentrati sulla variazione di uno stesso nucleo concettuale in una serie di unità giustapposte, responsabili di movimenti argomentativi davvero impercettibili se non addirittura apparenti e fittizi. in questi casi la ricorsività tematica trova un accordo strutturale sintattico con i moduli del contenitore metrico e il continuum del componimento viene garantito da una rassicurante distribuzione formale per quadri affiancati. nella canzone LV delle Rime di trissino, ad esempio, attraverso le sei strofe è esposto invariabilmente il tema dell’appello ad una donna gentile capace di ricondurre il poeta sul retto cammino ammonendo308

lo con l’autorevolezza del suo sguardo74 e con la sua virtù esemplare. il testo è esplicitamente caratterizzato da una disposizione formale che potremmo dire continuata, dal momento che in ogni strofe trova spazio la replica insistita dell’invocazione, quasi a sottolineare l’iterazione della preghiera (cfr. la formula religiosa del v. 70 «Habbi pietà di me»), con minime aggiunte concettuali. Per schema di orchestrazione argomentativa e idea strutturale di fondo la canzone è senz’altro accostabile alla lirica alla Vergine di Petrarca. Ciò rende difficile stabilire quale sia la natura della destinataria del componimento trissiniano perché se svariati riferimenti lessicali alla dimensione sacra farebbero propendere per l’identificazione con la madonna, il critico ottocentesco morsolin,75 per ragioni contestuali di collocazione nell’organismo delle Rime, ha visto nella donna la personificazione della gloria (peraltro non smentita da gorni),76 mentre io aggiugerei che, in considerazione del forte retroscena stilnovistico di cui la produzione poetica trissiniana risente, non è del tutto da escludere nemmeno la possibilità che la dedica sia ad una nobilitante donna-angelo.77

L’accentuazione del tema dello sguardo ha senza dubbio un’ascendenza stilnovistica. tutta la canzone è punteggiata da ricorrenze lessicali che completano ulteriormente la compattezza tematica del testo, già fissato dagli elementi architettonici strutturali: v. 9 «guarda», v. 18 «rivolta gl’occhi», v. 19 «mira», v. 22 «Vedi ch’a te si volge», v. 28 «allumalo coi raggi del bel volto», v. 46 «quelle tue luci sante», v. 48 «ch’umana vista in lor non può firmare», v. 51 «rivolse gl’occhi», vv. 56-57 «tanto infelice è l’huom quanto è più lunge/ da la tua vista», v. 63 «mai volgesse gl’occhi in altra parte», v. 72 «non ti celar più tempo a gl’occhi miei», v. 73 «s’io ti veggio», v. 82 «ne gl’occhi tuoi veggio». Aggiungo che già solo da questo settoriale repertorio di citazioni del testo si nota che il carattere di apostrofe della canzone porta come conseguenza strutturale un’alta densità di forme verbali all’imperativo. 75 Morsolin 1878, 109. 76 Cfr. Gorni, Danzi, Longhi 2001, 273. 77 Conforta indirettamente questa tesi la dimostrazione offerta da da Suitner 1987 e da Gorni 1988 che Vergine bella si configura come palinodia, che si avvale di un linguaggio stilnovistico, della professione di fedeltà a Laura e all’amore terreno, errore dal quale il poeta intende redimersi. La replica della parola Vergine nell’incipit della strofa altro non sarebbe che la rimodulazione dello stilema stilnovistico di orchestrare coblas capdenals all’insegna della ripetizione ad inizio verso dell’oggetto del canto, la Donna. Qui trissino, pertanto, non farebbe che avvalersi in senso proprio di un espediente strutturante di testi romanzi di lode amorosa. Credo, poi, che anche la posizione del testo all’interno della 74

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osservando gli incipit di ciascuna stanza v. 1 «Donna gentil, che dal consiglio eterno» v. 16 «Donna gentil, che di virtù divina» v. 31 «Donna gentil, de l’altre donne Donna» v. 46 «Donna gentil, quelle tue luci sante» v. 61 «Donna gentil, quanto dolor m’ingombra» v. 76 «Donna gentil, con le ginocchia chine»,

si nota che appaiono tutti intonanti dal vocativo allocutorio «Donna gentil», con effetto di segnalata coesione formale. il lieve scarto argomentativo che riscatta la lirica dalla completa staticità è percepibile già in questi versi ed è contenuto nel sigillo dato dai rimanti giacché nella prima parte si fa leva sulla santità della donna (cfr. str. i «eterno»; str. ii «divina»; str. iii «Donna», che risolleva l’etimologia latina; str. iv «sante»), mentre nella seconda parte domina il rammarico e il pentimento del poeta per essersi allontanato da lei e la disposizione alla contrizione (str. v «m’ingombra»; str. vi «ginocchia chine»). Questo è ciò che si evince dall’inizio delle strofe; tuttavia, se ci si inoltra all’interno, si constata che non esiste un vero e proprio stacco poiché la polarizzazione del tema (donna virtuosa vs poeta manchevole e bisognoso di guida) è in nuce già anticipato nelle prime stanze, dove espressioni come «…sì ch’io ho buon camin perduto/ né ’l posso ritrovar senza ’l tu’ aiuto» (vv. 14-15) o «mira il tuo servo in che sentier camina/ labile e torto; drizzalo che ’l torni» (vv. 19-20) non sembrano giovarsi di nessun significativo incremento da parte del rimorso e della supplica della parte finale al v. 69 «tornami, Donna, a la smarrita via». Quello che accade, allora, può essere giudicato solo come una lieve traslazione del fuoco prospettico, che ancora una volta è testimoniata da alcune spie strutturali, come l’attacco del secondo piede di ciascuna strofa: v. 4 «a te rivolgo il mio parlare interno» v. 19 «mira il tuo servo in che sentier camina» v. 34 «tu sei l’appoggio saldo a la colonna»

raccolta (poco oltre la metà della “storia” che percorre le Rime) sia una prova che la canzone non debba essere interpretata come un calco tematico della petrarchesca Vergine bella, ma piuttosto come un componimento che conserva una più spiccata connotazione amorosa.

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v. 49 «ogni basso pensier le fugge inante» v. 63 «s’io mo vivea sotto la tua dolce ombra» v. 79 «ben veggio a me vicin l’ultimo fine»

Se nelle prime tre stanze il centro della comunicazione è assegnato alla varia declinazione del pronome personale «tu», collegato all’interlocutrice femminile (come complemento di termine, come riferimento dell’imperativo, con funzione di soggetto in una frase affermativa), nella iv stanza la qualità superiore della donna è distanziata nella terza persona singolare e poi nelle ultime due è il poeta a balzare in primo piano con il suo vissuto e la sua esperienza di momentaneo traviamento.78 i segnalati corsi e ricorsi dei primi versi delle stanze e la ricombinazione delle medesime tessere concettuali in tutte le macropartizioni – espediente che propriamente non è impiegato in RVF 366, informata ad altri procedimenti di iterazione e provvista, nonostante tutto, di una più marcata svolta finale79 – portano la trissiniana LV ad accostarsi, quanto a traccia di sviluppo argomentativo, a quello che è stato altre volte definito ‘schema a polittico’ o ‘tema con variazioni’. tale procedimento, che consiste nel dispiegamento all’interno delle cellule strofiche della canzone delle potenzialità di un moltiplicatore tematico,80 un fulcro concettuale che Ciò accade anche sul finale di RVF 366 in cui, dopo stanze dedicate all’invocazione e alla celebrazione della Vergine, la settima e l’ottava strofa ospitano documenti di autobiografia esistenziale e poetica. in esse l’io lirico rievoca la caduta nell’errore amoroso causata dalla fragilità del corpo per poi terminare la dolorosa disamina con un fermo proposito di redenzione e con la consacrazione del proprio canto a soggetti più degni e spiritualmente alti. 79 Anche nella ripetizione litanica di RVF 366 Petrarca si ritaglia la possibilità di far pulsare gli spazi, di dilatarli e restringerli a fini non solo espressivi, ma anche argomentativi, cosa ben notata da Acciani 2005, 156-157: «il movimento di ogni stanza è bipartito in modo stabile, come secondo un’antifona: le invocazioni iniziali si rivolgono alla Vergine per soste meditative sui misteri di lei e sulle sue qualità e attributi, mentre i vocativi interni alle stanze introducono la preghiera di domanda. Dalla sesta stanza in poi però la preghiera comincia a risalire oltre il vocativo interno occupando tutto lo spazio: nella sesta e nella decima si lascia ancora il primo verso agli attributi di lei; settima e ottava e nona limitano l’invocazione al solo Vergine, a cui subito segue la storia personale. il congedo infine inizia con un tratto meditativo essenziale e affida poi a lei, detta stenograficamente ‘unica e sola’ la richiesta di intercessione a Cristo». 80 Definizione e articolazione del concetto in relazione a RVF 323 si leggono in Chiappelli 1971, 28-30.

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consente la ripetizione di un medesimo processo o figurazione simbolica nelle stanze senza che ciò porti ad un indebolimento del motivo stesso, si ritrova attuato più volte nei Fragmenta, in particolare in RVF 50, 127, 135, 323, ma anche, in un certo senso, in 129.81 occorre precisare che letture specifiche delle suddette canzoni petrarchesche hanno consentito di sfatare il pregiudizio critico in base al quale esse erano state etichettate alla stregua di «collane di stazioni iconografiche, a composizione meramente giustappositiva».82 nonostante minute analisi ne abbiano portato in evidenza la carica tensiva insita che trasforma progressivamente i valori attribuiti alle variabili di un’equazione data in esordio e poi ripetuta nelle strofe seguenti, queste canzoni, pure, conservano come tratto distintivo rispetto a tutte le altre del panorama del Canzoniere l’aspetto di seriazione motivica e la funzionalizzazione della stanza ad episodio figurale se non isolato, quanto meno isolabile e interpretabile mediante coordinate formali che instaurano inevitabilmente una sorta di intonazione attesa, una cadenza di sviluppo espositivo ricorrente. Anche se è inevitabile semplificare in simili operazioni, ritengo utile mettere in luce lo scheletro di base che presiede a ciascuno di questi componimenti di tipologia accostabile perché i cartoni dei Fragmenta sono destinati a diventare gli strumenti mediante i quali i poeti del Cinquecento affinano la loro tecnica compositiva. Le modalità attraverso cui nelle canzoni pe-

Sono queste le canzoni che in genere vengono ricondotte al tipo del ‘tema a variazione’, anche se è innegabile che il meccanismo di ripetizione sia un portato insito nella struttura strofica del metro e che perciò esso venga trasferito, magari a vari livelli e in modo meno appariscente, anche in altri testi petrarcheschi. relativamente a questo, basti considerare le prove che Praloran 2007a fornisce in merito alla costruzione sintatticamente e logicamente echeggiante delle stanze di RVF 71, priva di una spiccata varietà di figurazioni e tutta chiusa nell’interiorità dell’introspezione, e le conclusioni più generali a cui il critico perviene nel finale del suo saggio: «il carattere ossessivo del pensiero amoroso fa sì che il tempo lineare della meditazione sia contrastato dalla dimensione aporetica, per cui nulla è dato per risolto e ogni nucleo argomentativo ritorna, sia pure sempre variato, sempre articolato in modo differente» (p. 73). 82 La citazione è da Chiappelli 1971, che nello stesso saggio ha mostrato la tenuta organica e la disposizione prosodica, fonica e tematica a climax delle stanze di RVF 323; studi analoghi che hanno scardinato l’apparente schematismo a cui i testi ‘a polittico’ sembrano soggiacere sono Folena 1978 per RVF 50 , Berra 1986 per RVF 135, Berra 1991 per RVF 127 e Praloran 2007b per RVF 129. 81

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trarchesche che si avvalgono del procedimento della ‘ripetizione variata’83 viene introdotto l’elemento iconico-simbolico che poi viene sostituito e trasformato nelle successive stanze sono molteplici: in RVF 50 le costanti che ripassano le unità strofiche risultano essere l’inquadramento temporale (la sera incipiente) e lo stilema del contrasto o della dissimilitudine (il comportamento dei soggetti descritti stride con quello del poeta); in RVF 135 funziona, invece, la tecnica opposta, quella della similitudine, per cui la stranezza è un connotato che accomuna mirabilia allo status psicologico ed emotivo del poeta-amante;84 in RVF 129 il senso di iterazione è conferito dal tema stesso, che è quello dell’erraticità apparentemente priva di meta, e dunque, ripiegata su sé stessa, all’interno di un paesaggio che si fa occasione di rêverie; in RVF 127 e 323, infine, agisce da collante la componente per così dire visionaria e allucinata di cui si incarica direttamente il soggetto lirico. nella prima si registra, con ripresa dello stilema dell’associazione per similarità,85 come la presenza di Laura si riverberi in modo tangibile nel paesaggio da lei attraversato e nei fenomeni naturali da cui è percorso;86 nella seconda funziona un meccanismo analogico

Praloran 2007a, descrivendo la forma-orchestrazione della canzone RVF 129 avvicinata per similarità a quella di RVF 50, usa questa definizione alternativamente all’etichetta di ‘canzone a strofe echeggianti’. Aggiunge che proprio nella canzone del tramonto «Petrarca mette a punto questo modello di canzone, almeno in parte influenzato dalla forma ‘antica’ duecentesca (prestilnovista) e provenzale, di cui tuttavia egli muta la tendenza alla circolarità e alla non progressione (un segno molto marcato la possibile permutabilità semantica delle stanze) creando un senso di sviluppo attraverso un uso molto raffinato della variazione, sia sul piano formale, sia su quello semantico-argomentativo» (p. 303). 84 Cfr. Berra 1986, 163: «ogni segmento [del polittico] si identifica con una figura di similitudine e ne trae il criterio di organizzazione formale e contenutistica». 85 in senso più tecnico Noferi 1982, 14 la definisce «collactio occulta», vale a dire «asserzione del principio di analogia che lega il molteplice all’uno». 86 Per Praloran 2007a, 306 «l’idea dominante della canzone 127, nella sua parte centrale e più propriamente ‘narrativa’ (dal v. 18 della seconda stanza a tutta la sesta), è che differenti oggetti della natura (‘oggetti sostitutivi’), compositi, e appartenenti ad enti differenti, richiamino il volto e gli occhi di Laura». Berra 1991, 169-170 parla di un procedimento analogico che mette in relazione figurante e figurato in absentia e in cui «il rapporto di similarità non si esprime in formulazioni paragonanti canoniche, ma si affida a verbi e locuzioni semanticamente specializzati a indicare il valore soggettivo della relazione istituita: nella presentazione dell’oggettività [vista] prevalgono i verbi di percezione, mentre le visioni di Laura sono introdotte in genere da locuzioni perifrastiche la cui notevole varietà

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per cui all’immaginazione del poeta affiorano delle scene che riproducono una situazione di morte e che sono destinate a rievocare la prematura scomparsa di Laura.87 Da ultimo, si aggiunga che un’altra canzone ricca di figure simboliche e di immagini letterarie qual è RVF 23 si avvicina ma, tuttavia, a mio parere, sfugge al modello di polittico, in primis perché le scene di metamorfosi non occupano ciascuna una stanza con l’effetto di stabilire una perfetta collimazione fra schema metrico e segmentazione narrativa88 e in secondo luogo perché a tenere insieme la teoria delle strofe è una stretta progressione cronologica. entrambi questi elementi hanno l’effetto di ostacolare la considerazione singolare dei quadri e la potenzialità di riverbero dell’unità-strofa, qualità che sembrano contraddistinguere chiaramente le altre canzoni sopra menzionate. Quanto al panorama primo-cinquecentesco preso in esame, sono abbastanza numerose le canzoni del corpus che rivelano con una certa perentorietà l’impianto a polittico: Qual pena, lasso, è si spietata e cruda di Sannazaro (2, LXXV), Ben era assai, fanciul crudo e spietato di B. tasso (1, XXii), Sì vago io son d’andar di piaggia in piaggia di Britonio (ii, 362), A quai sembianze Amor Madonna agguaglia di Bembo (Rime LXiX), Poi

riproduce l’aberrazione percettiva del soggetto a fronte del polimorfismo naturale». noferi 1982, 7 specifica correttamente che, a differenza delle altre canzoni a polittico, «la ripetizione-variazione di una stessa struttura tematica e sintattica che costituisce l’amplificatio della materia» si attua solo nelle cinque strofe centrali, mentre la prima e ultima stanza sono in qualche modo isolabili al di fuori della cornice poiché fungono da introduzione e conclusione dell’argomento»; aggiunge poi che «la settima strofe, conclusiva, non presenta la ripetizione della stessa struttura sintattica, ma conserva tuttavia un ritmo analogo attraverso la prolessi della oggettiva nella prima proposizione, ritmo che poi si rompe nel netto rintocco delle asseverative nella sirma» (p. 13). 87 Martinelli 1999, 519 precisa: «La serie delle sei visioni è stata pensata a partire da un unico ed identico schema interno bivalente e di valore oppositivo, che implica un meccanismo di tipo trasformazionale con il passaggio da una situazione ad un’altra: la situazione di partenza si rovescia e decade all’improvviso, manifestando così la sua statutaria inconsistenza e precarietà.» 88 in altre parole non si verifica «la ripetizione del medesimo processo simbolico in sistemi espressivi conformi, nei quali cambia solo l’elemento figuratore» (Chiappelli 1971, 28), se, come io ritengo opportuno, consideriamo la misura fissa della stanza isolata elemento irrinunciabile e peculiare del ‘sistema espressivo’. Picone 2007b, 320 e ss. considera invece RVF 23 una canzone a polittico alla stregua di 135 e 323, nonostante il riconosciuto asincronismo metrico-argomentativo.

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che Madonna il mio fero destino di Alamanni (Ala ii), tre testi del molza, Dappoi che portan le mie ferme stelle (i), Tutto questo infinito (iV), Fra le sembianze onde di lunge avrei (V) e alcuni altri testi che, per ragioni di più stretta aderenza ai moduli petrarcheschi, verranno studiate nel capitolo seguente. in tali liriche, oltre che l’idea strutturale astratta della carrellata di stanze-sequenze accomunabili, della strategia che rimanda ai consolidati archetipi petrarcheschi è recuperata anche la propensione figurale e quindi la tecnica della visione, del contrasto, dell’analogia o della similitudine stretta tra io lirico ed altri elementi esterni. Come è intuibile dai già visti rilievi di carattere metrico-sintattico e come si cercherà di mostrare caso per caso, la specificità dei lirici del Cinquecento rispetto a Petrarca si gioca sul terreno della distribuzione del materiale rispetto alla stringente griglia del metro regolato. Se Petrarca generalmente mira a far coincidere sintassi e partizioni metriche principali (fronte e sirma), ma poi disloca variamente i nuclei argomentativi (oltre, che, naturalmente, introdurli con strutture diverse), i cinquecenteschi, quando ritengono opportuno arricchire, variare o increspare la sostanza strofica con lo slittamento di una delle tre componenti che si giocano nel testo (metrica, argomentazione e sintassi), optano per lo sfasamento della sintassi rispetto ai comparti e piuttosto mantengono invariato lo spazio versale riservato ad un determinato nucleo tematico. Ciò deriva probabilmente dal fatto che, mentre l’autore del Canzoniere si avvale di archi periodali in contrappunto con le campate metriche in situazioni isolate e ben individuabili, al fine di sortire un effetto studiato di destabilizzazione delle attese del lettore con conseguente rafforzamento dell’espressione, nei poeti successivi la disposizione disinvolta del periodo nella griglia strofica sembra, nella maggioranza dei casi osservati, un dato acquisito e da non centellinare, in particolar modo in una forma come la canzone che, con la sua dichiarata veste di solennità, consente all’autore di non lesinare effetti sfumati o soluzioni che tradizionalmente suonerebbero ardite. Dopo tali premesse, che non ambiscono certo a istituire classificazioni perentorie ma piuttosto ad ancorare dei punti cardine per l’esposizione, passo ora all’esame dei testi. Le canzoni a polittico di Sannazaro, di B. tasso e di Britonio sopraccitate vanno considerate insieme non solo perché propongono tutte il tema della minor asprezza delle pene infernali di celebri dannati dell’antichità rispetto ai tormenti che sopporta l’amante non corrisposto o lontano dalla sua donna, ma anche perché ci sono buone ragioni di credere che 315

tra di esse esistano serrati rapporti intertestuali.. il soggetto, esposto con una selezione di episodi che appare quasi fissa, non è propriamente petrarchesco ma pare, soprattutto in ragione del compiacimento nell’esibizione delle fonti, piuttosto di gusto umanistico, tanto che affiora qua e là in certa lirica volgare del Cinquecento di stampo classicistico (ad esempio nel sonetto Ove con l’onde sue geme et sospira di Antonio Brocardo). inoltre, con una prospettiva affatto diversa, volta a sottolineare la superiorità del canto poetico sul dolore, il ricordo dei celebri dannati del tartaro riecheggia nella prosa del secondo libro degli Asolani.89 ipotizzare un rapporto poligenetico di dipendenza delle tre canzoni da una medesima fonte latina antica, quale potrebbe essere Lucrezio iii 978 e ss., poi rielaborato da Properzio (ii, 1, 65-70 e ii, 17, 5-10),90 è certo lecito, ma, tuttavia, alcuni aspetti dell’ordine di disposizione dei quadri nonché prelievi lessicali e soluzioni argomentative precise inducono a ritenere assai più probabile che i più giovani Bernardo tasso e girolamo Britonio avessero presente e intendessero misurarsi con il magistrale esperimento sannazariano. inoltre, ad un’indagine più approfondita, il reticolo dei riferimenti mostra di allargarsi poiché si riallaccia ad un testo probabilmente ancora anteriore. Si tratta della canzone ii dell’Endimione del Cariteo, Errando sol per antri horrendi et foschi, che gioca sempre sullo stesso artificio di contaminazione tra figure mitologiche e pagane di sofferenza e descriptio del tormento amoroso.91 Prende forma, dunque, un compatto nucleo semantico-formale che prolifera negli autori del côté meridionale,92 rappresentanti di un Dagli Asolani, libro secondo, cap. xxvi: «o chi tra tante dolcezze posto et tra tante venture, i suoi amari e le sue disavventure non oblia? Leggesi nei poeti che, passante per gli abissi orpheo con la sua cethera, Cerbero rattenne il latrare che usato era di mandar fuori a ciascuno che ivi passava; le Furie l’imperversare tralasciaro; gli avvoltoi di tito, il sasso di Sisipho, le acque e le mele di tantalo, la ruota di isione e l’altre pene tutte di tormentare soprastettero i dannati loro, ciascuna, dalla piacevolezza del canto presa, il suo ufficio, non mai per lo adietro tralasciato, dimendicando.» (ed. Dilemmi, 296) 90 Queste fonti latine e altre riprese europee rinascimentali del concetto classico che le pene d’amore sono terribili quanto quelle infernali sono indicate da Parenti 1993, 51-52. 91 Parenti 1993 ritiene che le canzoni di Sannazaro e di Cariteo sui tormenti amorosi siano state scritte a gara dai due poeti, mentre suppone che nella composizione dell’ennesima variazione sul motivo, Britonio avesse tenuto presente solo o principalmente il Sannazaro, laddove l’influenza del magistero del Cariteo emergerebbe in altri componimenti della Gelosia del Sole. 92 La canzone di tasso appartiene al Libro primo (1531), quindi non è precisamente rife89

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petrarchismo «integrato»93 che si avvale di tematiche ed espedienti tecnici prelevati da una serie variegata di modelli, tra i quali Petrarca risulta grande classico alla pari con gli elegiaci latini. L’organizzazione a polittico delle tre canzoni primocinquecentesche del corpus prese in esame si fonda sulla giustapposizione di stanze nelle quali vengono presentati vari personaggi mitologici afflitti da supplizi memorabili che si rivelano analogicamente non troppo dissimili da quelli cui è soggetto il poeta lirico. Proprio per l’identità di argomenti sottesa alle liriche è significativo osservare l’uno accanto all’altro l’esito di Sannazaro, quello di B. tasso e di Britonio per cogliere, assieme alle moltissime vicinanze lessicali e di motivi,94 anche le discordanze nell’orchestrazione della tematica e soprattutto il diverso passo argomentativo. Sannazaro, dopo una prima stanza di introduzione in cui, nell’annuncio sintetico del focus del testo, la fenomenologia dei martiri che subisce l’anima amante è descritta con denso accumulo ritmico di antitesi e ossimori segnatamente petrarcheschi,95 sceglie per le stanze del polittico un disegno che condensa in uno spazio unitario comparante e comparato. in un inferno anticipato e prospettato da Amore l’anima del poeta assume su di sé le pene, secondo un procedimento quasi allegorico più che metaforico. Per maggior chiarezza, si osservi ad esempio la terza stanza: indi dal suo voler fallace e strano tirata al grande assalto, per un poggio aspro et alto ripinge un sasso faticoso e greve; il qual, cadendo poi di salto in salto, fa che sovente al piano

ribile al periodo in cui il poeta prestò servizio presso il principe Sanseverino di Salerno. Ciò nonostante, Sannazaro fu un modello a cui Bernardo guardò senza dubbio fin da subito e l’ambiente napoletano fu quello in cui poco più tardi sì inserì stabilmente fino all’esilio del suo mecenate. 93 Anselmi, Elam, Forni, Monda 2004, 544 «questo petrarchismo integrato e umanista resterà determinante nella cultura poetica meridionale» (gigliucci). 94 Cfr. Zampese 1997, 48-50. 95 Cfr. vv. 5-8 l’anima «dannata in questo vivo inferno,/ trema nel foco ignuda/ e nel ghiaccio arde e suda/ e tra speme e paura arrossa e ’mbianca.».

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quella dolente in vano discenda e s’affatiche in tempo breve mille volte, e rileve l’usato peso, e mai non reste d’aver guai, poggiando ognor ne la speranza prima; e poi ch’è in su la cima, ricaggia in pena più noiosa assai. Così Sisifo in lei si vede, ahi lasso!, e ’l salire e ’l cadere, e ’l monte e ’l sasso. (Sannazaro, 2, LXXV, str. iii, vv. 33-48)

nella prima parte della strofa l’anima del poeta è costretta a spingere un masso rotondo su e giù per i versanti di un monte senza che ci sia speranza che la roccia si arresti sulla cima e che il tormento finisca. essa pertanto sembra essere vessata dalla stessa pena di Sisifo e, in effetti, il parallelo con l’antecedente classico illustre è esplicitato in una precisazione relegata nel distico finale (vv. 47-48). Anche le altre stanze della canzone risentono della medesima organizzazione, salvo il fatto che la dimensione e la dislocazione dei nuclei di senso (descrizione dell’anima afflitta e riferimento allo spunto mitologico) variano continuamente: nella ii, v, vi e vii strofe i nomi antichi dei grandi dannati96 non sono fatti risuonare dal poeta e il lettore è sollecitato a richiamarli alla memoria solo a partire dall’esposizione delle modalità della pena; invece nelle strofe v (e nella iii, come abbiamo già visto), il riferimento a tantalo, compare alla fine, proprio nel verso di chiusura della stanza. Dal punto di vista delle costanti sintattiche va segnalato che ii, iii e vii strofe mostrano un’analogia melodica di costruzione della fronte poiché il secondo piede è in tutti e tre i casi introdotto da un nesso relativo espresso mediante il pronome nella forma variabile, immediatamente seguito da una proposizione subordinata interposta che completa il verso: v. 5 «La qual, dannata in questo vivo inferno» v. 37 «il qual, cadendo poi di salto in salto»

rispettivamente nell’ordine di comparsa nelle strofe citate si tratta delle Danaidi (str. ii), di tantalo (str. v), issione (str. vi) e tizio (str. vii). 96

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v. 101 «lo qual, poi che col becco il petto afferra»

Del resto, l’uso dei nessi relativi è molto diffuso nell’intera composizione: basti pensare alla locuzione pseudorelativa di carattere locativo “onde”, la quale marca l’inizio del quart’ultimo verso della strofa iv e v e la parte centrale del secondo piede della vii stanza. in tutti i casi è preceduto da una pausa intonativa medio-forte, a significare lo stacco con quanto detto precedentemente ma anche lo stretto legame logico e argomentativo. Un altro fattore che garantisce senso di compattezza e di ricorsività alle varie strofe è l’impiego amplificato della congiunzione coordinativa copulativa principalmente nelle due forme di “e” e di “né”. Appare chiaro che Sannazaro posiziona di preferenza la congiunzione ad inizio di verso (“e” ai vv. 7, 8, 14, 16, 25, 45, 48, 51, 57, 62, 64, 73, 83, 88, 91, 108, 109; “né” ai vv. 10, 21, 53, 65, 77, 96, 120), sia che essa funga da collegamento tra due sintagmi di una stessa frase, sia che essa preceda un’ulteriore congiunzione subordinante e quindi ricopra il ruolo di elemento di transizione dolce per l’espansione del discorso. Si può dire che la presenza capillare della congiunzione sia in alcuni casi intrinsecamente legata allo stilema di un tricolon sindetico secondo uno schema che vede la presenza della coppia in posizione di clausola e il posizionamento della congiunzione in sede incipitaria nel verso immediatamente seguente, ad introdurre un’ulteriore espansione.97 infine, il senso diffuso di ininterrotto accumulo che il polisindeto provvede al testo è probabilmente da mettere in relazione con l’orrenda ossessione del ripetersi di un supplizio perenne. il testo di Sannazaro mostra alcuni significativi punti di contatto con la più breve canzone di Cariteo in cinque strofe su schema di RVF 129 (ABC. BAC. cDeeDFF), primo fra tutti l’idea di costruire il discorso non tanto su di una struttura perifrasticamente comparativa, quando piuttosto di far rivivere in prima persona all’io lirico ovvero alla sua anima i tormenti del tartaro.

97 Cfr. vv. 7-8 «e nel ghiaccio arde e suda/ e tra speme e paura arrossa e ’mbianca»; vv. 1214 «si strugga e si distempre/ e per amenda de’ passati anni/ abbia a cercar pene ad una ad una»; vv. 72-73 «che con finto terror l’assale e punge/ e parli or presso or lunge».

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ne l’acque fresche, liete, dolci et chiare ardo digiuno, infermo et sitibondo, et bagnar non mi posso i labri ardenti. ognihor mi vien, per più mi tormentare, un pomo suavissimo et giocondo inanzi agli occhi cupidi et intenti; ma quando i famolenti sensi distendon la furente mano con dubbia speme et con certo desio, misero! Alhor ved’io la speranza e’l desire andare in vano: sol perché diedi ad una inclyta Dea l’amata libertà, che un tempo non havea. (Cariteo, ii, str. iii, vv. 27-39)

Al dolce suon de’ rivi freschi e snelli sitibunda poi sede; e, quando ber si crede, l’acqua da’ labri s’allontana e fugge. né meno intorno agli occhi ancor si vede da’ bei rami novelli frutti pender sì belli, che, sol mirando, si consuma e sugge. e chi così la strugge, perché ’l duol sia maggiore, li fa sentir l’odore inchinando vèr lei li carchi rami; onde conven che brami e sol d’ombra si pasca e del suo errore, non stringendo altro mai che vento e fronde, e sia tantalo posta in mezzo l’onde. (Sannazaro, 2, LXXV, str. iv, vv. 49-64)

nel caso dell’Endimione la fulminea analogia non è nemmeno chiarita, mentre, invece, come si è già visto, in una coppia di strofe iniziali di Sannazaro esplicitamente si sottolinea l’immedesimazione dell’anima del poeta con il destino dei dannati (v. 47 «Così Sisifo in lei si vede», v. 64 «[conven che] sia tantalo»). Comune ai due poeti è, inoltre, la scelta di rappresentare le singole scene (5 in Cariteo che, rispetto a Sannazaro, esclude solo l’esempio di Sisifo) ciascuna in una stanza, anche se Sannazaro preferisce riservare la strofa iniziale all’esposizione dell’argumentum98 laddove Cariteo opta per un inizio in medias res che mostra il soggetto poetante già coinvolto nell’illustre martirio di tizio mentre vaga attraverso plaghe oscure99 e glossa vv. 1-4 «Qual pena, lasso, è sì spietata et cruda/ giù nel gran pianto eterno/ che nel mio petto interno/ via maggior non la senta l’alma stanca?»). 99 nei versi iniziali la lirica di Cariteo, su schema della petrarchesca canzone degli errori RVF 129, sembra vischiosamente riprendere non solo la testura metrica ma anche l’accenno al tema della peregrinazione in luoghi solitari: vv. 1-3 «errando sol per antri horrendi et foschi/ et per deserte piagge, aspre et noiose/ sterili, ove giamai pianta non nasce». Se si considera, poi, che un simile inizio prelude all’illustrazione di feroci tormenti e che il testo si chiude nel congedo con l’ammissione del poeta al v. 72 «ma son più giù tra più dolenti 98

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l’intera composizione nell’ultima stanza proponendo una prospettiva paradossale che ribalta i rapporti di genesi metaforica poiché sono i supplizi infernali a ricevere luce in seguito alla dettagliata descrizione che si è fornita delle pene dell’amante e non viceversa: Chi vuol dunque vedere il mal che preme quell’anime infelici et tormentate ne li martiri del tartareo regno, venga a mirar tutte le pene inseme dentro ’l mio cor, ch’eternamente pate, anzi il morir, martirio di lui degno. (Cariteo, ii, str. v, vv. 53-58)

Per apparentare meglio il destino dell’amante a quello del dannato l’autore non risparmia aggettivi e dittologie che rilevano chiaroscuri funesti all’interno dei quadri (v. 19 «acqua turbida et oscura», v. 34 «furente mano», v. 41 «paventoso horrore», v. 42 «gelato sospetto», v. 47 «alma sbigottita») e conclude il testo con una epigrafe icastica: v. 65 «è ciascuno a se stesso un diro inferno». nel congedo campeggia il riforzo in litote a questa affermazione perché l’io lirico confessa di non aver mai visto i Campi elisi (vv. 66-67 «Canzon, io non fui mai/ nei campi elisi et fortunate valli») ma di prefigurarsi quale anima infernale (v. 72 «ma son più giù tra i più dolenti spirti»). L’invio è solidale con quello di Sannazaro, che però ambienta la scena in prospettiva più dichiaratamente cristiana (vv. 113-115 «Canzon mia, mai nel cielo/ tra li beati spirti/ non fui») e nell’explicit ripiega sul tema a lui caro del vagheggiamento della morte, senza ulteriori allusioni ai tormenti infernali (v. 120 «né vita più né libertà desio»). Con ogni probabilità aveva ben presente il tema dei martiri tartarei nelle due variazioni di Cariteo e Sannazaro, girolamo Britonio, che, quando scrive la canzone Sì vago son d’andar di piaggia in piaggia, preleva delle suggestioni per costruire un suo percorso espositivo dai tratti peculiari.100 innanzitutto la dimensione del testo è decisamente più ariosa non

spirti», forse è possibile ravvisare anche qualche eco dantesca dall’inferno i (v. 5 «esta selva selvaggia e aspra e forte»; v. 115 «vedrai li antichi spiriti dolenti»). 100 Un rapido confronto tra le canzoni delle pene infernali di Cariteo, Sannazaro e Britonio si trova anche in Grippo 1996, 33-34.

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tanto per articolazione della stanza, quanto per numero di strofe (ben 10), per un totale di oltre 150 versi. Con l’espansione della superficie testuale si amplia anche il canone dei dannati ricordati da Sannazaro (Danaidi, issione, tizio, Sisifo, tantalo), che è arricchito in esordio mediante l’inclusione di due figure tragiche, egeo, che «nel mar precipitossi d’alto scoglio/ per subito cordoglio/ suo ben perdendo, per suo fallo istesso» (vv. 21-23)101 e Atteone, che «un dì impensatamente/ scontrando di sua Amata i casti rai/ giunse all’ultimo stratio de’ suoi lai» (vv. 37-39).102 Se da un lato la canzone di Cariteo manca di una strofa proemiale che esponga l’argomento mentre è provvista di una strofa conclusiva compendiaria e, dall’altro lato, la canzone di Sannazaro, all’opposto, riserva una breve chiusa solo al congedo ma lascia alla i stanza ampia funzione introduttoria, Britonio contamina le due tecniche distributive con il risultato di una compiuta cornice per la sua lirica. La prima strofa recupera dal Cariteo il motivo del vagabondaggio solitario (vv. 1-2 «Sì vago son io d’andar di piaggia in piaggia/ et d’uno in altro inhabitato luoco») ma lo cala, ancora in termini generici e solo in funzione di prefazione, nel contesto funereo che caratterizzerà le strofe a sfondo mitologico (vv. 9-11 « acciocché in vita unqua non scorgo io meco/ hora di spene placida et tranquilla/ in questi dì, ch’altro non son che morte»). L’esposizione preventiva dell’assunto per cui l’amante è figura visibile dei tormenti eterni dell’erebo è un suggerimento che Britonio coglie da Sannazaro con coerenza solo nel primo piede della iv strofa (vv. 46-49 «Per farmi a divider quanto le Stelle/ puon sovra questa mia sì frale spoglia/ mi fan con la mia doglia/ precorrer tutte l’altre fra mortali»), perché ii e iii strofa cesellano l’esordio e propiziano il passaggio dal tema della morte tragica a quello della dannazione con le inedite immagini di

Secondo il mito egeo aveva raccomandato a suo figlio teseo di issare sulle navi che lo avrebbero ricondotto in patria da Creta delle vele bianche qualora fosse riuscito a sconfiggere il minotauro. teseo tralasciò di adempiere alla promessa così egeo, scorgendo dal porto la nave del figlio che si avvicinava sventolando vele nere, arrivò all’erronea conclusione («per suo fallo istesso») che l’impresa nel labirinto fosse fallita e a causa del lancinante dolore per la perdita del giovane erede («subito cordoglio») si gettò nel tratto di mare che avrebbe preso da quel momento in poi il suo nome. 102 nel corso di una solitaria battuta di caccia, dopo aver inavvertitamente scorto la pudica Diana che si bagnava ad una fonte, Atteone fu, per volere della dea violata, tramutato in cervo e dilaniato dai suoi stessi cani (non pare casuale l’uso britoniano del termine «strazio»). il mito è presente, tra l’altro, nell’ultima strofa di RVF 23. 101

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transizione di egeo e Atteone. nel cuore del testo protagonista si rivela ancora una volta l’io lirico, che ora invidia ora si sente solidale con la sorte dei personaggi del mito. La novità britoniana consiste in particolare nel maggior spazio lasciato alle risonanze interiori dell’amante, alle sue riflessioni, alle divagazioni empatiche che suscitano in lui le figure dei dannati quasi sempre in secondo piano e solo abbozzate in un minuto giro di versi. Assente è dunque l’appiattimento metaforico dell’io (Cariteo) o l’identificazione della sua anima (Sannazaro) con i grandi dannati, sostitutiti da una struttura che garantisce una più distinta similitudine e che, più che ad accrescere la carica espressiva insita nell’immagine, è intesa a fornire supporto per l’approfondimento interiore. L’autonomia del figurato rispetto al figurante e l’intelaiatura che fa perno su due attanti distinti e definiti prende forma nel testo non solo in esplicite locuzioni che introducono la comparazione (v. 20 «sì come quel...»; v. 61-62 «col mio mal creggio che non mai s’agguaglia/ quel di colui che...»; vv. 9495 «... in stato tal son io/ qual è quel che...»; v. 113 «la rimembranza di chi là giù vive...», vv. 123-124 «chi non diria che questa/ mia vita è pari a quella di colui...») ma anche, in due punti, nella dialettica allocutoria inscenata dall’amante stesso che si rivolge direttamente alle Danaidi («Ai, sì mal fide e perfide Sorelle/ [...] ne’ tenebrosi e infernali chiostri/ raccompensate i vostri [mali]/», vv. 51 e ss.) o a tizio (v. 79, v. 85). La strofa dedicata a quest’ultimo è particolarmente efficace per instaurare un confronto con le analoghe di Cariteo e Sannazaro. errando sol per antri horrendi et foschi, et per deserte piagge, aspre et noiose, sterili, ove giamai pianta non nasce; non, come pria solea, per lieti boschi, né per fioriti prati o valle ombrose, mi mena Amor, che si nutrica et pasce, del mio cor, che rinasce et cresce ogni hora assai più che manca, devorato di quel bramoso augello, sol perché fu rebello de la ragion, la qual, fugata e stanca fu vinta dal desio terreno et frale, ch’ebbe ardir di tentar cosa mortale (Cariteo, ii, str. i, vv. 1-13)

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Al fin conven che per l’antiche colpe stia resupina in terra, a sostener la guerra d’un voltór famulento, aspro e rapace; lo qual, poi che col becco il petto afferra, par che la snerve e spolpe; unde è ragion che incolpe se stessa e ’l suo pensier vano e fallace che la fe’ troppo audace in cercar, per suo male, tentar cosa immortale. e, per più doglia, il cor sempre rinasce, e del suo danno si pasce quel fier, che, più degiuno, ognor l’assale. C’or l’avess’ei già roso e svelto in tutto! poi che d’ogni mia speme è questo il frutto. (Sannazaro, 2, LXXV, str. vii, vv. 97-112)

importuno Figliuol de l’alma terra che per l’ardire a te stesso ribello dal famolento Uccello ti scorgi devorare il core e’l petto: nel duol ben hai compagno; e io son quello ch’or lacerato son d’occulta guerra ch’ognihor via più m’atterra d’aspri sospir che fanno al cor ricetto hoggi gli nostri affanni han pari effetto: tu tentasti sforzar l’alta honestade di quella, che cacciando in selve stassi: i’ con questi occhi lassi cercai mirare il Sol d’ogni beltade. Così n’ha morti il temerario assalto che d’entrambo l’ardir già fo tropp’alto. (Britonio, ii, 362, vv. 76-90)

Precise corrispondenze lessicali fanno intravedere i legami tra i testi: la rima ASCe (e più precisamente i rimanti «pasce» e «rinasce») congiungono Cariteo a Sannazaro, così come l’identica sequenza settenaria «ardir di tentar cosa mortale» (v. 13 e v. 107). Britonio, senza la mediazione di Sannazaro, preleva da Cariteo l’accenno all’indocilità del gigante punita dall’avvoltoio nella coppia rimica «rebello»: «augello»; per descrivere il supplizio sceglie il verbo «divorare» (v. 9 «devorato»; v. 79 «ti scorgi devorare») in luogo delle varianti più marcate di Sannazaro (v. 102 «snerve e spolpe»;103 v. 111 «roso e svelto»); rimprovera la hybris del personaggio mediante la ripetizione ad inizio e a fine strofa del sostantivo «ardir» (v. 77; v. 90), già nell’antecedente al v. 13. esistono, tuttavia, anche tratti terminologici che avvicinano la canzone di Britonio a quella di Sannazaro, come ad esempio l’appellativo adoperato per il rapace (v. 100, v. 78, «famolento», mentre in Cariteo semplicemente «bramoso», v. 9) e il

«Spolpe» è tra l’altro parola in rima con terminazione difficile e dura che si ritrova solo nella Commedia dantesca in due isolati luoghi: in inf. XXVii, vv. 71-75 («colpe»: «polpe»: «volpe») e in Purg. XXXii con i medesimi rimanti in ordine ricombinato ai vv. 119-123 («volpe»: «colpe»: «polpe») 103

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particolare semantico e rimico della guerra che abbatte il perseguitato, sviluppato in un contesto mitologico (v. 98-99 «[l’anima] stia resupina in terra/ a sostener la guerra» ), ora in un contesto più realistico-psicologico (Britonio, v. 81-82 «ch’or lacerato son d’occulta guerra/ ch’ognor vie più m’atterra»). Al di là delle sovrapposizioni lessicali, la differenza macroscopica che allinea da un lato le strofe di Sannazaro e di Cariteo e dall’altra quella di Britonio salta agli occhi perché la divaricazione della strofa in due momenti dialettici permette al poeta di glossare più diffusamente le ragioni dell’accostamento e recupera una diversa soluzione di marca petrarchesca, quella del tipo RVF 135 (e non del tipo RVF 23 che sembra invece, in senso lato, essere alla base per i primi due casi).104 Accanto a Britonio, anche il coetaneo Bernardo tasso propone nella sua canzone delle pene una struttura comparativa anziché metaforico-allegorica, ma organizza il materiale con una tecnica argomentativa originale, specie se messa in rapporto con il set di procedimenti collaudati dal maestro Petrarca nei suoi testi a polittico. La canzone Ben era assai, fanciul crudo e spietato denuncia un’ossatura che, a parte la strofe iniziale, anche in questo caso a carattere prefatorio,105 appare per così dire riformulata rispetto a quella sfruttata da Sannazaro, ma anche da Britonio. il testo è provvisto di una bipartizione di fondo: la ii, la iii e la iv stanza sono occupate dalla presentazione diretta dei dannati del tartaro, nell’ordine di Sisifo, delle Danaidi e di tantalo, mentre dalla v stanza in poi (con il segnale di correlazione «tal», al v. 57) è l’io lirico nella 104 Parenti 1993, 51 sostiene che le canzoni delle pene di Cariteo e Sannazaro siano rielaborazioni della canzone delle metamorfosi «dove il poeta immagina che la forza d’Amore lo abbia trasformato nelle piante, negli animali, nelle cose in cui vennero mutati i protagonisti di alcuni miti narrati nel poema di ovidio. trasformazioni che allegorizzano i vari momenti della storia del suo amore per Laura». A parer mio, la differenza che si instaura tra il presunto modello e le due riprese cinquecentesche è, nel caso di Sannazaro, costituita dal fatto che non esiste un racconto in progressione narrativa stretta e una cornice che giustifichi l’innesco delle trasformazioni; nel caso di Cariteo, vi è assenza totale di una qualsiasi cornice diegetica, talché le strofe sono fin dall’inizio quadri giustapposti la cui ragione è spiegata solo di scorcio nel finale. 105 nella fronte si inquadra il testo dedicando alcuni versi alla crudeltà d’amore; nella sirma, più propriamente si introduce il tema specifico: vv. 7-14 «tal che tra le meschine alme et erranti/ nel regno oscuro del fratel di giove/ non è sorte penosa e tanto ria/ che s’aguagli alla mia/ non udita giamai, né scorta altrove./ Qual è che di me sia/ doglioso più ne le tartaree pene?/ e più lontan dal desiato bene?».

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persona dell’amante sofferente a dominare la scena, riallacciando i fili sospesi del parallelismo figurale e spiegando i quadri allegorici iniziali. Passo passo vengono con ordine ripercorse le tre tipologie di pene proposte e in questo modo allo schema per quadri allineati se ne sovrappone uno per coppie con abbinamenti che uniscono i e viii stanza (entrambe isolate, l’una con veste d’esordio, l’altra con funzioni conclusive) e poi i binomi di comparanti e comparati delle strofe ii e v, iii e vi, iv e vii, di cui si propone un saggio esemplificativo: A poco a poco, faticato e lasso, Sisifo poggia un alto orrido monte con la pietra al suo mal fatta compagna, e quando a quello altier calca la fronte, e crede di posar, ritorna il sasso al primier loco, ond’ei si crucia e lagna, e di lagrime amare il petto bagna; ma poi che nulla val pianto o sospiri, ritorna afflitto ove ’l gran peso vede con l’affannato piede: e come quei che fine al mal desiri, il colle ascende, e crede di trovar tregua a le fatiche in cima, ma ’l sasso torna ov’ei lo tolse prima. (tasso, 1, XXii, str. ii, vv. 15-28)

Tal io più di costor tristo e ’nfelice col peso del dolor che meco porto ascendo un sasso faticoso et alto, e sì tosto ch’io spero essere scorto dove viver potrei lieto e felice, faccio nel fondo un periglioso salto: né sgomentato per lo primo assalto de la fortuna, ancor debile poggio col grave incarco su le stanche spalle, ma per l’usato calle veloce scendo l’erto alpestro poggio: così più volte falle il mio pensier, né per salir mai sempre, men crude trovo l’amorose tempre. (tasso, 1, XXii, str. v, vv. 57-70)

Se prendiamo la ii strofa a modello per trarre alcune spunti per il commento della struttura delle stanze pervase dai personaggi del mito, notiamo, innanzitutto, che la continua illusione di Sisifo e il carattere iterativo della sua pena sono espressi da ripetizioni emblematiche e moduli dittologici di accumulo (v. 15 «a poco a poco»; v. 19 «e crede di posar» e vv. 26-27 «e crede/ di trovar tregua»).106 Ciò che B. tasso, ancor più di Sannazaro, intende mettere in rilievo della sofferenza e delle torture è l’assillo della reiterazione. Un simile programma porta il poeta a servir-

Altrove, per esempio nella iii strofe il senso di ciclicità del supplizio (in questo caso delle Danaidi) è veicolato da un parallelismo (v. 29 «vanno» e v. 35 «riedon di novo») che marca l’inizio della fronte e l’esordio della sirma. 106

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si, oltre che del polisindeto107 (assunto come felice suggerimento sannazariano), anche della riproposizione di stilemi sintattici articolati come struttura pregna di significato intrinseco non solo all’interno della strofa, ma anche nella sequenza complessiva, di strofa in strofa, con raffinate variazioni. Stante ciò, si può apprezzare come nelle stanze ii-iv la comparsa dell’avversativa «ma», che segna il continuo dissolversi dell’illusione della transitorietà della pena, non sia collegata ad un preciso luogo metrico. Pur essendo deputata alla sirma (e ciò sarebbe un’ulteriore prova che esiste ed è sentita una soggiacente bipartizione concettuale tra quest’ultima e la fronte), l’antitesi di cui è depositaria la congiunzione gravita variamente in prossimità del taglio di diesis e può comparire nel verso di concatenatio, così come uno o due versi dopo. Un’altra configurazione sintattica che martella queste prime tre strofe è la pseudo relativa introdotta da «onde», che serve a ritrarre la reazione del dannato di fronte al ripetersi del supplizio. ragion per cui, nelle immediate vicinanze di questa coordinata ai limiti della subordinazione troviamo verbi che indicano iterazione (vv. 19-20 «e crede di posar, ritorna il sasso/ al primier loco, ond’ei si crucia e lagna»; vv. 34-35 «voti veggono i vasi onde dogliose/ riedon di novo a le rive odiose»; vv. 50-51 «ritornan poscia, ond’ei dolente ognora/ piange, sospira, s’affatica invano»). Da tale chiara dinamica, ben circoscritta nei suoi principi attivi, forse non dovrebbe essere escluso anche un livello di ammiccamento paronomastico, cioè la possibile allusione al secondo significato di «onde» (moto ondoso), la quale fornirebbe un altro stadio allegorico per l’eternità della dannazione nell’immagine del flusso e riflusso, come suggerito dalla strofe iii, dedicata alla punizione inflitta alle Danaidi (e in parte dalla parallela vi), tramite l’accento posto sulla sonorità del significante duplicato con equivoco nei due significati, all’interno dell’angusto spazio di tre versi: voti veggono i vasi; onde dogliose riedon di novo a le rive odiose ove con l’onde sue geme Cocito. (B. tasso, 2, XXii, str. iii, vv. 34-36)

Per la figura del polisindeto, inteso non in senso melodico e armonioso ma per il significato di assillante accumulo, in B. Tasso, 2, XXii, cfr, i vv. 20-21; 52-55; 81-84; 100-105. 107

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il terzetto è marcato dall’allitterazione, a cui si aggiunge il corto circuito che intenzionalmente viene fatto scattare tra i gemiti delle onde del Cocito e la vicinanza che sembra voluta e parallela tra la congiunzione conclusiva «onde» e l’aggettivo «dogliose», riferito in verità alle sofferenti fanciulle costrette alla fatica vana di trasportare acqua con anfore rotte. Liason per questi due estremi è il sintagma «rive odiose», in cui l’aggettivo, in punta di verso, ha una stretta continuità di tessuto fonico (nonché di intonazione semantica) con il rimante dell’endecasillabo precedente. invece, a riguardo del secondo segmento della canzone, sembra di poter rilevare che la funzione di svolta che nelle strofe iniziali era ricoperta dal «ma», nelle corrispettive v, vi e vii è rivestita dal comparativo «così», sempre dislocato nella sirma e principalmente nel secondo verso dopo la concatenatio (ma nel terzultimo nella vi stanza sopra trascritta) e teso ad introdurre una proposizione in cui si specifichi fuor di metafora quali sono gli stati d’animo del poeta sofferente. Come Sisifo che spinge la pietra destinata a rotolare giù in perpetuo dal monte, «così più volte falle/ il mio pensier, né per salir mai sempre/ men crude trovo l’amorose tempre» (vv. 68-70); come tantalo, affamato e assetato si protende per raggiungere frutti e bevande che sempre gli sfuggono «Così col lungo mio martir eterno/ cerco la state e ’l verno/ ch’a l’arso petto toglia/ il caldo, e questo interno/ desir appaghi/ e l’amorosa sete» (vv. 79-83); infine, come le Danaidi tornano a riempire d’acqua le loro anfore che la lasciano fluire via dalle crepe «così con grave duol seguo chi fugge» (v. 93). Le sei strofe centrali del testo tassiano sono, dunque, occupate da sole tre figure (Sisifo, le Danaidi e tantalo) e dal rispecchiamento che di esse si attua nel destino infelice del poeta. gli altri tre personaggi mitologici che completano il canone base dei dannati non sono titolari di singole stanze ad essi dedicati, ma sono presentati vorticosamente in serie nell’accelerazione finale che coinvolge l’ultima stanza ed il congedo. Lasso me, questi almen se non sol uno dolor aggrava, et io di scempio in scempio son trasportato, come vol mia sorte; et un feroce augel crudele et empio con becco troppo acuto et importuno mi rode dentro, e non mi dona morte. Sovra ’l mio capo una gravosa e forte

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selce s’attiene a sì debile stame, ch’io temo d’ora in ora il colpo fero; [...] (B. tasso, 1, XXii, str. viii, vv. 99-107)

A gara con Sannazaro, rispetto al quale molto più che per gli altri due testi napoletani si ritrovano riferimenti rincalzati,108 B. tasso presenta le pene di tizio (vv. 102-104) e di tantalo (vv. 105-107) addossandole all’io lirico, che si identifica con i personaggi mitologici di cui non a caso non viene menzionato il nome, a differenza di quanto accade nelle stanze precedenti. il congedo riporta il testo sul binario comparativo iniziale e completa il polittico con la tavola dedicata ad issione. A parte la diversa distribuzione della materia nella traccia, che implica per Sannazaro la compresenza sovrapposta di mito e verità lirica all’interno della strofe mentre per B. tasso un’amplificazione degli elementi messi in parallelo e un distanziamento tra comparante e comparato, è comune la ricerca di una sintassi né tesa e fortemente ipotattica né ripiegata sulla paratassi, che porta alla sperimentazione di una nuova soluzione di compromesso basata sull’utilizzo di transizioni dolci ma allo stesso leganti (vuoi la Per le corrispondenze lessicali tra la canzone di Sannazaro e quella di B. tasso cfr. Zampese 1997, 48-49. Completo qui con qualche osservazione relativa alla strofa riportata: quanto a tizio, il riferimento del v. 103 al becco del rapace era solo in Sannazaro (v. 101 «col becco il petto afferra»), così come il verbo per descrivere il dilaniamento al v. 104 «rode dentro» (vedi al v. 111 «roso»); quanto a tantalo, sono solo Sannazaro e B. tasso ad usare il termine «selce» per designare il corpo che sta sospeso sulla testa del dannato, mentre in Cariteo si parla di «un sasso» (v. 43) e in Britonio di «una gran pietra» (v. 126). inoltre, mi pare significativo che proprio nel momento in cui esce completamente allo scoperto dichiarando la sua imitazione di Qual pena, lasso, è sì spietata e cruda, in questa strofa viii con struttura argomentativa contratta “a identificazione”, B. tasso al v. 106 («s’attene a sì debile stame») citi quasi testualmente il verso incipitario della petrarchesca RVF 37 «Sì è debile il filo a cui s’attene», che è quella che fornisce lo schema proprio alla ‘canzone delle pene’ di Sannazaro. in proposito non si trascuri una suggestione che potrebbe essere venuta dalla pratica del commento cinquecentesco ai RVF: Le chiose al Canzoniere di giulio Camillo ci testimoniano che, secondo alcuni interpreti, l’incipit della canzone 37 illustrava proprio una pena analoga a quella descritta da tasso e Sannazaro (cfr. Camillo, ed. zaja, p. 104 «multi hanno dubitato a che accenni il Petrarca nel primo verso, et sono stati alcuni li quali hanno creduto ch’el vogli accennare a la spada di Dioniso, la qual dicano era posta sopra la testa de esso Dioniso attaccata con un filo debolissimo»), benché altri avessero proposto soluzioni ermeneutiche divergenti (il filo dell’ancora, il filo delle Parche, etc). 108

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correlazione in serie, vuoi la paracoordinazione, vuoi il nesso relativo). Quanto all’argomentazione, è possibile affermare che il quadro panoramico su questi quattro testi omotematici offre una notevole polimorfia di orchestrazioni distributive: Cariteo e Sannazaro smussano nella strofa la bipolarità che ci si sarebbe prevedibilmente aspettati data la materia; Britonio recupera la petrarchesca bipartizione attorno a due fuochi figurali; B. tasso rimette in discussione l’organizzazione perché trasferisce la dialettica io-lirico vs figura mitica dal nucleo strofico a sovraunità metriche binate, spazi di significato che si estendono e completano in due strofe correlate.109 Anche Bembo annovera tra le Rime un caso di lirica argomentata con procedimento a polittico, che qui riporto per intero. Si tratta della canzone LXiX, il cui verso d’esordio A quai sembianze, Amor, Madonna agguaglia già anticipa la preponderante componente metaforica disseminata nelle strofe. A quai sembianze Amor madonna agguaglia, dirò senza mentire; pur ch’altri non s’adire, o ’n mercede appo lei questo mi vaglia. Un sasso è forte sì, che non s’intaglia; altro per sua natura empie, e giamai non sazia, occhio che ’l miri. Così contenti lascia i miei desiri, sazii non già, di quella petra dura, che d’ogni oltraggio uman vive secura, la dolce vista angelica beatrice, de la mia vita e d’ogni ben radice.

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Di organizzazione argomentativa simile è provvista anche la canzone di guidiccioni CXXii, I dì già involan parte. in essa il poeta inscena la topica contrapposizione tra natura e interiorità del poeta che, anziché essere ripetuta di strofa in strofa, come avviene ad esempio in RVF 50, «viene dislocata da guidiccioni ad un superiore livello di struttura, tra porzioni di testo» (Torchio 2006, 225). il componimento è, infatti, spartito in due momenti equipollenti di poco più di due strofe; dall’euforico paesaggio primaverile, si passa a parlare del turbamento del poeta a partire dall’inizio del secondo piede della terza stanza, mediante congiunzione avversativa «ma». 109

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Là dove ’l sol più tardo a noi s’adombra, un vento si diparte, lo qual in ogni parte i boschi al suo spirar di fronde ingombra, che la fredda stagion dai rami sgombra. Così de lo mio core, ch’è selva di pensieri ombrosa e folta, quand’ogni pace, ogni dolcezza è tolta, però che sempre non consente Amore ch’un uom per ben servir mieta dolore, del suo dolce parlar lo spirto e l’aura subitamente ogni mio mal restaura. nasce bella sovente in ciascun loco una pianta gentile, che per antico stile sempre si volge inver’ l’eterno foco. or poi che mia ventura a poco a poco tanto inanzi mi chiama, farò quasi fanciul che teme e vòle. Come quel verde si rivolge al sole e lui sol cerca e reverisce et ama, s’io potessi adimpir antica brama, similmente et io sempre amaria l’alto splendor, la dolce fiamma mia.

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Le tre stanze sono tramate su una struttura comparativa di base. La ricca tessitura di richiami lessicali disseminati in ogni comparto ricrea persuasivamente il terreno comune che rende possibile l’accostamento tra i due termini di paragone: v. 5 «un sasso forte», v. 9 «petra dura»; v. 7 «giamai non sazia», v. 9 «Sazii non già»; v. 7 «occhio», v. 11 «vista»; v. 13 «s’adombra», v. 19 «ombrosa»; v. 14 «un vento», v. 23 «lo spirto e l’aura»; v. 16 «i boschi», v. 19 «selva»; v. 27 «antico stile», v. 34 «antica brama»; v. 28 «eterno foco»; v. 36 «dolce fiamma»; v. 32 «sole»; v. 36 «alto splendore». il testo è avvicinabile, non certo per misura e ampiezza di articolazione quanto piuttosto per l’andamento insistito delle similitudini e per le suggestioni sintattiche, a RVF 135, lirica per quadri a paragone. Dal pun331

to di vista macro-strutturale nella lirica di Petrarca il comparante precede sempre il comparato, che è spesso introdotto dall’avverbio “così”, ma i due elementi messi in relazione si dispongono in modo per nulla meccanico nelle partizioni strofiche. Con il modello del Canzoniere il componimento di Bembo instaura numerosi analogie: rispetto a RVF 135 anche i primi 4 versi della i strofa bembiana sono riservati all’introduzione dell’argomento,110 anche qui nelle similitudini l’elemento inaudito dei paragoni prepara la comparsa del referente comparato, con effetto di suspense, e anche qui il secondo termine del confronto è introdotto per due volte dall’avverbio “così” (v. 8, v. 18) e nell’ultima stanza da “similmente” (cfr. RVF 135, v. 80 «simil fortuna»). Bembo sembra inoltre aver appreso anche la tecnica argomentativa che schiva la distribuzione deterministica del contenuto nelle partizioni e propende per un mancato allineamento all’interno delle suddivisioni strofiche. mentre Petrarca solo nella seconda parte del componimento (nella iv, v e vi strofa) spezza uno stesso comparto metrico per spartirlo tra comparante e comparato,111 Bembo non fa mai coincidere il respiro tra partizioni con il cambio di attante e mescola la materia composita nella stessa unità oppure riversa uno stesso elemento concettuale in modo che debordi da una casella metrica a quella attigua. il fenomeno è visibile in particolare nella ii strofa, in cui la descrizione del comparante si prolunga fino ad includere anche il primo verso della sirma e determina il ritardo nella comparsa del secondo termine di paragone (v. 18).112 Ciò che appare più significativo è che Bembo Cfr. RVF 135, vv. 1-4 «Qual più diversa et nova/ cosa fu mai in qual che stranio clima,/ quella, se ben s’estima,/ più mi rasembra: a tal son giunto, Amore». 111 nelle prime tre strofe di rVF 135 viene mantenuta una distinzione metrico-spaziale tra comparante e comparato rispettivamente dislocati nella fronte e nella sirma, con scarto segnalato dal settenario di chiave; diversamente, «nella iv, nella v e nella vi il comparato risale rispettivamente al terzo verso del secondo piede (v. 52), e al primo del secondo nei restanti due casi (v. 65 e v. 80). Questo fenomeno, che potremmo definire della risalita del comparato […] rappresenta uno degli espedienti più tipici della strategia petrarchesca di eludere, nell’atto stesso della sua istituzione, il principio della ripetizione e della simmetria» (cfr. Bozzola 2003, 206-208). 112 Lo slittamento in avanti del comparato produce, in effetti, il risultato più vicino alla sensibilità musicale e alle intenzioni dell’archetipo dei Fragmenta, poiché dall’analisi ritmica di RVF 135, procurata da Bozzola 2003 e già citata nella nota precedente, risulta che tutta la canzone mantiene come elemento costruttivo e argomentativo costante non tanto la contrapposizione tematica tra fronte e sirma (che non sempre si realizza), quanto 110

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nelle sole tre stanze a disposizione (a fronte delle 6 petrarchesche) opti sempre per una scelta che non sottolinea staticamente i margini di partizione attraverso una dislocazione prevedibile dei contenuti, come se non volesse riprodurre la strategia petrarchesca di impostare un parallelismo schematico per poi scompaginarlo, bensì fondare il testo fin dall’inizio su un’orchestrazione libera e asimmetrica.113 La prima strofa è caratterizzata dal fatto che la similitudine è totalmente contenuta entro i limiti della sirma (vv. 5-12); la seconda è dominata da un accusato asincronismo; quanto alla terza, se il comparante si distende nei due piedi, tuttavia ad esso non succede immediatamente a stretto contatto il comparato poiché la sirma esordisce con una riflessione incidentale che sospende la similitudine (vv. 29-31), riprende ancora una volta il comparante (vv. 32-34) e solo nel distico finale (vv. 35-36) completa il costrutto parallelistico con la comparsa del secondo termine. Utilizza lo schema argomentativo di RVF 135 anche molza in ben due delle sue tre canzoni a polittico. nella generale predilezione per questa tipologia di organizzazione tematica del metro lungo che permette di inserire una caleidoscopica varietà di immagini nel discorso lirico, molza pone in primo piano la struttura della comparazione per affinità su cui si articola la canzone dei prodigi e trasferisce la «polimorfia esotica»114 dei

la spartizione dei due elementi del paragone attuata tramite il “cambio tonale” del verso settenario (che solo in alcuni casi è quello di concatenatio). Cfr. Bozzola 2003, 207: «è interessante inoltre osservare che, mentre il settenario conserverà la funzione di marcatore del comparto (o apodosi), verrà invece meno il rigore geometrico della distribuzione dei suoi componenti nelle posizioni della stanza» e, più avanti a p. 208 «il compito, tuttavia, del settenario di demarcare l’incipit dell’apodosi resta fermo, nonostante il movimento delle unità tematiche di strofe in strofe». È inoltre bene sottolineare che questa ripresa cinquecentesca della tecnica messa in atto in RVF 135 va nel senso della semplificazione poiché Bembo nell’orchestrazione della seconda strofa, pur assegnando al verso breve il compito di segnalare il passaggio tematico, tuttavia non caratterizza il v. 18 settenario (con schema a due accenti di 2a e 6a) con l’intensificazione ritmica che invece marca il modello petrarchesco (vale a dire un settenario riconoscibile per il controaccento in 2a e 3a sede). 113 L’unico elemento di parziale ricorsività simmetrica è costituito dal trattamento del distico di combinatio, di cui si è già detto nel capitolo precedente, a p. 210 e ss. 114 Gorni 1978, 8.

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paragoni ora a realtà ordinarie, nel testo Tutto questo infinito (iV),115 ora all’illustrazione più che di mirabilia, di curiosità di gusto tecnico-erudito nella canzone Dappoi che portan le mie ferme stelle (i). Dappoi, che portan le mie ferme stelle, che dal soave albergo io m’allontani de’ miei dolci pensier; quai sieno i giorni, Amor, tu’l sai, ch’io soffro a le tue mani, e quai le notti più che i giorni felle. io gli atti pur del mio bel Sole adorni, forza è, ch’a membrar torni; a i quai quanto ricorro, tanto al dolor soccorro; tal che le fronde omai, e l’erbe sanno la cagion del mio grave e lungo affanno. e per le piagge, i fior vermigli e bianchi pregan, purché ’l mio danno sfoghi con lor, né di parlar mi stanchi. (molza, i, str. i, vv. 1-14)

L’introduzione, questa volta, esubera il limite del solo primo piede e occupa l’intera stanza iniziale giacché molza è impegnato a provvedere uno spunto narrativo sufficientemente articolato per inaugurare poi la serie dei quadri che giustapporrà nelle stanze centrali. Con piglio elegiaco il poeta confessa di provare un dolore intollerabile in seguito all’allontanamento dalla donna e di essere pertanto costretto, per placare l’angustia, a rifugiarsi nella consolazione del ricordo116 (v. 7, in posizione di chiave e, dunque, sulla svolta della strofa). L’abbandono alla rievocazione che l’io lirico si concede fa sì che ormai tutta la vegetazione da lui percorsa conosca la sua cocente sofferenza (v. 10-11);117 l’empatia con la natura raggiunge

Cfr. ivi p. 384 e ss. La situazione avvicina quella descritta in un altro testo petrarchesco, RVF 127, vv. 15-18 «Poi che la dispietata mia ventura/ m’à dilungato dal maggior mio bene,/ noiosa, inexorabile et superba,/ Amor col rimembrar sol mi mantene». 117 Questi versi fanno risuonare stemperandone in parte l’enfasi i vv. 9-11 di RVF 35 «sì ch’io mi credo omai che monti et piagge/ et fiumi et selve sappian di che tempre/ 115 116

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la pienezza quando sono gli stessi fiori a pregare il poeta che si sfoghi con loro per mitigare l’affanno (vv. 12-14). Segue una catena di cinque stanze nelle quali campeggiano fiori o piante dalla singolare conformazione che suscitano nel poeta associazioni subitanee con caratteristiche dell’amata. La flora trascelta tradisce il gusto botanico che molza mette giocosamente in evidenza anche in testi come l’epigramma in lode dell’insalata o il capitolo in lode dei fichi. non sono prese in considerazione le pur numerose specie vegetali corredate di noti pedigrée mitologici o, se retroscena leggendari esistono, sono opportunamente taciuti, tanto che l’identificazione di fiori e piante è affidata solo all’acribia del lettore, in una sorta di rebus. i comparanti dovrebbero essere nell’ordine il convolvolo (str. ii), un fiore che può mutare colore dal bianco all’azzurro, forse l’ortensia (str. iii), una pianta con caratteristiche infiorescenze a pennacchio che diventano piumose e assumono un colore rossastro in autunno, probabilmente lo scotano (str. iv), il croco, che, secondo la leggenda, cresce più rigoglioso dopo essere stato calpestato (str. v) e infine l’iris, fiore legato al cielo (str. vi). Quanto al comparato, è evidente che la donna cantata nel testo propizia la sublimazione del sentimento amoroso e per questo viene, a sua volta, innalzata mediante una degna celebrazione, anche se non è chiaro se ciò sia dovuto al fatto che sia una creatura quasi ultraterrena, angelica nelle sue nobili virtù, o piuttosto al fatto che sia già stata accolta in seno ai cieli dopo la morte (il che spiegherebbe il pianto del poeta per la sua lontananza e l’appello a lei come ad una «Fenice», al v. 81). La similitudine è introdotta in modo vario, ora con avverbi, ora con aggettivi ora con perifrasi, ma il secondo termine di paragone compare quasi immancabilmente all’inizio del quart’ultimo verso, ad eccezione che nella str. vi (v. 25 «simil», v. 39 «non altrimenti», v. 53 «così», v. 67 «di tal virtute», v. 80 «cotal»). Le strofe presentano tutte una sintassi sinuosa che non si allinea al ritmo delle partizioni interne; per effetto di compensazione, molza disegna quale nuovo punto di orientamento nella materia versale della stanza in luogo dello snodo tra fronte e sirma, sempre eluso, la quartina finale eFeF, che risulta indipendente dal corpo della stanza non solo dal punto di vista argomentativo ma anche dal punto di vista sintattico nelle str. ii, iii, iv e v. La dissimulazione del verso di chiave (v. 21) sia la mia vita, ch’è celata altrui»).

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nelle volute di una sintassi rampicante lungo la grata metrica e frastagliata da iperbati e anastrofi (cfr. vv. 20-22) e, d’altro canto, la perentorietà che assume l’ultima quartina staccata da una pausa intonativa forte e profilata dalla collocazione dell’aggettivo «simile» ad inizio verso si colgono con particolare facilità nella ii strofa. Verdeggia un’erba in ciascun loco tale, che ramo o sterpo, che si trova a lato convolve intorno, e ’n mille nodi implica; e alzata là, dove per sé non sale, di fior di latte orna il natío suo prato; u’ par, che poca ruvida fatica, l’alma natura amica quasi ponendo, impari fregi più colti e rari; onde fior apra poi vie più gradito. Simile in ciel a formar tutto unito de la mia Donna le bellezze sante, con saper infinito mille forme imperfette mostra avante. (molza, i, str. ii, vv. 15-28)

Solo la stanza finale, nella quale il comparato risale di un verso e ammicca fin dal quint’ultimo, con ulteriore scacco del lettore, rompe questa nuova e pur solida intonazione. tratto comune delle quartine finali a rime alternate, a cui è preposto il compito di contenere la manifestazione eterea della donna, è altresì la presenza di una riconoscibile spinta ascensionale, visualizzata dalla ricorrenza della parola «cielo» in 3 strofe su 4 (v. 25, v. 39, v. 70) nonché nella coda dell’ultima stanza (v. 81), e unita ad altri elementi lessicali che suggeriscono un movimento di elevazione (v. «beltà nel mio ben s’erga»; v. 81 «alzar»). il motivo culmina nel congedo, quando il poeta si augura di aver cantato degnamente le lodi della sua amata procurandone una corona di gloria splendente quanto la costellazione donata da Dioniso all’adorata Arianna.118 118

Molza, i, cong., vv. 85-92 «Canzon, poi non mi lice/ di stelle ornar le chiome/ a la

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La canzone testimonia, come si è visto, la virtuosistica perizia compositiva del molza, che va dalla scelta peregrina del tema il quale, veicolato in una struttura petrarchesca riconoscibile, entra ad alimentare il seletto patrimonio lirico dei motivi, all’attenzione tanto alle minuzie dei particolari descrittivi, quanto alla sostanza lessicale e ai profili di verso con l’opzione per rimanti inusitati (v. 17 «implíca»,119 v. 57 «inlaga»), alla messa in rilievo di elementi struttivi simmetrici al fine di ancorare una sintassi che si potrebbe definire sfuggente non solo per la non costante collimazione dei giri periodali con i comparti metrici interni alla stanza, ma anche per la presenza non trascurabile di inarcature e di fenomeni di traiectio che impongono una continuata riformulazione dell’ordine dell’enunciato (ad es. ai vv. 67-70 «di tal virtute adorno alta e suprema/ questo mio fior, quanto più ’l colpo ’l piega/ di rea fortuna e scema/ tanto più vago al ciel se stesso spiega.»). nell’orchestrazione della canzone a polittico Poi che Madonna el mio fero destino, Alamanni si richiama invece ad un prototipo a quadri allineati lungo una direttrice temporale posta in evidenza, analogamente a quanto Petrarca illustra nella canzone 50, testo che per altro si rivela un archetipo di riferimento non solo dal punto di vista strutturale ma anche per quanto concerne le suggestioni tematiche. La lirica del poeta cinquecentesco snocciola in sequenza i vani tentativi del poeta di placare la sofferenza amorosa attraverso una sorta di terapia della visione (vv. 19-20 «Cerco al fin d’acquetar l’anima trista,/ secondo la stagion, con lieta vista») a cui fanno da sfondo i trapassi di luce che scandiscono i diversi momenti del giorno. Fatta eccezione per la stanza iniziale, che introduce la figura di un poeta sfinito dalle lacrime e intento a mitigare la sua afflizione con il racconto del suo peregrinare (cfr. vv. 4-5 «Per isfogar e’ mia tristi penmia Donna; come/ già d’Arianna il gran figliuol di giove,/ dir le potrai; che fin ch’altri ritrove/ ch’al ciel innalzi con più chiaro ingegno/ le bellezze sue nove/ l’acceso mio desír non prenda a sdegno.». Questo è l’unico luogo testuale nel quale molza elargisca un chiaro riferimento ad episodi del mito classico. 119 La rima iCA è abbastanza frequente nel Canzoniere, ma compare solo una volta nel rimante «implica» nel sonetto RVF 139, v. 7, mentre la rima AgA è un po’ meno frequente e nel rimante parasintetico «inlaga» non è mai utilizzata né da Petrarca né da Dante (in Purg. iii, v. 15 si trova «dislaga»).

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sieri/ canterò...» proprio come Petrarca nell’ultima stanza di RVF 50, v. 57 «et perché un poco nel parlar mi sfogo»),120 ognuna delle sette stanze rimanenti presenta un fotogramma che ritrae un preciso segmento dell’arco cronologico della giornata. nella ii stanza è colto il momento dell’alba (v. 21 «prima che imbianchi e indori l’oriente»), nella iii quello della «bella aurora» (v. 42), la iv stanza è ambientata in un luminoso mattino (v. 61 «mentre che ’l sol rotando in alto sale»), la v segue il sole finché raggiunge il culmine nel cielo a mezzogiorno (v. 81 «Quando ’l sol poi nell’alto punto arriva»), la vi descrive una pioggia pomeridiana (vv. 101-102 «Dopo una estiva e impetuosa pioggia/ talhor che ’l sol verso occidente varca»), la vii raffigura il declinare del giorno (vv. 121-122 «Alhor che da noi si toglie il gran pianeta/ cedendo luogo alla’mportuna nocte»), l’ultima stanza apre infine su un paesaggio avvolto dall’oscurità (vv. 141-142 «Poiché dal ciel precipitando vola/ l’humida notte che la terra imbruna»). La precisa strutturazione temporale si presenta come prima marca che affratella il procedimento argomentativo di RVF 50 a quello di Ala ii, benché nel precedente petrarchesco il poeta inquadri un unico frangente della giornata – quello del tramonto – e lo sfumi con sapienti pennellate di fino per descriverne il progresso e per ritmare le quasi impercettibili trasmutazioni di luce che portano il dì morente a volgere nella notte,121 mentre Alamanni seleziona una fascia di lunga durata – un intero giorno – con possibilità di differenziazioni più distinte e illustrazioni a larghe campiture. Coerentemente rispetto a questa esigenza di maggiore o minore focalizzazione, varia l’ampiezza stessa di articolazione del metro, che nel secondo caso risulta quasi doppia rispetto al primo. Alamanni per la canzone sceglie un prototipo di stanza piuttosto disteso che possa ospitare slarghi descrittivi diffusi, senza aderire all’opzione petrarchesca per una misura media.122 L’ambientazione temporale di questo genere di L’espressione di Alamanni riecheggia anche i vv. 4-5 «perché cantando il duol si disacerba/ canterò..» di rVF 23, che funge da modello metrico per il testo. 121 Folena 1978, 301 parla della presenza nella canzone petrarchesca di «una serie di microtempi esperiti durante e dopo il tramonto del sole». 122 Ne la stagion che ’l ciel rapido inchina è intessuta su una stanza di 14 versi di cui 4 settenari, mentre Poi che madonna el mio fero destino prende lo schema da RVF 23 e quindi si compone di lunghe stanze di 20 versi quasi totalmente endecasillabiche ad eccezione di un settenario in decima sede. 120

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canzone a polittico, in entrambi i casi, non è semplicemente un pretesto virtuosistico per esibire l’abilità nel tratteggiare delle descrizioni ma si configura come «una struttura lirica portante»,123 un elemento fondamentale per la costruzione del messaggio poetico. La pacata ciclicità del tempo segnato dal movimento del sole, con la quale si accordano la maggior parte delle creature, è motivo di pena per il soggetto che non può godere del corso naturale delle cose a causa della sua inquietudine esistenziale. La figura della disarmonia è certo resa in modo diffente da Petrarca e da Alamanni: mentre la ‘canzone del tramonto’ sviluppa il tema con inarrestabile costanza di scavo interiore appuntando l’attenzione sul momento del vespro che vede il riposo del mondo umano e animale in contrapposizione al continuo rovello che invece tormenta l’amante-poeta anche quando cala l’oscurità, nel componimento di Alamanni la notte insonne è solo l’ultima delle occasioni che vedono l’io lirico estraneo rispetto alla vita serena di tutti gli esseri che popolano l’ambiente circostante nelle diverse ore di una giornata estiva. tra le due canzoni cambiano anche i criteri di distribuzione della materia, come forse si può meglio notare mettendo a confronto due stanze per ognuno dei componimenti:

123

Folena 1978, 294.

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ne la stagion che ’l ciel rapido inchina verso occidente, et che ’l dì nostro vola a gente che di là forse l’aspetta, veggendosi in lontan paese sola, la stancha vecchiarella pellegrina raddoppia i passi, et più et più s’affretta; et poi, così soletta al fin di sua giornata talora è consolata d’alcun breve riposo, ov’ella oblia la noia e ’l mal de la passata via. ma, lasso, ogni dolor che ’l dì m’adduce cresce qualor s’invia per partirsi da noi l’eterna luce. (RVF 50, str. i, vv. 1-14)

e i naviganti in qualche chiusa valle gettan le membra, poi che ’l sol s’asconde, sul duro legno, et sotto a l’aspre gonne. ma io, perché s’attuffi in mezzo l’onde, et lasci Hispagna dietro a le sue spalle, et granata et marroccho et le Colonne, et gli uomini et le donne e ’l mondo et gli animali aquetino i lor mali, fine non pongo al mio obstinato affanno; et duolmi ch’ogni giorno arroge al danno, ch’i’ son già pur crescendo in questa voglia ben presso al decim’anno, né poss’ indovinar chi me ne scioglia. (RVF 50, str. iv, vv. 43-56)

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Prima che imbianchi e indori l’oriente per li addorni giardin men’ vo talhora, procurando al mio mal lieto soggiorno. ivi dolce mordendo l’estiva ora, con più freddo spirar mi reca ad mente che Vener’ surge et ci rimena il giorno; allhor mi volgo et veggiomi d’intorno vezosa biancheggiar fra verdi foglie la lieta rosa, et farsi ornata e bella, et la surgente stella con vaghi risi nel bel mondo accoglie; né scierno se ’l color in ciel si tira Venere nata et dalle rose il prende, o s’ella lor col chiaro lume il porge. in ambe dua pari color si scorge, pari età, par beltà vi si comprende, et (forse) pari odor, ma quel si aggira co’ venti in alto, et questo appresso spira. ma lasso ad me che mai Vener’ non spense quel caldo in me che già suo figlio accense. (Ala ii, str. ii, vv. 21-40) mentre che’l sol rotando in alto sale, sì che facto superbo non sostiene che mortale ochio più ver lui si giri, cruccioso contra ’l ciel dell’altrui bene, m’invio pensoso et piangendo il mio male in una chiusa valle u’l sol non miri. ivi, involto fra lagrime et sospiri veggio la terra ricoperta d’herba che la pesante fronte al basso inchina, carica di pruina, la qual al mezo dì per Phebo serba. Veggionsi mille varii e bei colori de’ nuovi fior, fra la pruina e ’l verde con amorosi risi campeggiare; sentonsi e’ vaghi augei dolce cantare,

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lieti che ’l verno le sue forze perde; hor sopra i rami, hor fra l’herbette e’ fiori, godono sicuri e’lor felici amori. et io che sol fra quei miser rimango, sdegnoso al fin vie più sospiro et piango. (Ala ii, str. iv, vv. 61-80)

nella canzone di Petrarca la critica ha appurato la presenza, costante in tutte le strofe, di nuclei tematici predeterminati. Dopo un’indicazione temporale (ad esempio, qui ai vv. 1-3 e al v. 44), viene ritratta una figura intenta a disporsi al riposo, come suggerisce l’ora serale (qui si tratta di una «stancha vecchiarella» e dei «naviganti»), mentre da ultimo, in questo quadro pacificato, è sbalzata la figura del poeta nel segno della contrapposizione, come indica la congiunzione introduttoria avversativa (cfr. v. 12 «ma, lasso» e v. 46 «ma io»). Anche nel testo di Alamanni sono riconoscibili di strofa in strofa elementi di ricorsività che ricalcano in parte il tracciato dell’archetipo petrarchesco; rimane la scansione temporale ad inizio stanza (qui, ad esempio al v. 21 e ai vv. 61-63) e la presentazione più o meno definita di una ‘situazione euforica comparante’ da mettere in relazione alla dolorosa condizione del poeta (ad esempio nella str. ii la simbiosi tra «Vener» e la «lieta rosa» o nella str. iv il locus amoenus fatto di erba fiorita e canto d’uccelli), ma cambia sensibilmente il punto di vista. Questo accade perché Alamanni colloca in posizione di netta centralità il soggetto lirico, il quale non compare più esclusivamente in qualità di elemento di contrappunto nell’ultima delle tre ideali sezioni tematiche della stanza, come si apprezza in RVF 50, ma fin dall’inizio nomina gli elementi che si disporranno a contrasto con la sua vicenda dominandoli in quanto oggetti della sua osservazione. in un certo senso si potrebbe dire che Petrarca considera e presenta la «vecchiarella», lo «zappador», il «pastor», i «naviganti» come realtà date, almeno in apparenza ‘neutre’ e co-protagoniste con il soggeto lirico di un quadro che va disegnandosi man man, di contro ad Alamanni che catalizza tutto ciò che compone il paesaggio naturale e umano attorno ad un io percipiente, nella misura in cui tutti gli elementi delineati vengono esplicitamente filtrati attraverso la vista e l’udito del poeta (cfr. qui v. 27 «veggiomi», v. 68 «veggio», v. 72 «veggionsi», v. 75 «sentonsi»). Questa maniera di impaginare la materia può suggerire una contami342

nazione con il modello a polittico della canzone RVF 127, testo in cui il poeta scorge nel paesaggio le emanazioni di Laura, come è ben chiarificato dalla presenza cadenzata nelle varie strofe di verbi o di locuzioni che indicano il processo di visione e fungono da anaforico collante strutturale per l’intero componimento (v. 14 «veggio», v. 19 «s’io veggio», v. 21 «parmi veder», v. 28 «veggio», v. 30 «mirando», v. 44 «veggio di lontano», vv. 5660 «non vidi mai... ch’i’ non avesse i begli occhi davanti», v. 65 «li veggio», v. 68 «parmel veder», vv. 71-74 «se mai... vider... veder pensaro...», v. 97 «ch’altra non veggio mai, né veder bramo»).124 nella canzone di Alamanni qui analizzata vi è una pari se non maggiore densità di espressioni che alludono chiaramente al vedere, basti pensare alla comparsa costante in tutte le stanze di «veggio», a cui va aggiunta la saltuaria intensificazione dell’azione dello sguardo mediante altre formule analoghe. Ciò che è essenziale notare in quanto punto chiave nella lettura comparata dei due testi è che nell’economia argomentativa della canzone del tramonto l’io lirico assurge al ruolo di personaggio principale solo nella quinta ed ultima strofa, secondo un dinamismo interno nella distribuzione dei nuclei tematici che registra una costante risalita del soggetto attraverso lo spazio strofico. mentre nella prima strofa all’amante infelice è riservata solo l’estrema propaggine ternaria della sirma, a partire dalla seconda strofa e per tutte le stanze successive lo spazio del soggetto si dilata, sino a giungere alla stanza finale dove l’io subordina tutto a sé. il componimento è percorso pertanto da una costante tensione, da un movimento interno che 124 La canzone di Alamanni potrebbe essere ricondotta a RVF 127 oltre che per una tenue ripresa delle movenze iniziali della seconda strofa nell’incipit (cfr. i petrarcheschi vv. 15-17 «Poi che la dispietata mia ventura/ m’a dilungato dal maggior mio bene/ noiosa inexorabile e superba» con i vv. 1-3 «Poiché madonna el mio fero destino/ vuol che lontano in questi aspri sentieri/ di troppo amore ingiusta pena porte») e per la centralità dell’elemento percettivo della vista, anche perché nell’archetipo sono comunque presenti indicazioni temporali variabili di stanza in stanza. tuttavia la successione dei momenti, in quel caso primavera, estate e inverno, non è costantemente ordinata in base ad un serrato principio cronologico (Berra 1991, 171 parla di «istanza memoriale che prende il sopravvento sul criterio della contiguità sensoriale» e la riformula in sua funzione), né è presente una puntuale opposizione antinomica tra figurante e figurato, senza considerare che in RVF 127 si attua una sorta di descriptio soggettiva dell’amata e il risalto non è primariamente posto sulla condizione dell’io lirico. tali caratteristiche, che qui paiono preponderanti, mi inducono a riconoscere nel testo alamanniano una maggior, anche se non esclusiva, influenza del cartone di RVF 50.

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fa forza sulla struttura in tre nuclei concepita all’inizio fino a giungere al punto di rottura. L’espressione di disagio da parte del poeta, dopo quattro tentativi di parziale armonizzazione con comparanti emblematici (la vecchierella, lo zappador, il pastore e i naviganti), culmina nella seconda sezione della penultima strofa con il coinvolgimento indiscriminato di tutto il contesto naturale (vv. 49-51 «[perché] et gli uomini et le donne/ e ’l mondo et gli animali/ aquetino i loro mali») e subito dopo travolge nel suo corso gli elementi esterni capovolgendo l’ordine dell’esposizione (vv. 58-59 «veggio la sera i buoi tornare sciolti/ da le campagne e da’ solcati colli»).125 La canzone di Alamanni prende le mosse già da questo stadio e dunque deve risolvere attraverso altri espedienti quell’idea di movimento all’interno di uno schema ripetitivo che Petrarca convoglia nella visibile dilatazione della statura dell’io lirico di strofa in strofa. ecco allora l’introduzione di una linea narrativa di tensione e il coinvolgimento del soggetto-amante in una serie di azioni in senso stretto, prima tra tutti l’azione del vedere, del volgere lo sguardo all’osservazione, ma anche l’azione del peregrinare da un luogo ad un altro. La meditazione petrarchesca di RVF 50, così ricca di varietà eppure così inchiodata all’immobilismo e all’impotenza dell’inazione e risolta nel crescendo proporzionale dell’inquietudine del soggetto e della sua espressione all’interno della strofa, viene reinterpretata da Alamanni e trasformata in un racconto corredato da una successione di atti del soggetto. Di strofa in strofa l’io lirico valuta la sua condizione, ripercorre il tracciato del suo rimuginare in una continua spirale che lo riporta alla stessa conclusione, immancabilmente ribadita nel distico di combinatio,126 Folena 1978, 304 parla di un «io vorace che a poco a poco si impadronisce di tutto lo spazio della stanza». 126 L’effettiva dichiarazione di alterità del locutore nei confronti dell’ambiente circostante in Alamanni è racchiusa, con risultato di incisiva sottolineatura, nel distico a rima baciata di clausola, in base ad una soluzione nell’allestimento degli spazi strofici in questo caso molto più schematica e statica rispetto a quella individuata da Petrarca. Sul piano intonativo ne risulta che tutti i versi di combinatio (ad eccezione della strofa di avvio) sono isolati e sintatticamente indipendenti, nonché spesso sbalzati da un indicatore avversativo: cfr. vv. 39-40 «ma lasso ad me che mai Venere non spense/ quel caldo in me che già suo figlio accense»; vv. 59-60 «ma la mia vista ad maggior lume aveza/ questa fuggendo, cerca altra chiareza»; vv. 79-80 «et io che sol fra quei miser rimango/ sdegnoso al fin vie più sospiro e piango»; vv. 99-100 «ma non chiusa ombra, ohimé, né gelide acque/ mai quel fuoco amorzar che già mi piacque»; vv. 119-120 «et io, benché allhor lieto ognun cognoschi/ vie 125

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ma, oltre a ciò, compie anche degli spostamenti fisici che visualizzano il progredire della sua angoscia (cfr. v. 22 «per li addorni giardin’ men vo talhora», vv. 65-66 «m’invio pensoso et piangendo il mio male/ in una chiusa valle u’l sol non miri», vv. 84-86 «fuggendo la stagion noiosa e calda/ men’vo lungo una ombrosa e fresca riva/ d’un fiumicel che in fra dua poggi siede»). La predominanza dell’io lirico e la sua acclarata discrasia rispetto al mondo naturale è, inoltre, corroborata dal fatto che non sempre sembra essenziale mettere a fuoco un comparante distinto – come invece accade per la parte più consistente della canzone di Petrarca – per cui, accanto a oggetti abbastanza ben definiti come «la rosa» nella str. ii, l’erba fiorita e i «vaghi augei» della str. iii, «l’olmo» e «la chiara acqua» della str. v, e «la greggia» della str. viii, si trovano espressioni più fumose e indeterminate, quali quelle ai vv. 53-54 «tutto lieto ridendo al nuovo sole/ si vede el mondo ad sì dolce apparire...», quella al v. 119 «et io... benché allohor lieto ognun cognoschi» o quella al v. 157 «ogni fera, ogni ucciel’ senza paura» della str. viii. Ciò che la generalizzazione dei comparanti farebbe perdere al testo in efficacia figurativa è, comunque, compensato mediante l’introduzione di allusioni vivaci e personificazioni mitologiche che vengono impiegate per tratteggiare i fenomeni celesti e atmosferici che costellano l’arco della giornata, come il sorgere del sole o la comparsa dell’arcobaleno sul far della sera dopo un temporale estivo o ancora lo spuntare della luna.127

4.2.5 Coesione formale e variatio nelle stanze. Disposizione alternata e simmetrica in altri casi, leggermente diversi ma molto solidali con lo spirito struttupiù ritorno a’ primi pensier foschi»; vv. 139-140 «e ’l tristo cor da dolce invidia morso/ dimanda ad morte al fin presto soccorso»; vv. 159-160 «Sol gli ochi miei che asciutti star non ponno/ scaccian da lor con le lagrime il sonno». 127 Facile immaginare come l’Aurora diventi una fanciulla adorna di una bianca veste, l’arcobaleno venga identificato con «di Thaumante la vezosa figlia» (v. 106) e la Luna sorga assumendo le fattezze della impavida sorella di Apollo che, da brava cacciatrice, non teme le insidie delle costellazioni zoomorfe (vv. 152-154 «Fra i celesti animal lieta e sicura/ si vede andar, né l’aguzate code/ di scorpion teme o ’l dente del lione»).

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rale di quelli a polittico appena descritti, accade che una riconoscibile ricorsività si manifesti non nel modulo monostrofico, bensì in un’alternanza binaria, in un accostamento di tele bipartite. Alludo, ad esempio, alla canzone ii, 16 degli Asolani per la quale, nel generale tema delle qualità superiori della donna che hanno catturato il cuore del poeta, è ben visibile una configurazione che avvicenda strofe dispari di carattere descrittivo, improntate allo stilema della comparativa di uguaglianza negata128 schematizzabile in “non fu mai cosa così… che”129 e strofe pari (ciascuna delle quali tematicamente legata alla dispari precedente) ad andamento diegetico, che ripercorrono attraverso i tempi storici i passi dell’innamoramento, mantenendo comunque anche lo sguardo al presente. Una volta individuate queste rispondenze, è chiaro che la logica del testo si basa sull’enunciazione di una caratteristica eccezionale della donna (strofe dispari) corroborata da un episodio narrativo collegato che la esemplifica (strofe pari). in senso lato, poi, anche la presenza e la collocazione dei legamenti periodali tra comparti interni alla stanza potrebbero essere considerare indizi puramente formali che, mettendosi in dialogo con le attese del lettore, favoriscono, in un contesto di serializzazione di blocchi uniformi, il costituirsi di un disegno razionale e ritmico del testo, specie se la disposizione dei tipi rivela un assetto armonico e ordinato secondo una norma chiara, cioè con regolato avvicendamento di strofe a partizioni indipendenti e strofe marcate dalla sfasatura della sintassi e dall’elusione delle pause metriche. Limitatamente a questa fattispecie, l’autore che fornisce il maggior

Cfr. p. 255, nota 24. Cfr. str. i, vv. 1-7 «Sì rubella d’Amor, né si fugace/ non presse herba col piede/ né mosse fronda mai nimpha con mano/ né trezza di fin oro aperse al vento, / né drappo schietto care membra accolse/ Donna sì vaga e bella, come questa/ Dolce nemica mia»; str. iii, vv. 15-19 «Sola in disparte, ov’ogni oltraggio ha pace/ rosa o giglio non siede/ che l’alma non gli assembri a mano a mano/ avezza nel desio ch’io serro dentro/ quel vago fior cui par huom mai non colse»; str. v, vv. 29-35 «Bel fiume, alhor ch’ogni ghiaccio si sface,/ tanta falda non diede/ quanta spande dal ciglio altero e piano/ dolcezza, che po’ far altrui contento; / et sé dal dritto corso unqua non tolse./ né mai s’inlaga mar senza tempesta, che sì tranquillo sia»; str. vii, vv. 43-47 «Questa vita per altro a me non piace/ che per lei, sua mercede,/ per cui sola dal vulgo m’alontano;/ ch’avezza l’alma a gir là ’v’io la sento,/ sì ch’ella altrove mai orma non volse». 128 129

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numero di occorrenze sostanzialmente prive di equivoci interpretativi130 è senz’altro Sannazaro, che spesso opta per canzoni articolate su 5 o 7 stanze, con annessa possibilità di creare simmetrie centrali o orchestrazioni chiastiche. il testo 2, LiX di Sonetti e canzoni, istituisce delle analogie tra coppie di strofe che additano uno schema ad incrocio, destinato a ritornare su se stesso. La prima e l’ultima stanza hanno, infatti, una costruzione simile, basata su un vocativo espanso che diventa il diretto referente della frase principale conclusa nel segno del lamento elegiaco,131 mentre nella seconda e nella quarta strofe il vocativo, pur presente nel verso incipitario, adempie il ruolo di brevissimo inciso ed è un solo sospiro patetico attraverso cui il poeta si appella dolente a se stesso.132 La terza stanza, nucleo mediano e perno attorno a cui gira l’intero componimento, ha uno sviluppo per certi versi ambiguo perché esibisce innegabilmente un vocativo espanso, ma sotto forma di esclamazione e sembra così conciliare e saldare insieme le due tipologie appena esposte.133 Allo stesso modo Sannazaro propone anche per la canzone 2, Liii, che tuttavia è giocata su 6 strofe, un andamento chiastico, secondo il quale gli estremi del testo sono occupati da stanze con fronte e sirma staccate da un secco movimento oppositivo (con «ma» all’inizio del verso di concatenatio), mentre nella parte centrale il flusso più morbido del discorso si manifesta nei collegamenti delle macropartizioni con l’artificio delle coblas capfinidas (cfr. str. ii-iii, v. 24 «et a costei perché ’l mio pianger giova?» e v.

naturalmente basarsi sull’astratto schema di organizzazione sintattica per stabilire se la disposizione delle stanze soggiace ad un qualche ordine intenzionale sarebbe un appiglio troppo labile per questa indagine. Perciò verranno tenuti in considerazione solamente quei casi in cui la mera alternanza di tipologie strofiche si abbina anche ad analogie formali oggettive nei tipi delle proposizioni impiegate, nella ricorrenza di stilemi individuati e via dicendo. 131 Cfr. Sannazaro, LiX, str. i, vv. 1-8 «Valli riposte e sole/ deserte piagge apriche/ e voi , liti sonanti et onde salse/ se mai calde parole/ vi fur nel mondo amiche/ o se de’ pianti uman giamai vi calse/ prendete or le non false/ querele e i miei martiri…»; str. v, vv. 53-58 «ninfe, che ’l sacro fondo/ come a nettuno piacque/ de l’undoso tirreno avete in sòrte/ alzate il capo biondo/ fuor già de le vostr’acque/ e vedete il mio pianto e la mia morte». 132 Cfr. Sannazaro, LiX, str. ii, v. 14 «Ben vedi, anima trista, …» e str. iv, v. 40 «Lasso, chi mi conduce…». 133 Cfr. Sannazaro, LiX, str. iii, vv. 27-32 «oh felice terreno/ oh fortunato loco/ oh sopra gli altri aventurosi campi/ che ’l bel viso sereno/ vedete, e del mio foco/ godete, ardendo agli amorosi lampi!». 130

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27 «Ver’è ch’io piansi sempre»; str. iii-iv, v. 39 «la mia lira si tace», v. 40 «tacean le dolci rime»). Diversamente accade nella 1, XXV, canzone nella quale la mappa della differenziazione sintattica programmatica determina un crescendo, nella misura in cui i legami tra partizioni si infittiscono a partire dalla quinta stanza che con la sua sintassi lunga e monoperiodale, complicata dal fenomeno dell’interposizione frastica, segna dopo unità molto frammentate dalle interrogative retoriche una svolta improvvisa. Che il nuovo movimento che prende piede a questo punto, poi, si comunichi e si propaghi alle stanze successive è alluso, tra quinta e sesta strofa, nella ripresa lessicale rafforzata tramite un deittico (v. 48 «dico che ’l dì» e v. 56 «Da quel dì in qua»). negli ultimi casi esposti si apprende, pertanto, che l’organizzazione ritmica della sintassi nelle partizioni provvede, nella sostanziale fissità della tematica (ad esempio il lamento lancinante, così come il disagio per la lontananza dall’amata) a procurare il necessario sviluppo formale, sia esso di carattere ciclico, o al contrario, di carattere progressivo. Concludendo e riconsiderando la panoramica complessiva, ciò vale a sottolineare e a confermare una volta in più la supposizione teorica iniziale circa l’esistenza di una valenza argomentativa della fisionomia strutturale e della metrica del periodo strofico nel creare corrispondenze e dinamismo dialettico tra le stanze.134

4.3 La serializzazione di canzoni Poche righe ancora per esplorare a volo d’uccello un ultimo aspetto di il valore del rapporto tra metrica e sintassi all’interno delle strofe al fine della costruzione del senso è stato rilevato come elemento di grande consapevolezza stilistica all’interno delle canzoni petrarchesche in letture recenti (Praloran 2007a) e in uno studio complessivo di Praloran 2004b, 99, che scrive: «La divisione sintattica delle stanze, pur partendo da un’intonazione convenzionale che si appoggia alla divisione oggettiva dello schema, varia poi continuamente intorno a principi armonici di consonanza, non in senso fonico, ma appunto di proporzioni numeriche, il numerus agostiniano», e poco più oltre, a p. 113-114: «è proprio la sintassi del periodo, essenzialmente elusa nella descrizione continiana, che rappresenta la traccia luminosa della dilatazione nel tempo del pensiero poetante petrarchesco». 134

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disposizione argomentativa che si realizza nelle canzoni cinquecentesche sulla base di spunti che i poeti colgono all’interno dell’opera-modello di Petrarca. Dopo aver esaminato la tenuta e la compattezza logica che si incardinano grazie a spie sintattiche, retoriche e lessicali tra partizione e partizione all’interno della stessa strofa (§ 4. 1. 1) e tra strofa e strofa in sezioni del medesimo componimento (§ 4. 1. 2) o, in generale, nel complesso della canzone (§ 4. 2), restano da considerare quei casi in cui la trattazione di un motivo migra da una canzone all’altra sfruttando opportuni posizionamenti delle liriche in contiguità. Se attraverso l’analisi delle canzoni ‘a polittico’, di cui il Canzoniere offre un ampio ventaglio di esempi, è emerso come Petrarca, di fatto, ami l’accostamento in sequenza di immagini legate ad un medesimo principio di analogia e la variazione di motivi ricorrenti all’interno di uno stesso testo, non stupisce che tale principio valga parimenti ad un livello superiore di macrostruttura. in altri termini anche nel ‘libro’, cornice esterna e orizzonte coeso nel quale prendono corpo le scene del discorso lirico petrarchesco calate nei singoli testi ascrivibili a diverse forme metriche e di varia dimensione, il poeta costituisce delle zone di omogeneo tessuto connettivo e di solidarietà argomentativa grazie all’addensamento di metri lunghi e in particolar modo di canzoni, ossia grazie a quello che si potrebbe definire un procedimento di serializzazione strutturale e strutturante. La specifica tecnica del poeta trecentesco che consiste nel concatenare quadri in una sequenza variata e progressiva si ripresenta in diverse coppie o terne di canzoni che appaiono memorabilmente accostate nel libro, seppure a vario titolo: per vicinanza tematica e identità metrica le cantilenae oculorum RVF 71, 72, 73;135 per peculiare tessitura settenaria RVF 125, 126 ed esplorazione sotto varie prospettive del motivo della lontananza 127, 129;136 per utilizzo dello stiA proposito della compattezza delle canzoni degli occhi, cfr. Praloran 2007a, 33 che afferma che «sono le stesse indicazioni dell’autore a ribadire costantemente, soprattutto nello spazio per eccellenza deittico dei congedi, il carattere unitario delle tre composizioni indicandone la necessità di una lettura macrotestuale» e Bologna 2007, in particolare alle pp. 183-194, quando parla di coesione e continuità di un tema e della sue variazioni come «stilemi esposti, ripresi, trasformati, che diversificano l’identico permanente» in un sistema di «equilibrio dinamico» (p. 191). 136 nuove ragioni per accostare sia dal punto di vista tematico che di organizzazione sintattica le due coppie di testi e, nel complesso, l’intero ciclo compreso tra RVF 125 e 129 sono fornite da Praloran 2007a. Per quanto concerne la volontà di Petrarca che 125 e 135

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lema del dialogo RVF 359 e 360; per declinazione dell’argomento della fedeltà da punti di vista antinomici RVF 206 e 207 e questo solo per fare gli esempi più noti e riconoscibili. Detto ciò, non è mio intendimento in questa sede dare spazio ad approfonditi rilievi di carattere intertestuale effettuati nelle raccolte di rime del corpus cinquecentesco, benché non neghi che esista un certo interesse in tale operazione; diversamente, la dimostrazione dell’affinità di strutturazione logico-sintattica e motivica di canzoni poste l’una accanto all’altra nella generale e organica alternanza dei metri nei libri di poesia qui esaminati passerà solo attraverso notazioni di carattere macroscopico e indiziario al fine di completare il quadro delle tecniche argomentative fin qui delineato con qualche ulteriore spunto di riflessione. Una precisazione è essenziale e gravita attorno al problema della reale percezione che i letterati cinquecenteschi avevano dei Fragmenta. Si intuisce, infatti, che la riproposizione, in nome del magistero di Petrarca, dello stilema argomentativo ‘intertestuale’ ovvero dell’accumulo a stretto contatto di liriche la cui lettura in successione è necessaria a comprendere il completo svolgimento del tema in esse trattato sono azioni di imitatio poetica che possono derivare solo dal retto intendimento del Canzoniere come opera ad alto indice di strutturazione interna nella quale tanto il dipanarsi della trama narrativa quanto l’avvicendamento delle forme non è accidente estrinseco quanto piuttosto frutto di un geometrico calcolo strutturale. Da studi specifici compiuti sui commenti rinascimentali ai Fragmenta,137 ma anche, più semplicemente, da uno sguardo gettato sulla bibliografia critica moderna, emerge che l’interesse per analisi intertestuali delle rime petrarchesche è un fatto relativamente recente138 e che, d’altro 126 fossero considerate in maniera sinottica e che, nel complesso, fosse riconosciuto come demarcativo il raggruppamento delle cinque canzoni comprese tra Se ’l pensier che mi strugge e Di pensier in pensier, di monte in monte, si ricordi quanto provato per diversa via da Brugnolo 1991, mediante il ricorso al valore dimostrativo della mise en page compatta e unitaria di Vat. lat. 3195. 137 Cfr. Cannata Salamone 2003. 138 Santagata ancora nel 1979 scriveva: «Una indagine formale di un genere così importante nella nostra letteratura come il canzoniere lirico sarebbe certo auspicabile […]. non solo siamo ben lontani dall’aver individuato e descritto le regole inerenti ad un testo la cui catena sintagmatica non è costituita dalla successione di frasi, bensì di altri testi; ma restano ancora da delimitare, in modo non del tutto empirico, i confini che separao il canzoniere da generi

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canto, la maggior parte dei lirici petrarchisti fruivano dell’opera poetica principe senza che la sua architettura unitaria e ordinata fosse ritenuta un elemento primario o un tratto di necessità formale su cui focalizzare l’attenzione e affinare il proprio apprendistato. tanto è vero che nella costituzione dei loro libri di rime molti autori, anche di stretta osservanza petrarchesca, optavano non già per la struttura ‘chiusa’ del romanzo poetico, quanto piuttosto per un assetto ‘latamente progressivo e direzionale’ se non anche per una ‘forma aperta’, quest’ultima evidente soprattutto nelle sillogi che polarizzano in spazi non comunicanti le varie liriche raggruppandole per metro.139 Per quanto fosse labile la comprensione del macrotesto petrarchesco, nell’analisi che ne fece il suo indiscusso canonizzatore, Bembo, sopravvissero per lo meno un paio di componenti forti, da un lato quella della dialettizzazione del libro in due parti,140 dall’altro, quella della serializzazione testuale in nome del principio della continuità variata. Quanto a quest’ultimo aspetto, che per altro costituisce anche una delle poche caratteristiche della forma canzone commentate nelle Prose,141 si può richiamare quello che scrive Fedi chiosando la varia ricezione dell’opera petrarchesca nei poeti della generazione di Bembo, ma non in stretto riferimento alle sequenze di canzoni: «in ambito contenutistico, vengono spesso isolate dal loro contesto le “collane”, dedicate a particolari simbolici: la mano, gli occhi, i capelli, che tanta fortuna avranno nella lirica secentista. Segno che la memoria, in quella frammentazione raggelata e paratattica, si ritagliava sintagmi sempre più modulari, di recupero, esattamente tipizzati ed estendibili ad libitum per propria forza interna».142 Contro l’effetto di diffrazione della raccolta operano dunque gli agglutinamenti tematici e la ripercussione di schemi metrici che fanno della

affini, ma intuitivamente diversi, quali le raccolte e le sillogi poetiche» (pp.173-174). 139 Cfr. ad esempio Alamanni, Opere toscane (1532-33). Questa, per altro, è la disposizione che tradizionalmente si rilevava nelle sillogi italiane, e in senso lato romanze, prepetrarchesche. 140 Diversamente Vellutello, nel suo commento (1525) denuncia come apocrifa la sistemazione aldina e propone una divisione del canzoniere in tre parti (rime in vita, in morte, con un appendice di estravaganti) nonché un organico riordino della sequenza delle liriche. 141 Cfr. annotazioni già espresse alle pp. 81-82. 142 Fedi 1990c, 78-79.

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comparsa ripetuta in abbinamento a un certo contenuto la loro necessità formale. Di ciò è implicitamente consapevole Bembo, che, soprattutto negli Asolani, diede prova applicativa della predilezione estetica per le zone marcate dei Fragmenta che riportano canzoni in sequenza. nel i e iii libro del trattato compaiono successioni di testi con identico schema che replicano e svolgono il medesimo argomento, l’erraticità amorosa su sfondo pastorale nel primo caso e le «tre innocenti maniere di diletti che bene amando si sentono»143 nel secondo. in Asolani iii, 8, 9, 10, contrariamente a quello che si sarebbe portati a credere, la terna di elementi sensoriali e psicologici non vengono svolti uno per uno in rispettive canzoni, cosa che avrebbe comportato una frammentazione paratattica del catalogo, ma ritornano tutti in ciascuna canzone per rendere possibile una narrazione in progressione degli stadi che percorre l’amante. Come osserva Dionisotti144 iii, 8 è «la canzone dell’innamoramento, della primaverile apparizione della donna», iii, 9 è la «canzone della felicità amorosa che dura intatta in ogni avversa contingenza» e iii, 10 è «la canzone dell’ascesi amorosa». Vista, udito e pensiero, elementi comuni che fungono, assieme all’invariato riquadro metrico di cornice, da cerniera per le tre canzoni-pannello, figurano di volta in volta con ruolo mutato, prima fautori della nascita della passione, poi responsabili del suo continuo rinfocolamento e, infine, mezzi attraverso i quali si attua la spiritualizzazione del sentimento. meno forti, e tuttavia presenti e destinati ad un incremento nel prosieguo delle edizioni, i procedimenti di serializzazione di canzoni sono visibili anche nelle Rime dell’autore veneziano, come ha persuasivamente indicato Albonico145 prendendo in esame la postuma edizione Dorico (1548) nella sua completezza, reintegrando al suo interno i pezzi poetici degli Asolani che, per volontà dell’autore e di concerto con l’amico e curatore Carlo gualteruzzi, vi erano confluiti e che invece risultano espunti, probabilmente per ragioni di economia, nelle edizioni moderne che su di essa si basano.146 Se già nella princeps le canzoni, ad eccezione della prima (XXXi) e dell’ultima (LXXXiii), sono accostate in due coppie contigue Li e Lii; LXViii e LXiX, nella terza edizione aumentano gli addensamenti di 143 144 145 146

Bembo (ed. Dionisotti), 471. Bembo (ed Dionisotti), 471 e ss. Albonico 2006b. Cfr. Bembo (ed. marti) e Bembo (ed. Dionisotti).

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metri lunghi. L’inizio è ripassato mediante la giustapposizione alla canzone Felice stella il mio viver segnava della lirica asolana Preso al primo apparir del vostro raggio, che ne replica alcune rime all’interno di una struttura abbastanza regolare e, così facendo, attenua l’eccentricità dello schema della canzone alla quale è accostata.147 Questo è solo un esempio di come la prossimità di alcuni testi permetta di esaltarne i caratteri di solidarietà e di innescare nel tessuto della raccolta zone di focalizzazione metrica e tematica, con indubbie implicazioni argomentative nell’architettura generale del canzoniere. in proposito basti pensare al manipolo di poesie (dalla 75 alla 80) che marcano un cambiamento tonale rispetto a quanto precede con l’insistenza sul tema della gioia. A due sonetti seguono, infatti, un’ode-canzonetta e tre canzoni (Gioia m’abonda al cor tanta e sì pura; A quai sembianze Amor Madonna agguaglia; Se ’l pensier che m’ingombra), l’ultima delle quali è tratta del ii libro degli Asolani, mentre le prime due sono recuperate dalle Rime, in cui fin dal 1530 si presentavano l’una dopo l’altra. La compagine delle liriche, oltre a costituire una serializzazione metrica, presenta notevoli legami intertestuali che mirano a ribattere, come nota dominante di sottofondo, il motivo della dolcezza. Del resto, Albonico nota che «la scelta del luogo ove inserire i 14 testi poetici cavati dal prosimetro segue in primo luogo un criterio metrico. i pezzi recuperati da Bembo sono tutti su metri diversi dal sonetto e […] vanno sempre a collocarsi a fianco di altre canzoni, ballate o madrigali già presenti fra le rime».148 Le tre canzoni del iii libro rimangono un cuneo compatto che stabilisce una pausa di ‘discontinuità’ nel punto centrale del canzoniere, così come, poco oltre accade per le due canzoni tratte dal i libro degli Asolani. Dello spunto petrarchesco di protrarre l’argomentazione su più testi – tecnica riconfermata chiaramente agli occhi di chi scrive poesia tra gli anni ’10 e ’30 dal prosimetro di Bembo – si appropria anche Bandello che, pur nella frammentarietà che informa il suo tardo canzoniere, garantisce uno spazio omometrico conchiuso per dar prova di un discorso dipanato su tre testi sul tema tradizionale delle virtù degli occhi dell’amata. Alla descrizione della gioia ineffabile che piove nel cuore a chiunque sia toccato dal suo sguardo (cfr. per es. CLXXXii, vv. 45-47 «Voi sète que’ 147 148

Cfr. Albonico 2006b, 10. Albonico 2006b, 9.

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begli occhi che donate/ del paradiso l’arra/ a chi divoto il vostro lume segue.»), che domina nel primo quadrante del trittico, si avvicenda l’espressione del desiderio di riconquistare la luminosa vista dell’amata dopo una lontananza penosa (CLXXXiii, vv. 7-11 «il tempo vola e fugge,/ e giusto fora pur dopo ’l digiuno/ le mie gran fami d’uno/ giro gentil dei vostri sì soavi/ quetar, che del mio cor portan le chiavi») e infine un bilancio temporalmente orientato dell’azione benefica che la sequela degli occhi ha prodotto nella vita del poeta (CLXXXiV, vv. 18-19 «Voi di virtù la strada/ prima m’apriste col tremante raggio», vv. 23-25 «Per voi la vita or non mi spiace ch’era/ a me noiosa, e a sdegno,/ quando viveva peggio assai che morto», vv. 45-47 «Vile era anzi pur morto prima ch’io/ del vostr’altiero sguardo,/ luci serene, avessi ancor contezza»). esempio di un’argomentazione prolungata e concepita fin dall’inizio per occupare l’intervallo metrico di due testi giustapposti l’uno accanto all’altro è il dittico che Ariosto scrive in occasione della morte di giuliano de’ medici, investendo l’evento luttoso della responsabilità di collante tra due voci distinte e accostate, quella di Filiberta di Savoia che si immagina pronunciare iV e quella del defunto marito, a cui spetta la risposta confortante in V. tra le due canzoni riecheggia in primo luogo la cadenza metrica, soprattutto nell’attacco, grazie alla scelta da parte del poeta ferrarese di adottare due schemi metrici differenziati (RVF 270 ABbC. BAaC. CDeeDFF per iV e RVF 264 ABbC. BAaC. CDeeDdFfgg per V) ma esattamente sovrapponibili fino all’undicesimo verso di ciascuna stanza. Sebbene dal punto di vista dello svolgimento argomentativo i componimenti sembrino assai distanti, questo loro carattere di reciproca alterità è precisamente ciò che rafforza l’idea di una loro concomitante concezione. Se la vedova affranta nel suo lamento si dispera per la perdita materiale del suo sposo e invocandolo mette l’accento, a riprova della sua fedeltà e del suo affetto, sul rapido sfiorire della sua bellezza da lui lodata durante il matrimonio fino a farla inorgoglire e sulla grande perdita che l’italia ha subito con la scomparsa di un uomo del suo valore e virtù,149 giuliano, 149 Sul tema della bellezza terrena in Ariosto iV, cfr. i vv. 11-15 «gli occhi che già mi fur benigni tanto/ volgi alli miei, ch’al pianto/ apron sì larga e sì continua uscita;/ vedi come mutati son da quelli/ che ti solean parer già così belli.»; vv. 16-20 «La infinita inefabile bellezza/ che sempre miri in ciel, non ti distorni/ che gli occhi a me non torni,/ a me, che già mirando, ti credesti/ di spender ben tutte le notte e i giorni»; vv. 31-39 «io sono, io son ben dessa; or vedi come/ m’ha cangiata il dolor fiero ed atroce,/ ch’a fatica la voce/ può di

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dal canto suo, non può affrontare la consolatio della moglie che dal punto visuale che ora gli è proprio e quindi non da un terreno argomentativo dilatato sulla sfera mondana e caduca di una vita onorata, bensì dalla sua prospettiva di beato. Per tutta la sua tirata enfatizza la vera bellezza di cui può fregiarsi la consorte, la sua virtù intonsa che è superiore a qualsiasi gloria di casato e presto la ricondurrà, anche lei beata, nei cieli di nuovo accanto a lui.150 Questa è precisamente la risposta risarcitoria complementare al planctus di iV, nonostante apparentemente le due canzoni sembrino procedere spaiate e mosse da due ispirazioni divergenti.151 È ininfluente sul giudizio in merito alla rilevanza della seriazione di questi due testi opporre l’obiezione che solo il primo, spaiato dal secondo, sia stato promosso e infiltrato nel tessuto del canzoniere ariostesco testimoniato in Vr. in questo caso si tratta solo di un esempio di rifunzionalizzazione lirica di una poesia precedentemente composta all’interno di un libro nel quale il focus sulla vicenda amorosa non pativa di essere scalzato dall’addensamento tematico prodotto da due testi a motivo occasionale. Al di là dell’impaginazione della raccolta di rime resta intatto il valore argomentativo unico e solidale che Ariosto volle imprimere alle due canzoni nel momento della composizione. infine, anche nell’articolata raccolta britoniana si possono scorgere due zone di particolare rilevanza per la messa in serie di canzoni dallo schema simile che svolgono in progressione argomentativa un preciso mome dar riconoscenza vera./ Lassa! che al tuo partir partì veloce/ da le guance, da li occhi e da le chiome/ quella a cui davi il nome/ tu di beltà, ed io n’andava altèra,/ ché mel credea, poi ch’in tal pregio t’era.». Sulla concezione dell’onore e sul topos del lamento della patria sulla tomba del defunto, vedi i vv. 76-84 «La cortesia e il valor, che stati ascosi/ non so in qual’antri e latebrosi lustri/ eran molt’anni e lustri,/ e che poi teco apparvero, e la speme/ che in più matura etade all’opre illustri/ pareggiassi di Publi e gnei famosi/ tuoi fatti glorïosi,/ sì ch’a sentir avessero l’estreme/ genti, ch’ancor vive di marte il seme»). 150 Cfr. Ariosto, V, soprattutto la sezione centrale del testo tra str. vi e vii, vv. 100-113 «non godo men ch’all’inefabil pregi,/ ch’avrai qua su, veggio ch’in terra ancora/ arrogi un ornamento che più onora/ che l’oro e l’ostro e li gemmati fregi;/ le pompe e i culti regi/ sì riverir non ti faranno, come/ di costanzia un bel nome,/ e fede e castità, tanto più caro,/ quanto esser suol più in bella donna raro.// Questo è più onor che scender da l’augusta/ stirpe d’antiqui ottoni, estimar déi;/ di ciò più illustre sei,/ che d’esser de’ sublimi, incliti e santi/ Filippi nata ed Ami ed Amidei/». 151 Cfr. anche quanto detto qui alle pp. 304-305.

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tivo. gli addensamenti metrici sono ponderosi perché coinvolgono più di tre unità e si distribuiscono simmetricamente nelle due parti in cui il canzoniere è diviso. il primo gruppo di poesie procede da i, 235 a i, 239 e vede l’impiego nelle due canzoni iniziali di schemi petrarcheschi con fronte identica e con impaginazione della sirma caratterizzata da una successione rimica similare, pur in una differente alternanza di versi (i, 235 e i, 236 riprendono rispettivamente la testura ABC. BAC. cDdeeFF di RVF 207 e quella di RVF 50 ABC. BAC. cddeeFeF). L’argomento, evidente fin dagli incipit della coppia di liriche, è quello del circuito di speranza e disillusione in cui il poeta è imprigionato152 e che gli causa sempre più aspri tormenti, tanto da fargli ritenere che la sua esistenza, trascorsa in uno stillicidio di giorni consacrati ad un amore impossibile ed infelice, sia stata segnata da una cattiva stella.153 gli altri tre componimenti (i, 237, i, 238, i, 239), invece, presentano schemi inediti e provvisti di irregolarità progressivamente più evidenti, come si scorge dalla tavola a p. 107, e sono tutti accomunati da un, seppur lieve, scatto in avanti del discorso ad uno stadio progressivo. La canzone i, 237 funge da punto mediano e di transizione tra i due blocchi di testi poiché in essa si situano la constatazione disincantata dell’irremovibilità dell’amata che il poeta, non essendo orfeo, si rende conto di non poter nemmeno scalfire con il suo canto154 e il conseguente annuncio della prossima esacerbazione dei lamenti. Cfr. l’attacco di i, 236, vv. 1-6 «Di speranza in speranza amor m’inganna/ et d’uno in altro error la mente afflige/ che ’l cor non vive sol tranquillo un giorno/ nel carcer dove avolto lo trafige/ un pensier, che continuo l’alma affanna,/ il qual con simil dir gl’è sempre intorno». 153 Cfr. i, 235, vv. 40-43 «Ben mi istimo dal punto che qui nacqui/ ch’ogni parte del cielo in odio m’hebbe,/ tal mi veggio menar di pena in pena». 154 Al centro metrico della canzone, nella iv strofa, si installa, sbilanciato sulla fronte mediante una connessione tra l’ultimo verso del piede e il primo della sirma, il contrasto tra la capacità di orfeo di ammansire anche gli elementi più ostili e la poesia dell’io lirico, accolta pietosamente dalla natura ma del tutto inascoltata dalla donna amata. Cfr. vv. 4052 «o felice colui che ’l duol in canto/ con dolce plettro e con plorante lira/ risonar seppe sì ch’al fin pur vinse/ megera, Aletto, Pluto e rhadamanto/ et per gran spatio ogni odio, sdegno et ira/ de l’ombre inferne estinse/ porgendo tregue ov’è continuo affanno./ et io quasi dal dì che ’n culla giacqui/ vago non d’altro che del proprio danno/ come volse il destin sotto cui nacqui/ piangendo mai non tacqui:/ né addolcir potei mai la rigida alma/ che d’ogni vero honor porta la palma.» 152

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il congedo, spazio per eccellenza ritagliato ad ammicchi metalinguistici, dichiara l’impaginazione macrotestuale del raggruppamento dei componimenti e il senso della seriazione come necessità stilistica che nell’accumulo vede uno dei mezzi per rendere espressivamente un movimento in crescendo: Canzon, se due sorelle tu lasci adietro, havrai ben tosto l’altre che teco piangeran pur del mio stato più delle prime inarcebite et scaltre bench’io sappia ch’el dir non fia sì ornato quale aspro è ’l foco usato, né t’attristar se lui no stringo e freno che tu non basti ragionarne a pieno. (Britonio i, 237, vv. 92-99)

A questo punto l’io lirico si sente legittimato a volgere le sue rime interamente al lamento e, nella stretta di fronte a cui lo pone la donna, sorda alle sue richieste di pietà, si risolve ad abbandonare anche i solitari pianti rivolti alla natura e a depositare nella parola scritta il suo sfogo, consapevole che la morte è vicina e che solo in questo modo potrà lasciare testimonianza veritiera e duratura della sua vicenda di amarazze.155 L’intenso ciclo elegiaco è concluso dall’invio dell’ultima canzone,156 che ribadisce ancora una volta e a ritroso, mediante l’insistenza sul verbo ‘ragionare’, il nucleo tematico compatto di pensoso rovello trattato nelle liriche accostate, in cui il poeta cerca di trovare un varco per uscire da

i, 238, vv. «Qual tuo sì accorto inganno, oimé qual arte/ m’indusse al stato in cui/ vergo de’ miei sospir pur tante carte?/ Per far del mio penare al mondo fede,/ Signore altra mercede/ mertava el pianto, dove per te sono,/ ma stolto è ben chi in tua potentia crede,/ et di mie voci il suono/ faccia altrui fe’, di te quel ch’io ragiono»; i, 239, vv. 1-7 «mentre più cresce il duol ne l’anima afflitta/ et la pietà in madonna giace morta,/ e ’l cor piangendo ditta,/ non cercarò per lui più fida scorta/ che queste charte e l’angosciosa penna,/ acioch’io lasse scritta/ la dura Historia di mie pene acerbe» e vv. 77-81 «Hor d’altra guisa i’ vivo nel tormento/ che quel che dir non oso, i’ spiego in charte,/ acioché quando l’alma/ dal suo carcer terreno si diparte/ testimon reste de l’antica salma.» 156 Cfr. i, 239, vv. 120-123 «Canzon, tu pur vai ragionando inanzi/ di quel che n’è più affanno/ e come l’altre quattro non t’accorgi/ che di pari le rime e ’l duol vanno» 155

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un tormento quotidiano e divenuto ossessivo.157 nella seconda parte del canzoniere britoniano, poi, le ben sette canzoni collegate (da ii, 359 a ii, 366 con interposizione di una sestina in terz’ultima sede) ripropongono con funzione enfatizzante di affastellamento in escalation la tematica della metamorfosi e dell’analogia tra il poeta e alcune celebri figure del mito tratte dal repertorio ovidiano a declinazione amorosa. Per concludere, sarà utile aggiungere che la logica che stringe i testi non pertiene solo alla compattezza delle suggestioni tematiche, ma anche al reimpiego dei medesimi accorgimenti stilistici.158 Ciò conferisce, al di là della serializzazione metrica, il senso di una studiata dispositio argomentativa che si fonda sull’«amplificazione ed estenuazione degli strumenti retorici»159 offerti dalla tradizione (quale ad esempio quello del quadro figurale dal sapore mitologico contro cui si staglia l’io lirico, tipica soluzione dei polittici petrarcheschi).

il reiterarsi della pena amorosa, la sua ineluttabilità e la conseguente inquietudine del poeta sono i veri fili rossi tematici che emergono con espressioni simili, in tutti e quattro i componimenti della serie, tranne il primo: i, 236, v. 3 «che ’l cor non vive sol tranquillo un giorno»; i, 237, v. 69 «per che quieto un dì non viva in terra»; i, 238, v. 44 «ond’io non spero mai tranquilla un’hora»; i, 239, v. 59 «Però che tregua un dì non hebbi mai». Le cinque canzoni sono interconnesse anche da elementi stilistici quali riprese lessicali di tipo capfinido e il ricorso a stilemi comuni come dittologie sinonimiche, antitesi, ossimori, come ha notato Grippo 1996, 23-24. 158 Anche qui cfr. Grippo 1996, 24, che pone l’accento sull’intesificazione della sintassi inarcata a sottolineare il carattere ragionativo e argomentativo dei testi. 159 Grippo 1996, 19. 157

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V i nUCLei SemAntiCo-FormALi

5. 1 i nuclei semantico-formali petrarcheschi nella pratica degli autori Forse a ragione della fortuna che si ritagliò nella storia della nostra lirica e che lo vide proliferare in tutte le raccolte poetiche e perfezionarsi sempre più come contenitore versatile per differenti strategie espositive, forse a causa delle sue caratteristiche di autosufficiente brevità, o semplicemente grazie al fatto che la serrata gabbia metrica da cui è circoscritto ne agevola un’analisi strutturale più sistematica, il sonetto di Petrarca pare avere goduto, soprattutto recentemente, di un interesse critico ineguagliato a confronto delle altre forme liriche. il riferimento non può non andare a studi esemplari come tonelli 1999 e Soldani 2009, contributi ai quali deve essere riconosciuto il merito di non essersi soffermati sulla puntualizzazione degli aspetti stilistici di singoli testi con approcci che per voler essere diversificati finiscono poi per cadere nella dispersività, ma di aver tentato di fornire degli strumenti di sintesi innestati in una solida prospettiva metodologica, con tutta la consapevolezza dei rischi connessi alle generalizzazioni e della inevitabile perdita di sfumature correlata al processo di riduzione a schemi. il set concettuale che ne esce è persuasivo e acquista un valore paradigmatico perché indica una possibile strada da percorrere anche a chi voglia intraprendere un itinerario attraverso le numerosissime realizzazioni del sonetto cinquecentesco: e ciò avviene nonostante, o per meglio dire, proprio grazie al fatto che il campo primario di individuazione e di applicazione delle categorie critiche sono esercizi poetici di Petrarca. È Petrarca che stabilizza e consegna alle generazioni future le forme che faranno tradizione, è sempre Petrarca quel 359

maestro amato, imitato, rinnegato o eluso con cui si confrontano i lirici del Cinquecento e per questa confluenza di motivi appare evidente quanto sia giovevole se non persino necessario uno studio preliminare dei congegni petrarcheschi per scrutare il segreto della dialettica di tradizione e innovazione della forma che percorre il nostro classicismo letterario rinascimentale. Purtroppo se luminosi sprazzi interpretativi sono stati aperti sul sonetto nelle varie vesti in cui appare nel Canzoniere, si deve attualmente constatare la mancanza di uno studio esaustivo sulla canzone petrarchesca che individui eventuali costanti di costruzione metrico-sintattica1 o che inquadri in un ampio contesto i segreti di quei magistrali intrecci di sintassi, retorica e argomentazione che si colgono nelle canzoni e che sono divenuti fin da subito emblematici e quindi particolarmente esposti al processo emulativo. L’ipotesi che sorge spontaneo formulare è che vi siano oggettivi e sostanziali ostacoli ad un delineamento del modello della canzone petrarchesca che dipendono dalla natura della forma stessa, dalle varie possibilità a cui si apre e dalla caratterizzazione individuata e unica di ogni esercizio. ma, naturalmente, finché non si chiariranno nel dettaglio le coordinate peculiari e macroscopiche che questa imponente struttura lirica fissa sull’asse sincronico del libro dei RVF e che qui io ho tentato di accennare o delineare solo a tratti, sarà rischioso inoltrarsi in considerazioni diacroniche che ambiscano ad una valutazione sulla permeabilità e sul trapasso di questi stessi procedimenti formali nella tradizione successiva e in particolare in quella “petrarchista” del Cinquecento, per la definizione della quale, in opposizione alla poesia cortigiana, si continuerà a fare appello solamente a rilievi di carattere più specificamente linguistico, lessicale o metrico in senso stretto. Per questo un interessante piano d’indagine, seppure ancora parziale e scorciato, che permetta di scandagliare con una qualche pertinenza i problemi di tradizione della forma può risultare quello suggerito da Praloran nel saggio intitolato Una nota sul Petrarchismo metrico.2 in questa

non bisogna nascondere il fatto che la canzone, per la sua natura di forma strofica lunga, è dotata di una maggiore elaborazione del sonetto e si piega con più resistenza ad un’analisi rigida e geometrica. nonostante la complessità che caratterizza questo tipo di studi, alcuni contributi significativi vengono dalle indagini prosodiche di Bozzola 2003 e sintattico-argomentative di Praloran 2003b. 2 Lo studio compare nella raccolta curata da Daniele 2004, 79-88. 1

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sede lo studioso esordisce lodando l’utilità dei lavori di catalogazione3 delle riprese di schemi metrici del Canzoniere registrabili nel corso del Quattrocento e del Cinquecento, al fine di fotografare una panoramica di questo periodo della nostra poesia lirica. Subito dopo, però, ravvisa la necessità di mettere a frutto tali acquisizioni per procedere oltre nell’analisi, intaccando la superficie del puro dato metrico con lo scopo di verificare se si possa parlare di una certa “vischiosità delle testure”, per cui determinati schemi petrarcheschi procederebbero nel fiume della tradizione trattenendo legati a sé non solo la tipologia dei contenuti che veicolano, ma anche i loro specifici lineamenti sintattici ed argomentativi. L’intuizione deriva dall’osservazione che le canzoni petrarchesche (e, forse, in particolar modo alcune più di altre) sono provviste di un’inequivocabile fisionomia a motivo della loro perfetta compattezza e coerenza formale, la quale, essendo molto di più di un rivestimento casuale, non può di conseguenza non essere colta e tramandata se non nell’integrità tendenziale delle sue componenti. Per usare un parallelo filologico, come nei testi poetici antichi i procedimenti fortemente strutturati della misura versale e della regolata alternanza delle rime agivano da corazza protettiva contro la corruzione insita nei tortuosi e malcerti passaggi della trasmissione, così, in un certo qual modo, l’inconfondibile profilo metrico e stilistico di alcune canzoni petrarchesche avrebbe prodotto una sorta di nuclei semantico-formali che avrebbero opposto una certa resistenza a slabbrarsi sotto le caute pressioni di chi, affascinato dalla loro perfezione, unica al punto di far scuola, li avesse voluti imitare o riaccostare in autonomia.4 i rinvii sono a gorni 1973, gorni 1987a e a Balduino 1995. Cfr. Praloran 2004a, 81: «Un discorso metrico sull’imitazione ha tutta una serie di riflessi ancora in parte inevasi. Soprattutto si avverte la necessità di legare le forme metriche, intese come schemi, alle forma linguistiche che a contatto con esse si modificano in modo molto marcato. La forma metrica: il sonetto o la canzone, ma in altri ambiti l’ottava, sono dei filtri che non possono non influenzare già obiettivamente, al di là delle scelte soggettive dell’autore, la dinamica della composizione, la sintassi come punto di maggior rilievo e l’argomentazione che a loro volta, fra di loro, sono strettamente dipendenti. in questa prospettiva si creano nella tradizione dei nuclei formali, anche in parte semantici, che si irradiano, che sono soggetti ad una fortuna storico-istituzionale». Su questo argomento, si vedano anche elwert 1983, 392 «la forma metrica non è niente di accessorio o di appiccicato […], essa esprime in se stessa un messaggio che si riferisce al contenuto tematico della canzone»; e Fubini 1962, 290, «lo schema delle canzoni di Petrarca non ci appare mai imposto dal di fuori, ma è ricavato ogni volta dal di dentro, ed egli, con piccolissime 3

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5.1.1 Sannazaro Praloran 2004a documenta la validità di una simile ipotesi a riguardo della canzone mediante un esempio molto chiaro, prelevato dalla raccolta poetica di Sannazaro. Si tratta di Amor, tu voi ch’io dica (2, Liii), lirica composta sul cartone di RVF 125 che ben esemplifica come l’impeccabile recupero dello schema metrico sia solo il primo esteriore segnale di una «strategia imitativa molto più complessa» e circostanziata. entrando in questa logica si verifica come il poeta napoletano abbia ereditato completamente le ricchezze del capolavoro petrarchesco Se ’l pensier che mi strugge. L’apertura alla ricezione, con riflessi e conclusioni giustamente personali e soggette alla temperie dei suoi tempi, riguarda non solo la metrica e la tematica, che è quella dura della difficoltà di forgiare un canto poetico capace di rendere fedele testimonianza alla pressante passione amorosa, ma anche gli accorgimenti stilistici e il passo argomentativo ad esse collegati con maestria da Petrarca. in questa parte del saggio lo studioso descrive strofa per strofa la canzone sannazariana con attenzione agli snodi contenutistici ma anche agli aspetti dello stile. Da un confronto sommario ma puntuale con il modello di riferimento Praloran conclude che essa segue e riproduce di pari passo, mantenendo le stesse misure e le stesse pause, gli anelli argomentativi a sviluppo progressivo di RVF 125, ma d’altro canto trascura solo alcuni mirati espedienti formali. Dunque, è un parallelo stringente con RVF 125 quello realizzato da 2, Liii, parallelo visibile fin dalla prima strofa, che, se confrontata con l’incipit petrarchesco in «ottativo negativo»,5 appare più semplice, ma se confrontata con la iv strofa dello stesso testo, si mostra quasi perfettamente solidale con il modello nel riprendere la messa in evidenza retorica dei verbi “dire”, “tacere” ed “ascoltare” piegati ad una finale notazione macabra.6

variazioni, lo adatta alla situazione propria di ogni canzone». 5 Praloran 2004a, 86. 6 Cfr. la strofa sannazariana qui riportata e commentata alle pp. 172-173 con i vv. 40-45 di RVF 125 «Come fanciul ch’a pena/ volge la lingua et snoda,/ che dir non sa, ma ’l più tacer gli è noia,/ così ’l desir mi mena/ a dire, et vo’ che m’oda/ la dolce mia nemica anzi ch’io moia», che presentano anche se più attenuato, il poliptoto sul verbo “dire” e una tenue allusione alla vicinanza della morte al v. 45.

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nel quadro di impressionante fedeltà di questa lirica cinquecentesca al relativo nucleo semantico-formale del Canzoniere, è fruttuoso soffermarsi più che sulle riproduzioni, sulle leggere prese di distanza di Sannazaro e sugli adattamenti a cui egli sottopone lo scheletro dell’archetipo. Per tutti i minuti rilievi si rinvia alle pagine 85-89 del saggio succitato, ma qui basterà menzionare un solo esempio, decisamente significativo, perché si presta a delucidare gli estremi della questione. nella sua canzone Sannazaro sceglie consapevolmente di esporre, come cifra dell’inadeguatezza della tecnica poetica, rime consonantiche e difficili (proprio come erano «rime aspre et di dolcezza ignude»7 quelle iniziali nel testo petrarchesco, che lo rendono rilevato nella raccolta e ne determinano il profilo). Poi, però, al contrario di quanto stabilirebbe il copione di Se ’l pensier che mi strugge, le mantiene, sempre con moderata frequenza, per l’intera lirica, senza riprodurre il noto rovesciamento stilistico verso la dolcezza delle ultime stanze. Forse questo si spiega supponendo un ipercorrettismo di Sannazaro, che avrebbe voluto evitare che la disomogeneità dei toni del componimento potesse essere avvertita come disarmonica o ‘anticlassica’, ma forse, in concomitanza con ciò, giova mettere in conto un ulteriore indizio interpretativo. La diversificazione della connotazione stilistica è conforme in RVF 125 ad un ribaltamento nei contenuti, dal motivo dell’inefficacia del canto al motivo pastorale della presenza di Laura negli elementi naturali sfiorati dal suo passaggio. È all’incirca a quest’altezza, tra la iv e la v stanza, che il testo petrarchesco asseconda la necessità formale di una secca svolta che indirizzi con risolutezza l’altalenante ragionamento delle strofe precedenti su una rotta precisa. La virata tematica, con tutta la sua potenza di improvviso, è percepita con prontezza dall’emulo del Cinquecento che però, dopo aver risalito fino a questo vertice la pendice petrarchesca, non scivola lungo il crinale segnato, interrompe bruscamente l’ossequio e imprime un sigillo proprio al finale. La catastophé del testo di Sannazaro non giunge con l’invocazione ai dolci luoghi che si sono impregnati dell’aura dell’amata, ma con il proposito di abbandonare la flebile elegia d’amore, non solo imperfetta, ma anche infruttuosa, e rivolgere quindi le rime, con movenza del tutto umanistico-rinascimentale, ad argomenti più alti e vigorosi per ottenere gloria futura. Ciò è messo in evidenza dalla ricca serie di imperativi parenetici che Sannazaro invia a se 7

Cfr. RVF 125, v. 16.

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stesso ai vv. 53-58 «Alma, riprendi ardire/ e dal continuo pianto/ ti leva al ciel, che già t’affretta e chiama;/ rifrena il gran desire/ e con più altero canto/ ti sforza d’acquistare eterna fama» e ai vv. 64-65 «Drizza le voglie accese/ a più lodate imprese.». Come non stupisce che il poeta cinquecentesco, animato dallo spirito dei classici, pronunci in extremis della canzone una pretesa recusatio di quel genere di poesia che non cresce e non si innalza assieme alla speranza di fama e immortalità, così non dovrebbe apparire fortuito che la parte elusa del testo di Petrarca sia quella formidabile incentrata sull’epifania fantasmatica di Laura nel paesaggio e appuntata sul valore consolatorio che le poche vestigia rimaste di questa esperienza assumono. il feticismo cui porta finalmente il desiderio a lungo inappagato, espresso dalla ricerca spasmodica e trasognata di orme, di tracce evanescenti dell’amata negli elementi naturali,8 rimane così un inattingibile oscuro recesso della raffinata psicologia petrarchesca e il distacco tematico del poeta cinquecentesco assume i caratteri dell’inevitabilità più che della libera opzione. Una conferma di ciò potrebbe essere ravvisata nella canzone Valli riposte e sole (2, LiX), che si lega, con interposta distanza di 5 sonetti ad Amor tu voi ch’io dica e che parte dal ricordo della seconda del dittico delle pastorelle, RVF 126 (di cui, inutile ricordarlo, riprende lo schema metrico). L’incipit dichiara senza dubbio la fonte sin dalla sua struttura: come la i strofa petrarchesca era delimitata in esordio dalla sequenza di vocativi ad acque, rami, fiori ed aria del luogo reso sacro dall’incontro con Laura e, sull’estremità, dal presagio di una morte imminente (v. 13 «dolenti mie parole extreme»), così qui risponde un’allocuzione rivolta a componenti personificate dell’ambiente circostante a cui si richiede di accogliere il lamento del poeta e di custodirlo religiosamente come in un cenotafio (v. 13). Valli riposte e sole, deserte piagge apriche, e voi, liti sonanti et onde salse, se mai calde parole

Cfr. l’ultima strofa di RVF 125, in particolare i vv. 66-72 «ovunque gli occhi volgo/ trovo un dolce sereno/ pensando: Qui percosse il vago lume./ Qualunque herba o fiore colgo/ credo che nel terreno/ aggia radice ov’ella ebbe in costume gir fra le piagge e ‘l fiume».

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vi fur nel mondo amiche o se de’ pianti uman giamai vi calse, prendete or le non false querele e i miei martiri, ma sì celatamente che non l’oda la gente, né il vento ne riporte i miei sospiri in parte ove io non voglia, ma qui se stia sepolta ogni mia doglia. (Sannazaro, 2, LiX, str. i, vv. 1-13)

Per riprodurre il lieve patetismo di RVF 126 Sannazaro cerca di imitare il medesimo espediente formale di tendere al massimo i confini della campata sintattica fino a plasmare una strofe monoperiodale. mentre l’avvio petrarchesco solleva la potenziale tensione intonativa derivante da una frase di 13 versi con testa verbale nel penultimo, attraverso l’abile bilanciamento di procedimenti simmetrici e asimmetrici,9 la scelta di Sannazaro va verso la semplificazione, nella misura in cui compatta i vocativi all’interno del primo piede, colloca in posizione prolettica e quindi non marcata una proposizione ipotetica nel secondo e finisce per irradiare il periodo dalla concatenatio, centro ideale (e in questo caso anche spaziale)10 della strofe, con risultato più prosastico, specie a causa dell’anafora della congiunzione «ma» ai vv. 9 e 13. tuttavia, già dalla ii stanza si apre una divaricazione tra le due canzoni dovuta ad un mancato intendimento della pregnanza del motivo tematico chiave di 126 e ad una conseguente torsione della sua linea di

mi limito solo a qualche esempio. elementi di ordine simmetrico sono la ripetizione nella fronte dello stilema di vocativo seguito da relativa introdotta da «ove» che complessivamente occupa di volta in volta lo spazio di 3 versi (vv. 1-3; 4-6) e la prosecuzione di un’analoga costruzione del periodo anche nella sirma, senza soluzione di continuità; elemento di variatio è la presenza di un vocativo espanso con «che», sempre di 3 versi (vv. 7-9) e quella di un vocativo ristretto su due versi, ma nuovamente espanso da «ove» (vv. 9-11), che risponde però in misura al distico finale, in cui è contenuto il verbo reggente dell’intera frase. Cfr. anche la nota 75, p. 165. 10 La struttura dello schema metrico di RVF 126, di 13 versi prevede che il 7 verso divida in due parti equipollenti, di 4 settenari e 2 endecasillabi, la strofe. Questo, unito al fatto che esso ha rima di concatenatio ne fa una saldatura perfetta, una transizione melodica tra fronte e sirma. 9

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sviluppo. non appare forse credibile e trasportabile alla propria esperienza la finzione di un’apparizione fantasmatica dell’amata lontana, rievocata dagli elementi bucolici in quell’osmotica distanza tra passato, presente e futuro che il tempo scandito dall’anima può colmare in un solo istante. Pertanto Sannazaro appiattisce la prospettiva praticamente all’hic et nunc e immagina con maggiore verosimiglianza la donna assente in un nuovo contesto, la cui posizione rispetto a chi parla è indicata con dovizia di aggettivi dimostrativi e di avverbi deittici (in insistente anafora). Ben vedi, anima trista, quella parte sì lieta che rasserena i poggi d’ogn’intorno: ivi è l’amata vista di quel vivo pianeta che solea agli occhi miei far chiaro giorno; ivi è il bel riso adorno, le parole gentili; ivi i soavi accenti, cagion de’ miei tormenti; ivi son gli atti e le accoglienze umili, miste con dolci orgogli; et io piangendo vo per questi scogli. (Sannazaro, 2, LiX, str. ii, vv. 14-26)

Come si accennava sopra, la complessa oscillazione temporale petrarchesca tra la fantasticheria lugubre sulla propria morte proiettata in un futuro di risarcimento (ii-iii stanza di 126) e l’altrettanto confortante ricordo di Laura immersa nella pioggia di fiori è completamente obliterata dal poeta napoletano. Con questa omissione massiccia Sannazaro tenderebbe tra le sue iii e iv stanza a riallinearsi con la v di Petrarca, cioè con la stanza in cui il poeta racconta, mediante l’iconico artificio formale della spezzatura dei versi, di essersi sentito «carco d’oblio» e «sì diviso/ da l’imagine vera» in un indimenticabile momento estatico. il poeta cinquecentesco si riallaccia, con il recupero della riconoscibile tessera lessicale «diviso»11 come rejet di un enjambement segnalato, al motivo dell’aliena11

Cfr. 2, LiX, vv. 33-34 «ond’or conven ch’io avvampi/ diviso e sì lontano».

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zione interiore, dell’«allontanamento dalla realtà fisica»,12 ma lo travisa poiché si sforza intempestivamente di recuperarlo attraverso l’escamotage dal sapore cortigiano della fuga dell’anima dell’amante13 che per estrema devozione si stacca dal corpo cui era legata e raggiunge la domina lontana, lasciando in fin di vita il suo possessore tradito. Scorrendo velocemente l’indice dei capoversi iniziali delle canzoni di Sannazaro si trovano, poi, altri esempi riguardanti la rilevanza di nuclei semantico-formali provenienti dal patrimonio del Canzoniere:14 2, LXXXiii con schema di RVF 129 principia come canzone di vagabondaggio e di lontananza e ammicca appunto a Di pensier in pensier, di monte in monte, nella replicazione anaforica dell’incipit «in qual dura alpe, in qual solingo e strano/ lito andrò, in qual sì nudo scoglio» (vv. 1-2), nel mantenimento dell’allusione ad un paesaggio vagamente montuoso, nella dislocazione della struttura sintattica ipotetica, che occupa il secondo piede della stanza iniziale petrarchesca,15 nel primo piede della ii stanza: vv. 14-16 «Se al freddo tanai, a le cocenti arene/ di Libia io vo, se dove nasce il sole/ o dove il sente in mar strider Atlante». 2, LXiX raccoglie testura e strumenti formali da RVF 128 Italia mia, benché ’l parlar sia indarno per sviscerare un tema politico irenistico. Lo sguardo a distanza alla linea guida petrarchesca è evidente anche solo dal banale confronto degli attacchi delle prime due strofe che riecheggiano

Così Contini chiosa l’ellittico sintagma petrarchesco «diviso/ da l’imagine vera» (vv. 59-60). Questo tema è accennato anche da altri autori censiti in questo corpus, ossia da molza, nella canzone iii (vv. 42-49 «però stassi il cor vosco/ ov’è ben chi gl’insegna/ di ciascuna virtù giunger ai pregi;/ e i lochi almi ed egregi/ ne i quai raro vi vidi/ talor va ricercando/ strettamente pregando/ di ritrovarvi in sì soavi nidi») e da Bembo nelle due canzoni dello scambio di cuori Asolani ii, 9 e Rime XXVi. Per completezza specifico che il motivo topico del cuore che viene diviso dall’amante è annoverato anche nel Canzoniere, ad esempio nel distico conclusivo del congedo di RVF 129, vv. 71-72 «ivi è ’l mio cor, et quella che ’l m’invola;/ qui veder pôi l’imagine mia sola». esiste però una differenza di toni nell’uso di questo spunto perché per gli autori cinquecenteschi la figurazione di partenza è caricata fino a raggiungere l’aspetto di una drammatizzazione stilizzata. 14 Anche Gorni 1973, 21 nota che in Sannazaro la ripresa del metro petrarchesco «è ben spesso indizio anche di congruenza tematica». 15 Cfr. RVF 129, vv. 3-5 «Se ’n solitaria piaggia, rivo o fonte,/ se ’nfra duo poggi siede ombrosa valle,/ ivi s’acqueta l’alma sbigottita». 12 13

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inconfondibilmente per la struttura l’archetipo.16 Se si dovessero formulare delle considerazioni d’insieme sull’atteggiamento poetico di Sannazaro nei rispetti delle canzoni petrarchesche e di supposti nuclei formali che esse delineano, dopo questo rapido excursus si potrebbe concludere che il Canzoniere, in più di un caso, congiunto ad uno schema metrico fornisce un suggerimento tematico concentrato con maggiore riconoscibilità nelle prime strofe, una sorta di “la” iniziale sul quale appoggiarsi per sviluppare una variazione personale, un esordio volutamente identificabile che prelude ad uno svolgimento poi originale. Questa tecnica imitativa in parte assomiglia a quella che caratterizzava il tentativo di orazio di acquisizione e reinvenzione dei lirici greci a partire da una citazione o da un motto celebre. Come nel caso antico, anche per il poeta cinquecentesco l’esibizione incipitaria del modello non è funzionale solamente a rendere più prezioso il componimento, ma anche a rievocare il genere e la forma stessa che si pratica, con un breve cenno di appartenenza, quasi a volersi iscrivere con tutto diritto all’interno di una tradizione canonica e riconosciuta.

5.1.2 Bembo nuclei formali petrarcheschi si ritrovano ben conservati anche in alcuni testi poetici degli Asolani di Bembo, altro autore, come Sannazaro, educato alla scuola dei Fragmenta fin dalle sue prime prove. Si tratta delle canzoni che segnano i margini finali di ciascuno dei tre libri del prosimetro e che, lì collocate, si autodenunciano come i risultati più elevati dell’arte dei personaggi che nella finzione le pronunciano. A coronamento del libro di Perottino, Bembo pone due canzoni sorelle (i, 32 e i, 33) che mutuano entrambe la testura da RVF 129. L’apparentamento è giustificato non già da esteriori ragioni metriche di identità il verso iniziale di 2, LXiX «incliti spirti, a cui Fortuna arride» in realtà sposta fin da subito il destinatario della poesia, in sintonia con l’individualismo che emerge nell’età rinascimentale, dall’entità astratta dell’italia, alle forze politiche; ma poi i due versi iniziali delle rispettive seconde stanze con il vocativo «voi» espanso da una relativa, si corrispondono molto bene: RVF 128, v. 17 «Voi cui Fortuna à posto in mano il freno»; 2, LXiX, v. 17 «Voi che sempre fuggendo il volgo sciocco». 16

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di schema, bensì da motivi contestuali di tematica17 e di costruzione che si precisano, ad una lettura attenta, come indizi di una riscrittura sdoppiata, appunto, del già citato testo petrarchesco. Dal prisma dell’autore veneziano la canzone degli errori,18 intesi nella plurisemantica accezione di immaginazioni illusorie (Di pensier in pensier) e di vagabondaggi solitari (di monte in monte), esce riflessa in due raggi con luminosità specifica e la duplicazione fa sì che sia preclusa la possibilità di effettuare di strofa in strofa allineamenti precisi tra archetipo e copie tratte da esso. Ancora una volta è interessante osservare quali siano gli elementi formali che Bembo coglie come particolarmente caratteristici ed efficaci e, quindi, capire quali stilemi egli ricavi dal testo petrarchesco dopo averli riconosciuti come veicoli della perfezione della canzone che si accinge ad imitare. L’impresa è assai ardua, perché l’alchimia del maestro si dispiega con impareggiabile incanto forse proprio in quelle canzoni (tra cui 129) in cui si realizza, come ha detto bene Fubini, un «sovrano equilibrio, che non è mai statico»,19 una fissità di strofa in strofa garantita nonostante il perpetuo movimento di sfumatura, una quasi impercettibile oscillazione all’interno di un sistema dinamico di forze.20 Dell’apparente ripetitività vive il ten«ohimè, quanto amare sono le lontananze, nelle quali nessun riso si vede mai dell’amante, niuna festa gli tocca, niun gioco; ma fisso alla sua donna stando ad ogni ora col pensiero, quasi con gli occhi alla tramontana, passa quella fortuna della sua vita in dubbio del suo stato […] Sì come hora col mio misero essempio vi potete, donne, far chiare, di cui tale è vita, chente suonano le canzoni, et cie ancora peggiore; delle quali per aventura quest’altre due, appresso le ramemorate, poi che tanto oltre sono passato, non mi pentirò di ricordarmi» (Cfr. Bembo, ed. Dilemmi, i, 31, p. 251). 18 Berra 1991, 163 definisce RVF 129 una canzone in cui si coglie «l’analisi e la deplorazione della fluctuatio fra stati d’animo contrastanti». 19 È una considerazione generale espressa sul metro canzone, ma proprio nel contesto del commento accurato a RVF 129, in Fubini 1962, 237-298, in particolare a p. 250. 20 Anche Praloran 2003b, 445-446 a proposito dei procedimenti di sviluppo di alcune canzoni petrarchesche ha notato che la variazione sugli stessi motivi non deve essere intesa come «mirante ad un’espansione in qualche modo infinita del tema, ma sia piuttosto inserita in un procedimento logico-costruttivo per cui gli elementi “dati” di partenza – se si vuole l’esposizione – sono sottoposti ad una continua azione che pur facendo forza in gran parte su quegli elementi, che rimangono sempre riconoscibili, li trasforma intimamente. Di qui il senso di durata necessaria, di articolazione che si chiude». Una lettura specifica che mette in evidenza tale aspetto costruttivo nelle canzoni di lontananza RVF 127 e 129 si trova ora in Praloran 2007a. 17

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tennamento amoroso di Petrarca e attraverso il ripiegamento ondivago essa si esprime.21 Così, in questa canzone apprezziamo, senza giudicarli patetici, i misurati dubbi espressi con interrogazioni dirette che sgorgano dalle profondità interiori sul finale delle stanze22 e, allo stesso modo, intendiamo la ragione stilistica di provvedere alle strofe il rivestimento provenzale di coblas capdenals, per cui ogni inizio (ad eccezione della iV stanza) si collega al precedente tramite la ripresa di una parola-motivo montana (monte, monti, colle, montagna, alpe); infine, a dispetto di tutto, cogliamo uno sviluppo argomentativo che porta verso il rinvigorimento della speranza.23 il confortante esito, però, pur arrivando in coda ad una lenta e sottile progressione concettuale, per il solo fatto di essere in fin dei conti inserito nella ciclicità della ripetizione, tradisce la sua natura di traguardo provvisorio. Bembo, da solerte lettore di Petrarca, mostra di aver percepito la presenza di un’evoluzione argomentativa sottesa a RVF 129 perché non compone due canzoni che replichino staticamente e in autonomia l’antecedente, come farebbero due ritratti dello stesso soggetto presi da angolazioni scostate, ma distribuisce la materia originaria in due contenitori in successione correlata. nulla vieta che si generino delle sottili zone di sovrapposizione fra le due liriche, né che si invertano nell’ordine di comparsa i riferimenti all’antecedente, ma, tuttavia, si può scorgere nei risultati della ricombinazione il proposito di tornire i tratti fuggevoli della dialettica petrarchesca, applicando una siffatta distinzione tematica. i, 32 si focalizza soprattutto sull’idea della peregrinazione incessante e allucinata e sul pianto implacabile del poeta, mentre i, 33 introduce il motivo dell’alternanza di illusione e disillusione, che agita ossessivamente, turba, lacera. Dunque, Bembo individua un possibile snodo del discorso poetico in conclusione alla lettura stilistico formale Praloran 2007a, 324 dichiara: «il carattere aperto, fluido, di questa poesia trasmette così il movimento del soggetto nel tempo e nel paesaggio; la forma lirica fondata sulla costruzione echeggiante delle stanze, un continuo ricominciamento, riesce miracolamente a far rivivere il senso della ripetizione e della circolarità di questo movimento. ma forse l’aspetto più sorprendente è che su questo tessuto Petrarca riesce a realizzare anche il senso di una progressione, a sintetizzare, dominandolo, il tempo, non sul piano logico del pensiero ma su quello logico della costruzione». 22 Cfr. RVF 129, vv. 26, 31-32, 63-65. 23 Cfr. RVF 129, i versi finali prima del congedo: v. 62-65 «Poscia fra me pian piano:/ Che sai tu, lasso? forse in quella parte/ or di tua lontananza si sospira;/ et in questo penser l’alma respira». 21

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nel passaggio dalla narrazione dell’errare fisico alla descrizione propria dei «pensieri», dei sogni ad occhi aperti dell’amante, il quale si finge nella mente le fattezze della donna o altri dolci inganni e poi sperimenta tutta l’amarezza del risveglio. il perdurante scacco interiore è segnalato da un nucleo sintattico costituito da una proposizione o da un avverbio temporale che indichino anteriorità,24 che è appunto ripresa quasi letteralmente come pregnante in i, 33 (v. 36, «Poi, quando a me ritorno,/ trovami sì lontan da miei desiri»; v. 65 «poi mi risento et dico»). Ciascuna delle due canzoni bembiane, in ogni caso, seleziona ed assume in proprio da RVF 129 elementi strutturali e argomentativi differenziati. in Poscia che ’l mio destin fallace et empio (i, 32) si sedimenta tutta la serie di già notati stilemi petrarcheschi che conferiscono il senso di ricorsività. Viene messo in atto, in modo meno pervasivo e con piccole sbavature, l’espediente di legame interstrofico delle coblas capdenals che unisce nel segno del destino i e ii stanza Poscia che ’l mio destin fallace et empio (v. 1) Hor che mia stella più non m’assecura (v. 14)

e mediante il riferimento metonimico al solitario vagare, iii e iv e ii stanza (quest’ultima con artificio speculare di coblas capfinidas) U’ che il piè movo, u’ che la vista giro (v. 25) Col piè pur meco et col cor con altrui (v. 27) ove men porta il calle o ’l piede errante (v. 40).

inoltre sono attive le procedure di reduplicazione dei sintagmi che occhieggiano nell’esordio petrarchesco e che qui sono ritirate in zone appena meno esposte del testo, al v. 4 «di pena in pena et d’uno in altro scempio» e al v. 15 «di passo in passo». infine, si nota il tentativo un po’ impacciato di innescare quel delicatissimo meccanismo di ritorno periodico sugli stessi punti mediante l’enunciazione di tutti i concetti chiave nella i strofa e poi la forzata ripresa degli stessi nelle strofe successive. Di qui il

Cfr. RVF 129 vv. 30-32 «Poi ch’a me torno, trovo il petto molle/ de la pietate, et alor dico: Ahi lasso,/ dove se’ giunto, et onde se’ diviso!»; vv. 49-51 «Poi quando il vero sgombra/ quel dolce error, pur lì medesmo assido/ me freddo, pietra morta in pietra viva».

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ribattere insistente di termini afferenti ad un numero limitato di campi semantici, tra cui spiccano quello del destino avverso che determina la lontananza dall’amata (v. 1 «destin fallace et empio»; v. 14 «mia stella»; vv. 37-38 «nemico/destin»; v. 43 «disaventuroso»; v. 64 «destin forte»; v. 65 «dura sorte») e quello del pianto (v. 13 «piangono», vv. 20-22 «un rio/ verso dal cor di dolorosa pioggia/ che può far lacrimar»; v. 29 «bagnando for per gli occhi»; v. 41 «piangendo»; v. 58 «a pianger riede»). Da un punto di vista melodico, il ricordo della realizzazione dello schema metrico che attua RVF 129 suscita in i, 32 un trattamento segnalato del settenario di concatenatio, il quale risulta, con la sola eccezione della iii stanza, vigorosamente inarcato sul verso successivo, come nel modello.25 inoltre, per mettere in evidenza questa acquisizione, tali enjambement sono in genere complicati da fenomeni di inversione (iperbati, anastrofi o epifrasi) : vv. 7-8 «nebbia et polvere al vento/ son fatto et sotto ’l sol falda di neve», vv. 20-21 «così dicendo un rio/ verso dal cor di dolorosa pioggia», vv. 46-47 «et gli occhi che mi stanno/ come due stelle fissi in mezzo a l’alma». La seconda canzone del dittico, i, 33, Lasso ch’i fuggo e per fuggir non scampo pratica una strada diversa per accostare l’antecedente trecentesco e si profonde con maggior larghezza in pseudo-citazioni e prelievi di tessere strutturali. Per esempio, l’avvio della iii stanza al v. 31 «ove raggio di sol l’herba non tocchi» allude alle movenze iniziali della v di RVF 129, v. 53 «ove d’altra montagna ombra non tocchi»; analogamente si riscontra che nella medesima sede, in punta al penultimo verso della stanza, Bembo plasma la frase «ch’io resto, ahi lasso, quasi ombra sott’ombra» (v. 38) per ricalcare la petrarchesca «assido/ me freddo, pietra morta in pietra viva» (vv. 50-51) e cioè si mette sulla scia del modello e sfrutta l’efficacia di una simile espressione quasi paradossale, data dagli incroci di attribuzione di un termine con significato proprio e traslato, per comunicare lo straniamento dalla realtà nel momento in cui svaniscono insieme l’illusione prodotta dal pensiero e l’apparizione fantasmatica dell’amata. È rilevante anche il recupero variato dei versi di combinatio della i stanza di RVF 129, in RVF 129 si trovano enjambement tra chiave settenaria ed endecasillabo seguente in tutte le stanze, tranna che nella i: vv. 20-21 «et a pena vorrei/ cangiar questo mio viver dolce amaro»; vv. 33-34 «ma mentre tener fiso/ posso al primo pensier la mente vaga»; vv. 46-47 «et quanto in più selvaggio/ loco mi trovo e ’n più deserto lido»; vv. 59-60 «alor ch’i’ miro et penso/ quanta aria dal bel viso mi diparte». 25

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vv. 12-13 «onde a la vista huom di tal vita experto/ diria: Questo arde, et di suo stato è incerto», in cui Petrarca rende figurativamente dialogico il suo pensiero immaginando quale sarebbe il commento di chi osservasse il mutare repentino dei suoi atti e del suo viso sotto le oscillazioni del dubbio amoroso. Bembo fa risalire il distico all’interno della stanza e traspone il condizionale in un indicativo quasi visionario: vv. 20-22 «S’io miro in fronda o ’n fiore/ veggio un che dice: “o triste pellegrino/ lo tuo viver fiorito è secco e morto». tra l’altro, questa tessera è inserita in un movimento ipotetico esteso e amplificato (vv. 14-22) che non a caso parte anch’esso dalla strofa iniziale di RVF 129.26 La documentata aderenza al nucleo formale della canzone petrarchesca non esime Bembo dall’inserire nel suo dittico anche notevoli devianze. Colpiscono, innanzitutto, quelle di carattere tematico che, in entrambi i casi, si raggruppano e si attestano sul finire delle liriche, rispettivamente nella v e nella iv strofa. Se leggessimo una fronte come la seguente, non pero già, ma non rimango vivo; anzi pur vivo al danno, a la speranza via più che morto d’ogni mia mercede: morto al diletto, a le mie pene vivo; et, mancando al gioir, nel duol s’avanza lo cor, ch’ognihor più largo a pianger riede; (Bembo, Asolani, i, 32, str. v, vv. 53-58)

stenteremmo a credere che sia parte di un testo di stretta imitazione di RVF 129. in effetti, il contrasto ossimorico tra vita e morte è racchiuso in nuce dal già citato verso «assido/ me freddo, pietra morta in pietra viva» (RVF 129, vv. 50-51), ma una proliferazione simile di antitesi ripetitive e stereotipate non può che essere il retaggio della coeva maniera cortigiana, che si compiaceva dei bisticci e dei paradossi. Ancora come precipua marca rinascimentale, in i, 32, sono immesse riflessioni sulla capricciosa La collocazione all’inizio della ii stanza dei procedimenti che RVF 129 attiva nel secondo piede della prima era già stato rilevato sopra per la canzone omometrica di Sannazaro. Benché entrambi i testi siano stati composti tra fine Quattrocento e primi anni del Cinquecento, è naturalmente più opportuno parlare di un eventuale rapporto di dipendenza e mediazione che procede da Asolani a Sonetti e canzoni, se non altro per la priorità cronologica di pubblicazione a stampa del prosimetro di Bembo.

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Fortuna e la rivendicazione di una mercede dalla donna, in cambio della lunga fedeltà dimostrata dal pianto disperato e sincero. Per questa ragione si punta all’esasperazione della componente patetica della canzone petrarchesca che accennava ad una manifestazione esplicita delle angustie amorose solamente nei due scarni passaggi dei vv. 30-31 «trovo il petto molle/ di pietate» e dei vv. 57-58 «e ’ntanto lacrimando sfogo/ di dolorosa nebbia il cor condenso», e quindi si ritrovano in Bembo singhiozzi ininterrotti (in i, 32 praticamente in tutte le stanze) fino a raggiungere eccessi iperbolici sull’orlo del grottesco: Se fonte in valle o rio per camin verde sento cader, con gli occhi miei patteggio a farne un del mio pianto via maggiore. (Bembo, Asolani, i, 33, str. ii, vv. 17-19)

in modo del tutto consonante, anche quel potenziale elegiaco di RVF 129 che era alluso nei sospiri e nelle sintetiche e distanziate domande rivolte a se stesso dal poeta attraverso l’effusione libera del discorso diretto,27 è, in particolare in i, 32, sprigionato con enfasi retorica in sequenze protratte di interrogative e di esclamative, magari accorpate con la sottolineatura in anafora dell’interiezione angosciata: Alhor ch’io penso: ‘ohimè, che son, che fui? Del mio caro thesoro hor chi mi priva, et scorge in parte, onde tornar non spero? Deh perché qui non pero, prima ch’io ne divenga più mendico? Deh chi sì tosto di piacer mi spoglia, per vestirmi di doglia eternamente? ahi mondo, ahi mio nemico destin, a che mi trahi, perché non sia vita dura mortal, quanto la mia!’. (Bembo, Asolani, i, 32, str. iii, vv. 30-39)

Cfr. RVF 129, v. 26 «or porrebbe esser vero? or come? or quando?»; vv. 31-32 «[…] Ahi lasso,/ dove se’ giunto, et onde se’ diviso!»; v. 63 «Che sai tu, lasso? forse in quella parte/ or di tua lontananza si sospira».

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mediante l’espansione dei nuclei di discorso diretto Bembo dimostra un’inclinazione alla resa drammatizzata delle passioni, che affiora anche nel quadretto, tematicamente spurio rispetto a RVF 129, che anima la iv stanza di i, 33: Qualhor due fiere in solitaria piaggia girsen pascendo simplicette et snelle per l’herba verde scorgo di lontano, piangendo a lor comincio: “o lieta et saggia vita d’amanti, a voi nemiche stelle non fan vostro sperar fallace et vano: un bosco, un monte, un piano, un piacer, un desio sempre vi tene; io da la donna mia quanto son lunge? (Bembo, Asolani, i, 33, str. iv, vv. 40-48)

e più generalmente si percepisce nel testo seguendo la posizione iconica che assumono i tre personaggi nel gioco inscenato in i, 33: l’io lirico, madonna e Amore. esiste una progressione nei rapporti tra questi tre attanti che è testimoniata dalla loro distribuzione e dalla loro dislocazione reciproca nelle varie strofe. nella i strofa, nel momento in cui il poeta esprime la sua speranza che i tormenti amorosi che subisce muovano a pietà la sua amata, Amore e madonna si collocano al centro e in posizione sostanzialmente contigua (vv. 7-8 «Amor, se ciò t’aggrada/ almen fa con madonna ch’ella il senta»). nella seconda e terza strofa la scena è dominata dal vagare inquieto dell’amante che cerca di sfogare la sua sofferenza, in assenza di qualsiasi gratificazione da parte della donna, ma sempre affiancato strettamente da Amore, come rivelano i distici di combinatio.28 La quarta strofa funge da cartina di tornasole: guardando a due fiere che procedono appaiate il poeta si domanda se e quanto lui sia ancora lontano dalla sua amata (qui Amore non è nominato); nell’ultima strofa il poeta prende coscienza dell’amara verità che Amore è suo aspro nemico e si compiace dei patimenti dell’amante; per questa ragione non gli permet-

Cfr. i, 33, iii strofa, vv. 25-26 «ma quanto più pensando io ne vo seco/ tanto più tormentando Amor ven meco»; iV strofa, vv. 38-39 «ch’io resto ahi lasso quasi ombra sott’ombra/ di sì vera pietate Amor m’ingombra» 28

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terà di accostarsi a madonna, tanto è vero che i due termini sono relegati l’uno all’inizio e l’altro alla fine della stanza. (v. 54 «Amor, lo mio avversario antico», vv. 64-65 «o pensier casso/ dov’è madonna?»). il secondo libro degli Asolani si chiude dal punto di vista poetico con una lunga canzone di 10 stanze che si articola sull’edificio metrico di RVF 125, ampliato con leggere modifiche,29 e che procede sotto l’influsso tematico-formale del medesimo testo. Lo manifesta fin da subito l’incipit che, a differenza di quanto accade nelle canzoni del dittico analizzato sopra, è più esplicito nella ripresa lessicale d’ingresso e nella riproposizione della struttura sintattica del modello, ossia l’inconfondibile intarsio di un’ipotetica e di una comparativa combinate insieme:30 Se ’l pensier che m’ingombra com’è dolce et soave nel cor, così venisse in queste rime (Bembo, Asolani ii, 28,vv. 1-3)

L’aderenza più stretta nella costruzione della frase è imposta dalla volontà di chiarire l’antecedente senza che il lettore rimanga disorientato dal rovesciamento denunciato a livello concettuale. Quelle che vagheggia Bembo sono rime armoniose e piene di piacevolezza che testimonino le gioie d’amore e incantino chi le ascolta, mentre invece Petrarca nell’avvio della sua canzone dichiarava di voler abbandonare la melodiosità per dar voce all’asprezza del desiderio che lo sferzava: l’argomento è diverso, ma di una diversità opposta e complementare. Pertanto, è comprensibile che si addica ad esso una gabbia formale congruente a RVF 125, sicché nel prosieguo sono disseminate altre tessere sintattiche, altri snodi argomentativi. Ad esempio nei vv. 109-114 «Chi fia ch’oda et conosca/ quanto di lei vi piacque/ et meco d’un incendio non avampi?/ Chi verrà mai, che stampi/ l’andar soave e caro/ col bel dolce costume…» risuona amplificato l’andamento dei vv. 30-31 di RVF 125 «chi verrà mai che squadre/ questo mio cor di smalto»; oppure al v. 71, non nella meno marcata sede di concatenatio, ma ex abrupto in mezzo alla sirma, lo scarto improvviso Cfr. la tavola metrica a p. 97. Cfr. RVF 125, vv. 1-3 «Se ’l pensier che mi strugge/ com’è pungente et saldo,/ così vestisse d’un color conforme».

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dell’invocazione agli elementi naturali «ricogliete voi, piagge, i miei desiri» intende ripetere l’effetto dirompente dell’analogo movimento inatteso che giunge in Petrarca al v. 49 «odil tu, verde riva».31 L’appello alla Sorgue valchiusana, che in RVF 125 agevola il transito dal classico motivo del prepon, dell’adeguatezza dell’espressione alla qualità dell’argomento, al motivo pastorale della presenza fantasmatica di Laura nel paesaggio, in Bembo è moltiplicato in un’apostrofe a più destinatari, «piagge», «sasso», «faggio», che si prolunga per quasi tre strofe (v-vi-vii) ed è utilizzata per introdurre una contaminazione con ricordi tratti da RVF 126. nascosto nei versi iniziali della viii stanza si riconosce per l’aspetto strutturale al vocativo e ancora una volta con il lieve slittamento nei contenuti prodotto dagli aggettivi, l’incipit Chiare, fresche et dolci acque: riva frondosa et fosca, sonanti et gelid’acque, verdi, vaghi, fioriti et lieti campi. (vv. 106-108)

L’integrazione dei due testi petrarcheschi a formare un unicum, che sotto questa luce risulta ragionevolmente esteso a 10 stanze, riesce con successo ed è azzardata da Bembo perché egli è consapevole che i due testi sono già in Petrarca raccordati dalla quasi identità della testura e dalla «comune ambientazione campestre».32 Di qui la possibilità di una fusione che superi l’automatismo della saldatura e di una compenetrazione degli antecedenti RVF 125 e 126, visibile ad esempio nella vii stanza: già sai tu ben, sì come facean qui vago il cielo de le due chiare stelle i santi ardori, et le dorate chiome scoperte dal bel velo, spargendo di lontan soavi odori empiean l’herba di fiori. (Bembo, Asolani, ii, 28, str. vii, vv. 91-97)

Forse inutile sottolineare che anche la svolta petrarchesca si realizza non nel punto di giuntura delle partizioni metriche, ma in un punto dell’interno della sirma. 32 Cfr. Fubini 1962, 282. 31

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L’attacco allude al principio della v stanza di RVF 125, v. 53 «Ben sai che sì bel piede», mentre la rievocazione celestiale della donna immersa nella natura parte con tutta probabilità dalla descrizione della pioggia di fiori della iv stanza di RVF 126, anche se poi prende una piega letteralmente miracolistica, nella misura in cui l’amata ha il potere di risvegliare la natura, deviare il corso dei fiumi attirandoli a sé con il suo fascino, ammansire le fiere (vv. 96-105). in tante e tali allusioni petrarchesche, tra prelievi lessicali che sono quasi citazioni letterali, come ai vv. 83-84 «sì che s’altro mi sforza/ et di valor mi spoglia»,33 Bembo si ritaglia anche qui il suo spazio personale; sottentra, allora, il suo gusto per l’intreccio di «gravità e piacevolezza», seguendo il quale l’asperitas è diluita e alternata con contrappunto tra rime intense, difficili e stridenti e rime dolci.34 Anche in questa lirica, poi, il poeta veneziano non trattiene gli sfoghi che fanno leva sulla serializzazione delle interrogative anaforiche. nella strofa ix, tra l’altro, le domande incalzanti sono incastonate in una cornice a profilo rimico particolarmente ruvido, tesa ad esprimere l’urto del dolore e la frustrazione del desiderio: Quando, giunte in un loco, di cortesia vedeste, d’honestà, di valor sì care forme? Quando a sì dolce foco di sì begli occhi ardeste? et so ch’Amor in voi sempre non dorme. O chi m’insegna l’orme, che ’l piè leggiadro impresse? O chi mi pon tra l’herba ch’anchor vestigio serba di quella bianca man, che tese il laccio, onde uscir non procaccio, ed del bel fianco e de le braccia istesse,

Cfr. RVF 125, vv. 14-15 «Però ch’Amor mi sforza/ et di saver mi spoglia». La quantità e la qualità di rime aspre è più intensificata che nella canzone di Sannazaro di cui si è detto sopra. tuttavia, le rime più dure si concentrano nella prima parte del testo, e all’interno delle strofe sono bilanciate anche da occorrenze più soavi. Cfr. ad esempio la iii stanza, in cui, accanto alle rime in Unge, ALDe, ASti, si trovano rime in UrA, eno, Ai. 33 34

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che stringon la mia vita, sì ch’io ne pero et non ne cheggio aita? (Bembo, Asolani, ii, 28, str. ix, vv. 121-135)

A differenza di quanto capita nel rifacimento sannazariano di RVF 125 Amor, tu voi ch’io dica, nella sua canzone Bembo si perita di mantenere e di sottolineare con insistenza l’essenziale epilogo feticistico, non solo nella penultima stanza, riportata qui sopra, ma anche e con maggiore evidenza in chiusura, dimostrando così di voler trasporre il cuore della sottile argomentazione petrarchesca. Del mio sostegno andrei ogni parte cercando, reverente inchinando la ’ve più fosse il ciel sereno et queto e ’l seggio ombroso et lieto; ivi del lungo error m’appagherei, et basciando l’herbetta di mille miei sospir farei vendetta. (Bembo, Asolani, ii, 28, str. x, vv. 143-150)

infine, gli unici tre testi contenuti nel libro di Lavinello, il terzo e ultimo degli Asolani, si pongono come il corrispettivo delle ‘Cantilenae oculorum’ (RVF 71-72-73) per il loro numero, la loro vicinanza e i loro schemi omometrici. in questo caso non esiste una riconoscibile variazione dell’originale poiché né la testura metrica, né il profilo delle strutture formali sono mantenuti, mentre sopravvive la struttura ternaria e la fissità del motivo degli occhi. Del resto, raccogliendo i risultati dell’analisi per l’intero libro, è interessante notare che le canzoni asolane di Bembo subiscono in particolare l’influsso dell’archetipo petrarchesco della serializzazione e lo riflettono e ricombinano con varie modalità. ragion per cui trovano spazio, in una inquieta ricerca verso l’optimum, in un vitale confronto fra consuetudine trasmessa e capacità di ri-creazione, tre gradate modalità di riferirsi alle opzioni di apparentamento delle canzoni dei Fragmenta: un tentativo di sdoppiamento (nel primo libro, le due canzoni modellate su RVF 129), una prova di assimilazione (l’unica canzone del secondo libro che guarda contemporaneamente nella direzione di RVF 379

125 e 126) 35 ed un caso in cui si accetta il percorso in apparenza più canonico (quest’ultimo, del terzo libro) ma lo si sostanzia di contenuti percettibilmente originali.

5.1.3 molza Sensibile alle rivisitazioni di meccanismi formali petrarcheschi risulta anche il più giovane Francesco maria molza in almeno due delle sue liriche distese. nella canzone compianto Fra le sembianze, onde di lunge avrei in onore del suo protettore ippolito de’ medici, prematuramente scomparso con tutta probabilità a causa di un avvelenamento da parte di un suo avversario politico, il poeta modenese riprende nello schema metrico e nel percorso semantico strutturale RVF 323.36 Quanto sono numerosi gli elementi costitutivi che denunciano la contiguità dei due testi, tanto risulta esplicita la volontà dell’autore cinquecentesco di richiamare nei suoi versi l’illustre modello rendendo omaggio alla costruzione equilibrata di Petrarca, senza privarsi, d’altro canto, della possibilità espressiva di forzare in modo mirato il codice dell’archetipo. in entrambi i casi il testo è ascrivibile al genere del planctus, benché il sentimento della perdita fatale, mitigato nei quadri figurali di Petrarca, si mostri assai meno composto in quelli del molza. Ciò è dovuto al fatto che mentre il lirico trecentesco in Standomi un giorno solo a la fenestra, attraverso sei stanze in cui campeggiano alcuni dei più celebri simboli a cui è legata la sua donna (la fiera, il lauro, la fonte, la fenice), «rievoca l’evento traumatico della morte di Laura e, con essa, l’improvviso venir meno dei valori trasmessi da quella simbologia»,37 molza in questo testo raccoglie sei visioni allegoriche38 che prefigurano

Baldacci 1974, 145 definisce il risultato del rifacimento bembiano un «calco inerte», mentre a mio avviso il testo presenta dei tratti inediti già solo per l’idea di contaminare in un’unica prova metrica i contenuti di due archetipi distinti. 36 Bianchi 1992b. 37 Petrarca (ed. Santagata), nota introduttiva a RVF 323, p. 1129. 38 Si tratta di un’aquila uccisa da un serpente (str. i); un candido agnello morto a causa di un’erba velenosa (str. ii); un cigno ghermito da un orrendo mostro marino (str. iii); un cervo trafitto da un arciere (str. iv), un cocchiere disarcionato e finito a morsi dai suoi 35

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non la naturale scomparsa, bensì l’assassinio proditorio del suo mecenate. Per il poeta è dunque insufficiente innalzare un lamento contro il destino crudele, come d’altra parte è inadeguato alla sensibilità rinascimentale augurare con speranza al defunto il raggiungimento trionfale della pienezza riservato ai nobili spiriti nella vita ultramondana. La disposizione argomentantiva è sostanzialmente comune ai due testi e si inscrive nel collaudato avanzare per giustapposizione di quadri che innesta in un modo di procedere ripetitivo perspicui elementi interni di evoluzione.39 La cornice è assicurata da un io lirico titolare delle visioni, nonché da alcuni particolari di continuità di ambientazione condivisi attraverso le varie stanze. in Petrarca entrambi gli elementi che formano il perimetro esterno in cui si muove la narrazione sono chiari e cospirano alla compattezza del testo, che risulta pertanto sistematicamente punteggiato in ogni strofa da verbi percettivi (v. 2 «vedea»; v. 3 «mirar»; v. 13 «vidi»; v. 31 «mirandol io fiso»; v. 45 «vidi»; v. 51 «vedendo», v. 52 «veder»; v. 61 «vid’io») e tessuto in modo da inserire le divagazioni diegetiche in precise coordinate spaziali tra loro adiacenti (al v. 25 si parla di «un boschetto novo» e la stanza successiva al v. 37 riprende «in quel medesmo bosco»; ai vv. 53-54 si colloca il movimento della penultima figurazione, la fenice, nei luoghi protagonisti delle due precedenti, «fin ch’a lo svelto alloro/ giunse, et al fonte che la terra invola»). nella canzone di molza, pur non trascurati, tali fattori sono assai meno insistiti. Le fantasie premonitrici sfilano davanti all’occhio del poeta ma il centro che catalizza la visione non viene ribadito che all’inizio (vv. 4-5 «inanzi agli occhi miei/ [...] apparve») e alla fine del componimento (v. 50 «vedendo», v. 53 «veder», v. 69 «io vidi»), con interposto un lungo iato centrale; neppure l’unità del luogo è così stretta, essendo allusa una sola volta mediante procedimento anaforico analogo al primo utilizzato da Petrarca (v. 12 «tra i fior’» e v. 13 «in quel medesmo prato»). Del testo di Petrarca molza riproduce anche le dinamiche interne a

destrieri (str. v); una stella eclissata in modo funesto dal sole (str. vi). 39 La superficie tematica è innegabilmente quella dell’accostamento in serie, per quanto poi la tecnica superiore di Petrarca dispiegata nella canzone RVF 323 si riveli agli occhi degli studiosi assai più complessa nell’inspessimento progressivo della sostanza ritmica e fonica di stanza in stanza e nel cambiamento del rapporto fra veggente e visione osservabile nel corso del componimento (cfr. Chiappelli 1971).

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ciascuna strofa che prevedono un’articolazione in tre momenti: la presentazione di una creatura colta nei suoi tratti di pacata bellezza, successivamente l’intervento di un agente imprevisto che ne interrompe la parabola e la fa capitolare e, infine, un commento meditativo del poeta che scruta la scena e che, pur distanziato, tradisce il suo intimo coinvolgimento. in un boschetto novo, i rami santi fiorian d’un lauro giovenetto et schietto, ch’un delli arbor’ parea di paradiso; et di sua ombra uscian sì dolci canti di vari augelli, et tant’altro diletto, che dal mondo m’avean tutto diviso; et mirandol io fiso, cangiossi ’l cielo intorno, et tinto in vista, folgorando ’l percosse, et da radice quella pianta felice sùbito svelse: onde mia vita è trista, ché simile ombra mai non si racquista. (RVF 323, str. iii, vv. 25-36)

Canoro cigno e di purpuree piume velato intorno, e tinto il capo d’ostro, di cui già l’Arno chiari accenti udìo, di dolci note un più famoso fiume lieto riempia, ogni frondoso chiostro sonava le sue lodi, et ogni rio premea di lui desio; quando ecco in vista si turbaron l’acque, e fuor uscendo orribil mostro e fosco sparse l’onde di tòsco per cui l’alta armonia subito tacque. A me nel cor un duol perpetuo nacque. (molza, Viii, str. iii, vv. 25-36)

in ogni strofa di RVF 323 il discorso trapassa dolcemente attraverso queste tre fasi; a ciascuna di esse è assegnato uno spazio che risente di variazioni minime e si inserisce quasi sempre in limiti metrici predeterminati, per cui il momento euforico, fatta eccezione per la strofa iniziale che deve ospitare anche un breve giro di versi introduttori, occupa in genere l’intera fronte, quello disforico gran parte della sirma,40 mentre l’ampiezza della chiosa del poeta oscilla da uno spazio massimo dell’ultimo terzetto, ad uno minimo del verso finale. ordine e precisa ricorsività non informano allo stesso modo il compianto molziano, nel quale i tre stadi situazionali non si presentano in ogni caso nella stessa successione né con ampiezza dominata e sempre rispettosa degli incasellamenti metrici interni alla strofa. inoltre, come nota Bianchi, il momento ritagliato al ri-

il poeta si attarda in un momento di contemplazione estatica che coinvolge i primi versi della sirma nella str. iii (v. 31 «mirandol io fiso») e soprattutto nella str. iv (vv. 43 «ivi m’assisi; et quando/ più dolcezza prendea di tal concento/ e di tal vista...»). nelle altre stanze la sirma innesta fin dall’inizio se non l’evento catastrofico, almeno il suo inequivoco presagio.

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scontro emotivo o all’intonazione ragionativa del poeta non risulta necessario nell’economia di tutte le strofe, ragion per cui è espunto dalla i e v.41 in realtà, molto spesso e specialmente laddove il giudizio sul dramma che gli si para dinnanzi non raggiunge l’esternazione personale dell’io lirico, nel testo di molza esso si esprime in un uso connotato degli aggettivi. Al contrario di quanto accade nella lirica petrarchesca, nella quale i responsabili della catastrophé sono neutri strumenti del destino (v. 6 «duo veltri», v. 19 «repente tempesta», v. 32 «’l cielo», v. 45 «uno speco», v. 69 «un picciol angue»), nella canzone del poeta modenese essi si colorano di tinte cupe tanto da rendere talvolta superfluo qualsiasi ulteriore valutazione (v. 11 «crudel aspe e fero», v. 20 «cespo reo», v. 33 «orribil mostro e fosco», v. 44 «duro arciero», v. 59 «orribil morso», v. 68 «note atre e felle»).42 All’introiezione del commento nel testo si accompagna poi l’inasprimento delle dinamiche di morte e della dialettica vittima-carnefice «fino a determinare una vera e propria frattura all’interno della stanza stessa».43 Un’altra componente semanticamente strutturante di cui molza si appropria è quello della repentinità dell’azione descritta. già nella lirica del Canzoniere il trapasso interno ai quadri strofici avviene all’insegna dell’inopinato, come sottolineano opportunamente avverbi, aggettivi e locuzioni (v. 9 «’n poco tempo», v. 19 «repente», v. 35 «subito»), soprattutto nella prima parte del testo. il poeta cinquecentesco, trasferendo il corredo di espedienti retorico-formali al suo contenuto, carica di significato sinistro la componente che serviva a rimarcare quanto sia fugace e fragile l’esistenza. L’enfasi si percepisce non solo dal gusto per la variazione delle espressioni che veicolano l’irruenza dell’azione (v. 9 «tosto», v. 21 «immantenente», v. 32 «quand’ecco», v. 58 «in un momento»), ma anche dall’inserimento di allusioni ad atteggiamenti infidi (v. 12 «fra i fior’ ascondea empio sentiero», v. 44 «di nascosto»). insomma, all’evento subitaneo, che in Petrarca è un sintomo della precarietà connatura alla vita stessa, e

Bianchi 1992b, 268. nella quarta strofa non credo che il commento sia assente quanto piuttosto che sia assai succinto e occupi il verso di concatenatio (v. 43 «per cui di pietade ardo»). 42 emblematico a proposito del diverso trattamento degli “assassini” è la contrapposizione tra il serpentello che punge il piede della bella donna della canzone petrarchesca (v. 69 «punta poi nel tallon d’un picciol angue») e la brutale vipera che finisce l’aquila nel testo molziano(v. 11 «trafitto ’l cor da crudel aspe e fero»). 43 Bianchi 1992b, 267.

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al quale si può reagire anche in modo pacifico e vittorioso purché proiettato ad una realtà ultramondana – si tenga presente che l’illustre vittima dell’ultima strofa «lieta si dipartio, nonché secura», v. 71 – molza contrappone l’irruenza dell’inaspettato e la velocità dell’ingiusto tradimento, che in nessun caso si può tollerare. Venendo, poi, agli espedienti struttivi minutamente formali, giova segnalare la ripresa nella strofa v dell’intelaiatura a poliptoto vedendo/ veder pensai dell’analoga strofa petrarchesca, che trascina vischiosamente con sé e deposita ricombinati altri particolari, dall’aureo cromatismo, all’attitudine piena di ritegno del protagonista del quadro, al ricordo verbale prezioso in clausola di verso (invola/ invole). Una strania fenice, ambedue l’ale di porpora vestita, e ’l capo d’oro, vedendo per la selva altera et sola, veder forma celeste et immortale prima pensai, fin ch’a lo svelto alloro giunse, et al fonte che la terra invola: (RVF 323, str. v, vv. 49-54)

in un bel carro d’or lieto et assiso vedendo di beltà vincer il sole giovene ardito, valoroso e schivo, veder cosa pensai che ’l paradiso qua giù dimostri e subito poi invole: (molza, str. v, vv. 49-53)

A riprova della solidità e della consapevolezza dell’imitazione, infine, si notino le tre modalità di incipit delle stanze, tutte pescate nel serbatoio petrarchesco e riprodotte da molza. A due inizi che pongono in primo piano il figurato opportunamente dotato di un attributo anteposto (in Petrarca, str. iv, v. 37 «Chiara fontana», str. v, v. 49 «Una strania fenice»; in molza, sempre in stanze contigue, str. ii, v. 13 «Felice agnello», str. iii, v. 25 «Canoro cigno»), si accosta un esordio con specificazione circostanziale (Petrarca, str. iii, v. 25 «in un boschetto novo», in molza, str. v, v. 49 «in un bel carro») e infine due più prosaici attacchi avverbiali («indi» nella ii strofa di Petrarca e nella iv di molza; «alfin» nelle seste strofe di entrambi gli autori). il secondo testo molziano che subisce la fascinazione di un nucleo semantico-formale del Canzoniere è Tutto questo infinito (iV), su schema della canzone dei prodigi RVF 135, ampliato di una stanza (7 strofe anziché 6 a rima aBbC.cDdA. aBeeBF(f )A, con congedo equivalente alla sirma). il modello soggiacente trasferisce nella lirica del molza assieme alla testura metrica anche i due più evidenti aspetti di strutturazione argomentativa che rendono peculiare RVF 135: l’inquadramento ‘a politti384

co’ e l’impianto retto sul pattern della similitudine44 o del corto circuito associativo. Quanto al tema, si registra non un traviamento quanto una leggera traslazione rispetto a quello proposto da Petrarca. Se il poeta trecentesco offre un catalogo di mirabilia che mostrano aspetti di solidarietà con la condizione di straniamento che subisce l’io lirico sotto l’influsso d’Amore, molza enumera più familiari fenomeni meteorologici che suscitano in lui pensieri o ricordi inerenti ai tratti distintivi della sua donna o agli atteggiamenti che essa scatena in lui. Per questa attenzione all’aspetto paesaggistico e climatico e per i prelievi lessicali che punteggiano il testo (ad es. i vv. 48-49 «l’aer compresso intorno/ da fieri venti» riecheggiano RVF 66, vv. 1-2 «L’aere gravato e l’importuna nebbia/ compressa intorno da rabbiosi venti»), gorni45 ha ravvisato un possibile influsso della sestina RVF 66. ma il mutamento stagionale è solo una delle manifestazioni del caelum osservate da molza, che passa in rassegna, nell’ordine, fulmini (str. i), lampi (str. ii), l’apparizione di marte (str. iii), la neve (str. iv), le brezze mattutine (str. v), l’inverno sotto il segno della costellazione di orione (str. vi), l’arcobaleno (str. vii). i punti di contiguità più stretti tra la canzone di Petrarca e quella del suo emulo cinquecentesco si colgono, però, sotto il profilo strutturale e retorico, nella dispositio della materia individuata. Agli estremi del testo rilucono palesi segnali di ammicco: in entrambi i casi non solo l’introduzione occupa il primo piede della strofa iniziale, ma tra il primo e il secondo verso si tende un forte enjambement che spezza un sintagma aggettivo-sostantivo («Qual più diversa et nova/ cosa...» e «tutto questo infinito/ tratto»).46 nei primi due versi del congedo sono ricombinate tessere prelevate dall’analoga partizione di Petrarca,47 anche se poi l’armatura lessicale si piega a differenti esigenze, da un lato ad esprimere la solitudine dell’io lirico, accompagnato solo da Amore e dall’immagine della donna,

Una esaustiva lettura tematico-formale si ha in Berra 1987, a cui molte delle osservazioni che seguono tentano di richiamarsi. 45 Gorni, Danzi, Longhi 2001, nota testuale a p. 468. 46 L’effetto in molza è più risentito dato il doppio statuto del termine “infinito” potenzialmente sia aggettivo che sostantivo. L’inarcatura impone al lettore una riformulazione del sintagma. 47 Cfr. RVF 135, vv. 91-92 «Chi spiasse, canzone,/ quel ch’i’ fo...» e molza iV, vv. 106107 «Canzon, se spia/ quel ch’io fo...».

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dall’altro a dichiarare la volontà del poeta di innalzare virtuosisticamente l’amata mediante lo stile. All’avvio di ciascuna strofa, poi, entrambi i poeti pongono un’indicazione circostanziale, parte integrante di quegli elementi di ricorsività tipici delle canzoni a quadranti giustapposti e sorta di espediente che ricorda quello delle coblas capdenals. A tale scopo Petrarca si avvale puntualmente della specificazione geografica (v. 5 «Là onde il dì ven fore»,48 v. 17 «là per l’indico mar», v. 31 «ne l’extremo occidente», v. 46 «nel mezzo giorno», v. 61 «epiro», vv. 76-77 «Fuor tutti i nostri lidi/ ne l’isole famose di Fortuna»), mentre molza provvede all’esigenza imbrigliando le similitudini all’interno di una rete ipotetico-temporale49 (v. 5 «mentre...», v. 16 «qualor», v. 32 «a tempo», v. 46 «ne la stagion che...», v. 62 «quando...», v. 76 «poi che horrido verno»). La presenza di tale elemento suggerisce una sorta di contaminazione anche con l’organizzazione di RVF 127, cosa che in effetti non sorprende dato che in entrambi i testi il poeta coglie nel paesaggio caratteristiche che ritrova espresse nella sua amata. e tuttavia in RVF 127 questo processo ha una qualità più intensa e coinvolgente per il poeta, una natura quasi allucinatoria,50 mentre in molza, benché le similitudini non siano introdotte da chiari morfemi deittici come in RVF 135 («questo», «così») ma piuttosto da espressioni di paragone attenuato o di libera associazione mentale, permane un paradigma di assimilazione o di equiparazione tra ciò che il poeta vede fisicamente e ciò che tale visione genera in lui. Al di là di minuti particolari perimetrali, molza fa riferimento al modello di RVF 135 anche quando entra nel vivo della stesura dei paragoni. La modalità di avvicinamento tra comparante e comparato è la prevalente e si incarna in molteplici soluzioni, ma non è l’unica. esiste anche la possibilità di far reagire la figurazione prodigiosa o meteorologica per contrasto con l’io e in questo caso il tenore è preceduto dalla congiunzione «ma» che Visto che il primo piede della strofa d’esordio svolge la funzione di prologo, l’inizio del corpo vero e proprio della stanza è, per quanto riguarda la narratio, da collocarsi al v. 5, sia in Petrarca che in molza. 49 Per questo motivo, gorni parla di un’apertura del testo molziano all’influsso della canzone cronografica del tramonto RVF 50 (Gorni, Danzi, Longhi 2001, nota testuale a p. 468). 50 RVF 127 v. 21 «parmi veder», v. 28 «veggio lei», vv. 56-60 «non vidi mai dopo nocturna pioggia/ gir per l’aere sereno stelle erranti/ et fiammeggiar fra la rugiada e ’l gielo/ ch’i’ non avesse i begli occhi davanti» etc. 48

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ne sottolinea la difformità rispetto al veicolo.51 Petrarca riserva l’innesto di tale tipologia avversativa, nella sequenza altrimenti omogenea delle corrispondenze per somiglianza, alla sua iii strofa,52 spaccando a metà la lirica, mentre molza la utilizza per la penultima stanza,53 al fine di proporre un segnale risolutivo che indica lo stadio finale in cui entra il processo dell’argomentazione. Benché attento a rivitalizzare le nervature strutturali proposte dal testo che prende ad esempio, molza si distanzia da Petrarca soprattutto nella tecnica con cui fa interagire i nuclei argomentativi da un lato con le porzioni periodali in cui essi si organizzano e dall’altro con lo spazio metrico che ospita l’intero discorso. in Petrarca, modello di un dinamismo equilibrato, la sintassi si adagia costantemente all’interno delle partizioni strofiche, salvo nella penultima stanza, per questo più risentita54 mentre le variazioni più rilevanti che levigano le strofe si giocano nel terreno della collocazione dei nuclei argomentativi, vale a dire nelle disparate possibilità di posizionamento del comparante e del comparato. È come se il poeta del Canzoniere si imponesse come regola il rispetto della collimazione di metrica e sintassi almeno nei confini principali di comparto e, posto questo vincolo (che crea repetitio e parallelismo nella replicazione a catena delle varie stanze), cercasse uno sfogo all’esigenza di variatio attraverso il terzo canale disponibile, perché se è prevedibile che nuclei di senso discreti si predispongano in giri periodali indipendenti e che questi rispettino normalmente l’inca-

Berra 1986, 183 parla in proposito di figura della «dissimilitudine, che contrappone due situazioni differenti». 52 È la strofa del catoblepa sugli occhi del quale non è opportuno che si soffermi la vista. La dissimilarità con la situazione dell’io lirico sta nel fatto che egli fissi lo sguardo su quello della sua “bella fera” (vv. 39- 40 «ma io, incauto, dolente/ corro sempre al mio male...», v. 44 «et gli occhi vaghi fien cagion ch’io pera»). 53 Se il timoniere osserva preoccupato il cielo invernale coperto dalle nubi, il poeta, con determinazione e noncuranza del rischio, spinge lo sguardo attraverso la fredda cortina di sdegno per cercare di raggiungere la sua donna (vv. 83-85 «ma io, ch’un nembo accolto umido eterno/ di gravi sdegni scerno/ cerco pur lei...»). 54 Cfr. Praloran 2003b, 447, a proposito della canzone RVF 37 scrive: «La tendenza a predisporre una stanza con intonazione marcata o non convenzionale in prossimità della fine, spessissimo proprio nella penultima unità, è, come vedreamo anche per la canzone 50, una scelta caratteristica di Petrarca». 51

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sellamento metrico, non è comunque necessario che la divisione sintattica coincida sempre con la distribuzione dei temi.55 L’opportunità di mutare il posizionamento dei noccioli tematici all’interno della strofa porta Petrarca a inserire il comparato ora ad inizio sirma (sia nella str. i v. 9 «così», che nella str. iii, v. 39 «ma io», ma con due introduttori differenti); ora ad inizio del ii piede (nella str. ii v. 21 «questo prov’io», nella str. v per giustapposizione asindetica, senza segnali di comparazione, nella str. vi v. 80 «simil»). La dislocazione argomentativa più ardita è, infine, quella che innesta il comparato a metà del ii piede della iv strofa, dove pure regna perfetta armonia di misure tra passo sintattico e porzioni metriche e dove, tuttavia, l’ordine non è la soluzione più semplice, quanto piuttosto il frutto di un paziente labor limae. Surge nel mezzo giorno una fontana, e tien nome dal sole, che per natura sòle bollir le notti, e ’n sul giorno esser fredda; e tanto si raffredda quanto ’l sol monta, et quanto è più da presso. Così aven a me stesso, che son fonte di lagrime et soggiorno: quando ’l bel lume adorno ch’è ’l mio sol s’allontana, et triste et sole son le mie luci, et notte oscura è loro, ardo allor; ma se l’oro e i rai veggio apparir del vivo sole, tutto dentro et di for sento cangiarme, et ghiaccio farme, così freddo torno. (RVF 135, str. iv, vv. 46-60)

L’avverbio «così» ad inizio verso e dopo pausa forte crea un solco nella quartina del ii piede cambiando la prospettiva dal comparante all’io lirico in esso prefigurato; la sirma, poi, appare a sua volta divisa esattamente a metà dall’avversativa «ma» in due blocchi equipollenti e contrastanti (vv. 54-57; vv. 57-60). Attraverso tale distribuzione tematica si intrecciano 55

Praloran 2003b, p. 443.

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risonanze plurime, da un lato il parallelismo insito nella similitudine tra la fonte e il poeta-amante, dall’altro l’antitesi visibile nel doppio comportamento del poeta vicino o lontano dagli occhi di Laura, tutto condensato nello spazio della sirma. e tuttavia nella costruzione di simmetrie e di contrapposizioni Petrarca non incorre nell’automatismo proprio per la correlazione elastica che si instaura tra la dislocazione dei motivi e l’ordinata compattezza dei periodi. Se è vero che la seconda parte del ii piede appartiene tematicamente alla sirma dal momento che in essa si affaccia il comparato, è altrettanto vero che non c’è dipendenza sintattica tra i due comparti e che inoltre i due versi terminali della fronte mantengono una certa automia semantica per il fatto che fungono da sommario, da breve cappello introduttivo, legato, ma comunque indipendente. Allo stesso modo, la sirma è spartita in due frasi coordinate, ma queste riguadagnano unità alla partizione metrica perché non fanno che descrivere due aspetti paradossali e – ciò che importa – complementari, relativi alla stessa situazione. in molza, cinquecentista insofferente dei vincoli della misura strofica, invece, è la distribuzione dei nuclei sintattici e di quelli argomentativi a variare in modo solidale, mentre le membrature del reticolo metrico perdono gradualmente di perentorietà.56 nelle str. i, ii domina la sintassi lunga, con periodi che abbracciano fronte e sirma ed elidono il confine di diesis, ma i comparti strofici almeno conservano ancora la funzione di scalini suddivisi e progressivi per lo sviluppo di senso, poiché il comparato viene introdotto in corrispondenza di snodi della testura, ossia all’inizio della sirma (v. 9 «rassembra...»), oppure nell’attacco del secondo piede (v. 20 «ne la memoria stammi»). nelle rimanenti stanze i punti di discontinuità nella sintassi o il cambio di motivi tematici si adagiano in dislocazioni insolite: il comparato è, infatti, introdotto nel secondo verso del secondo piede tetrastico (str. iv, v. 51 «con questa in parte pur han sembianza»), addirittura nel secondo emistichio del secondo piede (str. v, vv. 64-66 «[quando]... l’aure molli/ per verdi piagge e colli/ sospiran dolcemente, al cor mi riede»), oppure nel penultimo verso della fronte. Analogo tratto stilistico si è già osservato in Bembo, Rime LXiX (ivi pp. 332 e ss.). All’interno di una struttura metrica con caratteristiche e dimensioni diverse, il poeta veneziano tende, seppure in modo meno accusato di molza, a non rispettare i confini di partizione metrica né per la distribuzione dei nuclei argomentativi, né per quella dei nuclei sintattici. 56

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tale escamotage, che increspa il dettato e disattende le convenzioni logico-distributive, è praticato in tre casi (str. iii, v. 38 «in cotal vista»; str. vi, v. 83 «ma io...»; str. viii, v. 98 «tal era il dì...») e forse in esso talora agisce anche una componente rimica legata all’eufonia. mille color’ diversi a sé tragge sovente in ciascun loco, contra l’eterno foco, per le piagge del ciel il celeste arco, lo qual s’ei trova scarco di nebbia, splende dopo larga pioggia oltre l’usata foggia. tal era il dì che gli occhi bei soffersi madonna, e ’l cor apersi contra lo stral da cui fuggir val poco: cinta di suoi costumi e sue divise sovra l’umane guise, sì che son fatto rimembrando roco; benché sia scritto il mio languir altrove, né in vecchie o nuove - rime si rinversi. (molza, iV, str. vii, vv. 91-105)

Per motivi connaturati alla struttura dello schema, la rima di concatenatio sembra attrarre nel territorio della sirma l’ultimo verso del secondo piede, lasciando che la fronte si concluda con un distico endecasillabo-settenario a rima baciata («pioggia»: «foggia»). La bipartizione della stanza così rimodellata (7+8), viene a cadere in corrispondenza dell’ottavo verso, dopo ben tre coppie di rime baciate, e la nuova seconda porzione funziona, almeno a livello di pause e respiri intonativi, come se fosse costituita da tre blocchi, due terzine appaiate e composte da endecasillabo e settenario in rima baciata, con l’aggiunta di un terzo endecasillabo che rima con il terzo della terzina successiva (AaB.eeB) ai vv. 98-100 e 101-103 e da ultimo un distico finale autonomo F(f )A ai vv. 104-105.

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5.1.4 Britonio La produzione di Britonio è stata descritta da marcella grippo come espressione di «una poetica d’imitazione, per cui il genere diventa maniera e nasce un codice della ripetizione esasperata ed estenuata» e più oltre interpretata quale esempio di un petrarchismo inteso «non come storia di un’anima, ma come luogo della sperimentazione e specializzazione retorico-stilistica e della pratica del principio di imitazione».57 Ben si comprenderanno, allora, le ragioni per cui all’interno del canzoniere del poeta di Sicignano si addensa un manipolo senz’altro cospiscuo di canzoni che si riferiscono a nuclei semantico-formali petrarcheschi. La sola RVF 126 fornisce, agglutinati insieme, schema e motivi per ben tre prove inserite nella Gelosia del sole, una delle quali dislocata nella prima parte del libro (i, 200 Diletta ombrosa valle)58 e due nella seconda (ii, 365 Lieti e verdi arboscelli e ii, 433 Folti boschetti e rive). i tre testi, tutti rifacimenti della celebre canzone pastorella, mostrano non solo la particolare predilezione del poeta lucano per «atmosfere lirico-bucoliche di stampo sannazariano»,59 ma, più in generale, anche la risonanza prodotta dal testo di Petrarca nei poeti cinquecenteschi. Posto che l’inizio incardina la sua riconoscibilità nell’equivalenza metrico-sintattica tra strofa e periodo di 13 versi e nel ricorso all’allocuzione ad elementi del paesaggio, come è evidente fin dagli incipit, ciascuna delle tre canzoni, abbastanza ben distanziate nell’economia generale del libro di rime, si occupa dell’approfondimento di un determinato momento testuale ravvisato nella canzone-sinopia e che sembra circolare saldamente agganciato alla struttura lessicale, sintattica ed argomentativa nel quale è stato espresso. La i, 200, presenta uno zoom sulla rievocazione del primo incontro del poeta con la donna all’interno della natura che egli continua ad attraversare in sua assenza. A dare la sensazione di rallentamento che i gesti femminili assumono nella prospettiva del ricordo interviene, oltre all’inciso tra parentesi con fuga nella dimensione del “non più”,60 l’anafora, che nella canzone petrarchesca ritmava la scena Grippo 1996, 45. La canzone tradisce solo nel penultimo verso della stanza lo schema di RVF 126, sostituendo un endecasillabo al previsto settenario. 59 Raimondi 1973, 110. 60 Cfr. RVF 126, vv. 40-42 «Da’ be’ rami scendea/ (dolce ne la memoria)/ una pioggia di fior’

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della pioggia di fiori nel grembo di Laura,61 e parimenti, in questo testo accompagna il poeta mentre indica fisicamente i punti della quinta naturale lambiti dalla donna nella scena che egli va pian piano rammemorando.62 La ii, 365 tratta, invece, del vagheggiamento del ritorno dell’amata nel locus amoenus; il ricrearsi del “benedetto giorno”, di quell’estatico momento vissuto un tempo, al contrario che in RVF 126, ha da venire prima che il poeta esali l’ultimo respiro e l’attesa è appunto ciò che permette di esclamare: «fia verde ancor la spene/ pria dal martir confusa» (vv. 22-23). Pervade il componimento un tono accorato e ricco di interiezioni, come già era avvenuto nella iii stanza di RVF 126, solo che il sentimento di pietà che il poeta invoca su di sé gli verrà dal fiume testimone dei suoi martiri e non dalla donna, immortalata nelle sue fredde «gratie alte e superbe» (v. 50) e scevra di ogni turbamento. il particolare di distacco ritorna poi più chiaro nella canzone ii, 433, che conclude la serie delle rivisitazioni dedicando le cinque stanze interamente alla prefigurazione della morte del poeta, immaginata anche da Petrarca nella ii stanza di 126. Siamo al termine del canzoniere britoniano e l’io lirico percepisce in modo sempre più netto l’irremovibile ritrosia dell’amata e la necessità di rinsavire dai suoi errori prima di morire, tanto più che il così invocato ritorno della donna nello scenario naturale non si è ancora realizzato nonostante il parossismo a cui è giunta la sua disperazione (usando una clausola petrarchesca l’io poetante parla di questi versi che va componendo come di «voci estreme» al v. 13 e subito dopo ai vv. 14-18 constata: «già scema ognihor lo stile/ col fuggir de l’etade/ et quella, che tant’è sdegnosa e cruda/ quant’è la più gentile/ no stringe anchor pietade»). Se il sogno di morte in Petrarca non fa che denunciare l’asprezza del desiderio mentre prefigura uno spazio finanche solo immaginario di risarcimento e, coerente con questo propo-

sovra ’l suo grembo». in Britonio troviamo al v. 36 l’incidentale «e ’l rimembrar m’attrista». Cfr. RVF 126, vv. 46-51 «Qual fior cadea sul lembo,/ qual su le treccie bionde,/ ch’oro forbito e tperle/ eran quel dì, a vederle;/ qual si posava in terra, et qual su l’onde;/ qual, con vago errore/ girando, parea dir: Qui regna Amore.» 62 Cfr. Britonio, i, 200, vv. 27-39 «Qui le soavi piante/ pria mosse altiera e lieta/ Qui sovra questi cespi anchor s’assise/ et con vago sembiante/ conforme al suo pianeta/ volse i begli occhi e dolcemente rise/ poi con amor sorrise/ Qui di mirar le piacque/ con leggiadra vista/ e ’l rimembrar m’attrista/ quelli arboscelli e queste gelide acque./ Qui poi con dolce canto, un sguardo, un riso,/ mi fe’di tregua e del mio cor diviso.»

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sito, si avvale di rime cupe, in Britonio le stesse rime63 rivestono l’esternazione di un sentimento affatto diverso, ossia l’aspirazione a sottrarsi con il sopraggiungere della morte al servitium amoris in maniera definitiva e contemporaneamente la preoccupazione che la dipartita dalla vita terrena venga occultata al mondo dai boschi e dalla riviere non già per vendetta ma forse perché la possibile indifferenza della donna alla notizia non gli cagioni ulteriori pene64 e rinfocoli sentimenti che intende placare seguendo una «scorta che lo conduca a migliori anni»65 (v. 58). Del resto un intermezzo di una sola ventina di liriche separa questa canzone di ravvedimento e, in tal senso, “canzone di lontananza” come RVF 126, dall’ultima rima del libro Vergine, di bellezza eterno exempio (ii, 454) che costituisce una replica perfetta dell’invocazione a maria che chiude i Fragmenta (RVF 366). ennesima prova di coerenza letteraria più che di sincero anelito66, la canzone alla Vergine riprende uno schema metrico poco diffuso ma soprattutto presenta, ad esso correlato, un genere di disposizione argomentativa solennemente riverberata che di rado viene rivitalizzato nelle raccolte di primo Cinquecento, inclini ad avvalersi per il colophon del più agile sonetto.67 La lirica britoniana si intesse di appelli alla Vergine, collocati nella maglia strofica nei medesimi punti indicati dal modello, in corrispondenza del primo e del nono verso di ciascuna delle dieci stanze, e però, ancora una volta, all’interno di una sintassi più morbida e più liberamente effusa nelle partizioni metriche di piedi e sirma. Attributi (v. Da Petrarca sono riprese i seguenti rimanti: vv. 16, 19, 20 «cruda: chiuda: ignuda» (cfr. RVF 126 nelle stesse posizioni versali); vv. 29, 32, 33 «gonna: donna: colonna» (cfr. vv. 3, 6, 7); vv. 53, 56 «rimembra: membra» (cfr. vv. 2, 5). 64 Cfr. Britonio, i, 433, ai vv. 32-36 l’appello del poeta ai boschi: «Per voi nol sappia la mia bella Donna/ ch’al pianger mio Colonna/ fu sempre immota e salda». 65 Britonio i, 433, vv. 53-58 «Qualhor ciò mi rimembra/ fra l’aspra guerra ho tregua/ ch’allhor vedransi fuor de’ lunghi affanni/ le tormentose membra/ e converrà ch’io segua/ scorta che mi conduca a migliori anni». 66 Grippo 1996, 22 sottolinea che nel libro di Britonio il desiderio di ricongiungersi al divino, che marca via via con maggiore incisività gli ultimi testi della seconda parte, «ha più il valore di un espediente prettamente letterario che di un’esperienza realmente vissuta, come era accaduto invece al Petrarca dei Frammenti». 67 notevole eccezione è anche la canzone conclusiva degli Amori di B. tasso, sebbene costruita su un altro schema metrico e riempita di motivi diversi che rimangono tuttavia nel circuito della tradizione biblica. 63

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27 «pura», v. 27 «umana», v. 53 «sola», v. 118 «senza orgoglio»),68 motivi (v. 74 «Vergine, Sposa, e madre», v. 120 l’anima «con le ginocchia di sua colpa inchine», il rimorso per il culto di una «beltà sì caduca», maria come stella che indirizza al porto celeste v. 104 «il dubbio legno» etc.),69 rime e rimanti70 rientrano in circolo per sostentare la materia convenzionale e imprimere echi altisonanti al testo, che termina con una sorta di elegiaca recusatio dell’amore, la rinuncia a «seguir vano obgetto» (v. 152), ma non con la totale e sincera resa al sacro.71 Per altre liriche britoniane, risulta, poi, ancora valido ciò che si è osservato poco sopra per il molza riguardo all’impianto delle canzoni cosiddette ‘a moltiplicatore tematico’ o di quelle che giustappongono motivi figurali. tali orchestrazioni tematiche si prestano con particolare facilità a trasmigrare attraverso la tradizione in nuclei tematico-formali. tuttavia, se dei testi petrarcheschi Britonio replica le qualità armoniche e la trattazione multiforme dei temi, non sempre ne coglie in maniera altrettanto scrupolosa gli accorgimenti costruttivi. Chiari esempi di quanto detto si possono osservare in La rimembranza dell’età mia prima (i, 84), tentativo del poeta

Cfr. RVF 366, v. 27 «pura», v. 118 «humana», v. 53 «sola», v. 118 «nemica d’orgoglio». Cfr. RVF 366 v. 47 «madre, figliuola e sposa», v. 63 «con le ginocchia della mente inchine», v. 85 «mortal bellezza», vv. 67-68 «di questo tempestoso mare stella/ d’ogni nocchier fidata guida». 70 tra i più notevoli: v. 1 «esempio» (cfr. RVF 366 v. 53), v. 9 «Figlio» (cfr. v. 24), vv. 15, 17 «incoronata: beata» (cfr. vv. 38, 39), v. 26 «aspetta» (cfr. v. 91), vv. 37, 39 «fede: mercede» (cfr. vv. 8, 9), vv. 41,43 «humile: vile» (cfr. vv. 120, 124), v. 52 «carne» (cfr. v. 78), vv. 60-61 «schiocchi: occhi» (cfr. vv. 21, 22), vv. 66, 70 «terra. guerra» (cfr. vv. 12, 13), v. 74 «madre» (cfr. v. 28), v. 76 «pia» (cfr. v. 61), vv. 79, 83 «salute: vertute» (cfr. vv. 102, 104), v. 90 «scorta» (cfr. v. 64), vv. 107, 111 «giorni: adorni» (cfr. vv. 29, 32), vv. 112,113 «caduca: induca» (cfr. vv. 119, 121). 71 Cfr. RVF 366, vv. 126-128 «Vergine, i’ sacro e purgo/ al tuo nome et penseri e ’ngegno et stile,/ la lingua e ’l cor, le lagrime e i sospiri». L’omissione di tale spunto tematico petrarchesco da parte di Britonio pare consentanea rispetto alla lettura che generalmente i cinquecentisti facevano del testo. in proposito gorni 1987b, 212 dichiara che i commentatori di Petrarca hanno «dato poco peso a una conclusione che s’impone invece in modo tanto evidente. tutto il testo converge verso la finale consacrazione a maria, vera dedicataria e assegnataria, in articulo mortis, di ingegno e stile, lagrime e sospiri. È probabile che questa dedica finale sia stata sempre rimossa dal lettore del canzoniere per l’inopinato abbandono del culto laurano che essa segna indefettibilmente: un esito così scopertamente confessionale si sopporta male dal fondatore della lirica d’arte europea.» 68

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cinquecentesco di misurarsi con la canzone delle metamorfosi RVF 23, di cui riproduce fedelmente lo schema (8 strofe di 20 versi a rima ABC. BAC. CDeeDFgHHgFFii), in Poi che fuori di speranza e di ben privo (i, 331), su schema e struttura di RVF 127, e infine in Quando con vermiglia fronte (i, 289), lirica che si muove sulla falsa riga della canzone del tramonto RVF 50 con lievissima innovazione nello schema (ABC. BAC. addeeFeF anziché ABC. BAC. cddeeFeF con concatenatio pulchra). Come è noto, Nel dolce tempo de la prima etade si presenta come un racconto compendiario e allusivo delle fasi iniziali dell’amore del poeta per Laura perché, sulla scorta di ovidio, Petrarca le ripercorre proponendole sotto la veste di dolorose trasformazioni a cui l’io lirico soggiace ciclicamente. il nocciolo tematico è identificabile con «la coazione a ripetere, a dire il desiderio» e la continua frustrazione di ogni tentativo di darvi sfogo, tanto che il testo assume coerentemente una veste linguistica aspra, con esposizione di rime comiche e petrose e linguaggio dalle tinte forti.72 La prospettiva britoniana, pur in presenza di alcuni basilari punti di analogia con il modello, si offre fin da subito sensibilmente diversa. Ciò attorno a cui la canzone ruota non è tanto la sottolineatura della punizione inflitta dalla donna al poeta che, irretito nella trappola dell’eros, trasgredisce il codice socio-culturale del riserbo mostrando o dichiarando il suo sentimento e la sua smania di possesso,73 quanto, più semplicemente, la singolarità della sofferenza «strana» e straniante che i tormenti amorosi producono sull’io lirico. esiste un margine di sovrapponibilità con RVF 135, sia per la citazione quasi letterale di un verso in uno dei punti introduttivi del testo di Britonio (v. 21 «né fu sembianza mai sì strania et nova»), sia per l’attitudine allocutiva nei confronti di Amore, apostrofato in qualità di interlocutore diretto dell’abbandono lirico74 e non citato come mero personaggio della narrazione, come accade in RVF 23. L’affondo poetico sul motivo dell’angoscia inesprimibile instillata da Amore insiste anche nell’esordio di Nel dolce tempo de la

Cfr. la dissertazione monografica sulla canzone delle metamorfosi con puntualizzazioni sui rapporti con la tradizione due-trecentesca e in particolar modo con Dante, in Santagata 1990, 273-325. 73 Cfr. Santagata 1990, 281. 74 Berra 1986, 173. in RVF 135 «il vocativo al termine del v. 4 rivela che l’introduzione è un’apostrofe rivolta al ‘destinatario interno’ della canzone, Amore». 72

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prima etade, ma contenuto in un limitato giro di versi (vv. 10-20), alla stregua di una nota collaterale rispetto all’esposizione principale. Britonio riporta in primo piano l’argomento amplificandone le risonanze ed elevandolo a cornice dell’intera composizione, sicché, oltre a puntuali richiami in molte delle strofe centrali, esso è posizionato, circolarmente, nella stanza iniziale75 ma anche in quella conclusiva,76 con una sorta di riecheggiamento sdoppiato e di recrudescenza della str. i di RVF 23, dove, tra l’altro, risulta che l’espediente del canto attenua l’affanno (v. 4 «perché cantando il duol si disacerba» mentre in Britonio, v. 13 «non che narrarlo a pieno i’ mi rinfranchi»). Con l’esorbitare del motivo doloroso va di pari passo la riduzione dello spazio concesso al dispiegamento delle immagini di metamorfosi, ben 6 in Petrarca (lauro, cigno, sasso, fonte, selce, cervo) e solo 4 in Britonio (girasole, fonte, fiume, pietra). tra le due canzoni, permangono, in ogni caso, forti aspetti di solidarietà tematica che si allacciano – ed è ciò che qui particolarmente interessa – a precise figure di dispositio sintattica. Primo fra tutti, si noti la collocazione privilegiata e proemiale, vale a dire intesa a dare l’avvio a tutta la serie delle trasformazioni, di una ‘metamorfosi-senhal’, mediante la quale il poeta si annulla sprofondando nell’oggetto-simbolo che richiama immediatamente l’identità dell’amata. in termini analoghi, anche perché in entrambi i casi si tratta di trascolorazione in un vegetale, Petrarca parla della metamorfosi nel lauro e Britonio di quella nel girasole,77 fiore che si volge costantemente alla donna-sole protagonista

Cfr. v. 6 «il duol ch’è stato si gran tempo occolto», v. 17-20 «che aguagliar il mio mal non può l’ingegno/ ond’io sovente contra me mi sdegno/ veggendo a tale e tanto il mio martire/ che pensar non si può non che ridire». 76 Cfr. vv. 141-143 «Così sommesso al tuo spietato impero/ Amor, m’hai scorto d’un in altro stratio, et fattomi un spettacol di tua forza» (RVF 23, v. 9 «di ch’io son facto a molta gente exempio»); vv. 145-147 «Così mi fusse accorto pria del vero/ che non sforzaria forse com’hor sforza/ il tuo furor questa mia frale scorza» (richiami alla violenza rimica di RVF 23 vv. 19-20 [il pensiero amoroso] «e mi face obliar me stesso a forza/ ché ten di me quel d’entro, et io la scorza»); vv. 149-151 «Quant’ha sofferto chi può dirlo a pieno?/ in ciò non verria meno/ l’ingegno sol: ma mille e mille penne» (amplifica numericamente RVF 23, vv. 10-12 «benché ’l mio duro scempio/ sia scripto altrove, sì che mille penne/ ne son già stanche [...]»). 77 Grippo 1996, 32 sostiene che anche nella canzone di Britonio la prima metamor75

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del suo canzoniere.78 Pur affermando che in RVF 23 il poeta non intende scalare secondo un principio di progressione le scene metamorfiche, Santagata ammette che «la metamorfosi in lauro [...] occupa un posto gerarchicamente superiore alle altre, perché prima nel tempo e perché irreversibile»,79 (cfr. v. 38 «e i duo mi trasformaro in quel ch’i sono», e vv. 167-168 «né per nova figura il primo alloro/ seppi lassar...»). Simile priorità viene assegnata a Britonio alla trasfigurazione dell’io lirico in girasole che, sebbene non duratura quanto quella petrarchesca in lauro, ha la caratteristica di ottenere nel testo lo spazio più ampio e di essere l’unica a non venire ricusata da colui che la subisce, ma anzi, agognata innaturalmente e per questo interrotta in maniera subitanea, come si legge nei versi 61-63 «spatio maggior da me fu chiesto al cielo/ di star in quella altrui noiosa forma./ ma fu mercé interdetta a simil priego».80 L’importanza primigenia del momento narrativo e soprattutto la volontà di esibire fin da subito una spia certa dell’emulazione dell’antecedente spingono Britonio ad avvalersi di simili pattern dispositivi per

fosi descritta sia quella in lauro, subito seguita da una in fiore. in realtà, credo che la trasformazione presente nella ii e nella iii strofa sia da riternersi unica e individuabile nel girasole, come sembra suggerire l’explicit di entrambe le strofe che insiste sul fenomeno dell’eliotropismo (v. 40 «co i verdi rami suoi girarsi al Sole», v. 60 «di sol girarmi inver l’etterno lume.»). Se nella prima delle due strofe si parla di «pianta» con «verdi rami» è probabilmente perché il girasole è un fiore di notevoli dimensioni il cui stelo può raggiungere anche diversi metri d’altezza; l’impressione di scarto tra la ii e la iii strofa sarebbe invece dovuta alla descrizione delle diverse fasi di maturazione dell’infiorescenza. nel girasole anche i boccioli ancora verdi (della ii strofa) si orientano già verso il percorso del sole, e il fenomeno prosegue quando i petali dall’«horrido pallore» (v. 54) si fanno di «color vermiglio» (v. 53), come precisato dal poeta nella iii stanza. 78 RVF 23 vv. 43-49 «e i capei vidi far di quella fronde/ di che sperato avea già lor corona,/ e i piedi in ch’io mi stetti, et mossi, et corsi,/ com’ogni membro a l’anima risponde,/ diventar due radici sovra l’onde/ non di Peneo, ma d’un più altero fiume,/ e ’n duo rami mutarsi ambe le braccia!». Cfr. Britonio, vv. 41-42 «[...] l’afflitte membra/ cangiar vid’io dal primo stato loro» e vv. 45-49 «Lasso, ch’io tremo, alhor che mi rimembra/ come il mio corpo variato giacque/ là presso un rio di fresche acque,/ gli piè radici i’ scorsi a terra fisse,/ l’altro di me, mutarsi in herba essangue...». 79 Santagata 1990, 279. 80 Seguendo un’icastica corrispondenza tra forma e contenuto, il luogo della canzone è qui sottoposto ad una trazione “irrazionale”. il segmento riportato partecipa, infatti, di un periodo che si tende tra due diverse strofe, come già visto a p. 273.

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ricreare l’atmosfera del passo petrarchesco. Ché sentendo il crudel di ch’io ragiono infin allor percossa di suo strale non essermi passato oltra la gonna, prese in sua scorta una possente donna, ver’ cui poco già mai mi valse o vale ingegno, o forza, o dimandar perdono; e i duo mi trasformaro in quel ch’i’ sono, facendomi d’uom vivo un lauro verde, che per fredda stagion foglia non perde. (RVF 23, str. ii, vv. 32-40)

et tu ben sai che nel primiero giorno che ’n guida havesti quella altiera Donna del scettro tuo sì immobile Colonna, senza spavento d’alcun grave scorno ch’io tal divenni, e teco i boschi il sanno, ch’io far mi vidi al cominciar de l’anno d’huom vero, una sol Pianta, ch’ognhor suole co i verdi rami suoi girarsi al Sole. (Britonio, i, 84, str. ii, vv. 33-40)

Dopo aver presentato la centralità della donna, quale figura superba (v. 45 «altiera», mentre in Petrarca era «possente», v. 35) di cui Amore si serve per irretire nella sua trappola l’amante, Britonio rimaneggia la clausola della strofa dislocandone variatamente gli elementi per piegarla alle sue esigenze espositive. insiste, dunque, sul senso di spossessamento e di privazione dell’autenticità anziché su quello di vitalità nell’aggettivare il soggetto lirico («d’huom vero» e non «d’uom vivo»), controbilancia la forza della rima petrosa «verde: perde» con l’insistenza allitterante o paronomastica sulla marca sibilante della parola che figurativamente incarna la sua amata81 («sol», «suole», «suoi», «Sole»), recupera l’aggettivo «verde» all’interno dell’ultimo verso. infine, visto che il lauro, al contrario del sole, evoca direttamente con la sua sostanza fonica, e non solo per traslazione simbolica, il nome della donna, Britonio provvede a risarcire la strofa di questo aspetto ponendo nella sede esposta di punta di verso il riferimento all’amata («Colonna»)82 e replicando la corposa rima onnA già presente Fin dal sonetto proemiale la Colonna è apostrofata come v. 8 «... il sol che abbagliommi da’ prim’anni». È doveroso, tuttavia, ricordare che il sole, figura centrale tra le immagini poetiche di Britonio e per questo presente anche nel titolo del canzoniere, si presta di testo in testo ad indicare con programmatica polisemia ed ambiguità anche altri referenti, ossia l’astro in senso fisico e Ferrante Francesco, consorte di Vittoria (cfr. grippo 1996, 36). L’identificazione più congrua per il contesto della canzone i, 84 mi sembra in ogni caso quello con l’ispiratrice dell’opera. 82 il libro di Britonio è un omaggio a Vittoria Colonna, centro del circolo poetico ischitano di cui fece parte dal 1512. 81

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nell’analogo giro di versi petrarchesco. Vi sono, poi, altri luoghi testuali in cui si rende evidente il riutilizzo da parte di Britonio di soluzioni tematico-narrative già presenti nella canzone di Petrarca. in entrambi i componimenti le trasmutazioni sono intervallate da momenti in cui l’io lirico riacquista temporaneamente la condizione primigenia; oltre a ciò, è condivisa anche dal poeta cinquecentesco l’idea di porre, ad un certo punto, la donna in contiguità fisica con l’io lirico distaccato dalle sue sembianze di uomo. in Petrarca la scena è particolarmente cruda perché ritrae Laura nell’atto di svellere il cuore all’amante fatto cigno (vv. 73-74 «Questa che col mirar gli animi fura/ m’aperse il petto, e ’l cor prese con mano/ dicendo a me: Di ciò non far parola»). Britonio suggerisce, invece, un quadro dalle tinte più languide e sensuali poiché descrive la donna mentre immerge ignara le mani nelle acque della fonte in cui si è tramutato il soggetto lirico e che pertanto si riscalderanno repentinamente dopo il tanto sospirato contatto (vv. 91-95 «a guisa di chi se medesmo oblie/ per bagnarsi il bel volto le man stese/ onde per ch’io d’Amor più forte ardea/ tosto che parte di quelle acque prese/ nel freddo humor il mio calor le offese»). Ulteriore spunto ripreso da Britonio è la “caduta d’inganno” sul finire del componimento, un movimento argomentativo che prima suggerisce una chiusa euforica al testo e poi si rivela preambolo di un ennesimo cocente scorno: Poi che madonna da pietà commossa degnò mirarme, et ricognovve et vide gir di pari la pena col peccato, benigna mi redusse al primo stato. ma nulla à ’l mondo in ch’uom saggio si fide: ch’ancor poi ripregando, i nervi et l’ossa mi volse in dura selce; et così scossa voce rimasi de l’antiche some chiamando morte, et lei sola per nome. (RVF 23, str. vii, vv. 132-140)

Poi pentita del caso acerbo et empio, lieta in l’esser di prima mi rivolse facendomi huom de vera carne et d’ossa. ma che? Poi via più scossa d’ogni mercé novella fuga tolse, non pur altiera, ma ritrosa in vista ond’io tremando andai di piaggia in piaggia, ai null’altro che morte al fin s’acquista in cotal vita travagliosa e trista. (Britonio, i, 84, str. vii, vv. 127-135)

in seguito ad una serie vertiginosa di metamorfosi, la donna si mostra paga dei tormenti che ha inflitto al poeta e lo libera dalla prigionia in corpi estranei ridonandogli lo statuto originario (v. 135 «mi redusse al primo stato» ovvero v. 128 «in l’esser di prima mi rivolse»). L’evento inaspettato promuove nell’afflitto la speranza che finalmente il suo desiderio venga 399

appagato, speranza che sembra confermata appunto dall’atteggiamento di turbata e benevola partecipazione della donna (in Petrarca, v. 132 «da pietà commossa» e v. 134 «benigna»; in Britonio v. 127 «pentita») e dal suo intervento attivo nello scioglimento della vicenda. tuttavia, è proprio a questo punto che l’io lirico subisce la pena più acerba perché le sue attese vengono immediatamente smentite, la realtà si mostra contraddittoria e l’unica reazione di difesa da opporre al disinganno è l’amara saggezza dell’adagio, recuperato tardivamente e solo nel momento del bilancio e della scrittura del testo. L’esclamazione sentenziosa in Britonio (vv. 134135) suggella con rassegnazione l’interruzione dell’idillio che l’io lirico si prospettava una volta ripreso l’aspetto umano a causa della repentina fuga dell’oggetto del desiderio; la massima (v. 136) di Petrarca previene invece la nuova catastrophé, ossia la mancata propensione della donna alle preghiere che il poeta si risolve ad esprimere e l’innesco di un ulteriore processo metamorfico, continuato anche nella stanza successiva. Se dunque la canzone di Britonio declina a partire dalla seconda metà della settima stanza verso un tono meditativo ed elegiaco, mantenuto anche nell’ultima strofa che fa da cornice esterna, la canzone di Petrarca propriamente non si chiude e ritorna ciclicamente su nuove metamorfosi, rivelando il suo carattere di riproposizione di sequenze che potrebbe proseguire senza soluzione di continuità. Con ciò si approda alla peculiarità del testo petrarchesco e a quella marca distintiva di cui, il pur accorto Britonio, non sceglie di appropriarsi. La disarticolazione tematica delle stanze è ricomposta da Petrarca attraverso la dislocazione sfalsata delle metamorfosi su mezze stanze contigue e ciò significa che le scene non occupano ciascuna un’unica stanza, ma si distendono tra una strofa e l’altra creando un legamento a catena. Questa distribuzione, «tanto ammirata dagli esegeti cinquecenteschi»,83 non funziona da palinsesto per Britonio, che solo in un caso pone la metamorfosi a cavaliere tra due strofe adiacenti (str. iv-v, trasformazione in fonte), mentre, per lo più, opta per la dilatazione della medesima figurazione su segmenti unitari (su una strofa intera o due strofe intere vicine). Più elementare è anche la tessitura dell’esordio che anticipa molto di quello che in Petrarca si scopre e si razionalizza solo nel corso del testo. L’argumentum

83

Santagata 1990, 280.

400

in RVF 23 è scandito da precisi segnali testuali84 nei primi nove versi del testo; il poeta esibisce una precisa scaletta nel momento in cui dichiara di voler cantare della sua giovinezza, quando visse libero dai lacci d’Amore (cosa che farà nella prima metà della seconda stanza), e di come poi sia stato catturato dall’invidioso dio; ma, al di là di questo conciso cenno, il racconto delle metamorfosi procede inaspettato di strofa in strofa. Britonio, invece, nella stanza iniziale allude genericamente al proposito di circoscrivere la materia del canto alle strazianti sofferenze amorose senza segnalare un piano di esposizione. Poi, nella ii stanza, in una sorta di seconda introduzione, prefigura il contenuto che si dispiegherà nel testo mettendosi a paragone con Proteo, divinità metamorfica per eccellenza. Sai ben dal dì ch’entrai nella tua corte che extremo aspro dolor non si ritrova, che ’n me non l’habbia esperto in questa vita, né fu sembianza mai sì strania e nova che ’n maggior fe della mia assidua morte non l’habbi con la forza tua infinita impressa in la mia faccia tramortita sì che nume non fia d’onda marina che prender possa mai di me più forme, tal par che mi transforme la tua potentia singular divina come altrui giova, d’un in altro affanno. (Britonio, i, 84, str. ii, vv. 21-32)

nel componimento cinquecentesco, tuttavia, se la compaginazione dei motivi è più ordinaria e tradizionale di quanto non sia nella proposta dei Fragmenta, molto più increspata è la sintassi che eccede le misure metriche e conduce il lettore all’interno di strofe i cui contorni sono sfumati da periodi lunghi e costellati da anastrofi, iperbati ed inarcature, come si può apprezzare nei versi iniziali della ii stanza sopra riprodotti e in particolar modo nell’elisione dello stacco di diesis ottenuta mediante la spezzatura di una forma verbale perifrastica (vv. 6-7 «l’habbi [...]/impressa»), ma anche nell’ardito Cfr. RVF 23, in particolare v. 5 «canterò com’io vissi in libertade» e v. 7 «Poi seguirò sì come a lui ne ’ncrebbe». 84

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collegamento interstrofico che si realizza tra iii e iv stanza. La seconda delle canzoni a polittico del poeta lucano è la i, 289, che recupera struttura, formule introduttive, motivi e immagini dalla celebre canzone del tramonto di Petrarca, riadattandone lievemente solo lo schema metrico. La prima strofa, invero, è nell’orditura completamente fedele all’architesto, ma poi, nelle strofe successive, l’attenzione del poeta sembra declinare e concedersi una variazione sulla testura intonata nella rima del primo verso della sirma. Ciononostante non sussistono perplessità intorno all’inquadramento della lirica, che si delinea programmaticamente come pendant speculare rispetto a RVF 50. Ne la stagion che ’l ciel rapido inchina svolge lungo le 5 stanze il motivo dell’alleviamento dalle sofferenze di cui godono tutti con il sopraggiungere del crepuscolo, fatta eccezione per il poeta che, vittima della passione amorosa, si pone in contrasto con la calma della sera e continua a tormentarsi senza speranza di posa alcuna. La canzone di Britonio, invece, in linea con il filo narrativo che si dipana lungo il canzoniere, dipinge la situazione opposta, almeno fino alla quarta e penultima stanza. Se una delle pene più acerbe che tormentano l’io lirico è la gelosia nei confronti del sole che durante il giorno può godere ininterrottamente della sua amata, sono il dì e il suo sorgere a caratterizzarsi come momenti di massimo struggimento per il poeta. Di qui deriva che, volendo preservare la tecnica argomentativa di RVF 50, al poeta non rimane che caricare la situazione di pathos procurando delle scene di contrasto e quindi cogliere i personaggi citati nei quadri strofici nel godimento di quello stesso momento che per l’amante è odioso. nulla di più immediato, se non fosse che quasi tutti i protagonisti delle stanze sono i medesimi della canzone del tramonto. Quelli che comparivano nel testo petrarchesco annoiati dalle fatiche diurne e desiderosi che giungesse la sera, nel nuovo componimento attendono lo spuntar del sole. nei versi di Britonio tornano a vivere in una rinnovata dimensione la «vecchiarella pellegrina», sdoppiata in due ipostasi, «la vecchiarella» (str. ii) e il «peregin» (str. iv), il «pastor» (str. iii), mentre lo «zappador» (str. v) mantiene inalterato il suo profilo; viene inoltre aggiunta in testa un’immagine di insieme, «la gente» (str. i) e invece sono assenti «i naviganti» e «i buoi». Lessico e trame sintattiche dei Frammenti, padroneggiate con disinvoltura e rimescolate all’occorrenza da Britonio, provvedono al lettore, per così dire, il rovescio mattinale della 402

scrittura di RVF 50, l’intrico dei fili dietro al panno, un tracciato corrispondente al ricamo vespertino tanto celebre. ne la stagion che ’l ciel rapido inchina verso occidente, et che ’l dì nostro vola a gente che di là forse l’aspetta, veggendosi in lontan paese sola, la stancha vecchiarella pellegrina raddoppia i passi, et più et più s’affretta; et poi così soletta al fin di sua giornata talora è consolata d’alcun breve riposo, ov’ella oblia la noia e ’l mal de la passata via. ma, lasso, ogni dolor che ’l dì m’adduce cresce qualor s’invia per partirsi da noi l’eterna luce. (RVF 50, str. i, vv. 1-14)

Allhor che ’l novo dì ne rende il cielo et che l’amata notte vince l’alba, et sparir scorgo ogni pregiata stella, a pena le contrade il sole inalba, che con avaro e disioso zelo suol levarsi a filar la vecchiarella, né per caldo, o per gielo manca passar soletta così l’età negletta. Ai, lasso me, qual aspro e rio Pianeta mena la vita mia così inquieta? Che state e verno mai non posa un’hora, et tanto men sta lieta quanto l’eterno lume vien fuora. (Britonio, i, 289, str. ii, vv. 15-28)

in questa stanza, accanto ad alcune costanti, come il vezzeggiativo («vecchiarella»), l’accenno altrettanto pietosamente partecipato alla solitudine in posizione di rima («soletta»), la febbrile vitalità, nuove caratteristiche, sempre tratte dal novero delle possibilità del modello, individuano il personaggio senile (la donna, ad esempio, pare mossa da un «avaro» zelo, con prelievo dell’aggettivo che Petrarca attribuiva allo «zappador»). negli ultimi cinque versi la voce dell’io risuona con gli stessi echi rimici di RVF 50, vv. 25-28 («ma chi vuol si rallegri ad ora ad ora/ ch’io pur non ebbi anchor, non dirò lieta/ ma riposata un’hora/ né per volger di ciel né di pianeta»), ma essa non si pone in netta antitesi con la vecchiarella perché di quest’ultima non traspare, al di là della fervente smania di portare a termine il lavoro, tanta serenità quanta angoscia prova il poeta. i due, invece, sembrano avere in comune la perseveranza del pensiero che li occupa, tanto da rendere ininfluenti le condizioni stagionali in cui sono calati (a «né per caldo o per gielo» del v. 21 equivale «state e verno» del v. 26). Analogamente complesse risultano anche le rispondenze tra questa prima strofa di RVF 50 e la iv di Britonio, dedicata al peregrin (v. 46, «stanco», che «raffretta i passi» al v. 51), non ultima l’appropriazione della medesima locuzione avversativa per introdurre il secondo movimento del403

la stanza («ma lasso») dislocata nel terz’ultimo verso e, più evidente rispetto all’esempio fornito sopra, il vigoroso senso di serenità che si propaga dal personaggio85 e che si oppone all’inquietudine dell’io lirico, incamminato su una strada di dolore. Lo sfondo su cui le figure si stagliano è sempre quello messo a fuoco grazie al particolare cronografico – ora relativo all’alba e non più al tramonto – e costantemente inserito in una struttura subordinativa temporale prolettica, con minore varietà rispetto al ventaglio di soluzioni predisposte da Petrarca.86 L’ultima strofa, in entrambi i casi, lascia intravvedere uno scarto perché al primo verso, in genere dedicato all’inquadramento temporale, risale l’io con la sua effusione lirica, più composta in Petrarca (v. 57 «et perché un poco nel parlar mi sfogo»), calda ed enfatica in Britonio (v. 57 «empio destino, horribil mia fortuna»). Proprio a questo punto, sul finire del testo, la prova del poeta cinquecentesco inaspettatamente subisce una decisiva virata, che non consiste nel subitaneo ampliamento dello spazio strofico concesso al poeta (come accade a partire dalla iv str. di Petrarca), quanto piuttosto in un allargamento di prospettiva che tende ad inglobare anche la tematica complementare espressa nel modello. non a caso fa la sua comparsa la figura dello «zappador», di cui si raccontano con palese connotazione negativa le fatiche giornaliere (vv. 58-59 «vanne, il mattino, il zappator già mesto/ a prendere l’arme sue gravi e diurne» e v. 60 «Poi che gli è stato il dì tutto molesto») e poi il riposo sperato che giunBritonio descrive il suo pellegrino pienamente appagato. non si tratta della soddisfazione e del sollievo temporanei che si provano alla fine del giorno (cfr. RVF 50, v. 8 «al fin di sua giornata», e v. 9 «alcun breve riposo»), ma quelle che coronano il termine del cammino (i, 289, vv. 52-53 «et giunto al luogo scema ogni sua noia/ et tutto il duol di prima riede in gioia»). inoltre non è specificato se la meta sia toccata a sera e in ogni caso il personaggio si mostra consolato perché rivolto trepidamente allo scopo anche nel pieno della fatica (vv. 47-49 «Quando l’hora men fresca più ’l percuote/ s’adagia e del camin canta, e sospira/ con anxiose note.») 86 Cfr. gli inizi strofici di Britonio, i, 289: str. i «Quando l’Aurora con vermiglia fronte...»; str. ii «Allhor che nuov dì ne rende il cielo»; str. iii «Come dal duro aspetto della terra/ il sol ritoglie le adombrate bende»; str. iv «Qualhor su inalza il sol le accese rote». in RVF 50 iniziano con subordinate temporali prolettiche solo la str. ii «Come ’l sol volge le infiammate rote» e la str. iii «Quando vede il pastor calar i raggi»; con una subordinata posposta alla principale la str. iv «e i naviganti in qualche chiusa valle/ gettan le membra poi che ’l sol s’asconde»; con semplici complementi circostanziali la prima «ne la stagione che ’l ciel rapido inchina...» e più brevemente l’ultima stanza «la sera». 85

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ge a sera. il margine di contrapposizione con l’io è destinato a consumarsi lungo una linea che slitta in avanti, con un rilancio della posta in gioco: il poeta dichiara, infatti, di non avere tregua al suo affanno in alcun momento della giornata. L’assunto iniziale della canzone del tramonto viene fagocitato nell’ultima stanza del testo, dove il poeta appare segnato da una ininterrotta smania, accentuata dalla constatazione che gli altri uomini, sia durante il giorno che soprattutto la sera, riescono a ritagliarsi spazi di tranquillo appagamento. Sol io, che pien di spene incerta e lieve né mane, o sera, acqueto il mio cor grave: la mane, ché chi m’odia avien ch’io scerna la notte, ch’è sì breve, ch’io vorrei per mio ben che fusse eterna. (Britonio, i, 289, str. v, vv. 66-70)

Quanto detto nell’ultima strofa di Petrarca (v. 62 «perché dì e notte gli occhi miei son molli?») è leggermente sfasato perché, al di là della sofferenza, emerge un atteggiamento autolesionistico del poeta, il quale, pur amando e desiderando la notte (cfr. v. 16 «l’amata notte» sopra riportato), non la coglie come occasione di godimento ma ne osserva con apprensione l’inesorabile trascorrere.87 termina la serie britoniana delle canzoni a polittico di stretta ascendenza petrarchesca la i, 331 Poi che fuori di speranza e di ben privo, che ripercorre i segni della donna amata nel paesaggio alla stregua di RVF 127. il testo soggiace all’organizzazione tematica del suo antecedente, con strofe agli estremi riservate al prologo e all’epilogo e parte centrale occupata da quadranti in cui gli elementi della natura sono trasfigurati nelle fattezze di colei che ispira il testo, ormai dolorosamente lontana ma vivida nel ricordo. Dimostrando una tendenza ragionativa simile a quella già registrata nel rifacimento di RVF 23, Britonio amplia l’introduzione fino ad inglobare anche la seconda stanza, tanto che l’argumentum della lirica è, per così dire, alluso nella prima ai vv. 10-14 e poi ulteriormente ribadito nell’altra con dovizia di

L’attrattiva che esercita la notte è parso un tema poetico che prende originariamente vigore all’interno della scuola napoletana (cfr. Battaglia 1942, 81). 87

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figure retoriche,88 ma senza oltrepassare lo statuto di sommario. Così quest’occhi miei languidi et molli se mar, se fiumi, o colli vedran, vedran l’effigie del mio bene per cui voluntier volli smarrir con perder libertà me stesso né me ne pento, anzi me ne glorio spesso. (Britonio, i, 331, str. ii, vv. 23-28)

Per concedersi questo slargo lasciando inalterato a cinque il numero degli spettacoli descritti nei pannelli strofici,89 il poeta cinquecentesco aggiunge alla testura una stanza. Viene rispettato anche il senso di circolarità conclusa e portata ad un livello superiore insita nell’antecendente RVF 127, nel quale, alla dichiarazione preliminare che annuncia la serie di allucinazioni visive di cui il soggetto sarà protagonista, solo nell’ultima strofa viene data una giustificazione chiarificatrice. Laura, con il suo passaggio, ha disseminato la natura di tracce che sollecitano il ricordo del poeta e gliela mantengono sempre presente nonostante l’avvenuto distacco; questo è il motivo per cui l’io lirico ravvisa continuamente la sua donna in ciò che gli si para davanti.90 Parimenti nel testo di Britonio è l’ottava e conclusiva stanza a fornire la risposta piana all’interrogativo formulato all’inizio del testo, riprendendone di pari passo il riferimento al destino avverso e la struttura sintattica con subodinata temporale di anteriorità, entrambi elementi di precisa ascendenza petarchesca.91 L’anima (prima «trista» al v. 4 e poi al v. 102, Cfr. l’anadiplosi su «vedran» (v. 25), la figura etimologica tra «voluntier» e «volli» (v. 26), le variazioni sinonimiche sul senso di privazione in «smarrir» rincalzato da «perder» (v. 27), l’antitesi costruita sulla correctio «né me ne pento, anzi me ne glorio spesso» (v. 28). 89 Le immagini da cui scaturisce l’epifania della donna nella canzone di Britonio sono una nave che sfida solitaria il mare (str. iii), l’illusione della primavera (str. iv), la neve (str. v), l’aurora (str. vi), la luna (str. vii). 90 Cfr. RVF 127, vv. 90-91 «stando in sé stessa, à la sua luce sparta/ a ciò che mai da lei non mi diparta», vv. 94-95 «perch’agli occhi miei lassi/ sempre è presente, ond’io tutto mi struggo» e vv. 96-98 «et così meco stassi,/ ch’altra non veggio mai, né veder bramo,/ né ’l nome d’altra ne’ sospir’ miei chiamo». 91 Cfr. i due periodi riportati con il primo piede della ii str. di RVF 127: vv. 15-18 «Poi che la dispietata mia ventura/ m’à dilungato dal maggior mio bene,/ noiosa, inexorabile et 88

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dopo molte apparizioni «stanca, afflitta e smorta») è destinata a saziarsi solo del ricordo dell’amata per evitare di morire per la sofferenza. Poi che fuor di speranza e di ben privo ne vado lunge de l’amata vista come Fortuna ingiuriosa vuole, di che vivrà mai più l’anima trista, e ’l cor, ch’a pena lachrimando è vivo? (Britonio, i, 331, str. i, vv. 1-5)

Così poi che l’acerba mia Ventura hor mal mio grado altrove mi trasporta, e di mia vita m’allontana e priva, conven che l’alma stanca afflitta e smorta per quanto il ciel, la terra à mi figura di rimembranza si sostenga e viva odiosa d’ogni altra vista e schiva. (Britonio i, 331, str. viii, vv. 99-105)

Anche la configurazione interna del testo guarda da vicino alle soluzioni escogitate da Petrarca per conciliare la struttura ripetitiva con piacevoli variationes, nell’ambito di un procedimento iterativo di marca sostanzialmente ipotetica o temporale-dubitativa. in ogni stanza il poeta rappresenta eventualità di visione ed enuncia quali immagini esse richiamino nel suo ricordo, avendo cura di cambiare le congiunzioni che introducono le subordinate,92 i soggetti delle stesse e delle principali, pur mantenendo immutato il tema di fondo. Le associazioni spesso sono articolate e a loro volta scandite in passaggi cadenzati e il tutto si attua per mezzo di una sintassi che mira al periodo lungo che principia con l’esordio della stanza e si spinge ininterrotto al di là del confine della sirma.

superba/ Amor col rimembrar sol mi mantene». 92 L’eventualità della visione si realizza: con subordinata ipotetica introdotta da «se» (v. 19, v. 66, v. 68, v. 71) o da «qualor» (v. 43); con subordinata temporale introdotta da «quando» (v. 26) o da «poi che» (v. 23). Le espressioni che introducono la visione insistono sostanzialmente sul verbo vedere, usato alla prima persona singolare al presente o al passato remoto, mentre quelle che denunciano gli effetti che la visione produce sul soggetto variano da «parmi vedere» (v. 21) a «parmi» (v. 24), a «negli occhi ò» (v. 32), «torna a la mente» (v. 82), a «avesse ... davanti» (v. 60).

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non vidi mai dopo nocturna pioggia gir per l’aere sereno stelle erranti, et fiammeggiar fra la rugiada e ’l gielo, ch’i’ non avesse i begli occhi davanti ove la stancha mia vita s’appoggia, quali io gli vidi a l’ombra d’un bel velo; et sì come di lor bellezze il cielo splendea quel dì, così bagnati anchora li veggio sfavillare, ond’io sempre ardo. Se ’l sol levarsi sguardo, sento il lume apparir che m’innamora; se tramontarsi al tardo, parmel veder quando si volge altrove lassando tenebroso onde si move. (RVF 127, str. v, vv. 57-70)

Qualhor con vista lucida e vermiglia e con volto d’aurati crini adorno vedrò colei, che Cephalo amò tanto pronta uscir fuora a riportarne il giorno, il lume ch’empie il ciel di meraviglia havrò nel cor, per cui mi glorio e vanto, del mio lungo penar, del grave pianto, et vivo di memoria incerta e frale. e come allhor sparisceno le stelle, così a tutte altre belle dirò che ’l pregio lor basso e mortale manca, dove son, quelle luci, le quai vincendo l’altre luci, son d’amore, del ciel governi e duci. (Britonio, i, 331, str. vi, vv. 71-84)

Britonio osserva i medesimi principi di orchestrazione con qualche opportuna modifica, la più rilevante delle quali consiste nel trasferimento delle supposizioni in una prospettiva futura ancora inesperita e sogguardata da lontano (cfr. v. 31 «vedrò»), laddove la canzone modello, con l’opzione per l’indicativo presente o per il tipo di perfetto usato nella quinta stanza sopra riportata o nella sesta (vv. 71-72 «se mai candide rose con vermiglie/ in vasel d’oro vider gli occhi miei»), indica una consuetudine che abitualmente si ripresenta o una correlazione certa al di là di ogni dubbio tra protasi e apodosi. il poeta cinquecentesco conserva l’ariosa distribuzione dei motivi e, ad esempio, divide la strofa sopra riprodotta in due momenti (l’affacciarsi in cielo di eos-Aurora ai vv. 71-78 e la scomparsa degli astri con il sopravvento del pieno sole ai vv. 79-84), per tornire meglio l’immagine e ricavarne il maggior numero di suggestioni metaforiche, come Petrarca, nella v str. ritrae in fasi distinte e di diversa ampiezza il cielo stellato dopo una pioggia notturna (vv. 57-65), l’alba (vv. 66-67) e il tramonto (vv. 68-70). Vi è fedeltà all’archetipo anche nella scelta, pur moderata, per l’utilizzo di varianti sintattiche e lessicali della gabbia argomentativa di base93 e nella propensione per il periodo lungo e Le ipotesi sono sempre introdotte da «se», eccetto che nella vi strofa dove si trova «qualhor» e corredate dal verbo «vedere» al futuro; più articolato è il ventaglio delle al93

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sinuoso, che Britonio riveste di retorica e staglia contro lo spazio versale ottenendo notevoli spezzature che rallentano l’enunciato e ne traggono tutte le rifrazioni possibili (cfr. vv. 82-84 nei quali l’enjambement «quelle/ luci» immette nel v. 83 una sorta di epanadiplosi e riverbera la rima UCi già forte nella posizione di combinatio e sotto accento di sesta nel verso iniziale della stanza). La diffusa tendenza di Britonio al riecheggiamento di canzoni dei Fragmenta, corroborata dalla presenza quantitavamente impressionante nel suo libro di rime non solo di componimenti su testura petrarchesca, ma di vischiosi nuclei semantico-formali, costituisce la solida base di formazione per il suo codice lirico e il terreno su cui fare esperienza per appropriarsi delle risorse linguistico-argomentative. tale bagaglio di strutture e soprattutto di clausole e di rimanti viene poi reimpiegato in modo più dissimulato in altri testi dove la scelta di un noto schema del Canzoniere porta con sé la mera risonanza del motivo d’esordio perché, addentratisi oltre il limitare, ci si accorge che lo svolgimento del tema e l’argomentazione perdono di vista la rotta petrarchesca e intraprendono percorsi altri, più prossimi al contesto del canzoniere e all’ispirazione personale. È il caso di canzoni come la ii, 404 e la i, 122. nella prima, Se quell’incendio rio, i versi iniziali introdotti da una subordinata ipotetica e la ripresa dello schema di RVF 125 promuovono la suggestione con la più «rozza» delle canzoni boscherecce di Petrarca. manca, però, l’inconfondibile intreccio comparativo al secondo verso, e la centralità del problema dell’espressione poetica e della ricerca dell’adeguatezza stilistica nel segno dell’asprezza giacché la canzone di Britonio si appunta sull’incapacità del poeta di dichiarare a viva voce ciò che sente e sulla necessità di ripiego di delegare questo compito alle rime. L’obiettivo a cui la canzone di Britonio tende è trovare il coraggio di affrontare a viso aperto l’amata e di aprirsi dinnanzi a lei con una dichiarazione liberatoria, non tanto lo sforzo tecnico di cogliere parole adeguate – ché quelle campeggiano già nei versi e nei soliloqui scritti e sembrano avvalersi del rovello che ha condotto a scavare all’interno delle possibilità della lingua l’insuperato maestro dell’espres-

ternative espressive che indicano la conseguenza dell’evento immaginato, per cui si va da «vedran» (v. 25) a «conven ch’anzi la vista m’appresenti» (v. 32), «ritorna la memoria [di]» (v. 39), «parrammi allhor veder» (v. 48), «mi fia inanzi» (v. 62), «havrò nel cor» (v. 76) fino a «non fia che’n quel momento/ non pense in lei».

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sione amorosa. i profili del componimento sono ripassati da specifici rimanti estrapolati da RVF 125, tra cui vv. 21, 24 «vertude: rinchiude» (cfr. Petrarca vv. 19, 20), vv. 27, 30 «fiamma: dramma» (cfr. vv. 13, 12), vv. 29, 32 «soccorso: corso» (cfr. v. 39), vv. 73, 76 «squadre: adre» (cfr. v. 30), vv. 74, 75 «smalto:alto» (cfr. v. 31) e i versi rimaneggiano continuamente materiali petrarcheschi della medesima fonte, in particolar modo i vv. 4042 «Donna, s’unqua i’ potesse/ snodar lo stretto nodo/ ch’alla mia lingua ognihor s’avolga intorno» da confrontare con RVF 125, che, nella stessa posizione strofica presenta i vv. 40-41 «Come fanciul ch’a pena/ volge la lingua et snoda». il tema, però, è quello della fiamma incontrollata che divampa dentro al cuore del poeta e che, rimanendo inespressa, è causa di tremende angustie. Benché se ne possa trovare traccia nel Canzoniere, non esiste alcuna lirica distesa ad esso interamente consacrata e inoltre il motivo dell’incendio è ripreso con tale insistenza in altri testi e precisato con una così variata quantità di particolari icastici, da poter essere ascritto a nucleo fondante della poetica britoniana. Procedimento similare di allusione in autonomia, favorita dalla coincidenza dello schema, avviene anche nella seconda canzone citata, Per gli più strani et inhabitati lidi (i, 122), solo che qui il filo di collegamento con il testo sinopia RVF 129 è molto più debole e si spezza non appena il motivo della tormentata peregrinazione espresso dalla figura della reduplicatio (cfr. v. 10 «di valle in valle», v. 37 «di monte in monte») e da elementi paesaggistici di desolazione in clausola (v. 9 «ogni segnato calle», cfr. RVF 129, v. 2) si incrocia con la reminiscenza di un’altra poesia petrarchesca, il sonetto RVF 35, che informa del suo materiale lessicale (cfr. v. 8 «qualche vestigi mai d’humana gente»») e rimico i primi versi (cfr. la terna di parole-rima ai vv. 3,4,6 «scampi: stampi: campi») e attrae l’argomento del componimento nell’orbita tematica del ragionamento con Amore.94 Di questi meccanismi di ammicco tendenzialmente legati molto più all’aspetto formale (vuoi nella metrica, vuoi nelle rime e in qualche intonazione sintattica) che all’aspetto tematico-contenutistico, partecipano anche l’esercizio su schema di RVF 29 Non per quanto riscalda il chiaro sole 94 Al termine della canzone il tema del conversare tra l’anima e il dio crudele si rivela essere di carattere luttoso, come si vede al v. 52 «teco ne vien di morte ragionando» e poi, con ripresa, ancora una volta, di una rima e dei relativi rimanti di RVF 35, vv. 53-56 «D’altro parlar, d’altro pensar mai sempre/ non gli è dato dal ciel: mentre vedrassi/ sotto il tuo imperio come si vede hoggi/ ch’ella è si avezza in le tue varie tempre».

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(i, 153)95 e la rivisitazione dell’enigmatica canzone frottolata RVF 105, Mai non andrà mia spene ov’ella suole (i, 396).96 Al termine di questa ricognizione si può concludere che l’individuazione e l’utilizzo di nuclei semantico-formali petrarcheschi è una prassi che riguarda principalmente Sannazaro e il Bembo degli Asolani, ma anche i più giovani Britonio e molza. trovare accostati i primi due nomi, protagonisti e maestri nel periodo di formazione della nuova lirica cinquecentesca, non può che essere uno stimolo a congetturare che tale procedimento di sequela stretta alla struttura petrarchesca abbia funzionato, in queste prime prove di petrarchismo sempre più distillato dagli orpelli cortigiani, da rassicurante meccanismo per addentrarsi nella complessa architettura metrica della canzone in modo allo stesso tempo rinnovato, ma rispettoso, meditato e consapevole. inoltre, è degno di nota il fatto che

Con RVF 29 la canzone di Britonio condivide, oltre che la testura a coblas unissonans e una delle rime dissolutas (orSe), il riconoscibile attacco con paragone al negativo unito ad una proposizione consecutiva, tutti elementi che mettono in evidenza l’unicità della donna amata. Si vedano in proposito i vv. 1-7 «Non per quanto riscalda il chiaro sole/ o ’l mar circonda e bagna/ donna giamai d’occhio mortal si scorse/ sì altera com’è questa mia nemica/ che m’ha da me medesmo sì diviso/ et mi conduce a tal ch’ardendo ognhora/ l’arder celo e ammanto» a confronto con gli analoghi della canzone petrarchesca (vv. 1-7 «Verdi panni sanguigni, oscuri o persi/ non vestì donna unquancho/ né d’or capelli di bionda treccia attorse/ sì bella com’è questa che mi spoglia/ d’arbitrio, et dal camin de libertade/ seco mi tira sì ch’io non sostegno/ alcun giogo men grave»). 96 A segnalati prelievi lessicali (ad esempio, cfr. v. 27 «s’altri pur non m’intende, m’intend’io» con RVF 105, v. 17 «intendami chi pò, ch’i’ m’intend’io») ed al riuso di moduli sintattici (cfr. l’anafora e la seriazione di frasi proverbiali l’ultima delle quali inarcata sul verso successivo nella ii strofa di Britonio ai vv. 23-26 «Et spesso al gioco perde chi più intende/ et spesso il tempo rende quel ch’huom sperde/ et spesso si rinverde/ l’arbor là dove ’l foco più gli offende» che richiamano per orchestrazione i vv. 12-15 dell’antecedente petrarchesco «Chi smarrita à la strada torni indietro/ chi non à albergo, posisi sul verde/ chi non à l’auro, o ’l perde/ spenga la sete con un bel vetro») si aggiungono alcuni limitati recuperi di rimanti ai vv. 1,5 «suole: duole» (cfr. RVF 105, vv. 57, 60), vv. 22, 23 «verde: perde» (cfr. vv. 13,14), vv. 46, 49 «antico: amico» (cfr. vv. 31, 34), vv. 97-98 «spese: imprese» (cfr. vv. 33, 36). La tendenza ad alludere, oltre che a proverbi e massime, a memorabili situazioni bibliche e mitologiche che emerge qua e là nella canzone petrarchesca (cfr. richiamo a Fetonte e a gesù buon pastore) è accentuata da Britonio e fatta risuonare in innumerevoli riferimenti al mito, alla storia antica, al testo sacro (sono citati Proteo, tolomeo, Cesare, Pluto, Fabrizio, tizio, Anfione, mauro, mida, icaro e Sinone, e indicati Cristo e la madonna). 95

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gli schemi (e congiunte ad esse le strutture) ripresi con la compattezza di nuclei sono in entrambi gli autori i medesimi, quelli cioè del manipolo centrale del Canzoniere (da 125 a 129). La loro specifica e inconfondibile caratterizzazione contenutistica, formale e naturalmente metrica (nel doppio aspetto dell’utilizzo del settenario e nella suddivisione simmetrica della stanza in due parti equivalenti e più facilmente dialettizzabili) ha un peso in questa preferenza di Bembo e di Sannazaro, come forse è anche da vedersi all’origine del successo e della persistenza nella tradizione successiva che queste testure vantano, senza eguali. L’altro versante metrico che si mostra dotato di una adamantina riconoscibilità nell’intersecare testura e compaginazione del discorso è indubbiamente quello delle canzoni a polittico, oggetto di riprese puntuali da parte sia di molza che di Britonio. Di quest’ultimo, in particolare modo, si è già dimostrata l’esasperato riferimento al modello trecentesco, come se, guardando attraverso la lente dello scrupolo metrico di Sannazaro, egli avesse accentuato in maniera ancora più restrittiva i parametri dell’imitatio, tanto da non allontanarsi non solo dai disegni metrici, ma anche dai giri sintattici, dai rimanti, dai sintagmi petrarcheschi, creando nelle sue liriche distesa una sorta di gioco di specchi. L’influsso di nuclei formali petrarcheschi relativi agli schemi a ‘moltiplicatore tematico’ si propaga, a livello più superficiale, anche a Bernardo tasso e ad Alamanni. il primo compone la canzone 1, XXii rifacendosi quasi certamente per i motivi tematici al testo di Sannazaro 1, XXV, ma adotta un diverso schema, sempre petrarchesco. La testura prescelta è quello di RVF 127 (ed è l’unica volta che essa è utilizzata nei primi due libri degli Amori), che notoriamente è una canzone caratterizzata dal suo snodarsi per quadri accostati. Forse, essendo il testo di Bernardo tasso informato da un’argomentazione a polittico, l’adozione di uno schema già impiegato in questa veste potrà essere giudicato non un caso ma un’associazione, un corto circuito mentale, magari anche inconscio, che collega testura e tipo di argomentazione, quindi il riconoscimento di un nucleo formale. Benché ciò non sia passibile di una dimostrazione certa, tuttavia il caso appena tratteggiato riceve forza perché non è isolato. Anche Alamanni si avvale dello schema di una canzone vicina a quelle a polittico (RVF 23) per stendere il suo testo Poi che Madonna il mio fero destino con

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argomentazione latamente cronografica97 e molza, dal canto suo, utilizza gli intrecci melodici delle strofe di RVF 50 per comporre la sua canzone botanica per quadri accostati Dappoi che portan mie ferme stelle.98

5.2 L’imitazione dei testi di Bembo Anche Bembo, imitatore di nuclei formali del Canzoniere come affezionato cultore della tecnica di Petrarca, si fa a sua volta precedente di numerose riprese con la sua luttuosa Alma cortese che dal mondo errante vai (Rime LXXXiii), composta per il defunto fratello Carlo nel 1507. La corrispondenza tra lo schema ampio ed intessuto di endecasillabi a ritmo lirico-narrativo (che è calco di RVF 23) e la materia grave del compianto realizza un accordo così appropriato da dare vita ad un nuovo nucleo sematico-formale o, come lo definisce gorni, ad uno «schema specializzato in un ambito tematico determinato»,99 pronto a propagarsi in altri autori. Così le riprese immediate, ad esempio di Sannazaro con la lugubre Spirto cortese, che sì bella spoglia,100 ne avviano il processo di sedimentazione, mentre quelle a lungo raggio, come Già spiegava l’insegne oscure ed adre scritta da torquato tasso per la scomparsa di Barbara d’Austria, lo consacrano definitivamente. Più in particolare, poi, in questo corpus si osserva da vicino l’interpretazione che dell’accordo realizzato da Bembo tra schema metrico e tematica funebre nel planctus familiare Alma cortese dà molza in O beato e dal ciel diletto Padre, testo composto in occasione della scomparsa di raffaello Sanzio il 6 aprile 1520. Danzi sottolinea come, visto il nutrito panorama di epicedi latini che nell’ambiente romano fioriscono per celebrare il triste evento, l’isolata opzione volgare di molza, che si avvale dello schema petrarchesco di RVF 23, specie se inserita nella trafila storicamente accertata delle imitazioni di Alma cortese, testimonia la raggiunta codificazione retorica che il genere, calato nel metro italiano,

Cfr. qui a p. 337 e ss. Cfr. qui a p. 334 e ss. 99 Cfr. Gorni 1984, 444. 100 La canzone non è annoverata nel corpus perché estravagante. 97 98

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ha ottenuto mediante l’esemplare di Bembo.101 i due testi partono da presupposti necessariamente distanti, dal momento che Bembo, nella perdita di una persona cara, esprime un dolore benché non esclusivamente ascrivibile alla sfera del privato, se non altro, legato all’intima sfera degli affetti familiari,102 mentre molza, davanti alla prematura scomparsa dell’artista che incarnò il sogno della renovatio artistica di roma nel segno dell’antico, è chiamato a farsi portavoce di un lutto pubblico, di una deprecazione di dimensione «mitica collettiva».103 tanto è vero che, laddove Bembo si indirizza direttamente al fratello, invocandolo fin dai primi versi e ponendo così sé e il defunto al centro dell’attenzione, molza investe dell’allocuzione iniziale il papa, al cui strazio intende dare espressione solenne. in tal modo il planh, sebbene partecipato dal poeta, non include alcun accento personale da parte di chi scrive. Anche nell’ultima strofa, quando rivolge in modo immediato un’apostrofe all’artista, il poeta ricorre per compiangerlo a luoghi comuni che caratterizzano la sua biografia e ai topoi che attorno alla sua attività ha costruito Danzi 1983, 542. Per altro, si può notare con Caruso 2000, 177 che prima di Alma cortese non esistevano forti modelli di compianto per la morte di una persona cara ma soprattutto epicedi dedicati alla scomparsa dell’amata che, più che di un linguaggio magniloquente, continuavano a servirsi del codice lirico-amoroso. «Fu così che Alma cortese divenne un catalizzatore di spunti, fonti, registri disparati, tutti finalizzati ad un tipo nuovo di poesia: fedele nelle forme al modello dell’antica poesia volgare; umanisticamente ineccepibile nell’uso dell’iconografia mitologica e di una retorica maestosa e perspicua; attuale, infine, nel saper trar partito dalla lezione congiunta del maestro antico (Petrarca) e del massimo rimatore coevo (Sannazaro), e nell’opporre all’apparentemente incontrastabile tradizione letteraria latina una poesia che sapesse rivaleggiare con essa e anzi la superasse in dignità e novità espressiva.» 102 La canzone è scritta più di tre anni dopo il tragico evento e costituisce una sorta di prova poetica con la quale il Bembo intende confermare la sua immagine di indiscusso maestro della lirica volgare. in proposito Floriani 1996, 248 scrive: «il rapporto privato, il ‘lutto’ (non più fresco come abbiamo visto) viene letteralmente ‘elaborato’, diventando così altra cosa, la celebrazione di un valore salvifico, al di là del tormento della privazione». in ogni caso quella cantata è sempre la scomparsa di un parente stretto e di un personaggio col quale il pubblico presume che l’autore intrattenga rapporti affettuosi e familiari. 103 Danzi 1983, 539, parla dell’esistenza di un vero e proprio ‘mito’ di raffaello, sorto per l’incrociarsi di ragioni politiche e culturali. tramite il recupero della veste artistica grandiosa che aveva avuto in passato prima dei secoli bui delle invasioni Leone X voleva, con l’ausilio del suo primo architetto e pittore, ridonare a roma lo statuto di centro della penisola e una solida supremazia. 101

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l’intera sua epoca (la gara con Fidia e gli artisti greci, l’estrema comunicatività dei suoi dipinti, la competizione che aveva visto trionfare la sua arte sulla natura stessa). Dalla discrepanza della destinazione del testo, con ogni probabilità, deriva la maggiore dose di enfasi che molza versa nelle strofe del testo, sintatticamente tese e pervase da lunghi periodi innalzati sull’ipotassi, al contrario di quanto accade nel componimento di Bembo, che gioca sulla flessuosa linea dell’enjambement e su strutture coordinative a legamento dei versi. nonostante la difformità dei toni, per strutturare alcuni passaggi significativi della canzone molza ricorre ad espedienti che trova con successo impressi alla forma del compianto nella prova di Bembo. Si prenda visione delle strofe seguenti appaiate:104 tu m’hai lasciato senza sole i giorni, le notti senza stelle, e grave et egro tutto questo ond’io parlo, ond’io respiro; la terra scossa, e ’l ciel turbato e negro, e pien di mille oltraggi e mille scorni mi sembra in ogni parte quant’io miro. Valor e cortesia si dipartiro nel tuo partir, e ’l mondo infermo giacque, e virtù spense i suoi più chiari lumi; e le fontane ai fiumi negâr la vena antica e l’usate acque, e gli augelletti abandonaro il canto, e l’erbe e i fior’ lasciâr nude le piaggie, né più di fronde il bosco si consperse. Parnaso un nembo eterno ricoperse, e i lauri diventâr quercie selvaggie; e ’l cantar de le Dee, già lieto tanto, uscì doglioso e lamentevol pianto, e fu più volte in voce mesta udito di tutto ’l colle: «Bembo, ove se’ ito?» (Bembo, Rime LXXXiii, str. v, vv. 81-100)

Quinci si duole e fa di lunge Urbino sentir suoi gravi e lagrimosi stridi; e non pur seco ombria e Thoscana piagne, ma italia ne sospira in tutti i lidi. Cadde ogni più bell’arbor d’Appennino e genar fessi april de le campagne, e ’n ogni riva che ’l metauro bagne in spine si mutâr rose e viole; empie e torbide uscir’ le dolci e chiare acque, e sdegnato al mare il fiume istesso andò più che non suole; gli armenti non toccaro erba né fonte, in quello a tutta europa infausto giorno; li semplici augelletti e i gregi inermi negaro il cibo alli suoi parti infermi, che famelici alor moriano intorno; e li Fauni ch’alberga il dextro monte, chini la lor cornuta ispida fronte, sovente dove il bosco era men folto, gridaron: - raphael, che te n’ha tolto? – (molza, ineiV, str. vii, vv. 121-140)

Le annotazioni che seguono integrano quanto già accennato da Danzi 1983, 544 e da Gorni (ed. Bembo) 147.

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nel cuore dell’esposizione in entrambi i testi si descrive la morte del destinatario accompagnata da sorprendenti fenomeni che segnano il paesaggio, a testimonianza di come anche la natura partecipi al cordoglio; poi il discorso è concluso dallo sconcerto incredulo di una domanda che chiede ragione dell’improvvisa assenza del defunto. Bembo dispone con ordine nel tessuto strofico gli effetti della scomparsa di Carlo: nella fronte enuncia i danni che personalmente patisce (v. 81 «tu m’ hai lasciato...»), mentre nella sirma porta in primo piano alcuni episodi innaturali che straziano l’ambiente circostante e li mette in serie tramite un polisindeto che funge anche da anafora metrica ai vv. 89, 90, 92, 93, 96, 97, 99. immediatamente dopo subentra una stanza, la vi, nella quale, tramite l’introduzione di un lungo discorso diretto, è inscenato il compianto sconsolato del padre Bernardo. infine, solo nella parte centrale della vii stanza riprende di nuovo la narrazione della disperazione dei luoghi, con trasferimento di caratteri umanizzanti che investe con precisione i fiumi e i paesi protagonisti della parabola biografica di Carlo e che alla sua morte sono stati presi dallo sconforto.105 Di questi due momenti di compianto e di funesti avvenimenti, pur separati dallo iato di oltre venti versi, si percepisce l’unità data dalla comune disposizione degli elementi mediante un insistito polisindeto di brevi periodi tutti coordinati e il cui avvio è sincronizzato con l’inizio del verso, con rare eccezioni di giustapposizione prive di congiunzioni coordinanti. nella canzone di molza, invece, nella fase individuata per manifestare la simpatia della natura nei confronti della morte prematura di raffaello, il poeta inserisce prima di tutto la reazione non solo delle città che hanno caratterizzato i primi anni di vita dell’artista precedenti alla chiamata alla corte papale, ma dell’italia tutta e questo proprio per ribadire la natura pubblica e nazionale del lutto (vv. 121-123). Senza rispettare le indicazioni metriche intrastrofiche, molza inserisce a partire dalla metà del secondo piede un ulteriore nucleo argomentativo che riguarda l’accenno al minuto sconvolgimento ambientale, non geograficamente localizzato con precisione, che si è scatenato in conseguenza del trapasso del grande pittore. 105 Cfr. Bembo, Rime LXXXiii, vv. 127-133 «Per duol timavo indietro si rivolse;/ e vider manto i boschi e le campagne/ errar con gli occhi rugiadosi e molli;/ Hadria le rive e i colli/ per tutto, ove ’l suo mar sospira e piagne,/ percosse, in vista oltra l’usato offesa,/ tal ch’a noia e disdegno ebbi me stesso». Sono dunque nominati i luoghi nei quali Carlo è vissuto: il Friuli («timavo»), mantova («manto»), Venezia («Adria»).

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L’idea della scansione in due tranche delle conseguenze catastrofiche della morte, che in Bembo si avvaleva della stanza interposta lasciata al lamento di Bernardo, è conservata anche da molza, che, a quest’occorrenza, occupa anche la strofa precedente e vi riporta l’elenco di presagi naturali funesti susseguitisi fino all’annuncio del tragico evento da parte di ombre notturne.106 nelle due stanze consecutive si ricrea la riconoscibile struttura polisindetica adoperata nell’architesto, però, a differenza di Bembo, di cui l’impronta rimane indubbia, molza fa più di frequente ricorso all’asindeto (cfr. vv. 129, 132, 134) e, soprattutto, infrange l’anafora metrica al v. 130, nel quale sono ospitati la fine di un periodo e l’inizio del seguente coordinato mediante «e». Per quanto riguarda il prototipo delle canzoni luttuose coniato da Bembo, si tratta di un nuovo abbinamento di forma e contenuto, ma pur sempre di uno schema che trova il suo riferimento primo in Petrarca, come dimostra il fatto che il molza misura la sua canzone ancora sulle 8 stanze di RVF 23 e non sulle dieci stanze con doppio congedo di Alma cortese. Per scorgere il massimo punto di irradiazione del magistero di Bembo sul terreno dei nuclei semantico-formali è necessario ricorrere ai suoi testi metricamente innovativi, promossi dai suoi stessi contemporanei al rango di nuovi esemplari di una tradizione da conservare e imitare. È il caso della canzone doppia del secondo libro degli Asolani, Se ’l pensier che m’ingombra, che fornisce schema e spunti tematici a Se tu snodassi, Amore di matteo Bandello, autore che, per altro, seguace di un ligio bembismo non poteva di certo dirsi, vista l’attrazione che le sue rime subiscono verso eterogenei modelli due-trecenteschi e le continue contaminazioni con l’orizzonte classico, retaggio dell’ambiente sforzesco a forte impronta umanistica in cui si era formato. Commenta significativamente Mol iV, vv. 101-120 «Questa ruina, anzi otto gioni a punto/ expresso ne mostrâr vari prodigi:/ roma d’orribil’ nubi si coperse/ ove apparean di morte atri vestigi;/ oscuro il sole e di pietà compunto,/ leticia e gioia in tutto eran disperse,/ e giù ne ’l stremo di dolor s’aperse/ la Vostra loggia, per cader con quelle/ egregie mani, ond’ella è posta in cima/ di quante opre più stima/ perfette ingegno uman sotto le stelle;/ e fur vedute, in strani abiti scuri,/ la notte errar dogliose e pallide ombre/ dicendo: - o roma nostra, a cui promesso/ pur dianzi era onor tanto, il giorno è presso/ ch’altrui di vita e te di gloria sgombre - ./ e i cari marmi infine allor sicuri/ d’ogni offesa, e gli excelsi e sacri muri/ pianser de ’l Vaticano, e ’l tebro insieme/ che di ciò anchor fra li suoi ponti geme.». 106

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Danzi che nel testo di Bandello «il rapporto con la canzone degli Asolani è, fin dai primi versi, evidente e dimostra come alla ripresa di uno schema metrico possa corrispondere (almeno per il metro ‘arduo’ della canzone) un’analoga ‘vischiosità’ dei contenuti».107 in effetti, i motivi che si incrociano in un’unica lirica sono ancora una volta e come in Bembo quelli che apparentano le due canzoni sorelle dei Fragmenta, ossia l’impossibilità di eguagliare con le parole la tempra del desiderio amoroso (RVF 125) e l’appello al paesaggio che serve da preambolo alla rievocazione dell’incontro con la donna (RVF 126). L’autore degli Asolani funge da mediatore della materia petrarchesca e fornisce al testo di Bandello involucri formali come iuncturae108 e rimanti.109 in ogni caso, la stessa struttura sintattica e argomentativa delle prime due stanze di S’io snodassi, Amore si avvicina in modo sensibile all’antecedente bembiano (e per riflesso, petrarchesco) senza tuttavia allinearvisi perfettamente. La prima strofa ripropone un periodo ipotetico per prospettare la speranzosa previsione dei cambiamenti che apporterebbe il raggiungimento di uno stile adeguato a esprimere ciò che l’io lirico prova, vale a dire il mitigamento della sofferenza dell’amante e inoltre la glorificazione di Amore stesso grazie alla vittoria sulla ritrosia della donna. Bandello, però, appiana l’increspatura intonativa che nell’inizio della canzone asolana e anche petrarchesca era costituita dal differimento della comparsa del verbo della protasi mediante interposizione di subordinata relativa e comparativa (cfr. v. 1, immediatamente «se tu snodassi»), e inoltre non sostiene la tensione del periodo per l’intera mi-

Danzi (ed. Bandello), 125. Cfr. soprattutto Bandello, Ciii, vv. 14-15 «ond’io andrei a volo/ seco poggiando all’uno e all’altro polo» con Bembo, Asolani, ii, 28, vv. 56-57 «non ci togliesse il gir solinghi a volo/ da l’uno a l’altro polo» e ancora Bandello, Ciii; vv. 143-144 «se par che si dilegue/ quant’in la mente accoglio» e v. 148 «perché ’l pensier la lingua poi non segue» con Bembo, Asolani, ii, 28, vv. 24-26 «che la lingua no ’l segue,/ et par che si dilegue/ lo cor nel cominciar de le parole». 109 Cfr. Bandello, Ciii, v. 14,15 «volo: polo» (Bembo, Asolani, vv. 56-57), vv. 23,28 «inspiri: desiri» (vv. 71, «spiri» 72), v. 27 «forme» (v. 123), v. 30 «cielo» (v. 92), vv. 38,43 «acque: spiacque» (vv. 107, «piacque» 110), vv. 41, 42 «ingombra: sgombra» (vv. 1, 4), vv. 63, 66 «fiori: ardori» (vv. 93, 97), v. 73 «sento» (v. 28), v. 75 «pace» (v. 69), vv. 92, 95 «come: chiome» (vv. 91, 94), vv. 96, 97 «intorno: giorno» (vv. 141, 142), v. 101 «canto» (v. 98), v. 118 «donna» (v. 74), v. 119 «soave» (v. 2), vv. 134, 135 «erba: serba» (vv. 129, 130), vv. 136, 139 «sole: parole» (vv. 26, 27), vv. 137, 140 «loco: fuoco» (vv. 121, 124), vv. 143, 148 «dilegue: segue» (vv. 24, 25). 107 108

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sura dei 15 versi, come fa Bembo sulla scorta dell’avvio monoperiodale di RVF 125, ma, con un movimento logico di avanzamento, spicca dal corpo unitario della stanza i due versi di combinatio mediante il nesso paracoordinativo «onde». molto più simile, invece, è il collegamento tra la prima e la seconda stanza, la quale si apre con una congiunzione avversativa «ma» collocandosi in contrasto con quanto detto nella denuncia della consapevolezza intorno all’irrealizzabilità della supposizione sopra adombrata.110 Le medesime componenti tematiche assumono, poi, nei testi dei due cinquecentisti pesi e risonanze diverse. Bembo è più proclive agli sfoghi elegiaci, come si arguisce dalla massiccia presenza di interrogative, ed è disposto ad attardarsi, prima di giungere al debole filo narrativo costituito dal ricordo dell’incontro con l’amata immersa nel locus amoenus, in ampie effusioni liriche. Bandello, invece, forse sotto la spinta del suo intimo talento di novelliere, sfronda i riflussi pensosi che nel precedente bembiano fanno oscillare l’io lirico tra terza e quarta stanza e privilegia nella canzone la rievocazione degli arcadici effetti di beatitudine che la donna ha propagato nel paesaggio nel giorno del loro primo incontro,111 riservando a tale soggetto più di quattro stanze (v, vi, vii, viii e prima parte della ix str.). Questa apertura porta con sé, naturalmente, l’accrescimento

Cfr. Bandello, Ciii, str. i, vv. 1-6 «Se tu snodassi, Amore,/ alla mia lingua il nodo,/ come m’ingombri il cor di bei pensieri,/ l’estremo e fier ardore/ che m’arde senza modo/ non mi darìa martir sì crudi e fieri.» e poi str. ii vv. 16-18 «ma tu mi lasci sempre/ al cominciar senz’armi,/ né del mio scorno par ch’unqua ti caglia». Vedi anche Bembo, Asolani, ii, 28 str. i, vv. 1-6 «Se ’l pensier che m’ingombra/ com’è dolce et soave/ nel cor, così venisse in queste rime/ l’anima saria sgombra/ del peso, ond’ella è grave/ et esse ultime van ch’anderian prime» e str. ii, vv. 16-18 «ma non eran le stelle,/ quanto a solcar quest’onde/ primier entrai, disposte a tanto alzarme». 111 Uso intenzionalmente l’aggettivo “arcadici” perché mi pare che nella descrizione di Bandello dell’atmosfera beata che si crea attorno alla donna si possa ravvisare l’influsso di una canzone del prosimetro di Sannazaro, Sovra una verde riva (iii), che non a caso è su schema di RVF 125. nei due testi è comune il particolare della fioritura miracolosa della quercia (Bandello, Ciii, vv. 112-116 «Questa dura e selvaggia/ Quercia che per colonna/ al vago fianco pose,/ con gigli, nardo e rose,/ produr si vide e d’oro far le ghiande.» e Sannazaro, vv. 34-35 «Fioriscan per le cime/ i cerri in bianche rose») e l’immagine dei pargoletti amori, (cfr. Bandello, vv. 67-70 «i pargoletti Amori/ sovra quel casto seno/ spiegavan le bell’ali,/ scoccando mille strali» e Sannazaro, vv. 43-45 «vegnan li vaghi amori/ senza fiammelle o strali/ scherzando inseme, pargoletti egnudi»).

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dei particolari connessi alla descrizione non presenti nel modello,112 che, tra l’altro, appariva già assai più minuziosa rispetto alla vaga pioggia di fiori di Petrarca. Si osservi la str. vii:113 ella volgendo gli occhi (ma chi dir puote come?) rasserenava l’aria d’ognintorno: e par ch’anchor mi tocchi quando le bionde chiome vidi scherzar al vago viso intorno. in quel felice giorno l’umil e altiero sguardo qui fe’ venir i monti, e fermi star i fonti, a sé tirando l’aspre fere a canto, ché ’l vago lume e santo, ond’io sì dolcemente agghiaccio ed ardo, tal ha valor e forza, che cangiar puote gli elementi a forza. (Bandello, Ciii, str. vii, vv. 91-105)

Si tratta della stanza più vicina, quanto a materiale semantico e lessicale, alla strofa bembiana di riferimento perché, oltre al riecheggiamento di rimanti di cui sopra si è dato conto, porta in luce anche il reimpiego sfasato di aggettivi e altre tessere: «vago» qui è il «viso» (v. 96) e il «lume» (v. 102) e là il «cielo» (v. 92); «santo» qui è ancora il «lume» (v. 102) e là lo erano «gli ardori» (v. 93); qui «fonti» (v. 100) e «monti» (v. 99) sono nominati al plurale, là compaiono al singolare (vv. 99-100). L’espansione della raffigurazione del quadro letificato in Bembo i dettagli presenti nella str. vii, unica dedicata al focus sull’epifania dell’amata nel paesaggio, sono gli occhi luminosi come stelle, le chiome velate, il profumo dei capelli che risveglia la fioritura dei prati, il canto soave che attira a sé il corso di un fiume, le fronde dei boschi e gli uccellini e le fiere che li popolano. in Bandello, oltre a questi, si trovano anche: Amore che siede negli occhi della donna, gli amorini posati sul seno, Febo che trattiene il carro del sole per ammirare lo spettacolo della bellezza femminile, la fioritura di una quercia, la propagazione di soavi profumi dall’ombra. 113 Da confrontare con la stanza vii di Bembo, Asolani, ii, 28 riportata qui per esteso a pp. 195196. 112

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dalla donna su più strofe consente inoltre al poeta di usufruire di giri frastici lievemente più ampi per la rappresentazione dei singoli elementi e inserire dei rapidi commenti che interpretino i mirabilia (cfr. vv. 104-105). L’estatico inserto evocativo si conclude in entrambe le canzoni con la sottolineatura dell’eccezionalità dell’evento vissuto tramite l’appello testimoniale alle acque del fiume che scorre presso il teatro dell’apparizione. Per segnalare lo snodo argomentativo, sfasato rispetto allo schema distributivo del modello nell’economia generale del testo a causa del prolungarsi della descrizione, Bandello preleva una struttura interrogativa ben marcata nella lirica di Bembo.114 L’abbandono descrittivo sulla dovizia di particolari, suggellata nella canzone di Bandello da una formula di makarismós all’indirizzo dei luoghi sfiorati dall’amata,115 esaurisce la spinta intrinseca al discorso lirico, che si riserverà solo un breve spazio per la rinnovata constatazione dell’egestas di mezzi poetici e della stessa memoria di fronte ad un evento così grandioso. Appare, dunque, obliterata o solo accennata di sfuggita (cfr. v. 135) la tematica fondamentale colta da Bembo nelle ultime due stanze della canzone, ossia il risarcimento al desiderio frustrato che si esercita attraverso la ricerca spasmodica delle tracce impresse dall’amata nello scenario naturale. L’altro elemento che distanzia l’imitazione di Bandello dalla lirica di Bembo è costituito dall’organizzazione piuttosto piana della sintassi, sempre perfettamente sincronizzata con i segnali forti di partizione metrica, anche quando persino il modello di primo grado, Petrarca, non lo prevedrebbe. Caso emblematico è il trapasso dal primo momento della canzone dedicato all’espressione dell’inadeguatezza dei mezzi stilistici del poeta al secondo momento, sostanziato dall’appello alla natura, interlocutrice e testimone dei fatti. Se nel poeta trecentesco ciò avviene con scarto improvviso nella seconda parte della sirma della iv stanza116 e in Bembo, in

Cfr. Bandello, Ciii, vv. 127-128 «Chi vide mai vaghezza/ ch’a par di questa fusse?» con Bembo, Asolani ii, 28, vv. 109-111 « Chi fia, ch’oda et conosca/ quanto di lei vi piacque,/ e meco d’un incendio non avampi?». 115 Cfr. Bandello, Ciii, vv. 132-135 «Lieti e riposti nidi,/ u’ de’ begli occhi il lume sì rilusse/ e più felice l’erba,/ che del bel piede alcun vestigio serba». 116 Cfr. RVF 125, vv. 46-49 «Se forse ogni sua gioia/ nel suo bel viso è solo,/ et di tutt’altro è schiva/ odil tu, verde riva». 114

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modo quasi altrettanto inopinato e in un’analoga posizione metrica nella v stanza,117 in Bandello il tutto si consuma senza urgenza di toni, all’inizio di una strofa (la iv)118 e preparato anche da un’ampia introduzione ragionativa nella strofa precedente.119 Quello che conta, tuttavia, è che nei rivoli della tradizione non va perduta l’architettura tematico-formale di base che risulta sostanziata dall’uso del vocativo e dall’esortazione, magari fissata proprio nel verbo «udire». Per concludere, dopo aver assunto questi ultimi dati inerenti alle riprese di metrica e motivi circolanti all’interno dei componimenti cinquecenteschi del corpus, si osserva che anche in relazione ai nuclei semanticoformali il petrarchismo delle canzoni si mostra, molto più di altra lirica, fenomeno incline a crescere su se stesso acquisendo soluzioni non solo metriche ma anche metrico-sintattiche o metrico-tematiche e autoalimentadosi di citazioni e ricordi.

Cfr. Bembo, Asolani ii, 28, vv. 70-73 «Hor, poi ch’a lui non piace,/ ricogliete voi, piagge, i miei desiri/ et tu, sasso, che spiri/ dolcezza et versi amor d’ogni pendice [...]». 118 Cfr. Bandello, Ciii, vv. 46-51 «tranquillo e altiero fiume,/ che da Benaco prendi/ queste bell’acque, e queste picciol’onde,/ prima ch’io mi consume,/ odi, ti prego, e attendi/ l’alte mie voglie a null’altre seconde». 119 Cfr. Bandello, Ciii, vv. 31-33 e vv. 37-41 «e se dinanzi a quella,/ a quell’Amor che sola/ m’arde ed agghiaccia, non mi lasci dire/ [...] / lasciami almen scoprire/ a queste limpid’acque/ parte di quel che ’n petto,/ con sommo mio diletto,/ di nove ognor dolcezze l’alma ingombra». 117

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Vi ALCUni Cenni SULL’inFLUenzA DeLLA CULtUrA UmAniStiCA

Scrive Dionisotti, nella fondamentale introduzione alle opere di Bembo, che con la stampa delle Prose e poi delle Rime «di anno in anno la letteratura volgare cresceva d’importanza, e non per questo decadeva la letteratura umanistica: la cultura italiana pareva stabilita su una posizione di perfetto equilibrio fra le due tradizioni, tutta intenta in entrambe ad una eguale compostezza di stile».1 Questa affermazione aiuta a problematizzare senza semplificazioni il panorama delle lettere rinascimentali, poiché suggerisce di tener sempre presente nei giudizi il fatto che, nonostante all’altezza del primo trentennio del XVi secolo la lirica sembrasse totalmente conquistata al volgare2 – ed in particolare ai moduli espressivi e stilistici di Petrarca – tuttavia, il sostrato della cultura classica continuava a propagare con energia i suoi influssi. il Cinquecento petrarchista che si fondava sulle teorizzazioni del Bembo intendeva ristabilire una diretta linea di continuità con l’aureo trecento e sfrondare il canale di comunicazione dagli ingombri eclettici e dagli esiti contaminanti della produzione cortigiana.3 Ciò nonostante, però, non si può nascondere che il Cfr. Bembo (ed. Dionisotti), p. 51. nello stesso punto del saggio si sottolinea che nel 1530 Bembo aveva pubblicato anche le sua opere latine filologiche De Aetna, De Virgilii Culice et Terentii fabuliis, De Urbini ducibus e la lettera De imitatione. 2 Delineando un quadro dei vari settori del sapere, l’impressione era che le due lingue, latino e volgare, pian piano equiparate quanto a prestigio, si fossero specializzate spartendosi i campi della produzione scritta, dal momento che l’una continuava a mantenere l’egemonia nel diritto, nei trattati scientifici, nella medicina, nella matematica, nella filologia, mentre l’altra dilagava nel settore letterario vero e proprio, in primis nella storiografia e nella poesia. 3 La poesia cortigiana si caratterizza per l’eterogeneità dell’uso linguistico, ibridato di latinismi e dialettismi, e la pluralità e anche contraddittorietà di modelli, tematiche, prestiti dalla tradi1

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nuovo classicismo poetico, pur rivendicando una monolitica identità romanza e petrarchesca,4 doveva in realtà moltissimo anche all’attraversamento dell’esperienza dell’umanesimo e alla riscoperta piena degli antichi. Sarebbe fin troppo facile richiamare conclusioni note e ad esempio argomentare a questo proposito che lo scrittore delle Prose trasferì nella teoria del volgare toscano la sua concezione di ciceronianismo della lingua latina maturata proprio a partire dalla giovanile formazione di filologo umanista. invece, pare più interessante chiedersi se sia possibile provare che il sigillo della classicità letteraria greca e latina sia stato significativo come alternativa dialettica nel ripensamento dei modelli metrici e formali petrarcheschi. A tale compito mi accingo in questo ultimo capitolo, nel quale tenterò di ripercorrere ancora una volta il corpus per raggruppare assieme tutti quegli indizi di contenuto e quegli atteggiamenti stilistici, riscontrati nelle liriche analizzate, che possano fare pensare ad una effettiva rilevanza esemplare della poesia classica oppure a procedimenti di vivace e complessa interazione tra le tracce di sviluppo poetico proposte nel Canzoniere (o eventualmente in altri testi della tradizione italiana) e le reminiscenze antiche. È evidente che l’argomento è molto complesso e articolato; pertanto in questa sede la trattazione non pretende in alcun modo di essere esaustiva, ma solo di dar conto in un discorso unitario di alcuni fenomeni rilevati e di proporre alcuni spunti interpretativi.

6.1 temi Se partiamo incentrando l’attenzione sui testi di argomento amoroso, che costituiscono la parte preponderante delle canzoni di questo corpus, si può osservare che l’afflusso di suggestioni greche e latine nella declinazione di zione latina aulica così come dal Canzoniere di Petrarca. (Cfr. Santagata, Carrai 1993). 4 Appare ormai superata la riduzione dell’esperienza poetica del XVi secolo all’etichetta di petrarchismo (cfr. Anselmi, Elam, Forni, Monda 2004, 14 «negli ultimi trent’anni l’ampio lavoro d’indagine intorno alla lirica del Cinquecento ha notevolmente arricchito la nostra conoscenza della poesia rinascimentale, fino a scompaginare l’immagine corrente di fenomeno uniforme e compatto attraverso il riconoscimento di un quadro ben più articolato di dibattiti e problemi»). tuttavia, non c’è dubbio che il Canzoniere sia, dal punto di vista lessicale e linguistico, se non dal punto di vista tematico e formale, un modello normativo accettato praticamente all’unanimità.

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tale tematica all’interno della forma canzone, benché non troppo ingente, quando si realizza, sembra portare una ventata di freschezza ai componimenti. L’argomento erotico dispone di per sé di molti e specifici appigli nella tradizione stilnovistica e petrarchesca, tuttavia le riprese romanze risultano spesso stanche, attuate in base ad una convenzione letteraria ormai irrigidita su un canone circoscritto e private di qualsiasi elemento dinamico o conflittuale che non sia il gioco melodioso dei versi. Basti pensare che, accanto alla tipologia più consistente delle canzoni di lode o ai testi di impianto elegiaco incentrati sulla dolorosa lontananza, o ancora alle poesie in cui l’accento è posto sull’incapacità del poeta di trovare un’espressione adeguata al suo sentimento, vi sono estreme esasperazioni di stereotipi tematici che giungono a utilizzare da un lato l’architettura estesa e solenne della canzone e dall’altro le movenze dell’omaggio d’amore e della dichiarazione di disparità tra poeta e amata apostrofata, in modo fittizio, come mascheramento per l’occasionale celebrazione di donne illustri e di illuminate protettrici delle arti.5 Altrove, poi, per immettere elementi differenziati che affranchino il testo lungo da una ossessiva ripetitività su un ristretto intervallo di tasti ovvero su una minima escursione di argomenti, si recuperano inclinazioni drammatiche non sgrezzate, che dimostrano un patente imbarazzo tecnico a riprodurre i ritmi e le oscillazioni dell’interiorità attraverso una sensibilità psicologica sottile e raffinata. È il caso delle liriche bembiane che hanno per soggetto lo “scambio dei cuori” (Asolani, ii, 9 e Rime XXVi) oppure del grottesco componimento tassiano (2, XXXiX) in cui il poeta dichiara di non poter raggiungere la donna amata morta ed ora in cielo perché l’intenso desiderio di perire e rivederla lo tiene tragicamente attaccato alla vita (posto che la morte sia un affievolirsi e un venir meno delle sensazioni). il rischio di incorrere in una fastidiosa uniformità dei contenuti colpisce di più la canzone rispetto al sonetto, in cui la brevità di respiro permette di ancorare le ragioni formali alla focalizzazione fulminea di un preciso aspetto, o per lo meno consente di contenere l’ennesima variazione sullo stesso tema in una gabbia estremamente compatta ed elaborata dal punto di vista stilistico. nel metro lungo esiste, al contrario, una difficoltà oggettiva nel sostenere un

5 Ascrivibili a questa tipologia tematica sono soprattutto alcune canzoni di B. tasso che si concentrano nel secondo e nel terzo libro degli Amori, nei quali le liriche distese assumono quasi esclusivamente un’accezione occasionale e celebrativa.

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discorso vasto ed articolato rispettando punti di svolta e pause definite e allo stesso tempo esaltando o contrastando in modo convincente l’iterazione connaturata ai moduli strofici. Una soluzione possibile, ma praticata dal solo Bembo, con il pericolo di compromettere la fisionomia della forma stessa, è quella di ridurre in maniera drastica la quantità delle strofe o la loro ampiezza, in modo tale da permettere che la spinta argomentativa e il succedersi dei nuclei tematici non si esauriscano prima del termine del testo o non perdano mordente diluiti in uno spazio eccessivamente vasto. Un’altra opportunità è quella tentata da Sannazaro, che non lesina concisi accenni al mito come mezzo di ornamentazione erudita e di rigoglio retorico inteso ad aprire sottili spiragli narrativi nell’asfissiante insistenza sul pianto e sul dolore dell’amante,6 argomento pervasivo dei suoi testi. il più giovane discepolo del maestro napoletano, Britonio, si avvale più scopertamente e con maggiore frequenza di allusioni alle fabulae antiche tanto che di esse è informata un’intera sezione omometrica della Gelosia che va dalla canzone 359 alla canzone 3667 e che rivela la sua compattezza nella clausola che la suggella («Fine de gli continuati ragionamenti solitari di g. Britonio»). i sette componimenti si nutrono invariabilmente del caleidoscopio di situazioni di amori infelici e pene stranianti che soprattutto derivano dalle Metamorfosi di ovidio. il poeta cinquecentesco enfatizza la sua condizione di infelicità replicandola più Cfr. la canzone 2, XLi, variata dall’invocazione alla luna e dall’accenno al mito di endimione (vv. 36- 38 «ma se ’l tuo cuor sentì mai fiamma alcuna,/ e sei pur quella Luna/ ch’endimion sognando fe’ contento…/ »); cfr. la canzone 2, LiX, con l’accenno alle ninfe che popolano il paesaggio marino descritto (vv. 53-55 «ninfe, che ’l sacro fondo,/ come a nettuno piacque,/ de l’undoso tirreno avete in sorte…/»); cfr. la canzone 2, LXXXiii, dove sono inseriti due nuclei di ricordi mitologici, uno ai vv. 33-35 «né già più mi risponde/ Portuno o galatea, che fur più volte/ al mio bel navigar felici scorte/» e ai vv. 53-60 («oh chi fia mai che di quest’empia guerra/ pace m’apporte? oh perch’al mondo io nacqui/ se veder non devea del mio mal fine?/ se luttar con un’idra che mi atterra?/ con un Anteo, sotto il qual vinto giacqui,/ con mille ispide fiere peregrine,/ tra boschi folti e spine,/ come irata giunon seppe guidarme?»). infine, si ricordi il caso macroscopico della canzone delle pene, analizzato qui alle pp. 315 e ss. 7 Cfr. Grippo 1996, 32: «Anche il mondo mitologico offre un grosso serbatoio cui attingere personaggi, situazioni, metamorfosi. nella Gelosia, tanto per fare un esempio, c’è una sezione compatta, tutta di canzoni (da canz. 359 a 366) in cui la condizione dell’amante è continuamente rapportata a quella di figure del mito.» 6

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volte all’interno della stessa cornice; stremato dalle sofferenze che gli causa l’amore non corrisposto, non ha altro sollievo che confidare i suoi sospiri ad un paesaggio solitario ed amico. Al riparo da sguardi impietosi che non sanno compatire la sua angoscia, l’io lirico cerca un punto di contatto tra sé e le figure del mito che, per lo più protagoniste di un crudele destino di stravolgimenti, ritrova a popolare sotto diverse sembianze i luoghi circostanti a cui si rivolge (l’eco,8 le fonti,9 gli uccelli,10 le piante, le pietre,11 le creature che abitano il mare).12 Britonio, dunque, oltre a punteggiare molte delle sue canzoni con accenni a vicende del mito, dedica un’intera compagine testuale del suo canzoniere a reinnestare nell’immaginario della poesia amorosa le affabulazioni tragiche ereditate mediante il filtro della cultura umanistica. L’io lirico rifrange la sua identità divisa dal desiderio in quella delle molte storie di amanti infelici narrate dalla letteratura classica e, nel conciliare i temi di amore e alienamento, ovidio campeggia come punto di riferimento principe.

Cfr. ii, 359, vv. 107-116 «Quella, il cui nome anchor chiaro risuona,/ che Figliuol di Latona/ amò sì che le dié quantunque volse,/ a che rea rimembranza Amor mi sprona,/ o che ’l cielo arda o sparga le pruine,/ poi che l’alte e divine/ bellezze, il tempo avaro le ritolse/ et d’un viver noioso ella s’avolse/ giunse a finir lo stato suo sì atroce/ tornando ignuda voce»; ii, 366, vv. 30-34 «Forse avverrà talhora/ che ’n qualche valle oscura d’ogni intorno/ dalle più occolte grotte atre e profonde/ responderammi ’l giorno/ quella, ch’errando ancor narcisso onora». 9 Cfr. i riferimenti al mito di Biblide in ii, 359, vv. 76-79 «S’egli è pur ver, che in solitaria vita/ una del morto sposo languì tanto/ che per soverchio pianto/ si fe’ d’un vago e miserabil Fonte…»; alla fonte di Pirene in ii, 363, vv. 46-49 «gli suoi morti Figliuoi molto piangendo/ con cridi colmi d’ira, orgogli et onte/ Pirene al fine un fonte/ divenne, che ’l suo nome anchor riserba»; alla fonte Aretusa in ii, 365, vv. 21-26 «fia verde anchor la spene/ pria del martir confusa,/ che fatto havea Arethusa/ de gli occhi miei, che ’n pianto, e ’n doglia tene/ dì e notte il mio Signore/ che del mio pianger vive e del mio ardore». 10 Cfr. il mito di Progne e Filomena in ii, 366, vv. 45-52. 11 Cfr. il racconto di talia e Dafni, tramutato in pietra in ii, 361, vv. 49-52 «Fu Daphni tanto amato da Thalia/ ch’un dì perch’altra non l’amasse al mondo/ di pietra il fece, ponderosa e dura/ sì l’ingombrava Amore e gelosia». 12 Cfr. i riferimenti alle sirene e a tritone in ii, 360, vv. 34-35 «Dotato il ciel m’avesse al duro assalto/ del valor, che nettuno al figliuol diede…» e vv. 45-52 «Stato col mio bel sol giunto un dì fusse/ per acquetare alquanto il core acceso,/ né curarei che mi ingombrasse il peso/ che in grembo a galatea Ati distrusse/ che savendo che mia nemica fusse/ rimasa inlesa poi di quel tormento/ d’ogni altro il più contento/ vedriami poi mutare in largo fiume». 8

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il mito si fa nei componimenti dei poeti del XVi secolo non solo retorico termine di paragone per arricchire la descrizione degli stati emotivi dell’io lirico, ma vera e propria miniera di exempla in cui vedere riflessa la propria vicenda. Di queste potenzialità di rifrazione sono consapevoli da un lato molza, che in un dittico di canzoni (mol i e ii) per scongiurare e poi deplorare il matrimonio dell’amata con uno sposo che non pare alla sua altezza, fa ricorso ai due miti muliebri parlanti di Penelope e di Atalanta, e dall’altro guidiccioni, che icasticamente mette a nudo le ragioni della sua dizione poetica attraverso il confronto con eco.13 tuttavia, il problema del ventaglio dei temi sembra essere avvertito con ponderata consapevolezza dal solo B. tasso che, in uno specifico scritto, lo riconnette ad un colpevole allontanamento dall’orchestrazione antica del ragionamento amoroso. nella lettera dedicatoria a ginevra malatesta, che accompagna la prima edizione del Libro primo de gli Amori, si legge: «… gli antiqui boni poeti greci e latini, i quali sciolti d’ogni obligazione, cominciavano e fornivano i loro poemi com’a ciascuno meglio parea, massimamente quelli che d’amorosi soggetti ragionano, e ch’hanno similitudine co’ volgari, come sono epigrammi, ode et elegie; né avevano rispetto di principiar più con proemio che senza, o se pure il facevano, non curavano di dargli quelle parti che quel della prosa ricerca; e più tosto secondo l’ampia licenza poetica entravano in qualunque materia, e vagando, n’uscivano in fabule, o ’n qualunque altra digressione a lor voglia, et anco spesse volte senza ritornar in essa fornivano».14 Stando a queste asserzioni, la qualità superiore dei testi amorosi antichi sarebbe data dall’uso invalso di inserire liberamente divagazioni nel fraseggio lirico e di provvedere «fabule», animate figurazioni pittoriche, descrizioni sintetiche, narrazioni allusive ed incastonate in un discorso altrimenti rigido e fermo su se stesso. A tale speculazione teorica B. tasso dà applicazione concreta in alcune sue canzoni (e naturalmente anche in

Cfr. Guidiccioni, CXVi, str. v, vv, 53-65 «Se quel cui ’l fonte tolse/ da’ vivi, o spirto ignudo/ che formi de l’altrui le tue parole,/ di sue bellezze volse/ esserti parco et crudo/ per farne adorna poi, come far suole,/ la terra, allhor che ’l sole/ la veste de’ suoi honori,/ non però, udendo i miei/ lamenti, recar dêi/ nel fondo del mio cor tanti dolori:/ fuggi, ché qualhor sento/ le mie voci addoppiar più mi sgomento.» 14 Cfr. B. Tasso (ed. Chiodo), vol. i, p. 16.

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componimenti in altre forme metriche italiane),15 nelle quali la citazione classica è a dir poco ostentata. il pensiero corre subito alla 2, XXXii, la lirica di invocazione alla notte, che risente variamente di topoi e ricordi lessicali del libro catulliano,16 ma poi sembra ricalcare con fedeltà l’impianto dell’epillio 64. Come nel carme latino l’episodio dell’abbandono di Arianna costituisce un’ekfrasis collocata nella narrazione del mito delle nozze di Peleo e teti,17 così nella canzone di B. tasso, la rievocazione della vicenda dell’amata illusa e poi abbandonata a nasso (alle strofe iii-v e viii) e l’eco del suo inconsolabile lamento (strofe vi e vii) sono compresi e incorniciati all’interno dell’allocuzione dell’io lirico all’oscurità. i nuclei sintattici, anch’essi solidali alla vischiosa temperie classicheggiante, si distribuiscono con notevole libertà nella griglia metrica delle stanze e cooperano, assieme all’uso intensivo dell’inarcatura, a riprodurre movenze e sonorità «sciolte d’ogni obligazione» che non sia la segmentazione strofica. in questo caso i limiti della forma petrarchesca sopportano sollecitazioni notevoli, eppure resistono strenuamente ed assicurano il ponte di collegamento tra le due tradizioni. Ciò si vede anche nella canzone 1, XXii, dove la tematica dell’accostamento dei supplizi infernali con le pene del poeta amante, probabilmente desunta da Lucrezio e dagli elegiaci si organizza secondo lo schema a polittico, più volte sfruttato da testi dei Fragmenta. L’opzione per la variegata illustrazione delle «fabule» dei dannati mitologici si concilia così con un tessuto ritmico e un procedimento argomentativo caratteristico del Canzoniere; la scorreria nel territorio dell’antico finisce in un riflusso nella tradizione, in una rifondazione dialettica della forma. Stanze misurate ed ondeggianti grazie a periodi inscritti con ordiLe osservazioni sono dettagliate per quanto concerne la forma canzone, sulla quale è orientata l’indagine. tuttavia ci sono buone ragioni di pensare che la tematica classica penetri anche in altre forme metriche italiane: per questo valga, ad esempio, il riferimento ai sonetti analizzati nella monografia di Carrai 1990. 16 riporto solo un’evidenza macroscopica: i primi due versi della settima stanza «Dormito avessi almeno/ una perpetua notte» (2, XXXii, vv. 79-80) si denunciano come una chiara manipolazione del memorabile verso 6 del carme V di Catullo «nox est perpetua una dormienda». 17 il racconto, apparentemente estravagante, della vicenda di Arianna è legato alla trama principale tramite il pretesto tecnico di carattere alessandrino dell’ekfrasis, la digressione descrittiva di un oggetto artistico. L’infelice amore della donna tradita da teseo, è il soggetto a cui si ispirano le decorazioni della coperta nuziale offerta agli sposi Peleo e teti. 15

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ne nelle sottopartizioni e rilanciati da melodiche congiunzioni sindetiche cuciono una veste pacata e tradizionale anche per la tassiana canzone 2, XC. il componimento sviluppa il tema poco petrarchesco dell’elogio alla notte più luminosa del giorno, invocata dagli amanti non solo come momento per addolorate meditazioni solitarie ma anche, con gioioso slancio vitalistico, come «compagna d’Amore e di diletto» (v. 66). i versi sono indugi descrittivi su una natura idillica e sognante, pervasa dalla presenza di divinità e figure classiche che umanizzano il paesaggio e riflettono con un’eco personificata i moti d’animo del poeta. La luna non è fredda spettatrice del quadro serale, ma condivide con l’io lirico i giochi amorosi a cui si abbandonano gli amanti (vv. 35-39 «et essa bianca di Latona figlia,/ con le tranquille ciglia/ senza turbar o scolorarsi mai/ forse mirando il caro endimione/ si dimostrava dal sovran balcone»). L’atmosfera silenziosa e quasi magica rivela l’interna gioia panica che da essa promana attraverso il canto e le danze delle ninfe Dori, Aretusa, Panopea, efire e galatea, tutte solidali col poeta nel pregare il sole affinché ritardi l’aurora e conceda una prolungata oscurità. Più che uno scorcio paesaggistico, quasi un cammeo classico che ha il sapore dell’idillio e che si arricchisce ogni qual volta la natura si anima di voci, di presenze, di storie e relega sullo sfondo, nel ruolo di comprimari, l’io lirico e la donna amata. Per questo tratto poco petrarchesco e “lirico” nel senso che al termine si conferisce nella tradizione italiana dopo l’esperienza del Canzoniere, il componimento sembra preludere ai toni delle odicine oraziane che, non a caso, nel Libro secondo, sono poste subito a ridosso. La collocazione come ultimo esito di metrica lirica canonizzata nel volume di rime,18 unita alla scelta della tematica, mostra non solo lo sforzo di ordire un testo ‘ponte’ tra le due sezioni del libro ma anche un estremo ed effimero tentativo di cercare una nuova via elegante per la canzone, un’alternativa stilistico-formale non più ripresa per il metro principe, ormai destinato ad essere isolato nel catalogo delle forme tassiane al ruolo di rima d’occasione. Del resto, B. tasso dà un giudizio di valore agli esiti petrarcheschi servendosi della misura antica che ricerca in canzoni come questa, che sono tra le sue più ispirate e riuscite; non è un caso che il brano della dedicatoria che ho riportato sopra prosegua operando opportune distinzioni all’interno della poesia amorosa moderna. La divagazione e l’inserto figurativo 18

Cfr. qui pp. 42-43.

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tipico della classicità apparirebbe a B. tasso «quel che non hanno avuto ardir di far i provenzali e toschi, e gli altri che lor stile seguirono, li quali a pena toccano pur le fabule con una parola o con un sol verso»; unica eccezione sarebbe «il Petrarca in quelle due canzoni Chiare fresche et dolc’acque e Se ’l pensier che mi strugge, le quali piene di vaghezza e di leggiadria, più per aventura poeta lo dimostrano che l’altre sue composizioni».19 Dal passo si evince che il pregio lodato nei carmi greci e latini appartiene anche a due canzoni del Petrarca, la RVF 125 e 126, nelle quali il poeta non avrebbe fatto altro che arricchire e movimentare il ragionamento sulla sofferenza procurata dalla lontananza dell’amata, ambientandolo in un contesto boschereccio e costruendo un “mito di Laura”, presenza fantasmatica e nume del paesaggio di Valchiusa. in maniera del tutto inaspettata, il riferimento allo specifico della tradizione antica, che avrebbe potuto portare ad uno strappo forte con la consuetudine, rientra con una solida giustificazione nell’alveo tradizionale del Canzoniere e conferma, per via classica, il successo dei testi petrarcheschi più imitati tra Quattrocento e Cinquecento. Del resto, poi, tali conclusioni andrebbero fatte reagire con quanto si è già detto a proposito dei nuclei semantico-formali attraverso i quali la forma canonica si sposta nel fiume della tradizione letteraria. non sembra una combinazione fortuita che le riprese puntuali della metrica e dello scheletro argomentativo dal repertorio del Canzoniere riguardino quasi esclusivamente le canzoni pastorelle RVF 125 e 126,20 come se la soluzione tematica di questi componimenti fosse considerata come l’unico convincente compromesso tra apporti della sensibilità antica e innovazioni di matrice romanza in grado di preservare il metro canzone, nella sua accezione amorosa, nel contesto cinquecentesco destinato a dare origine all’io lirico moderno. in prospettiva, si può ricordare che, tralasciate le canzoni di argomento morale, l’ultima canzone amorosa (32) del libro poetico di giovanni della Casa, nel quale il tema erotico è sviscerato con tormento al di là delle convenzioni del genere, prende avvio e forza proprio da una figurazione classica. La sua prima strofa si caratterizza come trasposizione fedele di una celebre ode oraziana (i, 23), apprezzata

Cfr. B. Tasso (ed. Chiodo), 16. È imitata, come si è visto, anche RVF 129, che del resto appartiene, come 125 e 126, allo stesso nucleo compatto di testi centrali e metricamente analoghi dei Fragmenta incentrati sulla dicotomia tra lontananza e permanenza di Laura nel paesaggio visitato dal poeta.

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sin dall’antichità per l’acutezza della descrizione psicologica dello stato d’animo della vergine schiva e ritrosa che fugge da Amore e che per questo viene paragonata ad una trepida cerbiatta: vv. 1-8 «Come fuggir per selva ombrosa e folta/ nova cervetta sole,/ se mover l’aura tra le frondi sente/ o mormorar fra l’erbe l’onda corrente/ così la fera mia me non ascolta/ ma fugge immantenente/ al primo suon talor de le parole/ ch’io d’Amor movo…»).21 in definitiva, credo che possa essere esteso anche al campo della canzone, e più spiccatamente a quella di marca meridionale (rappresentata qui da autori come Sannazaro, Britonio e B. tasso) la considerazione che giorgio Forni ha espresso relativamente al sonetto rinascimentale scrivendo che esso «non assume Petrarca soltanto come l’optimus volgare di una disciplina che mira all’aemulatio, ma fa anche del sistema di artifici e di figure del Canzoniere lo strumento per esplorare un mondo poetico estraneo, che è soprattutto quello del preziosismo latino e greco, nel tentativo di arricchire la ‘povertà’ tematica del Petrarca e di riprodurre nella sua «preziosa» sostanza verbale le invenzioni antiche».22 Quanto valore abbia il retroterra umanistico e per l’affinamento della tecnica retorica e per le risorse motiviche dei poeti primo cinquecenteschi si avverte, poi, con pari evidenza, anche nelle canzoni di argomento non prettamente erotico. nelle rime di encomio, principi e papi figurano come eroi del rinascimento e per questo, sulla scia di una condivisa volontà di reviviscenza dei fasti antichi, sono paragonati a quelli di roma. Così, nella crociata contro i turchi ottomani, alla quale il poeta B. tasso esorta anche il cristianissimo re di Francia, Carlo V e il fratello Ferdinando guidano truppe di soldati che «vanno lieti al periglioso assalto/ sperando per camin sicuro e corto/ alzarsi al par di Scipio e di marcello» (2, Xii, vv. 69-71). i figli illustri dell’antica roma sono i termini paradigmatici a cui anche Sannazaro associa il nobile destinatario dei pomposi versi di lode nella canzone 1, Xi: «e se in antiveder l’occhio non erra,/ tosto fia lieta questa antica madre/ d’un tal marito e padre/ più che roma non fu de’ buoni Augusti» (vv. 80-83) e apostrofa lo stesso come novello eroe civico

Orazio, i, 23, vv. 1-8 «Vitas inuleo me similis, Chloe,/ quaerenti pavidam montibus aviis/ matrem non sine vano/ aurarum et silvae metu// nam seu mobilibus veris inhorruit/ adventus foliis, seu virides rubum/ dimovere lacertae/ et cordis et genibus tremuit». 22 Forni 1997, 120. 21

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ai vv. 104-105 «di dimostrar il core ardo e sfavillo/ al mio gran Scipione, al mio Camillo». infine, negli epicedi, la scomparsa del principe a cui il canto è dedicato è spesso ritenuta la causa che ha ostacolato una carriera luminosa al punto da essere accostabile a quella di personaggi storici entrati nel mito della latinità; si veda in proposito, il compianto di Ariosto per giuliano de’ medici (iV, vv. 76-84 «La cortesia e il valor, che stati ascosi/ non so in qual’antri e latebrosi lustri/ eran molt’anni e lustri,/ e poi teco apparvero, e la speme/ che in più matura etade all’opre illustri/ pareggiassi di Publi e gnei famosi/ tuoi fatti glorïosi,/ sì ch’a sentir avesser l’estreme/ genti, ch’ancor vive di marte il seme»). motivi analoghi infarciscono anche il planctus per un pittore e architetto come raffaello perché la sua prematura morte equivale all’interruzione della renovatio dei fasti artistici, dei quali i secoli dell’impero sono reputati gli insuperati custodi (cfr. mol iV, vv. 97-100 «o iulii, Pompei, titi, Adriani,/ mancate son le dotte e nobil’ mani/ che roma da perpetuo excidio oppressa/ avrebben nel primier stato rimessa»). Simili accenti giungono probabilmente anche attraverso la mediazione che di essi si legge nelle canzoni politiche del Petrarca stesso, basti pensare a passaggi come RVF 53, vv. 37-42 «o grandi Scipïoni, o fedel Bruto,/ quanto v’aggrada, s’egli è anchor venuto/ romor là giù del ben locato officio!/ Come cre’ che Fabritio/ si faccia lieto, udendo la novella!/ e dice: roma mia sarà anchor bella.» Un altro campo molto propizio per il proliferare delle citazioni antiche o mitologiche è senza dubbio costituito dalle perifrasi che indicano luoghi o tempi (momenti del giorno, transizioni stagionali). i passaggi di luce sono quasi sempre incarnati in divinità antiche, per cui si allude all’Aurora, a Febo, ad Artemide per indicare il sorgere del sole, il mezzogiorno e la notte illuminata dalla luna e ciò guadagna costantemente al paesaggio descritto una nota umanizzata che talora si espande e amplifica in consistenti porzioni di testo (come ad esempio in Ala ii). Le parti descrittive che nel metro canzone possono concedersi l’agio di slarghi mitologici, vivono di quanto nelle fabulae antiche è capace di animare il paesaggio, approfondendone la bidimensionalità del semplice quadro contestuale con risonanze emotive che tradiscono il tono del testo. in tal senso è eloquente la strofa i della canzone CXXii di guidiccioni:

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i dì già involan parte delle notti et, le stelle noiose dipartendo, il freddo perde. Vedesi a parte a parte et Driope et le sorelle di quel che ’n Po morìo vestir di verde; ogni bosco rinverde e i prati son dipinti di fior persi et vermigli; hor gli odorati gigli et giacinto et Adone, anchora tinti di sangue, apron a pieno alle lascive aurette il vago seno. (guidiccioni, CXXii, vv. 1-13)

Benché la lirica si fondi, come giustamente ha notato torchio,23 sull’opposizione tematica tra un attacco incentrato sulla descrizione, quasi da idillio pastorale, della floridezza della primavera che ritorna (vv. 1-29) e una seconda parte dedicata alla sofferenza amorosa del poeta che gli impedisce di trovarsi in armonia con il rigoglio della natura (vv. 30-68), mi pare evidente che i germi mitologici di cui la rappresentazione si nutre suggeriscano, almeno all’inizio, un’intonazione elegiaca del canto. È vero che campeggia l’aumento di luce, il colore verde dei nuovi germogli, la fioritura che trascina con sé la nuova stagione, ma nel paesaggio cova silenzioso il dolore delle metamorfosi di Driope in giuggiolo, delle eliadi in pioppi e dei due sfortunati amanti giacinto ed Adone in altrettanti fiori, di cui non si tace il contrassegno luttuoso (v. 6 «’n Po morìo») o addirittura cruento (vv. 11-12 «anchora tinti/ di sangue»). Allo stesso modo, pare più consono ai rarefatti versi lirici che le città italiane vengano additate con i nomi di cui si fregiavano nei tempi passati per poter essere acclimatate in una geografia che tende a collocarli tra il mito e la storia e che mescola indifferentemente toponimi reali con spazi immaginari. Ciò accade, ad esempio, nella canzone di B. tasso 2, XLiX, dedicata a Vittoria Colonna, dove, per celebrare le virtù della marchesa di Pescara e soprattutto glorificarne il talento poetico e la capacità di riunire 23

Torchio 2006, 65.

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attorno a sé un prestigioso circolo culturale, l’autore degli Amori descrive il luogo che la poetessa aveva eletto a residenza, ischia, apostrofandolo con il nome adoperato da Virgilio (‘inarime’) e accostandolo fino ad una quasi perfetta sovrapposizione con il Parnaso (cfr. vv. 118-123 «inarime felice, ove le muse/ han fatto il suo Parnaso, il suo elicona,/ per cui tien vile Apollo e Delfo e Delo,/ già per lo mondo il tuo gran nome suona,/ poi ch’alberghi colei in cui rinchiuse/ tutte le doti sue il benigno cielo»).

6.2 Forme il dialogo con la letteratura classica interessa la canzone, oltre che sul versante dello svecchiamento tematico, anche dal punto di vista dell’assetto armonico e dei moduli strutturali. Anche se non può esserci una corrispondenza immediata tra metrica antica e metrica romanza, tuttavia, nulla vieta ai poeti-umanisti del corpus di stabilire dei paralleli, e quindi delle linee di continuità e di potenziale influsso, tra forme con caratteristiche tematiche o compositive reputate analoghe. nel caso della canzone petrarchesca il termine di paragone sembrano essere «epigrammi, ode et elegie»,24 come suggerisce il passo tassiano già visto. invero, da una rassegna delle innovazioni metriche rilevate nelle raccolte prese in esame si inferisce che proprio a partire dal primo Cinquecento il confronto serrato ma elastico con la tradizione antica inizia a condizionare lo schema soggiacente della canzone fino al punto di comprometterlo e trascinarlo su due strade inedite, divergenti se non antitetiche.25 Da una parte espedienti che risalgono alla lirica greca possono essere assunti per amplificare ulteriormente l’architettura maestosa del metro, portandola nella direzione del componimento con scansione triadica che Cfr. B. Tasso (ed. Chiodo), 16. Cfr. Bartuschat 2000, 190: «La canzone pindarica è in qualche modo la strada alternativa all’evoluzione verso una semplificazione della strofa di canzone in imitazione dell’ode oraziana come l’aveva già attuata il Bembo degli Asolani, e che sarà una delle innovazioni principali della canzone cinquecentesca. trissino invece adotta questa forma oraziana nel suo sirventese. Sul piano metrico designa così orazio come rappresentante di uno stile medio e riserva alla canzone, genere sublime per eccellenza, l’imitazione di Pindaro, rappresentante di uno stile sublime».

24 25

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trova il suo archetipo negli inni di Pindaro; l’applicazione maggiore di un simile modello, come si è già avuto più volte modo di notare, è ascrivibile a trissino, e alle sue liriche sia amorose di lode, sia occasionali, che gareggiano metricamente con la strofe petrarchesca. ma, proprio a causa dell’eccessivo ampliamento della misura canonica e della pomposa grandiosità che ne deriva – ossia a motivo degli stessi ambiziosi presupposti di solennità che la originano – tale forma non è destinata ad una grande fortuna nel prosieguo della tradizione, almeno nella variante magniloquente.26 Dall’altra parte, invece, sempre sotto l’impulso classico, le articolate stanze della canzone convenzionale possono essere indotte a subire una semplificazione, un alleggerimento che le conduce ad una maggiore cantabilità e le orienta verso l’agile estensione dell’ode in quartine di stampo oraziano. A proposito delle innovazioni metriche a cui si assiste in questi anni di fermento, Bausi e martelli si sono sbilanciati parlando di una «prima, vera “rivoluzione” formale nella storia della poesia italiana» che si sarebbe consumata proprio agli albori del Cinquecento e che avrebbe visto agire due componenti antinomiche, da un lato «la spinta verso la forma “aperta”, verso l’allentamento delle forme tradizionali, o addirittura, verso il loro abbandono a vantaggio di più nuove, più elastiche forme metriche», in cui si può riconoscere la prova del verso libero di trissino e dall’altro «l’opposta aspirazione a creare strutture formali che, sia pur inedite e frutto di esperimenti originali, presentino in misura talora superiore agli stessi metri chiusi tradizionali, caratteri di coerente, rigorosa strutturazione interna»,27 la quale probabilmente ha animato sia la creazione delle odicine oraziane che quella delle canzoni pindariche. Conta sottolineare che gli autori che si cimentano in rotture o sfrangiamenti del modello formale trecentesco non sono necessariamente i più Sia Alamanni, che minturno, utilizzando modelli vagamente petrarcheschi per la triade, prediligono testure a maggioranza settenaria, mentre in seguito Chiabrera, accanto ad articolati componimenti di carattere celebrativo e civile, inserisce addirittura strofe a versi brevi o parisillabi e contamina l’idea del principio triadico con la struttura della strofe di canzonetta (Cfr. Beltrami 1994, 155 «lo schema della canzonetta è usato [da Chiabrera] per costruire strutture pindariche, come per esempio la sesta canzone per l’ascesa al pontificato di Urbano Viii, con strofe e antistrofe a8a4b8c8c4b8 ed epodo a8b8b8a8c8c8c8»). 27 Cfr. Bausi, Martelli 1993, 147. 26

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rivoluzionari contestatori del petrarchismo rigoroso o i sostenitori più accaniti della lirica preromanza, ma spesso sono sperimentatori che cercano soluzioni alternative da accostare al patrimonio tecnico già dominato, per circostanze specifiche. Del resto è Bembo ad introdurre negli Asolani il genere metrico dell’ode-canzonetta e per comprendere il significato del suo gesto è necessario andare oltre la superficie e contestualizzare la sua scelta. in un prosimetro che affronta con piglio filosofico la tematica amorosa, il segno formale distintivo rispetto ai sonetti cortigiani d’occasione è il trattamento dialettico degli argomenti, che solo lo statuto maestoso e ramificato della canzone può garantire. tuttavia, l’idea di attivare una polarità tra testure petrarchesche e schemi ridotti a quartine oraziane deve essere interpretata non come una parziale messa in discussione della tradizione, ma piuttosto come un escamotage che conferisce il necessario senso complessivo di gradatio alla dinamica speculativa del dialogo28 e, pur nella novità, mantiene sempre una chiara gerarchia che, senza nostalgiche rivendicazioni, vede all’apice l’esempio del Canzoniere. nella storia della lirica gli Asolani, però, occupano un posto troppo paradigmatico perché il tentativo sporadico della canzonetta, qui collocato, non desti attenzione e pronti imitatori. B. tasso, ad esempio, conosceva senza dubbio le scelte formali pionieristiche del prosimetro bembiano perché utilizza la struttura dell’ode oraziana con convinzione sempre più solida da un libro all’altro della raccolta degli Amori. il poeta bergamasco non pratica questa forma per trovare un punto medio tra l’ampiezza della canzone e la compattezza del sonetto; in essa vede, invece, la possibilità di spezzare in maniera non troppo risentita l’unità tra struttura strofica e struttura sintattica. tale peculiarità deriva dal fatto che la dimensione ridotta degli elementi che compongono il metro dissolve con facilità il valore perentorio delle partizioni, libera il fraseggio dalle strette dell’allineamento e lo riporta, al di là di ogni aspettativa, su una misura distesa che richiama l’andamento dell’esametro latino. relativamente a quest’ultima annotazione, c’è chi ha parlato dell’esistenza nel Cinquecento di una «‘questione del verso’ parallela e solo in parte so-

ricordo che i pezzi poetici sono disposti secondo un ordine crescente di importanza che prevede la comparsa delle poesie brevi (come odi-canzonette e ballate) e culmina nelle canzoni petrarchesche collocate al termine della parte in versi di ciascuno dei tre libri. 28

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vrapponibile alla più nota questione della lingua»,29 cioè di un tentativo di riprodurre il suggestivo passo lungo dei carmi latini, ad esempio attraverso l’infrazione metrico sintattica, l’uso intensivo dell’inarcatura e anche il lenimento della rima. e appunto la rima, marca lirica tipicamente romanza, è spesso messa in discussione da B. tasso e, qualora non sia apertamente eliminata, viene conservata con rinnovata consapevolezza del valore strutturale che ricopre, spesso limitata negli effetti di ripercussione fonica ad essa associati e disarticolata dal pacato sviluppo della sintassi e del pensiero logico fino a creare opposizioni tra i diversi piani del discorso poetico.30 L’effetto di musicalità, priva di cantilene euritmiche, degli sciolti antichi può essere giudicato un altro aspetto della poesia classica che esercita un potere di attrazione sulla tradizione lirica volgare che i poeti del Cinquecento rifondano.31 non si può negare che Alamanni e B. tasso, ma anche Bembo, Sannazaro, molza e trissino nei non rari casi in cui compromettono la pacifica sovrapposizione dell’intonazione del periodo sintattico e del segno di confine metrico (versale o di partizione), sgretolino in parte il carattere romanzo dei componimenti che si fonda sulla ricorrenza coesiva della rima.32 L’atteggiamento di ribellione è più sentito nei primi due autori, che impiegano diffusamente l’enjambement col fine specifico di disattendere la marcatura della punta di verso. Come il poeta toscano, nel sostenere la qualità altamente poetica dello sciolto, cerca di

Cfr. Spaggiari 1994, 120: «il principio di imitazione applicato all’ambito metrico doveva necessariamente confrontarsi col verso principe delle letterature classiche, l’esametro, o accettandone l’equivalenza di fatto – per così dire funzionale – con l’endecasillabo, oppure cercando con arduo cimento di inventare un esametro volgare che di quello fosse non un surrogato, bensì il discendente diretto. nonostante vari ed illustri tentativi, questo erede alla fine non nacque […]. ma la questione lasciò tracce durevoli su un altro piano, propellendo l’abolizione della rima.». 30 Martelli 1984, 525. 31 inutile rammentare che la volontà di riprodurre gli esametri antichi porta nel Cinquecento anche all’affermarsi, in senso proprio, del discorso in endecasillabi sciolti, che penetra in modo rilevante non già nella lirica, ma in altri ambiti della poesia, ad esempio l’epica (con L’Italia liberata dai Goti di trissino), la poesia didascalica (con ad esempio il poemetto La coltivazione di Alamanni) e la poesia tragica (con la Canace di Speroni). 32 in proposito basti pensare che le raccolte poetiche volgari prendono appunto il nome di Rime, fin dalle origini. naturalmente, B. tasso, avversando la rima, denomina i suoi tre libri di lirica con l’appellativo ovidiano di Amores. 29

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intaccare le riserve dei tradizionalisti affermando che la rima non è necessaria alla poesia e per questo rifuggita dai maestri antichi greci e latini, così B. tasso giudica la stessa rima «un ostacolo fisico che si interpone alla fluidità e del ritmo e del discorso: un inciampo continuo ed assillante, un appuntamento fisso che distrae il lettore, ma soprattutto un limite all’espressione poetica più alta e più nobile».33 Dopo aver notato il dato più macroscopico, vale a dire l’emersione in coincidenza con i primi anni del secolo di nuove forme metriche classicheggianti, si potrebbe, infine, azzardare l’ipotesi che l’influsso più capillare dell’antico sul modello lirico cinquecentesco si propaghi nel campo dei rapporti tra metrica e sintassi, nella misura in cui la sintassi libera e fluente nei versi e il trattamento non vincolante delle partizioni che caratterizza le liriche greche e latine potrebbe essere stata percepita come un modello da accostare al fine di rafforzare, con nuove realizzazioni, la forma metrica, le strutture periodali, il lessico ripresi da Petrarca.34 Prova che ciò costituisce una linea di tensione è data dal prolungamento dei periodi tra una stanza e l’altra e quindi dell’annessa violazione dello spazio infrastrofico, che da un lato è stata notata con significativa densità nelle canzoni pindariche di trissino (qui nel cap. 4, pp. 275 e ss.), e dall’altro si riscontra anche nelle odi di Bernardo tasso. Queste ultime, pur non essendo incluse nel corpus per il motivo che dal punto di vista strutturale non possono dirsi “mascheramenti” della canzone petrarchesca tanto quanto lo sono, per indiretta ammissione del loro autore, quelli di trissino, costituiscono il polo dialettico attraverso il quale B. tasso rimette in discussione la forma canzone e pertanto vanno considerate quando si tenti di stabilire gli influssi ai quali il lirico cinquecentesco è stato soggetto nella stesura delle sue rime. La lunga storia di rielaborazioni e di rimaneggiamenti che caratterizza gli Amori testimonia che il destino dell’odicina oraziana è intimamente legato a quello della canzone petrarchesca. nell’editio princeps del Libro primo, le stanze delle odi non si discostano molto da una formulazione di tipo petrarchesco; con il prosieguo delle edizioni il volume numerico delle odi aumenta in maniera inversamente proporzionale rispetto a quel33 34

Cfr. Spaggiari 1994, 117. Cfr. Soldani 1999.

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lo delle canzoni (solo tre tra iV e V libro delle Rime) ed esse acquistano orchestrazioni molto più semplici, fatte di agili moduli pentastici; il tono, l’estensione e la lunghezza delle canzoni si accrescono mentre le odi conservano una misura per lo più circoscritta e una materia “media”. Cambia in maniera solidale anche l’interazione tra metrica e sintassi: mentre le strofe delle prime canzoni petrarchesche di B. tasso (del i e ii libro) sono provviste di figure periodali spesso in contrappunto rispetto alle partizioni interne, a partire dal iii libro (e soprattutto nel iV e V), complici gli argomenti quasi esclusivamente solenni riservati alle canzoni, in queste ultime si registra una più scandita collimazione di frasi e indicazioni metriche.35 Di pari passo, però, quelle intonazioni antimelodiche e quelle strutture sintattiche ad incastro che dominavano le canzoni più antiche vengono trasferite ed accentuate nelle odi. Qui la modulazione strofica del metro e allo stesso tempo la sua collocazione al di fuori di un orizzonte canonizzato con regole talmente perentorie da poter essere difficilmente eluse senza causare degli strappi consentono al poeta, a poco a poco, di “liberare” la frase poetica dalla segmentazione in strofe.36 Sono stati registrati, infatti, diversi casi, più o meno accusati, di odi (specie quelle provviste di unità strofiche brevi del Libro secondo) nelle quali si instaurano legami sintatticamente rilevanti che valicano lo spazio interstrofico, causa periodi che si prolungano oltre il termine della stanza. Sembra, dunque, che a partire dalle riflessioni intraprese tra gli anni ’20 e gli anni ’30, B. tasso trasferisca progressivamente le punte di sperimentazione più accesa e messa in discussione della versificazione toscana, ad un nuovo contenitore plasmato ad hoc e riservi con ciò alla canzone contenuti e forme più tradizionali,

35 Barucci 2003, 19-18. Dall’analisi delle due canzoni del quarto libro delle Rime e dell’unica canzone del quinto, emerge che «queste mostrano una costante fedeltà alla scansione strutturale, specie per i nuclei più evidenti come i piedi, il distico baciato finale, alcune cesure interne». 36 Barucci 2003, 21-22: «Le odi appaiono, invece [a differenza delle canzoni] un percorso di autonomizzazione dalla struttura. [...] nel corso della sua evoluzione poetica Bernardo realizza una progressiva autonomia dai confini della strofa.». Dalla prima ode A l’Aurora, che ha schema ancora riconducibile a quello delle canzoni petrarchesche e che procede trattando ogni singola strofa come una monade fortemente definita, si passa per gradi alle odi del secondo e del terzo libro, nelle quali «sempre più ardita si fa la struttura e più distanti i collegamenti sintattici, disposti in successive sequenze di accavallamenti in cui i periodi lineari vengono smembrati con l’effetto di tenere sempre tesa la linea discorsiva.» (p. 25).

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anche se di una tradizione, che, passata attraverso l’esperienza del classicismo, risulta da esso rinnovata dall’interno e tesa ad accogliere momenti in cui si esplica una dinamica meno rigida tra metrica e sintassi. il punto di equilibrio del percorso di rifondazione della forma pare essere costituito dal Libro secondo, in cui, accanto ad un manipolo fattosi consistente di odi, sopravvive anche una compagine paragonabile di canzoni petrarchesche, alcune delle quali riempite anche di quei temi mitologici e digressivi svolti in una sintassi morbida e destinati più oltre a diventare una marca quasi esclusiva delle nuove odi-canzonette di stampo oraziano. Barucci suggerisce che l’obiettivo e l’esito di B. tasso, uno degli autori primo cinquecenteschi più compromessi con le suggestioni tematiche e sintattiche latine, che continuò nelle sue raccolte a confrontarsi sia con l’orizzonte dei metri romanzi, sia con forme metriche da esse derivate ma tese verso modelli classici, sarebbero stati «il consapevole tentativo di realizzare due generi distinti, in cui la sintassi interagirebbe in maniera autonoma con la corrispondente struttura metrica modellandovisi e sfruttandone le caratteristiche».37

37

Barucci 2003, 41.

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Vii ConCLUSioni

in base ai dati emersi dall’indagine del corpus testuale si può concludere che nelle raccolte del primo Cinquecento la canzone petrarchesca, e specie quella di argomento amoroso, non mostra di detenere una posizione di particolare rilievo e preminenza sulle altre forme liriche. Si ha l’impressione che il metro venga avvicinato e ripreso come ineludibile eredità della tradizione del libro di poesia, senza però che ad esso vengano sempre riservate speciali cure stilistiche. Certo, il panorama di inizio secolo è percorso da spunti dialettici stimolanti e contraddittori che spesso è difficile sintetizzare in un esito uniforme. e tuttavia colpisce constatare che sia tra gli autori che si proclamano scrupolosi restauratori degli archetipi dei Fragmenta, che tra i poeti che risentono del fascino di una possibile contaminazione tra strumenti della tradizione petrarchesca e suggestioni classiche, l’interesse per l’ampio congegno della canzone diminuisce in maniera solidale col dilagare pervasivo della pratica del sonetto, tanto che, in non pochi casi, il metro lungo viene rappresentato in maniera esigua nel catalogo delle altre tipologie formali (Bembo, Alamanni)1 o addirittura espunto, o ancora, ingessato nelle rigide movenze della celebrazione e dell’encomio (B. tasso).2 Da quest’immagine si discostano parzialmente gli

1 nelle vastissime Opere toscane, vi è solo un esemplare di canzone amorosa, che sembra riportato quasi unicamente a titolo di inventario nella ricca e ambiziosa rassegna di forme antiche e moderne. 2 ricordo che tutte le canzoni vengono cassate nella seconda redazione del Libro primo de gli Amori, mentre nel Libro secondo dominano quelle di carattere occasionale. infine nel Libro terzo

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autori di ambiente meridionale, nelle cui raccolte il metro lungo conserva un ruolo di rilievo e una presenza numericamente e proporzionalmente cospicua (Sannazaro e Britonio). La crisi della canzone petrarchesca si manifesta non solo nello scarso numero di occorrenze all’interno dei canzonieri, ma anche negli inquieti esperimenti di rielaborazione del suo statuto strutturale, improntati ad un «profilato bifrontismo»3 di fondo, che sarà destinato a perdurare nel prosieguo del secolo. Così, i tentativi di alleggerimento e semplificazione della stanza evolvono fino a dare origine alle musicali odicine oraziane, mentre, sul versante opposto, l’esigenza di ripristinare ed accentuare la solennità della forma per corrispondere ad una inclinazione sempre più evidente per contenuti occasionali genera l’ibridazione con lo schema triadico dell’inno pindarico o anche solo un ampliamento, nel segno della gravitas, della misura della strofa e della quantità delle strofe stesse. nelle prove più tradizionali, che pure sussistono collocandosi al centro di questa divaricazione formale condizionata dalla sottolineatura umanistica delle reminiscenze classiche, vengono in genere adottati schemi metrici strettamente petrarcheschi, desunti di preferenza dalla zona centrale del Canzoniere. Le canzoni RVF 125, 126 e 129 sono quelle la cui peculiarità ed esemplarità vengono apprezzate con più evidenza dagli autori primo cinquecenteschi, in imitazioni che non si limitano a riprendere la mera testura, ma che avvicinano e rielaborano anche le indicazioni tematiche, sintattiche ed argomentative ad essa connesse. La predilezione per le qualità melodiche ed espositive di tali architetture (principalmente accomunate dalla bipartizione della stanza) le consacra come modelli forti e, nella selezione connaturata alle operazioni di fissazione del canone lirico che si consumano nel primo quarantennio del XVi secolo, le conserva e le consegna alla tradizione successiva fino a torquato tasso, l’ultimo grande compositore di canzoni petrarchesche.4 tuttavia, il contributo più rilevante dei poeti primo cinquecenteschi nella rielaborazione della forma petrarchesca si coglie a livello della distribuzione dei nuclei periodali nelle partizioni che segmentano in modo le canzoni amorose sono totalmente eliminate e il metro veicola solo contenuti celebrativi. 3 Cfr. Gorni 1984, 466. 4 Cfr. Daniele 1994c. gli schemi petrarcheschi ripresi con maggiore frequenza nelle canzoni di torquato tasso sono appunto, nell’ordine, RVF 126, 125 e 129.

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distintivo il metro. Appare indubbio (nella misura in cui emerge concordemente, più o meno accentuata in tutti gli autori) che la frizione tra metrica e sintassi sia la qualità melodica pregnante dei testi del corpus se sottoposti ad un confronto serrato con le strategie di dislocazione sintattica impiegate da Petrarca. L’asincronismo, segno di una sensibilità riflessa nei confronti di una forma ormai fissata nelle sue coordinate ritmiche, non solo investe la sede di verso ed intacca la rima mediante l’uso morbido dell’inarcatura, ma giunge ad interessare anche le ripartizioni logico-concettuali individuabili convenzionalmente nelle suddivisioni della stanza, ossia nei piedi e nella sirma, i cui contorni si sfumano grazie ad oculati procedimenti retorici o al debordamento del periodo da un comparto all’altro. Di pari passo alla strutturazione sfasata del periodo, anche la progressione argomentativa gioca in modo dialettico con la ripetitività dei moduli strofici: sicché il discorso lirico che ne risulta (sia che esso abbia in sé possibilità di sviluppo, sia che si fondi su una perpetua variazione, immobile su se stessa) è caratterizzato da un movimento fluente che solo in pochi casi soggiace alla possibilità di una chiara schematizzazione e che, in questo, tenta di recuperare la parte più vitale dell’oscillante tecnica petrarchesca della canzone.

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BiBLiogrAFiA

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inDiCe Dei nomi* Acciani, Antonia, 311 n, 447 Afribo, Andrea, 7, 447 Alamanni, Luigi, 13, 14, 16, 18, 19, 21, 22 n, 44-47, 53 n, 60 n, 62, 67, 68, 88, 89 n, 102, 132, 181, 187, 188 n, 199 n, 207 n, 208, 224, 225, 235, 280 n, 288, 289, 293, 315, 337, 338, 339, 342, 343 n, 344 n, 351 n, 412, 436 n, 438 n, 442, 445, 447 Albonico, Simone, 12 n, 36 n, 37 n, 53 n, 58 n, 83 n, 352 n, 353, 447, 448 Alighieri, Dante, 5, 9, 15, 16, 29 n, 31, 52, 68, 70, 71 n, 72, 75 n, 76, 77 n, 85, 87, 92, 185, 202 n, 211, 237 n, 243, 255 n, 256 n, 321 n, 324 n, 337 n, 395 n Aloisio, giovanni, 65 Alonso, Dámaso, 447 Amadi, Francesco, 58, 59 n, 60 n, 446 Amomo, 46 n Anselmi, gian mario, 12 n, 317 n, 424 n, 446 Ariani, marco, 25 n, 36 n, 56 n, 243 n, 448 Ariosto, Lodovico, 23, 24, 25, 48-50, 60 n, 62, 68, 69 n, 92, 93, 103, 123, 124, 127, 137, 138, 183, 202, 203, 206, 217 n, 218, 224, 225, 236 n, 248, 254 n, 271, 272, 275, 288 n, 304, 305, 354 n, 355 n, 433, 445, 449, 450, 452, 455 Atanagi, Dionigi, 46, 47, 58 n, 446 Augurello, giovanni Aurelio, 66 n

Baldacci, Luigi, 287 n, 302 n, 380 n, 446, 448 Balduino, Armando, 6, 63 n, 66 n, 71 n, 77 n, 78 n, 92 n, 93, 94 n, 112 n, 361 n, 448 Balsamo, Jean, 448 Bandello, matteo maria, 23, 24, 25, 48, 50, 51, 52, 53, 57, 58, 62, 72, 74, 76, 77, 78, 92, 93, 104, 105, 118, 171 n, 173, 174, 182, 188 n, 189, 206 n, 207 n, 208, 212, 213, 214, 217, 224, 225, 235, 247, 251, 252, 253, 261, 263 n, 282, 302, 303, 304, 306, 307, 353, 417, 418, 419, 420, 421, 422 n, 445, 448, 451, 452, 456, 458 Barberi Squarotti, giorgio, 448, 456 Barbiellini Amidei, Beatrice, 65 n, 268 n, 448 Bardin, gay, 448 Bargetto, Simona, 448 Barilli, renato, 448 Bartolomeo, Beatrice, 448 Bartuschat, Johannes, 28 n, 435 n, 448 Barucci, guglielmo, 440 n, 441, 448 Battaglia, roberto, 405 n, 449 Bausi, Francesco, 436, 449 Belloni, gino, 13 n, 449, 455 Beltrami, Pietro, 178 n, 436 n, 449 Bembo, Carlo, 56, 57, 73 n, 257, 258, 301, 413, 414, 416 Bembo, Pietro, 6, 9, 11, 13, 14, 15, 17, 18, 19, 20, 21, 24 n, 26, 30-37, 40, 44, 48 n, 49, 52, 57, 59 n, 62, 66 n, 68 n, 73, 74, 75, 78, 79, 81, 82, 83, 85

* Sono registrati anche gli aggettivi derivati dai nomi propri; è esclusa la voce: Petrarca, Francesco

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n, 91, 92, 93, 94 n, 97, 98, 121, 127, 128, 131, 139 n, 140, 152 n, 155, 161, 162, 177, 178, 180, 181, 186 n, 187 n, 194, 195, 196, 199, 200, 206 n, 207 n, 208, 210, 211, 212, 224, 225, 228 n, 229, 233, 237, 243 n, 257, 258, 261 n, 262, 264, 265, 283, 286, 287 n, 300, 301, 302, 314, 330, 332, 333 n, 351, 352, 353, 367 n, 368-380, 389 n, 411, 412, 413, 414, 415, 416, 417, 418, 419, 420 n, 421, 423, 426, 435 n, 437, 438, 442, 445, 448, 449, 451, 452, 456 Benucci, Alessandra, 50, 248, 288 Berra, Claudia, 30 n, 33, 34 n, 81 n, 151 n, 239 n, 241 n, 255, 285 n, 312 n, 313 n, 343 n, 369 n, 385 n, 387 n, 395 n, 449, 450 Besomi, ottavio, 449, 456 Bettarini, rosanna, 455 Betussi, giuseppe, 71 n Biagini, enza, 449 Bianchi, Stefano, 58 n, 59 n, 60, 61 n, 380 n, 382, 383 n, 449 Bianco, monica, 449, 457 Binni, Walter, 49, 449, 450 Blasucci, Luigi, 7, 450, 454 Bologna, Corrado, 349 n, 450 Bonora, ettore, 13 n, 450 Bozzetti, Cesare, 48, 49 n, 60 n, 447, 450 Bozzola, Sergio, 7, 186 n, 194 n, 202 n, 332 n, 333 n, 360 n, 450 Brioschi, Franco, 449, 450, 452 Britonio, girolamo, 23, 24, 25, 26, 54-56, 62, 65, 66, 70 n, 74, 75 n, 91, 93, 106-109, 123, 140, 141, 142, 184, 186 n, 187 n, 198, 206 n, 207 n, 209, 219, 224, 225, 236 n, 240, 261 n,

460

272, 273, 274, 275, 289, 291, 293, 314, 315, 316, 317, 321, 322, 324, 325, 329 n, 330, 357, 391-413, 426, 427, 432, 443, 445, 453 Brocardo, Antonio, 17, 59, 316, 446, 458 Brugnolo, Furio 243 n, 350 n, 450 Calitti, Floriana, 450, 455, 457 Camillo, giulio 94 n, 268 n, 329 n, 450 Cannata Salamone, nadia, 350 n, 450 Caracciolo, giovan Francesco, 65 Caratozzolo, Vittorio, 448, 450, 451 Cardinaletti, Anna, 262 n, 456 Carducci, giosuè, 13 n, 89 n, 450 Cariteo (Benedetto gareth, detto il Cariteo), 65, 66 n, 268 n, 316, 319 n, 320, 321, 322, 323, 324, 325, 329 n, 330, 448, 454 Carlini, Anna, 49 n, 450 Carlo V, 432 Carminati, Clizia, 284 n, 454 Caro, Annibal, 56, 57, 58 n, 59 n, 61 n Carrai, Stefano, 22 n, 103 n, 424 n, 429 n, 450, 456 Caruso, Carlo, 20 n, 34 n, 73 n, 414 n, 451 Castelvecchi, Alberto, 22 n, 457 Castelvetro, Ludovico, 287 n Castiglione, Baldassarre, 20 n Castiglione, giovan Battista, 13 n Catullo (gaius Valerius Catullus), 43, 429 n Cavalcanti, guido 16, 52, 77, 92, 211 Cavallini, ivano, 451, 455 Cecchi, emilio, 450, 451 Cerboni Baiardi, giorgio, 451 Ceserani, remo, 26 n, 53 n, 451 Chiabrera, gabriello 280 n, 436 n

Chiappelli, Fredi, 311 n, 312 n, 314 n, 381 n, 451 Chiodo, Domenico, 17 n, 18 n, 40, 41 n, 42 n, 428 n, 431 n, 435 n, 446 Chiorboli, ezio, 56, 445 Chiummo, Carla, 447, 451 Cino da Pistoia, 16, 52, 68, 77, 92, 211, 286 n Clemente Vii, 15 n, 29, 43 n, 68 n, 72, 90 n, 292 Colonna, Vittoria, 26 n, 42, 43 n, 54, 393 n, 398, 434 Comboni, Andrea, 447, 451 Contini, gianfranco, 120 n, 348 n, 367 n Contò, Agostino, 451 Cosmico, niccolò Lelio, 66 n Costa, Ludovico, 51 n, 451 Cremante, renzo, 12 n, 17 n, 29 n, 451 Cremonini, Stefano, 451 Danelon, Fabio, 451, 458 Daniele, Antonio 360 n, 443 n, 451, 455 Danzi, massimo 34 n, 51, 59 n, 60 n, 61 n, 79 n, 309 n, 385 n, 386 n, 413, 414 n, 415 n, 418, 445, 446, 451 Da Pozzo, giovanni, 448, 451 Delphino, nicolò, 59 n De robertis, Domenico, 52 n, 452 Desideri, giovannella, 455 Diacceto (Jacopo Cattani da Diacceto), 19 Di Benedetto, Arnaldo, 452 Di Costanzo, Angelo, 65 n Di girolamo, Costanzo, 116 n, 243 n, 449, 450, 452 Dilemmi, giorgio, 30, 31 n, 82 n, 83 n, 287 n, 316 n, 369 n, 445 Dionisotti, Carlo, 11, 12 n, 14, 15 n, 19 n, 21 n, 22 n, 25, 30, 33 n, 34, 37 n,

38, 39 n, 52 n, 55 n, 81 n, 82 n, 83 n, 352, 423, 447, 449, 452 Dolce, Ludovico, 38 n, 58 Domenichi, Lodovico, 446 Dotti, Ugo, 455 elam, Keir Douglas, 12 n, 317 n, 424 n, 446 elwert, Wilhelm Theodor, 361 n, 452 erspamer, Francesco, 12 n, 16 n, 22 n, 25 n, 452 euripide, 53 n, 448, 458 Fatini, giuseppe, 48, 445 Fausto, Sebastiano (Fausto da Longiano), 13 n Fedi, roberto, 23 n, 24 n, 51, 53, 61 n, 351, 452 Fenzi, enrico, 285 n, 452 Ferdinando i, 432 Ferrari Demetrio, 13 n Ferroni, giulio, 446 Fidia, 415 Filiberta di Savoia, 272, 304-305, 354 Firenzuola, Agnolo (michelangelo gerolamo giovannini da Firenzuola), 15 n Floriani, Piero, 414 n, 452 Folena,gianfranco, 132 n, 286 n, 312 n, 338 n, 339 n, 344 n, 452 Forni, giorgio, 12 n, 317 n, 424 n, 432, 446, 452 Francesco i, 18, 44-46, 89, 445 Frasso, giuseppe, 449, 455 Fubini, mario, 361 n, 369, 377 n, 452 Fuksas, Anatole Pierre, 447, 451 Fulco, giorgio, 85 n, 453 gargano, Antonio, 453

461

gavazzeni, Franco, 453, 454 gesualdo, giovanni Andrea, 13 n giannella, giulia, 449, 456 gigliucci, roberto, 24 n, 317 n, 450, 451, 453, 455, 457 giuliano De’ medici, 203, 272, 304-305, 354, 433 giusto De’ Conti, 51 n, 53 gorni, gugliemo, 28 n, 34, 35, 50 n, 56 n, 59 n, 60 n, 64 n, 66 n, 70, 71 n, 72 n, 75 n, 77 n, 78 n, 79 n, 94 n, 178 n, 309, 333 n, 361 n, 367 n, 385, 386 n, 394 n, 413, 415 n, 443 n, 445, 446, 453 gonzaga, giulia, 43 gonzaga, Lucrezia, 51 n, 282 gonzaga, Luigi, 42 grippo, marcella, 26, 55, 65 n, 321 n, 358 n, 391, 393 n, 396 n, 398 n, 426 n, 453 grosser, Hermann, 451, 458 gualteruzzi, Carlo, 352 guidetti, Francesco, 19, 68 n, 453 guidiccioni, giovanni, 23, 24, 25, 45 n, 56-58, 62, 73, 94, 110, 133, 149, 155, 184, 194, 199, 224, 236 n, 238, 250, 251, 261 n, 330 n, 428, 433, 434, 445, 454, 457 guidolin, gaia, 5, 6, 117 n, 453 güntert, georges, 448, 450, 451 Hauvette, Henri, 45 n, 46, 47, 67, 68 n, 89 n, 453 ianiculo, tolomeo, 27, 446 ippolito de’ medici, 264, 265, 380 Jossa, Stefano, 453

462

Landolfi, Annalisa, 455 Lastraioli, Chiara, 448, 457 Leone X, 265, 271, 414 n Liburnio, niccolò, 20 n Lo monaco, Francesco, 451, 453 Longhi, Silvia, 34 n, 59 n, 60 n, 79 n, 309 n, 385 n, 386 n, 445, 446 Lorenzo De’ medici, 16 Lucrezio (titus Lucretius Carus), 153 n, 316, 429 Lugnani, Lucio, 452, 454 machiavelli, niccolò, 19 malatesta, ginevra, 16, 17 n, 18 n, 41, 428 malato, enrico, 448, 454, 457 mammana, Simona, 454 manuzio, Aldo, 20 n manzi, guglielmo, 448 marchese, Cassandra, 20 n, 26 n marcozzi, Luca, 447, 454 marinetti, Sabina, 455 martelli, mario, 436, 438 n, 449, 454 marti, mario, 34, 37 n, 352 n, 449 martignone, Vercingetorige, 43 n, 44 n, 454 martinelli, Bortolo, 314 n, 454 martini, Alessandro, 449, 456 mastrocola, Paola, 454 mauro, Alfredo, 20 n, 37, 38, 446 mazzacurati, giancarlo, 19 n, 44 n, 46 n, 454 mengaldo, Pier Vincenzo, 5, 7, 19 n, 113 n, 447, 454 menichetti, Aldo, 114 n, 116 n, 454 meninni, Federigo, 284 n, 454 milan, gabriella, 84 n, 90 n, 92 minturno, Antonio, 65 n, 280 n, 436 n

molza, Francesco maria, 23, 24, 25, 45 n, 58-61, 62, 69, 70, 74, 91, 94, 110111, 123 n, 137, 156, 182, 183, 186, 187, 188, 194, 201, 202, 205, 206, 207 n, 224-225, 236 n, 238, 239, 240, 241, 262, 263, 264, 265, 271, 275, 281, 291, 294, 296, 302, 306, 307, 315, 333, 334, 335, 336, 337, 367 n, 380-390, 394, 411, 412, 413, 414, 415, 416, 417, 428, 438, 445, 449, 451 monda, Davide, 12 n, 317 n, 424 n, 446 montagnani, Cristina, 451, 454, 455 morsolin, Bernardo, 309, 454 noferi, Adelia, 313 n, 314 n, 454 orazio (Quintus Horatius Flaccus), 32, 33, 35, 41, 42, 112 n, 275, 368, 430, 431, 432 n, 435 n, 436, 437, 439, 441, 443 orvieto, Paolo, 458 ossola, Carlo, 446, 448, 455 ovidio (Publius ovidius naso), 22 n, 67, 284 n, 325 n, 358, 395, 426, 427, 438 n Paglierani, Franco, 457 Panizza, giorgio, 447, 451 Panofsky, erwin, 268 n, 454 Parenti, giovanni, 153 n, 316 n, 325 n, 454 Pastore Stocchi, manlio, 449, 455 Pazzaglia, mario, 454 Pedrojetta, guido, 449, 456 Pelosi, Andrea, 75 n, 186 n, 455 Picone, michelangelo, 285 n, 314 n, 450, 455, 457 Pindaro, 28, 29 n, 86 n, 87, 88, 89 n, 90

n, 275, 276, 278, 279 n, 280, 284 n, 435 n, 436, 439 n, 443 Ponchiroli, Daniele, 446 Pozzi, mario, 455 Pozzi, giovanni, 449 Praloran, marco, 5, 7, 128 n, 131 n, 243 n, 266 n, 281 n, 285, 286 n, 312 n, 313 n, 348 n, 349 n, 360, 361 n, 362, 369 n, 370 n, 387 n, 388 n, 450, 455, 456 Prandi, Stefano, 39 n, 455 Properzio (Sextus Propertius), 18, 22 n, 316 Quondam, Amedeo, 15 n, 16 n, 24 n, 26, 27, 84 n, 86, 90, 92 n, 279 n, 446, 453, 455, 456, 457, 458 rabitti, giovanna, 456 raffaeli, Pietro, 45, 47 n, 60 n, 445 raffaello Sanzio, 60 n, 61 n, 94 n, 123 n, 271, 272, 302, 308, 413, 414 n, 416, 433, 451, 452 raimondi, ezio, 25, 391 n, 456 renzi, Lorenzo, 114 n, 131 n, 207, 262 n, 456 ridolfi, niccolò, 29, 89, 90 n rinaldi, rinaldo, 47 n, 456 rossi, Antonio, 456 rossi, Luca Carlo, 451, 453 rozzo, Ugo, 456 rucellai, Cosimo, 19, 68, 92, 453 ruscelli, girolamo, 40 n, 78 n, 446 Sabbatino, Pasquale, 20 n, 456 Sacchetti, Franco, 16 Salvi, giampaolo, 262 n, 456 Sannazaro, Jacopo, 5, 13, 19, 20, 21 n, 26,

463

28, 37-39, 40, 60 n, 61 n, 62, 63, 64, 65, 66, 79, 93, 94, 99, 127, 128, 131, 132, 134, 135, 139, 140, 142, 152, 153, 161, 168, 169, 170, 172, 173, 180, 187, 188 n, 194 n, 199 n, 206 n, 207 n, 208, 214, 215, 216, 217, 220, 224-225, 229, 230, 231, 232, 247, 249, 250, 293, 314, 315, 316, 317, 318, 319, 320, 321, 322, 323, 324, 325, 326, 329, 330, 347, 362-368, 373 n, 378 n, 379, 391, 411, 412, 413, 414, 419 n, 426, 432, 438, 443, 446, 450, 452, 454, 455 Sanseverino, Ferrante, 17, 42, 72, 254, 317 n Sanseverino, Lodovica, 303 Santagata, marco, 6, 38 n, 55 n, 63 n, 65 n, 113 n, 120 n, 202 n, 211 n, 245 n, 350 n, 380 n, 395 n, 397, 400 n, 424 n, 447 n, 452, 454, 455, 456, 457 Sapegno, natalino, 450, 451 Scaffai, niccolò, 451, 453 Segre, Cesare, 48, 50, 133 n, 445, 446, 448, 455, 456 Serassi, Pierantonio, 59, 60, 61 n, 111 n, 445 Serianni, Luca, 456 Silvano da Venafro, 13 n Simionato, giuliano, 450, 451, 456 Soldani, Arnaldo, 113 n, 114, 128 n, 140 n, 142 n, 152 n, 160, 183 n, 245 n, 261 n, 291 n, 359, 439 n, 456, 457 Sole, Antonino, 457 Spaggiari, Barbara, 18 n, 113 n, 438 n, 439 n, 457 Spera, Francesco, 47 n, 447 Speroni, Sperone, 438 n Strada, elena, 449, 457 Suitner, Franco, 309 n, 457

464

taddeo, edoardo, 290 n, 457 tansillo, Luigi, 65 n tasso, Bernardo, 13, 14, 16, 17, 18, 19, 21, 22, 40-44, 56 n, 62, 70, 71, 72, 74, 76, 92, 94, 100-101, 122, 124 n, 127, 129, 130, 131, 136, 148, 152 n, 169 n, 170, 181, 182, 187, 194, 199 n, 202, 205, 206, 207 n, 218, 219, 224-225, 228 n, 233, 236, 253, 254, 266, 267, 268, 269, 270, 275, 291, 292, 294, 296, 297, 298, 299, 314, 315, 316, 317, 325, 326, 327, 329, 330, 393 n, 412, 425, 428, 429, 430, 431, 432, 434, 435, 437, 438, 439, 440, 441, 442, 446, 448, 449, 451, 453, 454, 457, 458 tasso, torquato, 9, 70, 94 n, 413, 443, 451, 453 tibullo (Albius tibullus), 18, 22 n tissoni Benvenuti, Antonia 52 n, 457 tolomei, Claudio, 15 n tomasi, Franco, 7, 23 n, 68 n, 457 tonelli, natascia, 114 n, 128 n, 160 n, 187 n, 359, 457 torchio, emilio, 7, 56, 57, 73 n, 94 n, 150 n, 251, 330 n, 434, 445, 457 trissino, gian giorgio, 6, 13, 14, 15, 16 n, 19, 21, 22 n, 27-29, 47 n, 53 n, 62, 73, 73, 78, 79, 83, 84, 85, 86, 87, 88, 89, 90 n, 91 n, 92, 95-96, 119, 127, 128, 129, 131, 134 n, 145, 152, 154 n, 167 n, 168, 176, 179, 180, 186 n, 187 n, 188, 189, 195, 199 n, 206 n, 207 n, 219 n, 224-225, 232 n, 236 n, 254, 255, 256 n, 261 n, 275, 276, 277, 278, 279, 297, 299, 300, 308, 309 n, 435 n, 436, 438, 439, 446, 448, 451, 454, 455, 457

Urbano Viii, 436 n Varchi, Benedetto, 45 Vassalli, Antonio, 458 Vecchi galli, Paola, 458 Vela, Claudio, 11 n, 14 n, 15 n, 21 n, 31 n, 83 n, 447, 449, 451, 452, 458 Velli, giuseppe, 449, 455 Vellutello, Alessandro, 13 n, 351 n Vitaliani, Domenico, 59 n, 458 Weinberg, Bernard, 28 n, 86 n, 87 n, 457, 458 Weise, georg 159 n, 458 Weiss, roberto, 458 zaja, Paolo, 268 n, 329 n, 450 zampese, Cristina, 317 n, 329 n, 451, 458

465

inDiCe PreSentAzione di Sergio Bozzola ............................................... 5 introDUzione .......................................................................... 9 1 1.1 1.2 1.2.1 1.2.2 1.2.3 1.2.4 1.2.5 1.2.6 1.2.7 1.2.8 1.2.9 1.2.10 1.2.11

iL CORPUS teStUALe Selezione degli autori ...................................................................... 11 Descrizione delle opere ................................................................... 27 g. g. trissino, Rime (1529) ............................................................ 27 P. Bembo, Gli Asolani (1505, 15302) ................................................30 P. Bembo, Rime (1530) ................................................................... 34 J. Sannazaro, Sonetti e canzoni (1530) ............................................. 37 B. tasso, Libri de gli Amori (1531-1537) ......................................... 40 L. Alamanni, Opere Toscane (1532-1533) ........................................ 44 L. Ariosto ....................................................................................... 48 m. Bandello, Alcuni Fragmenti de le Rime (1544) ............................ 50 g. Britonio, La Gelosia del sole (1519, 15312) .................................. 54 g. guidiccioni ................................................................................ 56 F. m. molza .................................................................................... 58

2 2.1 2.2 2.3 2.4

ASPetti metriCi Schemi petrarcheschi ...................................................................... 63 Schemi non petrarcheschi ............................................................... 74 oltre Petrarca. Aspetti metrici esogeni ed endogeni ......................... 91 tavole metriche .............................................................................. 94

3 3.1 3.1.1 3.1.2 3.1.2.1 3.1.2.2 3.1.3 3.1.4 3.1.5 3.2 3.2.1 3.2.2 3.3

metriCA e SintASSi Sintassi e partizioni metriche nelle stanze di canzone .................... 112 il tipo strofico (P + P) ................................................................... 117 il tipo strofico (P + P + S) ............................................................. 125 Strofe monoperiodali .................................................................... 126 Strofe a partizioni inanellate .......................................................... 134 il tipo strofico (P + S) ................................................................... 144 il tipo strofico a partizioni indipendenti (P/P/S) ........................... 159 Profili individuali .......................................................................... 179 Proprietà strutturante della rima ................................................... 184 La concatenatio .............................................................................. 187 La combinatio ................................................................................ 207 tavole metrico-sintattiche ............................................................. 224

4

ProCeDimenti ArgomentAtiVi e SViLUPPo DeL DiSCorSo LiriCo 4.1 Strutture metrico-sintattiche e strutture tematiche ........................ 226 4.1.1 La dispositio dei nuclei tematici all’interno della stanza .................. 228 4.1.2 La dialettica tra stanze ................................................................... 242 4.1.2.1 Coblas capfinidas ........................................................................... 245 4.1.2.2 Continuità retorica e figure di replicazione ................................... 249 4.1.2.3 Continuità sintattica ..................................................................... 260 4.2 tecniche di distribuzione complessiva ........................................... 280 4.2.1 Canzoni a sviluppo logico ............................................................. 281 4.2.2 Canzoni a sviluppo narrativo ........................................................ 284 4.2.3 Canzoni a sviluppo drammatico-dialogico .................................... 289 4.2.4 Canzoni a polittico ....................................................................... 308 4.2.5 Coesione formale e variatio nelle stanze. Disposizione alternata e simmetrica ................................................................................. 345 4.3 La serializzazione di canzoni .......................................................... 348 5 5.1 5.1.1 5.1.2 5.1.3 5.1.4 5.2

i nUCLei SemAntiCo-FormALi i nuclei semantico-formali petrarcheschi nella pratica degli autori ....... 359 Sannazaro ..................................................................................... 362 Bembo .......................................................................................... 368 molza ........................................................................................... 380 Britonio ........................................................................................ 391 L’imitazione dei testi di Bembo ..................................................... 413

6 6.1 6.2

ALCUni Cenni SULL’inFLUenzA DeLLA CULtUrA UmAniStiCA ................................................ 423 temi ............................................................................................. 424 Forme ........................................................................................... 435

7

ConCLUSioni ......................................................................... 442 BiBLiogrAFiA ......................................................................... 443 inDiCe Dei nomi .................................................................. 459