La nascita dell’intersoggettività. Lo sviluppo del sé tra psicodinamica e neurobiologia 9788860306562

L'intersoggettività descrive le continue interazioni e gli scambi tipicamente umani che si sviluppano fin dai primi

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La nascita dell’intersoggettività. Lo sviluppo del sé tra psicodinamica e neurobiologia
 9788860306562

Table of contents :
Indice......Page 303
Frontespizio......Page 4
Il Libro......Page 2
Prefazione di di Allan N. Schore......Page 10
Introduzione
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1. Un nuovo approccio all'intersoggettività......Page 26
2. Diventare madre......Page 62
3. Cure e preoccupazioni materne......Page 100
4. La cogenitorialità durante la gravidanza e nel periodo postnatale......Page 126
5. Basi neurobiologiche della maternità......Page 156
6. La matrice primaria dell’intersoggettività......Page 186
7. Le conseguenze dello stress genitoriale nel bambino......Page 220
Conclusioni
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Bibliografia
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MASSIMO AMMANITI VITTORIO GALLESE

LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ LO SVILUPPO DEL SÉ TRA PSICODINAMICA E NEUROBIOLOGIA

RaffdelloCortina Editore

COLLANA DIRETTA DA MASSIMO AMMANITI E NINO DAZZ1

L’intersoggettività descrive le continue interazioni e gli scambi tipicamente umani che si sviluppano fin dai primi giorni di vita, in un processo che conduce alla capacità di comprendere la mente degli altri. Nel capitolo iniziale l’intersoggettività viene affron­ tata in un’ottica neurobiologica valorizzando il fun­ zionamento cerebrale nel contesto dei comportamenti interattivi, con una particolare attenzione alla fun­ zione dei neuroni specchio. Nei capitoli successivi si analizzano le dinamiche psicologiche materne e paterne che contribuiscono alla nascita della matrice intersoggettiva nel figlio. Queste dinamiche genitoriali vengono approfondite anche alla luce della cogenitorialità, ossia della capa­ cità di entrambi i genitori di sostenersi reciprocamen­ te nelFallevamento del figlio. Infine viene esplorato l’impatto dello stress genitoriale fin dalla gravidanza sullo sviluppo del bambino. Nelle conclusioni si deli­ neano le implicazioni di queste importanti ricerche nella prevenzione e in campo clinico attraverso stra­ tegie di sostegno ai genitori e ai bambini in difficoltà. Massimo Ammaniti, psicoanalista, insegna Psicopatologia dello sviluppo presso la facoltà di Medicina e Psicologia della “Sapienza" Università di Roma. Per le nostre edizioni ha cura­ to, tra gli altri, Psicopatologia dello sviluppo (2010). Vittorio Gallese, uno dei più autorevoli neuroscienziati del no­ stro tempo, ha fatto parte del gruppo che nel 1992 ha indivi­ duato i “neuroni specchio”, la scoperta italiana più citata nella letteratura internazionale. Insegna Fisiologia all'università di Parma e nel 2013 la Società psicoanalitica italiana gli ha asse­ gnato il premio Musatti.

Dal catalogo

G. Rizzolatti, C. Sinigaglia So quel che fai A. Simonelli La funzione genitoriale M. Lavelli Intersoggettività

MASSIMO AMMANITI VITTORIO GALLESE

LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ LO SVILUPPO DEL SÉ TRA PSICODINAMICA E NEUROBIOLOGIA

Prefazione di Allan N. Schore

www.raffaellocortina.it

Titolo originale The Birth of Intersubjectivity. Psychodynamics, Neurobiology, and thè Self

Traduzione di Cristina Trentini

ISBN 978-88-6030-656-2 © 2014 Raffaello Cortina Editore Milano, via Rossini 4

Prima edizione: 2014

Stampato da Press Grafica SRL, Gravellona Toce (VB) per conto di Raffaello Cortina Editore Ristampe 1 2 3 4 5 2014 2015 2016 2017 2018

Indice

Prefazione

XI

Introduzione

1

Capitolo 1 Un nuovo approccio all’intersoggettività

9

Capitolo 2 Diventare madre

45

Capitolo 3 Cure e preoccupazioni materne

83

Capitolo 4 La cogenitorialità durante la gravidanza e nel periodo postnatale

109

Capitolo 5 Basi neurobiologiche della maternità

139

Capitolo 6 La matrice primaria dell’intersoggettività

169

Capitolo 7 Le conseguenze dello stress genitoriale nel bambino

203

Conclusioni

235

Bibliografia

241

VII

A Dan, che ha illuminato le nostre vite con creatività intellettuale, vitalità e leggerezza

Prefazione Allan N. Schore

Negli ultimi due decenni, un numero consistente di dati scientifici e clinici ha sottolineato la centralità dello sviluppo precoce per la ma­ turazione cerebrale ottimale e per il funzionamento socio-emozionale adattivo nel corso della vita. Nonostante si sia molto dibattuto sulla rilevanza degli studi evolutivi interdisciplinari e, in particolare, delle neuroscienze per la clinica, attualmente ricercatori e clinici di diversi orientamenti terapeutici stanno assumendo modelli psiconeurobiologici aggiornati dell’attaccamento, nel trattamento dell’intero spettro dei disturbi mentali. Le professioni cliniche, infatti, stanno mostrando un forte interesse per le possibili applicazioni psicoterapeutiche delle nuove scoperte sulle origini relazionali della mente conscia e, ancora di più, di quella inconscia. Questo libro straordinario fornisce un contributo significativo in tal senso. Gli autori, entrambi figure internazionali nel campo delle neuro­ scienze, presentano un nuovo modello di intersoggettività, evolutiva­ mente e neurobiologicamente fondato. Il volume vede la collaborazione tra Massimo Ammaniti, uno psicoanalista dello sviluppo all’avanguar­ dia nel campo della ricerca sui correlati neurobiologici dell’attacca­ mento, e Vittorio Gallese, forse il principale ricercatore nel campo dei neuroni specchio, ideatore della teoria intersoggettiva della “simula­ zione incarnata”. L’intersoggettività è un fenomeno relazionale, ben noto non solo al pensiero psicoanalitico ma anche a molti clinici, in particolare quelli che condividono una prospettiva evolutivo-affettiva. Questo libro offre un modello integrato della “nascita dell’intersoggettività ”, che Amma­ niti e Gallese collocano nelle interazioni e negli scambi continui e reXI

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ciproci, che caratterizzano gli esseri umani sin dai primi giorni di vita. Sebbene questo tema percorra tutto il libro, ogni capitolo si distingue per l’eccitante e innovativo contributo che dà allo studio dello sviluppo neurobiologico guidato a livello relazionale: ossia, della neurobiologia interpersonale. I capitoli che trattano lo sviluppo neurobiologico pre­ natale e perinatale, per esempio, potrebbero essere presi singolarmente e utilizzati come resoconti esaustivi di queste tematiche. Il libro offre un’ampia descrizione della recente ricerca evolutiva che necessita di essere inserita all’interno dei modelli clinici. I capitoli in­ cludono, nello specifico: discussioni creative sugli eventi fondamentali che hanno luogo nei periodi critici prenatali e perinatali (come i cam­ biamenti biologici e soggettivi che accompagnano la transizione alla maternità); l’illustrazione di una procedura di valutazione delle donne in gravidanza (l’“Intervista sulle Rappresentazioni Materne in Gravi­ danza”); una rilettura in chiave neurobiologica della “preoccupazione materna primaria” di Winnicott; la descrizione del costrutto ancora poco considerato, seppure in espansione, di “attaccamento maternofetale”; nuove informazioni sulla cogenitorialità, durante la gravidan­ za e dopo il parto, con particolare riferimento all’impatto psicologico dell’ecografia sulla coppia in attesa. Prendendo poi in considerazione le fasi dello sviluppo postnatale, gli autori presentano numerose ricerche sulla neurobiologia della mater­ nità e sulla trasformazione del cervello femminile in senso genitoriale, includendo una rassegna esaustiva sulla neurobiologia interpersonale dell’amore materno e la descrizione di uno studio fMRI di Ammaniti sulle donne con attaccamento distanziarne. Gli autori, inoltre, propongono al Lettore un modello di interazione regolatrice diadica madre-bambino che delinea la relazione teorica tra attaccamento e intersoggettivi tà, e il­ lustrano i meccanismi neurobiologici interpersonali che esprimono l’im­ patto del trauma relazionale sui cervelli della madre e del feto. Queste nuove conoscenze sulla trasmissione intergenerazionale dello stress o, al contrario, della resilienza in gravidanza e nel periodo postnatale non sono solo proposte in modo chiaro e comprensibile, ma vengono anche inserite all’interno di un modello coerente di intersoggettività, fondato sull’attuale prospettiva psicodinamica contemporanea. In ogni capitolo, viene proposto un modello ben articolato della na­ scita dell’intersoggettività, basato sui recenti sviluppi delle neuroscien­ ze evolutive, della moderna teoria dell’attaccamento e della psicoanalisi relazionale. Gli autori offrono una descrizione suggestiva delle altera­ zioni dello sviluppo cerebrale nella madre e nel bambino, e illustrano XII

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come lo scambio relazionale possa indurre cambiamenti contingenti nella soggettività di entrambi i membri della diade. Sintetizzando il ruo­ lo fondamentale delle reciproche comunicazioni affettive durante i pe­ riodi critici postnatali (in uno stadio evolutivo indicato come “matrice primaria” dell’intersoggettività primaria e, poi, secondaria), gli autori analizzano gli eventi prenatali e perinatali che creano le basi neurobio­ logiche di questi progressi postnatali. Nel corso del libro, i dati della ricerca interdisciplinare vengono in­ tegrati con ampie interviste. Gli autori evidenziano come “durante la gravidanza, si verifichino profondi cambiamenti, caratterizzati da un rilevante sconvolgimento emozionale e da rapide oscillazioni di identi­ tà; allo stesso tempo, però, le donne sperimentano un senso crescente di coerenza interna, soddisfazione e integrazione personale” (cap. 3, p. 88). Gli autori, inoltre, sottolineano come questa significativa esperien­ za sia influenzata da differenze di personalità, simili alle classificazioni dell’attaccamento. Nel discutere le varie costellazioni rappresentazionali materne, vengono presentate interviste di madri in gravidanza con rap­ presentazioni Integrate/Equilibrate, Ristrette/Disinvestite, Non-Integrate/Ambivalenti e caratterizzate da preoccupazioni intrusive e paure fobiche. Il Lettore noterà i parallelismi tra queste narrazioni e le relative esemplificazioni cliniche, che rappresentano un mezzo estremamente ef­ ficace per mettere in luce i mutevoli stati soggettivi della madre in attesa. Questo lavoro approfondisce un altro ambito di grande interesse per i clinici: i neuroni specchio. Gallese propone una critica convin­ cente delle neuroscienze cognitive che, in maniera riduzionistica, as­ sociano l’intersoggettività alla piena competenza linguistica, alla metacognizione sociale, alle rappresentazioni simboliche basate sulle regole formali sintattiche, e alla teoria della mente: ossia, a stati mentali che mappano credenze e desideri. Gli autori sottolineano come nell’attua­ le psicologia evolutiva “le fasi dello sviluppo cognitivo sociale [siano] state descritte, basandosi quasi esclusivamente sui racconti verbali dei bambini e sulle prestazioni mediate dal linguaggio” (cap. 1, p. 13). Par­ tendo da questo presupposto, gli autori ipotizzano che l’intersoggettività, non essendo “confinata esclusivamente a una prospettiva meta­ rappresentazionale, dichiarativa, in terza persona” (cap. 1, p. 20), possa implicare anche “il mappare l’altro sul sé, corrisposto dal mappare il sé sull’altro” (cap. 1, p. 19). “L’Altro”, dunque, non va considerato solo in una prospettiva metarappresentazionale in terza persona, ma come un “sé corporeo”: questi aspetti sono in accordo con il costrutto della neurobiologia interpersonale. XIII

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Gli autori offrono poi al Lettore una dettagliata descrizione neu­ roanatomica e neurofisiologica del meccanismo specchio (attraverso il quale l’osservazione dell’azione attiva la corteccia premotoria ventrale e la corteccia parietale posteriore), proponendone il coinvolgimento nel comportamento imitativo e anche - forse - nell’imitazione non-conscia delle posture del corpo, delle espressioni facciali e del comportamen­ to dei partner sociali. Secondo gli autori, la percezione e la produzione delle espressioni facciali con valenza emotiva

potrebbero coinvolgere strutture neurali comuni, con funzioni ipoteti­ camente simili a quelle del meccanismo specchio Quando osser­ viamo l’espressione facciale di qualcun altro, non ne comprendiamo il significato solo mediante l’inferenza esplicita per analogia. L’emozione dell’altro è prima di tutto costituita e direttamente compresa attraverso il riutilizzo degli stessi circuiti neurali su cui si fonda la nostra esperienza in prima persona di quella data emozione. (Cap. 1, pp. 29-30) Gli autori, dunque, presentano un modello di intersoggettività che non sottolinea le rappresentazioni simboliche, bensì l’intercorporeità. Questo concetto è in linea con il mio lavoro sulle comunicazioni affet­ tive tra i cervelli destri, che gli autori citano nel libro (Schore, 1994, 2003,2012). Applicando la “teoria della simulazione incarnata” e la cognizione motoria all’ontogenesi precoce dell’intersoggettività umana, Ammani­ ti e Gallese citano i classici studi sul fenomeno transitorio dell’imita­ zione neonatale della protrusione della lingua. Ma questo fenomeno è una comunicazione diadica? Ammaniti e Gallese mettono chiaramen­ te in luce il meccanismo delle comunicazioni di stato fondate a livello corporeo, citando sia la descrizione di Legerstee (2009) dei contesti precoci dell’interazione sociale - in cui “i bambini comunicano con il contatto visivo, l’espressione facciale, le vocalizzazioni e i gesti, mentre assimilano il ritmo delle proprie interazioni a quello dei caregiver” (p. 2) - sia le osservazioni di Trevarthen (1979) sulle protoconversazioni (si noti ancora come entrambe le citazioni siano in linea con un model­ lo neurobiologico interpersonale di comunicazione tra i cervelli destri). Gli autori affrontano, senza pregiudizi, alcuni quesiti fondamenta­ li sui neuroni specchio che non hanno tuttora ricevuto risposta: “Non sappiamo ancora quando e come appaia il meccanismo specchio. Non sappiamo se i neuroni specchio siano innati e come vengano configurati e modellati durante lo sviluppo” (cap. 1, p. 35). Perché questo quesito è fondamentale? Perché i contesti affettivo-relazionali della protosogget­ XIV

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tività e dell’intersoggettività di Trevarthen (1979) si collocano rispetti­ vamente all’inizio e alla fine del primo anno di vita, in momenti critici per la “nascita dell’intersoggettività”. Ammaniti e Gallese, infatti, am­ mettono l’esistenza di “prove indirette” sulle origini del meccanismo specchio, e riportano solamente quattro studi dell’attività dei neuroni specchio nei primi sedici mesi di vita: va sottolineato che nessuno di questi studi è stato condotto durante i primi sei mesi o nell’ambito di un contesto relazionale di attaccamento. In altre parole, non esiste al­ cuna evidenza che il sistema premotorio ventraie-parietale sia attivo nel bambino di tre mesi o nella madre, nonostante comunichino a livello intersoggettivo. Inoltre, non è stata condotta nessuna ricerca sui cam­ biamenti epigenetici di questi neuroni, né sui neuroni specchio delle madri con disturbi psichiatrici. Sebbene possano esserci ancora molti interrogativi sul ruolo dei neu­ roni specchio nei processi diadici precoci intersoggettivi e dell’attacca­ mento, le neuroscienze confermano l’esistenza e l’importanza di questo sistema, soprattutto quando opera in associazione con il sistema limbico e, in particolare, con l’insula destra, la corteccia cingolata anteriore e l’amigdala. Il dibattito rimane però ancora aperto rispetto alla que­ stione dell’empatia, un meccanismo essenziale nelle interazioni madre­ bambino e paziente-terapeuta. A causa delle similitudini tra la parola “rispecchiamento” nella psicologia psicoanalitica del sé e nella neuro­ biologia, vi è chi sostiene che i neuroni specchio siano assimilabili al rispecchiamento psicologico, ossia all’empatia. Nella conclusione del capitolo sui neuroni specchio, Ammaniti e Gallese fanno un chiaro ri­ ferimento all’interfaccia tra le neuroscienze e la psicoanalisi, e al lavoro rivoluzionario sulla memoria implicita e sull’inconscio non rimosso del loro collega Mauro Mancia (2006). Ma i neuroni specchio corticali in­ fluenzano l’abilità del terapeuta di empatizzare con gli stati inconsci del sé del paziente (non solo quelli espressi verbalmente, ma anche quelli non verbalizzati, generati a livello sottocorticale)? L’empatia affettiva (più che quella cognitiva) è fondamentale nel contesto terapeutico e viene elaborata soprattutto nei circuiti limbici-autonomici dell’emisfe­ ro destro (Schore, 2012; vedi anche Gainotti, 2012). Come il Lettore noterà, nel capitolo 1, in cui si presenta un’ampia ed esauriente descrizione del meccanismo dei neuroni specchio, la parola “empatia” compare solamente una volta, e solo in riferimento a un’ul­ teriore area di ricerca: l’imitazione facciale spontanea. A questo pro­ posito, Decety (2010) afferma: “Mentre il sistema dei neuroni specchio fornisce un meccanismo fisiologico per la risonanza motoria e gioca un XV

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ruolo nell’imitazione, le attuali evidenze neurofisiologiche e neurologi­ che non sostengono chiaramente l’idea che un tale meccanismo possa rendere conto della comprensione delle emozioni, dell’empatia o del­ la simpatia” (p. 206). Del tutto in linea con questa prospettiva, in una rassegna di studi fMRI sull’empatia, Fan, Duncan, de Greck e Northoff (2011) affermano: “I nostri risultati meta-analitici non mostrano un’at­ tivazione consistente delle regioni del sistema dei neuroni specchio, in seguito a correzione statistica; questo sistema, quindi, non sembra cen­ tralmente coinvolto nell’empatia” (p. 907). Nonostante questi interrogativi, gli autori affermano che “l’esisten­ za del meccanismo specchio è ora ampiamente riconosciuta anche nel cervello umano” (cap. 1, p. 25). Dal mio punto di vista, non c’è dubbio che la scoperta dei neuroni specchio sia un evento centrale nelle neuro­ scienze moderne. Di certo, vi è ancora molto da apprendere, ma la mia impressione è che il sistema dei neuroni specchio dia un reale contribu­ to alla funzione adattiva, non tanto nel primo bensì nel secondo anno di vita, quando i circuiti motori corticali incrementano significativamente la propria complessità, consentendo la locomozione eretta nell’uomo: in questo periodo, l’emisfero sinistro, che è dominante per il comporta­ mento volontario, va incontro a una crescita considerevole. In altre paro­ le, nel bambino, il meccanismo specchio e la cognizione motoria potreb­ bero essere coinvolti centralmente nell’imitazione e nell’apprendimento osservativo dei gesti strumentali (ossia, non espressivi) genitoriali, che risultano lateralizzati a sinistra (vedi Gallagher, Frith, 2004): dunque, nell’ambito di esperienze precoci di esplorazione e apprendimento di competenze, che hanno luogo soprattutto in un contesto sociale. Questo eccezionale libro apre nuovi orizzonti nel campo dell’intersoggettività. Il clinico interessato allo sviluppo troverà una ricchezza di informazioni aggiornate, con dirette applicazioni cliniche. L’inter­ soggettività viene messa sul piano dell’attaccamento, un tema centrale nel fondamentale lavoro di Daniel Stern. Nel rivoluzionario libro del 2004 II momento presente. In psicoterapia e nella vita quotidiana, Stern afferma che l’intersoggettività agisce come “un sistema motivazionale innato”. Sviluppando questa idea, Ammaniti e Gallese propongono che il sistema motivazionale intersoggettivo sia “come un barometro costante che ci dà le informazioni riguardo a noi stessi e agli altri in contesti diversi [...]. I processi intersoggettivi sono come una carta carbone sottostante tutti i sistemi motivazionali e, nel caso del sistema di attaccamento, sono attivati quando emergono i bisogni di attacca­ mento” (cap. 6, p. 190). XVI

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Questo volume sarà molto prezioso per i clinici specializzati nei di­ sturbi dell’attaccamento e nei traumi relazionali, gli psicoterapeuti in­ fantili, gli operatori della salute mentale infantile, i pediatri, gli psicoa­ nalisti e i ricercatori dello sviluppo. Sia i clinici della salute mentale sia i ricercatori nel campo delle neuroscienze evolutive e della psicologia dello sviluppo si stanno sempre più interessando ai periodi critici pre­ coci, come le fasi prenatali e perinatali. I capitoli conclusivi del libro illustrano le applicazioni cliniche del modello degli autori nella valuta­ zione e nell’intervento precoce, facendo riferimento, in particolare, al periodo della gravidanza. Citando numerosi studi, gli autori concludono che “il feto [...] rice­ ve e registra le informazioni provenienti dall’ambiente materno, utiliz­ zando la maggior parte dei sistemi biologici che, più tardi, medieranno l’adattamento individuale alle sfide endogene ed esogene” (Cap. 7). Gli autori, inoltre, riportano dati di ricerca che dimostrano che le concen­ trazioni fetali di cortisolo sono direttamente correlate a quelle materne (con una proporzione materno-fetale di 12 a 1), e che una consistente percentuale di cortisolo materno (compresa tra il 10% e il 20%) è in grado di attraversare la placenta. I clinici, dunque, devono compren­ dere che la trasmissione intergenerazionale della resilienza, così come della vulnerabilità psicopatologica, inizia nell’utero: ciò mette in luce l’importanza del lavoro con le donne in gravidanza e con i pazienti che riportano storie di trauma prenatale. La questione critica della valuta­ zione e dell’intervento precoce è, tra l’altro, il focus di un mio recente lavoro (Schore, 2012, in pressi. La nascita della intersoggettività presenta un’affascinante e ricca combinazione di nuove informazioni, che risultano utili per una più profonda comprensione delle origini intersoggettive precoci dei nostri mondi interni e di quelli dei nostri pazienti. Questi mondi guidano le nostre interazioni relazionali e socio-emozionali con gli altri, modu­ lando soprattutto i fondamentali processi adattivi che avvengono al di fuori della consapevolezza conscia.

Bibliografia Decety, J. (2010), “To what extent is thè experience of empathy mediateci by shared neural circuits?”. In Emotion Review, 2, pp. 204-207. l'AN, Y., Duncan, N.W., DE Greck, M., NORTHOFF, G. (2011), “Is there a core neural network in empathy? An fMRI based quantitative meta-analysis”. In Neurosdence and Biobehavioral Reviews, 35, pp. 903-911.

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Gainotti, G. (2012), “Unconscious processing of emotions and thè right hemisphere”. In Neuropsychologia, 50, pp. 205-218. Gallagher, H.L., Frith, C.D. (2004), “Dissociatile neural pathways for thè perception and recognition of expressive and instrumentai gestures”. In Neuropsychologia, 42, pp. 1725-1736. Legerstee, M. (2009), “The role of thè person and object in eliciting early imitation”. In Journal of Experimental Child Psychology,51, pp. 423-433. Mancia, M. (2006), “Implicit memory and unrepressed unconscious: Their role in thè therapeutic process (how thè neurosciences can contribute to psychoanalysis)”. In International Journal of Psychoanalysis, 87, pp. 83-103. ScHORE, A.N. (WìAfAffectRegulation and thè Origin ofthè Self. Erlbaum, Mahwah (Nj). ScHORE, A.N. (2003), La regolazione degli affetti e la riparazione del sé. Tr. it. Astrola­ bio, Roma 2008. SCHORE, A.N. (2012), The Science of thè Art ofPsychotherapy. Norton, New York. SCHORE, A.N. (in pressi, “Regulation thcory: A contribution to formulating early infant assessment and intervention. A response to Voran’s clinical case”. In Journal oflnfant, Child, and Adolescent Psychotherapy. Stern, D.N. (2004), “L’intersoggettività come sistema motivazionale fondamentale”. Tr. it. in II momento presente. In psicoterapia e nella vita quotidiana. Raffaello Cor­ tina, Milano 2005, pp. 81-92. Trevarthen, C. (1979), “Communication and cooperation in early infancy: A description of primary intersubjectivity”. In BuLLOWA, M. (a cura di), Before Speech: The Beginning ofInterpersonal Communication. Cambridge University Press, Cambrid­ ge (uk), pp. 321-347.

Introduzione

Questo libro tratta il tema dell’intersoggettività, costrutto che descri­ ve le interazioni continue e reciproche, presenti sin dai primi giorni di vita, attraverso le quali gli esseri umani “giungono [progressivamente] a conoscere la mente degli altri” (Bruner, 1996, p. 26). Negli ultimi de­ cenni, l’interesse per il tema dell’intersoggettività si è affermato in molti campi scientifici - dalla psicoanalisi relazionale dXlnfant Research, dalla cognizione sociale alla neurobiologia - che, pur utilizzando metodi di indagine e modelli teorici sostanzialmente diversi, hanno tuttavia rag­ giunto interessanti aree di convergenza. L’enorme quantità di dati di ricerca e di osservazioni cliniche esisten­ ti nel campo dell’intersoggettività rende problematica la costruzione di un modello di riferimento unitario. L’interazione fra sistemi diversi e complessi può essere descritta facendo riferimento al “modello tran­ sazionale” di Sameroff e Chandler (1975), secondo il quale il contesto ambientale (connesso alle esperienze esterne) e il genotipo (l’organiz­ zazione biologica individuale) interagiscono reciprocamente generando il fenotipo (il bambino in evoluzione), il quale, a sua volta, influenza e modifica il contesto ambientale e la dotazione genetica. I recenti pro­ gressi nel campo della biologia molecolare, della genetica e della neu­ robiologia hanno dimostrato l’importanza di focalizzare l’attenzione su molteplici sistemi interagenti. Il medesimo approccio è emerso nell’bzfant Research e nella psicoanalisi relazionale, ambiti in cui si sottolinea l’importanza, sin dall’inizio della vita, della complessa rete relazionale del Sé individuale, fondata sulla reciprocità sociale e sullo sviluppo del “senso del noi” hwe-ness-, Emde, 2009). Questo libro si propone di integrare e confrontare i progressi della ricerca nel campo della genetica, dell’endocrinologia e della neurobio­

logia con quelli della ricerca psicologica e psicopatologica. Attualmen­ te, in molti settori di studio, i modelli multidirezionali e interazionali stanno sostituendo i modelli riduzionistici e lineari, enfatizzando le in­ terazioni tra geni e ambiente e le esperienze relazionali epigenomichc. La prospettiva evolutiva risulta particolarmente significativa quan­ do si analizzano gli interscambi dinamici e continui, nei quali i singo­ li sottosistemi non possono essere separati daH’insieme. Dal momen­ to che, in questo ambito, il divario esistente tra circuiti neuronali e comportamento appare troppo ampio (Carandini, 2012), sarebbe uti­ le identificare un livello di descrizione intermedio rispetto al funzio­ namento neurale, che interviene in singoli neuroni o in popolazioni neuronali. Questo libro è stato scritto da uno psicoanalista e da un neurobiolo­ go. Lavorando insieme, abbiamo tentato di trovare le interconnessioni tra i nostri ambiti teorici di riferimento e, pur utilizzando diverse stra­ tegie teoriche e di ricerca, abbiamo sottolineato le significative conver­ genze che sono emerse durante gli ultimi anni. Va sottolineato che la scrittura di questo libro riflette inevitabilmente l’approccio teorico e la specificità di linguaggio degli autori, che abbiamo intenzionalmen­ te scelto di mantenere, proprio per rispecchiare la dialettica che oggi contraddistingue il dibattito scientifico. Come illustriamo nel capitolo 1, il livello intermedio tra il sistema dei neuroni specchio e la risonanza empatica - tipica delle interazioni genitori-bambino - è definito, sul piano funzionale, dalla simulazione incarnata: “uno specifico meccanismo mediante il quale il nostro siste­ ma cervello/corpo modella le proprie interazioni con il mondo” (Gal­ lese, 2006, p. 2). Nel capitolo 1 il tema dell’intersoggettività sarà affrontato assumen­ do un approccio multidisciplinare, attraverso l’integrazione e la discus­ sione critica di contributi molto rilevanti che scaturiscono dalla filoso­ fia, la psicologia evolutiva, la psicoanalisi e le neuroscienze cognitive. La natura sociale degli esseri umani è stata riconosciuta sin dai tempi di Aristotele: ciononostante, il campo scientifico è stato dominato per decenni da un approccio solipsistico. Tuttavia, durante il secolo scorso, abbiamo rilevato che numerosi pensatori, appartenenti a diverse tradi­ zioni di pensiero (come, per esempio, Buber e Merleau-Ponty), hanno sottolineato la necessità di assumere un approccio in seconda persona per spiegare l’intersoggettività: un concetto in cui l’interazione tra il sé e l’altro appare cruciale, così come il ruolo del corpo in relazione al proprio spazio peripersonale.

INTRODUZIONE

Il confronto tra intersoggettività e neuroscienze può condurre a con­ clusioni divergenti laddove le neuroscienze adottino un’assunzione teo­ rica di ispirazione cognitivista, basata essenzialmente sulle localizza­ zioni cerebrali; questo confronto appare invece più proficuo quando l’approccio neurobiologico esplora il funzionamento cerebrale nel cor­ so di comportamenti interattivi ecologicamente plausibili. In questo li­ bro, illustreremo l’importanza e la funzione dei neuroni specchio nel cervello, chiarendo i meccanismi di funzionamento della “simulazione incarnata”. Dall’applicazione congiunta di una prospettiva psicodinamica evo­ lutiva e di un approccio neuroscientifico cognitivo incarnato emerge un nuovo modello di intersoggettività che getta una nuova luce sulla nasci­ ta dell'intersoggettività stessa, che rappresenta il tema centrale del libro. Nel capitolo 2 discuteremo le origini evoluzionistiche delle condotte di accudimento che hanno stimolato, soprattutto nelle madri, ma anche nei padri, la capacità di essere sensibili e di sintonizzarsi con i bambini. Nei decenni passati, la famiglia, così come è stata descritta da Freud, ha subito profondi cambiamenti. Oggi esistono numerosi modelli di fa­ miglie, che spesso rispondono a diversi e sovrapposti bisogni che non trovano adeguate risposte all’interno della struttura tradizionale. A cau­ sa di ciò, sono emerse differenti e più fluide soluzioni familiari. La tra­ dizione si è mescolata con una serie di profondi cambiamenti indotti da numerosi movimenti apparsi negli ultimi decenni, rappresentati dal femminismo e dai movimenti omosessuali. Spesso, il capofamiglia è una madre o un padre single (Tyano et al., 2010), così come è confermato dal fatto che il 40% dei bambini statunitensi trascorre le notti in una casa in cui non vive il padre. All’interno di questo contesto, il numero delle famiglie omoses­ suali è cresciuto rapidamente. Nonostante alcuni pregiudizi ancora esistenti, la ricerca non ha rilevato alcuna differenza sistematica tra i bambini cresciuti da una madre e un padre, e quelli cresciuti da ge­ nitori dello stesso sesso (Patterson, 1992); questa è un’ulteriore con­ ferma dell’importanza dell’intersoggettività e dell’attaccamento tra i bambini e i loro caregiver. Come è stato messo in luce anche da Freud e Winnicott, la matri­ ce intersoggettiva madre-bambino ha origine durante la gravidanza e prosegue durante il primo anno di vita del bambino. Durante la gra­ vidanza, avvengono profonde trasformazioni che coinvolgono, da un lato, il corpo della madre (in virtù dei cambiamenti ormonali e neuro­ biologici) e, dall’altro, il mondo psichico e l’identità materna, andando

a stimolare nella donna l’attivazione di rappresentazioni mentali di sé come madre e del bambino. Le trasformazioni che riguardano l’identità materna saranno illustrate attraverso la presentazione di tre interviste di donne che mostrano diverse rappresentazioni prototipiche e costel­ lazioni psichiche durante la gravidanza. Nel capitolo 3 sarà discusso il concetto di attaccamento maternofetale, esaminandone i contributi di ricerca e sottolineandone i punti di forza e di debolezza. Durante la gravidanza, le madri sviluppano una peculiare “sollecitudine” per il feto e per la gravidanza, che è stata de­ scritta clinicamente da Winnicott. Un’ulteriore osservazione di Winnicott mette in luce uno specifico stato della mente tipico dell’ultima fase della gravidanza, la preoccupazione materna primaria, che si caratteriz­ za per un'aumentata sensibilità verso il bambino e la gravidanza stessa. Va sottolineato, tra l’altro, che la ricerca ha recentemente confermato queste intuizioni cliniche, evidenziando una modificazione cerebrale nell’ultima parte della gravidanza. Mentre la preoccupazione materna primaria rappresenta una condizione fisiologica durante la maternità, in questo periodo possono emergere anche preoccupazioni e paure più severe, di cui daremo delle esemplificazioni presentando gli estratti di un’intervista di una donna in gravidanza, che riporta queste specifiche reazioni psicologiche. Nel capitolo 4 amplieremo la precedente prospettiva della mater­ nità, sottolineando il ruolo dei padri e della cogenitorialità durante la gravidanza e il post-partum. Le dinamiche della cogenitorialità saran­ no esplorate considerando e confrontando la prospettiva psicoanaliti­ ca e quella sistemica. Si discuterà, inoltre, dello studio della capacità triadica che emerge durante la gravidanza e che tende ad anticipare le dinamiche familiari che avranno luogo dopo la nascita del bambino. Mentre la prospettiva psicoanalitica cerca di esplorare la dimensione rappresentazionale genitoriale e le sue connessioni con le interazioni, l’approccio sistemico enfatizza piuttosto il ruolo degli scambi interat­ tivi nella cogenitorialità. Durante la gravidanza, l’ecografia ostetrica, che visualizza il feto, ha un profondo impatto sui genitori e facilita le interazioni a livello cogenitoriale, così come documentato da una procedura interattiva, struttu­ rata sulla base del Prenatal Lausanne Trilogue Play (Carneiro, CorbozWarnery, Fivaz-Depeursinge, 2006). Riporteremo anche un’intervista condotta con una coppia di genitori in attesa, in cui si evidenzia una buona relazione di sostegno reciproco. Considerando poi lo sviluppo dell’intersoggettività nei bambini, la

ricerca ha evidenziato come tale capacità possa essere stimolata dalle interazioni triadiche. Nel capitolo 5 sarà presentata una rassegna delle ricerche sulle tra­ sformazioni cerebrali materne, che implicano l’attivazione di circuiti che regolano i comportamenti di accudimento. Mentre il livello di ormoni, come gli estrogeni e il progesterone, au­ menta all’inizio e diminuisce alla fine della gravidanza, la concentrazio­ ne degli ormoni neuropeptidici, come la prolattina e l’ossitocina, au­ menta in maniera consistente durante tutta la gestazione. Vale la pena sottolineare che le ricerche condotte sui modelli animali e umani hanno documentato il ruolo centrale svolto dall’ossitocina nello sviluppo dei comportamenti di accudimento materno. Durante la gravidanza, e il periodo successivo al parto, nei mammi­ feri e negli esseri umani avvengono importanti trasformazioni neuro­ biologiche, definite dall’attivazione del circuito neuronaie che stimola l’amore materno e il piacere nel prendersi cura dei figli: questo circuito presenta un substrato neurobiologico sovrapponibile a quello dell’amore sentimentale. Il volto del bambino rappresenta uno stimolo af­ fettivo particolarmente saliente per le cure materne (come dimostrato dalla ricerca neurobiologica), che attiva diverse aree cerebrali, fra cui quelle dei neuroni specchio. Nella prospettiva delle interazioni genitori-bambino, il capitolo 6 tratterà lo sviluppo della matrice intersoggettiva primaria, che ha inizio immediatamente dopo la nascita ed è caratterizzata dall’orientamento reciproco, dall’attrazione e dalla ricerca di un contatto tra madre e bam­ bino. La costruzione della matrice intersoggettiva primaria è stimola­ ta dalla capacità umana di orientarsi verso i volti e il contatto occhioa-occhio: questi aspetti trovano conferma nella precoce attivazione di una specifica rete neurale nei bambini. La regolazione reciproca costi­ tuisce un dominio definito da comportamenti intuitivi inconsapevoli e da una conoscenza relazionale implicita. In questo contesto, l’attacca­ mento ai caregiver gioca un ruolo centrale non solo perché garantisce un senso di sicurezza attraverso la prossimità fisica, come suggerito da Bowlby (1969/1982), ma anche perché favorisce scambi affettivi che creano un senso di condivisione. Un aspetto molto interessante riguar­ da la relazione fra la psicoanalisi e la teoria dell’attaccamento, e le loro eventuali aree di convergenza o di parziale sovrapposizione. Mentre la teoria del’attaccamento enfatizza il senso di sicurezza fornito dai care­ giver, l’approccio intersoggettivo sostiene che i bambini, sin dalla na­ scita, siano esseri sociali che ricercano costantemente le altre persone

per impegnarsi in scambi imitativi reciproci e nella mutua regolazione emotiva. Una questione degna di interesse riguarda il fatto se il sistema motivazionale intersoggettivo sia separato e complementare all’attac­ camento o se sia piuttosto un sistema sovraordinato, trasversale a tutti gli altri sistemi motivazionali. Nel capitolo 7 sarà esaminato l’impatto negativo dello stress genitoriale sullo sviluppo del bambino, a partire dalla gravidanza. Sebbene il concetto di stress sia piuttosto vago, la ricerca ha evidenziato come i conflitti di coppia siano significativamente associati alle successive difficoltà del bambino, a livello temperamentale e comportamentale. Ovviamente la ricerca sullo stress in campo umano presenta dei limiti importanti; tuttavia, i disastri naturali e quelli prodotti dall’uomo pos­ sono essere considerati dei veri e propri esperimenti naturali sullo stress che consentono di esplorarne i meccanismi e i relativi effetti. I risultati della ricerca sollevano importanti interrogativi in merito ai meccanismi di trasmissione dello stress ai figli, evidenziando il ruolo di mediazione giocato dall’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (Hypothalamus-PituitaryAdrenal Axis, HPA). Lo studio delle conseguenze del trauma durante la gravidanza e dei sottostanti meccanismi di azione sui figli introdu­ ce un’interessante prospettiva inerente la relazione tra i fattori biolo­ gici e i fattori ambientali. Mentre nei decenni passati sono stati negati gli effetti dell’ambiente sui meccanismi genetici, recentemente è stato dimostrato che i meccanismi epigenetici, influenzati da diversi fattori (incluse le determinanti ambientali), intervengono sull’espressione ge­ nica, andando a modulare gli effetti genetici. Negli ultimi decenni, numerosi studi hanno rilevato delle difficoltà nei processi di attaccamento nei bambini cresciuti in famiglie con trau­ mi e conflitti. Questa cornice è stata estesa considerando anche gli ef­ fetti negativi provocati dall’assenza dell’intervento del caregiver e della sua funzione protettiva. Una particolare attenzione è stata inoltre dedi­ cata all’influenza dei comportamenti genitoriali caratterizzati da paura e da comunicazioni contraddittorie. Le esperienze stressanti rappresentano dei fattori di rischio per lo sviluppo infantile e predicono un tasso più elevato di esiti negativi, che possono però essere modulati da fattori protettivi. Nell’ambito dello studio sugli effetti dello stress, un concetto che appare particolarmen­ te rilevante è quello di “suscettibilità individuale differenziale”; nono­ stante questa risulti radicata nelle differenze di funzionamento del cir­ cuito neurobiologico, il numero dei fattori di rischio presenti durante la prima infanzia è in grado di predire l’insorgenza di problemi com-

INTRODUZIONE

portamentali durante l’adolescenza. Tali aspetti avvalorano un model­ lo di rischio cumulativo, secondo il quale più numerosi sono i fattori di rischio, peggiori saranno le conseguenze sul bambino. Il capitolo conclusivo illustrerà le applicazioni delle scoperte deri­ vate sia dagli studi su genitori e bambini sia dalla ricerca di laboratorio allo sviluppo delle buone pratiche per la comunità - come, per esem­ pio, gli interventi sul sistema interattivo genitori-bambino —, in linea con quanto suggerito dalla ricerca traslazionale. Per illustrare i dati di ricerca e gli studi riportati nel testo, presente­ remo figure, grafici e schemi. In particolare, abbiamo deciso di inseri­ re alcuni dipinti del Rinascimento che descrivono l’attitudine materna durante la gravidanza e le interazioni genitori-bambino, in modo pre­ gnante ed evocativo.

1 Un nuovo approccio all'intersoggettività

Sin dal principio, viviamo la nostra vita con l’altro. Come mammife­ ri, per una breve ma cruciale parte della nostra vita prenatale, abitiamo letteralmente nel corpo di un’altra persona: nostra madre. A volte, da gemelli, condividiamo addirittura il corpo di nostra madre con qualcun altro. In maniera congruente, il nostro sistema cervello-corpo inizia a prendere forma e, immediatamente dopo, sviluppa il suo incontro con il mondo, attraverso la relazione reciproca con un altro essere umano. Come avremo modo di osservare più avanti nel libro, ciò presuppone lo sviluppo di specifici patterns di organizzazione funzionale cervellocorpo, che continueranno a influenzare e a essere dinamicamente in­ fluenzati dai nostri incontri con il mondo. La relazione tra il feto/neonato e la madre e tutti i successivi incontri interpersonali che caratterizzano la nostra vita possono essere affronta­ ti da diverse prospettive. Questo primo capitolo focalizza inizialmente l’attenzione sul tema dell’intersoggettività e del suo sviluppo, attraverso un approccio multidisciplinare che consente di combinare, integrare e discutere in maniera critica rilevanti contributi provenienti dalle neu­ roscienze cognitive, così come dalla filosofia, la psicoanalisi e la psico­ logia dello sviluppo. Tale atteggiamento multidisciplinare rappresenta una caratteristica fondamentale del nostro approccio in questo libro. Lo studio del cervello non può negligere ed essere disaccoppiato dalla molteplicità di livelli che caratterizzano il nostro incontro con gli altri. Le neuroscienze cognitive, pertanto, possono gettare una nuova luce sull’intersoggettività e sul suo sviluppo, a patto che siano in grado di dare un senso al modo in cui facciamo esperienza degli altri. Storicamente parlando, le neuroscienze cognitive sono senza dub­

LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

bio una novità nella ricerca della comprensione della natura umana. Un equivoco comune consiste nel percepire il riduzionismo delle neuro­ scienze cognitive come una sorta di necessaria teoria totalitaria sull’i­ dentità tra cervello e comportamento, cervello e psicologia, o cervello e cognizione. Talvolta, forse, le neuroscienze avallano tali teorie iden­ titarie; tuttavia, questo non dovrebbe essere necessariamente il caso, e di sicuro non è il nostro caso. Le neuroscienze cognitive dovrebbe­ ro studiare la natura umana chiarendo, in primo luogo, di che cosa sia fatta l’esperienza umana. Cosa significa per noi essere qualcuno, cosa significa amare o odiare, sentirsi amati o odiati, sentirsi protetti o insi­ curi, dinamici o apatici, commossi o indifferenti, aperti all’altro o auto­ centrati? Queste sono alcune delle interessanti domande che le scienze cognitive dovrebbero porsi. Gran parte di questo libro affronta la relazione tra neuroscienze e intersoggettività, non perché crediamo che i legami che uniscono reci­ procamente gli esseri umani, la loro assenza o i loro deficit, possano oggi essere spiegati, in modo univoco e causale, da un livello di descrizione subpersonale che si riferisce a neurotrasmettitori, recettori, neuroni e reti neurali cerebrali. L’idea che l’intersoggettività sia solo una funzio­ ne dei circuiti cerebrali è tanto soddisfacente quanto credere che il sole sia solo una palla di fuoco. Detto questo, si dovrebbe comunque aggiungere che sapere che al­ cuni neurotrasmettitori, recettori, neuroni o reti neurali cerebrali sono o non sono attivi quando facciamo esperienza di noi stessi in relazione agli oggetti o agli altri ci dà una prospettiva totalmente differente della natura umana. Tutto ciò rende possibile la decostruzione di molte delle parole e delle frasi che normalmente utilizziamo quando ci riferiamo a quella stessa natura umana. L’azione, la percezione, la cognizione, l’oggetto, l’intersoggettività e il linguaggio possono essere concepiti in maniera molto diversa se ven­ gono affrontati da un livello di indagine subpersonale neurocognitivo. Siamo veramente nati autistici? Siamo davvero capaci di un’intersoggettività pienamente competente solo dopo avere costruito la nostra identità personale? Diventare un soggetto precede realmente la pos­ sibilità di intrattenere relazioni intersoggettive dotate di significato? L’intersoggettività è solo un’impresa teorica e astratta? Può l’aspetto più intimo e fondamentale del linguaggio umano essere ridotto alla propria natura sintattica e ricorsiva, trascurandone l’essenza dialogi­ ca? Tutte queste domande sono strettamente collegate e non dovreb­ bero essere affrontate come se fossero totalmente indipendenti l’una

UN NUOVO APPROCCIO ALL’INTERSOGGETTIVITA

dall’altra: dovrebbero essere piuttosto trattate una a una, pur avendo­ le tutte nello sfondo. Ma anche questo non basta. Il tema dell’intersoggettività, come tutti gli altri temi connessi alla natura umana, dovrebbe essere inquadrato all’interno di prospettive sia filogenetiche sia ontogenetiche. Dobbia­ mo studiare se e come l’intersoggettività umana si rapporti alle relazio­ ni interindividuali di altre specie animali e ai loro meccanismi neurali costitutivi. Dobbiamo studiare se e come il modo in cui gli esseri uma­ ni sviluppano le proprie capacità intersoggettive si relazioni al modo in cui altri animali sviluppano le proprie. Le neuroscienze cognitive rivelano che anche al livello più profondo di descrizione, l’intersoggettività si riferisce alla quintessenziale natu­ ra degli esseri umani, intesi come corpi situati, che provano sentimenti e che compiono azioni. Essere, sentire, agire e conoscere descrivono modalità diverse delle nostre relazioni corporee con il mondo. Queste modalità condividono tutte una radice corporea costitutiva, a sua vol­ ta mappata in distinti e specifici modi di funzionamento dei circuiti ce­ rebrali e dei meccanismi neurali. A livello del sistema cervello-corpo, l’azione, la percezione e la cognizione sono la stessa cosa, sebbene sia­ no differentemente connesse e organizzate a livello funzionale. Donald Winnicott (1949) ha utilizzato quasi le stesse parole quando ha scritto: “Non è logico però contrapporre il mentale al fisico poiché non si trat­ ta della stessa cosa. I fenomeni mentali sono delle complicazioni d’im­ portanza variabile nella continuità d’esistenza dello psiche-soma, in ciò che si somma fino a formare il Sé dell’individuo” (p. 304). Per la prima volta, per mezzo delle neuroscienze cognitive, possia­ mo guardare alla soggettività e all’intersoggettività da una prospettiva diversa e complementare. Questo significa forse che la soggettività e l’intersoggettività dovrebbero cedere il passo a una descrizione ogget­ tiva e computazionale in terza persona? Non necessariamente. Il pro­ gramma di ricerca delle neuroscienze cognitive dovrebbe prevedere di applicare il proprio riduzionismo metodologico allo studio di questi temi, senza tuttavia sacrificare o eliminare la ricca esperienza che fac­ ciamo quando incontriamo gli altri. La spiegazione teorica solipsistica standard dell’intersoggettività offerta dalle scienze cognitive classiche (d’ora in avanti, indicata come “approccio classico”) può essere messa in discussione. Numerose e convergenti evidenze dimostrano la natura intrinsecamente relazionale degli esseri umani. La novità è che questa natura relazionale traspare anche al livello subpersonale neurale, inda­ gato dalle neuroscienze cognitive. 11

LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

Prima di affrontare queste tematiche, illustreremo brevemente co­ me il tema dell’intersoggettività sia stato trattato dall’approccio classico nella seconda metà del ventesimo secolo.

Il cosiddetto problema delle altre menti Nonostante si discuta della natura sociale degli esseri umani almeno sin dai tempi di Aristotele, questa conoscenza non ha tuttavia impedito lo sviluppo di una visione solipsistica della natura umana. Il solipsismo, quando riferito alla filosofia della mente, implica che per definire cosa sia la mente e come funzioni, ci si debba focalizzare solo sulla mente del singolo individuo. Tale visione, che ha origine in tempi moderni da Cartesio, ha dominato per decenni il modo in cui la cognizione sociale umana è stata trattata e spiegata, influenzando anche l’iniziale - e quasi esclusiva - enfasi che la psicoanalisi ha storicamente posto sulla dimen­ sione intrapsichica della natura umana. Secondo l’approccio classico, l’intersoggettività umana si sviluppe­ rebbe ontogeneticamente seguendo fasi maturazionali universali, rag­ giungendo poi la fase finale con l’acquisizione della piena competenza linguistica. Questa visione, in sostanza, equipara la cognizione socia­ le umana alla metacognizione sociale, ossia alla possibilità di riflette­ re esplicitamente e teorizzare sulla propria vita mentale in relazione a quella degli altri individui. Secondo la stessa visione, quando applicata alla filogenesi, tutte le altre specie (inclusi i primati non umani) per orientarsi nel proprio mondo sociale si affidano esclusivamente agli aspetti visibili del comportamento e alla loro ricorrenza statistica in un dato contesto. Questa visione implica una radicale discontinuità cognitiva tra gli esseri uma­ ni e le altre specie animali, efficacemente esemplificata nella metafora del “Rubicone mentale”. Gli esseri umani occuperebbero la sponda dei “lettori della mente”, mentre tutte le altre specie, inclusi i primati non umani, sarebbero confinati sulla sponda dei “lettori del comporta­ mento”. Tale visione privilegia un’interpretazione cognitiva dell’intersoggettività altamente sofisticata, enfatizzandone la principale, se non esclusiva, natura teorica. La soluzione proposta dall’approccio classi­ co al cosiddetto problema delle altre menti consiste nel costruire una teoria delle menti degli altri. Questa soluzione presuppone che il com­ portamento manifesto sia intrinsecamente opaco, dunque incapace di svelare alcunché di rilevante riguardo al “cosa” e al “perché” delle

UN NUOVO APPROCCIO ALL’INTERSOGGETTIVITÀ

azioni, delle attitudini e dei pensieri degli altri. Per capire che cosa stia facendo, provando, pensando l’altro, e perché, dovremmo attribuirne il comportamento osservato a stati mentali interni e, dunque, non di­ rettamente accessibili. Una tale soluzione ha condizionato anche la psicologia evolutiva, nel cui ambito le fasi dello sviluppo cognitivo sociale sono state descritte, basandosi quasi esclusivamente sui racconti verbali dei bambini e sulle prestazioni mediate dal linguaggio. L’essenza della cognizione sociale è connessa alla comprensione del comportamento degli altri. Nella vita di tutti i giorni, diamo costantemente, ma non sempre consciamente, un senso al comportamento dei nostri partner sociali. Tuttavia, secondo la visione classica, il compor­ tamento può essere pienamente compreso solo una volta che lo si è at­ tribuito a qualche stato mentale nascosto. Usiamo un esempio dalla vita di tutti i giorni. Immaginate di essere seduti in una caffetteria. Girate lo sguardo a destra, dove vedete una cliente, seduta al tavolo accanto al vostro, che protende la mano verso una tazza di caffè posta di fronte a lei. Molto probabilmente intuirete subito che sta per sorseggiare un po’ di caffè. Ora, il problema è: co­ me siete arrivati a una tale comprensione? Secondo il modello classi­ co, avete tradotto il movimento biologico della vostra vicina - in linea di principio intenzionalmente opaco - nelle rappresentazioni mentali riguardanti il suo desiderio di bere del caffè e la sua convinzione che il liquido marrone scuro nella tazza sia certamente caffè. La concezione ancora largamente condivisa dell’intersoggettività sostiene che la com­ prensione degli altri corrisponda alla manipolazione di rappresenta­ zioni simboliche. L’immagine della mente offerta dalle scienze cognitive classiche e da più parti della filosofia analitica è quella di un sistema funzionale, i cui processi possono essere descritti in termini di manipolazioni di simbo­ li informazionali in accordo a un set di regole sintattiche formali. Allo stesso modo, i concetti vengono considerati proposizioni astratte, amo­ dali e arbitrarie, rappresentate in qualche “linguaggio del pensiero” che condivide con il linguaggio almeno due caratteristiche: la generatività e la composizionalità (Fodor, 1975,1981,1983; Pylyshyn, 1984). Il pen­ siero è dunque ridotto alla computazione. Di conseguenza, la compren­ sione delle altre menti viene intesa esclusivamente come un processo predicativo, inferenziale, simil-teorico, mentre gli stati mentali vengono concepiti come stati teorici di una teoria psicologica del senso comune, denominata folk psychology.

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Certamente, secondo la folk psychology, il pensiero è referenziale e il contenuto delle rappresentazioni mentali viene descritto in termini di desideri, credenze e intenzioni. Quando percepiamo gli altri (come nell’esempio della caffetteria), dovremmo tradurre la percezione delle loro azioni nei desideri e nelle credenze che le hanno verosimilmente originate. Questi atteggiamenti proposizionali vengono assunti come stati mentali rappresentazionali dotati di contenuto. Comprendere gli altri sarebbe dunque un’attività metarappresentazionale, nel senso che quando si attribuisce esplicitamente un contenuto mentale agli altri, ci si dovrebbero rappresentare anche le loro rappresentazioni mentali. Secondo questo approccio classico, quindi, una naturalizzazione neurobiologicamente plausibile della cognizione sociale dovrebbe implicare la ricerca degli stati neurali che mappano i desideri e le credenze. Molti neuroscienziati cognitivi hanno fatto esattamente questo. Se si ritiene che uno iato separi gli esseri umani, concepiti come monadi mentalizzanti, le cui uniche connessioni significative possono essere rintracciate nelle rispettive capacità mentalizzanti teoricamente guidate, un’ovvia conseguenza sarà quella di cercare i correlati neurali dei desideri e delle credenze in quanto tali. La reificazione degli atteggiamenti proposizio­ nali ha portato inevitabilmente molti neuroscienziati cognitivi a cercare le aree e i circuiti cerebrali in cui “risiedono” desideri e credenze. Questa strategia epistemica, comunque, soffre chiaramente di circo­ larità. Da un lato, postula che l’intersoggettività sia in sostanza sovrap­ ponibile alla possibilità di formulare una teoria delle altre menti. Per studiare tale Teoria della Mente ai volontari normalmente si chiede di usare atteggiamenti proposizionali (per esempio attribuendo false cre­ denze a personaggi di fantasia), mentre i loro cervelli vengono studiati mediante risonanza magnetica funzionale per immagini (fMRl). Le aree cerebrali attivate durante i compiti di mentalizzazione vengono quin­ di considerate la sede nel cervello dei moduli della Teoria della Mente. Applicando questa analisi allo studio della cognizione sociale, dubitia­ mo che saremo mai in grado di integrare i livelli di descrizione neuro­ scientifici e della folk psychology all’interno di un quadro naturalizzato coerente e biologicamente plausibile. Vediamo perché. La maggior parte degli studi di brain-imaging (per rassegne recenti, vedi Frith, Frith, 2012; Van Overwalle, 2009) ha ripetutamente affer­ mato la specificità dell’attivazione di diverse aree cerebrali per la Teoria della Mente, come la giunzione parieto-temporale e la corteccia pre­ frontale mesiale. Una simile relazione con la Teoria della Mente è sta­ ta attribuita anche alla corteccia cingolata anteriore, la cui attivazione

UN NUOVO APPROCCIO ALL’INTERSOGGETTIVITA

durante i compiti di mentalizzazione è stata confermata ripetutamente da diversi studi di brain-imaging (per una sintesi di questa letteratura, vedi Bird et al., 2004). Tuttavia, la distruzione bilaterale delle aree fron­ tali mesiali non produce alcun tipo di deficit di mentalizzazione, così come è stato messo in luce dal caso clinico neuropsicologico riportato da Bird e collaboratori {ibidem). Gli autori di questo studio hanno de­ scritto una paziente con un infarto bilaterale all’arteria cerebrale ante­ riore, che aveva provocato un esteso danno bilaterale alla parte mesiale dei lobi frontali. Dopo un’indagine sistematica e meticolosa, gli autori conclusero che la donna non aveva alcuna menomazione significativa nei compiti di costruzione della Teoria della Mente. Riprendendo le pa­ role di Bird e collaboratori {ibidem) “le ampie regioni frontali mesiali distrutte dal suo ictus non sono necessarie per questa funzione. [...] In conclusione, i nostri risultati suggeriscono di usare cautela nei con­ fronti dell’uso esclusivo delle immagini funzionali per stabilire la neu­ roanatomia cognitiva” (p. 926). Come esemplificato dal precedente caso clinico, l’approccio clas­ sico non è in grado di spiegare in modo convincente perché durante compiti espliciti di mentalizzazione si attivino le aree frontali mesiali e la giunzione parieto-temporale, facendo dunque solo riferimento alla nozione tautologica che la mentalizzazione abbia sede in queste aree. A peggiorare le cose, viene messa seriamente in discussione la specificità dell’attivazione di queste aree cerebrali nei compiti di mentalizzazione. Mitchell (2008), per esempio, ha dimostrato in modo convincente che la giunzione parieto-temporale, considerata a lungo specificatamen­ te attivata da attività di mentalizzazione, come l’attribuzione di false credenze agli altri (Saxe, Kanwisher, 2003; Saxe, Powell, 2006; Saxe, Wexler, 2005), possa essere ugualmente modulata da compiti attentivi di tipo non sociale. Ancora più interessante è stata la dimostrazione che la giunzione parieto-temporale contribuisce all’integrazione multisen­ soriale delle informazioni del corpo, poste alla base dell’esperienza con­ scia e coerente del sé corporeo (vedi Berlucchi, Aglioti, 1997; Blanke et al., 2005; Committeri et al., 2007). Studi di stimolazione magnetica transcranica (TMS) che hanno studiato “l’illusione della mano di gom­ ma” (Botvinick, Cohen, 1998) - ossia l’incorporazione fenomenica di una mano protesica di gomma, osservata mentre viene toccata contem­ poraneamente alla propria mano non visibile - hanno dimostrato che l’interferenza transitoria con la giunzione parieto-temporale dell’emi­ sfero destro riduceva quella illusione (Kammers et al., 2009; Tsakiris, Costantini, Haggard, 2008).

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Come suggerito da Tsakiris e collaboratori {ibidem), la giunzione parieto-temporale destra fornisce un senso coerente del proprio corpo. Va aggiunto che attraverso la sua connettività funzionale, la giunzione parieto-temporale è parte di una rete (includente la corteccia insulare anteriore, la corteccia parietale posteriore e la corteccia premotoria) im­ plicata nell’integrazione multisensoriale, durante eventi ed esperienze riguardanti il sé e l’altro. Quindi, si potrebbe ipotizzare che il coinvol­ gimento sistematico della giunzione parieto-temporale con i compiti di mentalizzazione non dipenda dal fatto che contiene neuroni coinvolti specificatamente nell’attribuzione di false credenze, ma dal fatto che la differenziazione tra il sé e l’altro a livello corporeo è un ingrediente necessario di tale attività di mentalizzazione. Da una rassegna della letteratura neuroscientifica riguardante la mentalizzazione esplicita, si ha l’impressione che la nozione standard di mentalizzazione dovrebbe essere messa in discussione in maniera si­ stematica. L’approccio classico contemporaneo all’intersoggettività si divide in due campi principali. Il primo è sostenuto dalla teoria della simulazione (vedi Goldman, 2006). La teoria della simulazione privi­ legia il sé come modello dell’altro: comprendere gli altri significa met­ tersi nei loro panni. Gli antecedenti di questo modello, sebbene meno sofisticati, possono essere fatti risalire a John Stuart Mill e alla sua te­ si sull’inferenza per analogia. Secondo la tesi di Mill, attribuiamo stati mentali agli altri - che sono solo corpi in movimento - perché il loro comportamento evoca ricordi delle nostre esperienze precedenti cor­ relate alla situazione. La teoria della simulazione, almeno nella versione di Goldman, sottolinea l’importanza dell’accesso diretto ai propri stati consci fenomenici e mentali. Il secondo campo è esemplificato dalla teoria della teoria. Come è stato notato in precedenza, questo modello razionalistico descrive l’in­ tersoggettività come un non privilegiato approccio epistemico teorico all’altrimenti non intellegibile altro, i cui contenuti mentali possono es­ sere letti dall’esterno mediante il ragionamento. La psicoioga evolutiva Vasudevi Reddy (2008) ha sottolineato che, nonostante le loro diffe­ renze, sia la teoria della simulazione sia la teoria della teoria postulano l’esistenza di uno iato tra le menti; entrambe considerano la conoscenza della mente dell’altro come un processo attribuzionale - un processo che richiede dunque qualcosa in più della semplice percezione di aspetti psicologici. Ma c’è una via alternativa, e questa inizia dal mettere in dubbio l’esistenza di quel gap profondo che

UN NUOVO APPROCCIO ALL'INTERSOGGETTIVITÀ

separerebbe le menti. [...] Mostrerò come questa alternativa - l’approc­ cio in seconda persona - modifichi il modo di concepire il “gap" e sugge­ risca inoltre la necessità di cambiare i metodi tradizionalmente utilizzati in psicologia per comprendere le persone. (Pp. 29-30) L’approccio in seconda persona (anche conosciuto come prospet­ tiva in seconda persona) differisce dall’approccio in terza persona, poiché definisce un approccio epistemico diverso e deflazionistico al problema delle altre menti, riducendo sostanzialmente lo iato menta­ le che apparentemente le separa. Michael Pauen (2012, pp. 38-39) ha recentemente delineato i tre requisiti minimi che un approccio episte­ mico dovrebbe avere per potere essere riconosciuto come in seconda persona. Innanzitutto, deve ricorrere a una riproduzione o immagi­ nazione dello stato mentale che deve essere riconosciuto; in secondo luogo, deve includere una differenziazione tra il sé e l’altro, in modo che il soggetto epistemico sia consapevole che lo stato che si sta repli­ cando appartiene all’altro; terzo, deve mettere in grado il soggetto di riconoscere la propria situazione epistemica come diversa da quella dell’altra persona. Ancora più interessante, questi requisiti non pre­ suppongono che il soggetto epistemico ne sia esplicitamente consape­ vole. In realtà, come ha sottolineato Pauen, “sembra che essi siano in larga misura automatici e subconsci” (.ibidem, p. 43). Come emergerà più chiaramente nelle sezioni seguenti, tutti e tre i requisiti sono com­ patibili con il modello neuroscientifico dell’intersoggettività e del suo sviluppo, da noi proposto in questo libro.

L’approccio in seconda persona Noi non ci creiamo solo una descrizione “oggettiva” in terza persona di ciò che gli altri sono e fanno a noi e con noi. Quando li incontriamo, possiamo fare esperienza degli altri come sé corporei, in modo simile a come facciamo esperienza di noi stessi come proprietari del nostro corpo e autori delle nostre azioni. Quando ci esponiamo ai compor­ tamenti espressivi, alle reazioni e alle inclinazioni degli altri, facciamo simultaneamente esperienza dei loro scopi o della loro intenzionalità, nello stesso modo in cui facciamo esperienza di noi stessi come agenti delle nostre azioni; soggetti dei nostri affetti, sentimenti ed emozioni; soggetti dei nostri pensieri, fantasie, immaginazioni e sogni. Le parole possono difficilmente descrivere come l’intima consonanza intenziona­

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LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

le potenzialmente evocata dall’incontro con l’altro coesista con i chiari confini del corpo che costantemente definiscono il nostro essere un Sé: il nostro essere noi stessi. Il filosofo e teologo ebreo Martin Buber (1878-1965) è un precursore dell’approccio in seconda persona all’intersoggettività. Nel suo autore­ vole libro, L’Io e il Tu (Ich uniDu, 1923), fortemente influenzato dalla tradizione Chassidica, Buber individua il carattere fondamentalmente relazionale degli esseri umani. Questo carattere relazionale è almeno duplice. Può consistere in una relazione in terza persona, un Io-Esso (e Io-Lei, Io-Lui) oppure in una relazione in seconda persona, un Io-Tu. Buber le chiama le due parole-base. Quello che distingue queste rela­ zioni non è il loro oggetto, bensì lo stile di relazione, o, volendo usare termini più tecnici, lo stato epistemico assunto dall’io. Ci si può relazio­ nare a un altro essere umano in maniera analoga a come ci si relaziona agli oggetti inanimati. Allo stesso modo, ci si può relazionare agli og­ getti inanimati, come un paesaggio, un albero o un’opera d’arte, come ci si relaziona a un altro essere umano. Tutti i vari tipi di relazione che gli esseri umani intrattengono con gli altri possono essere vissuti e sperimentati in diversi modi. Quello che cambia non è l’oggetto delle nostre relazioni con gli altri, ma il no­ stro atteggiamento verso di loro. Ci possiamo relazionare con la stessa persona trattandola come una cosa tra le altre cose o come la persona che amiamo. Anche la persona che amiamo può essere un “Esso”, una “Lei” o un “Lui”. L’altro può essere, per esempio, uno strumento che ci informa su alcuni eventi nel mondo; ci può aiutare ad affrontare que­ sti eventi; può essere qualcuno di cui parliamo; o può essere un caso enigmatico da decifrare mentalmente, utilizzando probabilmente una mentalizzazione di tipo inferenziale. Dunque, come Buber suggerisce implicitamente, la soluzione al te­ ma problematico dell’intersoggettività non può essere una scelta for­ zata tra una prospettiva in seconda persona e una in terza persona. Vi­ viamo le nostre vite alternando costantemente queste due modalità di relazione interpersonale. Premesso che ciò sia vero, ci troviamo tuttora di fronte a un’altra scelta: se adottare un olismo ecumenico o discutere la nozione di men­ talizzazione come è stata classicamente concepita, sfidando l’idea che un approccio teorico metarappresentazionale all’altro sia l’unica o la principale chiave dell’intersoggettività. Riteniamo che potrebbe esse­ re potenzialmente più interessante esplorare la seconda alternativa. La mentalizzazione, concepita in senso lato, potrebbe rappresentare la no­

UN NUOVO APPROCCIO ALL'INTERSOGGETTIVITÀ

stra comprensione di cosa succede quando ci relazioniamo con qualcun altro in una molteplicità di modalità relazionali, non necessariamen­ te metarappresentazionali, che condividono tuttavia una caratteristi­ ca funzionale fondamentale: il mappare l’altro sul sé, corrisposto dal mappare il sé sull’altro. La mentalizzazione in senso stretto dovrebbe qualificare l’intersoggettività, solo quando un bisogno più esplicito di spiegazioni richiede relazioni meno coinvolgenti e più in terza persona. Prima e alla base di entrambi i tipi di mentalizzazione vi è la fon­ damentale natura relazionale dell’azione (vedi Gallese, 2000, 2003a, 2007). Il ritmo, la sincronia e l’asincronia che gli esseri umani speri­ mentano in maniera sistematica - e sin dall’inizio della vita - in tutte le relazioni interpersonali segnano la nascita dell’intersoggettività. Certa­ mente, un aspetto molto stimolante del libro di Buber sta nella propo­ sta che la relazione Io-Tu sia primaria rispetto alla relazione Io-Esso, dal momento che la seconda presuppone l’esistenza di un Io. Secondo Buber (1923), l’io maturo emerge solo quando ci si percepisce come un Tu, quando il dialogo interpersonale si trasforma in un dialogo inter­ no auto-centrato. “All’inizio è la relazione”, scrisse Buber, “categoria dell’essere, disponibilità, forma che comprende, modello dell’anima; all’inizio c l’a priori della relazione, il Tu innato” (p. 78, corsivo origi­ nale). Molti anni più tardi, il pediatra e psicoanalista Donald Winnicott scrisse “Che cosa vede il lattante quando guarda il viso della madre? Secondo me di solito ciò che il lattante vede è se stesso. In altre parole la madre guarda il bambino è ciò che essa appare è in rapporto con ciò che essa scorge” (1967, p. 191, corsivo originale). Per contestualizzare il pensiero di Buber all’interno di una prospet­ tiva cognitiva neuroscientifica contemporanea, si potrebbe ipotizzare che dal momento che “la tensione verso la relazione” è primaria (Buber, 1923, p. 78), il Tu potrebbe essere inizialmente visto come la cristal­ lizzazione dell’esito del sistema motivazionale appetitivo (o di ricerca; vedi Panksepp, 1998; Solms, Panksepp, 2012), accoppiato a un siste­ ma motorio, programmato per sostenere la relazione (Gallese, 2000; Rizzolatti, Gallese, 1997; Rizzolatti, Sinigaglia, 2007,2010). Tale “pac­ chetto” di base consentirebbe la genesi parallela dell’io e dell’oggetto (vedi la sezione successiva). Nelle relazioni interpersonali il Tu innato di Buber si realizza nel Tu incontrato. Qui Buber prefigura la nozione di Stein Bràten (1988, 1992,2007) di partecipazione alterocentrica, ossia la capacità innata di ognuno di esperire quello che l’altro sta esperendo, in quanto centrato nell’altro (vedi anche il capitolo 6).

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Quando incontriamo gli altri, possiamo relazionarci a loro nel mo­ do distaccato, tipico dell’osservatore esterno. Possiamo spiegare gli al­ tri “oggettivamente”, riflettere e formulare giudizi, elaborare parametrizzazioni e categorizzazioni sulle loro azioni, emozioni e sensazioni, adottando una prospettiva in terza persona, finalizzata a oggettivare il contenuto delle nostre percezioni e previsioni. Lo scopo di queste ope­ razioni cognitive è la categorizzazione deliberata di uno stato esterno di cose. Gli altri stessi, tuttavia, possono essere vissuti anche in base a uno spostamento totale dell’oggetto delle nostre relazioni intenziona­ li. Quando ci coinvolgiamo con gli altri in una prospettiva in seconda persona, non siamo più diretti al contenuto di una percezione e alla sua categorizzazione. Siamo solo sintonizzati con la relazione intenzionale mostrata da qualcun altro (Gallese, 2003 a, 2003 b, 2005). L’intersogget­ tività non è confinata esclusivamente a una prospettiva metarappresen­ tazionale, dichiarativa, in terza persona. Non siamo alienati dalle azioni, le emozioni e le sensazioni degli altri, perché noi possediamo le stesse azioni, emozioni e sensazioni. Una nuova comprensione dell’intersoggettività potrebbe inoltre be­ neficiare di uno studio di tipo bottom-up e della caratterizzazione degli aspetti non-dichiarativi e non-metarappresentazionali della cognizio­ ne sociale (vedi Gallese, 2003a, 2007). Un tema fondamentale del nuo­ vo approccio all’intersoggettività che proponiamo in questo libro è lo studio delle basi neurali della nostra capacità di essere connessi alle re­ lazioni intenzionali degli altri. Attraverso la consonanza intenzionale, “l’altro” è molto più di un diverso sistema rappresentazionale: diven­ ta un sé corporeo, come noi. Questo nuovo approccio epistemologico all’intersoggettività ha il vantaggio di essere in grado di formulare predi­ zioni specifiche sull’intrinseca natura funzionale delle nostre operazioni cognitive sociali, superando e non essendo subordinato a una specifica ontologia della mente, come quella sostenuta dall’approccio classico.

La simulazione incarnata degli scopi motori e delle intenzioni motorie Per diversi decenni, lo studio neurofisiologico del sistema motorio corticale dei primati non umani si è concentrato principalmente sul­ lo studio delle caratteristiche fisiche elementari del movimento, come forza, direzione e ampiezza. Tuttavia, lo studio neurofisiologico della corteccia premotoria ventrale e della corteccia parietale posteriore delle

scimmie macaco (figura 1.1 ) ha messo in evidenza che il sistema motorio corticale gioca un ruolo importante nella cognizione. In particolare, è stato dimostrato che il sistema motorio corticale è funzionalmente or­ ganizzato in termini di scopi motori. La parte più anteriore della corteccia premotoria ventrale della scim­ mia macaco, area F5 (Matelli, Luppino, Rizzolatti, 1985), controlla i movimenti della mano e della bocca (Hepp-Reymond et al., 1994; Kurata, Tanji, 1986; Rizzolatti et al., 1981; Rizzolatti et al., 1988). La mag­ gior parte dei neuroni di F5, similmente ai neuroni di altre regioni del sistema motorio corticale (Alexander, Crutcher, 1990; Crutcher, Ale-

Figura 1.1 Visioni laterali e mesiali del cervello della scimmia macaco. La figura mostra la par­ cellizzazione della corteccia motoria, parietale posteriore, e delle aree corticali cingolate, con la loro principale organizzazione somatotopica. La parte destra della figura mostra le aree corticali collocate all'interno di una visione dischiusa del solco intraparietale. Le aree motorie e parietali reciprocamente connesse sono indicate con gli stessi simboli grafici. Le aree motorie che rice­ vono principalmente inputs dalle aree prefrontali sono indicate in grigio scuro. Abbreviazioni: Al, solco arcuato inferiore; AS, solco arcuato superiore; C, solco centrale; Cg, solco cingolato; DLPFd, corteccia prefrontale dorsolaterale, dorsale; DLPFv, corteccia prefrontale dorsolaterale, ventrale; L, fessura laterale; Lu, solco lunato; P, solco principale; POs, solco parìeto-occipitale; ST, solco temporale superiore. Ristampata da Rizzolatti, G., Luppino, G. (2001), "The cortical motor System". In Neurnn, 31, 6, pp. 889-901, con il permesso di Elsevier.

LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

xander, 1990; Kakei, Hoffman, Strick, 1999, 2001; Shen, Alexander, 1997), non scarica in associazione all’attivazione di specifici gruppi di muscoli o durante l’esecuzione di movimenti elementari, ma è attiva durante atti motori - movimenti eseguiti per raggiungere uno specifico scopo motorio - come afferrare, strappare, tenere o manipolare ogget­ ti (Rizzolatti et al., 1988; Rizzolatti, Gallese, 1997; Rizzolatti, Fogassi, Gallese, 2000). I neuroni motori dell’area F5 non codificano i parametri fisici del movimento, come la forza o la direzione, bensì la relazione pragmati­ ca tra l’agente e l’obiettivo dell’atto motorio. I neuroni di F5, in real­ tà, si attivano solo quando un particolare tipo di relazione effettoreoggetto (per esempio mano-oggetto, bocca-oggetto) viene eseguito fino a quando questa relazione porta a uno stato diverso (per esempio impossessarsi di un pezzo di cibo, gettarlo via, romperlo, portarlo alla bocca, masticarlo ecc.).

Rispecchiare gli scopi motori e le intenzioni motorie degli altri: i neuroni specchio Una seconda categoria di neuroni motori dell’area F5 è composta da neuroni multimodali che scaricano quando la scimmia osserva un’a­ zione eseguita da un altro individuo e quando esegue la stessa o una si­ mile azione. Questi neuroni sono stati denominati “neuroni specchio” (Gallese et al., 1996; Rizzolatti et al., 1996; Rizzolatti, Gallese, 1997; vedi anche Kraskov et al., 2010). Neuroni con proprietà simili sono stati in seguito scoperti in una regione della corteccia parietale posteriore reciprocamente connes­ sa all’area F5 (Bonini et al., 2010; Fogassi et al., 2005; Gallese et al., 2002), e nella corteccia motoria primaria (Dushanova, Donoghue, 2010; Tkach, Reimer, Hatsopoulos, 2007). Il principale elemento che innesca la risposta dei neuroni specchio durante l’esecuzione e l’os­ servazione di un’azione è l’interazione tra gli effettori del corpo dell’a­ gente, come la mano o la bocca, e l’oggetto: i neuroni specchio nella scimmia non rispondono né durante l’osservazione di un oggetto da solo né alla vista di una mano che mima un’azione senza un obiettivo (Gallese et al., 1996). I neuroni specchio di F5 rispondono all’esecuzione/osservazione di un atto motorio come l’afferrare, a prescindere dai movimenti eseguiti/osservati richiesti per raggiungere quello scopo (Rochat et al., 2010).

UN NUOVO APPROCCIO ALL’INTERSOGGETTIVITÀ

L’intensità della scarica dei neuroni specchio di F5 è significativamen­ te più forte durante l’esecuzione dell’azione che durante l’osservazione dell’azione. Ciò suggerisce che il meccanismo specchio non è opaco al problema dell’agentività, ossia, al problema di chi sia l’agente e di chi sia l’osservatore all’interno della relazione sociale diadica. Pochi anni dopo la loro scoperta, i neuroni specchio sono stati inter­ pretati come l’espressione di una forma diretta di comprensione dell’a­ zione. Questo ha portato a proporre la loro rilevanza nell’ambito della cognizione sociale (Gallese et al., 1996; Rizzolatti et al., 1996; Rizzolatti, Gallese, 1997 ). Così come è stato ipotizzato, i neuroni specchio consenti­ rebbero una rappresentazione motoria e correlata allo scopo dell’azione percepita, che appare più ricca della mera descrizione visiva delle carat­ teristiche dell’azione stessa. Questo è stato dimostrato più tardi da due studi. Nel primo studio, Umiltà e collaboratori (2001 ) hanno evidenziato che circa il 50% dei neuroni di F5 risponde all’esito dell’azione anche in assenza dell’informazione visiva completa che la riguarda, dal momento che la mano dello sperimentatore osservato afferra l’oggetto dietro una superficie oscurante, quindi al di fuori della vista della scimmia. Questi dati non minimizzano la coesistenza all’interno del sistema “visivo” cerebrale di un’analisi visiva del comportamento degli altri. Il punto è che ciò che trasforma questo comportamento in atti motori intenzionali finalizzati al raggiungimento di uno scopo, ciò che trasfor­ ma il movimento della mano di qualcun altro in una mano che afferra, è il riutilizzo nel cervello dell’osservatore delle risorse neurali che per­ mettono di utilizzare la mano per afferrare qualcosa. Molto probabil­ mente, l’analisi “pittorica”, puramente visiva, di per sé non basta a far comprendere che l’altro stia afferrando qualcosa con l’intenzione di farci qualcosa. Senza il riferimento alla “conoscenza motoria” interna dell’osservatore, mappata all’interno di circuiti corticali premotori-parietali, la descrizione pittorica in terza persona, puramente osservazionale, risulta priva di significato esperienziale per l’individuo che osserva (Gallese, 2000; Gallese et al., 2009). In un secondo studio, Kòhler e collaboratori (2002) hanno dimostra­ to che i neuroni specchio di F5 rispondono anche al suono prodotto dalle conseguenze dell’interazione intenzionale tra la mano di un altro individuo e un oggetto: per esempio rompere una nocciolina. Questa particolare classe di neuroni specchio di F5 (“neuroni specchio audio­ visivi”) risponde non solo quando la scimmia esegue e osserva un dato atto motorio della mano, ma anche quando ascolta il suono normalmen­ te prodotto dallo stesso atto motorio. Questi neuroni non solo rispon­

dono selettivamente al suono delle azioni, ma discriminano anche tra i suoni di azioni diverse. Le proprietà funzionali dei neuroni specchio rivelano l’esistenza di un meccanismo neurofisiologico - il meccanismo specchio - attraverso il quale gli eventi percepiti (come suoni di azioni e immagini di azioni), pur essendo diversi, vengono tuttavia mappati e integrati dagli stessi neuroni motori che consentono l’esecuzione delle stesse azioni (per una rassegna, vedi Gallese, 2003a, 2003b, 2006; Gal­ lese, Keysers, Rizzolatti, 2004; Gallese et al., 2009; Rizzolatti et al., 2001; Rizzolatti, Sinigaglia, 2008,2010). Un ulteriore passo è stato compiuto scoprendo che i neuroni spec­ chio dell’area F5 e della corteccia parietale rispondono in maniera diversa ad atti motori identici (per esempio afferrare un oggetto per portarlo alla bocca o per metterlo in un contenitore; vedi Bonini et al., 2010; Fogassi et al., 2005). Questo dimostra che il meccanismo spec­ chio controlla e risponde attivamente all’osservazione di sequenze di atti motori finalizzati a uno scopo (afferrare, tenere, portare, colloca­ re), adeguatamente assemblate per raggiungere uno scopo motorio più distale. Questi risultati dimostrano - almeno a livello delle azio­ ni di base - che il meccanismo specchio codifica anche le intenzioni motorie che guidano le azioni, come afferrare per mangiare o affer­ rare per riporre. Un altro studio recente (Caggiano et al., 2009) ha dimostrato che la distanza alla quale l’azione osservata ha luogo (figura 1.2) modula l’attività dei neuroni specchio di F5. Circa il 50% dei neuroni spec­ chio registrati rispondeva solo quando l’agente osservato agiva al di dentro o al di fuori della distanza necessaria al braccio della scimmia per afferrare un oggetto (spazio peripersonale; vedi la discussione più avanti). Questa modulazione, comunque, non misurava semplicemente la distanza fisica tra l’agente e l’osservatore. Molti neuroni specchio che non rispondevano alle azioni di afferramento eseguite dallo sperimen­ tatore vicino alla scimmia hanno ripreso a scaricare quando fu collocata una barriera fisica trasparente tra l’oggetto e la scimmia che osservava. Bloccare la potenzialità della scimmia di interagire con l’agente osser­ vato (per esempio rubando il cibo) ha rimappato la posizione spaziale dell’agente da vicina a lontana. Qual è la rilevanza del meccanismo specchio per la cognizione so­ ciale della scimmia macaco? Gli studi precedentemente riassunti di­ mostrano che il meccanismo specchio esprime proprietà funzionali che potrebbero consentire alle scimmie di capire cosa stanno facendo gli

Figura 1.2 Visione schematica del paradigma sperimentale. (I) Vengono studiate le risposte motorie dei neuroni durante i movimenti attivi della scimmia. (Il e III) Risposte degli stessi neu­ roni all'atto di afferramento di un altro individuo, osservato nello spazio peripersonale (II) ed extrapersonale (III) della scimmia. Il cerchio intorno al corpo della scimmia demarca lo spazio di azione della scimmia, o spazio peripersonale. Da Caggiano, V., Fogassi, L., Rizzolatti, G., Thier, R, Gasile, A. (2009), "Mirrar neurons differentially encode thè peripersonal and extrapersonal space of monkeys". In Science, 324, 5925, pp. 403-406. Ristampata con il permesso di aaas.

altri e con quale intenzione motoria. Le scimmie macaco sono in grado di condividere l’attenzione con altri individui (Ferrari et al., 2000; Fer­ rari et al., 2008). Shepherd e collaboratori (2009) hanno scoperto una classe di neuroni specchio nell’area intraparietale laterale (lip), coinvol­ ti nel controllo oculomotorio, che segnalavano sia quando la scimmia guardava in una certa direzione sia quando osservava un’altra scimmia guardare nella stessa direzione. Shepherd e collaboratori (ibidem) han­ no suggerito che i neuroni specchio per lo sguardo dell’area intrapa­ rietale laterale potrebbero contribuire alla condivisione dell’attenzio­ ne osservata, giocando dunque un ruolo nel comportamento imitativo.

Rispecchiare gli scopi motori e le intenzioni motorie degli altri: il meccanismo specchio nell’uomo L’esistenza del meccanismo specchio è ora ampiamente riconosciuta anche nel cervello umano. L’osservazione dell’azione attiva aree pre­ motorie e parietali posteriori, probabilmente omologhe a quelle della

scimmia in cui sono stati originalmente descritti i neuroni specchio (fi­ gura 1.3 ). Il meccanismo specchio per l’azione nell’uomo è grossolana­ mente organizzato a livello somatotopico; le stesse regioni premotorie e parietali posteriori, normalmente attivate quando eseguiamo atti cor­ relati alla bocca, alla mano e al piede vengono attivate anche quando osserviamo gli stessi atti motori eseguiti da altri (Buccino et al., 2001; vedi anche Cattaneo, Rizzolatti, 2009). Guardare qualcuno afferrare una tazza di caffè, mordere una mela o dare un calcio a un pallone at­ tiva nel nostro cervello le stesse regioni corticali che si attiverebbero se stessimo facendo le stesse azioni.

Figura 1.3 II meccanismo specchio per l'azione. Illustrazione schematica delle aree cerebrali corticali attivate sia durante l'esecuzione sia durante l'osservazione di movimenti senza signi­ ficato, di atti motori finalizzati al raggiungimento di uno scopo e di atti motori legati all'uso di oggetti. Cattaneo, L., Rizzolatti, G. (2009), "The mirrar neuron System". Archives of Neurology, 5, pp. 557-560. Stampata con il permesso deH'American Medicai Association.

È stato dimostrato che il meccanismo specchio è coinvolto nell’imi­ tazione di movimenti semplici (Iacoboni et al., 1999, 2001) e nell’ap­ prendimento per imitazione di capacità complesse, come imparare a suonare la chitarra (Buccino et al., 2004; Vogt et al., 2007). Il meccani­ smo specchio, inoltre, può offrire una spiegazione neurofisiologica di molti degli interessanti fenomeni descritti dagli psicologi sociali, come l’“effetto camaleonte” - ossia, la tendenza degli osservatori a mimare non consapevolmente le posture corporee, le espressioni e i compor­ tamenti dei loro partner sociali (Chartrand, Bargh, 1999). Vale la pena

UN NUOVO APPROCCIO ALL'INTERSOGGETTIVITÀ

notare che tutti questi esempi di mimesi intersoggettiva non conscia condividono una natura prosociale, dal momento che la loro frequen­ za aumenta durante le interazioni con scopi affiliativi. In linea con quanto dimostrato recentemente da Rochat e collabo­ ratori (2010) in merito alla finalizzazione allo scopo motorio dei neuro­ ni specchio delle scimmie, uno studio di stimolazione magnetica tran­ scranica (TMS) condotto sugli uomini ha evidenziato che l’eccitabilità del sistema motorio degli osservatori è modulata dallo scopo dell’atto motorio osservato, a prescindere dai movimenti richiesti per realizzar­ lo (Cattaneo et al., 2009). Le aree parietali posteriori e premotorie ventrali, parte del circuito che esprime il meccanismo specchio, vengono attivate dall’osservazio­ ne delle azioni della mano, anche quando sono realizzate da un brac­ cio robotico non-antropomorfo (Gazzola et al., 2007), oppure quando gli osservatori mancano congenitamente di entrambi gli arti superio­ ri, essendo perciò impossibilitati ad afferrare con la mano (Gazzola et al., 2007). In questo ultimo caso, l’azione osservata di afferrare con la mano attiva le rappresentazioni motorie della bocca e del piede nel cervello dei pazienti. Il meccanismo specchio premotorio-parietale generalizza gli scopi motori anche quando si basa - come succede per le scimmie - sui suoni delle azioni, veicolati attraverso il canale uditi­ vo (Gazzola, Aziz-Zadeh, Keysers, 2006). Proprietà funzionali simili sono state dimostrate anche in pazienti congenitamente ciechi (Ric­ ciardi et al., 2009). Infine, un recente studio che ha utilizzato un paradigma TMS di adat­ tamento conferma il ruolo del sistema motorio nel mappare lo scopo motorio di un’azione, in modo indipendente dal contesto. Le aree visive sensibili all’osservazione del movimento biologico sono prive di questa proprietà (Cattaneo, Sandrini, Schwarzbach, 2010). Ciò dimostra, anco­ ra una volta e anche negli uomini, che la descrizione visiva del compor­ tamento motorio non è in grado di fornire una descrizione dello scopo motorio verso cui esso è diretto. La natura relazionale del comportamen­ to, così come viene mappato dal sistema motorio corticale, consente un apprezzamento diretto dello scopo motorio di un’azione, senza ricorre­ re all’inferenza esplicita. Si tratta di lettura del comportamento, lettura della mente, o né l’una né l’altra? Lasciamo decidere al lettore. Pochi studi neurofisiologici e di brain-imaging forniscono evidenze preliminari del possibile ruolo del meccanismo specchio umano nel­ la mappatura delle intenzioni motorie di base, come mangiare, bere e riporre oggetti (Cattaneo et al., 2008; Iacoboni et al., 2005). Iacoboni 27

e collaboratori (ibidem} hanno dimostrato che la corteccia premotoria ventrale risponde in maniera differente all’osservazione di intenzioni motorie diverse, associate all’azione di afferrare, come afferrare una tazza per bere o per pulire la tavola. Brass e collaboratori (2007) hanno evidenziato un’attivazione del meccanismo specchio quando si osser­ vano azioni inusuali (per esempio accendere la luce con un ginocchio), sia quando risultano plausibili agli osservatori (le mani dell’agente so­ no occupate) sia quando non lo sono (le mani dell’agente sono libere). Questa rassegna estremamente concisa di una parte della letteratura scientifica sui neuroni specchio e sul meccanismo specchio mette in luce come il comportamento possa essere descritto ad alti livelli di astrazione, senza implicare un’esplicita concettualizzazione mediata dal linguaggio. Il sistema motorio, insieme alle sue connessioni alle aree corticali viscero-motorie e sensoriali, struttura l’esecuzione dell’azione e la percezione dell’azione, così come l’imitazione dell’azione e la sua immaginazione. Quando l’azione viene eseguita o imitata, si attiva la via cortico-spinale, inducendo il movimento. Quando l’azione è osservata o immaginata, la sua esecuzione viene inibita. In questo caso, si attiva la rete corticale motoria, anche se non in tutte le sue componenti e non con la stessa in­ tensità: l’azione quindi non viene prodotta, bensì simulata. La presenza del meccanismo specchio, sia nei cervelli non umani sia umani, apre un nuovo scenario evoluzionistico che riconosce la “cogni­ zione motoria” come elemento cardine per la comparsa dell’intersog­ gettività umana (Gallese, 2000; Gallese et al., 2009; Gallese, Rochat, 2009). Per capire le intenzioni motorie degli altri non abbiamo necessa­ riamente bisogno di metarappresentarle in un formato proposizionale: gli scopi motori e le intenzioni motorie fanno parte del “vocabolario” del sistema motorio. Il più delle volte non attribuiamo esplicitamente intenzioni agli altri; semplicemente, le rileviamo. Quando assistiamo al comportamento degli altri, possiamo cogliere direttamente i loro conte­ nuti motori intenzionali, senza avere la necessità di metarappresentarli.

Il mondo condiviso delle emozioni e delle sensazioni La scoperta del meccanismo specchio per le azioni portò a ipotizza­ re che i neuroni specchio potessero essere la punta di un iceberg mol­ to più grande all’interno dell’allora ancora inesplorato dominio delle emozioni e delle sensazioni (Gallese, 2OO3a, 2003b; Goldman, Galle­

UN NUOVO APPROCCIO ALL’INTERSOGGETTIVITÀ

se, 2000). L’evidenza empirica ottenuta negli anni successivi ha dato sostegno a questa ipotesi. Ulteriori meccanismi specchio sembrano essere coinvolti nella nostra capacità di condividere le emozioni e le sensazioni degli altri (de Vignemont, Singer, 2006; Decety, Sommerville, 2003; Gallese, 2001,2003a, 2003b, 2006). Quando si osservano gli altri individui esprimere una data emozione di base attraverso la mimica facciale, i muscoli facciali dell’osservatore si attivano in manie­ ra congruente (Dimberg, 1982; Dimberg, Thunberg, 1998; Dimberg, Thunberg, Elmehed, 2000; Lundqvist, Dimberg, 1995), con un’inten­ sità che appare proporzionale alla natura empatica degli osservatori stessi (Sonnby-Borgstrom, 2002). E stata ripetutamente osservata una correlazione sistematica recipro­ ca tra l’espressione corporea delle emozioni e il modo in cui le emozioni vengono comprese. Quando gli individui assumono delle posture o del­ le espressioni facciali con valenza emotiva, esperiscono degli stati emo­ zionali e valutano gli eventi esterni secondo una modalità congruente (per una rassegna, vedi Niedenthal, 2007). L’attività integrata dei siste­ mi neurali sensori-motori e affettivi semplifica e, a un certo livello, au­ tomatizza le risposte comportamentali che gli organismi viventi devono produrre per sopravvivere nel loro ambiente sociale. La percezione e la produzione di espressioni facciali con valenza emotiva potrebbero coinvolgere strutture neurali comuni, con funzio­ ni ipoteticamente simili a quelle del meccanismo specchio. In realtà, sia l’osservazione sia l’imitazione dell’espressione facciale delle emo­ zioni di base attivano lo stesso ristretto gruppo di strutture cerebrali, includenti la corteccia premotoria ventrale, l’insula e l’amigdala (Carr et al., 2003). L’imitazione volontaria dell’espressione delle emozioni, tuttavia, non produce necessariamente l’esperienza soggettiva delle emozioni che si stanno imitando. Uno studio fMRI ha affrontato pro­ prio questa questione studiando l’attività cerebrale di volontari adul­ ti sani sia durante l’esperienza soggettiva del disgusto, indotta dall’i­ nalazione di odori disgustosi, sia durante l’osservazione di video che mostravano altre persone esprimere la stessa emozione con la propria espressione facciale. Assistere all’espressione facciale del disgusto de­ gli altri attiva la stessa porzione dell’insula anteriore sinistra che viene attivata durante l’esperienza soggettiva in prima persona del disgusto (Wicker et al., 2003). Questo risultato è, tra l’altro, in linea con l’os­ servazione clinica che il danneggiamento dell’insula anteriore distrug­ ge sia la possibilità di esperire soggettivamente disgusto, sia quella di riconoscere la stessa emozione negli altri (Adolphs, Tranel, Damasio,

2003; Calder et al., 2000). Sembra inoltre che ci sia una dimensio­ ne noi-centrica (vedi Gallese, 2001, 2003a, 2003b) nell’esperienza di un dato stato affettivo. Quando osserviamo l’espressione facciale di qualcun altro, non ne comprendiamo il significato solo mediante l’in­ ferenza esplicita per analogia. L’emozione dell’altro è prima di tutto costituita e direttamente compresa attraverso il riutilizzo degli stessi circuiti neurali su cui si fonda la nostra esperienza in prima persona di quella data emozione. Meccanismi simili sono stati descritti in relazione alla percezione del dolore (Botvinick et al., 2005; Hutchison et al., 1999; Jackson, Meltzoff, Decety, 2005; Singer et al., 2004) e al tatto (Blakemore et al., 2005; Ebisch et al., 2008,2011,2013; Keysers et al., 2004). Quando guardia­ mo il corpo di qualcun altro mentre viene toccato, accarezzato, schiaf­ feggiato o ferito, si attiva parte del nostro sistema somatosensoriale, che normalmente mappa le sensazioni di dolore e tattili che esperiamo a li­ vello soggettivo. Presi insieme, questi risultati suggeriscono che, quan­ do assistiamo all’espressione delle emozioni e delle sensazioni degli al­ tri, un importante aspetto dell’intersoggettività consista nel riutilizzo degli stessi circuiti neurali su cui si fondano le nostre esperienze emo­ zionali e sensoriali (vedi Gallese, 2003a, 2003b, 2006, 2007; Gallese et al., 2004). E stato proposto che un meccanismo funzionale comune, la simulazione incarnata, possa fornire un quadro integrato e neurobiologicamente plausibile di questa varietà di fenomeni intersoggettivi.

L’intersoggettività e la teoria della simulazione incarnata La nozione di simulazione può essere impiegata in molti domini di­ versi, spesso con significati differenti e non sempre necessariamente sovrapponibili. La simulazione è un processo funzionale, che possiede determinati contenuti che si focalizzano tipicamente sui possibili stati del suo oggetto bersaglio. Nella filosofia della mente, la nozione di si­ mulazione è stata utilizzata dai proponenti della teoria della simulazione della lettura della mente (Goldman, 2006; vedi sopra), al fine di carat­ terizzare lo stato di simulazione adottato dal soggetto per comprendere il comportamento di un’altra persona. In sostanza, secondo questa vi­ sione, usiamo la nostra mente per metterci nei panni mentali degli altri. A differenza delle definizioni standard della teoria della simulazio­ ne, la simulazione incarnata viene definita come un processo neces-

UN NUOVO APPROCCIO ALL’INTERSOGGETTIVITÀ

sanamente non introspettivo e non metarappresentazionale (Gallese, 2003a, 2005, 2006; Gallese, Sinigaglia, 201 lb). La teoria della simula­ zione incarnata, infatti, mette in discussione il concetto che l’unica de­ finizione di intersoggettività consista nell’attribuire esplicitamente agli altri atteggiamenti proposizionali, come credenze e desideri, mappati come rappresentazioni simboliche. Prima e alla base della lettura della mente altrui vi è l’intercorporeità come principale fonte di conoscenza che noi deriviamo direttamente dagli altri (Gallese, 2007). Come ha re­ centemente enfatizzato De Preester (2008), seguendo Merleau-Ponty, il corpo dell’intercorporeità viene percepito primariamente come un mezzo sistematico per andare verso gli oggetti. Questa è la ragione per cui De Preester ha sostenuto che “l’altro è visto come un comporta­ mento e l’lIo’ è primariamente un ‘Io motorio’” (p. 137). Una forma diretta di comprensione degli altri, per così dire, dal di dentro - di consonanza intenzionale (vedi Gallese, 2003 a, 2006) - viene ottenuta grazie all’attivazione di sistemi neurali alla base di ciò che noi e gli altri facciamo e sentiamo. Parallelamente alla distaccata descrizione sensoriale in terza persona degli stimoli sociali osservati, nell’osservato­ re vengono evocate delle “rappresentazioni” interne, non-proposizionali e in un formato corporeo, degli stati del corpo associati alle azioni, le emozioni e le sensazioni, come se stesse eseguendo una simile azione o esperendo una simile emozione o sensazione. La teoria della simulazione incarnata fornisce una descrizione unita­ ria di aspetti di base dell’intersoggettività, evidenziando come le perso­ ne riutilizzino i propri stati o processi mentali, rappresentati in un for­ mato corporeo, per attribuirli funzionalmente agli altri. La teoria della simulazione incarnata non fornisce una teoria generale della simula­ zione mentale, spiegando tutte le possibili forme di lettura della mente basate sulla simulazione. La simulazione incarnata intende spiegare il meccanismo specchio e i fenomeni a questo connessi, come la consa­ pevolezza spaziale, la visione degli oggetti, l’immaginazione mentale e diversi aspetti del linguaggio (vedi Gallese, Sinigaglia, 201 Ib). Definen­ do il meccanismo specchio in termini di riutilizzo di stati mentali, la simulazione incarnata fa riferimento alla somiglianza intrapersonale, o corrispondenza, tra il proprio stato mentale quando si esegue un’azio­ ne o si esperisce un’emozione o una sensazione, e quando osserviamo le azioni, le emozioni e le sensazioni degli altri. La somiglianza inter­ personale tra il simulatore e lo stato o processo mentale dell’individuo osservato non può essere considerata simulazione, se non ha origine dal ri utilizzo intrapersonale dello stato o del processo mentale del simula­ 31

LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

tore (vedi Gallese, 2011; Gallese, Sinigaglia, 201 lb). Ovviamente, l’es­ sere neuralmente realizzata nel cervello non fa di una rappresentazione mentale una rappresentazione incarnata. Un formato rappresentazio­ nale viene associato generalmente a caratteristici profili di proccssazione. Profili motori, viscero-motori e somatosensoriali caratterizzano una rappresentazione in formato corporeo, distinguendola da una rappre­ sentazione proposizionale, anche se in presenza di contenuti (parzial­ mente) sovrapponibili. Gli stati o i processi mentali vengono incarnati primariamente in vir­ tù del loro formato corporeo. In linea con quanto sostenuto da Gallese e Sinigaglia (ibidem), così come una mappa e una serie di frasi posso­ no riprodurre lo stesso percorso utilizzando formati rappresentazio­ nali diversi, allo stesso modo le rappresentazioni mentali possono ave­ re contenuti parzialmente sovrapposti (per esempio uno scopo finale, un’emozione o una sensazione), pur differenziandosi nel loro formato rappresentazionale (per esempio corporeo anziché proposizionale). Questo aspetto è cruciale, in quanto il formato di una rappresentazione mentale limita ciò che una rappresentazione può rappresentare. Quan­ do si pianifica o si esegue un atto motorio, fattori corporei (per esem­ pio biomeccanici, dinamici e posturali) vincolano quello che può essere rappresentato. Il formato corporeo rappresentazionale, dunque, limita il modo in cui un singolo scopo motorio o una gerarchia di scopi motori vengono rappresentati, un modo che è diverso da una rappresentazio­ ne proposizionale degli stessi scopi o gerarchie di scopi motori. Simi­ li vincoli, dunque, si applicano sia alle rappresentazioni delle proprie azioni, emozioni o sensazioni, sia alle corrispondenti rappresentazioni che si formano mentre si osserva un altro individuo eseguire una data azione o esperire una data emozione o sensazione. I limiti sono simili perché le rappresentazioni condividono un formato corporeo comune. La simulazione incarnata, guidata dal meccanismo specchio, gioca un ruolo fondamentale in una forma basilare di mentalizzazione, non richiedente il coinvolgimento di atteggiamenti proposizionali, che viene mappata su rappresentazioni mentali in formato corporeo (per esempio le rappresentazioni motorie di scopi e intenzioni, così come le rappre­ sentazioni viscero-motorie e somatosensoriali di emozioni e sensazioni). La teoria della simulazione incarnata non implica necessariamente che noi esperiamo gli specifici contenuti delle esperienze altrui: implica che esperiamo gli altri come persone che hanno esperienze simili alle nostre. Come affermato dal padre della fenomenologia Edmund Husserl (1913, 1931), e recentemente ribadito da Dan Zahavi (2001), è l’alteri­

tà dell’altro a garantire l’oggettività che normalmente attribuiamo al­ la realtà. Anche se si potrebbe aggiungere, schierandosi con MerleauPonty, “Senza reciprocità non c’è alter Ego” (1945, p. 462). Forse non è possibile concepire se stessi come un Sé, senza ancorare questa con­ sapevolezza in una fase precedente in cui prevale la condivisione. Co­ me abbiamo visto, anche nella maturità adulta un sistema multiplo di condivisione dell’intersoggettività (Gallese, 2001) sottende, sostiene e rende possibili i nostri scambi sociali. A ogni modo, anche il carattere di alterità che noi implicitamente attribuiamo agli altri nel modo in cui li esperiamo viene mappato a un livello subpersonale neurale. I circuiti motori corticali che si attivano quando agiamo non si sovrappongono completamente né mostrano la stessa intensità di attivazione (vedi prima; Rochat et al., 2010), rispetto a quando sono gli altri gli agenti e noi gli osservatori delle loro azioni. Inoltre, come è stato messo in evidenza nelle sezioni precedenti, quan­ do si osserva il comportamento altrui, numerosi meccanismi inibitori solitamente bloccano il sistema motorio dal produrre comportamenti motori manifesti contagiosi o, più in generale, una rievocazione attuale sistematica di quanto è stato osservato. La stessa logica si applica alle emozioni (vedi Jabbi, Bastiaansen, Keysers, 2008) e alle sensazioni (vedi Blakemore et al., 2005; Ebisch et al., 2008, 2011, 2013). Jabbi e collaboratori (2008) hanno dimostrato che esperienze estremamente diverse, come essere disgustati a livello soggettivo, immaginare qualcun altro essere disgustato e vedere il disgu­ sto nell’espressione facciale degli altri, non solo inducono l’attivazione della stessa rete di aree cerebrali (l’insula anteriore e la corteccia cingo­ lata anteriore), ma anche l’attivazione di differenti aree cerebrali, in ba­ se alla specifica modalità con cui il disgusto viene esperito (il mio reale disgusto, quello immaginato in qualcun altro o quello osservato in altri).

La cognizione motoria e l’origine del meccanismo specchio La teoria della simulazione incarnata sfida la visione tradizionale - puramente mentalistica e disincarnata - dell’intersoggettività e del­ la cognizione sociale, sostenuta dall’approccio classico, affermando che la capacità di comprendere il comportamento intenzionale degli altri - da un punto di vista sia filogenetico sia ontogenetico - si fonda su un meccanismo funzionale più basilare, che sfrutta l’organizzazione

intrinseca del sistema motorio dei primati. Come riportato nelle sezioni precedenti, abilità come la rilevazione dello scopo dell’azione, l’antici­ pazione delle conseguenze dell’azione e la rappresentazione gerarchica dell’azione rispetto allo scopo distale possono essere tutte viste come la conseguenza diretta della peculiare architettura funzionale del sistema motorio, organizzato in termini di atti motori finalizzati a uno scopo (Rizzolatti, Gallese, 1997; Rizzolatti et al., 1988, 2000). Queste abili­ tà sono state definite come cognizione motoria (Gallese, Rochat, 2009; Gallese et al., 2009). Il filosofo Ceco Jan Patocka (1998) ha scritto nel suo libro Body, Community, Language, World-, L’esperienza primaria di noi stessi è un’esperienza di dinamismo pri­ mordiale che si manifesta nella consapevolezza della nostra esistenza co­ me esseri attivi in movimento. Questo dinamismo appare distintamente connesso a ciò che ci orienta nei nostri movimenti [...] in modo tale che la nostra energia è sempre focalizzata su qualcosa, su quello che stiamo facendo. (P. 40)

Un corollario importante dell’ipotesi della cognizione motoria è che sia necessario un suo corretto sviluppo per sostenere abilità sociali men­ tali cognitivamente più sofisticate. La codifica dello scopo motorio è una caratteristica funzionale di­ stintiva del sistema motorio corticale dei primati, esseri umani inclusi. Questo principio funzionale può fare nuova luce anche sul dibattito in merito all’importanza relativa dell’esperienza motoria e percettiva nel­ la comprensione del significato di un’azione osservata. Quando l’azio­ ne osservata altrui fa parte dell’esperienza motoria dell’osservatore, ciò porta a una più anticipata e più intensa risposta dei neuroni specchio. Infatti, in linea con questi dati, diversi studi di hrain-imaging condotti sugli esseri umani hanno dimostrato che l’intensità dell’attivazione del meccanismo specchio durante l’osservazione dell’azione dipende dal­ la somiglianza tra le azioni osservate e il repertorio delle azioni degli osservatori (Aglioti et al., 2008; Buccino et al., 2004; Calvo-Merino et al., 2005; Cross, Hamilton, Grafton, 2006; Haslinger et al., 2006). In particolare, uno studio fMRI (Calvo-Merino et al., 2006) si è concentra­ to sulla distinzione tra il contributo relativo dell’esperienza visiva e di quella motoria dell’osservatore nel processamento dell’azione osserva­ ta. Questi risultati hanno rivelato una maggiore attivazione del meccani­ smo specchio quando le azioni osservate erano eseguite frequentemen­ te dagli osservatori, rispetto a quelle che erano solo familiari a livello percettivo, ma che non erano mai state eseguite.

Queste scoperte enfatizzano il ruolo cruciale giocato dal sistema mo­ torio nel fornire i “mattoni” con cui possono essere costruite abilità sociali cognitive più sofisticate. Ma quando si sviluppa il meccanismo specchio nell’individuo? Le prime prove indirette attualmente dispo­ nibili sul meccanismo specchio nei bambini derivano da uno studio di Shimada e Hiraki (2006), che ha documentato, mediante l’utilizzo della spettroscopia nel vicino infrarosso (NIRS), la presenza di un sistema che mappa l’esecuzione e l’osservazione dell’azione in bambini di sei mesi. Southgate, Johnson e Csibra (2008), attraverso l’elettroencefalografia ad alta densità {high density EEG), hanno rilevato in bambini di nove mesi una desincronizzazione della banda alfa sugli elettrodi centrali (un segno di attivazione motoria), sia durante l’esecuzione sia durante l’osservazio­ ne di azioni della mano. Karoui e Csibra (2010) hanno evidenziato un effetto di attivazione motoria simile, in bambini di tredici mesi durante la previsione di scopi motori di altri, utilizzando un paradigma speri­ mentale modellato su quello di Umiltà e collaboratori (2001), nel quale i neuroni specchio venivano studiati durante l’osservazione di una mano che compiva l’azione di afferramento dietro una superficie occludente. Infine, van Elk e collaboratori (2008) hanno registrato l’EEG di bambini tra i quattordici e i sedici mesi, durante l’osservazione di video di azio­ ni. I risultati hanno indicato una più intensa attivazione motoria duran­ te l’osservazione del gattonare rispetto a quella del camminare. L’entità dell’effetto era fortemente correlata all’esperienza dei bambini nel gat­ tonare. Come concluso dagli autori di questo studio, i dati suggerisco­ no come già nelle prime fasi di vita la propria esperienza dell’azione sia strettamente correlata al modo in cui vengono percepite le azioni altrui. Non sappiamo ancora quando e come appaia il meccanismo spec­ chio. Non sappiamo se i neuroni specchio siano innati e come venga­ no configurati e modellati durante lo sviluppo. E stato proposto che i neuroni specchio siano l’esito di un semplice meccanismo associativo che collega i comandi motori che consentono l’esecuzione dell’azione alla percezione visiva dell’azione stessa (Heyes, 2010; Keysers, Perrett, 2004). Questa ipotesi, tuttavia, non tiene conto dei meccanismi spec­ chio inerenti gli atti motori eseguiti con parti del corpo alle quali né le scimmie né gli esseri umani hanno un accesso visivo diretto, come la bocca o la faccia. In secondo luogo, per le stesse ragioni, questa ipote­ si porta a minimizzare o addirittura negare la plausibilità delle prove convincenti sull’esistenza dell’imitazione neonatale, sia nei primati non umani (Ferrari et al., 2006; Myowa-Yamakoshi et al., 2004) sia negli es­ seri umani (Meltzoff, Moore, 1977). Terzo, questa ipotesi non riesce a

LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

spiegare l’evidenza empirica che dimostra come l’esperienza motoria priva di qualsiasi feedback visivo aumenti l’abilità percettiva, quando viene diretta al movimento biologico umano (vedi Casile, Giese, 2006). È stata fornita una spiegazione alternativa dell’ontogenesi del mec­ canismo specchio (Gallese, 2009b; Gallese et al., 2009). Il sofisticato sviluppo prenatale, recentemente scoperto, del sistema motorio (Castiello et al., 2010; Myowa-Yamakoshi, Takeshita, 2006; Zoia et al., 2007) ha indotto Gallese a ipotizzare che, prima della nascita, si pos­ sano sviluppare specifiche connessioni tra i centri motori che control­ lano i movimenti della bocca e della mano e le regioni cerebrali che riceveranno gli inputs visivi dopo la nascita. Questa connettività po­ trebbe “istruire” ed esercitare le aree del cervello, le quali, una vol­ ta raggiunte dall’informazione visiva, sarebbero pronte a rispondere all’osservazione dei gesti della mano o della bocca, consentendo quin­ di l’imitazione neonatale. I neonati e i bambini, mediante una specifica connettività neurale sviluppatasi durante l’ultima fase della gestazione tra le regioni moto­ rie e le future aree visive del cervello, sarebbero pronti a imitare i gesti eseguiti dai caregiver adulti posti di fronte a loro, e sarebbero dotati delle risorse neurali che rendono possibili i comportamenti reciproci che caratterizzano la nostra vita dopo la nascita (vedi il capitolo 6). Un simile condizionamento motorio della processazione visiva degli stimoli biologici potrebbe anche spiegare i vantaggi percettivi offerti dall’espe­ rienza motoria rispetto alla familiarità visiva, osservati in una varietà di compiti percettivi eseguiti dagli adulti. Molto probabilmente, un meccanismo specchio innato rudimen­ tale è presente già alla nascita, per poi essere successivamente e flessi­ bilmente modulato dall’esperienza motoria, e gradualmente arricchi­ to dall’apprendimento visuomotorio. Del tutto in linea con l’ipotesi di Gallese, alcuni recenti risultati preliminari nei neonati delle scimmie macaco mostrano una desincronizzazione all’interno del range dei 5-6 Hertz, durante l’esecuzione e l’osservazione di gesti facciali, ma non durante l’osservazione di eventi non biologici (Ferrari et al., 2012). Se­ condo Lepage e Théoret (2007), lo sviluppo del meccanismo specchio può essere concettualizzato come un processo mediante il quale il bam­ bino impara ad astenersi dal tradurre in movimento il meccanismo di mappatura automatica, che lega la percezione e l’esecuzione dell’azio­ ne. Questo scenario ha trovato un recente supporto dai dati ottenuti sia nelle scimmie (Kraskov et al., 2010) sia negli esseri umani (Mukamel et al., 2010). Infatti, come sottolineato prima, entrambi gli studi hanno

fornito evidenze neurofisiologiche di neuroni specchio attivati duran­ te l’esecuzione di azioni, ma inibiti durante l’osservazione delle azioni altrui. Probabilmente, lo sviluppo di meccanismi corticali inibitori ac­ compagna la graduale transizione dalla compulsiva imitazione all’au­ tomatica simulazione incarnata motoria. La scoperta del meccanismo specchio ha fornito una base neuro­ scientifica per interpretare le crescenti evidenze (provenienti dalla ri­ cerca in psicologia dello sviluppo) sul ruolo della conoscenza motoria fondata sull’esperienza, nell’ambito della modulazione dello sviluppo ontogenetico dell’intersoggettività. Questi temi saranno affrontati sin­ teticamente nella sezione successiva.

L’ontogenesi dell’intersoggettività negli esseri umani Gli esseri umani sono creature sociali e l’azione rappresenta il pri­ mo mezzo per esprimere la loro inclinazione sociale. Molto presto nella vita, la cognizione sociale umana viene ancorata all’azione, a un livello interindividuale (von Hofsten, 2007). Alla nascita, gli esseri umani si impegnano già in relazioni mimetiche interpersonali, attraverso l’imita­ zione neonatale. A partire dallo studio pionieristico di Meltzoff e Moore (1977), la presenza innata delle abilità imitative nei neonati rappresenta un fenomeno transitorio molto ben conosciuto, ampiamente indagato e confermato da numerosi studi. I neonati sono in grado di riprodur­ re gesti facciali (Legerstee, 2005; Meltzoff, Moore, 1992), espressioni facciali (Field et al., 1982), e, in una certa misura, i gesti della mano (Fontaine, 1984; Nagy et al., 2005). Neonati tra le cinque e le otto set­ timane di vita imitano il comportamento di protrusione della lingua di un modello umano, ma non quello di un agente non-biologico (Leger­ stee, 1991). Questi risultati dimostrano che il comportamento imitativo neonatale è selettivo per gli individui co-specifici. I neonati sono gene­ ticamente preparati a connettersi ai propri caregiver attraverso l’imita­ zione e la sintonizzazione affettiva, mostrando precocemente un’altra delle numerose abilità che collocano i bambini nel mondo sociale, sin dall’inizio della vita. I bambini partecipano molto presto a sequenze interattive sociali. Come giustamente rimarcato da Legerstee, “i bambini comunicano con il contatto visivo, l’espressione facciale, le vocalizzazioni e i gesti, mentre assimilano il ritmo delle proprie interazioni a quello dei care­ giver” (2009, p. 2). I bambini sollecitano attivamente l’attenzione dei

LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

caregiver e si impegnano in attività corporee, mostrando una struttu­ ra “protoconversazionale” basata sull’alternanza dei ruoli, cioè defi­ nita da una struttura simile a quella delle conversazioni adulte (vedi Bràten, 1988, 1992, 2007; Meltzoff, Brooks, 2001; Meltzoff, Moore, 1977,1998; Stern, 1985; Trevarthen, 1979,1993; Tronick, 1989). Inol­ tre, come dimostrato da Reddy (2008), durante le interazioni sociali, i bambini preverbali di pochi mesi mostrano anche i segni delle co­ siddette emozioni autoconsapevoli, come l’imbarazzo, l’orgoglio e la timidezza. I bambini mostrano questi comportamenti in una fase evo­ lutiva che precede l’inizio della consapevolezza autoriflessiva, decisa­ mente prima di essere in grado di autoriconoscersi quando si guardano riflessi nello specchio. Reddy ha evidenziato come “ [le emozioni au­ toconsapevoli], piuttosto che essere frutto dello sviluppo concettuale cha ha luogo nel secondo anno di vita, siano presenti già a partire dal primo anno in forma semplice, per gestire l’esposizione del sé all’altro, e come siano cruciali per dar forma all’emergente concezione del sé e dell’altro che il bambino matura” (p. 48). Da una prospettiva funzionale, è stato proposto che un aspetto im­ portante dello sviluppo cognitivo abbia a che fare con l’espansione del controllo anticipatorio dell’azione (Gallese et al., 2009). Certamente, negli esseri umani le abilità motorie maturano molto prima di quanto si pensasse. Alla nascita, la corteccia somatosensoriale primaria e quella motoria mostrano un’avanzata maturazione rispetto ad altre aree cere­ brali (Chiron et al., 1992). I neonati dispongono già di una forma rudi mentale di coordinazione occhio-mano (von Hofsten, 1982) e posso­ no controllare intenzionalmente i movimenti delle proprie braccia per soddisfare le richieste esterne (van der Meer, 1997). Ancora più interessante, una recente evidenza dimostra che il con­ trollo motorio è notevolmente sofisticato ben prima della nascita. Già alla ventiduesima settimana gestazionale, i feti mostrano un movimen­ to anticipatorio di apertura della bocca che precede l’arrivo della ma­ no (Myowa-Yamakoshi, Takeshita, 2006), e mostrano movimenti della mano con differenti patterns cinematici che dipendono dal punto verso cui sono indirizzati (Zoia et al., 2007; figura 1.4A). Lo studio cinemati­ co del comportamento prenatale dei feti gemellari offre un’opportunità unica per esplorare la nascita dell’intersoggettività nella nostra specie. Uno studio recente (Castiello et al., 2010) ha messo in evidenza come i feti gemellari, già alla quattordicesima settimana gestazionale, mostri­ no movimenti degli arti superiori, con profili cinematici che variano a seconda che siano indirizzati sul proprio corpo o su quello dell’altro ge­

mello (figura 1.4B). Inoltre, tra la quattordicesima e la diciottesima set­ timana gestazionale, la percentuale relativa dei movimenti auto-diretti diminuisce, mentre quella dei movimenti diretti verso i fratelli aumen­ ta. Ben prima della nascita, quindi, il sistema motorio umano mostra di avere già proprietà funzionali che consentono le interazioni sociali. Queste interazioni sociali vengono espresse obbedendo a diverse poten­ zialità motorie. La nascita del sé interpersonale (Neisser, 1988), dunque, sembra avvenire prima della nascita. Quando il contesto lo consente, come nel caso delle gravidanze gemellari, l’alterità corporea viene mappata sulle proprie potenzialità motorie, in modo simile alle interazioni sociali primarie che hanno luogo dopo la nascita.

Figura 1.4 Comportamento motorio del feto. (A) Fotogramma video che mostra il movimen­ to auto-diretto verso la bocca di un feto di ventidue settimane. (B) Fotogramma video che mostra un feto di 14 settimane che tocca la schiena del fratello. Modificato da Castiello, U., Becchio, C., Zoia, S., Nelini, C., Sartori, L., Blason, L., D'Ottavio, G., Bulgheroni, M., Gallese, V. (2010), "Wired to be social: Theontogenyof human interaction". In PLoS ONE, 5, e13199. Copyright: © 2010 Castiello et al.

La cognizione motoria è rilevante per lo sviluppo dell’intersoggettività? Secondo un’opinione largamente diffusa, il suo ruolo è conside­ rato marginale. Come abbiamo affermato prima, la visione dominante sta ancora equiparando l’intersoggettività e la cognizione sociale con la lettura esplicita della mente. La lettura della mente, a sua volta, vie­ ne vista da molti come un’impresa principalmente teorica - la Teoria della Mente (Premack, Woodruff, 1978) -, fondata su abilità metarap­ presentazionali che consistono nell’attribuzione agli altri di atteggia­

menti proposizionali, come credenze e desideri, propri della psicolo­ gia del senso comune. Si è a lungo ritenuto che il raggiungimento di una completa Teoria della Mente abbia luogo nel momento in cui i bambini superano la pro­ va delle false credenze (Baron-Cohen et al., 1985), ossia, quando com­ prendono che il comportamento degli altri è guidato dalle loro proprie rappresentazioni del mondo, che possono non riflettere necessariamen­ te la realtà in modo accurato {ibidem-, Wimmer, Perner, 1983). Una solida evidenza sperimentale mostra come, durante il primo an­ no di vita, la comprensione dell’azione del bambino sia già ampiamente ben sviluppata. Queste precoci forme di comprensione dell’azione non implicano alcuna capacità metarappresentazionale, né possono essere interpretate in termini di lettura della mente, almeno non in termini di lettura della mente in senso stretto (vedi prima). L’ipotesi sull’attitu­ dine teleologica di Gergely e Csibra (Csibra et al., 2003; Csibra et al., 1999) postula che, dai nove mesi di vita, i bambini possiedano un si­ stema inferenziale applicato alla realtà fattuale (azione, scopi e limiti posti dal contesto) per generare rappresentazioni di azioni finalizzate al raggiungimento dello scopo. Secondo questi autori, un’azione viene rappresentata come teleologica solo se soddisfa “un principio di azio­ ne razionale”: da questa prospettiva, un’azione può essere spiegata dal proprio scopo, se l’agente raggiunge il proprio scopo mediante i mezzi più efficienti, data una serie di limiti contestuali. Tuttavia, una diversa visione teorica sulla comparsa dell’interpre­ tazione delle azioni nei bambini sottolinea il legame intrinseco tra la comprensione dell’azione e l’esperienza motoria. Diversi studiosi enfa­ tizzano l’effetto costruttivo nei bambini delle esperienze auto-agentive sulla comprensione dello scopo delle azioni altrui (vedi Sommerville, Woodward, 2005). Vinfant Research, per mezzo di paradigmi di abituazione/disabituazione, ha dimostrato che l’esperienza motoria preceden­ te facilita, nei bambini di tre mesi, la percezione delle azioni finalizzate degli altri (Sommerville, Woodward, Needham, 2005). Inoltre, l’abilità dei bambini di dieci mesi di rappresentarsi le azioni altrui come orga­ nizzate gerarchicamente al conseguimento di uno scopo distale dipende strettamente dalla loro abilità di eseguire sequenze di azioni strutturate in modo simile (Sommerville, Woodward, 2005). Va sottolineato che la congruenza tra l’azione osservata e il reper­ torio motorio dell’osservatore è cruciale per la previsione dello scopo. I bambini producono movimenti proattivi degli occhi quando osser­ vano un agente riporre delle palle in un secchio, solo nella misura in

cui sono in grado di eseguire la stessa azione (Falck-Ytter, Gredeback, von Hofsten, 2006). Inoltre, nei bambini, il precoce riconoscimento dello scopo è inizialmente limitato alle azioni eseguite dai co-specifici. I bambini di sei mesi sono sensibili allo scopo delle azioni altrui so­ lo quando queste sono eseguite da agenti umani (Woodward, 1998). Meltzoff ( 1995 ) ha dimostrato che bambini più grandi imitano lo sco­ po motorio non visibile di un modello umano, ma non quello di un oggetto inanimato. La rilevazione dello scopo costituisce l’abilità centrale della com­ prensione dell’azione e dell’apprendimento sociale attraverso l’imita­ zione. Sia gli adulti (Baird, Baldwin, 2001) sia i bambini si rappresen­ tano le azioni come costituite da unità gerarchicamente organizzate rispetto all’obiettivo generale. In modo simile agli adulti, bambini di dieci mesi possono suddividere le azioni in unità, i cui confini corri­ spondono al completamento di uno scopo motorio (Baldwin et al., 2001). I compiti imitativi riflettono la capacità dei bambini di rappre­ sentarsi le unità delle azioni come organizzate verso uno scopo dista­ le. Quando ai bambini in età prescolare si chiede di imitare l’azione di un’altra persona, nell’imitazione viene riprodotto lo scopo di ordine più elevato dell’azione stessa (Bekkering, Wohlschlàger, Gattis, 2000). Bambini di diciotto mesi sono in grado di riprodurre lo scopo dell’a­ zione, inferito dai tentativi falliti di un dimostratore umano (Meltzoff, 1995). Carpenter, Cali e Tomasello (2005) hanno dimostrato che i bam­ bini interpretano flessibilmente lo scopo di una sequenza osservata di movimenti in base al contesto, riproducendo lo scopo dell’azione os­ servata oppure i mezzi mediante i quali l’azione stessa è stata prodotta. Alla base di questa flessibilità cognitiva, vi è l’abilità fondamentale di discriminare tra mezzi e fini. Prese insieme, crediamo che queste evi­ denze diano supporto a una descrizione deflazionistica dello sviluppo di aspetti rilevanti dell’intersoggettività negli esseri umani. Certamente, questo è solo un quadro parziale. Abbiamo sottolineato quasi esclusivamente il ruolo del sistema motorio corticale nell’intersoggettività, e, per amore di brevità, abbiamo accennato solo brevemen­ te alle sensazioni, alle emozioni e agli affetti. Le nostre azioni, tuttavia, non sono quasi mai separate dal coinvolgimento emotivo personale con la situazione. Le emozioni e gli affetti, comunque, possono essere compresi appieno solo quando si consideri il ruolo del sistema moto­ rio corticale nel dare senso alle nostre azioni e a quelle degli altri. Sen­ za dubbio, così come è stato recentemente sottolineato da Daniel Stern (2010), la qualità affettiva pervasiva delle interazioni madre-bambino

LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

può essere colta dal concetto di “forme vitali”. Secondo Stern, le forme vitali consistono in una gestalt di movimento, forza, flusso temporale e intenzionalità. Questa gestalt correlata all’azione induce una globalità soggettiva che porta con sé un senso di vitalità. Come ha scritto Stern:

Le forme vitali si associano a un contenuto o, meglio, “trasmettono” un contenuto. Le forme vitali non sono forme vuote, ma accordano un profilo temporale e d’intensità al contenuto, e con esso il senso di vi­ talità che accompagna l’esecuzione. Il contenuto potrebbe riguardare un’emozione o un cambiamento emotivo, una serie di pensieri, un mo­ vimento fisico o mentale, un ricordo, una fantasia, un atto intenzionale. [...] La dinamica vitale accorda al contenuto la forma di un’esperienza dinamica. (Ibidem, p. 20) Le forme vitali dinamiche dovrebbero precedere evolutivamente il dominio dei sentimenti e delle emozioni, e rappresentare il modo pri­ mario in cui i bambini sperimentano il mondo umano. Sarà veramente interessante esplorare come queste diverse dimensioni interagiscano a livello cerebrale.

Conclusioni Il compianto Mauro Mancia, un neuroscienziato e psicoanalista che ha aperto la strada al dialogo tra psicoanalisi e neuroscienze, ha sotto­ lineato ripetutamente l’importanza per la psicoanalisi, sia da un punto di vista teorico sia clinico, della memoria implicita e dell’inconscio non rimosso (Mancia, 2004,2006). La plasticità del meccanismo specchio potrebbe giocare un ruolo importante nella costituzione delle memo­ rie implicite che accompagnano costantemente le nostre relazioni con gli oggetti interni ed esterni, come una sorta di basso continuo. Internalizzando patterns specifici di relazioni interpersonali, noi sviluppia­ mo la nostra caratteristica attitudine verso gli altri e verso il modo in cui viviamo ed esperiamo internamente queste relazioni. Si potrebbe ipotizzare che la nostra identità personale sia - almeno in parte - l’e­ sito del modo in cui la nostra simulazione incarnata degli altri si svi­ luppa e prende forma. Tornando all’intersoggettività, la conclusione che, in via provviso­ ria, potremmo trarre è la seguente: dovremmo abbandonare la visione cartesiana del primato dell’io e adottare una prospettiva che enfatizza il fatto che sé e altro siano originariamente co-costituiti.

UN NUOVO APPROCCIO ALL’INTERSOGGETTIVITÀ

Sia il sé che l’altro sembrano essere intrecciati a causa dell’intercorporeità che li unisce. L’intercorporeità descrive un aspetto cruciale dell’intersoggettività, non perché questa sia filogeneticamente e onto­ geneticamente fondata su una mera somiglianza tra il nostro corpo e quello degli altri, in virtù di una similarità superficiale e percettiva. L’in­ tercorporeità descrive un aspetto cruciale dell’intersoggettività, poiché noi e gli altri condividiamo - a un certo livello - gli stessi oggetti inten­ zionali; inoltre, i nostri sistemi motori situati sono cablati in maniera simile per raggiungere scopi simili. E la condivisione della stessa natu­ ra situata e degli stessi scopi intenzionali che fa dell’intercorporeità un accesso privilegiato al mondo dell’altro. Dopo avere delineato un nuovo possibile approccio all’intersogget­ tività, d’ora in poi ci focalizzeremo su una peculiare relazione intersog­ gettiva, quella tra madre e bambino. Nel prossimo capitolo affrontere­ mo il tema della maternità.

2 Diventare madre

Quando si parla di madri, bisogna necessariamente tracciare l’evolu­ zione della specie umana, convenzionalmente datata a circa 200.000 an­ ni fa, nonostante la sua storia inizi effettivamente molto prima. Secondo Sarah Hrdy (2009), più di un milione di anni fa, gli ominidi iniziarono a impegnarsi in forme di allevamento di tipo cooperativo: potremmo ipotizzare che questo decisivo cambiamento nell’organizzazione sociale e nelle modalità di accudimento dei figli ebbe delle conseguenze psi­ cologiche e neurobiologiche imprevedibili per la specie umana. L’alle­ vamento può essere definito cooperativo quando più membri apparte­ nenti al gruppo sociale e diversi dai genitori biologici (come i nonni, le zie, gli zii e i fratelli e/o le sorelle maggiori) aiutano e sostengono uno o entrambi i genitori a crescere i figli. Questa speciale forma di coope­ razione umana è stata brillantemente messa in risalto da Tomasello e collaboratori: “La differenza cruciale tra la cognizione umana e quella di altre specie consiste nell’abilità di partecipare con gli altri ad attività cooperative condividendo scopi e intenzioni” (2005, p. 675). Recente­ mente, tale punto di vista è stato sottolineato da Zaki e Ochsner: Rispetto a molti altri animali sul pianeta, gli esseri umani sono pic­ coli, lenti e deboli. Eppure, abbiamo vinto in maniera inequivocabile la competizione interspecifica per il dominio globale [...]. Sebbene pos­ sano essere fornite molte risposte a questa domanda, gli psicologi sono sempre più convinti che siano le nostre capacità interpersonali, in par­ ticolare la nostra abilità a cooperare e capire gli altri, ad avere sostenuto il successo della nostra specie. (2012, p. 675) Una probabile conseguenza di questa cooperazione è stata l’amplia­ mento del nucleo umano: le madri e i padri iniziarono a far nascere più

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LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

figli a distanza di tempo ravvicinata, avendo la possibilità di allevarne molti, nonostante l’alta mortalità che colpiva i bambini, soprattutto durante i primi anni di vita. Le donne che erano aiutate dalle famiglie estese e dai membri del gruppo sociale potevano essere certe che i fi­ gli, ancora immaturi e dipendenti, avrebbero potuto essere nutriti, ac­ cuditi e protetti. Nel significativo articolo “The origin of man” (1981), il paleoantro­ pologo Owen Lovejoy ha ipotizzato che gli uomini siano diventati bi­ pedi per poter procacciare e portare il cibo alle donne e ai figli che li aspettavano nei loro rifugi. A questo riguardo, Hrdy (2009) ha propo­ sto che le madri si aspettavano un aiuto dagli altri membri della fami­ glia estesa, dal momento che i padri da soli non avrebbero potuto sod­ disfare i bisogni della prole. Allo stesso tempo, alla stregua di altri mammiferi, le madri umane hanno imparato a prendersi cura dei neonati, ancora immaturi e indi­ fesi, sintonizzandosi a livello psicologico e neurobiologico con le loro espressioni affettive e i loro comportamenti, potendone decodificare i bisogni corporei e gli stati di disagio. Acquisendo queste attitudini sensibili, le madri ominidi poterono prendersi cura fisicamente dei propri figli, riconoscendone e compren­ dendone le espressioni attraverso il canale visivo e uditivo, e interve­ nendo in maniera adeguata al fine di proteggerli o nutrirli. Inoltre, la capacità delle madri di acquisire un’attitudine più sensibile e di sinto­ nizzazione con i figli potè essere trasferita nelle relazioni con gli altri membri della famiglia e del gruppo sociale. Allo stesso tempo, questo contesto materno attento e sensibile stimolò nei bambini lo sviluppo della capacità di sintonizzarsi con e capire gli stati mentali delle figure di accudimento, attraverso una peculiare forma di imitazione “conta­ giosa” (Perner, Ruffman, Leekam, 1994). Da un punto di vista evolu­ zionistico, i bambini che avevano più contatti con gli adulti venivano favoriti dalla selezione naturale e avevano maggiori possibilità di so­ pravvivenza, anche nelle situazioni avverse. Infatti, nei momenti di dif­ ficoltà o quando si trovavano distanti dalle madri o dagli altri membri della famiglia, i bambini con maggiori capacità di sintonizzazione riu­ scivano più efficacemente a comunicare ed esprimere il proprio disa­ gio agli altri, avendo appreso di poter ottenere protezione dai caregiver utilizzando le competenze comunicative. In questo ambito evoluzionistico, molte domande non hanno anco­ ra avuto una risposta: la collaborazione di altri significativi nell’accudimento dei figli ha cambiato l’attitudine e la sensibilità materna stimo-

landò una specifica forma di sintonizzazione, o ha invece modificato le attitudini dei bambini dal momento che erano obbligati a adattarsi e a interagire con diverse persone, anche se non sempre familiari? Questo vantaggio acquisito durante l’infanzia avrebbe potuto essere usato più tardi durante la successiva esperienza genitoriale. Fonagy ha chiarito l’attuale processo di sintonizzazione genitoriale:

E nostra convinzione che la capacità del caregiver di osservare mo­ mento per momento i cambiamenti nello stato mentale del bambino sia un elemento critico nello sviluppo della capacità di mentalizzazione. La percezione da parte del caregiver del bambino come di un essere inten­ zionale è alla base del caregiving sensibile, considerato dai teorici dell’at­ taccamento come la pietra angolare dell’attaccamento sicuro (Ainsworth et al., 1978; Isabella, 1993). [...] Quello che io credo, e che è molto più importante per lo sviluppo della mentalizzazione, è che l’esplorazione dello stato mentale del caregiver sensibile consenta al bambino di tro­ vare nella mente del caregiver un’immagine di se stesso motivato da convinzioni, sentimenti e intenzioni, in altre parole, come di un essere mentalizzante. (1998, pp. 140-141) Il comportamento umano differisce da quello delle scimmie: se os­ serviamo uno scimpanzé neonato capiamo che è in grado di guardare ed esaminare con attenzione i volti degli altri membri del suo gruppo e anche di imitarne il comportamento, ma la sua attenzione è focalizzata primariamente sulla madre, che è il suo riferimento sociale preferen­ ziale. Lo sviluppo dei piccoli umani segue una linea del tutto diversa: la madre, come risaputo, è la figura centrale di accudimento nella vita di un bambino, il quale sviluppa nei suoi confronti un legame di attacca­ mento, cercando costantemente di afferrarne le intenzioni e le emozio­ ni. Tuttavia, il bambino può avere parallelamente relazioni anche con altri adulti, dei quali può controllare le espressioni e afferrare le inten­ zioni e la disponibilità all’interazione. Instaurando attaccamenti multipli, i bambini, sin dai primi mesi di vita, hanno imparato a leggere le emozioni e le intenzioni di molte per­ sone, esprimendo un fenotipo differenziato, derivante dall’interazione dinamica tra la dotazione genetica e la pressione esercitata dall’ambien­ te. Questi aspetti sono stati confermati anche da Bowlby (1969/1982), secondo il quale il bambino sviluppa una gerarchia di relazioni di at­ taccamento, avendo la madre come caregiver primario. Osservando i bambini in Africa Orientale, Mary Ainsworth (1967) ha scritto: “Quasi tutti i bambini di questo campione che avevano sviluppato un attacca­ mento nei confronti delle proprie madri durante il periodo delle no-

stre osservazioni svilupparono un attaccamento anche nei confronti di altre figure familiari - il padre, la nonna, o qualche altro adulto della famiglia, o fratello o sorella maggiore” (p. 315). Questa osservazione è stata inoltre confermata da Ainsworth e collaboratori (1978) in un cam­ pione di bambini a Baltimora; ciò suggerisce che la predisposizione del bambino è identica in Paesi diversi, a prescindere dalla peculiarità dei relativi modelli di accudimento. Questo è l’ambito dell’intersoggettività, il tema centrale del libro, che si focalizzerà sulle specifiche competenze materne di lettura della mente (così come è stata definita in senso stretto nel primo capitolo) nei confronti dei bambini, i quali apprendono, sin dall’inizio, a entrare in contatto con altri significativi. Come Hrdy (2009) ha ipotizzato, la comparsa della lettura della mente è certamente avvenuta prima della diffusione dei gruppi umani in continenti diversi, circa 70.000 anni fa. In questo contesto, come Brockway (2003) ha sottolineato, le madri più intuitive erano in grado di utilizzare una consapevolezza empatica nei confronti degli aspetti sia fisici sia psicologici del comportamento dei bambini, favorendone dunque la sopravvivenza. Certamente, le donne si sono evolute per essere più intuitive ed empatiche degli uomini, da­ to il più evidente bisogno di leggere e interpretare il comportamento dei bambini durante le pratiche di accudimento. Ciononostante, non è ancora chiaro il motivo per cui questa speciale attitudine si sia evoluta negli esseri umani e non nei nostri stretti cugini, ossia le grandi scimmie che condividono il 98% del nostro patrimonio genetico. Nonostante il quesito che ci siamo posti sia ancora senza una rispo­ sta, possiamo comunque ricordare che durante l’evoluzione dei mam­ miferi è comparsa la neocorteccia cerebrale, ossia il centro del controllo esecutivo e di pianificazione del sistema nervoso centrale. Soprattutto negli esseri umani, lo sviluppo della neocorteccia è stato promosso dal­ la dominanza ecologica, dalla competizione sociale e anche dalla mag­ giore cooperazione tra gli ominidi (Flinn, Geary, Ward, 2005). Sotto la pressione selettiva della ricerca del cibo e della complessa organiz­ zazione della vita sociale, le dimensioni del cervello sono aumentate in relazione all’ampliamento delle competenze cognitive ed emozionali. La neocorteccia è cresciuta principalmente nei primati che intrattene­ vano relazioni sociali, in particolar modo in quelli che partecipavano a gruppi più estesi (Dumbar, 1992). Nei primati, si sono ampliate specifiche regioni del cervello esecuti­ vo (le aree corticali e striate), mentre si è ridotto il volume di altre aree implicate nei comportamenti primari e immediati (come la fame, il ses­

so, l’aggressività e l’accudimento materno; Keverne, 2005). La corteccia frontale ha avuto un ruolo particolare nell’ambito di queste trasforma­ zioni, mostrando un accrescimento progressivo nel corso dell’evoluzio­ ne dei mammiferi. All’interno del processo di maturazione, la corteccia prefrontale mediale, che è implicata nel riconoscimento delle diverse emozioni (Shamay-Tsoory, Tomer, Aharon-Peretz, 2005) e nelle rappre­ sentazioni che abbiamo delle altre persone, continua a svilupparsi sino alla tarda adolescenza (Sowell et al., 2001). Vale la pena sottolineare che, a livello della genitorialità, vi è una so­ stanziale differenza tra i mammiferi (che hanno un cervello di dimen­ sioni ridotte) e i primati (che hanno un cervello di grandi dimensioni; Keverne, 2005). Tra i mammiferi, la figura di accudimento è rappre­ sentata dalla madre e il padre talvolta partecipa. In questo caso, il com­ portamento materno viene attivato in maniera consistente dall’influen­ za biologica degli ormoni gonadici sul cervello limbico, a conferma del fatto che il funzionamento materno dipende da meccanismi fisiologici, mediati, in primo luogo, dalla comunicazione olfattiva. Al contrario, i primati sono meno influenzati dagli ormoni perché “gli eventi evolu­ zionistici hanno avuto un grande impatto su tutti i comportamenti fi­ nalizzati primari, incluso l’accudimento genitoriale, nel cui ambito la gravidanza e il parto non risultano prerequisiti essenziali per una buo­ na genitorialità o, in sostanza, per la costruzione del legame con i figli” (ibidem, p. 109). I primati, soprattutto gli esseri umani che vivono all’interno di un’or­ ganizzazione sociale e familiare complessa, diventano buoni genitori in relazione alla propria esperienza personale e familiare, e all’influenza esercitata dal contesto sociale nella relazione con il bambino, il quale, a sua volta, interagisce e conferma i genitori mediante i comportamenti di attaccamento. Negli esseri umani, la connessione olfattiva alle aree cerebrali della ricompensa (reward) sociale è stata sostituita dall’atti­ vazione neocorticale in risposta ai segnali sensoriali multimodali che intervengono nella pianificazione e nella regolazione affettiva (Chiba, Kayahara, Nakano, 2001). E stato ipotizzato che il sistema oppioide en­ dogeno possa avere una grande rilevanza, specialmente durante il parto e la suzione, andando a promuovere (soprattutto per quanto riguarda la suzione) l’attitudine positiva che caratterizza il comportamento ma­ terno (Broad, Curley, Keverne, 2006). Nell’esperienza genitoriale umana il funzionamento cognitivo ed emozionale dei genitori gioca un ruolo importante, soprattutto in rife­ rimento ai modelli operativi internalizzati dell’attaccamento del sé e de­

gli altri, e alla capacità di essere connessi al bambino. La madre umana è influenzata dall’esperienza emozionale, dall’attaccamento personale, dalla famiglia, dalle relazioni sociali e dalla biologia che facilita il suo attaccamento al bambino. Tuttavia, la lunga dipendenza dei bambini - che hanno bisogno di interazioni complesse e molteplici - comporta la necessità della madre di essere aiutata da figure, come il padre e i pa­ renti, la cui partecipazione attiva è stata facilitata dall’emancipazione evoluzionistica dell’accudimento dall’influenza ormonale. Il genotipo umano ha dato origine a differenti fenotipi, influenzati dalle condizioni ambientali: queste possono indurre diverse linee di sviluppo, in modo particolare durante i periodi sensibili (Bateson et al., 2004), così come avviene durante la gravidanza e la maternità. Come abbiamo visto, il lungo processo evoluzionistico ha favorito il sistema di accudimento cooperativo, nell’ambito del quale la madre, pur rappresentando la principale figura di accudimento, viene soste­ nuta da altre figure, come il padre, i nonni e gli altri membri della fa­ miglia. Comunque, questo stesso sistema di allevamento ha modificato profondamente il funzionamento neurocognitivo umano, favorendo un lungo apprendistato, che consente ai bambini di acquisire i complessi codici delle relazioni e degli scambi nella comunità umana. Mentre nel passato erano i membri della famiglia a prendersi cura dell’educazione dei bambini, durante gli ultimi secoli sono state sviluppate particolari organizzazioni (come la scuola materna), che integrano il ruolo dei ge­ nitori. Per migliaia di anni, la maternità stessa è stata il principale mezzo utilizzato dal gruppo sociale umano per incrementare la propria consi­ stenza numerica e diventare più forte e meglio equipaggiato per il rag­ giungimento dei propri obiettivi, in termini di esplorazione, dominanza e sfruttamento del territorio. Nel tempo, la maternità ha acquisito un grande significato simbolico, riconosciuto da molte società e addirittu­ ra santificato nelle principali religioni.

L’archetipo della maternità Nel corso della storia della specie umana, la maternità ha avuto un grande valore anche a livello simbolico, dal momento che ha permesso ai gruppi umani e alle comunità di riprodursi e moltiplicarsi, intensifi­ cando le opportunità di prevalere sugli altri gruppi e dominare la na­ tura. Tra i primi prodotti artistici dell’Era Paleolitica, le statue di Ve­ nere Steatopigia, piccole figure femminili con accumulo di grasso sui

fianchi e sui glutei e grandi seni, sottolineano la fertilità della donna e le sue caratteristiche materne. E difficile dire se queste statue avessero un significato simbolico o se riflettessero piuttosto una specifica confor­ mazione fisica femminile del tempo; tuttavia, è interessante che questi oggetti siano stati rinvenuti in Siberia come in Europa, rappresentando dunque un simbolo comune e condiviso di bellezza e fertilità. In molte culture e tradizioni religiose, l’essere madre e la materni­ tà hanno diversi significati che ispirano frequenti immagini idealizzate della spiritualità materna o femminile. Le scritture religiose cristiane, giudaiche e induiste hanno ampiamente esaltato la maternità; questo è vero non solo per la figura della Madonna nella tradizione cristiana, ma anche per la Devi-Ma (la Dea Madre) nella tradizione induista. Questo concetto quasi sacro della donna e della maternità è stato ferocemente criticato nei decenni passati, in particolar modo dal movimento fem­ minista che ha sottolineato le forti pressioni esercitate dalle società tra­ dizionali sulle donne affinché si conformassero a questo ruolo sociale e fossero escluse dal mondo produttivo. Nel mondo occidentale, influenzato dalla cultura e tradizione catto­ liche, l’immagine della maternità è collegata alla Madonna, un arche­ tipo di madre che ha ispirato i più grandi artisti rinascimentali. L’atto generativo della maternità di Maria è l’Annunciazione: l’Arcangelo Ga­ briele annuncia a Maria che è stata scelta per dare alla luce il Figlio di Dio. L’Annunciazione, essendo un momento altamente simbolico per la Cristianità, ha ispirato molti artisti durante il Medioevo c il Rinasci­ mento, ognuno dei quali ha espresso il proprio concetto religioso e il talento artistico, anche se aderente alle richieste, spesso ecclesiastiche, dei committenti. Nella rappresentazione pittorica dell’Annunciazione sono presenti alcune caratteristiche costanti: l’Arcangelo è al centro, in una posizio­ ne preminente, come a indicare che la parola divina sia l’aspetto più importante di questo grande evento, mentre Maria, nella sua mode­ stia, è relegata nel proprio ruolo procreativo. L’angelo è un ambascia­ tore divino; le sue enormi ali indicano il lungo volo che ha intrapreso per raggiungere Maria sulla Terra e annunciarle la Buona Novella. La grande tromba, che è presente in alcuni quadri e che l’angelo utilizza per amplificare il messaggio di Dio, acquisisce una rilevanza specifica, in considerazione dell’importanza della missione a cui l’angelo stesso è stato assegnato. Altre interpretazioni vedono Maria come la vera at­ trice, la vera protagonista dell’Annunciazione: con modestia, intima gioia e orgoglio, accetta di essere stata scelta da Dio per dare alla luce

un bambino divino da cui dipende il destino del mondo. A volte, Maria è rappresentata in modo ieratico, con l’accento posto sugli aspetti più devozionali e sacri dell’evento, piuttosto che su quelli legati alla mater­ nità o, ancora meno, alla femminilità. La realizzazione artistica de L’Annunciazione di Pinturicchio (figu­ ra 2.1) è particolarmente pregnante di significato: l’incontro tra l’Arcangelo e la Madonna avviene all’interno di un ambiente architettoni­ co sontuoso; sopra vi è l’immagine di Dio dal quale lo Spirito Santo sta discendendo come una colomba. Sullo sfondo, una finestra si apre su un paesaggio e un borgo abitato, quasi a ricordarci dell’esistenza del mondo umano. Ma l’Annunciazione dell’Arcangelo e il dogma dell’immacolata Con­ cezione, che decreta la sacralità della maternità di Maria, hanno influen­ zato il modo in cui la maternità viene concepita nella civiltà occidentale. La fecondazione di Maria non è stata la conseguenza di un atto sessuale carnale, bensì il frutto della spiritualità, un’espressione della volontà di Dio. L’immagine della Vergine Madre ha contribuito a imporre un ar­ chetipo materno e femminile nel mondo occidentale. La Vergine Madre ha anche influenzato il concetto sociale di maternità, generando nell’in­ conscio degli uomini un’immagine santificata della madre, che, in virtù del suo essere tale, si distingue da tutte le altre donne. La psicoanalisi ha affrontato il significato simbolico dell’Annunciazione in un saggio di Ernest Jones, uno dei più brillanti allievi di Freud (“The Madonna’s conception through thè ear. A contribution to thè relation between aesthetics and religion”, 1914). Secondo Jones, l’Annunciazione ha evocato nell’inconscio infantile, soprattutto degli uo­ mini, la convinzione che la nostra nascita non sia la conseguenza di un atto sessuale ma di una concezione materna a cui il padre non ha preso parte. Questa teoria infantile maschererebbe in realtà le fantasie ince­ stuose del bambino nei confronti della propria madre, che tendono a tenere a distanza la figura paterna. L’interpretazione psicoanalitica di Jones tiene conto di un’antica tra­ dizione della Chiesa Cattolica, secondo cui Gesù è stato concepito dalla penetrazione del soffio dello Spirito Santo nell’orecchio della Vergine Maria, come ha scritto Sant’Agostino. Facendo riferimento ai testi ec­ clesiastici e alle rappresentazioni artistiche, Ernest Jones svela una serie di simboli inconsci della sessualità sublimata nell’Annunciazione. Da questo punto di vista, le parole sussurrate dall’Arcangelo nell’orecchio della Madonna potrebbero rappresentare, a livello inconscio, una pe­ netrazione sessuale: le parole che fecondano Maria rappresentano dun­

que il seme e l’inizio di una gravidanza. Il fiore, il giglio, che vediamo offrire a Maria da Gabriele nel dipinto di Pinturicchio rappresenta la purezza della Madonna e simboleggia la sessualità femminile; inoltre, come Jones ha sottolineato, la stessa perdita della verginità viene de­ finita deflorazione. Infine, nell’interpretazione simbolica di Jones, l’o­ recchio rappresenta la vagina. Tornando alle ripercussioni del dogma dell’immacolata Concezione sulla nostra cultura, tutto ciò non ha solo influenzato l’inconscio ma­ schile, ma anche milioni di donne che hanno affrontato la maternità nel

Figura 2.1 Pinturicchio, so di Immagini Corbis.

L'Annunciazione,

Cappella Baglioni, Spello. Stampata con il permes­

mondo occidentale. Probabilmente, ogni donna incinta sente di com­ piere una missione unica, che è stata riconosciuta come tale nel corso dei secoli e attraverso le culture. Ogni bambino che nasce è unico per la propria madre: arriva certamente a cambiare, se non il destino dell’u­ manità, quello della propria madre. Ecco perché ogni donna incinta si sente speciale: l’evento trasformativo della gravidanza viene ripropo­ sto nel suo corpo; lei è l’unica a sostenere quel bambino, che arriverà a realizzare i suoi sogni e a cambiare la sua vita. Non abbiamo ancora parlato di Giuseppe, il padre umano. Giusep­ pe è il padre putativo, quello che dà il nome al bambino, garantendo­ gli il riconoscimento sociale. Ma la vera filiazione è materna, come se il bambino fosse solo di Maria. In molte culture, la madre è quasi ine­ vitabilmente la figura centrale nella vita del bambino. Comunque, la ricerca cross-culturale (Bornstein, 2002,2004) ha messo in luce che le madri appartenenti a diverse culture sono tra loro più simili quando si impegnano in comportamenti di accudimento che rispondono ai biso­ gni fisici primari dei bambini, rispetto a quando si comportano in modo discrezionale, per esempio giocando con i propri figli. Di certo, questo è dovuto in parte al fatto che i bisogni dei bambini stimolano un nu­ mero limitato di risposte primarie nei genitori, indipendentemente dal contesto in cui sono nati. Durante la gravidanza, il tema della sacralità della maternità può comparire sia a livello esplicito, quando viene af­ frontato dalla donna, dalla sua famiglia o in contesti sociali, sia a livello implicito (non conscio c non verbalizzato), quando trova espressione nelle fantasie e nei sogni a occhi aperti della madre. Fava Vizziello e collaboratori (1993) hanno confermato che le madri al settimo mese di gravidanza esprimono temi narrativi o miti riguar­ danti la maternità e il bambino, che possono essere verbalizzati. Questi temi possono riguardare una funzione riparatoria e compensatoria atta a mantenere un ideale del sé stabile (per esempio il bambino arriva dal paradiso per i nonni materni), un atteggiamento difensivo per preser­ vare l’autostima personale (per esempio il bambino è come la madre, che è competente) e, infine, delle paure e ansie riferite alla gravidanza o al bambino. Le paure e le ansie sperimentate durante la gravidanza sono state raccontate in modo terrificante nel film del 1968 di Roman Polanski Rosemary’s Baby - Nastro rosso a New York. Rosemary, la protagonista, è preda dei suoi vicini, una vecchia coppia di satanisti che la manipo­ lano perché dia alla luce un bambino posseduto. La coppia la droga e, mentre è senza conoscenza, Rosemary viene violentata dal marito e ri­

mane incinta. Il neonato viene allontanato da lei. Quando Rosemary si rende conto del complotto e vede finalmente il bambino, in una culla nera, la donna anziana, in piedi accanto a lei, dice: “Se vuoi, puoi alle­ vare il bambino come se fosse tuo figlio”. Come Pines (1972) ha sottolineato, la gravidanza riattiva le dina­ miche edipiche e, nel film, queste alimentano un conflitto patologico: la gravidanza non è più una realizzazione dei desideri della madre; al contrario, questa è vittima di un insieme di genitori maligni. Infatti, Ro­ semary viene violentata dal marito ed è invasa da un essere estraneo e alieno, una presenza demoniaca che la trascina in un mondo allarman­ te e paranoide, dove ogni cosa è incerta e pericolosa. Il film avrebbe probabilmente colpito Freud, in quanto illustrazione esemplificativa del suo concetto di “perturbante”, che “suscita spavento [...] proprio perché non è noto e familiare” (1919, p. 82).

Desiderare un bambino Il desiderio di maternità (Pines, 1972, 1982) ha origini remote. Ini­ zia a delinearsi durante l’infanzia, quando la bambina si identifica con la propria madre e “gioca alla famiglia”. Dobbiamo considerare che i maschi hanno una diversa attitudine, dal momento che preferiscono giochi aggressivi e competitivi. Carol Gilligan (1982), che ha studiato 10 sviluppo delle identità maschili e femminili, ha riportato un episo­ dio, a cui lei stessa ha assistito, riguardante un’interazione tra un bam­ bino e una bambina di quattro o cinque anni, mentre giocavano insie­ me in una stanza. Il bambino, con fare risoluto, dice: “Giochiamo ai pirati”. La bambina, in modo convinto, risponde: “No, giochiamo alla famiglia”. Il bambino, annoiato, insiste: “No, non gioco alla famiglia; è noioso. Voglio giocare ai pirati”. Il “tiro alla fune” continua perché 11 bambino non si vuole arrendere. La bambina trova il modo di usci­ re àaWimpasse, dicendo: “Va bene, giochiamo al pirata che era a casa con la sua famiglia”. Comunque, una più realistica identificazione con le figure genitoriali ha luogo durante l’adolescenza, quando il maschio e la femmina hanno definito e stabilizzato il proprio orientamento affettivo e sessuale e sono in grado, identificandosi con i genitori, di prendersi cura di una crea­ tura dipendente e indifesa. Quando si verificano gravidanze durante la prima adolescenza nei Paesi occidentali, spesso ciò è dovuto a un desi­ derio narcisistico di gravidanza - la ragazza cioè sta dimostrando che il

suo corpo funziona, che è fertile come quello della propria madre - più che a un reale desiderio di maternità (Pines, 1988). Dovremo rivisitare l’area della maternità, iniziando dalla gravidanza fino ai primi anni del bambino, periodo in cui si costruisce la matrice intersoggettiva madre-bambino. Questa matrice sostiene il bambino nell’acquisizione delle competenze sociali e intersoggettive necessarie a fare parte della comunità umana. Il modello relazionale psicoanalitico ipotizza che la soggettività sia interpersonale sin dal principio e sostitui­ sce la concezione intrapsichica della mente sostenuta dalla psicoanalisi (Mitchell, 1988). In questa prospettiva viene sottolineata una contrad­ dizione tra soggettività e intersoggettività, in cui vengono incorporati i significati personali (Mitchell, 2000), piuttosto che le pulsioni radicate nella biologia. Il sistema di accudimento genitoriale si è probabilmente evoluto negli esseri umani parallelamente all’acquisizione della stazione eretta, sebbene alcuni antropologi, come Lovcjoy (1981), abbiano ipotizza­ to che la stazione eretta stessa sia originariamente risultata da una va­ riazione nella riproduzione genetica e che si sia sviluppata a causa dei vantaggi legati alla cura della prole. La specificità del legame materno potrebbe essere influenzata dalla necessità di proteggere la progenie dai predatori, così come è stato suggerito dalla teoria dell’attaccamen­ to (Bowlby, 1969/1982), ma anche dalle nascite ravvicinate e dalla dif­ fusione demografica. Alla stregua di altri primati, i bambini sono relativamente immaturi nella locomozione, ma molto precoci nello sviluppo comunicativo. Per questa ragione, i genitori umani devono prepararsi a diventare madri e padri competenti per interagire con i propri figli e comunicare con loro, sin dalla nascita. Negli esseri umani, ciò richiede una lunga pre­ parazione che inizia durante l’infanzia (con il gioco delle bambole) e raggiunge la maturazione durante la tarda adolescenza, attraverso l’i­ dentificazione con le figure genitoriali. Nell’esplorare il legame tra l’attitudine genitoriale e lo sviluppo del bambino, la teoria psicoanalitica ha sottolineato fondamentalmente il ruolo del mondo intrapsichico materno e paterno, che è influenzato in modo sostanziale da processi inconsci. Questo costrutto teorico della maternità ha i propri antecedenti nel pensiero teorico di Freud, rap­ presentato dall’ipotesi che ogni relazione vissuta - sia a livello conscio sia inconscio - con i propri genitori durante l’infanzia avrà un’influenza decisiva sullo sviluppo della personalità del bambino. Nel suo lavoro Introduzione al narcisismo, Freud tratta i ruoli genitoriali nell’ambito

DIVENTARE MADRE

dei processi intergenerazionali, focalizzando l’attenzione sui genitori con la loro “coazione ad attribuire al bambino ogni sorta di perfezio­ ni” (1914, p. 461). Nelle righe successive aggiunge:

Il bambino deve appagare i sogni e i desideri irrealizzati dei suoi ge­ nitori: il maschio deve diventare un grand’uomo e un eroe in vece del padre, la femmina deve andar sposa a un principe in segno di riparazio­ ne tardiva per la madre [...]. L’amore parentale, così commovente e in fondo così infantile, non è altro che il narcisismo dei genitori tornato a nuova vita; tramutato in amore oggettuale, esso rivela senza infingimenti la sua antica natura. (Ìbidem) E interessante notare che, all’interno del concetto di “coazione ad at­ tribuire”, si potrebbero rintracciare gli elementi precursori della succes­ siva scoperta dell’identificazione proiettiva da parte della Klein (1946). Questo meccanismo non è solo intrapsichico ma anche intersoggetti­ vo e può implicare il cambiamento dell’oggetto su cui la proiezione ha luogo, non solo nella fantasia ma anche nella realtà. Il costrutto dell’i­ dentificazione proiettiva costituisce un importante ponte tra la psicoa­ nalisi e il recente approccio intersoggettivo, poiché considera non solo la proiezione personale dei pensieri, delle convinzioni e di parte del sé sull’altra persona, ma anche il cambiamento che avviene nell’altra per­ sona in virtù della proiezione, laddove lei o lui attualizzino, senza alcuna forma di consapevolezza, le attribuzioni all’interno del proprio compor­ tamento o dei propri pensieri. Come Seligman (1999) ha accuratamente illustrato per mezzo di osservazioni dettagliate, tutto questo è partico­ larmente rilevante nella relazione genitore-bambino, dal momento che l’asimmetria nella relazione favorisce le attribuzioni materne e paterne al bambino, il quale è molto sensibile alle proiezioni genitoriali. Questo processo ha luogo durante gli scambi interattivi, nel cui ambito il geni­ tore preme attivamente affinché il bambino si comporti, senta e pensi, in modo conforme alle proiezioni. Oltre all’identificazione proiettiva, tali concetti includono anche l’empatia, il rispecchiamento, e, più este­ samente, l’internalizzazione (Seligman, 1991). Le osservazioni di Freud sono particolarmente interessanti perché, in un certo senso, smascherano l’amore genitoriale, che non è solo ge­ nerosità, abnegazione, protezione e cura del bambino, ma anche narci­ sismo, dal momento che un bambino può nascere anche per concretiz­ zare i sogni irrealizzati dei suoi genitori. Il bambino spesso personifica l’ideale dell’io dei genitori, e ciò spiega il motivo per cui i genitori ve­ dono se stessi nei propri figli e spesso hanno delle aspettative rigide, a

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causa delle quali non possono accettare che possano prendere strade che loro non avevano indicato. La psicoanalisi mette in luce i conflitti dinamici e il funzionamento inconscio della relazione tra genitori e figli, spesso sottovalutati neìYlnfant Research che tende per lo più a enfatiz­ zare le dimensioni intersoggettive e comunicative di queste relazioni. A tale riguardo, nell’illuminante scritto “L’odio nel controtransfert”, Winnicott ha esplorato l’odio materno nei confronti del proprio bam­ bino: “La madre, comunque, odia il suo piccolo fin dall’inizio. Freud, credo, riteneva possibile che una madre potesse in certe circostanze provare solo dell’amore per il maschietto, ma a noi sorge il dubbio” (1947, p. 242). Tenendo in considerazione le possibili ragioni per cui una madre potrebbe odiare il proprio bambino, Winnicott ha definito il bambino come “[...] un pericolo per il suo corpo durante la gravi­ danza e alla nascita. Il bambino rappresenta un’interferenza nella sua vita privata, una sfida alla precedente occupazione” {ibidem). Le preoccupazioni materne potrebbero essere espresse durante la gravidanza nei sogni inconsci della madre, come Ferenczi (1914) ha evidenziato in un sintetico scritto, attraverso “il rifugio delle piccole creature che albergano dentro e sul corpo [...] lo stesso vale per i ver­ mi intestinali = bambino”(p. 361). Winnicott (1947) ha spiegato come una madre affronti tutto questo: “Ciò che vi è di più notevole in una madre è la sua capacità di essere così offesa dal bambino e di odiare così tanto senza farla pagare al bambino, e la sua capacità di attendere delle ricompense che potranno o no venire in un secondo tempo” (p. 243). Un altro contributo alla comprensione dei meccanismi intersoggetti­ vi è stato offerto da Sandler (1976), il quale ha introdotto il concetto di attualizzazione o piuttosto di “un’interazione con un desiderio di ruo­ lo, con una risposta desiderata o immaginata dell’oggetto che è parte della fantasia di desiderio, come l’attività del soggetto in quel desiderio o fantasia” (p. 64). Il concetto di attualizzazione di Sandler sottolinea il tentativo principalmente inconscio di manipolare o provocare le si­ tuazioni intersoggettive così da riprodurre gli aspetti delle esperienze e delle relazioni passate nel presente. Applicando questi concetti ai ge­ nitori e ai loro bambini, Selma Fraiberg (1975) ha scritto, “Nella stan­ za di ogni bambino ci sono dei fantasmi [...] visitatori del passato non ricordato dei genitori [...] questi visitatori, ostili e non invitati, vengo­ no cacciati dalla stanza dei bambini [...] i legami d’amore proteggo­ no il bambino e i suoi genitori dagli intrusi” (p. 179). In qualche caso, potrebbe succedere che la famiglia sembri posseduta dai propri fanta­ smi, e che i genitori e i loro bambini possano trovarsi a riproporre un

momento o una scena del passato con protagonisti diversi. In queste situazioni il bambino è già in pericolo e può manifestare i primi segni di deprivazione emozionale o di attribuzione maligna, poiché schiac­ ciato dal passato opprimente dei propri genitori. In un saggio successivo, Psicologia delle masse e analisi dell’io, Freud (1921) ha considerato l’altro aspetto di questo processo madre-bam­ bino, esplorando il meccanismo dell’identificazione del bambino, che rappresenta “la prima manifestazione di un legame emotivo con un’al­ tra persona” (p. 293). Sebbene si riferisse all’identificazione con il padre della propria “preistoria” personale, con la quale “vorrebbe divenire ed essere come lui” (ibidem), Freud ha descritto questo tipo di legame nel bambino come la prima relazione che ha con la madre. La teoria psicoanalitica ha fondamentalmente evidenziato la costella­ zione intrapsichica e rappresentazionale materna, che è profondamen­ te influenzata dalle esperienze infantili della madre e dalle sue vicissi­ tudini con le figure genitoriali. In questo ambito, gli eventi relazionali e i processi di risonanza inconscia appaiono reciprocamente connessi. In questo approccio, viene data enfasi alla dimensione narcisistica dell’amore genitoriale e all’investimento pulsionale del bambino che influenza lo stato affettivo materno, soprattutto durante i primi mesi di vita. Infatti, secondo la psicoanalisi, lo sviluppo del bambino è for­ temente influenzato dalle sue pulsioni, che devono essere gratificate dalla madre al fine di garantirgli un’omeostasi di base. Nonostante ciò, la psicoanalisi ritiene che i bisogni primari del bambino siano in con­ trasto con l’organizzazione ambientale, provocando sin dall’inizio un conflitto tra i desideri individuali e le attitudini genitoriali.

Aspettare un bambino Cosa prova una donna quando scopre di essere incinta? Il primo di­ lemma che una donna deve affrontare è se avere il bambino. Nel pieno della gioia, della felicità, dell’impotenza e della paura, iniziano a veri­ ficarsi profondi cambiamenti psicologici e fisici, che portano la donna a maturare la propria identità materna. La gravidanza è caratterizzata da una complessa interazione tra fattori biologici, psicologici e sociali che hanno una risonanza significativa nel mondo materno inconscio e conscio. La gravidanza è un periodo di transizione, trasformazione e riorganizzazione personale che può dare vita a una crisi evolutiva, in­ ducendo possibili disorganizzazioni mentali. Durante la gravidanza,

LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

parallelamente ai cambiamenti nel mondo psichico e identitario, nella madre avvengono cambiamenti ormonali, neurochimici e neurobiolo­ gici. Si creano complesse rappresentazioni mentali di sé come madre e del bambino, unitamente alla costruzione del legame di attaccamento e del sistema di accudimento del bambino. La possibilità di integrare questi passaggi in modo coerente (Slade et al., 2009) è legata alle risorse mentali personali che la donna ha ac­ cumulato ed elaborato durante l’infanzia, l’adolescenza e la giovane età adulta, soprattutto in relazione ai propri genitori, in particolare la madre. Sicuramente, la storia personale degli attaccamenti della donna gioca un ruolo importante, dal momento che esiste una stretta e reci­ proca connessione tra le esperienze personali infantili di attaccamento e il successivo caregiving System genitoriale (Bowlby, 1969/1982). Come George e Solomon (2008) hanno sottolineato, il caregiving System dei genitori attiva un repertorio di comportamenti che hanno una funzio­ ne protettiva verso il bambino. La capacità di identificarsi con “una madre sufficientemente buo­ na” (Winnicott, 1953) sostiene la donna nell’affrontare la maternità, assumendo la propria madre come modello. La donna può fare men­ talmente riferimento a questo modello, ogni volta che si sente ansiosa, depressa o in difficoltà. Allo stesso tempo, una donna che ha una rela­ zione soddisfacente ed equilibrata con la propria madre non teme che questa possa entrare in competizione o interferire con la sua gravidanza. Se consideriamo il ruolo del corpo durante la gravidanza, non pos­ siamo non riconoscere la più grande permeabilità e la più stretta rela­ zione reciproca che si vengono a creare tra mondo psichico e funziona­ mento fisico: ciò viene particolarmente confermato dalle nausee e dal vomito, caratteristiche del primo trimestre e, a volte, di tutta la gravi­ danza. L’esperienza mentale della donna viene immediatamente espres­ sa e percepita a livello corporeo, nelle azioni orali e intestinali (come, per esempio, fame, senso di pienezza, voglie, digestione, escrezione), o nell’esperienza personale di vitalità (Fonagy, Target, 2007; Stern, 2010). La percezione dei movimenti fetali rappresenta per la madre un’espe­ rienza sensoriale, cinestesica e viscerale, che stimola la costruzione di una rappresentazione del bambino, strettamente radicata nel corpo. Certamente, la salute fisica come anche i fattori genetici protettivi e di vulnerabilità influenzano le esperienze corporee. Le complesse interazioni che avvengono durante la gravidanza com­ portano che non sia solo la donna la protagonista di questo periodo della vita, ma anche il suo compagno, la famiglia e il contesto sociale e

culturale che conferisce un significato simbolico alla maternità. Con­ siderando le dinamiche materne, Daniel Stern ha concettualizzato l’e­ mergenza di “un’organizzazione psichica nuova e peculiare” (1995, p. 171), la “costellazione materna”, che caratterizza non solo la nascita del bambino ma anche la gravidanza. La costellazione materna rappresenta l’asse organizzativo dominante della vita psichica materna, mentre altri sistemi motivazionali, come quello edipico, vengono messi in secondo piano. Stern (1995) ha ipotizzato che questa organizzazione menta­ le sia transitoria e implichi tre diverse preoccupazioni e discorsi, che sono internamente ed esternamente rilevanti: uno riguardo a se stessa come madre, un secondo riguardo alla propria madre, e un ultimo ri­ guardo al bambino. In questo contesto, i pensieri e le emozioni vengo­ no polarizzati su quattro temi specifici: (a) vita-crescita, concernente la sopravvivenza e lo sviluppo del bambino (“Sarò in grado di crescere il bambino?”); (b) relazionalità primaria (“Sarò in grado di amare e in­ teragire con il bambino?”); (c) matrice di supporto (“Sarò in grado di sostenere e proteggere il bambino?”); (d) riorganizzazione dell’identi­ tà (“Questa esperienza come cambierà la mia vita?”). Il costrutto della costellazione materna, originalmente basato su osservazioni cliniche, è stato recentemente validato anche dalla ricerca empirica (Innamorati, Sarracino, Dazzi, 2010). Abbiamo discusso i temi principali che si presentano durante l’espe­ rienza della maternità; tuttavia, possono essere individuate altre rilevan­ ti configurazioni in grado di predire le interazioni madre-bambino dopo la nascita. Come Raphael-Leff (2010) ha evidenziato, diversi orienta­ menti materni possono riflettere l’esperienza soggettiva della donna. Il primo orientamento è quello della Madre Facilitante, che considera la gravidanza come il culmine dell’esperienza femminile; la donna speri­ menta la maternità con grande coinvolgimento emozionale e considera il feto come un bambino a cui rivolgersi e con cui parlare, come se fos­ se un intimo compagno. La madre spera di partorire in modo naturale per evitare una separazione traumatica dal bambino. Per la Madre Regolatrice, la gravidanza viene percepita come un modo inevitabile e scarsamente emozionante di avere un figlio; questo tipo di madre tenta di mantenere le precedenti abitudini ed evita di es­ sere influenzata dalla gravidanza e da quello che considera solo un fe­ to. Il parto viene immaginato come un evento terribile e doloroso, che va quanto più trattato con assistenza medica. La terza categoria è rappresentata dalla Madre Orientata alla Recipro­ cità, ossia in grado di tollerare l’incertezza e i multiformi sentimenti che

LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

riguardano se stessa e il bambino. Questa madre è in grado di accettare l’inevitabile ambivalenza insita in ogni relazione, accogliendo i sentimen­ ti di risentimento connessi alla gravidanza e alle pratiche di accudimento. L’ultima categoria è quella della Madre Conflittuale: la donna oscilla tra un’immagine ideale e una ribellione contro questa stessa immagine. Questa donna, ancora invischiata in esperienze infantili dolorose e in una relazione conflittuale con la propria madre, manifesta sentimenti ambivalenti sia verso la maternità sia nei confronti del bambino. Come Pines (1982) ha sottolineato, la prima gravidanza può essere la fase più arricchente e vitale nel ciclo della vita di una donna, la quale può sentirsi come la Madre Terra che crea una nuova vita. Così, per una giovane donna che ha una relazione “sufficientemente buona” (Winni­ cott, 1953) con la propria madre, la temporanea regressione connessa a una identificazione primaria con la madre onnipotente, fertile e che dà vita rappresenta una fase evolutiva soddisfacente, in cui può esse­ re acquisita un’ulteriore integrazione del sé. Per altre donne, la regres­ sione stimolata dalla gravidanza e dalla maternità può invece rappre­ sentare un’esperienza ansiosa e terrorizzante. In questi casi, possono riattualizzarsi sia il desiderio infantile di unirsi con le proprie madri sia il timore di perdere la propria identità personale: ciò può indurre un parziale fallimento della differenziazione tra il sé e l’oggetto, andando a compromettere l’integrazione con la realtà adulta, così come è stato evidenziato nella precedente discussione in merito al film Rosemary’s Baby - Nastro rosso a New York. Una prima gravidanza favorisce un’ulteriore fase di differenziazione, strettamente radicata in una base biologica. “La donna diventa come la propria madre, una donna ‘fisiologica’ matura fecondata dal suo com­ pagno - e nella fantasia con sua madre -, abbastanza potente da creare la vita stessa” (Pines, 1982, p. 312). I cambiamenti fisici della gravidan­ za consentono alla donna di risperimentare a livello corporeo un’unità primaria con la propria madre e, allo stesso tempo, di distanziarsi dal suo corpo attraverso la differenziazione. La donna può quindi speri­ mentare un’ulteriore fase di separazione-individuazione.

Il bambino fantasmatico e immaginario I cambiamenti del corpo durante la gravidanza sono inevitabilmente accompagnati da una riattualizzazione dello sviluppo emozionale in­ fantile, definito da pulsioni libidiche, aggressive e narcisistiche rispetto

al sé e alle relazioni oggettuali. In questo periodo, emergono profondi conflitti legati alle precedenti fasi di sviluppo, e la donna può diven­ tare consapevole di fantasie primitive precedentemente rimosse, che derivano da teorie sessuali costruite durante l’infanzia, concernenti il proprio concepimento, la vita intrauterina e il parto (Pines, 1972). Di conseguenza, aspetti positivi e negativi del sé e dell’oggetto possono essere proiettati sul feto all’interno del corpo materno. A questo riguardo, Lebovici (1983), adottando un approccio psi­ coanalitico, ha operato un’importante distinzione tra il bambino fantasmatico e quello immaginario. Mentre il bambino fantasmatico appare nei sogni della madre, come espressione del mondo inconscio materno legato primariamente ai conflitti edipici con i suoi genitori, il bambino immaginario rappresenta la costruzione conscia e frequentemente con­ divisa che i genitori si creano, a partire dalle loro percezioni del bam­ bino e dai desideri che lo riguardano. Queste immagini del bambino, che sono presenti durante la gravidanza, interagiranno dopo il parto con il bambino reale, favorendone una più realistica rappresentazione. Per illustrare il significato di questa concettualizzazione, presentia­ mo una vignetta clinica di una donna incinta. Angela è una madre ventottenne, intervistata durante l’ottavo mese di gravidanza. Angela sta affrontando la sua prima gravidanza da sola, perché la sua famiglia di origine risiede in un’altra città. Rispetto alla decisione di avere un bambino, dice: “Beh, lo volevo veramente. Ho sempre adorato i bambini; siamo stati sposati per due anni e sembrava il momento giusto per me - lo era davvero, lo volevo. Non so quanto lo volesse veramente mio marito”. Angela ha anche deciso di rinunciare al lavoro per dedicarsi completamente al bambino, anche se questa scelta è stata criticata dai suoi suoceri. Era “terrificata” all’idea che i suoceri sapessero della sua gravidanza, mentre è stato diverso con sua madre, con cui aveva sempre avuto un rapporto molto aperto. Suo marito “era felice”, dice, “ma credo di averlo costretto”. Ogni tanto ha degli incubi e ha paura del parto: teme di dare alla luce un bambino malformato, ma non può parlarne con nessuno, nemmeno con suo marito che le è molto vicino. Ha iniziato ad avvertire i movimenti fetali verso il quarto mese; non vuole sapere il sesso del bambino e immagina, a volte, che sia un maschietto e, a volte, una bambina. Lei e suo marito non sono ancora riusciti a scegliere un nome; non riesce a immaginare o sognare come sarà il bambino. Quando immagina il bambino dopo la nascita, si pone molte domande, pensa alla scuola, a quando lui o lei sarà cresciuto/a, ma poi si sente di sognare troppo a occhi aperti. Vorrebbe un bambino

tranquillo e contento, “un piccolo essere che è ancora passivo”; Ange­ la è un po’ preoccupata di non avere alcuna esperienza con i neonati, dal momento che ha avuto modo di vedere un neonato per la prima volta solo la settimana precedente. Ila incontrato un bambino molto vivace di cinque o sei mesi, e questo la spaventa. Riguardo la propria infanzia, racconta del divorzio dei suoi genitori, sottolineando che non aveva nessun tipo di relazione con il padre, mentre le cose erano molto diverse con la madre. Questa donna era sempre molto occupata in ca­ sa, e lei e i suoi fratelli dovevano stare sempre buoni, in silenzio e calmi. Angela ritiene che con il suo bambino sarà diversa, che avrà più tempo; è per questo che ha lasciato il lavoro: “Voglio dedicarmi al mio bambi­ no, forse perché è quello che mi è mancato da bambina”. Sembra che Angela abbia affrontato la gravidanza come una propria scelta, forse una missione, che ha intrapreso da sola contro il volere del marito e dei suoceri. Accudire il bambino costituirà una sorta di compensazione per le deprivazioni e il dolore vissuti durante la propria infanzia; si tratta di un bambino ideale segreto, che vive in lei ma che non ha ancora una faccia, un sesso o un nome. Questo “bambino immaginario” (ibidem) è inevitabilmente un “pic­ colo essere passivo” che Angela crea nella propria mente attraverso le fantasie consce. Il bambino è l’oggetto del desiderio narcisistico mater­ no, in grado di dare alla madre una completezza personale che le con­ sente di vincere il proprio senso di inadeguatezza e fallimento. Tuttavia, Angela sembra impaurita dal bambino che sta per nascere; teme che pos­ sa essere troppo vivace e aggressivo, il “bambino fantasmatico” (ibidem) che riattualizza il suo sé infantile, non riconosciuto e pieno di rabbia e risentimento, per non essere stato sufficientemente considerato e amato. In una successiva intervista, più focalizzata sulle sue esperienze di attac­ camento infantili, Angela racconta della propria vita in una piccola città di provincia, con un padre severo che lavorava in casa. Lei e i suoi fra­ telli condividevano una stanza angusta e non potevano muoversi. Con i genitori “non c’era relazione” e, aggiunge, “forse è per questo che ho deciso di dedicarmi completamente al bambino, perché mio padre non c’era praticamente mai [...] lui stava su un piedistallo e non ti potevi av­ vicinare”. Sua madre era molto disponibile, ma doveva lavorare molto, troppo. Da bambina, Angela sapeva di non potere chiedere nulla, e di non potersi aspettare nulla da nessuno, “... già solo il fatto di parlarle di qualcosa che volevo per me significava avere una buona relazione”. Nel corso dell’intervista, il poter parlare del padre ha iniziato a tur­ barla sempre di più: “È molto difficile per me parlarne, mio padre ha

lasciato la casa [...] santo cielo, mi fa stare così male che per me è ancora difficile parlarne”. Angela piange e racconta che, quando aveva tredici anni, suo padre ha abbandonato la famiglia per una giovane donna che viveva nello stesso palazzo, e con la quale ha creato una nuova famiglia. Da quel momento Angela ha smesso di vederlo; non lo ha mai perdona­ to per averla lasciata, ma poi si corregge immediatamente e dice: “Per avere lasciato mia madre”. Durante la gravidanza Angela contatta suo padre per dirgli del bam­ bino: quando il bambino nasce, lo chiama dalla clinica, ma lui non va a trovarla. Durante l’intervista, emerge tutta la sua delusione adolescen­ ziale, data dal rifiuto da parte del padre della sua femminilità; suo pa­ dre, infatti, ha scelto un’altra giovane donna che era poco più grande di lei. Avendo queste vicissitudini in mente, potremmo supporre che Angela abbia tentato, attraverso la gravidanza, di dare un figlio al pro­ prio padre, con l’intenzione inconscia di farlo tornare a casa: dunque, di riuscire laddove sua madre aveva fallito. Angela può avere cercato di risolvere le proprie fantasie messianiche attraverso il bambino, e la sua gravidanza è iniziata con il desiderio segreto di riconquistare il padre dandogli un bambino, così come aveva fatto la giovane donna con cui se ne era andato. Angela ha visto fallire miseramente le proprie aspettati­ ve, perché il suo bambino reale, dopo la nascita, non ha personificato e attualizzato le sue fantasie. Angela ha quindi semplicemente continuato a vivere nella segreta attesa di un bambino messianico. Questa vignetta clinica illustra il significato del bambino fantasmatico per il mondo mentale di una donna incinta, dal momento che il bambino ripropone inevitabilmente le dinamiche mentali e i conflitti edipici connessi alle figure genitoriali {ibidem).

Le rappresentazioni materne Il concetto di rappresentazione mentale ha giocato un ruolo chia­ ve nello sviluppo della psicoanalisi, della ricerca clinica e della spe­ culazione teorica. Tutto ciò è già chiaro negli scritti di Freud, ma una spiegazione più completa di questo concetto teorico è stata formula­ ta da Sandler e Rosenblatt (1962). Secondo questi autori, la “rappre­ sentazione” implica due concetti separati: un’organizzazione mentale interna stabile, una mappa interna che raccoglie e integra tutte le im­ magini mentali e le disposizioni relazionali tra il sé e gli altri; in secon­ do luogo, i contenuti e le caratteristiche cognitivo-affettive di queste

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immagini, che si collocano all’interno di ogni esperienza personale. Un aspetto più controverso è il modo in cui il processo di internalizzazione ha luogo. Questo implica la costruzione di un mondo mentale interno, es­ senzialmente separato dalla realtà esterna, che dà significato alle espe­ rienze personali, per fare previsioni e per prendere decisioni sui com­ portamenti futuri. Nella formazione delle rappresentazioni è difficile stabilire quanto peso debba essere attribuito alle esperienze direttamente connesse alla realtà e alle fantasie inconsce. Quando si considera la gravidanza nello specifico, si deve tenere presente che l’identità femminile di una donna deve confrontarsi con un processo di trasformazione e riorganizzazione psicologica che porta all’acquisizione di un’identità materna, sostenuta dalle rappresentazio­ ni di sé come madre e del futuro bambino, anche se non ancora nato (Ammaniti et al., 1999; Raphael-Leff, 2010; Slade et al., 2009). Durante la gravidanza il compito centrale della donna è rappresentato dalla rie­ laborazione del rapporto con la propria madre, mentre si sviluppa un senso di connessione con il bambino e, allo stesso tempo, se ne ricono­ sce la separatezza. La rappresentazione del bambino è contemporanea ­ mente sia integrata all’identità materna sia separata da essa. Secondo Sandler e Sandler (1998), le rappresentazioni del sé e degli altri vengono costruite sulla base delle esperienze relazionali quotidiane con le altre persone, che vengono internalizzate come rappresentazioni reciproche. Le rappresentazioni mentali vengono “colorate” dagli af­ fetti che danno loro la profondità e il profilo, come avviene in un pae­ saggio. Questo punto di vista è stato enfatizzato dalla psicoanalisi in­ tersoggettiva e relazionale contemporanea, che cerca di mettere in luce le complesse interazioni tra le esperienze relazionali esterne e interne. Negli anni recenti, la ricerca ha proposto interviste e sistemi di codi­ fica che valutano e classificano le rappresentazioni mentali del bambi­ no (Aber et al., 1985; Benoit, Parker, Zeanah, 1997; George, Solomon, 1996; Zeanah, Benoit, 1995). Tuttavia, la maggior parte di questi stru­ menti esplora le attitudini genitoriali dopo la nascita. Solo un ristretto numero di studi si è focalizzato sulle rappresentazioni materne durante la gravidanza, con lo scopo di valutare le dinamiche mentali delle ma­ dri e identificare i markers della relazione postnatale madre-bambino (Ammaniti, Tambelli, 2010; Fava Vizziello et al., 1993; Lis et al., 2004; Raphael-Leff, 2010; Stern, 1995). L’interesse a studiare ed esplorare le dinamiche psicologiche du­ rante la gravidanza è connesso alla possibilità sia di riconoscere gli stili

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genitoriali che possono predire le attitudini e i comportamenti dopo la nascita (Bùrgin, Von Klitzing, 1995; Carneiro, Corboz-Warnery, Fivaz-Depeursinge, 2006; Fonagy et al., 1991; Raphael-Leff, 2010), sia di scoprire i fattori di rischio e vulnerabilità in grado di interferire negati­ vamente con il caregiving System (Borjesson et al., 2007; Ross, McLean, 2006; van Bussel, Spitz, Demyttenaere, 2009). Le interviste semistrutturate, come l’intervista sulle Rappresentazio­ ni Materne in Gravidanza - versione rivista (iRMAG-R; Ammaniti, Tarnbelli, 2010), esplorano il mondo mentale materno. Questa intervista, somministrata tra il sesto e il settimo mese di gravidanza, esplora le rap­ presentazioni mentali della donna, focalizzandosi sulle sue esperienze passate, su come ha affrontato la gravidanza e la maternità, e su come ha progressivamente creato un’immagine del feto e del futuro bambi­ no. La struttura narrativa dell’intervista viene codificata per considerare le rappresentazioni della donna riferite a sé come madre e al bambino, basandosi su sette dimensioni mentali. L’esplorazione delle rappresentazioni materne durante la gravidan­ za attraverso l’iRMAG-R ha confermato empiricamente i modelli teori­ ci costruiti a partire dalle osservazioni cliniche (Bibring, 1961; Pines, 1972; Raphael-Leff, 1993, 2010): il modello rappresentazionale Integrato/Equilibrato, che è il più comune nei campioni normali, quello Ristretto/Disinvestito, e, in ultimo, quello Non-Integrato/Ambivalente. L’intervista stimola la narrazione della donna riguardo l’esperienza della gravidanza e del diventare madre, esplorando le rappresentazio­ ni mentali di se stessa come madre e del futuro bambino. Le interviste non vengono valutate rispetto ai contenuti, bensì rispetto all’organiz­ zazione narrativa. Durante il corso dell’intervista, vengono poste domande sulle se­ guenti aree relative all’esperienza personale: ( 1 ) il desiderio della don­ na e della coppia di avere un bambino; (2) le reazioni emotive della donna, della coppia e degli altri membri della famiglia alla gravidanza; (3) le emozioni e i cambiamenti nella vita della donna, della coppia e in relazione alle famiglie di origine, durante la gravidanza; (4) le perce­ zioni, le emozioni positive e negative, le fantasie materne e paterne, e lo spazio interno psicologico per il bambino; (5) le aspettative future e gli eventuali cambiamenti di vita; (6) la prospettiva storica personale. La ricerca ha evidenziato rappresentazioni materne differenziate (Ammaniti, Tambelli, Odorisio, 2013), che saranno illustrate median­ te l’utilizzo di diverse vignette cliniche, raccolte durante le interviste con madri al settimo mese di gravidanza.

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Una madre in attesa con una rappresentazione integrata La rappresentazione Integrata/Equilibrata è una narrazione coeren­ te dell’esperienza personale che la donna sta vivendo, ricca di episodi e fantasie che comunicano un intenso coinvolgimento emozionale, in un’atmosfera di flessibilità e apertura nei confronti delle trasformazio­ ni fìsiche, psicologiche ed emozionali con le quali la donna stessa si sta confrontando. La relazione con il bambino è già presente durante la gravidanza, e il bambino viene considerato come una persona con mo­ tivazioni e un’indole proprie. La storia di Martina esemplifica perfettamente il modello di Madre Integrata. Nelle sue risposte, si coglie l’importanza che dà alla gravidan­ za, sulla quale ha concentrato tutte le forze e l’investimento. Nelle sue parole traspare una grande capacità di riconoscere i propri stati men­ tali e quelli del marito, come se avesse la consuetudine a confrontarsi con se stessa e con le persone che la circondano.

D: Mi racconta la storia della sua gravidanza? R: E una gravidanza voluta, voluta pienamente, anche perché ho più di trent’anni. Io sono sposata, separata, e adesso convivo con quest’uomo che mi dà più serenità. Ho sempre desiderato avere un figlio, e quindi o lo facevo adesso o decidevo che la mia vita sarebbe rimasta senza figli, perché più in là sarebbe stato più faticoso, secondo me. Allora ho fatto tutti gli accertamenti un anno prima, mi sono preparata; ho tolto la spirale, poi ho aspettato due mesi. Insomma, è stata proprio una cosa voluta. Quando so­ no rimasta incinta, avevo appena cambiato lavoro, perché in previsione di voler avere un figlio sono passata da un lavoro a tempo pieno a un lavoro part-time. Volevo avere più tempo, anche perché ho parecchi interessi, fac­ cio ginnastica artistica e tante altre cose, e non penso che avendo un figlio uno debba fermarsi completamente; certo uno si dedica a questo bambino, ma deve fare anche le proprie cose. D: Come ha affrontato questa gravidanza? R: Fisicamente ho avuto qualche problemuccio. Psicologicamente l’ho affrontata bene. Cioè sei un po’ sconvolta, e penso che questo succeda a tutti perché c’è qualcosa di nuovo, e qualcosa che non riesci a capire profondamente, soprattutto quando vai a fare la prima ecografia, che ha pochissime settimane e vedi un ragnetto piccolo che si muove. E poi questo bambino che ti cresce dentro, adesso, per dire, sento il piedino che si muove, oppure tante cosette così. Ti dà i calci, e quindi ti senti una cosa strana e dici: “Oddio mi è cresciuto dentro un bambino”. Insomma non è strano, ma è una cosa che ti sorprende. Cioè alla fine tu fai un bimbo che poi diventa un essere umano come sono io rispetto a mia madre e quindi è una cosa che ti

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sorprende. Però veramente io l’ho accettato da subito; avevo tanta voglia di avere un figlio, di vivere questa esperienza; poi è anche importante il fatto che questa persona con cui sto mi dà una grande tranquillità.

In queste poche frasi, la narrazione di Martina fornisce un’immagine coerente della sua storia personale e del desiderio di avere un bambi­ no, che può essere ora soddisfatto all’interno della sua nuova relazione. La sua narrazione comunica anche un forte coinvolgimento affettivo che conferma la descrizione della “Madre Facilitante” di Raphael-Leff (1993): “Non appena si accorge di essere incinta, si abbandona alla grande emozione della gravidanza, tenendosi lontana dalle situazioni e dalle sostanze che lei teme possano essere dannose” (p. 66). D: Mi racconti un po’ come si è sentita quando ha saputo di essere incinta. R: Quando l’ho saputo, dal momento che avevo delle difficoltà oggettive di lavoro, non sapevo se essere contenta o no. Poi ho pensato che tutto si ag­ giusta, nel senso che, di fronte a un problema di tempo, di lavoro, se uno poi vede il figlio rapporta tutto al figlio. All’inizio resti un po’ stupito, an­ che perché è una cosa che ti dicono e che non senti; ti senti come sempre, normale, finché non cresce un po’ di pancia. D: Quando ha notato i primi cambiamenti del suo corpo? R: Questa è una cosa che tutti mi chiedono. Allora, nei primi mesi, tipo a quattro mesi, quando si comincia ad avere un po’ la pancia. A quel punto la pancia non si vede bene, ti senti solo un po’ ingrassata e ti senti un po’ bruttina. Adesso che ho la pancia grossa invece non ho problemi: se passo davanti allo specchio me la vedo.

Con queste parole, Martina sottolinea l’importanza dei cambiamenti del corpo durante la gravidanza: all’inizio, per lei è stato diffìcile adat­ tarsi a tali cambiamenti; più tardi, questi sono diventati la prova tan­ gibile e rassicurante che il suo bambino stesse crescendo dentro di lei.

I): Ci sono stati momenti di particolare emozione durante la gravidanza, fino a ora? R: Certe volte mi viene una grande tristezza: non so se è una cosa normale le­ gata alla gravidanza. Per esempio, notavo che mi impressiono più facilmen­ te e recepisco molto di più. I): Ha paure specifiche? R: Forse ho paura che abbia dei problemi, dei difetti, però non è una paura molto grande, cioè io sono convinta che partorirò una bambina bellissima. Non lo so come è che ne sono convinta. I): Ha fatto sogni relativi alla gravidanza? R: Un sogno che mi ricordo, di poche sere fa, è che io avevo delle perdite di sangue dalla bocca, non capisco il perché. Comunque, quando sogno, mi vedo incinta, sì, adesso sì, sogno sempre, anche se me li ricordo poco i sogni.

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Con queste risposte, Martina esprime le caratteristiche oscillazioni emozionali della gravidanza (Pines, 1972) e le paure dei possibili difet­ ti o malformazioni del bambino, che sono anche le tipiche preoccupa­ zioni descritte da Winnicott (1956) degli ultimi mesi della gravidanza. Il sogno esprime la paura che la gravidanza possa essere interrotta, at­ traverso l’espulsione del feto dalla bocca.

D: Quando si è resa conto che c’era una bambina dentro di lei, che cosa ha provato? R: Come le ho detto prima, molto stupore. E in questo periodo, sarà che leg­ go molto, che faccio molte cose, mi sento molto creativa. Alessandro (il suo compagno) mi ha detto: “E certo, è il periodo più creativo!”. E allora io gli ho detto questa frase: “Effettivamente se ci pensi io e te abbiamo creato una bambina, creata dal nulla perché prima non c’era niente”. D: E la consapevolezza che c’era questa creatura è arrivata con i primi movi­ menti? R: Con i primi movimenti, ma soprattutto da un mesetto a questa parte, cioè adesso la sento proprio, sento che c’è un essere dentro. D: Come immagina la sua bambina? R: Bella. Immagino che esce ed è bella, e chiaramente poi dorme. Deve dor­ mire qualche mese di seguito. E poi dopo me la immagino calma, simpati­ ca, soprattutto sempre sorridente. D: Caratteristiche fisiche? R: Me la immagino alta, magra. E poi me la immagino bionda, con gli occhi chiari. Insomma bella, proprio bella. D: Potrebbe dire che fra lei e la bambina si sia già creato un rapporto? R: Non lo so, io le canto la ninna nanna, anche perché me la invento. Io ci parlo, ma in termini molto semplici, tipo: “Come stai?”, parlo nella mia testa più che a voce. La mattina le dico: “Ora ti canto una ninna nanna, stai tranquilla”. Martina, come molte altre donne in questa fase della gravidanza, può già immaginare il volto della bambina e attribuirle specifiche ca­ ratteristiche psicologiche. Allo stesso tempo, parla alla propria figlia come se stessero condividendo una conversazione, che anticipa i loro scambi futuri.

D: Di che cosa pensa abbia bisogno nei primi mesi? R: Soprattutto di molto affetto, di molto amore, di molta attenzione, nei pri­ mi mesi soprattutto. Insomma, di sentirsi in un ambiente caldo, pieno di ' attenzioni, seguita, molto accettata. D: Che tipo di madre immagina di essere nei primi mesi? R: Nei primi mesi vorrei essere tollerante, disponibile. Mi immagino di essere molto stimolante per la bambina, molto affettuosa.

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La narrazione di Martina mostra come la gravidanza sia per lei una maturazione della propria identità femminile, a cui si è preparata con un forte desiderio di maternità. La sua esposizione si presenta fluida e coerente, e dimostra una buona capacità di leggere i propri sentimenti e quelli del partner, anche con un certo grado di ironia. Il suo mondo di fantasie e sogni sembra piuttosto ricco; esprime i propri timori nei confronti dell’aborto nel sogno in cui la sua bocca sta sanguinando. Tut­ tavia, sembra capace di analizzare le proprie paure e ansie depressive. Ha un’immagine definita della sua bambina e dimostra di essere stata in grado di instaurare un dialogo con lei, come se lei fosse una compagna immaginaria con cui parlare o cantare. Ci sono molti elementi di sovrap­ posizione con la Madre Facilitante descritta da Raphael-Leff (2010).

Una madre in attesa che cerca di limitare l’impatto della gravidanza La rappresentazione Ristretta/Disinvestita emerge da narrazioni in cui prevale un controllo emozionale, con meccanismi di razionalizza­ zione nei confronti del diventare madre e del bambino. Queste donne parlano della loro gravidanza, della maternità e del bambino in termini poveri, senza molti riferimenti agli eventi emozionali e ai cambiamenti. Il racconto presenta una qualità impersonale, è frequentemente astratto e non comunica emozioni o particolari immagini o fantasie. Flaminia è una giovane donna che mostra una rappresentazione Ri­ stretta di sé come madre e del figlio. Pur dando valore alla propria esperienza di maternità, Flaminia vuole infatti mantenere la propria indipendenza e il proprio autocontrollo e non vuole farsi condizionare troppo dal figlio che sta per nascere. I ): Mi potrebbe raccontare la storia della sua gravidanza? R: Io devo dire che sono stata molto fortunata, perché non ho avuto proble­ mi. Anche nei primi tre mesi, i soliti problemi di nausea, vomito eccetera, non li ho avuti. Ho fatto delle cose che di solito sconsigliano di fare, sono andata a sciare, sono andata in moto... però stavo bene, insomma, sentivo di poterlo fare. Però i primi tre mesi sono stati caratterizzati da un nervo­ sismo piuttosto frequente, da uno stato di tensione. Dopo i primi tre me­ si cominciavo forse ad abituarmi all’idea, quindi mi sono calmata; conti­ nuavo a non avere problemi. E poi diciamo che piano piano, con grande difficoltà, cominciavo anche ad abituarmi all’idea della trasformazione del mio corpo.

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D: Come mai un bambino in questo momento della sua vita? R: Ci ho pensato molto, perché non mi sentivo pronta nonostante non sia più una ragazzina. Insomma, ero sempre dell’idea che non avrei avuto figli. Non è che sia un’appassionata di bambini, non mi hanno mai attirato. Poi però, un po’ perché forse dopo tanti anni di matrimonio una sente questa necessità, un po’ perché anche mio marito, che come me non era dell’idea, si è convinto... insomma tutta una serie di cose che porta a prendere questa decisione. Flaminia sembra aver accettato l’idea di una gravidanza dopo un certo numero di anni di matrimonio, più come un bisogno, come una risposta a certe aspettative sociali, che per il suo desiderio di un bambi­ no, dal momento che non ha mai veramente amato i bambini. Cerca di non farsi influenzare dalla sua nuova condizione e continua a praticare attività che, come ammette, non sono indicate durante la gravidanza. L’atteggiamento di Flaminia sembra corrispondere a quello descritto da Raphael-Leff (1993) in relazione alla Madre Regolatrice “che desi­ dera regolare la propria vita” (p. 67).

D: Come si è sentita quando ha saputo di essere incinta? R: Io per carattere sono un tipo molto freddo, non mi entusiasmo facilmen­ te, per cui anche questa cosa non mi ha entusiasmato... Se era per me non l’avrei detto a nessuno, l’avrei tenuto per me. Dovevo prima abituarmi io all’idea. D: Ci sono stati momenti di particolare emozione durante la gravidanza? R: Forse quando ho fatto un’ecografia verso il quarto mese, quella in cui si rie­ sce a distinguere qualche cosa di questo essere che cresce e riesci a vederlo nel suo insieme. Però ecco, appunto, è stata come un’emozione di riflesso, vedendo come l’aveva presa mio marito. E quindi, vedendo lui come rea­ giva in questo modo, mi sono lasciata un po’ influenzare da questo stato d’animo e posso averla vissuta come se fosse stata una mia emozione. D: Durante la gravidanza ci sono stati momenti in cui si c sentita preoccupata o arrabbiata per qualcosa? Ha mai sentito il bisogno di qualcosa in parti­ colare? R: Adesso non mi viene in mente niente. Le preoccupazioni di tutti, di più sulla salute di questo bambino. D: Ha fatto sogni durante la gravidanza? R: Sì, ma non li ricordo mai i sogni. Nell’ultimo che mi ricordo, mangiavo dello yogurt, ma sinceramente non so cosa possa voler dire. Riguardo al coinvolgimento affettivo, Flaminia si descrive come una. persona fredda, che non si lascia trasportare dalle emozioni; nel sottoli­ neare che le sue eventuali preoccupazioni sono quelle che generalmente hanno tutte le donne, si rileva il tentativo di razionalizzare e generaliz­ zare la propria esperienza.

Come immagina il suo bambino? Non lo immagino. Immagina le caratteristiche fisiche, il temperamento? No. E il sesso? Il sesso neanche, non l’ho voluto sapere e non ci voglio neanche pensare. Sarà una sorpresa. D: Succede che lei e suo marito parliate con il bambino o lo chiamiate con un nomignolo? R: Sì, succede però è più mio marito che gli parla, non tanto io, perché, nonostante senta che c’è un legame con lui, ancora non riesco a parlargli. D: R: D: R: D: R:

La narrazione di Flaminia esprime lo sforzo di non farsi influen­ zare o coinvolgere dalla gravidanza, contando sulle sue abitudini per evitare il processo di regressione, tipico di questa fase (Pines, 1972). Sembra non riuscire a creare un’immagine del bambino, tanto che non vuole neanche conoscerne il sesso, come se volesse tenerlo in uno spa­ zio neutrale: una specie di limbo. Durante l’ecografìa, le sue reazioni emotive sono state condizionate da quelle espresse dal marito, come se non fosse in grado di avere dei sentimenti propri: questo quadro può essere sovrapposto a quello della Madre Regolatrice descritta da Raphael-Leff (2010).

Una madre in attesa combattuta tra desiderio e paura La rappresentazione Non-Integrata/Ambivalente viene rilevata nelle narrazioni confuse, caratterizzate da digressioni e dalla difficoltà della donna a rispondere alle domande in modo chiaro e articolato. La coe­ renza del racconto è molto povera ed è caratterizzata da un coinvolgi­ mento ambivalente della madre nei confronti dell’esperienza che sta vivendo, del partner e della famiglia. Spesso queste donne esprimono atteggiamenti contrastanti verso la maternità o il bambino, che viene frequentemente atteso per soddisfare i bisogni dei genitori. Roberta, una giovane donna di ventinove anni, è un esempio di ma­ dre Non-Integrata. L’idea di avere un figlio trova spazio in lei fra mille ambivalenze e incertezze, mostrando tutte le difficoltà che una madre Non-Integrata manifesta nell’assumere pienamente un’identità materna. I ): Mi racconta la storia della sua gravidanza? It: All’inizio avevamo molti progetti egoistici che venivano sempre prima di tutto il resto, perché abbiamo iniziato senza nulla, e pensavamo:

“Penseremo più in là a un bambino”. Così, diciamo, non era un pensiero, dal momento che entrambi non avevamo un chiaro desiderio di un bambino all’inizio. Poi, quando le cose hanno iniziato a funzionare, ci siamo guardati negli occhi e ci siamo detti: “Che cosa ne pensi? Ho già trent’anni”. E lui non lo voleva, lui aveva deciso che era già vecchio quando ci siamo sposati; lo aveva già stabilito. Così ha avuto qualche difficoltà, diceva di non voler essere un nonno... lui aveva questi problemi, queste paure che io non avevo, le mie erano completamente diverse... come aiuterò mio figlio a vent’anni, a scuola o a trovare un lavoro, per esempio. Adesso io sono completamente terrorizzata da come fare le cose... l’asilo, le persone con cui uscirà... perché sappiamo cosa vuol dire, e la mentalità non è “Vivi alla giornata”; forse mi preoccupo troppo delle cose che mi circondano. Ecco perché dicevo: “Aspettiamo”; poi un bel giorno questa decisione è arrivata. “Che cosa ne pensi?”, “Forse sì, è ora”, ci abbiamo scherzato... “È ora di assumersi delle responsabilità”... così quando ho iniziato a pensarci, ho cominciato a chiedere in giro: “Quanti bambini avete, quanto avete impiegato”... eccetera. La narrazione di Roberta svela gli elementi di ambivalenza e conflit­ to con cui ha affrontato la gravidanza: da un lato, voleva un bambino; dall’altro, sembra opporsi a questa idea perché teme la maternità. Per questi motivi, cerca rassicurazione da altre donne, quasi non fosse an­ cora completamente convinta della propria scelta.

D: Durante la gravidanza ci sono stati dei momenti in cui si è sentita preoccu­ pata da qualcosa? R: All’inizio, dopo un mese e mezzo, ho cominciato ad avere problemi di nausea, disturbi allo stomaco, salivazione eccessiva, così dopo due mesi ho iniziato a pensare: “Perché mai l’ho fatto?”. Perché mi sentivo veramente male. [...] Pensavo: “Che gravidanza terribile sto per avere?”, perché c’è chi dice “Tutto finisce presto” e chi invece “Ho vomitato fino al nono me­ se”. [...] Il mio medico diceva “E soprattutto una questione psicologica”. Da una parte lo abbiamo voluto, ma dall’altra forse c’era un fondo di veri­ tà, perché mi sentivo molto in imbarazzo a dirlo al mio capo; non sapevo proprio come dirglielo. D: Come si è sentita quando ha scoperto di essere incinta? R: Me ne sono accorta dopo solo una settimana ed ero lì a chiedere all’infermiera: “Ma è proprio sicura?”, perché forse è come con i test della farmacia che sono incerti. In farmacia mi hanno detto che se è sicuro, quando appare chiaramente è positivo; quando è incerto potrebbe essere positivo o negativo. Ero così eccitata perché non è... mi dicevo: “Non è possibile”. [...] In laboratorio, il medico ha detto: “Guardi, lo stick non diventa rosa se non è positivo”; così niente, questo coso era rosa... “Se lo dice lei, deve essere così, me lo garantisce, quando esco di qui posso dirlo a mio marito. ”

La notizia della gravidanza ha creato incertezza e ambivalenza in Roberta: è come se non fosse consapevole di quello che sta accadendo nel suo corpo e, ancora una volta, ha manifestato il bisogno di ricevere conferme da qualcun altro.

D: Ci sono stati particolari momenti di emozione durante la gravidanza? R: Sì, quando ho fatto l’ecografia al quarto mese, quando hanno detto: “Que­ sto è il battito del cuore” e sul monitor c’era questa immagine confusa... ma quando abbiamo visto la testa, io assolutamente non immaginavo che avrei potuto vedere il profilo. Mi ha fatto davvero una strana impressione vederlo... D: Ci sono sogni che ricorda di questo periodo della gravidanza? R: Sì, mi rendo conto che sogno di più, ma per lo più si tratta di brutti sogni. I sogni sono a volte tristi, a volte brutti, davvero brutti. D: Che cosa ha provato quando ha capito che c’era un bambino dentro di lei? R: Felicità, perché ho pensato che c’è, quindi devo stare attenta a quello che faccio, a fare le cose per non... Il primo periodo, per esempio, ero molto ansiosa e ho avuto dolori terribili allo stomaco e avevo paura che anche il bambino sentisse dolore. D: Come immagina questo bambino? R: Desiderare è diverso da immaginare. Come lo immagino... non lo so... im­ magino un bambino brutto e scuro, con i capelli scuri; come vorrei che fos­ se, invece, è diverso... ovviamente bello e con gli occhi chiari, bello; vorrei che non somigliasse a me. D: Immagina il bambino come un maschio o una femmina? R: Lo immagino maschio, ma spero che sia una femmina.

Roberta appare molto ambivalente nei confronti della gravidanza e del suo bambino. Da una parte, lo desidera, ma dall’altra è molto an­ siosa circa il suo futuro. Non può ancora definire le proprie aspettati­ ve: immagina che sia un maschio, ma preferirebbe una femmina. Non riesce a integrare i suoi sentimenti ambivalenti e mostra delle oscilla­ zioni. Questo quadro corrisponde alla descrizione clinica della Madre Conflittuale di Raphael-Leff (2010). Dopo questi esempi clinici, dobbiamo fare riferimento a una ricerca sulle rappresentazioni mentali durante la gravidanza (Ammaniti et al., 2013), che ha dimostrato che, in campioni di donne in attesa e senza fat­ tori di rischio, la categoria più rappresentata è quella Integrata (56.7%), mentre quella Ristretta raggiunge il 24.3 % e quella Ambivalente il 19%. Nei campioni a rischio (depressivo e psicosociale), la distribuzione è in­ vece molto diversa: la categoria più frequente è l’Ambivalente, ossia defi­ nita da un approccio conflittuale nei confronti della gravidanza (36.9%), seguita da quella Ristretta (32.9%) e, infine, da quella Integrata (30.2%).

Le categorie materne sono caratterizzate da diverse costellazioni psi­ chiche: in questo caso, stiamo utilizzando il termine proposto da Stern (1995) di “costellazione materna”, ossia l’insieme delle diverse strate­ gie e dinamiche mentali che organizzano l’esperienza personale della maternità. Come è stato evidenziato, la categoria Integrata/Equilibrata rappresenta la strategia mentale più coerente, mentre le altre due de­ notano una minore flessibilità nell’affrontare la nuova esperienza della maternità. Lo stile materno è influenzato da molti fattori: la storia per­ sonale della donna, così come il suo modello di attaccamento, la rela­ zione coniugale e il sostegno familiare e sociale. La qualità delle categorie materne avrà un notevole impatto sulla relazione madre-bambino (Aber et al., 1999; Slade et al., 1999) e avrà un ruolo significativo nel determinare il senso di sicurezza del bambino nella sua esperienza con la madre (George, Solomon, 1996; Zeanah et al., 1994). Di certo, un atteggiamento conflittuale durante la gravidanza può predire, con una certa attendibilità, la presenza di difficoltà nelle condotte di accudimento materno e di fattori di rischio per l’interazio­ ne tra madre e bambino. E dunque fondamentale poter riconoscere i fattori di vulnerabilità materna durante la gravidanza: in questo periodo, infatti, è già possi­ bile iniziare un intervento di sostegno in grado di modificare l’atteg­ giamento delle madri, aiutandole a contenere le proprie ansie e paure, soprattutto nell’ultimo trimestre.

Sogni a occhi aperti Sogni a occhi aperti-Come la fantasia trasforma la nostra vita è il tito­ lo di uno straordinario libro di Ethel S. Person, che esplora l’area della fantasia, ossia un filtro mentale che dà vita e colore alla vita mentale e che “assume molti aspetti: sogni sul futuro, sogni a occhi aperti, castelli in aria, fantasticherie, figure, vicende immaginarie, scenari di vario ti­ po” (1995, p. 11). E una vita soggettiva intimamente privata e segreta, che crea storie immaginarie sulla propria esperienza personale, sulla propria famiglia e sulle altre persone. In altre parole, potrebbe essere definita come un dialogo interno, che crea un teatro interno fantasti7 co che ambisce a soddisfare desideri sessuali, aggressivi e di grandezza personale, o a dare forma alle speranze personali. La segretezza delle fantasie è una caratteristica intrinseca che Freud (1907) ha sottolineato:

L’adulto [...] si vergogna delle sue fantasie e le nasconde agli altri, coltivandole entro di sé come cose assolutamente private e intime: in genere preferisce confessare le proprie colpe piuttosto che comunicare le proprie fantasie. Può darsi che per questa ragione egli si ritenga il so­ lo che inventi tali fantasie, non sospettando la generale diffusione negli altri di creazioni del tutto corrispondenti. (P. 377) Attraverso la gravidanza e i primi mesi del bambino, una donna vi­ ve con un’infinità di pensieri consci e fantastici. Questi si presentano perché i cambiamenti fisiologici e psicologici indotti dalla gravidanza e dalla maternità generano percezioni, processi ideativi, sentimenti, fan­ tasie consce e inconsce sul sé, sulla relazione di coppia, la famiglia di origine e, ovviamente, il bambino. Queste fantasie possono essere espresse nei sogni a occhi aperti, che possono comparire nei momenti di attesa, durante i quali la madre cer­ ca di immaginare il viso e l’aspetto del suo bambino. Spesso, questi so­ gni a occhi aperti vengono poi discussi con il partner, e si concentrano sulla scelta del nome del bambino, sul suo sesso (se non conosciuto), sulle somiglianze e differenze dalle famiglie della madre e del padre, e sulla preparazione del corredino e della nuova riorganizzazione della casa. Parafrasando l’espressione di Winnicott, Soulé (1991), in uno dei suoi saggi, ha proposto l’immagine della “madre che lavora sufficientemente a maglia”, una madre che dà libero sfogo alle proprie fantasie sul bambino, mentre lavora a maglia avendo in mente il bambino che deve nascere. Come Soulé ha scritto, la madre non dà solo vita al bambino, ma ne costruisce anche il “contenimento”, che deve essere preparato in anticipo per prefigurare e anticipare la realtà personale. Dobbiamo sottolineare che le fantasie hanno un ruolo fondamenta­ le, perché non aiutano solo a prefigurarsi il futuro: un esempio è la ma­ dre che, durante la gravidanza, si immagina mentre accudisce e allatta il bambino, di cui fantastica il volto, preparandosi dunque all’incontro con lui. Come dimostrato da Singer (1966) nel suo libro Daydreaming, un’immaginazione che manipola simboli comporta la capacità mentale di creare possibilità, oltre l’evidenza, della percezione attuale e di sug­ gerire, soprattutto per il futuro, alternative al mondo reale delle perso­ ne, dei luoghi e delle cose. Può succedere che le fantasie si concentrino sulle paure di partorire un bambino malato o “deficitario” e che queste vengano superate do­ po la sua nascita; altre paure, per esempio legate aUa propria inadegua­ tezza a prendersi cura del bambino, saranno invece superate quando la madre inizierà ad accudirlo concretamente.

La dialettica tra le fantasie materne e la realtà della gravidanza e del periodo del post-partum, così come tra le fantasie personali e condivise, crea una dimensione profonda e intima che caratterizza l’esperienza del­ la maternità. La specificità di questa esperienza è stata espressa da Winnicott (1971) nel concetto fecondo ma elusivo di “spazio potenziale”:

Tale luogo non è all’interno, in qualunque modo si usi questa parola Non è neppure al di fuori, vale a dire che non è parte del mondo ripudiato, del non-me, ciò che l’individuo ha deciso di riconoscere co­ me effettivamente esterno (a prezzo di ogni difficoltà e anche di dolore), che è fuori dal controllo magico. (P. 83, corsivo originale) [Lo spazio potenziale è un’area intermedia dell’esperienza che si col­ loca tra] il mondo interno [e] la realtà effettiva esterna (p. 84) [ossia] tra l’oggetto soggettivo e l’oggetto percepito oggettivamente, tra le estensionidel-me e il non-me. (P. 173, corsivo originale) [Questa area] è un prodotto delle esperienze della singola persona (lattante, bambino, adolescente, adulto) nell’ambiente di cui dispone. (P. 183, corsivo originale) All’interno di questo spazio potenziale si sviluppano i pensieri e le fantasie della gravidanza: questi processi, tuttavia, possono essere vani­ ficati laddove si verifichi una difficoltà a mantenere viva tale dialettica. Se si raggiunge un buon equilibrio tra questi due aspetti dell’esperienza, le fantasie personali vengono inserite in una realtà condivisa che viene solo arricchita dalle fantasie. In questo spazio, le rappresentazioni del sé come madre e del futuro bambino prendono corpo e si differenzia­ no, acquisendo profondità. Questo è il caso di Luisa, una trentenne che parla della propria gra­ vidanza dicendo: “Ha sconvolto tutti i miei ritmi e mi sentivo bloccata”. Racconta di come, durante gli ultimi mesi della gravidanza, non potesse pensare a niente eccetto che al bambino; prima di addormentarsi, pro­ vava a immaginarlo e a visualizzarne l’aspetto. Guardando l’ecografia, aveva l’impressione che il bambino potesse essere soffocato dalla sua pancia, perché viveva in una situazione completamente diversa dalla sua: “Non è all’aperto, non può vedere la luce e non può muoversi co­ me faccio io”. E interessante notare le fantasie claustrofobiche di Lui­ sa riguardo il figlio: queste sono probabilmente legate alla sua infanzia, quando la madre la soffocava con attenzioni e cure eccessive. Nelle situazioni in cui la dialettica tra il mondo soggettivo e la realtà esperita fallisce, può avere luogo un’inflazione del mondo fantastico. Questo può oscurare il bambino reale, al quale vengono attribuiti po­

teri salvifici che, più tardi, interferiranno con lo sviluppo dell’identità attraverso fattori ego-alieni (Winnicott, 1969).

Pensare per due Le interviste hanno dimostrato chiaramente che le Madri Integrate sono in grado di avere in mente il proprio bambino non ancora nato; sono capaci di avere immagini psichiche differenziate del bambino, con il quale intrattengono un dialogo come se fosse già presente fuori dal loro grembo, di attribuirgli emozioni e intenzioni, di cercare di dare un senso ai suoi movimenti e di interpretarli. L’approccio delle Madri Ristrette è molto diverso: sembrano incapaci di avere un’immagine del bambino, e lo trattano solo come un feto, non come un individuo con cui relazionarsi e dialogare. Questa specifica competenza materna potrebbe essere attribuita alla mentalizzazione, che, nella prima concettualizzazione, ha enfatizzato gli aspetti cognitivi (Frith, Happé, 1994; Harris, 1989; Jurist, 2008), sotto­ lineando la consapevolezza dei pensieri e delle convinzioni più dei de­ sideri. La mentalizzazione si riferisce alla capacità personale esplicita e implicita di riconoscere i propri e gli altrui stati mentali e di distinguer­ li dal comportamento. Più tardi, con il contributo di Fonagy (200lb), la mentalizzazione, definita anche “funzione riflessiva”, ha incluso la capacità di riconoscere pensieri, emozioni, desideri e bisogni anche in altre persone, e di rendersi conto di come questi eventi interni possano avere un impatto sulle azioni personali e sugli altri, pur essendo sepa­ rati da quelle stesse azioni. In questo contesto teorico, il funzionamento riflessivo è stato descrit­ to come la capacità di riflettere sugli stati mentali degli altri all’interno della relazione attuale (Fonagy et al., 2002; Slade, 2005). Nel caso del­ le madri, durante la gravidanza, queste possono immaginare il bam­ bino come un individuo dotato di intenzioni, sentimenti e desideri e, allo stesso tempo, riconoscerne gli stati mentali e le emozioni. La fun­ zione riflessiva è un aspetto cruciale del meccanismo interpretativo in­ terpersonale, una qualità umana unica di processare e interpretare l’e­ sperienza interpersonale e di darvi senso (Fonagy et al., 2002). Aspetti importanti della funzione riflessiva sono l’atteggiamento empatico e la risonanza emozionale con le emozioni e i bisogni del bambino, e, dun­ que, la capacità di rispecchiarne in modo appropriato gli stati mentali dopo la nascita.

Il costrutto della funzione riflessiva va distinto da quello della metacognizione, dal momento che non considera solamente i processi meta­ cognitivi, come l’assunzione della prospettiva soggettiva dell’altro e la distinzione tra apparenza e realtà (Hesse, 2008), ma anche l’esperienza emozionale all’interno di una relazione.1 L’attenzione nei confronti del concetto di funzione riflessiva è stata promossa da una ricerca (Fonagy et al., 1991), volta allo studio dei modelli di attaccamento in un cam­ pione di madri e padri. Questo studio ha evidenziato una grande varia­ bilità nella funzione riflessiva materna. Mentre alcune madri potevano riflettere sulla relazione tra gli stati mentali dei propri genitori e il loro comportamento (separando chiaramente l’esperienza dei loro genitori dalla propria), altre manifestavano una carente comprensione dei sen­ timenti e delle motivazioni dei propri genitori. Questa capacità ha una grande rilevanza per la madre e per la rela­ zione con il bambino. Come Slade ha scritto: “La capacità della madre di contenere nella sua mente la rappresentazione del bambino come do­ tato di sentimenti, desideri e intenzioni propri consente al bambino di scoprire la sua esperienza interiore nella ri-presentazione materna” (2008, pp. 305-306, corsivo originale). Nell’area della mentalizzazione, si sovrappongono diversi concetti e, per questa ragione, sarebbe utile tracciare delle distinzioni teoriche ed empiriche. Come Arnott e Meins (2008) hanno puntualizzato, biso­ gnerebbe distinguere le rappresentazioni che padri e madri hanno del bambino da quelle relative a se stessi come genitori dotati di mentaliz­ zazione (mind-mindedness), ossia in grado di concepire il bambino co­ me un “agente mentale”. La mind-mindedness è stata operazionalizzata (Meins, 1997) come la tendenza delle madri a focalizzarsi sulle qualità mentali dei propri bambini, piuttosto che sulle loro caratteristiche fisi­ che o sul comportamento. Inizialmente, la mind-mindedness materna è stata valutata dopo il parto; solo recentemente la ricerca di Arnott e Meins (2008) ha esplorato questa qualità prima della nascita del bam­ bino. Durante la gravidanza i genitori possono percepire il bambino come un essere separato (ritenendo che il feto possa agire indipenden­ temente dalla madre) e interpretarne i movimenti come l’espressione delle sue intenzioni e dei suoi desideri. In questo studio, ai genitori in attesa è stato chiesto di descrivere il bambino a sei mesi dopo la nasci­ ta. L’aspettativa era che i genitori più capaci di riconoscere il bambino 1. Questo concetto sarà discusso nel dettaglio nei capitoli seguenti, per chiarire il significato, il contesto e le basi neurobiologiche delle diverse rappresentazioni mentali.

DIVENTARE MADRE

come un individuo separato durante la gravidanza sarebbero stati più in grado di prevederne il comportamento a sei mesi. La ricerca ha evidenziato una correlazione positiva tra il numero dei commenti forniti dalle madri durante la gravidanza alla domanda “de­ scrivi il tuo bambino” e la loro capacità di interpretarne in maniera ap­ propriata gli stati mentali durante le interazioni a sei mesi dal parto. Un simile dato è stato rilevato anche nei padri, sebbene questi fossero meno in grado di discriminare gli stati mentali del figlio. Allo stesso tempo, i risultati suggeriscono che il coinvolgimento emozionale dei genitori con il feto non implica la loro capacità di immaginarne le caratteristiche fu­ ture o di interagire con lui in modo mind-minded. La conclusione dello studio enfatizza come lo sviluppo della mind-mindedness genitoriale sia profondamente influenzato dalla capacità della madre di rappresentarsi il feto come un bambino potenziale e intenzionale. Esiste un legame tra la funzione riflessiva e la regolazione affettiva: una madre con questa capacità può infatti sviluppare un modello men­ tale per l’esperienza emozionale del bambino, il quale potrà acquisire la capacità di autoregolazione affettiva.

3 Cure e preoccupazioni materne

Secondo la psicoanalisi e le teorie sull’apprendimento sociale, il bambino svilupperebbe un legame con la madre poiché questa lo nutre (Freud, 1909; Sears, Maccoby, Levin, 1957); il piacere che il bambino sperimenta in relazione alla soddisfazione di questo bisogno sarebbe as­ sociato alla presenza della madre. Bowlby (1980) ha proposto una nuova spiegazione, osservando il modo in cui i bambini sviluppano un attac­ camento nei confronti delle persone che non li alimentano. La cornice teorica di Bowlby fornisce un’interpretazione molto diversa, fondata sul­ le teorie evoluzionistiche: il legame del bambino non è connesso all’ap­ prendimento sociale, ma deriva piuttosto dal desiderio biologicamente fondato di mantenere la prossimità fisica con la figura di attaccamento. La motivazione intrinseca del sistema di attaccamento porta il bambino a mantenere la vicinanza fisica con la madre, attraverso comportamenti che si correggono secondo lo scopo (goal-corrected behaviors). Secondo Bowlby (1979), le emozioni sono strettamente associate all’attaccamento:

Molte delle emozioni più intense sorgono durante la formazione, il mantenimento, la distruzione e il rinnovarsi di relazioni di attaccamen­ to. La formazione di un legame è descritta come l’innamoramento, il mantenimento di un legame come l’amare qualcuno, e la perdita di un partner come il soffrire per qualcuno. In modo simile, una minaccia di perdita genera angoscia e una perdita affettiva causa sofferenza; ognuna di queste situazioni inoltre può provocare collera. L’incontestato perdu­ rare di un legame è sentito come fonte di sicurezza e il rinnovarsi di un legame come motivo di gioia. (Pp. 137-138) Il sistema motivazionale dell’attaccamento mantiene complesse re­ lazioni con gli altri sistemi comportamentali: tra questi, Bowlby ha sot-

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LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

tolineato il valore del caregiving System, il quale è “come il comporta­ mento di attaccamento [...] in qualche modo programmato” (1956, p. 271). Il caregiving System è connesso all’accudimento e alla prote­ zione dei bambini, pur non coprendo l’intera gamma dei comporta­ menti genitoriali. Nel definire il caregiving System, Cassidy (2008) ha considerato solo i comportamenti che si attivano quando i genitori percepiscono che il bambino è in pericolo, con lo scopo di promuo­ verne la vicinanza e la rassicurazione. Mayseless (2006) ha proposto una definizione più puntuale di caregi­ ving System, in base alla quale i modelli mentali relativi all’accudimento

(a) si basano sulle esperienze attuali all’interno delle situazioni legate all’accudimento; (b) servono a regolare, interpretare e predire i compor­ tamenti correlati all’accudimento, i processi mentali e i sentimenti, sia di chi riceve sia di chi fornisce le cure; (c) riflettono la realtà, ma la creano e la regolano anche; (d) sono in parte flessibili e possono essere aggiornati dalle nuove esperienze e daU’autoriflessione; (e) coinvolgono molteplici e distinti sistemi di memoria: procedurale, semantica ed episodica, a vari livelli di consapevolezza e con vari gradi di investimento affettivo; e (f) riflettono l’attivazione di vari processi difensivi, atti a proteggere il care­ giver da un’ansia insostenibile e dalla sofferenza psicologica. (Pp. 28-29)

Certamente, un genitore può avere diversi modelli di accudimento con ogni figlio: questi possono riflettere la specifica storia della relazio­ ne, l’ordine di nascita e le caratteristiche del bambino. Nelle madri l’attivazione del caregiving System viene sollecitata da diversi segnali, connessi alle loro condizioni biologiche e ormonali (so­ prattutto durante la maternità), alla storia personale infantile in rela­ zione ai propri genitori, alle rappresentazioni di sé come genitore, alla qualità della regolazione emozionale e alla relazione con il partner e la famiglia di origine. Anche la condizione personale del bambino e il suo attaccamento possono stimolare il caregiving System, considerando che le specifiche caratteristiche del volto infantile si sono evolute per atti­ vare il coinvolgimento genitoriale. Non è facile distinguere i fattori psicologici e ormonali che, durante la gravidanza, interagiscono rinforzandosi reciprocamente. Fleming e collaboratori (1997) hanno esplorato i correlati ormonali ed esperienziali della responsività materna durante la gravidanza e il puerperio. Il primo obiettivo di questa ricerca tentava di verificare se durante la gra­ vidanza le madri umane presentassero un cambiamento nella respon­ sività materna prima della nascita del bambino, così come osservato in altre specie mammifere. Il secondo obiettivo era stabilire se esistesse 84

una relazione tra i cambiamenti nei sentimenti e negli atteggiamenti ma­ terni e i cambiamenti ormonali. La propensione ad accudire il bambino è stata esplorata attraverso un questionario che indagava le attitudini verso la gravidanza e il parto, l’autostima e altre relazioni interpersona­ li, e che è stato inviato alle madri in diversi momenti: durante il primo, secondo e terzo trimestre gestazionale, alla fine della gravidanza, e poi nel primo e terzo mese dopo il parto. Durante la gravidanza sono stati evidenziati dei cambiamenti signifi­ cativi in diverse aree materne concernenti la cura del bambino, mentre sono state rilevate trasformazioni limitate nell’area della relazione con il proprio partner e con la propria madre. Tra il primo e il secondo trime­ stre della gravidanza, è stalo evidenzialo un effetto significativo e rile­ vante nell’ambito dei sentimenti per il feto; durante tutta la gravidanza, invece, è stato osservato un aumento progressivo delle attitudini psico­ logiche verso il bambino. Un’interessante conclusione della ricerca ha sottolineato che, durante la gravidanza, non esiste una correlazione tra gli ormoni materni e la propensione materna, soprattutto in relazione ai sentimenti di attaccamento al feto. Solo i sentimenti di attaccamento materno nel post-partum sono risultati correlati agli ormoni gravidici. Sulla base di questi risultati si potrebbe ipotizzare che i cambiamenti nell’attitudine materna durante la gravidanza possano essere spiegati dai cambiamenti nel funzionamento emozionale e cognitivo, più che dalle trasformazioni ormonali. Questi dati sottolineano una differenza tra la crescita della responsività materna negli esseri umani rispetto a quella di altri animali, che appare invece fortemente condizionata dalla componente ormonale (Corter, Fleming, 1995). Questi dati trovano un’ulteriore conferma nell’aumento dei senti­ menti positivi materni verso il feto, durante il secondo trimestre del­ la gravidanza, ossia nel momento in cui le madri iniziano a percepire i primi movimenti fetali (Fleming et al., 1997). La ricerca di Fleming e collaboratori {ibidem) ha indagato l’attaccamento materno al feto, an­ che se va sottolineato che è stato difficile definire i sentimenti verso il feto come equivalenti all’attaccamento, così come rappresentato nella cornice teorica proposta da Bowlby (1969/1982). Negli ultimi venti anni, la ricerca ha largamente evidenziato come la relazione tra una madre e il proprio bambino inizi a svilupparsi prima che questo nasca; ciononostante, il significato dell’attaccamento materno-fetale non è stato ancora adeguatamente studiato e concettualizzato. E interessante notare che il concetto di attaccamento materno-fetale non è stato oggetto di studio dei ricercatori e dei professionisti clinici

operanti nel campo dell’attaccamento. Questo aspetto è confermato dal fatto che nell’indice analitico della seconda edizione del Manuale dell’Attaccamento, edito nel 2008 a cura di Cassidy e Shaver, non è stato inserito il termine “attaccamento prenatale”. Il concetto di attaccamen­ to materno-fetale compare piuttosto nell’ambito dell’ostetricia, dove gli operatori e i ricercatori hanno la possibilità di osservare l’attitudine affettiva e la capacità di concern' delle madri verso il feto, il quale, nel corso della gravidanza, diventa sempre più una presenza importante all’interno del mondo mentale materno. Rivisitando la letteratura re­ cente in questo ambito (Alhusen, 2008; Brandon et al., 2009; Cannella, 2005), proveremo ora a muoverci all’interno del campo decisamente contraddittorio che ha caratterizzato la teorizzazione e la ricerca sull’at­ taccamento materno-fetale. Ripercorrendo le fasi della definizione teorica di attaccamento materno-infantile, dovremmo innanzitutto prendere in considerazione lo studio di Kennell, Slyter e Klaus (1970), che ha fornito una conferma indiretta all’attaccamento prenatale, rilevando il grande dolore speri­ mentato dalle madri di bambini morti durante il parto. Nello stesso periodo, Lumley, un epidemiologo perinatale austra­ liano, intervistando madri primipare nel corso dei tre trimestri della gravidanza, ha messo in luce come queste donne fossero in grado di rappresentarsi mentalmente i propri bambini, costruendone un’imma­ gine sempre più definita (Lumley, 1972). L’introduzione dell’ecografia durante la gravidanza ha portato Lumley a esaminare l’impatto dell’im­ magine ecografica del feto sul legame madre-bambino (Lumley, 1980). Le osservazioni di Lumley hanno confermato che questa precoce im­ magine stimola l’abilità materna di riconoscere il feto come “una pic­ cola persona” (1990, p. 215). Lumley ha condotto il suo primo studio longitudinale sull’attaccamento prenatale, utilizzando interviste prima e dopo la nascita del bambino, evidenziando le attitudini dei genito­ ri primipari verso i loro figli, definendo l’attaccamento materno come una “relazione con il feto instaurata nella fantasia”, il quale veniva per­ cepito come una “persona reale” (Lumley, 1982, p. 107) nel 30% delle madri nel primo trimestre gestazionale, nel 63 % nel secondo trimestre e nel 92% a partire dalla trentaseiesima settimana gestazionale. L’os­ servazione del ritardato attaccamento materno è stata attribuita ai sin­ tomi spiacevoli della gravidanza e alla mancanza di sostegno affettivo 1. Il termine “concern * fa riferimento alla capacità della madre di prendersi cura del bambi­ no e di averlo in mente.

da parte dei compagni delle donne. Questi primi risultati hanno senza dubbio il merito di avere definito l’attitudine psicologica della madre e la propensione verso il proprio bambino durante la gravidanza, fa­ vorendo, più tardi, la concettualizzazione di attaccamento prenatale. Un ulteriore passo in avanti è stato condotto da Rubin (1967a, 1967b, 1975), un’infermiera operante in un reparto di maternità, che ha esplorato lo sviluppo dell’identità materna nelle donne, contribuen­ do dunque a definire le basi della definizione teorica di attaccamento prenatale. Il legame materno inizia prima della nascita del bambino e influenza profondamente la successiva relazione tra madre e neonato. Rubin ha identificato quattro compiti evolutivi che le donne devo­ no superare prima della nascita del bambino: (1) cercare una via sicura per sé e per il bambino; (2) assicurarsi che il bambino sia accettato an­ che dagli altri familiari; (3) legarsi; (4) dare se stessa. Nonostante Ru­ bin non abbia fatto riferimento a nessun concetto specifico della teoria dell’attaccamento, i quattro compiti evolutivi sottolineano le attitudini materne considerate rilevanti durante l’esperienza della maternità, che risultano parzialmente sovrapposte alla costellazione dell’attaccamen­ to. Un breve commento sull’ultimo concetto: il “dare se stessa” implica il processo mentale attraverso cui la donna include la rappresentazio­ ne del proprio bambino all’interno delle rappresentazioni che ha di se stessa come madre, sviluppando un “senso del noi” (we-ness; Rubin, 1975, p. 149). È interessante notare che il concetto del “senso del noi” era stato precedentemente trattato, in un contesto diverso, dallo psi­ coanalista George Klein ( 1967 ), il quale aveva sottolineato come la psi­ coanalisi avesse bisogno di una teoria del “senso del noi” per integrare la sua teoria dell’io. E durante la gravidanza il “senso del noi” rappre­ senta una qualità specifica del mondo mentale materno. Sebbene Rubin non abbia esplicitamente utilizzato il termine “attac­ camento”, questa autrice ha comunque scritto: “Dalla fine del secondo trimestre di gravidanza, la donna diventa così consapevole del bambino che ha dentro di sé e gli attribuisce un così grande valore, poiché sente di avere qualcosa di molto caro, di molto importante per lei, qualcosa che le dà un enorme piacere e orgoglio” (1975, p. 145). Nello stesso periodo Leifer (1977), uno psicologo americano che ha introdotto un approccio psicologico, ha preparato un’interessan­ te e documentata monografia che riporta le osservazioni tratte da uno studio sui cambiamenti psicologici osservati durante il corso della gra­ vidanza. La più significativa acquisizione teorica dello studio è che la gravidanza e la maternità possano essere viste come differenti compiti

evolutivi, che vengono affrontati in modi diversi, predittivi della quali­ tà dell’acquisizione dell’identità materna dopo la nascita. Lo studio di Leifer ha diversi scopi: (a) identificare i cambiamenti psicologici nelle donne durante la loro prima gravidanza, valutando la crisi psicologica potenziale durante la gravidanza e la maternità; (b) descrivere il deli­ nearsi dei sentimenti materni; e (c) valutare, durante la prima fase della gravidanza, la qualità delle precoci attitudini materne che possano esse­ re predittive sia dei comportamenti e degù adattamenti delle fasi succes­ sive della gravidanza sia della capacità di assumere il ruolo genitoriale. Il complesso e articolato studio longitudinale di Leifer è stato con­ dotto su un campione relativamente piccolo di donne primipare bian­ che, appartenenti alla classe media, con un’età compresa tra i ventidue e i trentatré anni, senza precedenti problemi ginecologici o psichiatrici, e che vivevano con i propri compagni. Queste donne sono state inter­ vistate a ogni trimestre della gravidanza, al terzo giorno dopo il parto e al secondo mese dopo il parto, completando poi anche un questio­ nario di follow-up. L’enorme mole di dati, ottenuti dall’intenso calen­ dario delle interviste e dalle misure di personalità, dimostra come, du­ rante la gravidanza, si verifichino profondi cambiamenti, caratterizzati da un rilevante sconvolgimento emozionale e da rapide oscillazioni di identità; allo stesso tempo, però, le donne sperimentano un senso cre­ scente di coerenza interna, soddisfazione e integrazione personale. La ricerca ha evidenziato come il livello di integrazione della personalità, acquisito all’inizio della gravidanza, sia predittivo della successiva ma­ turazione psicologica nel corso di tutta la gravidanza stessa e nelle pri­ me fasi della genitorialità. Successivamente Cranley (1981), un’infermiera ricercatrice, ha cer­ cato di elaborare e definire il costrutto teorico di attaccamento materno-fetale come “la misura in cui le donne si coinvolgono in comporta­ menti che rappresentano forme di affiliazione e interazione con il loro figlio non ancora nato” (p. 282). Cranley ha inoltre scritto: “Essenziale per questo sviluppo è la considerazione dell’identità della donna, la sua identità di ruolo, l’identità del suo feto in via di sviluppo, e, forse anco­ ra più importante, la relazione tra se stessa e il feto” {ibidem, p. 281), sottolineando dunque la centralità della trasformazione identitaria del­ la donna durante la gravidanza. La natura e lo sviluppo di questa rela­ zione materna, definita come attaccamento prenatale, sono indicatori importanti che possono essere correlati con l’attaccamento postnatale. Avendo tutto ciò in mente, Cranley (1981) ha sviluppato la Maternal-Fetal Attachment Scale (MFAS), la prima scala di valutazione dell’at­

taccamento prenatale, comprendente diverse dimensioni (per esempio Differenziazione tra il Sé e il Feto, Assunzione del Ruolo, Interazione con il feto, Attribuzione di caratteristiche al feto), e attualmente ancora molto utilizzata dai ricercatori interessati agli studi prenatali. Questa cornice concettuale, sufficientemente definita, ha stimolato l’interesse di un’infermiera ricercatrice, Muller (1990), che però non era soddisfatta dell’approccio della Cranley, ritenendolo eccessivamen­ te focalizzato sui comportamenti e poco sui pensieri e sulle fantasie da cui prendono forma le dinamiche del processo affiliativo tra una madre e il feto. Nel suo lavoro, Muller ha dato un’altra definizione di attacca­ mento prenatale, definendolo come “l’unica relazione affettiva che si sviluppa tra una donna e il suo feto. Questi sentimenti sono indipen­ denti dai sentimenti che la donna prova verso se stessa come persona incinta o verso se stessa come madre” (ibidem, p. 11). Muller ha pro­ posto un diverso modello di attaccamento in gravidanza, secondo cui una donna incinta è profondamente influenzata dalle esperienze pre­ coci con la propria madre (o il suo caregiver primario): queste espe­ rienze influenzano profondamente lo sviluppo delle rappresentazioni materne, risultando estremamente rilevanti sia per l’adattamento alla gravidanza sia per l’attaccamento al feto. Inoltre, Muller ha costruito e proposto un nuovo strumento, il Prenatal Altachment lnventory (pai), che misura l’attaccamento prenatale al fine di esplorare l’unica e spe­ cifica relazione che si sviluppa tra una madre e il suo feto: un attacca­ mento affettuoso (Muller, 1993). Il processo di definizione di attaccamento prenatale non era ancora concluso, probabilmente perché la concettualizzazione non era stata sufficientemente convincente. Un altro ricercatore, John Condon (1993), non convinto della descri­ zione concettuale di attaccamento materno-fetale proposta da Cranley, ha deciso di costruire direttamente il proprio approccio alla teoria dell’attaccamento prenatale, accettando la visione allargata di attacca­ mento proposta da Bretherton, ossia come di un “legame emoziona­ le” o “legame psicologico” a uno specifico oggetto: tale prospettiva ha reso l’attaccamento materno-fetale un costrutto teorico maggiormente coerente (Bretherton, Waters, 1985; Condon, 1993). Secondo Condon, durante la gravidanza, le madri sviluppano uno specifico attaccamen­ to, definito da un profondo legame emozionale: nell’ambito di questa relazione, le madri cercano “di conoscere, di essere con, di evitare la separazione o la perdita, di proteggere, e di riconoscere e soddisfare i bisogni del feto” (Condon, Corkindale, 1997, p. 359).

Condon (1993) ha sviluppato un nuovo strumento per valutare l’at­ taccamento prenatale, considerando l’inadeguatezza degli strumenti precedenti nel differenziare l’attitudine materna verso il feto dall’atti­ tudine verso la condizione della gravidanza e della maternità. Per que­ sta ragione, la su&MaternalAntenatalAttachmentScale (MAAS) tendeva a focalizzare l’attenzione esclusivamente sui pensieri e sui sentimenti materni rispetto al bambino. La concettualizzazione dell’attaccamento prenatale non è ovviamen­ te ancora soddisfacente; anche la definizione proposta da Doan e Zimmerman, che tiene presenti diversi approcci comportamentali, cogni­ tivi ed emozionali, non risolve la questione: “L’attaccamento prenatale è un concetto astratto, che rappresenta una relazione affiliativa tra un genitore e il feto, potenzialmente presente prima della gravidanza, cor­ relata alle abilità cognitive ed emozionali che consentono di concepire mentalmente un altro essere umano, e si sviluppa all’interno di un si­ stema ecologico” (2003, p. 110). Una possibile spiegazione per questo lungo percorso che abbiamo delineato è la mancanza di una concettualizzazione teorica dell’attac­ camento materno-fetale, adeguatamente sostenuta dalla ricerca con evidenze empiriche consistenti. In una rassegna sulla ricerca nel cam­ po dell’attaccamento materno-fetale, Alhusen (2008) ha recentemente concluso che la maggior parte degli studi condotti in quest’area pre­ senta evidenti limiti metodologici e procedurali (come la carente defi­ nizione operazionale del costrutto, la mancanza di campioni omogenei nella ricerca e l’inadeguata considerazione del contesto), che ostacola­ no sia una comprensione esauriente sia la conferma dell’attaccamento materno-fetale. Gli studi condotti in questo campo, che fanno uso del­ le scale precedentemente menzionate, non considerano aspetti impor­ tanti - come, per esempio, l’avere o meno programmato la gravidanza, le dinamiche della relazione coniugale e l’età gestazionale (Shieh, Kravitz, Wang, 2001) -, che potrebbero essere particolarmente rilevanti per l’attaccamento materno-fetale.

Il caregiving System dal punto di vista della teoria dell’attaccamento Sebbene il termine di attaccamento materno sia stato largamente impiegato da numerosi ricercatori in riferimento al periodo prenata­ le (Condon, 1993; Cranley, 1981; Muller, 1993), questo concetto, nel

contesto della gravidanza, ha un significato psicologico più ampio, ri­ spetto a quello utilizzato nella cornice della teoria dell’attaccamento. A questo riguardo, sarebbe più utile riconsiderare la formulazione concettuale originale del comportamento di attaccamento, introdot­ ta da Bowlby (1969/1982): un comportamento che promuove la vici­ nanza alla figura di attaccamento; un legame di un individuo con un altro individuo, percepito come protettivo e più forte, come lo è, per esempio, il legame del bambino con la propria madre. In questa pro­ spettiva, durante la gravidanza, per i genitori sarebbe più consono uti­ lizzare il concetto di caregiving System-. “Un sistema comportamentale - ossia, [...] un insieme organizzato di comportamenti guidati dalla rappresentazione della relazione genitore-bambino” (George, Solomon, 2008, p. 962). Sarebbe dunque più appropriato un sostanziale spostamento dalla ricerca di cure e protezione dalle figure di attacca­ mento, alla capacità di fornire protezione, rassicurazione e cure a un bambino immaturo. Ovviamente, la reciprocità e la stretta connessio­ ne tra il caregiving System e il sistema di attaccamento rappresentano dei principi importanti, dal momento che il primo si sviluppa nel con­ testo del secondo. Come abbiamo discusso precedentemente, l’attivazione del caregi­ ving System dipende dai segnali interni ed esterni che stimolano la fun­ zione protettiva. Ma mentre la motivazione del comportamento di at­ taccamento è chiara - ossia la ricerca di sicurezza -, ciò non avviene per il caregiving System. Secondo Bell e Richard (2000), la motivazio­ ne del caregiving sarebbe basata sullo stato affettivo insito nel fornire cure, che dà colore alla relazione con il bambino. Più precisamente, il prendersi cura è un’emozione diadica che si sviluppa nel tempo ed è indirizzata verso un partner specifico - in questo caso un bambino - e verso i suoi bisogni. In tale ambito, l’empatia gioca un ruolo decisivo e attiva le condotte di cura, poiché implica l’accettazione emozionale e la risonanza verso l’altro, specialmente se si tratta di una persona che si trova in uno stato di bisogno. Forse questa definizione di caregiving sottovaluta il piacere e la sod­ disfazione personale che si provano nel prendersi cura di un’altra per­ sona, soprattutto di un bambino piccolo. Una conferma indipendente per questi aspetti deriva dagli studi neurobiologici sulla corteccia orbitofrontale (Kringelbach, 2005), attivamente coinvolta nel processamento emozionale e, in particolare, nell’esperienza edonica piacevole stimolata da una particolare esperienza gratificante, come l’accudimento. Il bambino può essere uno stimolo gratificante che attiva nelle ma­

LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

dri un’esperienza soggettiva di piacere. Anche Schore (2000, 2002) ha ampiamente trattato il ruolo della corteccia orbitofrontale, in parti­ colare quella dell’emisfero destro, nel regolare i meccanismi affettivi dell’attaccamento. Questo sistema neurobiologico è connesso anche all’empatia, capacità che implica il riconoscimento dello “stato emoti­ vo di un altro individuo, generando internamente le rappresentazioni somatosensoriali che simulano cosa sta provando l’altro” (Adolphs et al., 2000, p. 2683). In altri capitoli del libro, il tema dell’empatia è sta­ to discusso in maniera più approfondita, focalizzando l’attenzione sul ruolo del meccanismo specchio e dell’insula, che implica anche rappre­ sentazioni viscero-motorie. TI caregiving System viene attivato quando, durante la gravidanza, il bambino è ancora nel corpo della madre, stabilizzandosi completamen­ te dopo la nascita. I comportamenti materni di accudimento potrebbe­ ro essere guidati dalle rappresentazioni che la madre ha del bambino e che si presentano come già organizzate durante il terzo trimestre della gravidanza, rendendo possibile l’attribuzione al bambino stesso di una specifica identità. Il bambino, in questo periodo, viene percepito come un essere estremamente bisognoso e immaturo, che necessita di essere protetto e accudito dalla sensibilità materna, con attenzione e capacità di concern, per evitargli ogni dolore o trauma. La rilevanza delle rappresentazioni materne durante la gravidanza potrebbe essere confermata dai comportamenti materni postnatali. E stato evidenziato che le rappresentazioni prenatali hanno una grande influenza sui comportamenti materni dopo la nascita del bambino (Benoit et al., 1997; Huth-Bocks, Levendosky, Bogat, 2002; Huth-Bocks et al., 2004). Theran e collaboratori (2005) hanno indagato l’influenza del cambiamento o, al contrario, della stabilità dei modelli operativi interni dell’attaccamento (dal periodo prenatale a quello postnatale) sui com­ portamenti genitoriali dopo la nascita del bambino. E stato osservato che le madri, le cui rappresentazioni si presentavano non equilibrate durante la gravidanza, ma diventavano equilibrate nel post-partum, erano meno inclini a fornire un accudimento sensibile ai loro bambini, rispetto alle madri che invece presentavano rappresentazioni equili­ brate in entrambi i tempi. Va specificato che le madri che passavano da rappresentazioni non equilibrate a equilibrate mostravano comunque una maggiore sensibilità verso i propri bambini, rispetto a quelle che mantenevano nel tempo rappresentazioni non equilibrate. Mentre le meta-analisi hanno dimostrato la relazione esistente tra le rappresentazioni della madre relative alle proprie esperienze infantili

di attaccamento e la qualità dei comportamenti con il proprio bambi­ no (van IJzendoorn, 1995), la questione sul come le rappresentazioni materne in gravidanza possano influenzare i successivi comportamen­ ti di accudimcnto rimane ancora aperta. Una recente ricerca (Dayton et al., 2010) ha tentato di esplorare direttamente questa connessione, enfatizzando la capacità delle rappresentazioni materne nel guidare i comportamenti nel post-partum a livello inconscio. I risultati dello studio confermano che le rappresentazioni materne durante la gravi­ danza influenzano i comportamenti genitoriali con il bambino. Più nel dettaglio, le madri con rappresentazioni equilibrate durante la gravi­ danza tendono a esibire maggiori comportamenti genitoriali positi­ vi, mentre le madri che presentano rappresentazioni distorte dei loro bambini manifestano livelli più elevati di ostilità e rabbia durante gli scambi interattivi. Infine, le madri con rappresentazioni disinvestite esibiscono successivamente comportamenti di tipo controllante con il bambino. L’aspetto più rilevante di questo studio è che lo stile di re­ golazione connesso ai modelli operativi materni durante la gravidanza appare significativamente correlato allo stile di regolazione materno (sensibile, controllante, ostile) a un anno di età del bambino. Dayton e collaboratori (2010) hanno ipotizzato che la relazione tra le rappre­ sentazioni prenatali e i comportamenti genitoriali dopo la nascita del bambino potrebbe essere non solo di tipo correlazionale ma anche causale, dal momento che le prime vengono misurate durante la gra­ vidanza, quindi prima che le madri possano avere avuto un’effettiva interazione con il bambino. Mentre gli studi che abbiamo riportato si concentrano sulla relazio­ ne tra le rappresentazioni materne durante la gravidanza e i comporta­ menti materni nel post-partum, in un classico articolo di Peter Fonagy, Howard Steele e Miriam Steele (1991) è stata esplorata un’ulteriore prospettiva di studio dell’attaccamento durante la gravidanza. In que­ sto articolo gli autori riportano una ricerca longitudinale sulle rappre­ sentazioni materne relative all’attaccamento durante la gravidanza e all’attaccamento del bambino alla madre a un anno di vita. Le madri venivano intervistate durante il terzo trimestre di gravidanza median­ te l’Adult Attachment Interview (AAI; George, Kaplan, Main, 1985), mentre i bambini a un anno eseguivano la Strange Situation ( Ainsworth et al., 1978), procedura osservativa di laboratorio che valuta la quali­ tà dell’attaccamento madre-bambino. I risultati dimostrano una con­ cordanza intergenerazionale, con il 75% delle madri sicure che hanno bambini con un modello di attaccamento sicuro, e il 73 % delle madri

con modelli di attaccamento insicuri (distanziante o preoccupato) che hanno bambini con modelli di attaccamento insicuri. Durante questa ricerca, analizzando i trascritti delle AAI e cercando di comprendere il processo sottostante la trasmissione intergenerazio­ nale dell’attaccamento e, in particolare, il concetto di monitoraggio me­ tacognitivo formulato dalla Main (1991), Fonagy e collaboratori (1991) hanno iniziato a sviluppare il concetto di funzione riflessiva, eviden­ ziando ampie differenze nelle madri, in merito alle capacità riflessive individuali. Mentre alcuni genitori potevano riflettere sulla relazione tra gli stati mentali dei propri genitori e il loro comportamento, altri mani­ festano una comprensione limitata dei sentimenti e degli stati mentali sottostanti al comportamento dei propri genitori. Generalmente, i ge­ nitori con elevati livelli di funzione riflessiva vengono classificati come sicuri/autonomi rispetto all’attaccamento e hanno bambini che pre­ sentano un attaccamento sicuro a un anno di età. Allo stesso modo, i genitori che manifestano una bassa funzione riflessiva è probabile che siano classificati insicuri, così come i loro bambini. Come ha sottolineato Bowlby (1969/1982, 1973, 1980), il sistema dell’attaccamento è strettamente connesso al processo rappresentazio­ nale e, potremmo aggiungere, allo sviluppo di una funzione riflessiva del sé. Allo stesso tempo, è stata raggiunta una concettualizzazione condivisa, che postula che il sé si sviluppi ed esista in relazione all’altro (Sroufe, 1990): tutto questo è particolarmente vero per le madri che acquisiscono, durante la gravidanza, un “senso del noi” che le prepara a interagire con i propri bambini dopo la nascita.

Focalizzarsi sul bambino Come Dinora Pines ( 1972) ha messo in luce, durante il terzo trimestre della gravidanza le donne sperimentano malessere fisico e stanchezza, progressivamente alla crescita del bambino nel loro corpo. Durante la gravidanza si verificano tipiche oscillazioni dell’umore, che vanno dalla gioia e la soddisfazione per l’arrivo imminente del bambino, a forme di ansia conscia e inconscia rispetto sia all’eventuale anormalità del bambi­ no sia rispetto al parto. Nella madre possono comparire delle fantasie ri­ guardanti la possibilità di danneggiare il feto, il quale può essere percepi­ to come un intruso o un parassita (Ferenczi, 1914) che sta per divorarla. In questo periodo, si sviluppa un peculiare stato della mente, descrit­ to da Winnicott: la capacità di concern per il bambino e la gravidanza.

In “Lo sviluppo della capacità di preoccuparsi”, Winnicott (1963) ne ha dato una precisa definizione:2

La parola “preoccupazione” è usata per indicare l’aspetto positivo di un fenomeno il cui aspetto negativo è indicato dalla parola “senso di colpa”. Il senso di colpa è l’angoscia legata all’ambivalenza e comporta un livello d’integrazione dell’io tale da permettere di conservare un’im­ magine buona dell’oggetto insieme all’idea di distruggerlo. Preoccuparsi comporta anche il progetto di un’integrazione e di uno sviluppo ulte­ riori, ed è in relazione positiva con il senso di responsabilità avvertito dall’individuo soprattutto relativamente ai rapporti in cui sono impli­ cate le pulsioni istintuali. Preoccuparsi si riferisce al fatto che l’individuo si prende cura, o pro­ va apprensione, e sente e accetta la responsabilità. Dal punto di vista del livello genitale postulato dalla teoria dello sviluppo, si potrebbe dire che il preoccuparsi fonda la famiglia in quanto porta entrambi i parte­ cipanti nel rapporto sessuale ad assumersi, al di là del proprio piacere, la responsabilità delle conseguenze di esso. Ma, considerando le cose dal punto di vista della globalità della vita immaginativa dell’individuo, si può dire che il preoccuparsi solleva problemi ancor più complessi e che una capacità di preoccuparsi è alla base di ogni gioco e di ogni la­ voro costruttivo. Essa è un elemento della vita normale sana, e merita bene l’attenzione dello psicoanalista. (Pp. 89-90) Come ha sottolineato Winnicott, la capacità di concern si sviluppa durante la gravidanza: la madre diventa sempre più capace di prender­ si cura, di prestare attenzione e di sentire e accettare la responsabilità della propria maternità, evitando, già dai primi mesi, i fattori stressanti o le esperienze traumatiche che potrebbero avere un impatto negativo sulla gravidanza. Questo è il caso di una giovane donna che, dopo ave­ re avuto la notizia di essere incinta da un’infermiera, camminava verso casa, “cercando di evitare i movimenti bruschi, come se stessi in punta di piedi sulle uova”. La capacità di concern si intensifica nel corso della gravidanza: le madri, infatti, focalizzano la loro attenzione sul bambi­ no, cercando di cogliere ogni suo segnale o movimento, e cercando di garantirgli un ambiente confortevole e protettivo all’interno del loro corpo. Un’altra madre, per esempio, non era riuscita a sentire i movi­ 2. Nella versione italiana dello scritto di Winnicott, "concern1' è stato tradotto come “preoc­ cupazione” e “thè capacity for concern” come “la capacità di preoccuparsi”. Vogliamo sottolineare che questa traduzione produce un’importante confusione concettuale, dal momento che il termi­ ne “preoccupazione” viene utilizzato in maniera indifferenziata per indicare sia la capacità della madre di prendersi cura del bambino e di averlo in mente (concern), sia la peculiare condizione psicologica che la donna raggiunge alla fine della gravidanza (primary maternalpreoccupation), e che sarà illustrata nel prossimo paragrafo.

LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

menti del feto per molte ore durante l’ultimo mese della gravidanza ed era allarmata; ha cercato di stabilire un contatto mentale con la bam­ bina, per avere la conferma che andasse tutto bene. Dopo un’intensa concentrazione — così riporta la donna —, la bambina le ha “mandato un messaggio con un forte calcio”. Non tutte le madri però hanno la stessa capacità di concern. Ci so­ no madri come quelle menzionate, che sono in grado di assumersi la responsabilità della loro maternità. Queste sono madri che hanno una rappresentazione equilibrata e integrata di se stesse (Ammaniti, Tambelli, 2010), e per le quali la gravidanza rappresenta l’espressione di un desiderio profondo di maternità. La situazione differisce in manie­ ra sostanziale con le madri che hanno una rappresentazione ristretta c disinvestita di se stesse e del bambino, che, al contrario, non sembrano capaci di esprimere la capacità di concern-. ciò è dimostrato dal fatto che non vogliono essere condizionate dalla gravidanza e continuano a pra­ ticare sport, guidare motorini, senza manifestare preoccupazione per le possibili conseguenze sulla gravidanza o sul bambino. La capacità materna di concern è senza dubbio connessa al fatto che le femmine sono più empatiche dei maschi (Hoffman, 1977) e che, a volte, non sviluppano nemmeno l’empatia per se stesse “perché la spin ta all’empatia verso l’altro è così forte, perché le femmine sono condi­ zionate a prendersi cura prima dei bisogni degli altri, e perché le don­ ne spesso provano un grande senso di colpa a chiedere attenzione per se stesse, anche da se stesse” (Jordan, 1991, p. 30). Questa competenza specificatamente femminile potrebbe essere correlata a fattori cultura­ li e a stili di allevamento dei figli, ma anche a fattori genetici, fondati sulla preferenza per gli stimoli sociali. Un recente studio (Sander, Fro­ nte, Scheich, 2007 ) ha evidenziato che la risata e il pianto dei bambi­ ni attivano maggiormente l’amigdala e la corteccia cingolata anteriore nelle donne rispetto agli uomini; inoltre, le risposte evocate dai visi dei bambini appaiono più intense e precoci nelle donne rispetto agli uo­ mini (Proverbio, Zani, Adorni, 2008). Altri studi (Singer et al., 2006) hanno confermato che le donne rispondono più empaticamente degli uomini di fronte a immagini di persone sofferenti. C’è un largo consen­ so in merito al fatto che l’emisfero destro sia maggiormente coinvolto nell’empatia rispetto all’emisfero sinistro (Ruby, Decety, 2003, 2004),. e che l’aumentata attivazione dell’emisfero destro nelle donne possa spiegare le differenze di genere nell’empatia (Rueckert, Naybar, 2008). Esistono molte definizioni di empatia, ognuna delle quali tendente a sottolineare diversi aspetti. Nel campo psicoanalitico, una definizione

adeguata è stata proposta da Schafer: “L’esperienza interna di condi­ videre e comprendere lo stato psicologico attuale di un’altra persona” (1959, p. 345), che si fonda su un alto livello di funzionamento e forza dell’io. Nell’area deWInfant Research, Stern, riferendosi all’empatia ma­ terna, riconosce quattro processi distinti e - probabilmente - sequenzia­ li: “a) la risonanza dello stato affettivo; b) l’astrazione della conoscenza empatica dall’esperienza della risonanza emotiva; c) l’integrazione del­ la conoscenza empatica astratta in una risposta empatica; d) una transi­ toria identificazione di ruolo” (1985, p. 153). Quest’ultima definizione di Stern si sovrappone parzialmente a ciò che Decety e Meyer (2008) hanno scritto riguardo all’empatia da un punto di vista neurobiologico, distinguendo la condivisione emotiva automatica, che permette la sin­ cronizzazione della madre con le espressioni emotive del bambino, dal­ la consapevolezza sé-altro, che ha lo scopo di separare il sé materno da quello del bambino e di garantire una minima abilità di mentalizzazione. L’empatia materna ha una grande influenza sullo sviluppo psicolo­ gico del bambino, come Winnicott ha sottolineato in questo altro pas­ saggio tratto dal capitolo sopramenzionato: La capacità di preoccuparsi fa parte della relazione duale fra l’infan­ te e la madre o il sostituto materno. In circostanze favorevoli la madre, con il continuare a essere viva e disponibile, rappresenta tanto la madre che riceve in tutta la loro pienezza le pulsioni dell’Id del neonato, quan­ to la madre che può essere amata come persona e alla quale si può fare un atto riparativo. (1963, p. 101)

Preoccupazioni materne e paure Sempre molto attento agli stati mentali delle madri, Donald Winni­ cott (1956) ha proposto un’ulteriore osservazione dello stato mentale della donna durante l’ultima fase della gravidanza, dandone la seguen­ te descrizione: La mia tesi è che, nella primissima fase, osserviamo nella madre uno stato molto particolare, una condizione psicologica che merita il nome di preoccupazione materna primaria. [...] Si sviluppa a poco a poco per raggiungere un grado di elevata sensibilità durante la gravidanza, e spe­ cialmente verso la fine. Dura ancora poche settimane dopo la nascita del bambino. Una volta superato, non è facile che sia ricordato dalla madre [...]. Questo stato organizzato (che sarebbe una malattia se non vi fosse il fatto della gravidanza) potrebbe essere paragonato a uno stato di ritiro, a uno stato di dissociazione [...]. Non credo che si possa comprendere

LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

la funzione della madre all’inizio della vita del bambino senza ammet­ tere che essa deve essere capace di raggiungere questo stato di elevata sensibilità, quasi una malattia, e di guarirne. (P. 359)

Con poche ma illuminanti frasi, Winnicott ha colto un concetto po­ tenzialmente molto fertile per la comprensione dello stato psicologico materno durante la gravidanza e durante il primo sviluppo del bambi­ no. Durante questo periodo, una madre sviluppa un’accentuata sensibi­ lità ed è profondamente concentrata sul figlio, prestando poca attenzio­ ne alle altre persone e al loro contesto sociale. Questa preoccupazione ha un valore particolare, dal momento che accresce l’abilità materna di anticipare i bisogni del bambino e di leggerne i segnali, contribuen­ do dunque a sviluppare un senso del suo sé. Winnicott ha enfatizzato l’importanza cruciale di tale fase per lo sviluppo del sé del bambino, sottolineando i possibili rischi che corrono i bambini le cui madri non sono in grado di tollerare preoccupazioni così intense. Nonostante sia stato accettato e rielaborato in osservazioni cliniche successive nell’ambito delle interazioni madre-bambino conflittuali, questo concetto ha ricevuto un’attenzione relativamente limitata nella ricerca empirica, in particolare negli studi sullo sviluppo tipico della genitorialità (Fraiberg, Adelson, Shapiro, 1975; Leckman et al., 1999; Stern, 1995; Zeanah et al., 1994). Tanto le madri quanto i padri sono mentalmente concentrati sul bambino, dal momento che ne monitorano continuamente lo stato di salute, la crescita fisica e lo stato emotivo, cercando di prevenire i peri­ coli potenziali o immaginati nell’ambiente. Di certo, durante la gravi­ danza, il controllo materno è più focalizzato sui movimenti fetali, per esempio, se sono troppo rapidi, troppo lenti, o assenti. Per confermare empiricamente il concetto di preoccupazione mater­ na primaria, Leckman e collaboratori (1999) hanno intervistato madri e padri utilizzando un’intervista semistrutturata, la Yale Inventory of Pa­ ventai Thoughts andActions (YIPTA), dall’ottavo mese di gravidanza fino al terzo mese dopo il parto. Lo strumento è stato costruito per esplorare gli stati mentali genitoriali e le preoccupazioni rispetto al bambino (per esempio il suo benessere o aspetto fisico), i comportamenti che riguar­ dano il suo accudimento (per esempio i comportamenti di controllo), la costruzione della relazione con lui, i pensieri intrusivi e l’evitamento dei comportamenti che potrebbero nuocergli (per esempio fargli del male), e la quantità di tempo assorbita da queste preoccupazioni e azioni. Tra i genitori intervistati, nessuno aveva una storia personale caratterizzata

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da un disturbo ossessivo-compulsivo, mentre una percentuale ridotta riportava episodi di depressione maggiore. I risultati evidenziano un decorso delle preoccupazioni genitoriali, caratterizzato da un picco a due o tre settimane dal parto (figura 3.1). Le madri manifestano livelli di preoccupazione per il bambino signi­ ficativamente più elevati dei padri, confermando dunque le intuizioni cliniche di Winnicott. Intorno alla seconda o terza settimana dal parto, le madri pensano al bambino, in modo intenso, fino a quattordici ore al giorno, mentre i padri solo sette ore. Nel caso dei genitori primipari, le preoccupazioni durano di più. Quasi tutti i genitori riportano preoccupazioni consistenti riguardo al benessere del loro bambino, e più del 95% delle madri e 1’80% dei padri si preoccupano della possibilità che possa succedergli qualcosa di negativo. Tra i pensieri di tipo intrusivo, molti genitori riferiscono la preoccupazione di non essere in grado di ricoprire il ruolo genitoriale. I pensieri di poter fare del male al bambino sono presenti nel 37% dei genitori: per rassicurarsi, il 73 % delle madri e il 49% dei padri riferi­ scono di avere controllato i suoi movimenti nell’utero o di essersi sfor­ zati di distrarsi (il 20%). Insieme a queste preoccupazioni, i genitori possono avere anche pensieri positivi di reciprocità e unità con il bambino, così come pen­ sieri riguardo alla sua perfezione. Per esempio, a tre mesi dal parto, il 73% delle madri e il 66% dei padri riferiscono di pensare che il pro­ prio bambino sia “perfetto”.

Figura 3.1 Preoccupazioni nelle madri e nei padri dall'ottavo mese di gravidanza fino al ter­ zo mese dal parto. Modificato da Leckman, J.F., Mayes, L.C., Feldman, R., Evans, D.W., King, R.A., Cohen, D.J. (1999), "Early parental preoccupations and behaviours and their possible relationship to thè symptoms of obsessive-compulsive disorder". In Acta Psychiatrica Scandinavica, S396, pp. 1-26. Stampata con il permesso di John Wiley & Sons, Ltd.

LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

In un altro studio longitudinale, condotto su un campione di 120 coppie primipare, dalla gravidanza fino al sesto mese di vita del bam­ bino, le donne riportano livelli crescenti di preoccupazione verso la fi­ ne della gravidanza; il 25-30% riferisce, in particolare, preoccupazioni specifiche rispetto alle modalità di accudimento del bambino nel postpartum (Entwisle, Doering, 1981). Immediatamente prima e dopo il parto, le preoccupazioni aumentano sostanzialmente. I pensieri intrusivi di fare del male al bambino assalgono la madre (o il padre) meno comunemente, come esito di un disturbo ossessivocomplusivo, di una depressione o di entrambi (Winter, 1970). In que­ sti casi, i genitori esprimono inoltre fantasie o preoccupazioni di poter fare inavvertitamente del male al bambino, per esempio facendolo ca­ dere o, in modo più attivo, facendogli del male in un momento di ri­ sentimento o frustrazione. Abbiamo dato un così ampio spazio alla ricerca di Leckman e colla­ boratori (1999), non solo perché rappresenta una brillante e significa­ tiva conferma alle intuizioni cliniche di Winnicott (1956) rispetto alla preoccupazione materna primaria, ma anche in virtù delle molteplici implicazioni nell’area dell’interazione tra genitori e bambini. Negli ul­ timi mesi della gravidanza e nei primi mesi dopo il parto, quasi tutte le madri e i padri sperimentano uno specifico e finalizzato stato della mente, che si differenzia dalle fluttuazioni dell’umore e dall’ansia, che sono piuttosto comuni in questo periodo. I genitori sono proiettati sul bambino in un momento di estrema vulnerabilità per lui, che richiede un’attenzione particolare nei confronti dei suoi bisogni. A volte, tali preoccupazioni possono predire delle difficoltà nel postpartum a livello delle interazioni genitori-bambino, ma, il più delle vol­ te e come dimostrano gli studi normativi, queste preoccupazioni e an­ sie sono abbastanza comuni e circoscritte alla fine della gravidanza e all’immediato periodo successivo al parto. Solo la loro persistenza dopo i primi tre-sei mesi potrebbe essere indicativa di una difficoltà nell’inte­ razione genitori-bambino (Mayes, Swain, Leckman, 2005). Dal punto di vista evoluzionistico, queste preoccupazioni genitoriali sono state selezionate al fine di aumentare la capacità e la sensibilità dei genitori, riducendo gli eventuali rischi per il bambino. Infatti il livello di mortalità infantile si è ridotto solo recentemente, mentre nel passato la gravidanza, il parto e il primo anno di vita del bambino erano periodi di grande vulnerabilità per la sopravvivenza della madre e del bambino. Questi dati confermano non solo le intuizioni cliniche di Winnicott (1956), ma anche la formulazione clinica di costellazione materna di 100

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Daniel Stern (1995), entrambe focalizzate sulla sopravvivenza e il be­ nessere del bambino. Un altro importante aspetto riguarda ciò che Winnicott (1956) scris­ se in merito a questo stato mentale materno di preoccupazione, descrit­ to come “quasi una malattia”, che ha molte caratteristiche sovrapponi­ bili ai sintomi del disturbo ossessivo-compulsivo. Come abbiamo visto, i genitori manifestano pensieri intrusivi e incessanti sul bambino e su se stessi, il desiderio di fare la cosa giusta, e comportamenti ripetitivi, atti a ridurre o prevenire la propria ansia. Nel caso delle persone con disturbo ossessivo-compulsivo, i sintomi tipici sono caratterizzati da un alto senso di responsabilità, perfezionismo, un evitamento dei pensieri ripetitivi e un atteggiamento ego-distonico. Discutendo le differenze tra le ossessioni normali e anormali, Rachman e de Silva (1978) hanno puntualizzato che questa differenza è legata alla frequenza e all’intensità dei pensieri, piuttosto che ai loro contenuti. Nella nostra esperienza, i pensieri materni e paterni duran­ te la gravidanza sono più ego-sintonici, poiché giustificati nella mente dei genitori dalla particolare condizione dell’aspettare il bambino, che provoca naturalmente preoccupazione e capacità di concern. Leckman e Herman (2002) hanno ipotizzato che questi pensieri in­ trusivi ansiosi e questi comportamenti evitanti siano correlati al distur­ bo ossessivo-compulsivo e che alcune forme di questo disturbo siano il risultato di una disregolazione dei circuiti neurali normalmente attivi durante le fasi iniziali della genitorialità (Leckman et al., 1999). Nono­ stante alcune eccezioni, comunque, l’evidenza di questi aspetti è so­ stenuta dagli studi di brain-imaging e dalle scoperte neurochirurgiche, che hanno messo in luce il ruolo della corteccia orbitofrontale e dell’a­ migdala, e delle loro connessioni con il talamo e lo striato ventrale, nel disturbo ossessivo-compulsivo (Saxena, Rauch, 2000). Inoltre, è stato documentato come alcuni pazienti con questo tipo di disturbo abbia­ no elevati livelli di ossitocina nel liquido cerebrospinale (Leckman et al., 1994). E ben noto che l’ossitocina, un ormone neuropeptidico, ha un ruolo nella comparsa dei comportamenti materni. In un recente la­ voro di Levine e collaboratori (2007) sono state seguite donne sane nel primo e terzo trimestre della gravidanza, e nel primo mese dopo il par­ to. I risultati evidenziano un’elevata stabilità individuale nei livelli pla­ smatici di ossitocina; tuttavia, mentre un terzo del campione presenta livelli di ossitocina costanti nel tempo, le restanti donne mostrano una certa variabilità, caratterizzata da incrementi, decrementi oppure da un picco nell’ultima fase della gestazione. I dati mostrano inoltre co­

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me, all’aumentare dei livelli di ossitocina nel corso della gravidanza, si intensifichi il legame materno-fetale. E stato ipotizzato che l’origine del disturbo ossessivo-compulsivo sia connessa a una disfunzione del metabolismo della serotonina, com­ binata con la caduta rapida degli estrogeni e del progesterone alla fine della gravidanza (Williams, Koran, 1997). Un’altra ipotesi (McDougle et al., 1999) sottolinea invece il ruolo dell’ossitocina; questa, raggiun­ gendo alti livelli alla fine della gravidanza e nel periodo del post-partum, potrebbe favorire l’aumento o l’aggravamento di questo disturbo. Co­ munque, anche l’esperienza del parto in sé o del periodo immediata­ mente successivo non deve essere sottostimata come possibile fattore in grado di innescare un disturbo ossessivo-compulsivo. Forse la prova più convincente dell’associazione tra la gravidanza e il disturbo ossessivo-compulsivo è il tasso di donne (tra 1’11% e il 47%) che presentano i primi sintomi del disturbo nel periodo perina­ tale (Leckman, Mayes, 1999; Williams, Koran, 1997) o alla fine della gravidanza. Leckman e collaboratori (1999) hanno inoltre documenta­ to che normalmente, durante questo periodo, si enfatizza la sensibilità nei confronti delle minacce; sia madri sia padri sperimentano pensieri ansiosi intrusivi e mettono in atto comportamenti finalizzati a evitare danneggiamenti (harm-avoidant behaviors), che somigliano considere­ volmente a molte delle dimensioni sintomatiche del disturbo ossessi­ vo-compulsivo. La rassegna di questa letteratura suggerisce che l’espressione del comportamento materno è influenzata dalle esperienze e gli eventi pre­ coci, che riorganizzano i circuiti limbici e ipotalamici coinvolti nell’omeostasi edonica e nella risposta allo stress. A livello clinico, un sintomo importante durante questa fase della vita è la paura di fare del male al proprio bambino. Molti ricercatori (Kofman, 2002) hanno dimostrato che le gravidanze con un elevato li­ vello di stress possono causare parti prematuri o uno scarso sviluppo del feto o difficoltà temperamentali nei bambini, sebbene non tutti i da­ ti confermino questi aspetti (DiPietro et al., 2006; Wadhwa, Sandman, Garite, 2001). Tornando alle nostre osservazioni sulle madri ad alto rischio, abbia­ mo notato la presenza di preoccupazioni persistenti durante la gravi­ danza, molto più intense e invasive di quelle descritte da Winnicott, che compaiono anche prima dell’ottavo mese di gravidanza. Allo stes­ so tempo, queste preoccupazioni si differenziano dai pensieri ripetitivi che causano l’ansia tipica del disturbo ossessivo-compulsivo; inoltre,

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preferiamo chiamarle “preoccupazioni intrusive”, dal momento che appaiono in una fase del ciclo vitale in cui hanno una funzione adattiva, sebbene causino uno stato di disregolazione affettiva. A livello fe­ nomenologico, ricordano le preoccupazioni ossessive per la persistenza con cui si presentano e per una certa attitudine psicologica difensiva, che appare tuttavia limitata, dal momento che si tratta, in sostanza, di pensieri ego-sintonici, esclusivamente associati all’esperienza della ma­ ternità. In un campione di madri a rischio depressivo e psicosociale, abbiamo rilevato preoccupazioni intrusive riguardanti: la gravidanza, le eventuali malattie o malformazioni del feto, il parto, il periodo po­ stnatale, le capacità materne e le possibili ripercussioni sulla relazione di coppia date dall’arrivo di un bambino (Ammaniti et al., 2013). Nella storia personale materna possono essere rilevate esperienze traumati­ che, spesso in campo ostetrico (come precedenti aborti o parti distoci­ ci), che hanno causato dolore intenso, o morte del bambino nella fase finale della gravidanza o immediatamente dopo il parto. Questi eventi rendono indubbiamente la donna più sensibile, facendole vivere una nuova gravidanza con forti paure e preoccupazione. Le preoccupazioni intrusive devono essere distinte dagli stati di an­ sia, che sono comuni durante la gravidanza e che risultano associati ad aspetti più contestuali e all’esperienza in sé. In queste madri, accanto a tali preoccupazioni intrusive, abbiamo notato paure fobiche che si fo­ calizzano su specifici aspetti reali, come l’età avanzata materna o parti­ colari caratteristiche del feto scoperte durante l’ecografia, come la bassa crescita ponderale o le grandi dimensioni del cranio. Le preoccupazioni e le paure possono essere stimolate da specifiche domande dell’lRMAG-R (Ammaniti, Tambelli, 2010): l’intervista, infatti, è stata recentemente modificata rispetto alla versione precedente, pro­ prio per esplorare queste aree tematiche in maniera più sistematica. Studiando le interviste delle donne in attesa che mostrano preoccupa­ zioni e paure, abbiamo rilevato diverse configurazioni rappresentazio­ nali. La prima è definita da paure fobiche e preoccupazioni intrusive pervasive che emergono nel corso di tutta l’intervista, anche quando le domande non fanno uno specifico riferimento a questi contenuti. La caratteristica principale di queste interviste è lo stato di allarme della donna, che affronta l’esperienza della gravidanza e l’arrivo del bambi­ no con apprensione e paura. In altre interviste, le preoccupazioni intrusive e le paure fobiche possono comparire in un contesto difensivo, caratterizzato da un ap­ piattimento affettivo, simile a quello delle rappresentazioni ristrette/

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disinvestite (.ibidem), a volte accompagnato da descrizioni concrete ric­ che di dettagli sensoriali, come avviene nell’ambito degli stati mentali dissociativi.

Una madre in attesa turbata da preoccupazioni intrusive e paure fobiche Di seguito, presentiamo un’intervista che documenta le intense preoccupazioni e paure che possono comparire durante la gravidanza. Piera ha circa quarant’anni; nella sua storia personale sono presenti attacchi di panico, che si sono ripresentati durante la gravidanza. Piera ha avuto una prima gravidanza da cui è nato suo figlio Mario e una se­ conda gravidanza che si è conclusa con un aborto spontaneo in seguito a un’amniocentesi. Nel trascritto dell’intervista, i passaggi caratterizzati da preoccupazioni e paure sono evidenziati in corsivo.

D: Mi racconti un po’ la storia della sua gravidanza, come si è sentita, come l’ha affrontata? R: E andata... è stata molto vicina, molto ravvicinata all’altra, dove io ho perso il bambino al quarto mese dopo l’amniocentesi. Questa gravidanza è stata in parte voluta e non voluta, nel senso che... ero sempre un po’ in crisi, con mio marito a volte ne parlavamo... “Facciamolo, così passa la paura, la ten­ sione.” Lui forse era un po’ più convinto di me. Io sì e no, sì e no. Comun­ que, poi è successo, un mese non ho avuto le mestruazioni, e non ci stavo pensando proprio quel mese e... ho fatto il test di gravidanza, io ho un ciclo regolarissimo, quindi già il giorno dopo, il primo giorno di ritardo, ho sapu­ to che sì, ero incinta. Che devo dire [ride] sinceramente non l’ho presa... mi sono sentita ansiosa, io... non è la prima volta... quando ho fatto il test, non ho neanche svegliato mio marito, ho trascorso tutta la notte... ho pensato, ri­ pensato. .. la paura forse, il non essere... non essere ancora pronta, fisicamente ma anche psicologicamente a una nuova gravidanza. D: Questa è stata la prima fase, e poi come è andata? R: [ride] Poi è andata che ho avuto delle minacce di aborto nel primo... alla fine del mese... comunque ho avuto delle minacce di aborto, erano solo delle piccole perdite di sangue, ma... sono dovuta stare tre mesi a riposo. Anche per l’altra gravidanza ho avuto delle minacce di aborto e sono stata in ospedale venti giorni, quindi... e ... sono stata a riposo e quando vedevo delle perdite chiamavo l’ospedale per capire se andava tutto bene... comunque, l’ho superata, sono stata sempre molto ansiosa, la paura soltanto. Poi c’è stato il dubbio se fare o meno l’amniocentesi, la faccio non la faccio... è un problema, non credo... per me è stato il momento peggiore, il picco della mia ansia... sono stata proprio... non dormivo proprio, non respiravo e ho avuto degli attacchi di panico 104

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improvvisi, dovuti sicuramente... poi ho fatto l’amniocentesi e ho trascorso tutte le festività natalizie con l’ansia. E anche durante l’amniocentesi, il mio cuore era... l’ho fatta privatamente... è andata così. E anche il periodo successivo, stare a riposo, la paura di abortire, è stato tutto uguale a... Ma, piano piano, siamo arrivati all’ottavo mese. Le ansie, le paure, sono sempre lì... Comunque sto affrontando diversamente questa gravidanza. Adesso quello che provo non è paura ma tensione perché... quello che mi è accaduto prima penso che mi abbia segnato tanto, nel senso che ho paura delle ecografie, ho paura delle... di tutto ciò che riguarda... qualsiasi cosa mi mette... cioè mi mette ansia e se c’è qualche problema ho sempre paura di non riuscire a... no, anche a capire se c’è un vero allarme, un pericolo, è tutto nebuloso quando è così.

Le paure e i dubbi di Piera riguardo la nuova gravidanza (successiva al precedente aborto spontaneo, causato dall’amniocentesi) emergono vividamente nelle sue risposte. Si chiede ripetutamente se dovrebbe diventare madre (Abelin-Sas, 1992). Avendo sperimentato un evento traumatico, Piera ora teme che possa verificarsi di nuovo in questa nuo­ va gravidanza e cerca continuamente rassicurazioni, nonostante questo non possa proteggerla dal pericolo di un altro aborto spontaneo: questa minaccia è probabilmente una conseguenza dell’intrusione del suo sta­ to mentale nel corpo, in quanto la paura traumatica è stata archiviata a livello implicito. Verosimilmente, questa situazione critica determina una disorganizzazione del suo sistema difensivo, generando attacchi di panico (Masi, 2004).

D: Quindi anche una sciocchezza la fa agitare... R: No, perché somatizzo molto e quindi questo succede... quando ci sono degli effettivi sintomi della gravidanza, ci sono... nel senso che gli ormoni e tutto il resto, ci sono dei momenti in cui magari li avverto, alcuni sveni­ menti.. . penso che sia perché soffro di pressione bassa, invece è la paura e la tensione. Ecco, forse alcuni sintomi vengono un po’ alterati. D: Le sue sorelle come hanno preso la notizia della sua nuova gravidanza? R: Mia sorella... D., che è la più piccola, ha tre figli e non ha neanche trent’anni. C., l’altra sorella, ha appena avuto un maschietto. No, va bene, ma loro, bene o male... sì, sono contente... E io, sinceramente, non sono una persona molto portata per i bambini; infatti, il mio primo bambino è stato programmato, però non sono più tanto giovane, quindi la pazienza è quella che è [ride]. Ho mille dubbi, mille paure, mille ansie. E a una certa età... forse la paura del tempo che passa, di avere un figlio... di non stare nei tempi giusti... Cioè, la gravidanza mi rende ansiosa; sicuramente, questo è molto più evidente per quello che è successo... però per me le situazioni in cui non ho il controllo del mio corpo e non ho... il controllo della situazione... è una cosa fisiologica nel senso che... tutto avviene mese per mese e io cerco di

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pensare che vada tutto bene... penso sia un modo di... capita anche alle altre donne, so di altre donne in gravidanza, compaiono molte ansie e paure.

Piera sottolinea il ruolo del suo corpo nell’esperienza che sta viven­ do. Stanno avvenendo dei cambiamenti che lei non riesce a controllare, proprio come le minacce di aborto spontaneo, verso le quali non può fare nulla e che la fanno sentire impotente (.ibidem).

D: Come è cambiata la sua vita durante la gravidanza? R: E cambiata notevolmente, nel senso che... l’avrei voluta sinceramente vive­ re con un po’ più di serenità... però era inevitabile che succedesse questo. Non ho avuto il tempo di metabolizzare tutto... o forse ho reagito bene all’inizio e poi c’è stato un crollo... Non lo so questo. Io, ecco, non mi so­ no goduta nemmeno le ecografie della bambina... adesso vedo tutto nero, nero, nero... forse avrei potuto anche evitare tutto questo... però c’è questa cosa che... è più forte di me. D: L’arrivo della bambina ha portato cambiamenti nel vostro rapporto di coppia? R: Sì, sicuramente. Di cambiamenti ce ne sono stati tanti nel senso che io non ho molto dialogo con lui e quindi... oppure lui queste cose non le capisce, come quando mi dice: “Non c’è niente, va tutto bene”. Quindi certe volte provo a spiegargli queste cose... c’è stata una sera insomma che sono sta­ ta. .. ho pianto, mi sono sfogata... lui mi capisce però dice: “Che dobbiamo fare? Dobbiamo solo andare avanti... capisco come tu ti senta, ma dobbia­ mo pensare a Mario”. Questa è stata la sua reazione. D: Come si è sentita quando ha iniziato a indossare abiti premaman? R: Sinceramente, non ho comprato niente per questa gravidanza... Adesso le mie sorelle mi hanno dato delle tute, qualcosa per l’inverno. Sono arrivata all’ottavo mese, ma non ho sentito il bisogno di comprare quelle cose, co­ me stranamente non sento il bisogno di comprare subito il corredino, ci sono molte cose che ho evitato difare. Nel senso che adesso inizierò... anche perché è arrivato il momento, anche le cose per l’ospedale, ho preparato la valigia, il corredino con le cose essenziali per i primi giorni, però non sono... come le dicevo, non sento quella predisposizione. D: La sua bambina si muove tanto adesso? R: Si muove sempre adesso, dicono che all’ottavo mese hanno meno spazio, invece lei continua a muoversi tanto. E mi allarmo sempre quando non la sento... ma puoi vivere sempre col patema d’animo... D: In quali circostanze si muove di più? R: Si muove molto di più... la sera quando mi distendo e sono molto più ri­ lassata, lei si muove tanto. La sento anche durante il giorno, soprattutto quando mangio si muove tantissimo, secondo me, mangia anche lei... Io sono molto debole, penso sia la mia alimentazione, è abbastanza varia ma... niente... mi sento stanca. D: E come interpreta questi movimenti? Li associa ai suoi stati d’animo? R: No, come ho detto, sento molto... lei è già in posizione, che spinge già... le

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contrazioni, e qui, nella parte alta della pancia, sento proprio i suoi piedini, le sue gambe quando si sposta... e qualche volta spinge sul diaframma, non respiro, ti senti morire. E queste sono belle... come ho detto, reagisco, la sento, la cerco con le mani... però ho paura di farle qualsiasi cosa, anche di toccarla, di spingere troppo, cioè, penso sempre che... la natura, ecco perché dico che Dio esiste, c’è qualcosa di soprannaturale nella vita altrimenti non sarebbe possibile. Mi dico quanto sia potente la natura, nel senso che dentro di noi riusciamo... quello che mi spaventa, mi mette... dico, speriamo che vada tutto bene, il problema più grande è stato evitato però... forse è il mio carattere troppo sensibile, molto... ma sin da piccola ero molto predisposta. Come abbiamo visto, Piera presenta ansie e preoccupazioni riguar­ danti la gravidanza, probabilmente connesse alla sua storia ostetrica (un aborto spontaneo dopo un’amniocentesi), ma in parte connesse alle fragilità personali che ha manifestato sin dall’infanzia con una di­ sregolazione affettiva, come dimostrato dagli attacchi di panico. La sua principale preoccupazione è la minaccia che possa avvenire un nuovo aborto spontaneo durante l’attuale gravidanza, che è caratterizzata da ansie, paure ed episodi di panico. Piera, come altre donne che hanno avuto precedenti esperienze traumatiche, non ha investito molto su questa gravidanza. Non prepara le cose per l’arrivo della bambina, te­ mendo che tutto finirà con un nuovo aborto spontaneo. Come spesso accade nelle situazioni traumatiche, lei sta risperimentando il trauma, che teme possa ripetersi: per questo si mantiene in una posizione di at­ tesa, spesso distaccata, per evitare di affrontare ancora una volta la de­ lusione e la perdita.

4 La cogenitorialità durante la gravidanza e nel periodo postnatale

Mentre in passato gli studi sull’infanzia e sulla genitorialità hanno enfatizzato soprattutto una psicologia fra due persone, concentrando la propria attenzione sulla relazione tra madre e bambino, recentemente l’interesse è stato spostato su una psicologia fra tre persone, orientata all’esplorazione delle interazioni tra madre, padre e bambino. Dobbiamo ricordare che il modello concettualizzato da Belsky (1984) aveva già rimarcato la complessità e la multideterminazione della genitorialità, che appare influenzata dalle caratteristiche individuali ma­ terne e paterne, dalle caratteristiche del bambino, dal contesto sociale di appartenenza e dalla relazione coniugale dei genitori. Quest’ultima relazione, in particolare, rappresenta uno dei sottosistemi fondamentali che interagiscono con la genitorialità, esercitando un’influenza positiva o negativa sul funzionamento parentale. Partendo dall’esigenza di comprendere meglio il rapporto e l’influen­ za reciproca tra la relazione coniugale, la genitorialità e lo sviluppo del bambino, negli anni passati si è avvertita l’esigenza di esplorare il fun­ zionamento della coppia nel ruolo genitoriale. Bisogna considerare in­ nanzitutto la qualità della relazione coniugale, che è espressa dal livello di soddisfazione della coppia e dalla sua capacità di affrontare i conflit­ ti diadici. Va poi fatta una distinzione concettuale tra la genitorialità, intesa come il funzionamento individuale della madre o del padre con il bambino, e la cogenitorialità, che si riferisce al sostegno reciproco e all’interazione tra i due genitori, al loro coinvolgimento e all’interazione con il bambino (Belsky, Crnic, Gable, 1995; McHale, Rasmussen, 1998). La ricerca sulla cogenitorialità ha portato a una conoscenza più ap­ profondita delle caratteristiche e delle dinamiche del sottosistema re-

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lazionale genitori-bambino, che esercita una grande influenza sullo svi­ luppo infantile, proprio come la relazione individuale tra ogni genitore e il proprio figlio. Prima di passare alle diverse definizioni di cogenitorialità, sarebbe opportuno evidenziarne il contesto di riferimento teorico. Come von Klitzing, Simoni e Burgin hanno affermato, nella psicoanalisi “sono sta­ te centrali le configurazioni di tre elementi (madre, padre e bambino)” (1999, p. 71). Il periodo edipico, che si manifesta nel mondo psichico dei bambini dopo l’infanzia e la fanciullezza, è infatti caratterizzato da dinamiche di tipo triadico. Secondo Freud (1923) il bambino entra in una relazione triangolare con i genitori, nel momento in cui acquisisce la capacità di riconoscere la differenza tra i sessi. Va comunque sottoli­ neato che nella teoria psicoanalitica sono presenti altri contributi che, con diversa enfasi, hanno fatto riferimento alle dinamiche triangolari tra bambino e genitori: per esempio i lavori di Melarne Klein (1928), di Lacan (1953) e di Mahler, Pine e Bergman (1975). Alcuni autori ritengono che, nella futura esperienza mentale dei ge­ nitori, in tempi anche molto precedenti il concepimento del bambino, possa comparire una triangolazione connessa alle fantasie edipiche, in grado di trasmettere una prospettiva triadica ai bambini, sin dai primi anni di vita. Von Klitzing e collaboratori (1999) hanno proposto un’im­ portante distinzione tra la “triadificazione” (p. 74), ossia il processo interpersonale sottostante la formazione di una triade, e la “triango­ lazione” {ibidem), che descrive il processo intrapsichico connesso alla relazione mentale tra madre, padre e bambino, presente, per esempio, nelle dinamiche edipiche. In questo capitolo useremo l’espressione “re­ lazione triangolare” per riferirci agli aspetti intrapsichici sottolineati dalla psicoanalisi; utilizzeremo invece l’espressione “interazioni tria­ diche” per le comunicazioni e le interazioni a tre vie che emergono nell’ambito degli studi osservativi. La cogenitorialità è stata studiata anche in una prospettiva sistemicoevolutiva che concettualizza le interazioni e i comportamenti tra i due genitori e il bambino come un’unità che può assumere configurazioni differenziate, dipendenti dal fatto che tutti e tre i membri interagiscono nello stesso tempo, oppure che due membri del gruppo interagiscono di più fra loro, mentre il terzo rimane in una posizione marginale (Fivaz-. Depeursinge, Corboz-Warnery, 1999). A questo proposito, Patricia Minuchin (1985) ha affermato che “gli studi sulla diade genitore-bambino [...] non rappresentano la realtà significativa del bambino, soprattutto dopo l’infanzia” (p. 296).

LA COGENITORIALITÀ DURANTE LA GRAVIDANZA E NEL PERIODO POSTNATALE

Le varie definizioni di cogenitorialità enfatizzano diverse caratteri­ stiche del costrutto, ognuna delle quali dipendente dal relativo modello teorico di riferimento. In una prospettiva psicoanalitica, von Klitzing e Burgin (2005) spiegano le dinamiche della relazione genitoriale in ter­ mini di capacità dei genitori di impegnarsi in scambi e dialoghi recipro­ ci e flessibili, e di formarsi rappresentazioni mentali del loro bambino nell’esperienza di coppia. Da una prospettiva sistemica, il modo in cui i due partner lavora­ no insieme nel ruolo di genitori viene evidenziato mediante specifiche dimensioni cogenitoriali: il sostegno versus la squalifica del ruolo ge­ nitoriale del partner; il disaccordo rispetto all’educazione dei figli; la divisione dei doveri, dei compiti e delle responsabilità nella routine quotidiana; e, in ultimo, la coordinazione deipatterns interattivi all’in­ terno della famiglia, attraverso il conflitto, le coalizioni e l’equilibrio reciproco, quando entrambi i partner sono coinvolti nella relazione con il bambino (Feinberg, 2002). Sviluppando la prospettiva sistemica, inoltre, van Egeren e Hawkins (2004) e McHale e collaboratori (2004) hanno elaborato il costrutto teorico di cogenitorialità, integrando e ap­ profondendo le definizioni presenti nella letteratura scientifica. Secondo van Egeren e Hawkins (2004), “esiste una relazione cogenitoriale quando da almeno due individui ci si aspetta la responsabilità congiunta per il benessere di un particolare bambino, per mutuo ac­ cordo o per le norme sociali” (p. 166). McHale e collaboratori (2004), invece, si sono concentrati più sui comportamenti reciproci, descriven­ do la cogenitorialità come “la coordinazione tra gli adulti responsabili della cura e dell’educazione dei figli” (p. 222). Come abbiamo sottolineato, la cogenitorialità è definita dall’impe­ gno dei genitori nei confronti del bambino all’interno del contesto fa­ miliare, e riguarda non solo la cura del bambino ma anche le rappresen­ tazioni mentali condivise dei genitori e quelle che riguardano il partner nel suo ruolo di genitore. La cogenitorialità, quindi, è un processo bi­ direzionale - potremmo dire interattivo e intersoggettivo -, in cui le azioni di un partner influenzano e sono influenzate da quelle dell’altro. Possiamo parlare di cogenitorialità anche quando ci riferiamo a un singolo genitore e un bambino. L’altro genitore non ha bisogno di essere fisicamente presente; infatti anche l’assenza di un genitore può contri­ buire a definire una configurazione cogenitoriale (McHale, KuerstenHogan, Rao, 2004; van Egeren, Hawkins, 2004): in questo caso la pre­ senza del genitore può essere anche simbolica, dal momento che viene inevitabilmente ricordato o negato dall’altro genitore.

Ili

LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

Da questo punto di vista, le rappresentazioni mentali sostengono le interazioni, e ciò vale anche per l’immagine del bambino che prende forma nella mente dei genitori prima della nascita. Come van Egeren e Hawkins {ibidem) hanno sottolineato, durante la gravidanza e anco­ ra prima del concepimento, madri e padri tendono a sviluppare delle rappresentazioni mentali di se stessi come genitori, e possono discute­ re del loro futuro nel ruolo genitoriale (per esempio decidendo come organizzare le loro vite con il bambino, come dividere i compiti legati all’accudimento, o come prendere decisioni per il bambino nella vita di tutti i giorni). Questo scambio tra i genitori in attesa è un buon predittore della futura interazione cogenitoriale che si attualizzerà dopo la nascita del bambino. Le dinamiche e gli scambi tra i genitori possono essere studiati da diverse prospettive; per esempio alcune delle dimensioni considerate rilevanti sono: solidarietà all’interno della coppia, sostegno reciproco, antagonismo e condivisione (Feinberg, 2002; McHale et al., 2004; van Egeren, Hawkins, 2004). In questa prospettiva vengono sottolineate maggiormente l’interazione e la condivisione affettiva rispetto alla di­ mensione comportamentale: attraverso la solidarietà cogenitoriale, infat­ ti, i genitori manifestano sentimenti positivi reciproci durante gli scambi interattivi con il bambino. Vanno inoltre considerati il livello di condivi­ sione delle responsabilità e del lavoro connesso alla cura del bambino, oltre che il mutuo coinvolgimento rilevabile quando entrambi i genitori sono impegnati con lui. Al contrario, i genitori possono entrare in con­ flitto e squalificarsi a vicenda, quando si prendono cura del figlio. Queste attitudini genitoriali sono direttamente osservabili nella vita familiare di tutti i giorni, oppure vengono percepite da uno dei genitori attraverso la comprensione dello stato mentale del partner e l’interpre­ tazione del suo comportamento genitoriale. Numerosi fattori possono influenzare negativamente le dinamiche tra i genitori, ostacolando la loro relazione: tra questi si rilevano il disaccordo e il conflitto in meri­ to alle decisioni educative per il bambino (Belsky et al., 1995), oppure un intenso coinvolgimento con il bambino, accompagnato però dalla sottovalutazione della relazione di coppia (van Egeren, 2003). A que­ sto proposito, risulta particolarmente conflittuale la situazione in cui la madre si assume la responsabilità primaria verso il bambino, sentendosi irritata dagli interventi e i comportamenti del padre durante l’accudimento del figlio. In questi casi è piuttosto frequente che la madre cerchi di interferire e svalorizzare il padre, assumendo una funzione definita di gatekeeping {ibidem, p. 290), quando è lui a prendersi cura del bambi­ 112

LA COGENITORIALITÀ DURANTE LA GRAVIDANZA E NEL PERIODO POSTNATALE

no. L’esperienza cogenitoriale può essere ulteriormente compromessa quando le madri si sentono frustrate nelle proprie aspettative, perché percepiscono che il partner non le riconosce e non le sostiene abbastan­ za nell’accudimento del figlio (van Egeren, 2004).

Un’illustrazione della cogenitorialità Sebbene la ricerca e gli studi clinici abbiano largamente contribui­ to alla comprensione delle dinamiche interattive tra genitori e figli, dobbiamo comunque ricordare le parole di Freud in II delirio e i sogni nella “Gradiva" di Wilhelm Jensen: “[I poeti e gli scrittori] [...] nel­ le conoscenze dello spirito essi sorpassano di gran lunga noi comuni mortali, poiché attingono a fonti che non sono ancora state aperte alla scienza” (1906, p. 264). Tornando al mondo della genitorialità, che è il tema centrale di que­ sto capitolo, nel corso dei secoli, molti pittori hanno prodotto significa­ tive e toccanti opere di madri nell’atto di allattare o prendersi cura dei loro bambini, facendo riferimento soprattutto alle immagini di Maria e Gesù. Mentre queste immagini religiose enfatizzano l’aspetto sacra­ le, quasi ieratico, dell’incontro fra la Madonna e Gesù, alcuni quadri descrivono con grande intuizione l’incontro reale fra madre, padre e fi­ glio dopo la nascita, rappresentando dunque la matrice dell’esperienza quotidiana. Uno di questi è il quadro di Giorgione La Tempesta (figura 4.1), dipinto nei primi anni del sedicesimo secolo ed esposto nel Museo dell’Accademia di Venezia. Nel quadro del Giorgione la protagonista è una giovane donna nu­ da che guarda in direzione dell’osservatore. All’interno del paesaggio campestre, la giovane è seduta su un rialzo di terra che le fa da palcosce­ nico, sottolineando ulteriormente il suo essere protagonista della sce­ na. Con il braccio destro stringe un bambino di pochi mesi e lo allatta, dando l’impressione, con la posizione del corpo, di volerlo mostrare a chi guarda con un intimo compiacimento. Un velo bianco avvolge sia le sue spalle sia il bambino. Di fronte alla donna, ma su uno spiazzo di terreno più basso attraversato da un ruscello, un giovane uomo, vestito con una giubba rossa e dei pantaloni colorati, sta in piedi appoggiato a un’asta di legno. Il giovane guarda la madre e il bambino, quasi a vo­ lerli proteggere. Sullo sfondo del paesaggio, si scorge un borgo di case sovrastato da un cielo denso di nuvole nere, solcate da un fulmine, che preannunciano una tempesta.

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Questo misterioso quadro è stato oggetto di numerose interpreta­ zioni (Settis, 1990), che ne hanno svelato significati allegorici (la For­ za, rappresentata dal giovane soldato, e la Carità, rappresentata dalla madre) e addirittura simboli alchemici (l’aria, l’acqua, la terra e il fuo­ co). Tuttavia, a un occhio non esperto di arte, ma abituato a studiare i comportamenti dei genitori e dei bambini durante i primi mesi di vita, emergono da questo dipinto altri aspetti che ci aiutano a introdurre i temi che svilupperemo nel libro. In primo luogo viene rappresentato lo scenario delle interazioni tria­ diche fra madre, padre e bambino, approfondito, negli ultimi anni, dalla

Figura 4.1 Giorgione, La messo di Immagini Corbis.

Tempesta,

Museo dell'Accademia, Venezia. Stampata con il per­

LA COGENITORIALITÀ DURANTE LA GRAVIDANZA E NEL PERIODO POSTNATALE

scuola di Losanna (Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warnery, 1999). Madre e bambino si trovano all’interno di uno spazio intimo e privato, deli­ mitato da un velo bianco che fa pensare a una membrana placentare che avvolge entrambi. Non si tratta di uno spazio chiuso, simbiotico e che esclude gli altri perché la madre - pur allattando il figlio - si rivol­ ge con lo sguardo allo spettatore, il quale personifica il mondo sociale. La madre e il figlio sono i due protagonisti della scena; loro sono al centro del palcoscenico della vita. A poca distanza, ma separato da un ruscello, vi è il giovane, un soldato, secondo il parere di alcuni critici d’arte. Non è armato, non indossa armature metalliche e armi perico­ lose: il suo abbigliamento fa pensare a un giovane del suo tempo, con dei colori vivaci che ne riflettono la gaiezza dcU’animo. Oggi potrem­ mo figurarcelo come un giovane padre che vigila sulla coppia madre­ bambino, riconoscendo la differenza del proprio ruolo paterno rispet­ to a quello della madre. Lui si trova più in basso, come a voler marcare questa differenza. L’asta di legno non è un’arma di offesa: è piuttosto un bastone a cui appoggiarsi, utile anche per difendersi. La funzione protettiva e difensiva del giovane può essere emblematicamente attivata dalla tempesta imminente, che può rappresentare un pericolo per la ma­ dre e il bambino. Il tema della protezione e della difesa è centrale nella teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1969/1982), proprio perché entrambi i genitori devono sventare i pericoli in grado di mettere a repentaglio la sopravvivenza del bambino, che è ancora un essere fragile e indifeso. A questo punto vale la pena di ricordare ciò che scrisse Lacan (1957/1958) a proposito del rapporto immaginario, quasi fusionale, fra madre e bambino, in cui “il bambino cerca di essere l’oggetto della madre” e nel quale si potrebbero perdere i rispettivi confini se non in­ tervenisse “la parola del padre che deve stabilire la legge per la madre” (Diatkine, 2000, p. 1028), un principio di realtà che reinserisce la rela­ zione fra madre e figlio all’interno del contesto semantico comune, ossia il mondo dei significati condivisi che vengono a sancire regole e confini. In secondo luogo, l’interazione fra la figura della madre e quella del giovane, che personifica la vigilanza paterna, fa pensare al tema della cogenitorialità: la relazione fra i due genitori, “il coordinamento tra gli adulti responsabili della cura e l’educazione dei figli” (McHale, Kuersten-Hogan, Rao, 2004, p. 222). In terzo luogo, la nudità della madre e del figlio sottolinea l’impor­ tanza del contatto corporeo e del suo ruolo fondamentale nella costru­ zione del legame di attaccamento oltre che nella regolazione dei ritmi psicobiologici del bambino, proprio perché, come è stato messo in lu­ 115

LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

ce in campo animale, esistono dei “regolatori nascosti” (Hofer, 1995) che intervengono nella regolazione della pressione sanguigna, della fre­ quenza cardiaca e dei ritmi neuro-ormonali.

La cogenitorialità tra diade e triade Mentre all’inizio la ricerca ha focalizzato l’attenzione soprattutto sui fattori della coppia coniugale che influenzano le dinamiche cogenitoriali in una prospettiva diadica, più tardi ha ampliato la prospettiva della cogenitorialità, riconoscendo l’influenza che il temperamento e le caratteristiche del bambino esercitano sulle dinamiche cogenitoriali. Le caratteristiche psicologiche del bambino influenzano sia il funziona­ mento diadico dei genitori sia le interazioni triadiche che lo includono. Considerando il contesto dell’unità familiare triadica madre-padrebambino, Fivaz-Depeursingc c Corboz-Warnery (1999) hanno identifi­ cato due sottosistemi. Il primo è rappresentato dalla coppia genitoriale (sottounità strutturante), che ha il compito di guidare e sostenere lo svi­ luppo del bambino; il secondo sottosistema è rappresentato dal bambi­ no stesso (definito sottounità evolutiva), il quale, a sua volta, crescendo e sviluppando la propria autonomia e competenza, stimola e influenza le dinamiche e il funzionamento cogenitoriali. Le due sottounità pos­ sono interagire e influenzare la capacità della famiglia di organizzarsi come una squadra: capacità, questa, definita anche come “alleanza fa­ miliare” (ibidem, p. 10). Le dimensioni diadiche e triadiche tendono inevitabilmente a so­ vrapporsi, ed esistono diversi pareri su quale sia quella più rilevante. Van Egeren e Hawkins (2004), per esempio, danno una grande impor­ tanza alla relazione diadica tra i genitori, che, secondo loro, rappresenta la principale unità di analisi familiare anche all’interno di un contesto di analisi triadico (che include il bambino), un sottosistema del conte­ sto familiare più allargato. In ogni caso, è più importante esplorare le specifiche caratteristiche e dimensioni del sottosistema relazionale - come l’incoerenza e il con­ flitto nel coinvolgimento genitoriale, l’antagonismo, la coesione e l’ar­ monia, e l’attenzione rivolta al figlio rispetto all’attenzione rivolta ai ge­ nitori (McHale, 2007 ) -, che valutare la maggiore rilevanza teorica del contesto triadico o diadico. Considerando le dimensioni sopracitate, McHale ha identificato cinque distinte tipologie di famiglia. Nelle “fa­ miglie centrate sul figlio” i bisogni e le richieste del bambino stimolano

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interazioni, all’interno delle quali i genitori si coinvolgono con il figlio ma non tra di loro. Nelle “famiglie competitive” è presente un coinvol­ gimento dei genitori con il bambino, ma, in questo caso, le interazioni sono caratterizzate da antagonismo e assenza di calore e cooperazione. Le “famiglie coesive centrate sul figlio” e le “famiglie coesive centrate sui genitori” {.ibidem, p. 375) sono invece caratterizzate da calore e in­ terazioni cooperative tra i genitori. Infine, le “famiglie escludenti” so­ no definite da discrepanze e mancanza di connessione tra madri e pa­ dri: in questo caso, quando un genitore si attiva, l’altro si disimpegna. Gli stessi elementi che influenzano il funzionamento genitoriale (Belsky, 1984) intervengono anche nello sviluppo della relazione cogenitoriale. Tra questi vi sono il background sociale e culturale dei genitori, le loro personalità, il loro stile di relazione interpersonale e i loro atteg­ giamenti in merito alle questioni educative e di crescita dei figli (Belsky et al., 1995). In questo ambito il modello di attaccamento dei genitori sembra in­ fluenzare la qualità della cogenitorialità dopo la nascita del bambino (Talbot, Baker, McHale, 2009): in particolare, l’attaccamento sicuro materno costituisce per il bambino un fattore di protezione dal con­ flitto cogenitoriale, mentre l’attaccamento sicuro paterno sembra pro­ muovere la coesione della coppia genitoriale.

Cogenitorialità e sviluppo del bambino Come abbiamo sottolineato, la cogenitorialità inizia a delinearsi du­ rante la gravidanza, ma l’interazione tra i genitori può subire dei cam­ biamenti dopo la nascita del bambino e durante i suoi primi anni di vita (Carneiro et al., 2006; van Egeren, 2003). Allo stesso tempo, la ricerca ha esplorato l’influenza esercitata dal bambino e dalle sue caratteristi­ che sulla relazione cogenitoriale (McHale, Rotman, 2007; McHale et al., 2004; Schoppe-Sullivan et al., 2007). È indubbio che esista un’ovvia asimmetria tra il sottosistema cogenitoriale e quello evolutivo (rappre­ sentato dal bambino), che è definita da uno scambio e un adattamento reciproci tra le caratteristiche del bambino stesso e i patterns relazio­ nali dei genitori. McHale e collaboratori (2004) hanno ipotizzato che un tempera­ mento difficile del bambino possa avere un impatto sulla qualità del­ la relazione genitoriale, nel corso dello sviluppo. Durante i primi mesi di vita, i genitori cercano di adattarsi al bambino compensandone le

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difficoltà; è possibile però che, successivamente, riducano il proprio coinvolgimento con lui, manifestando minore responsività e distacco. Le difficoltà nella relazione dei genitori durante la gravidanza po­ trebbero stabilizzarsi e accentuarsi dopo la nascita del bambino, se questo mostra un temperamento difficile, oppure attenuarsi, dando vita a una relazione più positiva, in presenza di un temperamento più facile {ibidem). Queste osservazioni non hanno trovato conferma nello studio di Schoppe-Sullivan e collaboratori (2007). Gli autori, infatti, non han­ no rilevato un’associazione significativa tra i patterns interattivi delle coppie genitoriali e il temperamento del bambino, valutato a tre mesi e mezzo dalla nascita. Tuttavia, in presenza di una buona alleanza pre­ natale e bassi livelli di antagonismo reciproco, le coppie si mostrano maggiormente in grado di cooperare nella cura del bambino con tem­ peramento difficile. Considerando ora 1’influenza della relazione cogenitoriale sullo svi­ luppo comportamentale e socioemozionale infantile, la ricerca ha mes­ so in luce la forte associazione tra la cooperazione, la competizione, il coinvolgimento affettivo cogenitoriale, e lo sviluppo comportamentale, interpersonale ed emozionale del bambino durante i primi anni di vita (Feinberg, 2002; McHale et al., 2004). A questo proposito, Fivaz-Depeursinge, Favez e Lavanchy (2005) hanno evidenziato come la precoce capacità triadica del bambino promuova la sua intersoggettività prima­ ria; allo stesso tempo, le osservazioni di Fivaz-Depeursinge dimostrano che i bambini hanno un ruolo attivo all’interno della vita familiare, sin dall’inizio, anche prima di quanto ipotizzato dalla maggior parte delle teorie evolutive. Esplorando la relazione tra le disfunzioni dell’interazione cogeni­ toriale e lo sviluppo del bambino, lo studio longitudinale di McHale (2007) ha evidenziato come le disfunzioni interattive cogenitoriali, ri­ levate tra gli otto e gli undici mesi di vita dei bambini, siano predittive di un maggiore livello di ansia e aggressività durante l’età prescolare. Allo stesso tempo, sembra essere confermata un’associazione tra la qualità delle dinamiche cogenitoriali e il funzionamento adattivo dei bambini in età prescolare e scolare, tenendo presenti manifestazioni internalizzanti ed esternalizzanti, competenza scolastica, comprensio­ ne delle emozioni e capacità autoregolative, durante gli anni prescolari e scolari {ibidem). Le disfunzioni della coppia genitoriale possono avere però un impat­ to diverso, a seconda della fase evolutiva che il bambino sta attravcrsan-

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do. A questo riguardo, Belsky e collaboratori (1995) hanno ipotizzato che i compiti evolutivi con i quali il bambino si confronta a quindici mesi (ossia le emergenti capacità comunicative, lo sviluppo dell’auto­ nomia e la crescente oppositivilà) costituiscano una situazione di stress per i genitori, che richiede loro un maggiore sforzo condiviso. Le diffe­ renze individuali tra i genitori rispetto ad alcune dimensioni di perso­ nalità (come l’estroversione, la socievolezza e l’empatia) possono avere un effetto negativo sulla qualità della relazione cogenitoriale, che viene amplificato dalla specifica fase evolutiva che il bambino sta vivendo. In uno studio successivo, Belsky e Fearon (2004) hanno ampliato l’ambito di studio, esplorando la possibile relazione tra le caratteristiche delle relazioni della coppia coniugale, della relazione genitoriale e del­ lo sviluppo del bambino. In base al maggiore o minore equilibrio tra la qualità della relazione coniugale e la qualità della relazione genitoriale, sono state individuate cinque configurazioni familiari: “(1) consistently supportine, (2) consistently moderate, (3) goodparenting/poor marriage, (4) poorparenting/good marriage, and (5) consistently risky" (p. 511). Tre di queste categorie presentano un equilibrio tra la qualità del­ la relazione coniugale e la qualità della relazione genitoriale, ma si dif­ ferenziano per i livelli di intimità con il partner e di sensibilità verso il bambino, che possono essere alti {consistently supportine), medi {consi­ stently moderate) o bassi {consistently risky). Le restanti due categorie evidenziano una discrepanza tra la qualità del sottosistema coniugale e quello genitoriale {goodparenting/poor marriage e poorparenting/good marriage). Valutando gli effetti delle diverse configurazioni familiari sul­ lo sviluppo del bambino (in termini di competenza sociale e relazioni, abilità scolastiche e domini comportamentali), i migliori risultati sono stati evidenziati nei bambini appartenenti alle configurazioni familiari 1 e 2 {consistently supportine e consistently moderate), rispetto a quel­ li dell’ultimo gruppo {consistently risky). Nel caso di una discrepanza tra sottosistema coniugale e sottosistema genitoriale, i bambini appar­ tenenti alla configurazione familiare 3 {good parenting/poor marriage) riportavano migliori prestazioni nelle abilità cognitive e scolastiche. Allo stesso tempo è stato confermato che il sottosistema genitoriale ha un’influenza maggiore sullo sviluppo del bambino rispetto al sottosiste­ ma coniugale; infatti sono state rilevate poche differenze tra la qualità delle prestazioni dei bambini provenienti dai gruppi 1 e 3, ossia in pre­ senza di un’elevata capacità genitoriale, anche se non necessariamente accompagnata da una buona dimensione coniugale. In altre parole, i bambini sembrano più influenzati dalla qualità dei comportamenti co119

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genitoriali che dalle dinamiche coniugali dei loro genitori, anche quan­ do queste ultime risultino conflittuali. Come abbiamo visto, la cogenitorialità è indubbiamente influenzata dalla relazione di coppia e dalle caratteristiche del bambino. L’adatta­ mento reciproco tra genitori e bambini inizia durante la gravidanza e si sviluppa nel corso delle diverse fasi del ciclo vitale. Quello che acca­ de è un processo di spillover (Katz, Gottman, 1996), secondo il quale alcune dinamiche affettive e relazionali del sottosistema familiare pos­ sono riversarsi sugli altri sottosistemi, per esempio quello genitoriale. Nonostante emerga una sostanziale stabilità dell’alleanza cogenito­ riale durante lo sviluppo del bambino, nelle diverse fasi del ciclo vitale può essere necessaria una rinegoziazione dei ruoli genitoriali, anche in virtù delle nuove acquisizioni del bambino che obbligano i genitori a cercare nuove forme di adattamento ed equilibrio (van Egeren, 2004).

Gravidanza e transizione alla cogenitorialità Dobbiamo, prima di tutto, citare lo studio di von Klitzing e colla­ boratori (1999), focalizzato sulle dinamiche interattivo-affettive della coppia genitoriale in gravidanza, che si è proposto di analizzare la ca­ pacità triadica, intesa come l’abilità della madre e del padre di antici­ pare le future relazioni familiari senza escludere se stessi o il partner dalla relazione con il bambino. Gli autori ipotizzano che le abilità tria­ diche intrapsichiche e interpersonali di entrambi i partner, valutate du­ rante la gravidanza, siano correlate alla qualità delle relazioni diadiche e triadiche all’interno della famiglia quattro mesi dopo la nascita del bambino. In questa ricerca, le coppie vengono valutate durante l’ulti­ mo trimestre della gravidanza attraverso un’intervista semistrutturata, la TriadicInterview (ibidem), che viene somministrata congiuntamente alla coppia e che permette di analizzare non solo le rappresentazioni mentali individuali dei partner, ma anche le interazioni e i dialoghi os­ servabili tra i futuri genitori. Quattro mesi dopo la nascita del bambino, si valuta l’interazione triadica mediante il Lausanne Trilogue Play (Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warnery, 1999), una procedura osservativa standardizzata che misura le interazioni triadiche precoci congiunte di madre, padre e bambino. I risultati mostrano una forte connessione tra la dimensione rappre­ sentazionale genitoriale durante la gravidanza e le interazioni osserva­ bili successivamente; inoltre la qualità delle interazioni triadiche è si­ 120

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gnificativamente correlata al modo in cui entrambi i genitori, durante la gravidanza, si rappresentano la loro relazione futura con il bambino, e, in particolar modo, alla loro capacità di avere in mente la relazio­ ne con il figlio come parte di una relazione triadica in cui si riconosca l’importanza della partecipazione del padre (von Klitzing et al., 1999). Van Egeren (2003) ha sviluppato un modello multidimensionale per analizzare i principali fattori individuali predittivi della cogenitorialità durante la gravidanza, somministrando alcuni questionari ai genitori in attesa del primo figlio, in diversi tempi: durante il terzo trimestre della gravidanza e, successivamente, a uno, tre e sei mesi dopo la nascita del bambino. Questo modello si basa su numerose variabili che riguardano: le esperienze individuali dei genitori nella loro famiglia di origine (per­ cezione del conflitto), alcuni tratti di personalità dei genitori (sviluppo dell’io e reactance), la relazione con il partner (percezione di coopera­ zione e sostegno), il grado di coinvolgimento nel ruolo genitoriale e le opinioni di ciascun partner rispetto all’educazione dei figli. La ricerca ha evidenziato come, tra i fattori predittivi della cogenitorialità, gio­ chino un ruolo chiave le caratteristiche individuali materne. Per esem­ pio la forte motivazione della madre ad avere un figlio può influenzare negativamente il modo in cui questa percepisce il proprio partner: in questi casi, la madre può manifestare un atteggiamento svalutante e di esclusione nei confronti del padre, che alimenta il conflitto all’interno della coppia. Tra i fattori paterni che hanno maggiore influenza sulla re­ lazione cogenitoriale, emergono il livello di educazione e l’occupazione, ma anche le esperienze nella propria famiglia di origine. McHale e collaboratori (2004) hanno studiato anche la transizio­ ne alla cogenitorialità, indagando la qualità dell’interazione di coppia c i sistemi rappresentazionali individuali prima della nascita del bam­ bino, ipotizzando l’esistenza di una relazione tra i patterns interattivi della coppia genitoriale e le rappresentazioni mentali genitoriali. Nella ricerca sono state valutate coppie in attesa del primo figlio, al terzo tri­ mestre di gravidanza e a tre mesi dopo la nascita del bambino. Durante la gravidanza l’interazione della coppia veniva osservata nell’ambito di un compito di problem-solving, che consisteva in una discussione su un tema scelto da ogni partner riguardante gli aspetti che avrebbero voluto cambiare nella relazione di coppia. Inoltre, ai genitori veniva sommini­ strata l’intervista semistrutturata Coparenting Interview {ibidem), per esplorare le rappresentazioni mentali riguardanti l’esperienza con la propria famiglia di origine e quella del partner, le aspirazioni, i desideri e le preoccupazioni rispetto alla futura famiglia. I dati raccolti sono sta­ 121

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ti confrontati con l’alleanza familiare, misurata tre mesi dopo la nascita del bambino mediante il Lausanne Trilogue Play (Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warnery, 1999), tenendo in considerazione un indice di reatti­ vità negativa del temperamento del bambino. Inoltre, ai genitori sono stati somministrati (prima e dopo la nascita del bambino) alcuni que­ stionari, per valutare la soddisfazione coniugale, le aspettative in merito al reciproco coinvolgimento nella cura del figlio, e i rispettivi punti di vista riguardanti la sua educazione. I risultati hanno dimostrato come la qualità coniugale prenatale e le aspettative dei genitori rispetto alle future dinamiche familiari siano predittive dell’interazione familiare a tre mesi dalla nascita del bambino. Le osservazioni dell’interazione cogenitoriale durante la gravidanza tramite la procedura osservativa Lausanne Trilogue Play, nelle sue ver­ sioni prenatale (Carneiro et al., 2006) e postnatale (Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warnery, 1999), hanno confermato una correlazione tra l’al­ leanza cogenitoriale prenatale e l’alleanza familiare postnatale, osser­ vata a tre, nove e diciotto mesi dopo la nascita del bambino (Carneiro et al., 2006; Fivaz-Depeursinge, Frascarolo, Corboz-Warnery, 2010). Tenendo in considerazione la soddisfazione coniugale e l’interazione di coppia, è stato notato (Carneiro et al., 2006) come i padri siano più capaci di cooperare con le madri nella cura del figlio quando vivono una buona relazione di coppia. Al contrario, le madri sono in grado di orientarsi positivamente sul bambino anche in presenza di un conflitto nella relazione coniugale: le madri si sentono più coinvolte nel ruolo genitoriale, poiché sperimentano con maggiore intensità il processo di affiliazione, sia a livello emotivo sia fisico. Una prima conclusione: durante la gravidanza, la coppia sta già de­ finendo i ruoli genitoriali e sviluppando aspettative per il futuro. La transizione alla genitorialità è un periodo di riorganizzazione della vi­ ta di coppia, che richiede molti cambiamenti: la relazione necessita di essere rimodulata e rinegoziata, il ruolo familiare deve essere rivisto e nuove competenze devono essere acquisite. Con l’arrivo del bambi­ no, infatti, si sviluppano nuovi sistemi relazionali genitoriali, come la relazione individuale tra ogni genitore e il bambino, e la relazione tra madri e padri nel loro ruolo genitoriale (Cohen, Slade, 2000; van Egeren, 2004). I risultati delle principali ricerche sulla cogenitorialità in gravidanza confermano l’importanza di una valutazione precoce della relazione cogenitoriale, per l’identificazione delle situazioni a rischio e per la programmazione di interventi di sostegno (Carneiro et al., 2006; McHale et al., 2004). 122

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L’impatto psicologico dell’ecografia ostetrica sulla coppia in gravidanza Durante la gravidanza, nella fase di transizione alla genitorialità, il bambino che sta per nascere assume un ruolo fondamentale. La let­ teratura sulle dinamiche psicologiche in gravidanza evidenzia come, durante la gravidanza, la percezione che i genitori hanno del proprio bambino subisca graduali cambiamenti. Questa percezione all’inizio è fortemente influenzata dalle fantasie genitoriali, per poi diventare len­ tamente più realistica, grazie ai primi movimenti fetali e alle immagi­ ni degli esami ecografici, che sono eseguiti con una certa regolarità nel corso della gravidanza. Come è noto, l’ecografia ostetrica è una proce­ dura di visualizzazione diagnostica che, effettuata di routine durante la gravidanza, ha un ruolo fondamentale all’interno del processo psicolo­ gico dell’attesa, determinando un cambiamento nelle fantasie consce e inconsce dei genitori, che si devono confrontare con le immagini reali del bambino. Le immagini ecografiche intervengono nella definizione delle rappresentazioni mentali, non solo della madre ma anche del pa­ dre, che spesso assiste all’ecografia. La letteratura scientifica ha dimostrato che l’ecografia ostetrica ha un impatto psicologico positivo sui genitori, in particolare sulle madri (Beck Black, 1992; Cox et al., 1987; Garcia et al., 2002; Ji et al., 2005; Larsen et al., 2000). Indubbiamente l’elaborazione psicologica dell’e­ sperienza ecografica da parte della coppia genitoriale viene influenzata da diversi fattori, come la personalità della madre, il contesto sociale, la percezione dell’esperienza ecografica in sé (Lumley, 1990) e l’atteg­ giamento dei tecnici che eseguono l’esame (Missonnier, 1999). Una ricerca italiana di Fava Vizziello e collaboratori ha analizzato le risonanze emozionali e le rappresentazioni mentali delle donne in gravidanza, dopo la prima ecografia. Questo studio ha confermato la percezione positiva dell’esperienza ecografica da parte delle madri, le quali si creano un’immagine del bambino più reale e anche mag­ giormente condivisibile con il partner (Fava Vizziello, Righetti, Cri­ stiani, 1997). Missonnier (1999) definisce l’ecografia come un “rituale di iniziazio­ ne alla genitorialità”, che permette di esplorare la formazione dei legami preconsci genitori-bambino. L’ecografia rende visibile la presenza del bambino a entrambi i genitori e può favorire lo sviluppo della paterni­ tà, dal momento che il padre in attesa non è direttamente coinvolto nei cambiamenti fisici della partner (Campbell, 2006; Draper, 2002; Eke-

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lin, Crang Svalenius, Dykes, 2004; Finnbogadòttir, Crang Svalenius, Persson, 2003; Freeman, 2000). Nella letteratura scientifica vi è un sostanziale accordo sul ruolo po­ sitivo esercitato dall’ecografia ostetrica nello sviluppo del legame materno-fetale e nella formazione della relazione cogenitoriale: l’ecografia, infatti, facilita la condivisione delle fantasie coscienti relative al figlio all’interno della coppia, contribuendo alla costruzione dell’identità ge­ nitoriale delle madri e dei padri (Ekelin et al., 2004). Uno degli elementi da considerare è l’età gestazionale in cui viene ese­ guita l’ecografia; Kurjak e collaboratori (2007 ) ritengono che l’immagine del volto del bambino, mostrata ai genitori attraverso l’ecografia tridi­ mensionale (3D) o quadridimensionale (4D) durante il primo trimestre di gravidanza, possa essere controproducente e creare una rappresen­ tazione distorta del figlio: secondo gli autori, il momento migliore per coglierne le caratteristiche del volto è compreso tra la ventitreesima e la trentesima settimana di gestazione. In questo periodo gestazionale, infat­ ti, le ecografie 3D e 4D permettono di cogliere le caratteristiche del feto che, in questa fase, costituiscono il “prototipo infantile” del babyness (figura 4.2). Il babyness è una caratteristica universale che distingue i pic­ coli della specie umana e che, attra­ verso un meccanismo innato, attrae irresistibilmente gli adulti, motivan­ doli a prendersi cura di loro (Stern, 1977). Il babyness è caratterizzato da una grande testa, sproporzionata se paragonata al resto del corpo, una fronte molto ampia e sporgente ri­ spetto al resto del volto, occhi molto grandi rispetto alle dimensioni del viso, e guance paffute e sporgenti. L’ecografia 4D mostra, oltre ai lineamenti del feto, anche i suoi movimenti. Dalla quattordicesima settimana di gravidanza si posso­ no distinguere i movimenti parzia­ li, molto simili ai gesti intenziona­ li: il feto, per esempio, può toccarsi il cordone ombelicale, il volto o al­ tre parti del corpo, girare la testa Figura 4.2 Feto in un'ecografia tridimen­ sionale. Stampata con il permesso. e aprire la bocca (Piontelli, 2010).

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Questi movimenti suscitano una grande emozione nei genitori, per­ ché trasmettono un senso di vitalità: ciò consente alle madri e ai padri di immaginare la presenza di un’attività mentale sottostante i movimenti osservati (Stern, 2010). L’osservazione diretta dei comportamenti geni­ toriali durante l’ecografia in gravidanza, anche se ancora scarsamente utilizzata, può contribuire ad ampliare la nostra conoscenza riguardo l’interazione dei genitori in questo periodo. In uno studio preliminare, Stadlmayr e collaboratori (2009) hanno individuato alcuni caratteristi­ ci comportamenti genitoriali durante l’ecografia, come, per esempio, riconoscere le caratteristiche somatiche del feto, o cercare delle somi­ glianze con un genitore o l’altro. Durante l’ecografia, tra i genitori si verificano specifici comportamenti interattivi, come il contatto visivo e la responsività reciproca. Alla luce di queste osservazioni, potremmo ipotizzare che la qualità della relazione della coppia in gravidanza du­ rante l’ecografia 4D possa costituire un fattore predittivo della qualità della relazione cogenitoriale dopo la nascita del bambino. Assumendo queste considerazioni come punto di partenza, il nostro gruppo di ricerca (Ammaniti, Mazzoni, Menozzi, 2010) ha condotto uno studio esplorativo sulla transizione alla genitorialità con coppie in attesa del primo figlio, al fine di osservare i patterns interattivi cogeni­ toriali durante l’ecografia 4D. A questo scopo, abbiamo strutturato uno strumento osservativo adattato dal Prenatal Lausanne Trilogue Play, la ben nota procedura di studio del sottosistema cogenitoriale in formazione nel periodo prenata­ le (Carneiro et al., 2006). Il nostro lavoro è stato guidato da diversi que­ siti: durante l’interazione con il bambino osservato nell’ecografia 4D, le coppie mostrano dei patterns cogenitoriali? L’ecografia 4D è in grado di attivare comportamenti genitoriali intuitivi durante la gravidanza? Secondo il paradigma di Losanna {ibidem), l’uso di un metodo os­ servativo di valutazione della cogenitoralità durante la gravidanza è in grado attivare anche rappresentazioni genitoriali (Fivaz-Depeursinge, Frascarolo, Corboz-Warnery, 2010). Nel Prenatal Lausanne Trilogue Play, i genitori interagiscono stimolando l’incontro con il loro bambi­ no, nell’ambito di una sorta di role-playing eseguito con l’uso di una bambola. Questa esperienza richiede un’attitudine al gioco e l’abilità di anticipare quello che sarà il sottosistema triadico con il bambino. Durante l’esame ecografico, i genitori devono confrontarsi con un’immagine reale del feto, piuttosto che con una bambola che do­ vrebbe rappresentare il futuro bambino. Essendo questa un’esperienza comune per i genitori in attesa, abbiamo ipotizzato che l’osservazione

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dei genitori durante l’osservazione di un’ecografia 4D possa mettere in evidenza il loro attuale scambio genitoriale durante la gravidanza; l’e­ cografia ostetrica 4D potrebbe, inoltre, aprire una finestra sul precoce contributo del futuro bambino nel dare forma alle rappresentazioni e alle interazioni genitoriali. Il nostro campione ha incluso diciotto coppie in attesa del primo fi­ glio, che hanno effettuato un’ecografia 4D di controllo tra la ventiquat­ tresima e la ventottesima settimana di gravidanza. Le madri avevano un’età media di trentadue anni e i padri di trentatré anni. Il titolo di studio era per il 63,9% dei genitori la laurea e, per il 36,1 %, il diploma. Tutti i padri hanno assistito all’ecografia 4D delle proprie com­ pagne. Le osservazioni sono state eseguite mediamente una settima­ na dopo che le coppie avevano effettuato l’ecografia 4D di controllo. Tutti i feti erano in buone condizioni di salute e i genitori non ripor­ tavano nessun sintomo psicopatologico, così come valutato mediante \aSymptom Checklist-90-Revised (SCL-90-R; Derogatis, 1977) eia Cen­ ter for Epidemiologie Studies Depression Scale (CES-D; Radloff, 1977). Per valutare le interazioni tra i genitori, abbiamo utilizzato la codifica dell’alleanza cogenitoriale prenatale (Carneiro et al., 2006), basata su: la vivacità ludica cogenitoriale, la struttura del gioco, la cooperazione e il calore familiare. Abbiamo anche considerato i comportamenti ge­ nitoriali, in particolare quelli intuitivi (Papousek, Papousek, 1987), e i dialoghi genitoriali esplorati mediante un’analisi del contenuto dei dialoghi delle madri e dei padri mentre parlavano al feto nel video. Le coppie sono state sottopo­ ste prima a una lunga intervista congiunta che esplora le rappre­ sentazioni della coppia e l’espe­ rienza rispetto alla transizio­ ne alla genitorialità; poi, è stato chiesto loro di guardare l’ultima ecografia 4D sullo schermo di un computer. Come nella procedu­ ra del Prenatal Lausanne TriloFigura 4.3 I genitori guardano il feto nello gue Play, i genitori erano seduti schermo. Stampata con il permesso. in una configurazione triangola­ re, con lo schermo di un computer appoggiato su un tavolino rotondo (figura 4.3). Sullo schermo, collegato a un computer portatile, veniva proiettata l’ultima ecografia ostetrica 4D. Ai genitori veniva data la con­ segna di “parlare al bambino, immaginando che li potesse ascoltare”.

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Secondo le nostre ipotesi, l’ecografia 4D è in grado di mostrare l’imma­ gine del bambino attuale, piuttosto che di quello “futuro” rappresenta­ to dalla bambola, ed è strettamente integrata nell’esperienza genitoriale durante la gravidanza; inoltre, la consegna di “parlare al bambino” in­ vece che di “interagire con lui” potrebbe adattarsi meglio allo stimolo del video. Come nella procedura del Prenatal Lausanne Trilogue Play, ai genitori veniva chiesto di alternarsi a parlare al bambino nelle quat­ tro configurazioni: (a) uno dei genitori parla al bambino, mentre l’al­ tro mantiene una posizione di terzo; (b) i genitori si scambiano i ruoli; (c) entrambi i genitori parlano al bambino; (d) i genitori parlano tra di loro dell’esperienza che hanno appena vissuto (Carneiro et al., 2006). L’analisi dei comportamenti genitoriali mette in luce che le madri sorridono al bambino più dei padri e che entrambi i genitori sorridono più al bambino che al partner. Non è stata evidenziata alcuna differenza significativa tra madri e padri nella durata dei dialoghi diretti al bambi­ no, sebbene sembra che i padri parlino meno al bambino. Durante l’analisi microanalitica dei video, è stato notato un compor­ tamento inatteso: il 50% delle madri e il 27 % dei padri mostrano com­ portamenti imitativi; più precisamente, i genitori imitano i movimenti eseguiti dal feto con le mani, le braccia, la bocca e la lingua. Considerando i dialoghi dei genitori durante l’osservazione del bam­ bino nello schermo, madri e padri nominano se stessi come “mamma” o “papà” nel 50% dei casi, o nominano il partner “mamma” o “papà” nel 36% dei casi; il 50% dei genitori trova delle somiglianze tra il fe­ to e il partner - soprattutto le madri (il 55%) -, e il 52% dei genitori chiama il bambino per nome. Questi dialoghi evidenziano l’emergere del processo di affiliazione e dell’identità genitoriale. Questi risultati dimostrano che l’ecografia ostetrica stimola nei ge­ nitori il riconoscimento del feto come loro figlio, ed evidenziano come il bambino possa diventare molto presto nella gravidanza “un compa­ gno segreto”, prendendo in prestito il titolo di un racconto dello scrit­ tore Joseph Conrad (1909). Questa con divisione segreta è testimoniata dall’imitazione inconscia dei movimenti del feto, soprattutto da parte delle madri. Così come esiste un meccanismo imitativo nei neonati, che crea - mediante un meccanismo “come-me” - un’equivalenza tra il sé e l’altro (Meltzoff, Prinz, 2002), allo stesso modo, a partire dalla gra­ vidanza, si attiva nei genitori un meccanismo di equivalenza - che po­ tremmo definire di rispecchiamento (Papousek, Papousek, 1987) - che li aiuta a identificarsi con il bambino e a familiarizzare con lui. Come è stato discusso negli altri capitoli, possiamo ipotizzare che il mecca­

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nismo specchio sia attivato sin dalla gravidanza, consentendo una si­ mulazione incarnata (Gallese, 2009a), per mezzo della quale i genitori possono simulare internamente le espressioni facciali e i movimenti del loro bambino, per diventare “come lui” e favorire il processo di affilia­ zione. Allo stesso tempo, i genitori aiutano il bambino che è nella loro mente a diventare “come loro”, all’interno di un’equivalenza reciproca. Durante la gravidanza, questi processi sono fondamentali perché pre­ parano entrambi i genitori all’incontro con il bambino dopo la nascita. Nelle nostre osservazioni, il calore familiare è correlato con la dura­ ta totale dei sorrisi diretti al bambino: ciò conferma che l’alleanza e la condivisione dei due partner sostengono l’attenzione sul bambino e la risonanza emotiva positiva. I padri del nostro studio sperimentano un’identità paterna, appaio­ no coinvolti con il bambino e sono in grado di avere un dialogo con lui, sebbene questo sia ancora nel ventre materno. Ovviamente emergono delle differenze tra madri e padri: le madri sorridono di più al bambi­ no, in quanto più abituate ad avere un dialogo interno con il figlio e a condividere con lui il periodo dell’attesa. Va detto che, negli ultimi decenni del ventesimo secolo, il contesto della gravidanza nei Paesi occidentali c cambiato profondamente, non solo a causa della crescente medicalizzazione della gravidanza stessa ma anche a causa del fatto che il padre è molto più presente e partecipa di più all’interazione con il bambino che deve nascere. I padri condivi­ dono i momenti cruciali della gravidanza e, grazie anche all’ecografia, riescono a conoscere i propri bambini e partecipano a quanto si sta ma­ nifestando nel corpo materno.

Una coppia in attesa Riportiamo lo stralcio di un’intervista eseguita con una giovane cop­ pia, nell’ambito della ricerca sulle rappresentazioni genitoriali in gravi­ danza (Ammaniti et al., 2010). Il dialogo dimostra bene gli scambi che si verificano in questa fase della vita di una coppia. La futura madre ha trentatré anni e lavora in un laboratorio medi­ co, mentre il futuro padre è un operaio di trentacinque anni. Si sono sposati dopo un lungo fidanzamento e, subito dopo, la donna ha sco­ perto di essere incinta: sta aspettando una bambina. La gravidanza sta trascorrendo bene; la futura madre presenta alcuni sintomi depressivi, ma al di sotto dei livelli di rischio. Rispetto alle dinamiche di coppia,

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la donna non sembra molto soddisfatta della relazione con suo marito, al contrario del marito che invece sembra esserlo. Non emerge alcu­ na problematica particolare dalle storie familiari, ma entrambi i part­ ner mostrano un certo distanziamento dai propri genitori, confermato dall’assenza di ricordi nel campo dell’attaccamento. I: M: P: M: I: M:

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Intanto vi chiedo: come sta procedendo attualmente la gravidanza? Bene. Bene. Molto bene. Non mi posso lamentare [ride], per niente. Come vi siete sentiti in questi primi mesi di gravidanza? Allora io a volte non mi rendo... adesso un po’ di più perché si muove quin­ di va beh è un’altra storia. Però neanche mi rendevo conto di essere incinta, a parte i primi fastidi iniziali. Tutt’ora a volte adesso devo realizzare [ride], cioè non lo so mi vedo talmente bene che, poi la sera magari sei più stanca, per carità, però a volte ti ho detto neanche mi rendo conto. Per me più o meno è la stessa cosa. Anche perché io lavoro in un ambiente prettamente maschile, quindi si parla di tutt’altre cose, e quando la sento magari le chiedo di Maria, perché così abbiamo deciso di chiamarla. Come mai un bambino in questo momento della vostra vita? E una cosa che senti francamente, cioè non so spiegare. È il completamento della coppia. Sì cioè dici... Io le ho sempre detto a lei che quando ci siamo sposati non era per fare tra virgolette i fidanzatini, ma per fare un figlio per poi magari... Una famiglia. Una famiglia, una famiglia mia. Vi ricordate di quando avete saputo di aspettare la bambina? Dormivamo insieme e avevo sentito lei che la notte si era alzata, però lei è solita fare queste cose quindi non... non ho dato importanza. La mattina mi sono svegliato e sono andato a lavorare, sono tornato e ho trovato sul tavolo dei calzini da bambino. Scarpine da bambino. Con scritto “bentornato papà”. E da lì ho capito. Io avevo dei dubbi, perché non gli volevo dire nulla, perché gli volevo fare una sorpresa. Alle cinque di mattina mi sono svegliata perché avevo l’an­ sia più che altro, e niente ho fallo il test... è stato bello però traumatico allo stesso tempo comunque saperlo così, cioè traumatico per modo di di­ re, però “oh mio Dio” e poi mi sono rimessa giù, non gli ho detto niente la mattina, ovviamente appena sono arrivata a lavoro l’ho detto a tutte le mie amiche [ride], E come si è sentita, si ricorda? Strana... strana. Una sensazione strana, bella però anche un po’ di paura all’inizio, perché dici “oh mio Dio”, non lo so... una sensazione strana. Un po’ spaventata perché comunque il cambiamento è importante e quindi, va beh però felice, perché lo sai che lo voleva quindi... 129

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I: E lei come si è sentito? P: Felice sicuramente, però come lei, un po’ strano... cioè una cosa diversa da... cioè un conto è dire “sono papà” quando proprio lo sei, ora non sono... [ride]. È interessante notare il modo in cui i partner interagiscono durante l’intervista, esprimendo ognuno il proprio punto di vista. Il futuro pa­ dre, che ha desiderato intensamente avere un bambino, tende a enfa­ tizzare gli aspetti positivi del periodo che stanno attraversando, mentre la madre appare certamente felice, ma esprime anche delle difficoltà ad accettare i cambiamenti che si stanno verificando in lei a livello psico­ logico ma, soprattutto, a livello fisico (Raphael-Leff, 2010).

I: Vi ricordate quando l’avete sentita muoversi per la prima volta? M: Sì, io sì, perché... non so se c’eri, non mi ricordo. All’inizio ho sentito una cosa, non sapevo cos’era. Perché faceva anche un po’ male, e non lo so, una cosa strana, una sensazione strana, e mi ha detto “quello è perché si sta muovendo”. I: A che mese era? M: ... quand’è che si comincia a sentire? Forse intorno al quinto, al sesto, non mi ricordo con precisione però mi sembra che più o meno era quel perio­ do lì. I: E come è stato? Che impressione ha avuto? M: No no, bello bello! [ride] Bello comunque, poi adesso che vedi tutta la pan­ cia che si muove [ride]. Ti dà i calci, fa un po’ male perché ormai è grande, però è bello. Bella sì sì, si sente il piede. I: E lei si ricorda la prima volta che l’ha sentita? P: Io ho avuto una serie di episodi sfortunati che magari lei diceva “si muo­ ve” andavo là, smetteva. Alla fine sono riuscito anche io a... qualche mo­ vimento l’ho percepito, sono riuscito a sentirlo. E poi due o tre settimane fa ho sentito proprio un contatto, secondo me era il calcagno [ride] e l’ho toccato, lo toccavo, stava qua. I: E come è stato? P: Bellissimo! I: Adesso vi succede di sentire insieme con le mani i movimenti? M: Sì sì [ride]. Però appena lui si avvicina si ferma. P: Avrò qualcosa alle mani, ogni volta che... M: Secondo me non hai pazienza perché ti devi mettere lì, così e poi lei... P: É una questione di mani fredde, magari se la tocco con le mani fredde, sic­ come sto sempre fuori, magari ritorno che ho le mani fredde, anche se ti lavi e ti fai la doccia però quando magari tocchi la pancia, non lo so magari non è vero, però ho le mani fredde... I: Vi ricordate di quando l’avete vista la prima volta nell’ecografia? M: Sì, quella sì. Io ho realizzato... ho proprio realizzato che c’era, perché co­ munque all’inizio la pancia non è che ce l’hai, insomma sei un pochino più tonda ma non è che hai la pancia, non la senti muovere, poi comunque io 130

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stavo bene quindi è stato bello. Mi ha emozionato molto vedere il cervello a me [ride]... ognuno ha la sua parte, non il cuore ma a me il cervello mi ha proprio, quello me la ricordo benissimo. Ho proprio realizzato. Proprio una bella emozione. Ed eravate insieme? Sì. Invece a me nella stessa ecografia ha emozionato il cuore quando ho vi­ sto il battito del cuore, velocissimo, ho realizzato. Cosa ha provato? Eh, una cosa, non so come spiegarla. Un magone [ride]. Un po’ una specie di felicità, non l’avevo mai provata prima. Non saprei neanche descriverla. Invece come vi siete sentiti rispetto all’ultima ecografia che avete fatto? Questa a 4D? Un ebete! [ridono] No io la guardavo “sei tu!, sei tu!”, poi ogni volta che si girava, che diciamo, non so come funziona bene l’ecografia, però quan­ do si avvicinava, zoommava insomma, ci ritrovavo sempre una somiglianza “no questa è mia! ” [ride]. Per me una sensazione molto bella, però io ho sempre avuto la sensazione che sarebbe stata femmina, da prima che me lo dicessero. [...] Però proprio... quando dicono il cordone ombelicale [ride] nel senso che c’è un rapporto, una... io sento quello, quindi ok sì vederla mi ha fatto un certo senso, comunque bello perché vedi i lineamenti, vedi che il viso... avevo paura prima di farla, sì.

Le risposte di entrambi i genitori rivelano una buona capacità di so­ stegno reciproco e di condivisione dell’esperienza che stanno vivendo, libera da interferenze o competizione. Il padre sembra rispettoso dei confini della madre ed evita di inserirsi nelle domande che riguardano specificatamente lei. Potremmo dire che esiste un riconoscimento dei turni in cui ognuno è attento, riconosce e valorizza l’esperienza dell’altro. I: C’è qualche aspetto in particolare che la preoccupava? M: Mm... no, va beh un po’ di terrore c’è sempre, sapere se sta bene, se non sta bene, questo penso che sia normale, per quanto io sia convinta che sta bene, cioè che non ha problemi. Però un po’ di paura c’è, è normale [ride]. Quindi insomma niente avevo un po’ di timore, poi vederla comunque va beh è bello insomma. I: Mi avete detto che conoscete già il sesso della bambina, avevate delle pre­ ferenze? M: Allora la cosa, io va beh me lo sentivo. La prima ecografia, quella che dice­ vo che ci aveva emozionato molto ci aveva dato una cosa indicativa perché il sesso non si poteva vedere, “è proprio una scommessa, non prendetelo per buono” e poi alla morfologica ce l’hanno detto, ce l’hanno confermato. Quindi diciamo che alla morfologica abbiamo avuto...

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P: La certezza. i: Avete già scelto il nome della bambina? M: No va beh, all’inizio avevamo scelto un altro nome, poi a me non piaceva più, perché lui continuava a chiamarla e non mi suonava più bene questo nome. Quindi abbiamo cambiato. Avevamo tre nomi tra cui decidere e alla fine lui mi ha detto “a me piace Maria! ”, va bene. P: In totale democrazia comunque eh! [ridono] I: Parlate spesso tra di voi della bambina? M: Sì! Sì, sì. I: Di solito di cosa parlate? M: Di tutto! P: Di tutto, di tutto. Dalla cameretta che bisogna andare a comprare a “ho comprato questo, prendiamo questo insieme”. M: La manderemo all’asilo, la educheremo così, non deve venire viziala, non deve venire fanatica. Insomma un po’ di tutto, cioè. I: Vi è mai capitato di fare dei sogni che riguardano la gravidanza, il parto o la bambina? M: Sì, a me sì. P: A lei. M: Io all’inizio ho sognato prima che era maschio, però mi sono svegliata senza nessuna sensazione... la notte dopo mi sono sognata che era femmina e mi sono svegliata con la sensazione che fosse femmina. Quello è stato il primo sogno che ho fatto... E poi ultimamente ho sognato che dovevo partorire, ma me lo ricordo poco. Molto poco. Perché io ho il terrore del parto [ride], quindi penso che sia quello, per quanto sto facendo questa preparazione che devo dire mi sta aiutando molto, perché ci fa vivere il parto come una cosa molto naturale, molto, però io c’ho paura. Quindi quello penso che rimanga nei nove mesi fino a che non la partorirò. I: Avete già notato delle somiglianze o delle differenze tra voi e la bambina? M: Allora la differenza è che posso parlare per entrambi in questo. Noi a una certa ora crolliamo, almeno, io prima almeno, le nove almeno. Comunque ci alziamo presto la mattina, tutto il giorno in movimento, quando erano le nove di sera magari ti addormentavi, le nove e mezza, massimo le dieci. Insomma persone che vanno a dormire veramente presto. Lei invece è sve­ glia [ride], quindi in questo sarà diversa da entrambi. E poi, poi non lo so. P: Fisicamente, ho ritrovato degli atteggiamenti magari che c’ha lei. Anche lei spesso mentre dorme, si tocca, si copre, si fa. Il fatto delle guanciotte, sono le sue. M: Avendo queste guance grandi, che poi sembrano anche più grandi, io co­ munque da bambina appena nata ero così. Appena nata proprio no, perché ero molto piccola, però poi ero una mela proprio. Quindi mi immagino che lei sia così, però l’ovale, poi la sua bocca. P: Ho notato anche la fantasia dove arriva [ridono]. No no, il taglio degli oc­ chi è sì quello. M: Come fai a vederlo... P: Sì sì però è una cosa veritiera, perché nel momento in cui è vera questa cosa quando ripeto wommava cambiava... cambiava in un secondo, cambiava

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di aspetto e la mente magari spaziava, dicevi “ma magari questo assomiglia a questo, c’ha questo di questo”. Quindi è veritiera, il lavoro della fantasia sembra una stupidaggine, invece è vero anche quello. Come vi immaginate la vostra bambina quando sarà nata? [ride] Come è adesso, cioè io la immagino che non dormirà la notte, che avrà un bel caratterino, secondo me non sarà una bambina molto calma, ho questa sensazione. Eh... questo. Spero che non sia molto grande alla nascita, tanto cresce dopo, non c’è problema [ride]. E tu? Io ti racconto una cosa che riassume tutto. Stavamo dormendo, saranno state circa le tre di notte. A un certo punto [ride], vedo lei che accende le luci. Tutto acceso e con lo schienale del letto e che faceva “oddio oddio mi fa male mi fa male” quindi penso... Sì, perché fa proprio male. ... Che sarà tremenda, questa è la sensazione che abbiamo, speriamo di no, però... In cosa vi piacerebbe invece che assomigliasse e fosse diversa da voi? Allora io vorrei che avesse la mia determinazione nella vita, su questo pen­ so che siamo d’accordo [ride]. Sì. Quindi che ci sia la voglia di combattere e di avere, di pretendere rispetto dalle persone, eh... poi. Va beh questo... Poi va beh da parte mia che c’abbia il mio di carattere perché il suo... Il carattere però quale aspetto? Il carattere diciamo o della socializzazione e anche del... diciamo se c’è un litigio a casa, per me dopo un’ora, un’ora e mezza è finita. Attualmente quali sono le vostre maggiori paure? ... Vai! [si rivolge al marito] Riguardo Maria?... Oddio... al momento, non vorrei sottovalutare la cosa, al momento non mi viene in mente magari. Potrei non esser pronto, spero di esser pronto anche quando magari... se penso a una situazione adesso... ho paura che quando mi chiederà qualcosa, se adesso me lo pongo come limite, poi ho paura che magari quando arriverà quel giorno sarà davvero un limite. Per esempio? Non so se magari lei mi chiederà, io posso dire per quanto riguarda i miei, che ogni volta che ho chiesto i miei ci sono stati. E io vorrei essere per lei anche la stessa cosa, quindi non mi vorrei porre limiti per “sarò pronto per questo, sarò pronto per quello”, perché poi magari vivo male, quindi pre­ ferisco esser magari... ehm, arrivare a quella situazione e vedere se sono pronto, senza essermi posto limiti prima. Come è cambiato ognuno di voi da quando aspettate la bambina? I cambiamenti sono un po’ in tutto, io pratico uno sport, praticamente faccio uno sterrato in mountain bike, e magari dei salti [ridono], uscivo da solo, e adesso esco... tutt’ora lo faccio, pratico molto ma molto, non salto più, purtroppo, purtroppo [ride], mi porto anche il telefono appres­ so, cosa che...

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M: Non faceva. Usciva da solo, non ti diceva dove andava, “ma tornerà?”. P: E cambiato tutto, tutto. È cambiata questa che è una stupidaggine, e quelle più grandi. Ragionare la vita come se non fosse più tua ma sua. M: Sì quello sì, sicuramente. Però forse un po’ più matura, a volte invece che ne so dico “oddio, però sono incinta, che cosa strana”, comunque mi sen­ to ancora quella che doveva trovare lavoro, quindi, come se questo tempo fosse proprio volato, cioè io non mi rendo conto di avere trent’anni, quindi mi sento ancora piccola per alcune cose però molto maturata in altre. I: Secondo lei come è cambiata sua moglie? [ridono] P: Al di là dell’aspetto fisico che è ovvio, è diventata mamma, è diventata mam­ ma, adesso si preoccupa, cosa che prima non faceva. M: Anche prima mi preoccupavo. P: Era un aspetto che non conoscevo di te. M: Va beh sono un po’ più apprensiva? P: Sei molto più apprensiva. Cosa che riscontro in tutte le mamme, cosa che ritrovavo in mia madre, in sua madre. I: Come potreste descrivere adesso la vostra relazione di coppia attuale? P: Oddio non mi è chiara la domanda [ridono] però non so quale aspetto vuo­ le che... M: Allora la vita di coppia più o meno è la stessa, c’è sicuramente meno inti­ mità di prima, sicuro. I: E rispetto alla sua partecipazione al parto, avete già deciso, ne avete parla­ to? M: Sì abbiamo sempre detto che lui avrebbe assistito. P: Sì, se non svengo [ridono]. I: Da quando aspettate la bambina qual è stato il momento più difficile tra di voi? M: ... L’altro fine settimana [ride] che abbiamo litigato perché lui ha fatto una cosa... hai fatto una cosa che mi ha fatto stare male, ne avevamo parlato, discusso, scusa scusa per carità per carità e la mattina, no dalla mattina al pomeriggio l’ha rifatta. E lì è stato insomma il momento più difficile che poi insomma... va beh, comunque superato anche per Maria, più che altro... [ride], sì perché se fosse stato per me, non lo so se l’avrei lasciato però... no va beh, mi sarei riavvicinata molto più in là e con molte più riserve, però per dire insomma, ti rendi conto che, avendo un figlio, tante botte di testa non le puoi fare. Quindi quello. P: Io sinceramente non me lo ricordo! M: Io l’ho vissuto così! [ride], I: Come immaginate di essere genitori quando la bambina sarà nata? M: Ho tanti bei presupposti, se riesco a mantenerli [ride]... non lo so, non vorrei viziarla, non vorrei averla sempre in braccio, non vorrei... boh! Non lo so. Non vorrei essere troppo apprensiva, cioè vorrei gestirla... non lo so, boh, non so neanche come spiegarlo sinceramente, però... boh. Cioè io vorrei già che facesse determinate cose, quindi che non si approfittasse dei genitori nell’ordine, o “tanto c’è mamma che mette a posto oppure c’è 134

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papà, io voglio questo perché lo voglio” tanti bambini si sentono. E invece no, cioè non è così. Come tutto gli fosse dovuto. Tanti bei presupposti per poi... Come le piacerebbe essere come mamma? Vorrei allattare. Il più possibile. Pure quello però è un terno al lotto perché non si sa. Elei? Io sono in linea di massima d’accordo con lei. Le auguro che riesca... Come vorrebbe essere lei come papà? Ah, come vorrei essere io come papà [ride], spero, questo me lo auguro, di non cadere ogni volta che lei piangerà, perché io già che ogni volta che piangerà io scenderò le scale, già lo so. Però adesso faccio finta... Fai il duro. Il duro no perché poi magari non riesci a farlo, sfido chiunque. Di non viziarla. Sì di non viziarla. Come si immagina sua moglie come mamma? Ma lei sarà una madre... una mamma ferma, me la immagino ferma e la vedo autoritaria, autoritaria poi difficile che, se lei chiede qualcosa, non la vizierà sicuramente. Speriamo [ride], La vedo così! Lei come vede suo marito come papà? Tutto il contrario! [ride] Che cederà subito, specie perché è femmina e quindi penso proprio che cederà. Sarà molto molto affettuoso, perché lo è proprio di carattere, cosa che non sono io. E quindi penso che sarà molto affettuoso, non la lascerà in pace un attimo! [ride] E la vizierà.

Nel corso dell’intervista, le dinamiche di coppia evidenziano la ca­ pacità di entrambi i partner di confrontarsi con questa importante fase della loro vita coniugale. Dall’intervista emerge uno spazio di coppia positivo, al cui interno i partner sono in grado di condividere la vita a livello emotivo, di confrontarsi e risollevarsi dai momenti critici e dalle difficoltà relazionali. Allo stesso tempo, osserviamo l’emergere di una dimensione co­ genitoriale: in questo momento di attesa, interagiscono e si sostengo­ no nel prefigurarsi il loro ruolo come genitori dopo la nascita della bambina. In entrambi è evidente un processo di affiliazione: la bam­ bina è arrivata a occupare uno spazio rilevante nel loro mondo psi­ chico individuale, così come in quello della coppia. Va notato che il padre sostiene l’identità materna della sua compagna, riconoscendo la centralità del suo ruolo e sapendo starle vicino senza interferire o sottrarsi dall’impegno. 135

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Interazione triangolare e sviluppo dell’intersoggettività del bambino A partire dal 1960, il costrutto dell’intersoggettività primaria du­ rante l’infanzia (Trevarthen, 2009) ha ricevuto importanti conferme. Gli studi microanalitici dei movimenti della faccia, delle mani e della voce manifestati dai bambini durante gli scambi interattivi con le ma­ dri e i padri hanno profondamente cambiato la teoria evolutiva della mente infantile. I bambini hanno una capacità innata di condividere i sentimenti e gli stati mentali degli altri (Stern, 2004). L’intersoggettivi­ tà primaria, definita dalle interazioni affettivamente risonanti tra bam­ bino e caregiver, fornisce una base per la comprensione dei sentimenti di connessione reciproca. La ricerca si è concentrata soprattutto sulla diade madre-bambino, ora messa in discussione dalla scoperta delle interazioni precoci dei bambini. Come Fivaz-Depeursinge, Lavanchy-Scaiola e Favez (2010) hanno sottolineato, rimane ancora aperta una domanda: le interazio­ ni triadiche si basano su uno schema diadico che implica una comuni­ cazione separata con ogni partner o su uno schema triangolare? Nello schema diadico, il bambino comunica separatamente con ognuno dei partner, mentre nello schema triadico il bambino è in grado di comu­ nicare contemporaneamente con più di un partner alla volta. Considerando quanto discusso nel capitolo 2 sull’allevamento coo­ perativo, si può ipotizzare che i bambini umani siano stati esposti per migliaia di anni a diversi membri del gruppo sociale di cui i genitori fa­ cevano parte. Questa complessa esperienza ha cambiato la mente e il cervello dei bambini, i quali hanno dovuto imparare a confrontarsi con molteplici interazioni. Come ha sottolineato Stern (2004), la capacità intersoggettiva deve funzionare per i gruppi così come per le diadi, con­ ferendo quindi un vantaggio per la sopravvivenza. Gli esseri umani sono una specie relativamente indifesa che sopravvive grazie alla capacità di coordinare l’attività del gruppo all’interno della famiglia o del gruppo sociale. Stern (ibidem) ha scritto: “La formazione e il mantenimento dei gruppi richiede l’interazione di molte risorse e motivazioni: legami di attaccamento, attrazione sessuale, gerarchie dominanti, amore, socia­ bilità. L’intersoggettività va aggiunta all’elenco” (p. 82). Le osservazioni della Fivaz e del Gruppo di Losanna (Fivaz-Depeur­ singe, 2001; Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warnery, 1999) hanno eviden­ ziato che a tre e sei mesi i bambini mostrano i primi nuclei della capaci­ tà intersoggettiva con la madre e il padre, che consente la costruzione

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LA COGENITORIALITÀ DURANTE LA GRAVIDANZA E NEL PERIODO POSTNATALE

di una triade reciproca. I bambini mostrano un senso di triangolarità, dal momento che sono in grado di seguire lo sguardo di un genitore verso l’altro (Tremblay, Rovira, 2007), con una precoce consapevolez­ za delle interazioni che coinvolgono tre persone. Una recente ricerca (Fivaz-Depeursinge et al., 2010) ha ulteriormente confermato la capa­ cità del bambino nelle interazioni triadiche: questa viene attivata non solo mentre gioca con i genitori, ma anche mentre li osserva dialogare, o, infine, durante lo Stili-Face Paradigm (Tronick et al., 1978), quando il bambino si confronta con dei segnali contraddittori. Le interazioni triadiche potrebbero servire a condividere a livello collettivo gli affetti e potrebbero essere connesse a uno schema triangolare. Un’interessan­ te questione sollevata da Fivaz-Depeursinge e collaboratori (2010) af fronta il ruolo del sistema di attaccamento all’interno delle interazioni triadiche, o, come suggerito da Stern (2004), del sistema motivazionale intersoggettivo. Soprattutto durante l’infanzia, è difficile dividere il si­ stema motivazionale dell’attaccamento da quello intersoggettivo, poi­ ché entrambi i sistemi forniscono una strategia di sopravvivenza, man­ tenendo una prossimità fisica alle figure di attaccamento e garantendo la comunicazione e la condivisione affettiva con entrambi i genitori. Ciò è stato confermato anche da Tremblay e Rovira (2007), che hanno documentato nel bambino la presenza di espressioni più ricche duran­ te le interazioni persona-persona-persona, rispetto alle interazioni per­ sona-persona-oggetto. A questo proposito, Nadel e Tremblay-Leveau (1999) hanno ipotizzato che l’interazione triadica possa rappresentare un’importante connessione tra l’intersoggettività primaria e seconda­ ria, in quanto espande l’interazione da un focus orientato inizialmente su una persona a un terzo polo di attenzione. Mentre a nove mesi i neo­ nati scrutano i volti dei loro genitori per avere un riferimento sociale di ciò che sta accadendo nell’ambiente, a tre mesi i neonati appaiono già coscienti (Tronick, 1998) della presenza dei loro genitori e della lo­ ro interazione. Come abbiamo avuto modo di sottolineare all’inizio di questo capi­ tolo, la psicoanalisi ha sempre concettualizzato e discusso il significato intrapsichico della triangolazione edipica nello sviluppo dei bambini e nell’origine della nevrosi. Tuttavia, questa concettualizzazione deve essere trattata alla luce delle recenti osservazioni sull’interazione tria­ dica precoce. E utile distinguere due diversi ambiti di ricerca e le conseguenti con­ cettualizzazioni: 137

LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

1. Il periodo edipico, come concettualizzato da Freud (1923), e succes­ sivamente sviluppato da Melarne Klein (1928), si riferisce, in par­ ticolare, alle dinamiche del conflitto intrapsichico che il bambino deve affrontare in relazione alle proprie figure genitoriali. Secondo Freud, il periodo edipico compare dopo il terzo anno, mentre Me­ larne Klein riteneva che le fantasie edipiche inizino durante il primo anno di vita del bambino. Va notato che, a differenza delle intera­ zioni triadiche, il bambino ha delle fantasie riguardanti il rapporto intimo tra i genitori, da cui si sente escluso e verso cui prova gelosia, rabbia, risentimento e competizione. 2. Per quanto riguarda le interazioni triadiche, la ricerca ha dimostrato che queste sono evidenti sin dai primi mesi di vita dei bambini, an­ che se non possiamo inferire il loro stato psichico. La comunicazio­ ne tra il bambino e i due genitori va messa in primo piano: essa ha un valore specifico a livello adattativo, dal momento che agevola la condivisione affettiva e la protezione. Comunque, nonostante i diversi contesti e metodi di ricerca, so­ no evidenziabili delle possibili intersezioni, così come sottolineato da Emde ( 1994a), il quale ha distinto il livello intrapsichico, rappresenta­ to dalla figura dell’“Edipo Provocatore” (p. 99), una storia individuale che implica un conflitto di desideri e intenzioni. Il secondo livello del­ la storia è familiare, l’“Edipo come Vittima” (p. 100), in cui i conflitti emergono tra Edipo e i genitori che lo hanno trascurato o sedotto: in questa prospettiva, vengono enfatizzate le dinamiche interpersonali e intergenerazionali di scontro. Il terzo livello è intersistemico, l’“Edipo come Uomo di Ricerca” (p. 102): in questo caso Edipo sta cercando di scoprire la conoscenza segreta su se stesso e il suo passato. Tornando alla nostra domanda, possiamo affermare che l’approc­ cio triangolare della psicoanalisi enfatizza le fantasie del bambino e le pulsioni verso i genitori e la loro relazione intima; al contrario, gli studi triadici sottolineano la ricerca da parte del bambino della disponibilità dei genitori e dell’interazione con loro, per ottenere protezione e con­ divisione. Ovviamente, la comunicazione triadica e triangolare provoca un senso di esclusione nel bambino (Emde, 1994b), il quale assiste al dialogo dei suoi genitori e percepisce di non essere all’interno del lo­ ro campo attentivo. Più tardi, il senso di esclusione sarà più connesso all’intimità dei genitori: il tema centrale della psicoanalisi.

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5 Basi neurobiologiche della maternità

Parallelamente alle trasformazioni psicologiche che accompagnano la gravidanza e il primo anno di vita del bambino, nel cervello della ma­ dre si verificano profondi cambiamenti, caratterizzati dall’attivazione di circuiti neurali che orientano le condotte di accudimento (Panksepp, 1998). I fondamentali cambiamenti che definiscono la trasformazione del cervello femminile in cervello materno vengono stimolati dalle inte­ razioni reciproche tra gli ormoni e i geni della gravidanza. I circuiti cere­ brali attivati promuovono i comportamenti di accudimento nelle madri e (sebbene in misura ridotta) anche nei padri: queste differenze sono del tutto comprensibili, dal momento che nelle specie mammifere il cervel­ lo femminile è biologicamente preadattato a prendersi cura della prole. Come è stato illustrato da Panksepp (.ibidem}, nel corso della gra­ vidanza, il livello degli estrogeni resta moderato per poi aumentare rapidamente in prossimità del parto, mentre quello del progesterone rimane elevato per poi diminuire alla fine della gestazione; la concen­ trazione di prolattina, invece, aumenta in modo costante (figura 5.1). Oltre a questi ormoni, altri fattori biochimici possono contribuire a dare inizio al comportamento materno, esercitando una forte influen­ za sul sistema nervoso. A questo proposito, nel corso della gravidanza dei ratti, soprattut­ to poco prima del parto, Gintzler (1980) ha rilevato un’attivazione nel sistema endorfinico, il meccanismo intrinseco, connesso all’ipofisi e all’ipotalamo, che modula la responsività agli stimoli avversivi e do­ lorosi. Va sottolineato che le endorfine, oltre a preparare la madre al dolore del travaglio, contribuiscono all’avvio del comportamento ma­ terno. Sufficienti evidenze empiriche documentano come l’inizio e la 139

LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

regolazione del comportamento materno richiedano la coordinazione di molti sistemi ormonali e neurochimici: tali evidenze mettono in luce la particolare sensibilità del cervello femminile ai cambiamenti biochi­ mici della gravidanza. L’avvio dell’accudimento materno è particolarmente influenzato dall’ossitocina, un ormone neuropeptidico, la cui secrezione aumenta nel contesto delle trasformazioni fisiologiche e ormonali associate alla gravidanza. L’ossitocina stimola le contrazioni uterine durante il tra­ vaglio e la montata lattea dopo il parto, promuovendo inoltre il com­ portamento materno di accudimento e di protezione nei confronti dei bambini (Insel, Young, 2001). Nei modelli animali è stata largamente esplorata l’associazione tra l’ossitocina, l’ambiente precoce materno e lo sviluppo del comporta­ mento genitoriale. E stato evidenziato come l’ossitocina influenzi for­ temente il legame tra genitore e bambino in diverse specie mammifere, inclusi i ratti, i topi di campagna e i primati (Kendrick, Keverne, Baldwin, 1987; Maestripieri et al., 2009; Neumann, 2008). Diverse e spe­ cifiche aree cerebrali risultano coinvolte nell’avvio e nel mantenimento dei comportamenti diretti verso la prole. Gli studi sulle lesioni seletti­ ve hanno documentato, e indirettamente confermato, il ruolo critico delle aree preottiche mediali (collocate nell’ipotalamo rostrale) e delle loro connessioni con il sistema dopaminergico mesolimbico (deputato al processamento del reward), nell’ambito del comportamento materno (Numan, Insel, 2003; Swain et al., 2004). Anche il talamo, la corteccia parietale e il tronco encefalico hanno un ruolo importante nel proces­ samento delle informazioni somatosensoriali che riguardano la prole, come l’odore, il contatto e le vocalizzazioni (Xerri, Stern, Merzenich, 1994). In questo contesto, la corteccia prefrontale assolve un ruolo pre­ minente nell’integrazione delle informazioni e nel monitoraggio del comportamento genitoriale (Afonso et al., 2007). Uno studio condotto sulle femmine di topo (Wang et al., 2000) ha rilevato un aumento dell’espressione genica e del binding reccttoriale dell’ossitocina ipotalamica durante il post-partum; un’altra ricerca ha confermato che, nei ratti, l’ossitocina può essere secreta dai neuro­ ni della sezione parvocellulare del nucleo paraventricolare e dall’area preottica mediale, entrambe regioni ipotalamiche che mediano il com­ portamento materno (Douglas, Meddle, 2008). Le esperienze sociali precoci influenzano il sistema ossitocinergico, connesso al comportamento materno e alla formazione dei legami af­ filiativi (Champagne et al., 2008; Meaney, 2001). A questo proposito,

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BASI NEUROBIOLOGICHE DELLA MATERNITÀ

Figura 5.1 Durante la gravidanza vengono prodotte consistenti quantità di ormoni (come gli estrogeni e il progesterone) e di neuromodulatori (come l'ossitocina, la prolattina e le endorfine). Gli ormoni e ì neuromodulatori attivano il circuito materno, rappresentato dalla corteccia cingolata, le cortecce prefrontale e orbitofrontale, il nucleo accumbens, l'amigdala, l'abenula laterale e il grigio periacqueduttale. Stampata con il permesso.

nella prole di sesso femminile sono state riscontrate delle differenze individuali a livello dei recettori dell’ossitocina, strettamente associate alla qualità delle cure materne precoci che questi animali hanno rice­ vuto durante l’infanzia (come il licking e il grooming)' e che, da adul­ ti, riproducono verso i propri figli (Meaney, 2001): questi dati metto­ no in luce il ruolo dell’ossitocina nella trasmissione intergenerazionale dell’attaccamento. Tali aspetti sono stati ulteriormente confermati da un altro studio (Francis et al., 1999; Francis et al., 2002) che ha eviden­ ziato come, nei ratti, la prole di sesso femminile più accudita dalle ma­ dri durante l’infanzia (considerando i più consistenti comportamenti di licking e grooming) risulti più predisposta a manifestare questi stessi comportamenti genitoriali nei confronti della propria prole. Al contra­ rio, le figlie di madri che forniscono bassi livelli di licking e grooming 1. Il termine licking fa riferimento al comportamento del leccare, mentre il termine grooming si riferisce al comportamento messo in atto dall’animale per provvedere alla pulizia di un suo si­ mile dai parassiti.

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LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

tendono a manifestare patterns comportamentali simili, una volta di­ ventate anche loro madri. Inoltre, la prole adulta delle madri meno ac­ cudenti mostra un più basso livello di espressione genica del recettore dei glucocorticoidi e una diminuzione della densità sinaptica ippocampale (Kaffman, Meaney, 2007). Nelle specie mammifere monogamiche, ossia quelle definite da for­ me di accudimento biparentale, l’ossitocina influenza anche il compor­ tamento paterno (Bales et al., 2004; Cho et al., 1999; Gubernick et al., 1995; Wynne-Edwards, 2001). Gli studi sui modelli animali che abbiamo riportato evidenziano co-' me le condotte materne di cura e accudimento siano significativamente modulate dall’azione dell’ossitocina (Gordon et al., 2010); la secrezio­ ne di cortisolo, al contrario, appare associata a comportamenti genito­ riali meno efficienti. Negli esseri umani, l’ossitocina, rilevata esclusivamente a livello pe­ riferico, risulta associata all’empatia, all’intimità, alla fiducia (Grewen et al., 2005) e alla capacità di leggere gli stati mentali degli altri (Domes et al., 2007); a questo proposito è importante segnalare l’alterazione nel metabolismo ossitocinergico che sembra caratterizzare i genitori tra­ scuranti (Fries et al., 2005). Nelle madri, il rilascio di ossitocina può essere stimolato dal con­ tatto pelle a pelle con il bambino, in particolare durante l’allattamento (Matthiesen et al., 2001). Feldman e collaboratori (2007) hanno misu­ rato i livelli plasmatici di ossitocina e di cortisolo in un gruppo di don­ ne, durante il primo e l’ultimo trimestre della gravidanza, e nei primi mesi del post-partum; allo stesso tempo, è stata valutata la qualità del legame materno, considerando sia il comportamento delle madri sia le loro rappresentazioni mentali rispetto al bambino. I risultati hanno evi­ denziato un’associazione tra livelli elevati di ossitocina (rilevati in gra­ vidanza e nel periodo postnatale), comportamenti materni più compe­ tenti e rappresentazioni mentali relative al bambino più equilibrate. In questo studio, la qualità dei comportamenti e delle rappresentazioni mentali delle madri veniva predetta dai livelli iniziali di ossitocina, che si mantenevano poi costanti nel corso della gravidanza. E stata, inoltre, rilevata un’associazione tra i livelli di ossitocina, i sentimenti di piacere sperimentati dalle madri nella relazione con il bambino e le rappresene tazioni mentali dell’attaccamento, mentre non è emersa alcuna relazio­ ne tra l’ossitocina e i pensieri materni di tipo ansioso o preoccupato. Queste osservazioni potrebbero confermare l’ipotesi che l’ossitocina intervenga nella maternità riducendo l’ansia, favorendo stati di rilassa­ 142

BASI NEL’ROBIOLOGICHE DELLA MATERNITÀ

tezza e piacere e sostenendo in maniera consistente il riconoscimento dell’attaccamento (Uvnas-Moberg, 1998). In un interessante studio sperimentale Swain e collaboratori (2008) hanno confrontato madri che avevano avuto un parto vaginale e madri che avevano avuto un parto cesareo, ipotizzando che le prime avreb­ bero manifestato una maggiore responsività al pianto dei propri bam­ bini, a due-quattro settimane dal parto. I risultati della ricerca confer­ mano come, durante il primo periodo del post-partum, le madri con parto vaginale siano più sensibili al pianto del loro bambino rispetto alle donne che hanno avuto un parto cesareo, evidenziando maggiori attivazioni nelle aree cerebrali coinvolte nel processamento sensoriale, nell’empatia e nella motivazione. Il tipo di parto ha, dunque, effetti significativi sulla reazione cere­ brale della madre nei confronti del pianto del proprio bambino, a duequattro settimane dalla nascita. Le complesse differenze biopsicosociali osservate nelle donne con parto vaginale rispetto a quelle con parto cesareo potrebbero essere attribuite - così come è stato evidenziato nei modelli animali - all’aumentato rilascio di ossitocina, associato al­ la stimolazione vagino-cervicale prodotta dal bambino durante il par­ to vaginale (Kendrick, 2000). Queste osservazioni sono estremamente rilevanti, in quanto confermano l’importanza del parto naturale per il funzionamento materno, soprattutto nell’attuale sistema sanitario na­ zionale dove, negli ultimi anni, è stato rilevato un abuso di parti cesarei. Sebbene i padri non abbiano un’esperienza diretta della gravidan­ za, del parto e dell’allattamento, nelle specie mammifere è stata tutta­ via riscontrata una tendenza simile nello sviluppo dell’atteggiamento paterno e materno (Wynne-Edwards, Timonin, 2007). Le associazio­ ni rilevate tra l’ossitocina e il sistema dopaminergico mesolimbico nei padri monogami animali lasciano supporre che l’ossitocina influenzi il sistema del reward, attraverso la trasmissione di stimoli connessi all’at­ taccamento tra padre e figlio (Young et al., 2001). In diverse specie biparentali, i padri manifestano comportamenti genitoriali simili a quelli materni (Ahern, Young, 2009; Bredy et al., 2004; Frazier et al., 2006), e mostrano precocemente una specifica modalità interattiva genitoria­ le. Successivamente alla separazione dalla prole, sia le madri sia i padri monogami intensificano l’espressione del comportamento genitoriale, seppure con modalità differenziate. Le madri si attivano nei comporta­ menti di licking e nel contatto fisico con i figli, mentre i padri forniscono una maggiore stimolazione tattile e un più accentuato sostegno al loro comportamento di esplorazione (Lonstein, De Vries, 1999). Dunque,

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mentre nelle madri gli ormoni associati al parto, all’allattamento e alla vicinanza affettuosa possono stimolare significativi cambiamenti ormo­ nali, nei padri i correlati neuroendocrini della genitorialità sembrano essere maggiormente influenzati dalla stimolazione tattile e dalla pro­ mozione del comportamento attivo della prole, in particolare durante l’esplorazione. La ricerca mostra come anche nei padri si verifichi un aumento dei livelli plasmatici di ossitocina durante la gravidanza (Gubernick et al., 1995), mettendo inoltre in luce la stretta associazione tra la concentrazione di questo neuromodulatore e la qualità dell’accudimento paterno (Ziegler, 2000). Gli studi sul sistema ossitocinergico paterno negli esseri umani sono ancora molto limitati; inoltre, non sono stati ancora sufficientemente chiariti i meccanismi associati al comportamento paterno. Negli esseri umani, le interazioni padre-bambino sono caratterizzate da modalità di gioco più stimolanti a livello fisico, che aumentano l’attivazione po­ sitiva del padre e del bambino, risultando altamente gratificanti (Feldman, 2003). Uno studio recente di Feldman e collaboratori (2010) ha rilevato il coinvolgimento del sistema ossitocinergico nell’ambito della maternità e della paternità umane, con patterns piuttosto simili a quelli osservati negli altri mammiferi. L’ossitocina non è il solo neurotrasmettitore che gioca un ruolo im­ portante nel dare inizio al legame affiliativo genitoriale: sono stati, infat­ ti, individuati altri neurotrasmettitori coinvolti nella responsività mater­ na. Negli studi sui modelli animali, l’espressione genica serotoninergica e i geni connessi alla dopamina e al GABA vengono iper-regolati nelle madri di ratto, rispetto a quanto osservato nelle femmine senza figli (Kinsley, Armory-Meyer, 2011).

Trasformazioni neurobiologiche durante la gravidanza e nel periodo postnatale Gli studi sui modelli animali, in particolare quelli condotti sui ratti, hanno evidenziato che durante la gravidanza gli ormoni influenzano non solo le aree cerebrali coinvolte nel comportamento materno, ma anche le regioni che regolano la memoria e l’apprendimento. Que­ ste stimolazioni cerebrali hanno effetti rilevanti sui sistemi legati allo stress e all’ansia, e su quelli associati all’apprendimento, alla memoria e ai comportamenti aggressivi. Questa espressione di neuroplasticità è di grande rilevanza, anche perché produce effetti profondi che per­

BASI NEUROBIOLOGICHE DELLA MATERNITÀ

sistono durante tutto il ciclo vitale (Love et al., 2005). Considerando i cambiamenti nelle regioni cerebrali primarie che facilitano il com­ portamento materno, la ricerca ha rilevato significative trasformazioni ormonali e strutturali connesse all’ipotalamo e all’area preottica, (Kinsley, Amory-Meyer, 2011). Come Theodosis, Shachner e Neumann (2004) hanno evidenziato, i cambiamenti nelle connessioni neuronali e gliali nei centri ipotalamici vanno a stimolare una riorganizzazione della rete neurale, producendo una maggiore flessibilità. Anche nell’i­ pofisi si verificano dei cambiamenti a livello chimico-architettonico in risposta all’esperienza della maternità. Inoltre, analizzando le regioni che sostengono l’inizio e lo sviluppo del comportamento materno, la ricerca ha messo in luce un aumento del volume della sostanza grigia nella corteccia prefrontale, nei lobi parietali e nelle aree mesencefaliche (Kim et al., 2010). E evidente che un cervello materno efficiente e sufficientemente adattabile favorisce i cambiamenti materni, andando a ottimizzare i comportamenti di accudimento e, conseguentemente, la crescita della prole. A questo proposito, va sottolineato che l’ippocampo gioca un ruolo chiave nel comportamento materno, regolando i comportamenti di ricerca e acquisizione del cibo, e favorendo l’orientamento spaziale generale (Champagne et al., 2008). Il cervello materno è dunque carat­ terizzato da un’intrinseca plasticità, necessaria a rispondere alle con­ tinue e mutevoli richieste della maternità e della crescita della prole. Nelle specie mammifere, la dedizione mostrata dalle madri nei con­ fronti della prole rappresenta il comportamento animale maggiormente motivato, superando anche il comportamento sessuale e quello alimen­ tare. I processi appetitivi e motivazionali sottostanti il comportamento materno sono stati esplorati attraverso una serie di esperimenti basa­ ti sul paradigma della preferenza spaziale (Mattson et al., 2001; Seip, Morrell, 2007). Questi studi hanno investigato la preferenza mostrata dalle femmine di ratto che allattano nei confronti di un’infusione di co­ caina o della prole. A dieci e sedici giorni dal parto, questi animali mo­ stravano una preferenza verso l’ambiente associato alla cocaina, mentre a otto giorni dal parto preferivano quello associato alla presenza della prole. Queste osservazioni hanno messo in luce un’interazione tra il ti­ ming di osservazione nel post-partum e la preferenza per la cocaina o per la prole, evidenziando come quest’ultima rappresenti il reward che stimola il comportamento materno nelle specie mammifere. Un ulteriore studio (Ferris et al., 2005) ha confermato che il com­ portamento materno e il legame di attaccamento sono sostenuti dalla

LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

soddisfazione sperimentata durante le pratiche di accudimento, tanto dalle madri quanto dai figli. La natura gratificante dell'accudimento è stata esplorata mediante fMRI, mappando l’attività cerebrale di femmine di ratto che allattano e di femmine vergini, in due diverse condizioni: durante l’allattamento e in risposta all’infusione di cocaina. I risultati hanno rilevato un’attivazione del sistema dopaminergico del rewardnel­ le femmine che allattano, in risposta alla suzione, e, nelle femmine ver­ gini, in risposta all’esposizione alla cocaina. Al contrario, l’esposizione alla cocaina - e non alla prole - delle femmine che allattano ha prodot­ to una disattivazione dell’attività cerebrale nelle regioni del reward. In conclusione, nelle femmine di ratto che allattano, la stimolazione procu­ rata dalla prole rappresenta uno stimolo più rinforzante della cocaina. E stato ipotizzato (Kinsley, Lambert, 2006) che, durante la suzione del latte, la prole possa stimolare il rilascio nel corpo materno di mode­ ste quantità di endorfine - neuromodulatori naturali che possono agire al pari di una droga oppiacea -, inducendo la madre a rimanere costan­ temente in contatto con i propri figli e ad accudirli, traendone piace­ re. Anche gli esseri umani, come gli animali, agiscono con l’obiettivo di sopravvivere e procreare, e sono influenzati dal sentimento edonico dell’esperienza soggettiva: solo gli esseri umani però esprimono un’autoconsapevolezza del ruolo genitoriale e sono in grado di riportare ver­ balmente il sentimento soggettivo associato all’esperienza genitoriale. Le prime teorie sulla motivazione hanno proposto che il sentimento edonico sia fondamentalmente controllato dagli stati di bisogno; que­ ste teorie, tuttavia, non forniscono una spiegazione adeguata del perché le madri cerchino costantemente il contatto con il proprio bambino. Dunque, il valore incentivo - o di reward - di uno stimolo è conside­ rato una motivazione importante, soggettivamente sperimentata come uno stato di gratificazione e piacere (Kringelbach, 2005). Il piacere si associa a uno stato di felicità, assolvendo un’importante funzione evo­ luzionistica (Kringelbach, Berridge, 2009). È utile distinguere due aspetti nell’esperienza del reward: la sensa­ zione edonica, che si riferisce al piacere associato al reward-, e la salienza incentiva, che si riferisce al desiderare e ricercare il reward stesso. Da questo punto di vista, le interazioni precoci e i legami di attaccamento tra genitori e bambini assumono una particolare importanza nell’espe­ rienza del piacere condiviso con gli altri. Sono state rilevate delle associazioni significative tra la gratificazione e il piacere soggettivo, quasi esclusivamente nella corteccia orbitofrontale mediale. Negli esseri umani e nei primati non umani, la corteccia 146

BASI NEUROBIOLOGICHE DELLA MATERNITÀ

orbitofrontale riceve informazioni multimodali, assolvendo un ruolo cardine nella salienza incentiva e nell’esperienza edonica soggettiva. Considerando la connettività neuroanatomica della corteccia orbito­ frontale, è stato evidenziato come quest’area intervenga specificatamente nell’integrazione dell’informazione sensoriale e visceromotoria, e nella modulazione del comportamento, mediante sistemi viscerali e motori. La corteccia orbitofrontale presenta connessioni neuroanatomi­ che non solo con l’amigdala basolaterale, ma anche con la corteccia cin­ golata, l’insula/opercolo, l’ipotalamo, l’ippocampo, lo striato, il grigio periacqueduttale e la corteccia prefrontale dorsolaterale (Kringelbach, 2005): ciò mette in luce il ruolo rilevante della corteccia orbitofrontale all’interno della rete neurale coinvolta nel processamento emozionale. Il significato di reward associato allo stimolo viene elaborato nelle sezioni anteriori della corteccia orbitofrontale, dove può essere modu­ lato da altri stati interni, utilizzato per influenzare il comportamento, immagazzinato per il monitoraggio, l’apprendimento e la memoria, c reso disponibile per l’esperienza soggettiva edonica (Dehaene, Kerszberg, Changeux, 1998). Ovviamente, l’esperienza edonica non dipen­ de solo dalla corteccia orbitofrontale, ma anche da una complessa rete neurobiologica, che ne consente l’accesso alla coscienza, favorendo la valutazione esplicita della valenza affettiva dello stimolo.

Amore materno e piacere

L’amore genitoriale, in particolare quello materno, è strettamente connesso all’amore sentimentale, dal momento che rappresenta una delle motivazioni più potenti del comportamento umano. Nel corso dei secoli, l’amore per un bambino è stato rappresentato nella letteratura, nella pittura, nella narrativa e nella musica come una delle espressioni più ricche e stimolanti nella vita dell’essere umano. Una splendida il­ lustrazione di amore materno può essere colta nel dipinto del pittore del Rinascimento italiano Filippino Lippi Madonna in adorazione del bambino (figura 5.2). In questo dipinto la Madonna è profondamente focalizzata sul bambino, e il suo volto esprime un senso di piacere, in­ tima soddisfazione e serenità. L’amore materno e quello sentimentale hanno un comune obiettivo evoluzionistico: ossia, il mantenimento e la perpetuazione della specie. Allo stesso tempo, sono caratterizzati da un legame intimo e profondo. Come Daniel Stern (1993) ha scritto, le espressioni di amore iniziano

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LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

precocemente e in modo sorprendente. Il comportamento della madre e del bambino si sovrappone a quello di due amanti. Per esempio ma­ dre e bambino si guardano senza parlare, mantengono costantemente una vicinanza fisica con i volti e i corpi, mostrano alterazioni nelle par­ ticolari espressioni vocali o sincronia nei movimenti, ed eseguono ge­ sti particolari come baciarsi reciprocamente, abbracciarsi, toccarsi, e prendersi reciprocamente la faccia; inoltre, a partire dal secondo mese di vita, madre e bambino si guardano a lungo con un’espressione fac­ ciale incantata. Anche il linguaggio assume un carattere particolare. I genitori, infatti, parlano al loro bambino, violando frequentemente le regole linguistiche: enfatizzano la musicalità - piuttosto che il signifi­ cato - delle loro parole, utilizzano il baby talk ed esprimono un’ampia gamma di vocalizzazioni non-verbali, alterando anche la comune pro­ nuncia delle parole. Anche le espressioni facciali assumono una valenza speciale, in quan­ to sono definite dall’alterazione e l’enfatizzazione della mimica faccia­ le. Nei movimenti della madre e del bambino si crea anche una sorta di coreografia, come quella di due amanti; si muovono in sincronia, avvi­ cinandosi o allontanandosi, seguendo un ritmo comune. La ricerca neurobiologica ha evidenziato interessanti sovrapposizio­ ni tra le attivazioni neurali dell’amore sentimentale e materno: entram­ be le forme di amore rappresentano, infatti, esperienze altamente gra­ tificanti (Bartels, Zeki, 2004). In un primo studio fMRI, Bartels e Zeki (2000) hanno investigato l’attività cerebrale di soggetti profondamente innamorati, comparando le attivazioni stimolate dall’osservazione del­ le immagini dei loro partner, con quelle evocate dall’osservazione delle immagini di loro amici, appaiati ai partner per età, sesso e durata della relazione. Utilizzando fMRI, gli stessi ricercatori (Bartels, Zeki, 2004) hanno successivamente studiato l’attività cerebrale delle madri in rispo­ sta all’osservazione delle immagini dei propri bambini, confrontandola con quella prodotta dalle immagini di bambini familiari della stessa età, e dalle immagini dei loro migliori amici e di conoscenti. Nel cervello materno, sono state rilevate attivazioni nell’insula me­ diale e nel giro cingolato, dorsalmente e ventralmente al genu. Tutte queste attivazioni si sovrappongono a quelle rilevate nell’amore sen­ timentale (Bartels, Zeki, 2000). Nello studio sulle madri, sono stateevidenziate attivazioni specifiche nella corteccia orbitofrontale latera­ le e nella corteccia prefrontale laterale; sono state inoltre rilevate del­ le attivazioni in altre aree corticali, come una regione vicina ai campi frontali oculari, la corteccia occipitale e la corteccia fusiforme latera­

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BASI NEUROBIOLOGICHE DELLA MATERNITÀ

le. L’attivazione sottocorticale bilaterale, anche questa sovrapposta a quella evidenziata nell’amore sentimentale, comprendeva lo striato, la sostanza nera e le regioni subtalamiche. Inoltre, sono state rilevate del­ le attivazioni nella sezione postero-ventrale del talamo e in una regio­ ne sovrapposta al grigio periacqueduttale del mesencefalo: nessuna di

Figura 5.2 Filippino Lippi, Madonna in adorazione del bambino, Galleria degli Uffizi, Firenze. Stampata con il permesso di Immagini Corbis.

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LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

queste regioni era risultata attiva nell’amore sentimentale. L’attività nel mesencefalo si sovrappone anche alla formazione reticolare, il locus ceruleus e il nucleo del rafe. E probabile che tale attività origini da quella nel grigio periacqueduttale, dal momento che questa regione non solo contiene un’elevata concentrazione di recettori per l’ossitocina, ma ap­ pare anche coinvolta nel comportamento materno. Sia l’amore materno sia quello sentimentale producono profili di disattivazione simili, in differenti aree connesse alla cognizione, alle emozioni negative e alla mentalizzazione. Sebbene di debole intensità, il pattern di disattivazione evocato dall’amore materno è molto simile a quello osservato nell’amore sentimentale. Il pattern di disattivazio­ ne risulta bilaterale, nonostante interessi maggiormente l’emisfero de­ stro, comprendendo, nello specifico: la corteccia prefrontale mediana, la giunzione parieto-occipitale/solco temporale superiore, la corteccia prefrontale mediale/paracingolata, i poli temporali, la corteccia poste­ riore del giro cingolato, il cuneo mediale e l’amigdala. Le somiglianze tra i risultati degli studi sulle madri e quelli sull’amore sentimentale sono notevoli (Bartels, Zeki, 2000,2004). Diverse regioni si sovrappongono esattamente, mentre altre risultano specifiche per le due diverse forme di relazione. Le specifiche attivazioni dell’amore materno includono la corteccia orbitofrontale laterale e, a livello sottocorticale, il grigio periacqueduttale (regioni non attive nell’amore sentimentale). Le regioni attivate appartengono al sistema del reward e contengono un’elevata densità di recettori per l’ossitocina e la vasopressina: questi dati mettono in luce la rilevanza del coinvolgimento neuro-ormonale in queste intense forme di attaccamento negli esseri umani, in linea con quanto rilevato negli studi sugli animali. Allo stesso tempo, entrambe le forme di relazione affettiva sopprimono l’attività nelle regioni associate alle emozioni negative, così come con il giudizio sociale e la mentaliz­ zazione. Ciò suggerisce che lo stretto legame emozionale verso un’altra persona inibisce non solo le emozioni negative verso la persona amata, ma anche il giudizio sociale che la riguarda. In conclusione, Bartels e Zeki (ibidem) hanno dimostrato che le re­ lazioni materna e sentimentale attivano specifiche regioni nel sistema del reward, inibendo l’attività neurale connessa al giudizio critico so­ ciale e alle emozioni negative nei confronti dell’altro. Questi dati for­ niscono una spiegazione neuroscientifica della frase “l’amore è cieco”. A tal riguardo, un noto proverbio napoletano illustra la relazione inti­ ma, coinvolgente e cieca, esistente tra la madre e il suo bambino: “Ogni scarrafone è bello a mamma soja”.

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BASI NEUROB1OLOGICHE DELLA MATERNITÀ

Studi neurobiologici La recente ricerca neurobiologica, grazie anche all’integrazione dell’fMRI tra i propri strumenti, ha investigato, chiarendone i meccanismi neurali, le trasformazioni cerebrali che accompagnano la maternità. L’fMRI misura i cambiamenti emodinamici in risposta all’attività neurale, offrendo un’eccellente risoluzione spaziale, ma una ridotta risoluzione temporale. La ricerca neuroscientifica indica che le intense fluttuazioni ormonali che avvengono durante la gravidanza, il parto e l’allattamento possono rimodellare il cervello femminile, aumentando le dimensioni neuronali di alcune regioni cerebrali e producendo cambiamenti strut­ turali in altre. Recenti esperimenti condotti sui ratti hanno evidenzia­ to come le madri riescano a percorrere dei labirinti e a catturare una preda, con prestazioni di gran lunga superiori a quelle osservate nelle femmine vergini (Kinsley et al., 1999). Come Mayes e collaboratori (2005) hanno sottolineato, l’inizio e il mantenimento del comportamento umano materno coinvolgono uno specifico circuito neuronaie. La gravidanza e le continue interazioni con il bambino determinano cambiamenti strutturali e molecolari, non ancora del tutto chiariti, in specifiche regioni limbiche, ipotalamiche e mesencefaliche, che riflettono le dinamiche mentali adattative associa­ te all’attitudine materna. Il comportamento materno è fortemente in­ fluenzato da varie regioni cerebrali, identificate da numerose ricerche: l’area preottica mediale dell’ipotalamo è largamente responsabile dello sviluppo delle risposte materne, mentre l’ippocampo interviene nella memoria e nell’apprendimento, così come abbiamo precedentemente discusso in merito agli studi sugli animali. Queste trasformazioni cere­ brali vengono attivate dall’aumentata secrezione di estrogeni e proge­ sterone, prodotti dalle ovaie e dalla placenta durante la gravidanza. I recenti dati di brain-imaging hanno evidenziato come la corteccia orbitofrontale destra intervenga attivamente non solo nell’esperienza del piacere edonico, ma anche nella modulazione della capacità materna di decodificare le espressioni emotive del bambino, al fine di risponder­ vi in modo sensibile (Nitschke et al., 2004). Questa regione cerebrale è implicata nel comportamento socioemozionale e nel processo della regolazione affettiva, specificamente coinvolti nel sistema di attacca­ mento (Schore, 2003). Studi recenti, inoltre, hanno dimostrato che il cervello umano può andare incontro a significativi cambiamenti anche nei sistemi regolati­ vi sensoriali. Per questa ragione, le madri umane sono particolarmente 151

LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

in grado di riconoscere l’odore e i segnali uditivi dei loro bambini (Fle­ ming, O’Day, Kraemer, 1999). Le madri con elevati livelli di cortisolo dopo il parto sono più attratte e motivate dall’odore dei propri bambi­ ni e più in grado di riconoscerne il pianto. Le evidenze empiriche mo­ strano come all’aumentare dei livelli di cortisolo, l’esperienza stressante associata alla genitorialità possa promuovere l’attenzione, la vigilanza e la sensibilità nei genitori: ciò conferma l’ipotesi che l’attivazione dei sistemi di risposta allo stress stimoli e aumenti in maniera adattativa la vigilanza, accentuando la sensibilità materna nel post-partum. Dopo la nascita del bambino, la regolazione emozionale del com­ portamento materno sembra essere controllata da sistemi biologici al­ tamente stabili, che regolano l’espressione del comportamento e le emozioni sia della madre sia del bambino. In questo ambito, un ruolo speciale è assunto dall’emisfero destro (definito “cervello emotivo”), che presenta la massima crescita soprattutto durante i primi diciotto mesi di vita del bambino, assolvendo un ruolo dominante nel corso dei primi tre anni (Chiron et al., 1997; Schore, 1996,2003 ). Durante questo periodo, l’emisfero destro opera come un sistema unitario di risposta, che prepara l’organismo a reagire efficientemente alle sfide evolutive (Wittling, 1997) e alle situazioni stressanti. Il contatto affettivo tra caregiver e bambino attiva le regioni limbiche e mesofrontali, che vanno incontro a cambiamenti evolutivi duran­ te il primo anno di vita, iniziando con una prima fase di maturazione che interessa principalmente l’emisfero destro (Joseph, 1996; Schore, 1996,2003 ). Numerosi studi confermano come l’emisfero destro sia si­ gnificativamente coinvolto anche nel comportamento di accudimento materno, presentando connessioni con aree cerebrali come l’amigdala, la corteccia orbitofrontale e il cingolato, che eseguono l’integrazione necessaria tra sentimenti, impulsi e azione. Le madri umane - sia destrimane sia mancine - e anche molti pri­ mati sorreggono i propri figli con la parte sinistra del corpo (Sieratzki, Woll, 1996), e utilizzano le braccia e le mani sinistre più frequente­ mente di quanto facciano i padri e le donne senza figli (Horton, 1995). Questa predisposizione all’accudimento lateralizzato permette di col­ locare i bambini nei campi visivi sinistri materni, direttamente comu­ nicanti con l’emisfero destro, a sua volta coinvolto nel processamento delle comunicazioni affettive e non-verbali e nella produzione di gesti intuitivi di conforto (Schore, 2003; Sieratzki, Woll, 1996). Manning e collaboratori (1997) hanno ipotizzato che queste predisposizioni con­ sentano il flusso delle comunicazioni affettive diadiche verso gli emi­

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BASI NEL'ROBIOLOGICHE DELLA MATERNITÀ

sferi destri, considerati regioni cerebrali implicate nei processi dell’at­ taccamento sociale umano (Ammaniti, Trentini, 2009; Henry, 1993; Horton, 1995 ; Trentini, 2008). Nel complesso, dunque, gli studi psicobiologici stanno dimostrando che i sistemi madre-bambino sono interconnessi l’uno all’altro, all’in­ terno di un’organizzazione sovraordinata che consente la mutua rego­ lazione di processi cerebrali, biochimici e autonomici. Attraverso pro­ cessi regolatori “nascosti” (Hofer, 1990), il cervello adulto agisce come un elemento regolatore esterno per lo sviluppo degli ancora immaturi sistemi omeostatici del bambino. Da questa prospettiva, l’attaccamento non va considerato solo come un comportamento manifesto, ma anche come un’organizzazione interna, che viene “costruita nel sistema ner­ voso, nel corso e come esito dell’esperienza che il bambino fa delle sue transazioni con la madre” (Ainsworth, 1967, p. 429). Negli ultimi decenni, importanti studi fMRI hanno esplorato l’attività cerebrale in risposta a stimoli associati al bambino, in particolare di ti­ po uditivo e visivo. Come abbiamo già discusso, l’fMRl esplora l’attività cerebrale a partire da misure indirette dei cambiamenti nell’ossigena­ zione sanguigna regionale, rilevando l’attività cerebrale in un periodo di pochi secondi (Swain, Lorberbaum, 2008), ma non cogliendo i cam­ biamenti di durata maggiore, come avviene, per esempio, nel caso delle emozioni prolungate o degli stati mentali. Presenteremo ora una sintesi delle ricerche svolte in quest’area, assu­ mendo come riferimento la completa rassegna di Swain e Lorberbaum {ibidem} sulle aree cerebrali genitoriali. In questi studi, i cervelli dei ge­ nitori sono stati studiati utilizzando specifici stimoli sensoriali infanti­ li, in particolare il pianto o immagini di espressioni facciali emotive. Il focus principale di questi studi è l’esplorazione dell’empatia materna e paterna, ossia il processo che implica la percezione, la risonanza emo­ zionale e la risposta alle diverse emozioni del bambino. Abbiamo già discusso della concettualizzazione evolutiva, neuro­ biologica e clinica del processo empatico; vorremmo, quindi, riporta­ re l’interessante definizione di empatia, proposta da Decety e Jackson (2004), che prevede l’interazione dinamica tra tre componenti fonda­ mentali. La prima, rappresentata dalla “condivisione affettiva tra il sé e l’altro”, può essere concettualizzata come l’abilità di rilevare e risuo­ nare con lo stato affettivo immediato di un’altra persona (Trevarthen, Aitken, 2001). Questa capacità si basa su meccanismi di accoppiamento tra percezione e azione, che creano rappresentazioni condivise tra il sé e l’altro (Gallese, 2006, 2009a). La seconda componente è “l’autocon­

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LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

sapevolezza”, senza la quale la sola condivisione affettiva porterebbe al fenomeno del “contagio emotivo”, ossia “una totale identificazio­ ne senza la discriminazione tra i propri sentimenti e quelli degli altri” (Decety, Jackson, 2004, p. 75). L’ultima componente dell’empatia è la “flessibilità a adottare il punto di vista soggettivo dell’altro”: questa ca­ pacità è connessa alla funzione riflessiva, che consente agli individui di attribuire agli altri degli stati mentali (per esempio sentimenti, volontà, pensieri, intenzioni e desideri; Fonagy et al., 2002). In un esperimento basato sull’esperienza di dolore osservata in una persona amata, Singer e collaboratori (2004) hanno dimostrato che il cingolato e l’insula sono due aree principalmente coinvolte nella ri­ sonanza empatica. Un altro studio, condotto da Carr e collaboratori (2003), ha riconosciuto il ruolo centrale dell’insula nell’integrazione dell’informazione emozionale, attraverso specifiche connessioni con le aree corticali che presentano proprietà specchio. Passiamo ora in ras­ segna gli studi sulle basi neurobiologiche materne. Le prime ricerche sono state eseguite da Lorberbaum e collaboratori (1999), i quali hanno misurato l’attività cerebrale nelle madri durante la presentazione del pianto dei propri bambini o di un rumore bianco. Lo stimolo del pianto ha attivato la corteccia cingolata anteriore subgenuale e la corteccia orbitofrontale/prefrontale inferiore mesiale destra. In uno studio più esteso e maggiormente controllato, condotto dallo stes­ so gruppo di ricerca (Lorberbaum et al., 2002), le regioni attivate inclu­ devano il cingolato anteriore e posteriore, il talamo, il mesencefalo, l’ipotalamo, la regione del setto, lo striato dorsale e ventrale, la corteccia prefrontale mediale, la regione compresa nella corteccia orbitofrontale/ insula/temporale polare destra, la corteccia temporale destra e il giro fu­ siforme. Bisogna sottolineare che il giro fusiforme viene attivato dal ri­ conoscimento dei volti e delle voci umane (Swain, Lorberbaum, 2008): nella ricerca di Lorberbaum e collaboratori (2002), tuttavia, non è chiaro se le attivazioni cerebrali evidenziate siano connesse a processi attentivi aspecifici o piuttosto alla localizzazione dell’attenzione sullo stimolo di pianto del bambino. Questa seconda ipotesi è stata confermata da un al­ tro studio, che ha evidenziato come il pianto del bambino produca nelle donne attivazioni significativamente maggiori nelle aree sopra descritte, rispetto a quanto osservato in risposta a vocalizzazioni neutre dal pun­ to di vista emozionale (Purhonen et al., 2001). In un’ulteriore ricerca, in risposta alla presentazione del pianto del bambino, nelle madri sono state rilevate attivazioni cerebrali più intense di quelle di un gruppo di donne di controllo (Purhonen et al., 2001). 154

Questi studi iniziali hanno confermato lo speciale stato mentale del­ la sintonizzazione materna con i segnali dei bambini, le cui espressioni (volto, pianto ecc.) rappresentano degli stimoli emotivi altamente at­ tivanti. Un’indagine successiva (Scifritz et al., 2003) ha incluso anche i padri, confrontandoli con le madri, e con uomini e donne senza figli. In questa ricerca, nei genitori è stata rilevata un’attivazione nelle regio­ ni temporali bilaterali, in risposta alla risata e al pianto del bambino. A questo proposito, va sottolineato lo studio di Sander e collaboratori (2007), che ha investigato il ruolo del genere nella modulazione della risposta alla risata e al pianto infantile, rispetto a un suono di controllo: mentre nelle donne la risata e il pianto del bambino attivavano l’amigda­ la e le regioni cingolate anteriori, negli uomini si rilevavano attivazioni cerebrali più intense, in risposta al suono di controllo. E importante comprendere se la risposta del cervello genitoriale agli stimoli infantili sia influenzata dal genere, e, in particolare, se le don­ ne siano più predisposte a rispondere alle vocalizzazioni preverbali dei bambini. Lo studio di Swain e collaboratori (2004) ha confrontato la risposta di madri e padri a un pianto “standard” e a rumori di con­ trollo, evidenziando un’aumentata attivazione materna nell’amigdala e nella ganglia basale: queste attivazioni potrebbero confermare il tipico stato di allarme e di concern che caratterizza le donne nel post-partum.

Il volto del bambino come stimolo affettivo Come Darwin (1872) ha messo in luce, la peculiare configurazione facciale infantile stimola affettivamente gli adulti a rispondere e a pren­ dersi cura del bambino, sostenendone l’adattamento, e facilitandone la sopravvivenza: garantendo, dunque, il successo riproduttivo. Successi­ vamente, Konrad Lorenz (1943) ha sottolineato come il volto infantile agisca come uno schema, che, attraverso meccanismi innati, stimola il legame affettivo e l’accudimento negli adulti. Le caratteristiche faccia­ li infantili sono caratterizzate da una testa relativamente grande, una fronte ampia e prominente, grandi occhi collocati sulla linea mediana del volto, e guance paffute e sporgenti. Bowlby (1969/1982) ha ipotiz­ zato che queste caratteristiche infantili stimolino la risposta genitoriale, aumentando le possibilità di sopravvivenza del bambino. I correlati neurobiologici che caratterizzano le risposte al volto del bambino e a quello degli adulti non sono stati ancora del tutto chiari­ ti. Gli esperimenti condotti sugli esseri umani, mediante l’uso di fMRI,

LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

hanno evidenziato un’attivazione specifica in risposta ai volti in un’a­ rea della corteccia fusiforme posteriore destra, corrispondente all’area facciale fusiforme (Kanwisher, Yovel, 2006; Tsao et al., 2006). Nume­ rosi studi hanno utilizzato le espressioni facciali infantili come stimoli di attivazione delle aree cerebrali genitoriali (Bartels, Zeki, 2004; Leibenluft et al., 2004; Lenzi et al., 2009; Nitschke et al., 2004; Noriuchi, Kikuchi, Senoo, 2008; Ranote et al., 2004; Strathearn, Li, Montague, 2005; Swain et al., 2003; Swain et al., 2006). Nello studio di Swain e collaboratori (2003, 2006), alle madri e ai padri veniva chiesto di osservare le fotografie dei propri bambini (scat­ tate dalla nascita fino a due settimane di vita) e quelle di un bambino non familiare, a due-quattro settimane dal parto. I risultati hanno rile­ vato nei genitori un’aumentata attivazione nelle aree frontali e talamo­ corticali, in risposta alle immagini del proprio bambino. Leibenluft e collaboratori (2004) hanno esplorato le attivazioni ma­ terne in risposta alla presentazione delle immagini del proprio bambino (di età compresa tra i cinque e i dodici anni) e di quelle di un bambino non familiare. In questo caso, sono state rilevate attivazioni nel para­ cingolato anteriore, nel cingolato posteriore e nel solco temporale su­ periore: ossia, in aree molto importanti nell’empatia, non risultate così evidenti in altri studi. Questi dati potrebbero essere spiegati facendo riferimento alla maggiore età dei bambini inclusi nella ricerca: con i bambini più grandi, infatti, le madri tendono a interagire all’interno di scambi basati maggiormente su processi di mentalizzazione. E impor­ tante notare che, nello studio di Leibenluft e collaboratori, le immagi­ ni dei bambini includevano diverse espressioni facciali (di gioia versus neutre versus tristi). Nello studio fMRl di Nitschke e collaboratori (2004), sono state esplorate le attivazioni cerebrali di madri primipare durante l’osserva­ zione delle immagini del proprio bambino e di quelle di un bambino non familiare, ritratti con un’espressione sorridente. Questo studio ha confermato l’importanza della corteccia orbitofrontale nei processi di attaccamento materno. Il disegno sperimentale di Ranote e collaboratori (2004), che preve­ deva la presentazione alle madri di blocchi di video del proprio bambi­ no e di un bambino non familiare, ha evidenziato un aumento dell’atti­ vazione nell’amigdala sinistra e nel polo temporale, in risposta ai video del proprio bambino: queste aree risultano coinvolte nella regolazione emozionale e nella mentalizzazione. Anche nella ricerca di Noriuchi e collaboratori (2008) alle madri so­

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no stati presentati i video (ma senza audio) dei propri bambini e di bam­ bini non familiari, di circa sedici mesi di vita. I video erano stati selezio­ nati in base alla presenza di due diversi comportamenti di attaccamento (per esempio sorridere alla madre e chiamarla piangendo). Nonostante l’esigua numerosità dei soggetti, questo studio ha evidenziato attivazio­ ni significative nella corteccia orbitofrontale, nel grigio periacqueduttale, nelle regioni dorsali e ventrolaterali del putamen, con una risposta cerebrale specifica materna al distress manifestato dal proprio bambino. In un altro studio, Strathearn e collaboratori (2005) hanno investi­ gato la risposta neurobiologica delle madri mentre osservavano diverse espressioni emotive facciali - sorriso, neutre, pianto -, del loro bambino e di un bambino non familiare (di età compresa tra i tre e gli otto mesi). Durante l’osservazione delle immagini del proprio bambino, sono state evidenziate attivazioni nelle aree cerebrali del reward (striato ventrale, talamo e nucleus accumbens) e in aree con proiezioni ossitocinergiche (amigdala, nucleo del letto della stria terminale e giro fusiforme). In un’altra rassegna di Swain e collaboratori (2007) sono state rileva­ te attivazioni materne nello striato, nelle aree visive extrastriate e nelle aree associate al sistema del reward (come il nucleus accumbens, il cin­ golato anteriore e l’amigdala), che risultavano più intense in risposta ai volti dei propri figli rispetto a quelli degli altri bambini. E interessante sottolineare come tali studi non chiariscano se queste risposte cerebra­ li genitoriali dipendano dal volto del proprio bambino o piuttosto dal volto infantile di per sé: la variabile (non controllabile) della familiarità rende infatti complicato questo confronto. Uno studio più recente (Kringelbach et al., 2008), mediante l’uso della magnetoencefalografia, ha analizzato l’impatto specifico del vol­ to infantile, studiando le risposte cerebrali di adulti ai volti di bambi­ ni non familiari e ai volti di altre persone adulte (le espressioni facciali venivano accoppiate in termini di attrazione). I risultati hanno eviden­ ziato un’attivazione specifica in risposta ai volti infantili, ma non in ri­ sposta ai volti adulti, nella corteccia orbitofrontale mediale (che, come abbiamo precedentemente sottolineato, rappresenta un’area implicata nel comportamento di reward). Questi risultati sembrano conferma­ re l’esistenza negli esseri umani di un meccanismo facilitatore innato, descritto da Lorenz (1943), che favorisce il legame affettivo e l’accudi­ mento dei bambini. Queste osservazioni espandono gli orizzonti della ricerca preceden­ te, mostrando come l’attività precoce della corteccia orbitofrontale non

LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

solo faciliti il riconoscimento visivo di stimoli masked,2 strettamente as­ sociati alla salienza o al processamento attentivo, ma anche quello di facce infantili salienti non-masked rispetto a quello dei volti adulti. Par­ tendo da questi dati, si potrebbe ipotizzare che le specifiche caratteristi­ che del volto infantile stimolino un intenso meccanismo attentivo/emo­ zionale che predispone gli esseri umani a prendersi cura del bambino. Come abbiamo già evidenziato, la peculiare configurazione del volto del bambino è un motivatore potente del comportamento di accudi­ mento genitoriale (Darwin, 1872; Eibl-Eibesfeldt, 1989; Lorenz, 1943; Sprengelmeyer et al., 2009). Questa risposta di attrazione ai bambini è presente anche negli adulti che non sono ancora genitori (Glocker et al., 2009a, 2009b; Parsons et al., 2010; Stern, 1977), essendo forse con­ nessa ai meccanismi evoluzionistici che garantiscono la sopravvivenza della specie.

Empatia materna e sistema dei neuroni specchio È, dunque, chiaro che le esperienze intersoggettive vengono mappate nel funzionamento cerebrale dell’individuo, sin dai primi anni di vita. Questo aspetto può essere ulteriormente illustrato facendo riferi­ mento alla recente scoperta del sistema dei neuroni specchio (Gallese, 2001; Gallese et al., 1996), illustrata nel capitolo 1. Attraverso il proces­ so della “simulazione incarnata” (Gallese, 2006, p. 15), i neuroni spec­ chio mappano le azioni osservate e personalmente eseguite, così come le emozioni e le sensazioni osservate e soggettivamente esperite, all’in­ terno dello stesso substrato neurale. Il concetto di “incarnazione” viene utilizzato per illustrare come gli eventi neurobiologici possano spiegare gli stati mentali (Emde, 2007). Attraverso la simulazione incarnata, le rappresentazioni interne degli stati del corpo associati alle azioni, alle emozioni e alle sensazioni vengono evocate nell’osservatore - come nel caso delle madri -, come se stesse eseguendo una simile azione o spe­ rimentando una simile emozione o sensazione. Questi processi funzio­ nali stimolano gli individui che si stanno confrontando con il compor­ tamento degli altri a sperimentare uno specifico stato fenomenologico di “consonanza intenzionale”. Tale condizione produce una peculiare 2. Il masking (mascheramento) viene utilizzato per bloccare o sopprimere la percezione di uno stimolo test, attraverso la presentazione di uno stimolo di mascheramento (maskedstimulus). Il mascheramento può essere assoluto o parziale: nel primo caso, lo stimolo test non viene percepi­ to, nel secondo caso se ne aumenta la soglia di percezione.

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BASI NEUROBIOLOGICHE DELLA MATERNITÀ

forma di familiarità con gli altri individui, prodotta dal collassamento delle intenzioni e delle emozioni degli altri all’interno dell’osservatore (Gallese, 2006). In questo modo, il sistema dei neuroni specchio può essere descritto come il correlato neurobiologico del sistema intersog­ gettivo, dal momento che rappresenta la motivazione innata e incar­ nata a entrare in contatto con le emozioni degli altri e a condividerne l’esperienza soggettiva. Partendo da queste considerazioni, abbiamo condotto una ricerca sull’intersoggettività materna (Lenzi et al., 2009), studiando il sistema dei neuroni specchio delle madri durante la presentazione di stimoli emozionali infantili. Alle madri venivano presentate immagini del pro­ prio bambino e di un bambino non familiare, di età compresa tra i sei e i dodici mesi di vita, con diverse espressioni emotive: di gioia, di di­ stress, ambigue e neutre. Durante l’fMRI, le madri dovevano eseguire due diversi compiti: osservare empatizzando con le espressioni emotive dei bambini oppure imitarle. Durante l’osservazione e l’imitazione delle espressioni facciali dei bambini (sia propri sia non familiari), nelle madri sono state rilevate attivazioni nelle regioni corticali premotorie, in particolare la corteccia premotoria ventrale e il giro frontale inferiore, aree dotate del meccani­ smo specchio, in quanto caratterizzate dal meccanismo della simulazio­ ne incarnata: ossia definite dall’attivazione dello stesso circuito neurale posto alla base delle esperienze emozionali e sensoriali (Gallese, 2009a). Il sistema dei neuroni specchio, interagendo con il sistema limbico (il centro emozionale del cervello) attraverso l’insula anteriore, può esse­ re critico per l’empatia (Carr et al., 2003), come è stato confermato nel nostro studio sulle madri. I risultati dimostrano come l’imitazione delle espressioni facciali in­ fantili (di gioia, di distress e ambigue) attivi il sistema dei neuroni spec­ chio, in misura maggiore rispetto alle espressioni neutre. L’analisi delle risposte materne alle diverse espressioni facciali ha messo in luce un’at­ tivazione selettiva dell’emisfero destro (il cervello emotivo) durante l’imitazione delle espressioni di gioia. Ricordiamo che numerosi studi hanno confermato il coinvolgimento dell’emisfero destro nel compor­ tamento materno accudente. L’osservazione delle espressioni del proprio bambino rispetto a quel­ le del bambino non familiare ha evocato nelle madri una più intensa risposta bilaterale nelle aree specchio (figura 5.3; corteccia premotoria ventrale, giro frontale inferiore destro, solco temporale superiore de­ stro) e nell’insula destra. Va sottolineato che, durante l’osservazione di

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LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

tutte le espressioni emotive, è stata rilevata una correlazione positiva tra l’insula anteriore destra e la funzione riflessiva materna: questi dati sostengono l’ipotesi che il sistema dei neuroni specchio-insula-sistema limbico sia attivato di più nelle madri che presentano una maggiore ca­ pacità di mentalizzazione, una competenza particolarmente utile nella relazione con il bambino. Ulteriori dati interessanti sono emersi in merito all’osservazione materna delle espressioni ambigue del bambino; in particolare, sono state rilevate attivazioni significative nella corteccia frontale, nell’area motoria pre-supplementare, nel cingolo anteriore destro e nelle cor­ tecce parietali. Sintetizziamo ora i risultati di questo studio, che ha indagato l’area dell’imitazione e dell’empatia materna durante il periodo preverbale, ossia prima che il linguaggio diventi il canale comunicativo privilegia­ to tra madre e bambino. L’attivazione del sistema dei neuroni specchio-insula-sistema lim­ bico in risposta alle espressioni facciali dei bambini sostiene l’ipotesi che il meccanismo specchio, fondamentale per la rappresentazione e la comprensione dell’azione, venga attivato maggiormente dalle espres­ sioni che coinvolgono la mimica e che hanno un obiettivo sociale (per esempio la trasmissione di un’emozione). Inoltre, questo sistema è più attivo quando una madre osserva ed empatizza con il proprio bambino (rispetto a un bambino non familiare), e risulta associato alla funzione riflessiva materna. Questo risultato potrebbe essere spiegato dal mag­ giore sforzo fatto dalle madri per comprendere le emozioni del pro­ prio bambino: tale proposta appare perfettamente in linea con la teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1958). Inoltre, l’esplorazione delle singole emozioni ha evidenziato la presenza di substrati neurali separati per la gioia e per le espressioni ambigue: l’imitazione della gioia ha attivato prevalentemente le aree sottocorticali e temporali paralimbiche; inve­ ce, l’osservazione delle espressioni ambigue ha attivato aree motorie e di ordine cognitivo più elevato. Questi risultati sostengono l’ipotesi che emozioni differenziate, che attivano sentimenti molto diversi, debbano avere - almeno in parte - una base neurale distinta. In linea con un modello basato sugli studi anatomici e funzionali dell’imitazione e dell’empatia, il sistema dei neuroni specchio codifica l’obiettivo di un’azione (Iacoboni et al., 1999; Rizzolatti et al., 2001) e lo riproduce, mentre l’insula anteriore invia questa informazione al si­ stema limbico per attribuire all’azione (nel nostro caso, un’espressione facciale) un contenuto emozionale (Gallese et al., 2004). I nostri risultati 160

BASI NEUROBIOLOGICIIE DELLA MATERNITÀ

Corteccia premotoria ventrale destra 0,4

-0,5

r 12

3

4

5

A

G

N

D

D

Bambino proprio

6 A

7

8

G

D

Bambino non familiare

Figura 5.3 Proprio bambino versus bambino non familiare. La corteccia premotoria ventra­ le è una delle aree più attivate durante l'osservazione del proprio bambino rispetto a quella del bambino non familiare. (A, ambigue; D, distress', G, gioia; N, neutre). Tratta da: Lenzi, D., Trentini, C., Pantano, P., Macaiuso, E., lacoboni, M., Lenzi, G.L., Ammaniti, M. (2009), "Neural basis of maternal communication and emotional expression processing during infant preverbal stage". In Cerebral Cortex, 19, 5, pp. 1124-1133. Stampata con il permesso di Oxford University Press.

sono, inoltre, in linea con la teoria della simulazione (o teoria motoria dell’empatia), secondo cui l’empatia viene generata dall’imitazione in­ terna delle azioni degli altri (Gallese, 2003; Gallese, Sinigaglia, 201 la). I dati mostrano come l’osservazione delle espressioni emozionali (ri­ spetto alle emozioni neutre) attivi una vasta rete neurale composta dal sistema dei neuroni specchio, l’insula anteriore e l’amigdala. La mag­ giore attività osservata nel sistema dei neuroni specchio e nell’insula durante il compito imitativo potrebbe essere spiegata anche dal fatto che le espressioni emozionali richiedono un’imitazione attiva, mentre quelle neutre no (o, almeno, in misura significativamente inferiore). I risultati, inoltre, mostrano una tendenza simile nel compito osservativo. La parziale sovrapposizione delle attivazioni, sia durante il compi­ to imitativo sia durante il compito osservativo (non richiedente alcun movimento), suggerisce che le espressioni emozionali tendono ad at­ tivare il sistema dei neuroni specchio-insula-sistema limbico più delle espressioni neutre. Questa aumentata attività potrebbe essere spiegata dall’obiettivo intrinseco delle espressioni emozionali: ossia, “l’azione” necessaria alla formazione di un’espressione facciale, per trasmettere un contenuto emozionale e ottenere una reazione dal mondo esterno. Le differenze nell’attività cerebrale evocata dall’osservazione del proprio bambino e di quello non familiare mostrano come, in linea con la teoria dell’attaccamento, le madri senza disturbi psicopatologici si sforzino di più per capire le emozioni del proprio bambino, per poter

LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

rispondere in maniera adeguata ai suoi bisogni e per promuovere la sua sopravvivenza. L’aumentata attività nel sistema dei neuroni specchio potrebbe essere dovuta anche all’effetto della familiarità motoria delle espressioni osservate. Uno studio recente (Calvo-Merino et al., 2006) ha evidenziato come il sistema dei neuroni specchio venga attivato più intensamente durante l’osservazione di stimoli familiari all’osservatore da un punto di vista motorio (come i movimenti del corpo). Nella nostra ricerca, durante l’imitazione, non abbiamo rilevato nessuna differenza nell’attività cerebrale delle madri, in risposta alle immagini del proprio bambino e di quello non familiare: ciò lascia supporre che l’imitazio­ ne possa saturare i sistemi neurali della rappresentazione dell’azione e del processamento emozionale. L’imitazione può essere, infatti, la via preferenziale e più naturale attraverso cui si attivano le aree connesse al processamento emotivo (così come è stato precedentemente discus­ so in relazione al comportamento intuitivo genitoriale). Questi aspetti sono confermati dalle attivazioni specchio e limbiche, che sono più in­ tense durante l’imitazione che durante l’osservazione (Carr et al., 2003 ). Infine, lo studio ha messo in luce una relazione tra l’attività del siste­ ma neuroni specchio-insula-sistema limbico e la funzione riflessiva ma­ terna, ossia la capacità della madre di attribuire al bambino degli stati mentali (tra cui le emozioni) e di interpretarli. Questi risultati dimostra­ no che il circuito che abbiamo esplorato e l’insula anteriore giocano un ruolo chiave nell’empatia. Sulla base di dati funzionali e anatomici, l’in­ sula è stata considerata un relay tra la rappresentazione dell’azione (me­ diata dal sistema dei neuroni specchio) e il processamento emozionale (modulato dal sistema limbico; ibidem)-, l’insula anteriore è, inoltre, un centro di integrazione visceromotoria ed è considerata l’area corticale primaria per lo stato intercettivo del corpo (Gallese et al., 2004). L’au­ mentata attività nell’insula anteriore nelle madri più empatiche potreb­ be dunque riflettere anche la maggiore capacità di sentire le emozioni degli altri, soprattutto quelle del proprio figlio. I nostri risultati, inoltre, evidenziano la maggiore attivazione di spe­ cifiche aree sottocorticali e corticali destre durante l’imitazione delle espressioni di gioia (rispetto a tutte le altre emozioni), andando a soste­ nere, quindi, la teoria che l’emisfero destro sia più coinvolto del sinistro nel processamento emozionale e nel comportamento materno (ipotesi sull’emisfero destro; Dalgleish, 2004). In virtù della sua ricca innervazione di neuroni mesolimbici dopaminergici, lo striato è posizionato per incentivare la motivazione al reward e all’aspettativa positiva associata a un obiettivo desiderato (Davidson, 162

BASI NEUROBIOLOGICHE DELLA MATERNITÀ

Irwin, 1999). L’attivazione bilaterale dell’amigdala potrebbe essere in­ vece associata al meccanismo del reward materno. Evidenze empiriche hanno rilevato un’attivazione dell’amigdala du­ rante la presentazione di stimoli positivi e gratificanti (Zald, 2003). Sor­ ridere in risposta al sorriso di un bambino è uno dei comportamenti materni imitativi più comuni e appaganti. Quando una madre mette in atto questo comportamento intuitivo, comunica al bambino di sa­ pere cosa lui stia provando (felicità) e, allo stesso tempo, prova felicità perché il bambino è felice: in questi casi, il processo della maternità si mostra efficace. L’aumentata attivazione nel polo temporale durante l’i­ mitazione della gioia può essere riferita al valore sociale e materno as­ sociato all’imitazione del sorriso del bambino. A questo proposito, gli studi sui primati e sugli esseri umani hanno rilevato in madri con una patologia del polo temporale la presenza di comportamenti aberranti e una riduzione delle capacità empatiche (Carr et al., 2003; Olson, Plotzker, Ezzyat, 2007). Va sottolineato che la sezione anteriore del lobo temporale e l’ippocampo hanno un ruolo critico nella stabilità dell’u­ more (Phillips et al., 2003), nei comportamenti socialmente appropriati e nella personalità (Glosser et al., 2000). Durante l’osservazione delle espressioni ambigue, abbiamo indivi­ duato attivazioni più intense nelle aree frontoparietali (soprattutto si­ nistre). Questi dati fanno ipotizzare che il processamento delle espres­ sioni ambigue dipenda meno dall’attivazione delle aree connesse alle emozioni: è probabile, infatti, che le madri trovino maggiori difficoltà a risuonare con questo tipo di emozioni e abbiano bisogno di fare affi­ damento su un processamento più cognitivo per decodificare l’espres­ sione insolita del bambino. E utile sottolineare che l’attività dell’area pre-supplementare è coin­ volta negli aspetti di ordine superiore del controllo motorio, come la selezione interna di un aspetto del movimento (Picard, Strick, 1996). E possibile che l’attivazione dell’area pre-supplementare, nel nostro stu­ dio, sia associata alla pianificazione motoria e al controllo degli inter­ venti materni; infatti, le madri solitamente non solo manifestano una risonanza empatica verso il proprio bambino, ma intervengono anche per consolarlo o continuare un’interazione positiva. Il nostro studio ha esplorato l’area dell’empatia materna e delle com­ petenze comunicative durante il primo anno di vita del bambino, prima dello sviluppo del linguaggio. I nostri dati confermano che il sistema dei neuroni specchio, l’insula anteriore e il sistema limbico rappresentano le basi neurobiologiche di queste interazioni madre-bambino. L’attiva­ 163

zione di questo sistema, significativamente più intensa quando la ma­ dre osserva il proprio figlio, è una funzione della capacità materna di interpretare gli stati interni del bambino. Al fine di verificare l’impatto dell’immagine facciale infantile su gio­ vani donne adulte senza figli, in uno studio successivo (Lenzi et al., 2012) abbiamo esplorato le attivazioni cerebrali (in particolare del siste­ ma dei neuroni specchio) stimolate dalle immagini di differenti espres­ sioni emotive facciali (di gioia, di distress e neutre), di bambini non familiari, tra i sei e i dodici mesi di vita, già utilizzate nello studio pre­ cedente (Lenzi et al., 2009). Le donne, suddivise in base al loro stato mentale rispetto all’attaccamento (donne sicure e donne distanzianti; Main, Goldwyn, 1997), sono state sottoposte a delle sessioni di fMRJ, che si alternavano in base al compito sperimentale di “guardare e imi­ tare le espressioni dei bambini” o di “osservare e cercare di empatizzare con le espressioni dei bambini”. Sia durante il compito empatico sia durante il compito imitativo nei confronti di tutte le espressioni facciali, in entrambi i gruppi di donne sono state evidenziate attivazioni nelle aree motorie e limbiche - criti­ che per l’imitazione, l’empatia e le emozioni -, e nel sistema visivo. Le emozioni (facce emotive versus facce neutre) hanno attivato anche re­ gioni limbiche (striato, amigdala, poli temporali, e corteccia cingolata anteriore sinistra) e motorie, e aree associate al meccanismo specchio (corteccia sensomotoria, corteccia premotoria ventrale destra, area pre­ supplementare destra, solco temporale superiore destro, giro tempora­ le post-mediano bilaterale, insula e cervelletto destro). Questi risultati sono in linea con i dati del precedente studio sulle madri (Lenzi et al., 2009): dunque, quando le donne senza figli interagiscono con le espres­ sioni facciali infantili si attivano circuiti simili a quelli materni. Dati interessanti sottolineano che il modello di attaccamento influen­ za la risposta cerebrale delle donne alle immagini dei bambini (figura 5.4). Del tutto inaspettatamente, durante il compito empatico, nelle donne distanzianti sono state rilevate attivazioni più intense di quelle osservate nelle donne sicure, in diverse aree cerebrali, inclusi il sistema dei neuroni specchio e il sistema limbico. Durante il compito empatico, inoltre, nelle donne distanzianti è stata evidenziata una disattivazione delle aree frontomediali, ossia della cor­ teccia cingolata anteriore perigenuale e della corteccia orbitofrontale mediale, in risposta a tutte le espressioni emotive infantili. In questo studio, le iper-attivazioni delle aree limbiche e specchio potrebbero ri­ flettere un coinvolgimento emozionale implicito e non modulato, sti­

BASI NEUROBIOLOG1CHE DELLA MATERNITÀ

molato dalle immagini infantili; le disattivazioni della corteccia cingo­ lata anteriore perigenuale/corteccia orbitofrontale mediale potrebbero invece riflettere il disinvestimento emotivo nei confronti delle relazioni di attaccamento (tipico dei soggetti distanzianti), che presuppongono l’utilizzo di processi più cognitivi per compensare il coinvolgimento emozionale non modulato. I grafici mostrano chiaramente questo pattern di disattivazione, che sembra essere associato soprattutto alle espressioni di distress dei bam­ bini. Sulla base delle connessioni e della struttura della corteccia orbi­ tofrontale, alcuni ricercatori hanno proposto una rete funzionale frontomediale, comprendente la corteccia cingolata anteriore perigenuale e la corteccia orbitofrontale mediale così come la corteccia prefrontale mediale ventrale. La corteccia cingolata anteriore perigenuale è critiCorteccia premotona ventrale sinistra

Corteccia cingolata anteriore perigenuale/ corteccia orbitofrontale mediale

Area motoria pre-supplementare

HI G

Distanziant

Gito frontale inferiore sinistro

Distanziarli

Corteccia parietale posteriore sinistra

Distanziar)'

ippocampo destro

■4^

III Distanziami

Sicure

Distanzianti

Figura 5.4 Compito empatico nei confronti di tutte le espressioni emotive (versus riposo). Le aree in grigio medio sono significativamente più attive nelle distanzianti rispetto alle sicure; le aree in grigio scuro risultano più disattivate nelle distanzianti rispetto alle sicure. I grafici mo­ strano gli effetti medi rilevati nei due gruppi rispetto alle tre espressioni emotive facciali (d, distress; g, gioia, n, neutre). Tratta da: Lenzi, D., Trentini, C., Pantano, R, Macaiuso, E., Lenzi, G.L., Ammaniti, M. (2012), "Attachment models affect brain responses in areas related to emotions and empathy in nulliparous women". In Human Brain Mapping, 34, 6, pp. 13991414. Stampata con il permesso di John Wiley & Sons, Ltd.

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LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

ca per il processamento emozionale e per la regolazione della risposta dell’amigdala, alla quale è strettamente connessa (Quirk, Beer, 2006; Quirk et al., 2003). Anche la corteccia orbitofrontale mediale proietta verso l’amigda­ la e, in misura massiccia, verso lo striato ventrale: si ritiene che queste proiezioni elaborino il valore di reward o affettivo dei rinforzi primari, inclusi le espressioni facciali, il gusto e il contatto pelle a pelle, e siano anche coinvolte nella manifestazione delle emozioni positive (Rolls, Grabenhorst, 2008). E stato evidenziato come questa area si attivi nelle madri in risposta alla presentazione delle immagini dei propri bambini (Nitschke et al., 2004) e viceversa (Minagawa-Kawai et al., 2009). Dunque, la corteccia orbitofrontale non è solo critica per la modulazione delle emozioni, ma ha anche un ruolo rilevante nel rinforzo e nella gratificazione del com­ portamento positivo (per esempio durante l’interazione madre-bambi­ no), promuovendo la costruzione dell’attaccamento. I risultati di Lenzi e collaboratori (2012) suggeriscono come la di­ sattivazione di parte di questa rete frontomediale possa rappresentare il correlato neurale delTevitamento nell’attaccamento, osservato tipi­ camente nei soggetti distanziami. Nel nostro studio, anche il profilo alessitimico (che rappresenta un segno di disregolazione emozionale) sembra modulare l’attivazione neurale delle donne distanzianti in ri­ sposta alle immagini dei bambini. In queste donne, l’attività della corteccia cingolata anteriore perigenuale/corteccia orbitofrontale mediale è risultata inversamente cor­ relata con quella dell’area motoria pre-supplementare - che contie­ ne neuroni specchio (Mukamel et al., 2010; Nakata et al., 2008; Raos, Evangeliou, Savaki, 2007; Rizzolatti et al., 1990; Rizzolatti, Luppino, Matelli, 1996) - e con il fattore “difficoltà a descrivere i sentimenti” del­ la Toronto Alexithymia Scale-20 items (TAS-20; Taylor, Bagby, Parker, 1992; validazione italiana a cura di Bressi et al., 1996). Nello specifico, aH’aumentare della difficoltà di queste donne nel descrivere i sentimenti aumentava la disattivazione di queste aree: tali dati, quindi, mettono in luce il ruolo della corteccia cingolata anteriore perigenuale/corteccia orbitofrontale mediale nell’ambito della consapevolezza emozionale. Sintetizziamo i dati di questa ultima ricerca sull’attivazione del siste­ ma dei neuroni specchio nelle giovani donne adulte senza figli, in rispo­ sta alle espressioni emotive infantili (Lenzi et al., 2012). È possibile che gli scambi intersoggettivi tra donne e bambini siano parte di “un sistema motivazionale innato ed essenziale alla soprawi-

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BASI NEUROBIOLOGICHE DELLA MATERNITÀ

venza della specie, con uno status comparabile al sesso o all’attacca­ mento” (Stern, 2004, p. 81). Questi scambi intersoggettivi si sviluppano dalla nascita tra il bambino, la madre e (come abbiamo sottolineato nel capitolo 4) il padre, creando un contesto interattivo triadico (Fivaz-De­ peursinge, Corboz-Warnery, 1999). Sulla base delle evidenze neurobio­ logiche, si potrebbe supporre che il sistema genitoriale sia connesso al sistema motivazionale intersoggettivo primario, a sua volta strettamente associato al sistema di attaccamento: entrambi i sistemi sono essenziali per la trasmissione e la riproduzione nelle generazioni. La ricerca sui circuiti neurobiologici ha messo in luce come speci­ fiche regioni cerebrali si attivino quando diversi sistemi motivaziona­ li implicati nel funzionamento genitoriale vengono osservati nel com­ portamento materno (Lichtenberg, 1989; Nitschke et al., 2004; Schore, 2003). L’attività del sistema frontolimbico interviene nel modulare il comportamento socio-emozionale e i processi di regolazione affettiva, che risultano profondamente implicati nel sistema di attaccamento, co­ sì come è stato evidenziato nella nostra ricerca (Lenzi et al., 2012). La corteccia orbitofrontale dell’emisfero destro gioca un ruolo chiave nei processi di attaccamento. Inoltre, nel nostro studio sul cervello materno abbiamo rilevato come il rispecchiamento e l’imitazione delle espres­ sioni affettive facciali dei bambini attivino le classiche aree dei neuroni specchio e del sistema limbico, centri cerebrali nodali per il processa­ mento emotivo. Durante la gravidanza e dopo la nascita del bambino, parallelamente alle trasformazioni neurali, nella donna avvengono pro­ fondi cambiamenti psicologici, che sono stati sottolineati nei capitoli 2 e 3. In virtù di questi processi, si crea uno spostamento primario nel senso generale del sé che include l’identità materna, con l’attivazione della peculiare configurazione psicologica, nota come “costellazione materna” (Stern, 1995).

6 La matrice primaria dell’intersoggettività

Dopo il parto, madre e bambino interagiscono per soddisfare e re­ golare i reciproci bisogni primari. Come hanno sottolineato Papousek e Papousek (1975, 1987), la diade crea un contesto comunicativo pre­ verbale che plasma un sistema dinamico, basato prima su un lessico af­ fettivo e fonetico, poi su una emergente comprensione e condivisione intersoggettiva degli affetti, delle intenzioni e delle motivazioni (Fogel, Thelen, 1987). Questo “è il dominio dei comportamenti intuitivi inconsapevolmente regolati e della conoscenza relazionale implicita” (Papousek, 2007, p. 258). Madre e bambino sono intrinsecamente motivati “a sentirsi attratti l’una dall’altro e a ricercare un contatto reciproco” (Parsons et al., 2010, p. 221). Abbiamo già evidenziato quanto le madri siano attratte dal vol­ to del bambino, che le stimola a livello affettivo a orientarsi verso di lui e a prendersene cura (Darwin, 1872). Le caratteristiche del bambino agiscono sugli adulti che si prendono cura di lui come uno “schema in­ fantile” che attiva l’attenzione, il legame affettivo e i comportamenti di accudimento. Kringelbach e collaboratori (2008) hanno rilevato un’atti­ vazione cerebrale specificatamente umana nella corteccia orbitofrontale mediale in risposta alla presentazione dei volti dei bambini, anche non familiari, ma non rispetto ai volti degli adulti. Questo sistema di orienta­ mento (Parsons et al., 2010) rappresenta un prerequisito fondamentale per il contatto interpersonale: durante gli scambi interattivi, la madre cerca di catturare lo sguardo del bambino e di mantenere il contatto vi­ sivo con lui, proponendogli anche delle particolari espressioni facciali - definite “facce infantili” (Stern, 1985, p. 86) - che vengono marcate (marked) da un’esagerazione nell’esecuzione, dalla maggiore durata di

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LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

presentazione e da movimenti facciali più lenti. Anche i comportamenti che sostengono il contatto visivo vengono amplificati: le madri, infatti, tendono a mantenere una posizione estremamente ravvicinata al bam­ bino, per fare in modo che si focalizzi su di loro in maniera esclusiva. Il bambino, d’altra parte, è orientato selettivamente verso i volti umani e li preferisce alle forme non-umane (Johnson et al., 1991); allo stesso tempo, esprime una propensione per il linguaggio rispetto ai suo­ ni non linguistici. La predisposizione neonatale afi’orientamento verso i volti gioca un ruolo decisivo nella costruzione del legame con i genitori. La ricerca empirica (Morton, Johnson, 1991) ha rilevato nei bambi­ ni un’attrazione per gli schemi facciali umani, che si verifica immedia­ tamente dopo la nascita; più tardi, a due mesi, i bambini sono in grado di individuare il viso delle proprie madri, riconoscendolo tra quello di altre persone. Le interazioni faccia-a-faccia tra genitori e bambini si sviluppano molto precocemente, sono bidirezionali e caratterizzate da intense esperienze di rispecchiamento, che creano una sorta di fusio­ ne all’interno della diade, un contesto che plasma il legame affettivo di attaccamento. Queste esperienze visive giocano un ruolo decisivo nello sviluppo so­ ciale ed emozionale. In particolare, il volto con un’espressione emotiva della madre rappresenta lo stimolo visivo più potente nell’esperienza del bambino. Lo sguardo costituisce la forma maggiormente attivante di comunicazione preverbale, mentre la percezione delle espressioni facciali rappresenta uno dei canali comunicativi più salienti. Winnicott ha suggerito che il bambino, quando guarda la madre che 10 sta guardando, vede se stesso negli occhi materni: “La madre guarda 11 bambino [...]. Ciò che essa appare è in rapporto con ciò che essa scor­ ge" (1967, p. 191, corsivo originale). Successivamente, Kohut ha sotto­ lineato che “le interazioni fondamentali e più significative a questo ri­ guardo tra madre e figlio si svolgono generalmente nell’area visiva: allo sfoggio che il bambino fa del proprio corpo risponde la luce che brilla nell’occhio della madre” (1971, p. 120). Secondo Bowlby (1969/1982), il contatto visivo è un elemento centrale per la formazione dell’attacca­ mento primario alla madre; infatti, la madre e il bambino si impegna­ no in una protoconversazione, mediata dal contatto occhio-a-occhio, dalle vocalizzazioni, dai gesti della mano e dai movimenti delle braccia e della testa (Trevarthen, Aitken, 2001). In un recente articolo, Tomasello e cofiaboratori hanno evidenziato la speciale visibilità degli occhi degli esseri umani: questi, infatti, sono “colorati in un modo che aiuta a rilevare sia la loro presenza sia la direzione dello sguardo, molto più 170

LA MATRICE PRIMARIA DELL’INTERSOGGETTIVITÀ

che in altri primati” (2006, p. 315). Si ipotizza che gli occhi umani si siano evoluti nell’ambito della pressione ambientale che ha sostenuto le abilità comunicativo-cooperative, tipiche delle interazioni sociali re­ ciproche, basate sulla condivisione dell’attenzione e la comunicazione visivamente modulata, come nel caso del gesto dell’indicare (pointing). E importate sottolineare che gli occhi umani esprimono spesso diversi stati emozionali (Baron-Cohen et al., 2001). In seguito all’orientamento verso i volti umani e la comunicazione occhio-a-occhio, un secondo passaggio importante è rappresentato dal riconoscimento reciproco selettivo, osservabile tra il bambino e i genito­ ri nei primissimi giorni di vita. Le madri sono in grado di riconoscere il proprio bambino, identificandone l’odore, il pianto e il contatto (Cismaresco, Montagner, 1990; Kaitz et al., 1992). Allo stesso tempo, il bam­ bino manifesta una chiara preferenza per il volto della propria madre rispetto a quello di altre persone, incluso quello di donne non familiari. Il correlato neurale del funzionamento visivo del bambino non è stato ancora del tutto chiarito, nonostante alcuni ricercatori ipotizzino che, alla nascita, le aree sottocorticali siano coinvolte nel processo di attrazione verso i volti umani, mentre l’area visiva corticale interven­ ga nell’aumentare il tempo di fissazione sugli stimoli facciali (Morton, Johnson, 1991). Uno studio (Tzourio-Mazoyer et al., 2002) ha evidenziato che quan­ do bambini di due mesi guardano il volto di una donna non familiare, si attiva una rete di aree cerebrali appartenenti al sistema deputato alla percezione dei volti (Haxby, Hoffman, Gobbini, 2000), che è colloca­ to, durante l’infanzia, nella corteccia temporo-occipitale inferiore, in una zona molto vicina all’area fusiforme degli adulti (Kanwisher, McDermott, Chun, 1997). L’emisfero destro svolge un ruolo speciale nell’ambito di questi pro­ cessi precoci. Schore sottolinea come

[...] l’emisfero destro del bambino, dominante nell’elaborazione dell’in­ formazione emotiva, visiva e prosodica e per il riconoscimento delle espressioni affettive materne, profondamente investite dal bambino fin dai primi momenti della vita, sia sintonizzato dal punto di vista psico­ biologico con l’output che deriva dall’emisfero destro della madre, coin­ volto nell’espressione e nell’elaborazione delle informazioni emotive e nella comunicazione non-verbale spontanea. (2003, pp. 45-46) Come Schore (2011) ha evidenziato in un recente articolo, que­ sti scambi visivi e affettivi precoci vengono immagazzinati all’interno

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LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

della conoscenza relazionale implicita, integrata nel legame di attac­ camento, che non è solo psicologico ma anche neurobiologico e radi­ cato nel corpo. Sulla base di una ricerca condotta sui ratti, Hofer (2006) ha eviden­ ziato una rete di processi comportamentali, fisiologici e neurali, sotto­ stanti le dimensioni psicologiche dell’attaccamento. Numerosi sistemi regolatori nascosti intervengono a livello fisiologico, nell’ambito dell’in­ terazione madre-bambino, andando a modellare lo sviluppo infantile; in campo animale, il calore fornito dalla madre, per esempio, mantiene costante il livello di attività del cucciolo, mentre il latte materno ne sta­ bilizza la frequenza cardiaca. In caso di separazione materna, si verifi­ ca una carenza di queste influenze regolative, che provoca un rallenta­ mento del comportamento e una riduzione della frequenza cardiaca. Applicando queste osservazioni allo sviluppo precoce umano, è pos­ sibile ipotizzare che i modelli di attaccamento possano essere costruiti sulle interazioni regolative biologiche precoci. Questi aspetti potrebbe­ ro spiegare le sensazioni corporee e viscerali che spesso accompagna­ no le vicissitudini delle relazioni intime umane, in particolare le sepa­ razioni e le perdite. Durante questo periodo precoce, il cervello inizia a formare nuo­ ve sinapsi: questo processo è così consistente che la densità sinaptica (ossia, il numero di sinapsi per unità di volume del tessuto cerebrale) supera notevolmente quella del cervello adulto. Questo processo di proliferazione sinaptica, definito sinaptogenesi, si protrae per diversi mesi, raggiungendo la densità massima nella maggior parte delle regio­ ni cerebrali (Blakemore, Choudhury, 2006). Questi picchi precoci nella densità sinaptica sono seguiti da un periodo di potatura sinaptica {pru­ ning), che si traduce in un rafforzamento delle connessioni usate di più e nell’eliminazione di quelle utilizzate di meno. Questo processo dipen­ dente dall’esperienza, che ha luogo nell’arco di anni, riduce la densità sinaptica complessiva, facendola arrivare ai livelli adulti. Questi dati derivano principalmente dagli studi condotti sulle regio­ ni sensoriali dei cervelli animali. La ricerca condotta sulle scimmie rhesus (Rakic, 1995) ha dimostrato che le densità sinaptiche raggiungono i livelli massimi due-quattro mesi dopo la nascita; successivamente, ha inizio il processo di pruning e i circuiti sinaptici sinistri diventano più efficienti. Tuttavia, la sinaptogenesi e il pruning sinaptico della cortec­ cia prefrontale hanno un decorso molto diverso. Si ritiene che il pruning sinaptico sia sottostante al processo di categorizzazione dei suoni, il quale interviene, per esempio, nell’apprendimento del linguaggio. 172

LA MATRICE PRIMARIA DELL’INTERSOGGETTIVITÀ

L’organizzazione sonora viene determinata dai suoni presenti nell’am­ biente del bambino durante i primi dodici mesi di vita; a partire dalla fine del primo anno di vita, i bambini perdono la capacità di distingue­ re tra suoni a cui non sono stati esposti (Kuhl, 2004 ).

Agency e mutua regolazione tra caregiver e bambino Nell’ambito del sistema diadico madre-bambino è stata enfatizzata l’importanza delle influenze reciproche (Beebe, Lachmann, 1988; Gianino, Tronick, 1988). Assumendo la prospettiva sistemica (Sander, 1977, 1985), l’attività primaria del bambino può essere considerata una delle caratteristiche essenziali nel coinvolgimento e nello scambio con i part­ ner umani: ogni partner, con la propria organizzazione endogena perso­ nale, influenza l’altro ed è contemporaneamente influenzato dall’altro. L’esperienza della mutua regolazione viene trasferita all’interno del senso agente (agency) del bambino (Rustin, 1997); allo stesso tempo, il bambino ha un proprio senso di agency mediante il quale influenza il sistema. Secondo Sander (1985), le origini dell’identità umana si fonda­ no nella trasformazione dell’influenza esercitata dal comportamento del bambino sul sistema interattivo in un senso soggettivo di agency (Stern, 1985). Questa capacità consente ai bambini di rilevare le contingenze tra il proprio comportamento e le risposte che provengono dall’ambiente. Strettamente connesso al concetto di agency è quello di efficacia, considerato da Lichtenberg ( 1989) come una motivazione centrale nello sviluppo: il bambino sperimenta un senso di efficacia quando riesce a ottenere la soddisfazione dei propri bisogni (per esempio quando viene gratificato dal latte della madre dopo avere pianto). Rustin (1997) pro­ pone un’utile distinzione tra il concetto di agency, basato sulle capaci­ tà innate dei bambini, che consentono di organizzare l’esperienza e di impegnarsi nello scambio con l’altro, e quello di efficacia, che coincide invece con la capacità di produrre in modo attendibile gli effetti atte­ si attraverso l’uso di tali competenze. Il senso di agency si costruisce a partire dalle esperienze di riconoscimento del comportamento agente del bambino da parte dell’ambiente, nel corso delle esperienze ripetu­ te di efficacia. Nella costruzione personale del senso del sé, il senso agente di sé gioca un ruolo rilevante, in quanto implica “la volontà, il controllo de­ gli atti autogenerati [...] e aspettarsi le conseguenze delle proprie azio­ ni” (Stern, 1985, p. 84). Un’intensa illustrazione del senso agente di sé

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è rappresentata dal dipinto del 1609, eseguito dalla pittrice Artemi­ sia Gentileschi, all’età di sedici anni: La Madonna col Bambino (figura 6.1). Questo dipinto, esposto nella Galleria Spada a Roma, descrive il movimento attivo del braccio sinistro del bambino che sta cercando di svegliare o accarezzare una Madonna addormentata durante l’allatta­ mento. Il dipinto cattura un momento di profonda intimità tra madre e bambino. Il bambino tenta di rianimare la madre, esattamente come è stato osservato durante la procedura osservativa sperimentale dello Stili-Face (Tronick et al., 1978), nella quale il bambino è posto di fronte a una madre impassibile e distaccata. E interessante notare che il dipin­ to, che ritrae la Madonna in un momento di stanchezza, è stato dipinto da una donna che aveva probabilmente una profonda conoscenza della stanchezza insita nella condizione materna, a differenza dei pittori di sesso maschile che tendevano a rappresentare più gli aspetti idealizzati della maternità, così come abbiamo discusso precedentemente. Il bambino e la madre imparano insieme a regolare gli stati affetti­ vi e comportamentali: questo consente al bambino di apprendere co­ me comunicare e interagire con gli altri, e come attivarsi all’interno del proprio ambiente (Sander, 1962). Il processo della mutua regolazione si dispiega nel corso dello sviluppo, acquisendo un’organizzazione sem­ pre più complessa. Gli studi precoci hanno messo particolarmente in risalto gli stati di corrispondenza (matching), di concordanza reciproca e di condivisio­ ne tra madre e bambino - i quali sembrano muoversi come danzatori (Beebe, 1982; Stern, 1977) -, mentre hanno sottovalutato la dimensione conflittuale degli scambi interattivi. Questa dimensione è stata invece concettualizzata dalle teorie evolutive della psicoanalisi. La ricerca in questo senso ha fornito un’immagine interattiva, che si caratterizza anche per la discordanza, l’assenza di corrispondenza (mis match) e i fallimenti interattivi. Cohn e Tronick (1987) hanno messo in luce come i bambini e le madri trascorrano solo il 30% circa del tem­ po in stati caratterizzati da sincronia e reciprocità. Anche le differenze di genere influenzano i comportamenti affettivi e regolativi, così come la qualità interattiva (Weinberg, 1992); i maschi risultano infatti più reattivi a livello emotivo delle femmine: esprimono maggiormente sia le emozioni positive sia quelle negative, focalizzandosi più intensamen­ te sulla madre, esprimendo di più i segnali di evitamento e di distress e manifestando maggiori richieste di contatto, rispetto alle femmine. Tronick e i suoi collaboratori (Tronick, Cohn, 1989; Tronick, Gianino, 1986a) hanno rappresentato l’interazione come un sistema che

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Figura 6.1 Artemisia Gentileschi, La Madonna con il permesso del Ministero della Cultura.

col Bambino, Galleria Spada,

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Roma. Stampata

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si muove da stati coordinati a stati non coordinati e viceversa. Il com­ portamento di una madre che non presta attenzione al comportamento del suo bambino o che lo fraintende ha effetti molto diversi: nel primo caso il comportamento materno genera uno scacco interattivo, nel se­ condo caso produce un mismatch. Tutto ciò è dovuto sia all’immaturi­ tà del bambino, che non è ancora pienamente in grado di esprimere e comunicare i propri bisogni, sia alle difficoltà del caregiver di decodi­ ficarne il comportamento. Gli scacchi interattivi sono molto frequenti nelle diadi e, nella maggior parte dei casi, vengono facilmente riparati. Negli studi sull’interazione faccia-a-faccia, condotti ai sei mesi di vita del bambino, la riparazione è molto frequente, all’incirca ogni tre-cinque secondi (Tronick, Gianino, 1986b). Madre e bambino partecipano entrambi, con le proprie capacità interattive, al processo di mutua rego­ lazione e di riparazione, con l’obiettivo di mantenere una regolazione interna, un prerequisito fondamentale per lo scambio sociale, la comu­ nicazione e la capacità di agire nell’ambiente (Sander, 1962).

La mutua regolazione durante l’allattamento Come ha brillantemente illustrato Kenneth Kaye (1982), l’allatta­ mento rappresenta un valido esempio di mutua regolazione. Durante il primo mese di vita, i bambini succhiano il latte con ritmi di quattrodieci suzioni (circa una al secondo), presentando un modello di suzio­ ne tipicamente umano dal momento che non è stato riscontrato in nes­ sun altro mammifero. Solitamente, le madri si inseriscono nelle pause del bambino cullandolo e manifestando una risposta materna intuitiva alle sue pause durante la suzione. Sia le madri esperte sia quelle non esperte imparano velocemente a ridurre la durata del cullare durante le prime due settimane di vita del bambino, passando da 3.1 secondi a 1.8 secondi (Kaye, Wells, 1980). Questo comportamento reciproco è un buon esempio di interazione basata sull’alternanza dei turni e sulla mutua contingenza. Una possibile spiegazione delle pause del bambino può essere l’effetto che queste hanno sulla madre, dal momento che le pause non vengono prodotte per respirare, deglutire o riposarsi; questo comportamento ha infatti l’obiettivo osservabile di includere le madri nei patterns del bambino, creando turni reciproci. Nonostante il meccanismo della suzione del bambino sia inizialmen­ te intrinseco e basato su un’organizzazione neurobiologica, la madre ha, tuttavia, una diversa sensazione: pensa infatti che il suo bambino

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sia pigro o sazio. Per questa ragione, inizia a cullare il bambino, non rendendosi conto di come in realtà questo comportamento allunghi le pause e non considerando che il solo modo di fare riprendere la suzione sia smettere di cullare il bambino. Le madri sensibili e in grado di pre­ stare attenzione al bambino imparano in breve tempo le conseguenze del loro comportamento sulla suzione. La funzione della pausa potreb­ be essere interpretata come un’occasione per il caregiver per alternarsi ai cicli biologici del bambino. L’interazione basata sull’alternanza dei turni viene costruita dall’intervento della madre, la quale può adattar­ si al bambino e creare un’organizzazione interattiva condividendone i ritmi e le regolazioni. Potremmo supporre che nel corso dell’evoluzione della specie uma­ na, il ritmo dell’allattamento si sia modificato per consentire alle madri di utilizzare l’interazione dell’allattamento per trasmettere ai propri fi­ gli il ritmo sociale dell’alternanza dei turni. Infatti, osservando le inte­ razioni durante l’allattamento, notiamo che nei momenti in cui il bam­ bino succhia attivamente, la madre ne sostiene i ritmi senza interferire, mantenendo comunque una presenza attenta. La madre si inserisce nelle pause della suzione, stimolando il bambino non solo fisicamente ma anche attraverso il linguaggio; spesso infatti la madre conferma il bambino dicendogli, per esempio, “Oggi ti è proprio piaciuto il latte di mamma” oppure “Il mio bambino era molto affamato oggi”. Potremmo concludere che, durante l’allattamento, i caregiver non solo alimentino il bambino, aiutandolo a sviluppare un ritmo di alimen­ tazione quotidiano, ma lo stimolino anche a creare un modello interat­ tivo basato sull’alternanza dei turni, che sarà utilizzato più tardi come esempio per lo scambio sociale e il dialogo verbale con gli altri. La com­ plessità del funzionamento umano ha modificato il contesto alimenta­ re, che è diventato un ambito significativo dell’interazione diadica oltre che deH’apprendimento.

Internalizzazione, aspettative e riparazione La continua regolazione tra madre e bambino si stabilizza gradual­ mente, creando aspettative che vengono internalizzate nella mente in­ fantile (Beebe, Lachmann, 1994; Stern, 1985). Stern {ibidem) ha for­ mulato una teoria delle rappresentazioni delle interazioni generalizzate, considerando che le regolazioni interattive ripetute e prevedibili costi­ tuiscono la base per un’astrazione generalizzata di queste rappresen­ 177

tazioni. Nella formazione delle rappresentazioni del bambino, Stern (1988) ha sottolineato l’importanza degli affetti. Gli affetti vengono enfatizzati anche da Beebe e Lachmann (1994), i quali ne evidenziano i principi organizzativi salienti che influenzano la creazione delle aspet­ tative. Per esempio il piacere edonico sperimentato dal bambino quan­ do viene alimentato, quando gli si parla con un tono delicato o quando viene accarezzato crea in lui delle intense aspettative: in seguito, infatti, si aspetterà o cercherà di risperimentare quell’affetto positivo. I “momenti di intensa affettività” {ibidem, p. 147), positivi o nega­ tivi, non danno solo alle esperienze interattive una salienza cromatica, ma intervengono anche nella loro organizzazione. Come Stern (1985) ha discusso, la dimensione vitale degli affetti nella comunicazione emo­ zionale è estremamente importante durante i primi mesi di vita. Gli af­ fetti sono caratterizzati dalla loro intensità e dalla loro configurazione in relazione all’attivazione e alla disattivazione all’interno di specifi­ che categorie emotive, come la gioia, il distress, la tristezza o la rabbia. A questo proposito, Panksepp ha considerato “i sistemi emozionali positivi [...] come elementi di attrazione che coinvolgono gli spazi co­ gnitivi, portando al loro ampliamento e alla loro crescita. Le emozioni negative tendono a vincolare le attività cognitive su canali più ristretti e ossessivi” (2001, p. 132). L’ambiente emotivo sperimentato dal bam­ bino produce delle conseguenze che durano tutta la vita, ponendo le basi per una solidità o, al contrario, per una vulnerabilità emozionale. Da un punto di vista neurobiologico, le esperienze psicologiche ed emozionali del bambino si basano più sull’attività delle regioni sotto­ corticali che di quelle corticali (Chugani, 1996). L’emozionalità è una competenza antica nell’evoluzione cerebrale; partendo da questo pre­ supposto, i relativi sistemi cerebrali sottostanti potrebbero rappresen­ tare una base evoluzionistica per l’emergenza delle capacità sociali e cognitive (Panksepp, 2001). Nello sviluppo infantile, il senso primario del sé è probabilmente più affettivo che cognitivo e la struttura del sé {ibidem), o nucleo del sé (Damasio, 1999), viene costruita intorno all’esperienza affettiva. In questo contesto, i sentimenti vengono generati da diversi sistemi emozionali che hanno un’influenza sulla rappresentazione primaria neurale del corpo a livello delle sezioni superiore e media del tronco­ encefalico. II processo di internalizzazione delle dinamiche della mutua re­ golazione interattiva costituisce un fattore essenziale per la costru­ zione delle rappresentazioni interne (Loewald, 1960) della matrice

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intersoggettiva (Stolorow, Brandchaft, Atwood, 1987). Come Beebe e Lachmann hanno messo in luce, “alla base delle rappresentazioni vi è la capacità di ordinare e riconoscere i patterns, di aspettarsi cosa sia prevedibile c invariante, e di creare categorie di queste invarian­ ti” (1994, p. 131). Le esperienze interattive durante il primo anno di vita vengono organizzate e immagazzinate all’interno di una conoscenza implicita che è “non simbolica, non verbale, procedurale e inconscia (nel sen­ so che non è riflessivamente conscia)” (Stern, 2004, p. 93). La cono­ scenza implicita riguarda l’area della comunicazione non-verbale, dei movimenti e delle sensazioni del corpo, degli affetti e delle aspetta­ tive. Fogel (2003) ha sottolineato come questo sistema esperienziale sia emozionale, concreto, sperimentato passivamente e modulato dal­ le sensazioni del passato, piuttosto che dalle valutazioni esplicite. La memoria implicita, secondo Fogel {ibidem), ha una funzione regolativa speciale che agisce in modo automatico e non-conscio, come quan­ do, per esempio, il bambino si coinvolge in un’esperienza relazionale. Un altro importante aspetto della memoria implicita è la dipendenza dal contesto: il contesto attuale della memoria riguardante le situazio­ ni interpersonali stimola infatti una conoscenza relazionale implicita (Beebe, 1998; Lyons-Ruth, 1998). Da una prospettiva neurobiologica, il cervello infantile dipende dall’esperienza e apprende, durante le interazioni, a percepire l’am­ biente sociale come minaccioso o supportivo (Panksepp, 2001); in questo ambito, un ruolo particolare viene assunto dall’emisfero de­ stro, che fornisce la regolazione non-conscia delle interazioni emozio­ nali con gli altri. Schore ha sintetizzato tale processo in modo chiaro: “Questa capacità coinvolge la capacità di leggere, in maniera adegua­ ta e non consapevole, i volti, i toni e le intenzioni [...] per risuonare empaticamente con gli stati degli altri, per comunicare gli stati emo­ tivi e regolare gli affetti interpersonali, e, dunque, per fronteggiare gli elementi ambientali di stress interpersonale della prima infanzia” (2001, p. 45). Osservando la madre e il bambino durante l’allattamento, possiamo rilevare il piacere che il bambino sperimenta durante la suzione e men­ tre guarda la madre negli occhi; la madre, a sua volta, durante le pause si rivolge al bambino con una voce ritmica musicale e con parole come “Sei proprio un bravo bambino”. Questo comportamento interattivo agisce mediante la codifica a livello della memoria implicita, che si riat­ tiva ogni volta che il bambino si trova nelle braccia della madre e inizia

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a succhiare. Si crea dunque un’aspettativa implicita di rivivere le espe­ rienze positive, che si stabilisce nel tempo, contribuendo alla costru­ zione della conoscenza relazionale. Al contrario, il ritardo della madre nel soddisfare i bisogni del bambino - per esempio, dandogli il latte quando è già molto affa­ mato - crea in lui uno stato di frustrazione e di tensione elevate, che può porre le basi per un’aspettativa negativa. Questo esempio intro­ duce il significativo principio della “rottura e riparazione” (Beebe, Lachmann, 1994, p. 140), che descrive gli errori interattivi, piuttosto comuni e facilmente riparabili nelle diadi non a rischio (Tronick, Gianino, 1986a). Il successo o il fallimento degli errori interattivi dipende dalla capacità della madre di leggere i comportamenti e i segnali del bambino, alla luce di stati mentali, sentimenti e desideri sottostanti, che le permettono di prevederne le azioni (Fonagy, Target, 1998) e regolarne il disagio. Torniamo alTcscmpio precedente del distress sperimentato dal bambino. Se la madre comprende il comportamento del figlio e ne modula lo stato di tensione - prendendolo in braccio e cullandolo dolcemente il bambino sarà in grado di attaccarsi di nuovo al seno e continuerà a succhiare con calma. Al contrario, se la madre percepisce il pianto del bambino come un rimprovero verso se stessa e lo attacca al seno bru­ scamente, il mismatch si intensifica, andando a riattivare le preceden­ ti esperienze negative che potrebbero causare una rottura tra di loro. Infatti, se le violazioni dell’aspettativa non sono troppo frequenti, la riparazione può essere efficace; se invece le rotture avvengono trop­ po frequentemente, è verosimile che si crei un distacco cronico tra i due partner. Le esperienze di riparazione hanno una grande rilevanza nel mondo rappresentazionale del bambino; creano un’aspettativa di fiducia ver­ so la madre e favoriscono lo sviluppo di un “senso del noi” (we-ness-, Emde, 2009), che inizia a formarsi dal momento in cui il bambino co­ mincia a esercitare il controllo visivo su un altro significativo. Citando Emde, “i processi del ‘senso del noi’ iniziano in una maniera profonda, subito dopo la nascita, così come è dimostrato dalle imitazioni precoci che neonato e bambino manifestano nei confronti delle espressioni e delle azioni dei genitori” (ibidem, p. 559). L’esperienza della riparazione incrementa il senso dell’efficacia per­ sonale e sostiene l’aspettativa che sia possibile riparare insieme un’e­ ventuale rottura. Beebe e Lachmann (1994) danno grande valore all’e­ 180

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sperienza riparativa, dal momento che costituisce un’acquisizione fondamentale nell’ambito della mutua regolazione diadica. La rego­ lazione diadica viene introiettata nella formazione della struttura del sé del bambino, contribuendo alla sua flessibilità personale e alla re­ silienza nei confronti delle situazioni avverse. Una procedura osservativa ideata per investigare i meccanismi della rottura e della possibile riparazione interattiva è rappresentata dallo Stili-Face Paradigm (Tronick et al., 1978), nel cui ambito la rottura delle aspettative del bambi­ no viene provocata a livello sperimentale, per valutare le sue capacità di riparazione e di coping. La regolazione e le riparazioni reciproche rappresentano una dina­ mica co-costruita, in quanto caratterizzata dagli adattamenti costanti di ogni partner alle espressioni emozionali, ai movimenti del corpo, al contatto e alla comunicazione verbale e non-verbale dell’altro. En­ trambi i partner contribuiscono alla mutua regolazione e, sebbene esi­ sta un’ovvia asimmetria data dalle maggiori risorse e capacità materne, il bambino si presenta comunque come un membro attivo aH’interno di questi scambi interattivi. Le interazioni e la mutua regolazione vengono fortemente colorate dagli affetti. Mentre le interazioni reciprocamente regolate suscitano affetti positivi, come gioia, piacere e rilassatezza, le interazioni disrego­ late producono affetti negativi, come distress, rabbia e tensione elevata. Secondo Tronick (1998), queste interazioni emozionali hanno il poten­ ziale di espandere lo stato di coscienza di ogni individuo, con impor­ tanti conseguenze sullo sviluppo. Questa esperienza reciproca sostiene “la transizione verso un sistema regolativo reciproco maggiormente in­ clusivo, e dunque coerente, che dipende da un ‘momento di incontro’ tra il genitore e il bambino” (Lyons-Ruth, 1998, p. 286).

La costruzione del legame di attaccamento Come abbiamo illustrato, il neonato ha una propensione innata ver­ so gli esseri umani e mostra una forte attrazione nei loro confronti, sin dall’inizio. In modo complementare, i segnali e i comportamenti del bambino stimolano l’attenzione e l’accudimento negli altri esseri uma­ ni, favorendo la vicinanza, il contatto fìsico e il calore (Marvin, Britner, 2008). Da questa prospettiva, lo sviluppo dell’attaccamento del bam­ bino non può essere compreso al di fuori del contesto del comporta­ mento reciproco e complementare del suo caregiver. Durante il perio­

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do iniziale, il bambino e il suo caregiver sono mutuamente coinvolti. Il sistema di orientamento (Parsons et al., 2010) serve al bambino a foca­ lizzare l’attenzione sul caregiver, favorendo l’interazione e la vicinanza. In questa fase, la discriminazione del caregiver è ancora inadeguata, ma i sistemi sensoriali sono strutturati in modo da favorire la risposta del bambino alle persone (Bowlby, 1969/1982). Nello sviluppo del comportamento di attaccamento, i sistemi uditivi e visivi giocano un ruolo fondamentale. Infatti, subito dopo la nascita, i bambini sono in grado di orientarsi, di monitorare visivamente e di pre­ stare attenzione agli stimoli uditivi, soprattutto quelli umani. Anche il raggiungere, l’afferrare e l’aggrapparsi sono importanti comportamenti di attaccamento che compaiono però più tardi. Infine, anche il sorriso e il pianto sono ulteriori comportamenti di attaccamento: questi com­ portamenti garantiscono la sopravvivenza del bambino, dal momento che promuovono nei suoi caregiver le condotte di cura e i comporta­ menti protettivi (Carter, Keverne, 2002). Un graduale cambiamento avviene con il sistema di riconoscimento (Parsons et al., 2010), che favorisce un’interazione più selettiva e indi­ viduata del bambino con il caregiver. Il bambino manifesta progressi­ vamente una chiara preferenza per i suoi caregiver, cercando il contatto - soprattutto durante le situazioni stressanti - ed esprimendo disagio quando si separa dalla figura di attaccamento. Durante i primi anni, la vicinanza alle figure di attaccamento garantisce al bambino un senso di sicurezza, rassicurandolo sulla disponibilità del caregiver nei momenti di bisogno. L’attaccamento sicuro fornisce anche le basi per l’esplora­ zione indipendente del bambino (Bowlby 1969/1982). La disponibilità e la capacità del caregiver di rispondere prontamen­ te e in modo contingente ai segnali del bambino sono un prerequisi­ to indispensabile per la sicurezza dell’attaccamento (Ainsworth, Bell, 1974; Bakermans-Kranenburg, van IJzendoorn, Juffer, 2003). Questa caratteristica genitoriale, particolarmente importante nell’attaccamen­ to madre-bambino, è stata definita “sensibilità”. Isabella (1993, 1998) ha dimostrato come la sicurezza nell’attaccamento sia associata più alla sensibilità dei genitori durante i primi mesi di vita che a quella mani­ festata nelle fasi successive dello sviluppo. Sono state infatti evidenzia­ te associazioni rilevanti tra la genitorialità sensibile e gli attaccamenti sicuri tra madre e bambino, solo in relazione ai primi mesi di vita del bambino. Questo potrebbe spiegare l’associazione moderata, rilevata da de Wolff e van IJzendoorn (1997) in una meta-analisi condotta su più di mille casi, tra tipi di sensibilità e sicurezza nell’attaccamento: ciò 182

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suggerisce che altri aspetti della genitorialità possano avere un ruolo importante nello sviluppo di un attaccamento sicuro. Durante i primi mesi di vita, la sensibilità genitoriale è comunque cruciale; più tardi, quando il comportamento del bambino diventa più complesso e la vicinanza fisica non è più sufficiente a soddisfare i suoi bisogni, intervengono altre competenze genitoriali nel mantenimento dell’attaccamento. Negli anni successivi, per il bambino può diventare importante che i genitori condividano le sue esperienze durante le in­ terazioni, assumendo il ruolo di riferimento sociale. Un’altra importante competenza genitoriale enfatizzata da Fonagy è la capacità del genitore, “evidente subito dopo la nascita, di concepire il bambino come un’entità mentale all’interno della relazione [questa capacità] ha un ruolo critico per lo sviluppo nel bambino di un attac­ camento sicuro e della lettura della mente” (1998, p. 140). Secondo Fonagy {ibidem), lo sviluppo della mentalizzazione e dell’at­ taccamento sicuro nel bambino è strettamente associato alla capacità del caregiver di osservare e leggere i cambiamenti nel suo stato mentale. Un’interessante questione riguarda la connessione tra la sensibilità e la mentalizzazione, che sono strettamente associate, anche se il concetto di sensibilità sottolinea la componente emozionale mentre la mentaliz­ zazione enfatizza quella cognitiva. Mentre il concetto di attaccamento ha un quadro di riferimento teo­ rico ampio e più generale (Bowlby, 1969/1982), nei contributi recen­ ti sono stati esplorati alcuni aspetti specifici, come quello proposto da Hofer (1994, 2006). Sulla base delle sue osservazioni sui ratti, Hofer ha ipotizzato l’esistenza negli esseri umani di un cluster di sottopro­ cessi comportamentali e fisiologici che mantengono l’organizzazione dell’attaccamento. Un’altra prospettiva discussa da Beebe e collaboratori (2010) sostie­ ne una visione diadica sistemica dell’attaccamento, che si basa su una recente e documentata ricerca che evidenzia come la madre e il bambi­ no costruiscano insieme il legame, contribuendo entrambi attivamen­ te allo scambio. Mentre da questa prospettiva di studio la regolazione affettiva è stata considerata critica per l’attaccamento, in uno studio precedentejaffe e collaboratori (2001) hanno individuato nella contin­ genza interattiva del ritmo vocale uno dei meccanismi di trasmissione della sicurezza nell’attaccamento; a quattro mesi di vita del bambino, una contingenza eccessiva o insufficiente sembra predire invece un at­ taccamento insicuro. Beebe e collaboratori (2010) hanno evidenziato come il contatto vi­

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sivo-£acciale e cutaneo siano le modalità più salienti nel predire le diadi sicure e insicure. I futuri bambini sicuri sono in grado di coordinarsi con le madri utilizzando lo sguardo, le emozioni facciali e le emozioni vocali come canali separati; allo stesso tempo, le madri coordinano i patterns di contatto con l’attività del bambino. La qualità del contatto tra madre e bambino ha una grande influenza nello sviluppo dell’attac­ camento insicuro: infatti, un contatto materno intrusivo o scarsamen­ te affettivo appare frequentemente associato a una futura insicurezza. Il passaggio dalla regolazione emotiva all’esperienza sociale con­ divisa ha una corrispondenza nella maturazione mentale e cerebrale durante i primi anni di vita del bambino. Come ha ipotizzato MacDonald (1992), nella genitorialità coesistono due diversi atteggiamenti: uno è basato sul sistema di sicurezza-separazione-^n/rcÀr, che viene attivato dal legame di attaccamento; l’altro è basato sul sistema sociale positivo della ricompensa (.reward), che viene attivato quando il bam­ bino inizia a esplorare. Nell’ultima situazione, i genitori condividono le scoperte del bambino, confermandone le capacità. Anche gli affetti coinvolti in questi sistemi sono diversi. Nella prima situazione i geni­ tori esprimono sensibilità e protezione; nella seconda esprimono gioia, conferme e condivisione. Durante il primo semestre, i bambini iniziano a manifestare attacca­ menti e comportamenti sociali differenziati, con distinti percorsi evolu­ tivi rispetto agli specifici patterns di attaccamento che sono stati indivi­ duati da Ainsworth e collaboratori (1978) e che restano relativamente stabili negli anni successivi. Infatti, esiste una distinzione importante tra il legame di attaccamento, che è praticamente presente in ogni bambi­ no, e la qualità dell’attaccamento (Weinfield et al., 2008). Le differen­ ze individuali nel legame di attaccamento sono connesse alla specifica storia personale con le figure di attaccamento e sono integrate nell’in­ terazione della diade bambino-caregiver. I bambini sono geneticamente predisposti a esprimere comporta­ menti di attaccamento verso la figura umana che si prende cura di loro, solitamente la madre; usano il caregiver come un “rifugio di sicurezza” e come una “base sicura” quando esplorano l’ambiente (Ainsworth et al., 1978; Bowlby, 1969/1982). Nelle situazioni pericolose, un bambino si sente stressato e si rivolge ai genitori per ricevere protezione e rassi­ curazione. Il percorso individuale delle relazioni di attaccamento non è tanto caratterizzato dalla quantità dei comportamenti di attaccamento, ma dalla loro organizzazione e qualità (Sroufe, Waters, 1977). Le categorie generali delle relazioni di attaccamento “sicuro” e “in­ 184

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sicuro” descrivono i comportamenti manifesti del bambino e, ancora più significativamente, la sua percezione della disponibilità del caregi­ ver, quando ha bisogno di consolazione e protezione. Mentre i bambi­ ni sicuri hanno sperimentato una presenza positiva del caregiver du­ rante le situazioni stressanti, i bambini insicuri non possono contare sui genitori, perché non hanno ricevuto consolazione e protezione da loro, in quanto distanti, indifferenti, inconsistenti e rifiutanti nei loro confronti. L’esperienza con un caregiver sensibile stimola nel bambino delle aspettative mentali - o modelli operativi interni, come definiti da Bowlby (1969/1982) - del caregiver come disponibile a rispondere ai suoi segnali di distress o alle sue richieste di contatto. Il modello del genitore come responsivo o non responsivo viene strettamente integrato a un modello complementare del sé infantile, di­ pendente dalla capacità del bambino di stimolare o meno una risposta nel genitore stesso. Ovviamente, tutto ciò ha delle implicazioni impor­ tanti per l’autoefficacia, l’autostima, le relazioni sociali e la formazione della personalità del bambino (Thompson, 2008). I comportamenti di attaccamento sono stati studiati in un conte­ sto standardizzato (Ainsworth et al., 1978), che mette in evidenza il modo in cui un bambino organizza i comportamenti di attaccamen­ to quando ha bisogno di protezione o desidera esplorare l’ambiente. Ainsworth e collaboratori {ibidem} hanno studiato i comportamenti dei bambini durante il primo anno di vita anche in ambito domesti­ co, osservando come i bambini con attaccamento insicuro (evitanti o ambivalenti) piangessero di più e manifestassero più rabbia e meno disciplina con le proprie madri, rispetto ai bambini con attaccamento sicuro. Durante la Strange Situation, le madri dei bambini insicuri si comportano in modo non focalizzato, manifestano una ridotta sensi­ bilità, sono più interferenti e meno responsive nei confronti delle ri­ chieste dei figli, rispetto alle madri dei bambini sicuri. Le madri dei bambini evitanti manifestano rifiuto e avversione verso il contatto fisi­ co con i loro bambini ed esprimono una gamma di emozioni ristrette durante l’interazione con loro. Sono state evidenziate chiare connessioni tra le osservazioni durante la Strange Situation e quelle in ambito domestico, che suggeriscono che la qualità dell’attaccamento potrebbe dipendere più dal temperamen­ to del bambino che dall’interazione madre-bambino. Va sottolineato, tuttavia, che non è stata rilevata un’associazione diretta tra il tempera­ mento infantile e la sicurezza nell’attaccamento (Belsky, Rovine, 1987; Vaughn, Bost, van IJzendoorn, 2008).

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Nuovi sviluppi nella teoria dell’attaccamento Abbiamo sintetizzato gli aspetti più rilevanti della teoria dell’attac­ camento che, nei decenni passati, hanno avuto interessanti sviluppi in diverse direzioni (Bretherton, 1991). La prima direzione ha cercato di esplorare le dinamiche individuali e le linee evolutive dell’attaccamento. Infatti, sebbene sia stato utile per descrivere i comportamenti osservabi­ li, l’approccio tassonomico scelto da Ainsworth e collaboratori (1978) può non cogliere comunque le dinamiche mentali consce e inconsce del bambino che influenzano le sue risposte all’intemo della relazione di attaccamento. Come Weinfield e collaboratori hanno scritto recen­ temente, gli “ampliamenti della nostra indagine sulle differenze indivi­ duali, tuttavia, non negano o sminuiscono l’importanza delle classifica­ zioni esistenti” (2008, p. 108). Un possibile percorso di studio potrebbe essere l’approfondimento del costrutto di modello operativo interno, come concettualizzato da Bowlby (1969/1982), che ha una specifica area di funzionamento connessa alle aspettative del bambino riguardo la disponibilità e la responsività dei suoi caregiver. Queste aspettative vengono integrate all’interno di un’organizzazione rappresentazionale più ampia, che include la rappresentazione del sé, la rappresentazione delle figure di attaccamento, le interpretazioni personali delle proprie esperienze relazionali e le strategie decisionali utilizzate per interagire con gli altri (Thompson, 2008). A questo proposito, il concetto di modello operativo interno ha as­ sunto un’eccessiva pienezza esplicativa, acquisendo più un’essenza me­ taforica che la natura di un costrutto teorico ben definito. In questa prospettiva, sarebbe utile capire meglio come durante i primi anni di vita la conoscenza implicita dei modelli operativi interni cambi, con una transizione verso la conoscenza esplicita e il pensiero simbolico, nella prospettiva del sé e delle figure di attaccamento. Se l’evidenza compor­ tamentale è stata importante per validare il costrutto dell’attaccamento durante i primi anni, un ulteriore step potrebbe essere rappresentato dal riconoscimento dei sensi del sé e degli altri, all’interno delle dina­ miche dell’attaccamento durante i primi anni di vita, così come è stato concettualizzato da Daniel Stern (1985). Un parziale senso del sé esiste ancora prima dell’autoconsapevolezza e del linguaggio, includendo il senso di agency, di coesione fisica, di continuità nel tempo e l’avere in mente un’intenzionalità. Slade ha formulato una considerazione simi­ le: “L’attenzione sulla classificazione ha reificato e ipersemplificato il significato della funzione dinamica dei processi dell’attaccamento, ge­

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nerando un’enfasi eccessiva sulla classificazione all’interno del domi­ nio della ricerca e un carente apprezzamento della complessità e della profondità dei processi di attaccamento che si manifestano all’interno del dominio clinico” (2004, p. 272). Una seconda direzione ha tentato di esplorare l’area degli attacca­ menti multipli, inizialmente sottolineati da Ainsworth, che ha scritto: “Quasi tutti i bambini di questo campione che avevano sviluppato un attaccamento nei confronti delle proprie madri [...] svilupparono un attaccamento anche nei confronti di altre figure familiari - il padre, la nonna, o qualche altro adulto della famiglia, o fratello o sorella maggio­ re” (1967, p. 315). Bowlby (1969/1982) ha ipotizzato che, durante l’in­ fanzia, il bambino costruisca una gerarchia di relazioni di attaccamen­ to: in altre parole, una rete di relazioni di attaccamento. Come Howes e Spieker (2008) hanno sottolineato, l’esistenza di molteplici figure di attaccamento solleva però complesse questioni teoriche. Come abbiamo evidenziato nel capitolo 4, il bambino inizia a inte­ ragire con diverse figure sin dalla nascita, e costruisce legami specifi­ ci con le figure familiari, nella maggior parte dei casi con la madre e il padre. Certamente, le relazioni con le figure di attaccamento non sono sovrapponibili e vengono modellate dalle specifiche interazioni (Fox, Kimmerly, Shafer, 1991; van IJzendoorn, De Wolff, 1997). E possibile che il bambino non sviluppi solo attaccamenti primari con le figure familiari, ma anche ulteriori attaccamenti con altri caregiver. L’ambito teorico degli attaccamenti multipli solleva diverse ipotesi in merito all’organizzazione mentale delle rappresentazioni dell’attac­ camento. La prima ipotesi è integrativa: prevede cioè l’integrazione di diverse rappresentazioni dell’attaccamento in una singola rappresenta­ zione con una dominante (van IJzendoorn, Sagi, Lambermon, 1992). La seconda ipotesi propone invece l’esistenza di rappresentazioni se­ parate e definite, che hanno un’influenza e una forza diversa durante lo sviluppo. In questo caso, gli attaccamenti indipendenti possono es­ sere attivati all’interno di relazioni con diverse figure di attaccamen­ to. Un’altra possibile ipotesi sostiene che le rappresentazioni dell’at­ taccamento possano essere indipendenti durante i primi due anni di vita e che vengano integrate più tardi in una rete rappresentazionale. Nelle situazioni clinicamente rilevanti, due o più modelli operativi interni della stessa figura di attaccamento possono operare a fianco di due o più modelli del sé. Un interessante commento di Bowlby (1973) sottolinea che: 187

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Quando sono in azione più modelli di una sola figura, è facile che essi differiscano quanto a origine, a dominanza, e alla misura in cui il soggetto ne è consapevole. E cosa comune trovare in una persona che soffra di disturbi emotivi che il modello che ha il maggior peso per le sue percezioni e previsioni, e quindi per i suoi sentimenti e il suo com­ portamento, è un modello formatosi durante i primissimi anni della vi­ ta e costruito su linee assai primitive, ma di cui la persona stessa può essere relativamente o completamente inconsapevole; mentre simulta­ neamente è operante in lui un secondo modello, magari radicalmente incompatibile con il primo, formatosi più tardi, assai più complesso, di cui la persona stessa è più consapevole, e che può inoltre erroneamente ritenere il modello dominante. (P. 262)

Un’altra direzione è rappresentata dalla relazione tra l’attaccamento e il temperamento, che implica differenti ambiti. Dal momento che l’at­ taccamento si focalizza su una relazione co-costruita tra il bambino e il caregiver, la qualità del legame e della regolazione emotiva del bambi­ no dipende dalla loro specifica esperienza relazionale, anche perché la strategia dell’attaccamento possiede le proprietà di un sistema di con­ trollo, basato su una collaborazione che si corregge secondo lo scopo (goal-corrected partnership). Se l’attaccamento dipendesse dal temperamento del bambino, que­ sto creerebbe un mismatch con il caregiver, e, da un punto di vista evo­ luzionistico, ciò potrebbe rappresentare un ostacolo alla sopravviven­ za. In un’ampia rassegna degli studi su temperamento e attaccamento (Vaughn et al., 2008), si è concluso che le differenze individuali nell’at­ taccamento (sicurezza versus insicurezza) non possano essere spiegate dal costrutto del temperamento. L’associazione tra attaccamento e temperamento può essere studiata anche mediante gli studi genetici. Nel primo studio molecolare sull’at­ taccamento, Lakatos e collaboratori (2000) hanno rilevato un rischio relativo nei bambini disorganizzati che presentano l’allele “7-repeat" del recettore DRD4. Va tuttavia sottolineato che in altri studi non è stata rilevata alcuna associazione tra il DRD4 e l’attaccamento disorganizzato o la sicurezza dell’attaccamento (Bakermans-Kranenburg, van IJzendoorn, 2007). In conclusione, gli studi molecolari e sui gemelli evidenziano l’im: portanza centrale dei fattori ambientali condivisi nell’attaccamento; i gemelli possono essere simili rispetto alla sicurezza dell’attaccamento, ma questo non dipende dal temperamento bensì dal simile trattamento ricevuto da parte dei genitori.

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Un’ulteriore direzione esplora la relazione tra l’attaccamento e l’at­ teggiamento intersoggettivo. L’attaccamento ha un dominio specifico basato sul sistema motivazionale dell’attaccamento, mentre la capacità di mentalizzazione descrive l’abilità di interpretare il proprio compor­ tamento e quello degli altri, in termini di desideri, sentimenti, credenze o motivazioni (Fonagy et al., 2002). Il legame di attaccamento comporta la mutualità e la reciprocità interpersonali (Diamond et al., 1991), aspetti necessari a condividere gli affetti e le intenzioni con i caregiver. Questo punto di vista è stato ampiamente discusso da Fonagy (1998), il quale, sulla base di eviden­ ze di ricerca, ha affermato che la relazione tra l’attaccamento sicuro e la mentalizzazione potrebbe essere diretta oppure modulata dal gioco di finzione, dagli stati mentali verbalizzati e dall’interazione tra pari. In un capitolo precedente, abbiamo discusso come la capacità del caregiver di riconoscere e comprendere gli stati mentali dei propri ge­ nitori possa predire la sicurezza dell’attaccamento nel bambino. Questa particolare capacità del caregiver gioca un ruolo critico anche nell’am­ bito delle interazioni, in quanto favorisce lo sviluppo della mentalizza­ zione del bambino. La percezione del bambino come di un essere in­ tenzionale è parte del caregiving sensibile, considerato estremamente rilevante per lo sviluppo dell’attaccamento sicuro infantile. Citando Fonagy (ibidem), “l’attaccamento sicuro, dal canto suo, fornisce la ba­ se psicologica per acquisire la comprensione della mente. Il bambino sicuro si sente rassicurato, perché può predire lo stato mentale del ca­ regiver ed è dunque più prontamente in grado di costruirsi una spie­ gazione mentalizzata del suo comportamento” (pp. 140-141). In altre parole, il bambino si sente più sicuro, non solo perché il caregiver è vi­ cino e raggiungibile, ma anche perché può predirne i comportamenti rilevanti per le richieste di attaccamento. Quando Bowlby (1969/1982) ha introdotto il costrutto teorico dell’attaccamento, ha sottolineato l’importanza del sistema comporta­ mentale del bambino, il cui obiettivo è garantire la vicinanza al caregi­ ver. La prossimità fisica promuove la sicurezza del bambino oltre che la “sicurezza percepita”. Va detto, comunque, che la ricerca sulla comuni­ cazione caregiver-bambino era appena iniziata. Questo è probabilmente il motivo per cui Bowlby si concentrò più sui comportamenti di vicinan­ za e di risposta alla separazione, che sono molto simili in altri primati. Al contrario, ricercatori come Tomasello (1999), Hobson (2002) e Lyons-Ruth (2006) hanno sostenuto una discontinuità tra gli esseri uma­ ni e i primati non-umani, fondata sulla capacità acquisita di attribuire 189

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intenzioni, credenze e desideri agli altri. Secondo Hobson (2002), in particolare, le forme primarie umane di relazione emozionale rappre­ sentano la base della capacità intersoggettiva, sebbene anche nelle scim­ mie sia presente una complessa comunicazione emozionale, che non si basa solo sulle interazioni faccia-a-faccia. Come Lyons-Ruth ha affermato: La condivisione esplicita degli stati intenzionali è diventata una for­ za più potente nell’evoluzione umana [...] questo cambiamento ha in­ fluenzato anche il sistema di attaccamento bambino-genitore, spostando il centro della relazione di attaccamento dai più visibili comportamenti messi in risalto da Bowlby, come l’aggrapparsi e il seguire, ai processi in­ tersoggettivi primari, come lo scambio dei segnali affettivi. (2006, p. 598)

Il sistema di attaccamento umano interagisce con i processi inter­ soggettivi, che possono essere attivati nella relazione con le figure di attaccamento per controllarne la disponibilità o la capacità di interve­ nire e consolare il bambino. Ovviamente, in una situazione di pericolo, la ricerca di sicurezza è più automatica e immediata, mentre la valuta­ zione intersoggettiva richiede un processo più lungo e complesso, non sempre efficace in una situazione che necessita di una reazione veloce. Da questo punto di vista, è possibile considerare il processo inter­ soggettivo, così come è stato concettualizzato da Stern, “un sistema motivazionale di base [...] una tendenza universale a comportarsi se­ condo le modalità caratteristiche della specie” (2004, p. 81). Il siste­ ma intersoggettivo è, dunque, come un barometro costante che ci dà le informazioni riguardo a noi stessi e agli altri in contesti diversi. Per esempio, questo barometro psicologico fornisce informazioni quando un bambino interagisce con i genitori o quando gioca con altri bambi­ ni, oppure, più tardi, quando un ragazzo cerca di corteggiare una ra­ gazza e ne valuta la disponibilità. I processi intersoggettivi sono come una carta carbone sottostante tutti i sistemi motivazionali e, nel caso del sistema di attaccamento, sono attivati quando emergono i bisogni di attaccamento. Dobbiamo considerare ora la relazione tra la teoria dell’attaccamen­ to e la psicoanalisi, in quanto entrambe ipotizzano che il comportamen­ to e il pensiero esplicito siano strettamente collegati ai processi mentali non-consci. A questo proposito, la recente nascita di una psicoanalisi relazionale (Benjamin, 1998; Mitchell, 1988, 2000) riduce il gap con la teoria dell’attaccamento, soprattutto perché tende a incorporarne va­ ri aspetti. 190

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Negli anni Sessanta, si verificò un profondo contrasto tra la psi­ coanalisi e la teoria dell’attaccamento, in parte perché, come Mitchell {ibidem) ha sottolineato, il linguaggio della psicoanalisi mette in pri­ mo piano gli oggetti interni, gli stati del sé, le rappresentazioni di sé e degli altri, mentre Bowlby ha avuto “una sensibilità più comporta­ mentale” (p. 97). Sempre citando Mitchell {ibidem), inoltre: “Il lato negativo dell’enfasi che Bowlby poneva sui comportamenti è lo svi­ luppo relativamente scarso delle dimensioni psicodinamiche della sua teoria” (p. 99). Un’altra importante differenza è che Bowlby ha privi­ legiato gli eventi e le relazioni reali, mentre la psicoanalisi ha enfatiz­ zato il valore della fantasia, connessa in passato alle pulsioni ma più recentemente all’immaginazionc, creando dunque le condizioni per un possibile riavvicinamento. Sin dall’inizio, è stata evidenziata un’importante differenziazione concettuale (Bowlby, 1969/1982; Sroufe, Fox, Pancake, 1983) tra il concetto di attaccamento e quello, utilizzato nella teoria psicoanalitica, di dipendenza. Dal momento che i comportamenti di attaccamento e le espressioni di dipendenza sono molto simili - per esempio il pianto, l’aggrapparsi e la ricerca della vicinanza - l’attaccamento è stato erro­ neamente considerato una misura della dipendenza. Nella teoria psicoanalitica, la dipendenza infantile sottolinea le rap­ presentazioni mentali e le dinamiche del bambino che vive la relazio­ ne con la madre in modo fusionale (Mahler, Pine, Bergman, 1975). Al contrario, l’attaccamento descrive il comportamento infantile in con­ nessione con le figure di attaccamento. Esiste un dibattito sulla relazione tra la teoria dell’attaccamento e la teoria psicoanalitica, dal momento che queste due teorie non sono sovrapponibili. Fonagy (200la), al contrario, afferma che “la teoria dell’attaccamento occupa una posizione quasi unica tra le teorie psi­ coanalitiche in quanto costruisce un ponte tra la psicologia generale e la teoria clinica di stampo psicodinamico” (p. 5).

Sviluppo della matrice intersoggettiva La ricerca evolutiva negli ultimi trentacinque anni ha profondamen­ te rivisto la visione tradizionale del neonato descritta da Freud: “Un bell’esempio di sistema psichico isolato dagli stimoli del mondo esterno, che può soddisfare da sé autisticamente [...] i suoi bisogni di alimen­ tazione, è dato dall’uccellino rinchiuso nel guscio dell’uovo con la sua

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provvista di alimento” (1911, nota 4 di p. 455). Come ha recentemente scritto Trevarthen (2009), negli ultimi decenni la ricerca ha messo in luce che gli esseri umani nascono per coinvolgersi nell’imitazione reci­ proca e nella mutua regolazione emozionale. In uno stimolante articolo, Meltzoff e Moore (1977) hanno dimo­ strato che i neonati sono in grado di imitare le espressioni facciali, ma­ nifestando quindi una capacità innata a condividere i codici della per­ cezione c delazione. L’imitazione neonatale (Meltzoff, 2002) mette in luce, da un lato, la presenza di una relazione innata tra osservazione ed esecuzione dell’azione, dall’altro, l’esistenza di una connessione (pre­ sente dalla nascita) tra bambino e caregiver, che svela interessanti im­ plicazioni per l’interazione evolutiva e per l’intersoggettività. L’imitazione è particolarmente importante nella comunicazione non­ verbale, attraverso la codifica delle espressioni facciali e dei gesti. Co­ me ha chiarito Meltzoff, “l’imitazione facciale infantile è un comporta­ mento che valuta il legame tra l’osservazione e l’esecuzione delle azioni motorie” (2002, p. 23). Le osservazioni del comportamento dei neonati hanno evidenziato che i bambini imitano le espressioni facciali quasi immediatamente dopo la nascita, prima che si verifichi ogni altro ap­ prendimento. Nello studio originale (Meltzoff, Moore, 1977), i bambini si mostravano in grado di distinguere e riprodurre la protrusione delle labbra dalla protrusione della lingua, confermando la stretta connes­ sione tra percezione ed esecuzione. Una questione rilevante ha a che fare con il valore e il significato dell’imitazione nei neonati. L’imitazione nei bambini non è semplicemente la ripetizione dei movimenti e delle espressioni di un’altra per­ sona, ma assume un significato interpersonale (Kugiumutzakis, 1999). Una possibile risposta potrebbe essere che i bambini usino l’imitazione in un campo interpersonale per sondare l’identità degli altri controllan­ done le caratteristiche facciali: in altre parole, i bambini utilizzerebbero il gioco imitativo per verificare l’identità delle persone che incontrano (Meltzoff, 2002). Un’ulteriore possibile risposta potrebbe invece con­ testualizzare le risposte imitative all’interno di particolari momenti in­ terattivi, attribuendo loro il significato di affermare, accettare o com­ mentare il comportamento dell’altra persona. Nelle fasi di sviluppo successive, i bambini tendono a imitare gli altri per confermare o rin­ saldare l’amicizia e l’affiliazione, creando un sentimento reciproco di condivisione e di appartenenza. Una tesi interessante sull’imitazione ipotizza che questa sia un pos­ sibile precursore della successiva acquisizione della Teoria della Mente

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{ibidem). Secondo Meltzoff (ibidem), il processo evolutivo dell’imita­ zione potrebbe essere suddiviso in tre stadi:

1. Un’innata equivalenza tra il sé e l’altro, confermata dall’imitazione e dal riconoscimento dell’equivalenza tra le azioni osservate e quelle eseguite. 2. La registrazione da parte del bambino della relazione ripetuta tra il proprio comportamento e gli stati mentali corrispondenti. 3. Il riconoscimento da parte del bambino che gli altri agiscono in mo­ do simile al suo e hanno stati mentali analoghi: da ciò avrebbe inizio l’inferenza sugli stati mentali degli altri. Il processo che abbiamo delineato potrebbe apparire forse troppo complesso per l’organizzazione mentale e cerebrale del neonato; in ogni caso, si focalizza sull’importanza dell’imitazione precoce, una presta­ zione sociale cognitiva che stabilizza l’importanza del “come me” (likeme-ness‘, ibidem, p. 36) negli scambi sociali. Considerando le basi neurobiologiche dell’imitazione (si veda il ca­ pitolo 1), il ruolo del meccanismo specchio nelle azioni imitative non è stato ancora adeguatamente studiato nei neonati umani, mentre è sta­ to esplorato nei macachi a una settimana di vita (Ferrari et al., 2008). Nello studio di Ferrari e collaboratori (ibidem), durante l’imitazione, i macachi hanno mostrato una soppressione significativa del ritmo alfa-. questo dato potrebbe riflettere l’attivazione delle aree motorie centraliparietali connesse al meccanismo specchio, che è sensibile agli stimoli specifici in età precoci (Ferrari, Fogassi, 2012). E stato inoltre eviden­ ziato che i piccoli macachi rispondono alla protrusione delle labbra (lip smacking) delle madri riproponendo la stessa azione (Ferrari et al., 2009), evidenziando una possibile corrispondenza con le risposte imi­ tative neonatali negli esseri umani. Su questa base, i meccanismi spec­ chio sottostanti i comportamenti imitativi potrebbero essere attivati alla nascita, per sostenere la comunicazione emozionale. Questa prontezza all’interazione sociale, evidenziata immediatamen­ te subito dopo la nascita, potrebbe essere presente anche prima della nascita, rappresentando una propensione innata a interagire con gli al­ tri (Gallese et al., 2009). Come è stato messo in luce nel capitolo 1, la recente ricerca di Castiello e collaboratori (2010) ha evidenziato che i feti gemellari, studiati mediante l’ecografia quadridimensionale (4D) tra la quattordicesima e la diciottesima settimana gestazionale, mostra­ no movimenti che non sono solo diretti verso la parete uterina o auto­ diretti, ma che vengono specificatamente orientati verso il gemello. La

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proporzione dei movimenti diretti verso il gemello tende a incrementa­ re dalla quattordicesima alla diciottesima settimana gestazionale; que­ sti movimenti, inoltre, sono caratterizzati da una maggiore durata e un maggiore rallentamento nell’esecuzione. Partendo da questi dati si potrebbe supporre che le “azioni sociali” tendano a emergere nei feti durante la gravidanza stessa, se il contesto 10 consente (come avviene nel caso dei gemelli). Ciò presuppone l’esi­ stenza di una propensione sociale congenita, che il bambino potrebbe esprimere più tardi, dopo la nascita. Un ulteriore aspetto che dobbiamo considerare è l’incarnazione intersoggettiva, che, come abbiamo sottoli­ neato, implica prima di tutto azioni motorie (durante la gravidanza e nel primo periodo postnatale), che solo più tardi acquisiscono un carattere di esperienza mentale, all’interno di un processo che potremmo definire dal basso verso l’alto (hottom-up). Questo processo è stato confermato da Dimberg e collaboratori (2000), i quali, con piccoli elettrodi, hanno registrato i movimenti dei muscoli facciali negli esseri umani durante la presentazione di facce emozionali sullo schermo di un computer. La risonanza empatica con le emozioni percepite si attua inconsciamente e sembra attivarsi attraverso i corpi, così come attraverso le menti (Niedenthal, 2007). Come ha scritto de Waal, “questo consente al soggetto di mettersi ‘nella pelle’ dell’altro, condividendone a livello corporeo le emozioni e i bisogni” (2012, p. 123). Questo meccanismo di percezio­ ne-azione, descritto da Preston e de Waal (2002), è in linea con l’ipo­ tesi di Damasio (1994) sui markers somatici delle emozioni. Da questo punto di vista, esiste un’associazione tra l’imitazione e l’empatia (de Waal, 2012), confermata dal fatto che le persone altamente empatiche tendono a esprimere un’imitazione inconscia (Charman et al., 1997). Un possibile meccanismo sottostante l’empatia e l’imitazione, sottoli­ neato da de Waal (1998), è l’identificazione: questo concetto differisce da quello psicoanalitico, poiché implica il mappare a livello corporeo 11 sé nell’altro. Un’altra definizione di questo iniziale scambio riguar­ da la protomimesi (Zlatev, Persson, Gàrdenfors, 2005), che comporta un matching corporeo, privo di una differenziazione tra il soggetto e il corpo dell’altro. La mimesi corporea è basata sulla capacità di accop­ piare lo schema del corpo, largamente definito a livello propriocettivo. Secondo Singer e Hein (2012), le interazioni intersoggettive sono ca­ ratterizzate da sequenze evolutive. La prima, definita “contagio emoti­ vo”, avviene quando le emozioni sono trasferite da una persona all’altra senza alcuna consapevolezza che le emozioni originino da un’altra per­ sona. Ciò avviene tipicamente quando i bambini sentono piangere un

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altro bambino e reagiscono piangendo anche loro. La seconda sequenza è “l’empatia”, che implica la condivisione delle emozioni dell’altro, con la consapevolezza della distinzione tra sé e altro. La terza sequenza è la “compassione”, che comporta un sentimento di pena per l’altro, unito al desiderio di migliorarne la condizione. L’ultima sequenza, più cogni­ tiva, è la Teoria della Mente o “mentalizzazione”, che implica l’inferen­ za cognitiva sullo stato mentale dell’altro. Ognuna di queste esperienze intersoggettive coinvolge differenti aree cerebrali.

Contingenza, sincronia e intersoggettività Come abbiamo già detto, la contingenza è una caratteristica impor­ tante dell’interazione genitore-bambino; definita anche come sincro­ nia, la contingenza “rappresenta la struttura temporale sottostante dei momenti altamente attivati dello scambio interpersonale” (Beebe et al., 2010, p. 329). L’importanza della contingenza è stata largamente sot­ tolineata anche da Stern (1977), Tronick (1989) e Trevarthen (1979). I comportamenti ritmici, il matching e il rispecchiamento sequenziale, che vengono espressi in diverse modalità sensorio-motorie, emergono nel flusso interattivo dello scambio madre-bambino. La condivisione temporale non solo facilita l’autoregolazione del bambino attraverso l’esperienza della regolazione diadica (Feldman, 2003; Tronick, 1989), ma crea anche le basi per la sua successiva capacità di provare intimi­ tà ed empatia. Dal secondo mese dopo il parto, i genitori e il bambino iniziano a mostrare una struttura temporale nella loro interazione, caratterizzata dal matching dei comportamenti e da relazioni sequenziali. Specifiche configurazioni comportamentali diventano più frequenti e più ripetiti­ ve, assumendo un carattere automatico. Per esempio, se la madre par­ la al bambino con una struttura linguistica ritmica - “Sei veramente un bravo bambino”, per esempio - il bambino muove la testa con lo stes­ so ritmo temporale del linguaggio materno, come avviene di frequente durante l’allattamento (Sander, 1985). In questo periodo, la condivisione dello sguardo sociale tra il geni­ tore e il bambino è l’espressione più saliente della coordinazione inte­ rattiva, che ha luogo tra il 30% e il 50% delle volte. Allo stesso tempo, lo sguardo reciproco può essere integrato con il contatto affettuoso tra genitori e bambino: dobbiamo considerare che lo sguardo recipro­ co e il matching delle espressioni facciali sono dimensioni tipicamente

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umane. Intorno ai tre mesi, i genitori tendono a toccare in modo affet­ tuoso il bambino, il quale inizia a rispondere con un contatto affettivo intenzionale. Durante il periodo che va dai tre ai nove mesi di vita, la sincronia tra genitore e bambino cambia: la frequenza della sincronia dello sguar­ do diminuisce, mentre aumentano la condivisione dell’attenzione sugli oggetti (Landry, 1995) e la mutua sincronia. Come Feldman (2007) ha documentato, tra i tre e i nove mesi, la sincronia subisce una trasforma­ zione temporale; intorno ai nove mesi, infatti, i bambini raggiungono una più complessa intersoggettività (Trevarthen, Aitken, 2001). Nello stesso periodo, la struttura lead-lag, quella cioè in cui è un partner a condurre l’interazione con l’altro, assume un carattere diverso: mentre nei primi mesi il genitore conduce e il bambino segue, più tardi le inte­ razioni sono caratterizzate dalla mutua sincronia e dall’adattamento; in questo modo, entrambi i partner diventano responsivi ai ritmi reciproci. Queste precoci esperienze sincroniche sono fondamentali per lo svi­ luppo del mondo simbolico, dell’empatia, della risonanza emozionale e dell’autoregolazione, andando a influenzare la futura capacità di pro­ vare intimità. Come Feldman ha scritto: “La sincronia, come esperien­ za legata al tempo, fornisce una struttura unica di co-regolazione per il dialogo continuo del sé e dell’altro, per la coordinazione del timing personale e dei momenti condivisi, e per la continua integrazione tra il ‘danzatore’ emergente e la ‘danza’ reciproca” (2007, pp. 346-347). La sincronia non è esclusivamente diadica: può essere infatti osser­ vata anche tra entrambi i genitori e il loro bambino. In uno studio di Gordon e Feldman (2008), in cui è stata investigata la sincronia nella triade genitori-bambino, non sono emerse differenze nei comporta­ menti messi in atto dal bambino nei confronti della madre e del padre. Le madri manifestano più reciprocità nei confronti dei partner quando questi interagiscono con il bambino, sostenendoli in modo consistente nel ruolo paterno. Mentre nei campioni normali la coordinazione tende ad aumenta­ re, nelle popolazioni ad alto rischio (sia che il rischio sia portato dalla madre sia dal bambino), la coordinazione diminuisce (Feldman, 2007). La sincronia è radicata anche nel corpo; la struttura ritmica delle interazioni riflette, infatti, i ritmi biologici del bambino. In uno studio di Feldman (2006), condotto su tre gruppi di bambini (prematuri con peso molto basso alla nascita, prematuri con peso basso alla nascita e bambini nati a termine), è stato messo in luce come nell’ultimo trimestre della gravidanza si organizzino degli oscillatori fisiologici, come l’orolo­

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gio biologico e il controllo simpatico sul ritmo cardiaco; il livello maturativo di tutti i ritmi biologici predice la sincronia tra madre e bambino. Particolarmente interessante è la corrispondenza della frequenza del battito cardiaco della madre c del bambino, definita da una sincronia nell’accelerazione e nella decelerazione, con uno scarto di tre secondi (Moshe, Feldman, 2006). Un’ulteriore conferma a questi aspetti è stata data dalla carenza di concordanza cardiaca, osservata in relazione alla riduzione nella sincronia dello sguardo tra madre e bambino. Considerando più specificatamente l’intersoggettività infantile, Trevarthen (1974, 1979, 1998) ha ipotizzato che il bambino sia nato con una propensione a recepire gli stati soggettivi delle altre persone. La sopravvivenza infantile, infatti, dipende non solo dal legame con il ca­ regiver che garantisce la sua protezione, ma anche dal mantenimento di un’intima alleanza con il caregiver stesso, che cambia negli scopi e nella qualità degli scambi. Questa ipotesi è stata confermata da molti ricercatori (Bateson, 1971, 1979; Stern, 1971,1974,1977; Tronick, Als, Adamson, 1979) che han­ no rilevato importanti similitudini tra le protoconversazioni tra madre e bambino e le conversazioni informali tra gli adulti, utilizzando anche accurate misurazioni temporali degli interventi dell’adulto e del bam­ bino. I patterns dei movimenti espressivi nelle protoconversazioni ri­ sultano fortemente influenzati da principi ritmici, melodici e armonici. Altri studi hanno evidenziato come questa innata capacità sociale dei bambini abbia l’obiettivo di stimolare l’interesse e la condivisione affettiva dei genitori, per motivare la collaborazione e la consapevolez­ za cooperativa (Trevarthen, 1982, 1987, 1988, 1989). La motivazione comunicativa del bambino e la corrispondente genitorialità intuitiva sono l’espressione di una speciale predisposizione umana all’apprendi­ mento sociale. Infatti, a partire dai due mesi di vita, i bambini iniziano a esprimere una risposta valutativa immediata e implicita nei confronti dei sentimenti e delle intenzioni comunicative dell’adulto, denominata “intersoggettività primaria” (Trevarthen, 1977). Nella relazione caregiver-bambino, la musicalità è estremamente importante: esiste infatti l’evidenza che i bambini siano selettivamente attratti dalla melodia e dalla prosodia emozionale del linguaggio materno. I bambini tendono a coinvolgersi nelle interazioni con ritmi sincronici di vocalizzazioni, movimenti del corpo e gesti, per accoppiarsi alle espressioni musicali della madre. I bambini sono in grado di stimolare e sostenere uno scambio di espressioni con i caregiver; in questo modo, lo stato mentale del bam­ 197

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bino e dei caregiver si sincronizza e si regola reciprocamente nell’am­ bito delle interazioni (Trevarthen, 2009). Un bambino appena nato può guardare e ascoltare “le espressioni empatiche di un caregiver o di un partner intimamente attento” (ibidem, p. 512) e rispondere con un gioco imitativo (Kugiumutzakis et al., 2005). Quando le routine e i comportamenti reciproci vengono appresi e stabilizzati, i bambini sono in grado di raggiungere, durante il gioco, una distinzione contestuale tra le persone familiari, con cui condividono un codice co-costruito, e le persone non familiari, che invece non conoscono le regole del gioco (Trevarthen, 2003). Le conclusioni di Trevarthen (1998) sottolineano che l’intersoggettività primaria, espressa attraverso l’imitazione neonatale c le proto­ conversazioni, sia basata su circuiti cerebrali che integrano i movimen­ ti espressivi degli occhi, della bocca, dell’apparato vocale, delle mani e la postura. Secondo Trevarthen (ibidem), il cervello del neonato rileva i movimenti e le espressioni corrispondenti mentre il caregiver con­ versa, attraverso dei markers temporali e morfologici: questa ipotesi è sostenuta anche da Meltzoff (1985, 1990). Riguardo a questi aspetti, Trevarthen (1998) ha ipotizzato l’esistenza di un pacemaker accoppiato o di orologi neurali, critici sia per il bambino sia per la coordinazione interpersonale. La ricerca ha confermato questa predisposizione neu­ robiologica infantile, rilevando come, a partire dai tre mesi di vita, il linguaggio normale e invertito attivi patterns corticali simili nei bambi­ ni e negli adulti (Dehaene-Lambertz, Dehaene, Hertz-Pannier, 2002).

Intersoggettività secondaria e attenzione condivisa Nel secondo semestre di vita, i bambini sviluppano un crescente interesse per gli oggetti, per la loro manipolazione e per il gioco che li include. Prima della fine del primo anno, tra madre e bambino emerge l’interesse condiviso per l’ambiente. Questa condivisione viene stimo­ lata dalla curiosità che il bambino prova rispetto al focus di attenzione della madre sugli oggetti e rispetto alle sue intenzioni. La consapevolez­ za del bambino degli oggetti, così come la sua personale consapevolezza e la comunicazione con le persone, non procede nello stesso modo: in­ torno ai nove mesi di vita, infatti, integra una nuova forma di intersog­ gettività cooperativa (consapevolezza persona-persona-oggetto), che è stata denominata “intersoggettività secondaria” (Trevarthen, Hubley, 1978). L’intersoggettività secondaria rappresenta una nuova acquisi -

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zione che consente al bambino di inferire e cogliere le intenzioni degli altri, a partire dal modo in cui questi manipolano e usano gli oggetti. Un’importante acquisizione sociale, affettiva e cognitiva dell’inter­ soggettività secondaria è la capacità di coinvolgersi in scambi mediati dalla condivisione dell’attenzione (Bakeman, Adamson, 1984; Frith, Frith, 2003), che richiedono un monitoraggio complesso del focus dell’attenzione dell’altro, in relazione al sé e all’oggetto. Mentre Trevarthen (1977) e Meltzoff (2002) hanno rimarcato più i comportamenti manifesti nell’intersoggettività, Stern (1985) si è concentrato sugli stati interni infantili, definiti dalla percezione del bambino del proprio focus attentivo e di quello del partner, che potrebbero corrispondere o diffe­ rire, andando a stimolare il riconoscimento del sé e dell’altro. Al fine di evitare il riferimento a un concetto eccessivamente ampio di intersog­ gettività, Stern (ibidem) ha descritto tre forme intersoggettive: compar­ tecipazione dell’attenzione, compartecipazione dell’intenzione e, infine, compartecipazione degli stati affettivi, definita anche sintonizzazione affettiva. La sintonizzazione degli affetti è particolarmente interessante, dal momento che rappresenta la più rilevante forma di condivisione del­ le esperienze soggettive. Come Stern ha scritto: “i bambini in qualche modo tendono ad assortire il loro stato d’animo, quale viene avvertito internamente, con quello che viene visto ‘su’ o ‘in’ un altro: è quanto viene da noi definito interaffettivita' (ibidem, p. 142, corsivo originale). Osservando le interazioni madre-bambino, notiamo che le risposte della madre sono caratterizzate da commenti verbali (33%), imitazioni esatte del comportamento del bambino (19%) e sintonizzazioni (48%). Si può rilevare una sovrapposizione interessante tra il costrutto di sinto­ nizzazione (Stern, 1985) e quello di markedness, proposto da Gergely e Watson (1996). Gergely (2007) ha evidenziato come il rispecchiamen­ to emotivo genitoriale consista di versioni trasformate - specificamen­ te marcate (marked) - dei patterns motori espressivi del bambino. Le caratteristiche del markedness sono definite, per esempio, dall’esecu­ zione motoria rallentata o anche solo parziale, che rispecchia le espres­ sioni facciali-vocali del bambino. Come Gergely e Watson (1996) han­ no messo in luce, il rispecchiamento affettivo genitoriale ha un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’autoconsapevolezza emozionale e nel controllo durante l’infanzia. Attraverso il biofeedback sociale fornito dal rispecchiamento marcato dei genitori, i bambini orientano l’attenzione sui propri stati emotivi categoriali. Dal confronto tra la sintonizzazione e il markedness emergono delle differenze rilevanti. La sintonizzazione implica un rispecchiamento genitoriale che viene eseguito attraverso 199

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l’uso di canali comportamentali diversi. Per esempio, la madre coglie l’eccitazione del suo bambino, espressa da un battito ritmico sul tavolo, e ne trasferisce l’affetto attraverso un movimento corporeo ritmico sin­ cronizzato, simile a una danza. In questo modo, la madre trasmette al bambino di aver compreso il suo stato mentale, che è stato amplificato e visualizzato attraverso la postura materna. Nel caso del markedness, il rispecchiamento materno mantiene gli stessi canali vocali e facciali espressi dal bambino, ma le espressioni infantili vengono amplificate e sottolineate, modulando selettivamente la sensibilizzazione del bambi­ no verso i propri segnali di stato. Secondo Tomasello e collaboratori (2005), Trevarthen (1979), nell’elaborare le dimensioni intersoggettive durante l’infanzia, non ha abba­ stanza focalizzato l’attenzione sulla lettura intenzionale dell’altro: que­ sta capacità, che può rappresentare una motivazione umana unica per capire le azioni intenzionali degli altri, è stata invece messa in risalto dal­ la teoria sociale-cognitiva. Secondo Tomasello e collaboratori (2005), questa specifica forma di interazione con gli altri può essere acquisita solo dopo che i bambini, avendo sperimentato in prima persona questi stessi stati intenzionali, sono in grado di utilizzare la propria esperien­ za personale per simulare quella degli altri. Mentre nel passato Toma­ sello ha enfatizzato la capacità individuale di leggere e relazionarsi alle intenzioni degli altri, nei contributi più recenti ha anche riconosciuto il valore della relazionalità emozionale, integrandola alla competenza fondamentale di comprendere e condividere le intenzioni e gli obiet­ tivi degli altri. A questo riguardo, Hobson ha specificato che “gli epi­ sodi di coinvolgimento emozionale - e i processi di identificazione che configurano la connessione umana tra sé e altro e la differenziazione, rendendo il coinvolgimento emozionale umano specificatamente in­ tenso e toccante - sono utili non solo a stabilire la condivisione, ma an­ che a ri-orientare un’attitudine individuale” (2005, p. 704). Nel pen­ siero di Hobson (ibidem}, la motivazione a interpretare le azioni degli altri, ipotizzata da Tomasello e colleghi (2005), non basta a spiegare in modo soddisfacente le basi delle relazioni umane, che sono mosse più dai sentimenti personali e da quelli degli altri. Come ha commentato Hobson: “Possediamo una risposta umana innata verso le espressioni dei sentimenti degli altri - una risposta che è più innata di quanto si pensasse” (2002, p. 59). Questo scambio, dunque, potrebbe implicare un’identificazione psicologica più profonda, diversa dal processo dell’i­ dentificazione descritto da de Waal (2012), fondato sull’identificazione corporea. Hobson ha preso in considerazione anche “il linguaggio uni­

LA MATRICE PRIMARIA DELL’INTERSOGGETTIVITÀ

versale del corpo, più innato del linguaggio delle parole, che ci connette con le altre persone a livello mentale" (2002, p. 48, corsivo originale). Si potrebbe ipotizzare che l’esperienza del bambino, che è fortemen­ te radicata nel corpo attraverso l’imitazione delle espressioni facciali e la condivisione dei ritmi corporei, si trasferisca all’interno di un’espe­ rienza di connessione con le figure di attaccamento, derivante da sta­ ti emozionali di piacere e soddisfazione interna (vedi anche il capitolo 1). Mentre le emozioni sono strettamente connesse con lo scenario del corpo, i sentimenti giocano nello scenario della mente (Damasio, 2003), contribuendo, a un livello più elevato, ai processi di autoregolazione. Alcuni secoli fa, il filosofo Spinoza (1677) ha anticipato queste recen­ ti osservazioni neurofisiologiche, attraverso la seguente formulazione: “L’oggetto dell’idea che costituisce la Mente umana è il Corpo” (Etica, Parte 2, Proposizione 13). Ci si potrebbe domandare come queste specifiche capacità umane di leggere e prevedere le intenzioni degli altri siano state acquisite durante l’evoluzione. Tomasello e collaboratori (2005) hanno ipotizzato che gli esseri umani non solo siano entrati in competizione e si siano coordi­ nati con gli altri, come la maggior parte dei primati, ma abbiano anche appreso a collaborare in attività, coinvolgendo obiettivi comuni e atten­ zione condivisa. Da un punto di vista filogenetico, i processi di selezione hanno favorito gli individui che esprimevano una competenza partico­ lare nel leggere le intenzioni degli altri. Una questione interessante ha a che fare con l’origine di questa specifica competenza cognitiva umana, che non è solo un preadattamento genetico, in quanto stimolata dalle in­ terazioni sociali durante la prima infanzia. In particolare, come Fonagy (1998) ha argomentato, la capacità dei caregiver di osservare e leggere gli stati mentali del bambino è fondamentale nello sviluppo dell’acqui­ sizione della mentalizzazione del bambino. Esiste una stretta connessio­ ne tra l’attitudine materna di rappresentarsi il bambino come un essere intenzionale e lo sviluppo infantile della mentalizzazione. Per giungere a una conclusione, potremmo fare riferimento a quanto Daniel Stern ha scritto in merito al sistema motivazionale intersoggetti­ vo, che “può essere considerato separato e complementare rispetto al sistema motivazionale dell’attaccamento - e ugualmente fondamentale” (2004, p. 84). Mentre l’attaccamento si focalizza sull’esperienza di sen­ tirsi sicuri, soprattutto nelle situazioni a rischio e critiche che richiedo­ no protezione, il sistema intersoggettivo regola l’esperienza della con­ divisione e dell’appartenenza, che è centrale all’interno della famiglia e del gruppo. Mentre nel contesto dell’attaccamento è in primo piano

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LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

il “sé” in connessione alla figura protettiva e di accudimento, nel con­ testo intersoggettivo è in primo piano il “noi”, con una comune con­ divisione e intimità mentale. L’attaccamento e l’intersoggettività sono strettamente correlati: essere attaccati a qualcuno crea la possibilità di sviluppare una connessione intersoggettiva, e una connessione inter­ soggettiva con qualcuno può essere il primo passo nella formazione di un attaccamento a questa persona.

7 Le conseguenze dello stress genitoriale nel bambino

Mentre gli studi sulla depressione e l’ansia materna sono spesso di­ scordanti e contraddittori, nella comunità scientifica esiste un sostanzia­ le accordo in merito agli effetti a lungo termine dell’ambiente prenatale sullo sviluppo del bambino. Anche se la definizione di stress materno è ancora molto elusiva, la sua presenza durante la gravidanza risulta fre­ quentemente associata a un aumentato rischio di problemi emotivo­ comportamentali e a una ridotta competenza cognitiva, nei primi due anni di vita del bambino (Bergman et al., 2007; Talge, Neal, Glover, 2007). Secondo dati di ricerca, lo stress prenatale è in grado di spiegare il 10-15% delle successive difficoltà infantili: va tenuto presente, però, che lo stress prenatale, oltre a non essere stato ancora adeguatamente definito, dipende da diversi fattori di tipo personale, familiare, sociale ed economico {.ibidem). Come Talge e collaboratori (2007 ) hanno sottolineato, lo stress pre­ natale influisce sull’età gestazionale e sul peso del bambino alla nascita, producendo effetti negativi anche sull’organizzazione neurocompor­ tamentale del feto e del neonato. Questa osservazione è in linea con quanto riportato da Field e collaboratori (2003): i neonati di madri con elevati livelli di ansia prenatale mostrano una maggiore attivazione ce­ rebrale frontale destra, ossia un profilo neurofisiologico associato all’e­ spressione di affetti negativi (Davidson, 1998). Una ricerca condotta su un campione di donne afroamericane, in gravidanza e di bassa estra­ zione sociale (Jacob, Byrne, Keenan, 2009), ha dimostrato che il fun­ zionamento fisiologico neonatale è influenzato anche dalla presenza di disturbi psicopatologici nella storia materna. In particolare, nei neonati di donne con precedenti disturbi depressivi maggiori è stata individua-

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ta una specifica disregolazione biocomportamentale, caratterizzata da una minore variabilità della frequenza cardiaca a riposo. Questi dati evidenziano come gli eventi di vita stressanti materni siano associati a una precoce disregolazionc fisiologica neonatale: secondo gli autori, ta­ le disregolazione potrebbe interferire anche con la successiva capacità dei bambini di rispondere allo stress. Uno studio di Bergman e collaboratori (2007 ) ha messo in luce co­ me i fattori di stress associati ai conflitti di coppia spieghino la maggior parte delle successive difficoltà nel temperamento e nelle competenze evolutive del bambino. Infatti, in presenza di un conflitto di coppia, il partner non sostiene adeguatamente la donna e non le fornisce la rassi­ curazione di cui ha bisogno, soprattutto durante la gravidanza. Allo stato attuale, solo un numero limitato di studi ha indagato gli effetti sulla gravidanza delle avversità sperimentate nelle comunità. In questo ambito, una ricerca condotta dopo un terremoto in California ha rilevato un’abbreviazione del periodo di gestazione, specialmente nelle donne che erano state coinvolte all’inizio della gravidanza (Glynn et al., 2001). Recentemente, Ramchandani e collaboratori (2010) hanno esplo­ rato l’influenza dello stress prenatale materno sui successivi problemi comportamentali del bambino, in un ambiente urbano sudafricano. In questo studio, lo stress è stato studiato nel contesto coniugale (consi­ derando la violenza del partner o la rottura della relazione), familiare (con riferimento al conflitto all’interno della famiglia, o alla presenza di un membro della famiglia con disabilità o problemi di droga), e in relazione alla violenza all’interno della comunità di appartenenza (con­ siderando il pericolo di essere uccisi o l’essere stati testimoni di un cri­ mine violento). Il primo risultato dello studio sottolinea l’associazione tra lo stress prenatale materno, sperimentato nel terzo trimestre della gravidanza, e le difficoltà comportamentali dei bambini a quattro anni di vita. Questi dati, nonostante siano specificamente legati al contesto africano (dove gli eventi stressanti sono particolarmente gravi), si so­ vrappongono comunque ai risultati di diversi studi condotti negli Stati Uniti e in Europa. Il secondo dato, che conferma lo studio di Bergman e collaboratori (2007), mostra come gli stress associati al contesto fami­ liare e al partner siano i fattori maggiormente predittivi delle successive difficoltà del bambino. Tuttavia, come gli autori hanno evidenziato, lo studio presenta limiti importanti, dal momento che la valutazione dello stress è stata eseguita solo durante il terzo trimestre della gravidanza: gli esiti negativi evidenziati, dunque, potrebbero essere associati anche

ad altri fattori stressanti, presenti nelle fasi precedenti della gestazione o nel periodo postnatale. Questi dati suggeriscono interessanti ipotesi in merito ai meccanismi di trasmissione dello stress alla prole: tali meccanismi sono presumibil­ mente associati a elevate concentrazioni materne di ormoni coinvolti nella risposta allo stress, che possono danneggiare la maturazione ce­ rebrale fetale. E stato ipotizzato che lo sviluppo neurale fetale sia mag­ giormente condizionato dal momento di esposizione allo stress più che dal tipo specifico di evento stressante: il timing dello stress, infatti, è un elemento critico per il rischio di esiti negativi, dal momento che è in grado di influenzare sfavorevolmente i processi maturativi e le fasi del­ lo sviluppo fetale (Mednick et al., 1988). A questo proposito, altri stu­ di hanno confermato che gli eventi stressanti hanno conseguenze più severe quando intervengono durante il periodo intermedio della gra­ vidanza (Watson et al., 1999). Una delle ipotesi più attendibili sostiene che le conseguenze negative sul bambino vengano modulate dall’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, che è particolarmente attivo nel periodo in­ termedio della gestazione (Gitau et al., 2004). Uno studio condotto sugli animali da Huizink, Mulder e Buitelaar (2004) ha fornito una sostanziale conferma a questa ipotesi, mostrando come l’esposizione allo stress prenatale possa provocare una vulnerabi­ lità neurobiologica generale verso la psicopatologia, piuttosto che una vulnerabilità specifica verso determinate manifestazioni psicopatologi­ che. Negli esseri umani, la ricerca sullo stress presenta limiti notevoli: gli eventi stressanti, infatti, non possono essere assegnati casualmente a campioni diversi, come di norma avviene nell’ambito dei disegni spe­ rimentali che interessano gli animali. Secondo King e Laplante (2005), i disastri naturali e quelli provo­ cati dagli uomini possono essere considerati veri e propri “esperimenti naturali” (p. 46) negli esseri umani, poiché la distribuzione dei sogget­ ti all’esposizione allo stress è necessariamente randomizzata. Durante i disastri naturali, l’esposizione allo stress aumenta il tasso di psicopa­ tologia nella comunità, soprattutto per quanto riguarda disturbi parti­ colarmente comuni tra le vittime, come il disturbo post-traumatico da stress e la depressione (North et al., 2004; Rubonis, Bickman, 1991). Nella maggior parte dei casi, i sintomi scompaiono con il tempo; tut­ tavia, una percentuale consistente della popolazione tende a presen­ tare difficoltà anche a lungo termine (Briere, Elliott, 2000). La perce­ zione soggettiva dell’esperienza stressante associata ai disastri naturali influenza lo stato mentale successivo dell’individuo, soprattutto se vi è

LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

il timore che il pericolo possa ripresentarsi, oppure se si è verificato un lutto grave o un danno fisico. Il grado di rischio per i disturbi mentali è influenzato anche dalle differenze individuali e di genere delle vittime. Per esempio, le donne risultano più vulnerabili degli uomini alla psicopatologia legata ai di­ sastri, mentre gli uomini sposati sembrano meno a rischio delle donne sposate. Anche le persone di bassa estrazione sociale e basso livello di istruzione sono generalmente a rischio più elevato. Subito dopo il parto, le donne (che frequentemente manifestano molti di questi fattori di rischio) risultano particolarmente vulnerabili alle conseguenze dei disastri (Armenian et al., 2002; Norris et al., 2002). Dopo un terremoto, per esempio, le donne si mostrano estremamente suscettibili ai disturbi mentali tipici del post-partum: fino al 25% del­ le donne sperimenta sintomi depressivi (Adams et al., 2002; Chang et al., 2002), mentre il 29% delle donne in stato di gravidanza manifesta comorbidità psichiatrica minore. La tempesta di ghiaccio del Québec, avvenuta nel gennaio del 1998, può essere considerata una situazione di stress, naturalmente control­ lata in campo umano. Durante questo evento, più di tre milioni di per­ sone restarono senza energia elettrica, per un lasso di tempo compreso tra le sei ore e le cinque settimane. Ovviamente, molte donne, in vari momenti della gravidanza, furono esposte casualmente alle conseguen­ ze della tempesta. King e Laplante (2005) hanno valutato l’impatto di questo evento e delle sue conseguenze sulle donne (come la minaccia, la perdita, l’intensità e il cambiamento), esplorando anche la qualità della risposta soggettiva alla tempesta. I figli di queste donne sono stati valutati all’età di due anni, dal punto di vista cognitivo. La valutazione ha individuato ridotte competenze intellettive e linguistiche nei bambi­ ni, soprattutto in presenza di livelli moderati/elevati di stress materno; inoltre, sono stati rilevati punteggi nelle competenze cognitive signifi­ cativamente più bassi nei figli delle donne che erano state esposte alla tempesta di ghiaccio durante il primo o il secondo trimestre della gra­ vidanza. Nei bambini esposti allo stress materno durante la gestazione sono state evidenziate delle difficoltà perinatali, temperamentali, nel funzionamento comportamentale ed emozionale, e nella crescita fisica. Recentemente, uno studio (Harville et al., 2011) ha indagato gli ef­ fetti dell’uragano Katrina, che ha colpito la Costa del Golfo degli Stati Uniti nell’agosto del 2005. Lo studio ha incluso un gruppo di madri che erano state esposte all’uragano durante la gravidanza. Dopo il parto e a due mesi di vita del bambino, alle donne è stata somministrata un’inter­ 206

LE CONSEGUENZE DELLO STRESS GENITORIALE NEL BAMBINO

vista che esplorava la loro esperienza soggettiva dell’uragano, attraverso specifiche domande riguardanti i temi della minaccia, della malattia, del lutto e del danno. Le donne, inoltre, hanno completato l’Edinburgh Depression Scale e la Post-traumatic Stress Checklist, strumenti che valutano rispettivamente la sintomatologia depressiva e quella post-traumatica. I risultati hanno rilevato una più negativa esperienza soggettiva dell’ura­ gano nelle donne di colore e in quelle con livelli di istruzione più bassi: a due mesi dal parto, inoltre, nel 18% del campione sono state rilevate manifestazioni cliniche depressive, e nel 13 % disturbi post-traumatici da stress. In questo studio, la depressione e il disturbo post-traumatico da stress sono risultati correlati all’esperienza soggettiva di pericolo, ai danni riportati dai membri della propria famiglia e alla gravità delle conseguenze nella proprietà. Tali osservazioni sostengono fortemente l’ipotesi che lo sviluppo prenatale sia caratterizzato da periodi sensibili per la maturazione del feto, che risulta particolarmente vulnerabile agli effetti persistenti e severi dei fattori di stress ambientale. Nel post-partum, le donne che hanno sperimentato l’impatto dei disastri naturali gravi risultano ad aumentato rischio per i problemi mentali; i livelli di depressione e di disturbo post-traumatico da stress non sembrano comunque più elevati di quelli rilevati nella popolazio­ ne generale. La ricerca di Bergman e collaboratori (2008) ha dimostrato come l’effetto sui bambini dello stress materno prenatale (in particolare lo sta­ to di paura) possa essere moderato da forme positive di accudimento e da un legame sicuro. Come gli autori hanno sottolineato, questi risultati sollevano quesiti in merito al timing e all’efficacia degli interventi fina­ lizzati a ridurre gli effetti negativi dell’esposizione prenatale allo stress. Per spiegare l’impatto dello stress prenatale, è importante conside­ rare la “programmazione fetale”, ossia l’adattamento fisiologico fetale alle caratteristiche dell’ambiente intrauterino. Durante la gravidanza, tali processi possono non risultare ottimali, creando problemi di adat­ tamento all’ambiente postnatale e ponendo le basi per una vulnerabilità infantile nelle fasi successive dello sviluppo. Una ricerca condotta sui ratti (Desai et al., 2005) ha esplorato gli effetti nella prole della restri­ zione alimentare materna durante la gravidanza. I risultati hanno evi­ denziato la presenza di elevate percentuali di grasso corporeo e peso eccessivo a nove mesi di vita, nella prole che era stata lasciata libera di mangiare subito dopo la nascita. Come abbiamo già sottolineato, la ricerca sullo stress prenatale ha focalizzato l’attenzione sull’asse ipotalamo-ipofisi-surrene delle ma-

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dri e dei bambini, ritenendolo il meccanismo biologico principale che interviene negli effetti a lungo termine nello sviluppo infantile. L’asse ipotalamo-ipofisi-surrene è un sistema complesso che, oltre a mantene­ re un ritmo circadiano, favorisce anche l’adattamento dei mammiferi ai cambiamenti nell’ambiente. Questo sistema è strutturato per risponde­ re rapidamente agli stimoli stressanti, per poi tornare a uno stato omeostatico di base. Sotto condizioni di stimolazione, i neuroni del nucleo paraventricolare dell’ipotalamo secernono l’ormone di rilascio della corticotropina nella circolazione sanguigna. Nell’ipofisi anteriore l’or­ mone di rilascio della corticotropina induce la produzione di adrenocorticotropina, che viene rilasciata nella circolazione per stimolare la produzione di glucocorticoidi (negli esseri umani cortisolo e nei ratti corticosterone) nella corteccia del surrene (figura 7.1). Un’elevata concentrazione di glucocorticoidi fornisce il contesto fi­ siologico appropriato per una risposta adattativa allo stress; allo stesso tempo, i glucocorticoidi interagiscono con i recettori dei corticoidi per inibire questa stessa risposta, attraverso un meccanismo di feedback negativo. La ricerca ha largamente documentato le conseguenze ne-

Figura 7.1 Nelle situazioni di stress cronico, i livelli di cortisolo sono bassi, i livelli dell'ormo­ ne di rilascio della corticotropina sono elevati e la sensibilità al sistema di feedback negativo dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene è aumentata. Stampata con il permesso.

LE CONSEGUENZE DELLO STRESS GENITORIALE NEL BAMBINO

gative dello stress cronico associato a livelli elevati di glucocorticoidi, rilevando danni strutturali in fondamentali regioni cerebrali, come l’ippocampo. La finalità dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene è attivarsi tempestiva­ mente per rispondere allo stress, e, allo stesso tempo, terminare tale ri­ sposta il più rapidamente possibile. Come è stato dimostrato dagli studi sugli animali (Levine, 2005), il sistema di risposta allo stress è associato a rilevanti conseguenze comportamentali (Gunnar, 2001) ed c sensibile agli effetti a lungo termine delle esperienze precoci durante lo sviluppo. In molte specie animali, condizioni sfavorevoli legate all’accudimento precoce risultano associate a disfunzioni permanenti dell’asse ipotala­ mo-ipofisi-surrene: questo sistema ha l’obiettivo di tutelare la salute fi­ sica, attraverso la mobilizzazione delle scorte di energia e la stimolazio­ ne della vigilanza, in risposta a situazioni di stress e pericolo (Gunnar, 2003). Una ricerca ha misurato le concentrazioni di cortisolo nei bam­ bini di donne che avevano vissuto gli attacchi dell’l 1 settembre: nei fi­ gli delle donne che avevano sviluppato un disturbo post-traumatico da stress sono stati rilevati livelli di cortisolo significativamente più bassi, rispetto a quelli osservati nei figli di donne che non avevano sviluppa­ to questo disturbo (Yehuda et al., 2005). Inoltre, sono stati evidenziati bassi livelli di cortisolo nei bambini le cui madri erano state esposte al­ lo stress durante il terzo trimestre di gravidanza, ma non nei figli delle donne con livelli più lievi di stress e di ansia.

Meccanismi di trasmissione dello stress durante la gravidanza Lo studio dei meccanismi di azione che mediano la trasmissione dello stress prenatale ai figli introduce un’interessante prospettiva as­ sociata all’interazione tra nature e nurture (ossia all’interazione tra le caratteristiche innate - geneticamente ereditate - del bambino e la qua­ lità delle condotte di accudimento che riceve da parte dell’ambiente). Mentre nel passato l’influenza dell’ambiente sui meccanismi genetici è stata sottovalutata, negli anni recenti la ricerca ha dimostrato che i meccanismi epigenetici, influenzati da diversi fattori (inclusi gli aspetti ambientali; Jaenisch Bird, 2003), intervengono sull’espressione genica, modulandone gli effetti. Goldberg, Allis e Bernstein (2007) hanno proposto un’interessante definizione di epigenetica, che “in senso allargato, rappresenta un pon­ 209

te tra il genotipo e il fenotipo - un fenomeno che cambia l’esito finale di un locus genico o un cromosoma, senza modificare la sottostante se­ quenza del DNA” (ibidem, p. 635). I processi evolutivi coinvolti nell’espressione fenotipica del genoti­ po sono dipendenti dal contesto e cominciano durante la maturazio­ ne dell’embrione/feto: questa maturazione è sensibile e risponde alle condizioni dell’ambiente interno ed esterno, durante periodi specifici di proliferazione, differenziazione e maturazione cellulare. L’ambiente intrauterino è in grado di produrre cambiamenti strutturali e funzio­ nali del feto, soprattutto durante i periodi critici della gravidanza, ossia quando l’ambiente intrauterino esercita la maggiore influenza. L’am­ biente intrauterino influisce sulla condizione del feto, attraverso com­ plessi meccanismi sottostanti, che hanno effetti a lungo termine sulla salute del bambino: tali effetti possono essere modulati dalla fisiologia del parto e dalle successive condizioni postnatali, andando ad amplifi­ care o limitare gli effetti delle influenze prenatali. Lo studio dei meccanismi epigenetici ha avuto inizio con una ricer­ ca finalizzata all’esplorazione degli effetti dell’alimentazione materna sul colore della pelliccia della prole di una particolare specie di topo (Waterland, Jirtle, 2003). I risultati hanno messo in luce l’esistenza di un’associazione tra meccanismi epigenetici e processi biochimici di me­ diazione, che, a loro volta, alterano l’espressione genica: nello specifico, il colore del pelo del topo risulta influenzato dalle variazioni nella med­ iazione del promotore di un particolare gene. Questo studio ha inoltre messo in luce come anche un’aggiunta supplementare metilica sia stret­ tamente associata ai cambiamenti cromatici del pelo: questi, dunque, sarebbero condizionati dall’aumentata metilazione di un determinato locus genico. In un’ulteriore ricerca, Cancedda e collaboratori (2004) hanno studiato uno stimolo ambientale molto diverso. Gli autori han­ no messo in luce come l’allevamento dei topi in un ambiente ricco di stimolazioni senso-motorie stimoli la maturazione del sistema visivo, favorendo lo sviluppo precoce dell’acuità visiva. L’acuità visiva risulta associata a una modificazione dell’espressione genica, che stimola un’iper-produzione della proteina BDNF (brain-derived neurotrophic factor) nella corteccia cerebrale visiva. Allo stesso tempo, gli autori hanno os­ servato una tendenza delle femmine adulte a rivolgere un maggior nu­ mero di comportamenti di licking alla prole maggiormente stimolata. La rilevanza dei meccanismi epigenetici ambientali è stata ricono­ sciuta e documentata in molti studi sugli animali. Questo ambito di ri­ cerca risulta invece scarsamente realizzabile in campo umano, data la

LE CONSEGUENZE DELLO STRESS GENITORIALE NEL BAMBINO

difficoltà di impostare un disegno sperimentale in grado di separare le influenze prenatali e postnatali dagli effetti genetici. Michael Meaney e collaboratori (Cameron et al., 2005; Champagne et al., 2004; Weaver et al., 2004) hanno fornito una possibile soluzione a questi problemi, adottando una strategia di ricerca che include animali con esperien­ ze di accudimento più simili a quelle umane. Questi ricercatori hanno dimostrato che le madri di ratto che allattano manifestano importan­ ti differenze nel licking e nel grooming nei confronti della prole, indi­ pendentemente dalla quantità di tempo trascorso con la prole stessa. Queste differenze nell’accudimento materno sono associate a variazioni nella concentrazione cerebrale della dopamina nella prole: ciò eviden­ zia come i cambiamenti nel comportamento materno inducano nei figli risposte neuroendocrine differenziate allo stress e al comportamento. Meaney e collaboratori hanno inoltre proposto un modello che po­ trebbe spiegare gli effetti a lungo termine nella prole dei diversi pat­ terns di accudimento materno precoce. La prole adulta delle madri più accudenti manifesta livelli più bassi di ansia nel comportamento, con tempi di risposta più brevi dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene ai fattori stressanti (Caldji, Diorio, Meaney, 2000; Zhang et al., 2004). Allo stesso tempo, Weaver e collaboratori (2004) hanno dimostrato come il mag­ giore accudimento materno sia associato a livelli ridotti di mediazio­ ne della regione promotrice del gene del recettore dei glucocorticoidi nell’ippocampo della prole. L’aumentata mediazione blocca la trascri­ zione dei recettori dei glucocorticoidi; al contrario, la ridotta media­ zione aumenta questa trascrizione, favorendo un maggiore controllo dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, una minore risposta allo stress del corticosterone e una riduzione dei comportamenti ansiosi. È importante chiedersi se le risposte endocrine nel comportamento della prole siano associate alla dotazione genetica o alle pratiche di al­ levamento sociale. I risultati della ricerca mostrano chiaramente che gli effetti sono una conseguenza dell’ambiente di accudimento, piuttosto che dell’eredità biologica. Successivamente, il gruppo di ricerca di Michael Meaney (2004) ha cercato di determinare come la specificità dell’allevamento possa mo­ dificare l’organismo della prole, esplorando anche i meccanismi di tra­ smissione alle generazioni successive (fino all’età adulta) delle modifica­ zioni comportamentali di questi cambiamenti. La ricerca ha dimostrato che il comportamento materno modifica le risposte endocrine allo stress della prole in modo duraturo, attraverso effetti tessuto-specifici sull’e­ spressione genica (Weaver et al., 2004). Goldberg e collaboratori hanno

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sottolineato una questione molto rilevante per la ricerca futura, affer­ mando che “rimangono aperte ancora molte sfide, soprattutto in rela­ zione alla trasmissione dell’informazione epigenetica per mezzo della divisione e della differenziazione cellulare” (2007, p. 638). Come abbiamo già discusso, durante e successivamente a un’espe­ rienza traumatica, il feedback negativo esercitato dall’asse ipotalamoipofisi-surrene viene modulato da due recettori degli ormoni steroidei. Il recettore del glucocorticoide, con un binding a bassa affinità per i glucocorticoidi, interviene all’interno del range di risposta allo stress. Il recettore dei mineralcorticoidi presenta un’affinità più elevata per i glucocorticoidi ed è vitale nel controllo del tono dell’asse ipotalamoipofisi-surrene e del ritmo circadiano. Mentre il nucleo paraventricolare si caratterizza prevalentemente per il recettore del glucocorticoide, en­ trambi i recettori sono particolarmente presenti nell’ippocampo, a sua volta implicato nella modulazione degli aspetti neuronali del feedback negativo esercitato dai glucocorticoidi. Inoltre, si ipotizza che una di­ sfunzione in ciascuno dei sistemi recettoriali possa influenzare grave­ mente la capacità di adattamento all’ambiente. Il modello che studia gli effetti epigenetici dello stress prenatale sui recettori ippocampali dei glucocorticoidi del bambino ha dimostrato che lo stress prenatale provoca un’aumentata metilazione nella regione promotrice del gene del recettore dei glucocorticoidi nell’ippocampo: questi processi pro­ vocano una minore trascrizione, un numero ridotto di recettori, un mi­ nore controllo di feedback negativo e un’aumentata risposta allo stress (Talge et al., 2007). Negli ultimi anni, l’uc Irvine Development, Health and Disease Re­ search Program, diretto da Wadhwa, ha iniziato a esplorare l’interazio­ ne tra il contesto biologico, comportamentale e sociale nella gravidan­ za umana, con l’obiettivo di studiare l’impatto dello stress psicosociale materno sulla maturazione fetale, sul parto e sullo sviluppo successivo del bambino. Questi studi hanno evidenziato come l’esposizione ma­ terna agli stress psicosociali durante la gravidanza sia significativamente associata all’aumentato rischio di complicazioni legate alla gravidanza e al parto (per esempio nascita prematura e basso peso alla nascita), che vengono in parte mediate da alterazioni nei processi endocrini e immu­ nitari materno-placentare-fetali, associate allo stress. Studi più recenti hanno anche investigato gli effetti a lungo termine dell’esposizione allo stress psicosociale prenatale sulla fisiologia e sul­ la salute degli adulti. Assumendo la prospettiva della programmazione fetale, molte ricerche hanno focalizzato l’attenzione sul ruolo critico

LE CONSEGUENZE DELLO STRESS GENITORIALE NEL BAMBINO

dell’alimentazione prenatale e perinatale (Langley-Evans, McMullen, 2010). Sulla base dei dati di queste ricerche, si potrebbe ipotizzare che condizioni ambientali significative possano avere stimolato la selezio­ ne evoluzionistica, includendo variazioni non solo nella nutrizione ma anche nelle condizioni di stress in grado di compromettere l’integrità fisica e la sopravvivenza degli esseri umani. Le evidenze di ricerca, infat­ ti, hanno messo in luce un’interazione bidirezionale tra alimentazione e stress: ciò conferma che le conseguenze dello stress nei tessuti target sono moderate dall’alimentazione (Epel et al., 2001). Questi studi (Entringer, Buss, Wadhwa, 2010) hanno adottato la prospettiva dello stress prenatale con un modello che sottolinea la ri­ levanza delle interazioni nello sviluppo precoce. Il feto, infatti, riceve e registra le informazioni provenienti dall’ambiente materno, utilizzan­ do la maggior parte dei sistemi biologici che, più tardi, medieranno l’adattamento individuale alle sfide endogene ed esogene. Successiva­ mente, la ricerca in questo campo ha tentato di studiare se gli effetti a lungo termine siano indipendenti da altri fattori che possono inter­ venire in ambito ostetrico, neonatale o infantile; inoltre, si è cercato di comprendere se questi effetti abbiano un carattere specifico o più ampio, e se siano necessariamente modulati dalle conseguenze sfavo­ revoli del parto. Gli studi sperimentali sugli animali dimostrano che l’esposizione materna allo stress psicosociale durante la gravidanza è in grado di provocare effetti a lungo termine, in diversi sistemi centrali e periferi­ ci del corpo della prole (Bowman et al., 2004). In una ricerca condotta in campo umano, sono stati confrontati due gruppi di soggetti (della giovane e tarda età adulta; Entringer et al., 2010), al fine di rintracciare i markers precursori di una disregolazione fisiologica dei sistemi me­ tabolico, endocrino e immunitario, potenzialmente indicativa di una suscettibilità verso la patologia. I risultati hanno messo in luce come i giovani adulti esposti a stress materni psicosociali durante la vita in­ trauterina presentino una consistente disregolazione di tutti i para­ metri fisiologici, con un rischio aumentato per lo sviluppo di disturbi clinici. È stato inoltre dimostrato che l’esposizione allo stress durante la vita intrauterina è associata a un funzionamento endocrino altera­ to (caratterizzato da aumentati livelli dell’ormone adrenocorticotropo e ridotti livelli di cortisolo, durante la stimolazione farmacologica e psicologica) e prestazioni cognitive ridotte, a loro volta legate a una compromissione della corteccia prefrontale (figura 7.2). Questi risul­ tati sono in linea con i dati di studi longitudinali che hanno indagato

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! Salute e ischio evolutivo

Figura 7.2 Sintesi concettuale di un modello biocomportamentale umano dello stress prena­ tale e delle conseguenze successive. Stampata con il permesso.

gli effetti a lungo termine dello stress prenatale (in particolare, l’ansia materna) sulla morfologia del cervello del bambino, evidenziando una significativa riduzione della sostanza grigia (Buss et al., 2010). I risultati delle ricerche negli esseri umani lasciano supporre che l’e­ sposizione allo stress psicosociale prenatale possa aumentare il rischio di conseguenze a lungo termine sul piano fisiologico e cognitivo. Par­ tendo dalla prospettiva della programmazione fetale, la ricerca ha esplo­ rato i meccanismi che spiegano la relazione tra i diversi fattori intrau­ terini negativi e i molteplici effetti sui sistemi fisiologici fetali. E stato ipotizzato che, durante la gravidanza, i processi endocrini e immunita­ ri materno-placentare-fetali associati allo stress possano rappresentare un meccanismo sottostante, in grado di rispondere alle diverse forme di perturbazione intrauterina che influenzano numerosi targets della programmazione fetale (Wadhwa, 2005). Le perturbazioni biologiche possono verificarsi in periodi diversi della gravidanza (e con intensità differenziata), favorendo cambiamenti nella struttura biologica del feto, con alterazioni progressive e consistenti dei sistemi fisiologici. Durante l’infanzia, i cambiamenti fetali influenzano la responsività fisiologica di questi sistemi ai fattori ambientali ed endogeni.

LE CONSEGUENZE DELLO STRESS GENITORIALE NEL BAMBINO

Il metabolismo glucocorticoide (negli esseri umani, cortisolo; Har­ ris, Seckl, 2010) è considerato un mediatore endocrino critico della programmazione fetale, dal momento che ha un ruolo chiave sia nella produzione sia nell’azione ormonale: quest’ultima è modulata dall’e­ spressione, dalla sensibilità e dall’affinità del recettore tessuto-specifi­ co del glucocorticoide, e dalla trasmissione materno-fetale. Altri studi condotti nell’ambito dello stress materno durante la gravidanza hanno rilevato un aumento del cortisolo e dell’ormone di rilascio della cor­ ticotropina sia nella madre sia nel feto (Field et al., 2004; Weinstock, 2008). Le concentrazioni di cortisolo fetale sono strettamente associate a quelle materne, con una proporzione materno-fetale di 12 a 1 (Gitau et al., 1998). La ricerca ha provato che il 10-20% del cortisolo mater­ no attraversa la placenta; i livelli di cortisolo del feto risultano inoltre significativamente correlati a quelli della madre (Gitau et al., 2001). Affinché la risposta allo stress sia adattativa, i livelli di cortisolo devo­ no essere necessariamente nella norma. Come abbiamo già illustrato, il cortisolo (comunemente, ormone dello stress) è un ormone corticoste­ roide o glucocorticoide prodotto dalla corteccia del surrene, coinvolto nella risposta fisiologica allo stress e all’ansia. Livelli insolitamente ele­ vati - o, in rari casi, insolitamente bassi - indicano, al contrario, una ri­ sposta allo stress non adattativa, in grado di provocare varie patologie. In linea con quanto emerso negli animali, negli esseri umani livel­ li cronicamente elevati di cortisolo possono avere effetti negativi sul­ le strutture e sulle funzioni cerebrali (Hillshouse, Grammatopoulos, 2002) che influenzano il comportamento del bambino. Per esempio, i figli di madri con elevati livelli di cortisolo prenatale manifestano una forte agitazione e varie difficoltà comportamentali durante l’infanzia (Davis et al., 2007; de Weerth, van Hees, Buitelaar, 2003). Livelli ele­ vati di cortisolo prenatale (misurato tra la trentesima e la trentaduesima settimana gestazionale) risultano predire la presenza di una reattività negativa temperamentale del bambino (Davis et al., 2007), definita da agitazione, pianto frequente ed espressioni facciali negative, soprattut­ to a due mesi dalla nascita. Uno studio longitudinale ha inoltre rileva­ to nei bambini con temperamento negativo una maggiore predisposi­ zione a sviluppare un’inibizione comportamentale durante l’infanzia (Pfeifer et al., 2002). Livelli elevati di cortisolo prenatale sono associati a successive di­ sfunzioni sul piano emozionale e cognitivo, che includono il rischio di ansia e depressione, deficit attentivi e iperattività, e ritardi del lin­ guaggio (Talge et al., 2007). Sebbene molti di questi disturbi siano in­

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dipendenti dagli effetti della depressione e dell’ansia materna nel postpartum, i meccanismi di trasmissione risultano alquanto complessi. I problemi infantili, infatti, possono essere mediati sia dai cambiamenti prenatali sia da livelli elevati di cortisolo del bambino dopo la nascita. In campo umano, la ricerca non-sperimentale ha dimostrato che l’espo­ sizione a quantità eccessive di cortisolo in utero può influenzare il cer­ vello e il midollo spinale in via di sviluppo (Yu et al., 2004). La conferma a queste osservazioni viene dagli studi sullo stress pre­ natale condotti nei ratti e nei primati non umani (Darnaudéry, Maccari, 2008), attraverso la stimolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, prendendo in considerazione sia le caratteristiche dello stress {timing, intensità e durata) sia il genere della prole. Queste indagini hanno rile­ vato cambiamenti strutturali nell’ippocampo, nella corteccia frontale, nell’amigdala e nel nucleo accumbens degli animali. Lo stress materno non solo aumenta i livelli di corticosteroidi nel cervello fetale, ma pro­ duce effetti differenziati in relazione al genere: nei feti di sesso maschile riduce il livello di testosterone, mentre nei feti di sesso femminile altera il metabolismo delle catecolamine (Weinstock, 2007). Il genere, inoltre, sembra influenzare anche gli effetti a lungo termine dello stress prena­ tale: i maschi riportano soprattutto deficit di apprendimento, associati alla neurogenesi e alla densità delle spine dendritiche della corteccia prefrontale e dell’ippocampo; le femmine, invece, manifestano preva­ lentemente ansia, depressione e aumentata risposta allo stress dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Una nuova e interessante prospettiva sulle conseguenze dello stress sull’organismo sottolinea il ruolo rilevante dei telomeri (strutture cro­ matiche specializzate, che proteggono le terminazioni dei cromosomi li­ neari dalle attività di riparazione e degradazione del DNA; Blasco, 2005). I telomeri significativamente corti o quelli carenti di qualche proteina telomerica di binding perdono la propria funzionalità e vengono proces­ sati come rotture del DNA, producendo fusione cromosomica. In assen­ za di un meccanismo di compensazione, le cellule in corso di divisione vengono sottoposte a una graduale erosione telomerica. Lo studio dei telomeri ha messo in luce un rapido accorciamento telomerico in risposta agli eventi di vita stressanti (Epe! et al., 2004). II gruppo di Blackburn e collaboratori dell’università della California, attraverso numerosi e innovativi studi, ha individuato un’associazione tra lo stress cronico e gli indici di malattia, inclusi problemi cardio­ vascolari e inadeguata funzione immunitaria. Ciononostante, è estre­ mamente complicato comprendere i meccanismi che consentono allo

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LE CONSEGUENZE DELLO STRESS GENITORIALE NEL BAMBINO

stress di giungere - come gli autori stessi scrivono - “sotto la pelle” (ibidem, p. 17312). A partire da questi presupposti, è stato ipotizza­ to che lo stress influenzi lo stato di salute, attraverso la modulazione dell’azione cellulare. Questo gruppo di ricerca ha empiricamente indi­ viduato un’associazione tra lo stress psicosociale e un maggiore stress ossidativo, una ridotta attività telomerasica e una minore lunghezza telomerica: aspetti, questi, che influenzano la senescenza e la longevi­ tà cellulari. Le donne con livelli elevati di stress percepito presentano telomeri più corti, rispetto a quanto osservato nelle donne con bas­ si livelli di stress. Questi risultati hanno importanti implicazioni, dal momento che spiegano come, agendo a livello cellulare, lo stress possa anticipare l’inizio dei disturbi legati all’età. In campo umano, l’influenza dello stress prenatale sulla lunghezza dei telomeri è stata esplorata solo negli ultimi anni (Entringer et al., 2011). Negli adulti, l’associazione tra lo stress psicosociale, o biomarkers dello stress, e la lunghezza dei telomeri dei leucociti (a sua vol­ ta, fattore predittivo della mortalità e dell’inizio dei disturbi associati all’età) lascia supporre che la biologia dei telomeri possa rappresenta­ re un possibile meccanismo in grado di spiegare l’impatto dello stress prenatale sulla salute. Non è ancora chiaro, tuttavia, se l’esposizione allo stress durante la vita intrauterina possa produrre una variazione nella lunghezza dei telomeri dei leucociti, promuovendo una suscet­ tibilità per la patologia. Dopo avere illustrato gli effetti di altri fattori sulla lunghezza dei te­ lomeri, il gruppo di ricerca di Blackburn ha testato l’ipotesi secondo cui l’esposizione allo stress nella vita intrauterina possa essere associa­ ta a una minore lunghezza dei telomeri nella vita adulta. La lunghezza dei telomeri è stata valutata in un gruppo di giovani adulti, in buone condizioni di salute: metà dei soggetti erano figli di madri che aveva­ no sperimentato uno stress severo durante la gravidanza (gruppo con stress prenatale), mentre l’altra metà erano figli di madri che avevano avuto una gravidanza non contrassegnata da eventi stressanti (gruppo di controllo). A conferma dell’ipotesi di partenza, l’esposizione allo stress prenatale è risultata predittiva della lunghezza dei telomeri nei figli adulti. Questo importante studio (ibidem, 2011 ) ha fornito la chiara evidenza in campo umano di una relazione tra l’esposizione allo stress prenatale e la successiva lunghezza ridotta dei telomeri. Nel comples­ so, questi dati illustrano un importante meccanismo biologico, poten­ zialmente in grado di spiegare le origini prenatali della salute e della patologia negli adulti.

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Da queste osservazioni, è possibile ipotizzare che l’ambiente, e in particolare lo stress, influenzino l’espressione genica attraverso l’azio­ ne di numerosi schemi epigenetici: nella realtà umana, infatti, non può essere concepita una rigida separazione tra nature e nurture. Come Michael Rutter ha scritto: “I geni influenzano la disposizione a speri­ mentare diverse forme di ambiente e influenzano la suscettibilità a dif­ ferenti ambienti; allo stesso tempo, l’ambiente influenza l’espressione genica” (2006, p. 218).

Stress e rischio psicosociale nello sviluppo infantile

I bambini cresciuti in famiglie altamente stressate presentano diffi­ coltà nei processi relazionali e non rientrano nelle tre categorie dell’at­ taccamento originalmente descritte da Mary Ainsworth e collaboratori (1978). Partendo da queste evidenze, Main e Solomon (1990) hanno sviluppato una quarta categoria dell’attaccamento infantile - di tipo disorganizzato/disorientato -, che comprende bambini che manifesta­ no comportamenti disorientati e conflittuali in presenza del genitore. Gli aspetti di disorganizzazione e disorientamento nel comportamento del bambino derivano da due bisogni opposti e simultanei: avvicinarsi al genitore per ottenere protezione e allontanarsene per paura (Main, Hesse, 1990). Mentre, in un campione normativo, solo il 14% dei bam­ bini presenta una disorganizzazione nell’attaccamento (van IJzendoorn, Schuengel, Bakermans-Kranenburg, 1999), nei campioni caratterizza­ ti da basso livello economico la percentuale sale al 24%. La ricerca ha messo in evidenza come lo sviluppo dell’attaccamento disorganizzato infantile sia facilitato dalla presenza di specifici fattori di rischio all’in­ terno della famiglia. A questo proposito, gli studi hanno rilevato la pre­ senza di un attaccamento disorganizzato nell’83 % dei bambini abusati e trascurati (Carlson et al., 1989); nello studio più recente di Cicchetti, Rogosch e Toth (2006), questa percentuale raggiunge il 90%. Lyons-Ruth (2006) ha ampliato questo ambito di studio, eviden­ ziando come anche l’assenza dell’intervento e della protezione da parte del caregiver - elementi indispensabili per la regolazione dello stato di paura durante l’infanzia - possa provocare una disorganizzazione nel bambino. Altri fattori di rischio familiare (come, per esempio, l’abu­ so di sostanze da parte della madre) sono frequentemente associati al­ la disorganizzazione dell’attaccamento infantile (Melnick et al., 2008). La ricerca ha inoltre evidenziato come anche la precedente esperien­

za della madre di aver partorito un bambino morto sia un significativo elemento predittivo dell’attaccamento disorganizzato a dodici mesi di vita nei bambini nati successivamente a tale evento, rispetto a quanto osservato in un campione normale (Hughes et al., 2001). Lo stato della mente materno influenza in modo profondo lo svi­ luppo dell’attaccamento infantile; da questa prospettiva, la ricerca ha esplorato ampiamente il ruolo svolto dallo stato della mente delle ma­ dri caratterizzato da elementi di ostilità e impotenza {hostile-helpless', Lyons-Ruth et al., 2005), o i loro patterns di attaccamento irrisolto. Durante l’interazione con il bambino, i genitori traumatizzati tendono a esprimere un inesplicabile atteggiamento spaventato o spaventante, che è stato descritto da Hesse e Main (2006) attraverso l’individuazio­ ne dei seguenti indici comportamentali: espressioni minacciose, espres­ sioni spaventate, manifestazioni dissociative, comportamento esitante o deferente, atteggiamento coniugale o sentimentale e, infine, compor­ tamento disorganizzato. Come abbiamo sottolineato, Hesse e Main {ibidem) hanno specificamente enfatizzato l’impatto dei comportamenti spaventati/spaventanti genitoriali: questi comportamenti producono un conflitto nel bambino, limitandone la capacità di organizzare una coerente strategia di attac­ camento. Lyons-Ruth, Bronfman e Atwood (1999) hanno sviluppato questo modello concettuale, ipotizzando che la disorganizzazione in­ fantile non sia solo associata al comportamento genitoriale spaventato/ spaventante, ma anche a forme contraddittorie e irregolari di comuni­ cazione interattiva affettiva. Secondo questo modello, la comunicazione contraddittoria e disfunzionale interferisce con l’organizzazione di una coerente strategia dell’attaccamento, a causa dell’espressione, da parte del genitore, di comportamenti negativo-intrusivi, confusione di ruo­ lo, ritiro, errori affettivo-comunicativi e disorientamento (Lyons-Ruth, Jacobvitz, 2008). La relazione tra la comunicazione affettiva disfun­ zionale e la disorganizzazione dell’attaccamento infantile è stata con­ fermata da numerosi studi (Gervai et al., 2007; Goldberg et al., 2003; Grienenberger, Kelly, Slade, 2005; Madigan, Moran, Pederson, 2006). Anche l’ipervigilanza materna (Jaffe et al., 2001) risulta un forte elemen­ to predittivo della disorganizzazione dell’attaccamento a diciotto mesi di vita: questo comportamento, segno evidente del distress e dell’ansia materna, può essere rilevato anche nel monitoraggio troppo ravvicina­ to del ritmo vocale madre-bambino, durante le interazioni diadiche. E importante sottolineare che, a differenza di quanto osservato rispetto alla comunicazione affettiva disfunzionale, non è stata rilevata un’as­

LA NASCITA DELLA INTERSOGGETTIVITÀ

sociazione tra disorganizzazione infantile e insensibilità materna (van IJzendoorn et al., 1999). In un recente studio di Beebe e collaboratori (2010), è stata condot­ ta una dettagliata microanalisi delle comunicazioni faccia-a-faccia tra madre e bambino, al fine di evidenziare le dinamiche della trasmissio­ ne dell’attaccamento, all’interno di un disegno longitudinale che pre­ vedeva l’osservazione delle diadi, dai quattro mesi di vita fino alla valu­ tazione dell’attaccamento a dodici mesi attraverso la Strange Situation (Ainsworth et al., 1978). Lo studio ha esplorato varie dimensioni interattivo-emozionali che, secondo gli autori, possono essere coinvolte nello sviluppo e nella trasmissione deH’attaccamento: l’autocontingenza madre-bambino (ossia, l’adattamento del comportamento della ma­ dre al proprio comportamento precedente), la contingenza interattiva (ossia, la coordinazione interattiva) e altre modalità comportamentali (come l’affetto, l’attenzione visiva, il contatto e l’orientamento spaziale). Nelle diadi caratterizzate da disorganizzazione infantile a dodici mesi, i risultati hanno rilevato una maggiore prevalenza di bambini di sesso maschile. La valutazione a quattro mesi di vita aveva già rilevato in que­ sti bambini complesse forme di distress e disregolazione emozionale, definite da: distress facciale e vocale, affetto discrepante a livello faccia­ le e vocale, minore coinvolgimento in comportamenti caratterizzati da autocontingenza e ridotta capacità autoregolativa. Il comportamento delle madri dei futuri bambini disorganizzati è risultato caratterizzato da un eccessivo spostamento dello sguardo dal volto dei figli (nel 20% del tempo), movimenti della testa minacciosi, frequenti espressioni po­ sitive/di sorpresa durante il distress dei bambini, ridotta coordinazione emozionale, eccessiva autocontingenza facciale e minore contingenza nel contatto con i bambini. Sulla base di questi dati, Beebe e collaboratori (2010) hanno eviden­ ziato come le diadi con bambini con futura disorganizzazione dell’at­ taccamento presentino elevati livelli di divergenza e conflitto sul piano affettivo. Questi aspetti forniscono un’evidenza empirica al costrutto teorico dell’attaccamento, come di un sistema diadico costruito sia dal­ la madre sia dal bambino. E possibile dedurre che i comportamenti divergenti delle madri pos­ sano creare una confusione nei bambini, i quali, secondo Beebe e colla­ boratori {ibidem}, sperimentano una difficoltà nel sentirsi riconosciuti dalla madre e, allo stesso tempo, nel comprendere la mente materna: questi aspetti compromettono la capacità dei bambini di conoscere se stessi e di avere un possibile senso di padronanza del proprio corpo.

LE CONSEGUENZE DELLO STRESS GENITORIALE NEL BAMBINO

Questi studi sull’origine della disorganizzazione dell’attaccamento possono contribuire alla comprensione delle dinamiche delle esperien­ ze ego-aliene, osservate da Donald Winnicott in campo clinico, come conseguenza della “follia” materna (1969, p. 405). Nelle sue osserva­ zioni, Winnicott ha assistito al momento in cui il bambino “veniva pos­ seduto dalla follia della madre, quando questa impazziva davanti a lui” (ibidem). Winnicott ha descritto lo scacco comunicativo nell’interazio­ ne madre-bambino e l’intrusione delle paure e delle ansie materne, che vengono archiviate nelle rappresentazioni non-consce, implicite e pro­ cedurali del bambino, ostacolandone lo sviluppo (Lyons-Ruth, 2006). Quando “l’accudimento materno non è sufficientemente buono, il bam­ bino non riesce a entrare in contatto con se stesso, dal momento che viene a mancare una continuità dell’essere; la personalità viene invece costruita sulla base delle reazioni al conflitto ambientale” (Winnicott, 1960, p. 594), rimanendo un’esperienza non metabolizzata che si sta­ bilizza prima dell’acquisizione del funzionamento esplicito associato alle immagini e ai simboli consci. Se il caregiver si mostra distante, non accessibile e rifiutante, se co­ munica in modo contraddittorio e confondente, e presenta uno stile spaventato/spaventante, il bambino sperimenta uno stress psicobiolo­ gico che interferisce con lo sviluppo della sua strategia di attaccamento, favorendo lo sviluppo di una disorganizzazione basata sull’uso di difese dissociative, radicate nel cervello destro. Come Schore ha scritto, “la reazione psicobiologica del bambino ai gravi fattori di stress interper­ sonale comprende due separati patterns di risposta, iper-attivazione e dissociazione” (2010, p. 29). L’emisfero destro, che è dominante nel primo anno di vita (Howard, Reggia, 2007), si attiva nei bambini durante l’esposizione a eventi di na­ tura traumatica (Bradley, Cuthberth, Lang, 1996). Come documentato dalla ricerca (Schore, 2010, 2011), la corteccia orbitofrontale dell’emi­ sfero destro gioca un ruolo chiave nell’organizzazione dell’attaccamento. Durante i primi mesi di vita, i bambini attivano l’emisfero destro in risposta alla presentazione del volto di una donna (Tzourio-Mazoyer et al., 2002). Questi dati sono stati confermati da Grossmann e colla­ boratori (2007) in uno studio eeg, in cui è stato rilevato un aumento dell’attività elettrica gamma nell’area prefrontale mediale destra, nei bambini di quattro mesi esposti a un volto di donna, ritratta in posi­ zione frontale. Secondo Iacoboni e Dapretto (2006), l’emisfero destro è coinvolto anche con il sistema dei neuroni specchio visivi, significativamente im­

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plicato nello sguardo nei bambini. Le osservazioni sul ruolo centrale dell’emisfero destro durante i periodi precoci della vita non sono state confermate da un recente studio, condotto da Ferrari e collaboratori (2012) sui neonati di macaco, durante l’osservazione e la produzione di espressioni facciali. Tuttavia, un possibile limite nell’esplorazione dell’attività differenziata dei due emisferi cerebrali nei neonati di ma­ caco potrebbe essere associato al ridotto numero di elettrodi utilizzati nell’esperimento (comunicazione personale di Ferrari). Ovviamente, tutti i bambini reagiscono allo stress, in base alla pro­ pria organizzazione personale mentale e neurobiologica, che, a sua vol­ ta, viene condizionata anche dal genere. Taylor e collaboratori (2000) hanno proposto un’interessante ipotesi sulle differenze di genere nel­ la reazione alla minaccia (.ibidem)-, mentre “i comportamenti di ‘attacco/fuga’ (fight-flight) sono più forti nei maschi, le risposte prosociali (tend-befriend) risultano più evidenti nelle femmine”. Questa ipotesi è stata ulteriormente confermata da David e Lyons-Ruth (2005), i quali hanno osservato come, durante l’infanzia, le femmine esposte al com­ portamento spaventante e ai comportamenti di ritiro delle madri con­ tinuino a ricercare un contatto con loro, mentre i maschi mostrano un comportamento conflittuale disorganizzato e condotte di evitamento. Queste evidenze confermano le osservazioni di Weinberg (1992) sulle differenze di genere nella reazione dei bambini alle situazioni stressan­ ti con le madri. Mentre la dissociazione e l’iper-attivazione sono le risposte infan­ tili più ricorrenti allo stress traumatico, l’inversione di ruolo può rap­ presentare una possibile conseguenza dell’esposizione del bambino al conflitto coniugale dei genitori. Mentre nelle famiglie tipiche i genitori sono focalizzati sui bisogni del bambino, nelle interazioni caratterizza­ te da inversione di ruolo il genitore appare assorbito dai propri bisogni personali, mostrando insensibilità e mancanza di responsività nei con­ fronti del figlio (Macfie et al., 2008). Come Sroufe e collaboratori hanno sottolineato, “il genitore abdica al ruolo genitoriale e il bambino viene trattato come un partner, un coetaneo o un caregiver” (2005, p. 117). Lo sviluppo del bambino viene influenzato negativamente dall’inver­ sione di ruolo genitoriale, perché il genitore che vive un conflitto con il partner può trasferire sul figlio il proprio bisogno di intimità e prote­ zione. In questi casi, il genitore trae conforto e sicurezza dal bambino, il quale viene percepito come un’estensione del sé, necessaria all’auto­ regolazione genitoriale. Da un punto di vista psicodinamico, il bambino risulta troppo coinvolto nella vita del genitore e ha difficoltà a mante­

LE CONSEGUENZE DELLO STRESS GENITORIALE NEL BAMBINO

nere uno spazio personale, essendo, a volte, esposto anche a stimolazio­ ni adultomorfe nell’area della sessualità. Una possibile conseguenza di queste dinamiche è lo sviluppo di un falso sé oppure di una confusione del sé, priva di chiari confini. Una ricerca di Macfie e collaboratori (2008) ha individuato uno sche­ ma differenziato tra madri e padri nella dinamica dell’inversione di ruo­ lo. Nel caso di un comportamento conflittuale materno verso il padre, il padre manifesta un’inversione di ruolo nei confronti del bambino; inve­ ce, nel caso di un comportamento conflittuale del padre verso la madre, il padre manifesta un distanziamento dalla partner, mentre la madre un’inversione di ruolo nei confronti del bambino. Nel conflitto coniu­ gale sono state evidenziate ulteriori dinamiche. A questo proposito, l’interessante ipotesi dello spillover (letteralmente, ricaduta) sottolinea come gli effetti negativi e aggressivi associati al conflitto coniugale pos­ sano ripercuotersi sulla relazione genitore-bambino, creando tensioni e conflitti (Coiro, Emery, 1998; Cox, Paley, Harter, 2001). Un’ulteriore dinamica potrebbe essere basata sulla genitorialità disimpegnata o di­ stante, stimolata dal conflitto coniugale e caratterizzata dall’incapacità del genitore di utilizzare le proprie risorse psicologiche per prendersi cura del bambino (Katz, Gottman, 1996). Durante l’infanzia, il conflitto genitoriale può influenzare anche i si­ stemi di regolazione fisiologici del bambino, come, per esempio, il tono cardiaco vagale (indice di un’aritmia sinusale respiratoria), che si ipotiz­ za giochi un ruolo centrale nell’organizzazione del comportamento, delle emozioni e dell’attenzione. La regolazione dell’aritmia sinusale respira­ toria (incluse le relative misure baseline e reattive) è stata associata alla capacità di calmarsi, al controllo attentivo e alla regolazione emozionale del bambino, aspetti, questi, che hanno un’influenza rilevante sul succes­ sivo adattamento comportamentale ed emozionale infantile (Stifter, Corey, 2001; Suess, Porges, Plude, 1994). Vari meccanismi spiegano come il conflitto genitoriale possa essere associato allo sviluppo di una rego­ lazione dell’aritmia sinusale respiratoria: oltre ai fattori genetici, anche il conflitto genitoriale può aumentare direttamente le richieste sul bam­ bino di regolare il proprio stato di attivazione. In presenza di un elevato conflitto coniugale, questi aspetti sono ovviamente legati all’incapacità dei genitori di rispondere in modo sensibile ai bisogni dei bambini, so­ stenendone i processi di regolazione. Dal momento che si suppone che il tono vagale sia implicato nella modulazione dei comportamenti sociali affiliativi (Porges, 2007), e considerato che lo sviluppo di un’aritmia si­ nusale respiratoria è sensibile alle esperienze sociali (soprattutto dai tre

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ai dodici mesi di vita; Field et al., 1995; Propper et al., 2008), l’ipotesi attuale connessa a queste ricerche sostiene che l’associazione tra conflit­ to genitoriale e disregolazione dell’aritmia sinusale respiratoria sia l’esi­ to di un possibile spillover del conflitto genitoriale sui comportamenti genitoriali. I meccanismi di autoregolazione dei bambini sono inizial­ mente immaturi e lo sviluppo di un’effettiva aritmia sinusale respirato­ ria può essere l’espressione del fallimento dei genitori nella funzione di protezione interattiva del bambino, durante la prima infanzia (Feldman, Greenbaum, Yirmiya, 1999; Propper, Moore, 2006). Una recente ricer­ ca (Moore, 2010) ha investigato l’associazione tra conflitto genitoriale e funzionamento del tono vagale dei bambini. Durante lo Stili-Face Paradigm, sono state valutate diadi di madri con elevata conflittualità ge­ nitoriale e bambini (maschi e femmine, di sei mesi) con aritmia sinusale respiratoria. I risultati hanno rilevato un’associazione tra livelli elevati di conflitto genitoriale e ridotta aritmia sinusale respiratoria, sia a ripo­ so sia durante gli episodi dello Stili-Face Paradigm. Questi dati suggeri­ scono la presenza di forme atipiche di aritmia sinusale respiratoria e di disposizione autoregolativa nei bambini provenienti da famiglie carat­ terizzate da livelli elevati di conflitto coniugale.

Maltrattamento e trascuratezza: effetti nei bambini Gli studi sulle interazioni genitore-bambino nelle famiglie maltrat­ tanti hanno individuato la presenza di maggiori comportamenti disa­ dattivi, rispetto alle famiglie non maltrattanti. I genitori maltrattanti manifestano minore soddisfazione con i figli, percepiscono l’accudi­ mento come più conflittuale e meno gratificante, e utilizzano metodi educativi maggiormente controllanti. I genitori abusanti non sostengo­ no e, a volte, interferiscono con lo sviluppo dell’autonomia dei bam­ bini, obbligandoli a vivere in un contesto familiare isolato (Azar, 2002; Rogosch et al., 1995; Trickett et al., 1991; Trickett, Sussman,1988). I genitori abusanti utilizzano meno scambi fisici e verbali per attrarre e orientare l’attenzione dei bambini (Alessandri, 1992; Bousha, Twentyman, 1984); questi genitori, inoltre, mostrano aspettative inadeguate verso i figli (Putallaz et al., 1998), ai quali attribuiscono più intenzio­ ni negative, rispetto a quanto osservato nelle famiglie non maltrattanti (Dixon, Hamilton-Giachritsis, Browne, 2005; Zeanah, Zeanah, 1989). L’attaccamento dei bambini maltrattati è profondamente influenzato dalle interazioni con i genitori: in questi bambini, infatti, la procedura

osservativa della StrangeSituation (Ainsworth, Wittig, 1969) ha rilevato una prevalenza di attaccamenti insicuri, significativamente maggiore di quella osservata nei bambini non maltrattati (Cicchetti, Barnett, 1991; Crittenden, 1985; Egeland, Sroufe, 1981; Lamb et al., 1985; SchneiderRosen et al., 1985). Assumendo la classificazione tradizionale dell’attac­ camento - che classifica i bambini come ansiosi-evitanti, sicuri e ansiosi resistenti (Ainsworth et al., 1978) - questi primi studi hanno, infatti, evidenziato la presenza di un attaccamento insicuro (ansioso-evitante o ansioso resistente) nei due terzi dei bambini maltrattati (SchneiderRosen et al., 1985; Youngblade, Belsky, 1989). Come abbiamo già discusso, la ricerca ha sottolineato la difficoltà di includere i comportamenti di attaccamento dei bambini maltratta­ ti aH’interno della classificazione originale della Ainsworth (Egeland, Sroufe, 1981), in quanto caratterizzati da strategie inconsistenti, con­ traddittorie o disorganizzate nei confronti delle separazioni e le riunio­ ni con i caregiver. Di conseguenza, l’osservazione di questi bambini ha portato all’identificazione dell’ulteriore pattern di attaccamento di ti­ po disorganizzato (Main, Solomon, 1990). Durante le interazioni con il bambino, oltre a forme di accudimento inconsistente, i genitori mal­ trattanti possono presentare un comportamento insensibile, iperstimolante e ipostimolante (Belsky, Rovine, Taylor, 1984; Crittenden, 1985; Lyons-Ruth et al., 1987). La combinazione di questi due stili contraddittori di accudimen­ to potrebbe favorire lo sviluppo di una strategia inconsistente, tipica dell’attaccamento disorganizzato (Cicchetti, Lynch, 1995). Oltre alla di­ sorganizzazione, i bambini con questo pattern di attaccamento spesso mostrano comportamenti bizzarri in presenza del loro caregiver, come interruzioni nei movimenti e nelle espressioni, apprensione, confusio­ ne, freezing (ossia, congelamento posturale) e rigidità comportamen­ tale (Fraiberg, 1982). Numerosi studi hanno esaminato il clima affettivo delle famiglie mal­ trattanti, evidenziando come i genitori esprimano meno emozioni po­ sitive e più negative (Herrenkohl et al., 1991; Kavanaugh et al., 1988; Lyons-Ruth et al., 1987), all’interno di interazioni che risultano alta­ mente aggressive sul piano verbale e fisico (Bousha, Twentyman, 1984; Crittenden, 1981). Rispetto alle madri non abusanti, le madri abusanti sono state descritte come più controllanti, intrusive e ostili nei confron­ ti dei loro figli (Cerezo, 1997; Crittenden, 1981, 1985): questi compor­ tamenti vengono frequentemente riproposti dai bambini, provocando scambi negativi caratterizzati da rabbia (Loeber, Felton, Reid, 1984).

Nelle famiglie maltrattanti sono state osservate dinamiche fortemente distorte nella relazione genitore-bambino, caratterizzate dall’aspetta­ tiva dei genitori che il bambino possa assumere il ruolo di caregiver nei loro stessi confronti (Howes, Cicchetti, 1993). Un’interessante ricerca ha rilevato nei bambini maltrattati (indipen­ dentemente dalla loro capacità cognitiva) una ridotta capacità di ri­ conoscere le emozioni (Camras et al., 1988; Camras, Grow, Ribordy, 1983), unita a una specifica ipersensibilità verso la rilevazione della rab­ bia (Camras et al., 1990). Numerosi studi condotti nell’ultimo decennio da Pollak e collaboratori (2000) hanno esaminato la capacità di ricono­ scimento delle emozioni in bambini maltrattati di età scolare. Secon­ do questi ricercatori, nei bambini vittime di abuso fisico, l’accentuata sensibilità nei confronti dei segnali associati alla rabbia è legata a una scarsa capacità attentiva e di riconoscimento nei confronti degli altri segnali emozionali. In questi bambini, la rabbia viene percepita come l’espressione emozionale più saliente del proprio ambiente di vita, poi­ ché rappresenta il maggiore elemento predittivo delle situazioni immi­ nenti di minaccia e pericolo. Negli ultimi anni, la ricerca neuroscientifica, attraverso l’uso dei potenziali evento-correlati, ha indagato gli effetti del maltrattamento sui processi elettrofisiologici implicati nel riconoscimento delle emo­ zioni facciali (Curtis, Cicchetti, 2011). I potenziali evento-correlati forniscono un indice diretto del funzionamento neurale associato a uno stimolo facciale. L’evidenza empirica ha individuato gli effetti del maltrattamento sugli indici neurali del processamento emozionale, sia durante lo sviluppo precoce (a trenta mesi di vita del bambino; Cic­ chetti, Curtis, 2005) sia nelle fasi evolutive successive (a quarantadue mesi di vita; Curtis, Cicchetti, 2011). I potenziali evento-correlati si presentano con elevato grado nelle aree occipitali considerate sensi­ bili all’elaborazione dei volti; inoltre, l’ampiezza della componente PI, stimolata dai volti con espressioni di rabbia, è maggiore nei bam­ bini maltrattati, rispetto a quelli non maltrattati. Questi risultati con­ fermano l’ipotesi che i bambini maltrattati siano più sensibili ai volti esprimenti rabbia (ibidem), non solo perché sono più abituati a questo tipo di emozione, ma anche perché i volti arrabbiati hanno un’impor­ tanza particolare nella loro vita. Ovviamente, questi dati hanno delle rilevanti implicazioni per l’intervento con i bambini maltrattati, i qua­ li hanno bisogno non solo di un sostegno protettivo, ma anche di un apprendimento emozionale che possa facilitare il riconoscimento delle emozioni a cui non sono abituati.

LE CONSEGUENZE DELLO STRESS GENITORIALE NEL BAMBINO

Gli eventi traumatici, come il maltrattamento, l’abuso, il conflitto familiare e la violenza, compromettono i processi di integrazione del­ le esperienze relazionali all’interno del sé del bambino, favorendo una grave distorsione nella rappresentazione del sé e del proprio senso di agency (Ogawa et al., 1997). Le conseguenze della dissociazione, del ri­ fiuto e della rimozione sono caratterizzate da una mancanza di integra­ zione del sé, che viene compromesso nel funzionamento emozionale e cognitivo. Ovviamente, il periodo della vita in cui il trauma si verifica è un aspetto molto critico; come dimostrato da Ogawa e collaborato ­ ri, “i soggetti [della ricerca] che avevano sperimentato il trauma per la prima volta durante l’infanzia presentavano punteggi più elevati sul­ la dissociazione in tutti i tempi di osservazione” {ibidem, p. 872). L’e­ sperienza del maltrattamento e dell’abuso sessuale durante l’infanzia è fortemente predittiva della dissociazione in adolescenza; in presenza di una carente disponibilità genitoriale durante l’infanzia, invece, i feno­ meni dissociativi tendono a manifestarsi in età adulta. Dal punto di vi­ sta psicologico e psicopatologico, la dissociazione infantile rappresenta una tipica reazione alle avversità, dal momento che i bambini tendono a utilizzare la fantasia o il gioco durante le situazioni conflittuali. Nelle fasi successive dello sviluppo, la fantasia può assumere un significato psicopatologico, divenendo una risposta di routine - una sorta di rifu­ gio psichico (Steiner, 1993) - alle difficoltà, che indebolisce l’organizza­ zione del sé, creando modelli multipli del sé, così come è stato descritto da Bowlby (1969/1982). A questo proposito, Schore ha commentato: “Negli stati di dissocia­ zione patologica, ‘la linea telefonica rossa’ del cervello destro è spen­ ta. Il cervello destro è fondamentalmente coinvolto in un meccanismo difensivo evitante per fronteggiare lo stress emozionale e utilizza la strategia passiva, utile alla sopravvivenza, della dissociazione” (2010, p. 36). In particolare, l’abuso infantile interferisce con la maturazione del sistema limbico dell’emisfero destro, provocando l’insorgenza di processi di tipo dissociativo (Symonds et al., 2006). Analizziamo ora le dinamiche psicologiche delle famiglie trascuranti. Le madri non accudenti tendono ad avere poche aspettative nei con­ fronti dei propri bambini, mostrano una scarsa responsività nei con­ fronti dei loro segnali e non riescono a contenerne il distress emozionale (Crittenden, 1988). L’atteggiamento familiare trascurante è caratteriz­ zato dalla mancanza di modalità adeguate di accudimento primario ed è frequentemente associato a numerosi fattori di stress familiare (Connell-Carrick, Scannapieco, 2006; Crittenden, 1981), come: elevata con­

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fattualità familiare, affetti negativi e violenza domestica (Connell-Carrick, Scannapieco, 2006; Gaudin et al., 1996). In un’interessante ricerca longitudinale, Shi e collaboratori (2012) hanno esplorato l’influenza del ritiro materno nello sviluppo del bambi­ no, considerando gli esiti a vent’anni. Il ritiro materno - caratterizzato da comportamenti interattivi silenziosi, incapacità di accogliere le ini­ ziative del bambino e uso eccessivo di oggetti per calmarlo - crea “un sentimento affettivamente morto ed emotivamente distante nell’intera­ zione, che trasmette al bambino la riluttanza del genitore a partecipare a una relazione basata sulla vicinanza fìsica e sul coinvolgimento emo­ zionale” {ibidem, p. 64). Una madre così distante e non emotivamente disponibile rimanda al concetto psicoanalitico della “madre morta”, descritto da André Green (1983): la madre non investe il bambino a li­ vello emotivo e libidico; il bambino, non comprendendo una tale fred­ dezza e distanza, rispecchia il proprio oggetto materno, identificandosi con la madre morta. Questo tipo di esperienze risulta predittivo delle manifestazioni del disturbo di personalità antisociale, indipendentemente dal tipo di abuso subito dal bambino (Shi et al., 2012). Sarebbe interessante esplorare come il ritiro materno influenzi i meccanismi di regolazione biologica arousal del bambino nelle situazioni stressanti. Come documentato dalla ricerca sugli animali, un accudimento precoce me­ no attento favorisce un’accentuata risposta allo stress nell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (Barr et al., 2004; Francis et al., 1999) e influenza negativamente il metabolismo della noradrenalina, della dopamina e della serotonina.

Rischio, vulnerabilità e resilienza La ricerca ha ampiamente documentato le conseguenze negative psicologiche e neurofisiologiche dei bambini provenienti da famiglie altamente conflittuali, mentre non ha adeguatamente studiato la popo­ lazione infantile che presenta uno sviluppo normale e senza particola­ ri vulnerabilità, nonostante le avversità familiari (Cummings, Davies, 1994). Per tali ragioni, sarebbe utile costruire un modello del rischio e della vulnerabilità, basato sia sull’identificazione dei fattori di prote­ zione e di resilienza sia sul riconoscimento dei processi sottostanti che modulano l’adattamento infantile nelle famiglie altamente conflittuali. In questo ambito, le valutazioni dovrebbero essere abbastanza discri­

minanti da cogliere la natura dinamica della resilienza, dal momento che anche i bambini resilienti potrebbero sviluppare notevoli problemi nel tempo (Luthar, Cicchetti, 2000). L’abuso e il maltrattamento rappresentano le esperienze più stres­ santi e negative per lo sviluppo infantile: nonostante molti bambini ne vengano negativamente influenzati (Cicchetti, Lynch, 1995), non tutti manifestano conseguenze gravi (Cicchetti, Rogosch, 2012). Al fine di spiegare i fattori di resilienza dei bambini che non manifestano esiti ne­ gativi, la ricerca ha focalizzato l’attenzione sui fattori psicosociali, con­ siderando le caratteristiche di personalità, le relazioni di attaccamento sicuro, la capacità di autoregolazione, il sostegno genitoriale e la pre­ senza di un contesto sociale positivo (Haskett et al., 2006). Uno studio di Cicchetti e Rogosch (1997) ha mostrato come gli elementi maggior­ mente predittivi della resilienza siano rappresentati dalle caratteristi­ che di personalità di ego overcontrol (ossia, la capacità di monitorare e controllare gli impulsi, e di regolare gli affetti) e di ego residence (ossia, la flessibilità personale negli affetti e nel comportamento). Oltre a ciò, sono stati considerati anche altri livelli di analisi, come, per esempio, lo studio dell’asimmetria elettroencefalografica. In questo ambito, Curtis e Cicchetti (2007) hanno rilevato un’associazione tra la resilienza dei bambini maltrattati e un’asimmetria elettroencefalografica, caratteriz­ zata da un’iper-attivazione sinistra. Un’interessante ricerca (Cicchet­ ti, Rogosch, 2007) ha studiato il metabolismo degli ormoni steroidi in bambini abusati fisicamente. Lo studio ha rilevato un funzionamento maggiormente resiliente nei bambini con livelli elevati di cortisolo al mattino, rispetto a quelli che presentavano livelli bassi. Nell’abuso e nel maltrattamento sono coinvolti anche altri sistemi biologici, tra cui la struttura e il funzionamento cerebrale (De Bellis, 2001, 2005) e la neurobiologia dello stress (Cicchetti et al., 2010). Le esperienze stressanti sopra descritte rappresentano dei rilevanti fattori di rischio per lo sviluppo infantile e predicono un’ampia gam­ ma di conseguenze negative. Mentre inizialmente la ricerca ha orien­ tato l’attenzione sulle conseguenze di un singolo fattore di rischio, successivamente gli studi hanno iniziato a considerare l’importanza del rischio cumulativo, ossia l’esito della co-occorrenza dinamica di numerosi fattori di rischio. Allo stesso tempo, l’osservazione di bam­ bini adeguatamente adattati in contesti familiari ad alto rischio ha sti­ molato l’individuazione degli elementi associati a tali esiti positivi e dei relativi processi sottostanti (Masten, Powell, 2003). Questi aspetti sono stati definiti fattori protettivi, ossia “correlati di una accentuata

competenza nelle condizioni avverse” {ibidem, p. 13). I fattori pro­ tettivi, individuabili in base alla loro specificità, riguardano le com­ petenze personali, la capacità relazionale, il contesto e le risorse del­ la comunità di appartenenza. Ciononostante, il concetto di “fattore protettivo” è stato utilizzato spesso per descrivere gli effetti delle in­ terazioni. Secondo Rutter, la resilienza può essere definita come una ridotta vulnerabilità nei con­ fronti delle esperienze di rischio ambientale, del verificarsi di uno stress o di una grave difficoltà, oppure come il risultato relativamente positivo, nonostante le esperienze di rischio [...]. Si tratta, dunque, di un con­ cetto interattivo, che presuppone che la resilienza debba essere inferi­ ta dalle differenze tra gli individui che hanno sperimentato significativi stress o avversità. (2012, p. 336, corsivo originale) La definizione di un quadro concettuale comprendente il rischio, i fattori protettivi e la resilienza non può prescindere dalla considerazio­ ne che questi concetti siano, a volte, non chiari e confondenti. E infatti utile fare una distinzione tra il termine resilience, che dovrebbe essere utilizzato quando ci si riferisce al processo di competenza personale a dispetto delle avversità, e il termine resiliency, che dovrebbe essere usa­ to quando ci si riferisce a uno specifico tratto di personalità. Un buon esempio di resilience è rappresentato dall’interazione geniambiente. Attraverso metodi genetici molecolari, sono stati identificati dei geni che esprimono una specifica suscettibilità individuale verso la patologia e che interagiscono con fattori mediati dall’ambiente (Moffitt, Caspi, Rutter, 2005). Gli studi di Caspi e collaboratori (2002,2003, 2005) hanno rilevato un’assenza di significatività dell’effetto principa­ le dei geni, una modesta significatività dell’effetto principale dell’am­ biente e un rilevante effetto significativo dell’interazione geni-ambiente. L’interazione geni-ambiente ha ricevuto una sostanziale conferma dal­ lo studio longitudinale di Caspi e collaboratori (2002), condotto su un ampio campione di bambini di sesso maschile (dalla nascita fino all’e­ tà adulta), con il seguente obiettivo: comprendere perché, a differenza della maggior parte delle vittime del maltrattamento, alcuni individui non sviluppino comportamenti antisociali. Nello studio, la suscettibi­ lità genetica al maltrattamento è stata esplorata testando le differen­ ze individuali nel polimorfismo funzionale nel promotore dell’enzima monoamina-ossidasi A. Il gene della monoamina-ossidasi A codifica l’enzima monoamina-ossidasi A, che interviene nel metabolismo di­ sattivando alcuni neurotrasmettitori, come la noradrenalina, la seroto­

LE CONSEGUENZE DELLO STRESS GENITORIALE NEL BAMBINO

nina e la dopamina. È stato ipotizzato che il maltrattamento infantile possa predisporre i bambini al comportamento antisociale se il loro li­ vello di monoamina-ossidasi A non è sufficiente a limitare l’influenza del maltrattamento sul sistema dei neurotrasmettitori. La ricerca ha rilevato un ridotto effetto del maltrattamento infantile sul comporta­ mento antisociale dei maschi che presentavano livelli elevati di attività della monoamina-ossidasi A, rispetto a quelli con livelli bassi di attività di questo enzima. Un ulteriore studio longitudinale di Caspi e collaboratori (2003) ha fornito una nuova conferma all’interazione geni-ambiente, attraverso lo studio delle manifestazioni depressive, presenti in alcuni individui e non in altri, in risposta alle situazioni stressanti. Questa ricerca ha indi­ viduato un polimorfismo nella regione promotrice del gene trasportato­ re della serotonina, il cui allele corto (singolo o doppio) non protegge dai sintomi depressivi nelle situazioni stressanti, a differenza di quanto osservato nei casi di allele doppio lungo. Ulteriori studi hanno esplorato gli effetti di diversi tipi di fattori stressanti sul gene promotore del trasporto della serotonina, rilevando un’interazione geni-ambiente modestamente significativa nel caso degli eventi di vita, e un’interazione geni-ambiente altamente significativa, nel caso del maltrattamento (Karg et al., 2011). Questi dati sottolineano l’importanza dei fattori di elevato rischio ambientale, che possono ve­ rificarsi durante il primo anno di vita. Un’altra rilevante conclusione di tutti gli studi replicati c che il fattore genetico, non essendo stato rileva­ to un suo effetto principale, non può essere considerato una predispo­ sizione verso un particolare disturbo mentale, bensì una vulnerabilità alle influenze ambientali. Rispetto alle influenze ambientali, i risultati hanno confermato che gli effetti principali del rischio dipendono da av­ versità gravi e croniche come il maltrattamento, piuttosto che da stress acuti (Rutter, 2012). Ovviamente, questa interazione geni-ambiente è attiva molto prima dell’inizio del disturbo, predisponendo verso una vulnerabilità psicopatologica. L’interazione geni-ambiente è strettamente associata alla suscettibi­ lità differenziale all’ambiente e alle esperienze di accudimento (Ellis, Boyce, 2011). Boyce e Ellis (2005), partendo dalle osservazioni delle differenze individuali infantili nella reattività autonomica e adrenocorticale, hanno avanzato un’ipotesi relativa alla sensibilità biologica al contesto, che presenta elementi di sovrapposizione con la teoria della suscettibilità differenziale di Belsky (2005). Tale suscettibilità differen­ ziale è radicata nelle differenze nel funzionamento personale dei circuiti

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neurobiologici. A questo proposito, Whittle e collaboratori (2011) han­ no dimostrato che le differenze nella struttura dell’ippocampo possono essere associate a una vulnerabilità nei confronti dei contesti negativi; il volume dell’ippocampo sembra inoltre un elemento predittivo fonda­ mentale degli esiti positivi in presenza di un ambiente favorevole. Se­ condo gli autori, l’ippocampo potrebbe giocare un ruolo centrale nella sensibilità per il contesto, anche in virtù delle sue implicazioni nei pro­ cessi di apprendimento e di memoria. Un ulteriore sistema coinvolto nella sensibilità al contesto è rappresentato dal sistema neuroendocri­ no di risposta allo stress. Sinora, il paradigma dominante in questo campo di studio è stato il modello diatesi-stress (Sameroff, 1983), che ipotizza che alcuni indivi­ dui, a causa di una specifica vulnerabilità, siano particolarmente e nega­ tivamente influenzati dai fattori di stress ambientale. L’effetto sinergico scaturito dall’interazione tra diatesi e rischio ambientale rappresenta, quindi, un rilevante rischio per lo sviluppo futuro. Seppure assumendo una diversa prospettiva, la teoria della sensi­ bilità al contesto (Ellis, Boyce, 2011) e la teoria della suscettibilità dif­ ferenziale (Belsky, Bakermans-Kranenburg, van IJzendoorn, 2007) si focalizzano entrambe sull’interazione persona-ambiente, sottolinean­ do il valore delle caratteristiche dell’organismo nel moderare gli effetti sia delle condizioni stressanti sia di quelle ambientali supportive. El­ lis e Boyce (2011) hanno individuato un meccanismo fisiologico della suscettibilità, basato sulla reattività autonomica, adrenocorticalc c im­ munitaria. Gli autori hanno proposto un’interessante distinzione tra i bambini maggiormente suscettibili - denominati “bambini orchidea” {ibidem, p. 11) -, che presentano un’accentuata sensibilità alle influen­ ze ambientali sia positive sia negative, e i bambini con una bassa reat tività - definiti “bambini dente di leone” {ibidem) -, che, al contrario, funzionano in modo adeguato in un’ampia gamma di situazioni, com­ prese quelle avverse. I bambini maltrattati crescono in un contesto multiproblematico, caratterizzato da povertà, violenza genitoriale, psicopatologia genito­ riale, criminalità, abuso di droga e alcol, e condizioni ambientali pe­ ricolose (Appel, Holden, 1998; Jaffee, 2005; Lynch, Cicchetti, 1998; Sedlak, Broadhurst, 1996). Come è stato proposto dal modello dello stress cumulativo (Repetti, Taylor, Seeman, 2002; Rutter, 1979; Seifer et al., 1992), condizioni di stress così gravi possono ostacolare un ade­ guato funzionamento dei bambini, anche in presenza di forti dotazio­ ni personali. A questo proposito, Sameroff e collaboratori (1998) han-

LE CONSEGUENZE DELLO STRESS GENITORIALE NEL BAMBINO

no messo in luce come i fattori protettivi personali non abbiano alcun effetto sul funzionamento dei bambini esposti a un elevato numero di fattori di rischio ambientale. Jaffee e collaboratori (2007) hanno fornito una recente conferma al modello di rischio cumulativo, ipotizzando, sulla base delle loro ricer­ che, che i bambini provenienti da famiglie multiproblematiche possa­ no non avere abbastanza risorse personali per raggiungere un adatta­ mento positivo. La letteratura scientifica sui fattori di rischio multipli non risolve una questione importante: ossia, se l’impatto del rischio cumulativo sul comportamento sia descritto più efficacemente da un modello so­ glia o piuttosto da un modello lineare. I modelli di rischio cumulativo affermano che sia l’accumulo dei fattori di rischio, e non la presenza o assenza di fattori di rischio specifici, a provocare conseguenze clini­ camente significative. Questi aspetti sono stati evidenziati nel classico studio di Rutter (1979) nell’isola di Wight e nel Rochester LongiludinalStudy (Sameroff, 2000). Le conseguenze disadattive sullo sviluppo infantile sono state descritte da due diversi modelli. Il primo modello, basato sull’effetto soglia, presuppone che, superato un certo numero di fattori di rischio, si verifichi un grave aumento dei problemi com­ portamentali (Rutter, 1979); il secondo modello sostiene invece una prospettiva cumulativa o lineare, che prevede un aumento progressivo dell’effetto negativo. I risultati della recente ricerca longitudinale di Appleyard e collabo­ ratori (2005) sostengono il modello di rischio cumulativo, secondo cui il numero dei fattori di rischio nella prima infanzia risulta predittivo dei problemi comportamentali durante l’adolescenza. La conclusione è che più numerosi sono i fattori di rischio, peggiori saranno le conse­ guenze sul bambino.

Conclusioni

Nel libro, abbiamo sottolineato il valore dell’intersoggettività nei rapporti umani, esplorandone la nascita e lo sviluppo soprattutto nella relazione familiare, durante la gravidanza, dopo il parto e nel corso dei primi anni di vita del bambino. Il nostro modello di riferimento inclu­ de i contributi di diverse aree scientifiche che si sono confrontate con il tema dell’intersoggettività: la psicoanalisi, il cognitivismo, Vlnfant Research e la neurobiologia. Secondo la concettualizzazione proposta dal “modello transazionale” (Sameroff, Chandler, 1975), l’intersoggettività è caratterizzata dalle interazioni dinamiche che si esprimono tra sistemi molteplici e complessi, rappresentati dal bambino, la famiglia e il contesto sociale di appartenenza. Come ha scritto Sameroff, “capire come i bambini e i loro genitori si influenzino reciprocamente nel tempo è una premessa indispensa­ bile per la comprensione dei problemi dello sviluppo e per la ricerca dei trattamenti appropriati” (2004, p. 11). Considerando la presenza di molteplici sistemi interagenti, è possibile identificare vari punti di ingresso nelle interazioni genitori-bambino, che, pur ricevendo atten­ zioni specifiche da parte degli interventi preventivi e di sostegno (Stern, 1995), influenzano inevitabilmente l’intero sistema. Come è stato messo in luce, il primo punto di ingresso è il mondo psichico dei genitori (soprattutto quello materno), in cui prendono for­ ma le rappresentazioni di sé come genitore e quelle del futuro bambi­ no. Entrambe le rappresentazioni sono radicate nell’esperienza e nella dimensione fisica della madre: luogo in cui avvengono i primi scambi con il bambino. Spesso, le madri iniziano a pensare per due già dalla gravidanza; dia­ logano con il bambino che portano dentro, gli attribuiscono un volto,

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un’identità, desideri e intenzioni, considerandolo un compagno segreto nei lunghi giorni dell’attesa. Ma anche i padri si creano una rappresen­ tazione del figlio, e come abbiamo evidenziato, sentono il bisogno di essere confermati nella loro identità genitoriale, perché il bambino esi­ ste già nelle loro menti ma non nel loro corpo. Durante questo periodo di attesa, si sviluppa la capacità di pensare per tre; questa competenza è rilevabile nell’intervista che abbiamo riportato, in cui emerge la capa­ cità di entrambi i partner di dialogare con il bambino e di sostenersi a vicenda nel processo di affiliazione. Abbiamo anche discusso di come i genitori interagiscono con il loro futuro bambino di fronte all’imma­ gine ecografica: questa si intreccia con l’immagine del bambino che si è costruita nella mente dei genitori in virtù del processo di affiliazione, e che si esprime nei comportamenti imitativi che madri e padri mani­ festano nei confronti dei suoi gesti. Uno dei padri che hanno parteci­ pato al nostro studio ha rivolto queste parole al bambino visualizzato nell’ecografia: “Adesso tu stai lì, bello comodo, ma spero che verrai a conoscerci presto. Abbiamo già preparato la cameretta, con il tuo let­ tino e tutti i tuoi giocattoli”. Il periodo dell’attesa rappresenta un punto di ingresso privilegiato perché entrambi i partner sono fortemente motivati a orientare la pro­ pria attenzione sul bambino, a parlare di lui, a immaginarlo e a farlo vivere nei sogni. In questa fase, sono già riconoscibili stati di ansia, di depressione e stati ossessivo-compulsivi, in grado di interferire con l’at­ tesa del bambino (Ammaniti et al., 2006). I genitori possono essere sostenuti sia attraverso forme di consu­ lenza sia mediante la loro osservazione durante l’interazione con una bambola, come nel Prenatal Lausanne Trilogue Play (Carneiro et al., 2006), o con l’immagine ccografica, come nella nostra ricerca (Amma­ niti et al., 2010). Per tutti i genitori, il periodo della gravidanza è caratterizzato dalla nascita di una nuova “costellazione mentale” (Stern, 1995) che riorga­ nizza il mondo psichico delle madri e dei padri, riattivandone le matrici delle esperienze infantili con i propri genitori. Come ha dimostrato la ricerca neurobiologica, durante la gravidan­ za si attivano specifiche aree cerebrali materne, come l’ippocampo, il sistema limbico e la corteccia orbitofrontale, che intervengono nel pro­ cesso di rievocazione delle memorie passate e stimolano un forte coin­ volgimento emozionale. Questi aspetti possono essere di grande utilità nell’ambito degli interventi di sostegno rivolti alle madri e ai padri: in questo periodo, infatti, l’atteggiamento positivo dei genitori permette

di stabilire una relazione di fiducia che favorisce le azioni di sostegno e che può essere mantenuta nel tempo, anche dopo il parto. Dopo il parto, sono individuabili altri punti di ingresso al sistema genitori-bambino: tra questi, quello dell’attaccamento appare estre­ mamente significativo. Molti dei programmi di sostegno alla relazione genitori-bambino mirano a favorire la costruzione dei legami di attac­ camento. Questi interventi tendono a stimolare la sensibilità delle madri e dei. padri nei confronti di quei comportamenti infantili che risultano rile­ vanti per l’attaccamento (come il contatto visivo, il pianto e il contatto fisico), e che si manifestano soprattutto quando il bambino è stanco o stressato, oppure quando si separa dal genitore. Mentre i genitori con un modello di attaccamento sicuro sono in grado di leggere le richie­ ste di protezione e rassicurazione del proprio figlio, la situazione cam­ bia nel caso dei genitori che presentano stati della mente distanzianti, preoccupati o irrisolti rispetto all’attaccamento: in questi casi, le madri e i padri non riescono a interpretare in maniera adeguata i segnali del bambino e a rispondere alle sue richieste di attaccamento (Lyons-Ruth, Easterbrooks, 2006; Olds, 2006). Avendo in mente il quadro teorico dell’attaccamento, l’home-visitor interviene nel contesto naturale della famiglia, fornendo ai genito­ ri una base sicura (Bowlby, 1988) che li aiuta a cogliere e interpretare i segnali affettivi e i comportamenti del bambino. La strategia dell’in­ tervento mira a promuovere le interazioni genitori-bambino, facilitan­ do le potenzialità e i comportamenti intuitivi sia del singolo genitore sia della coppia, senza tuttavia assumere un atteggiamento direttivo. I genitori vengono incoraggiati a migliorare la loro competenza e sensi­ bilità nei confronti del bambino, a osservare le loro interazioni con lui e a comprendere l’importanza della loro influenza sul suo sviluppo. Il Circle ofSecurity Project, realizzato da Marvin e collaboratori (2002), rappresenta un brillante esempio di intervento fondato sulla teoria deH’aLLaccamento: il Progetto si basa su concetti e idee derivati dalle teorie evolutive, dall’attaccamento e dalle interazioni precoci genitori­ bambino, dando importanza soprattutto alla regolazione affettiva, alla sincronia interattiva, agli stati della mente rispetto all’attaccamento e alla funzione riflessiva. In questo contesto, il nucleo centrale dell’in­ tervento è rappresentato dai concetti di “base sicura” e “rifugio sicu­ ro” (Ainsworth et al., 1978). Il costrutto dell’attaccamento è particolarmente rilevante durante le situazioni critiche e stressanti, quando il bambino si mostra leso, af­

famato e stanco. In questi momenti, appare decisivo il modo in cui i genitori forniscono protezione e cura, in risposta alle richieste di attac­ camento del figlio. Numerosi programmi di intervento precoce hanno confermato co­ me l’infanzia rappresenti un periodo critico e particolarmente sensibi­ le agli interventi di sostegno, che possono avere esiti comportamentali molto rilevanti (Swain et al., 2008), come la riduzione dei comporta­ menti disadattativi, l’aumento dei comportamenti di attaccamento e il miglioramento delle strategie di regolazione affettiva. Un terzo punto di ingresso è connesso all’area dell’intersoggettività e della mentalizzazione: queste potrebbero rappresentare un più genera­ le sistema motivazionale sottostante altri sistemi motivazionali, oppure una specifica competenza evolutiva stimolata dalla sicurezza dell’attac­ camento (Fonagy, 1998). Se il caregiver viene sostenuto nell’osservare i cambiamenti continui nello stato mentale del bambino, questo sarà in grado di sviluppare una capacità mentalizzante. Come Fonagy {.ibi­ dem} ha scritto, “la capacità del caregiver di percepire il bambino come un essere intenzionale sta alla base del caregiving sensibile” (p. 140). L’approccio mentalizzante, come nel “Minding thè Baby" Program descritto da Slade (2006), si pone l’obiettivo di sostenere i genitori ad avere in mente il bambino e a pensarlo più in termini della sua espe­ rienza interna che del suo comportamento. Spesso, i genitori apparte­ nenti alle popolazioni a rischio tendono a considerare maggiormente le caratteristiche comportamentali del bambino, a discapito delle sue esperienze interne. In queste situazioni, l’approccio dell’home-visitor dà una nuova voce all’esperienza interna del bambino, stimolando i genitori a riformulare la rappresentazione che hanno di lui. Allo stesso tempo, i genitori vengono incoraggiati a provare curiosità per l’espe­ rienza interna del bambino, che viene progressivamente riconosciuta come separata dalla loro. Possono essere inoltre identificati altri punti di ingresso al sistema genitori-bambino, considerando i dati che emergono dalla ricerca neu­ robiologica. Siamo entrati nel campo della ricerca traslazionale, che include due aree di traslazione: la prima è rappresentata dall’applica­ zione delle scoperte generate nei laboratori di ricerca e negli studi pre­ clinici agli interventi con gli esseri umani; la seconda area di traslazione concerne la ricerca finalizzata a promuovere l’adozione delle migliori pratiche per la comunità, come gli interventi sul sistema interattivo ge­ nitori-bambino. Come Curtis e Cicchetti (2011) hanno evidenziato, il maltrattamento durante l’infanzia ha un’influenza negativa sui proces­

si neurofunzionali implicati nell’identificazione della rabbia, dal mo­ mento che questa emozione ha un ruolo centrale nell’esperienza dei bambini all’interno delle famiglie maltrattanti. Secondo gli autori, le informazioni che emergono dai dati neurobiologici sui bambini mal­ trattati dovrebbero essere trasferite ai programmi di prevenzione e di intervento. Uno specifico intervento preventivo, per esempio, potrebbe sostenere i bambini maltrattati a riconoscere le diverse emozioni fac­ ciali, per attenuare la rilevanza della rabbia ed evitare la conseguente successione di conseguenze negative sul cervello. Un’ulteriore possibile traslazione della ricerca neurobiologica, par­ ticolarmente connessa alla scoperta del sistema dei neuroni specchio, è esemplificata nel lavoro di Beebe (2004), così come è documentato nell’articolo “Faces in relation: A case study”. Il focus centrale dell’in­ tervento è il concetto di corrispondenza (matching), formulato da Stern e Trevarthen: secondo gli autori, questo concetto è basato sulla capacità di ogni partner di essere consapevole dei sentimenti dell’altro, espri­ mendo una corrispondenza priva di parole che enfatizza il tempo, la forma e l’intensità. Prima di portare a termine il libro, ci piacerebbe sottolineare l’im­ portanza degli interventi preventivi e di sostegno nella relazione genitori-bambini, durante la prima fase dell’infanzia: un periodo, questo, estremamente sensibile e ricettivo, in cui possono essere ottenuti dei risultati importanti anche per le fasi successive. Come dimostrato da James Heckman, professore di Economia alla University of Chicago, vincitore del premio Nobel, bisogna considerare anche la ricaduta eco­ nomica di questi interventi. Come ha messo in luce Heckman (2000), gli interventi precoci du­ rante l’infanzia hanno un’efficacia consistente nelle famiglie svantaggia­ te: promuovono la scolarizzazione, riducono i comportamenti antiso­ ciali, promuovono la produttività nel posto di lavoro e diminuiscono le gravidanze in adolescenza. Si stima che questi interventi abbiano un’ef­ ficacia molto elevata: ossia, il rapporto tra costi e benefici. Come sap­ piamo, il ciclo vitale è dinamico: le competenze cognitive influenzano il successo socioeconomico, così come la competenza socioemozionale, l’attenzione, la motivazione e la fiducia in se stessi. Più la società tarda a sostenere e aiutare i bambini e i genitori nelle famiglie svantaggiate, più alti saranno i costi quando, più tardi, si cercherà di rimediare allo svantaggio dei bambini e degli adolescenti. La migliore conclusione per il nostro libro è la frase che Bowlby scrisse nel 1951 in Cure materne e salute mentale del bambino, volu-

CONCLUSIONI

me originalmente pubblicato dalla World Health Organization, e che è tuttora valida: “Come i bambini dipendono completamente dai pro­ pri genitori per la loro sussistenza, così, in tutte le società, tranne le più primitive, i genitori, soprattutto le madri, dipendono dalla società. Se una società s’interessa ai propri bambini, deve prendersi cura anche dei propri genitori” (p. 127).

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* Salvo diversa indicazione, per la traduzione italiana degli scritti di Sigmund Freud si fa riferimento alle Opere, edite da Boringhieri, Torino 1967-1980, in 12 volumi, che citiamo con OSF e numero del volume.

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Indice Frontespizio Il Libro Prefazione di di Allan N. Schore Introduzione 1. Un nuovo approccio all'intersoggettività 2. Diventare madre 3. Cure e preoccupazioni materne 4. La cogenitorialità durante la gravidanza e nel periodo postnatale 5. Basi neurobiologiche della maternità 6. La matrice primaria dell’intersoggettività 7. Le conseguenze dello stress genitoriale nel bambino Conclusioni Bibliografia

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