La letteratura italiana. Storia e testi. Illuministi italiani. Riformatori delle antiche repubbliche, dei ducati, dello Stato Pontificio e delle isole

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LA LETTERATURA ITALIANA STORIA E TESTI DIRETTORI RAFFAELE MATTIOLI · PIETRO PANCRAZI

ALFREDO SCHIAFFINI VOLUME

46 ·

TOMO VII

ILLUMINISTI ITALIANI TOMO VII RIFORMATORI DELLE ANTICHE REPUBBLICHE,

DEI DUCATI, DELLO STATO PONTIFICIO E DELLE ISOLE

ILLUMINISTI ITALIANI TOMO VII

RIFORMATORI DELLE ANTICHE REPUBBLICHE, DEI DUCATI, DELLO STATO PONTIFICIO E DELLE ISOLE A CURA DI GIUSEPPE GIARRIZZO, GIANFRANCO TORCELLAN E FRANCO VENTURI

Con l'aggiunta di un indice dei nomi e dei. periodici citati, nonché degli argomenti trattati, in questo e nei. tomi 111 e V a cura di Ferdinanda Torcellan

RICCARDO RICCIARDI EDITORE MILANO · NAPOLI

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ILLUMINISTI ITALIANI TOMO VII RIFORMATORI DELLE ANTICHE REPUBBLICHE, DEI DUCATI, DELLO STATO PONTIFICIO E DELLE ISOLE

INTRODUZIONE BIBLIOGRAFIA

GIAMMARIA ORTE$

FRANCESCO GRISELINI

IX XXXIII

3

93

ANDREA MEMMO

195

ALBERTO FORTIS

281

RUFFINO MASSA

393

AGOSTINO PARADISI

43S

LODOVICO RICCI

483

FRANCESCO MILIZIA FRANCESCO CACHERANO DI BRICHERASIO PAOLO VERGANI NICOLA CORONA PASQUALE PAOLI

721

LUCA MAGNANIMA

787

GIUSEPPE COSSO

849

FRANCESCO GEMELLI

891

GIOVANNI TOMMASO NATALE

965

DOMENICO CARACCIOLO

1021

GIOVANNI AGOSTINO DE COSMI

1079

ROSARIO GREGORIO

IIJS

NOTA AI TESTI

u81

INDICE DEGLI AUTORI E DEI PERSONAGGI CITATI NEI TOMI III, V E VII DEGLI « ILLUMINISTI ITALIANI»

1185

INDICE DEGLI ARGOMENTI TRATTATI NEI TOMI III, V E VII DEGLI « ILLUMINISTI ITALIANI»

1235

INDICE DEI PERIODICI CITATI NEI TOMI III, V E VII DEGLI « ILLUMINISTI ITALIANI» INDICE

1240

12.45

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L'Italia più arcaica, il Settecento delle antiche repubbliche, dei vecchi ducati, dello Stato pontificio e delle isole mediterranee: questa è la realtà che il lettore è invitato a esplorare e a conoscere nei testi raccolti nel presente, terzo tomo dei riformatori illuministi del XVIII secolo. Nei primi due tomi si eran potuti vedere gli scrittori, gli economisti, i giuristi, gli amministratori degli stati italiani più importanti, più sensibili e pronti ad un rinnovamento interno e più aperti ai suggerimenti e modelli che giungevano d'oltre alpe e d'oltre mare. Milano, Torino, Firenze, Napoli: centri di compagini statali che le vicende del primo Settecento avevano posto di fronte a problemi nuovi, all'impellente necessità di rinnovarsi, nel turbine delle guerre di successione, nel mutare dei governanti e delle dinastie. Il Piemonte, chiuso e conservatore, stentava non poco, è vero, a tenere il passo di questa evoluzione. Il regno meridionale rivelava, sotto la luce cruda delle inchieste e delle indagini dei suoi riformatori, quanto profonde fossero le sue piaghe e ferite secolari. Soltanto a lVIilano e a Firenze il movimento riformatore riusciva ad intaccare in modo effettivo la vecchia struttura statale, economica, intellettuale. Eppure non soltanto IVIilano e Firenze, ma Napoli e Torino erano e restavano le capitali delle riforme in Italia, i centri da cui partivano le idee più ardite e lucide, le proposte più concrete ed efficaci, le città italiane in cui il movimento dei lumi faceva con maggiore in1pegno le sue difficili prove. L'Italia degli assolutismi riformatori e degli intellettuali illuministi, malgrado tutti i suoi limiti e tutte le sue pesanti remore, era pur sempre l'Italia più moderna, la terra di Beccaria, di Verri, dei Vasco, di Gianni, di Genovesi e di Filangieri. L'Italia più arcaica ad essa si affiancava, a lei inestricabilmente unita - in parte addirittura, come per la Sardegna e la Sicilia, a lei legata e sottomessa da vincoli dinastici e statali -, ma pur sempre divisa e distinta, a causa di tradizioni, di strutture politiche ed economiche che rin1ontavano ad un più lontano passato, che si radicavano in un medioevo più antico. Repubbliche, ducati, strani stati - e più strano tra tutti quello pontificio - i quali rappresentavano una più vetusta tradizione, e che, proprio, per questo erano meno efficienti, meno razionali e meno razionalizzabili. Antiche

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classi dirigenti, ben coscienti e fiere del loro lungo passato, e anche perciò più difficilmente riformabili. Dappertutto, è vero, eran presenti, nell'Italia del Settecento, le fondamenta e magari le macerie del medioevo. La Lombardia, la Toscana derivavano, ancora a metà del secolo, da compagini comunali e signorili, il Piemonte risentiva ancora della sua matrice feudale, la monarchia meridionale poteva facilmente risalire, per ogni sua istituzione e per ogni sua magagna, lungo il cammino dei secoli, al mondo bizantino, normanno, svevo, angioino, ecc. Eppure, a ben guardare, a Milano, a Torino, a Firenze, a Napoli, era venuto formandosi, in età ben più recenti e vicine, magari nello stesso XVIII secolo, quel nucleo di stato burocratico e accentrato, s'erano affermati quei gruppi di amministratori, di tecnici, di uomini colti, su cui soltanto poteva e doveva poggiare una politica di riforma. Le origini dello stato piemontese del Settecento stavano in realtà nell'età di Emanuele Filiberto e, soprattutto, di Vittorio Amedeo Il. Il Milanese, all'epoca di Maria Teresa e di Kaunitz, era governato da Vienna e se guardava all'età comunale lo faceva con l'orgoglio del mercante e dell'imprenditore, non con quello del politico. La Toscana e il Napoletano datavano l'inizio della loro ripresa dall'instaurazione delle nuove dinastie lorenesi e borboniche e da Carlo e Pietro Leopoldo facevano iniziare il loro moto riformatore. Pur così diverse tra loro, erano queste le terre in cui la discussione, la polemica, la collaborazione tra lo stato e i philosophes era diventata, passata ormai la metà del secolo, possibile e fruttifera. A Venezia, a Genova, a Modena, a Parma, a Roma, a Cagliari, a Palermo e nei tanti altri centri, piccoli e grandi, dell'Italia più antica ritroviamo pure gli elementi, i fermenti del secolo dei lumi. I problemi economici, giuridici, politici fondamentali si pongono in modo non dissimile da quanto abbiamo visto negli stati maggiori. Uomini della più diversa origine e formazione, animati, trasformati dalle idee dei lumi, scrivono libri e giornali, organizzano società agrarie, spronano i governanti e sperano di indurli a quell'opera di trasformazione che è diventata la ragione stessa della loro vita. Non di rado riescono ad individuare con mirabile lucidità quelli che erano i nodi essenziali della situazione da loro affrontata: rapporti tra città dominante e provincie, necessità di partire da una trasformazione della agricoltura, libertà del commercio dei grani ecc. Spesso sentono con intensità e sincerità le implicazioni morali

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della loro posizione e cercano, con tutte le loro forze, di intaccare e di smantelJare le eredità più tristi della morale cattolica dell'età controriformista, così come si sforzano di creare nella classe dirigente una coscienza tutta nuova dei propri doveri e della propria responsabilità di fronte ai governati, di fronte ai contadini. Il moto riformatore è presente ovunque in Italia, anche negli stati più arretrati e vetusti, anche ai margini stessi del mondo italiano, in Dalmazia, in Corsica. Eppure i loro risultati furono minori, le loro possibilità di trasformare le cose finì coll'essere più ristretta. Più gravi, insormontabili talvolta, si rivelarono gli ostacoli contro i quali essi urtarono. Più difficile e spesso impossibile creare quella concordia discors tra stato e intellettuali senza cui la lenta macchina delle riforme settecentesche neppur poteva mettersi in moto. Più faticoso divenne per loro creare quegli strumenti senza i quali le idee dei lumi non potevano riuscire a penetrare nella classe dirigente, più o meno profondamente trasformandola: le nuove università e le società agrarie, le riviste e le case editrici, le commissioni fiscali, giurisdizionali, economiche che altrove affiancarono allora e vennero sostituendo i vecchi organi dell'amministrazione. Così i riformatori rimasero spesso degli isolati o finirono per accettare e farsi apologeti delle lente e parziali riforme degli stati in cui vivevano. Il loro peso politico fu minore, meno ampio il raggio della loro azione. Seg-.:ire questi riformatori dell'Italia più antica nei loro sforzi e nelle loro delusioni, nelle loro vicende e nelle loro incertezze è compito appassionante per lo storico, e, indubbiamente, stimolante per chiunque intenda conoscere l'Italia reale alla soglia della nostra età. Per capire il nostro Settecento è altrettanto importante conoscere Beccaria e Filangieri quanto scorgere i riflessi dei lumi sulla repubblica di San Marco, seguire il penetrare lento e difficile delle idee mercantilistiche, liberistiche, fisiocratiche nello Stato pontificio, ritrovare nella Sardegna di Bogino, nella Corsica di Pasquale Paoli e nella Sicilia del viceré Domenico Caracciolo gli elementi essenziali del dibattito riformatore del XVII I secolo, stranamente distorti talvolta, profondamente trasformati sempre, ma vivi e presenti. Alla luce della nuova visione economica e della nuova volontà di riforma, che van rifrangendosi su queste antiche realtà, scopriamo un paesaggio straordinariamente vario e complicato. Proprio perché

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i criteri sono fondamentalmente simili, proprio perché il riformismo illuminista è essenzialmente lo stesso a Milano e a Cagliari, a Macerata e a Modena, a Livorno e a Genova, proprio per questa volontà di coordinazione, di uniformità nei suoi programmi - che appare astratta soltanto agli occhi dei conservatori e dei reazionari -, proprio per questo suo carattere razionale, il moto illuminista fa risaltare in tutta Italia, per contrasto e per opposizione, quale fosse l'impressionante varietà di situazioni, di problemi, di aspirazioni nei vari centri, nei diversi paesi della penisola. Frantumata appare la superficie dell'Italia a chi la guarda con occhio educato dagli enciclopedisti e dagli economisti francesi, spagnoli ed inglesi. Spezzata in mille frammenti che non potevano essere ricomposti se non in una visione generale, in una volontà di pubblica felicità, sola capace di accomunare, in uno sforzo generale, le popolazioni e le situazioni più diverse. L'Italia più arcaica è anche l'Italia più diversa e divisa. È anche, almeno in due suoi centri fondamentali, Venezia e Roma, un'Italia più colta e raffinata, più ricca d'arte, di bellezza, di lusso. Lo splendido tramonto della pittura veneziana, la ricca vita letteraria, l'eleganza dell'esistenza quotidiana rischiano continuamente di nascondere o almeno di coprire di tinte dorate nella serenissima repubblica di San Marco i ben più freddi e limitati raggi della ragione settecentesca che pur vi penetrano. Così, e in proporzione ben maggiore, la tradizione umanistica e classica della Roma settecentesca, coltivata ed esaltata in tutta l'Europa d'allora, rischia di soffocare, persino nel ricordo dei posteri e degli storici, quei piccoli e limitati germi di rinnovamento illuminista che pur non mancano neppure nello stato di Pio VI. La Roma cosmopolita e neoclassica sembra sovrapporsi e far dimenticare la Roma di coloro che poco si interessavano delle ultime scoperte archeologiche e molto della coltivazione dell'Agro romano, che più importante stimavano un nuovo equilibrio tra la capitale e le provincie dell'ultima riviviscenza poetica o pittorica. A Venezia come a Roma gli ultimi, straordinari bagliori della tradizionale civiltà italiana si mescolano e si confondono con i nuovi riflessi illuministi. È compito dello storico tuttavia tenerli accuratamente separati e distinguer nettamente un tramonto, per quanto dorato, dall'alba d'un giorno nuovo, per quanto fredda e nuvolosa. L'esempio primo e più importante d'un simile sovrapporsi d'un mondo tradizionale ad un mondo nuovo, della tenacia e in1mobilità

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di quello e dell'impossibilità di questo di vincerlo e trasformarlo completamente ci è fornito, evidentemente, dalla repubblica di Venezia. Anche là, passata l'età dei grandi intellettuali isolati, dei Maffei, dei Conti, degli Zeno, chiuso il primo Settecento, era cominciata l'opera di critica, di incitamento, di diffusione dei nuovi ideali economici e politici. Malgrado gli ostacoli della censura, degli inquisitori di stato, del chiuso orgoglio della classe dirigente, certo la più esclusiva tra tutte quelle degli antichi stati italiani, malgrado quell'immagine fissa ed immobile d'una Venezia sempre uguale nei secoli, eterna anch'essa nella sua costituzione, così come Roma lo era nella sua funzione di metropoli e di capitale, malgrado tutto, le idee dell'illu1ninismo penetrarono sulla laguna e nelle provincie sottomesse a Venezia. Ben più grande e profonda fu la loro efficacia di quanto non si creda e generalmente non si dica. Gli storici si sono troppo spesso compiaciuti, quando hanno volto lo sguardo alla repubblica di San Marco nell'ultimo secolo della sua esistenza, a variare in mille modi il tema della decadenza, e magari della corruttela. La storia delle idee e degli intellettuali ci dà un altro quadro, ci rivela una diversa e contrastante situazione. Le pagine che Gianfranco Torcellan ha scelto e presentato nella prima parte di questo volume suppongono certo, nello sfondo, la Venezia di Goldoni e di Guardi, di Gozzi e di Tiepolo, ma si muovono su un piano diverso, mettono in luce una diversa realtà. Tanto importante era sottolineare questo contrasto, affermare e provare la presenza dei lumi e dello spirito riformatore nel Settecento veneto che abbiam preferito non suddividere in troppi personaggi la vicenda delle nuove idee e dei loro riflessi sulla laguna, cercando invece di concentrare in pochi uomini, particolarmente caratteristici, e in un numero più largo ed. abbondante di loro pagine e lettere, la contrastata storia dello spirito nuovo anche nello stato di San Marco. Certo sarebbe stato pur possibile dar la parola a uomini come Antonio Zanon, Giuseppe Scola o Francesco Scottoni, o ai rappresentanti della nuova cultura dalmata, così con1e a tanti altri 1ninori e minimi, pur curiosi e significativi. Ma il contrasto tra decadenza e lumi, tra nuove concezioni economiche e la ristrettezza della classe dirigente veneta ci è parso poter più chiaramente risal.. tare invitando ad una più larga ed approfondita conoscenza di un numero limitato di scrittori fondamentali quali Giammaria Ortes, Francesco Griselini, Andrea Memmo, Alberto Fortis.

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Ortes è qui finalmente privato della sua aureola di scrittore sempre incompreso e perpetuamente troppo antico o troppo nuovo per il proprio tempo, sempre ritardatario o precursore, ed è calato di nuovo nella sua età, al passaggio tra il primo e il secondo Settecento e nella sua società, in un mondo cioè in cui la critica illuminista, la volontà razionale, lo spirito matematico - che l'abate veneziano sente profondamente penetrare nell'animo suo, nelle midolla delle sue ossa, a Pisa, a Bologna, negli anni trenta e quaranta - non riescono, malgrado tutto, a svellere e spezzare le tanto pesanti cornici entro le quali egli era vissuto fin da bambino, dove era cresciuto e dove era destinato a restar chiuso, malgrado ogni segreta critica e ogni intimo dubbio. Innanzitutto, la religione, una solida religione tutta sociale e corposamente utilitaria, eppure non meno sentita per questo. E poi, soprattutto, una visione statica e perenne delle umane vicende, che forniva ad Ortes i postulati basilari della sua teoria economica, vera teoria - particolarmente acuta e lucida d'un equilibrio immobile in una società patrizia e contadina, in un mondo dove è negata a priori ogni possibilità di sviluppo economico e in cui perciò ogni cambiamento non può portare che ad una nuova forma d'ingiustizia nei rapporti tra le classi. L'apprendistato dei lumi non aveva fatto che rivelare ad Ortes, con particolare durezza e nettezza, i mali e le contraddizioni della società in cui viveva. Né era piccolo merito, ché egli non era uomo da palliare o nascondere le ombre del quadro. Gettava così l'acuto suo sguardo su fenomeni demografici, sociali, economici che altri suoi contemporanei non erano capaci di guardare con sufficiente fermezza. Uno dei maggiori economisti italiani del Settecento nasceva da una delusione senza ironia, da una disperazione senza rimpianti. Le sue idee economiche sono state spesso interpretate e discusse da Pecchio a Carlo Marx, da Lampertico a Bousquet. Era tempo di conoscere finalmente l'uomo Ortes e di seguirlo nella sua chiusa e schiva attività. Tra lettere e testi, le pagine che seguono renderanno meno misterioso e storicamente più probante il più originale dei pensatori veneti del secondo Settecento. In ben altra atmosfera ci troviamo già con Francesco Griselini. L'ingenua sua fede nei lumi par rovesciare senza difficoltà, quasi naturalmente, quelle pesanti n1ura ideologiche, morali e po litiche entro le quali Ortes era rimasto arroccato. Quasi spontaneamente passiamo con lui dalla tradizione giurisdizionalista, dalla sapiente

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ed appassionata rievocazione delle lotte di Paolo Sarpi alla massoneria, dallv. tradizione geografica ed artistica veneta alla propaganda delle nuove tecniche, alla diffusione capillare, tra nobili di terra ferma e persino tra i contadini, delle nuove arti agricole ed artigiane, così come della nuova mentalità liberistica. Griselini è il miglior esempio e il più significativo della larghezza, della relativa facilità con cui le idee del secolo si diffondono a Venezia e nelle terre della repubblica. La cronaca della sua attività ci conferma che il ritmo del movimento dei lumi è sempre lo stesso, a Venezia come a Milano, che gli anni sessanta sono al di qua e al di là del confine il fiore del nostro illuminismo: il «Giornale d'Italia» ed il «Corrier letterario» di Griselini nascono negli stessi anni ( 1764 e 1765) del cc Caffè» e della diffusione dell'opera di Beccaria. Dieci anni poi di intenso lavoro, in Lombardia così come nella Venezia, ed ecco apparire i limiti, le difficoltà, •diverse da paese a paese, di quest'opera di sapiente divulgazione tecnica e politica. Beccaria, Verri, Carli si trovarono ai posti di comando. Griselini rimase un povero giornalista. La riprova di quanto fossero diverse le due situazioni venne, decisiva, quando Griselini si trasferì a Milano e tentò, senza riuscirvi, malgrado tutti gli appoggi viennesi, di inserirsi in un mondo tanto distante da quello in cui egli aveva operato tutta la sua lunga esistenza. Restavano il cc Giornale d'Italia» e le altre sue imprese editoriali, che costituirono il maggior centro animatore delle società agrarie, non soltanto nel Veneto, ma largamente in tutt'Italia. Eppure la realtà politica della repubblica veneta non era stata scossa in profondità da questa tanto abile e appassionata diffusione della nuova mentalità tecnica ed economica. La figura di Andrea IYiemmo ci spiega forse meglio di ogni altra il perché di questo fallimento. Con lui siamo al cuore della classe dirigente veneziana. Non assistiamo più agli sforzi dei poveri, generosi ed attivi pubblicisti quali il nostro Griselini. Vediamo quel che accadeva all'interno della classe dirigente, siamo al centro della fortezza assediata. Memmo apparteneva, non soltanto per sangue, ma soprattutto per educazione e formazione al più antico e glorioso patriziato di Venezia. La sua carriera politica ricalcò le orme dei suoi antenati e, se si fermò sulla soglia del dogato, lo vide nei più gelosi recessi del governo della repubblica, così come nei più splendidi incarichi di rappresentanza, a Costantinopoli e a Roma. Un nobile di stampo antico, che par sostenere, con garbo e con intel-

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ligenza, una parte che tanti altri hanno recitato prima di lui. Eppure - e proprio questo è importante - un tormento nuovo rode dall'interno quest'uomo e lo porta a tentare di riformare le forme e la sostanza della vita politica alla quale egli partecipa, lo spinge ad abbattere l'intera struttura corporativa della metropoli, e, alla fine della sua vita, lo conduce a lottare contro la spaventosa miseria in cui versa l'ultimo lembo dell'impero veneziano, la Dalmazia. Le idee nuove gli erano state suggerite da quello strano e socratico personaggio del Lodoli, che dell'architettura si era servito come d'un modello per sottoporre al criterio della ragione e dell'utilità non soltanto i palazzi, le strade, le città, ma l'intera struttura dell'umana convivenza. Le idee di Lodoli avevano continuato a fermentare nell'animo di Memmo anche in mezzo alle distrazioni e alle pompe della vita pubblica, dando ad essa un senso nuovo ed ispirando programmi e piani che hanno strappato l'ammirazione di Luigi Einaudi. Eppure, anche qui, come per Ortes, come per Griselini, anche se per ognuno su di un piano diverso e distinto, la tradizione non era vinta e continuava ad imporre, attraverso lo scetticismo, attraverso la sorridente o scorata sfiducia, la sua immutabile presenza. La vita di Andrea Memmo dimostra fino a che punto una parte almeno della nobiltà veneta fosse persuasa e penetrata dalle idee del riformismo illuminista, così come ci indica quali fossero le strettoie e le difficoltà che essa non era in grado di superare e di vincere. Mano mano che studieremo più da vicino le crisi interne della classe dirigente veneta del secondo Settecento vedremo che non eran soltanto piccoli interessi di gruppo, di famiglia ad animar questi uomini: l'idea di riforma era anche in loro più attiva di quanto non si sia detto e creduto. Quel che mancava loro era uno strumento politico e sociale capace di inserirla nei fatti. Non restava dunque altro che rifugiarsi nell'arte, nella natura o nell'ansiosa scoperta di mondi diversi e nuovi, o ancora nella ricerca d'una indipendenza tutta individuale e personale, al di là di ogni vincolo locale e politico? Lo spirito d'avventura non mancò davvero nella Venezia settecentesca e Casanova è il troppo noto esempio d'una simile evasione. Ma esistette - e merita, ben più di Casanova, d'esser sempre meglio conosciuta - anche un'altra faccia di questa avventura, quella che ricongiungeva l'insofferenza di questi veneti coll'ironia illuminista di Voltaire e di Sterne, che univa la volontà d'esplorazione alla scoperta dell'Europa balcanica - tanto

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vicina e tanto lontana insieme dalla repubblica di Venezia-, che saldava insieme la passione per la cosmopolitica scienza naturale e la sistematica ricerca, praticamente indirizzata ed economicamente ispirata, delle miniere, 9elle terre, dei fiumi dell'Italia. Alberto Fortis è la più ricca incarnazione di questi diversi elementi ed è, proprio per questo, forse la più vivida delle figure del secolo dei lumi a Venezia. Sfugge talvolta ai più gravi contrasti della sua età, non ha davvero la logica di Ortes, l'artigianale ingenuità di Griselini, l'intimo pathos di Memmo. La sua libertà egli la conquista, spesso, rifiutandosi di risolvere i problemi più complicati della sua personalità e della sua epoca. Eppure la sua è libertà preziosa e fruttifera, che lo porta a scoprire il mondo storico e naturale della Dalmazia, a conoscere il mezzogiorno d'Italia meglio d'ogni altro connazionale veneto, a creare alcune tra le migliori riviste di quegli anni, l'(( Europa letteraria)),« Il Genio d'Europa», ad amare con eleganza e a pensare con lucidità e, finalmente, proprio alla fine del suo secolo e della sua esistenza, ad abbandonare Venezia in un'ultima curiosa avventura al di là delle Alpi, verso la Francia rivoluzionaria. Alberto Fortis è il Paolo Frisi, il Giovanni Fabbroni, il Domenico Cirillo della Venezia settecentesca. Ma la sua vita, in ogni sua fase, ci permette di misurare con precisione tutta la distanza che separava, anche nel più libero mondo degli intellettuali illuministi, la Lombardia, la Toscana, il Napoletano dalla repubblica di San l\i1arco. ì\tlondo ben altrimenti chiuso e compatto quello dell'altra maggiore antica repubblica italiana, della Genova settecentesca, anch'essa nell'ultimo cinquantennio della propria esistenza. Anche qui, è vero, le ricerche più recenti, quelle soprattutto di Salvatore Rotta, ci hanno dimostrato che il piccolo mondo patrizio genovese, così con1e i n1ercanti, gli amministratori degli attivi centri delle due Ri,·iere non erano altrettanto impermeabili quanto si è troppo spesso detto e ripetuto alle nuove idee politiche ed economiche, ai suggerimenti ideali e tecnici del riforn1ismo illuminista. Le due crisi politiche della repubblica di Genova, l'insurrezione del 1746 contro gli Austriaci e la cessione della Corsica alla Francia nel 1768, la tensione stessa, permanente, tra l'aristocrazia ed i sudditi, tanto forte che aveva fatto dire a Gibbon nel 1764 che non conosceva nessun altro paese in cui i governanti «ayent reduit les peuples plus souvent au désespoir et à la révolte », tutta questa situazione della

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Genova settecentesca, soltanto apparentemente immobile, porta i contemporanei alla riflessione, alla lettura dei gran testi illuministi. Trovano a Genova un'eco particolarmente penetrante Montesquieu e Locke ed essi fanno nascere progetti di trasformazione del vetusto apparato statale, inducono a riproporre il problema del rapporto tra la città dominante e le terre a lei sottomesse. Sul piano economico la crisi che minaccia Genova non meno di Venezia porta a riconsiderare le possibilità stesse di uno stato, nato dal commercio e dalla banca, in un,Europa ormai dominata dalle teorie fisiocratiche, porta alla convinzione dell'assoluta necessità di un rinnovamento delle manifatture, e persino dell'agricoltura, fa sorgere la « Società patriottica per le arti e le manifatture» ( 1786) e crea numerosi nuovi centri di iniziativa e di organizzazione. Sul piano ideale, l' enciclopedismo francese conquista alcuni degli uomini più colti ed aperti del patriziato. La versione italiana del Discorso preliminare del gran Dizionario, il manifesto cioè che d' Alembert aveva premesso all' E11dcloped-ia, trova il suo traduttore italiano nella persona del doge di Genova, Agostino Lomellini, dottissimo matematico, pronto a proteggere le idee di Beccaria, a carteggiare animatamente con Paolo Frisi, a riecheggiare in ogni aspetto della sua ricca e coJta vita l'ideale del «vrai philosophe», come lo definì nel 1761 il console francese Regny. Elementi diversi di queste preoccupazioni e di queste curiosità ritroviamo parimenti in altri tra i più rappresentativi aristocratici della repubblica, come Girolamo Durazzo, al quale nel 1773 venne dedicata una traduzione, l'unica dell'Italia settecentesca, del Governo dvi/e di Locke, o Giobatta Grin1aldi che nel 1783, in un Ragionamento teorico-pratico sopra le cagioni, gli abusi e i rimedi della mendidtà, aveva proposto una profonda trasformazione del pesante apparato assistenziale della repubblica. Accanto a loro venne forn1andosi, sia pur lentamente, un ambiente politico e intellettuale che cominciava a confrontare la reatà genovese con le idee degli economisti d'oltre alpe: Paolo Celesia, Giobatta Pini, e poi, finalmente, i giovani che diventeranno giacobini alla fine del secolo. Ma questi fermenti politici, queste iniziative economiche, questi echi filosofici non si concretarono tuttavia, sulla costa ligure, in una rivista, in un libro, magari in una pagina, di per se stessa capace di racchiudere l'atmosfera della Genova settecentesca. Lon1ellini va ricercato nelle sue rare lettere. In qualche dispaccio o ancora

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nella sua corrispondenza con Ferdinando Galiani o nei suoi rapporti con Mazzei dobbiamo cogliere il pensiero di Paolo Celesia. Piene d'interesse, ma spesso tecnicamente aride sono le pagine d'uno dei maggiori esponenti del pensiero delle società economiche liguri, Giobatta Pini. Tutti testi più adatti ad una storia che a un'antologia. Né leggendoli bisognerà dimenticare la giusta osservazione di Salvatore Rotta: «l'azione politica governativa risentì assai poco dell'influenza degli illuministi e continuò ad ispirarsi grettamente alle massime tradizionali: lasciò intatti abusi e privilegi e fece sì di conseguenza che il solco tra governanti e governati si scavasse sempre più profondo». Abbiam dunque preferito guardar Genova, per così dire, dai margini, vedendola attraverso il prisma del conflitto con i Còrsi ribelli o attraverso gli occhi d'uno dei personaggi più vivi del moto riforn1atore nel golfo di Genova, di quel Ruffino Massa che, nato a Mentone, nel Principato di Monaco, a Genova fece la sua più importante esperienza giudiziaria e quivi pubblicò l'opera sua principale, Dell'abuso de' litiggi. Dopo un'altra esperienza nella repubblica di Lucca, Massa doveva esser portato dalla rivoluzione francese al centro della vita politica della nuova e ben diversa repubblica dei giacobini e dei girondini, del Direttorio e di Napoleone. La sua lunga vita lo condusse in vecchiaia, nel I 824, a collaborare ancora nell'cc Antologia» di Vieusseux. Ma le radici del suo pensiero politico-utopistico e giuridico insieme stavano nella sua reazione di fronte ai mali, alle piaghe, all'inefficienza e alla disuguaglianza dei vetusti stati e staterelli che si affacciavano sul Tirreno, dal principato monegasco alla sabauda contea di Nizza, alla repubblica di Genova. In questo giovane avvocato sembra rivivere un abate Mably - che non ha da combattere e da condannare l'ineguaglianza e l'immoralità della grande metropoli parigina, della Francia alla vigilia della rivoluzione, ma che ha di fronte a sé le anchilosate forme politiche e sociali dei patriziati e delle plebi mediterranee. Di fronte a queste troppo timido gli era parso il pensiero di Beccaria, e troppo moderato un riformatore che non si rifacesse alle democrazie antiche, alla rousseauiana eguaglianza e condanna delle scienze e delle arti. Il « gran Licurgo » continuò ad illuminare, da lontano e dall'alto, tutto il lungo cammino politico di Massa. Ma si trattava di applicar questo a Genova dove egli era giudice rotale. Così il suo libro Dell'abuso de, litiggi, apparso nel 1785, è uno degli

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esempi più interessanti ai quali ci sia dato assistere del passaggio dall'utopia egualitaria ad una autentica e difficile volontà di riforma democratica. Il seguito della sua vita ci permette di intravvedere lo sviluppo della sua azione a Lucca, in Francia, dove fu deputato della Convenzione, ~ di nuovo in direzione dell'Italia, all'epoca del Direttorio, e ancora nelle tarde discussioni dell'epoca della Restaurazione. Un lungo arco, che nel mondo ligure del Settecento trova il suo punto di partenza. Se dalle antiche repubbliche passiamo ai ducati del Po e del1' Appennino, a Parma e a Piacenza, a Modena e a Reggio, ritroviamo anche là, sia pure in forme differenti e con diversa intensità, il rapporto e contrasto tra la circolazione, la diffusione delle idee illuministiche, che là fu larghissima, e la loro effettiva capacità di penetrare nell'intimo delle cose e degli uomini. L'esempio di Parma è anzi particolarmente caratteristico. Punto di innesto diretto delle idee francesi quando, negli anni sessanta, vi soggiornavano ed operavano Du Tillot, Condillac, Millot, Deleyre, Keralio, capitale dello spirito illuminista quando il conflitto con la Curia romana, i progetti di una nuova università e di un mutato sistema finanziario sembravano farne un lucido ed elegante modellino di piccolo stato riforn1atore, il ducato di Parma non vede sorgere un gruppo locale di uomini capace di riprendere questa esperienza e di continuarla anche al di là delle vicende dinastiche ed internazionali che, fin dal 1771, avevano disperso e allontanato, o chiuso nel silenzio, il brillante gruppo di immigrati dalla Francia e dalle altre regioni italiane che vi si erano trovati un momento riuniti. Né i neoclassici caratteri di Bodoni potevano davvero sostituire ormai un ideale che si era tanto rapidamente svaporato. Né i versi di l\1azza e di Frugoni riuscirono a nascondere il vuoto che le dissipate idee illuministiche avevano creato. Non ci siam sentiti invero, a sostituire queste lacune, d'introdurre qualche pagina dell'amico di Rousseau e di Didcrot, d' Alexandre Deleyre, che, nelle sue corrispondenze alla evolversi dell'economia padana fanno di lui una delle più perfette incarnazioni del grande amministratore illuminato. La maturità della situazione in mezzo alla quale egli visse è dimostrata dalla naturalezza con cui questo ministro di Ercole III si tramutò nel ministro delle finanze di Napo leone e della Cisalpina. Da Parma a Modena, scendendo lungo la pianura padana, avremmo potuto, a metà del XVIII secolo, cogliere rapidamente, nel paesaggio e negli uomini, quanto profonda fosse la differenza che separava gli stati e i regimi che si eran contesi nel passato e che ora tranquillamente si dividevano quelle terre. Le legazioni di Bologna e di Ferrara ci avrebbero messi a diretto contatto con lo Stato pontificio, e proprio nella sua più visibile e tipica manifestazione, d'esser cioè un manto pesante ed antiquato sovrapposto a non meno vetuste strutture comunali e signorili. Gli studi recenti di Luigi Dal Pane, di Renato Zangheri, di Carlo Poni ci hanno fatto conoscere i problemi economici e politici delle legazioni in modo particolarmente approfondito. Anche in quelle terre la vicenda delle riforme è viva, malgrado la soffocante e scettica oppressione del mondo papalino. La storia di quelle regioni, pur così differenziate e individuali, ci guadagnerebbe ad esser sempre più osservata nel quadro generale dello Stato pontificio, all'epoca di Benedetto XIV, Clemente XII, Clemente XIV e, soprattutto, di Pio VI, i papi cioè dell'età delle riforme, dal 1740 alla fine del secolo. Contrariamente a quello che generalmente si crede l'idea che lo Stato pontificio fosse peggio governato degli stati barbareschi e che il pontefice fosse più negligente amministratore delle proprie terre del bey di Tunisi e di Algeri non nacque all'epoca del Risorgimento, ma si trova già espressa nel 1793 in un libro di Giuseppe Gorani. Certo lo Stato pontificio era il peggio governato tra quanti si eran venuti formando nella penisola italiana. Non si era atteso il Settecento per accorgersene, ché era cosa sospettata o risaputa da

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molto tempo. Ciò che fece il secolo dei lumi fu mutare radicalmente la diagnosi. I protestanti avevano indicato ragioni religiose e morali. La ragion di stato aveva sottolineato le debolezze d'una monarchia elettiva, d'un sovrano perpetuamente vecchio e continuamente distratto dagli affari di questo mondo. Gli illuministi lasciarono che i giansenisti continuassero a combattere contro la corruttela e la decadenza religiosa e morale, che gli anticurialisti togliessero a poco a poco il terreno sotto i piedi del papato, impedendo che il denaro continuasse a giungere copioso a Roma, e cominciarono ad esaminare con gli occhi degli economisti la penosa realtà della città e delle campagne pontificie. Una vera inchiesta àndò svolgendosi, né preordinata, né organizzata, ma non meno vivace per questo. Le opere loro finiscono, nell'assieme, col darci un quadro realistico della situazione. Roma col suo lusso e la sua miseria, coi suoi privilegi e con la sua vita parassitaria, urbanisticamente inadeguata agli ideali del secolo, Roma fu elemento primo ed essenziale di questo viaggio di scoperta in casa propria. Intorno, l'Agro romano, il più penoso ed immediato dei problemi economici dello Stato pontificio, regno com'era delle febbri, teatro della lotta tra popolazioni di montagna ed abitanti delle pianure, della pastorizia e della agricoltura, del latifondo e delle aspirazioni ad una ridistribuzione della terra. Tutt'intorno, le province, tanto diverse tra loro, costituivano un disordinato campionario dell'Italia meridionale, centrale e padana, a malapena tenuto insieme da strade pessime e spesso intransitabili. Province continuamente gravitanti verso gli stati limitrofi, il Napoletano, la Lombardia, il Veneto. Mosaico di amministrazioni privilegiate, l'una diversa dall'altra, e l'una più povera ed indebitata dell'altra. Ai confini, fino al 1786, non un sistema doganale coerente. Al centro, un bilancio miserevole, specchio d'una evidente incapacità e debolezza dello stato. Sulle coste, un porto in sviluppo, Ancona, ed un porto in crisi, Civitavecchia. La riscoperta dello Stato pontificio era ricca di sorprese e di dolorose constatazioni. L'inchiesta non venne generalmente compiuta, contrariamente a quanto avveniva negli altri stati italiani, da elementi nati e cresciuti sul posto. Furono, con qualche eccezione, «stranieri» gli uomini che, partendo dai più diversi punti di vista, dall'architettura e dall'archeologia, dal diritto e dall'economia, giunsero a toccare il nocciolo della realtà politica e sociale dello Stato pontificio.

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Carlantonio Pilati era trentino, Ridolfino Venuti era toscano, Ange Goudar era francese, Francesco Cacherano di Bricherasio era piemontese, Paolo Vergani lombardo, Nicola Corona napoletano, e si potrebbe facilmente allungare questa lista. Certo è possibile contrapporre Lione Pascoli, Luigi Riccomanni, il cardinal Buoncompagni. Ma la visione d'assieme non cambia: la scoperta settecentesca dello Stato pontificio è dominata dall'apporto di uomini che giungono a Roma con la mentalità che si erano formati nei grandi centri del pensiero riformatore, presso la cattedra di Genovesi, all'Università di Pisa, nell'amministrazione di Bogino, nella Milano di Beccaria e di Verri, o, magari, in Francia. Non abbiamo esitato dunque a dar la parola a uomini di terre lontane da quelle romane. Ciò che conta non è evidentemente la loro origine, ma quello che essi hanno da dirci sulla società pontificia. Ciò non deve tuttavia portare alla conclusione che non esistettero almeno gli elementi d'un moto riformatore anche nelle terre papaline. Fin dagli anni venti Lione Pascoli aveva formulato un programma, un piano che riecheggiò poi per tutto il secolo: mercantilismo, protezionismo, dogane ai confini, alleggerimento o distruzione dei pedaggi interni, libertà d'esportazione, intervento statale per creare finalmente a Roma· e nelle provincie a lei sottomesse una nuova mentalità economica all'altezza dei grandi paesi del primo Settecento, Inghilterra e Olanda, e, più concretamente, Francia e Spagna. Piano che aveva se non altro il merito di partire da zero, di riconoscere apertamente che tutto era da fare nei domini del papa. « Lo stato della Chiesa ... è forse, e senza forse, il più miserabile di tutti gli altri». Nelle campagne lo spettacolo più comune erano « case disabitate e mal ridotte». Nelle città l'attività preferita era il gravoso sfruttamento del contado, soprattutto in forma di usura. Né la coscienza dell'ampiezza del compito, né un mercantilistico appello all'intervento statale era dunque ciò che mancava a Roma. Quel che faceva difetto erano i capitali, erano gli strumenti degli interventi, era la volontà stessa d'agire. Immane era il compito dei riformatori ed esso venne rimandato di decennio in decennio. Venne portato avanti con ritmo secolare, mentre gli altri stati italiani, o almeno alcuni di essi, marciavano al ritmo degli anni. Non bastò la buona volontà di Benedetto XIV, non furono sufficienti gli spaventi della carestia del 1764, non servirono le intenzioni di Pio VI

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di occuparsi di dogane e di porti, di campi e di bonifiche, lasciando ai suoi predecessori la gran disputa tra Gesuiti e giansenisti. Quando finalmente lo Stato pontificio si decise ad una politica mercantilistica, con Fabrizio Ruffo, esso era mezzo secolo in ritardo. In piena atmosfera liberistica e fisiocratica Roma dimostrava la sua insanabile arretratezza quando applicava, e ancora parzialmente, il piano che risaliva a Lione Pascoli e che invano due generazioni avevano tentato di imporre alle autorità ecclesiastiche. Come diceva Francesco Milizia, il più acuto, intelligente ed appassionato uomo dei lumi nella Roma di Pio VI, il Vaticano era specializzato in « progetti lunghi e dispendiosi», che «gli facevano rabbia», che lo rendevano furioso contro ogni manifestazione della pigra, snervante passività del mondo pontificio. Quando era di buon umore si dava alle profezie: _« Felice la nostra vicina posterità che non sarà infastidita né da frati né da monache, e quella un poco più in là non lo sarà neppure da preti». Quando era nostalgico scriveva: ·« Oh Voltaire perché sei morto?». E spesso finiva col disperare d'ogni futuro della cc città presbiteriale », di quella Roma che egli avrebbe voluto mutare profondamente nelle sue case e nell'animo dei suoi abitanti. La traiettoria di Francesco l\llilizia, dall'architettura all'economia politica meglio non potrebbe indicare la via d'uscita che i contemporanei si sforzarono di trovare in mezzo a tante difficoltà. L'esperienza di Francesco Cacherano di Bricherasio potrà dirci quel che incontrò, su questa strada, un uomo esperto e pratico, con gli occhi aperti su tutte le brutture del mondo che era chiamato ad amministrare, pronto a proporre piani di riforma anche quando ben sapeva che non sarebbero stati accettati e che magari, come poi effettivamente avvenne, avrebbero portato alla propria disgrazia e miseria. Ma quel che aveva visto girando per le Marche e la Ciociaria non era sopportabile. Quel che osservò nell'Agro romano lo indusse a scrivere uno dei libri più interessanti del nostro Settecento, in equilibrio con1'è tra una lucida utopia ed un gusto tutto piemontese per il dettaglio della quotidiana amministrazione. Paolo Vergani è tutt'altro carattere, ma proprio per il suo eclettismo ed opportunismo, uniti a non poca intelligenza, ci rivela tutte le interne contraddizioni d'un programma mercantilistico in ritardo, conscio delle proprie ragioni storiche e destinato, ancora al passaggio tra i due secoli, a servire di copertura alle tendenze reaziona-

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rie, sia nella sua apologia del lusso che nella sua polemica antiliberista e antiliberale. Nicola Corona ci dice invece donde vengono alcune delle forze che sboccarono finalmente nella giacobina repubblica romana. Il libro che questi pubblicò nel 1795, con lo pseudonimo di Stefano Laonice, è uno dei documenti più importanti d'una ritardata polemica antimercantilistica ed un'importante testimonianza dei fermenti riformatori più vivaci negli ultimi anni della Roma settecentesca. Tutto era da rifare nello Stato pontificio, dove «tutte le classi pugnano colla miseria», dove cc i capitali non corrispondono ai mestieri», dove le terre erano iniquamente divise, dove il privilegio era la regola di vita. L'avventurosa esistenza di Nicola Corona fu un tentativo di risposta a questi soverchianti problemi. Certo avremmo potuto allargare il cerchio di questi riformatori pontifici ed altri avremmo potuto seguire nel loro ineguale duello con la «grande decadenza», la