La guerra gallica. Testo latino a fronte 8817071420, 9788817071420

Da Plutarco a Bertolt Brecht, tutti si sono confrontati con questo grande classico della nostra cultura, da studiare e d

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La guerra gallica. Testo latino a fronte
 8817071420, 9788817071420

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Caio Giulio Cesare

LA GUERRA GALLICA Introduzione e note di Ettore Barelli Traduzione di Fausto Brindesi Testo latino a fronte

CLASSICI GRECI E LATINI

Proprietà letteraria riservata © 2009 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-58-64896-4 Titolo originale dell’opera: DE BELLO GALLICO Prima edizione digitale 2013

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INTRODUZIONE

GIULIO CESARE (100-44 a.C.)

Giulio Cesare cominciò la sua carriera politica a trent’anni, con la nomina a questore. Piuttosto tardi per un aristocratico. Ma fino ad allora s’era occupato più di studi e di viaggi che di politica. E tuttavia, giovanissimo, aveva mostrato notevole coraggio e indipendenza opponendosi a Silla. Iniziata la carriera, si mosse con azione spesso spregiudicata tra i due partiti, il senatoriale e il democratico (dai confini sempre più incerti nel caos della vita politica ormai sul punto di ridiventare guerra civile), appoggiandosi alle forze popolari con gesti clamorosi, come quando, divenuto edile, rialzò in Campidoglio i trofei di Mario che Silla aveva abbattuto, o come quando, pontefice massimo, osò dichiarare illegale l’azione del senato contro Catilina e i congiurati, alienandosi definitivamente i conservatori, già furiosi con lui per le sue proposte di riesumazione delle rivoluzionarie leggi agrarie dei Gracchi. Gneo Pompeo, intanto, trionfava in Oriente contro Mitridate, conquistava il Ponto, entrava in Gerusalemme e così oltre all’Asia Minore annetteva all’impero anche la Siria. Ritornato a Roma, si vedeva però rifiutato il riconoscimento della sua opera e il pagamento dei veterani, in mezzo a una caterva d’intrighi, sicché la tensione politica era tale che nell’urto e nell’intreccio degli

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interessi ogni azione seria di governo ne restava paralizzata. Bande armate scorrazzavano per Roma, esplodevano ogni giorno violenze intollerabili. Sono gli anni dell’ascesa di Cicerone, gli anni di Clodio, di Catilina e degli scandali. Cesare, o meglio, sua moglie, ne fu coinvolta clamorosamente quando il tribuno Clodio venne scoperto in casa sua, durante una celebrazione religiosa, travestito da donna. In mezzo a questa sorta d’anarchia, Cesare, già pontefice massimo, fu pretore, quindi propretore in Spagna. Era il 62. Ritornato da quella provincia, non gli fu difficile far leva sui risentimenti di Pompeo e le ambizioni del potentissimo Crasso e accordarsi con loro. L’accordo, del 60, fu detto dagli storici Primo triumvirato, ma fu soltanto un’alleanza segreta. È però vero che questi tre uomini, riunendo insieme l’esercito, gli affari e il popolo, riempivano tempestivamente un autentico vuoto di potere. Ormai per Cesare la magistratura suprema era a portata di mano e nel 59 infatti fu console. Neutralizzato il collega Bibulo, in quei pochi mesi fece tutto da solo, varando una quantità di leggi importanti, tra cui finalmente quella agraria, sempre più appoggiandosi ai comizi fino alla demagogia e finendo con l’esautorare del tutto il senato. E brigò per dopo, per quando il mandato consolare sarebbe scaduto. Era morto quell’anno il governatore della Gallia Cisalpina. Secondo la costituzione, il console, al termine della magistratura, otteneva il governo di una provincia e il comando autonomo delle relative legioni. La Cisalpina era minacciata nei confini da orde di Elvezi e in Gallia, al di là delle Alpi, la situazione era scura per il recente ambiguo insediamento di una potente gente germanica, quella degli Svevi, che avevano passato il Reno chiamati da una lite di prìncipi locali e avevano finito per imporsi su tutti. Cesare ottenne quel governo. Nella primavera del 58, proconsole della Cisalpina, della Narbonese e del-

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l’Illiria, con una giurisdizione che si estendeva dall’Istria, attraverso l’Italia settentrionale, fino all’Ebro di Spagna, lasciò Roma, attaccò gli Elvezi con appena due legioni, poi si buttò sui Germani e li cacciò di là dal Reno. Cominciava così la campagna di Gallia, che sarebbe durata sette anni: uno dei punti cardini della storia dell’impero. Durante quei sette anni Cesare fu quasi sempre assente dall’Italia e quasi del tutto da Roma. Dei due triumviri rimasti, Crasso andò a morire in Siria, Pompeo venne pian piano riaccostandosi al senato. Alla fine della campagna ormai gli era nemico e fu tra i due la guerra civile. Cesare la vinse perché ormai l’Italia e le province erano con lui. Ma fu guerra lunga e sanguinosa. Battè i pompeani in Spagna, Pompeo in Grecia, a Farsalo (48). Morto Pompeo in Egitto, ne seguì la guerra alessandrina contro Tolomeo, fratello di Cleopatra. Ma la coalizione pompeiana era ancora potente, e dovette essere battuta con altre due guerre, quella d’Africa, conclusa a Tapso nel 46, e quella nuova di Spagna che si concluse l’anno successivo nella difficile giornata di Munda. Ormai Cesare era solo e padrone. Nominato dittatore a vita, mentre si accingeva a una grandiosa impresa militare contro i Parti d’Oriente, il 15 marzo del 44 fu ucciso da una congiura di senatori. IMPORTANZA DELLA GUERRA GALLICA

La sua impresa più eccezionale e determinante fu la guerra di Gallia. Essa ebbe innanzi tutto un effetto immediato fin dal secondo anno della campagna, liberando l’Italia dall’incubo delle orde del nord. E, dietro quello, due altri effetti di immensa portata storica: primo, separò l’elemento celtico da quello germanico proprio nel momento in cui l’insediamento degli Svevi nelle regioni più fertili della Gallia tendeva a fonderli in-

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sieme; secondo, spostò l’asse della politica espansionistica di Roma dall’Oriente all’Occidente avviando la romanizzazione delle ricche terre tra i Pirenei, l’oceano e il Reno. Con molta probabilità Cesare non ebbe coscienza di tutto questo per almeno il primo anno della campagna, iniziata con poche forze e con scarsa conoscenza dei problemi del paese. Ma poi, all’improvviso, la sua azione comincia a rivelare un disegno più vasto e un impegno ben più ostinato: alla fine del secondo anno, infatti, dichiara la Gallia provincia romana, nonostante sia ancor tutta percorsa dalla ribellione; all’inizio del terzo, pretende dai colleghi Pompeo e Crasso, nel convegno di Lucca del 56, il prolungamento del suo governo per ancora cinque anni; nel quarto, passa il Reno e sbarca addirittura in Britannia. L’anno successivo, mentre a Roma la situazione politica si fa per lui disastrosa, egli è tutto impegnato a ripassare la Manica per la seconda volta con una grande flotta e a battere i Britanni sul Tamigi. Nell’inverno tra il quinto e il sesto anno, rinuncia persino a venire in Italia e le sue legioni sono costrette a percorrere il paese in lungo e in largo in mezzo alla neve. Il primitivo disegno di una campagna limitata a rassicurare i confini della Cisalpina s’è ormai evidentemente allargato alla sistemazione romana del cuore dell’Europa. Quando Cesare avrà disperso l’ultima e più terribile coalizione gallica, la Provincia Transalpina sarà un fatto compiuto e definitivo: i suoi effetti allungarono probabilmente la storia romana di quattro secoli e perdurano ancor oggi nel carattere latino della nazione francese. CESARE SCRITTORE

Parlando di Cesare scrittore della guerra di Gallia, è pressoché d’obbligo citare l’elogio che ne fa Cicerone

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nel Bruto: «Questi libri sono nudi, schietti (recti), affascinanti (venusti), spogli di ogni retorica come una persona della veste. Cesare volle fornir materia a chi intendesse scrivere di storia; ma fece cosa grata, se mai, agli sciocchi che vorranno aggiungervi i riccioli; ma alle persone assennate tolse la voglia di scrivere». Giudizio che riprende quanto Aulo Irzio, accingendosi a scrivere il libro VIII per completare la narrazione della campagna lasciata da Cesare sospesa al settimo, aveva già detto con parole non molto diverse (VIII, Prefazione). Questi libri erano stati concepiti come commentarii (cioè come raccolta di appunti o diario di guerra) e sono effettivamente asciutti e densi di cose, ma non aridi; anzi, memorabili per eleganza, per forza espressiva, per equilibrata varietà di contenuti: narrazioni avvincenti di battaglie si alternano con pagine sottili di diplomazia politica; descrizioni etnografiche preziose con robusti discorsi secondo la più calcolata eloquenza attica; lucide analisi psicologiche con pagine tecniche giustamente ritenute esemplari. E sempre con quello stile da gran signore, che non concede nulla alla platea e tiene in pugno il suo discorso come le sue legioni. L’espediente di narrare in terza persona accresce l’effetto straordinario dell’imperturbabilità dello scrittore, che si può permettere di narrare un fatto personale di eroismo o quello di un proprio centurione con lo stesso sereno distacco con cui annuncia la strage dei Nervi o la vendita all’asta degli Aduatuci o la resa di Vercingetorige al culmine di una delle imprese più strepitose d’ogni tempo: non una parola di commento, non una esclamazione di orgoglio; e tuttavia, sotterraneo, appena percettibile ma continuo, il fremito trattenuto di una commozione profonda: quella di chi ha precisa coscienza del peso formidabile della sua avventura e della pagina che degnamente e abilmente la tramanda alla posterità. Va però avvertito che se i fatti sono in gran parte at-

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tendibili (non conosciamo che scarse e vaghe confutazioni di contemporanei alla sostanza di queste pagine), è altrettanto vero che l’opera, scritta come relazione al senato, all’opinione pubblica e ai lettori futuri, è condotta con un preciso intento di giustificazione. Cesare vi appare trascinato da imprescindibili ragioni politiche e militari di difesa della Provincia dalle minacce sui confini, e vuol farci credere che non poteva agire diversamente e che una volta messo mano in quel ginepraio, che era la situazione della Gallia, non poteva non andare fino in fondo a metter ordine a modo suo. E la sua azione, che si prestava a critiche serie, è abilmente tutta fondata su alcuni punti fermi, che erano quelli della tradizionale politica romana e che egli ripropone ogni momento: la fede nelle alleanze, la protezione dei popoli amici, la dignità di Roma; valori e miti molto cari all’oligarchia senatoriale e di grosso effetto sulle masse popolari dei suoi comizi. In nome di essi (e alla dignità di Roma aggiunge esplicitamente anche la propria), molto gli è lecito e tutto è necessario: la più generosa clemenza verso i popoli disponibili all’integrazione romana, la più spietata repressione di quelli che si ribellano. Bene e male che sempre appaiono suggeriti da precise motivazioni politiche o militari, nell’ambito dei superiori interessi dell’impero (e propri). A questo intento, si aggiunga quello di chi scriveva alla vigilia di una inevitabile guerra civile. Agli avversari politici, i commentarii proponevano la figura di un uomo di guerra di eccezione, capace di osare le imprese più disperate e di portarle ostinatamente fino in fondo. Irzio assicura (VIII, Prefazione) che questi libri furono dettati con grande facilità e celerità (facile atque celeriter); e tuttavia non c’è capitolo che non si muova nel giro netto e concluso della sua forma perfetta; bisogna allora concludere che nessun altro scrittore di storie, responsabile diretto dei fatti narrati, ebbe mai così lucida

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coscienza della sua materia, così geniale «discrezione», cioè capacità di scelta e misura. LA GALLIA

Per intendere il primo capitolo del primo libro, dove Cesare descrive la Gallia, che divide rispettivamente tra i Belgi, i Celti e gli Aquitani, bisogna tenere presente che la cartografia approssimativa del tempo vedeva i Pirenei orientati non come sono nella realtà, cioè distesi da est a ovest, lungo l’arco tra il 42° e il 43° parallelo, ma sensibilmente orientati verso nord, da sud a nord-nordovest. È questo il motivo per cui Cesare afferma (I, 1) che la regione gallica vergit ad septentriones, cioè si stende verso nord, mentre i Belgi spectant in septentrionem et orientem solem, cioè a nord-est, e l’Aquitania, la regione tra la Garonna e i Pirenei, spectat inter occasum solis et septentriones, cioè a nord-ovest, mentre noi diremmo piuttosto a sud. E soprattutto Cesare dà queste indicazioni geografiche guardando alla Gallia dalla Provincia romana, cioè dalla Gallia Narbonese, che si estendeva dall’attuale Barcellona alla Provenza, fino a Nizza e alle Alpi marittime. Fin dai primi capitoli, vengono citati numerosissimi popoli; della maggior parte di essi, le prime notizie storiche ci vengono date da Cesare, che a volte fa semplicemente accenno al loro nome, con l’ubicazione delle loro sedi e delle loro città più importanti, ma in alcuni casi si sofferma con maggiore attenzione a descriverne usi, costumi, caratteri. La storia di alcuni di essi, come dei Germani e soprattutto dei Britanni, comincia proprio dal De bello gallico. Per i Galli in genere sono fondamentali i seguenti passi: – per la loro situazione politica al momento della campagna di Cesare, il cap. 31 del I libro, dove appaiono

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divisi in due grandi fazioni, quella degli Edui e quella dei Sèquani, dominati tuttavia dal recente insediamento dei Germani (gli Svevi di Ariovisto); – per i loro costumi e l’importanza dell’elemento sacerdotale nel tessuto della loro organizzazione sociale, i capitoli dedicati a loro nel libro V (11, 12, 13, 14 e 15); – per il loro carattere volubile e imprevedibile, i passi del libro III ai capp. 8, 10 e 19 e altri ancora (IV, 5 per esempio) nonché quelli che toccano altri loro usi caratteristici (il modo, per esempio, con cui propagano le notizie nel paese al libro VII, 6) o come combattono (VII, 22, 23, 26, per accennare soltanto a forme curiose e insolite, perché naturalmente questo argomento è toccato molto spesso). Un’attenzione particolare è data agli Elvezi, nei primi capitoli del primo libro; ai Belgi nei primi capitoli del secondo; ai Nervi sempre nel secondo; di grande interesse etnografico sono le pagine dedicate ai Germani nel libro VI, dal cap. 21 al 28, in cui vengono raccolte da Cesare molte notizie di prima mano sull’ordinamento sociale di quei popoli al di là del Reno e dicerie meno fondate sul paese e la sua fauna. Degli Svevi in particolare si parla anche nei primi capitoli del libro IV. Un’autentica novità per il mondo romano di allora sono le pagine dedicate ai Britanni, coi quali Cesare era il primo a venire in contatto. Sono al libro V, dal cap. 11 al 14, dove vengono date minuziose notizie sui loro ordinamenti, sui loro costumi, sulla situazione geografica e climatica del paese: si dice come vestivano, come mangiavano, come si dipingevano, come organizzavano la famiglia, come combattevano sui carri, ecc. L’ESERCITO

Per intendere meglio i continui riferimenti del testo all’organizzazione militare romana, riteniamo utile dare

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alcune precisazioni sull’esercito, sull’armamento, sulla tecnica romana delle fortificazioni, come appaiono nel De bello gallico. LA LEGIONE

L’unità strategica dell’esercito romano è la legione, corrispondente, grosso modo, alla divisione degli eserciti moderni. Quella di Cesare è composta di un numero di uomini oscillante da 3000 a 6000, raccolti con leve e volontari, con una ferma militare che può giungere ai vent’anni. All’inizio della campagna, Cesare ne ha cinque, alla fine dieci. A capo della legione, al posto dei tribuni militari nominati con regolari elezioni popolari, Cesare, nella campagna di Gallia, pone dei legati, nominati da lui, che rispondono direttamente a lui solo. Tra i più noti, Tito Labieno, Lucio Pisone, Quinto Titurio Sabino, Lucio Aurunculeio Cotta, Quinto Tullio Cicerone (fratello dell’oratore), Publio Sulpicio Rufo, Publio Crasso. La legione di Cesare è divisa in 10-12 coorti, comandate ciascuna da un tribuno militare. La coorte, che costituisce l’unità tattica della legione, è divisa in sei centurie, comandate ciascuna da un centurione. La centuria, a numero pieno, è di cento uomini. In questo caso la legione tipo risulta composta da 6000 uomini, comandati da 60 centurioni e 10 tribuni, agli ordini di un legato. I centurioni costituiscono l’ossatura dell’esercito; alcuni di loro vengono direttamente nominati: come i due famosi Tito Pullone e Lucio Voreno (V, 44) in gara di valore tra loro, o il «fortissimo» Sestio Baculo, citato ben tre volte (II, 25; III, 5; VI, 38). Unità della cavalleria è l’ala, divisa in 10-12 turmae, o squadroni, di 32 cavalieri ciascuna. In Gallia la cavalleria di Cesare è, in gran parte, di Galli alleati, e varia continuamente di numero. Alla fanteria pesante è affiancata una fanteria legge-

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ra (i veliti) composta di sagittari e frombolieri, con compito di attacco e di disturbo. Fa seguito alla legione un imponente numero di servi, di addetti alle salmerie e ai servizi vari. Nella campagna gallica, ad ogni legione è spesso aggregato un numero non sempre precisato (spesso è persino sottaciuto) ma talvolta indubbiamente molto alto di truppe galliche o persino germaniche (VII, 65). Sono le prime infiltrazioni di elementi germanici nell’esercito romano, che sotto l’impero diverranno la norma. La legione fa corpo a sé e può essere del tutto autosufficiente. Ha come insegna un’aquila d’argento, portata dall’alfiere della prima centuria della prima coorte; l’uomo si distingue per le spalle ricoperte da una pelle d’orso. LE ARMI

Il legionario appartenente alla fanteria pesante è coperto d’elmo e di corazza, di metallo o di cuoio, e di metallo o di cuoio o di legno è lo scudo. È armato di asta lunga, semplice o fornita di corregge di cuoio che permettono di lanciarla con più forza contro il bersaglio (V, 48); ma più spesso, sotto Cesare, impugna il pilum, un sottile giavellotto di circa due metri di lunghezza, reso pesante dalla punta di ferro che ne costituisce quasi la metà. È un’arma micidiale, dotata di grande forza di penetrazione; usata al momento dell’attacco, non solo trapassa uno scudo, ma può raggiungere anche l’uomo che ne sia ricoperto. Per di più è difficile svellerla da dove si sia infitta. Gli Elvezi (I, 25) non riescono a liberarne i loro scudi e sono costretti a sfilarseli dal braccio e a combattere indifesi. A tracolla il legionario porta, appesa al bàlteo (V, 44), o cinturone di cuoio con borchie, il gladio, la corta spada di origine gallica, che gli pende sul fianco destro. È un’arma pesante, con la lama larga a doppio taglio, lun-

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ga non meno di cinquanta centimetri, molto adatta al combattimento ravvicinato di punta e di taglio. I sagittari sono armati di arco e frecce, i frombolieri di fionda; possono scagliare sassi del peso di una libbra (circa mezzo chilo) a notevole distanza e con grande precisione e forza. Cesare ne ha parecchi al suo seguito, reclutati tra i più famosi del Mediterraneo, quelli delle Baleari. Per il lancio di proiettili più pesanti, l’esercito di Cesare usa un certo numero di macchine, chiamate genericamente tormenta, perché la spinta di lancio è ottenuta con la torsione di corde: sono gli onagri, che scagliano grossi sassi, le baliste, per il lancio di frecce e verrettoni, capaci di sfondar porte; di queste macchine Cesare nomina particolarmente lo scorpio, così in uso che non ritiene necessario descriverlo: si tratta comunque di un congegno leggero, facilmente trasportabile, adatto a una campagna di rapidi trasferimenti come quella gallica. Lo scorpione ha grande precisione di tiro e scaglia frecce e giavellotti più pesanti dei normali e forse anche più d’uno alla volta. Queste macchine possono essere utilizzate per quello che oggi diremmo fuoco di sbarramento, sia dalle torri contro gli assalitori del vallo o contro i merli delle fortificazioni nemiche per sguarnirle, sia dalle navi per coprire lo sbarco della fanteria, come sulla costa della Britannia (IV, 25). Durante l’assedio delle città, Cesare innalza torri di tre piani e anche più, mobili su ruote di legno, da accostare alle mura per colpire dall’alto i difensori, e torri innalza anche sulle navi. Alle mura accosta vineae, o tettoie di legno, per poter condurre gli uomini fin sotto le fortificazioni, costruisce gallerie mobili di legno e di graticci, da servire come camminamenti riparati tra una postazione e l’altra, appresta l’ariete, che è una grande trave con la cima rinforzata di bronzo, oscillante a funi sospese, spinte da uomini riparati sotto tettoie. Secondo

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l’antica legge romana, anche Cesare non accetta più la resa degli assediati quando l’ariete abbia dato i primi colpi alle mura (II, 32). Nelle battaglie navali contro i Veneti della Bretagna, la sua marina usa con grande efficacia lunghe falci per tagliare le sartìe delle navi nemiche, che, prive come sono di remi, cadute le vele, vengono immobilizzate (III, 14). Sono falci derivate da quelle cosiddette murarie, già in uso per sguarnire le palizzate nemiche dai difensori o danneggiarne i ripari di legno. FORTIFICAZIONI DIFENSIVE E OFFENSIVE

A chi interessa l’argomento, Cesare offre nel De bello gallico pagine memorabili per numero e minuziosità descrittiva. È proprio da questi libri che si ha per la prima volta l’impressione della gigantesca organizzazione romana. Mentre i barbari sono soprattutto guerrieri, il contadino italico delle legioni si trasforma ogni giorno in carpentiere e sterratore, non foss’altro per costruirci il campo che non è soltanto riparo, ma anche base d’appoggio e fortezza. Ingegneri militari e specialisti guidano il lavoro dei soldati e dei servi (ma sembra Cesare stesso a progettare ponti e bastioni). Il campo è rettangolare, circondato da un fossato; il materiale di sterro diventa un terrapieno a filo del fossato, con sopra una palizzata. Due strade principali dividono il campo in croce e conducono alle quattro porte; sono quelle che tagliano ancora in croce tante città attuali fondate su antichi accampamenti. Ma le opere difensive e offensive possono essere assai più complesse, sia attorno agli accampamenti, sia intorno alle città assediate e anche sui campi di battaglia. È Cesare che inaugura i grandi sbarramenti contro le emigrazioni periodiche dei barbari. Contro gli Elvezi, in poche settimane fa costruire un muro lungo trenta chi-

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lometri e alto cinque metri (I, 8), con davanti un fossato, e lo punteggia di torri; contro i Belgi, alla vigilia della battaglia campale, si copre i fianchi con due profondi e lunghi fossati (II, 8) muniti di fortini e di macchine da lancio, a delimitare, a proprio vantaggio, il luogo dei combattimento. Contro gli Aduatuci, chiusi in luoghi imprendibili, innalza una gran torre (II, 30) che fa ridere i barbari, perché pensano che i piccoli romani (gli Aduatuci, come Germani e Galli, erano alti e aitanti e disprezzavano i Romani bassi di statura) non riusciranno mai a trascinarla fin sotto le mura; poi la torre si muove sulle ruote e quelli pensano che ci sia la mano degli dèi e si arrendono. I ponti costruiti sul Rodano, sul Reno, sulla Loira, sulla Saona in tempi brevissimi lasciano stupefatti e avviliti Elvezi, Galli e Germani; i due sul Reno, costruiti in dieci giorni (IV, 17 e VI, 9), lasciano stupefatti anche noi. La descrizione delle loro strutture costituisce una delle pagine più note della storia del genio militare. Sulla Manica, Cesare ordina un’intera flotta di oltre seicento navi, concepite di stazza e forma originale, per trasportare l’esercito in Britannia, e per la quale fa venire il materiale necessario addirittura dalla Spagna (V, 1 e 2). Sotto Gergovia, fa distendere camminamenti tra l’accampamento maggiore e quello minore, perfettamente riparati (VII, 79) e nell’assedio di Alesia si chiude, con un mese di tremendo lavoro, in un doppio anello di fortificazioni (VII, 72, 73 e 74) che non ha precedenti. Infatti non si tratta di un’opera consueta (i Romani usavano queste fortificazioni militari già da almeno due secoli, in parte inventate da loro, in parte ereditate dai Greci); questo di Alesia è un originalissimo congegno di guerra tra i più geniali e temerari di ogni tempo. Dopo duemila anni, in Borgogna, dove sorgeva la città, ne avanzano ancora sensibili tracce. A questa formidabile organizzazione, i Galli e i Germani non sanno opporre che il loro numero e il valore

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individuale sempre ad alto livello. Ma quando cercano di imitare i Romani, scavano terra con le mani e la trasportano nei loro mantelli (V, 42); certuni di loro si ricordano di essere bravi minatori e si danno a scavare gallerie sotto le torri e le macchine d’assalto (VII, 22). Arrivano anche a inventare la guerriglia; ma troppo tardi; e soprattutto non riescono a organizzarsi tra loro. IL DOPPIO VALLO DI ALESIA (VII, 72, 73, 74)

Nel settimo anno della guerra, scoppia una rivolta che coinvolge l’intera Gallia. La comanda l’arverno Vercingetorige. Cesare lo batte e lo costringe, con 80.000 uomini, a chiudersi in Alesia, in attesa che l’esercito della coalizione converga verso la città. Cesare non può contare che su poco più di 30.000 legionari e tra poco avrà addosso due o trecentomila Galli. Attua allora un piano arditissimo: blocca i difensori della città, scavando tra sé e loro un primo fossato interno, ad anello, di sei metri di profondità e larghezza, a pareti verticali; dietro il fossato, a oltre cento metri di distanza, fa scavare altri due fossati paralleli, profondi e larghi quattro metri e mezzo e nel più interno dei due devìa il fiume vicino. Dietro, alza terrapieni e palizzate di oltre tre metri e mezzo di altezza, con parapetti, merli e pali forcuti e protesi in fuori, i cosiddetti cervi, che sporgono come corna ramose. A ogni venticinque metri, una torre, per colpire dall’alto chi tenti di muoversi tra i cervi della palizzata: dall’alto, da lontano e in piena sicurezza. (Appare così chiaramente come Cesare avesse un concetto molto moderno dell’utilizzazione di ogni singolo uomo: i legionari per lui non sono affatto «carne da cannone»; ai fini bellici sono troppo preziosi e più volte annota di aver massacrato migliaia di nemici senza aver perduto neppure uno dei suoi). Quindi, tra i fossati, fa scavar buche di un metro e

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mezzo di profondità e vi pianta pali ramificati che lega insieme perché non possano essere svelti dal terreno: cinque file parallele che noi potremmo chiamare di cavalli di Frisia; le ramificazioni poi sono appuntite e intrecciate tra loro, e hanno anche un nome tecnico e lugubre: cippi, come quelli sepolcrali. Davanti a queste cinque barriere di spuntoni, scava una fitta serie di bocche di lupo, otto file a un metro di distanza l’una dall’altra, vere trappole di un metro di profondità, con pali aguzzi nel fondo e mascherature di graticci, che i soldati chiamano gigli perché sembrano fiori col loro pistillo; e le dispone come sono disposti in un dado i punti del cinque: una sorta di campo minato pericoloso di giorno e insuperabile di notte. E così paralizza i difensori di Alesia, quelli di dentro. Ma da tutta la Gallia stanno premendo trecentomila uomini, che ora perdono tempo a mettersi d’accordo, ma da un momento all’altro potrebbero piombargli alle spalle. E allora fa compiere ai suoi un dietro-front e ripete le stesse fortificazioni verso l’esterno: i tre fossati, le cinque file di alberi, le otto file di bocche di lupo, le palizzate e le torri; la linea esterna s’allunga al punto da raggiungere alla fine i venti chilometri. Tra i due colossali sbarramenti, si chiude con trentamila legionari e grano per un mese. Quando il doppio assalto comincia, riduce alla fame gli ottantamila di Alesia e stronca e poi disperde con le armi e la diplomazia la coalizione gallica esterna. Vercingetorige è costretto ad arrendersi.

CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE

100 a.C. Caio Giulio Cesare nasce a Roma dall’antica famiglia Giulia. In quello stesso anno fallisce il programma di colonizzazione di C. Mario. 91 Vengono riproposte da Druso le leggi agrarie dei Gracchi e la concessione della cittadinanza agli italici. Scoppia la guerra sociale. 90 Guerra sociale. 89 Legge Plautia Papiria e fine della guerra sociale. Comincia la guerra civile tra Mario e Silla. 88 Prima guerra mitridatica. Silla, privato del comando, marcia su Roma, riprende il potere e parte per l’Oriente. In Asia Minore Mitridate ordina la strage di 80.000 romani. La guerra contro Mitridate si protrae fino all’84. 87 Mario rientra in Roma. Terrore di Mario e di Cinna. 86 Muore Mario durante il suo settimo consolato. 84 Fine della guerra mitridatica e pace di Dardano. 83 Silla a Roma. Vittorie di Silla sui mariani, sui Sanniti e sui Lucani. 83-81 Seconda guerra mitridatica sotto il comando di Licinio Murena.

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82-79 Dittatura di Silla. Gneo Pompeo, vinti i mariani di Sicilia e d’Africa, ottiene il titolo di Magno. 81 Cicerone pronuncia la sua prima orazione (la Pro Quinctio). 80 Cesare viene bandito da Roma per urti con Silla. 79 Silla lascia la dittatura. Cesare ritorna a Roma. 77 Pompeo in Spagna contro Sertorio e i mariani. Cesare pronuncia la prima orazione (contro Cornelio Dolabella). 76 Cesare va a Rodi alla scuola di Apollonio Molone. 74-63 Terza guerra mitridatica sotto il comando di Lucullo. 73 Sollevazione degli schiavi guidati da Spartaco; la rivolta è sedata da Licinio Crasso e Spartaco è ucciso. 71 Pompeo sottomette la Spagna. Distrugge i resti dell’esercito di Spartaco. 70 Cesare questore. Pompeo e Crasso consoli. Cicerone pronuncia le orazioni contro Verre. 68 Lucullo viene richiamato a Roma dall’Oriente. 67 Guerra di Pompeo contro i pirati. 66 Cesare è eletto edile. Rialza in Campidoglio i trofei di Mario abbattuti da Silla. Pompeo prende il comando della guerra contro Mitridate, lo vince sull’Eufrate e sottomette il Ponto. 64 Cesare e Crasso appoggiano inutilmente la candidatura di Catilina al consolato. 63 Cesare pontefice massimo. Cicerone, console, riesce a far cadere una legge agraria proposta dal partito di Cesare. Congiura di Catilina. Cicerone pronuncia le

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Catilinarie. Pompeo conquista la Palestina ed entra a Gerusalemme. 62 Cesare pretore e propretore in Spagna. Morte di Catilina nello scontro di Pistoia. Pompeo ritorna dall’Oriente. 60 Accordo segreto di Pompeo, Crasso e Cesare (il cosiddetto Primo triumvirato). 59 Cesare console. Ottiene per cinque anni il governo delle province della Gallia Cisalpina, dell’Illirico e della Gallia Narbonese (l’attuale Provenza). 58-51 Cesare è impegnato nelle campagne di Gallia.

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58 In primavera, gli Elvezi intendono migrare dalle loro sedi (l’attuale Svizzera) nel territorio dei Sàntoni, tra la Garonna, la Loira e l’Oceano Atlantico. Non potendo passare tra le strette del Giura, chiedono di attraversare la Provincia romana (Provenza). Cesare rifiuta il permesso. Gli Elvezi, in numero di oltre duecentomila, invadono il territorio degli Edui, che chiedono aiuto a Cesare. Primo scontro sul Rodano. Battaglia presso Bibracte e sconfitta degli Elvezi che ritornano decimati nelle loro sedi. Gli Edui chiedono aiuto contro i Germani di Ariovisto. Abboccamento con Ariovisto e scontro campale coi Germani vicino a Vesontione. I Germani in fuga vengono massacrati sul Reno. (De bello gallico, 1. I) 57 Prendono le armi i Belgi. Cesare arruola altre due legioni e inizia la campagna contro di loro. Battaglia sull’Aisne e disfatta dei Belgi. Campagna contro i Nervi, disfatti presso Novioduno. Campagna contro gli

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Aduatici, disfatti e dispersi. (Cesare dichiara la Gallia Transalpina provincia romana.) Il Senato decreta feste di ringraziamento per 15 giorni. (D.b.g., 1. II) 56 (Riconfermato il triumvirato a Lucca.) Terzo anno della guerra gallica. Campagna del legato Servio Galba per rendere sicuro il valico del Gran San Bernardo. Vittoria di Galba a Octoduro. Campagna di Cesare contro i Veneti (in Bretagna) e vittoria navale romana. Felice esito della campagna del legato Q. Titurio Sabino contro i Venelli, sulle coste della Manica (Cotentin). (D.b.g., 1. III) 56 Vittoria del legato Publio Crasso contro i Soziati in Aquitania, tra i Pirenei e la Garonna. Crasso batte anche i Vocati e i Tarusati. 55 (Consolato di Pompeo e Crasso. A Cesare è affidata per altri cinque anni la Gallia, a Pompeo la Spagna e a Crasso la Siria. Muoiono T. Lucrezio Caro, autore del De rerum natura, e Catullo veronese.) In Gallia, campagna di Cesare contro i Germani e costruzione del primo ponte sul Reno, vicino a Colonia. Breve scorreria in Germania. Verso la fine d’agosto, primo sbarco in Britannia, ostacolato dalle maree. (D.b.g., 1. IV) 54 Pacificata la Gallia, seconda spedizione in Britannia. Battaglia sul Tamigi contro Cassivellauno. Rinascono in Gallia focolai di ribellione. I legati Titurio Sabino e Aurunculeio Cotta cadono in una imboscata degli Eburoni, guidati da Ambiorige, tra la Mosa e il Reno. I due legati sono uccisi e la loro legione è massacrata. I legati Q. Tullio Cicerone (fratello dell’oratore) e T. Labieno, assaliti dagli Eburoni e dai Treveri, salvano le legioni con l’aiuto di Cesare e disperdono gli avversari. Cesare è costretto a passare l’inverno in Gallia per fronteggiare una situazione sempre instabile. (D.b.g., 1. V; Cesare scrive il De Analogia.)

CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE

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53 (Il triumviro Crasso è sconfitto in Siria a Carre e ucciso dai Parti.) Campagna punitiva di Cesare contro gli Eburoni e i Germani. Costruzione di un secondo ponte sul Reno. Strage degli Eburoni. (D. b.g., 1. VI) 52 (A Roma viene ucciso il tribuno Clodio. Cicerone pronuncia la Pro Milone. Pompeo è nominato console senza collega.) Rivolta generale della Gallia guidata dall’arverno Vercingetorige. Espugnazione di Vallaunoduno e di Cenabo (Orléans) nel territorio dei Senoni. Cenabo è saccheggiata. Assedio di Avarico (Bourges) nel territorio dei Biturigi. Presa e saccheggio di Avarico. Attacco a Gergovia e abbandono dell’assedio. Alla rivolta si uniscono gli Edui. Assedio di Vercingetorige in Alesia. Disfatta della coalizione gallica e resa di Vercingetorige. Cesare scrive il De bello gallico. (D.b.g., 1. VII) 51 Ultima campagna in Gallia e definitiva sottomissione del paese. A Roma il senato intima a Cesare di sciogliere l’esercito. (D.b.g., 1. VIII) 49-46 Guerra civile tra Cesare, Pompeo e i pompeiani. 49 In gennaio il senato dà a Pompeo l’incarico di difendere la Repubblica. Cesare passa il Rubicone in armi e conquista Roma e l’Italia. Pompeo fugge a Brindisi e si rifugia in Grecia. Cesare piomba in Spagna contro i pompeiani. Attraversa l’Adriatico e passa in Epiro. 48 Cesare sconfigge Pompeo a Farsalo. Pompeo fugge in Egitto dove è ucciso da Tolomeo. Cesare in Egitto. 47 Guerra alessandrina contro Tolomeo d’Egitto. Incendio della biblioteca di Alessandria. Morto Tolomeo, Cesare pone Cleopatra sul trono. Vittoria di Cesare su Farnace del Ponto (ne riferisce all’amico Amanzio con la celebre brevissima lettera: Veni vidi

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vici). Rientra a Roma, riparte per l’Africa contro i pompeani. 46 Vittoria di Tapso in Africa contro i pompeiani. Catone si uccide a Utica. Cesare ritorna a Roma, ottiene il trionfo e la dittatura. Scrive il Bellum civile. 45 Cesare vince a Munda di Spagna gli ultimi pompeiani. È nominato dittatore a vita col titolo perpetuo di imperator. Romanizzazione delle province attraverso nuove colonie e l’estensione del diritto di cittadinanza. Riorganizzazione dei Municipi italici. Riforma del calendario con l’istituzione del Calendario giuliano. Si inizia a Roma la costruzione del Foro giulio e della Basilica giulia. 44 Cesare rifiuta nel febbraio la corona di re offertagli da Marco Antonio. Il 15 di marzo viene ucciso dai congiurati capeggiati da Bruto e Cassio. Marco Antonio pronuncia l’orazione funebre. Nel testamento Cesare indica come erede Giulio Cesare Ottaviano (il futuro Augusto) figlio di una sua nipote (figlia di una sua sorella). 44-43 Guerra civile tra Marco Antonio e Bruto, insieme al quale è anche Ottaviano. Ma nel novembre del 43 Marco Antonio e Ottaviano si accordano e formano con Lepido il Secondo triumvirato. Pubblicano le liste di proscrizione e fanno massacrare centotrenta senatori e oltre duemila cavalieri. Tra le vittime è Cicerone che ha appena finito di scrivere il De Officiis. 42 Antonio e Ottaviano battono Bruto e Cassio a Filippi. I due ex congiurati si uccidono. 40 I triumviri si dividono l’impero: Antonio va in Oriente, Lepido in Africa, Ottaviano resta a Roma. 31 Battaglia di Azio e suicidio di Antonio. Ottaviano (già estromesso Lepido fin dal 36) resta solo al potere.

GIUDIZI CRITICI

Tutto il tempo ch’egli impiegò in quella guerra e le varie spedizioni militari che gli valsero la conquista della regione, lo rivelarono guerriero e condottiero a nessuno inferiore degli uomini più ammirati e più grandi per capacità militari: fu come se allora egli avesse adottato un’altra linea di condotta e, con un diverso comportamento, si fosse imposto un nuovo metodo di vita. Se si confrontassero con lui, per ogni genere di virtù militari, i Fabii, gli Scipioni, i Metelli o quelli dell’età sua o di poco anteriori, Silla, Mario, i due Luculli o anche lo stesso Pompeo, la cui fama allora era giunta fino alle stelle, Cesare sarebbe certo superiore a ognuno di loro per la difficoltà dei luoghi in cui combatté, per la vastità delle regioni conquistate, per il numero e il valore dei nemici che sconfisse, per la stravaganza e la ferocia dei costumi delle genti che riuscì a conciliarsi, per l’equità e la clemenza verso i vinti e per la larga generosità verso i suoi soldati; certo fu superiore a tutti per aver combattuto un maggior numero di battaglie e per aver conseguito il maggior numero di vittorie. In meno di dieci anni di guerra per la conquista della Gallia, prese più di ottocento città, sottomise trecento popoli diversi, combatté contro tre milioni di uomini: un milione ne uccise e altrettanti ne catturò. (Plutarco, Biografie parallele: Biografia di Giulio Cesare)

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Il De bello gallico dovrebbe essere il breviario di ogni uomo di guerra, essendo Cesare il vero e sovrano padrone dell’arte militare. Dio sol sa poi di quale bellezza egli abbia cosparso questa ricca materia, di quale stile così puro, così raffinato e perfetto che a mio gusto non vi è alcuno scritto al mondo, in questo genere, che possa essere paragonato al suo. (Michel Eyquem de Montaigne, Essais) Gli uomini comuni vedono i frutti della loro opera; il seme sparso da uomini di genio, invece, cresce lentamente. Passarono secoli prima che si comprendesse che Alessandro non aveva soltanto creato un regno effimero in Oriente, ma che aveva introdotto in Asia l’ellenismo; altri secoli passarono prima di comprendere che Cesare non aveva soltanto acquistato pei Romani una nuova provincia, ma che aveva fondata la romanizzazione delle province occidentali... Questo ampliamento dell’orizzonte storico oltre le Alpi, fu un avvenimento della stessa importanza storico-universale dell’esplorazione dell’America da parte degli europei. Al circolo ristretto degli Stati bagnati dal Mediterraneo si aggiunsero i popoli dell’Europa centrale e settentrionale, gli abitanti delle rive del Baltico e del mare del Nord; al vecchio mondo se ne aggiunse uno nuovo, e il vecchio e il nuovo da allora in poi entrarono a formare un corpo solo esercitando l’uno sull’altro un’intima influenza... È opera di Cesare, quindi, se, dalla passata grandezza dell’Ellade e dell’Italia, un ponte conduce all’edificio più magnifico della moderna storia del mondo, se l’Europa occidentale è diventata romana, se l’Europa germanica è divenuta classica, se Omero e Sofocle non si limitano, come fanno i Veda e i Calidasa, ad attirare il botanico della letteratura, ma fioriscono per noi nel proprio giardino. E se la creazione del suo grande predecessore Alessandro in Oriente fu quasi interamente distrutta

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dall’infuriare delle tempeste del Medioevo, quella di Cesare è durata oltre le migliaia d’anni che hanno cambiato religione e stato al genere umano e che hanno mutato persino il centro di gravitazione della civiltà... (Theodor Mommsen, Storia di Roma) D’un tratto le nebbie si diradarono. Per un momento l’isola apparve alla piena luce del giorno storico. In sé, l’invasione della Britannia ad opera di Giulio Cesare fu un episodio rimasto senza seguito, ma dimostrò che la potenza di Roma e la civiltà del mondo mediterraneo non erano necessariamente vincolate alla costa atlantica. Lo sbarco di Cesare gettò un ponte sul taglio scavato dalla natura... (Winston Churchill, Storia dei popoli di lingua inglese) Cesare ebbe lo stile elegantissimo e preciso. La grande lucidità della prosa di Cesare deriva dalla grande lucidità del suo pensiero. Nessuno scrittore ebbe forse mai altrettanto chiara e distinta l’idea che si disponeva a significare. Sua massima cura è nella scelta dei vocaboli, che siano puri e propri e ricavati dall’uso... Il periodo di Cesare è quello di un rapido e preciso espositore che ha da render conto semplicemente delle cose avvenute. Quando la cosa è detta il periodo è finito... Lo stile di questo grande stratega è fuori della strategia stilistica: sia di quella che inquadra e organizza le parole, sia di quella che volutamente le scompone e le disorganizza: è tanto lontano dalla concinnitas ciceroniana quanto dall’abruptum genus di Sallustio. La prosa di Cesare ha l’eleganza perfetta e trasparente di una vera opera d’arte e nello stesso tempo ha la solenne semplicità del linguaggio imperatorio e ufficiale. I commentari sono veramente gli atti ufficiali della grandezza di Cesare (Concetto Marchesi, Storia della letteratura latina)

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Nell’unica stanza della capanna molto cadente, l’ex legionario di Cesare stava seduto con il suo schiavo vicino al focolare di pietra... «Cosa vuole sapere di lui?» domandò in modo non particolarmente gentile. «Lei è stato con lui nelle Gallie?» ribattei. «Sì, signore» disse «eravamo lì. Tre legioni, signore.» «Lo ha visto da vicino?» «L’ho visto soltanto due volte, in dieci anni. A cinquecento passi la prima volta, a mille passi la seconda» rispose. «La prima volta, se vuole saperlo con esattezza, durante la rivista a Luco, con la conseguenza di quattro ore di esercizi di punizione. La seconda durante l’imbarco per la Bretagna.» «Era molto amato?» domandai. Egli tacque un bel po’, guardandomi incerto. Poi disse: «Dicevano che è in gamba.» «Ma l’uomo semplice aveva fiducia in lui?» «Il rancio non era cattivo. A questo ci badava, dicevano.» «Lei ha fatto anche la guerra civile?» «Signor sì, con Pompeo.» «Come mai?» «Facevo parte della legione che si era fatta prestare da Pompeo. La restituì prima che scoppiasse la guerra civile.» «Ah, ho capito» dissi... Mi alzai, perché volevo andare ancora da Mumlio Spicro. «Ma che aspetto aveva Cesare?» Egli ci pensò un poco, poi disse indeciso: «Sciupato». (Bertolt Brecht, Gli affari del signor Giulio Cesare)

LA TRADIZIONE DEL TESTO

L’opera di Giulio Cesare fu molto letta durante il Medioevo; ne fanno fede i numerosi codici rimasti. Su questi manoscritti tuttavia gravò a lungo un equivoco piuttosto insolito: fin dal V secolo, Paolo Orosio, lo storico cristiano della fortunata Storia contro i pagani, citando passi di Cesare li attribuiva a Svetonio, tratto in inganno, probabilmente, dal fatto che Cesare aveva scritto in terza persona. Nello stesso errore cadde Sidonio Apollinare, scrittore e vescovo lionese anch’egli del V secolo. Intorno all’anno Mille si cominciò invece ad attribuire il corpus caesarianum a un Giulio Celso Costantino, revisore del Bellum gallicum, e i Commentarii furono attribuiti a Giulio Celso fin verso la fine del Trecento (quindi anche dal Petrarca) quando finalmente Coluccio Salutati, l’umanista toscano, seppe per primo indicarne l’esatta attribuzione. I manoscritti del De bello gallico pervenuti fino a noi sono dagli studiosi divisi in due classi, derivate ambedue da un lontano archetipo comune. I migliori della prima classe contengono soltanto la campagna di Gallia, il resto dei Commentarii ci è stato trasmesso soprattutto dalla seconda, ritenuta nel secolo scorso di minore attendibilità, ma oggi rivalutata. Il testo latino qui riprodotto è esemplato su quello curato da L.A. Constans, per le edizioni Les belles lettres di Parigi (1926, ed. 1972), che si basa fondamentalmente sui seguenti manoscritti:

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Classe a)

Classe b)

Bongarsianus, Amsterdam, 81, del IX-X sec. – Moysiacensis, Paris, Bibl. Naz., Lat. 5056, del XII sec. – Parisinus, Paris, Bibl. Naz., Lat. 5763, del IX-X sec. – Romanus, Roma, Bibl. Vat., 3864, del X sec. – Ashburnhamianus, Firenze, Bibl. Laur., R. 33, del X sec. – Louaniensis, London, Mus. Brit., 10084, dell’XI sec. – Neapolitanus, Napoli, Bibl. Naz., IV, c. 11, del XII sec. – Thuaneus, Paris, Bibl. Naz., Lat. 5764, dell’XI sec. – Vindobonensis, Vienna, 95, del XII sec. – Ursinianus, Roma, Bibl. Vat., 3324, dell’XI sec. – Riccardianus, Firenze, Bibl. Laur., Riccard. 541, dell’XI-XII sec.

(Va avvertito che nel testo latino parole e lettere tra parentesi quadra o in corsivo indicano, da parte del curatore, aggiunte o varianti.) L’edizione principe è quella di Roma, del 1469. Edizioni importanti sono quelle di Anversa del 1585, del Lipsius, quella curata dallo Scaligero a Leida nel 1606, quella del Davisius, Cambridge, 1706; più recente, l’edizione dell’intero corpus cesariano a cura di A. Klotz, Lipsia, 1921-27.

LA TRADIZIONE DEL TESTO

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LE TRADUZIONI ITALIANE

Tra le prime volgarizzazioni dei Commentarii di Cesare, ebbe meritata fortuna la traduzione di Agostino Ortica della Porta, genovese, uscita a Venezia nel 1517 e più volte ristampata per tutto il Cinquecento; fortuna ancora maggiore ottenne M. Francesco Baldelli, la cui traduzione (Venezia, 1554), più volte ripresa da editori diversi nei secoli successivi, è stata ristampata ancora recentemente (Milano, 1965). Altre traduzioni furono quelle di Andrea Palladio, Venezia, 1575, e molto diffusa nell’Ottocento quella di Camillo Ugoni, Brescia, 1812. Tra le più recenti, citiamo la traduzione del De bello gallico di Giorgio Castello, Milano, 1933; quella edita a Firenze nel 1939 da Eugenio Giovannetti; le altre ancora di Maria Antoniazzi, Milano, 1941, di Carlo Canilli, Firenze, 1942, di Giovanni Lattanzi, Milano, 1946, di Giuseppe Lipparini nella collana zanichelliana degli Scrittori di Roma, Bologna, 1951; quella infine di Sossio Giametta, Torino, 1961.

BIBLIOGRAFIA SUL «DE BELLO GALLICO»

T. Rice Holmes, Caesar’s Conquest o f Gaul, Oxford, 1911. T. Rice Holmes, Ancient Britain and the invasione of Julius Caesar, Oxford, 1907, R. Syme, The Roman Revolution, 1939 (trad. it., La rivoluzione romana, Torino, 1961). J. Carcopino, Alésia et les ruses de César, Paris, 1958. C. Jullian, Histoire de la Gaule, t. III, Paris, 1920. C. Jullian, Vercingétorix, édition mise à jour par P.M. Duval, Paris, 1964. M. Rambaud, L’art de la déformation historique dans les commentaires de César, Paris, 1966.

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MISURE

Piede, m. 0,30. Passo romano (corrisponde circa al doppio passo di un uomo normale), m. 1,48. Miglio romano, circa m. 1478. Di PESO Oncia, g. 27. Libbra, g. 327. Di SUPERFICIE Iugero, mq. 2519. MONETA È citato qualche volta il sesterzio, che all’epoca della guerra di Gallia doveva valere intorno alle nostre cento lire attuali; ma si deve avvertire che ogni comparazione è estremamente difficile per non dire impossibile. LINEARI

CORPUS CAESARIANUM

Comprende: De bello gallico (La guerra gallica) in sette libri, di C. Giulio Cesare; narra gli avvenimenti dal 58 al 51 a.C. Un ottavo libro fu aggiunto da Aulo Irzio, con gli ultimi avvenimenti della guerra; De bello civili (La guerra civile) in tre libri di C. Giulio Cesare; narra gli avvenimenti della guerra tra Cesare e Pompeo nel 49-48 a.C. fino alla morte di Pompeo; De bello alexandrino (La guerra di Alessandria) di autore ignoto; narra le guerre combattute da Cesare in Egitto e contro Farnace. È da taluni attribuito a Aulo Irzio; De bello africano (La guerra d’Africa) di autore ignoto; narra la guerra combattuta da Cesare contro gli avanzi dell’esercito pompeiano e il re Giuba di Numidia, fino alla battaglia di Tapso;

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De bello bispaniensi (La guerra di Spagna) di autore ignoto; narra la guerra combattuta da Cesare contro i figli di Pompeo, fino alla battaglia di Munda. ETTORE BARELLI

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LIBER PRIMUS

I. Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur. Hi omnes lingua, institutis, legibus inter se differunt. Gallos ab Aquitanis Garunna flumen, a Belgis Matrona et Sequana dividit. Horum omnium fortissimi sunt Belgae, propterea quod a cultu atque humanitate provinciae longissime absunt minimeque ad eos mercatores saepe commeant atque ea quae ad effeminandos animos pertinent important, proximique sunt Germanis, qui trans Rhenum incolunt, quibuscum continenter bellum gerunt. Qua de causa Helvetii quoque reliquos Gallos virtute praecedunt, quod fere cotidianis proeliis cum Germanis contendunt, cum aut suis finibus eos prohibent, aut ipsi in eorum finibus bellum gerunt. Eorum una pars, quam Gallos optinere dictum est, initium capit a flumine Rhodano, continetur Garunna flumine, Oceano, finibus Belgarum, attingit etiam ab Sequanis et Helvetiis flumen Rhenum, vergit ad septentriones. Belgae ab extremis Galliae finibus oriuntur, pertinent ad inferiorem partem fluminis Rheni, spectant in septentrionem et orientem solem. Aquitania a Garunna flumine ad Pyrenaeos montes et eam partem Oceani quae est ad Hispaniam pertinet; spectat inter occasum solis et septentriones. II. Apud Helvetios longe nobilissimus fuit et ditissimus

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I. La Gallia, nel suo insieme, è divisa in tre parti: una abitata dai Belgi, un’altra dagli Aquitani, la terza dai popoli chiamati localmente Celti e da noi Galli. Essi differiscono tra loro per linguaggio, istituzioni e leggi. Il fiume Garonna separa i Galli dagli Aquitani; la Senna e la Marna li dividono dai Belgi. Di questi popoli i più forti sono i Belgi, che sono i più lontani dalla cultura e dalla civiltà della nostra Provincia; molto di rado essi vengono visitati dai mercanti, i quali, perciò, non vi introducono le merci atte ad infiacchire i costumi; confinano con i Germani d’oltre Reno e con essi sono continuamente in guerra. Per questa stessa ragione anche gli Elvezi superano per valore gli altri Galli: anch’essi combattono quasi ogni giorno contro i Germani, sia per tenerli lontani dalle proprie terre, sia perché essi stessi invadono le loro. La parte che abbiamo detto appartenere ai Galli comincia al fiume Rodano, ha per confine il fiume Garonna, l’Oceano, il territorio dei Belgi, tocca il Reno dalla parte dei Sèquani e degli Elvezi ed è orientata verso nord. Il paese dei Belgi dai più lontani territori della Gallia si estende fino al corso inferiore del Reno ed è rivolto verso nord-est. L’Aquitania si estende dalla Garonna ai Pirenei e a quella parte dell’Oceano che è volta verso la Spagna; guarda verso nord-ovest. II. Orgetorige era molto superiore, per nobiltà e ricchez-

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Orgetorix. Is M. Messala [et P.] M. Pisone consulibus regni cupiditate inductus coniurationem nobilitatis fecit et civitati persuasit ut de finibus suis cum omnibus copiis exirent: perfacile esse, cum virtute omnibus praestarent, totius Galliae imperio potiri. Id hoc facilius iis persuasit quod undique loci natura Helvetii continentur: una ex parte flumine Rheno latissimo atque altissimo, qui agrum Helvetium a Germanis dividit; altera ex parte monte Iura altissimo, qui est inter Sequanos et Helvetios; tertia lacu Lemanno et flumine Rhodano, qui provinciam nostram ab Helvetiis dividit. His rebus fiebat ut et minus late vagarentur et minus facile finitimis bellum inferre possent; qua ex parte homines bellandi cupidi magno dolore adficiebantur. Pro multitudine autem hominum et pro gloria belli atque fortitudinis angustos se fines habere arbitrabantur, qui in longitudinem milia passuum CCXL, in latitudinem CLXXX patebant. III. His rebus adducti et auctoritate Orgetorigis permoti constituerunt ea quae ad proficiscendum pertinerent comparare, iumentorum et carrorum quam maximum numerum coemere, sementes quam maximas facere, ut in itinere copia frumenti suppeteret, cum proximis civitatibus pacem et amicitiam confirmare. Ad eas res conficiendas biennium sibi satis esse duxerunt: in tertium annum profectionem lege confirmant. Ad eas res conficiendas Orgetorix deligitur. Is sibi legationem ad civitates suscepit. In eo itinere persuadet Castico, Catamantaloedis filio, Sequano, cuius pater regnum in Sequanis multos annos optinuerat et a senatu populi Romani amicus appellatus erat,

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za, a tutti gli altri principi dell’Elvezia. Durante il consolato di M. Messala e M. Pisone, indotto dalla speranza di diventare re, convinse i nobili a una lega e persuase il popolo a uscire in massa dal proprio territorio: sarebbe stato molto facile per loro, che superavano per valore tutti gli altri, impadronirsi della Gallia. Li persuase tanto più facilmente, perché gli Elvezi sono chiusi tutti intorno dalla posizione naturale del paese: da una parte dal fiume Reno, larghissimo e molto profondo, che separa il paese degli Elvezi dai Germani; dall’altra parte dal Giura, catena di monti altissimi, che li divide dai Sèquani; dal terzo lato dal lago Lemano e dal fiume Rodano, che segnano il confine con la nostra Provincia. Per questa conformazione del paese essi non potevano muoversi che in un tratto limitato ed era difficile per loro portare guerra ai popoli confinanti, il che, per gente avida di combattere, era motivo di grande malcontento. Essi pensavano, inoltre, che il territorio di cui disponevano, lungo duecentoquaranta miglia e largo centottanta, fosse troppo angusto in rapporto al numero della popolazione, alla loro gloria militare e alla loro forza. III. Spinti, dunque, da queste ragioni e influenzati dall’autorità di Orgetorige, decisero di preparare tutto ciò che era necessario per la partenza: acquistare quanti più giumenti e carri fosse possibile, seminare la massima quantità di grano, per avere scorte sufficienti per il viaggio, rafforzare i vincoli di pacifica amicizia con le genti più vicine. Ritennero che per questi preparativi bastassero due anni; il terzo, con una deliberazione pubblica fissarono per la partenza. Orgetorige, scelto per predisporre ogni cosa, si assunse il compito di recarsi come ambasciatore presso i popoli vicini. Durante questo viaggio convinse Càstico, figlio di Catamantalede, sèquano, il cui padre era stato per molti anni re dei Sèquani e aveva avuto dal senato romano il titolo di amico, ad

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ut regnum in civitate sua occuparet quod pater ante habuerat; itemque Dumnorigi Haeduo, fratri Diviciaci, qui eo tempore principatum in civitate obtinebat ac maxime plebi acceptus erat, ut idem conaretur persuadet eique filiam suam in matrimonium dat. Perfacile factu esse illis probat conata perficere, propterea quod ipse suae civitatis imperium obtenturus esset: non esse dubium quin totius Galliae plurimum Helvetii possent; se suis copiis suoque exercitu illis regna conciliaturum confirmat. Hac oratione adducti inter se fidem et ius iurandum dant et regno occupato per tres potentissimos ac firmissimos populos totius Galliae sese potiri posse sperant. IV. Ea res est Helvetiis per indicium enuntiata. Moribus suis Orgetorigem ex vinculis causam dicere coegerunt; damnatum poenam sequi oportebat ut igni cremaretur. Die constituta causae dictionis Orgetorix ad iudicium omnem suam familiam, ad hominum milia decem, undique coegit et omnes clientes obaeratosque suos, quorum magnum numerum habebat, eodem conduxit; per eos ne causam diceret se eripuit. Cum civitas ob eam rem incitata armis ius suum exsequi conaretur, multitudinemque hominum ex agris magistratus cogerent, Orgetorix mortuus est; neque abest suspicio, ut Helvetii arbitrantur, quin ipse sibi mortem consciverit. V. Post eius mortem nihilominus Helvetii id quod constituerant facere conantur, ut e finibus suis exeant. Ubi iam se ad eam rem paratos esse arbitrati sunt, oppida sua omnia numero ad duodecim, vicos ad quadringentos, reliqua privata aedificia incendunt, frumentum omne, praeterquam quod secum portaturi erant, comburunt, ut domum reditionis spe sublata paratiores ad omnia pericula subeunda essent; trium mensum molita cibaria sibi quemque domo efferre iubent. Persuadent

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assumere la carica tenuta prima dal padre; nello stesso modo spinse Dumnorige, eduo, fratello di Diviziaco, che godeva allora della più grande autorità tra i suoi ed era molto benvoluto dal popolo, a tentare la stessa cosa, e gli diede in moglie sua figlia. Dimostrò loro che sarebbe stato molto facile realizzare quei progetti, perché anch’egli stava per ottenere la signorìa assoluta sul suo popolo: non vi era dubbio che gli Elvezi fossero i più potenti di tutta la Gallia ed egli con il suo esercito e i suoi mezzi avrebbe loro assicurato il potere. Persuasi da questo discorso, si scambiarono giuramento di fedeltà, nella speranza di potersi impadronire di tutta la Gallia una volta a capo dei tre popoli più potenti e più forti. IV. Qualche delatore riferì questo piano agli Elvezi: essi, secondo il loro costume, imprigionato Orgetorige, lo sottoposero a processo: se fosse stato riconosciuto colpevole, sarebbe stato condannato al rogo. Nel giorno fissato per il dibattimento, Orgetorige fece intervenire tutti i suoi familiari e servi, circa diecimila, nonché tutti i clienti e i debitori, che aveva numerosissimi: grazie alla loro presenza si sottrasse al processo. Mentre il popolo, indignato, si accingeva a far osservare le sue leggi con le armi, e i magistrati si disponevano a far affluire molti uomini dalle campagne, Orgetorige morì: né mancò il sospetto, fra gli Elvezi, che si fosse ucciso da se stesso. V. Malgrado la morte di Orgetorige, gli Elvezi insistettero nel loro progetto di emigrazione. Quando ritennero di essere pronti, dettero fuoco a tutte le loro città, una dozzina, ai villaggi, quasi quattrocento, a tutte le altre costruzioni isolate; bruciarono tutto il grano, tranne quello che dovevano portare con sé, per essere così, tolta la speranza di poter tornare in patria, più decisi ad affrontare ogni rischio e ordinarono a ciascuno di portarsi grano macinato per tre mesi. Persuasero, poi, i Ràuraci,

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Rauracis et Tulingis et Latobicis finitimis suis uti eodem usi consilio, oppidis suis vicisque exustis, una cum iis proficiscantur, Boiosque, qui trans Rhenum incoluerant et in agrum Noricum transierant Noreiamque oppugnabant, receptos ad se socios sibi adsciscunt. VI. Erant omnino itinera duo, quibus itineribus domo exire possent: unum per Sequanos, angustum et difficile, inter montem Iuram et flumen Rhodanum, vix qua singuli carri ducerentur; mons autem altissimus inpendebat, ut facile perpauci prohibere possent; alterum per provinciam nostram, multo facilius atque expeditius, propterea quod inter fines Helvetiorum et Allobrogum, qui nuper pacati erant, Rhodanus fluit isque nonnullis locis vado transitur. Extremum oppidum Allobrogum est proximumque Helvetiorum finibus Genua. Ex eo oppido pons ad Helvetios pertinet. Allobrogibus sese vel persuasuros, quod nondum bono animo in populum Romanum viderentur, existimabant, vel vi coacturos, ut per suos fines eos ire paterentur. Omnibus rebus ad profectionem conparatis diem dicunt, qua die ad ripam Rhodani omnes conveniant. Is dies erat a. d. V. Kal. Apr. L. Pisone A. Gabinio consulibus. VII. Caesari cum id nuntiatum esset, eos per provinciam nostram iter facere conari, maturat ab urbe proficisci et quam maximis potest itineribus in Galliam ulteriorem contendit et ad Genuam pervenit. Provinciae toti quam maximum potest militum numerum imperat (erat omnino in Gallia ulteriore legio una), pontem qui erat ad Genuam iubet rescindi. Ubi de eius adventu Helvetii certiores facti sunt, legatos ad eum mittunt nobilissimos civitatis, cuius legationis Nammeius et Verucloetius prin-

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i Tulìngi, i Latovìci, loro confinanti, a prendere la stessa decisione, bruciare le città e i villaggi e unirsi a loro; accolsero, infine, come compagni e alleati per l’impresa i Boi, che prima stavano oltre il Reno e poi, passati in territorio Norico, avevano assediato Noreia. VI. Vi erano in tutto due strade per poter uscire dal loro paese, una attraverso le terre dei Sèquani, fra il monte Giura e il Rodano, tanto stretta e difficile che a stento vi poteva passare un carro per volta; dominata com’era da un monte altissimo, pochissimi uomini avrebbero potuto impedirne il passaggio. L’altra attraverso la nostra Provincia, molto più agevole e aperta, perché fra le terre degli Elvezi e quelle degli Allobrogi, da poco domati, scorre il Rodano che in molti punti può essere attraversato a guado. La città degli Allobrogi, posta più a nord e più vicino al territorio degli Elvezi, è Ginevra: un ponte la unisce al paese degli Elvezi. Questi speravano di poter attirare dalla loro parte gli Allobrogi, che non sembravano ancora completamente pacificati coi Romani; in caso contrario, li avrebbero costretti con la forza a permettere loro il passaggio. Finiti i preparativi stabilirono di radunarsi tutti alla riva del Rodano il ventotto marzo dell’anno del consolato di L. Pisone e A. Gabinio. VII. Appena Cesare seppe che gli Elvezi avevano intenzione di passare attraverso la nostra Provincia, si affrettò a partire da Roma e, marciando a tappe forzate verso la Gallia Transalpina, arrivò a Ginevra. Dispose che da tutta la Provincia gli si presentasse il contingente massimo di soldati che egli poteva richiedere (in tutta la Gallia vi era una sola legione) e fece distruggere il ponte vicino alla città. Gli Elvezi, informati del suo arrivo, gli mandarono come ambasciatori i più nobili della loro gente (a capo della legazione erano Nammeio e Veru-

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cipem locum obtinebant, qui dicerent sibi esse in animo sine ullo maleficio iter per provinciam facere, propterea quod aliud iter haberent nullum; rogare ut eius voluntate id sibi facere liceat. Caesar, quod memoria tenebat L. Cassium consulem occisum exercitumque eius ab Helvetiis pulsum et sub iugum missum, concedendum non putabat; neque homines inimico animo data facultate per provinciam itineris faciundi temperaturos ab iniuria et maleficio existimabat. Tamen, ut spatium intercedere posset, dum milites quos imperaverat convenirent, legatis respondit diem se ad deliberandum sumpturum: si quid vellent, ad Id. April. reverterentur. VIII. Interea ea legione quam secum habebat militibusque qui ex provincia convenerant a lacu Lemanno, qui in flumen Rhodanum influit, ad montem Iuram, qui fines Sequanorum ab Helvetiis dividit, milia passuum decem novem murum in altitudinem pedum sedecim fossamque perducit. Eo opere perfecto praesidia disponit, castella communit, quo facilius, si se invito transire conarentur, prohibere possit. Ubi ea dies quam constituerat cum legatis venit et legati ad eum reverterunt, negat se more et exemplo populi Romani posse iter ulli per provinciam dare et, si vim facere conentur, prohibiturum ostendit. Helvetii ea spe deiecti navibus iunctis ratibusque compluribus factis, alii vadis Rhodani, qua minima altitudo fluminis erat, non numquam interdiu, saepius noctu si perrumpere possent conati, operis munitione et militum concursu et telis repulsi hoc conatu destiterunt.

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clezio), incaricati di dirgli che, non avendo nessuna altra via, avevano intenzione di attraversare la Provincia, senza apportare alcun danno: lo pregavano, quindi, di autorizzare il loro passaggio. Cesare, che ricordava come dagli Elvezi il console L. Cassio era stato ucciso e il suo esercito sconfitto e costretto a passare sotto il giogo, non riteneva di dover concedere nulla e pensava che quegli uomini dall’animo ostile, se avessero avuto il permesso di attraversare la Provincia, non si sarebbero astenuti dal recar danni d’ogni genere. Tuttavia, per guadagnare tempo, in attesa dell’arrivo dei soldati di cui aveva ordinato il concentramento, rispose agli ambasciatori che si riservava qualche giorno per decidere e che ritornassero quindi, per avere una risposta precisa, il tredici aprile. VIII. Intanto, servendosi della legione che aveva con sé e dei soldati venuti dalla Provincia, fece costruire, dal lago Lemano, le cui acque si versano nel Rodano, fino al monte Giura, che divide i Sèquani dagli Elvezi, per una lunghezza di diciannove miglia, un muro alto sedici piedi, preceduto da un fossato. Finita la linea di difesa, dispose i presidi e fece costruire dei bastioni per potersi opporre agli Elvezi, qualora essi avessero tentato di passare contro la sua volontà. Quando giunse il giorno fissato agli ambasciatori e questi gli si presentarono, disse loro che seguendo il costume e le leggi del popolo romano egli non poteva permettere a nessuno il passaggio attraverso la Provincia e aggiunse che se avessero tentato il passaggio di viva forza, lo avrebbero trovato pronto a respingerli. Gli Elvezi, perduta questa speranza, cercarono di passare il fiume per mezzo di barconi uniti insieme e di zattere, costruite in gran numero, e tentando il guado dove il Rodano era meno profondo: rinnovarono i loro attacchi di giorno e più spesso di notte; ma di fronte all’ostacolo della linea di difesa e della reazione dei nostri, desistettero dai loro tentativi.

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IX. Relinquebatur una per Sequanos via, qua Sequanis invitis propter angustias ire non poterant. His cum sua sponte persuadere non possent, legatos ad Dumnorigem Haeduum mittunt, ut eo deprecatore a Sequanis impetrarent. Dumnorix gratia et largitione apud Sequanos plurimum poterat et Helvetiis erat amicus, quod ex ea civitate Orgetorigis filiam in matrimonium duxerat, et cupiditate regni adductus novis rebus studebat et quam plurimas civitates suo beneficio habere obstrictas volebat. Itaque rem suscipit et a Sequanis impetrat ut per fines suos Helvetios ire patiantur, obsidesque uti inter sese dent perficit: Sequani, ne itinere Helvetios prohibeant, Helvetii, ut sine maleficio et iniuria transeant. X. Caesari renuntiatur Helvetiis esse in animo per agrum Sequanorum et Haeduorum iter in Santonum fines facere, qui non longe a Tolosatium finibus absunt, quae civitas est in provincia. Id si fieret, intellegebat magno cum periculo provinciae futurum ut homines bellicosos, populi Romani inimicos, locis patentibus maximeque frumentariis finitimos haberet. Ob eas causas ei munitioni quam fecerat, T. Labienum legatum praefecit; ipse in Italiam magnis itineribus contendit duasque ibi legiones conscribit et tres, quae circum Aquileiam hiemabant, ex hibernis educit et, qua proximum iter in ulteriorem Galliam per Alpes erat, cum his quinque legionibus ire contendit. Ibi Ceutrones et Graioceli et Caturiges locis superioribus occupatis itinere exercitum prohibere conantur. Conpluribus his proeliis pulsis ab Ocelo, quod est citerioris provinciae extremum, in fines Vocontiorum ulterioris provinciae die septimo pervenit; inde in Allobrogum fines, ab Allobrogibus in Segusiavos

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IX. Rimaneva così solo la strada attraverso le terre dei Sèquani, ma data la sua strettezza, non potevano certo percorrerla contro la loro volontà. Non riuscendo a persuaderli, mandarono ambasciatori a Dumnorige, eduo, per poter ottenere dai Sèquani il permesso per sua intercessione. Dumnorige era molto potente fra i Sèquani per il favore di cui godeva e le largizioni di cui era prodigo ed era amico degli Elvezi per aver sposato una donna di quel popolo, la figlia di Orgetorige; spinto, poi, dall’ambizione di dominio, era favorevole alle novità e voleva legare a sé con benefici quanti più popoli poteva. Si assunse perciò l’incarico e ottenne dai Sèquani, per gli Elvezi, l’autorizzazione ad attraversare il loro territorio, previo scambio di ostaggi: dei Sèquani, a garanzia del passaggio, e degli Elvezi, perché non arrecassero danni né offendessero nessuno. X. A Cesare venne riferito che gli Elvezi avevano intenzione di passare, attraverso le terre dei Sèquani e degli Edui, nella regione dei Sàntoni, confinanti coi Tolosati, popolo compreso nella Provincia. Capiva che, se ciò fosse avvenuto, sarebbe stato molto pericoloso per la Provincia avere per vicini, in regioni piane e fertilissime, genti bellicose e nemiche dei Romani. Per questa ragione diede al legato T. Labieno il comando della linea fortificata che aveva costruito e con veloci marce tornò in Italia, vi arruolò due legioni, fece uscire dai quartieri d’inverno le tre che erano nei pressi di Aquileia, e con queste cinque legioni ritornò in Gallia, passando per la strada più breve, attraverso le Alpi. Qui i Ceutroni, i Graioceli e i Caturigi, occupate le posizioni più elevate, cercarono di impedire all’esercito il passaggio. Ma Cesare li respinse in parecchi combattimenti e in sei giorni da Ocelo, il punto estremo della Gallia citeriore, raggiunse le terre dei Voconzi, nella Provincia transalpina; da dove condusse l’esercito tra gli Allobrogi, poi dagli

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exercitum ducit. Hi sunt extra provinciam trans Rhodanum primi. XI. Helvetii iam per angustias et fines Sequanorum suas copias traduxerant et in Haeduorum fines pervenerant eorumque agros populabantur. Haedui, cum se suaque ab iis defendere non possent, legatos ad Caesarem mittunt rogatum auxilium: ita se omni tempore de populo Romano meritos esse, ut paene in conspectu exercitus nostri agri vastari, liberi eorum in servitutem abduci, oppida expugnari non debuerint. Eodem tempore [Haedui] Ambarri, necessarii et consanguinei Haeduorum, Caesarem certiorem faciunt sese depopulatis agris non facile ab oppidis vim hostium prohibere. Item Allobroges qui trans Rhodanum vicos possessionesque habebant fuga se ad Caesarem recipiunt et demonstrant sibi praeter agri solum nihil esse reliqui. Quibus rebus adductus Caesar non exspectandum sibi statuit dum omnibus fortunis sociorum consumptis in Santonos Helvetii pervenirent. XII. Flumen est Arar, quod per fines Haeduorum et Sequanorum in Rhodanum influit, incredibili lenitate, ita ut oculis in utram partem fluat iudicari non possit. Id Helvetii ratibus ac lintribus iunctis transibant. Ubi per exploratores Caesar certior factus est tres iam partes copiarum Helvetios id flumen traduxisse, quartam fere partem citra flumen Ararim reliquam esse, de tertia vigilia cum legionibus tribus e castris profectus ad eam partem pervenit quae nondum flumen transierat. Eos impeditos et inopinantes adgressus magnam partem eorum concidit: reliqui sese fugae mandarunt atque in

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Allobrogi ai Segusiàvi, che sono il primo popolo fuori della Provincia, oltre il Rodano. XI. Gli Elvezi avevano già fatto passare alle loro truppe le strette gole montane e, attraverso le terre dei Sèquani, avevano raggiunto il paese degli Edui e ne devastavano i campi. Questi, non essendo in grado di difendere né le loro vite né le loro proprietà, mandarono ambasciatori a Cesare, invocando aiuto: essi avevano sempre avuto molti meriti verso il popolo romano e non si poteva permettere che, quasi sotto gli occhi del nostro esercito, i loro campi fossero devastati, i figli tratti in schiavitù, le città espugnate. Contemporaneamente gli Ambarri, popolo amico e affine agli Edui, informarono Cesare che le loro terre erano state devastate ed era per loro difficile difendere dagli attacchi dei nemici le proprie città. Nello stesso modo gli Allobrogi, che avevano i villaggi e i campi oltre il Rodano, fuggirono e si rifugiarono da Cesare, dicendo che nulla era rimasto loro se non la terra. A queste notizie Cesare capì di non dover attendere che gli Elvezi giungessero nelle terre dei Sàntoni, dopo aver distrutte tutte le ricchezze degli alleati di Roma. XII. Vi è un fiume, la Saona, che, scorrendo lungo le terre degli Edui e dei Sèquani, si versa nel Rodano con un corso così lento che non si può stabilire a prima vista il senso della corrente. Gli Elvezi lo stavano attraversando, servendosi di zattere e di piccoli battelli legati insieme. Appena Cesare fu informato dai suoi esploratori che tre quarti degli Elvezi avevano passato il fiume e la quarta parte soltanto restava al di qua, partì, durante la notte, dall’accampamento e raggiunti gli Elvezi che non avevano ancora attraversato il fiume li assalì all’improvviso, sorprendendoli mentre erano carichi dei bagagli: molti ne uccise, gli altri si diedero alla fuga, nasconden-

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proximas silvas abdiderunt. Is pagus appellabatur Tigurinus: nam omnis civitas Helvetia in quattuor pagos divisa est. Hic pagus unus cum domo exisset patrum nostrorum memoria L. Cassium consulem interfecerat et eius exercitum sub iugum miserat. Ita sive casu sive consilio deorum immortalium, quae pars civitatis Helvetiae insignem calamitatem populo Romano intulerat, ea princeps poenas persolvit. Qua in re Caesar non solum publicas, sed etiam privatas iniurias ultus est, quod eius soceri L. Pisonis avum, L. Pisonem legatum, Tigurini eodem proelio quo Cassium interfecerant. XIII. Hoc proelio facto reliquas copias Helvetiorum ut consequi posset pontem in Arare faciendum curat atque ita exercitum traducit. Helvetii, repentino eius adventu commoti, cum id quod ipsi diebus XX aegerrime confecerant, ut flumen transirent, illum uno die fecisse intellegerent, legatos ad eum mittunt; cuius legationis Divico princeps fuit, qui bello Cassiano dux Helvetiorum fuerat. Is ita cum Caesare egit: si pacem populus Romanus cum Helvetiis faceret, in eam partem ituros atque ibi futuros Helvetios ubi eos Caesar constituisset atque esse voluisset: sin bello persequi perseveraret, reminisceretur et veteris incommodi populi Romani et pristinae virtutis Helvetiorum. Quod inproviso unum pagum adortus esset, cum ii qui flumen transissent suis auxilium ferre non possent, ne ob eam rem aut suae magnopere virtuti tribueret aut ipsos despiceret. Se ita a patribus maioribusque suis didicisse, ut magis virtute quam dolo contenderent aut insidiis niterentur. Quare ne commit-

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dosi nei boschi vicini. Appartenevano, questi, alla tribù dei Tigurini (la nazione degli Elvezi è, infatti, divisa in quattro tribù), che al tempo dei nostri padri, usciti dal loro territorio, avevano ucciso il console L. Cassio e costretto il suo esercito a passare sotto il giogo. Così, non so se per caso o per volontà degli dèi immortali, quella parte del popolo elvetico che aveva inflitto una dura sconfitta al popolo romano, fu la prima a pagarne la pena. E in questa azione Cesare non vendicò solo le offese pubbliche, ma anche quelle private, perché il legato L. Pisone, avo di suo suocero L. Pisone, era caduto, per mano dei Tigurini, nella stessa battaglia in cui era morto Cassio. XIII. Dopo questo combattimento, per inseguire il resto dell’esercito elvetico, Cesare fece costruire un ponte sulla Saona e vi fece passare le sue truppe. Gli Elvezi furono molto stupiti alla notizia del suo arrivo, constatando che il passaggio del fiume, che era costato loro venti giorni di aspra fatica, era stato, invece, effettuato dai Romani in un giorno solo. Subito gli mandarono un’ambasceria capeggiata da Divicone, che era stato il comandante degli Elvezi nella guerra contro Cassio. Costui fece a Cesare queste proposte: se il popolo romano voleva fare la pace con loro, essi sarebbero andati nel luogo che Cesare avesse loro assegnato e da lì non si sarebbero più mossi; ma se Cesare insisteva nel continuare la guerra si ricordasse del disastro toccato una volta ai Romani e non dimenticasse la tradizione di valore degli Elvezi. Egli aveva assalito all’improvviso una sola tribù, quando quelli che avevano passato il fiume non potevano portare aiuto ai compagni: per quest’azione non doveva, quindi, presumere troppo del suo valore militare, né disprezzare il suo nemico. Gli Elvezi avevano appreso dai loro padri e dai loro antenati a fare affidamento, nelle battaglie, più sul valore personale che sugli inganni e

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teret ut is locus ubi constitissent ex calamitate populi Romani et internecione exercitus nomen caperet aut memoriam proderet. XIV. His Caesar ita respondit: eo sibi minus dubitationis dari, quod eas res quas legati Helvetii commemorassent memoria teneret, atque eo gravius ferre quo minus merito populi Romani accidissent: qui si alicuius iniuriae sibi conscius fuisset, non fuisse difficile cavere; sed eo deceptum, quod neque commissum a se intellegeret quare timeret, neque sine causa timendum putaret. Quod si veteris contumeliae oblivisci vellet, num etiam recentium iniuriarum, quod eo invito iter per provinciam per vim temptassent, quod Haeduos, quod Ambarros, quod Allobroges vexassent, memoriam deponere posse? Quod sua victoria tam insolenter gloriarentur, quodque tam diu se inpune iniurias tulisse admirarentur, eodem pertinere. Consuesse enim deos immortales, quo gravius homines ex commutatione rerum doleant, quos pro scelere eorum ulcisci velint, his secundiores interdum res et diuturniorem impunitatem concedere. Cum ea ita sint, tamen si obsides ab iis sibi dentur, uti ea quae polliceantur facturos intellegat, et si Haeduis de iniuriis quas ipsis sociisque eorum intulerint, item si Allobrogibus satis faciant, sese cum iis pacem esse facturum. Divico respondit: ita Helvetios a maioribus suis institutos esse uti obsides accipere, non dare consuerint: eius rei populum Romanum esse testem. Hoc responso dato discessit. XV. Postero die castra ex eo loco movent. Idem facit Caesar equitatumque omnem ad numerum quattuor

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sugli agguati. Perciò non offrisse l’occasione alla località in cui si erano fermati di dare il nome a una nuova sconfitta del popolo romano e alla distruzione del suo esercito. XIV. A queste parole Cesare così rispose: ben poco egli aveva da esitare perché tutto quello che gli Elvezi gli avevano ricordato era ben fisso nella sua mente e con tanto più dolore quanto meno per colpa dei Romani il fatto era accaduto: ai Romani, infatti, non sarebbe stato allora difficile prendere le necessarie precauzioni se avessero avuto coscienza di aver mai offeso gli Elvezi; essi erano stati colti di sorpresa, perché non sapevano di aver commesso qualcosa per cui temere, né pensavano di dover temere senza ragione. Se poi egli avesse voluto dimenticare le antiche offese, avrebbe forse potuto dimenticare le offese recenti, il loro tentativo di forzare, contro la volontà dei Romani, il passaggio per la Provincia, i danni arrecati agli Edui, agli Ambarri, agli Allobrogi? Che essi potessero gloriarsi con tanta insolenza della loro vittoria e meravigliarsi di essere sfuggiti per tanto tempo al castigo, dipendeva da una sola ragione; che gli dèi immortali, a coloro che vogliono punire per qualche delitto, talvolta concedono maggiore prosperità e più lunga impunità, perché più gravemente si debbano dolere della mutata fortuna. Pur tuttavia se, a garanzia delle proprie promesse, avessero dato degli ostaggi, e risarcito gli Edui, gli Allobrogi e i loro alleati dei danni ad essi recati, egli era disposto a concludere la pace. Divicone rispose che gli Elvezi avevano imparato dai loro antenati a prendere e non a consegnare ostaggi: di ciò il popolo romano poteva essere testimone. Ciò detto partì. XV. Il giorno dopo gli Elvezi tolsero il campo da quel luogo; imitati in ciò da Cesare che si fece precedere dal-

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milium, quem ex omni provincia et Haeduis atque eorum sociis coactum habebat, praemittit, qui videant quas in partes hostes iter faciant. Qui cupidius novissimum agmen insecuti alieno loco cum equitatu Helvetiorum proelium committunt, et pauci de nostris cadunt. Quo proelio sublati Helvetii, quod quingentis equitibus tantam multitudinem equitum propulerant, audacius subsistere non numquam et novissimo agmine proelio nostros lacessere coeperunt. Caesar suos a proelio continebat ac satis habebat in praesentia hostem rapinis, pabulationibus populationibusque prohibere. Ita dies circiter quindecim iter fecerunt, uti inter novissimum hostium agmen et nostrum primum non amplius quinis aut senis milibus passuum interesset. XVI. Interim cotidie Caesar Haeduos frumentum quod essent publice polliciti flagitare. Nam propter frigora, quod Gallia sub septentrionibus, ut ante dictum est, posita est, non modo frumenta in agris matura non erant, sed ne pabuli quidem satis magna copia suppetebat: eo autem frumento quod flumine Arare navibus subvexerat, propterea minus uti poterat quod iter ab Arare Helvetii averterant, a quibus discedere nolebat. Diem ex die ducere Headui: conferri, conportari, adesse dicere. Ubi se diutius duci intellexit et diem instare, quo die frumentum militibus metiri oporteret, convocatis eorum principibus, quorum magnam copiam in castris habebat, in his Diviciaco et Lisco, qui summo magistratui praeerat, quem vergobretum appellant Haedui, qui creatur an-

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la sua cavalleria, costituita da quattromila uomini, raccolti in tutta la Provincia e tra gli Edui ed i loro alleati, col compito di vedere quale fosse la direzione di marcia del nemico. La cavalleria ne inseguì con troppa foga la retroguardia e venne a combattimento, in posizione sfavorevole, con la cavalleria degli Elvezi: alcuni dei nostri caddero. Ma gli Elvezi, imbaldanziti per questo successo, poiché con cinquecento cavalieri avevano respinto un numero così grande di avversari, cominciarono a fermarsi di tanto in tanto con più audacia e a provocare i nostri con azioni di retroguardia. Cesare tratteneva i suoi dal combattere e per il momento si accontentava di impedire ai nemici rapine, devastazioni e la possibilità di rifornirsi di foraggio. Marciarono così per circa quindici giorni, sempre in modo che tra la retroguardia dei nemici e la nostra avanguardia non vi fossero più di cinque o sei miglia di distanza. XVI. Ogni giorno intanto richiedeva agli Edui il frumento che con promesse ufficiali essi si erano impegnati di consegnare. Per il freddo, infatti – la Gallia, come abbiamo detto, è un paese settentrionale –, non solo le messi nei campi non erano ancora mature, ma non vi era neppure una quantità sufficiente di foraggio; di quel grano poi, che aveva fatto trasportare con le imbarcazioni sulla Saona, non poteva servirsi perché gli Elvezi si erano, nella loro marcia, allontanati dal fiume ed egli li aveva seguiti non volendo perderli di vista. Gli Edui rimandavano di giorno in giorno, dicendo che già il grano veniva raccolto, che i trasporti erano partiti, che i carichi stavano per arrivare. Ma quando Cesare capì che lo si voleva ingannare e che era vicino il giorno in cui bisognava provvedere alla distribuzione mensile del frumento ai suoi uomini, convocò i capi degli Edui, che nel suo campo erano molti, tra i quali Diviziaco e Lisco – quest’ultimo il più alto magistrato, quello che gli Edui

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nuus et vitae necisque in suos habet potestatem, graviter eos accusat quod, cum neque emi neque ex agris sumi posset, tam necessario tempore, tam propinquis hostibus ab iis non sublevetur, praesertim cum magna ex parte eorum precibus adductus bellum susceperit; multo etiam gravius quod sit destitutus queritur. XVII. Tum demum Liscus oratione Caesaris adductus quod antea tacuerat proponit: esse non nullos quorum auctoritas apud plebem plurimum valeat, qui privatim plus possint quam ipsi magistratus. Hos seditiosa atque inproba oratione multitudinem deterrere ne frumentum conferant quod debeant: praestare, si iam principatum Galliae obtinere non possint, Gallorum quam Romanorum imperia perferre; neque dubitare [debeant] quin, si Helvetios superaverint Romani, una cum reliqua Gallia Haeduis libertatem sint erepturi. Ab isdem nostra consilia quaeque in castris gerantur hostibus enuntiari: hos a se coerceri non posse. Quin etiam, quod necessariam rem coactus Caesari enuntiarit, intellegere sese quanto id cum periculo fecerit, et ob eam causam quam diu potuerit tacuisse. XVIII. Caesar hac oratione Lisci Dumnorigem, Diviciaci fratrem, designari sentiebat, sed, quod pluribus praesentibus eas res iactari nolebat, celeriter concilium dimittit, Liscum retinet. Quaerit ex solo ea quae in conventu dixerat. Dicit liberius atque audacius. Eadem secreto ab aliis quaerit; reperit esse vera. Ipsum esse Dum-

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chiamano vergobreto e, eletto annualmente, ha sui cittadini diritto di vita e di morte –; li accusò aspramente, perché in un momento in cui non poteva né comprare né prelevare dai campi il grano mentre le necessità stringevano e i nemici erano così vicini, essi non lo aiutavano; né consideravano che egli aveva intrapreso la guerra soprattutto spinto dalle loro preghiere: anche più vivamente, ancora, si lamentò di essere stato tradito. XVII. Allora finalmente Lisco, spinto dal discorso di Cesare, espose ciò che prima aveva tenuto nascosto; vi erano certuni – egli disse – che godevano di grande autorità presso la plebe e, sebbene privati cittadini, erano ascoltati più degli stessi magistrati: costoro distoglievano gli Edui dal consegnare il grano dovuto, dicendo, con discorsi maligni e sediziosi, che era meglio, dal momento che non potevano essere il popolo predominante nella Gallia, sottostare ad altri Galli piuttosto che ai Romani; e che non bisognava dubitare, essi affermavano, che i Romani, una volta vinti gli Elvezi, avrebbero tolto la libertà anche agli Edui, insieme con tutto il resto della Gallia. Da costoro venivano riferiti ai nemici anche i nostri piani e tutto ciò che avveniva nell’accampamento: egli non aveva l’autorità di frenarli ed, anzi, ora che, costretto, aveva riferito a Cesare la cosa, capiva di essere in una posizione pericolosa: proprio per questo aveva taciuto fin quando aveva potuto. XVIII. Cesare capì che con questo discorso Lisco intendeva parlare di Dumnorige, il fratello di Diviziaco, ma non volendo insistere su tali particolari in pubblico, sciolse il consiglio, trattenendo Lisco presso di sé. Quando furono soli, volle che si spiegasse meglio su ciò che aveva detto all’assemblea e quello allora parlò con più libertà e coraggio. Fece poi indagini segrete anche presso altri e scoprì che la cosa era vera: si trattava proprio

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norigem, summa audacia, magna apud plebem propter liberalitatem gratia, cupidum rerum novarum. Compluris annos portoria reliquaque omnia Haeduorum vectigalia parvo pretio redempta habere, propterea quod illo licente contra liceri audeat nemo. His rebus et suam rem familiarem auxisse et facultates ad largiendum magnas comparasse; magnum numerum equitatus suo sumptu semper alere et circum se habere, neque solum domi, sed etiam apud finitimas civitates largiter posse, atque huius potentiae causa matrem in Biturigibus homini illic nobilissimo ac potentissimo conlocasse; ipsum ex Helvetiis uxorem habere, sororem ex matre et propinquas suas nuptum in alias civitates collocasse. Favere et cupere Helvetiis propter eam adfinitatem, odisse etiam suo nomine Caesarem et Romanos, quod eorum adventu potentia eius deminuta et Diviciacus frater in antiquum locum gratiae atque honoris sit restitutus. Si quid accidat Romanis, summam in spem per Helvetios regni obtinendi venire; imperio populi Romani non modo de regno, sed etiam de ea quam habeat gratia desperare. Reperiebat etiam in quaerendo Caesar, quod proelium equestre adversum paucis ante diebus esset factum, initium eius fugae factum a Dumnorige atque eius equitibus (nam equitatui, quem auxilio Caesari Haedui miserant Dumnorix praeerat); eorum fuga reliquum esse equitatum perterritum. XIX. Quibus rebus cognitis, cum ad has suspiciones certissimae res accederent, quod per fines Sequanorum Helvetios traduxisset, quod obsides inter eos dandos curasset, quod ea omnia non modo iniussu suo et civitatis,

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di Dumnorige, uomo di grande audacia, molto caro al popolo per la sua liberalità, desideroso di una condotta politica nuova nel suo paese. Già da parecchi anni si era assicurato, con poco prezzo, l’appalto dei dazi e di tutti gli altri tributi degli Edui, perché nessuno osava concorrere alle aste contro di lui. In questo modo aveva accresciuto le sue ricchezze e si era procurato i mezzi per munifiche elargizioni. A sue spese manteneva un gran numero di cavalieri, che costituivano la sua guardia personale. E non soltanto in patria era sentita la sua autorità, ma anche presso i confinanti e, per aumentare questa potenza, aveva fatto sposare la madre a un uomo molto nobile e potente dei Biturigi, egli stesso aveva preso moglie fra gli Elvezi e aveva maritato una sorella, figlia della stessa madre, e altre due parenti, in altri paesi. Favoriva e desiderava l’intervento degli Elvezi per i suoi rapporti di parentela; odiava Cesare e i Romani, perché il loro arrivo aveva determinato una diminuzione della sua autorità e il ritorno del fratello Diviziaco al favore e alla dignità di prima. Se ai Romani l’impresa fosse andata male, egli poteva sperare di ottenere, per mezzo degli Elvezi, il regno; ma sotto il dominio romano perdeva la speranza non solo di regnare, ma anche di conservare l’autorità che aveva. Durante le indagini Cesare venne anche a sapere che nello scontro di cavalleria che pochi giorni prima era stato sfavorevole ai nostri, proprio Dumnorige e i suoi cavalieri avevano per primi preso la fuga (Dumnorige era infatti a capo della cavalleria mandata dagli Edui in aiuto a Cesare), gettando così il panico tra tutti gli altri. XIX. Ai sospetti, poi, quando fu chiarito tutto questo, si aggiungevano fatti certissimi: che Dumnorige aveva fatto passare gli Elvezi per le terre dei Sèquani; aveva provveduto a uno scambio, tra loro, di ostaggi; aveva agito non solo senza ordine di Cesare o del suo popolo,

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sed etiam inscientibus ipsis fecisset, quod a magistratu Haeduorum accusaretur, satis esse causae arbitrabatur quare in eum aut ipse animadverteret aut civitatem animadvertere iuberet. His omnibus rebus unum repugnabat, quod Diviciaci fratris summum in populum Romanum studium, summam in se voluntatem, egregiam fidem, iustitiam, temperantiam cognoverat; nam ne eius supplicio Diviciaci animum offenderet verebatur. Itaque priusquam quicquam conaretur Diviciacum ad se vocari iubet et cotidianis interpretibus remotis per C. Valerium Troucillum, principem Galliae provinciae, familiarem suum, cui summam omnium rerum fidem habebat, cum eo conloquitur: simul commonefacit quae ipso praesente in concilio Gallorum de Dumnorige sint dicta, et ostendit quae separatim quisque de eo apud se dixerit; petit atque hortatur ut sine eius offensione animi vel ipse de eo causa cognita statuat, vel civitatem statuere iubeat. XX. Diviciacus multis cum lacrimis Caesarem complexus obsecrare coepit ne quid gravius in fratrem statueret: scire se illa esse vera, nec quemquam ex eo plus quam se doloris capere, propterea quod, cum ipse gratia plurimum domi atque in reliqua Gallia, ille minimum propter adulescentiam posset, per se crevisset; quibus opibus ac nervis non solum ad minuendam gratiam, sed paene ad perniciem suam uteretur. Sese tamen et amore fraterno et existimatione vulgi commoveri. Quod si quid ei a Caesare gravius accidisset, cum ipse eum locum amicitiae apud eum teneret, neminem existimaturum non sua voluntate factum; qua ex re futurum uti totius Galliae animi a se averterentur. Haec cum pluribus ver-

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ma senza informare nessuno ed era ora sotto l’accusa del magistrato degli Edui: Cesare ritenne così di avere ragioni sufficienti per prendere misure contro di lui o farle prendere agli Edui. Ma a tutte queste buone ragioni si opponeva il fatto che egli ben sapeva come Diviziaco avesse avuto sempre molta devozione per i Romani, grande desiderio di aiutarli e notevole lealtà, giustizia, moderazione: temeva quindi di offenderlo condannandone il fratello. Perciò, prima di prendere provvedimenti in proposito, fece chiamare Diviziaco ed ebbe un colloquio con lui servendosi, anziché dei soliti interpreti, di C. Valerio Trocillo, un capo della Provincia, suo familiare, nel quale aveva completa fiducia. Gli ricordò quel che era stato detto di Dumnorige alla sua presenza nel consiglio dei Galli e gli manifestò tutto quel che gli avevano riferito separatamente gli altri, esortandolo e pregandolo di non aversela a male se, esaminata la causa, egli stesso lo giudicasse o lo facesse giudicare dal popolo. XX. Diviziaco, abbracciando Cesare tra molte lacrime, lo scongiurò di non prendere un provvedimento troppo severo contro il fratello: egli sapeva che tutte le accuse erano vere e nessuno più di lui se ne addolorava, perché, quando egli godeva di grande prestigio in patria e in tutta la Gallia e Dumnorige, per la sua età, non ne aveva affatto, gli aveva dato tutti i mezzi per innalzarsi ed egli di questi mezzi e della potenza raggiunta si era servito non solo per diminuire il suo prestigio, ma quasi per rovinarlo. Tuttavia lo turbava l’amore verso il fratello e, d’altra parte, l’opinione pubblica non poteva lasciarlo indifferente. Se, infatti, a Dumnorige fosse toccata una condanna troppo grave mentre egli era così intimo amico di Cesare, nessuno avrebbe potuto credere che la pena fosse stata inflitta contro sua volontà ed egli si sarebbe alienato gli animi di tutti i Galli. Così, con ab-

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bis flens a Caesare peteret, Caesar eius dextram prendit; consolatus rogat finem orandi faciat; tanti eius apud se gratiam esse ostendit, uti et rei publicae iniuriam et suum dolorem eius voluntati ac precibus condonet. Dumnorigem ad se vocat, fratrem adhibet; quae in eo reprehendat ostendit; quae ipse intellegat, quae civitas queratur proponit; monet ut in reliquum tempus omnes suspiciones vitet; praeterita se Diviciaco fratri condonare dicit. Dumnorigi custodes ponit, ut quae agat, quibuscum loquatur, scire possit. XXI. Eodem die ab exploratoribus certior factus hostes sub monte consedisse milia passuum ab ipsius castris octo, qualis esset natura montis et qualis in circuitu ascensus qui cognoscerent misit. Renuntiatum est facilem esse. De tertia vigilia T. Labienum, legatum pro praetore, cum duabus legionibus et iis ducibus qui iter cognoverant, summum iugum montis ascendere iubet; quid sui consilii sit ostendit. Ipse de quarta vigilia eodem itinere quo hostes ierant ad eos contendit equitatumque omnem ante se mittit. P. Considius, qui rei militaris peritissimus habebatur et in exercitu L. Sullae et postea in M. Crassi fuerat, cum exploratoribus praemittitur. XXII. Prima luce, cum summus mons a [Lucio] Labieno teneretur, ipse ab hostium castris non longius mille et quingentis passibus abesset, neque, ut postea ex captivis comperit, aut ipsius adventus aut Labieni cognitus esset, Considius equo admisso ad eum accurrit, dicit montem quem a Labieno occupari voluerit ab hostibus teneri; id

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bondanza di parole e piangendo, si rivolgeva a Cesare: questi gli prese la destra, lo consolò, gli chiese di smettere le suppliche, dicendogli che tanto lo aveva caro da indurlo a perdonare, per la sua volontà e le sue preghiere, l’ingiuria fatta alla repubblica e il dispiacere provato. Chiamò Dumnorige, presente il fratello, e gli disse chiaramente ciò che aveva da rimproverargli, esponendogli quello che sapeva e ciò di cui il popolo si lamentava; poi, esortandolo ad allontanare da sé per il futuro ogni sospetto, gli disse che gli perdonava il passato per riguardo al fratello Diviziaco. Dispose, poi, che Dumnorige venisse sorvegliato, per sapere che cosa facesse e con chi parlasse. XXI. Nello stesso giorno, ricevuta dagli esploratori l’informazione che i nemici si erano fermati alla base di un monte, a otto miglia dal suo accampamento, mandò ad indagare quale ne fosse la conformazione e il pendio. Gli fu riferito che il monte era di facile accesso. Ordinò, allora, a Tito Labieno, legato propretore, di raggiungere, dopo mezzanotte, con due legioni, la sommità del monte, guidato da quelli che avevano esplorato il terreno e gli fece conoscere il suo piano. Egli, dal canto suo, verso le tre di notte, si diresse contro i nemici per la stessa strada, facendosi precedere da tutta la cavalleria e dagli esploratori guidati da P. Considio, uomo stimato per abilità militare, che aveva militato prima nell’esercito di Silla e poi in quello di Crasso. XXII. All’alba la sommità del monte era occupata da Labieno; egli non distava più di mille e cinquecento passi dal campo dei nemici che, come si seppe poi dai prigionieri, non avevano avuto sospetto né del suo arrivo né di quello di Cesare; ma ecco Considio correre a briglia sciolta a riferire che il monte che Labieno doveva occupare era nelle mani dei nemici e che l’aveva capito

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se a Gallicis armis atque insignibus cognovisse. Caesar suas copias in proximum collem subducit, aciem instruit. Labienus, ut erat ei praeceptum a Caesare ne proelium committeret, nisi ipsius copiae prope hostium castra visae essent, ut undique uno tempore in hostes impetus fieret, monte occupato nostros exspectabat proelioque abstinebat. Multo denique die per exploratores Caesar cognovit et montem ab suis teneri et Helvetios castra movisse et Considium timore perterritum quod non vidisset pro viso sibi renuntiavisse. Eo die quo consuerat intervallo hostes sequitur et milia passuum tria ab eorum castris castra ponit. XXIII. Postridie eius diei, quod omnino biduum supererat, cum exercitui frumentum metiri oporteret, et quod a Bibracte, oppido Haeduorum longe maximo et copiosissimo, non amplius milibus passuum XVIII aberat, rei frumentariae prospiciendum existimavit: iter ab Helvetiis avertit ac Bibracte ire contendit. Ea res per fugitivos L. Aemilii, decurionis equitum Gallorum, hostibus nuntiatur. Helvetii, seu quod timore perterritos Romanos discedere a se existimarent, eo magis quod pridie superioribus locis occupatis proelium non commisissent, sive eo quod re frumentaria intercludi posse confiderent, commutato consilio atque itinere converso nostros a novissimo agmine insequi ac lacessere coeperunt. XXIV. Postquam id animum advertit, copias suas Caesar in proximum collem subducit equitatumque, qui sustineret hostium impetum, misit. Ipse interim in colle medio triplicem aciem instruxit legionum quattuor veteranarum, ita uti supra se in summo iugo duas legiones quas in Gallia citeriore proxime conscripserat et omnia

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dalle armi e dalle insegne dei Galli. Cesare allora ritirò le sue truppe su un colle vicino, in schieramento di battaglia. Labieno, attenendosi all’ordine di non iniziare il combattimento se non quando fossero in vista delle truppe di Cesare già nei pressi del campo nemico, in modo che l’attacco fosse simultaneo, aspettava sul monte occupato senza combattere. Finalmente, a giorno già inoltrato, Cesare seppe dagli esploratori che il monte era nelle mani dei suoi, mentre gli Elvezi si erano allontanati, e che Considio, sconvolto dalla paura, gli aveva riferito ciò che in realtà non aveva visto. Egli allora tenne dietro ai nemici marciando, quel giorno, alla solita distanza, e pose il campo a tre miglia dal loro accampamento. XXIII. L’indomani, poiché mancavano solo due giorni alla distribuzione del frumento all’esercito e Bibracte, la più ricca e più grande città degli Edui, era a non più di diciotto miglia, Cesare ritenne opportuno provvedere a rifornirsi di grano: si allontanò, quindi, dagli Elvezi dirigendosi verso Bibracte. Ciò fu riferito ai nemici da alcuni schiavi fuggiti dalla decuria di cavalieri Galli alle dipendenze di L. Emilio. Gli Elvezi, o pensando che i nostri cessassero l’inseguimento per paura (tanto più che il giorno prima essi avevano occupato le alture e poi non avevano attaccato battaglia), o anche sperando di poterci tagliare le vie di rifornimento, cambiarono i loro piani, mutarono direzione di marcia e cominciarono ad inseguire e a provocare la nostra retroguardia. XXIV. Quando se ne accorse, Cesare riunì le sue truppe sul colle più vicino e mandò la cavalleria ad affrontare il nemico. Egli intanto, a mezza altezza, schierò le quattro legioni veterane in triplice ordine; al di sopra, sulla sommità del colle, sistemò le due legioni da poco arruolate nella Gallia citeriore e le truppe ausiliarie, riempiendo

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auxilia conlocaret ac totum montem hominibus compleret; interea sarcinas in unum locum conferri et eum ab his, qui in superiore acie constiterant muniri iussit. Helvetii cum omnibus suis carris secuti impedimenta in unum locum contulerunt; ipsi confertissima acie reiecto nostro equitatu phalange facta sub primam nostram aciem successerunt. XXV. Caesar primum suo, deinde omnium ex conspectu remotis equis, ut aequato omnium periculo spem fugae tolleret, cohortatus suos proelium commisit. Milites e loco superiore pilis missis facile hostium phalangem perfregerunt. Ea disiecta gladiis destrictis in eos impetum fecerunt. Gallis magno ad pugnam erat impedimento quod, pluribus eorum scutis uno ictu pilorum transfixis et conligatis, cum ferrum se inflexisset, neque evellere neque sinistra impedita satis commode pugnare poterant, multi ut diu iactato brachio praeoptarent scuta e manu emittere et nudo corpore pugnare. Tandem vulneribus defessi et pedem referre et, quod mons suberat circiter mille passuum, eo se recipere coeperunt. Capto monte et succedentibus nostris Boii et Tulingi, qui hominum milibus circiter XV agmen hostium claudebant et novissimis praesidio erant, ex itinere nostros latere aperto adgressi circumvenire et id conspicati Helvetii qui in montem sese receperant rursus instare et proelium redintegrare coeperunt. Romani conversa signa bipertito intulerunt: prima et secunda acies, ut victis ac summotis resisteret, tertia, ut venientes sustineret.

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l’altura di uomini; ordinò poi di radunare tutti i bagagli in un solo luogo e che le truppe che occupavano la posizione più alta provvedessero a fortificarla. Gli Elvezi, che avevano con sé tutti i loro carri, concentrarono in un sol luogo i bagagli quindi, ordinatisi a falange in formazione serrata, dopo aver respinto la nostra cavalleria, avanzarono contro la prima linea romana. XXV. Cesare, fatto allontanare e mettere fuori vista prima il suo cavallo, poi quelli di tutti gli ufficiali, per rendere uguale per ognuno il pericolo e togliere la speranza della fuga, esortò i suoi uomini e attaccò battaglia. I Romani, lanciando dall’alto i giavellotti, riuscirono facilmente a rompere la formazione nemica e quando l’ebbero scompigliata si gettarono impetuosamente con le spade in pugno contro i Galli; questi erano molto impacciati nel combattimento perché molti dei loro scudi erano stati trafitti dal lancio dei giavellotti e, essendosi i ferri piegati, non riuscivano a svellerli, cosicché non potevano combattere agevolmente con la sinistra impedita; molti, allora, dopo avere a lungo scosso il braccio, preferivano buttare via lo scudo e combattere a corpo scoperto. Finalmente, feriti e stanchi, cominciarono a ritirarsi dirigendosi verso un monte che sorgeva a circa un miglio di distanza. Occuparono il monte e già i nostri si avvicinavano, quando i Boi e i Tulìngi, che in numero di circa quindicimila chiudevano la colonna come copertura della retroguardia, mutando la loro marcia in un attacco al fianco destro dei nostri, tentarono di aggirarli. Gli Elvezi che si erano rifugiati sul monte, appena se ne accorsero, rinnovarono la battaglia attaccando nuovamente. I Romani allora, fatta una conversione, diedero il segnale d’assalto su due fronti, opponendo la prima e la seconda schiera a quelli già vinti e messi in fuga, e la terza ai barbari sopraggiunti.

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XXVI. Ita ancipiti proelio diu atque acriter pugnatum est. Diutius cum sustinere nostrorum impetus non possent, alteri se, ut coeperant, in montem receperunt, alteri ad impedimenta et carros suos se contulerunt. Nam hoc toto proelio, cum ab hora septima ad vesperum pugnatum sit, aversum hostem videre nemo potuit. Ad multam noctem etiam ad impedimenta pugnatum est, propterea quod pro vallo carros obiecerant et e loco superiore in nostros venientes tela coniciebant, et non nulli inter carros rotasque mataras ac tragulas subiciebant nostrosque vulnerabant. Diu cum esset pugnatum, impedimentis castrisque nostri potiti sunt. Ibi Orgetorigis filia atque unus e filiis captus est. Ex eo proelio circiter milia hominum CXXX superfuerunt eaque tota nocte continenter ierunt: nullam partem noctis itinere intermisso in fines Lingonum die quarto pervenerunt, cum et propter vulnera militum et propter sepulturam occisorum nostri triduum morati eos sequi non potuissent. Caesar ad Lingonas litteras nuntiosque misit, ne eos frumento neve alia re iuvarent: qui si iuvissent, se eodem loco quo Helvetios habiturum. Ipse triduo intermisso cum omnibus copiis eos sequi coepit. XXVII. Helvetii omnium rerum inopia adducti legatos de deditione ad eum miserunt. Qui cum eum in itinere convenissent seque ad pedes proiecissent suppliciterque locuti flentes pacem petissent, atque eos in eo loco quo tum essent suum adventum exspectare iussisset, paruerunt. Eo postquam Caesar pervenit, obsides, arma, servos, qui ad eos perfugissent poposcit. Dum ea conquiruntur et conferuntur nocte intermissa, circiter homi-

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XXVI. Si combatté così a lungo e duramente su due fronti, finché non potendo sostenere oltre l’urto dei nostri, gli uni si ritirarono sul monte, attuando la manovra già prima iniziata, gli altri ripiegarono verso i loro carri e bagagli. In tutto quel combattimento, durato dall’una pomeridiana fino alla sera, nessuno poté dire di aver visto il nemico in fuga. Si combatté ancora fino a notte inoltrata dove erano i bagagli dei barbari; essi avevano disposto i carri come trincea e dall’alto alcuni lanciavano dardi sui nostri che avanzavano, mentre altri scagliavano picche o giavellotti dagli spazi tra carro e carro o tra le ruote degli stessi, riuscendo così a ferire molti dei nostri. Dopo lungo combattimento i bagagli e il campo furono presi. Furono fatti prigionieri anche la figlia di Orgetorige e uno dei suoi figli. I superstiti della battaglia, circa centotrentamila uomini, si ritirarono, camminando ininterrottamente tutta la notte e, senza mai fermarsi, nel quarto giorno arrivarono nelle terre dei Lingoni: i nostri, occupati per tre giorni a curare le ferite dei soldati e a seppellire i morti, non li poterono inseguire. Cesare mandò ai Lingoni, per mezzo di messaggeri, una lettera in cui li ammoniva di non dare grano e di non aiutare in nessun altro modo i fuggiaschi perché, in caso contrario, li avrebbe considerati alla stessa stregua degli Elvezi. Tre giorni dopo partì con tutte le truppe per seguirli. XXVII. Gli Elvezi, costretti dalla mancanza di tutto, gli mandarono ambasciatori per offrirgli la resa. Questi gli si presentarono durante la marcia, gli si gettarono ai piedi e parlando in tono supplichevole, tra le lagrime, gli chiesero la pace; Cesare ordinò che gli Elvezi aspettassero il suo arrivo nel punto dove si trovavano e quelli ubbidirono. Quando arrivò, Cesare chiese gli ostaggi, le armi e i servi che si erano rifugiati presso di loro. Mentre si preparavano e si consegnavano le cose richieste,

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num milia VI eius pagi qui Verbigenus appellatur, sive timore perterriti, ne armis traditis supplicio adficerentur, sive spe salutis inducti, quod in tanta multitudine dediticiorum suam fugam aut occultari aut omnino ignorari posse existimarent, prima nocte e castris Helvetiorum egressi ad Rhenum finesque Germanorum contenderunt. XXVIII. Quod ubi Caesar resciit, quorum per fines ierant, his uti conquirerent et reducerent, si sibi purgati esse vellent, imperavit: reductos in hostium numero habuit; reliquos omnes obsidibus, armis, perfugis traditis in deditionem accepit. Helvetios, Tulingos, Latobicos in fines suos, unde erant profecti, reverti iussit et, quod omnibus fructibus amissis domi nihil erat quo famem tolerarent, Allobrogibus imperavit ut iis frumenti copiam facerent; ipsos oppida vicosque quos incenderant restituere iussit. Id ea maxime ratione fecit, quod noluit eum locum unde Helvetii discesserant vacare, ne propter bonitatem agrorum Germani qui trans Rhenum incolunt e suis finibus in Helvetiorum fines transirent et finitimi Galliae provinciae Allobrogibusque essent. Boios petentibus Haeduis, quod egregia virtute erant cogniti, ut in finibus suis conlocarent concessit; quibus illi agros dederunt quosque postea in parem iuris libertatisque condicionem atque ipsi erant receperunt. XXIX. In castris Helvetiorum tabulae repertae sunt litteris Graecis confectae et ad Caesarem relatae, quibus in

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sopraggiunta la notte, circa seimila uomini della tribù detta Verbigeno, o perché sconvolti dalla paura di venire uccisi una volta consegnate le armi, o perché pensavano di potersi salvare, sperando che la loro fuga, tra tanta gente che si arrendeva, non avrebbe dato nell’occhio e magari sarebbe stata ignorata, sul far della notte uscirono dall’accampamento e si diressero verso il Reno e le terre dei Germani. XXVIII. Appena Cesare lo seppe, ordinò agli abitanti delle terre per cui essi dovevano passare di cercarli e consegnarli, se volevano essere considerati, ai suoi occhi, innocenti. Quelli che gli furono riportati furono da lui considerati nemici; degli altri accettò la resa dopo la consegna degli ostaggi, delle armi, dei disertori. Cesare ordinò agli Elvezi, ai Tulìngi, ai Latovìci di ritornare nelle terre da cui erano partiti e poiché in patria, per aver distrutte tutte le messi, non avevano di che sfamarsi, ordinò agli Allobrogi di rifornirli di grano; a loro poi comandò di ricostruire tutte le città e i villaggi che avevano incendiati. Agì in questo modo soprattutto perché non volle che rimanesse vuota la regione da dove gli Elvezi erano partiti, per evitare che, richiamati dalla fertilità delle terre, i Germani d’oltre Reno passassero dal loro territorio in quello degli Elvezi e diventassero confinanti della Provincia di Gallia e degli Allobrogi. Ai Boi, di cui era stato notato il valore, concesse, su proposta degli Edui, di stabilirsi nelle loro terre; ad essi gli Edui assegnarono campi e più tardi concessero libertà e parità di condizioni. XXIX. Nell’accampamento degli Elvezi furono trovati e portati a Cesare dei registri scritti in lettere greche,1 1 Gli Elvezi, non avendo alfabeto proprio, utilizzavano quello greco e in esso trascrivevano il loro linguaggio celtico. Si veda in proposito il cap. XIV del libro VI.

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tabulis nominatim ratio confecta erat, qui numerus domo exisset eorum qui arma ferre possent, et item separatim pueri, senes mulieresque. Quarum omnium rerum summa erat capitum Helvetiorum milia CCLXIII, Tulingorum milia XXXVI, Latobicorum XIV, Rauracorum XXIII, Boiorum XXXII; ex his qui arma ferre possent, ad milia nonaginta duo. Summa omnium fuerunt ad milia CCCLXVIII. Eorum qui domum redierunt censu habito, ut Caesar imperaverat, repertus est numerus milium C et X. XXX. Bello Helvetiorum confecto totius fere Galliae legati, principes civitatum, ad Caesarem gratulatum convenerunt: intellegere sese, tametsi pro veteribus Helvetiorum iniuriis populi Romani ab his poenas bello repetisset, tamen eam rem non minus ex usu terrae Galliae quam populi Romani accidisse, propterea quod eo consilio florentissimis rebus domos suas Helvetii reliquissent, uti toti Galliae bellum inferrent imperioque potirentur, locumque domicilio ex magna copia deligerent quem ex omni Gallia opportunissimum ac fructuosissimum iudicassent, reliquasque civitates stipendiarias haberent. Petierunt uti sibi concilium totius Galliae in diem certam indicere idque Caesaris voluntate facere liceret: sese habere quasdam res quas ex communi consensu ab eo petere vellent. Ea re permissa diem concilio constituerunt et iure iurando ne quis enuntiaret, nisi quibus communi consilio mandatum esset, inter se sanxerunt. XXXI. Eo concilio dimisso idem principes civitatum qui ante fuerant ad Caesarem reverterunt petieruntque uti

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nei quali erano contenuti gli elenchi nominativi e numerici di coloro che avevano lasciato la patria: quanti erano gli uomini validi alle armi e, separatamente, quanti i fanciulli, i vecchi e le donne. In tutto il numero degli Elvezi ammontava a duecentosessantatremila, i Tulìngi erano trentaseimila, i Latovìci quattordicimila, i Ràuraci ventitremila, i Boi trentaduemila, fra tutti costoro gli uomini che potevano portare le armi erano circa novantaduemila. Complessivamente erano trecentosessantottomila. Fatto per ordine di Cesare il censimento di quelli che ritornavano in patria, si trovò che erano centodiecimila. XXX. Conclusa la guerra contro gli Elvezi, vennero da quasi tutta la Gallia a congratularsi con Cesare i personaggi più autorevoli delle varie nazioni. Essi comprendevano, gli dissero, che, sebbene Cesare avesse voluto con quella guerra punire gli Elvezi per ingiurie contro il popolo romano, quell’impresa era stata utile alla Gallia, non meno che a Roma. Gli Elvezi avevano, infatti, lasciato la loro patria, benché in piena prosperità, proprio con l’intento di portare la guerra in tutta la Gallia, impadronirsene e scegliersi come sede, in quella regione così estesa, la terra che giudicassero più opportuna e più fertile, rendendo tributarie le altre genti. Chiesero a Cesare il permesso di indire, stabilendone la data, un’assemblea generale di tutta la Gallia, poiché avevano alcune cose da chiedergli col consenso di tutti. Avuta l’autorizzazione richiesta, fissarono il giorno della riunione, impegnandosi con giuramento a non palesare a nessuno gli argomenti che vi si sarebbero discussi, salvo che per specifico incarico avuto per deliberazione comune dell’assemblea. XXXI. Dopo lo scioglimento dell’assemblea, i capi delle città che vi avevano partecipato tornarono da Cesare e

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sibi secreto in occulto de sua omniumque salute cum eo agere liceret. Ea re impetrata sese omnes flentes Caesari ad pedes proiecerunt: non minus se id contendere et laborare, ne ea quae dixissent enuntiarentur, quam uti ea quae vellent impetrarent, propterea quod, si enuntiatum esset, summum in cruciatum se venturos viderent. Locutus est pro his Diviciacus Haeduus: Galliae totius factiones esse duas: harum alterius principatum tenere Haeduos, alterius Arvernos. Hi cum tantopere de potentatu inter se multos annos contenderent, factum esse uti ab Arvernis Sequanisque Germani mercede arcesserentur. Horum primo circiter milia XV Rhenum transisse: posteaquam agros et cultum et copias Gallorum homines feri ac barbari adamassent, traductos plures: nunc esse in Gallia ad centum et XX milium numerum. Cum his Haeduos eorumque clientes semel atque iterum armis contendisse; magnam calamitatem pulsos accepisse, omnem nobilitatem, omnem senatum, omnem equitatum amisisse. Quibus proeliis calamitatibusque fractos, qui et sua virtute et populi Romani hospitio atque amicitia plurimum ante in Gallia potuissent, coactos esse Sequanis obsides dare nobilissimos civitatis et iure iurando civitatem obstringere, sese neque obsides repetituros neque auxilium a populo Romano inploraturos neque recusaturos, quo minus perpetuo sub illorum dicione atque imperio essent. Unum se esse ex omni civitate Haeduorum qui adduci non potuerit ut iuraret aut liberos suos obsides daret. Ob eam rem se ex civitate profugisse et Romam ad senatum venisse auxilium postulatum, quod solus neque iure iurando neque obsidibus teneretur. Sed peius victoribus Sequanis quam Haeduis victis accidisse, propterea quod Ariovistus, rex Germanorum, in eorum finibus consedisset tertiamque partem agri Sequani, qui esset optimus totius Galliae, occu-

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gli chiesero di discutere segretamente con lui, per la salvezza loro e di tutti. Ottenutolo, si gettarono ai suoi piedi piangendo e dicendo che essi avrebbero cercato di non far trapelare quel che avrebbero detto, con non minore ansioso impegno di quello che avrebbero impiegato per ottenere quel che volevano, perché se si fossero risapute le loro richieste, erano certi che sarebbero andati incontro a gravi sciagure. Per tutti parlò Diviziaco, eduo: tutta la Gallia – egli espose – era divisa in due fazioni, l’una capeggiata dagli Edui, l’altra dagli Arverni. Già da molti anni costoro gareggiavano tra loro per ottenere il predominio, quando gli Arverni e i Sèquani avevano fatto venire, assoldandoli, dei Germani. Dapprima solo quindicimila di essi avevano attraversato il Reno; ma poi, quando quegli uomini rozzi e barbari avevano cominciato ad apprezzare i campi, la civiltà, le ricchezze dei Galli, erano passati in maggior numero ed ora in Gallia se ne trovavano circa centoventimila. Contro di loro più di una volta gli Edui e i loro alleati avevano combattuto, ma erano stati respinti con grandi danni, perdendo tutti i cittadini più nobili, i più anziani e tutta la cavalleria. Rovinati da queste disgraziate battaglie essi, che avevano prima tanta potenza per il loro valore e per l’appoggio e l’amicizia dei Romani, erano stati costretti a consegnare ai Sèquani come ostaggi i più autorevoli cittadini, ad obbligarsi con giuramento a non richiederne la restituzione, non domandare aiuto ai Romani e a sottostare per sempre al loro dominio. Egli, Diviziaco, era il solo di tutto il popolo che non si era lasciato indurre a giurare né a consegnare i figli. Perciò, non essendo legato né da giuramento né da ostaggi, era fuggito dalla patria ed era andato a Roma a chiedere aiuto al senato. Ma ai Sèquani vincitori era accaduta cosa ancora peggiore che agli Edui vinti: Ariovisto, re dei Germani, si era stabilito nelle loro terre, occupando un terzo della regione, che era la più fertile di tutta la Gallia, e

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pavisset et nunc de altera parte tertia Sequanos decedere iuberet, propterea quod paucis mensibus ante Harudum milia hominum XXIV ad eum venissent, quibus locus ac sedes pararentur. Futurum esse paucis annis uti omnes ex Galliae finibus pellerentur atque omnes Germani Rhenum transirent; neque enim conferendum esse Gallicum cum Germanorum agro, neque hanc consuetudinem victus cum illa comparandam. Ariovistum autem, ut semel Gallorum copias proelio vicerit, quod proelium factum sit Admagetobrigae, superbe et crudeliter imperare, obsides nobilissimi cuiusque liberos poscere et in eos omnia exempla cruciatusque edere, si qua res non ad nutum aut ad voluntatem eius facta sit. Hominem esse barbarum, iracundum, temerarium; non posse eius imperia diutius sustineri. Nisi si quid in Caesare populoque Romano sit auxilii, omnibus Gallis idem esse faciendum, quod Helvetii fecerint, ut domo emigrent, aliud domicilium, alias sedes, remotas a Germanis, petant fortunamque, quaecumque accidat, experiantur. Haec si enuntiata Ariovisto sint, non dubitare quin de omnibus obsidibus qui apud eum sint gravissimum supplicium sumat. Caesarem vel auctoritate sua atque exercitus vel recenti victoria vel nomine populi Romani deterrere posse ne maior multitudo Germanorum Rhenum traducatur, Galliamque omnem ab Ariovisti iniuria posse defendere. XXXII. Hac oratione ab Diviciaco habita omnes qui aderant magno fletu auxilium a Caesare petere coeperunt. Animadvertit Caesar unos ex omnibus Sequanos nihil earum rerum facere quas ceteri facerent, sed tristes capite demisso terram intueri. Eius rei quae causa esset miratus ex ipsis quaesiit. Nihil Sequani respondere, sed in eadem tristitia taciti permanere. Cum ab his

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ora ordinava ai Sèquani di cedergli un altro terzo del territorio per procurare una sede fissa agli Arudi, che pochi mesi prima, in numero di circa ventiquattromila, lo avevano raggiunto. Entro pochi anni, così, essi sarebbero stati scacciati dalla Gallia e tutti i Germani avrebbero attraversato il Reno, poiché non si poteva fare un paragone fra i terreni dei Galli e quelli dei Germani, né fra gli usi e la civiltà dei due popoli. Ariovisto, poi, dopo aver vinto i Galli nella battaglia di Admagetobriga, dominava con modi superbi e crudeli, chiedeva come ostaggi i figli dei più nobili cittadini e li sottoponeva ad ogni sorta di supplizi se qualche suo ordine non era perfettamente eseguito. Era un uomo barbaro, iracondo, temerario: non potevano i Galli sopportare più a lungo la sua dominazione. Se non avessero potuto ottenere aiuto da Cesare e dai Romani, sarebbero stati costretti a fare quello che avevano fatto gli Elvezi, emigrare dalla patria in cerca di un’altra sede, di un altro paese lontano dai Germani e tentare la sorte qualunque cosa accadesse. Se Ariovisto fosse venuto a conoscenza di queste loro parole non c’era dubbio che avrebbe inflitto gravi supplizi agli ostaggi che aveva con sé. Cesare, avvalendosi del proprio prestigio personale e di quello dell’esercito, nonché dell’autorità che gli veniva dalla recente vittoria e servendosi del nome del popolo romano, poteva impedire che un maggior numero di Germani passasse il Reno e poteva difendere tutta la Gallia dai soprusi di Ariovisto. XXXII. Dopo queste parole di Diviziaco, tutti i presenti cominciarono a piangere e a chiedere aiuto a Cesare. Questi si accorse che i Sèquani non imploravano come gli altri, ma se ne stavano tristi, a capo chino e con lo sguardo fisso a terra. Meravigliatosi di ciò, ne chiese la causa: i Sèquani non risposero, ma rimasero taciti nello stesso atteggiamento di tristezza. Cesare li interrogò più

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saepius quaereret neque ullam omnino vocem exprimere posset, idem Diviciacus Haeduus respondit: hoc esse miseriorem et graviorem fortunam Sequanorum quam reliquorum, quod soli ne in occulto quidem queri neque auxilium implorare auderent absentisque Ariovisti crudelitatem, velut si coram adesset, horrerent, propterea quod reliquis tamen fugae facultas daretur, Sequanis vero, qui intra fines suos Ariovistum recepissent, quorum oppida omnia in potestate eius essent, omnes cruciatus essent perferendi. XXXIII. His rebus cognitis Caesar Gallorum animos verbis confirmavit pollicitusque est sibi eam rem curae futuram: magnam se habere spem, et beneficio suo et auctoritate adductum Ariovistum finem iniuriis facturum. Hac oratione habita concilium dimisit. Et secundum ea multae res eum hortabantur quare sibi eam rem cogitandam et suscipiendam putaret, in primis quod Haeduos fratres consanguineosque saepe numero a senatu appellatos in servitute atque in dicione videbat Germanorum teneri eorumque obsides esse apud Ariovistum ac Sequanos intellegebat; quod in tanto imperio populi Romani turpissimum sibi et rei publicae esse arbitrabatur. Paulatim autem Germanos consuescere Rhenum transire et in Galliam magnam eorum multitudinem venire populo Romano periculosum videbat; neque sibi homines feros ac barbaros temperaturos existimabat quin, cum omnem Galliam occupavissent, ut ante Cimbri Teutonique fecissent, in provinciam exirent atque inde in Italiam contenderent, praesertim cum Sequanos a provincia nostra Rhodanus divideret; quibus rebus quam maturrime occurrendum putabat. Ipse autem Ariovistus tantos sibi spiritus, tantam adrogantiam sumpserat, ut ferendus non videretur.

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volte, ma non poté avere da loro neppure una parola; allora lo stesso Diviziaco, eduo, rispose che la sorte dei Sèquani era più misera e più dura di quella di tutti gli altri, perché essi soli non osavano lamentarsi né chiedere aiuto, neppure in segreto e anche quando Ariovisto era lontano temevano la sua crudeltà, come se fosse stato presente: agli altri era almeno concessa la speranza della fuga, mentre i Sèquani che avevano accolto Ariovisto nelle loro terre, ora che le loro città erano tutte nelle sue mani, dovevano sopportare ogni specie di soprusi. XXXIII. Informato così di tutto, Cesare incoraggiò i Galli e promise che si sarebbe occupato di quella situazione, avendo buona speranza che Ariovisto, per i benefici da lui ricevuti e per la sua autorità, avrebbe posto fine ai soprusi. Detto ciò sciolse l’adunanza. Oltre a quello che aveva udito, molte considerazioni lo spingevano a ritenere che egli dovesse preoccuparsi di quella situazione: prima di tutto perché vedeva che gli Edui, chiamati più volte dal senato popolo fratello, erano in condizione di servitù verso i Germani, non solo, ma che avevano dovuto consegnare ostaggi ad Ariovisto ed ai Sèquani, il che egli giudicava cosa vergognosa per l’autorità del popolo romano e per lui stesso. Inoltre, che i Germani prendessero l’abitudine di attraversare il Reno e di trasferirsi in gran numero in Gallia, gli sembrava pericoloso per Roma perché, dato che solo il Rodano divideva i Sèquani dalla nostra Provincia, era da temersi che non fosse facile impedire che quella gente rozza e barbara, una volta occupata la Gallia, si riversasse, come avevano fatto i Cimbri e i Teutoni, nella Provincia e di lì minacciassero l’Italia. Cesare, dunque, pensò che si dovesse provvedere al più presto a porre riparo a tutto ciò. Ariovisto, d’altra parte, dimostrava tanta tracotanza e tanta superbia, che non lo si poteva più sopportare.

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XXXIV. Quam ob rem placuit ei ut ad Ariovistum legatos mitteret, qui ab eo postularent uti aliquem locum medium utriusque conloquio deligeret: velle sese de re publica et summis utriusque rebus cum eo agere. Ei legationi Ariovistus respondit: si quid ipsi a Caesare opus esset, sese ad eum venturum fuisse; si quid ille se velit, illum ad se venire oportere. Praeterea se neque sine exercitu in eas partes Galliae venire audere quas Caesar possideret, neque exercitum sine magno commeatu atque molimento in unum locum contrahere posse. Sibi autem mirum videri quid in sua Gallia, quam bello vicisset, aut Caesari aut omnino populo Romano negotii esset. XXXV. His responsis ad Caesarem relatis iterum ad eum Caesar legatos cum his mandatis mittit: quoniam tanto suo populique Romani beneficio adfectus, cum in consulatu suo rex atque amicus a senatu appellatus esset, hanc sibi populoque Romano gratiam referret ut in conloquium venire invitatus gravaretur neque de communi re dicendum sibi et cognoscendum putaret, haec esse, quae ab eo postularet: primum ne quam multitudinem hominum amplius trans Rhenum in Galliam traduceret; deinde obsides quos haberet ab Haeduis redderet Sequanisque permitteret ut quos illi haberent voluntate eius reddere illis liceret; neve Haeduos iniuria lacesseret neve his sociisque eorum bellum inferret. Si id ita fecisset, sibi populoque Romano perpetuam gratiam atque amicitiam cum eo futuram; si non impetraret, sese, quoniam M. Messala M. Pisone consulibus senatus censuisset uti quicumque Galliam provinciam obtineret, quod commodo rei publicae facere posset, Haeduos ceterosque amicos populi Romani defenderet, se Haeduorum iniurias non neglecturum.

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XXXIV. Decise perciò di mandare ambasciatori ad Ariovisto per chiedergli di scegliere una località situata a pari distanza tra loro per un colloquio, perché voleva trattare con lui importanti affari di stato che interessavano entrambi. A questi ambasciatori Ariovisto rispose che se avesse avuto bisogno di qualcosa da Cesare si sarebbe recato da lui; ma poiché era Cesare che voleva qualcosa, spettava a lui recarsi da Ariovisto. D’altra parte egli non riteneva opportuno recarsi nella Gallia romana senza esercito e per radunarlo occorrevano grandi approvvigionamenti, spese e fatica. Gli sembrava però strano che nella Gallia a lui sottomessa per diritto di guerra ci fosse qualcosa che potesse interessare Cesare o il popolo romano. XXXV. Quando gli fu riferita questa risposta, Cesare mandò di nuovo altri ambasciatori con l’incarico di portare il seguente messaggio: giacché Ariovisto, che aveva avuto da lui, durante il suo consolato e dal popolo romano la concessione tanto grande di essere chiamato re e amico, mostrava così poca riconoscenza che, invitato a un colloquio, mostrava di esserne infastidito e rifiutava uno scambio di idee su affari di comune interesse, gli faceva queste richieste: in primo luogo, di non far passare più contingenti di Germani al di qua del Reno per stabilirsi in Gallia; poi, di restituire gli ostaggi degli Edui in sua mano e di permettere ai Sèquani di rendere quelli che essi detenevano; infine di non arrecare danni agli Edui e non portare guerra ad essi né ai loro alleati. Se avesse aderito a queste richieste, avrebbe avuto, per sempre, favore e amicizia da parte sua e dal popolo romano; altrimenti, attenendosi alla deliberazione presa dal senato sotto il consolato di M. Messala e M. Pisone, per cui chi aveva il governo della Provincia doveva, nell’interesse di Roma, difendere gli Edui e gli altri amici del popolo romano, egli non avrebbe lasciato impunite le offese arrecate agli Edui.

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XXXVI. Ad haec Ariovistus respondit: ius esse belli ut qui vicissent iis quos vicissent, quem ad modum vellent imperarent: item populum Romanum victis non ad alterius praescriptum, sed ad suum arbitrium imperare consuesse. Si ipse populo Romano non praescriberet quem ad modum suo iure uteretur, non oportere se a populo Romano in suo iure impediri. Haeduos sibi, quoniam belli fortunam temptassent et armis congressi ac superati essent, stipendiarios esse factos. Magnam Caesarem iniuriam facere, qui suo adventu vectigalia sibi deteriora faceret. Haeduis se obsides redditurum non esse, neque his neque eorum sociis iniuria bellum inlaturum, si in eo manerent quod convenisset stipendiumque quotannis penderent; si id non fecissent, longe his fraternum nomen populi Romani afuturum. Quod sibi Caesar denuntiaret, se Haeduorum iniurias non neglecturum, neminem secum sine sua pernicie contendisse. Cum vellet, congrederetur: intellecturum quid invicti Germani, exercitatissimi in armis, qui inter annos XIV tectum non subissent, virtute possent. XXXVII. Haec eodem tempore Caesari mandata referebantur, et legati ab Haeduis et a Treveris veniebant: Haedui questum, quod Harudes, qui nuper in Galliam transportati essent, fines eorum popularentur: sese ne obsidibus quidem datis pacem Ariovisti redimere potuisse; Treveri autem, pagos centum Sueborum ad ripas Rheni consedisse, qui Rhenum transire conarentur; his praeesse Nasuam et Cimberium fratres. Quibus rebus Caesar vehementer commotus maturandum sibi existimavit, ne si nova manus Sueborum cum veteribus copiis

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XXXVI. A questo messaggio Ariovisto rispose che era diritto di guerra che i vincitori dominassero a loro arbitrio sui vinti; era consuetudine, anche del popolo romano, di comandare ai vinti non secondo le imposizioni altrui ma a modo loro. Se egli dunque non prescriveva al popolo romano il modo di esercitare il proprio diritto, bisognava che anch’egli dal popolo romano non fosse ostacolato nel suo. Gli Edui avevano tentato la fortuna delle armi; avevano intrapreso una guerra; erano stati vinti e perciò erano diventati suoi tributari. Cesare ora gli recava un grande danno, rendendogli minori, col suo arrivo, i tributi. Non intendeva restituire gli ostaggi agli Edui, ma non avrebbe portato guerra ingiusta né a loro né ai loro alleati, se si fossero attenuti ai patti stabiliti e avessero pagato ogni anno il tributo concordato: se non l’avessero fatto, ben poco sarebbe loro valso il nome di fratelli del popolo romano. Quanto a quello che Cesare gli diceva, che non avrebbe lasciato impuniti i torti fatti agli Edui, si ricordasse che nessuno aveva combattuto senza danno contro di lui. Venisse pure ad attaccarlo quando voleva: avrebbe conosciuto quale era il valore degli invitti Germani, assai provetti in guerra e così forti che da quattordici anni non si erano riparati in un luogo coperto. XXXVII. Mentre a Cesare erano riferite queste parole di Ariovisto, arrivarono anche dei messi da parte degli Edui e dei Treveri; gli Edui lamentavano che gli Arudi, che da poco erano entrati in Gallia, devastavano le loro terre e che neppure la consegna degli ostaggi serviva ad assicurare loro la pace da Ariovisto. I Treveri, poi, riferivano che cento tribù degli Svevi, comandate dai fratelli Nasua e Cimberio, si erano fermate alle rive del Reno e cercavano di attraversarlo. Cesare, vivamente scosso da queste notizie, pensò di dover affrettare la decisione per evitare che, congiuntesi le nuove forze degli Svevi a

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Ariovisti sese coniunxisset, minus facile resisti posset. Itaque re frumentaria quam celerrime potuit comparata magnis itineribus ad Ariovistum contendit. XXXVIII. Cum tridui viam processisset, nuntiatum est ei Ariovistum cum suis omnibus copiis ad occupandum Vesontionem, quod est oppidum maximum Sequanorum, contendere, triduique viam a suis finibus profecisse. Id ne accideret magnopere sibi praecavendum Caesar existimabat. Namque omnium rerum quae ad bellum usui erant summa erat in eo oppido facultas, idque natura loci sic muniebatur ut magnam ad ducendum bellum daret facultatem, propterea quod flumen [alduas] Dubis ut circino circumductum paene totum oppidum cingit; reliquum spatium, quod est non amplius pedum M sexcentorum, qua flumen intermittit, mons continet magna altitudine, ita ut radices eius montis ex utraque parte ripae fluminis contingant. Hunc murus circumdatus arcem efficit et cum oppido coniungit. Huc Caesar magnis nocturnis diurnisque itineribus contendit occupatoque oppido ibi praesidium conlocat. XXXIX. Dum paucos dies ad Vesontionem rei frumentariae commeatusque causa moratur, ex percontatione nostrorum vocibusque Gallorum ac mercatorum, qui ingenti magnitudine corporum Germanos, incredibili virtute atque exercitatione in armis esse praedicabant (saepe numero sese cum his congressos ne vultum quidem atque aciem oculorum dicebant ferre potuisse), tantus subito timor omnem exercitum occupavit, ut non mediocriter omnium mentes animosque perturbaret. Hic primum ortus est a tribunis militum, praefectis reliquisque qui ex urbe amicitiae causa Caesarem secuti non magnum in re militari usum habebant: quorum alius

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quelle di Ariovisto, gli potessero tener fronte più facilmente. Così, rifornitosi al più presto di grano, si diresse a marce forzate verso Ariovisto. XXXVIII. Dopo tre giorni di marcia gli giunse la notizia che Ariovisto, con tutte le sue truppe, si dirigeva verso la più grande città dei Sèquani, Vesonzione, con lo scopo di impadronirsene e che era in marcia già da tre giorni. Cesare giudicò che fosse necessario fare tutto il possibile per prevenirlo, perché in quella città c’era la possibilità di rifornirsi di tutto quello che serve alla guerra e per di più la città, forte come era per posizione naturale, poteva offrire tutte le opportunità per prolungare la lotta; un fiume infatti, il Dubis, la cinge in cerchio quasi tutta, con un corso che pare disegnato col compasso: dove manca il corso del fiume, cioè per uno spazio di non più di milleseicento piedi, si eleva un monte di grande altezza che la chiude così completamente che la sua base è bagnata da due parti dal fiume. Questo monte, circondato da un muro che lo congiunge all’abitato, ne costituisce la rocca. Qui Cesare si diresse marciando di giorno e di notte a grandi tappe, occupò la città, e vi pose un presidio. XXXIX. Si trattenne pochi giorni a Vesonzione per i rifornimenti di frumento e viveri, e in quel frattempo gli abitanti e i mercanti andavano dicendo, ai nostri soldati incuriositi, che i Germani erano uomini giganteschi, di straordinario valore in guerra e che spesso, quando si erano trovati di fronte a loro, essi non avevano potuto sopportarne neppure l’aspetto e lo sguardo. Questo fece sì che si diffuse in tutto l’esercito un timore così grande, da sconvolgere le menti e gli animi di tutti. Primi a turbarsi furono i tribuni militari, i prefetti e gli altri che avevano seguìto Cesare da Roma per amicizia, senza avere esperienza di vita militare; alcuni di costoro, avan-

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alia causa inlata, quam sibi ad proficiscendum necessariam esse diceret, petebat ut eius voluntate discedere liceret; nonnulli pudore adducti, ut timoris suspicionem vitarent, remanebant. Hi neque vultum fingere neque interdum lacrimas tenere poterant; abditi in tabernaculis aut suum fatum querebantur aut cum familiaribus suis commune periculum miserabantur. Vulgo totis castris testamenta obsignabantur. Horum vocibus ac timore paulatim etiam ii qui magnum in castris usum habebant, milites centurionesque quique equitatui praeerant, perturbabantur. Qui se ex his minus timidos existimari volebant, non se hostem vereri, sed angustias itineris et magnitudinem silvarum quae intercederent inter ipsos atque Ariovistum, aut rem frumentariam, ut satis commode supportari posset, timere dicebant. Non nulli etiam Caesari nuntiarant, cum castra moveri ac signa ferri iussisset, non fore dicto audientes milites neque propter timorem signa laturos. XL. Haec cum animadvertisset, convocato consilio omniumque ordinum ad id consilium adhibitis centurionibus vehementer eos incusavit: primum, quod aut quam in partem aut quo consilio ducerentur sibi quaerendum aut cogitandum putarent. Ariovistum se consule cupidissime populi Romani amicitiam adpetisse: cur hunc tam temere quisquam ab officio discessurum iudicaret? Sibi quidem persuaderi cognitis suis postulatis atque aequitate condicionum perspecta eum neque suam neque populi Romani gratiam repudiaturum. Quod si furore atque amentia inpulsus bellum intulisset, quid tandem vererentur? aut cur de sua virtute aut de ipsius diligentia desperarent? Factum eius hostis periculum patrum nostrorum memoria, cum Cimbris et Teutonis a C. Mario pulsis non minorem laudem exercitus quam ipse imperator meritus videbatur; factum etiam nuper in Italia

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zando chi un pretesto chi un altro, chiedevano a Cesare il permesso di lasciare l’esercito. Certuni rimanevano, per la vergogna e il timore di essere accusati di viltà; ma non riuscivano ad assumere un atteggiamento sereno, né talvolta a trattenere le lagrime: nascosti nelle tende si lamentavano della loro sorte o, insieme ai loro intimi, si commiseravano per il comune pericolo. In tutto il campo si facevano testamenti. Alle chiacchiere e alla paura di costoro, a poco a poco, anche i soldati esperti della vita militare, i centurioni, i prefetti di cavalleria, finivano per essere turbati. Chi voleva apparire coraggioso diceva di non temere il nemico, ma di essere preoccupato per la difficoltà delle strade e la grande estensione delle selve interposte tra loro e Ariovisto o per le difficoltà che si opponevano al trasporto del grano. Alcuni persino avevano annunziato a Cesare che, al momento di muovere il campo e avanzare, i soldati non avrebbero ubbidito e per paura non avrebbero mosso le insegne. XL. Accortosi di questa situazione, Cesare convocò a consiglio i centurioni di tutti gli ordini e li rimproverò con violenza: prima di tutto per la pretesa di coloro che avrebbero voluto sapere dove li avrebbe condotti e quale era il suo piano. Ariovisto – egli aggiunse – durante il suo consolato aveva cercato in ogni modo l’amicizia dei Romani; perché si doveva giudicare che ora venisse meno tanto temerariamente ai suoi obblighi? Quanto a lui, era convinto che quello, esaminate le richieste e vista l’equità delle condizioni, non avrebbe rinunciato all’amicizia sua e di Roma. E poi se, per furore o follia, avesse voluto fare la guerra, di che temere? Forse non avevano più fiducia nel loro valore o nella sua abilità? Al tempo dei padri si era già conosciuto quel nemico, quando, respinti i Cimbri e i Teutoni da C. Mario, pari gloria era toccata all’esercito, e al comandante: e la stessa esperienza era stata fatta poco tempo prima in Italia,

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servili tumultu, quos tamen aliquid usus ac disciplina quam a nobis accepissent sublevarent. Ex quo iudicari posse quantum haberet in se boni constantia, propterea quod quos aliquamdiu inermes sine causa timuissent, hos postea armatos ac victores superassent. Denique hos esse eosdem quibuscum saepe numero Helvetii congressi non solum in suis, sed etiam in illorum finibus plerumque superarint, qui tamen pares esse nostro exercitui non potuerint. Si quos adversum proelium et fuga Gallorum commoveret, hos, si quaererent, reperire posse diuturnitate belli defatigatis Gallis Ariovistum, cum multos menses castris se ac paludibus tenuisset neque sui potestatem fecisset, desperantes iam de pugna et dispersos subito adortum magis ratione et consilio quam virtute vicisse. Cui rationi contra homines barbaros atque imperitos locus fuisset, hac ne ipsum quidem sperare nostros exercitus capi posse. Qui suum timorem in rei frumentariae simulationem angustiasque itineris conferrent, facere arroganter, cum aut de officio imperatoris desperare aut praescribere viderentur. Haec sibi esse curae: frumentum Sequanos, Leucos, Lingones subministrare, iamque esse in agris frumenta matura; de itinere ipsos brevi tempore iudicaturos. Quod non fore dicto audientes neque signa laturi dicantur, nihil se ea re commoveri: scire enim, quibuscumque exercitus dicto audiens non fuerit, aut male re gesta fortunam defuisse aut aliquo facinore comperto avaritiam esse convictam: suam innocentiam perpetua vita, felicitatem Helvetiorum bello esse perspectam. Itaque se, quod in longiorem

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durante la ribellione degli schiavi, che pure si erano giovati della pratica e dei sistemi imparati dai Romani. Da questa lotta si poteva capire quanto vale la tenacia, perché quelli stessi che una volta, sebbene disarmati, essi avevano temuto, avevano poi vinti quando erano armati e già vittoriosi. Ed infine costoro erano proprio quelli con i quali spesso gli Elvezi erano venuti a battaglia, non solo entro i propri confini, ma anche nelle loro terre e che spesso avevano vinto; eppure gli Elvezi erano stati sconfitti dal nostro esercito. Se coloro che si lasciavano impressionare dalla sconfitta e dalla fuga dei Galli si fossero informati, avrebbero saputo che Ariovisto li aveva stancati con una lunga guerra e dopo essere rimasto per molti mesi nell’accampamento dentro le paludi, senza mai dare la possibilità di attaccarlo, li aveva assaliti mentre, non pensando più di dover combattere, si erano dispersi, vincendoli così più per un abile piano che per valore. Tale abilità Ariovisto aveva potuto sfruttare contro quella gente barbara e inesperta, ma non poteva sperare di ingannare l’esercito romano con lo stesso metodo. Coloro, poi, che cercavano di giustificare la propria paura adducendo la difficoltà dei rifornimenti e l’impraticabilità delle strade, erano dei presuntuosi, che non avevano fiducia nelle capacità del comandante o osavano dargli suggerimenti. Queste cose rientravano fra i suoi compiti: i Sèquani, i Leuci, i Lingoni avrebbero fornito il grano e le messi erano già mature nei campi. Circa la strada, ne avrebbero giudicato fra poco. Quanto al fatto che i soldati non avrebbero ubbidito e non si sarebbero mossi, egli non ne era per niente turbato; perché sapeva che gli eserciti non ubbidiscono o quando il comandante viene abbandonato dalla fortuna in qualche azione mal riuscita, o quando ne è stata provata l’avidità per qualche turpe azione: invece tutta la sua vita dimostrava la sua integrità, e la guerra contro gli Elvezi provava la sua fortuna. Perciò avrebbe affrettato ciò che

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diem conlaturus fuisset, repraesentaturum et proxima nocte de quarta vigilia castra moturum, ut quam primum intellegere posset, utrum apud eos pudor atque officium an timor plus valeret. Quod si praeterea nemo sequatur, tamen se cum sola decima legione iturum, de qua non dubitaret, sibique eam praetoriam cohortem futuram. Huic legioni Caesar et indulserat praecipue et propter virtutem confidebat maxime. XLI. Hac oratione habita mirum in modum conversae sunt omnium mentes summaque alacritas et cupiditas belli gerendi innata est, princepsque decima legio per tribunos militum ei gratias egit quod de se optimum iudicium fecisset, seque esse ad bellum gerendum paratissimam confirmavit. Deinde reliquae legiones cum tribunis militum et primorum ordinum centurionibus egerunt uti Caesari satis facerent; se neque umquam dubitasse neque timuisse neque de summa belli suum iudicium, sed imperatoris esse existimavisse. Eorum satisfactione accepta et itinere exquisito per Diviciacum, quod ex Gallis ei maximam fidem habebat, ut milium amplius quinquaginta circuitu locis apertis exercitum duceret, de quarta vigilia, ut dixerat, profectus est. Septimo die, cum iter non intermitteret, ab exploratoribus certior factus est Ariovisti copias a nostris milibus passuum quattuor et XX abesse. XLII. Cognito Caesaris adventu Ariovistus legatos ad eum mittit: quod antea de conloquio postulasset, id per se fieri licere, quoniam propius accessisset, seque id sine periculo facere posse existimaret. Non respuit condicionem Caesar iamque eum ad sanitatem reverti arbitraba-

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pure aveva inteso ancora rimandare e avrebbe tolto il campo quella notte stessa, verso le tre, per vedere al più presto se presso i suoi soldati l’onore e il senso del dovere valevano più della paura. E se nessuno lo avesse seguito, egli con la sola decima legione, su cui non aveva dubbi, sarebbe partito, e quella sarebbe stata la sua coorte pretoriana. Per questa legione Cesare aveva una speciale benevolenza, e riponeva grandissima fiducia nel suo valore. XLI. Al sentire queste parole tutti cambiarono, in modo sorprendente, le loro idee e in tutti sorse la voglia di agire e un gran desiderio di combattere: per prima la decima legione, per mezzo dei tribuni militari, espresse a Cesare il suo ringraziamento per il lusinghiero giudizio espresso e si disse prontissima alla lotta. Poi tutte le altre legioni chiesero ai tribuni militari e ai centurioni dei primi ordini di scusarli presso Cesare, assicurandolo che mai avevano avuti dubbi e timori, né avevano pensato che la suprema direzione della guerra non fosse compito del loro comandante. Cesare accettò le loro scuse e, su consiglio di Diviziaco, di cui si fidava più che di tutti gli altri Galli, decise di partire verso le tre di notte, come aveva detto, seguendo un itinerario che, con un giro di più di cinquanta miglia, gli avrebbe consentito di avanzare per luoghi aperti. Dopo sei giorni di marcia ininterrotta fu informato dagli esploratori che le truppe di Ariovisto erano a ventiquattro miglia di distanza. XLII. Quando venne a sapere dell’arrivo di Cesare, Ariovisto mandò degli ambasciatori a dirgli che non aveva nessuna difficoltà a concedergli il colloquio che gli aveva richiesto, giacché Cesare si era avvicinato ed egli lo poteva fare senza nessun pericolo. Cesare non respinse l’offerta; pensava che Ariovisto fosse sceso a più savia decisione concedendo spontaneamente quello che

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tur, cum id quod antea petenti denegasset ultro polliceretur, magnamque in spem veniebat pro suis tantis populique Romani in eum beneficiis cognitis suis postulatis fore uti pertinacia desisteret. Dies conloquio dictus est ex eo die quintus. Interim saepe ultro citroque cum legati inter eos mitterentur. Ariovistus postulavit ne quem peditem ad conloquium Caesar adduceret: vereri se ne per insidias ab eo circumveniretur; uterque cum equitatu veniret: alia ratione sese non esse venturum. Caesar, quod neque conloquium interposita causa tolli volebat neque salutem suam Gallorum equitatui committere audebat, commodissimum esse statuit omnibus equis Gallis equitibus detractis eo legionarios milites legionis decimae, cui quam maxime confidebat, inponere, ut praesidium quam amicissimum, si quid opus facto esset, haberet. Quod cum fieret, non inridicule quidam ex militibus decimae legionis dixit plus quam pollicitus esset Caesarem ei facere: pollicitum se in cohortis praetoriae loco decimam legionem habiturum, ad equum rescribere. XLIII. Planities erat magna et in ea tumulus terrenus satis grandis. Hic locus aequo fere spatio ad castris Ariovisti et Caesaris aberat. Eeo, ut erat dictum, ad conloquium venerunt. Legionem Caesar quam equis vexerat passibus ducentis ab eo tumulo constituit. Item equites Ariovisti pari intervallo constiterunt. Ariovistus ex equis ut conloquerentur et praeter se denos ad conloquium adducerent postulavit. Ubi eo ventum est Caesar initio orationis sua senatusque in eum beneficia

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prima, quando ne era stato sollecitato, aveva negato e sperava che, ricordati i benefici ricevuti da lui e da Roma, esaminate le richieste, sarebbe stato più conciliante. Fu stabilito di tenere l’abboccamento cinque giorni dopo. Frattanto frequenti ambascerie venivano mandate da una parte e dall’altra. Ariovisto chiese che Cesare non si facesse seguire da truppe a piedi, perché temeva di cadere in un’imboscata; sarebbe intervenuto al colloquio soltanto alla condizione che entrambi si facessero accompagnare dalla sola cavalleria. Cesare, che non voleva perdere, per questi pretesti, la possibilità di un incontro e che d’altra parte non voleva affidarsi alla cavalleria dei Galli, decise di togliere i cavalli ai cavalieri Galli e farli montare dai legionari della decima legione, nei quali aveva grande fiducia, per avere, per qualsiasi necessità, una scorta fedelissima. Mentre questo cambio avveniva, un soldato della decima legione disse, non senza spirito, che Cesare faceva più di quanto aveva promesso; aveva detto che avrebbe considerato i soldati della decima legione come coorte pretoriana: ora li faceva diventare addirittura cavalieri.2 XLIII. Vi era una grande pianura e, nel mezzo, un rialzo del terreno abbastanza esteso: questa località si trovava pressappoco a pari distanza tra il campo di Ariovisto e quello di Cesare. Qui, secondo il patto, essi vennero per l’abboccamento. Cesare fece fermare a duecento passi dall’altura i legionari che aveva fatto salire a cavallo; ad una pari distanza si posero i cavalieri di Ariovisto. Questi chiese che il colloquio si svolgesse a cavallo e che ognuno conducesse con sé dieci uomini di scorta. Quando giunsero sul posto, Cesare cominciò a parlare, ricor2 Il legionario gioca sul doppio senso dell’espressione. «Diventar cavaliere» significava non tanto entrare in cavalleria quanto essere iscritti nell’ordine equestre, secondo per dignità e per censo soltanto a quello dei senatori.

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commemoravit, quod rex appellatus esset a senatu, quod amicus, quod munera amplissime missa; quam rem et paucis contigisse et pro magnis hominum officiis consuesse tribui docebat; illum, cum neque aditum neque causam postulandi iustam haberet, beneficio ac liberalitate sua ac senatus ea praemia consecutum. Docebat etiam quam veteres quamque iustae causae necessitudinis ipsis cum Haeduis intercederent, quae senatus consulta quotiens quamque honorifica in eos facta essent, ut omni tempore totius Galliae principatum Headui tenuissent, prius etiam quam nostram amicitiam adpetissent. Populi Romani hanc esse consuetudinem, ut socios atque amicos non modo sui nihil deperdere, sed gratia, dignitate, honore auctiores velit esse; quod vero ad amicitiam populi Romani attulissent, id iis eripi quis pati posset? Postulavit deinde eadem quae legatis in mandatis dederat: ne aut Haeduis aut eorum sociis bellum inferret; obsides redderet; si nullam partem Germanorum domum remittere posset, at ne quos amplius Rhenum transire pateretur. XLIV. Ariovistus ad postulata Caesaris pauca respondit, de suis virtutibus multa praedicavit: transisse Rhenum sese non sua sponte, sed rogatum et arcessitum a Gallis; non sine magna spe magnisque praemiis domum propinquosque reliquisse: sedes habere in Gallia ab ipsis concessas, obsides ipsorum voluntate datos; stipendium capere iure belli, quod victores victis inponere consuerint. Non sese Gallis, sed Gallos sibi bellum intulisse; omnes Galliae civitates ad se oppugnandum venis-

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dando i grandi benefici che egli stesso e il senato avevano concesso ad Ariovisto; i titoli di re ed amico che gli erano stati dati da questa assemblea, i ricchissimi doni che gli erano stati fatti: onori che erano toccati a pochi e di solito erano attribuiti a chi aveva reso grandi servigi ai Romani. Egli, invece, pur non avendo né diritto, né giusto motivo per richiederli, li aveva ottenuti per generosa grazia sua e del senato. Ricordò poi quanto erano antichi e profondi i vincoli di amicizia che univano Roma agli Edui e quali disposizioni il senato aveva preso in loro favore, adoperando tutte le volte espressioni di grande stima per quel popolo che aveva sempre tenuto il predominio in tutta la Gallia, anche prima della sua amicizia coi Romani. Secondo la consuetudine di Roma i suoi alleati ed amici non solo non dovevano perdere nulla di quel che già avevano, ma dovevano vedere accresciuta la dignità, l’onore, la potenza: come si poteva permettere, quindi, che fosse tolto loro quello che avevano offerto all’amicizia del popolo romano? Ripeté, poi, le richieste che aveva già fatte per mezzo degli ambasciatori: che Ariovisto non facesse guerra agli Edui, che rendesse gli ostaggi, che, se non poteva rimandare in patria nessun germano, almeno non lasciasse attraversare ad altri il Reno. XLIV. Alle richieste di Cesare, Ariovisto rispose con poche parole, vantando molto il suo valore. Egli – diceva – aveva attraversato il Reno non per sua spontanea volontà, ma perché chiamato e pregato dai Galli: se aveva lasciato la patria e i parenti, l’aveva fatto spinto dalla speranza di ottenerne grandi vantaggi. Ora aveva in Gallia terre che gli erano state concesse proprio dai Galli e ostaggi consegnati spontaneamente; riceveva il tributo che per diritto di guerra tutti i vinti pagano al vincitore: non era stato lui a portare le armi contro i Galli, ma i Galli a prenderle contro di lui. Tutte le genti

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se ac contra se castra habuisse; eas omnes copias a se uno proelio pulsas ac superatas esse. Si iterum experiri velint, se iterum paratum esse decertare; si pace uti velint, iniquum esse de stipendio recusare, quod sua voluntate ad id tempus pependerint. Amicitiam populi Romani sibi ornamento et praesidio, non detrimento esse oportere, idque se hac spe petisse. Si per populum Romanum stipendium remittatur et dediticii subtrahantur, non minus libenter sese recusaturum populi Romani amicitiam quam adpetierit. Quod multitudinem Germanorum in Galliam traducat, id se sui muniendi, non Galliae inpugnandae causa facere: eius rei testimonium esse, quod nisi rogatus non venerit et quod bellum non intulerit, sed defenderit. Se prius in Galliam venisse quam populum Romanum. Numquam ante hoc tempus exercitum populi Romani Galliae provinciae finibus egressum. Quid sibi vellet? cur in suas possessiones veniret? Provinciam suam hanc esse Galliam, sicut illam nostram. Ut ipsi concedi non oporteret, si in nostros fines impetum faceret, sic item nos esse iniquos, quod in suo iure se interpellaremus. Quod fratres Haeduos appellatos diceret, non se tam barbarum neque tam imperitum esse rerum, ut non sciret neque bello Allobrogum proximo Haeduos Romanis auxilium tulisse, neque ipsos in his contentionibus quas Haedui secum et cum Sequanis habuissent auxilio populi Romani usos esse. Debere se suspicari simulata Caesarem amicitia, quod exercitum in Gallia habeat, sui opprimendi causa habere. Qui nisi decedat atque exercitum deducat ex his regionibus, sese illum non pro amico, sed pro hoste habiturum. Quod si

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della Gallia si erano raccolte per assalirlo e avevano stabilito accampamenti contro di lui: tutte queste truppe egli aveva respinto e sconfitto in una sola battaglia. Se ora volevano fare un nuovo tentativo, egli era pronto a combattere; ma se preferivano la pace, era ingiusto che trovassero a ridire su quel tributo che fino allora avevano sempre pagato di buona volontà. Quanto all’amicizia del popolo romano – aggiungeva – questa doveva essere per lui di onore e di vantaggio, non di danno; egli l’aveva sollecitata con questa speranza. Se a causa del popolo romano egli doveva perdere il tributo e gli ostaggi, avrebbe rinunciato all’amicizia volentieri, come l’aveva prima ricercata. I Germani, poi, che passavano il Reno, gli servivano per difendersi, non per assalire la Gallia: poteva provare la sua intenzione il fatto che egli stesso non era venuto se non quando era stato chiamato; non aveva attaccato, ma si era difeso. Egli era entrato in Gallia prima dei Romani, né mai prima di allora gli eserciti romani erano usciti dai confini della Provincia. Che voleva dunque Cesare? Perché aveva invaso i suoi domini? Questa parte della Gallia era una sua provincia, come l’altra era provincia nostra. Come per lui non sarebbe stato lecito attaccare i nostri territori, così noi eravamo ingiusti a volerlo ostacolare nell’esercizio del suo diritto. Quanto al nome di fratelli che Cesare dava agli Edui, egli non era tanto barbaro e tanto inesperto da non sapere che durante la recente guerra contro gli Allobrogi, gli Edui non avevano aiutato i Romani, né i Romani avevano aiutato gli Edui nella lotta contro di lui e contro i Sèquani. Egli doveva dunque sospettare che Cesare prendesse a pretesto quell’amicizia per servirsi dell’esercito che aveva in Gallia per la sua rovina; perciò – concludeva – se non si fosse ritirato con l’esercito da quelle regioni, lo avrebbe considerato non più amico ma nemico. Se poi lo avesse ucciso, avrebbe fatto cosa gradita a molti nobili e capi del popolo romano che gli

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eum interfecerit, multis sese nobilibus principibusque populi Romani gratum esse facturum (id se ab ipsis per eorum nuntios compertum habere), quorum omnium gratiam atque amicitiam eius morte redimere posset. Quod si decessisset et liberam possessionem Galliae sibi tradidisset, magno se illum praemio remuneraturum et quaecumque bella geri vellet sine ullo eius labore et periculo confecturum. XLV. Multa ab Caesare in eam sententiam dicta sunt quare negotio desistere non posset: neque suam neque populi Romani consuetudinem pati uti optime merentes socios desereret, neque se iudicare Galliam potius esse Ariovisti quam populi Romani. Bello superatos esse Arvernos et Rutenos ab Q. Fabio Maximo, quibus populus Romanus ignovisset neque in provinciam redegisset neque stipendium inposuisset. Quod si antiquissimum quodque tempus spectari oporteret, populi Romani iustissimum esse in Gallia imperium; si iudicium senatus observari oporteret, liberam debere esse Galliam, quam bello victam suis legibus uti voluisset. XLVI. Dum haec in conloquio geruntur, Caesari nuntiatum est equites Ariovisti propius tumulum accedere et ad nostros adequitare, lapides telaque in nostros conicere. Caesar loquendi finem fecit seque ad suos recepit suisque imperavit ne quod omnino telum in hostes reicerent. Nam etsi sine ullo periculo legionis delectae cum equitatu proelium fore videbat, tamen committendum non putabat ut pulsis hostibus dici posset eos ab se per fidem in conloquio circumventos. Postea quam in vulgus militum elatum est qua adrogantia in conloquio Ariovistus usus omni Gallia Romanis interdixisset, impetumque in nostros eius equites ut fecissent eaque res conloquium diremisset, multo maior alacritas studiumque pugnandi maius exercitui iniectum est.

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avevano fatto sapere, per mezzo di messaggeri, che con l’uccisione di Cesare si sarebbe guadagnato la gratitudine e l’amicizia di tutti. Se invece si fosse allontanato lasciandolo libero di dominare la Gallia, egli lo avrebbe ricompensato ampiamente e dovunque avesse voluto portar guerra, lo avrebbe aiutato senza lasciargli affrontare fatica e pericolo. XLV. Cesare rispose spiegando ampiamente perché non poteva desistere dal suo proposito: non era abitudine sua né di Roma abbandonare amici che avevano tanti meriti, né pensava che la Gallia appartenesse ad Ariovisto più che ai Romani. Q. Fabio Massimo aveva vinto in guerra gli Arverni e i Ruteni e il popolo romano li aveva perdonati senza fare del loro territorio una provincia, né imporre un tributo: perciò se si doveva badare alla priorità delle azioni militari, era più giusto che sulla Gallia dominassero i Romani: se bisognava invece osservare la decisione del senato, si doveva lasciar libera la Gallia che i Romani avevano vinto, e lasciarle la sua indipendenza. XLVI. Mentre si svolgeva il colloquio, Cesare fu informato che i cavalieri di Ariovisto si avvicinavano all’altura dirigendosi contro i nostri e lanciando pietre e dardi. Cesare interruppe il discorso, si ritirò presso i suoi e diede ordine che nessuno rispondesse ai colpi dei nemici: sebbene vedesse che per la sua legione non vi era alcun pericolo a combattere contro la cavalleria di Ariovisto, non volle attaccare battaglia, perché non si potesse dire che i nemici erano stati sorpresi a tradimento e respinti durante il colloquio. Quando tra i soldati si seppe con quanta arroganza Ariovisto aveva nel suo discorso preteso di escludere i Romani da tutta la Gallia ed i suoi cavalieri avevano attaccato i nostri per interrompere il colloquio, crebbe in tutto l’esercito il desiderio di agire di combattere.

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XLVII. Biduo post Ariovistus ad Caesarem legatos mittit: velle se de iis rebus quae inter eos agi coeptae neque perfectae essent agere cum eo: uti aut iterum conloquio diem constitueret aut, si id minus vellet, e suis legatis aliquem ad se mitteret. Conloquendi Caesari causa visa non est, et eo magis quod pridie eius diei Germani retineri non potuerant quin in nostros tela conicerent. Legatum e suis sese magno cum periculo ad eum missurum et hominibus feris obiecturum existimabat. commodissimum visum est C. Valerium Procillum, C. Valeri Caburi filium, summa virtute et humanitate adulescentem, cuius pater a C. Valerio Flacco civitate donatus erat, et propter fidem et propter linguae Gallicae scientiam, qua multa iam Ariovistus longinqua consuetudine utebatur, et quod in eo peccandi Germanis causa non esset, ad eum mittere, et una M. Metium, qui hospitio Ariovisti utebatur. His mandavit ut quae diceret Ariovistus cognoscerent et ad se referrent. Quos cum apud se in castris Ariovistus conspexisset, exercitu suo praesente conclamavit: quid ad se venirent? an speculandi causa? Conantes dicere prohibuit et in catenas coniecit. XLVIII. Eodem die castra promovit et milibus passuum sex a Caesaris castris sub monte consedit. Postridie eius diei praeter castra Caesaris suas copias traduxit et milibus passuum duobus ultra eum castra fecit eo consilio uti frumento commeatuque qui ex Sequanis et Haeduis supportaretur Caesarem intercluderet. Ex eo die dies continuos quinque Caesar pro castris suas copias produxit et aciem instructam habuit, ut, si vellet Ariovistus proelio contendere, ei potestas non deesset. Ariovistus his omnibus diebus exercitum castris continuit, equestri proelio cotidie contendit. Genus hoc erat pugnae quo se

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XLVII. Due giorni dopo Ariovisto mandò a dire a Cesare che desiderava trattare con lui sugli argomenti sui quali avevano discusso senza arrivare a conclusione, che fissasse una data per un nuovo colloquio, o, se lo preferiva, gli mandasse qualcuno dei suoi come ambasciatore. A Cesare non parve vi fosse ragione di discutere ancora, tanto più che il giorno prima i Germani non avevano esitato ad attaccare i nostri; riteneva, perciò, pericoloso mandargli un suo legato come ambasciatore e metterlo nelle mani di quei barbari. Gli sembrò, dunque, cosa migliore mandare Gaio Valerio Procillo, giovane di grande valore ed abilità, figlio di C. Valerio Caburo, che aveva ottenuto il diritto di cittadinanza da Gaio Valerio Flacco, sia perché godeva della sua fiducia e conosceva bene la lingua gallica di cui si serviva da tempo Ariovisto, sia perché i Germani non avevano nessun motivo di fargli del male. A costui e a Marco Mezio, che aveva rapporti di ospitalità con Ariovisto, affidò l’incarico di andare a sentire che cosa questi avrebbe detto e di riferirglielo. Ma Ariovisto appena li vide li investì in modo concitato, davanti a tutto il suo esercito, accusandoli di essere venuti solo per spiare. E senza permettere loro neppure di rispondere li fece mettere in catene. XLVIII. Lo stesso giorno Ariovisto tolse il campo facendo avanzare le sue truppe fino alla base di un monte a sei miglia dall’accampamento di Cesare. Il giorno dopo spostò l’esercito oltre il campo romano accampandosi due miglia più innanzi con l’intento di impedire a Cesare di ricevere i rifornimenti e il grano che gli dovevano arrivare dagli Edui e dai Sèquani. Da allora, per cinque giorni consecutivi, Cesare fece uscire dal campo le sue truppe e le dispose in ordine di battaglia per dare ad Ariovisto la possibilità di combattere se avesse voluto farlo: ma Ariovisto tenne sempre l’esercito entro il campo e fece combattere ogni giorno solo la cavalleria. Il

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Germani exercuerant. Equitum milia erant sex, totidem numero pedites velocissimi ac fortissimi, quos ex omni copia singuli singulos suae salutis causa delegerant: cum his in proeliis versabantur. Ad hos se equites recipiebant: hi, si quid erat durius, concurrebant; si qui graviore vulnere accepto equo deciderat, circumsistebant; si quo erat longius prodeundum aut celerius recipiendum, tanta erat horum exercitatione celeritas, ut iubis equorum sublevati cursum adaequarent. XLIX. Ubi eum castris se tenere Caesar intellexit, ne diutius commeatu prohiberetur, ultra eum locum quo in loco Germani consederant, circiter passus sexcentos ab his, castris idoneum locum delegit acieque triplici instructa ad eum locum venit. Primam et secundam aciem in armis esse, tertiam castra munire iussit. Hic locus ab hoste circiter passus sexcentos, uti dictum est, aberat. Eo circiter hominum numero sedecim milia expedita cum omni equitatu Ariovistus misit, quae copiae nostros terrerent et munitione prohiberent. Nihilo setius Caesar, ut ante constituerat, duas acies hostem propulsare, tertiam opus perficere iussit. Munitis castris duas ibi legiones reliquit et partem auxiliorum, quattuor reliquas legiones in castra maiora reduxit. L. Proximo die instituto suo Caesar e castris utrisque copias suas eduxit paulumque a maioribus castris progressus aciem instruxit, hostibusque pugnandi potestatem fecit. Ubi ne tum quidem eos prodire intellexit, circiter meridiem exercitum in castra reduxit. Tum demum Ariovistus partem suarum copiarum, quae castra mino-

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genere di combattimento in cui i Germani erano più esercitati si basava su di una formazione di seimila cavalieri e altrettanti fanti, ciascuno dei quali era scelto da un cavaliere come sua guardia personale fra i più valorosi di tutto l’esercito. Con questi i cavalieri combattevano e presso questi si ritiravano; essi accorrevano se il combattimento era più duro; aiutavano quelli che, feriti gravemente, cadevano da cavallo e, se si doveva avanzare o ritirarsi celermente, tanta era la velocità guadagnata col continuo esercizio, che, aggrappati alle criniere dei cavalli, riuscivano a seguirne la corsa. XLIX. Allorché Cesare comprese che il nemico si ostinava a rimanere nel campo, perché non gli fossero più a lungo tagliati i rifornimenti, decise di porre l’accampamento in un luogo adatto al di là del punto dove si erano accampati i Germani, alla distanza di circa seicento passi. Quando ebbe raggiunto, con l’esercito schierato su tre linee, la località prescelta, ordinò che la prima e la seconda linea rimanessero in armi, mentre la terza fortificava il campo. Il posto, come ho già detto, distava dal nemico seicento passi. Là Ariovisto mandò circa sedicimila uomini senza bagagli e tutta la cavalleria, per atterrire i nostri e distoglierli dai lavori di fortificazione. Nondimeno Cesare, come già aveva deciso, ordinò che le due linee facessero fronte al nemico e la terza terminasse i lavori. Compiute le fortificazioni, lasciò sul posto due legioni e parte delle milizie ausiliarie e ricondusse le altre quattro nel campo più grande. L. Il giorno seguente Cesare, secondo la sua abitudine, fece uscire dai due campi le truppe e le schierò in ordine di battaglia per dare ai nemici la possibilità di combattere. Ma quando vide che neppure questa volta essi uscivano, verso mezzogiorno ricondusse l’esercito al campo. Allora finalmente Ariovisto mandò una parte delle sue

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ra oppugnaret, misit. Acriter utrimque usque ad vesperum pugnatum est. Solis occasu suas copias Ariovistus multis et inlatis et acceptis vulneribus in castra reduxit. Cum ex captivis quaereret Caesar quam ob rem Ariovistus proelio non decertaret, hanc reperiebat causam, quod apud Germanos ea consuetudo esset ut matres familiae eorum sortibus vaticinationibusque declararent utrum proelium committi ex usu esset necne; eas ita dicere: non esse fas Germanos superare, si ante novam lunam proelio contendissent. LI. Postridie eius diei Caesar praesidium utrisque castris quod satis esse visum est reliquit, omnis alarios in conspectu hostium pro castris minoribus constituit, quod minus multitudine militum legionariorum pro hostium numero valebat, ut ad speciem alariis uteretur; ipse triplici instructa acie usque ad castra hostium accessit. Tum demum necessario Germani suas copias castris eduxerunt generatimque constituerunt paribus intervallis, Harudes, Marcomanos, Tribocos, Vangiones, Nemetes, Sedusios, Suebos, omnemque aciem suam redis et carris circumdederunt, ne qua spes in fuga relinqueretur. Eo mulieres imposuerunt, quae ad proelium proficiscentes passis manibus flentes implorabant ne se in servitutem Romanis traderent. LII. Caesar singulis legionibus singulos legatos et quaestorem praefecit, uti eos testes suae quisque virtutis haberet; ipse a dextro cornu, quod eam partem minime firmam hostium esse animadverterat, proelium commisit. Ita nostri acriter in hostes signo dato impetum fecerunt, itaque hostes repente celeriterque procurrerunt, ut spa-

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truppe ad assalire il campo minore. Si combatté aspramente fino a sera. Al tramonto, dopo aver inflitto e ricevuto molte perdite, Ariovisto ricondusse i suoi al campo. Cesare si informò dai prigionieri per quale ragione Ariovisto non affrontasse una battaglia campale e venne a sapere che presso i Germani, per antica consuetudine, le madri di famiglia con sortilegi e profezie stabilivano se fosse o no il momento propizio per attaccare battaglia; ora esse avevano detto che ai Germani non era possibile vincere se avessero combattuto prima del novilunio. LI. Il giorno dopo, Cesare, lasciati nei due campi i presidi che gli sembrarono sufficienti, schierò le truppe ausiliarie in vista del nemico, davanti all’accampamento minore, come mascheratura, perché i suoi legionari erano in numero inferiore ai barbari, e avanzò fino al campo dei nemici con l’esercito ordinato in triplice ordine. Allora finalmente i Germani si sentirono costretti a far uscire le truppe dal campo e si schierarono, ordinandosi a gruppi composti dei vari popoli, a pari intervalli: gli Arudi, i Marcomanni, i Triboci, i Vangioni, i Nemeti, i Sedusi, gli Svevi: per non lasciare speranza di fuga schierarono su tutta la zona alle spalle dei combattenti i carri e i cocchi, sui quali stavano le donne che, mentre i soldati si allontanavano per la battaglia, piangendo e protendendo le mani li scongiuravano di non fare di esse delle schiave dei Romani. LII. Cesare pose a capo di ciascuna legione un legato o un questore, perché ciascuno li avesse testimoni del suo valore; egli stesso attaccò battaglia sull’ala destra, dove aveva capito che era la parte meno salda dei nemici. Al segnale di combattimento i nostri attaccarono con tanto impeto e i Germani si scagliarono così all’improvviso e con tanta velocità contro di loro, che non vi fu nemme-

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tium pila in hostes coniciendi non daretur. Relictis pilis comminus gladiis pugnatum est. At Germani celeriter ex consuetudine sua phalange facta impetus gladiorum exceperunt. Reperti sunt complures nostri milites qui in phalangas insilirent et scuta manibus revellerent et desuper vulnerarent. cum hostium acies a sinistro cornu pulsa atque in fugam coniecta esset, a dextro cornu vehementer multitudine suorum nostram aciem premebant. Id cum animadvertisset P. Crassus adulescens, qui equitatui praeerat, quod expeditior erat quam ii qui inter aciem versabantur, tertiam aciem laborantibus nostris subsidio misit. LIII. Ita proelium restitutum est, atque omnes hostes terga verterunt neque prius fugere destiterunt quam ad flumen Rhenum milia passuum ex eo loco circiter quinque pervenerunt. Ibi perpauci aut viribus confisi tranare contenderunt aut lintribus inventis sibi salutem reppererunt; in his fuit Ariovistus, qui naviculam deligatam ad ripam nactus ea profugit; reliquos omnes equitatu consecuti nostri interfecerunt. Duae fuerunt Ariovisti uxores, una Sueba natione, quam domo secum duxerat, altera Norica regis Voccionis soror, quam in Gallia duxerat, a fratre missam: utraque in ea fuga periit; duae filiae: harum altera occisa, altera capta est. C. Valerius Procillus, cum a custodibus in fuga trinis catenis vinctus traheretur, in ipsum Caesarem hostes equitatu persequentem incidit. Quae quidem res Caesari non minorem quam ipsa victoria voluptatem attulit, quod hominem honestissimum provinciae Galliae, suum familiarem et hospitem, ereptum ex manibus hostium sibi restitutum videbat, neque eius calamitate de tanta voluptate et gratulatione quicquam Fortuna deminuerat. Is se praesente de

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no il tempo di lanciare i giavellotti. Abbandonatili, combatterono a corpo a corpo con le spade, mentre i Germani, serratisi prontamente a falange, secondo il loro costume, fecero fronte all’urto. Parecchi fra i legionari osarono allora saltare sul tetto di scudi formato dalle falangi e, strappati con le mani gli scudi, colpirono dall’alto i nemici. I barbari all’ala sinistra furono respinti e messi in fuga, ma sul lato destro con la loro superiorità numerica mettevano i nostri in difficoltà. Rendendosi conto del pericolo, il giovane Publio Crasso, comandante della cavalleria – che era in condizione di poter seguire la battaglia meglio di quelli che si trovavano nella mischia – mandò, in aiuto delle truppe in pericolo, la terza linea, meno impegnata di quelle che combattevano. LIII. Così si riaccese il combattimento, finché tutti i nemici volsero le spalle e non interruppero la fuga prima di arrivare al fiume Reno che distava dal luogo della battaglia circa cinque miglia. Qui solo pochissimi riuscirono a mettersi in salvo, attraversando il fiume a nuoto, o per mezzo di imbarcazioni. Così fece Ariovisto, che fuggì su una barca che aveva trovato legata alla riva. Tutti gli altri furono raggiunti dai nostri cavalieri e uccisi. Ariovisto aveva due mogli, una sveva, che aveva portato con sé dalla patria, l’altra norica, sorella del re Voccione, che aveva sposato in Gallia su invito del fratello: tutt’e due morirono in quella fuga. Delle sue due figlie una fu uccisa, l’altra presa prigioniera. Gaio Valerio Procillo, mentre veniva trascinato al seguito dei Germani in fuga, avvinto con triplice catena, si imbatté proprio in Cesare che stava inseguendo i nemici. E ciò fu per lui motivo di gioia non meno grande della stessa vittoria: vedeva, infatti, strappato alle mani del nemico e restituito l’uomo più nobile di tutta la Gallia, suo familiare e ospite: la fortuna non aveva voluto con la sua morte diminuire anche in parte la letizia e la felicità di quella vit-

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se ter sortibus consultum dicebat, utrum igni statim necaretur, an in aliud tempus reservaretur: sortium beneficio se esse incolumem. Item M. Metius repertus et ad eum reductus est. LIV. Hoc proelio trans Rhenum nuntiato Suebi, qui ad ripas Rheni venerant, domum reverti coeperunt; quos ubi qui proximi Rhenum incolunt perterritos senserunt insecuti magnum ex his numerum occiderunt. Caesar una aestate duobus maximis bellis confectis maturius paulo quam tempus anni postulabat in hiberna in Sequanos exercitum deduxit; hibernis Labienum praeposuit; ipse in citeriorem Galliam ad conventus agendos profectus est.

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toria. Procillo raccontò che alla sua presenza i barbari avevano per tre volte interrogato la sorte per sapere se ucciderlo subito col fuoco o rimandare la morte ad altro momento; per dono della sorte era salvo. Anche Marco Mezio fu ritrovato e condotto da Cesare. LIV, Quando l’annunzio di questa battaglia giunse in Germania, gli Svevi, che erano già arrivati alle rive del Reno, decisero di tornarsene in patria: ma gli Ubii, che abitavano molto vicino al Reno, vedendoli atterriti, li inseguirono e ne fecero strage. Concluse in una sola estate due difficilissime guerre, Cesare condusse l’esercito negli alloggiamenti invernali, nelle terre dei Sèquani, un po’ prima di quel che la stagione richiedesse; lasciò il comando a Labieno, e partì verso la Gallia cisalpina per tenervi le sessioni giudiziarie.

LIBER SECUNDUS

I. Cum esset Caesar in citeriore Gallia legionesque essent conlocatae in hibernis, ita uti supra demonstravimus, crebri ad eum rumores adferebantur, litterisque item Labieni certior fiebat omnes Belgas, quam tertiam esse Galliae partem dixeramus, contra populum Romanum coniurare obsidesque inter se dare. Coniurandi has esse causas: primum quod vererentur ne omni pacata Gallia ad eos exercitus noster adduceretur; deinde, quod ab non nullis Gallis sollicitarentur, partim qui, ut Germanos diutius in Gallia versari noluerant, ita populi Romani exercitum hiemare atque inveterascere in Gallia moleste ferebant, partim qui mobilitate et levitate animi novis imperiis studebant, ab non nullis etiam, quod in Gallia a potentioribus atque iis qui ad conducendos homines facultates habebant vulgo regna occupabantur, qui minus facile eam rem imperio nostro consequi poterant. II. His nuntiis litterisque commotus Caesar duas legiones in citeriore Gallia novas conscripsit et inita aestate in interiorem Galliam qui deduceret Q. Pedium legatum misit. Ipse, cum primum pabuli copia esse inciperet, ad exercitum venit. Dat negotium Senonibus reliquisque Gallis qui finitimi Belgis erant uti ea quae apud eos ge-

LIBRO SECONDO

I. Mentre Cesare si trovava nella Gallia cisalpina e teneva l’esercito nei quartieri d’inverno, come già abbiamo detto, gli veniva riferito con insistenza – e lettere di Labieno lo confermavano – che tutti i Belgi (popolo che costituiva la terza parte della Gallia) cospiravano contro i Romani e si scambiavano ostaggi. Causa di questo movimento era il timore che dopo l’occupazione di tutta la Gallia il nostro esercito venisse condotto contro di loro; a ciò si aggiungevano le istigazioni di alcuni gruppi di Galli che, come non avevano voluto sottostare ai Germani, così mal sopportavano che l’esercito romano svernasse e si stabilisse nel loro paese; e gli incitamenti di coloro che per leggerezza ed incostanza desideravano e favorivano l’avvento di nuove signorie; infine le pressioni di molti capi (in Gallia, dovunque, la maggiore autorità era nelle mani dei più potenti e di quelli che avevano la possibilità di assoldare più uomini), i quali capivano che meno facilmente avrebbero potuto raggiungere i loro scopi ambiziosi sotto il nostro dominio. II. Cesare, preoccupato dalle notizie e dalle lettere, arruolò nella Gallia cisalpina altre due legioni e al principio della nuova stagione le fece condurre nella Gallia dal legato Quinto Pedio. Egli stesso raggiunse l’esercito non appena ebbe a disposizione abbondante foraggio. Diede l’incarico ai Senoni e agli altri Galli confinanti coi

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rantur cognoscant seque de his rebus certiorem faciant. Hi constanter omnes nuntiaverunt manus cogi, exercitum in unum locum conduci. Tum vero dubitandum non existimavit quin ad eos proficisceretur. Re frumentaria comparata castra movet diebusque circiter quindecim ad fines Belgarum pervenit. III. Eo cum de improviso celeriusque omni opinione venisset, Remi, qui proximi Galliae ex Belgis sunt, ad eum legatos Iccium et Andocumborium, primos civitatis, miserunt, qui dicerent se suaque omnia in fidem atque in potestatem populi Romani permittere, neque se cum Belgis reliquis consensisse neque contra populum Romanum omnino coniurasse, paratosque esse et obsides dare et imperata facere et oppidis recipere et frumento ceterisque rebus iuvare; reliquos omnes Belgas in armis esse, Germanosque qui cis Rhenum incolant sese cum his coniunxisse, tantumque esse eorum omnium furorem ut ne Suessiones quidem, fratres consanguineosque suos, qui eodem iure et isdem legibus utantur, unum imperium unumque magistratum cum ipsis habeant, deterrere potuerint quin cum iis consentirent. IV. Cum ab his quaereret quae civitates quantaeque in armis essent et quid in bello possent, sic reperiebat: plerosque Belgas esse ortos a Germanis Rhenumque antiquitus traductos propter loci fertilitatem ibi consedisse Gallosque qui ea loca incolerent expulisse, solosque esse qui patrum nostrorum memoria omni Gallia vexata Teutonos Cimbrosque intra suos fines ingredi prohibuerint; qua ex re fieri uti earum rerum memoria magnam

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Belgi di informarsi di tutto ciò che accadeva nelle terre dei Belgi e di farglielo sapere; ed essi, concordemente, lo informarono che i Belgi radunavano armati e concentravano in un sol luogo l’esercito. Allora Cesare non esitò a partire: preparata la scorta di viveri, tolse l’accampamento e in circa quindici giorni arrivò ai confini dei Belgi. III. Cesare giunse all’improvviso, più celermente di quanto si potesse pensare, e i Remi, popolo dei Belgi più vicino alla Gallia, gli mandarono Iccio e Andocumborio, i più influenti fra loro, ad annunziargli che essi affidavano se stessi e tutti i loro averi alla protezione e al potere del popolo romano: non si erano accordati con gli altri Belgi, non avevano preso parte alla lega contro i Romani, erano pronti a dare ostaggi, a fare quel che venisse loro comandato, ad accogliere le truppe di Cesare nelle loro città e ad aiutarlo fornendo frumento e tutto ciò che potesse essere utile; tutti gli altri Belgi – essi riferivano – erano già in armi; anche i Germani che abitavano al di qua del Reno si erano uniti a loro, e tanto grande era il loro ardore guerriero che neppure i Suessioni, che pure erano loro consanguinei, avevano le stesse leggi, gli stessi comandanti, gli stessi magistrati, avevano potuto distoglierli dal prendere parte al movimento. IV. Cesare chiese loro quali e quanti popoli fossero in armi e che forza militare avessero; gli fu risposto che la maggior parte dei Belgi discendeva da Germani, che da antico tempo avevano passato il Reno, invogliati dalla fertilità del territorio, e vi si erano stabiliti dopo averne scacciato i Galli che prima vi risiedevano. Essi soli erano riusciti ad impedire che Teutoni e Cimbri, dopo aver devastata tutta la Gallia, come i nostri padri ricordano, penetrassero nel loro territorio; perciò memori di que-

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sibi auctoritatem magnosque spiritus in re militari sumerent. De numero eorum omnia se habere explorata Remi dicebant, propterea quod propinquitatibus adfinitatibusque coniuncti quantam quisque multitudinem in communi Belgarum concilio ad id bellum pollicitus sit cognoverint. Plurimum inter eos Bellovacos et virtute et auctoritate et hominum numero valere: hos posse conficere armata milia centum; pollicitos ex eo numero electa milia sexaginta, totiusque belli imperium sibi postulare. Suessiones suos esse finitimos; fines latissimos feracissimosque agros possidere. Apud eos fuisse regem nostra etiam memoria Diviciacum, totius Galliae potentissimum, qui cum magnae partis harum regionum, tum etiam Britanniae imperium optinuerit; nunc esse regem Galbam: ad hunc propter iustitiam prudentiamque summam totius belli omnium voluntate deferri; oppida habere numero XII, polliceri milia armata quinquaginta; totidem Nervios, qui maxime feri inter ipsos habeantur longissimeque absint; quindecim milia Atrebates, Ambianos decem milia, Morinos XXV milia, Menapios VII milia, Caletos X milia, Veliocasses et Viromanduos totidem, Atuatucos XVIIII milia; Condrusos, Eburones, Caerosos, Paemanos, qui uno nomine Germani appellantur, arbitrari ad XL milia. V. Caesar Remos cohortatus liberaliterque oratione prosecutus omnem senatum ad se convenire principumque liberos obsides ad se adduci iussit. Qquae omnia ab his diligenter ad diem facta sunt. Ipse Diviciacum Haeduum magnopere cohortatus docet, quanto opere rei publicae communisque salutis intersit manus hostium distineri, ne cum tanta multitudine uno tempore confli-

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ste gesta si sentivano forti e pieni di orgoglio in ogni impresa di guerra. Circa il numero degli armati, i Remi affermavano di avere precise informazioni, perché, per le parentele e le relazioni che li legavano agli altri Belgi, avevano saputo quali forze ciascun popolo aveva promesso per questa guerra nell’assemblea generale dei Belgi. Più forti di tutti per autorità, valore e numero erano i Bellovaci; potevano mettere insieme centomila armati; avevano promesso sessantamila uomini scelti e avevano chiesto il comando supremo della guerra. I Suessioni erano loro confinanti e avevano territori vastissimi e campi molto fertili. Su loro, come anche noi ricordiamo, regnò quel Diviziaco, il più potente re di tutta la Gallia, che riunì sotto il suo potere gran parte di quelle regioni ed anche la Bretagna; il re attuale era Galba ed a costui, noto per la giustizia e il senno, era stato affidato il comando della guerra per volontà comune dei Belgi; i Suessioni avevano dodici città e promettevano cinquantamila armati; altrettanti ne avrebbero dati i Nervi, popolo che è ritenuto il più forte di tutti ed abita le regioni più settentrionali. Quindicimila uomini avevano promesso gli Atrebati, gli Ambiani diecimila, i Morini venticinquemila, i Menapi settemila, i Caleti diecimila, altrettanti i Veliocassi e i Viromandui, gli Aduatuci diciannovemila; i Condrusi, gli Eburoni, i Cerosi e i Pemani, conosciuti sotto il comune nome di Germani, circa quarantamila. V. Cesare rivolse ai Remi amichevoli parole di esortazione e comandò che tutti i cittadini più autorevoli si presentassero a lui e che gli fossero condotti come ostaggi i figli dei loro capi. I Remi eseguirono questi ordini puntualmente nel giorno stabilito. Cesare parlò, poi, a lungo con Diviziaco, il capo degli Edui, e gli spiegò quanto importante fosse per Roma e per il bene di tutti il tener divise le forze nemiche, per non essere costretti

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gendum sit. Id fieri posse, si suas copias Haedui in fines Bellovacorum introduxerint et eorum agros populari coeperint. His mandatis eum ab se dimittit. Postquam omnes Belgarum copias in unum locum coactas ad se venire vidit neque iam longe abesse ab iis quos miserat exploratoribus et ab Remis cognovit, flumen Axonam, quod est in extremis Remorum finibus, exercitum traducere maturavit atque ibi castra posuit. Quae res et latus unum castrorum ripis fluminis muniebat et post eum quae essent tuta ab hostibus reddebat et commeatus ab Remis reliquisque civitatibus ut sine periculo ad eum portari possent, efficiebat. In eo flumine pons erat. Ibi praesidium ponit et in altera parte fluminis Q. Titurium Sabinum legatum cum sex cohortibus relinquit; castra in altitudinem pedum XII vallo fossaque duodeviginti pedum muniri iubet. VI. Ab his castris oppidum Remorum nomine Bibrax aberat milia passuum octo. Id ex itinere magno impetu Belgae oppugnare coeperunt. Aegre eo die sustentatum est. Gallorum eadem atque Belgarum oppugnatio est haec: ubi circumiecta multitudine hominum totis moenibus undique in murum lapides iaci coepti sunt murusque defensoribus nudatus est, testudine facta portas succendunt murumque subruunt. Quod tum facile fiebat. Nam cum tanta multitudo lapides ac tela coicerent, in muro consistendi potestas erat nulli. Cum finem oppugnandi nox fecisset, Iccius Remus, summa nobilitate et gratia inter suos, qui tum oppido praefuerat, unum ex iis qui legati de pace ad Caesarem venerant, nuntios ad

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a combattere, nello stesso tempo, contro un nemico tanto numeroso; ciò poteva essere evitato – disse Cesare – se gli Edui avessero invaso con le loro milizie il territorio dei Bellovaci e lo avessero saccheggiato. Incaricato Diviziaco di questa missione, lo congedò. Appena comprese che l’esercito riunito dai Belgi avanzava contro di lui e dai suoi esploratori e dai Remi fu informato che non era molto lontano, si affrettò a far passare l’esercito oltre il fiume Aisne, che si trova nella parte settentrionale del paese dei Remi, e pose in quel punto il campo. In quella posizione un lato dell’accampamento era difeso dal fiume e la zona retrostante era al sicuro dal nemico, cosicché i rifornimenti procurati dai Remi e dalle altre popolazioni alleate potevano arrivare senza pericolo ai Romani. Su quel fiume vi era un ponte: là Cesare pose un presidio; sull’altra riva lasciò il suo legato Q. Titurio Sabino con sei coorti; fece poi fortificare l’accampamento con un trinceramento alto dodici piedi preceduto da un fossato largo diciotto piedi. VI. Da questo accampamento distava otto miglia una città dei Remi, detta Bibratte, e contro questa i Belgi appena giunti cominciarono l’assalto, con grande impeto: a stento i Remi poterono resistere per quel giorno. Il metodo di assalto, uguale per i Belgi e per i Galli, è il seguente: gli attaccanti, disposti in grande numero tutt’attorno al perimetro delle mura, cominciano a lanciare pietre e, quando vedono che le mura sono sguarnite dai difensori, alzati gli scudi formano la testuggine, si avvicinano, mettono fuoco alle porte e scalano il muro. Allora questa manovra fu facile: tanta era la moltitudine di armati che gettavano dardi e pietre che nessuno poteva rimanere fermo sulle mura. La notte pose fine all’assalto. Il remo Iccio, che era a capo della città e che, distinguendosi tra i suoi per nobiltà e per favore popolare, era stato uno degli ambasciatori mandati a trattare con Cesa-

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eum mittit: nisi subsidium sibi submittatur, sese diutius sustinere non posse. VII. Eo de media nocte Caesar isdem ducibus usus qui nuntii ab Iccio venerant Numidas et Cretas sagittarios et funditores Baleares subsidio oppidanis mittit; quorum adventu et Remis cum spe defensionis studium propugnandi accessit et hostibus eadem de causa spes potiundi oppidi discessit. Itaque paulisper apud oppidum morati agrosque Remorum depopulati omnibus vicis aedificiisque, quo adire potuerant, incensis ad castra Caesaris omnibus copiis contenderunt et ab milibus passuum minus duobus castra posuerunt; quae castra, ut fumo atque ignibus significabatur, amplius milibus passuum octo in latitudinem patebant. VIII. Caesar primo et propter multitudinem hostium et propter eximiam opinionem virtutis proelio supersedere statuit; cotidie tamen equestribus proeliis, quid hostis virtute posset et quid nostri auderent periclitabatur. Ubi nostros non esse inferiores intellexit, loco pro castris ad aciem instruendam natura oportuno atque idoneo, quod is collis ubi castra posita erant paululum ex planitie editus tantum adversus in latitudinem patebat quantum loci acies instructa tenere poterat, atque ex utraque parte lateris deiectus habebat et in fronte leniter fastigatus paulatim ad planitiem redibat, ab utroque latere eius collis transversam fossam obduxit circiter passuum CD et ad extremas fossas castella constituit ibique tormenta conlocavit, ne, cum aciem instruxisset, hostes, quod tantum multitudine poterant, ab lateribus pugnantes suos circumvenire possent. Hoc facto duabus legionibus quas

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re, gli fece sapere che se non lo avesse subito aiutato non avrebbe potuto resistere più a lungo. VII. Cesare, a notte fonda, facendosi guidare da quelli stessi che erano venuti come messaggeri di Iccio, mandò, in aiuto degli assediati, dei Numidi, degli arcieri cretesi e dei frombolieri baleari, l’arrivo dei quali rese la speranza ai Remi, infondendo loro nuovo ardore difensivo, mentre toglieva ai nemici ogni possibilità di conquistare la città. Perciò, dopo una breve sosta e dopo aver saccheggiato i campi dei Remi e dati alle fiamme i villaggi e le case isolate, si spinsero con tutte le loro schiere verso l’accampamento di Cesare e posero il campo a meno di due miglia da quello romano; a giudicare dal fumo e dai fuochi si poteva calcolare che il loro accampamento si estendesse per più di otto miglia. VIII. Da principio Cesare, tenendo presente il numero dei nemici e la grande fama del loro valore, decise di non dare battaglia, ma intanto ogni giorno con puntate di cavalleria andava sperimentando fino a qual punto giungesse il coraggio dei nemici e l’audacia dei nostri. Comprese presto che i suoi uomini non erano inferiori ai Belgi. Il colle dove era stato posto l’accampamento, di poco elevato sulla pianura, dalla parte del nemico era tanto esteso quanto poteva essere lo spazio occupato dall’esercito in schieramento di battaglia; aveva rapidi scoscendimenti ai due fianchi, mentre sul davanti scendeva con lieve pendio verso il piano: Cesare giudicò il luogo favorevole per conformazione del terreno ed opportuno per lo schieramento delle truppe e fece scavare ai lati del colle due fossati perpendicolari al fronte, lunghi circa quattrocento passi, alle cui estremità pose delle macchine da guerra, per impedire che i nemici, dato il loro grande numero, una volta che egli avesse schierate le sue legioni, potessero circondarle, attaccandolo ai lati mentre combattevano. Dopo aver provveduto a ciò, de-

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proxime conscripserat in castris relictis ut, si quo opus esset, subsidio duci possent, reliquas sex legiones pro castris in acie constituit. Hostes item suas copias ex castris eductas instruxerant. IX. Palus erat non magna inter nostrum atque hostium exercitum. Hanc si nostri transirent hostes exspectabant; nostri autem, si ab illis initium transeundi fieret, ut inpeditos adgrederentur, parati in armis erant. Interim proelio equestri inter duas acies contendebatur. Ubi neutri transeundi initium faciunt, secundiore equitum proelio nostris Caesar suos in castra reduxit. Hostes protinus ex eo loco ad flumen Axonam contenderunt, quod esse post nostra castra demonstratum est. Ibi vadis repertis partem suarum copiarum traducere conati sunt eo consilio, ut, si possent, castellum, cui praeerat Q. Titurius legatus expugnarent pontemque interscinderent, si minus potuissent, agros Remorum popularentur, qui magno nobis usui ad bellum gerendum erant, commeatuque nostros prohiberent. X. Caesar certior factus ab Titurio omnem equitatum et levis armaturae Numidas, funditores sagittariosque pontem traducit atque ad eos contendit. Acriter in eo loco pugnatum est. Hostes inpeditos nostri in flumine adgressi magnum eorum numerum occiderunt: per eorum corpora reliquos audacissime transire conantes multitudine telorum reppulerunt; primos qui transierant equitatu circumventos interfecerunt. Hostes ubi et de expugnando oppido et de flumine transeundo spem se fefellisse intellexerunt neque nostros in locum iniquiorem progredi pugnandi causa viderunt, atque ipsos res fru-

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cise di lasciare nel campo le due legioni che aveva di recente arruolate da chiamare in rinforzo in caso di necessità. Dispose, poi, le altre sei legioni davanti all’accampamento in ordine di battaglia. Nel frattempo anche i nemici avevano fatto uscire dal campo e spiegate le loro truppe. IX. Tra i due eserciti vi era una palude non grande. I nemici attendevano che i nostri l’attraversassero; i nostri, invece, erano pronti ad attaccare i Belgi, per poterli cogliere in difficoltà, se avessero essi per primi tentato il guado. Nessuno dei due eserciti si mosse e dopo uno scontro di cavalleria favorevole ai nostri, Cesare ricondusse le sue truppe nel campo. I nemici subito marciarono verso il fiume Aisne che, come abbiamo detto, era alle spalle del nostro accampamento e, trovati i guadi, tentarono di far passare parte dei loro armati col proposito di espugnare la fortificazione, presidiata dal legato Quinto Titurio e di distruggere il ponte; se non fossero riusciti intendevano saccheggiare i campi dei Remi, che per noi erano di grande utilità, e impedire i nostri rifornimenti. X. Cesare, informato da Titurio, fece attraversare il ponte a tutta la cavalleria, ai Numidi di leggera armatura, ai frombolieri e ai sagittari e si portò contro i Belgi. Si combatté aspramente: i nostri attaccarono sul fiume i nemici mentre erano intenti al guado e ne uccisero moltissimi, respinsero con i dardi i superstiti che con grande audacia tentavano di passare sui corpi dei compagni caduti, circondarono con la cavalleria e distrussero quelli che erano riusciti per primi a toccare la riva. I Belgi, allora, compresero che non potevano nutrire alcuna speranza di espugnare il campo di Titurio né di attraversare il fiume; videro che i nostri non si lasciavano attirare in

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mentaria deficere coepit, concilio convocato constituerunt optimum esse domum suam quemque reverti et, quorum in fines primum Romani exercitum introduxissent, ad eos defendendos undique convenirent, ut potius in suis quam in alienis finibus decertarent et domesticis copiis rei frumentariae uterentur. Ad eam sententiam cum reliquis causis haec quoque ratio eos deduxit, quod Diviciacum atque Haeduos finibus Bellovacorum adpropinquare cognoverant. His persuaderi ut diutius morarentur neque suis auxilium ferrent non poterat. XI. Ea re constituta secunda vigilia magno cum strepitu ac tumultu castris egressi nullo certo ordine neque imperio, cum sibi quisque primum itineris locum peteret et domum pervenire properaret, fecerunt ut consimilis fugae profectio videretur. Hac re statim Caesar per speculatores cognita insidias veritus, quod qua de causa discederent nondum perspexerat, exercitum equitatumque castris continuit. Prima luce confirmata re ab exploratoribus omnem equitatum, qui novissimum agmen moraretur, praemisit. His Q. Pedium et L. Aurunculeium Cottam legatos praefecit. T. Labienum legatum cum legionibus tribus subsequi iussit. Hi novissimos adorti et multa milia passuum prosecuti magnam multitudinem eorum fugientium conciderunt, cum ab extremo agmine ad quos ventum erat, consisterent fortiterque impetum nostrorum militum sustinerent, priores, quod abesse a periculo viderentur, neque ulla necessitate neque imperio continerentur, exaudito clamore perturbatis ordinibus

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un luogo meno favorevole; e poiché cominciavano a sentire carestia di vettovaglie, si riunirono a consiglio e decisero che la cosa migliore era che ciascun popolo ritornasse in patria, salvo a riunirsi e ad accorrere da ogni parte per difendere coloro il cui territorio fosse invaso dai Romani. Così avrebbero combattuto in territorio proprio e non altrui e avrebbero potuto utilizzare le loro riserve di viveri. A questa decisione li spinse, insieme agli altri motivi, anche la preoccupazione dovuta al fatto che Diviziaco e gli Edui, a quanto avevano saputo, stavano avanzando verso le terre dei Bellovaci; e certo nessuno avrebbe potuto persuadere costoro a trattenersi ancora, anziché accorrere in aiuto del loro paese. XI. Presa questa decisione, verso le nove di sera uscirono dall’accampamento con grande strepito, confusione, disordine e senza comandanti; ogni gruppo cercava di prendere il primo posto nell’ordine di marcia e si affrettava per raggiungere la propria terra: tanto che quella partenza sembrava molto simile a una fuga. Cesare, informato dai suoi osservatori, poiché non riuscì a capire subito la causa di quella partenza, temette che vi si nascondesse una insidia, e trattenne l’esercito e la cavalleria dentro al campo. Sul far del giorno, però, avuta conferma dai suoi esploratori che si trattava di una vera ritirata, lanciò dietro al nemico in fuga tutta la sua cavalleria, al comando di Quinto Pedio e Lucio Aurunculeio Cotta, col compito di attaccarne la retroguardia, e la fece seguire dal legato Tito Labieno con tre legioni. Queste forze assalirono gli ultimi corpi in ritirata, continuando per molte miglia l’inseguimento ed uccidendo un gran numero di fuggiaschi. La retroguardia dei Belgi, che i nostri avevano raggiunta, si fermò e sostenne con valore l’urto delle nostre truppe; quelli che erano più avanti, invece, cui sembrava essere lontani dal pericolo, non trattenuti dalla disciplina militare, appena udirono

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omnes in fuga sibi praesidium ponerent. Ita sine ullo periculo tantam eorum multitudinem nostri interfecerunt, quantum fuit diei spatium, sub occasumque solis destiterunt seque in castra, ut erat imperatum, receperunt. XII. Postridie eius diei Caesar, priusquam se hostes ex terrore ac fuga reciperent, in fines Suessionum, qui proximi Remis erant, exercitum duxit et magno itinere confecto ad oppidum Noviodunum pervenit. Id ex itinere oppugnare conatus, quod vacuum ab defensoribus esse audiebat, propter latitudinem fossae murique altitudinem paucis defendentibus expugnare non potuit. Castris munitis vineas agere quaeque ad oppugnandum usui erant comparare coepit. Interim omnis ex fuga Suessionum multitudo in oppidum proxima nocte convenit. Celeriter vineis ad oppidum actis, aggere iacto turribusque constitutis magnitudine operum, quae neque viderant ante Galli neque audierant, et celeritate Romanorum permoti legatos ad Caesarem de deditione mittunt et petentibus Remis ut conservarentur impetrant. XIII. Caesar obsidibus acceptis primis civitatis atque ipsius Galbae regis duobus filiis armisque omnibus ex oppido traditis in deditionem Suessiones accepit exercitumque in Bellovacos ducit. Qui cum se suaque omnia in oppidum Bratuspantium contulissent atque ab eo oppido Caesar cum exercitu circiter milia passuum quinque abesset, omnes maiores natu ex oppido egressi manus ad Caesarem tendere et voce significare coeperunt sese in eius fidem ac potestatem venire neque contra

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il fragore della battaglia, sconvolsero gli ordini di marcia e cercarono salvezza nella fuga. Così i nostri, senza correre alcun pericolo, continuarono la strage dei Belgi per quanto durò quel giorno; al tramonto, secondo l’ordine ricevuto, fecero ritorno all’accampamento. XII. Il giorno dopo, prima che i nemici avessero potuto riaversi dal terrore e dalla confusione prodotta dalla fuga, Cesare condusse l’esercito nella terra dei Suessioni, che erano i più vicini ai Remi e, a marce forzate, si diresse verso la loro capitale: Novioduno. Iniziò l’assalto appena giunto, avendo saputo che era scarsamente presidiata, ma, benché i difensori fossero realmente pochi, non poté prenderla per la larghezza del fossato e l’altezza delle mura. Allora costruì il campo e cominciò ad accostare macchine da guerra ed a preparare tutto ciò che serviva ad un assedio. Frattanto tutti i Suessioni, reduci della fuga, arrivarono la notte seguente nella città. Ma, quando lo scavo delle gallerie fu spinto presso le mura, il terrapieno fu terminato e le torri innalzate, i Galli, colpiti dalla celerità dei Romani e dalla grandezza di quelle opere militari che non avevano mai visto e di cui mai avevano sentito parlare, mandarono a Cesare ambasciatori per trattare la resa e, per intercessione dei Remi, ottennero di conservare vita e libertà. XIII. Cesare prese come ostaggi i principali cittadini e i due figli del re Galba, tolse alla città tutte le armi e accettò la resa dei Suessioni; subito dopo condusse l’esercito contro i Bellovaci. Questi si ritirarono, con tutto ciò che potevano trasportare, nella città di Bratuspanzio; ma quando Cesare giunse alla distanza di circa cinque miglia, tutti i cittadini più anziani uscirono dalla città, si recarono incontro a Cesare e, tendendo le mani e supplicandolo a voce alta, dichiararono che essi si rimettevano alla sua discrezione e che non avrebbero combat-

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populum Romanum armis contendere. Item, cum ad oppidum accessisset castraque ibi poneret, pueri mulieresque ex muro passis manibus suo more pacem ab Romanis petiverunt. XIV. Pro his Diviciacus (nam post discessum Belgarum dimissis Haeduorum copiis ad eum reverterat) facit verba: Bellovacos omni tempore in fide atque amicitia civitatis Haeduae fuisse; inpulsos a suis principibus, qui dicerent Haeduos a Caesare in servitutem redactos omnes indignitates contumeliasque perferre, et ab Haeduis defecisse et populo Romano bellum intulisse. Qui eius consilii principes fuissent, quod intellegerent quantam calamitatem civitati intulissent, in Britanniam profugisse. Petere non solum Bellovacos, sed etiam pro his Haeduos, ut sua clementia ac mansuetudine in eos utatur. Quod si fecerit, Haeduorum auctoritatem apud omnes Belgas amplificaturum, quorum auxiliis atque opibus, si qua bella inciderint, sustentare consuerint. XV. Caesar honoris Diviciaci atque Haeduorum causa sese eos in fidem recepturum et conservaturum dixit; quod erat civitas magna inter Belgas auctoritate atque hominum multitudine praestabat, sexcentos obsides poposcit. His traditis omnibusque armis ex oppido conlatis ab eo loco in fines Ambianorum pervenit, qui se suaque omnia sine mora dediderunt. Eorum fines Nervii attingebant; quorum de natura moribusque cum quaereret, sic reperiebat: nullum esse aditum ad eos mercatoribus; nihil pati vini reliquarumque rerum ad luxuriam pertinentium inferri, quod iis rebus relanguescere animos eorum et remitti virtutem existimarent: esse homines feros magnaeque virtutis, increpitare atque incusare reliquos Belgas, qui se populo Romano dedidissent patriamque

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tuto contro i Romani. Quando poi Cesare si avvicinò alla città e pose il campo nei suoi pressi, anche i ragazzi e le donne dall’alto delle mura tendevano le mani per chiedere, secondo il loro costume, pace ai Romani. XIV. In loro favore parlò Diviziaco, che dopo la fuga dei Belgi aveva congedato gli Edui ed era tornato da Cesare. I Bellovaci – egli disse – erano sempre stati amici e alleati degli Edui; erano stati spinti ad abbandonarli e a portare guerra ai Romani dai loro capi che avevano fatto intendere che gli Edui, ridotti in servitù da Cesare, sopportavano ogni sorta di offese e di umiliazioni; ma coloro che avevano suggerito la guerra avevano compreso quale danno avevano arrecato al loro popolo ed erano fuggiti in Bretagna. Ora non solo i Bellovaci, ma per loro anche gli Edui, chiedevano che Cesare mostrasse la sua clemenza e la sua mitezza d’animo; se lo avesse fatto, il prestigio degli Edui si sarebbe accresciuto presso tutti i Belgi, che erano soliti aiutarli con ogni mezzo in caso di guerra. XV. Cesare, per onorare Diviziaco e gli Edui, promise che li avrebbe presi sotto la sua protezione e avrebbe conservato loro la vita e la libertà e richiese seicento ostaggi, poiché quel popolo godeva di grande autorità tra i Belgi ed era più di tutti numeroso. Quando li ebbe ricevuti ed ebbe disarmato la città, avanzò verso il paese degli Ambiani, che senza indugio si arresero. Confinavano con costoro i Nervi: Cesare si informò del carattere e del costume di questo popolo ed apprese così che non permettevano che i mercanti entrassero nelle loro terre, né che fosse importato vino o altri prodotti di lusso, perché pensavano che potessero infiacchire gli animi e diminuire il loro vigore; che erano uomini rudi, di grande valore guerriero e biasimavano aspramente gli altri Belgi per essersi arresi ai Romani calpestando così

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virtutem proiecissent; confirmare sese neque legatos missuros neque ullam condicionem pacis accepturos. XVI. Cum per eorum fines triduum iter fecisset, inveniebat ex captivis Sabim flumen ab castris suis non amplius milibus passuum X abesse: trans id flumen omnes Nervios consedisse adventumque ibi Romanorum exspectare una cum Atrebatibus et Viromanduis, finitimis suis (nam his utrisque persuaserant uti eandem belli fortunam experirentur); expectari etiam ab iis Atuatucorum copias atque esse in itinere: mulieres, quique per aetatem ad pugnam inutiles viderentur, in eum locum coniecisse quo propter paludes exercitui aditus non esset. XVII. His rebus cognitis exploratores centurionesque praemittit, qui locum idoneum castris deligant. Cum ex dediticiis Belgis reliquisque Gallis complures Caesarem secuti una iter facerent, quidam ex his, ut postea ex captivis cognitum est, eorum dierum consuetudine itineris nostri exercitus perspecta nocte ad Nervios pervenerunt atque his demonstrarunt inter singulas legiones impedimentorum magnum numerum intercedere, neque esse quicquam negotii, cum prima legio in castra venisset reliquaeque legiones magnum spatium abessent, hanc sub sarcinis adoriri; qua pulsa impedimentisque direptis futurum ut reliquae contra consistere non auderent. Adiuvabat etiam eorum consilium qui rem deferebant, quod Nervii antiquitus, cum equitatu nihil possent (neque enim ad hoc tempus ei rei student sed, quicquid possunt, pedestribus valent copiis), quo facilius finitimorum equitatum, si praedandi causa ad eos venissent, impedi-

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il ricordo delle virtù degli avi; essi non avrebbero mandato ambasciatori a Cesare e non avrebbero accettato nessuna condizione di pace. XVI. Dopo un viaggio di tre giorni nelle loro terre, Cesare apprese da alcuni prigionieri che a non più di diecimila passi dal suo campo scorreva il fiume Sambre, al di là del quale si erano fermati i Nervi, per attendere l’arrivo dei Romani, insieme agli Atrebati e ai Viromandui, loro vicini, che si erano lasciati indurre a unirsi a loro in quell’impresa; aspettavano anche l’armata degli Aduatuci che erano in cammino; avevano poi riunito le donne e coloro che per l’età avanzata non erano di alcuna utilità per la guerra in un luogo circondato da paludi dove gli eserciti non potevano penetrare. XVII. Avute queste notizie Cesare mandò degli esploratori e alcuni centurioni a scegliere un luogo adatto per l’accampamento. Parecchi Belgi di recente arresisi e altri Galli seguivano Cesare marciando con lui; alcuni di costoro – a quanto si seppe successivamente dai prigionieri – dopo avere osservato l’ordine di marcia che il nostro esercito teneva in quei giorni, di notte raggiunsero i Nervi e li informarono che a ciascuna legione romana seguiva un grande numero di carri e di salmerie: sarebbe stata cosa non difficile attendere che la prima legione fosse vicina all’accampamento e assalirla, ancora gravata dal peso dell’equipaggiamento e mentre le altre erano ancora lontane; una volta respinta la prima legione e saccheggiato il convoglio, le legioni che seguivano non avrebbero osato tener loro testa. Sembrava rendere poi più agevole l’effettuazione del loro consiglio il fatto che i Nervi, poiché non avevano cavalleria (e neppure ai nostri giorni vi danno importanza, ma tutta la loro forza consiste nella fanteria), per ostacolare l’azione della cavalleria dei popoli confinanti, nel caso di eventuali irru-

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rent, teneris arboribus incisis atque inflexis crebrisque in latitudinem ramis enatis et rubis sentibusque interiectis effecerant ut instar muri hae saepes munimentum praeberent, quo non modo non intrari, sed ne perspici quidem posset. His rebus cum iter agminis nostri impediretur, non omittendum sibi consilium Nervii existimaverunt. XVIII. Loci natura erat haec, quem locum nostri castris delegerant. Collis ab summo aequaliter declivis ad flumen Sabim, quod supra nominavimus, vergebat. Ab eo flumine pari acclivitate collis nascebatur adversus huic et contrarius, passus circiter ducentos infimus apertus, ab superiore parte silvestris, ut non facile introrsus perspici posset. Intra eas silvas hostes in occulto sese continebant; in aperto loco secundum flumen paucae stationes equitum videbantur. Fluminis erat altitudo pedum circiter trium. XIX. Caesar equitatu praemisso subsequebatur omnibus copiis; sed ratio ordoque agminis aliter se habebat ac Belgae ad Nervios detulerant. Nam quod hostibus adpropinquabat, consuetudine sua Caesar VI legiones expeditas ducebat; post eas totius exercitus impedimenta conlocarat; inde duae legiones, quae proxime conscriptae erant, totum agmen claudebant praesidioque impedimentis erant. Equites nostri cum funditoribus sagittariisque flumen transgressi cum hostium equitatu proelium commiserunt. Cum se illi identidem in silvas ad suos reciperent ac rursus ex silva in nostros impetum

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zioni nelle loro terre per depredarle, usavano, fin da tempo remoto, mozzare le cime degli alberi ancora giovani, sì che i rami si sviluppavano nel senso della larghezza e negli intervalli fra albero e albero piantavano rovi e cespugli spinosi, in modo che queste siepi formavano una barriera, come un muro, attraverso il quale non si poteva penetrare e neppure essere scorti. Ritenendo che questi ostacoli avrebbero reso molto difficile la marcia del nostro esercito, i Nervi decisero di non dover trascurare il piano di battaglia loro suggerito. XVIII. La configurazione del luogo che i nostri avevano scelto per l’accampamento era la seguente: un colle, con fianchi che dalla sommità digradavano uniformemente, si allungava verso la Sambre più sopra nominata. Dalla riva opposta sorgeva, dirimpetto al primo, un altro colle con pendii regolari, che, in senso contrario, si estendeva nella parte più bassa per circa duecento passi; la sommità di questo era coperta di selve folte, impenetrabili alla vista. I nemici si tenevano celati proprio in quelle boscaglie; negli spazi scoperti, lungo il fiume, erano in vista solo pochi avamposti di cavalleria. Il fiume era profondo circa tre piedi. XIX. Cesare aveva mandato avanti la cavalleria e seguiva con tutte le sue forze, ma l’ordine di marcia era diverso da quello che i Belgi avevano riferito ai Nervi. Infatti, giacché era in vicinanza del nemico, Cesare aveva preso le disposizioni che gli erano abituali e faceva marciare avanti sei legioni senza bagagli; seguiva il convoglio con l’equipaggiamento di tutto l’esercito che le due legioni arruolate per ultime, e che chiudevano lo schieramento, erano destinate a difendere. I nostri cavalieri con i frombolieri e i sagittari passarono il fiume e attaccarono battaglia con i cavalieri nemici. Questi più volte si ritirarono nella boscaglia, uscendone ogni volta per

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facerent, neque nostri longius quam quem ad finem porrecta [ac] loca aperta pertinebant cedentes insequi auderent, interim legiones sex, quae primae venerant, opere dimenso castra munire coeperunt. Ubi prima impedimenta nostri exercitus ab iis qui in silvis abditi latebant visa sunt, quod tempus inter eos committendi proelii convenerat, ut intra silvas aciem ordinesque constituerant atque ipsi sese confirmaverant, subito omnibus copiis provolaverunt impetumque in nostros equites fecerunt. His facile pulsis ac proturbatis incredibili celeritate ad flumen decucurrerunt, ut paene uno tempore et ad silvas et in flumine et iam in manibus nostris hostes viderentur. Eadem autem celeritate adverso colle ad nostra castra atque eos qui in opere occupati erant contenderunt. XX. Caesari omnia uno tempore erant agenda: vexillum proponendum, quod erat insigne cum ad arma concurri oporteret, signum tuba dandum, ab opere revocandi milites, qui paulo longius aggeris petendi causa processerant arcessendi, acies instruenda, milites cohortandi, signum dandum. Quarum rerum magnam partem temporis brevitas et successus hostium impediebat. His difficultatibus duae res erant subsidio, scientia atque usus militum, quod superioribus proeliis exercitati quid fieri oporteret non minus commode ipsi sibi praescribere quam ab aliis doceri poterant, et quod ab opere singulisque legionibus singulos legatos Caesar discedere nisi munitis castris vetuerat. Hi propter propinquitatem et celeritatem hostium nihil iam Caesaris imperium exspectabant, sed per se quae videbantur administrabant.

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assalire i nostri che non osavano inseguirli oltre il limite del terreno scoperto: intanto le sei legioni che erano giunte per prime, dopo avere preso le misure per il tracciato del campo, cominciarono a fortificarlo. Appena i Nervi, nascosti nella selva, videro giungere le prime salmerie del nostro esercito – ed era questo il momento in cui avevano stabilito di attaccar battaglia –, improvvisamente (avevano già, entro i loro ripari, disposto le truppe in ordine di combattimento e si erano a vicenda incoraggiati alla battaglia) piombarono giù dal pendio con tutte le forze e assalirono la nostra cavalleria. La respinsero e la misero in fuga facilmente, poi scesero al fiume con tanta celerità che i nostri quasi in uno stesso tempo li videro nelle selve, al fiume e vicino a loro stessi. Poi con uguale celerità si volsero verso il colle che sorgeva di fronte contro le truppe che erano intente al lavoro di fortificazione dell’accampamento. XX. Cesare avrebbe dovuto far tutto in un momento: alzare il vessillo (segnale per prendere le armi), far suonare l’allarme, richiamare dai lavori i soldati, far rientrare quelli che si erano allontanati in cerca del materiale per la costruzione del campo, esortare i soldati, dare il segnale d’attacco. Ma gran parte di queste cose era impossibile fare: breve era il tempo, i nemici gli erano addosso. Però a queste difficoltà due fatti sopperivano: prima di tutto la perizia e l’esperienza dei soldati, che, esercitati dalle recenti battaglie, potevano fare quanto era necessario di loro iniziativa, senza attendere ordini; in secondo luogo il fatto che Cesare aveva vietato ai legati di allontanarsi dalle loro legioni e dal lavoro di fortificazione se non dopo che l’accampamento fosse pronto; costoro, vista la rapidità con cui i nemici si avvicinavano, non aspettavano più gli ordini di Cesare, ma da soli prendevano i provvedimenti che sembravano loro opportuni.

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XXI. Caesar necessariis rebus imperatis ad cohortandos milites quam in partem fors obtulit decucurrit et ad legionem decimam devenit. Milites non longiore oratione cohortatus quam uti suae pristinae virtutis memoriam retinerent neu perturbarentur animo hostiumque impetum fortiter sustinerent, quod non longius hostes aberant quam quo telum adigi posset, proelii committendi signum dedit. Atque in alteram partem item cohortandi causa profectus pugnantibus occurrit. Temporis tanta fuit exiguitas hostiumque tam paratus ad dimicandum animus, ut non modo ad insignia adcommodanda, sed etiam ad galeas induendas scutisque tegimenta detrudenda tempus defuerit. Quam quisque ab opere in partem casu devenit quaeque prima signa conspexit, ad haec constitit, ne in quaerendis suis pugnandi tempus dimitteret. XXII. Instructo exercitu, magis ut loci natura deiectusque collis et necessitas temporis quam ut rei militaris ratio atque ordo postulabat, cum diversis legionibus aliae alia in parte hostibus resisterent, saepibusque densissimis, ut ante demonstravimus, interiectis prospectus impediretur, neque certa subsidia conlocari neque quid in quaque parte opus esset provideri neque ab uno omnia imperia administrari poterant. Itaque in tanta rerum iniquitate fortunae quoque eventus varii sequebantur. XXIII. Legionis nonae et decimae milites, ut in sinistra parte aciei constiterant, pilis emissis cursu ac lassitudine exanimatos vulneribusque confectos Atrebates (nam his ea pars obvenerat) celeriter ex loco superiore in flumen conpulerunt et transire conantes insecuti gladiis magnam partem eorum impeditam interfecerunt. Ipsi tran-

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XXI. Cesare, impartite le disposizioni più necessarie, corse qua e là ad incitare i soldati: per caso si trovò presso la decima legione. Con brevi parole esortò quei soldati a ricordarsi del loro provato valore, a non turbarsi, a sostenere con vigore l’attacco dei nemici ed essendo questi ormai a tiro, diede il segnale di combattimento; corse, poi, all’altra ala a portare ugualmente la sua parola di esortazione; e là trovò già in atto la battaglia. Così scarso fu il tempo e tanto pronti i nemici alla lotta, che non solo i nostri non poterono issare le insegne del combattimento, ma neppure indossare gli elmi e togliere agli scudi le coperture. Ciascun soldato, per non perdere tempo a cercare i propri compagni, si fermò presso le insegne che vide per prime, dove per caso si era venuto a trovare accorrendo dal luogo dove lavorava. XXII. L’esercito fu schierato secondo la conformazione del terreno, gli scoscendimenti del colle e l’urgenza e non secondo quello che avrebbe richiesto una precisa tattica di combattimento; le legioni, fra loro disgiunte, combattevano ciascuna per conto proprio, separatamente; le siepi fittissime che, come si è detto sopra, sorgevano dovunque, impedivano la vista; non si potevano, quindi, avere elementi per l’appropriato intervento delle riserve; non si poteva provvedere ai bisogni delle varie parti del fronte; infine l’unità di comando era impossibile. Perciò, in condizioni così sfavorevoli il combattimento doveva necessariamente spezzarsi in tanti episodi di esito a parte a parte diverso. XXIII. I soldati della nona e della decima legione, che si trovavano all’ala sinistra, scagliati i giavellotti, poterono facilmente respingere dalle alture verso il fiume gli Atrebati (schierati su quell’ala), già spossati per la corsa fatta e, avendoli inseguiti mentre tentavano il guado, ne uccisero un gran numero con le spade. Ma poi, non esi-

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sire flumen non dubitaverunt et in locum iniquum progressi rursus resistentes hostes redintegrato proelio in fugam coniecerunt. Item alia in parte diversae duae legiones undecima et octava, profligatis Viromanduis, quibuscum erant congressi, ex loco superiore, in ipsis fluminis ripis proeliabantur. At totis fere a fronte et a sinistra parte nudatis castris, cum in dextro cornu legio duodecima et non magno ab ea intervallo septima constitisset, omnes Nervii confertissimo agmine duce Boduognato, qui summam imperii tenebat, ad eum locum contenderunt; quorum pars aperto latere legiones circumvenire, pars summum castrorum locum petere coepit. XXIV. Eodem tempore equites nostri levisque armaturae pedites qui cum iis una fuerant, quos primo hostium impetu pulsos dixeram, cum se in castra reciperent, adversis hostibus occurrebant ac rursus aliam in partem fugam petebant, et calones, qui ab decumana porta ac summo iugo collis nostros victores flumen transisse conspexerant, praedandi causa egressi, cum respexissent et hostes in nostris castris versari vidissent, praecipites fugae sese mandabant. Simul eorum qui cum impedimentis veniebant clamor fremitusque oriebatur, aliique aliam in partem perterriti ferebantur. Quibus omnibus rebus permoti equites Treveri, quorum inter Gallos virtutis opinio est singularis, qui auxilii causa ab civitate ad Caesarem missi venerant, cum multitudine hostium castra nostra compleri, legiones premi et paene circum-

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tando ad attraversare il fiume, si trovarono a loro volta in posizione sfavorevole, mentre i nemici stavano riprendendo animo, ma dopo un nuovo combattimento li misero in fuga. Dall’altra parte due legioni, la undicesima e l’ottava, respinti dall’altura i Viromandui che li fronteggiavano, li inseguirono, combattendo fin sulle rive del fiume. L’intiero accampamento rimase, però, sguarnito sulla fronte e sulla sinistra, dato che la dodicesima legione e, un po’ più in là, la settima avevano preso posizione all’ala destra. I Nervi, allora, al comando di Boduognato, capo supremo di tutto l’esercito, si lanciarono, con file molto serrate, contro quel lato: una parte di essi cominciò a circondare le legioni dal lato aperto, un’altra a dirigersi verso la sommità del colle, dove era l’accampamento. XXIV. Nel frattempo i nostri cavalieri e i fanti armati alla leggera, che avevano combattuto prima insieme e che, come abbiamo detto, erano stati respinti dal primo assalto dei nemici, mentre si dirigevano all’accampamento per trovarvi riparo, si imbatterono con i nemici che venivano ad occuparlo; volsero tosto da un’altra parte la loro fuga. Intanto, un gruppo di servi, precedendo il convoglio, raggiunto il campo aveva visto dalla porta decumana, posta sulla sommità del colle, che i nostri vincevano e avevano attraversato il fiume; si apprestavano a seguirli per far preda, ma guardando dietro di sé scorsero i nemici che si riversavano nell’accampamento e si diedero, allora, a fuga precipitosa. Nello stesso tempo e per la stessa ragione, coloro che giungevano col convoglio e con le salmerie, presi dal panico, con grandi grida fuggirono in tutte le direzioni. Tutto questo disordine impressionò i cavalieri Treveri, che pure godevano fra i Galli gran fama di valore (erano stati mandati dalla loro terra come aiuto a Cesare): appena essi videro il nostro accampamento invaso dai nemici, le legioni incalzate e

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ventas teneri, calones, equites, funditores, Numidas diversos dissipatosque in omnes partes fugere vidissent, desperatis nostris rebus domum contenderunt; Romanos pulsos superatosque, castris impedimentisque eorum hostes potitos civitati renuntiaverunt. XXV. Caesar ab decimae legionis cohortatione ad dextrum cornu profectus, ubi suos urgeri signisque in unum locum conlatis duodecimae legionis confertos milites sibi ipsos ad pugnam esse impedimento vidit, quartae cohortis omnibus centurionibus occisis signiferoque interfecto, signo amisso, reliquarum cohortium omnibus fere centurionibus aut vulneratis aut occisis, in his primipilo P. Sextio Baculo, fortissimo viro multis gravibusque vulneribus confecto, ut iam se sustinere non posset, reliquos esse tardiores et non nullos ab novissimis desertos proelio excedere ac tela vitare, hostis neque a fronte ex inferiore loco subeuntes intermittere et ab utroque latere instare et rem esse in angusto vidit neque ullum esse subsidium quod submitti posset, scuto ab novissimis uni militi detracto, quod ipse eo sine scuto venerat, in primam aciem processit centurionibusque nominatim appellatis reliquos cohortatus milites signa inferre et manipulos laxare iussit, quo facilius gladiis uti possent. Cuius adventu spe inlata militibus ac redintegrato animo, cum pro se quisque in conspectu imperatoris etiam extremis suis rebus operam navare cuperet, paulum hostium impetus tardatus est.

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quasi da ogni parte circondate, i servi, i cavalieri, i frombolieri, i Numidi, divisi, ognuno per proprio conto, fuggenti da tutte le parti, ritenendo ormai la nostra situazione insostenibile si diressero verso la loro patria, dove annunziarono che i Romani erano stati completamente disfatti e che i nemici si erano impadroniti del campo e di tutto l’equipaggiamento delle legioni. XXV. Cesare, lasciata la decima legione, dopo il breve discorso di incitamento, era accorso all’ala destra: qui vide che i suoi erano incalzati da ogni parte e che i soldati della dodicesima, per avere raccolte in un sol punto tutte le insegne, troppo si davano l’un l’altro impaccio nel combattimento; tutti i centurioni della quarta coorte erano stati uccisi; morto anche l’alfiere, il vessillo era stato perduto; delle altre coorti quasi tutti i centurioni erano morti o feriti; il valorosissimo centurione primipilo P. Sestio Baculo aveva ricevuto tante e così gravi ferite che non si poteva più reggere in piedi; i superstiti erano demoralizzati e spauriti e parecchi fra quelli delle ultime file abbandonavano la battaglia, mentre sulla fronte del combattimento i nemici non cessavano di avanzare, incalzando su entrambi i fianchi. La situazione era dunque molto critica, né vi era alcuna riserva che potesse essere chiamata in campo: allora Cesare afferrò dalle mani di un soldato delle ultime file lo scudo, non avendo egli con sé il suo; avanzò fino alla prima linea e, dopo aver chiamato per nome i centurioni e avere esortato gli altri soldati, comandò di portare avanti le insegne e aprire i manipoli, perché si potesse più facilmente combattere con le spade. L’arrivo di Cesare infuse speranza ai soldati e ridiede loro coraggio: ciascuno di essi davanti agli occhi del proprio comandante desiderava fare del suo meglio anche all’estremo delle forze: l’impeto del nemico venne così un po’ ritardato.

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XXVI. Caesar cum septimam legionem, quae iuxta constiterat, item urgeri ab hoste vidisset, tribunos militum monuit ut paulatim sese legiones coniungerent et conversa signa in hostes inferrent. Quo facto cum alius alii subsidium ferret, neque timerent ne aversi ab hoste circumvenirentur, audacius resistere ac fortius pugnare coeperunt. Interim milites legionum duarum quae in novissimo agmine praesidio impedimentis fuerant proelio nuntiato cursu incitato in summo colle ab hostibus conspiciebantur, et T. Labienus castris hostium potitus et ex loco superiore quae res in nostris castris gererentur conspicatus decimam legionem subsidio nostris misit. Qui cum ex equitum et calonum fuga quo in loco res esset quantoque in periculo et castra et legiones et imperator versaretur cognovissent, nihil ad celeritatem sibi reliqui fecerunt. XXVII. Horum adventu tanta rerum commutatio est facta, ut nostri etiam qui vulneribus confecti procubuissent scutis innixi proelium redintegrarent, calones perterritos hostes conspicati etiam inermes armatis occurrerent, equites vero, ut turpitudinem fugae virtute delerent, omnibus in locis pugnae se legionariis militibus praeferrent. At hostes etiam in extrema spe salutis tantam virtutem praestiterunt, ut cum primi eorum cecidissent, proximi iacentibus insisterent atque ex eorum corporibus pugnarent, his deiectis et coacervatis cadaveribus, qui superessent ut ex tumulo tela in nostros conicerent pilaque intercepta remitterent: ut non nequiquam tantae virtutis homines iudicari deberet ausos esse transire latissimum flumen, ascendere altissimas ripas, subi-

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XXVI. Quando poi vide che la settima legione, a fianco della dodicesima, era ugualmente in difficoltà, ordinò ai tribuni di far avvicinare a poco a poco le due legioni, e di fronteggiare il nemico, addossandole l’una all’altra. Così a vicenda si aiutavano, né dovevano più temere di essere circondati e attaccati alle spalle: il provvedimento valse a rinvigorire la resistenza. Frattanto le due legioni, che in retroguardia avevano scortato il convoglio, appena s’accorsero della battaglia, accelerata la loro marcia giunsero in vista del nemico, alla sommità del colle. Da parte sua, Tito Labieno, che si era impadronito dell’accampamento dei Nervi e dall’alto aveva visto ciò che avveniva nel campo nostro, mandò la decima legione in aiuto ai nostri impegnati in combattimento. I soldati della decima legione, che dalla fuga dei cavalieri e dei servi avevano compreso come stessero le cose e in quanto pericolo si trovassero l’accampamento, le legioni e il comandante, accorsero con la massima celerità. XXVII. L’arrivo di queste nuove forze portò un tale cambiamento che anche quelli, dei nostri, che giacevano a terra feriti, appoggiandosi sugli scudi ripresero a combattere. Anche i servi, quando videro i barbari atterriti, pur essendo disarmati, si gettarono contro gli avversari armati; i cavalieri, per cancellare, con prove di valore, la vergogna della loro fuga, presero a combattere dovunque, cercando di emulare i fanti. Ma i nemici, anche quando non vi fu più per loro speranza di vittoria, mostrarono tanto eroismo che, caduti i primi, quelli che venivano dietro si fermavano e combattevano sui corpi dei compagni e anche quando essi venivano uccisi, i superstiti da dietro i mucchi dei cadaveri lanciavano dardi contro i nostri e rimandavano indietro i giavellotti che potevano raccogliere. Così ci si dovette render conto che non temerariamente uomini di tanto valore avevano osato attraversare un fiume così largo, scalarne le ri-

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re iniquissimum locum; quae facilia ex difficillimis animi magnitudo redegerat. XXVIII. Hoc proelio facto et prope ad internecionem gente ac nomine Nerviorum redacto maiores natu, quos una cum pueris mulieribusque in aestuaria ac paludes coniectos dixeramus, hac pugna nuntiata cum victoribus nihil impeditum, victis nihil tutum arbitrarentur, omnium qui supererant consensu legatos ad Caesarem miserunt seque ei dediderunt et in commemoranda civitatis calamitate ex sexcentis ad tres senatores, ex hominum milibus LX vix ad quingentos, qui arma ferre possent, sese redactos esse dixerunt. Quos Caesar, ut in miseros ac supplices usus misericordia videretur, diligentissime conservavit suisque finibus atque oppidis uti iussit et finitimis imperavit ut ab iniuria et maleficio se suosque prohiberent. XXIX. Atuatuci, de quibus supra diximus, cum omnibus copiis auxilio Nerviis venirent, hac pugna nuntiata ex itinere domum reverterunt; cunctis oppidis castellisque desertis sua omnia in unum oppidum egregie natura munitum contulerunt. Quod cum ex omnibus in circuitu partibus altissimas rupes despectusque haberet, una ex parte leniter acclivis aditus in latitudinem non amplius ducentorum pedum relinquebatur; quem locum duplici altissimo muro munierant: tum magni ponderis saxa et praeacutas trabes in muro conlocabant. Ipsi erant ex Cimbris Teutonisque prognati, qui cum iter in provinciam nostram atque Italiam facerent, iis impedimentis, quae secum agere ac portare non poterant citra flumen Rhenum depositis custodiam ex suis ac praesidium sex

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pidissime rive, assalire una posizione così forte; cose difficili, rese facili dal loro coraggio. XXVIII. Distrutto quasi completamente con questa battaglia il popolo e il nome stesso dei Nervi, i più anziani (abbiamo detto che erano stati riuniti, con i fanciulli e le donne, in località difese da stagni e paludi) all’annunzio della disfatta pensarono che ormai nulla poteva arrestare i vincitori e nulla proteggere i vinti. Col consenso di tutti i superstiti, mandarono dei messi a Cesare e gli si arresero, annunziandogli che, in seguito a quella terribile sconfitta della loro gente, il numero dei senatori era ridotto da seicento a tre e il numero di quelli che potevano portare le armi da sessantamila ad appena cinquecento. Cesare, perché si vedesse che era generoso verso i vinti e i supplici, volle salvare ai Nervi la vita e la libertà, consentì che rimanessero nelle loro terre e nelle loro città e ordinò ai popoli confinanti di non portare loro né danno né offesa. XXIX. Gli Aduatuci, come abbiamo detto sopra, venivano in aiuto ai Nervi con tutte le loro forze, ma appena seppero dell’esito della battaglia invertirono la direzione di marcia ritornando in patria; abbandonarono i villaggi, le città e le fortificazioni e radunarono tutto quanto possedevano in una città, molto ben protetta dalla natura del terreno; da tutte le parti, infatti, vi erano ripidissimi scoscendimenti rocciosi; solo da un lato esisteva un passaggio in dolce pendìo per una larghezza di non più di duecento piedi. Gli Aduatuci avevano fortificato questo accesso con un doppio muro di grande altezza e collocato sul muro pesanti massi e travi appuntite. Gli Aduatuci erano discendenti dei Cimbri e dei Teutoni, che, quando avevano invaso la nostra Provincia e l’Italia, avevano lasciato al di qua del Reno parte dell’equipaggiamento che non potevano portare con sé con sei-

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milia hominum una reliquerunt. Hi post eorum obitum multos annos a finitimis exagitati, cum alias bellum inferrent, alias inlatum defenderent, consensu eorum omnium pace facta hunc sibi domicilio locum delegerunt. XXX. Ac primo adventu exercitus nostri crebras ex oppido excursiones faciebant parvulisque proeliis cum nostris contendebant; postea vallo pedum in circuitu XV milium crebrisque castellis circummuniti oppido se continebant. Ubi vineis actis aggere exstructo turrim procul constitui viderunt, primum inridere ex muro atque increpitare vocibus, quod tanta machinatio ab tanto spatio instrueretur: quibusnam manibus aut quibus viribus praesertim homines tantulae staturae (nam plerumque omnibus Gallis prae magnitudine corporum suorum brevitas nostra contemptui est) tanti oneris turrim in muro posse conlocare confiderent? XXXI. Ubi vero moveri et adpropinquare moenibus viderunt, nova atque inusitata specie commoti legatos ad Caesarem de pace miserunt, qui ad hunc modum locuti, non se existimare Romanos sine ope divina bellum gerere, qui tantae altitudinis machinationes tanta celeritate promovere possent, se suaque omnia eorum potestati permittere dixerunt. Unum petere ac deprecari: si forte pro sua clementia ac mansuetudine, quam ipsi ab aliis audirent, statuisset Atuatucos esse conservandos, ne se armis despoliaret. Sibi omnes fere finitimos esse inimicos ac suae virtuti invidere; a quibus se defendere traditis armis non possent. Sibi praestare, si in eum casum de-

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mila di loro a guardia e a difesa. Costoro, dopo la distruzione dei loro popoli, erano stati in lotta per parecchi anni con le genti confinanti, ora assalendole, ora difendendosi dai loro attacchi; finché, fatta la pace col consenso di tutti, si erano scelta questa località come loro sede. XXX. Dopo l’arrivo del nostro esercito, essi avevano cominciato a compiere frequenti irruzioni attaccando, con i nostri, scaramucce di poca importanza; poi, costruita intorno alla piazzaforte una trincea di quindicimila piedi e numerosi bastioni, si erano chiusi in città. Quando videro che i Romani, dopo aver avvicinate le macchine da guerra e preparato il terrapieno, costruivano, a una certa distanza, una torre, cominciarono a deriderli dal muro, chiedendo, con parole sprezzanti, perché una macchina così grande fosse costruita tanto lontano e con quali mani e con quali forze uomini così piccoli (infatti, quasi tutti i Galli disprezzavano la statura dei Romani, bassa in confronto a quella loro) potevano sperare di muovere una torre tanto pesante. XXXI. Ma quando si accorsero che la torre si muoveva e si avvicinava alle mura, colpiti nel vedere cosa così nuova e insolita, mandarono ambasciatori a Cesare per trattare la pace. Questi dissero che non credevano possibile che i Romani facessero la guerra senza l’aiuto degli dèi, visto che potevano muovere con tanta celerità delle macchine così alte; e dichiararono di mettersi nelle mani di Cesare. Di una sola cosa lo pregavano: che, dando prova di quella clemenza e mitezza d’animo di cui avevano sentito parlare, egli conservasse la vita agli Aduatuci e non li obbligasse a consegnare le armi. Tutti i popoli vicini li consideravano nemici e li invidiavano per il loro valore: ed essi, una volta consegnate le armi, non avrebbero avuto modo di difendersi. In tal caso pre-

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ducerentur, quamvis fortunam a populo Romano pati, quam ab his per cruciatum interfici, inter quos dominari consuessent. XXXII. Ad haec Caesar respondit: se magis consuetudine sua quam merito eorum civitatem conservaturum, si prius quam murum aries attigisset, se dedidissent: sed deditionis nullam esse condicionem nisi armis traditis. Se id quod in Nerviis fecisset facturum finitimisque imperaturum ne quam dediticiis populi Romani iniuriam inferrent. Re nuntiata ad suos, quae imperarentur facere dixerunt. Armorum magna multitudine de muro in fossam quae erat ante oppidum iacta, sic ut prope summam muri aggerisque altitudinem acervi armorum adaequarent, et tamen circiter parte tertia, ut postea perspectum est, celata atque in oppido retenta, portis patefactis eo die pace sunt usi. XXXIII. Sub vesperum Caesar portas claudi militesque ex oppido exire iussit, ne quam noctu oppidani a militibus iniuriam acciperent. Illi ante inito, ut intellectum est consilio, quod deditione facta nostros praesidia deducturos aut denique indiligentius servaturos crediderant, partim cum iis quae retinuerant et celaverant armis, partim scutis ex cortice factis aut viminibus intextis, quae subito, ut temporis exiguitas postulabat, pellibus induxerant, tertia vigilia, qua minime arduus ad nostras munitiones ascensus videbatur, omnibus copiis repente ex

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ferivano dover subire da parte dei Romani qualunque cosa, piuttosto che essere uccisi tra i tormenti da coloro sui quali avevano sempre prima esercitato il loro dominio. XXXII. Cesare rispose che più per attenersi alla sua abituale clemenza che per riguardo ai loro meriti, avrebbe salvata la città, se gli Aduatuci si fossero arresi prima che l’ariete avesse attaccato le mura;3 che, però, non vi poteva essere capitolazione senza la consegna delle armi: egli avrebbe agito come già aveva fatto nel caso dei Nervi, imponendo alle genti confinanti di non portare danno alcuno ad un popolo postosi sotto l’autorità dei Romani. Riferita la risposta, gli ambasciatori tornarono ad annunziare che gli Aduatuci accettavano la condizione posta. Gettarono così giù dal muro, nel fossato, una tale quantità di armi che il mucchio raggiunse quasi l’altezza delle mura e del terrapieno (e tuttavia circa la terza parte, come poi risultò, fu tenuta nascosta dentro la città), aprirono le porte e quel giorno passò in pace. XXXIII. Verso sera, Cesare fece chiudere le porte e ordinò ai soldati di uscire dalla città, nel timore che potessero durante la notte portare qualche offesa agli abitanti. Questi, prima ancora, come si capì in seguito, che egli avesse presa questa decisione, credendo che dopo la resa i nostri avrebbero ritirato i posti di guardia o avrebbero usato misure meno prudenti, si armarono parte con le armi che avevano nascosto, parte con scudi fatti di legno o di vimini intrecciati, ricoperti frettolosamente di pelli e, verso mezzanotte, quando sembrava meno difficile poter arrivare fino ai nostri posti di difesa, uscirono dalla città 3 Secondo un’antica consuetudine, dopo aver dato il primo colpo di ariete contro le mura di una città, i Romani non ne accettavano più la resa, ma portavano l’operazione fino in fondo. Cicerone discute e critica questa drastica consuetudine nel De officiis, I, 11.

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oppido eruptionem fecerunt. Celeriter, ut ante Caesar imperarat, ignibus significatione facta ex proximis castellis eo concursum est, pugnatumque ab hostibus ita acriter est ut a viris fortibus in extrema spe salutis iniquo loco contra eos qui ex vallo turribusque tela iacerent pugnari debuit, cum in una virtute omnis spes salutis consisteret. Occisis ad hominum milibus quattuor reliqui in oppidum reiecti sunt. Postridie eius diei refractis portis, cum iam defenderet nemo, atque intromissis militibus nostris sectionem eius oppidi universam Caesar vendidit. Ab iis qui emerant capitum numerus ad eum relatus est milium quinquaginta trium. XXXIV. Eodem tempore a P. Crasso, quem cum legione una miserat ad Venetos, Unellos, Osismos, Coriosolitas, Esuvios, Aulercos, Redones, quae sunt maritimae civitates Oceanumque attingunt, certior factus est omnes eas civitates in dicionem potestatemque populi Romani redactas esse. XXXV. His rebus gestis omni Gallia pacata tanta huius belli ad barbaros opinio perlata est, uti ab iis nationibus quae trans Rhenum incolerent legati ad Caesarem mitterentur, qui se obsides daturas, imperata facturas pollicerentur. Quas legationes Caesar, quod in Italiam Illyricumque properabat, inita proxima aestate ad se reverti iussit. Ipse in Carnutes, Andes, Turonos quaeque civitates propinquae his locis erant ubi bellum gesserat, legionibus in hiberna deductis in Italiam profectus est. Ob easque res ex litteris Caesaris dies quindecim supplicatio decreta est, quod ante id tempus accidit nulli.

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all’improvviso con tutte le loro forze. Subito, seguendo gli ordini che Cesare aveva dato, i nostri fecero le segnalazioni d’allarme con i fuochi e accorsero in aiuto dai bastioni più vicini; gli Aduatuci combatterono con l’accanimento che uomini valorosi dovevano mettere in un combattimento col quale tentavano tutto per tutto, potendo fidare solo nel loro coraggio e trovandosi in posizione sfavorevole contro uomini che lanciavano dardi da una trincea e dalle torri. Furono uccisi circa quattromila di loro e gli altri ricacciati nella città. Il giorno dopo, abbattute le porte, che ormai nessuno difendeva, e fatti entrare i nostri soldati, Cesare fece vendere all’incanto e in un solo lotto tutta la città. Dai compratori gli fu riferito che il numero degli uomini ammontava a cinquantatremila. XXXIV. Intanto fu informato da Publio Crasso, che era stato inviato con una legione contro i Veneti, i Unelli, gli Osismi, i Coriosoliti, gli Esuvi, gli Aulerci, i Redoni (popolazioni stanziate lungo le coste dell’Oceano), che tutte queste genti erano state conquistate e sottomesse ai Romani. XXXV. Al termine di queste vicende di guerre, soggiogata tutta la Gallia, tanto grande fu la fama sparsasi presso i popoli barbari, che le genti che abitavano oltre il Reno mandarono messi a Cesare per offrirgli ostaggi e ubbidienza. Cesare, che doveva recarsi in Italia e nell’Illirico, fece avvertire che quelle legazioni gli si ripresentassero all’inizio dell’estate successiva. Egli stesso condusse le legioni a svernare nelle terre dei Carnuti, degli Andi e dei Turoni che abitavano vicino ai luoghi dove si era svolta la guerra; poi partì per l’Italia. Il senato romano, informato delle vittorie dalle comunicazioni di Cesare, decretò feste di ringraziamento della durata di quindici giorni, cosa che prima di allora non era stata mai decretata in onore di nessun condottiero romano.

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I. Cum in Italiam proficisceretur Caesar Servium Galbam cum legione XII et parte equitatus in Nantuatis, Veragros Sedunosque misit, qui a finibus Allobrogum et lacu Lemanno et flumine Rhodano ad summas Alpes pertinent. Causa mittendi fuit quod iter per Alpes, quo magno cum periculo magnisque cum portoriis mercatores ire consueverant, patefieri volebat. Huic permisit, si opus esse arbitraretur, uti in his locis legionem hiemandi causa conlocaret. Galba secundis aliquot proeliis factis castellisque conpluribus eorum expugnatis, missis ad eum undique legatis obsidibusque datis et pace facta constituit cohortes duas in Nantuatibus conlocare et ipse cum reliquis eius legionis cohortibus in vico Veragrorum, qui appellatur Octodurus hiemare; qui vicus positus in valle non magna adiecta planitie altissimis montibus undique continetur. Cum hic in duas partes flumine divideretur, alteram partem eius vici Gallis ad hiemandum concessit, alteram vacuam ab his relictam cohortibus attribuit. Eum locum vallo fossaque munivit. II. Cum dies hibernorum conplures transissent frumentumque eo comportari iussisset, subito per exploratores certior factus est ex ea parte vici quam Gallis concesserat omnes noctu discessisse montesque qui impenderent

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I. Cesare, partendo per l’Italia, mandò Servio Galba con la dodicesima legione e parte della cavalleria nel paese dei Nantuati, dei Veragri e dei Seduni, il cui territorio si estende fino alle alte regioni alpine, nei pressi degli Allobrogi, del lago Lemano e del fiume Rodano. Egli voleva aprire il cammino attraverso le Alpi, che i mercanti percorrevano sempre con molto pericolo, sottoposti a gravi dazi. Diede a Galba l’autorizzazione, se gli fosse sembrato necessario, di fare accampare per l’inverno in quei luoghi la legione. Galba, dopo alcuni combattimenti favorevoli e dopo aver espugnato parecchie fortificazioni, ricevette da quelle genti ambascerie e ostaggi. Fatta la pace, decise di lasciare due coorti nelle terre dei Nantuati e di occupare, col resto della legione, un borgo dei Veragri chiamato Octoduro, situato in una stretta valle, chiusa intorno da altissimi monti; poiché questo abitato è diviso da un fiume in due parti, egli ne assegnò una ai Galli e nell’altra, evacuata dagli abitanti, fece accantonare le coorti, fortificando il luogo con un trinceramento e un fossato. II. Dopo qualche tempo, quando già aveva ordinato che in quel paese venissero portate sufficienti scorte di grano, Galba improvvisamente seppe dai suoi informatori che la parte del villaggio rimasta ai Galli durante la notte era stata abbandonata dalla popolazione e che i

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a maxima multitudine Sedunorum et Veragrorum teneri. Id aliquot de causis acciderat, ut subito Galli belli renovandi legionisque opprimendae consilium caperent: primum quod legionem, neque eam plenissimam, detractis cohortibus duabus et compluribus singillatim, qui commeatus petendi causa missi erant, propter paucitatem despiciebant; tum etiam quod propter iniquitatem loci, cum ipsi ex montibus in vallem decurrerent et tela coicerent, ne primum quidem posse impetum suum sustineri existimabant. Accedebat quod suos ab se liberos abstractos obsidum nomine dolebant et Romanos non solum itinerum causa, sed etiam perpetuae possessionis culmina Alpium occupare conari et ea loca finitimae provinciae adiungere sibi persuasum habebant. III. His nuntiis acceptis Galba, cum neque opus hibernorum munitionesque plene essent perfectae neque de frumento reliquoque commeatu satis esset provisum, quod deditione facta obsidibusque acceptis nihil de bello timendum existimaverat, consilio celeriter convocato sententias exquirere coepit. Quo in consilio, cum tantum repentini periculi praeter opinionem accidisset ac iam omnia fere superiora loca multitudine armatorum completa conspicerentur neque subsidio veniri neque commeatus supportari interclusis itineribus possent, prope iam desperata salute non nullae huius modi sententiae dicebantur, ut impedimentis relictis eruptione facta isdem itineribus quibus eo pervenissent ad salutem contenderent. Maiori tamen parti placuit hoc reservato ad

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monti sovrastanti erano occupati da gran numero di Seduni e di Veragri. Diverse erano le cause che avevano spinto i Galli a prendere improvvisamente la decisione di ricominciare la guerra e cercar di sorprendere la legione; prima di tutto perché ritenevano trascurabili le forze romane, poco numerose anche perché la legione non era completa, mancando le due coorti distaccate nel paese dei Nantuati e perché erano assenti molti uomini inviati alla spicciolata a procurare rifornimenti; inoltre perché pensavano che i Romani, ammassati in posizioni sfavorevoli, non avrebbero resistito neppure al primo attacco, quando li avrebbero assaliti. Infine essi molto si addoloravano perché i figli erano stati loro tolti a titolo di ostaggi ed erano convinti che i Romani non per aprirsi la strada verso la Gallia, ma per stabilirvisi definitivamente avevano occupato le alte terre alpine, intendendo incorporare quei luoghi alla loro provincia confinante. III. Quando Galba ricevette queste notizie, la costruzione dell’accampamento invernale e delle sue opere di difesa non era ancora del tutto terminata, né si era completato l’approvvigionamento del grano e delle altre vettovaglie; provvedimenti che non si erano creduti urgenti, poiché la resa e la consegna degli ostaggi da parte degli abitanti facevano ritenere che non vi fosse pericolo di conflitto. Galba convocò subito il consiglio di guerra e sentì il parere dei suoi componenti. Era chiaro che si trovavano di fronte a un pericolo grave ed inaspettato; le alture vicine erano piene di armati; si sapeva che non sarebbero potuti arrivare né aiuti né viveri essendo chiuse tutte le strade; ormai ogni speranza era infondata. Allora parecchi membri del consiglio proposero di abbandonare i bagagli e, con una sortita, di mettersi in salvo attraverso quelle stesse strade per le quali erano arrivati. Tuttavia, su proposta dei più, fu deciso di riser-

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extremum consilio interim rei eventum experiri et castra defendere. IV. Brevi spatio interiecto, vix ut rebus quas constituissent conlocandis atque administrandis tempus daretur, hostes ex omnibus partibus signo dato decurrere, lapides gaesaque in vallum coicere. Nostri primo integris viribus fortiter repugnare neque ullum frustra telum ex loco superiore mittere, ut quaeque pars castrorum nudata defensoribus premi videbatur, eo occurrere et auxilium ferre, sed hoc superari, quod diuturnitate pugnae hostes defessi proelio excedebant; alii integris viribus succedebant; quarum rerum a nostris propter paucitatem fieri nihil poterat, ac non modo defesso ex pugna excedendi, sed ne saucio quidem eius loci ubi constiterat relinquendi ac sui recipiendi facultas dabatur. V. Cum iam amplius horis sex continenter pugnaretur ac non solum vires, sed etiam tela nostros deficerent atque hostes acrius instarent languidioribusque nostris vallum scindere et fossas complere coepissent, resque esset iam ad extremum perducta casum, P. Sextius Baculus, primi pili centurio, quem Nervico proelio compluribus confectum vulneribus diximus, et item C. Volusenus, tribunus militum, vir et consilii magni et virtutis, ad Galbam adcurrunt atque unam esse spem salutis docent, si eruptione facta extremum auxilium experirentur. Itaque convocatis centurionibus celeriter milites certiores facit, paulisper intermitterent proelium ac tantummodo tela missa exciperent seque ex labore reficerent, post dato signo ex castris erumperent atque omnem spem salutis in virtute ponerent.

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vare questo progetto per il caso di estrema necessità e di sperimentare per intanto la fortuna, tenendosi sulla difensiva nell’accampamento. IV. Poco dopo (c’era stato appena il tempo di mettere in ordine ed eseguire le poche cose che erano state stabilite), i nemici, dato il segnale della battaglia, si scagliarono giù da tutte le parti lanciando pietre e giavellotti contro i trinceramenti. I nostri dapprincipio resistettero con tutte le loro forze; trovandosi in posizione più elevata, non lanciavano nessun dardo a vuoto e ogni volta che un punto dell’accampamento, sguarnito di difensori, sembrava cedere, correvano a difenderlo; ma erano in grave difficoltà perché i nemici potevano sempre sostituire con forze fresche quelli che erano stanchi per il lungo combattimento, cosa che i nostri, per l’esiguità del numero, non potevano fare, anzi non vi era possibilità di allontanarsi dal combattimento, non solo per chi era stanco, ma neppure per chi era ferito. V. Già da più di sei ore si combatteva continuamente e ai nostri venivano meno non solo le forze, ma anche le armi; i nemici incalzavano più duramente e avevano già cominciato a distruggere la palizzata e a riempire il fosso. La situazione era ormai estremamente pericolosa, quando Publio Sesto Baculo, il centurione del primo manipolo di triari che, come abbiamo detto, era stato gravemente ferito nella guerra contro i Nervi, e Gaio Voluseno, tribuno di grande saggezza e valore, corsero da Galba e gli dissero che non restava altra speranza che quella di una sortita. Allora Galba subito convocò i centurioni e avvertì i soldati di interrompere per un momento il combattimento, limitandosi a intercettare i dardi dei nemici, di rinfrancarsi dalla fatica, e dopo, appena fosse dato il segnale, di irrompere fuori dall’accampamento e di porre nel loro valore ogni speranza di salvarsi.

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VI. Quod iussi sunt faciunt, ac subito omnibus portis eruptione facta neque cognoscendi quid fieret neque sui colligendi hostibus facultatem relinquunt. Ita commutata fortuna eos qui in spem potiundorum castrorum venerant undique circumventos interficiunt et ex hominum milibus amplius XXX, quem numerum barbarorum ad castra venisse constabat, plus tertia parte interfecta reliquos perterritos in fugam coniciunt ac ne in locis quidem superioribus consistere patiuntur. Sic omnibus hostium copiis fusis armisque exutis se in castra munitionesque suas recipiunt. Quo proelio facto, quod saepius fortunam temptare Galba nolebat atque alio se in hiberna consilio venisse meminerat, aliis occurrisse rebus videbat, maxime frumenti commeatusque inopia permotus postero die omnibus eius vici aedificiis incensis in provinciam reverti contendit ac nullo hoste prohibente aut iter demorante incolumem legionem in Nantuatis, inde in Allobroges perduxit ibique hiemavit. VII. His rebus gestis cum omnibus de causis Caesar pacatam Galliam existimaret, superatis Belgis, expulsis Germanis, victis in Alpibus Sedunis, atque ita inita hieme in Illyricum profectus esset, quod eas quoque nationes adire et regiones cognoscere volebat, subitum bellum in Gallia coortum est. Eius belli haec fuit causa. P. Crassus adulescens cum legione septima proximus mare Oceanum in Andibus hiemarat. Is, quod in his locis inopia frumenti erat, praefectos tribunosque militum conplures in finitimas civitates frumenti commeatusque petendi causa dimisit; quo in numero est T. Terrasidius mis-

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VI. I soldati fecero quel che era stato loro ordinato: all’improvviso si lanciarono da tutte le porte, senza dare al nemico il modo di capire quel che succedeva, né la possibilità di riunirsi. Così, mutata la sorte della battaglia, i nostri circondarono da ogni parte i nemici, che già speravano di impadronirsi del campo, uccisero più della terza parte di quei trentamila che avevano attaccato il nostro accampamento, misero in fuga gli altri atterriti e non li lasciarono neppure fermare sulle montagne. Dopo avere sbaragliato il nemico e averlo costretto alla fuga, rientrarono nell’accampamento, dentro le difese. Condotta a termine questa impresa, Galba non volle tentare più a lungo la fortuna. Sapendo di essere andato a svernare in quei luoghi con piani diversi da quelli che aveva dovuto attuare a causa dei sopravvenuti incidenti, costretto principalmente dalla mancanza di grano e di viveri, il giorno dopo si affrettò a partire verso la Provincia, dopo avere incendiate le costruzioni del villaggio: senza incontrare nessuno che lo ostacolasse o gli impedisse il cammino, condusse la legione sana e salva nelle terre dei Nantuati e di lì in quelle degli Allobrogi, dove pose l’accampamento per l’inverno. VII. Dopo questi avvenimenti Cesare aveva tutte le ragioni di credere che con la vittoria sui Belgi, l’espulsione dei Germani e la vittoria sui Seduni nelle Alpi, tutta la Gallia fosse soggiogata e così all’inizio dell’inverno partì verso l’Illirico, perché voleva recarsi anche presso quei popoli e conoscere quelle regioni: ma allora improvvisamente scoppiò in Gallia un’altra guerra. La causa di essa fu la seguente: il giovane P. Crasso era accampato per l’inverno con la settima legione fra gli Andi, vicino al mare Oceano. Poiché in quei luoghi vi era grande carestia di grano, egli mandò a fare rifornimenti nelle città vicine parecchi prefetti e tribuni militari: fra questi Tito Terrasidio fu mandato presso gli Esuvi, Mar-

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sus in Esuvios, M. Trebius Gallus in Coriosolitas, Q. Velanius cum T. Sillio in Venetos. VIII. Huius est civitatis longe amplissima auctoritas omnis orae maritimae regionum earum, quod et naves habent Veneti plurimas, quibus in Britanniam navigare consuerunt, et scientia atque usu nauticarum rerum reliquos antecedunt et in magno impetu maris atque aperto paucis portibus interiectis, quos tenent ipsi, omnes fere qui eo mari uti consuerunt habent vectigales. Ab his fit initium retinendi Sillii atque Velanii, quod per eos suos se obsides, quos Crasso dedissent, recuperaturos existimabant. Horum auctoritate finitimi adducti, ut sunt Gallorum subita et repentina consilia, eadem de causa Trebium Terrasidiumque retinent, et celeriter missis legatis per suos principes inter se coniurant nihil nisi communi consilio acturos eundemque omnis fortunae exitum esse laturos, reliquasque civitates sollicitant ut in ea libertate quam a maioribus acceperint permanere quam Romanorum servitutem perferre malint. Omni ora maritima celeriter ad suam sententiam perducta communem legationem ad P. Crassum mittunt, si velit suos recuperare, obsides sibi remittat. IX. Quibus de rebus Caesar ab Crasso certior factus, quod ipse aberat longius, naves interim longas aedificari in flumine Ligere, quod influit in Oceanum, remiges ex provincia institui, nautas gubernatoresque comparari iubet. His rebus celeriter administratis ipse, cum primum per anni tempus potuit, ad exercitum contendit. Veneti reliquaeque item civitates cognito Caesaris adventu [certiores facti], simul quod quantum in se facinus admi-

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co Trebio Gallo fra i Coriosoliti, Quinto Velanio, con Tito Sillio, fra i Veneti. VIII. I Veneti hanno potenza molto superiore a quella di quanti abitano le zone costiere di quelle regioni, sia perché posseggono moltissime navi, con le quali sono soliti navigare verso la Britannia, sia perché superano tutti gli altri per cognizioni e pratica nell’arte della navigazione, sia perché in un mare così impetuoso e aperto (pochi porti sono disseminati qua e là, ed essi stessi li possiedono) hanno sottoposto ai loro tributi quasi tutti coloro che sono soliti passare per quelle acque. I Veneti cominciarono col trattenere Sillio e Velanio, pensando di poterli scambiare con gli ostaggi che avevano dato a Crasso; i popoli vicini, spinti dalla loro autorità (e sono sempre improvvise e imprevedibili le decisioni dei Galli), trattennero per la stessa ragione Trebio e Terrasidio, e subito, con l’invio di ambascerie, si promisero con giuramento che non avrebbero fatto nulla se non di comune accordo e avrebbero affrontato in pari modo tutte le eventualità della sorte; incitarono poi anche le altre città a voler rimanere in quella libertà che avevano ricevuta dagli avi, piuttosto che sopportare di essere schiavi dei Romani. Spinti presto tutti i popoli della costa ad assecondare il loro disegno, mandarono di comune accordo una ambasceria a Publio Crasso chiedendogli che restituisse i loro ostaggi, se voleva riavere i suoi uomini. IX. Cesare, appena fu informato da Crasso di quanto succedeva, poiché si trovava troppo lontano, comandò di costruire intanto sulla Loira, che si versa nell’Oceano, delle potenti navi da guerra, di istruire dei rematori arruolati nella Provincia, di procurare nocchieri e timonieri. Quando questi ordini furono eseguiti, egli, appena poté, data la stagione, partì alla volta dell’esercito. Come seppero dell’arrivo di Cesare, i Veneti e le altre po-

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sissent intellegebant, legatos, quod nomen ad omnes nationes sanctum inviolatumque semper fuisset, retentos ab se et in vincula coniectos, pro magnitudine periculi bellum parare et maxime ea quae ad usum navium pertinent providere instituunt, hoc maiore spe, quod multum natura loci confidebant. Pedestria esse itinera concisa aestuariis, navigationem impeditam propter inscientiam locorum paucitatemque portuum sciebant, neque nostros exercitus propter frumenti inopiam diutius apud se morari posse confidebant: ac iam ut omnia contra opinionem acciderent, tamen se plurimum navibus posse, [quam] Romanos neque ullam facultatem habere navium neque eorum locorum ubi bellum gesturi essent vada, portus, insulas novisse; ac longe aliam esse navigationem in concluso mari atque in vastissimo atque apertissimo Oceano perspiciebant. His initis consiliis oppida muniunt, frumenta ex agris in oppida conportant, naves in Venetiam, ubi Caesarem primum bellum gesturum constabat, quam plurimas possunt cogunt. Socios sibi ad id bellum Osismos, Lexovios, Namnetes, Ambiliatos, Morinos, Diablintes, Menapios adsciscunt; auxilia ex Britannia, quae contra eas regiones posita est, arcessunt. X. Erant hae difficultates belli gerendi quas supra ostendimus, sed multa tamen Caesarem ad id bellum incitabant: iniuriae retentorum equitum Romanorum, rebellio facta post deditionem, defectio datis obsidibus, tot civitatum coniuratio, in primis ne hac parte neglecta reliquae nationes sibi idem licere arbitrarentur. Itaque cum intellegeret omnes fere Gallos novis rebus studere et ad

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polazioni, poiché capivano quale colpa avevano commesso contro di lui col trattenere e incarcerare gli ambasciatori, che presso tutti i popoli sono sempre considerati sacri e inviolabili, cominciarono a fare preparativi di guerra commisurati alla gravità del pericolo; provvidero soprattutto a quanto occorreva ai bisogni della navigazione e ciò con le maggiori speranze, perché confidavano molto nella natura dei luoghi: sapevano che le vie di terra erano interrotte qua e là dagli estuari e per la scarsità dei porti la navigazione era difficile a chi non fosse pratico della regione; avevano fiducia che i nostri eserciti non avrebbero potuto fermarsi più a lungo nelle loro terre per la carestia di grano; se pure tutto fosse loro andato alla rovescia, erano certi della superiorità della loro marina, mentre i Romani non avevano navi, né conoscevano i passaggi, i porti, le isole di quei luoghi dove volevano portare la guerra: e ben diversa era la navigazione – essi osservavano – in un mare interno da quella nell’Oceano, vasto ed aperto. Prese queste deliberazioni fortificarono le città, vi ammassarono scorte di frumento, radunarono il maggior numero possibile di navi nella terra dei Veneti, che, si riteneva, Cesare avrebbe attaccata prima di tutte. Si procurarono per questa guerra l’alleanza degli Osismi, Lexovi, Namneti, Ambiliati, Morini, Diablinti, Menapi; fecero venire aiuti dalla Britannia, che è situata di fronte a quelle regioni. X. Queste che abbiamo esposte erano le difficoltà a cui si andava incontro in quella guerra, ma molte considerazioni incitavano Cesare all’impresa: l’offesa fatta con l’arresto dei cavalieri romani, la guerra ripresa dopo la capitolazione, la ribellione dopo la consegna degli ostaggi, la lega di tanti popoli e soprattutto il timore che, se egli avesse trascurato di dare un esempio, le altre genti si sarebbero convinte di poter agire nello stesso modo. E Cesare, poiché ben capiva che quasi tutti i Galli, desi-

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bellum mobiliter celeriterque excitari, omnes autem homines natura libertati studere et condicionem servitutis odisse, prius quam plures civitates conspirarent partiendum sibi ac latius distribuendum exercitum putavit. XI. Itaque T. Labienum legatum in Treveros, qui proximi flumini Rheno sunt, cum equitatu mittit. Huic mandat, Remos reliquosque Belgas adeat atque in officio contineat Germanosque, qui auxilio a Gallis arcessiti dicebantur, si per vim navibus flumen transire conentur, prohibeat. P. Crassum cum cohortibus legionariis XII et magno numero equitatus in Aquitaniam proficisci iubet, ne ex his nationibus auxilia in Galliam mittantur ac tantae nationes coniungantur. Q. Titurium Sabinum legatum cum legionibus tribus in Unellos, Coriosolitas Lexoviosque mittit, qui eam manum distinendam curet. D. Brutum adulescentem classi Gallicisque navibus quas ex Pictonibus et Santonis reliquisque pacatis regionibus convenire iusserat praeficit et, cum primum possit, in Venetos proficisci iubet. Ipse eo pedestribus copiis contendit. XII. Erant eiusmodi fere situs oppidorum, ut posita in extremis lingulis promunturiisque neque pedibus aditum haberent, cum ex alto se aestus incitavisset, quod [bis] accidit semper horarum XII spatio, neque navibus, quod rursus minuente aestu naves in vadis adflictarentur. Ita utraque re oppidorum oppugnatio impediebatur; ac si quando magnitudine operis forte superati, extruso mari aggere ac molibus atque his oppidi moenibus adaequatis, suis fortunis desperare coeperant, magno

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derosi di novità, mutevoli e irriflessivi, erano pronti a levarsi in armi (d’altra parte tutti gli uomini sono portati dalla natura ad aspirare alla libertà e ad odiare la condizione di schiavitù), pensò che, prima che numerose genti si unissero alla lega, egli doveva dividere e distribuire in maggior territorio il suo esercito. XI. Perciò mandò nella terra dei Treveri, che sono vicinissimi al Reno, il legato Tito Labieno con la cavalleria, con l’incarico di avvicinarsi ai Remi e agli altri Belgi, di tenerli a bada e di opporsi ai Germani (che, si diceva, erano stati chiamati in aiuto dai Belgi), se avessero tentato di passare il fiume con le imbarcazioni. Fece partire Publio Crasso con dodici coorti legionarie e una numerosa scorta di cavalleria alla volta dell’Aquitania, per impedire che da quelle genti fossero mandati aiuti in Gallia e che popolazioni tanto numerose si potessero riunire. Mandò il legato Quinto Titurio Sabino con tre legioni presso gli Uenelli, i Coriosoliti e i Lexovi, con l’incarico di tenere impegnate le loro forze. Mise a capo della flotta e delle navi fornitegli, a sua richiesta, dai Pictoni, dai Sàntoni e da tutte le altre regioni soggiogate, il giovane Decimo Bruto e gli ordinò di partire alla volta dei Veneti al più presto possibile. Egli stesso, poi, si diresse verso quella regione con le milizie terrestri. XII. Le città dei Veneti erano generalmente poste all’estremità di lingue di terra e di promontori, non accessibili per via di terra quando s’alzava l’alta marea (il che accadeva sempre – due volte – nelle dodici ore) e nemmeno per via di mare, perché, con la bassa marea, le navi si incagliavano nei bassi fondi. Così entrambe queste ragioni ostacolavano l’assedio delle città; se, qualche volta, con grandissime opere di fortificazione, quando cioè si fosse riuscito a trattenere la forza del mare con terrapieni e dighe che raggiungessero l’altezza delle mu-

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numero navium adpulso, cuius rei summam facultatem habebant, sua deportabant omnia seque in proxima oppida recipiebant: ibi se rursus isdem oportunitatibus loci defendebant. Haec eo facilius magnam partem aestatis faciebant, quod nostrae naves tempestatibus detinebantur summaque erat vasto atque aperto mari, magnis aestibus, raris ac prope nullis portibus, difficultas navigandi. XIII. Namque ipsorum naves ad hunc modum factae armataeque erant: carinae aliquanto planiores quam nostrarum navium, quo facilius vada ac decessum aestus excipere possent; prorae admodum erectae atque item puppes, ad magnitudinem fluctuum tempestatumque accommodatae; naves totae factae ex robore ad quamvis vim et contumeliam perferendam; transtra ex pedalibus in altitudinem trabibus confixa clavis ferreis digiti pollicis crassitudine; ancorae pro funibus ferreis catenis revinctae; pelles pro velis alutaeque tenuiter confectae, sive propter lini inopiam atque eius usus inscientiam, sive eo, quod est magis veri simile, quod tantas tempestates Oceani tantosque impetus ventorum sustineri ac tanta onera navium regi velis non satis commode posse arbitrabantur. Cum his navibus nostrae classi eius modi congressus erat, ut una celeritate et pulsu remorum praestaret, reliqua pro loci natura, pro vi tempestatum illis essent aptiora et accommodatiora. Neque enim his nostrae rostro nocere poterant (tanta in iis erat firmitudo), neque propter altitudinem facile telum adigebatur, et eadem de causa minus commode copulis continebantur. Accedebat ut, cum saevire ventus coepisset et se vento dedissent, tempestatem ferrent facilius et in vadis consi-

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ra, si finiva col mettere gli assediati in situazione grave, essi, fatte accostare le loro navi, di cui avevano grande abbondanza, portavano via ogni loro cosa e si rifugiavano nelle città vicine. Là si trovavano al sicuro, protetti dalle medesime difese naturali. Ciò fecero per tutta l’estate, tanto più facilmente perché le nostre navi erano trattenute dalle tempeste e grandissima era la difficoltà della navigazione nel mare vasto e aperto, dove violente erano le maree e scarsi o pressoché mancanti i porti. XIII. Le navi dei Veneti erano costruite e attrezzate nel modo seguente: carene piatte più di quelle delle nostre navi, per potersi adattare, più facilmente, alla poca profondità e alla bassa marea; prore e poppe molto rialzate, adatte a sopportare le grandi ondate del mare in tempesta; tutte costruite di legno di quercia, capace di resistere ai colpi più violenti; le travi, fatte con legni dello spessore di un piede, erano confitte con chiodi larghi un pollice; le ancore erano legate non con funi, ma con catene di ferro, invece di vele vi erano pelli e cuoi pieghevoli e sottili, sia perché mancava il lino o non lo si sapeva usare, sia perché (ed è forse questa la ragione) si pensava che le vele non avrebbero potuto agevolmente sostenere le grandi tempeste dell’Oceano e l’impeto dei venti, né reggere navi tanto pesanti. In confronto con queste navi, quelle della nostra flotta avevano i soli vantaggi della celerità e della forza dei rematori, mentre quelle erano più adatte alla natura del luogo e alla violenza delle tempeste. Le nostre, infatti, non le potevano danneggiare nemmeno con i rostri, tanto grande era la loro robustezza, e solo difficilmente le potevano raggiungere coi dardi, data l’altezza dei loro bordi, né per la stessa ragione gli arpioni le potevano facilmente agganciare. Se, poi, si fosse levato più forte il vento ed esse vi si fossero abbandonate, avrebbero sopportato più facilmente le tempeste, sarebbero state più sicure nei pun-

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sterent tutius et ab aestu relictae nihil saxa et cotes timerent; quarum rerum omnium nostris navibus casus erat extimescendus. XIV. Compluribus expugnatis oppidis Caesar, ubi intellexit frustra tantum laborem sumi neque hostium fugam captis oppidis reprimi neque iis noceri posse, statuit exspectandam classem. Quae ubi convenit ac primum ab hostibus visa est, circiter CCXX naves eorum paratissimae atque omni genere armorum ornatissimae profectae ex portu nostris adversae constiterunt; neque satis Bruto, qui classi praeerat, vel tribunis militum centurionibusque, quibus singulae naves erant attributae, constabat quid agerent aut quam rationem pugnae insisterent. Rostro enim noceri non posse cognoverant: turribus autem excitatis tamen has altitudo puppium ex barbaris navibus superabat, ut neque ex inferiore loco satis commode tela adigi possent et missa ab Gallis gravius acciderent. Una erat magno usui res praeparata a nostris, falces praeacutae insertae adfixaeque longuriis, non absimili forma muralium falcium. His cum funes qui antemnas ad malos destinabant, conprehensi adductique erant, navigio remis incitato praerumpebantur. Quibus abscisis antemnae necessario concidebant, ut, cum omnis Gallicis navibus spes in velis armamentisque consisteret, his ereptis omnis usus navium uno tempore eriperetur. Reliquum erat certamen positum in virtute, qua nostri milites facile superabant, atque eo magis quod in

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ti poco profondi e, al ritirarsi della marea, non avrebbero dovuto temere i bassifondi e gli scogli; le nostre navi invece avrebbero dovuto paventare tutte queste eventualità. XIV. Quando Cesare, dopo aver espugnate parecchie città, comprese che tanta fatica veniva fatta inutilmente e che, sebbene le città fossero occupate, non si poteva impedire la fuga dei nemici né portar loro serio danno, decise di aspettare la flotta. Appena questa arrivò e i nemici la videro, circa duecentoventi delle loro navi, attrezzate di tutto punto e fornite di ogni specie di armamento, uscirono dal porto e si allinearono di fronte alle nostre; Bruto, comandante della flotta, i tribuni militari, i centurioni, ai quali erano affidate le navi, non sapevano che fare né a quale tattica di battaglia attenersi. Essi sapevano di non poter danneggiare i nemici con i rostri e che era inutile innalzare le torri perché le poppe delle navi venete sarebbero risultate più alte ancora, cosicché i dardi lanciati da un luogo più basso difficilmente sarebbero andati a segno, mentre quelli dei Galli sarebbero stati più dannosi. Ma vi era un’arma di grande utilità preparata dai nostri: delle falci taglientissime conficcate ed inchiodate a lunghe pertiche, di forma non dissimile da quella delle falci murali.4 Queste afferravano e tiravano a sé le funi che legavano i pennoni e le vele agli alberi e le stroncavano, mentre le navi acceleravano la corsa a forza di remi. Una volta tagliate le funi era inevitabile che le vele cadessero, e poiché tutta la forza delle navi galliche era riposta nelle vele e nelle altre attrezzature, perdute quelle, esse erano ridotte all’impotenza. Per il resto la battaglia era tutta affidata al valore degli uomini e i nostri erano, in questo, nettamente superiori ai nemici, tanto più che il combattimento si svolgeva 4 Le falci murali erano usate per sgombrare gli orli delle mura dai difensori.

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conspectu Caesaris atque omnis exercitus res gerebatur, ut nullum paulo fortius factum latere posset; omnes enim colles ac loca superiora, unde erat propinquus despectus in mare, ab exercitu tenebantur. XV. Deiectis, ut diximus, antemnis, cum singulas binae ac ternae naves circumsteterant, milites summa vi transcendere in hostium naves contendebant. Quod postquam fieri barbari animadverterunt, expugnatis conpluribus navibus, cum ei rei nullum reperiretur auxilium, fuga salutem petere contenderunt. Ac iam conversis in eam partem navibus quo ventus ferebat tanta subito malacia ac tranquillitas exstitit, ut se ex loco movere non possent. Quae quidem res ad negotium conficiendum maxime fuit oportuna: nam singulas nostri consectati expugnaverunt, ut perpaucae ex omni numero noctis interventu ad terram pervenerint, cum ab hora fere quarta usque ad solis occasum pugnaretur. XVI. Quo proelio bellum Venetorum totiusque orae maritimae confectum est. Nam cum omnis iuventus, omnes etiam gravioris aetatis, in quibus aliquid consilii aut dignitatis fuit, eo convenerant, tum navium quod ubique fuerat unum in locum coegerant; quibus amissis reliqui neque quo se reciperent neque quem ad modum oppida defenderent habebant. Itaque se suaque omnia Caesari dediderunt. In quos eo gravius Caesar vindicandum statuit, quo diligentius in reliquum tempus a barbaris ius legatorum conservaretur. Itaque omni senatu necato reliquos sub corona vendidit. XVII. Dum haec in Venetis geruntur, Q. Titurius Sabinus cum iis copiis quas a Caesare acceperat in fines

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sotto gli occhi di Cesare e di tutto l’esercito, in modo che nessun atto di valore restava sconosciuto: l’esercito, infatti, occupava tutti i colli e le alture da cui si aveva, da vicino, la vista sul mare. XV. Abbattute le vele, come abbiamo detto, parecchie navi romane circondarono ciascuna una nave veneta ed i soldati si lanciavano all’abbordaggio. Quando quei feroci barbari videro quanto stava accadendo – erano già state espugnate parecchie navi – non trovando nessuna difesa contro il nostro sistema di attacco, cercarono di mettersi in salvo con la fuga. Già le loro navi avevano volto le prore nella direzione in cui spirava il vento, quando una improvvisa bonaccia impedì loro di proseguire. Certo questo favorì l’azione dei nostri cui fu possibile portare a compimento la loro impresa: infatti inseguirono e presero le navi galliche una per una e solo pochissime, col cadere della notte, poterono raggiungere la costa: si era combattuto dalle dieci circa del mattino fino al tramonto. XVI. Con questa battaglia si concluse la guerra contro i Veneti e i popoli della costa. Infatti, non solo tutti gli elementi più giovani e validi, ma anche tutti quelli di età più avanzata che avevano mente assennata e autorità, si erano radunati in quei luoghi, e tutte le navi, dovunque prima fossero, si erano là raccolte: dopo questa battaglia, i superstiti non sapevano dove rifugiarsi, né come difendere le loro città. Così si arresero a Cesare. Egli stabilì di prendere severi provvedimenti contro i Veneti, perché per il futuro fosse sacro ai barbari il diritto di inviolabilità degli ambasciatori: mise a morte i cittadini più autorevoli e vendette gli altri come schiavi di guerra. XVII. Mentre nelle terre dei Veneti si svolgevano questi avvenimenti, Quinto Titurio Sabino arrivò, con le trup-

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Unellorum pervenit. His praeerat Viridovix ac summam imperii tenebat earum omnium civitatum quae defecerant, ex quibus exercitum magnasque copias coegerat; atque his paucis diebus Aulerci Eburovices Lexoviique senatu suo interfecto, quod auctores belli esse nolebant, portas clauserunt seseque cum Viridovice coniunxerunt: magnaque praeterea multitudo undique ex Gallia perditorum hominum latronumque convenerat, quos spes praedandi studiumque bellandi ab agricultura et cotidiano labore revocabat. Sabinus idoneo omnibus rebus loco castris se tenebat, cum Viridovix contra eum duum milium spatio consedisset cotidieque productis copiis pugnandi potestatem faceret, ut iam non solum hostibus in contemptionem Sabinus veniret, sed etiam nostrorum militum vocibus non nihil carperetur; tantamque opinionem timoris praebuit, ut iam ad vallum castrorum hostes accedere auderent. Id ea de causa faciebat, quod cum tanta multitudine hostium, praesertim eo absente, qui summam imperii teneret, nisi aequo loco aut opportunitate aliqua data legato dimicandum non existimabat. XVIII. Hac confirmata opinione timoris idoneum quendam hominem et callidum delegit Gallum ex iis quos auxilii causa secum habebat. Huic magnis praemiis pollicitationibusque persuadet uti ad hostes transeat, et quid fieri velit edocet. Qui ubi pro perfuga ad eos venit, timorem Romanorum proponit, quibus angustiis ipse Caesar a Venetis prematur docet, neque longius abesse quin proxima nocte Sabinus clam ex castris exercitum educat et ad Caesarem auxilii ferendi causa proficiscatur. Quod ubi auditum est, conclamant omnes occasio-

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pe che Cesare gli aveva affidate, nella terra dei Vnelli. Era a capo di costoro Viridovice, che aveva il comando di tutte le genti ribelli, tra le quali aveva arruolato un numeroso esercito; in pochi giorni anche gli Aulerci, gli Eburovici e i Lexovi, dopo avere ucciso tutti i loro più anziani che si opponevano alla guerra e aver chiuso le loro porte, si riunirono a Viridovice; inoltre una grande quantità di disperati e di avventurieri erano accorsi là da ogni parte della Gallia, in quanto la speranza di predare e il desiderio di combattere li distoglieva dal quotidiano lavoro dei campi. Sabino se ne stava accampato in luogo adatto ad ogni eventualità, mentre Viridovice si era fermato di fronte a lui a sole due miglia di distanza e ogni giorno schierava le sue truppe, offrendogli inutilmente l’opportunità di combattere: tanto che ben presto non solo i nemici cominciarono a disprezzare Sabino, ma anche i nostri soldati non mancarono di criticare la sua condotta. Sabino tanto finse di essere intimorito, che i nemici osavano avvicinarsi persino alla trincea dell’accampamento. Ma egli agiva così perché riteneva che, in assenza del comandante supremo, un legato dovesse combattere contro un nemico tanto numeroso solo in luogo favorevole e qualora gli si offrisse una buona occasione. XVIII. Quando ebbe ben convinti i nemici del suo timore, Sabino scelse tra i Galli che aveva con sé come truppe ausiliarie un uomo adatto per la sua astuzia e, promettendogli grossi premi, lo indusse a passare al nemico e gli dette istruzioni su quel che doveva fare. Costui si presentò ai Galli come disertore e, mettendo in risalto il timore dei Romani, li informò che Cesare si trovava in grave situazione nella terra dei Veneti ed annunziò che probabilmente nella notte successiva Sabino avrebbe fatto uscire, in segreto, l’esercito dal campo per accorrere in suo aiuto. Appena questa notizia fu diffusa, tutti

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nem negotii bene gerendi amittendam non esse: ad castra iri oportere. Multae res ad hoc consilium Gallos hortabantur: superiorum dierum Sabini cunctatio, perfugae confirmatio, inopia cibariorum, cui rei parum diligenter ab iis erat provisum, spes Venetici belli et quod fere libenter homines id quod volunt credunt. His rebus adducti non prius Viridovicem reliquosque duces ex concilio dimittunt quam ab his sit concessum arma uti capiant et ad castra contendant. Qua re concessa laeti, ut explorata victoria, sarmentis virgultisque collectis, quibus fossas Romanorum compleant, ad castra pergunt. XIX. Locus erat castrorum editus et paulatim ab imo adclivis circiter passus mille. Huc magno cursu contenderunt, ut quam minimum spatii ad se colligendos armandosque Romanis daretur, exanimatique pervenerunt. Sabinus suos hortatus cupientibus signum dat. Impeditis hostibus propter ea quae ferebant onera subito duabus portis eruptionem fieri iubet. Factum est oportunitate loci, hostium inscientia ac defatigatione, virtute militum et superiorum pugnarum exercitatione, ut ne unum quidem nostrorum impetum ferrent ac statim terga verterent. Quos inpeditos integris viribus milites nostri consecuti magnum numerum eorum occiderunt; reliquos equites consectati paucos, qui ex fuga evaserant, reliquerunt. Sic uno tempore et de navali pugna Sabinus et de Sabini victoria Caesar est certior factus, civitatesque omnes se statim Titurio dediderunt. Nam ut ad bel-

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gridarono che non si doveva tralasciare un’occasione così favorevole e che bisognava attaccare subito il campo romano. Molte considerazioni spingevano i Galli ad effettuare questo piano: l’esitazione che Sabino aveva dimostrato nei giorni precedenti, la conferma ricevuta dal disertore, la mancanza di viveri di cui essi avevano trascurato di fare provviste, la speranza che riponevano nella guerra dei Veneti e il fatto che volentieri gli uomini – generalmente – prestano fede a ciò che desiderano. Perciò essi non lasciarono uscire dalla seduta del consiglio Viridovice e gli altri comandanti prima di avere ottenuto di poter prendere le armi e dirigersi verso il campo romano. Lieti per l’autorizzazione avuta, come se la vittoria fosse stata già nelle loro mani, raccolsero ramaglia e fascine per riempire il fossato dei Romani, e si affrettarono verso l’accampamento. XIX. Il campo era posto su un’altura che sorgeva gradatamente dal piano con un pendìo di mille passi. Ad esso i Galli si diressero di gran corsa, per fare sì che i Romani avessero il minor tempo possibile per raccogliersi ed armarsi; vi arrivarono, però, stremati. Sabino, che aveva esortato i suoi uomini, diede allora il segnale che tutti attendevano impazientemente. Quando vide che i nemici erano impacciati dai carichi che portavano, ordinò una brusca e improvvisa irruzione dalle due porte. Per l’opportunità del luogo, per la stanchezza e l’inesperienza dei nemici, per il valore dei nostri, già esercitati nei combattimenti precedenti, le cose si svolsero in modo che i Galli non sostennero neppure il primo attacco, ma subito volsero in fuga. I nostri, con le forze intatte, li inseguirono e ne uccisero un gran numero; la cavalleria continuò l’inseguimento, lasciandone sfuggire ben pochi. Così nello stesso momento Sabino venne a sapere della vittoria navale di Cesare e Cesare di quella di Sabino. Subito tutte le genti ribelli si arresero a Titurio.

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la suscipienda Gallorum alacer ac promptus est animus, sic mollis ac minime resistens ad calamitates perferendas mens eorum est. XX. Eodem fere tempore P. Crassus, cum in Aquitaniam pervenisset, quae pars, ut ante dictum est, et regionum latitudine et multitudine hominum ex tertia parte Galliae est aestimanda, cum intellegeret in iis locis sibi bellum gerendum ubi paucis ante annis L. Valerius Praeconinus legatus exercitu pulso interfectus esset atque unde L. Manlius proconsul impedimentis amissis profugisset, non mediocrem sibi diligentiam adhibendam intellegebat. Itaque re frumentaria provisa, auxiliis equitatuque conparato, multis praeterea viris fortibus Tolosa et Narbone, quae sunt civitates Galliae provinciae finitimae [ex] his regionibus, nominatim evocatis in Sotiatium fines exercitum introduxit. Cuius adventu cognito Sotiates magnis copiis coactis equitatuque, quo plurimum valebant, in itinere agmen nostrum adorti primum equestre proelium commiserunt, deinde equitatu suo pulso atque insequentibus nostris subito pedestres copias, quas in convalle in insidiis conlocaverant, ostenderunt. Hi nostros disiectos adorti proelium renovarunt. XXI. Pugnatum est diu atque acriter, cum Sotiates superioribus victoriis freti in sua virtute totius Aquitaniae salutem positam putarent, nostri autem quid sine imperatore et sine reliquis legionibus adulescentulo duce efficere possent perspici cuperent: tandem confecti vulneri-

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Come infatti l’animo dei Galli è pronto e audace quando si tratta di iniziare una guerra, altrettanto fiacca e niente affatto resistente è la loro indole di fronte alla sconfitta. XX. Circa in quello stesso tempo Publio Crasso arrivò in Aquitania, regione che, come abbiamo già detto, è da ritenersi, per ampiezza di territorio e numero di popolazione, un terzo della intera Gallia; egli si rese conto che avrebbe dovuto combattere negli stessi luoghi dove pochi anni prima il legato Lucio Valerio Preconino aveva avuto l’esercito sbaragliato e aveva trovato la morte e donde il proconsole Lucio Manlio era dovuto fuggire dopo aver perduto tutto l’equipaggiamento; si convinse, perciò, che avrebbe dovuto agire con molta prudenza. Si procurò, per prima cosa, scorte di grano, allestì milizie ausiliarie e cavalleria, fece venire, arruolandoli singolarmente, molti sperimentati veterani da Tolosa e da Narbona, città della Provincia di Gallia confinanti con l’Aquitania; poi avanzò con l’esercito nel territorio dei Soziati. Quando costoro seppero del suo arrivo, radunati numerosi fanti e cavalli (arma per cui erano fortissimi), assalirono il nostro esercito mentre era ancora in marcia e provocarono un primo scontro di cavalleria; i loro cavalieri furono respinti e i nostri si posero all’inseguimento. Allora all’improvviso essi fecero intervenire truppe di fanteria, che avevano posto in agguato in una valle chiusa. Esse attaccarono i nostri, che si erano sparpagliati, ed impegnarono un nuovo combattimento. XXI. Si combatté a lungo e con accanimento: i Soziati, ricordando con fiducia le precedenti vittorie, pensavano che la salvezza di tutta l’Aquitania dipendeva dal loro valore; i nostri, d’altra parte, desideravano dimostrare di che cosa erano capaci, anche combattendo lontani dal comandante supremo, sotto la guida di un giovane lega-

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bus hostes terga verterunt. Quorum magno numero interfecto Crassus ex itinere oppidum Sotiatium oppugnare coepit. Quibus fortiter resistentibus vineas turresque egit. Illi alias eruptione temptata, alias cuniculis ad aggerem vineasque actis (cuius rei sunt longe peritissimi Aquitani, propterea quod multis locis apud eos aerariae secturaeque sunt), ubi diligentia nostrorum nihil his rebus profici posse intellexerunt, legatos ad Crassum mittunt, seque in deditionem ut recipiat petunt. Qua re impetrata arma tradere iussi faciunt. XXII. Atque in ea re omnium nostrorum intentis animis alia ex parte oppidi Adiatuanus, qui summam imperii tenebat, cum DC devotis, quos Galli soldurios appellant quorum haec est condicio, uti omnibus in vita commodis una cum iis fruantur quorum se amicitiae dediderint, si quid his per vim accidat, aut eundem casum una ferant aut sibi mortem consciscant; neque adhuc hominum memoria repertus est quisquam, qui eo interfecto cuius se amicitiae devovisset, mori recusaret: cum his Adiatuanus eruptionem facere conatus clamore ab ea parte munitionis sublato, cum ad arma milites concurrissent vehementerque ibi pugnatum esset, repulsus in oppidum tamen uti eadem deditionis condicione uteretur ab Crasso impetravit. XXIII. Armis obsidibusque acceptis Crassus in fines Vocatium et Tarusatium profectus est. Tum vero barbari commoti, quod oppidum et natura loci et manu muni-

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to e senza l’aiuto delle altre legioni. Finalmente i nemici, stremati dalle ferite, si volsero in fuga. Crasso, dopo aver ucciso gran numero dei fuggitivi, senza interrompere la sua marcia tentò di impadronirsi della città dei Soziati. Trovata una forte resistenza, accostò alle mura le macchine da guerra e le torri. I Soziati tentarono di opporsi con sortite o scavando fosse fino al terrapieno e ai ripari in legno (manovra in cui gli Aquitani sono particolarmente pratici perché vi sono nel loro paese molte miniere di rame e molte cave); ma quando compresero di non poter ottenere nessun vantaggio con questi mezzi per la vigilanza dei nostri, mandarono un’ambasceria a Crasso chiedendogli di accettare la loro resa. L’ottennero; fu loro richiesto di consegnare le armi, cosa che essi eseguirono. XXII. Mentre i nostri erano tutti intenti nelle operazioni di resa, in un’altra parte della città Adiatuano, comandante supremo dei Soziati, aveva concentrato seicento suoi fedeli, cui gli Aquitani danno il nome di «solduri», la condizione dei quali è questa: in vita godono degli agi di coloro a cui si sono legati in amicizia, ma se a questi accade di morire di morte violenta, o ne condividono la sorte o si uccidono; per quanto si possa ricordare, non si è mai dato il caso di qualcuno che, dopo l’uccisione di colui alla cui amicizia si era votato, si sia rifiutato di morire. Con questi solduri Adiatuano tentò una improvvisa sortita: si elevò allora da quel punto delle difese un grande clamore: i nostri corsero subito alle armi e si svolse un combattimento accanito. Sebbene fosse respinto dentro la città, Adiatuano ottenne da Crasso che rimanessero invariate le condizioni di resa. XXIII. Dopo la consegna delle armi e degli ostaggi, Crasso partì alla volta dei Vocati e dei Tarusati. I barbari, preoccupati perché avevano saputo che la città dei

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tum paucis diebus, quibus eo ventum erat, expugnatum cognoverant, legatos quoque versus dimittere, coniurare, obsides inter se dare, copias parare coeperunt. Mittuntur etiam ad eas civitates legati, quae sunt citerioris Hispaniae finitimae Aquitaniae: inde auxilia ducesque arcessuntur. Quorum adventu magna cum auctoritate et magna [cum] hominum multitudine bellum gerere conantur. Duces vero ii deliguntur, qui una cum Q. Sertorio omnes annos fuerant summamque scientiam rei militaris habere existimabantur. Hi consuetudine populi Romani loca capere, castra munire, commeatibus nostros intercludere instituunt. Quod ubi Crassus animadvertit suas copias propter exiguitatem non facile diduci, hostem et vagari et vias obsidere et castris satis praesidii relinquere, ob eam causam minus commode frumentum commeatumque sibi supportari, in dies hostium numerum augeri, non cunctandum existimavit quin pugna decertaret. Hac re ad consilium delata, ubi omnes idem sentire intellexit, posterum diem pugnae constituit. XXIV. Prima luce productis omnibus copiis, duplici acie instituta, auxiliis in mediam aciem coniectis, quid hostes consilii caperent expectabat. Illi etsi propter multitudinem et veterem belli gloriam paucitatemque nostrorum se tuto dimicaturos existimabant, tamen tutius esse ar-

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Soziati, forte per posizione naturale e per numero di armati, era stata espugnata in pochi giorni da Crasso, cominciarono a mandare ambascerie in tutte le direzioni, a stringere leghe, a scambiarsi giuramenti ed ostaggi, a preparare truppe. Furono inviati ambasciatori anche alle città della Spagna citeriore poste al confine dell’Aquitania e se ne ottennero aiuti di armati e comandanti; l’arrivo di costoro diede ai Galli grande fiducia e procurò loro gran numero di uomini. Furono scelti per comandanti quelli che avevano a lungo combattuto a fianco di Quinto Sertorio,5 che si riteneva fossero esperti nell’arte militare. Essi, seguendo la tattica dei Romani, cominciarono ad occupare le posizioni più favorevoli, a fortificare gli accampamenti, a tagliare le strade di rifornimento ai nostri. Crasso comprese che non gli sarebbe stato possibile dividere le sue truppe, scarse di numero, mentre i nemici potevano spostarsi dovunque e bloccare tutte le strade, lasciando contemporaneamente l’accampamento ben munito; che perciò era difficile per lui rifornirsi di viveri e che, d’altra parte, il numero dei nemici aumentava di giorno in giorno: credette quindi di dover affrontare il combattimento senza indugiare. Portata la questione dinanzi al consiglio di guerra, come vide che tutti erano d’accordo, stabilì di attaccare battaglia il giorno dopo. XXIV. Fatte uscire dal campo le truppe, le ordinò in doppia fila, disponendo al centro gli ausiliari, e attese la decisione dei nemici. Ma questi, nonostante le loro forze preponderanti, la loro antica gloria militare e l’esiguità del nostro esercito, pur essendo certi di poter affrontare il combattimento con sicurezza, ritennero che 5 Quinto Sertorio (123-72 a.C.), uomo politico romano. Sotto C. Mario aveva cacciato dalla Spagna i partigiani di Silla e aveva tentato di costituire in quella provincia un governo autonomo. Vinto da Pompeo nel 76, era stato ucciso in una congiura.

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bitrabantur obsessis viis commeatu intercluso sine ullo vulnere victoria potiri, et si propter inopiam rei frumentariae Romani sese recipere coepissent, impeditos in agmine et sub sarcinis infirmiore animo adoriri cogitabant. Hoc consilio probato ab ducibus productis Romanorum copiis sese castris tenebant. Hac re perspecta Crassus cum sua cunctatione atque opinione timoris hostes nostros milites alacriores ad pugnandum effecissent, atque omnium voces audirentur, exspectari diutius non oportere quin ad castra iretur, cohortatus suos omnibus cupientibus ad hostium castra contendit. XXV. Ibi cum alii fossas complerent, alii multis telis coniectis defensores vallo munitionibusque depellerent, auxiliaresque, quibus ad pugnam non multum Crassus confidebat, lapidibus telisque subministrandis et ad aggerem cespitibus conportandis speciem atque opinionem pugnantium praeberent, cum item ab hostibus constanter ac non timide pugnaretur telaque ex loco superiore missa non frustra acciderent, equites circumitis hostium castris Crasso renuntiaverunt non eadem esse diligentia ab decumana porta castra munita facilemque aditum habere. XXVI. Crassus equitum praefectos cohortatus ut magnis praemiis pollicitationibusque suos excitarent, quid fieri velit ostendit. Illi, ut erat imperatum, eductis iis cohortibus quae praesidio castris relictae intritae ab labore erant, et longiore itinere circumductis, ne ex hostium castris conspici possent, omnium oculis mentibu-

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fosse sistema migliore quello di assicurarsi la vittoria senza colpo ferire, sorvegliando e chiudendo tutte le vie di rifornimento: pensavano di assalire i nostri quando, costretti dalla mancanza di vettovaglie e carichi di bagagli e di impedimenti, che li avrebbero resi meno animosi, fossero stati costretti a ritirarsi. Poiché, dunque, i comandanti avevano approvato questo piano, quando i Romani si schierarono fuori dal campo, essi rimasero nel loro accampamento. Visto che i nemici col loro indugio, interpretato come timore, avevano eccitato l’ardore guerresco dei nostri soldati e poiché, d’altra parte, tutti affermavano che non si doveva più indugiare nell’attaccare il nemico, Crasso esortò i suoi e si diresse contro il campo. XXV. Là alcuni si diedero a riempire il fossato, altri a lanciare una grande quantità di dardi per scacciare i difensori dal trinceramento dalle difese; mentre gli ausiliari, di cui poco Crasso si fidava per il combattimento, davano l’impressione di combattere anch’essi, rifornendo di armi i combattenti e portando materiale per costruire un terrapieno; da parte loro i nemici combattevano essi pure tenacemente e con coraggio e i loro dardi, lanciati dall’alto, non cadevano a vuoto. Intanto i cavalieri, che avevano fatto un giro intorno al campo nemico, annunziarono a Crasso che verso la porta posteriore le difese non erano altrettanto forti e che il passaggio colà era facile. XXVI. Crasso invitò i prefetti di cavalleria a incitare i loro uomini, con promesse di grandi premi, e chiarì loro il suo piano. Essi, secondo l’ordine ricevuto, fecero uscire le coorti che, rimaste a presidio del campo, erano ancora riposate, e facendo un lungo giro, affinché i nemici non potessero vederle, raggiunsero le difese del lato posteriore del campo nemico, di cui abbiamo già detto,

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sque ad pugnam intentis celeriter ad eas quas diximus munitiones pervenerunt atque his prorutis prius in hostium castris constiterunt quam plane ab his videri aut quid rei gereretur cognosci posset. Tum vero clamore ab ea parte audito nostri redintegratis viribus, quod plerumque in spe victoriae accidere consuevit, acrius inpugnare coeperunt. Hostes undique circumventi desperatis omnibus rebus se per munitiones deicere et fuga salutem petere contenderunt. Quos equitatus apertissimis campis consectatus ex milium L numero, quae ex Aquitania Cantabrisque convenisse constabat, vix quarta parte relicta multa nocte se in castra recepit. XXVII. Hac audita pugna maxima pars Aquitaniae sese Crasso dedidit obsidesque ultro misit; quo in numero fuerunt Tarbelli, Bigerriones, Ptianii, Vocates, Tarusates, Elusates, Gates, Ausci, Garunni, Sibulates, Cocosates: paucae ultimae nationes anni tempore confisae, quod hiems suberat, hoc facere neglexerunt. XXVIII. Eodem fere tempore Caesar, etsi prope exacta iam aestas erat, tamen, quod omni Gallia pacata Morini Menapiique supererant qui in armis essent neque ad eum umquam legatos de pace misissent, arbitratus id bellum celeriter confici posse eo exercitum adduxit; qui longe alia ratione ac reliqui Galli bellum gerere instituerunt. Nam quod intellegebant maximas nationes quae proelio contendissent pulsas superatasque esse, continentesque silvas ac paludes habebant, eo se suaque omnia contulerunt. Ad quarum initium silvarum cum

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mentre gli occhi e la mente di tutti erano rivolti alla battaglia: superati questi ostacoli, si riunirono e si riordinarono entro l’accampamento dei nemici, prima che questi potessero vederli o capire quel che avveniva. Allora, udito il clamore che proveniva da quella parte, i nostri con forze rianimate, come di solito avviene quando si spera di vincere, proseguirono il combattimento con slancio anche maggiore. I nemici, circondati da ogni parte, come videro non esservi possibilità di salvezza, non pensarono più ad altro che a superare il trinceramento per trovare salvezza nella fuga. La cavalleria li inseguì nell’aperta campagna: appena la quarta parte dei cinquantamila, che, come si sapeva, si erano radunati dall’Aquitania e dalla Cantabria riuscì a sfuggire ai loro colpi. A notte fonda la cavalleria rientrò al campo. XXVII. Come si seppe il risultato di questa battaglia, la maggior parte degli Aquitani si arrese a Crasso e gli mandò spontaneamente ostaggi. Fra questi furono i Tarbelli, i Bigerrioni, i Ptiani, i Vocati, i Tarusati, gli Elusati, i Gati, gli Ausci, i Garunni, i Sibuzati, i Cocosati. Poche altre genti, le più lontane, verso il confine iberico, non ne seguirono l’esempio, confidando nella stagione avanzata, giacché l’inverno era vicino. XXVIII. Circa nello stesso periodo, sebbene l’estate fosse quasi al termine, Cesare condusse l’esercito contro i Morini e i Menapi che, soli, erano rimasti in armi in tutta la Gallia sottomessa e mai avevano mandato a chiedere la pace: credeva, infatti, di poter condurre a termine presto la guerra contro di loro. Ma essi adottarono una tattica ben diversa da quella degli altri Galli; sapendo che le più forti genti scese a battaglia contro i Romani erano state respinte e vinte e poiché il loro territorio comprendeva vaste estensioni di boschi e paludi, vi si rifugiarono con tutti i loro beni. Quando Cesare arrivò al

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Caesar pervenisset castraque munire instituisset neque hostis interim visus esset, dispersis in opere nostris subito ex omnibus partibus silvae evolaverunt et in nostros impetum fecerunt. Nostri celeriter arma ceperunt eosque in silvas repulerunt et conpluribus interfectis longius inpeditioribus locis secuti paucos ex suis deperdiderunt. XXIX. Reliquis deinceps diebus Caesar silvas caedere instituit et, ne quis inermibus inprudentibusque militibus ab latere impetus fieri posset, omnem eam materiam quae erat caesa conversam ad hostem conlocabat et pro vallo ad utrumque latus exstruebat. Incredibili celeritate magno spatio paucis diebus confecto, cum iam pecus atque extrema inpedimenta ab nostris tenerentur, ipsi densiores silvas peterent, eius modi tempestates sunt consecutae, uti opus necessario intermitteretur et continuatione imbrium diutius sub pellibus milites contineri non possent. Itaque vastatis omnibus eorum agris, vicis aedificiisque incensis Caesar exercitum reduxit et in Aulercis Lexoviisque, reliquis item civitatibus quae proxime bellum fecerant, in hibernis conlocavit.

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limite di quei boschi, diede subito inizio ai lavori di fortificazione del campo. Mentre i soldati erano divisi, intenti a quei lavori, all’improvviso i Galli, che fino allora non si erano mai mostrati, irruppero da tutte le parti della selva e attaccarono i Romani. Questi velocemente presero le armi, li respinsero e li inseguirono nei terreni meno accessibili, uccidendone molti e subendo poche perdite. XXIX. Nei giorni seguenti Cesare decise di abbattere la foresta e per evitare che i suoi uomini fossero attaccati di fianco mentre erano inermi e rivolti a quel lavoro, fece disporre di fronte al nemico e ammucchiare ai lati, a guisa di ostacolo, tutto il legname tagliato. Con incredibile velocità in pochi giorni fu aperto un largo spazio. Ma quando già erano stati raggiunti dai nostri il bestiame e gli ultimi carichi dei Galli che si addentravano sempre più nel folto delle selve, cominciarono tali uragani che fu necessario interrompere il lavoro; per le piogge continue poi i soldati non poterono rimanere più a lungo sotto le tende. Così, fatti devastare i campi ed incendiare i villaggi e le costruzioni isolate, Cesare ritirò l’esercito e lo sistemò in accampamenti invernali presso gli Aulerci, i Lexovi e le altre popolazioni che avevano di recente provocato la guerra contro i Romani.

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I. Ea quae secuta est hieme, qui fuit annus Cn. Pompeio M. Crasso consulibus, Usipetes Germani, item Tenctheri magna cum multitudine hominum flumen Rhenum transierunt, non longe a mari quo Rhenus influit. Causa transeundi fuit quod ab Suebis conplures annos exagitati bello premebantur et agricultura prohibebantur. Sueborum gens est longe maxima et bellicosissima Germanorum omnium. Hi centum pagos habere dicuntur, ex quibus quotannis singula milia armatorum bellandi causa suis ex finibus educunt. Reliqui, qui domi manserunt, se atque illos alunt; hi rursus in vicem anno post in armis sunt, illi domi remanent. Sic neque agricultura nec ratio atque usus belli intermittitur. Sed privati ac separati agri apud eos nihil est, neque longius anno remanere uno in loco colendi causa licet. Neque multum frumento, sed maximam partem lacte atque pecore vivunt multumque sunt in venationibus; quae res et cibi genere et cotidiana exercitatione et libertate vitae, quod a pueris nullo officio aut disciplina adsuefacti nihil omnino contra voluntatem faciunt, et vires alit et immani corporum magnitudine homines efficit. Atque in eam se consuetudinem adduxerunt, ut locis frigidissimis neque vestitus praeter pelles habeant quicquam, quarum propter exiguitatem magna est corporis pars aperta, et lavarentur in fluminibus.

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I. Nell’inverno seguente (in quell’anno erano consoli G. Pompeo e M. Crasso) gli Usipeti e i Tenteri, popolazioni germaniche, attraversarono con grande numero di uomini il Reno, non lontano dal punto ove esso si versa nel mare: perseguitati con guerre continue da più anni dagli Svevi erano da essi oppressi e non potevano attendere al lavoro dei campi. Gli Svevi sono la nazione più grande e più bellicosa di tutti i Germani; si dice che abbiano cento villaggi, ciascuno dei quali fornisce ogni anno mille armati, per attaccare i paesi vicini; quelli che rimangono a casa provvedono al vitto per sé e per l’esercito; l’anno successivo, mutato il turno, questi restano a casa e quelli vanno sotto le armi. Così non si tralascia né l’agricoltura, né la teoria o la pratica della guerra. Nessun campo è presso di loro di proprietà privata né definito da limiti; nessuno può rimanere più di un anno a lavorare la terra nello stesso luogo. Non si nutrono molto di frumento, ma in massima parte di latte o di carne ovina e molto si dedicano alla caccia. Questa attività, il genere di cibo, l’esercizio quotidiano e la libertà di vita (non sono sottoposti da fanciulli a nessun dovere e a nessuna disciplina e niente fanno mai contro volontà) accresce le loro forze fisiche e li rende uomini di gigantesca statura. Sono abituati a non portare, in quei luoghi freddissimi, altro vestito che le pelli che, piccole come sono, coprono poca parte del corpo; si lavano nei fiumi.

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II. Mercatoribus est aditus, magis eo ut quae bello ceperint quibus vendant habeant, quam quo ullam rem ad se inportari desiderent. Quin etiam iumentis, quibus maxime Galli delectantur, quaeque inpenso parant pretio, Germani inportatis non utuntur, sed quae sunt apud eos nata, parva atque deformia, haec cotidiana exercitatione summi ut sint laboris efficiunt. Equestribus proeliis saepe ex equis desiliunt ac pedibus proeliantur, equosque eodem remanere vestigio adsuefecerunt, ad quos se celeriter, cum usus est, recipiunt; neque eorum moribus turpius quicquam aut inertius habetur, quam ephippiis uti. Itaque ad quemvis numerum ephippiatorum equitum quamvis pauci adire audent. Vinum ad se omnino inportari non patiuntur, quod ea re ad laborem ferendum remollescere homines atque effeminari arbitrantur. III. Publice maximam putant esse laudem, quam latissime a suis finibus vacare agros: hac re significari magnum numerum civitatum suam vim sustinere non posse. Itaque una ex parte a Suebis circiter milia passuum sexcenta agri vacare dicuntur. Ad alteram partem succedunt Ubii, quorum fuit civitas ampla atque florens, ut est captus Germanorum, et paulo [quam] sunt eiusdem generis humaniores, propterea quod Rhenum attingunt multumque ad eos mercatores ventitant, et ipsi propter propinquitatem [quod] Gallicis sunt moribus adsuefacti. Hos cum Suebi multis saepe bellis experti propter amplitudinem gravitatemque civitatis finibus expellere non potuissent, tamen vectigales sibi fecerunt ac multo humiliores infirmioresque redegerunt.

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II. Concedono l’ingresso nelle loro terre ai mercanti più per avere a chi vendere il loro bottino di guerra, che per importare qualcosa. Essi non importano neppure i cavalli, che i Galli, invece, apprezzano moltissimo e comprano a caro prezzo, e con continuo esercizio rendono quelli indigeni, anche se piccoli e brutti, adatti a sostenere grandi fatiche. Nelle battaglie di cavalleria spesso smontano da cavallo e continuano a combattere a piedi, mentre i quadrupedi, abituati appositamente, non si muovono da quel preciso punto; in caso di necessità si ritirano velocemente balzando in groppa. Niente, secondo i loro costumi, è considerato più vergognoso e più vile che adoperare la sella e, per quanto pochi essi siano, osano affrontare qualunque numero di cavalieri forniti di sella. Non permettono che sia importato nella loro terra il vino, perché credono che esso determini l’infiacchimento degli animi. III. Ritengono cosa gloriosissima per la loro nazione che le terre vicine ai loro confini siano per la maggiore estensione possibile spopolate: così essi dimostrano che un gran numero di genti non ha potuto fronteggiare la loro potenza. E si dice che verso una parte della frontiera degli Svevi, circa seicento miglia di territorio siano disabitate. Da un’altra parte essi confinano con gli Ubii, nazione che un giorno fu grande e fiorente per quanto possono esserlo i Germani e che è un po’ più civile degli altri popoli della stessa stirpe perché, giungendo la loro terra al Reno, spesso i mercanti vi arrivano ed essi stessi si sono abituati a seguire, per la vicinanza, gli usi dei Galli. Gli Svevi li avevano attaccati con continue guerre, ma non li avevano potuti scacciare da quelle regioni per l’importanza e la forza loro. Li avevano, però, obbligati a pagare un tributo, umiliandoli ed indebolendoli molto sensibilmente.

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IV. In eadem causa fuerunt Usipetes et Tenctheri, quos supra diximus, qui complures annos Sueborum vim sustinuerunt, ad extremum tamen agris expulsi et multis locis Germaniae triennium vagati ad Rhenum pervenerunt: quas regiones Menapii incolebant et ad utramque ripam fluminis agros, aedificia vicosque habebant; sed tantae multitudinis adventu perterriti ex iis aedificiis quae trans flumen habuerant demigraverunt et cis Rhenum dispositis praesidiis Germanos transire prohibebant. Illi omnia experti cum neque vi contendere propter inopiam navium neque clam transire propter custodias Menapiorum possent, reverti se in suas sedes regionesque simulaverunt et tridui viam progressi rursus reverterunt atque omni hoc itinere una nocte equitatu confecto inscios inopinantesque Menapios oppresserunt, qui de Germanorum discessu per exploratores certiores facti sine metu trans Rhenum in suos vicos remigraverant. His interfectis navibusque eorum occupatis, prius quam ea pars Menapiorum quae citra Rhenum erat certior fieret flumen transierunt atque omnibus eorum aedificiis occupatis reliquam partem hiemis se eorum copiis aluerunt. V. His de rebus Caesar certior factus et infirmitatem Gallorum veritus, quod sunt in consiliis capiendis mobiles et novis plerumque rebus student, nihil his committendum existimavit. Est enim hoc Gallicae consuetudinis, uti et viatores etiam invitos consistere cogant et quid quisque eorum de quaque re audierit aut cognoverit quaerant et mercatores in oppidis vulgus circumsistat quibusque ex regionibus veniant quasque ibi res cognoverint pronuntiare cogat. his rebus atque auditionibus

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IV. Nelle stesse condizioni si erano trovati gli Usipeti e i Tenteri (che abbiamo nominato sopra), i quali, dopo avere resistito per più anni agli attacchi degli Svevi, scacciati dalle loro terre, dopo essersi aggirati per tre anni in molti paesi della Germania, erano arrivati al Reno. In quella regione abitavano i Menapi, che avevano campi, costruzioni, villaggi su entrambe le rive del fiume. Costoro, atterriti dall’avvicinarsi di genti così numerose, abbandonarono le abitazioni che erano al di là del Reno e, posti dei presidi armati sulla sponda sinistra, impedirono ai Germani il passaggio del fiume. Gli Usipeti e i Tenteri, dopo tentativi di ogni specie, non potendo forzare il passaggio perché non avevano navi, né potendo attraversare il fiume di nascosto per la continua sorveglianza dei Menapi, finsero di ritornare nelle loro sedi e, dopo aver marciato per tre giorni, la loro cavalleria rifece lo stesso percorso in una sola notte, colse i Menapi alla sprovvista (infatti, questi, informati della partenza dei Germani, senza timore ora se ne tornavano ai loro villaggi al di là del Reno); ne fecero strage e catturarono le loro imbarcazioni, prima ancora che la notizia giungesse ai Menapi che erano sull’altra sponda; attraversarono il fiume, occuparono i villaggi vicini, e per la rimanente parte dell’inverno si servirono delle vettovaglie dei vinti. V. Quando Cesare fu informato di questi avvenimenti, temendo la leggerezza dei Galli (sono infatti volubili nelle loro decisioni, e desiderosi sempre di novità) pensò che non bisognava fidarsi di loro. I Galli hanno l’abitudine di far fermare i viandanti, anche quando questi non ne hanno voglia, e di chiedere loro cosa abbiano sentito dire o abbiano saputo su qualunque argomento; i mercanti vengono circondati sulle piazze dalla folla e devono raccontare da quali regioni vengono e che notizie ne riportino. Secondo questi racconti essi poi pren-

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permoti de summis saepe rebus consilia ineunt, quorum eos in vestigio paenitere necesse est, cum incertis rumoribus serviant et plerique ad voluntatem eorum ficta respondeant. VI. Qua consuetudine cognita Caesar, ne graviori bello occurreret, maturius quam consuerat ad exercitum proficiscitur. Eo cum venisset, ea quae fore suspicatus erat facta cognovit: missas legationes ab non nullis civitatibus ad Germanos invitatosque eos uti ab Rheno discederent, omniaque quae postulassent ab se fore parata. Qua spe adducti Germani latius iam vagabantur et in fines Eburonum et Condrusorum, qui sunt Treverorum clientes, pervenerant. Principibus Galliae evocatis Caesar ea quae cognoverat dissimulanda sibi existimavit eorumque animis permulsis et confirmatis equitatuque imperato bellum cum Germanis gerere constituit. VII. Re frumentaria comparata equitibusque delectis iter in ea loca facere coepit, quibus in locis esse Germanos audiebat. A quibus cum paucorum dierum iter abesset, legati ab his venerunt, quorum haec fuit oratio: Germanos neque priores populo Romano bellum inferre neque tamen recusare, si lacessantur, quin armis contendant, quod Germanorum consuetudo haec sit a maioribus tradita, quicumque bellum inferant, resistere neque deprecari. Haec tamen dicere, venisse invitos, eiectos domo; si suam gratiam Romani velint, posse iis utiles esse amicos; vel sibi agros adtribuant vel patiantur eos tenere quos armis possederint. Sese unis Suebis concede-

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dono le loro decisioni anche per affari importanti ed è inevitabile che presto, poi, abbiano a pentirsene, giacché danno ascolto a incerte dicerie o a risposte falsate per assecondare la loro volontà. VI. Cesare, che conosceva quest’abitudine, per non andare incontro ad una guerra più temibile, partì alla volta del suo esercito più presto di quanto era solito fare. Quando arrivò, seppe che era già avvenuto quel che aveva temuto: erano state mandate ai Germani ambascerie da molte città, che li avevano invitati a inoltrarsi dal Reno in Gallia, promettendo di fare tutto ciò che venisse loro richiesto. I Germani, invogliati dalla speranza, si aggiravano in più ampi territori ed erano arrivati nelle terre degli Eburoni e dei Condrusi, popoli soggetti ai Treveri. Cesare, convocati i capi della Gallia, credette bene dissimulare ciò che aveva saputo, li tranquillizzò e li rassicurò, chiese loro di fornirgli della cavalleria e dichiarò la sua decisione di far la guerra ai Germani. VII. Dopo essersi procurato viveri e aver reclutato la cavalleria, iniziò la marcia verso le regioni dove sapeva che i Germani si trovavano. Quando giunse a pochi giorni di cammino da quei luoghi, gli si presentarono, da parte dei Germani, degli ambasciatori, che gli esposero quanto segue: i Germani non portavano guerra per primi al popolo romano, ma tuttavia non avrebbero esitato, se attaccati, a ricorrere alle armi, perché era loro antica consuetudine, chiunque portasse guerra, di opporsi con le armi e non di ricorrere a suppliche. Tuttavia volevano far presente che erano venuti in quei luoghi contro la loro stessa volontà, scacciati dalla patria; se i Romani lo volevano, essi potevano diventare utili amici: venissero assegnate loro delle terre, oppure si permettesse loro di tenere quelle che avevano conquistato combattendo. Essi si sentivano inferiori soltanto agli Svevi, ai quali

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re, quibus ne dii quidem immortales pares esse possint; reliquum quidem in terris esse neminem, quem non superare possint. VIII. Ad haec quae visum est Caesar respondit; sed exitus fuit orationis: sibi nullam cum his amicitiam esse posse, si in Gallia remanerent: neque verum esse, qui suos fines tueri non potuerint, alienos occupare; neque ullos in Gallia vacare agros, qui dari tantae praesertim multitudini sine iniuria possint; sed licere, si velint, in Ubiorum finibus considere, quorum sint legati apud se et de Sueborum iniuriis querantur et a se auxilium petant: hoc se ab Ubiis imperaturum. IX. Legati haec se ad suos relaturos dixerunt et re deliberata post diem tertium ad Caesarem reversuros: interea ne propius se castra moveret petiverunt. Ne id quidem Caesar ab se impetrari posse dixit. Cognoverat enim magnam partem equitatus ab iis aliquot diebus ante praedandi frumentandique causa ad Ambivaritos trans Mosam missam; hos exspectari equites atque eius rei causa moram interponi arbitrabatur. X. Mosa profluit ex monte Vosego, qui est in finibus Lingonum, [et parte quadam ex Rheno recepta, quae appellatur Vacalus, insulamque efficit Batavorum in Oceanum influit] neque longius ab Oceano milibus passuum LXXX in Rhenum influit. Rhenus autem oritur ex Lepontiis, qui Alpes incolunt, et longo spatio per fines Nantuatium, Helvetiorum, Sequanorum, Mediomatricorum, Tribocorum, Treverorum citatus fertur, et ubi Oceano

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neppure gli dèi immortali potevano stare alla pari: ma certo nessun altro vi era sulla terra che essi non potessero vincere. VIII. Cesare rispose quel che gli sembrò opportuno e la conclusione del discorso fu la seguente: nessuna amicizia poteva esistere tra lui e i Germani se essi rimanevano in Gallia, né era giusto che occupasse terre altrui chi non aveva saputo difendere le proprie. Nessun territorio era così libero in Gallia, da poter essere assegnato senza danno e particolarmente a una gente così numerosa. Però era loro possibile, se accettavano, sistemarsi nelle terre degli Ubii, i cui ambasciatori erano presso di lui, si lamentavano delle violenze degli Svevi e chiedevano aiuti; egli avrebbe ordinato loro di accoglierli. IX. Gli ambasciatori dissero che avrebbero riferito queste proposte e sarebbero ritornati da Cesare dopo tre giorni, quando fosse stata presa una deliberazione; gli chiesero però, in attesa, di arrestare la sua avanzata. Cesare rispose di non poter concedere nemmeno questo. Aveva saputo, infatti, che gran parte della loro cavalleria era stata mandata, alcuni giorni prima, a far preda e a procurare frumento al di là della Mosa nella terra degli Ambivariti; credeva che i Germani aspettassero il ritorno di quei cavalieri e che perciò cercassero di ottenere una dilazione. X. La Mosa nasce da quella parte dei monti Vosgi che si trova nel territorio dei Lingoni e dopo aver ricevuto un ramo del Reno, chiamato Vacalo, forma l’isola dei Batavi e si versa nel Reno a non più di ottanta miglia dall’Oceano. Il Reno, poi, nasce dal paese dei Leponzi, che abitano sulle Alpi, e con un lungo corso attraversa impetuoso le terre dei Mantuati, degli Elvezi, dei Sèquani, dei Mediomatrici, dei Triboci, dei Treveri; quando si av-

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adpropinquavit, in plures diffluit partes multis ingentibusque insulis effectis, quarum pars magna a feris barbarisque nationibus incolitur, ex quibus sunt qui piscibus atque ovis avium vivere existimantur, multisque capitibus in Oceanum influit. XI. Caesar cum ab hoste non amplius passuum XII milibus abesset, ut erat constitutum, ad eum legati revertuntur; qui in itinere congressi magnopere ne longius procederet orabant. Cum id non impetrassent, petebant uti ad eos equites qui agmen antecessissent praemitteret eosque pugna prohiberet, sibique ut potestatem faceret in Ubios legatos mittendi: quorum si principes ac senatus sibi iure iurando fidem fecissent, ea condicione quae a Caesare ferretur se usuros ostendebant: ad has res conficiendas sibi tridui spatium daret. Haec omnia Caesar eodem illo pertinere arbitrabatur, ut tridui mora interposita equites eorum, qui abessent, reverterentur; tamen sese non longius milibus passuum quattuor aquationis causa processurum eo die dixit; huc postero die quam frequentissimi convenirent, ut de eorum postulatis cognosceret. Interim ad praefectos, qui cum omni equitatu antecesserant, mittit qui nuntiarent ne hostes proelio lacesserent, et si ipsi lacesserentur, sustinerent, quoad ipse cum exercitu propius accessisset. XII. At hostes ubi primum nostros equites conspexerunt, quorum erat V milium numerus, cum ipsi non amplius octingentos equites haberent, quod ii qui frumentandi causa ierant trans Mosam nondum redierant, nihil timentibus nostris, quod legati eorum paulo ante a Caesare discesserant atque is dies indutiis erat ab his peti-

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vicina all’Oceano si divide in molti rami e forma molte isole che sono in gran parte abitate da genti barbare tra le quali alcune che si ritiene vivano di pesci e di uova di uccelli; poi si versa nell’Oceano per molte foci. XI. Quando Cesare fu a non più di dodici miglia dal nemico, gli ambasciatori, secondo l’accordo, gli vennero incontro; e, ricevuti da lui mentre era in cammino, lo pregarono vivamente di non spingersi più avanti. Poiché non riuscirono ad ottenerlo, chiesero che mandasse ai cavalieri dell’avanguardia l’ordine di astenersi dal combattere e che desse loro l’autorizzazione di inviare ambasciatori agli Ubii: affermavano che se i capi e il senato di tale popolo si fossero impegnati con giuramento di amicizia, si sarebbero adattati alle condizioni imposte da Cesare; che i Romani dessero tre giorni di tempo per condurre a termine le trattative. Cesare era convinto che tutta questa manovra fosse rivolta allo stesso scopo, di interporre un nuovo indugio di tre giorni per permettere il ritorno dei loro cavalieri che erano ancora lontani. Tuttavia promise che per quel giorno sarebbe andato avanti per non più di quattro miglia col solo scopo di rifornirsi di acqua; che il giorno dopo i Germani si presentassero, nel maggior numero possibile, perché egli potesse discutere le loro richieste. Frattanto mandò a dire ai prefetti, che precedevano con tutta la cavalleria, di non attaccare i nemici e se attaccati di resistere sulla difensiva, onde dargli modo di raggiungerli con l’esercito. XII. Ma i nemici, appena furono in vista dei nostri cavalieri (che erano cinquemila, mentre loro ne avevano solo ottocento, perché quelli che erano andati oltre la Mosa per i rifornimenti non erano ancora tornati), con un improvviso attacco scompigliarono le file dei nostri, che proprio nulla temevano perché gli ambasciatori dei Germani erano appena partiti dal campo di Cesare e

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tus, impetu facto celeriter nostros perturbaverunt; rursus his resistentibus consuetudine sua ad pedes desiluerunt subfossis equis conpluribusque nostris deiectis reliquos in fugam coniecerunt atque ita perterritos egerunt, ut non prius fuga desisterent quam in conspectum agminis nostri venissent. In eo proelio ex equitibus nostris interficiuntur quattuor et septuaginta, in his vir fortissimus, Piso Aquitanus, amplissimo genere natus, cuius avus in civitate sua regnum obtinuerat amicus ab senatu nostro appellatus. Hic cum fratri intercluso ab hostibus auxilium ferret, illum ex periculo eripuit, ipse equo vulnerato deiectus quoad potuit fortissime restitit: cum circumventus multis vulneribus acceptis cecidisset atque id frater, qui iam proelio excesserat, procul animadvertisset, incitato equo se hostibus obtulit atque interfectus est. XIII. Hoc facto proelio Caesar neque iam sibi legatos audiendos neque condiciones accipiendas arbitrabatur ab iis qui per dolum atque insidias petita pace ultro bellum intulissent: exspectare vero dum hostium copiae augerentur equitatusque reverteretur summae dementiae esse iudicabat, et cognita Gallorum infirmitate quantum iam apud eos hostes uno proelio auctoritatis essent consecuti sentiebat; quibus ad consilia capienda nihil spatii dandum existimabat. His constitutis rebus et consilio cum legatis et quaestore communicato ne quem diem pugnae praetermitteret, oportunissime res accidit, quod postridie eius diei mane eadem et perfidia et simulatione usi Germani frequentes omnibus principibus maioribusque natu adhibitis ad eum in castra venerunt, simul, ut dicebatur, sui purgandi causa, quod contra atque es-

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avevano chiesto per quel giorno una tregua. Quando i nostri si riordinarono, pronti alla difesa, i Germani, secondo il loro uso, balzarono a terra e, ferendo dal basso i cavalli e facendone cadere i cavalieri, misero in fuga i superstiti e li inseguirono con tanta foga che non si fermarono se non quando furono in vista dell’esercito. In questa battaglia perirono settantaquattro dei nostri cavalieri, fra cui Pisone Aquitano, uomo valorosissimo, nato da famiglia molto nobile, un cui avo era stato re nella sua terra, e riconosciuto amico dal nostro senato. Questi, nel portare aiuto al fratello che era stato circondato dal nemico, riuscì a liberarlo, ma ebbe il cavallo ferito e, balzato a terra, resisté con molto valore finché poté, poi, circondato e ferito più volte, cadde; appena il fratello che si era allontanato dal combattimento comprese l’accaduto, a spron battuto si lanciò contro i nemici e ne fu ucciso. XIII. Dopo questo attacco Cesare pensò che non doveva più ricevere ambasciatori né scendere a patti con gente che con inganni aveva attaccato di sua iniziativa, dopo avere chiesta una tregua; d’altra parte giudicava massima follia aspettare che i nemici aumentassero di numero col ritorno della cavalleria, anche perché, conoscendo la leggerezza dei Galli, sapeva quanto prestigio presso di loro i Germani avessero guadagnato con quel combattimento. Ritenne opportuno perciò di non dar loro tempo di consigliarsi. Già s’era deciso e già aveva esposto ai legati e ai questori la sua intenzione di non lasciare passare il momento adatto alla battaglia, quando gli si offrì un’occasione favorevolissima: il giorno dopo, di prima mattina, i Germani, continuando la loro perfida simulazione, si presentarono al campo romano in gran numero (avevano incaricato dell’ambasceria tutti i più nobili e i più anziani): dicevano di volere giustificarsi perché il giorno prima, contrariamente a quel che

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set dictum et ipsi petissent proelium pridie commisissent, simul ut, si quid possent, de indutiis fallendo impetrarent. Quos sibi Caesar oblatos gavisus illos retineri iussit, ipse omnes copias castris eduxit equitatumque, quod recenti proelio perterritum esse existimabat, agmen subsequi iussit. XIV. Acie triplici instituta et celeriter VIII milium itinere confecto prius ad hostium castra pervenit quam quid ageretur Germani sentire possent. Qui omnibus rebus subito perterriti, et celeritate adventus nostri et discessu suorum, neque consilii habendi neque arma capiendi spatio dato, perturbantur, copiasne adversus hostem ducere, an castra defendere, an fuga salutem petere praestaret. Quorum timor cum fremitu et concursu significaretur, milites nostri pristini diei perfidia incitati in castra inruperunt. Quo loco qui celeriter arma capere potuerunt paulisper nostris restiterunt atque inter carros impedimentaque proelium commiserunt: at reliqua multitudo puerorum mulierumque (nam cum omnibus suis domo excesserant Rhenumque transierant) passim fugere coepit; ad quos consectandos Caesar equitatum misit. XV. Germani post tergum clamore audito, cum suos interfici viderent, armis abiectis signisque militaribus relictis se ex castris eiecerunt, et cum ad confluentem Mosae et Rheni pervenissent, reliqua fuga desperata magno numero interfecto reliqui se in flumen praecipitaverunt atque ibi timore, lassitudine, vi fluminis oppressi perierunt. Nostri ad unum omnes incolumes perpaucis

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era stato stabilito e che essi stessi avevano chiesto, avevano attaccato battaglia; nello stesso tempo volevano, se fosse stato possibile, ottenere ancora un prolungamento della tregua per ordire qualche altro inganno ai nostri danni. Cesare, ben lieto che quelli gli si fossero offerti, comandò di trattenerli; egli stesso fece uscire dal campo tutte le milizie e assegnò la cavalleria alla retroguardia, sapendola avvilita per la recente battaglia. XIV. Ordinato l’esercito su tre file e percorse velocemente otto miglia, arrivò al campo dei nemici prima che i Germani potessero accorgersi di quel che accadeva. Essi, atterriti da questi improvvisi avvenimenti coi nostri incombenti e i loro capi lontani, non avendo il tempo né di consigliarsi né di prendere le armi, si trovarono in grande imbarazzo, non sapendo se fosse meglio condurre le loro forze contro il nemico, o difendere l’accampamento, o salvarsi con la fuga. Il loro timore era reso manifesto dal clamore e dalla confusione e i nostri soldati, eccitati dalla perfidia che quelli avevano mostrato il giorno prima, irruppero nel campo. Tutti quelli che poterono in fretta armarsi, resistettero per un poco, combattendo fra i carri e i bagagli; gli altri, tra cui donne e bambini (infatti avevano abbandonato le loro terre e attraversato il Reno con tutte le loro famiglie), cominciarono a fuggire qua e là; Cesare mandò la cavalleria ad inseguirli. XV. I Germani, udite le grida alle spalle, vedendo la strage dei loro compagni, gettarono le armi, abbandonarono le insegne militari, si lanciarono fuori dall’accampamento e, giunti al punto dove la Mosa e il Reno confluiscono, disperando di poter fuggire più oltre (molti erano stati, intanto, uccisi) si gettarono nel fiume, dove, vinti dalla paura, dalla stanchezza, dalla violenza delle acque, perirono. I nostri ritornarono tutti, fino all’ulti-

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vulneratis ex tanti belli timore, cum hostium numerus capitum CCCCXXX milium fuisset, se in castra receperunt. Caesar iis quos in castris retinuerat discedendi potestatem fecit. Illi supplicia cruciatusque Gallorum veriti, quorum agros vexaverant, remanere se apud eum velle dixerunt. His Caesar libertatem concessit. XVI. Germanico bello confecto multis de causis Caesar statuit sibi Rhenum esse transeundum; quarum illa fuit iustissima, quod, cum videret Germanos tam facile impelli ut in Galliam venirent, suis quoque rebus eos timere voluit, cum intellegerent et posse et audere populi Romani exercitum Rhenum transire. Accessit etiam quod illa pars equitatus Usipetum et Tenctherorum, quam supra commemoravi praedandi frumentandique causa Mosam transisse neque proelio interfuisse, post fugam suorum se trans Rhenum in fines Sugambrorum receperat seque cum his coniunxerat. Ad quos cum Caesar nuntios misisset, qui postularent eos qui sibi Galliaeque bellum intulissent sibi dederent, responderunt: populi Romani imperium Rhenum finire; si se invito Germanos in Galliam transire non aequum existimaret, cur sui quicquam esse imperii aut potestatis trans Rhenum postularet? Ubii autem, qui uni ex Transrhenanis ad Caesarem legatos miserant, amicitiam fecerant, obsides dederant, magnopere orabant ut sibi auxilium ferret, quod graviter ab Suebis premerentur; vel, si id facere occupationibus rei publicae prohiberetur, exercitum modo Rhenum transportaret: id sibi ad praesens auxilium spemque reliqui temporis satis futurum. Tantum esse nomen atque opinionem exercitus Ariovisto pulso et

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mo, nel campo (solo pochi erano stati feriti), liberi da una guerra che aveva destato tanto timore, perché il numero dei nemici ammontava a quattrocentotrentamila uomini. Cesare diede il permesso di partire a quelli che aveva trattenuto nel suo campo. Essi, temendo la vendetta dei Galli le cui terre avevano devastato, dissero di voler rimanere presso i Romani. Cesare concesse loro la libertà. XVI. Conclusa la guerra contro i Germani, Cesare pensò che per molte ragioni egli doveva attraversare il Reno: la più valida di queste era che, visto che i Germani tanto facilmente entravano in Gallia, era necessario dimostrare che anche il loro paese correva il pericolo di essere invaso, potendo e osando l’esercito romano attraversare il fiume. Inoltre, quella parte della cavalleria degli Usipeti e dei Tenteri che, come abbiamo detto, era andata oltre la Mosa a far preda e per rifornimenti e che non aveva partecipato alla battaglia, dopo la fuga dei compagni, si era ritirata al di là del Reno, nel territorio dei Sigambri, e si era unita a quelli. Cesare mandò a questi ultimi dei messi per chiedere che gli fossero consegnati quelli che avevano portato guerra a lui e alla Gallia, ed essi risposero che il Reno segnava il limite del dominio dei Romani; se Cesare non credeva cosa giusta che i Germani passassero in Gallia contro la sua volontà, perché voleva avere al di là del Reno ingerenza o autorità? Gli Ubii però, che soli fra tutti i Germani avevano mandato messi a Cesare, avevano stretto amicizia coi Romani e consegnato ostaggi, lo pregavano con insistenza di portar loro aiuto, perché erano vessati dagli Svevi: se gli affari di Stato in cui era impegnato gli impedivano di farlo, portasse almeno l’esercito oltre il Reno; questo sarebbe stato sufficiente per far cessare il pericolo presente e per garantire la sicurezza per il futuro. La fama e la stima che l’esercito di Cesare, dopo la vittoria

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hoc novissimo proelio facto etiam ad ultimas Germanorum nationes, uti opinione [et] amicitiae populi Romani tuti esse possint. Navium magnam copiam ad transportandum exercitum pollicebantur. XVII. Caesar his de causis quas commemoravi Rhenum transire decreverat; sed navibus transire neque satis tutum esse arbitrabatur, neque suae neque populi Romani dignitatis esse statuebat. Itaque, etsi summa difficultas faciundi pontis proponebatur propter latitudinem, rapiditatem altitudinemque fluminis, tamen id sibi contendendum aut aliter non traducendum exercitum existimabat. Rationem pontis hanc instituit. Tigna bina sesquipedalia paulum ab imo praeacuta dimensa ad altitudinem fluminis intervallo pedum duorum inter se iungebat. Haec cum machinationibus inmissa in flumen defixerat fistucisque adegerat, non sublicae modo derecte ad perpendiculum, sed prone ac fastigate, ut secundum naturam fluminis procumberent, his item contraria duo ad eundem modum iuncta intervallo pedum quadragenum ab inferiore parte contra vim atque impetum fluminis conversa statuebat. Haec utraque insuper bipedalibus trabibus inmissis, quantum eorum tignorum iunctura distabat, binis utrimque fibulis ab extrema parte distinebantur; quibus disclusis atque in contrariam partem revinctis tanta erat operis firmitudo atque ea rerum natura ut, quo maior vis aquae se incitavisset, hoc artius inligata tenerentur. Haec derecta materia iniecta contexebantur ac longuriis cratibusque consternebantur; ac

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su Ariovisto e la recente guerra, godeva anche presso le genti germaniche più settentrionali era tanto grande, che essi avrebbero potuto essere al sicuro se fossero stati riconosciuti come amici del popolo romano. Promettevano un gran numero di navi per il trasporto dell’esercito. XVII. Cesare aveva deciso, per la ragione che ho detto, di attraversare il Reno; ma riteneva che il passaggio per mezzo di navi non sarebbe stato né sicuro né confacente alla dignità sua e del popolo romano. Perciò, sebbene la costruzione di un ponte presentasse molte difficoltà per la larghezza, la velocità e la profondità del fiume, pure riteneva che si dovesse attuare questo piano o rinunciare al trasporto dell’esercito. Fece costruire il ponte così: vennero congiunte a due a due, alla distanza di due piedi, delle travi dello spessore di un piede e mezzo, molto appuntite nell’estremità inferiore e di altezza commisurata alla profondità delle acque. Queste travi si calarono nel fiume per mezzo di macchine e si conficcarono con battipali, non diritte e perpendicolari come le comuni palafitte, ma inclinate come i tetti, nel senso della corrente del fiume; poi vennero collocate di fronte a ciascuna coppia, a quaranta piedi di distanza, ma in senso contrario alla corrente, altre file di travi, legate allo stesso modo a due a due. Sopra queste coppie di travi vennero incastrati dei pali grossi due piedi (tanta era la distanza fra una trave e l’altra di ogni coppia) che le tenevano distaccate ed erano assicurati, alle loro estremità, con due ramponi che impedivano alle coppie di avvicinarsi. Con queste palafitte, tenute distaccate e collegate in direzione contraria, si otteneva una costruzione così salda e così ben congegnata che quanto più violenta fosse stata la corrente, tanto più il sistema sarebbe stato strettamente legato. Si appoggiarono, poi, sulle traverse delle travi collocate per il lungo, che furono ricoperte con tavole e

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nihilo setius sublicae et ad inferiorem partem fluminis oblique agebantur, quae pro ariete subiectae et cum omni opere coniunctae vim fluminis exciperent, et aliae item supra pontem mediocri spatio, ut si arborum trunci sive naves deiciendi operis causa essent a barbaris missae, his defensoribus earum rerum vis minueretur neu ponti nocerent. XVIII. Diebus decem, quibus materia coepta erat conportari omni opere effecto exercitus traducitur. Caesar ad utramque partem pontis firmo praesidio relicto in fines Sugambrorum contendit. Interim a compluribus civitatibus ad eum legati veniunt; quibus pacem atque amicitiam petentibus liberaliter respondet obsidesque ad se adduci iubet. At Sugambri ex eo tempore quo pons institui coeptus est fuga conparata hortantibus iis quos ex Tenctheris atque Usipetibus apud se habebant finibus suis excesserant suaque omnia exportaverant seque in solitudinem ac silvas abdiderant. XIX. Caesar paucos dies in eorum finibus moratus omnibus vicis aedificiisque incensis frumentisque succisis se in fines Ubiorum recepit, atque his auxilium suum pollicitus, si ab Suebis premerentur, haec ab iis cognovit: Suebos postea quam per exploratores pontem fieri comperissent, more suo concilio habito nuntios in omnes partes dimisisse, uti de oppidis demigrarent, liberos, uxores suaque omnia in silvis deponerent, atque omnes qui arma ferre possent unum in locum convenirent: hunc esse delectum medium fere regionum earum quas

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graticci. Oltre a ciò, altre travi furono disposte, in senso obliquo, come dei contrafforti, e collegate a tutto il resto, verso il lato a valle del ponte perché contribuissero a sostenere la forza della corrente. A monte e a poca distanza dal ponte vennero confitte altre travi, come difesa per il caso che i barbari, per abbattere la costruzione, vi mandassero contro tronchi di alberi o navi: sarebbe stato, in tal modo, attutito l’urto e preservato il ponte da eventuali danni. XVIII. In dieci giorni da quando si cominciò a portare sul luogo il materiale, l’opera fu compiuta e l’esercito passò il Reno. Cesare lasciò un saldo presidio sull’una e l’altra sponda del fiume e si diresse verso il paese dei Sigambri. Frattanto gli arrivarono ambasciatori da parecchie città; poiché chiedevano pace ed amicizia, egli rispose benignamente ma ordinò che gli fossero consegnati ostaggi. I Sigambri, che fin dal momento in cui era cominciata la costruzione del ponte, si erano preparati alla fuga, per consiglio dei Tenteri ed Usipeti che avevano con loro, si erano allontanati dai propri territori portando seco ogni loro cosa e si erano rifugiati in regioni disabitate e coperte di foreste. XIX. Cesare si trattenne pochi giorni nelle loro terre incendiando tutti i villaggi e le costruzioni isolate e distruggendo i raccolti di grano; poi andò dagli Ubii, e quando ebbe loro promesso il suo aiuto per il caso che fossero attaccati dagli Svevi, venne a sapere da loro quanto segue: che gli Svevi, informati dai loro esploratori della costruzione del ponte, dopo aver tenuto secondo il loro uso consiglio, avevano mandato messi in tutte le direzioni per invitare i vari popoli a uscire dalle città, porre in salvo i figli e le donne e i loro beni nelle selve e radunare tutti gli uomini atti alla guerra in uno stesso luogo, scelto quasi al centro delle regioni poste sotto il

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Suebi optinerent. Hic Romanorum adventum expectare atque ibi decertare constituisse. Quod ubi Caesar comperit, omnibus iis rebus confectis quarum rerum causa exercitum traducere constituerat, ut Germanis metum iniceret, ut Sugambros ulcisceretur, ut Ubios obsidione liberaret, diebus omnino XVIII trans Rhenum consumptis satis et ad laudem et ad utilitatem profectum arbitratus se in Galliam recepit pontemque rescidit. XX. Exigua parte aestatis reliqua Caesar, etsi in his locis, quod omnis Gallia ad septentriones vergit, maturae sunt hiemes, tamen in Britanniam proficisci contendit, quod omnibus fere Gallicis bellis hostibus nostris inde subministrata auxilia intellegebat et, si tempus anni ad bellum gerendum deficeret, tamen magno sibi usui fore arbitrabatur, si modo insulam adisset et genus hominum perspexisset, loca, portus, aditus cognovisset; quae omnia fere Gallis erant incognita. Neque enim temere praeter mercatores illo adit quisquam, neque iis ipsis quicquam praeter oram maritimam atque eas regiones quae sunt contra Galliam notum est. Itaque vocatis ad se undique mercatoribus neque quanta esset insulae magnitudo, neque quae aut quantae nationes incolerent, neque quem usum belli haberent aut quibus institutis uterentur, neque qui essent ad maiorum navium multitudinem idonei portus reperire poterat. XXI. Ad haec cognoscenda, prius quam periculum faceret, idoneum esse arbitratus C. Volusenum cum navi longa praemittit. Huic mandat ut exploratis omnibus rebus ad se quam primum revertatur. Ipse cum omnibus copiis in Morinos proficiscitur, quod inde erat brevissimus in Britanniam traiectus. Huc naves undique ex finitimis re-

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loro controllo. Là aspettavano l’arrivo dei Romani, e là avevano deciso di combattere. Saputo ciò, Cesare giudicò di aver raggiunto tutti gli scopi per cui aveva fatto passare l’esercito oltre il Reno – incutere paura ai Germani, punire i Sigambri, aiutare gli Ubii – e, dopo aver trascorso diciotto giorni in Germania, credendo di aver fatto abbastanza per la propria gloria e per l’interesse di Roma, ritornò in Gallia e distrusse il ponte. XX. Nel breve periodo estivo che ancora restava (in quei luoghi l’inverno arriva assai presto, perché tutta la Gallia si estende verso nord) Cesare decise di partire per la Britannia, perché sapeva che i nostri nemici ne avevano avuto aiuti in quasi tutte le guerre galliche e credeva che, se anche non gli fosse bastato il tempo per fare una guerra, sarebbe pure stato molto utile per lui accostarsi almeno a quell’isola, conoscere l’indole degli abitanti, imparare l’ubicazione dei porti e degli approdi; cose tutte che anche ai Galli erano quasi sconosciute. È infatti difficile che qualcuno vada là all’infuori dei mercanti, ma neppure questi conoscono altro che la zona costiera e le regioni che sono di fronte alla Gallia. Benché Cesare avesse radunato da ogni parte i mercanti, non riusciva ad avere alcuna precisa informazione sulla grandezza dell’isola, sul nome o sul numero degli indigeni, sui metodi di guerra o i costumi loro, né poteva sapere quali fossero i porti adatti ad accogliere un buon numero di grandi navi. XXI. Prima di arrischiarsi all’impresa, mandò avanti a prendere informazioni Gaio Voluseno, che riteneva adatto alla missione, con una nave da guerra e con l’ordine di ritornare al più presto, appena avesse fatto le dovute osservazioni. Egli stesso partì con tutte le truppe alla volta dei Morini, perché da quel punto sarebbe stato brevissimo il tragitto verso la Britannia. Ordinò poi

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gionibus et quam superiore aestate ad Veneticum bellum fecerat classem iubet convenire. Interim consilio eius cognito et per mercatores perlato ad Britannos a conpluribus insulae civitatibus ad eum legati veniunt, qui polliceantur obsides dare atque imperio populi Romani obtemperare. Quibus auditis liberaliter pollicitus hortatusque ut in ea sententia permanerent, eos domum remittit et cum iis una Commium, quem ipse Atrebatibus superatis regem ibi constituerat, cuius et virtutem et consilium probabat et quem sibi fidelem esse arbitrabatur, cuiusque auctoritas in his regionibus magni habebatur, mittit. Huic imperat quas possit adeat civitates horteturque ut populi Romani fidem sequantur, seque celeriter eo venturum nuntiet. Volusenus perspectis regionibus omnibus, quantum ei facultatis dari potuit qui navi egredi ac se barbaris committere non auderet, quinto die ad Caesarem revertitur quaeque ibi perspexisset renuntiat. XXII. Dum in his locis Caesar navium parandarum causa moratur, ex magna parte Morinorum ad eum legati venerunt, qui se de superioris temporis consilio excusarent, quod homines barbari et nostrae consuetudinis imperiti bellum populo Romano fecissent, seque ea quae imperasset facturos pollicerentur. Hoc sibi Caesar satis oportune accidisse arbitratus, quod neque post tergum hostem relinquere volebat neque belli gerendi propter anni tempus facultatem habebat neque has tantularum rerum occupationes Britanniae anteponendas iudicabat, magnum iis numerum obsidum imperat. Quibus adductis eos in fidem recipit. Navibus circiter LXXX onerariis coactis constratisque, quot satis esse ad duas transportandas legiones existimabat, quod praeterea navium longarum habebat quaestori, legatis praefectisque

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che tutte le navi che si trovavano nelle regioni vicine e la flotta che aveva fatto costruire l’estate prima per la guerra contro i Veneti si radunassero in quel luogo. Ma poiché nel frattempo il suo piano fu risaputo e riferito dai mercanti ai Britanni, da molte città di quell’isola vennero a lui ambasciatori che promettevano ostaggi e ubbidienza al popolo romano. Cesare li ascoltò, con benevolenza, li esortò a mantenere i loro propositi e li fece ritornare in patria; mandò con loro Commio, da lui stesso, dopo la vittoria sugli Atrebati, nominato re di quel popolo, che egli stimava per valore e senno, che credeva fedele amico e che godeva di grande prestigio in quelle regioni. Incaricò costui di andare in tutte le città dove potesse arrivare, per esortarle a far atto di dedizione ai Romani e annunziare il suo imminente arrivo. Voluseno, dopo cinque giorni, ispezionato il tratto di costa che poté (non osava però scendere dalle navi e avventurarsi tra i barbari) ritornò da Cesare e gli riferì ciò che aveva saputo. XXII. Mentre Cesare si tratteneva in quella zona per allestire le navi, gli si presentarono ambasciatori da parte di molte genti dei Morini, per scusarsi della loro condotta precedente, quando essi, barbari rudi e ignari delle nostre abitudini di clemenza, avevano fatto guerra al popolo romano e per promettere di eseguire qualunque ordine. Cesare ritenne ciò molto opportuno, perché non voleva lasciarsi un nemico alle spalle e non aveva tempo, data la stagione, di fare una guerra, né giudicava di dover dare a cose di poca importanza la precedenza rispetto alla sua impresa in Britannia: ordinò perciò che gli consegnassero un rilevante numero di ostaggi. Quando gli furono portati, prese i Morini sotto la sua protezione. Dopo aver procurato e radunato circa ottanta navi da carico, numero che credeva sufficiente per il trasporto di due legioni, distribuì al questore, ai legati ed ai

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distribuit. Huc accedebant XVIII onerariae naves, quae ex eo loco a milibus passuum octo vento tenebantur quo minus in eundem portum venire possent; has equitibus tribuit. Reliquum exercitum Q. Titurio Sabino et L. Aurunculeio Cottae legatis in Menapios atque in eos pagos Morinorum ab quibus ad eum legati non venerant ducendum dedit; P. Sulpicium Rufum legatum cum eo praesidio quod satis esse arbitrabatur portum tenere iussit. XXIII. His constitutis rebus nactus idoneam ad navigandum tempestatem tertia fere vigilia naves solvit equitesque in ulteriorem portum progredi et naves conscendere et se sequi iussit. A quibus cum paulo tardius esset administratum, ipse hora diei circiter quarta cum primis navibus Britanniam attigit atque ibi in omnibus collibus expositas hostium copias armatas conspexit. Cuius loci haec erat natura atque ita montium angustiis mare continebatur, uti ex locis superioribus in litus telum adigi posset. Hunc ad egrediendum nequaquam idoneum locum arbitratus, dum reliquae naves eo convenirent ad horam nonam in ancoris expectavit. Interim legatis tribunisque militum convocatis et quae ex Voluseno cognovisset et quae fieri vellet ostendit monuitque, ut rei militaris ratio, maxime ut maritimae res postularent, ut quae celerem atque instabilem motum haberent, ad nutum et ad tempus omnes res ab iis administrarentur. His dimissis et ventum et aestum uno tempore nactus secundum dato signo et sublatis ancoris circiter milia passuum septem ab eo loco progressus aperto ac plano litore naves constituit. XXIV. At barbari consilio Romanorum cognito prae-

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prefetti tutte le navi da guerra che ancora aveva. C’erano inoltre diciotto navi da carico a otto miglia, a cui il vento contrario impediva di raggiungere il porto stabilito; Cesare le assegnò alla cavalleria. Affidò poi il rimanente esercito a Quinto Titurio Sabino e Lucio Aurunculeio Cotta, suoi legati, perché andassero nelle terre dei Menapi e nelle zone dei Morini che non gli avevano mandato ambascerie: dispose, infine, che il legato Publio Sulpicio Rufo presidiasse il posto con il numero di uomini che fosse ritenuto sufficiente. XXIII. Presi questi provvedimenti, poiché il tempo era favorevole alla navigazione, salpò, verso la mezzanotte, dopo aver ordinato ai cavalieri di raggiungere l’altro porto, imbarcarsi e seguirlo. Questi un po’ troppo lentamente eseguirono l’ordine; egli, invece, alle dieci circa del mattino raggiunse con le prime navi la costa britannica, costatando che su tutti i colli vicini erano schierate le truppe dei nemici in armi. In quel punto era tale la natura del terreno – con molti ripidi sovrastanti da vicino il mare – che i dardi lanciati dall’alto potevano raggiungere la spiaggia. Cesare capì che non c’era nessun punto adatto allo sbarco e, anche per aspettare che arrivassero le altre navi, rimase ancorato fino alle tre pomeridiane. Frattanto, riuniti i legati e i tribuni militari, comunicò le informazioni avute da Voluseno e i suoi propositi, e raccomandò che ogni ordine fosse eseguito secondo il segnale ricevuto e al momento voluto, come richiede la tattica di guerra e specialmente della guerra navale, nella quale ogni movimento è veloce e instabile. Dopo averli congedati, essendo contemporaneamente favorevoli il vento e la marea, diede il segnale e, tolte le ancore, avanzò di circa sette miglia, accostando le navi in un punto in cui il lido era aperto e piano. XXIV. Ma i barbari, che si erano accorti della manovra

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misso equitatu et essedariis, quo plerumque genere in proeliis uti consuerunt, reliquis copiis subsecuti nostros navibus egredi prohibebant. Erat ob has causas summa difficultas, quod naves propter magnitudinem nisi in alto constitui non poterant, militibus autem ignotis locis, impeditis manibus, magno et gravi onere armorum oppressis simul et de navibus desiliendum et in fluctibus consistendum et cum hostibus erat pugnandum, cum illi aut ex arido aut paulum in aquam progressi omnibus membris expeditis, notissimis locis audacter tela conicerent et equos insuefactos incitarent. Quibus rebus nostri perterriti atque huius omnino generis pugnae imperiti non eadem alacritate ac studio quo in pedestribus uti proeliis consuerant utebantur. XXV. Quod ubi Caesar animadvertit, naves longas, quarum et species erat barbaris inusitatior et motus ad usum expeditior, paulum removeri ab onerariis navibus et remis incitari et ad latus apertum hostium constitui atque inde fundis, sagittis, tormentis hostes propelli ac submoveri iussit; quae res magno usui nostris fuit. Nam et navium figura et remorum motu et inusitato genere tormentorum permoti barbari constiterunt ac paulum modo pedem rettulerunt. At nostris militibus cunctantibus, maxime propter altitudinem maris, qui decimae legionis aquilam ferebat, obtestatus deos, ut ea res legioni feliciter eveniret, «desilite» inquit «commilitones, nisi vultis aquilam hostibus prodere: ego certe meum rei publicae atque imperatori officium praestitero». Hoc cum

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e avevano già mandato avanti la cavalleria e i carri, mezzi che per lo più impiegano nelle battaglie, giunsero in massa e cercarono di impedire ai nostri lo sbarco. Grande era la difficoltà per questa operazione perché le navi si erano dovute fermare per forza ad una certa distanza dalla spiaggia a causa delle loro dimensioni e i soldati, che non conoscevano i luoghi e avevano le mani impacciate e legate dalla mole e dal peso delle armi, dovevano contemporaneamente saltare giù dalle navi, trovare un punto adatto per fermarsi in mezzo all’acqua e combattere con i nemici: questi invece erano all’asciutto o di poco dentro l’acqua, avevano il corpo libero da ogni impaccio, conoscevano punto per punto quella spiaggia e potevano audacemente lanciare dardi ed incitare i cavalli, anch’essi abituati a questo genere di battaglia. I nostri, atterriti da tutte queste difficoltà e senza esperienza di combattimenti di questa specie, non avevano la stessa prontezza e lo stesso slancio che di solito dimostravano nei combattimenti terrestri. XXV. Appena Cesare si accorse di ciò, diede ordine che le navi da guerra, non conosciute dai barbari e più agili nella navigazione, si allontanassero dalle navi da carico e, mosse dai remi, si portassero verso il fianco destro, scoperto, del nemico e che cercassero di respingerlo mettendo in azione le loro armi da gitto: fionde, dardi, baliste. Questa manovra portò grande vantaggio ai nostri. Infatti i barbari, colpiti dall’aspetto delle navi, dall’impiego dei remi e dall’insolita specie di armi, si fermarono, poi ripiegarono alquanto. E mentre i nostri soldati ancora indugiavano, soprattutto per timore della profondità del mare, l’alfiere della decima legione invocò gli dèi per il successo in quella impresa e «Saltate giù,» disse «o compagni, se non volete consegnare la vostra aquila ai nemici; io, da parte mia, farò il mio dovere per Roma e per il nostro comandante». Appena

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voce magna dixisset, se ex navi proiecit atque in hostes aquilam ferre coepit. Tum nostri cohortati inter se ne tantum dedecus admitteretur universi ex navi desiluerunt. Hos item ex proximis [primis] navibus cum conspexissent, subsecuti hostibus adpropinquarunt. XXVI. Pugnatum est ab utrisque acriter. Nostri tamen quod neque ordines servare neque firmiter insistere neque signa subsequi poterant atque alius alia ex navi quibuscumque signis occurrerat se adgregabat, magnopere perturbabantur; hostes vero notis omnibus vadis, ubi ex litore aliquos singulares ex navi egredientes conspexerant, incitatis equis impeditos adoriebantur, plures paucos circumsistebant, alii ab latere aperto in universos tela coniciebant. Quod cum animadvertisset Caesar, scaphas longarum navium, item speculatoria navigia militibus compleri iussit et quos laborantes conspexerat, his subsidia submittebat. Nostri, simul in arido constiterunt, suis omnibus consecutis in hostes impetum fecerunt atque eos in fugam dederunt; neque longius prosequi potuerunt, quod equites cursum tenere atque insulam capere non potuerant. Hoc unum ad pristinam fortunam Caesari defuit. XXVII. Hostes proelio superati, simul atque se ex fuga receperunt, statim ad Caesarem legatos de pace miserunt; sese obsides daturos quaeque imperasset facturos [esse] polliciti sunt. Una cum his legatis Commius Atrebas venit, quem supra demonstraveram a Caesare in Britanniam praemissum. Hunc illi e navi egressum, cum

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ebbe pronunciate queste parole ad alta voce, si gettò giù dalla nave e cominciò ad avanzare contro il nemico. Allora i soldati, esortandosi a vicenda a non permettere tanto disonore, saltarono giù dalle navi. Quelli delle navi vicine, come li videro, li seguirono e si lanciarono sui nemici. XXVI. Si combatté con accanimento da entrambe le parti. Ma i nostri, poiché non potevano conservare le formazioni, né stare saldamente al loro posto, né seguire le proprie insegne (provenendo da diverse navi si aggregavano ai vessilli cui si trovavano accanto), erano molto in disordine; mentre i nemici, che conoscevano tutti i bassifondi, quando dal lido vedevano gruppi isolati che scendevano dalle navi, correndo a cavallo, li coglievano mentre erano impacciati dal peso delle armi e dell’equipaggiamento e in molti circondavano un esiguo gruppo, mentre altri sulla nostra destra lanciavano dardi contro la massa dei nostri. Cesare se ne accorse e subito ordinò che dei soldati salissero sui battelli delle navi da guerra e altri sulle imbarcazioni da vedetta e li mandò in aiuto a quelli che vedeva in difficoltà. I nostri, appena raggiunta la spiaggia, riformati i reparti, attaccarono i nemici e li misero in fuga: ma non li poterono inseguire molto lontano, perché i cavalieri non avevano potuto tenere la giusta rotta e giungere all’isola. Questo solo mancò perché Cesare avesse anche quella volta la solita fortuna. XXVII. I nemici, vinti così in battaglia, appena poterono riunirsi dopo la fuga, mandarono ambasciatori a Cesare per chiedergli la pace; promisero di dare ostaggi, di eseguire qualunque suo ordine. Insieme con questi ambasciatori venne anche quel Commio atrebate che, come ho già detto, era stato mandato da Cesare in Britannia. Costui, appena sceso dalla nave, mentre riferiva co-

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ad eos oratoris modo Caesaris mandata deferret, comprehenderant atque in vincula coniecerant; tum proelio facto remiserunt et in petenda pace eius rei culpam in multitudinem coniecerunt et propter imprudentiam ut ignosceretur petiverunt. Caesar questus quod, cum ultro in continentem legatis missis pacem ab se petissent, bellum sine causa intulissent, ignoscere inprudentiae dixit obsidesque imperavit; quorum illi partem statim dederunt, partem ex longinquioribus locis arcessitam paucis diebus sese daturos dixerunt. Interea suos remigrare in agros iusserunt, principesque undique convenire et se civitatesque suas Caesari commendare coeperunt. XXVIII. His rebus pace confirmata post diem quartum quam est in Britanniam ventum naves XVIII, de quibus supra demonstratum est, quae equites sustulerant, ex superiore portu leni vento solverunt. Quae cum adpropinquarent Britanniae et ex castris viderentur, tanta tempestas subito coorta est, ut nulla earum cursum tenere posset, sed aliae eodem unde erant profectae referrentur, aliae ad inferiorem partem insulae, quae est propius solis occasum, magno suo cum periculo deicerentur; quae tamen ancoris iactis cum fluctibus complerentur, necessario adversa nocte in altum provectae continentem petierunt. XXIX. Eadem nocte accidit ut esset luna plena, qui dies maritimos aestus maximos in Oceano efficere consuevit, nostrisque id erat incognitum. Ita uno tempore et longas naves quibus Caesar exercitum transportandum

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me legato il messaggio di Cesare, era stato preso e incarcerato dai barbari: ma ora, dopo la battaglia, essi lo avevano rimandato libero. Nel chiedere la pace, attribuirono alla violenza della folla la colpa del loro atto illegale e chiesero di essere perdonati in considerazione della loro ignoranza. Cesare fece le sue lagnanze perché essi, dopo aver mandato sul continente di propria iniziativa dei messi per chiedergli la pace, avevano poi senza ragione cominciata la guerra; disse che perdonava alla loro ignoranza e impose la consegna di ostaggi; i barbari ne consegnarono una parte subito e promisero di presentare al più presto gli altri che dovevano far venire da luoghi più lontani. Frattanto ordinarono ai loro armati di ritornare ai campi, e i capi cominciarono ad arrivare da ogni parte per raccomandare a Cesare se stessi e le loro città. XXVIII. Quando già la pace era stata fatta a queste condizioni, quattro giorni dopo che i Romani erano arrivati in Britannia, anche le diciotto navi di cui si è parlato, che avevano a bordo i cavalieri, salparono con leggero vento da un porto più lontano di quello da cui era partito Cesare. Quando furono in prossimità della Britannia e già erano viste dal nostro accampamento, all’improvviso scoppiò una tempesta così forte che nessuna poté più mantenere la rotta: alcune furono risospinte nella direzione da cui venivano, altre furono sbattute con grande pericolo verso la parte sud-ovest dell’isola; altre tentarono di ancorarsi, ma, data la furia del mare, dovettero, sebbene fosse notte, riprendere il largo e finirono per raggiungere il continente. XXIX. In quella stessa notte era luna piena, tempo in cui nell’Oceano sono più sensibili le alte maree, e ciò i nostri non sapevano. Perciò le navi da guerra, che erano servite per il trasporto dell’esercito e che erano state ti-

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curaverat quasque in aridum subduxerat aestus complet, et onerarias, quae ad ancoras erant deligatae, tempestas adflictabat, neque ulla nostris facultas aut administrandi aut auxiliandi dabatur. Compluribus navibus fractis reliquae cum essent funibus, ancoris reliquisque armamentis amissis ad navigandum inutiles, magna, id quod necesse erat accidere, totius exercitus perturbatio facta est. Neque enim naves erant aliae, quibus reportari possent, et omnia deerant quae ad reficiendas naves erant usui et, quod omnibus constabat hiemari in Gallia oportere, frumentum his in locis in hiemem provisum non erat. XXX. Quibus rebus cognitis principes Britanniae, qui post proelium ad Caesarem convenerant, inter se conlocuti, cum equites et naves et frumentum Romanis deesse intellegerent et paucitatem militum ex castrorum exiguitate cognoscerent, quae hoc erant etiam angustiora quod sine impedimentis Caesar legiones transportaverat, optimum factu esse duxerunt rebellione facta frumento commeatuque nostros prohibere et rem in hiemem producere, quod his superatis aut reditu interclusis neminem postea belli inferendi causa in Britanniam transiturum confidebant. Itaque rursus coniuratione facta paulatim ex castris discedere et suos clam ex agris deducere coeperunt. XXXI. At Caesar, etsi nondum eorum consilia cognoverat, tamen et ex eventu navium suarum et ex eo quod obsides dare intermiserant fore id quod accidit suspicabatur. Itaque ad omnes casus subsidia comparabat. Nam et frumentum ex agris cotidie in castra conferebat et

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rate in secco, si riempirono d’acqua, mentre contemporaneamente quelle da carico, che erano ancorate, venivano sbattute dalla tempesta e i nostri non avevano alcuna possibilità di manovrare né di portare soccorsi. Molte navi furono rovinate mentre le altre, per la perdita delle funi, delle àncore e degli altri attrezzi erano praticamente inutilizzabili: allora, come suole accadere, un grande turbamento si diffuse in tutto l’esercito. Infatti, non vi erano altre navi di cui servirsi per il ritorno, né materiale per poter riparare quelle danneggiate, e non erano state fatte in quel luogo provviste di grano, ritenendo che si sarebbe passato l’inverno in Gallia. XXX. I capi della Britannia che si erano presentati dopo la battaglia a Cesare vennero a conoscenza di queste difficoltà e cominciarono a confabulare tra loro. Vedevano che ai Romani mancavano cavalieri, navi, approvvigionamenti, e giudicando dalla grandezza dell’accampamento ritenevano che fossero in pochi (il campo era modesto anche perché le legioni erano venute senza il completo equipaggiamento); allora pensarono che sarebbe stata cosa ottima per loro ricominciare la guerra e, impedendo ai nostri i rifornimenti, prolungare le ostilità fino all’inverno; quando avessero vinto i Romani e impedito loro il ritorno, nessuno, pensavano, avrebbe più osato venire a portare guerra in Britannia. Così, strettisi di nuovo in lega, a poco a poco cominciarono a uscire dall’accampamento e a radunare di nascosto i loro uomini dalle campagne. XXXI. Cesare però, sebbene non avesse ancora saputo nulla dei loro piani, tuttavia, data la rovina delle sue navi e considerando il fatto che i barbari non gli avevano più consegnato ostaggi, aveva il sospetto di quello che poi accadde. Perciò cercava di premunirsi per ogni evenienza. Ogni giorno faceva portare nell’accampamento

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quae gravissime adflictae erant naves, earum materia atque aere ad reliquas reficiendas utebatur et quae ad eas res erant usui ex continenti conportari iubebat. Itaque, cum summo studio a militibus administraretur, XII navibus amissis reliquis ut navigari commode posset effecit. XXXII. Dum ea geruntur, legione ex consuetudine una frumentatum missa, quae appellabatur septima, neque ulla ad id tempus belli suspicione interposita, cum pars hominum in agris remaneret, pars etiam in castra ventitaret, ii qui pro portis castrorum in statione erant Caesari nuntiaverunt pulverem maiorem quam consuetudo ferret in ea parte videri quam in partem legio iter fecisset. Caesar id quod erat suspicatus, aliquid novi a barbaris initum consilii, cohortes quae in stationibus erant secum in eam partem proficisci, ex reliquis duas in stationem cohortes succedere, reliquas armari et confestim se subsequi iussit. Cum paulo longius a castris processisset, suos ab hostibus premi atque aegre sustinere et conferta legione ex omnibus partibus tela coici animadvertit. Nam quod omni ex reliquis partibus demesso frumento pars una erat reliqua, suspicati hostes huc nostros esse venturos noctu in silvis delituerant: tum dispersos depositis armis in metendo occupatos subito adorti paucis interfectis reliquos incertis ordinibus perturbaverant, simul equitatu atque essedis circumdederant. XXXIII. Genus hoc est ex essedis pugnae. Primo per omnes partes perequitant et tela coniciunt atque ipso terrore equorum et strepitu rotarum ordines plerumque

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del grano dai campi, si serviva dei materiali e del bronzo ricavato dalle navi più danneggiate per riparare le altre e faceva venire dal continente tutto ciò che gli serviva a tale scopo. I soldati lavoravano con grande ardore; dodici furono le navi perdute, tutte le altre furono riparate in modo che potessero navigare convenientemente. XXXII. Mentre i Romani erano occupati in questi lavori, una legione, la settima, era stata mandata, secondo l’uso, a raccogliere frumento. Non vi era stato, fino ad allora, nessun sospetto di ostilità; parte dei barbari rimanevano nelle campagne, parte venivano anche nell’accampamento. Le sentinelle delle porte del campo annunziarono a Cesare che si vedeva una quantità di polvere maggiore del solito, nella direzione verso cui era andata la legione. Cesare sospettò subito ciò che stava succedendo, cioè qualche sorpresa, e diede ordine che le coorti che erano di guardia partissero con lui in quella direzione, che due delle rimanenti sostituissero quelle ai posti di guardia e tutte le altre si armassero e lo seguissero subito. Allontanatosi un poco dal campo, vide che i suoi, incalzati dai nemici, si trovavano in cattive condizioni e, strette le file, ricevevano dardi da ogni parte. I barbari, infatti, vedendo che il grano era stato tagliato dovunque tranne che in un certo punto, sospettando che i nostri vi sarebbero andati, si erano nascosti di notte nella selva e mentre i Romani, divisi fra loro, dopo aver deposto le armi, erano intenti alla mietitura, li avevano all’improvviso assaliti; ne avevano uccisi alcuni e dispersi gli altri che stentavano a schierarsi negli ordini soliti di combattimento, mentre contemporaneamente li avevano circondati con la cavalleria e i carri. XXXIII. Il modo di combattere con i carri è il seguente: dapprima i Britanni corrono qua e là, gettando dardi, e col terrore stesso che incutono i cavalli e con lo strepito

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perturbant, et cum se inter equitum turmas insinuaverunt, ex essedis desiliunt et pedibus proeliantur. Aurigae interim paulum ex proelio excedunt atque ita currus conlocant ut, si illi a multitudine hostium premantur, expeditum ad suos receptum habeant. Ita mobilitatem equitum, stabilitatem peditum in proeliis praestant, ac tantum usu cotidiano et exercitatione efficiunt, uti in declivi ac praecipiti loco incitatos equos sustinere et brevi moderari ac flectere et per temonem percurrere et in iugo insistere et se inde in currus citissime recipere consuerint. XXXIV. Quibus rebus perturbatis nostris novitate pugnae tempore oportunissimo Caesar auxilium tulit. namque eius adventu hostes constiterunt, nostri se ex timore receperunt. Quo facto ad lacessendum hostem et ad committendum proelium alienum esse tempus arbitratus suo se loco continuit et brevi tempore intermisso in castra legiones reduxit. Dum haec geruntur nostris omnibus occupatis qui erant in agris reliqui discesserunt. Secutae sunt continuo conplures dies continuae tempestates, quae et nostros in castris continerent et hostem a pugna prohiberent. Interim barbari nuntios in omnes partes dimiserunt paucitatemque nostrorum militum suis praedicaverunt et quanta praedae faciendae atque in perpetuum sui liberandi facultas daretur, si Romanos castris expulissent, demonstraverunt. His rebus celeriter magna multitudine peditatus equitatusque coacta ad castra venerunt. XXXV. Caesar etsi idem quod superioribus diebus acciderat fore videbat, ut, si essent hostes pulsi, celeritate

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delle ruote riescono per lo più a mettere lo scompiglio nelle schiere nemiche; poi si insinuano tra le formazioni di cavalleria e, saltati giù dai carri, combattono a piedi. Gli aurighi intanto, pian piano, escono dalla mischia e collocano i carri in modo che, se i loro compagni sono incalzati dai nemici, subito possono ripiegare su di essi e riprendere i loro posti. Così in battaglia hanno contemporaneamente la mobilità dei cavalieri e la stabilità dei fanti, e, per l’abilità acquistata con l’esercizio quotidiano, sono capaci di frenare anche in luogo scosceso i cavalli spinti al galoppo, di manovrare facilmente, di correre avanti, afferrare il giogo dei cavalli, e poi, sveltissimi, ritirarsi nei carri. XXXIV. Mentre i nostri erano disorientati da questa tattica, nuova per loro, Cesare, proprio nel momento opportuno, portò loro aiuto: i nemici al suo arrivo si arrestarono e i nostri si riebbero dalla paura. Ma Cesare, malgrado ciò, ritenne che quello non fosse il momento opportuno per incalzare il nemico e attaccare battaglia, perciò si fermò nel punto dove si trovava e dopo un po’ riportò la legione nel campo. Nel frattempo, mentre i nostri erano intenti ai loro lavori, tutti i Britanni che erano rimasti nelle campagne si allontanarono. Sopravvennero poi per parecchi giorni di seguito degli uragani che trattennero i nostri nell’accampamento e impedirono atti di ostilità da parte dei nemici. Questi, intanto, mandarono messi in tutte le direzioni per comunicare quanto poco numerosi erano i nostri, quanto bottino si poteva fare e che vi era la possibilità di rendersi liberi per sempre se si fossero scacciati i Romani dal campo. Così essi riuscirono a riunire rapidamente grandi forze di fanti e cavalieri e mossero contro l’accampamento romano. XXXV. Cesare sapeva che, come era accaduto già nei giorni precedenti, i nemici anche se fossero stati respinti

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periculum effugerent, tamen nactus equites circiter XXX, quos Commius Atrebas, de quo ante dictum est, secum transportaverat, legiones in acie pro castris constituit. Commisso proelio diutius nostrorum militum impetum hostes ferre non potuerunt ac terga verterunt. Quos tanto spatio secuti, quantum cursu et viribus efficere potuerunt, conplures ex iis occiderunt, deinde omnibus longe lateque aedificiis incensis se in castra receperunt. XXXVI. Eodem die legati ab hostibus missi ad Caesarem de pace venerunt. His Caesar numerum obsidum quem ante imperaverat duplicavit eosque in continentem adduci iussit, quod propinqua die aequinoctii infirmis navibus hiemi navigationem subiciendam non existimabat. Ipse idoneam tempestatem nactus paulo post mediam noctem naves solvit; quae omnes incolumes ad continentem pervenerunt; sed ex iis onerariae duae eosdem portus quos reliqui capere non potuerunt et paulo infra delatae sunt. XXXVII. Quibus ex navibus cum essent expositi milites circiter trecenti atque in castra contenderent, Morini, quos Caesar in Britanniam proficiscens pacatos reliquerat, spe praedae adducti primo non ita magno suorum numero circumsteterunt ac, si sese interfici nollent, arma ponere iusserunt. Cum illi orbe facto sese defenderent, celeriter ad clamorem hominum circiter milia sex convenerunt. Qua re nuntiata Caesar omnem ex castris equitatum suis auxilio misit. Interim nostri milites impetum hostium sustinuerunt atque amplius horis quattuor

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sarebbero sfuggiti al pericolo avvantaggiandosi della loro celerità. Tuttavia, riunì trenta cavalieri circa, che Commio atrebate, di cui abbiamo parlato, aveva portato al suo seguito e schierò le legioni davanti all’accampamento. Si impegnò tosto la battaglia, ma i nemici poco dopo il suo inizio, non riuscendo a sostenere l’attacco romano, volsero in fuga. I nostri li inseguirono di corsa fin dove lo consentirono tutte le loro forze, ne uccisero molti, poi, dopo aver incendiato da ogni parte tutte le abitazioni, fecero ritorno all’accampamento. XXXVI. In quello stesso giorno giunsero ambasciatori mandati dai Britanni a Cesare per chiedere la pace. Cesare raddoppiò il numero degli ostaggi che aveva chiesto precedentemente e ordinò che gli fossero portati nel continente perché non riteneva opportuno esporsi al pericolo di tempesta, con le sue navi piuttosto scadenti, intraprendendo la navigazione nel periodo vicino all’equinozio. Egli salpò in un momento di vento favorevole, poco dopo la mezzanotte. Tutte le navi raggiunsero incolumi il continente: due sole navi da carico non riuscirono ad entrare negli stessi porti in cui erano entrate le altre, e approdarono un po’ più lontano. XXXVII. Mentre i soldati appena sbarcati da queste navi (erano circa trecento) si dirigevano verso il campo, i Morini, che Cesare al momento di partire per la Britannia aveva lasciato sottomessi, sperando di fare bottino, in numero dapprima non molto grande, li circondarono ingiungendo loro di deporre le armi se non volevano essere tutti uccisi. I nostri si disposero in circolo, decisi a difendersi; allora, al grido di richiamo degli attaccanti, circa seimila altri Morini accorsero. Cesare, come lo seppe, mandò dal campo in aiuto dei suoi tutta la cavalleria. I soldati romani, frattanto, sostenevano l’attacco dei nemici, combattendo con grande tenacia per più di

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fortissime pugnaverunt et paucis vulneribus acceptis conplures ex his occiderunt. Postea vero quam equitatus noster in conspectum venit, hostes abiectis armis terga verterunt magnusque eorum numerus est occisus. XXXVIII. Caesar postero die T. Labienum legatum cum iis legionibus quas ex Britannia reduxerat in Morinos, qui rebellionem fecerant, misit. Qui cum propter siccitates paludum quo se reciperent non haberent, quo perfugio superiore anno erant usi, omnes fere in potestatem Labieni pervenerunt. At Q. Titurius et L. Cotta legati, qui in Menapiorum fines legiones duxerant, omnibus eorum agris vastatis, frumentis succisis, aedificiis incensis, quod Menapii se omnes in densissimas silvas abdiderant, se ad Caesarem receperunt. Caesar in Belgis omnium legionum hiberna constituit. Eo duae omnino civitates ex Britannia obsides miserunt, reliquae neglexerunt. His rebus gestis ex litteris Caesaris dierum viginti supplicatio a senatu decreta est.

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quattro ore; ebbero pochi feriti, ma uccisero molti dei barbari. Al sopraggiungere della cavalleria romana, i Morini gettarono le armi e si salvarono con la fuga. XXXVIII. Cesare il giorno dopo mandò il legato Tito Labieno con le legioni reduci dalla Britannia contro i Morini che avevano ricominciato la guerra. Costoro poiché non avevano, come l’anno precedente, la possibilità di rifugiarsi nelle paludi, che erano in secca, quasi tutti cedettero a Labieno. I legati Q. Titurio e L. Cotta, che avevano condotto le legioni nelle terre dei Menapi, ritornarono da Cesare dopo avere devastato i campi, tagliato il frumento, incendiate le case, mentre gli abitanti si erano nascosti entro foltissimi boschi. Cesare stabilì gli accampamenti invernali per tutte le legioni nelle terre dei Belgi. Là arrivarono gli ostaggi da parte di due sole genti della Britannia; tutte le altre trascurarono di mandarli. Quando la notizia di queste imprese giunse a Roma con lettere di Cesare, fu decretato dal senato un rito di ringraziamento agli dèi per venti giorni.

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I. L. Domitio Ap. Claudio consulibus discedens ab hibernis Caesar in Italiam, ut quotannis facere consuerat, legatis imperat quos legionibus praefecerat uti quam plurimas possent hieme naves aedificandas veteresque reficiendas curarent. Earum modum formamque demonstrat. Ad celeritatem onerandi subductionisque paulo facit humiliores quam quibus in nostro mari uti consuevimus, atque id eo magis quod propter crebras commutationes aestuum minus magnos ibi fluctus fieri cognoverat, ad onera ac multitudinem iumentorum transportandam paulo latiores quam quibus in reliquis utimur maribus. Has omnes actuarias imperat fieri, quam ad rem multum humilitas adiuvat. Ea quae sunt usui ad armandas naves ex Hispania adportari iubet. Ipse conventibus Galliae citerioris peractis in Illyricum proficiscitur, quod a Pirustis finitimam partem provinciae incursionibus vastari audiebat. Eo cum venisset, civitatibus milites imperat certumque in locum convenire iubet. Qua re nuntiata Pirustae legatos ad eum mittunt, qui doceant nihil earum rerum publico factum consilio,

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I. Nell’anno del consolato di L. Domizio e Ap. Claudio,6 prima di partire dai quartieri d’inverno verso l’Italia (cosa che ogni anno faceva), Cesare diede ordine ai legati che aveva messo a capo delle legioni di far costruire durante l’inverno quante più navi potevano e di riparare quelle avariate. Fece per le nuove navi il progetto e il disegno. Le ideò un po’ più basse di quelle che di solito adoperiamo nei nostri mari, per poterle più celermente caricare e trarle in secco e anche perché s’era reso conto che nel continuo alternarsi delle maree le onde erano nell’Oceano meno alte; le volle un po’ più larghe, perché fossero adatte a trasportare grossi carichi o numerosi cavalli e bestie da soma. Le fece fare di tipo leggero, a vele e a remi, disposizione facilitata dalla bassa altezza dei bordi. Ordinò di importare dalla Spagna i materiali necessari per le attrezzature. Dopo aver tenute le sessioni giudiziarie della Gallia citeriore, Cesare partì per l’Illirico, perché gli avevano riferito che la zona di confine della Provincia era devastata da incursioni dei Pirusti. Appena giunto, ordinò che le città chiamassero alle armi le truppe e che queste si riunissero in un dato luogo. I Pirusti, avuta notizia di ciò, gli mandarono ambasciatori per informarlo che nessuna di quelle incursioni era stata fatta per deliberazione pubblica e per dir6

È il 54 a.C.

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seseque paratos esse demonstrant omnibus rationibus de iniuriis satisfacere. Percepta oratione eorum Caesar obsides imperat eosque ad certam diem adduci iubet; nisi ita fecerint, sese bello civitatem persecuturum demonstrat. Iis ad diem adductis ut imperaverat, arbitros inter civitates dat, qui litem aestiment poenamque constituant. II. His confectis rebus conventibusque peractis in citeriorem Galliam revertitur atque inde ad exercitum proficiscitur. Eo cum venisset, circumitis omnibus hibernis singulari militum studio in summa omnium rerum inopia circiter sexcentas eius generis cuius supra demonstravimus naves et longas XXVIII invenit instructas neque multum abesse ab eo quin paucis diebus deduci possint. Conlaudatis militibus atque iis qui negotio praefuerant, quid fieri velit ostendit atque omnes ad Portum Itium convenire iubet, quo ex portu commodissimum in Britanniam traiectum esse cognoverat, circiter milium passuum XXX [transmissum] a continenti: huic rei quod satis esse visum est militum reliquit. Ipse cum legionibus expeditis IIII et equitibus DCCC in fines Treverorum proficiscitur, quod hi neque ad concilia veniebant neque imperio parebant Germanosque Transrhenanos sollicitare dicebantur. III. Haec civitas longe plurimum totius Galliae equitatu valet magnasque habet copias peditum, Rhenumque, ut

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gli che essi erano pronti a dargli soddisfazione di quelle offese in tutti i modi. Cesare, dopo averli ascoltati, chiese ostaggi e ordinò che gli fossero consegnati in un determinato giorno; li avvertì che se non avessero ubbidito, avrebbe fatto loro la guerra. Quando gli ostaggi gli furono consegnati, secondo il suo ordine, assegnò dei giudici che fossero arbitri tra quelle genti, stimando il valore dei danni e fissando le somme dovute per risarcimento. II Portata a termine quest’operazione e concluse le sedute giudiziarie, ritornò nella Gallia citeriore e di lì partì per raggiungere l’esercito. Al suo arrivo, ispezionati tutti gli accampamenti, trovò che per l’entusiasmo dei soldati, veramente eccezionale in così grandi difficoltà, erano state costruite circa seicento navi del tipo che abbiamo sopra descritto e ventotto navi da guerra: esse erano quasi pronte per essere varate. Fece una pubblica lode ai soldati e a quelli che avevano diretto i lavori, poi chiarì il suo piano e ordinò che tutte le navi raggiungessero Porto Izio;7 sapeva, infatti, che partendo da quel porto si poteva comodamente raggiungere la Britannia con un tragitto di sole trenta miglia dal continente. Lasciò indietro il numero di soldati che ritenne sufficiente a questa operazione, ed egli con quattro legioni senza bagagli e con ottocento cavalieri partì verso le terre dei Treveri, perché costoro non si erano presentati alle assemblee, né ubbidivano ai suoi ordini, anzi si diceva che sollecitassero a entrare in Gallia i Germani d’oltre Reno. III. I Treveri, fra tutte le popolazioni della Gallia, sono i più potenti per forza di cavalleria ed hanno anche una numerosa fanteria; essi inoltre, come ho già detto, arri7

Oggi Boulogne-sur-mer.

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supra demonstravimus, tangit. In ea civitate duo de principatu inter se contendebant, Indutiomarus et Cingetorix; ex quibus alter, simul atque de Caesaris legionumque adventu cognitum est, ad eum venit, se suosque omnes in officio futuros neque ab amicitia populi Romani defecturos confirmavit quaeque in Treveris gererentur ostendit. At Indutiomarus equitatum peditatumque cogere iisque qui per aetatem in armis esse non poterant in silvam Arduennam abditis, quae ingenti magnitudine per medios fines Treverorum a flumine Rheno ad initium Remorum pertinet, bellum parare instituit. Sed postea quam non nulli principes ex ea civitate et familiaritate Cingetorigis adducti et adventu nostri exercitus perterriti ad Caesarem venerunt et de suis privatim rebus ab eo petere coeperunt, quoniam civitati consulere non possent, veritus ne ab omnibus desereretur, [Induciomarus] legatos ad Caesarem mittit: sese idcirco ab suis discedere atque ad eum venire noluisse, quo facilius civitatem in officio contineret, ne omnis nobilitatis discessu plebs propter inprudentiam laberetur: itaque esse civitatem in sua potestate, seque, si Caesar permitteret, ad eum in castra venturum, suas civitatisque fortunas eius fidei permissurum. IV. Caesar, etsi intellegebat qua de causa ea dicerentur quaeque eum res ab instituto consilio deterreret, tamen, ne aestatem in Treveris consumere cogeretur omnibus rebus ad Britannicum bellum conparatis, Indutiomarum ad se cum ducentis obsidibus venire iussit. His adductis,

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vano col loro territorio fino al Reno. In questo paese due uomini gareggiavano tra loro per ottenere la supremazia sui concittadini, Indutiomaro e Cingetorige: quest’ultimo, appena giunse notizia dell’arrivo di Cesare e delle legioni, si presentò al duce romano facendo atto di sottomissione per sé e per i suoi, affermando che non avrebbero abbandonato l’amicizia del popolo romano; quindi rivelò apertamente tutto ciò che i Treveri facevano. Invece Indutiomaro cominciò a fare preparativi di guerra, radunando fanteria e cavalleria e portando tutti quelli che non erano atti alle armi in luoghi sicuri, nella selva delle Ardenne, che nel territorio dei Treveri si estende su una vastissima superficie, dal Reno al confine coi Remi. Ma ben presto parecchi principi, in parte spinti dai legami di amicizia con Cingetorige, in parte dal timore per l’arrivo del nostro esercito, si presentarono a Cesare, invocando la pace e trattando ciascuno i propri interessi, privatamente, giacché non potevano prendere iniziative riguardo all’insieme del popolo; allora Indutiomaro, temendo di essere abbandonato da tutti, mandò messi a Cesare. Egli non aveva voluto lasciare i suoi e presentarglisi personalmente – così gli fece dire – per mantenere più facilmente a freno la sua gente, per il timore che, se tutti i nobili si fossero allontanati, il popolo, ignorante com’era, potesse essere sviato; tutta la popolazione era, allora, sotto il suo controllo ed egli stesso, se Cesare lo volesse, era pronto a venire nell’accampamento per mettersi nelle sue mani con ogni fortuna dei Treveri. IV. Cesare, sebbene comprendesse per quale ragione Indutiomaro gli avesse detto ciò e che cosa lo aveva distolto dal disegno di prima, pure, per non perdere tutta l’estate fra i Treveri quando aveva preparato già ogni cosa per la spedizione in Britannia, comandò ad Indutiomaro di presentarglisi con duecento ostaggi. Quando que-

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in iis filio propinquisque eius omnibus, quos nominatim evocaverat, consolatus Indutiomarum hortatusque est uti in officio maneret; nihilo tamen setius principibus Treverorum ad se convocatis hos singillatim Cingetorigi conciliavit, quod cum merito eius a se fieri intellegebat, tum magni interesse arbitrabatur eius auctoritatem inter suos quam plurimum valere, cuius tam egregiam in se voluntatem perspexisset. Id tulit factum graviter Indutiomarus, suam gratiam inter suos minui, et qui iam ante inimico in nos animo fuisset, multo gravius hoc dolore exarsit. V. His rebus constitutis Caesar ad Portum Itium cum legionibus pervenit. Ibi cognoscit LX naves, quae in Meldis factae erant, tempestate reiectas cursum tenere non potuisse atque eodem unde erant profectae revertisse; reliquas paratas ad navigandum atque omnibus rebus instructas invenit. Eodem equitatus totius Galliae convenit numero milia quattuor principesque ex omnibus civitatibus; ex quibus perpaucos, quorum in se fidem perspexerat, relinquere in Gallia, reliquos obsidum loco secum ducere decreverat, quod cum ipse abesset motum Galliae verebatur. VI. Erat una cum ceteris Dumnorix Haeduus, de quo ab nobis antea dictum est. Hunc secum habere in primis constituerat, quod eum cupidum rerum novarum, cupidum imperii, magni animi, magnae inter Gallos auctoritatis cognoverat. Accedebat huc, quod iam in concilio Haeduorum Dumnorix dixerat sibi a Caesare regnum civitatis deferri; quod dictum Haedui graviter ferebant, neque recusandi aut deprecandi causa legatos ad Caesarem mittere audebant. Id factum ex suis hospitibus Caesar cognoverat. Ille omnibus primo precibus petere con-

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sti arrivò avendo con sé il figlio e tutti i suoi parenti che Cesare aveva chiesto nominativamente, lo trattò cortesemente e lo esortò a mantenere la parola data; poco dopo, convocati i principi dei Treveri, li fece riconciliare uno per uno con Cingetorige, sia perché comprendeva che ciò era dovuto ai meriti di quel capo, sia perché sapeva che egli avrebbe ricavato grande utilità se fra quella gente fosse stata il più possibile sentita l’autorità di uno che gli aveva dato così grandi prove di devozione. Indutiomaro vide di mal occhio che il proprio prestigio presso il suo popolo venisse diminuito; egli già prima ci era ostile, ma questa contrarietà aumentò il suo risentimento verso di noi. V. Sistemate così le cose, Cesare giunse con le sue legioni a Porto Izio; là seppe che le quaranta navi costruite nella terra dei Meldi per una tempesta non avevano potuto seguire la rotta, ma erano tornate al punto di partenza. Trovò tutte le altre pronte alla navigazione e allestite completamente. Giunsero anche i cavalieri di tutta la Gallia in numero di quattromila e i principi di tutti i popoli. Cesare stabilì di lasciare in Gallia pochissimi di costoro, quelli di cui aveva sperimentato la fedeltà, e di portare con sé gli altri come ostaggi, perché temeva, durante la sua assenza, qualche insurrezione. VI. Vi era, insieme agli altri, Dumnorige eduo, di cui abbiamo già parlato, che Cesare aveva stabilito di tenere con sé, primo fra tutti, perché lo sapeva avido di novità e di autorità, coraggioso e molto ascoltato tra i Galli. Tra l’altro, in un concilio di Edui, Dumnorige aveva detto che da Cesare gli era stato offerto di essere re del suo popolo: cosa che gli Edui mal sopportavano, pur non osando mandare incaricati per fare opposizione e per pregare Cesare di rinunciare a quel progetto; questi però aveva saputo tutto dai suoi amici. Dumnorige dap-

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tendit ut in Gallia relinqueretur, partim quod insuetus navigandi mare timeret, partim quod religionibus inpediri sese diceret. Postea quam id obstinate sibi negari vidit, omni spe inpetrandi adempta principes Galliae sollicitare, metu territare, sevocare singulos hortarique coepit uti in continenti remanerent; non sine causa fieri ut Gallia omni nobilitate spoliaretur; id esse consilium Caesaris, ut quos in conspectu Galliae interficere vereretur, hos omnes in Britanniam traductos necaret; fidem reliquis interponere, ius iurandum poscere ut, quod esse ex usu Galliae intellexissent, communi consilio administrarent. Haec a conpluribus ad Caesarem deferebantur. VII. Qua re cognita Caesar, quod tantum civitati Haeduae dignitatis tribuebat, coercendum atque deterrendum quibuscumque rebus posset Dumnorigem statuebat; quod longius eius amentiam progredi videbat, prospiciendum ne quid sibi ac rei publicae nocere posset. Itaque dies circiter XXV in eo loco commoratus, quod chorus ventus navigationem impediebat, qui magnam partem omnis temporis in his locis flare consuevit, dabat operam utin officio Dumnorigem contineret, nihilo tamen setius omnia eius consilia cognosceret: tandem idoneam nactus tempestatem milites equitesque conscendere naves iubet. At omnium inpeditis animis Dumnorix cum equitibus Haeduorum a castris insciente Caesare domum discedere coepit. Qua re nuntiata Caesar

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prima cominciò a supplicarlo perché lo lasciasse in Gallia, col pretesto che, non avendo mai navigato, temeva il mare e perché motivi religiosi glielo impedivano. Ma quando vide che il permesso di rimanere gli veniva ostinatamente negato, perduta ogni speranza di ottenere il suo intento con le preghiere, cominciò a istigare i principi, a esortarli uno per uno a rimanere sul continente; li atterriva cercando di convincerli che non senza una precisa ragione i nobili venivano portati via dalla Gallia; quello era un piano premeditato da Cesare, per uccidere in Britannia coloro che non osava togliere di mezzo in Gallia; dava agli altri come garanzia la sua parola, richiedeva che con giuramenti promettessero che, come ormai era d’uso tra loro, ogni decisione venisse presa di comune accordo. Molti riferirono a Cesare queste macchinazioni. VII. Al corrente, quindi, di tanti maneggi Cesare, che attribuiva al popolo degli Edui grande importanza, pensò che doveva frenare e distogliere dal suo proposito Dumnorige con ogni mezzo possibile e provvedere, visto che la sua follia era andata tanto oltre, a che non portasse danno a lui e a Roma. Perciò, essendo costretto a rimanere in quel luogo per circa venticinque giorni, a causa del vento Coro8 che impediva la navigazione (è questo un vento che durante gran parte di ogni stagione soffia in quelle regioni), teneva a bada Dumnorige e contemporaneamente cercava di venire a conoscenza di tutti i suoi piani. Finalmente, quando il tempo gli sembrò propizio, comandò ai soldati e ai cavalieri di imbarcarsi. Ma mentre tutti avevano l’attenzione rivolta a questi preparativi, Dumnorige, all’insaputa di Cesare, si allontanò dal campo con i cavalieri edui, diretto in patria. Cesare, avutane notizia, interrotte le operazioni e rinviata la 8

Un vento di Nord ovest.

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intermissa profectione atque omnibus rebus postpositis magnam partem equitatus ad eum insequendum mittit retrahique imperat; si vim faciat neque pareat, interfici iubet, nihil hunc se absente pro sano facturum arbitratus qui praesentis imperium neglexisset. Ille autem revocatus resistere ac se manu defendere suorumque fidem inplorare coepit saepe clamitans liberum se liberaeque esse civitatis. Illi, ut erat imperatum, circumsistunt hominem atque interficiunt. at equites Haedui ad Caesarem omnes revertuntur. VIII. His rebus gestis Labieno in continenti cum tribus legionibus et equitum milibus duobus relicto, ut portus tueretur et rem frumentariam provideret, quaeque in Gallia gererentur cognosceret consiliumque pro tempore et pro re caperet, ipse cum quinque legionibus et pari numero equitum, quem in continenti reliquerat, ad solis occasum naves solvit et leni Africo provectus media circiter nocte vento intermisso cursum non tenuit et longius delatus aestu orta luce sub sinistra Britanniam relictam conspexit. Tum rursus aestus commutationem secutus remis contendit ut eam partem insulae caperet qua optimum esse egressum superiore aestate cognoverat. Qua in re admodum fuit militum virtus laudanda, qui vectoriis gravibusque navigiis non intermisso remigandi labore longarum navium cursum adaequarunt. Accessum est ad Britanniam omnibus navibus meridiano fere tempore, neque in eo loco hostis est visus; sed, ut postea Caesar ex captivis cognovit, cum magnae manus

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partenza, mandò all’inseguimento gran parte della cavalleria, con l’ordine di ricondurlo indietro ed anche di ucciderlo, se non avesse voluto ubbidire o avesse opposto resistenza; credeva infatti che non avrebbe certo agito come una persona assennata, in sua assenza, uno che osava trasgredire i suoi ordini mentre egli era ancora sul posto. Dumnorige, raggiunto ed invitato a ritornare, rifiutò, si richiamò alla fedeltà dei suoi, gridando ripetutamente che egli era un libero cittadino di una libera gente, e si difese con le armi. I Romani, secondo l’ordine ricevuto, lo circondarono e lo uccisero. I cavalieri edui tornarono tutti da Cesare. VIII. Sistemata questa faccenda, Cesare stabilì che Labieno rimanesse sul continente con tre legioni e duemila cavalieri, per sorvegliare il porto, provvedere ai rifornimenti di grano, informarsi di tutto ciò che si svolgesse in Gallia e disporre per quello che eventualmente le varie occasioni richiedessero; egli, con cinque legioni e un numero di cavalieri uguale a quello che lasciava in Gallia, salpò al tramonto mentre spirava un leggero vento di sud-ovest, chiamato Africo. Verso mezzanotte il vento cadde, la flotta non poté mantenere la rotta e dall’alta marea fu spinta lontano; all’alba Cesare vide che la Britannia era stata lasciata alla sua sinistra. Seguì, allora, per un po’ la nuova corrente determinata dal riflusso della marea, poi, a forza di remi, si diresse verso la parte dell’isola dove sapeva, dall’impresa dell’estate precedente, che più facile sarebbe stato lo sbarco. E veramente lodevole fu in questo viaggio lo spirito dei soldati che con navi da trasporto pesanti per i carichi completi, senza tralasciare un momento di remare, raggiunsero la velocità delle navi da guerra. Tutte le navi toccarono la Britannia circa a mezzogiorno, né alcun nemico fu visto in quel luogo. In realtà – Cesare lo seppe più tardi dai prigionieri – i Britanni si erano radunati là in

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eo convenissent, multitudine navium perterritae, quae cum annotinis privatisque, quas sui quisque commodi causa fecerat, amplius octingentae uno erant visae tempore, a litore discesserant ac se in superiora loca abdiderant. IX. Caesar exposito exercitu et loco castris idoneo capto, ubi ex captivis cognovit quo in loco hostium copiae consedissent, cohortibus decem ad mare relictis et equitibus trecentis, qui praesidio navibus essent, de tertia vigilia ad hostes contendit, eo minus veritus navibus quod in litore molli atque aperto deligatas ad ancoram relinquebat, ei praesidio navibusque Q. Atrium praefecit. Ipse noctu progressus milia passuum circiter XII hostium copias conspicatus est. Illi equitatu atque essedis ad flumen progressi ex loco superiore nostros prohibere et proelium committere coeperunt. Repulsi ab equitatu se in silvas abdiderunt locum nacti egregie et natura et opere munitum, quem domestici belli, ut videbatur, causa iam ante praeparaverant; nam crebris arboribus succisis omnes introitus erant praeclusi. Ipsi ex silvis rari propugnabant nostrosque intra munitiones ingredi prohibebant. At milites legionis septimae testudine facta et aggere ad munitiones adiecto locum ceperunt eosque ex silvis expulerunt paucis vulneribus acceptis. Sed eos fugientes longius Caesar prosequi vetuit, et quod loci naturam ignorabat, et quod magna parte diei consumpta munitioni castrorum tempus relinqui volebat.

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numerose schiere, ma atterriti da tutte quelle navi, che fra quelle dell’anno precedente e quelle private, che molti s’eran fatte costruire per propria comodità, erano più di ottocento e tutte erano comparse in uno stesso momento, avevano lasciato il litorale e si erano rifugiati sulle alture. IX. Cesare fece sbarcare l’esercito e scelse un luogo adatto per l’accampamento; poi, saputo da alcuni prigionieri dove si erano fermate le truppe dei Britanni, lasciate a presidio delle navi dieci coorti e trecento cavalieri, partì verso la mezzanotte alla volta dei nemici, senza alcun timore per le navi perché le lasciava ancorate in una zona dal fondo sabbioso e senza scogli; diede a Quinto Atrio il comando delle truppe addette alla tutela della flotta. Dopo avere marciato di notte per circa dodici miglia, incontrò le armate dei nemici. Costoro, avanzando con la cavalleria e con i carri dalle alture verso il fiume, cercarono di impedirci il passaggio e attaccarono battaglia. Respinti dalla cavalleria, si rifugiarono nelle selve, in una zona ottimamente protetta per posizione naturale e per opere dell’uomo, che sembravano risalire a epoca antecedente, certo preparate dai Britanni in vista di qualche guerra fra di loro: erano stati abbattuti molti alberi, disponendoli in modo da ostruire ogni accesso. I Britanni combattevano lanciando dardi dal folto degli alberi e alla spicciolata e impedivano ai nostri di avanzare nell’interno della foresta. Ma i legionari della settima legione, serrati e protetti da un tetto di scudi, riuscirono a fare un terrapieno fino alle difese e poterono prendere la posizione, scacciando i Britanni dalla selva, senza subire troppe perdite. Cesare vietò che l’inseguimento venisse spinto a fondo perché non conosceva i luoghi, e perché, trascorsa già buona parte della giornata, voleva dedicare il resto del tempo a fortificare il suo campo.

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X. Postridie eius diei mane tripertito milites equitesque in expeditionem misit, ut eos qui fugerant persequerentur. His aliquantum itineris progressis, cum iam extremi essent in prospectu, equites a Q. Atrio ad Caesarem venerunt, qui nuntiarent superiore nocte maxima coorta tempestate prope omnes naves adflictas atque in litus eiectas esse, quod neque ancorae funesque subsisterent, neque nautae gubernatoresque vim tempestatis pati possent: itaque ex eo concursu navium magnum esse incommodum acceptum. XI. His rebus cognitis Caesar legiones equitatumque revocari atque in itinere resistere iubet, ipse ad naves revertitur; eadem fere quae ex nuntiis litterisque cognoverat coram perspicit, sic ut amissis circiter XL navibus reliquae tamen refici posse magno negotio viderentur. Itaque ex legionibus fabros deligit et ex continenti alios arcessi iubet; Labieno scribit ut quam plurimas possit iis legionibus quae sint apud eum naves instituat. Ipse, etsi res erat multae operae ac laboris, tamen commodissimum esse statuit omnes naves subduci et cum castris una munitione coniungi. In his rebus circiter dies X consumit ne nocturnis quidem temporibus ad laborem militum intermissis. Subductis navibus castrisque egregie munitis easdem copias quas ante praesidio navibus relinquit, ipse eodem unde redierat proficiscitur. Eo cum venisset, maiores iam undique in eum locum copiae Britannorum convenerant summa imperii bellique administrandi communi consilio permissa Cassivellauno; cuius fines a maritimis civitatibus flumen dividit quod appellatur Tamesis, a mari circiter milia passuum LXXX. Huic

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X. La mattina seguente mandò, divisi in tre schiere, soldati e cavalieri, all’inseguimento dei Britanni fuggitivi, che già si erano molto allontanati. Stavano per essere raggiunte le ultime file, ormai visibili, quando arrivarono dei cavalieri mandati da Quinto Atrio ad annunziare a Cesare che nella notte precedente era scoppiata una violentissima tempesta, le navi ne avevano molto sofferto ed erano state sbattute sul lido, perché né le ancore né le funi avevano resistito ed i nocchieri e i timonieri nulla avevano potuto fare contro la violenza del mal tempo; grandi danni erano derivati dal cozzo delle navi fra loro. XI. Appena seppe ciò, Cesare mandò alle legioni e alla cavalleria l’ordine di tornare indietro e, se attaccati, di resistere senza interrompere la marcia. Egli stesso ritornò dove erano le navi e poté personalmente constatare le stesse cose che aveva appreso dalla lettera portatagli dai messi: circa quaranta navi erano perdute, le altre potevano essere riparate, ma con grande fatica. Fece fare, allora, tra le legioni la scelta degli operai, ne fece venire altri dal continente; ordinò a Labieno di allestire con le sue legioni il maggior numero possibile di navi. Pensò poi che la cosa migliore, seppure molto faticosa, fosse quella di trarre in secco tutte le navi e proteggerle con opere di fortificazione che le circondassero entro lo stesso recinto del campo. In questi lavori si impiegarono circa dieci giorni, senza interrompere la fatica neppure di notte. Poi, quando le navi furono tirate sulla spiaggia e l’accampamento ben fortificato, Cesare lasciò come presidio le stesse truppe che vi erano prima e ritornò donde era venuto. Quando arrivò, trovò che i Britanni si erano riuniti da ogni parte in numero molto maggiore e che, per concorde deliberazione, avevano affidato il comando supremo per la guerra a Cassivellauno, capo di un territorio diviso dalle città costiere dal fiume Tamigi, distante circa ottanta miglia dal mare. Prima vi erano

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superiore tempore cum reliquis civitatibus continentia bella intercesserant; sed nostro adventu permoti Britanni hunc toti bello imperioque praefecerant. XII. Britanniae pars interior ab iis incolitur quos natos in insula ipsi memoria proditum dicunt, maritima pars ab iis qui praedae ac belli inferendi causa ex Belgio transierant (qui omnes fere iis nominibus civitatum appellantur, quibus orti ex civitatibus eo pervenerunt) et bello inlato ibi permanserunt atque agros colere coeperunt. Hominum est infinita multitudo creberrimaque aedificia fere Gallicis consimilia, pecorum magnus numerus. Utuntur aut aere aut nummo aureo aut taleis ferreis ad certum pondus examinatis pro nummo. Nascitur ibi plumbum album in mediterraneis regionibus, in maritimis ferrum, sed eius exigua est copia; aere utuntur inportato. Materia cuiusque generis, ut in Gallia, est, praeter fagum atque abietem. Leporem et gallinam et anserem gustare fas non putant; haec tamen alunt animi voluptatisque causa. Loca sunt temperatiora quam in Gallia, remissioribus frigoribus. XIII. Insula natura triquetra, cuius unum latus est contra Galliam. Huius lateris alter angulus, qui est ad Cantium, quo fere omnes ex Gallia naves appelluntur, ad orientem solem, inferior ad meridiem spectat. Hoc pertinet circiter milia passuum quingenta. Alterum vergit ad Hispaniam atque occidentem solem; qua ex parte est Hibernia, dimidio minor, ut existimatur, quam Britannia, sed pari spatio transmissus atque ex Gallia est in Britanniam. In hoc medio cursu est insula quae appellatur Mona: conplures praeterea minores subiectae insu-

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state continue lotte fra Cassivellauno e le altre genti, ma al nostro arrivo tutti i Britanni, intimoriti, avevano affidato a lui il comando supremo della guerra. XII. La parte più interna della Britannia è abitata da genti che per tradizione si dicono autoctone; la zona costiera invece da popoli che, passati nell’isola dal Belgio a scopo di guerra e bottino, vi sono rimasti dopo aver vinto e si sono dati alla coltivazione della terra: quasi tutti conservano i nomi delle genti da cui discendono. Grandissimo è il numero degli uomini, molto fitte le costruzioni fatte quasi come quelle dei Galli, grande la quantità del bestiame. Usano bronzo o monete d’oro, o, invece di monete, verghe di ferro di un determinato peso. Nelle regioni interne si trova stagno, in quelle costiere ferro, ma in quantità non notevole; il rame è importato. Vi è, come in Gallia, legname di ogni specie, eccettuati il faggio e l’abete. Non stimano cosa lecita mangiare lepri, galline, oche, ma le allevano per divertimento; il clima è più temperato che non in Gallia, perché il freddo vi è meno intenso. XIII. L’isola ha la forma di un triangolo: un lato si trova di fronte alla Gallia; con un angolo (quello del Canzio,9 dove approdano quasi tutte le navi provenienti dalla Gallia) rivolto verso est, l’altro verso sud. Questo lato si stende per circa cinquecento miglia. L’altro lato è volto verso la Spagna e l’Occidente; da questa parte si trova l’Ibernia,10 isola che si ritiene sia circa la metà della Britannia e che è posta a una distanza pari a quella che divide la Britannia dalla Gallia. Quasi a metà di questo percorso si trova l’isola Mona; si crede, inoltre, che vi 9

Il Kent. L’Ibernia è l’Irlanda; l’isola di Mona, citata più sotto, è l’attuale isola di Man, tra la costa inglese e l’Irlanda (secondo altri Anglesey). 10

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lae existimantur; de quibus insulis non nulli scripserunt dies continuos XXX sub brumam esse noctem. Nos nihil de eo percontationibus reperiebamus, nisi certis ex aqua mensuris breviores esse quam in continenti noctes videbamus. Huius est longitudo lateris, ut fert illorum opinio, septingentorum milium. Tertium est contra septentriones; cui parti nulla est obiecta terra, sed eius angulus lateris maxime ad Germaniam spectat. Hoc milia passuum octingenta in longitudinem esse existimatur. Ita omnis insula est in circuitu vicies centum milium passuum. XIV. Ex his omnibus longe sunt humanissimi qui Cantium incolunt, quae regio est maritima omnis, neque multum a Gallica differunt consuetudine. Interiores plerique frumenta non serunt, sed lacte et carne vivunt pellibusque sunt vestiti. Omnes vero se Britanni vitro inficiunt, quod caeruleum efficit colorem, atque hoc horridiores sunt in pugna adspectu; capilloque sunt promisso atque omni parte corporis rasa praeter caput et labrum superius. Uxores habent deni duodenique inter se communes et maxime fratres cum fratribus parentesque cum liberis; sed si qui sunt ex his nati, eorum habentur liberi quo primum virgo quaeque deducta est. XV. Equites hostium essedarique acriter proelio cum equitatu nostro in itinere conflixerunt, ita tamen ut nostri omnibus partibus superiores fuerint atque eos in silvas collesque conpulerint; sed conpluribus interfectis cupidius insecuti non nullos ex suis amiserunt. At illi intermisso spatio inprudentibus nostris atque occupatis in munitione castrorum subito se ex silvis eiecerunt inpetuque in eos facto qui erant in statione pro castris collocati acriter pugnaverunt, duabusque missis subsi-

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siano parecchie altre piccole isole, vicine alla Britannia, delle quali molti hanno scritto che nel periodo del solstizio invernale la notte vi dura trenta giorni consecutivi. Noi, benché ci informassimo, non potemmo sapere nulla di preciso su questo fenomeno, ma vedemmo dalle esatte misurazioni delle clessidre ad acqua che le notti erano più brevi che sul continente. La lunghezza di questo lato, come gli stessi abitanti credono, è di settecento miglia. Il terzo lato è rivolto a nord e nessuna terra vi è di fronte, ma la sua estremità si può dire sia volta verso la Germania; si ritiene che questo lato sia lungo ottocento miglia. Il perimetro dell’isola è, dunque, di duemila miglia. XIV. Molto più civili di tutte sono le genti che abitano il Canzio, regione tutta posta sul mare, le quali non differiscono molto per usi dai Galli. Quelle più interne per lo più non coltivano grano, ma si nutrono di latte e carne e si vestono di pelli. Tutti i Britanni, poi, si tingono col guado, che dà loro un colore turchino, per cui fanno orrore quando combattono; portano i capelli lunghi e si radono tutto il corpo tranne che sul capo e sul labbro superiore. Riunendosi in gruppi di dieci o dodici, di cui fanno parte specialmente fratelli, padri e figli, prendono le mogli in comune e i bambini che nascono sono considerati figli di quello che per primo si è unito alla donna. XV. La cavalleria e i carri dei nemici attaccarono aspramente i nostri cavalieri mentre erano in marcia, ma questi risultarono vittoriosi e li ricacciarono nelle selve e sui colli; ma poiché, dopo averne uccisi molti, furono troppo temerari nell’inseguirli, subirono parecchie perdite. Dopo un po’ di tempo, quando i nostri non se lo aspettavano ed erano intenti a fortificare il campo, i Britanni uscirono all’improvviso dalle selve e attaccarono quelli che erano di stazione davanti all’accampamento. Si

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dio cohortibus a Caesare atque his primis legionum duarum, cum hae perexiguo intermisso loci spatio inter se constitissent, novo genere pugnae perterritis nostris per medios audacissime perruperunt seque inde incolumes receperunt. Eo die Q. Laberius Durus, tribunus militum, interficitur. Illi pluribus submissis cohortibus repelluntur. XVI. Toto hoc in genere pugnae cum sub oculis omnium ac pro castris dimicaretur, intellectum est nostros propter gravitatem armorum, quod neque insequi cedentes possent neque ab signis discedere auderent, minus aptos esse ad huius generis hostem, equites autem magno cum periculo proelio dimicare, propterea quod illi etiam consulto plerumque cederent et, cum paulum ab legionibus nostros removissent, ex essedis desilirent et pedibus dispari proelio contenderent. Equestris autem proelii ratio et cedentibus et insequentibus par atque idem periculum inferebat. Accedebat huc ut numquam conferti, sed rari magnisque intervallis proeliarentur stationesque dispositas haberent, atque alios alii deinceps exciperent integrique et recentes defatigatis succederent. XVII. Postero die procul a castris hostes in collibus constiterunt rarique se ostendere et lenius quam pridie nostros equites proelio lacessere coeperunt. Sed meridie cum Caesar pabulandi causa tres legiones atque omnem equitatum cum C. Trebonio legato misisset, repente ex omnibus partibus ad pabulatores advolaverunt, sic uti

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combatté con accanimento, Cesare mandò in aiuto due coorti, le prime di due legioni, che si fermarono lasciando tra loro pochissimo spazio, ma mentre i nostri erano turbati dalla nuova tattica di combattimento del nemico, questo, con grande audacia, si infiltrò tra le due coorti e poi riuscì a ritirarsi incolume. In quel giorno cadde il tribuno Quinto Laberio Duro. I Britanni furono, infine, respinti quando altre coorti arrivarono di rinforzo. XVI. In questa battaglia che si combatté sotto agli occhi di tutti, davanti al campo, apparve chiaro che i nostri, impacciati da armi pesanti, non potevano inseguire il nemico in fuga, né osavano allontanarsi dalle insegne; essi non erano preparati ad affrontare un tale nemico. Anche i cavalieri combattevano con gravi rischi, perché i Britanni per lo più ripiegavano di proposito e quando avevano fatto allontanare i nostri dalle legioni, saltavano giù dai carri e combattevano a piedi, in posizione vantaggiosa. Uno scontro di cavalleria offriva dunque gli stessi pericoli sia che i nostri si ritirassero, sia che inseguissero. I Britanni non combattevano mai in grosse formazioni, ma sempre alla spicciolata e a grandi intervalli; inoltre, scaglionavano gruppi di riserve che offrivano la possibilità di aiutarsi l’un l’altro senza interruzione, assicurandosi la ritirata e permettendo di sostituire con uomini freschi quelli stanchi e provati dal combattimento. XVII. Il giorno dopo i nemici si fermarono sui colli, lontano dall’accampamento, e cominciarono a mostrarsi in ordine sparso ed a provocare i nostri cavalieri, ma con minore veemenza del giorno prima. Ma a mezzogiorno, quando Cesare aveva mandato a raccogliere foraggio tre legioni e tutta la cavalleria col legato Gaio Trebonio, sbucando all’improvviso da tutte le parti, si lanciarono addosso ai nostri con tanta foga da spingersi fino alle in-

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ab signis legionibusque non absisterent. Nostri acriter in eos impetu facto reppulerunt neque finem sequendi fecerunt: quo subsidio confisi equites, cum post se legiones viderent, praecipites hostes egerunt, magnoque eorum numero interfecto neque sui colligendi neque consistendi aut ex essedis desiliendi facultatem dederunt. Ex hac fuga protinus quae undique convenerant auxilia discesserunt, neque post id tempus umquam summis nobiscum copiis hostes contenderunt. XVIII. Caesar cognito consilio eorum ad flumen Tamesim in fines Cassivellauni exercitum duxit; quod flumen uno omnino loco pedibus, atque hoc aegre, transiri potest. Eo cum venisset, animum advertit ad alteram fluminis ripam magnas esse copias hostium instructas. Ripa autem erat acutis sudibus praefixis munita, eiusdemque generis sub aqua defixae sudes flumine tegebantur. His rebus cognitis a captivis perfugisque Caesar praemisso equitatu confestim legiones subsequi iussit. Sed ea celeritate atque eo impetu milites ierunt, cum capite solo ex aqua extarent, ut hostes impetum legionum atque equitum sustinere non possent ripasque dimitterent ac se fugae mandarent. XIX. Cassivellaunus, ut supra demonstravimus, omni deposita spe contentionis dimissis amplioribus copiis, milibus circiter quattuor essedariorum relictis, itinera nostra servabat paulumque ex via excedebat locisque impeditis ac silvestribus sese occultabat atque iis regionibus quibus nos iter facturos cognoverat pecora atque homines ex agris in silvas conpellebat et, cum equitatus noster liberius praedandi vastandique causa se in agros

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segne delle legioni. Ma i nostri contrattaccarono con impeto e li respinsero, né cessarono dall’incalzarli finché i cavalieri, che si sentivano protetti dalle legioni alle spalle, li volsero in fuga precipitosa, ne uccisero molti e non diedero loro la possibilità di fermarsi e di raccogliersi, né di saltare giù dai carri. Dopo questa sconfitta tutti gli alleati, giunti da ogni parte, abbandonarono l’esercito, né mai più i Britanni combatterono contro di noi con forze tanto rilevanti. XVIII. Cesare, venuto a conoscenza del loro piano di guerra, condusse l’esercito nelle terre di Cassivellauno, verso il Tamigi, che ha un solo punto in cui può essere passato a guado, e anch’esso difficile. Giunto sulla riva del fiume, si accorse che sull’altra sponda erano schierate ingenti forze nemiche; la riva era poi fortificata con pali aguzzi, precedentemente piantati, e altri pali della stessa specie erano conficcati setto l’acqua e nascosti dalla corrente. Quando ne fu informato da prigionieri e disertori, mandò avanti la cavalleria e diede ordine alle legioni di seguirlo subito. I soldati avanzarono con tale rapidità e ardore, benché rimanessero fuori dall’acqua solo con la testa, che i nemici non poterono sostenere l’attacco delle legioni e dei cavalieri e fuggirono, abbandonando la riva del fiume. XIX. Cassivellauno, avendo perduto, come già abbiamo detto, la speranza di sostenere la lotta, aveva congedato molti armati, trattenendo con sé solo quattromila circa dei soldati combattenti sui carri: egli sorvegliava i nostri movimenti tenendosi un po’ discosto dalla via che Cesare seguiva e nascondendosi in luoghi poco accessibili e boscosi; nelle regioni in cui sapeva che i nostri sarebbero passati, faceva allontanare dai campi e nascondere nelle selve uomini e bestiame e quando la nostra cavalleria si spingeva più arditamente nei campi per depre-

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eiecerat, omnibus viis semitisque notis essedarios ex silvis emittebat et magno cum periculo nostrorum equitum cum iis confligebat atque hoc metu latius vagari prohibebat. Relinquebatur ut neque longius ab agmine legionum discedi Caesar pateretur, et tantum agris vastandis incendiisque faciendis hostibus noceretur quantum labore atque itinere legionarii milites efficere poterant. XX. Interim Trinovantes, prope firmissima earum regionum civitas, ex qua Mandubracius adulescens Caesaris fidem secutus ad eum in continentem [Galliam] venerat, cuius pater in ea civitate regnum obtinuerat interfectusque erat a Cassivellauno, ipse fuga mortem vitaverat, legatos ad Caesarem mittunt pollicenturque sese ei dedituros atque imperata facturos; petunt ut Mandubracium ab iniuria Cassivellauni defendat atque in civitatem mittat, qui praesit imperiumque obtineat. His Caesar imperat obsides quadraginta frumentumque exercitui Mandubraciumque ad eos mittit. Illi imperata celeriter fecerunt, obsides ad numerum frumentumque miserunt. XXI. Trinovantibus defensis atque ab omni militum iniuria prohibitis Cenimagni, Segontiaci, Ancalites, Bibroci, Cassi legationibus missis sese Caesari dedunt. Ab his cognoscit non longe ex eo loco oppidum Cassivellauni abesse silvis paludibusque munitum, quo satis magnus hominum pecorisque numerus convenerit. Oppidum autem Britanni vocant, cum silvas impeditas vallo atque fossa munierunt, quo incursionis hostium vitan-

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dare e devastare, lanciava contro di essa i carri che uscivano da ogni parte delle selve e attaccavano con grande ardimento e grave pericolo per i nostri, che perciò non osavano avventurarsi troppo lontano. Cesare, d’altra parte, non permetteva che alcuno si allontanasse dalle file delle legioni, cosicché il nemico veniva danneggiato solo con la devastazione dei campi e gli incendi, nella misura che era possibile ai soldati impegnati anche nelle fatiche della marcia. XX. I Trinovanti erano, si può dire, la più forte delle genti di quelle regioni: da parte loro era venuto in Gallia a fare atto di omaggio a Cesare il giovane Mandubracio, il cui padre, divenuto capo di quella gene, era stato ucciso da Cassivellauno, mentre Mandubracio si era salvato fuggendo. Questi Trinovanti mandarono messi a Cesare, promettendogli che si sarebbero arresi e avrebbero eseguito i suoi ordini; gli richiesero di salvare Mandubracio dagli attacchi di Cassivellauno e di mandarlo nella loro terra come capo e re. Cesare impose loro la consegna di quaranta ostaggi e di grano per l’esercito e fece tornare in patria Mandubracio; i barbari ubbidirono senza ritardo e mandarono gli ostaggi nel numero fissato e il frumento. XXI. Quando videro che i Trinovanti erano difesi contro Cassivellauno ed al riparo dai danni che potevano provocare loro i Romani, i Cenimagni, i Segontiaci, gli Ancaliti, i Bibroci e i Cassi mandarono ambascerie a Cesare in segno di sottomissione. Da loro Cesare venne a sapere che non lontano da dove egli si trovava vi era una fortezza di Cassivellauno, difesa da boschi e paludi, dove si era raccolto un numero rilevante di uomini e di bestiame. I Britanni chiamano fortezze i boschi poco accessibili, fortificati da un trinceramento e da un fossato, dove di solito si rifugiano per difendersi dalle scorrerie

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dae causa convenire consuerunt. Eo proficiscitur cum legionibus: locum reperit egregie natura atque opere munitum; tamen hunc duabus ex partibus oppugnare contendit. Hostes paulisper morati militum nostrorum impetum non tulerunt seseque alia ex parte oppidi eiecerunt. Magnus ibi numerus pecoris repertus multique in fuga sunt comprehensi atque interfecti. XXII. Dum haec in his locis geruntur, Cassivellaunus ad Cantium, quod esse ad mare supra demonstravimus, quibus regionibus quattuor reges praeerant, Cingetorix, Carvilius, Taximagulus, Segovax, nuntios mittit atque his imperat uti coactis omnibus copiis castra navalia de inproviso adoriantur atque oppugnent. Ii cum ad castra venissent, nostri eruptione facta multis eorum interfectis, capto etiam nobili duce Lugotorige suos incolumes reduxerunt. Cassivellaunus hoc proelio nuntiato, tot detrimentis acceptis, vastatis finibus, maxime etiam permotus defectione civitatum, legatos per Atrebatem Commium de deditione ad Caesarem mittit. Caesar cum constituisset hiemare in continenti propter repentinos Galliae motus, neque multum aestatis superesset atque id facile extrahi posse intellegeret, obsides imperat et quid in annos singulos vectigalis populo Romano Britannia penderet constituit; interdicit atque imperat Cassivellauno ne Mandubracio neu Trinovantibus noceat. XXIII. Obsidibus acceptis exercitum reducit ad mare, naves invenit refectas. His deductis, quod et captivorum magnum numerum habebat et non nullae tempestate deperierant naves, duobus commeatibus exercitum re-

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dei nemici. Cesare partì subito con le sue legioni in quella direzione e trovò un luogo protetto ottimamente dalla posizione naturale e dalle opere di difesa; ne iniziò, comunque, l’attacco da due lati. I nemici, dopo aver resistito per qualche tempo, non sopportarono l’assalto dei nostri e si diedero alla fuga in tutte le direzioni. Fu trovata sul posto una grande quantità di bestiame e molti uomini furono catturati o uccisi. XXII. Nel frattempo Cassivellauno mandò messaggi nel Canzio, regione che, come già abbiamo detto, si trova sul mare e dove regnavano quattro re: Cingetorige, Carvilio, Tassimagulo, Segovace, comandando loro di radunare tutte le forze e di attaccare all’improvviso l’accampamento navale dei Romani. Ma quando essi raggiunsero il campo, i nostri con una sortita uccisero molti nemici, presero prigioniero il nobile capo Lugotorige e rientrarono, senza perdite, all’accampamento. Cassivellauno, all’annunzio di questa battaglia, considerando che aveva già sofferto tanti danni e le sue terre erano state devastate e preoccupato ancor più per la defezione delle altre genti, mandò a Cesare una ambasceria – e Commio atrebate ne fu mediatore – per offrire la resa. Cesare, che aveva deciso di passare l’inverno sul continente, temendo improvvise sollevazioni della Gallia, poiché capiva che, essendo l’estate già inoltrata, i Britanni potevano temporeggiare fino al principio della cattiva stagione, ordinò la consegna di ostaggi e stabilì quale tributo la Britannia dovesse pagare annualmente a Roma; con un preciso ordine vietò, poi, a Cassivellauno di recare danno a Mandubracio e ai Trinovanti. XXIII. Avuti gli ostaggi, ricondusse l’esercito verso il mare, e trovò le navi riparate. Le fece scendere in acqua, e poiché aveva un gran numero di prigionieri, e d’altra parte parecchie navi erano state distrutte da una tempe-

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portare instituit. Ac sic accidit uti ex tanto navium numero tot navigationibus neque hoc neque superiore anno ulla omnino navis, quae milites portaret, desideraretur, at ex iis quae inanes ex continenti ad eum remitterentur et prioris commeatus expositis militibus et quas postea Labienus faciendas curaverat numero LX, perpaucae locum caperent, reliquae fere omnes reicerentur. Quas cum aliquamdiu Caesar frustra expectasset, ne anni tempore a navigatione excluderetur, quod aequinoctium suberat, necessario angustius milites conlocavit ac summa tranquillitate consecuta, secunda inita cum solvisset vigilia, prima luce terram attigit omnesque incolumes naves perduxit. XXIV. Subductis navibus concilioque Gallorum Samarobrivae peracto, quod eo anno frumentum in Gallia propter siccitates angustius provenerat, coactus est aliter ac superioribus annis exercitum in hibernis conlocare legionesque in plures civitates distribuere. Ex quibus unam in Morinos ducendam C. Fabio legato dedit, alteram in Nervios Q. Ciceroni, tertiam in Essuvios L. Roscio; quartam in Remis cum T. Labieno in confinio Treverorum hiemare iussit; tres in Belgio conlocavit; his M. Crassum quaestorem et L. Munatium Plancum et C. Trebonium legatos praefecit. Unam legionem, quam proxime trans Padum conscripserat, et cohortes V in Eburones, quorum pars maxima est inter Mosam ac Rhenum, qui sub imperio Ambiorigis et Catuvolci erant, misit. His militibus Q. Titurium Sabinum et L. Aurunculeium

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sta, ordinò che l’esercito fosse trasportato in due convogli. Con tante navi e in tanti viaggi, sia quell’anno che l’anno precedente nessuna nave carica di soldati venne a mancare; ma di quelle che ritornavano vuote dal continente, sia che si trattasse di navi del primo convoglio che aveva sbarcato l’esercito in Britannia, sia delle quaranta che aveva fatto costruire Labieno, solo pochissime raggiunsero il punto di sbarco, quasi tutte le altre furono respinte indietro. Cesare le attese per qualche tempo invano; poi, giacché si avvicinava l’equinozio, periodo che preclude la possibilità di navigare, si vide obbligato a fare imbarcare i soldati stretti in pochissime navi, e, salpato verso le nove di sera, quando il mare era molto calmo, toccò terra sul fare del giorno con l’intiera flotta incolume. XXIV. Dopo aver tirato in secco le navi, Cesare tenne a Samarobriva11 l’assemblea dei Galli. Poiché in quell’anno il raccolto di grano, causa la siccità, era stato in tutta la Gallia più scarso del solito, fu costretto a sistemare l’esercito per l’inverno in modo diverso dagli anni precedenti, ripartendo le legioni in regioni diverse. Ne assegnò una al legato caio Fabio, da condurre fra i Morini; ne mandò un’altra, con Quinto Cicerone, fra i Nervi; una terza nelle terre degli Esuvi, con Lucio Roscio; volle che una quarta svernasse, al comando di Tito Labieno, nelle terre dei Remi, sul confine dei Treveri; ne mandò tra i Belgi tre, affidate al comando del questore Marco Crasso e dei legati Lucio Munazio Planco e Gaio Trebonio. Mandò una legione, arruolata di recente oltre il Po, e cinque coorti fra gli Eburoni (che in massima parte abitano tra la Mosa e il Reno, ed erano allora sotto il comando di Ambiorige e Catuvolco) e mise a capo di queste truppe i legati Quinto Titurio Sabino e Lucio Aurun11

L’attuale Amiens.

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Cottam legatos praeesse iussit. Ad hunc modum distributis legionibus facillime inopiae rei frumentariae sese mederi posse existimavit. Atque harum tamen omnium legionum hiberna, praeter eam quam L. Roscio in pacatissimam et quietissimam partem ducendam dederat, milibus passuum centum continebantur. Ipse interea quoad legiones conlocatas munitaque hiberna cognovisset in Gallia morari constituit. XXV. Erat in Carnutibus summo loco natus Tasgetius, cuius maiores in sua civitate regnum obtinuerant. huic Caesar pro eius virtute atque in se benevolentia, quod in omnibus bellis singulari eius opera fuerat usus, maiorum locum restituerat. Tertium iam hunc annum regnantem inimici clam, multis palam ex civitate etiam auctoribus, eum interfecerunt. Defertur ea res ad Caesarem. Ille veritus, quod ad plures pertinebat, ne civitas eorum inpulsu deficeret, L. Plancum cum legione ex Belgio celeriter in Carnutes proficisci iubet ibique hiemare, quorumque opera cognoverit Tasgetium interfectum, hos comprehensos ad se mittere. Interim ab omnibus [legatis quaestoribusque] quibus legiones tradiderat certior factus est in hiberna perventum locumque hibernis esse munitum. XXVI. Diebus circiter XV quibus in hiberna ventum est, initium repentini tumultus ac defectionis ortum est ab Ambiorige et Catuvolco; qui, cum ad fines regni sui Sabino Cottaeque praesto fuissent frumentumque in hiberna comportavissent, Indutiomari Treveri nuntiis in-

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culeio Cotta. Pensò di poter rimediare facilmente alla carestia di grano distribuendo in questo modo le legioni; inoltre, tranne la legione che aveva affidato a Lucio Roscio, destinandola a una regione molto tranquilla, tra gente pacifica, tutte le altre, sistemate nei quartieri d’inverno, erano tra loro alla distanza massima di cento miglia. Cesare decise, comunque, di fermarsi in Gallia fino a quando non avesse saputo che le legioni erano ai loro posti e i campi fortificati. XXV. Viveva tra i Carnuti Tasgezio, di nobile famiglia, i cui antenati avevano dominato la regione. Cesare, per premiarlo del suo valore e della benevolenza sempre mostrata verso i Romani che aveva aiutato in ogni modo in tutte le guerre, aveva restituito a Tasgezio l’autorità che i suoi antenati avevano avuta. Ma mentre era già il terzo anno che egli regnava, dei nemici, per palese istigazione di gente interessata alla vita politica dei Carnuti, lo uccisero. Il fatto venne riferito a Cesare; questi, temendo che quella popolazione, poiché molti erano implicati nella faccenda, per istigazione di costoro si ribellasse, trasferì immediatamente Lucio Planco con la sua legione dal Belgio alla terra dei Carnuti per passarvi l’inverno, incaricandolo di catturare e mandargli coloro che avevano tramato l’uccisione di Tasgezio. Frattanto venne informato da tutti i legati e i questori, cui aveva affidato le legioni, che erano arrivati nelle sedi assegnate e avevano provveduto alla fortificazione degli accampamenti. XXVI. Circa quindici giorni dopo che i Romani si erano sistemati nel campo invernale, scoppiò un’improvvisa disordinata ribellione provocata da Ambiorige e Catuvolco: essi si erano recati ai confini del loro regno incontro a Sabino e a Cotta, e avevano rifornito di frumento l’accampamento romano; ma, spinti da messi di Indutio-

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pulsi suos concitaverunt subitoque oppressis lignatoribus magna manu ad castra oppugnanda venerunt. Cum celeriter nostri arma cepissent vallumque ascendissent atque una ex parte Hispanis equitibus emissis equestri proelio superiores fuissent, desperata re hostes suos ab oppugnatione reduxerunt. Tum suo more conclamaverunt, uti aliqui ex nostris ad conloquium prodiret: habere sese, quae de re communi dicere vellent, quibus rebus controversias minui posse sperarent. XXVII. Mittitur ad eos conloquendi causa C. Arpineius, eques Romanus, familiaris Titurii, et Q. Iunius ex Hispania quidam, qui iam ante missu Caesaris ad Ambiorigem ventitare consuerat; apud quos Ambiorix ad hunc modum locutus est: sese pro Caesaris in se beneficiis plurimum ei confiteri debere, quod eius opera stipendio liberatus esset quod Atuatucis, finitimis suis, pendere consuesset, quodque ei et filius et fratris filius a Caesare remissi essent, quos Atuatuci obsidum numero missos apud se in servitute et catenis tenuissent; neque id quod fecerit de oppugnatione castrorum aut iudicio aut voluntate sua fecisse, sed coactu civitatis, suaque esse eiusmodi imperia, ut non minus haberet iuris in se multitudo quam ipse in multitudinem. Civitati porro hanc fuisse belli causam, quod repentinae Gallorum coniurationi resistere non potuerit. Id se facile ex humilitate sua probare posse, quod non adeo sit imperitus rerum ut suis copiis populum Romanum superari posse confidat. Sed esse Galliae commune consilium: omnibus hibernis Caesaris oppugnandis hunc esse dictum diem, ne qua legio alteri legioni subsidio venire posset. Non facile Gal-

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maro, trevero, incitarono i loro uomini alla ribellione e, uccisi i legionari che provvedevano a raccogliere la legna, in gran numero attaccarono il nostro campo. I Romani subito si armarono, accorsero al trinceramento e fecero uscire da una parte i cavalieri ispani che attaccarono e misero in fuga gli avversari: questi, perduta la speranza di una facile vittoria, si ritirarono; poi, come usano fare, chiesero gridando a gran voce che qualcuno dei nostri uscisse a parlare con loro, volendo discutere cose di comune interesse che, essi speravano, avrebbero potuto appianare i dissensi. XXVII. Furono mandati per il colloquio Gaio Arpineio, cavaliere romano, amico di Quinto Titurio, e Quinto Giunio, spagnolo, che già prima era andato più volte da Ambiorige per incarico di Cesare. Ambiorige disse loro press’a poco questo: che egli, per la benevolenza che Cesare gli aveva in precedenza dimostrata, era stato liberato dal tributo che doveva pagare agli Aduatuci suoi confinanti e aveva ottenuto la restituzione del figlio e del nipote che, mandati come ostaggi agli Aduatuci, erano stati trattati da loro come prigionieri e messi in catene. Per quanto era successo, cioè l’attacco al campo, egli non aveva agito di sua volontà e decisione, ma costretto dal popolo, giacché la sua autorità era tale che doveva sottostare al volere della sua gente, non meno che questa al suo. Il popolo, poi, non aveva potuto rifiutarsi di aderire all’improvvisa lega di tutta la Gallia contro i Romani. La stessa modesta potenza degli Eburoni era una prova della verità di quanto affermava ed egli non era fino a tal punto inesperto da non capire che Roma non poteva essere vinta dalle sole sue forze. Ma si trattava di un piano stabilito insieme da tutti i Galli che avevano deciso di assalire quel giorno, contemporaneamente, tutti gli alloggiamenti invernali di Cesare, per evitare che le legioni si potessero portare aiuto l’una con l’altra.

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los Gallis negare potuisse, praesertim cum de recuperanda communi libertate consilium initum videretur. Quibus quoniam pro pietate satisfecerit, habere nunc se rationem officii pro beneficiis Caesaris: monere, orare Titurium pro hospitio ut suae ac militum saluti consulat. Magnam manum Germanorum conductam Rhenum transisse; hanc adfore biduo. Ipsorum esse consilium, velintne prius quam finitimi sentiant eductos ex hibernis milites aut ad Ciceronem aut ad Labienum deducere, quorum alter milia passuum circiter quinquaginta, alter paulo amplius ab iis absit. Illud se polliceri et iure iurando confirmare, tutum iter per suos fines daturum. Quod cum faciat, et civitati sese consulere, quod hibernis levetur, et Caesari pro eius meritis gratiam referre. Hac oratione habita discedit Ambiorix. XXVIII. Arpineius et Iunius quae audierant ad legatos deferunt. Illi repentina re perturbati, etsi ab hoste ea dicebantur, tamen non neglegenda existimabant, maximeque hac re permovebantur, quod civitatem ignobilem atque humilem Eburonum sua sponte populo Romano bellum facere ausam vix erat credendum. Itaque ad consilium rem deferunt, magnaque inter eos existit controversia. L. Aurunculeius conpluresque tribuni militum et primorum ordinum centuriones nihil temere agendum neque ex hibernis iniussu Caesaris discedendum existimabant: quantasvis, [magnas etiam] copias Germanorum sustineri posse munitis hibernis docebant: rem esse

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Non era facile che dei Galli potessero rifiutare qualcosa ad altri Galli, specialmente se si trattava di un piano che servisse a recuperare la libertà comune. Dunque egli, Ambiorige, aveva seguito i suoi per amor di patria, ma non poteva dimenticare la gratitudine che doveva a Cesare per i benefici ricevuti: esortava, anzi, in nome dell’ospitalità, e pregava Titurio di prendere provvedimenti per assicurare la salvezza a se stesso e ai suoi soldati. Una numerosa schiera di Germani assoldati aveva oltrepassato il Reno e sarebbe giunta entro due giorni. Dipendeva dunque dalla decisione dei Romani se, prima che i popoli vicini lo venissero a sapere, volessero far uscire dal campo invernale i soldati e raggiungere Cicerone o Labieno, l’uno distante circa cinquanta miglia, l’altro poco di più. Egli, giurando, prometteva che avrebbe garantito la sicurezza del passaggio per le sue terre; facendo ciò egli procurava il bene dei suoi, che sarebbero stati liberati dal peso del soggiorno invernale dei Romani, e mostrava a Cesare la sua gratitudine per i benefici ricevuti. Dopo avere pronunziato questo discorso, Ambiorige si allontanò. XXVIII. Arpineio e Giunio riferirono ai legati tutto ciò che avevano udito. Questi, turbati dagli avvenimenti inaspettati, pensavano di non dover tenere in poco conto le notizie avute, anche se provenienti da nemici: soprattutto li faceva riflettere il fatto che non era ammissibile che una gente di così scarsa potenza come gli Eburoni osasse spontaneamente entrare in guerra contro i Romani. Portarono, quindi, la questione dinanzi al consiglio di guerra, dove sorse un grave dissenso. Lucio Aurunculeio, la maggior parte dei tribuni e i centurioni dei primi ordini erano dell’opinione che non si dovesse far niente temerariamente, né lasciare l’accampamento senza l’ordine di Cesare e affermavano di poter rintuzzare qualunque attacco, anche dei Germani, restando

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testimonio, quod primum hostium impetum multis ultro vulneribus inlatis fortissime sustinuerint: re frumentaria non premi; interea et ex proximis hibernis et a Caesare conventura subsidia: postremo quid esset levius aut turpius, quam auctore hoste de summis rebus capere consilium? XXIX. Contra ea Titurius sero facturos clamitabat, cum maiores manus hostium adiunctis Germanis convenissent, aut cum aliquid calamitatis in proximis hibernis esset acceptum. Brevem consulendi esse occasionem. Caesarem arbitrari profectum in Italiam; neque aliter Carnutes interficiundi Tasgetii consilium fuisse capturos, neque Eburones, si ille adesset, tanta contemptione nostri ad castra venturos esse. Non hostem auctorem, sed rem spectare: subesse Rhenum: magno esse Germanis dolori Ariovisti mortem et superiores nostras victorias; ardere Galliam tot contumeliis acceptis sub populi Romani imperium redactam, superiore gloria rei militaris exstincta. Postremo quis hoc sibi persuaderet, sine certa re Ambiorigem ad eius modi consilium descendisse? Suam sententiam in utramque partem esse tutam: si nihil esset durius, nullo cum periculo ad proximam legionem perventuros; si Gallia omnis cum Germanis consentiret, unam esse in celeritate positam salutem. Cottae quidem atque eorum qui dissentirent consilium quem haberet

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nel loro campo fortificato: poteva provare ciò il fatto che nel primo scontro non solo avevano resistito ma avevano inflitto gravi perdite ai nemici; né vi era preoccupazione per l’approvvigionamento, non mancando il frumento. Intanto sarebbero arrivati aiuti dai campi più vicini e da Cesare: infine, che cosa poteva essere più vergognoso e meno serio che prendere una decisione su cose di tanta importanza seguendo i suggerimenti del nemico? XXIX. Dal canto suo Titurio, concitato, affermava che troppo tardi avrebbero agito quando con l’arrivo dei Germani si fosse radunato un maggior numero di nemici, o quando avessero saputo che qualche disgrazia era capitata agli accampamenti vicini. Poco tempo c’era per decidere. Egli pensava che Cesare ormai fosse partito per l’Italia; altrimenti i Carnuti non avrebbero osato uccidere Tasgezio, né gli Eburoni, se Cesare fosse stato ancora in Gallia, avrebbero attaccato il loro campo, mostrando di tenere in così poco conto i Romani. Si doveva guardare non al fatto che si trattava di un suggerimento dato da un nemico, ma alla realtà delle cose. Il Reno era vicino; i Germani provavano un grande risentimento per la morte di Ariovisto e le nostre precedenti vittorie; la Gallia, ridotta sotto il dominio dei Romani, bruciava per le offese subite e per l’antica gloria militare perduta. E poi, chi poteva esser certo che Ambiorige non fosse arrivato a una decisione di tal fatta senza una ben fondata speranza? La sua proposta offriva sicurezza in ogni senso: se non vi era nessun pericolo da temere, avrebbero raggiunto sani e salvi la legione più vicina; se tutta la Gallia invece era d’accordo con i Germani, solo nella rapidità dei movimenti era posta la loro salvezza. A che cosa avrebbe portato invece il parere di Cotta e degli altri che con lui erano d’accordo? Seguendo costoro, seppure non si dovesse temere un pericolo

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exitum? in quo si non praesens periculum, at certe longinqua obsidione fames esset timenda. XXX. Hac in utramque partem disputatione habita, cum a Cotta primisque ordinibus acriter resisteretur, «vincite» inquit «si ita vultis» Sabinus, et id clariore voce, ut magna pars militum exaudiret; «neque is sum» inquit «qui gravissime ex vobis mortis periculo terrear; hi sapient: si gravius quid acciderit, abs te rationem reposcent, qui si per te liceat, perendino die cum proximis hibernis coniuncti communem cum reliquis belli casum sustineant, non reiecti et relegati longe a ceteris aut ferro aut fame intereant». XXXI. Consurgitur ex consilio; conprehendunt utrumque et orant ne sua dissensione et pertinacia rem in summum periculum deducant: facilem esse rem, seu maneant, seu proficiscantur, si modo unum omnes sentiant ac probent; contra in dissensione nullam se salutem perspicere. Res disputatione ad mediam noctem perducitur. Tandem dat Cotta permotus manus superat sententia Sabini. Pronuntiatur prima luce ituros. Consumitur vigiliis reliqua pars noctis, cum sua quisque miles circumspiceret, quid secum portare posset, quid ex instrumento hibernorum relinquere cogeretur. Omnia excogitantur quare nec sine periculo maneatur et languore militum et vigiliis periculum augeatur. Prima luce sic ex castris proficiscuntur ut quibus esset persuasum non ab

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immediato, bisognava certo temere la fame che sarebbe stata provocata da un lungo assedio. XXX, Discussero i sostenitori dell’una e dell’altra tesi e poiché Cotta e i centurioni resistevano tenacemente «Fate come volete,» esclamò Sabino,12 e alzò la voce perché gran parte dei soldati lo udissero «non sono io, certo, quello che più di tutti voi si lasci atterrire dal pericolo di morte: costoro sapranno giudicare e se qualcosa di grave avverrà, ne chiederanno conto a te; essi, se fossero da te autorizzati, dopodomani, potrebbero raggiungere gli accampamenti vicini e riuniti a quei legionari potrebbero affrontare i casi di una guerra insieme con gli altri, – e non essere costretti, abbandonati e lontani da tutti, a morire per fame e per ferite». XXXI. La seduta fu sciolta: ma i presenti si fecero intorno ad entrambi i legati e li pregarono di non provocare, con il loro ostinato disaccordo, un gravissimo pericolo: tutto poteva essere facile, sia se fossero rimasti, sia se fossero partiti, ma a patto che la decisione fosse concordemente approvata: invece nessuna via di salvezza vi poteva essere se fosse perdurato il dissenso. La discussione si protrasse fino a mezzanotte. Finalmente Cotta, turbato, si diede per vinto: prevalse la proposta di Sabino. Si annunziò che sarebbero partiti all’alba. Nella parte della notte che restava tutti rimasero svegli, ciascun soldato esaminava le sue cose per vedere quel che poteva portare con sé e quali degli attrezzi dell’accampamento doveva lasciare. Di tutto fecero perché non si potesse più rimanere senza gravi rischi e perché il pericolo fosse accresciuto per la stanchezza che i soldati risentivano per quella veglia prolungata. Sul fare del giorno uscirono dal campo come gente convinta che il consiglio 12

Quinto Titurio Sabino.

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hoste, sed ab homine amicissimo Ambiorige consilium datum, longissimo agmine maximisque inpedimentis. XXXII. At hostes, postea quam ex nocturno fremitu vigiliisque de profectione eorum senserunt, conlocatis insidiis bipertito in silvis oportuno atque occulto loco a milibus passuum circiter duobus Romanorum adventum exspectabant, et cum se maior pars agminis in magnam convallem demisisset, ex utraque parte eius vallis subito se ostenderunt novissimosque premere et primos prohibere ascensu atque iniquissimo nostris loco proelium committere coeperunt. XXXIII. Tum demum Titurius, ut qui nihil ante providisset, trepidare et concursare cohortesque disponere, haec tamen ipsa timide atque ut eum omnia deficere viderentur: quod plerumque iis accidere consuevit qui in ipso negotio consilium capere coguntur. At Cotta, qui cogitasset haec posse in itinere accidere atque ob eam causam profectionis auctor non fuisset, nulla in re communi saluti deerat et in appellandis cohortandisque militibus imperatoris et in pugna militis officia praestabat. Cum propter longitudinem agminis minus facile omnia per se obire et quid quoque loco faciendum esset providere possent, iusserunt pronuntiari ut inpedimenta relinquerent atque in orbem consisterent. Quod consilium etsi in eius modi casu reprehendendum non est, tamen incommode accidit: nam et nostris militibus spem minuit et hostes ad pugnam alacriores effecit, quod non sine summo timore et desperatione id factum videbatur. Praeterea accidit, quod fieri necesse erat, ut vulgo mili-

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non fosse venuto da un nemico ma da un amico fidato, formando una colonna lunghissima, ingombra di numerosi bagagli. XXXII. Ma i nemici, appena si accorsero, da tutta la confusione che c’era stata nella notte e dal prolungamento della veglia, della loro partenza, organizzarono un’imboscata in due punti della selva, in un luogo coperto e adatto, a circa due miglia di distanza e aspettarono l’arrivo dei Romani. Quando il grosso della schiera s’inoltrò in quell’ampia e chiusa valle, all’improvviso sbucarono da tutte e due le parti della vallata, attaccarono la retroguardia e impedirono ai primi la salita, obbligando i Romani a combattere in quel luogo ad essi tanto sfavorevole. XXXIII. Allora Titurio, che non aveva previsto nulla, cominciò a correre qua e là e ad ordinare le coorti; si agitava impacciato in modo tale che sembrava che tutto gli venisse a mancare, ciò che per lo più avviene a chi è costretto a prendere una decisione nel momento stesso del pericolo. Ma Cotta, che aveva preveduto quanto poteva accadere durante il viaggio e che perciò aveva sconsigliato la partenza, non tralasciava nulla di ciò che poteva servire alla salvezza generale; radunava ed esortava i soldati come un comandante in capo e combatteva come un soldato. Poiché la lunghezza della colonna impediva di prendere tutte le iniziative necessarie e di provvedere a ciò che era opportuno in ciascun punto, i due comandanti ordinarono di abbandonare i bagagli e di formare il cerchio. Ma questa decisione, che presa in una situazione di quel genere non può essere rimproverata, fu tuttavia un errore, perché diminuì la fiducia dei nostri soldati e rese più arditi all’attacco i nemici, a cui parve che quel movimento fosse indice di grande timore e di disperazione. Inoltre, cosa inevitabile, molti soldati

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tes ab signis discederent, quaeque quisque eorum carissima haberet ab inpedimentis petere atque arripere properaret, clamore et fletu omnia complerentur. XXXIV. At barbaris consilium non defuit. Nam duces eorum tota acie pronuntiari iusserunt ne quis ab loco discederet: illorum esse praedam atque illis reservari quaecumque Romani reliquissent: proinde omnia in victoria posita existimarent. †Erant et virtute et numero pugnandi pares†. Nostri, tametsi ab duce et a Fortuna deserebantur, tamen omnem spem salutis in virtute ponebant, et quotiens quaeque cohors procurrerat, ab ea parte magnus numerus hostium cadebat. Qua re animadversa Ambiorix pronuntiari iubet ut procul tela coniciant neu propius accedant et, quam in partem Romani impetum fecerint, cedant: levitate armorum et cotidiana exercitatione non nihil his noceri posse; rursus se ad signa recipientes insequantur. XXXV. Quo praecepto ab iis diligentissime observato, cum quaepiam cohors ex orbe excesserat atque impetum fecerat, hostes velocissime refugiebant. Interim eam partem nudari necesse erat et ab latere aperto tela recipere. Rursus, cum in eum locum unde erant egressi reverti coeperant, et ab iis qui cesserant et ab iis qui proximi steterant circumveniebantur. Sin autem locum tenere vellent, nec virtuti locus relinquebatur, neque ab tanta multitudine coniecta tela conferti vitare poterant. Tamen tot incommodis conflictati, multis vulneribus acceptis, resistebant et magna parte diei consumpta, cum a prima luce ad horam octavam pugnaretur, nihil quod

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si allontanarono dalle loro insegne, correndo verso i carri dei bagagli per prendersi le loro cose più care, mentre tutt’intorno si levavano grida e gemiti. XXXIV. Invece i barbari seppero prendere una buona decisione. I loro comandanti fecero annunziare a tutto lo schieramento che nessuno doveva allontanarsi dal suo posto: tutto ciò che i Romani avrebbero lasciato era bottino riservato a loro, quindi pensassero soltanto a vincere. I nostri erano ugualmente valorosi e arditi nel combattere; non sostenuti dal loro capo e abbandonati dalla fortuna, pure compresero che solo il valore avrebbe potuto salvarli e, tutte le volte che una coorte si lanciava all’assalto, un grande numero di nemici cadeva. Visto ciò, Ambiorige ordinò ai suoi di lanciare dardi da lontano senza accostarsi, anzi cedendo là dove i Romani portassero l’attacco: tattica che non poteva certo nuocere a loro che non avevano armi pesanti ed erano sempre in esercizio; dovevano invece inseguire i Romani, quando si ritirassero verso le loro insegne. XXXV. Questo ordine fu dai barbari eseguito con grande scrupolosità: quando una coorte usciva dalla formazione circolare e attaccava, essi fuggivano a tutta velocità; frattanto quel punto della formazione romana rimaneva scoperto e sul lato indifeso piovevano i dardi. Poi, quando la coorte iniziava la ritirata verso il luogo da cui era partita, veniva presa in mezzo da quelli che erano fuggiti e da quelli che, non direttamente attaccati, non si erano mossi. Non lasciando il circolo, i Romani invece rimanevano inerti, né potevano evitare, stando in tal modo serrati, i dardi lanciati da così grande numero di nemici. Eppure, ridotti alle strette in posizione tanto sfavorevole, nonostante le gravi perdite, resistevano e dopo aver combattuto per gran parte del giorno – il combattimento iniziato all’alba continuava ancora alle

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ipsis esset indignum committebant. Tum T. Balventio, qui superiore anno primum pilum duxerat, viro forti et magnae auctoritatis, utrumque femur tragula traicitur; Q. Lucanius, eiusdem ordinis, fortissime pugnans, dum circumvento filio subvenit, interficitur: L. Cotta legatus omnes cohortes ordinesque adhortans in adversum os funda vulneratur. XXXVI. His rebus permotus Q. Titurius, cum procul Ambiorigem suos cohortantem conspexisset, interpretem suum Cn. Pompeium ad eum mittit rogatum ut sibi militibusque parcat. Ille appellatus respondit: si velit secum conloqui, licere; sperare a multitudine impetrari posse quod ad militum salutem pertineat; ipsi vero nihil nocitum iri, inque eam rem se suam fidem interponere. Ille cum Cotta saucio communicat, si videatur, pugna ut excedant et cum Ambiorige una conloquantur: sperare ab eo de sua ac militum salute impetrari posse. Cotta se ad armatum hostem iturum negat atque in eo perseverat. XXXVII. Sabinus quos in praesentia tribunos militum circum se habebat et primorum ordinum centuriones se sequi iubet et, cum propius Ambiorigem accessisset, iussus arma abicere imperatum facit suisque ut idem faciant imperat. Interim, dum de condicionibus inter se agunt longiorque consulto ab Ambiorige instituitur sermo, paulatim circumventus interficitur. Tum vero suo more victoriam conclamant atque ululatum tollunt impetuque in nostros facto ordines perturbant. Ibi L. Cotta pugnans interficitur cum maxima parte militum. Reli-

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due pomeridiane – niente facevano che fosse indegno di loro. A Tito Balvenzio, che l’anno prima era stato centurione primipilo, cioè comandante del primo manipolo dei triari, uomo forte e di grande autorità, un giavellotto trapassò tutte e due le cosce; Quinto Lucanio, dello stesso grado, venne ucciso mentre combatteva aspramente per portare aiuto al figlio circondato dai nemici; il legato Lucio Cotta, proprio mentre rianimava le coorti e le centurie, fu ferito da un colpo di fionda che lo colpì alla bocca. XXXVI. Turbato da tutti questi avvenimenti Titurio, quando vide da lontano Ambiorige che incitava i suoi soldati, mandò l’interprete Gneo Pompeo a pregarlo di risparmiare i suoi legionari e lui stesso. E quello, sentita la richiesta, rispose che se Titurio avesse voluto parlargli, poteva farlo: egli avrebbe cercato di ottenere dal suo popolo la salvezza dei soldati romani: quanto a Titurio non avrebbe ricevuto alcun male e per questo dava la sua parola. Titurio ne riferì allora a Cotta, già ferito, e gli propose di recarsi insieme a parlare con Ambiorige, poiché sperava di poter ottenere la salvezza per sé e per i suoi soldati. Cotta rispose che mai sarebbe andato da un nemico in armi, e perseverò nel suo rifiuto. XXXVII. Sabino allora ordinò ai tribuni militari che gli erano intorno e ai centurioni dei primi ordini di seguirlo e, quando fu vicino ad Ambiorige e gli venne imposto di gettare via le armi, ubbidì e comandò ai suoi di fare altrettanto. Poi mentre discutevano le condizioni e il colloquio a bella posta veniva da Ambiorige prolungato, a poco a poco fu circondato e ucciso. Allora, secondo le loro usanze, i Galli dettero con urla ed alte grida l’annunzio della vittoria e con un attacco violento misero in scompiglio le file dei nostri. In quest’ultima fase della battaglia Lucio Cotta morì combattendo e

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qui se in castra recipiunt, unde erant egressi. Ex quibus L. Petrosidius aquilifer, cum magna multitudine hostium premeretur, aquilam intra vallum proiecit, ipse pro castris fortissime pugnans occiditur. Illi aegre ad noctem oppugnationem sustinent; noctu ad unum omnes desperata salute se ipsi interficiunt. Pauci ex proelio elapsi incertis itineribus per silvas ad T. Labienum legatum in hiberna perveniunt atque eum de rebus gestis certiorem faciunt. XXXVIII. Hac victoria sublatus Ambiorix statim cum equitatu in Atuatucos, qui erant eius regno finitimi, proficiscitur; neque noctem neque diem intermittit peditatumque se subsequi iubet. Re demonstrata Atuatucisque concitatis postero die in Nervios pervenit hortaturque ne sui in perpetuum liberandi atque ulciscendi Romanos pro iis quas acceperint iniuriis occasionem dimittant: interfectos esse legatos duos magnamque partem exercitus interisse demonstrat; nihil esse negotii subito oppressam legionem quae cum Cicerone hiemet interfici; se ad eam rem profitetur adiutorem. Facile hac oratione Nerviis persuadet. XXXIX. Itaque confestim dimissis nuntiis ad Ceutrones, Grudios, Levacos, Pleumoxios, Geidumnos, qui omnes sub eorum imperio sunt, quam maximas manus possunt cogunt et de improviso ad Ciceronis hiberna advolant, nondum ad eum fama de Titurii morte perlata. Huic quoque accidit, quod fuit necesse, ut non nulli milites, qui lignationis munitionisque causa in silvas disces-

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con lui la maggior parte dei soldati. Gli altri si ritirarono nel campo da cui erano partiti. L’alfiere Lucio Petrosidio, schiacciato da un gran numero di nemici, gettò l’aquila al di là della palizzata, nell’interno del campo, mentre egli cadeva davanti ad esso, combattendo con grande valore. Ma anche nel campo solo fino alla notte i superstiti poterono resistere ai nemici: perduta ogni speranza di salvezza, ad uno ad uno, di propria mano, si uccisero. Pochi, scampati dalla battaglia, attraversando le selve con incerti itinerari, arrivarono fino al campo del legato Tito Labieno, e lo informarono di quello che era successo. XXXVIII. Ambiorige, preso animo in seguito alla vittoria, subito con la cavalleria partì verso la terra degli Aduatuci, che confinavano col suo regno, senza interrompere la marcia né di giorno né di notte e ordinò alla fanteria di seguirlo. Raccontò ogni cosa e convinse gli Aduatuci alla ribellione; poi, il giorno dopo, si recò presso i Nervi e li esortò a non lasciarsi sfuggire l’occasione di liberarsi per sempre e vendicarsi delle offese subite dai Romani; disse loro che già due legati erano stati uccisi e gran parte dell’esercito romano distrutta e che sarebbe stata cosa di nessuna difficoltà assalire improvvisamente la legione di Cicerone e distruggerla; promise per questa impresa il suo aiuto. I Nervi si lasciarono facilmente persuadere da questo discorso. XXXIX. Essi subito mandarono messaggeri ai Ceutroni, ai Grudii, ai Levaci, ai Pleumozi, ai Geidumni, popolazioni che erano loro sottoposte, e radunarono il maggior numero possibile di soldati; con una rapida marcia si presentarono all’improvviso davanti all’accampamento di Cicerone, prima ancora che vi arrivasse la notizia della morte di Titurio. Anche qui – cosa d’altra parte inevitabile – alcuni gruppi di soldati, usciti nelle selve per racco-

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sissent, repentino equitum adventu interciperentur. His circumventis magna manu Eburones, Nervii, Atuatuci atque horum omnium socii clientesque legionem oppugnare incipiunt. Nostri celeriter ad arma concurrunt, vallum conscendunt. Aegre is dies sustentatur, quod omnem spem hostes in celeritate ponebant atque hanc adepti victoriam in perpetuum se fore victores confidebant. XL. Mittuntur ad Caesarem confestim ab Cicerone litterae magnis propositis praemiis, si pertulissent: obsessis omnibus viis missi intercipiuntur. Noctu ex ea materia quam munitionis causa comportaverant turres admodum CXX excitantur incredibili celeritate; quae deesse operi videbantur, perficiuntur. Hostes postero die multo maioribus coactis copiis castra oppugnant, fossam complent. Eadem ratione qua pridie ab nostris resistitur. Hoc idem reliquis deinceps fit diebus. Nulla pars nocturni temporis ad laborem intermittitur; non aegris, non vulneratis facultas quietis datur. Quaecumque ad proximi diei oppugnationem opus sunt, noctu comparantur; multae praeustae sudes, magnus muralium pilorum numerus instituitur; turres contabulantur, pinnae loricaeque ex cratibus attexuntur. Ipse Cicero, cum tenuissima valetudine esset, ne nocturnum quidem sibi tempus ad quietem relinquebat, ut ultro militum concursu ac vocibus sibi parcere cogeretur. XLI. Tum duces principesque Nerviorum, qui aliquem sermonis aditum causamque amicitiae cum Cicerone habebant, conloqui sese velle dicunt. Facta potestate ea-

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gliere legna e materiale utile alle fortificazioni, colti di sorpresa dall’improvviso arrivo dei nemici furono circondati. Intanto, numerose forze degli Eburoni, dei Nervi, degli Aduatuci, e di tutti i popoli alleati e soggetti, iniziarono l’attacco al campo. I nostri subito si armarono ed accorsero al trinceramento: ben ardua ne fu la difesa, quel giorno, perché i nemici fidavano principalmente sulla rapidità ed erano certi che se avessero vinto quella battaglia sarebbero stati vittoriosi per sempre. XL. Cicerone scrisse subito a Cesare, promettendo grandi premi a chi avesse saputo consegnare le sue lettere, ma tutte le strade erano sorvegliate e i messaggeri furono catturati. Di notte, col materiale raccolto per le opere di difesa, costruirono, con rapidità veramente incredibile, circa centoventi torri e portarono a compimento tutto ciò che mancava alla fortificazione del campo. Il giorno dopo i nemici portarono all’attacco forze molto più numerose; riempirono il fossato, ma i nostri resistettero con lo stesso accanimento del giorno prima. E lo stesso avvenne nei giorni seguenti. Di notte, lavorando senza perdere un minuto e senza possibilità di riposo neppure per i malati ed i feriti, si allestiva tutto ciò che poteva servire il giorno dopo alla difesa, si preparavano pertiche aguzzandole alla cima e indurendole col fuoco, si costruivano giavellotti da assedio, si coprivano di tavolati le torri, si facevano merli e rivestimenti di vimini intrecciati. Lo stesso Cicerone, che pur era di fisico molto delicato, non si concedette riposo nemmeno di notte, tanto che dovette usarsi qualche riguardo su preghiera degli stessi suoi soldati, che lo esortarono a ritirarsi. XLI. Allora i capi e i principi dei Nervi, che avevano frequentato Cicerone e avevano rapporti di amicizia con lui, gli mandarono a dire che volevano parlargli, e, otte-

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dem quae Ambiorix cum Titurio egerat commemorant: omnem esse in armis Galliam; Germanos Rhenum transisse; Caesaris reliquorumque hiberna oppugnari. Addunt etiam de Sabini morte: Ambiorigem ostentant fidei faciundae causa. Errare eos dicunt, si quicquam ab his praesidii sperent, qui suis rebus diffidant; sese tamen hoc esse in Ciceronem populumque Romanum animo ut nihil nisi hiberna recusent atque hanc inveterascere consuetudinem nolint: per se licere illis incolumibus ex hibernis discedere et quascumque in partes velint sine metu proficisci. Cicero ad haec unum modo respondit: non esse consuetudinem populi Romani accipere ab hoste armato condicionem: si ab armis discedere velint, se adiutore utantur legatosque ad Caesarem mittant: sperare pro eius iustitia quae petierint impetraturos. XLII. Ab hac spe repulsi Nervii vallo pedum X et fossa pedum XV hiberna cingunt. Haec et superiorum annorum consuetudine ab nobis cognoverant et, quosdam de exercitu nacti captivos, ab his docebantur; sed nulla ferramentorum copia quae essent ad hunc usum idonea, gladiis caespites circumcidere, manibus sagulisque terram exhaurire cogebantur. Qua quidem ex re hominum multitudo cognosci potuit: nam minus horis tribus milium pedum XV in circuitu munitionem perfecerunt. Reliquis diebus turres ad altitudinem valli, falces testudinesque, quas idem captivi docuerant, parare ac facere coeperunt.

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nutane facoltà, gli fecero un discorso dello stesso tenore di quello che Ambiorige aveva fatto a Titurio. Tutta la Gallia – dissero – era in armi, i Germani avevano passato il Reno, l’accampamento di Cesare e quelli dei legati erano assediati. Gli diedero poi la notizia della morte di Sabino ed indicarono, come prova, la presenza di Ambiorige. Avrebbe sbagliato, essi dicevano, a sperare aiuto da chi si trovava già in grave difficoltà per proprio conto; essi non erano ostili ai Romani e a Cicerone; volevano solo impedire che la legione passasse l’inverno nelle loro terre, perché i Romani non ne facessero un’abitudine fissa; Cicerone, dunque, poteva partire dal suo campo – essi gli garantivano l’incolumità – ed andare, senza paura, dove volesse. Cicerone si limitò a rispondere che non era consuetudine del popolo romano venire a patti con un nemico armato; lasciassero le armi, ed egli avrebbe assicurato loro il suo appoggio nel mandare ambasciatori a Cesare: da lui avrebbero forse potuto ottenere ciò che chiedevano, per il suo naturale sentimento di giustizia. XLII. Caduta questa speranza, i Nervi cinsero l’accampamento con una trincea alta dieci piedi e una fossa larga quindici. Queste manovre d’assedio essi avevano imparate dai nostri eserciti, con i quali erano stati a contatto negli anni precedenti, e dai prigionieri di guerra, da cui si erano fatti istruire; ma non avevano gli arnesi di ferro che sono necessari a simili lavori ed erano costretti a rompere le zolle con le spade e a portare via la terra con le mani o con i mantelli. Nonostante ciò, tanto era numeroso il loro esercito che in meno di tre ore essi riuscirono a finire una linea di difesa fortificata del perimetro di tre miglia. Poi nei giorni successivi cominciarono a costruire torri alte come la trincea e falci e macchine di copertura, come avevano loro insegnato i prigionieri di guerra.

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XLIII. Septimo oppugnationis die maximo coorto vento ferventes fusili ex argilla glandes fundis et fervefacta iacula in casas, quae more Gallico stramentis erant tectae, iacere coeperunt. Hae celeriter ignem conprehenderunt et venti magnitudine in omnem castrorum locum distulerunt. Hostes maximo clamore sicuti parta iam atque explorata victoria turres testudinesque agere et scalis vallum ascendere coeperunt. Ac tanta militum virtus atque ea praesentia animi fuit ut, cum undique flamma torrerentur maximaque telorum multitudine premerentur suaque omnia impedimenta atque omnes fortunas conflagrare intellegerent, non modo demigrandi causa de vallo decederet nemo, sed paene ne respiceret quidem quisquam, ac tum omnes acerrime fortissimeque pugnarent. Hic dies nostris longe gravissimus fuit; sed tamen hunc habuit eventum, ut eo die maximus numerus hostium vulneraretur atque interficeretur, ut se sub ipso vallo constipaverant recessumque primis ultimi non dabant. Paulum quidem intermissa flamma et quodam loco turri adacta et contingente vallum tertiae cohortis centuriones ex eo quo stabant loco recesserunt suosque omnes removerunt, nutu vocibusque hostes, si introire vellent vocare coeperunt; quorum progredi ausus est nemo. Tum ex omni parte lapidibus coniectis deturbati, turrisque succensa est. XLIV. Erant in ea legione fortissimi viri centuriones qui iam primis ordinibus adpropinquarent, T. Pullo et L. Vorenus. Hi perpetuas inter se controversias habebant, quinam anteferretur, omnibusque annis de locis summis simultatibus contendebant. Ex his Pullo, cum acerrume ad munitiones pugnaretur, «quid dubitas» inquit «Vore-

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XLIII. Nel settimo giorno dell’assedio, mentre si era levato un fortissimo vento, cominciarono a gettare contro le capanne del campo, ricoperte di paglia secondo l’uso gallico, dei proiettili di argilla incandescente e dei dardi infocati. I tetti subito furono attaccati dalle fiamme, che il vento con la sua forza diffuse in ogni punto del campo. Allora i nemici, elevando altissime grida, come se la vittoria fosse già sicuramente nelle loro mani, si diedero ad accostare al vallo le torri e le formazioni coperte dagli scudi ed a tentarne la scalata. Ma i nostri, nonostante il forte calore delle fiamme che li circondavano, i numerosissimi dardi cui erano fatti segno e benché vedessero tutti i loro bagagli bruciare e sfumare tutte le loro fortune, mostrarono in quel momento tanto valore e tanta forza d’animo, che nessuno abbandonò il vallo né pensò di fuggire; anzi proprio allora presero tutti a combattere con il massimo ardore e con valore senza pari. Questo fu per i nostri il giorno più duro: ma l’esito fu che proprio in questo giorno i nemici ebbero le più gravi perdite in feriti e in morti; essi si erano, infatti, stipati sotto il vallo e gli ultimi toglievano a quelli che stavano più avanti la possibilità di ritirarsi. Quando la violenza del fuoco diminuì, e una torre in un punto era arrivata a toccare il vallo, i centurioni della terza coorte si spostarono dal luogo dove si trovavano, facendo indietreggiare tutti gli uomini, e con cenni e con parole invitavano i nemici a entrare, ma nessuno osò farsi avanti. Allora i Romani cominciarono a scagliare pietre da ogni parte: i barbari, scompigliati, fuggirono e la torre venne incendiata. XLIV. Erano in quella legione due centurioni fortissimi, che aspettavano la promozione alla prima centuria, Tito Pullone e Lucio Voreno. Essi erano in perpetua gara per superarsi l’un l’altro e per ottenere la promozione. Pullone, mentre si combatteva con grande accanimento sul trinceramento, gridò: «Che cosa aspetti, Voreno, a dimo-

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ne? aut quem locum tuae probandae virtutis exspectas? hic dies de nostris controversiis iudicabit». Haec cum dixisset, procedit extra munitiones quaeque hostium pars confertissima est visa inrumpit. Ne Vorenus quidem sese tum vallo continet, sed omnium veritus existimationem subsequitur. Mediocri spatio relicto Pullo pilum in hostes inmittit atque unum ex multitudine procurrentem traicit; quo percusso et exanimato hunc scutis protegunt hostes, in illum universi tela coniciunt neque dant progrediendi facultatem. Transfigitur scutum Pulloni et verutum in balteo defigitur. Avertit hic casus vaginam et gladium educere conanti dextram moratur manum, impeditumque hostes circumsistunt. Succurrit inimicus illi Vorenus et laboranti subvenit. Ad hunc se confestim a Pullone omnis multitudo convertit; illum veruto transfixum arbitrantur. Gladio comminus rem gerit Vorenus atque uno interfecto reliquos paulum propellit; dum cupidius instat, in locum deiectus inferiorem concidit. Huic rursus circumvento fert subsidium Pullo, atque ambo incolumes conpluribus interfectis summa cum laude sese intra munitiones recipiunt. Sic Fortuna in contentione et certamine utrumque versavit, ut alter alteri inimicus auxilio salutique esset neque diiudicari posset uter utri virtute anteferendus videretur. XLV. Quanto erat in dies gravior atque asperior oppugnatio, et maxime quod magna parte militum confecta vulneribus res ad paucitatem defensorum pervenerat, tanto crebriores litterae nuntiique ad Caesarem mittebantur; quorum pars deprehensa in conspectu nostrorum militum cum cruciatu necabatur. Erat unus intus Nervius nomine Vertico, loco natus honesto, qui a prima

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strare quel che vali? Questo è il giorno che dovrà decidere sulla nostra rivalità». E avanzò fuori del campo, dirigendosi dove più folta gli sembrava la massa dei nemici. Allora Voreno immediatamente lo seguì, per affrontare il giudizio dei compagni. Quando fu a giusta distanza dai nemici, Pullone lanciò un giavellotto, trafiggendo uno dei barbari che correva davanti agli altri; ma i compagni lo coprirono con gli scudi e cominciarono a lanciare tutti insieme dardi sul romano, impedendogli la ritirata. Pullone ebbe lo scudo trafitto e un giavellotto contro il cinturone della spada; il fodero gli andò fuori posto e, quando egli volle estrarre l’arma, la sua mano non riusciva ad afferrare l’impugnatura; bastò perché i nemici riuscissero a circondarlo. Voreno, il suo antagonista, accorse, portandogli aiuto nel momento più difficile. Contro Voreno si volse, allora, tutta la folla dei barbari, che abbandonarono Pullone credendolo morto per il colpo di giavellotto. Voreno combatté a corpo a corpo con la spada, uccise un barbaro, tenendo lontani gli altri; ma trasportato dal suo ardimento, cadde in un fosso e fu, quindi, a sua volta circondato. Ma Pullone si lanciò il suo soccorso, ed entrambi riuscirono a rientrare sani e salvi nel vallo, assicurandosi, con l’uccisione di tanti nemici, una grande gloria. In questo combattimento, che doveva essere per loro una gara, la Fortuna si comportò in modo tale che i due rivali furono l’uno per l’altro mezzo di aiuto e di salvezza, cosicché non fu possibile giudicare chi dei due fosse più ardito e valoroso. XLV. Di giorno in giorno più difficile e più duro era l’assedio, gran parte dei soldati erano feriti e ormai pochissimi erano i difensori. Quanto più critica era la situazione tanto più frequentemente erano inviate a Cesare lettere e messi; alcuni di questi furono catturati e suppliziati davanti agli occhi dei nostri. Vi era nel campo un certo Verticone, nervio di nobile famiglia, che dal primo

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obsidione ad Ciceronem perfugerat suamque ei fidem praestiterat. Hic servo spe libertatis magnisque persuadet praemiis ut litteras ad Caesarem deferat. Has ille in iaculo inligatas effert et Gallus inter Gallos sine ulla suspicione versatus ad Caesarem pervenit. Ab eo de periculis Ciceronis legionisque cognoscitur. XLVI. Caesar acceptis litteris hora circiter undecima diei statim nuntium in Bellovacos ad M. Crassum quaestorem mittit, cuius hiberna aberant ab eo milia passuum XXV; iubet media nocte legionem proficisci celeriterque ad se venire. Exit cum nuntio Crassus. Alterum ad C. Fabium legatum mittit, ut in Atrebatum fines legionem adducat, qua sibi iter faciendum sciebat. Scribit Labieno, si rei publicae commodo facere possit, cum legione ad fines Nerviorum veniat. Reliquam partem exercitus, quod paulo aberat longius, non putat expectandam; equites circiter quadringentos ex proximis hibernis cogit. XLVII. Hora circiter tertia ab antecursoribus de Crassi adventu certior factus eo die milia passuum XX procedit. Crassum Samarobrivae praeficit legionemque adtribuit, quod ibi impedimenta exercitus, obsides civitatum, litteras publicas frumentumque omne quod eo tolerandae hiemis causa devexerat relinquebat. Fabius, ut imperatum erat, non ita multum moratus in itinere cum legione occurrit. Labienus interitu Sabini et caede cohortium cognita, cum omnes ad eum Treverorum copiae venissent, veritus ne, si ex hibernis fugae similem profectionem fecisset, hostium impetum sustinere non posset, praesertim quos recenti victoria efferri sciret, litteras

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momento dell’assedio si era rifugiato presso Cicerone offrendogli la sua fedeltà. Questi riuscì a persuadere un suo schiavo, promettendogli la libertà e grandi premi, a portare un messaggio a Cesare. La lettera fu nascosta in un giavellotto e, gallo fra i Galli, senza destare sospetti, egli arrivò da Cesare che venne così informato del pericolo in cui si dibattevano Cicerone e la legione. XLVI. Cesare, ricevuta la lettera verso le cinque pomeridiane, mandò subito un messo nelle terre dei Bellovaci al questore M. Crasso, che svernava a circa venticinque miglia da lui e gli comandò di partire con la legione durante la notte e di raggiungerlo. Crasso uscì dal campo insieme al messo. Un altro messaggero fu mandato al legato Gaio Fabio, con l’ordine di condurre la legione nelle terre degli Atrebati, per dove Cesare sapeva di dover passare. Scrisse a Labieno di portarsi con la sua legione nel territorio dei Nervi, se lo potesse fare senza nulla compromettere. Non ritenne opportuno aspettare il resto dell’esercito che stava un po’ troppo lontano; riunì da tutti i campi vicini circa quattrocento cavalieri. XLVII. Informato da staffette che Crasso era vicino, alle nove circa del mattino si mise in marcia e in quel giorno percorse venti miglia. Diede a Crasso l’incarico di presidiare con una legione Samarobriva, dove egli lasciava i bagagli dell’esercito, gli ostaggi dei Galli, i documenti ufficiali e tutto il frumento che aveva fatto riunire per l’inverno. Fabio, secondo l’ordine ricevuto, raggiunse Cesare con la sua legione non molto dopo, durante la marcia. Labieno, che aveva saputo della morte di Sabino e della strage delle coorti, poiché tutte le forze dei Treviri erano venute contro di lui, temeva che uscendo dal campo come se fuggisse, non avrebbe potuto sostenere l’attacco dei nemici imbaldanziti per la recente vittoria; perciò mandò a Cesare un messaggio, per infor-

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Caesari remittit, quanto cum periculo legionem ex hibernis educturus esset, rem gestam in Eburonibus perscribit, docet omnes peditatus equitatusque copias Treverorum tria milia passuum longe ab suis castris consedisse. XLVIII. Caesar consilio eius probato, etsi opinione trium legionum deiectus ad duas redierat, tamen unum communis salutis auxilium in celeritate ponebat. Venit magnis itineribus in Nerviorum fines. Ibi ex captivis cognoscit quae apud Ciceronem gerantur quantoque in periculo res sit. Tum cuidam ex equitibus Gallis magnis praemiis persuadet uti ad Ciceronem epistolam deferat. Hanc Graecis conscriptam litteris mittit, ne intercepta epistola nostra ab hostibus consilia cognoscantur. Si adire non possit, monet ut tragulam cum epistola ad ammentum deligata intra munitionem castrorum abiciat. In litteris scribit se cum legionibus profectum celeriter adfore; hortatur ut pristinam virtutem retineat. Gallus periculum veritus ut erat praeceptum tragulam mittit. Haec casu ad turrim adhaesit neque ab nostris biduo animadversa tertio die a quodam milite conspicitur, dempta ad Ciceronem defertur. Ille perlectam in conventu militum recitat maximaque omnes laetitia adficit. Tum fumi incendiorum procul videbantur; quae res omnem dubitationem adventus legionum expulit. XLIX. Galli re cognita per exploratores obsidionem relinquunt, ad Caesarem omnibus copiis contendunt. Hae erant armata circiter milia LX. Cicero ab eodem Vertico-

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marlo a quale pericolo sarebbe andato incontro se fosse uscito dal suo campo; gli raccontò anche dettagliatamente quanto era successo fra gli Eburoni e gli disse che tutta la fanteria e la cavalleria dei Treveri avevano preso posizione a tre miglia dal suo campo. XLVIII. Cesare approvò la decisione di Labieno e, sebbene la sua speranza di avere tre legioni rimanesse delusa ed egli potesse contare solo su due, pensava che la rapidità dei movimenti fosse l’unica arma che avrebbe giovato alla salvezza di tutti. Forzando la marcia, arrivò nelle terre dei Nervi, dove seppe dai prigionieri ciò che avveniva intorno al campo di Cicerone e in quanto pericolo si trovavano i suoi. Con la promessa di grandi premi, poté persuadere un cavaliere gallo a portare a Cicerone una lettera, che scrisse in greco per evitare che i nemici, se la intercettavano, venissero a scoprire i suoi piani. Ordinò al messaggero che, qualora non avesse potuto entrare nel campo, lanciasse entro le difese un giavellotto con la lettera legata alla cinghia; in questa egli scrisse che, già partito con le legioni, sarebbe presto giunto in suo soccorso ed esortava Cicerone a non perdersi di coraggio. Il gallo, temendo il rischio, lanciò, come gli era stato detto, l’asta che andò a conficcarsi in una torre. Nessuno, però, per due giorni vi fece caso: poi fu vista da un legionario che la portò a Cicerone. Questi, dopo averla aperta e averne presa conoscenza, la lesse ad alta voce alla truppa riunita suscitandone l’entusiasmo più vivo. Intanto si poteva scorgere un lontano fumo di incendi, il che dissipò ogni dubbio sul prossimo arrivo delle legioni. XLIX. Appena i Galli vennero a sapere dai loro esploratori che gli aiuti romani erano vicini, abbandonarono l’assedio dell’accampamento e si diressero contro Cesare con tutte le loro forze: circa sessantamila armati. Ci-

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ne, quem supra demonstravimus, data facultate Gallum reperit qui litteras ad Caesarem deferat; hunc admonet iter caute diligenterque faciat: perscribit in litteris hostes ab se discessisse omnemque ad eum multitudinem convertisse. Quibus litteris circiter media nocte Caesar adlatis suos facit certiores eosque ad dimicandum animo confirmat. Postero die luce prima movet castra et circiter milia passuum quattuor progressus trans vallem et rivum multitudinem hostium conspicatur. Erat magni periculi res tantulis copiis iniquo loco dimicare; tum quoniam obsidione liberatum Ciceronem sciebat, aequo animo remittendum de celeritate existimabat: consedit et quam aequissimo potest loco castra communit atque haec, etsi erant exigua per se, vix hominum milium septem praesertim nullis cum inpedimentis, tamen angustiis viarum quam maxime potest contrahit, eo consilio ut in summam contemptionem hostibus veniat. Interim speculatoribus in omnes partes dimissis explorat quo commodissime itinere vallem transire possit. L. Eo die parvulis equestribus proeliis ad aquam factis utrique sese suo loco continent; Galli, quod ampliores copias, quae nondum convenerant, expectabant; Caesar, si forte timoris simulatione hostes in suum locum elicere posset, ut citra vallem pro castris proelio contenderet; si id efficere non posset, ut exploratis itineribus minore cum periculo vallem rivumque transiret. Prima lu-

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cerone, visto che vi era la possibilità di passare, si procurò per mezzo di quel Verticone, di cui abbiamo già parlato, un messaggero gallo che portasse una lettera a Cesare, ammonendolo di prendere per il viaggio diligenti misure di cautela; nella lettera avvertiva Cesare che i nemici si erano allontanati dal campo e si erano diretti in massa contro di lui. Cesare ebbe la lettera verso la mezzanotte; subito ne informò i suoi e trovò parole per infondere loro animo per la battaglia. Il giorno dopo, alle prime luci dell’alba, tolse il campo e, avanzato di circa quattro miglia, scorse al di là di una valle e di un corso d’acqua tutta la massa dei nemici. Ritenendo che sarebbe stato molto pericoloso combattere con sì scarso numero di soldati in un luogo sfavorevole, e poiché aveva saputo che Cicerone era libero dall’assedio, giudicò di poter, senza scrupoli, rallentare i suoi movimenti. Si fermò, quindi, nel luogo che gli sembrò più adatto, costruì un campo fortificato, con vie interne strettissime che lo rendessero il più piccolo possibile (d’altra parte già era piccolo di per sé, perché i soldati erano solo settemila e non avevano bagagli), per fare in modo che i nemici sottovalutassero le sue forze. Frattanto mandò esploratori in tutte le direzioni per scoprire da quale parte potesse attraversare più agevolmente la valle. L. Per quel giorno vi furono solo piccoli scontri di cavalleria presso il ruscello ed entrambi gli eserciti restarono sulle loro posizioni: i Galli perché aspettavano altre milizie, che non erano ancora arrivate, Cesare perché voleva vedere se gli fosse riuscito, simulando di aver paura, di attirare il nemico verso il punto dove si trovavano i Romani e di attaccare battaglia al di qua della valle: d’altra parte se questo piano non gli fosse riuscito, voleva prima venire a sapere dai suoi esploratori quale era il passaggio meno pericoloso per attraversare la valle e il fiume. All’alba la cavalleria dei nemici si avvicinò al

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ce hostium equitatus ad castra accedit proeliumque cum nostris equitibus committit. Caesar consulto equites cedere seque in castra recipere iubet; simul ex omnibus partibus castra altiore vallo muniri portasque obstrui atque in his administrandis rebus quam maxime concursari et cum simulatione agi timoris iubet. LI. Quibus omnibus rebus hostes invitati copias traducunt aciemque iniquo loco constituunt, nostris vero etiam de vallo deductis propius accedunt et tela intra munitionem ex omnibus partibus coniciunt praeconibusque circummissis pronuntiari iubent, seu quis Gallus seu Romanus velit ante horam tertiam ad se transire, sine periculo licere; post id tempus non fore potestatem: ac sic nostros contempserunt, ut obstructis in speciem portis singulis ordinibus cespitum, quod ea non posse introrumpere videbantur, alii vallum manu scindere, alii fossas complere inciperent. Tum Caesar omnibus portis eruptione facta equitatuque emisso celeriter hostes in fugam dat, sic uti omnino pugnandi causa resisteret nemo, magnumque ex eis numerum occidit atque omnes armis exuit. LII. Longius prosequi veritus, quod silvae paludesque intercedebant neque etiam parvulo detrimento illum locum relinqui videbat, omnibus suis incolumibus copiis eodem die ad Ciceronem pervenit. Institutas turres, testudines munitionesque hostium admiratur; legione producta cognoscit non decimum quemque esse reliquum militem sine vulnere: ex his omnibus iudicat rebus quanto cum periculo et quanta cum virtute res sint admini-

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campo e attaccò battaglia con la nostra. Cesare a bella posta fece ripiegare e ritirare nel campo i suoi cavalieri e, nello stesso tempo, fece sopraelevare il vallo in ogni parte dell’accampamento e sbarrare le porte procedendo nel lavoro con estrema precipitazione, in modo da simulare confusione e grande timore. LI. I nemici, attirati da tutte queste manovre, fecero passare al di qua del corso d’acqua le loro truppe e si fermarono in luogo sfavorevole; poi, avendo i nostri abbandonato il vallo, sempre allo scopo di attirarli, si avvicinarono ancora di più, cominciarono a scagliare dardi da tutte le parti entro le difese e mandarono anche araldi ad annunziare che chiunque, gallo o romano, volesse passare dalla loro parte prima di tre ore, avrebbe potuto farlo senza timore, ma non dopo tale termine di tempo. Mostrarono anche tanto disprezzo per i nostri, che credendo di non poter irrompere nel campo attraverso le porte (a cui con semplici file di zolle era stato dato l’aspetto di chiusure sbarrate) tentarono sia di fare breccia nel vallo, sia di riempire il fossato. Allora Cesare fece una improvvisa sortita da tutte le porte, e lanciò la sua cavalleria: il nemico venne disperso e messo in rotta, tanto che nessuno tentò di far fronte ai Romani: molti furono uccisi e tutti gettarono le armi. LII. Cesare non volle impegnarsi nel loro inseguimento, perché vi erano selve e paludi, per cui non avrebbe potuto arrecare altri danni ai nemici. In quello stesso giorno, con tutti i suoi uomini incolumi, raggiunse Cicerone e vide con meraviglia le torri, i ripari, le difese che i nemici avevano preparato: la legione fu schierata davanti a lui ed egli poté constatare che neppure un soldato su dieci era senza ferite; da tutto ciò capì quanto pericolosa fosse stata quella lotta e con quanto valore i suoi legionari l’avessero affrontata. Fece allora una pubblica

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stratae: Ciceronem pro eius merito legionemque conlaudat: centuriones singillatim tribunosque militum appellat, quorum egregiam fuisse virtutem testimonio Ciceronis cognoverat. De casu Sabini et Cottae certius ex captivis cognoscit. Postero die contione habita rem gestam proponit, milites consolatur et confirmat; quod detrimentum culpa et temeritate legati sit acceptum, hoc aequiore animo ferundum docet, quod beneficio deorum immortalium et virtute eorum expiato incommodo neque hostibus diutina laetitia neque ipsis longior dolor relinquatur. LIII. Interim ad Labienum per Remos incredibili celeritate de victoria Caesaris fama perfertur, ut, cum ab hibernis Ciceronis milia passuum abesset circiter LX, eoque post horam nonam diei Caesar pervenisset, ante mediam noctem ad portas castrorum clamor oreretur, quo clamore significatio victoriae gratulatioque ab Remis Labieno fieret. Hac fama ad Treveros perlata Indutiomarus, qui postero die castra Labieni oppugnare decreverat, noctu profugit copiasque omnes in Treveros reducit. Caesar Fabium cum sua legione remittit in hiberna, ipse cum tribus legionibus circum Samarobrivam trinis hibernis hiemare constituit et, quod tanti motus Galliae extiterant, totam hiemem ipse ad exercitum manere decrevit. Nam illo incommodo de Sabini morte perlato omnes fere Galliae civitates de bello consultabant, nuntios legationesque in omnes partes dimittebant et quid reliqui consilii caperent atque unde initium belli fieret explorabant nocturnaque in locis desertis concilia habebant. Neque ullum fere totius hiemis tempus sine

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lode a Cicerone ed a tutta la legione per i suoi meriti; nominò uno per, uno i centurioni e i tribuni militari di cui per testimonianza di Cicerone aveva saputo il singolare valore. Venne a conoscere più particolareggiatamente dai prigionieri quello che era successo a Sabino e a Cotta. Il giorno dopo, raccolto l’esercito in adunanza, spiegò tutta la vicenda, consolando e rianimando i soldati: disse loro che dovevano di buon animo sopportare il danno subito per lo sbaglio e la leggerezza di un legato, tanto più perché, per grazia degli dei e per il valore che essi avevano dimostrato, il male era stato vendicato e i nemici non avevano potuto godere a lungo della loro gioia; cosicché essi non dovevano più a lungo dolersi. LIII. Frattanto la notizia della vittoria di Cesare arrivò con rapidità meravigliosa, portata dai Remi, a Labieno: egli era lontano circa quaranta miglia dal campo di Cicerone, dove Cesare era arrivato dopo le tre pomeridiane; eppure prima di mezzanotte un grande clamore si levò alle porte del suo campo: erano i Remi che così gli facevano sapere che Cesare aveva vinto e si congratulavano con lui. Quando la notizia arrivò anche ai Treveri, Indutiomaro, che aveva deciso di assalire il giorno dopo il campo di Labieno, fuggì di notte, riconducendo tutti i suoi nelle loro terre. Cesare rimandò Fabio con la legione nell’accampamento che gli aveva assegnato ed egli con tre legioni decise di fermarsi in tre campi intorno a Samarobriva, rimanendo personalmente presso l’esercito per tutto l’inverno, visto che molti moti stavano scoppiando in Gallia. Infatti dopo che la notizia della sconfitta romana e della morte di Sabino si era diffusa, quasi tutte le genti della Gallia meditavano la guerra, mandavano messaggeri e ambascerie in tutte le direzioni, cercavano di sapere come la pensassero gli altri e in quale punto sarebbe cominciato l’attacco; di notte si riunivano in concili in zone disabitate. In tutto l’inverno Cesare

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sollicitudine Caesaris intercessit, quin aliquem de consiliis ac motu Gallorum nuntium acciperet. In his ab L. Roscio [quaestore], quem legioni tertiae decimae praefecerat, certior factus est magnas Gallorum copias earum civitatum, quae Aremoricae appellantur, oppugnandi sui causa convenisse neque longius milia passuum octo ab hibernis suis afuisse, sed nuntio adlato de victoria Caesaris discessisse adeo ut fugae similis discessus videretur. LIV. At Caesar principibus cuiusque civitatis ad se evocatis alias territando, cum se scire quae fierent denuntiaret, alias cohortando magnam partem Galliae in officio tenuit. Tamen Senones, quae est civitas in primis firma et magnae inter Gallos auctoritatis, Cavarinum, quem Caesar apud eos regem constituerat, cuius frater Moritasgus adventu in Galliam Caesaris cuiusque maiores regnum obtinuerant, interficere publico consilio conati, cum ille praesensisset ac profugisset, usque ad fines insecuti regno domoque expulerunt et, missis ad Caesarem satisfaciendi causa legatis, cum is omnem ad se senatum venire iussisset, dicto audientes non fuerunt. Tantum apud homines barbaros valuit esse aliquos repertos principes inferendi belli tantamque omnibus voluntatum commutationem attulit, ut praeter Haeduos et Remos, quos praecipuo semper honore Caesar habuit, alteros pro vetere ac perpetua erga populum Romanum fide, alteros pro recentibus Gallici belli officiis, nulla fere civitas fuerit non suspecta nobis. Idque adeo haud scio mirandumne sit cum conpluribus aliis de causis, tum maxime quod qui virtute belli omnibus gentibus praeferebantur tantum se eius opinionis deperdidisse ut populi Romani imperia perferrent gravissime dolebant.

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non trascorse nessun momento senza preoccupazioni e senza venire a sapere di qualche adunanza segreta o di qualche moto dei Galli. Fra l’altro fu informato da Lucio Roscio, comandante la tredicesima legione, che molti armati dei Galli Aremorici si erano radunati per assalirlo e si erano fermati a solo otto miglia dal suo campo, ma poi, appena saputo della vittoria di Cesare, si erano allontanati con tanta rapidità da sembrare in fuga. LIV. Cesare convocò i principi di ciascuna gente e un po’ spaventandoli col mostrare di sapere quello che avveniva, un po’ esortandoli, riuscì a tenere a freno gran parte della Gallia. Tuttavia i Senoni, popolo potente, di grande autorità fra i Galli, deliberarono di uccidere, per decisione popolare, Cavarino, che Cesare aveva imposto loro come re (il fratello di lui, Moritasgo, era re al tempo dell’arrivo di Cesare in Gallia e anche i suoi antenati avevano regnato). Cavarino venne a conoscenza della deliberazione presa e fuggì; ma inseguito fino ai confini, venne cacciato dal regno ed esiliato. Quando Cesare agli ambasciatori che i Senoni gli avevano inviato per scusarsi ordinò che tutti gli anziani gli si presentassero, i Senoni non lo ubbidirono. E presso quei barbari il fatto di aver trovato chi prendeva iniziativa di guerra valse tanto e portò un così grande cambiamento di animi, che quasi di nessun popolo ci si poté più fidare, ad eccezione degli Edui e dei Remi, i primi per l’antica e costante fedeltà verso il popolo romano, gli altri per i recenti servigi resi nella guerra gallica. Ma non so se ci si debba proprio meravigliare di ciò; occorre tener conto di molte ragioni, ma specialmente del fatto che popoli che erano ritenuti superiori a tutti per valore militare, molto si dolevano di avere perduto la loro fama e di aver dovuto sottostare al dominio dei Romani.

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LV. Treveri vero atque Indutiomarus totius hiemis nullum tempus intermiserunt quin trans Rhenum legatos mitterent, civitates sollicitarent, pecunias pollicerentur, magna parte exercitus nostri interfecta multo minorem superesse dicerent partem. Neque tamen ulli civitati Germanorum persuaderi potuit ut Rhenum transiret, cum se bis expertos dicerent, Ariovisti bello et Tenctherorum transitu: non esse amplius fortunam temptaturos. Hac spe lapsus Indutiomarus nihilo minus copias cogere, exercere, a finitimis equos parare, exules damnatosque tota Gallia magnis praemiis ad se adlicere coepit. Ac tantam sibi iam his rebus in Gallia auctoritatem comparaverat, ut undique ad eum legationes concurrerent, gratiam atque amicitiam publice privatimque peterent. LVI. Ubi intellexit ultro ad se veniri, altera ex parte Senones Carnutesque conscientia facinoris instigari, altera Nervios Atuatucosque bellum Romanis parare, neque sibi voluntariorum copias defore, si ex finibus suis progredi coepisset, armatum concilium indicit. Hoc more Gallorum est initium belli: quo lege communi omnes puberes armati convenire consuerunt; qui ex iis novissimus convenit, in conspectu multitudinis omnibus cruciatibus adfectus necatur. In eo concilio Cingetorigem, alterius principem factionis, generum suum, quem supra demonstravimus Caesaris secutum fidem ab eo non discessisse, hostem iudicat bonaque eius publicat. His rebus confectis in concilio pronuntiat arcessitum se a Senonibus et Carnutibus aliisque conpluribus Galliae civi-

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LV. I Treveri ed il loro capo Indutiomaro, dal canto loro, non smisero mai, durante quell’inverno, di mandare ambasciatori oltre il Reno per invitare quelle genti ad agire, promettendo loro danaro, dicendo che gran parte del nostro esercito era stata distrutta e che ne rimaneva solo la parte minore. Ma non riuscirono a convincere nessuno dei Germani a passare il Reno, perché – essi dicevano – già due volte avevano fatto tale esperimento, durante la guerra di Ariovisto e al tempo del passaggio dei Tenteri, e non volevano rinnovare la prova. Quando ebbe perduto la speranza dell’aiuto dei Germani, Indutiomaro cominciò ugualmente a raccogliere e addestrare soldati, a procurarsi cavalli dai popoli vicini, a chiamare a sé, da tutta la Gallia, esiliati o condannati, allettandoli con grandi promesse. E con tutte queste manovre acquistò subito in Gallia tale prestigio che da ogni parte gli arrivavano ambascerie, che gli presentavano richieste ufficiali o private di amicizia. LVI. Viste queste spontanee ambascerie, tenuto presente che i Senoni e i Carniti erano spinti alla ribellione contro i Romani dal timore delle conseguenze dei loro delitti e che, d’altra parte, i Nervi e gli Aduatuci preparavano già la guerra; considerando, infine, che certo non gli sarebbero mancati soldati volontari se fosse uscito in armi dal suo paese, Indutiomaro indisse un concilio armato. Questo nel costume dei Galli è il rito con cui comincia una guerra; in quel concilio, per legge comune ai popoli, si riuniscono i giovani armati e chi arriva per ultimo, alla presenza di tutti, viene ucciso con i più crudeli tormenti. In questo concilio Indutiomaro accusò, come nemico, suo genero Cingetorige, capo dell’altra fazione popolare, che, come abbiamo detto, si era costantemente mantenuto fedele a Cesare; ne fece anche confiscare i beni. Poi dichiarò nel concilio che egli era stato chiamato dai Senoni, dai Carnuti e da molti altri popoli della

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tatibus: huc iturum per fines Remorum eorumque agros populaturum ac, prius quam id faciat, castra Labieni oppugnaturum. Quae fieri velit, praecipit. LVII. Labienus, cum et loci natura et manu munitissimis castris sese teneret, de suo ac legionis periculo nihil timebat; ne quam occasionem rei bene gerendae dimitteret cogitabat. Itaque a Cingetorige atque eius propinquis oratione Indutiomari cognita quam in concilio habuerat nuntios mittit ad finitimas civitates equitesque undique evocat: his certam diem conveniendi dicit. Interim prope cotidie cum omni equitatu Indutiomarus sub castris eius vagabatur, alias ut situm castrorum cognosceret, alias conloquendi aut territandi causa: equites plerumque omnes tela intra vallum coniciebant. Labienus suos intra munitionem continebat timorisque opinionem quibuscumque poterat rebus augebat. LVIII. Cum maiore in dies contemptione Indutiomarus ad castra accederet, nocte una intromissis equitibus omnium finitimarum civitatum, quos arcessendos curaverat, tanta diligentia omnes suos custodiis intra castra continuit ut nulla ratione ea res enuntiari aut ad Treveros perferri posset. Interim ex consuetudine cotidiana Indutiomarus ad castra accedit atque ibi magnam partem diei consumit: equites tela coniciunt et magna cum contumelia verborum nostros ad pugnam evocant. Nullo ab nostris dato responso, ubi visum est, sub vesperum dispersi ac dissipati discedunt. Subito Labienus duabus portis omnem equitatum emittit: praecipit atque interdicit, proterritis hostibus atque in fugam coniectis (quod

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Gallia; vi sarebbe andato attraversando il territorio dei Remi e devastandolo, ma prima ancora avrebbe assalito l’accampamento di Labieno. E indicò con precisione quello che voleva che gli altri facessero. LVII. Labieno, che si trovava in un campo molto ben difeso per posizione naturale e opere di fortificazione, non temeva per sé e per la sua legione, anzi meditava di non perdere l’occasione per compiere qualche bella impresa. Così, informato da Cingetorige e dai suoi parenti del discorso che Indutiomaro aveva fatto al concilio, mandò messaggeri alle città vicine e fece venire cavalieri da ogni parte, fissando loro una data per raggiungerlo. Frattanto quasi ogni giorno Indutiomaro si presentava con tutta la sua cavalleria fin sotto al campo, un po’ per studiare la posizione, un po’ per parlare con i Romani o tentare di atterrirli, mentre i cavalieri per lo più lanciavano dardi dentro il vallo. Labieno tratteneva i suoi dietro le difese e, con tutti i modi possibili, cercava di dare sempre più ai nemici l’impressione che i suoi fossero spaventati. LVIII. Indutiomaro così si avvicinava al campo con baldanza ogni giorno maggiore. In una notte prestabilita tutti i cavalieri fatti venire dalle genti vicine entrarono nell’accampamento e Labieno impedì a chiunque di uscirne, con tanta cura che in nessun modo la notizia poté essere diffusa e portata fino ai Treviri. Intanto Indutiomaro, come ormai usava fare ogni giorno, si avvicinò al campo e vi si fermò per la maggior parte della giornata; i cavalieri lanciavano dardi e, gridando parole oltraggiose, incitavano i nostri alla battaglia; i Romani non rispondevano. Verso sera, come loro piacque, i barbari si allontanarono divisi, alla spicciolata e nel più completo disordine. Allora, all’improvviso, Labieno fece uscire da due porte tutti i suoi cavalieri, cui ordinò che sorpresi e messi in fuga i nemici (ciò che egli prevedeva

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fore, sicut accidit, videbat) unum omnes petant Indutiomarum, neu quis quem prius vulneret quam illum interfectum viderit, quod mora reliquorum spatium nactum illum effugere nolebat: magna proponit iis qui occiderint praemia; submittit cohortes equitibus subsidio. Conprobat hominis consilium Fortuna et, cum unum omnes peterent, in ipso fluminis vado deprehensus Indutiomarus interficitur caputque eius refertur in castra; redeuntes equites quos possunt consectantur atque occidunt. Hac re cognita omnes Eburonum et Nerviorum quae convenerant copiae discedunt, pauloque habuit post id factum Caesar quietiorem Galliam.

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e che realmente avvenne), ognuno di essi non doveva pensare che a raggiungere Indutiomaro, senza colpire nessuno prima di vederlo morto: ciò perché non voleva che essi indugiassero nell’inseguire gli altri, dando a lui la possibilità di fuggire. Promise, anzi, grandi premi a chi l’avesse ucciso. Fece poi uscire anche le coorti, a sostegno della cavalleria. La Fortuna assecondò il piano di Labieno: impegnati tutti nell’inseguimento di lui solo, Indutiomaro fu raggiunto mentre passava a guado un fiume; fu ucciso e la sua testa venne portata al campo. Durante il ritorno, i cavalieri inseguirono e uccisero tutti quelli che poterono raggiungere. Venuti a conoscenza di quanto era avvenuto, le truppe degli Eburoni e dei Nervi, che si stavano concentrando, si dispersero, e dopo questa vicenda la Gallia ebbe un periodo di relativa calma.

LIBER SEXTUS

I. Multis de causis Caesar maiorem Galliae motum exspectans per M. Silanum, C. Antistium Reginum, T. Sextium legatos dilectum habere instituit: simul a Cn. Pompeio proconsule petit, quoniam ipse ad urbem cum imperio rei publicae causa remaneret, quos ex Cisalpina Gallia consulis sacramento rogasset ad signa convenire et ad se proficisci iuberet, magni interesse etiam in reliquum tempus ad opinionem Galliae existimans tantas videri Italiae facultates ut, si quid esset in bello detrimenti acceptum, non modo id brevi tempore sarcire, sed etiam maioribus augeri copiis posset. Quod cum Pompeius et rei publicae et amicitiae tribuisset, celeriter confecto per suos delectu tribus ante exactam hiemem et constitutis et adductis legionibus duplicatoque earum cohortium numero quas cum Q. Titurio amiserat, et celeritate et copiis docuit quid populi Romani disciplina atque opes possent. II. Interfecto Indutiomaro, ut docuimus, ad eius propinquos a Treveris imperium defertur. Illi finitimos Germanos sollicitare et pecuniam polliceri non desistunt. Cum

LIBRO SESTO

I. Per molte ragioni Cesare si aspettava che moti più gravi scoppiassero in Gallia; perciò fece procedere al reclutamento da parte dei legati Mario Silano, Gaio Antistio Regino e Tito Sestio; contemporaneamente chiese a Gneo Pompeo, proconsole, che però era rimasto per ragioni di Stato a Roma, di chiamare alle armi i giovani della Gallia cisalpina che già avevano prestato giuramento, e di mandarglieli. Egli stimava che molto avrebbe giovato per conservare, sia per il presente che in caso di sua assenza, l’alta opinione che i Galli avevano di Roma, il dimostrare chiaramente che l’Italia disponeva di tante risorse che, in caso di rovescio, egli poteva non solo porvi subito rimedio, ma anzi accrescere ancora di numero le sue armate. Pompeo acconsentì, sia per l’interesse dello Stato, sia per i vincoli di amicizia verso Cesare; fatta rapidamente la leva, tre legioni furono organizzate e gli furono inviate prima della fine dell’inverno. Fu così raddoppiato il numero delle coorti perdute con Q. Titurio e da tale rapido accrescimento delle sue forze apparve chiaro quali risultati potessero raggiungere l’organizzazione e i mezzi di Roma. II. Dopo la morte di Indutiomaro, di cui abbiamo parlato, il comando fu affidato dai Treveri ai parenti di lui. Essi continuarono a chiamare, con promesse di danaro, i Germani confinanti e non riuscendo a convincere i più

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a proximis impetrare non possent, ulteriores temptant. Inventis non nullis civitatibus iure iurando inter se confirmant obsidibusque de pecunia cavent; Ambiorigem sibi societate et foedere adiungunt. Quibus rebus cognitis Caesar cum undique bellum parari videret, Nervios, Atuatucos, Menapios adiunctis Cisrhenanis omnibus Germanis esse in armis, Senones ad imperatum non venire et cum Carnutibus finitumisque civitatibus consilia communicare, a Treveris Germanos crebris legationibus sollicitari, maturius sibi de bello cogitandum putavit. III. Itaque nondum hieme confecta proximis quattuor coactis legionibus de inproviso in fines Nerviorum contendit et, prius quam illi aut convenire aut profugere possent, magno pecoris atque hominum numero capto atque ea praeda militibus concessa vastatisque agris in deditionem venire atque obsides sibi dare coegit. Eo celeriter confecto negotio rursus in hiberna legiones reduxit. Concilio Galliae primo vere, ut instituerat, indicto, cum reliqui praeter Senones, Carnutes Treverosque venissent, initium belli ac defectionis hoc esse arbitratus, ut omnia postponere videretur, concilium Luteciam Parisiorum transfert. Confines erant hi Senonibus civitatemque patrum memoria coniunxerant, sed ab hoc consilio afuisse existimabantur. Hac re pro suggestu pronuntiata eodem die cum legionibus in Senones proficiscitur magnisque itineribus eo pervenit.

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vicini, si rivolgevano a quelli che abitavano più all’interno; trovate alcune genti disposte ad assecondarli, le fecero vincolare con giuramenti e diedero garanzia per il danaro promesso consegnando ostaggi. Riuscirono pure ad avere come amico ed alleato Ambiorige. Cesare seppe di queste trattative e si accorse che da ogni parte fervevano preparativi di guerra: i Nervi, gli Aduatuci, i Menapi erano in armi con l’aiuto dei Germani cisrenani; i Senoni non ubbidivano ai suoi comandi e prendevano accordi con i Carnuti e con le altre genti confinanti; i Germani erano continuamente istigati dai Treveri. Allora pensò che era necessario iniziare al più presto le operazioni di guerra. III. Perciò, prima ancora che l’inverno finisse, riunì le quattro legioni più vicine e partì improvvisamente alla volta dei Nervi. Prima che questi potessero radunarsi o fuggire, catturò grande quantità di bestiame e di uomini, che diede come bottino ai suoi soldati e, devastati i campi, costrinse i Nervi ad arrendersi e a consegnare ostaggi. Terminata rapidamente questa azione ricondusse gli uomini agli accampamenti. Indisse poi, come soleva fare in primavera, il concilio dei popoli gallici: ad esso intervennero tutti i popoli della Gallia, tranne i Senoni, i Carnuti e i Treveri, l’astensione dei quali Cesare interpretò come segno di aperta ribellione. Perché si vedesse che egli ad ogni altra cosa attribuiva meno importanza, trasferì il concilio a Lutezia,13 città dei Parisi. Questi erano confinanti con i Senoni, e si erano uniti ad essi in un unico Stato pochi decenni prima; ma sembrava che non avessero preso parte al piano di ribellione. Cesare annunziò, dal palco, il trasferimento dell’assemblea e quel giorno stesso partì, a grandi tappe, con le legioni verso il paese dei Senoni. 13

L’attuale Parigi.

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IV. Cognito eius adventu Acco, qui princeps eius consilii fuerat, iubet in oppida multitudinem convenire. Conantibus, priusquam id effici posset, adesse Romanos nuntiatur. Necessario sententia desistunt legatosque deprecandi causa ad Caesarem mittunt: adeunt per Haeduos, quorum antiquitus erat in fide civitas. Libenter Caesar petentibus Haeduis dat veniam excusationemque accipit, quod aestivum tempus instantis belli, non quaestionis esse arbitrabatur. Obsidibus imperatis centum hos Haeduis custodiendos tradit. Eodem Carnutes legatos obsidesque mittunt usi deprecatoribus Remis, quorum erant in clientela: eadem ferunt responsa. Peragit concilium Caesar equitesque imperat civitatibus. V. Hac parte Galliae pacata totus et mente et animo in bellum Treverorum et Ambiorigis insistit. Cavarinum cum equitatu Senonum secum proficisci iubet, ne quis aut ex huius iracundia aut ex eo quod meruerat odio civitatis motus existat. His rebus constitutis, quod pro explorato habebat Ambiorigem proelio non esse contenturum, reliqua eius consilia animo circumspiciebat. Erant Menapii propinqui Eburonum finibus, perpetuis paludibus silvisque muniti, qui uni ex Gallia de pace ad Caesarem legatos numquam miserant. Cum his esse hospitium Ambiorigi sciebat; item per Treveros venisse Germanis in amicitiam cognoverat. Haec prius illi detrahenda auxilia existimabat quam ipsum bello lacesse-

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IV. Quando Accone, che era stato l’istigatore della ribellione, seppe del suo approssimarsi, ordinò che il popolo si ricoverasse nelle città fortificate; ma la notizia che i Romani erano ormai molto vicini impedì l’esecuzione dell’ordine. Poiché dovettero desistere dal loro proposito, mandarono ambasciatori a Cesare per supplicarlo, introdotti presso di lui dagli Edui sotto la cui protezione essi erano da antichissimo tempo. Volentieri Cesare accordò il perdono, quando gli Edui glielo richiesero, ed accettò le scuse dei ribelli, perché pensava che l’estate, ormai prossima, fosse tempo da dedicare alla guerra imminente e non a quella questione. Impose però cento ostaggi, che affidò in custodia agli Edui. Anche i Carnuti gli mandarono ambasciatori e ostaggi, con la mediazione dei Remi cui essi erano soggetti e con lo stesso risultato: Cesare condusse a termine il concilio e ordinò alle varie genti di fornirgli cavalieri. V. Pacificata così di nuovo questa parte della Gallia, rivolse tutta la sua volontà e la sua attenzione alla guerra contro i Treveri e Ambiorige. Diede a Cavarino il comando della cavalleria dei Senoni e lo fece partire con sé, affinché non scoppiasse qualche moto provocato dal desiderio di vendetta di costui o dall’odio che egli si era meritato dai suoi connazionali. Provveduto a ciò, poiché sapeva che sicuramente non sarebbe riuscito a provocare Ambiorige a battaglia campale, cercò di immaginare quali altri piani egli poteva escogitare. Presso i confini degli Eburoni erano stanziati i Menapi, protetti da ininterrotte selve e paludi: essi erano i soli dei Galli che mai avessero mandato ambasciatori a Cesare per trattare la pace. Cesare sapeva che avevano vincoli di ospitalità con Ambiorige e sapeva anche che, attraverso i Treveri, questi avevano stretto amicizia con i Germani. Pensava, perciò, che era necessario togliere ad Ambiorige l’aiuto di questi popoli prima di portare a lui stesso la guerra,

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ret ne desperata salute aut se in Menapios abderet aut cum Transrhenanis congredi cogeretur. Hoc inito consilio totius exercitus impedimenta ad Labienum in Treveros mittit duasque ad eum legiones proficisci iubet; ipse cum legionibus expeditis quinque in Menapios proficiscitur. Illi nulla coacta manu loci praesidio freti in silvas paludesque confugiunt suaque eodem conferunt. VI. Caesar partitis copiis cum C. Fabio legato et M. Crasso quaestore celeriterque effectis pontibus adit tripertito, aedificia vicosque incendit, magno pecoris atque hominum numero potitur. Quibus rebus coacti Menapii legatos ad eum pacis petendae causa mittunt. Ille obsidibus acceptis hostium se habiturum numero confirmat, si aut Ambiorigem aut eius legatos finibus suis recepissent. His confirmatis rebus Commium Atrebatem cum equitatu custodis loco in Menapiis relinquit; ipse in Treveros proficiscitur. VII. Dum haec a Caesare geruntur, Treveri magnis coactis peditatus equitatusque copiis Labienum cum una legione, quae in eorum finibus hiemaverat, adoriri parabant, iamque ab eo non longius bidui via aberant, cum duas venisse legiones missu Caesaris cognoscunt. Positis castris a milibus passuum quindecim auxilia Germanorum exspectare constituunt. Labienus hostium cognito consilio sperans temeritate eorum fore aliquam dimicandi facultatem, praesidio quinque cohortium impedimentis relicto cum viginti quinque cohortibus magnoque equitatu contra hostem proficiscitur et mille passuum intermisso spatio castra communit. Erat inter Labienum atque hostem difficili transitu flumen ripisque

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affinché non potesse, una volta sconfitto, rifugiarsi presso i Menapi o riunirsi con i Germani. Fatto questo piano, mandò a Labieno, nelle terre dei Treveri, l’equipaggiamento di tutto l’esercito e due legioni: egli stesso partì contro i Menapi con cinque legioni senza bagagli. Questi, senza radunare l’esercito, ma confidando solo nella conformazione naturale della loro terra, si rifugiarono nelle paludi, trasportandovi tutti i loro beni. VI. Cesare divise le sue forze col questore Marco Crasso e il legato Gaio Fabio e, costruiti dei ponti con grande rapidità, avanzò in tre direzioni, incendiando villaggi e costruzioni isolate e catturando grande quantità di bestiame e di uomini. Allora i Menapi, ridotti alle strette, gli mandarono ambasciatori per chiedere la pace. Cesare, dopo aver avuto gli ostaggi, dichiarò loro che li avrebbe considerati nemici se avessero ricevuto entro i loro confini Ambiorige o i suoi inviati. Ordinate così le cose, lasciò Commio atrebate con la cavalleria a sorvegliare i Menapi e partì alla volta dei Treveri. VII. Nel frattempo i Treveri avevano riunito un forte esercito di cavalleria e fanteria e si preparavano ad assalire Labieno e la legione che si trovava accampata per l’inverno nelle loro terre; non erano lontani più di due giorni di marcia, quando vennero a sapere che giungevano altre due legioni mandate da Cesare. Allora posero il campo a circa quindici miglia di distanza, decisi ad attendere gli aiuti dei Germani. Quando Labieno venne a conoscenza di questo proposito dei nemici, sperando che l’imprudenza dei barbari gli offrisse qualche buona possibilità, lasciò cinque coorti a guardia dei bagagli dell’esercito e condusse le altre venticinque contro il nemico: arrivato alla distanza di un miglio si fermò e stabilì il campo. Tra Labieno e il nemico scorreva un fiume difficile a guadarsi e dalle rive scoscese: Labieno non voleva

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praeruptis. Hoc neque ipse transire habebat in animo neque hostes transituros existimabat. Augebatur auxiliorum cotidie spes. Loquitur in consilio palam, quoniam Germani adpropinquare dicantur, sese suas exercitusque fortunas in dubium non devocaturum et postero die prima luce castra moturum. Celeriter haec ad hostes deferuntur, ut ex magno Gallorum equitum numero non nullos Gallicis rebus favere natura cogebat. Labienus noctu tribunis militum primisque ordinibus convocatis quid sui sit consilii proponit et, quo facilius hostibus timoris det suspicionem, maiore strepitu et tumultu quam populi Romani fert consuetudo castra moveri iubet. His rebus fugae similem profectionem effecit. Haec quoque per exploratores ante lucem in tanta propinquitate castrorum ad hostes deferuntur. VIII. Vix agmen novissimum extra munitiones processerat, cum Galli cohortati inter se ne speratam praedam ex manibus dimitterent – longum esse perterritis Romanis Germanorum auxilium expectare, neque suam pati dignitatem ut tantis copiis tam exiguam manum praesertim fugientem atque impeditam adoriri non audeant – flumen transire et iniquo loco committere proelium non dubitant. Quae fore suspicatus Labienus, ut omnes citra flumen eliceret eadem usus simulatione itineris placide progrediebatur. Tum praemissis paulum impedimentis atque in tumulo quodam collocatis «habetis» inquit «milites, quam petistis facultatem: hostem impedito

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attraversarlo, né riteneva che lo avrebbero fatto i nemici, per i quali ogni giorno diventava più forte la speranza dell’arrivo degli aiuti. Allora nel consiglio di guerra, parlando a voce alta, in modo da essere inteso dai soldati, disse che, visto che si annunciava l’arrivo dei Germani, egli non voleva mettere a rischio la fortuna sua e del suo esercito e perciò l’indomani mattina si sarebbe tolto il campo. Queste parole furono ben presto riferite ai nemici (ed era ben naturale che fra tanti cavalieri galli qualcuno parteggiasse per il suo paese). Labieno, convocati di notte i tribuni militari e i centurioni dei primi ordini, spiegò il suo piano, e per dare ai barbari ancora di più l’impressione che egli avesse paura, ordinò di compiere le manovre per la rimozione dell’accampamento con rumore e confusione maggiore di quel che avviene di solito nei campi romani, cosicché la partenza apparisse simile a una fuga. Anche ciò venne riferito dagli esploratori ai nemici prima ancora dell’alba, dato che i due campi erano così vicini. VIII. La retroguardia era appena uscita dall’accampamento quando i Galli cominciarono ad esortarsi a vicenda di non lasciarsi sfuggire dalle mani l’ambita preda, affermando che sarebbe stato troppo lungo aspettare i Germani, dal momento che i Romani, atterriti, si ritiravano; quindi, gridando che non era degno del loro valore il non osare, in tanti quanti erano, l’assalto di una schiera tanto esigua e per di più già in fuga e impacciata dai bagagli, non esitarono a passare il fiume e ad attaccare battaglia sia pure in un punto sfavorevole. Labieno che non aspettava altro che questo, per richiamarli tutti al di qua del fiume, continuava la sua finzione e proseguiva il cammino lentamente. Poi, mandati un po’ più avanti i carriaggi e postili su una piccola altura, arringò i soldati: «Avete finalmente, o soldati,» egli disse «l’occasione che cercavate: ecco il nemico carico di bagagli e

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atque iniquo loco tenetis: praestate eandem nobis ducibus virtutem, quam saepe numero imperatori praestitistis, atque illum adesse et haec coram cernere existimate». Simul signa ad hostem converti aciemque dirigi iubet et paucis turmis praesidio ad impedimenta dimissis reliquos equites ad latera disponit. Celeriter nostri clamore sublato pila in hostes immittunt. Illi, ubi praeter spem quos modo fugere credebant infestis signis ad se ire viderunt, impetum [modo] ferre non potuerunt ac primo concursu in fugam coniecti proximas silvas petierunt. Quos Labienus equitatu consectatus magno numero interfecto, conpluribus captis paucis post diebus civitatem recepit. Nam Germani qui auxilio veniebant percepta Treverorum fuga sese domum contulerunt. Cum his propinqui Indutiomari, qui defectionis auctores fuerant, comitati eos ex civitate excesserunt. Cingetorigi, quem ab initio permansisse in officio demonstravimus, principatus atque imperium est traditum. IX. Caesar, postquam ex Menapiis in Treveros venit, duabus de causis Rhenum transire constituit; quarum una erat, quod auxilia contra se Treveris miserant, altera, ne ad eos Ambiorix receptum haberet. His constitutis rebus paulo supra eum locum quo ante exercitum traduxerat facere pontem instituit. Nota atque instituta ratione magno militum studio paucis diebus opus efficitur. Firmo in Treveris ad pontem praesidio relicto, ne quis ab his subito motus oreretur, reliquas copias equitatumque traducit. Ubii, qui ante obsides dederant at-

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attirato in un luogo sfavorevole. Mostrate ora sotto il mio comando lo stesso valore di cui tante volte avete dato prova a Cesare e comportatevi come se egli fosse qui con noi e vedesse di persona ogni vostra azione». E fece contemporaneamente volgere la schiera, dirigendola verso il nemico, mentre mandava una piccola formazione di cavalleria a guardia dei carichi e disponeva il resto sui fianchi. Rapidamente i nostri, lanciando le alte grida dell’assalto, scagliarono i giavellotti contro il nemico. Questo, stupito nel vedere che, contrariamente alla sua speranza, quelli che credeva in fuga muovevano le insegne alla battaglia, non riuscì a sostenerne l’urto, ma volse le spalle cercando rifugio nelle selve vicine. Labieno li inseguì con la cavalleria uccidendone molti e molti prendendone prigionieri. Pochi giorni dopo accettò la resa dei Treveri ed i Germani che accorrevano in aiuto, venuti a sapere della sconfitta dei Treveri, ritornarono in patria. I parenti di Indutiomaro, che era stato l’istigatore della ribellione, li accompagnarono e insieme a loro uscirono dai confini; il potere e il regno passò così a Cingetorige, che fin da principio era rimasto, come abbiamo detto, fedele. IX. Cesare, arrivato dal paese dei Menapi in quello dei Treveri, decise di attraversare il Reno, per due ragioni: prima perché i Germani avevano mandato aiuti ai Treveri contro di lui, poi perché Ambiorige non potesse trovare rifugio presso di loro. Decisa la spedizione, procedette alla costruzione di un ponte, poco più a sud del punto da cui era passato la volta precedente. Il sistema era già noto e definito in tutte le sue parti, grande era l’entusiasmo dei soldati, quindi l’opera fu compiuta in pochi giorni. Lasciato un forte presidio a difesa del ponte nelle terre dei Treveri, per impedire eventuali nuove sollevazioni, Cesare fece passare le altre truppe e la cavalleria. Gli Ubii, che durante la prima spedizione dei

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que in deditionem venerant, purgandi sui causa ad eum legatos mittunt, qui doceant neque auxilia ex sua civitate in Treveros missa neque ab se fidem laesam: petunt atque orant ut sibi parcat, ne communi odio Germanorum innocentes pro nocentibus poenas pendant; si amplius obsidum velit dari, pollicentur. Cognita Caesar causa reperit ab Suebis auxilia missa esse; Ubiorum satisfactionem accipit, aditus viasque in Suebos perquirit. X. Interim paucis post diebus fit ab Ubiis certior Suebos omnes unum in locum copias cogere atque iis nationibus quae sub eorum sint imperio denuntiare ut auxilia peditatus equitatusque mittant. His cognitis rebus rem frumentariam providet, castris idoneum locum deligit. Ubiis imperat ut pecora deducant suaque omnia ex agris in oppida conferant, sperans barbaros atque imperitos homines inopia cibariorum adductos ad iniquam pugnandi condicionem posse deduci; mandat ut crebros exploratores in Suebos mittant quaeque apud eos gerantur cognoscant. Illi imperata faciunt et paucis diebus intermissis referunt: Suebos omnes, postea quam certiores nuntii de exercitu Romanorum venerint, cum omnibus suis sociorumque copiis quas coegissent penitus ad extremos fines se recepisse; silvam esse ibi infinita magnitudine, quae appellatur Bacenis; hanc longe introrsus pertinere et pro nativo muro obiectam Cheruscos ab Suebis Suebosque ab Cheruscis iniuriis incursionibusque prohibere: ad eius initium silvae Suebos adventum Romanorum exspectare constituisse. XI. Quoniam ad hunc locum perventum est, non alienum esse videtur de Galliae Germaniaeque moribus et

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Romani si erano arresi e avevano consegnato ostaggi, mandarono subito ambasciatori per attestare che essi non avevano mandato aiuti ai Treveri, né avevano tradito la fedeltà promessa; pregavano e supplicavano che si usasse verso di loro clemenza e che degli innocenti, coinvolti nel risentimento generale verso i Germani, non espiassero per i colpevoli; offrivano di aumentare il numero degli ostaggi, se Cesare l’avesse voluto. Cesare, fatta un’inchiesta, venne a sapere che gli aiuti erano stati mandati dagli Svevi; accettò, allora, le discolpe degli Ubii e assunse accurate informazioni circa le strade che portavano nelle terre sveve. X. Pochi giorni dopo venne informato dagli Ubii che gli Svevi radunavano tutte le loro forze in un certo luogo e richiedevano aiuti di fanteria e di cavalleria alle genti che erano sotto il loro dominio. Perciò Cesare provvide a procurarsi vettovaglie e a scegliersi un punto adatto all’accampamento; comandò poi agli Ubii di portar via il bestiame e di raccogliere tutti i loro beni nelle città togliendoli dai campi (sperava di poter così indurre a combattere in posizione sfavorevole quegli uomini barbari e inesperti, procurando loro carestia di rifornimenti) e li incaricò di mandare esploratori nelle terre degli Svevi per sapere ciò che stessero facendo. Gli Ubii ubbidirono ed entro pochi giorni gli riferirono che tutti gli Svevi, dopo aver avuto notizia più sicura sull’arrivo dell’esercito romano, si erano ritirati con le loro truppe e quelle degli alleati nella regione più interna, dove esisteva una selva immensa, detta Bacenis, che si estendeva per grande profondità e divideva come un muro naturale i Cheruschi dagli Svevi, impedendo reciproche incursioni od offese: al margine di questa selva gli Svevi avevano deciso di aspettare i Romani. XI. Poiché siamo giunti a questo punto, non mi sembra fuori posto parlare dei costumi dei Galli e dei Germa-

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quo differant hae nationes inter sese proponere. In Gallia non solum in omnibus civitatibus atque in omnibus pagis partibusque, sed paene etiam in singulis domibus factiones sunt, earumque factionum principes sunt qui summam auctoritatem eorum iudicio habere existimantur, quorum ad arbitrium iudiciumque summa omnium rerum consiliorumque redeat. Idque eius rei causa antiquitus institutum videtur, ne quis ex plebe contra potentiorem auxilii egeret: suos enim quisque opprimi et circumveniri non patitur, neque, aliter si faciat, ullam inter suos habet auctoritatem. Haec eadem ratio est in summa totius Galliae; namque omnes civitates in partes divisae sunt duas. XII. Cum Caesar in Galliam venit, alterius factionis principes erant Haedui, alterius Sequani. Hi cum per se minus valerent, quod summa auctoritas antiquitus erat in Haeduis magnaeque eorum erant clientelae, Germanos atque Ariovistum sibi adiunxerant eosque ad se magnis iacturis pollicitationibusque perduxerant. Proeliis vero conpluribus factis secundis atque omni nobilitate Haeduorum interfecta tantum potentia antecesserant, ut magnam partem clientium ab Haeduis ad se traducerent obsidesque ab iis principum filios acciperent, et publice iurare cogerent nihil se contra Sequanos consilii inituros, et partem finitimi agri per vim occupatam possiderent Galliaeque totius principatum obtinerent. Qua necessitate adductus Diviciacus auxilii petendi causa Romam ad senatum profectus infecta re redierat. Adventu Caesaris facta commutatione rerum, obsidibus

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ni e delle differenze che vi sono tra questi due popoli. In Gallia non solo in tutte le città, in ogni villaggio e in ogni zona, ma direi, addirittura, in ogni famiglia vi sono fazioni rivali, alla testa delle quali sono posti gli uomini più influenti, molto considerati dai Galli, perché nelle loro mani è riposta la somma autorità e la facoltà di decidere di tutto. Sembra che questa istituzione risalga a tempi antichi ed abbia lo scopo di impedire che i cittadini appartenenti alla plebe manchino dell’appoggio contro chi è più potente; infatti, nessun capo sopporterebbe di vedere i suoi ingannati e maltrattati, pena la perdita, per parte sua, di ogni prestigio. La stessa cosa avviene per tutta la Gallia, considerata nel suo insieme; essendo ogni gente divisa in due grandi partiti. XII. Quando Cesare giunse in Gallia, a capo di una di queste due fazioni c’erano gli Edui, a capo dell’altra i Sèquani. Costoro, consapevoli di essere meno forti, perché fin dai tempi antichi l’egemonia era nelle mani degli Edui a cui numerosi popoli erano alleati, erano riusciti, con grandi promesse e grandi sacrifici, ad attirare dalla loro parte i Germani e Ariovisto. Vittoriosi in parecchie battaglie, in cui erano stati decimati quasi tutti i nobili Edui, erano arrivati a tanta potenza, che gran parte dei popoli alleati degli Edui erano passati a loro; essi avevano preteso come ostaggi i figli dei principi edui, che avevano costretto a giurare ufficialmente che non avrebbero più presa alcuna iniziativa contro i Sèquani; infine, si erano impossessati di una parte del territorio eduo confinante col loro, da essi occupato durante la guerra, ed avevano, così, ottenuto il predominio su tutta la Gallia. Diviziaco, allora, spinto dalla necessità, si era recato a Roma, per chiedere aiuto al Senato; ma era tornato senza aver ottenuto nulla. Con l’arrivo di Cesare, però, le cose erano cambiate: gli ostaggi erano stati restituiti agli

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Haeduis redditis, veteribus clientelis restitutis, novis per Caesarem comparatis, quod ii qui se ad eorum amicitiam adgregaverant meliore condicione atque aequiore imperio se uti videbant, reliquis rebus eorum gratia dignitateque amplificata, Sequani principatum dimiserant. In eorum locum Remi successerant: quos quod adaequare apud Caesarem gratia intellegebatur, ii qui propter veteres inimicitias nullo modo cum Haeduis coniungi poterant se Remis in clientelam dicabant. Hos illi diligenter tuebantur: ita novam et repente collectam auctoritatem tenebant. Eo tum statu res erat, ut longe principes haberentur Haedui, secundum locum dignitatis Remi obtinerent. XIII. In omni Gallia eorum hominum qui aliquo sunt numero atque honore genera sunt duo. Nam plebes paene servorum habetur loco, quae nihil audet per se, nulli adhibetur consilio. Plerique, cum aut aere alieno aut magnitudine tributorum aut iniuria potentiorum premuntur, sese in servitutem dicant nobilibus; in hos eadem omnia sunt iura quae dominis in servos. Sed de his duobus generibus alterum est druidum, alterum equitum. Illi rebus divinis intersunt, sacrificia publica ac privata procurant, religiones interpretantur: ad hos magnus adulescentium numerus disciplinae causa concurrit magnoque hi sunt apud eos honore. Nam fere de omnibus controversiis publicis privatisque constituunt et, si quod est admissum facinus, si caedes facta, si de heredidate, de finibus controversia est, idem decernunt, praemia poenasque constituunt; si qui aut privatus aut populus

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Edui, erano ritornati a loro i vecchi clienti ed altri se ne erano aggiunti per l’interessamento di Cesare e perché quelli che si erano posti sotto la loro protezione vedevano che le condizioni erano migliori e l’autorità più giusta; per tutti gli altri riguardi la loro dignità e il loro prestigio erano aumentati, mentre i Sèquani avevano perduto la posizione di predominio. Al posto loro erano saliti in autorità i Remi: perché si capiva che essi godevano presso Cesare della stessa benevolenza; quelli che non potevano, per causa di antiche inimicizie, avvicinarsi agli Edui, si ponevano sotto la protezione dei Remi, e questi tutelavano con molto zelo i loro interessi al fine di conservarsi la preminenza che avevano conquistato tanto di recente e con tanta rapidità. Le cose stavano dunque così: gli Edui erano considerati i primi tra quelle genti, i Remi avevano il secondo posto. XIII. In Gallia vi sono due categorie di uomini che sono tenuti in gran conto e in grande onore; quelli che appartengono alla plebe sono considerati come schiavi e non prendono da soli nessuna iniziativa né partecipano a nessuna assemblea; molti, poi, quando sono oberati da debiti o da tributi troppo gravosi o sono tormentati dalle offese di potenti, si fanno servi dei nobili, che hanno, allora, su di loro quasi gli stessi diritti dei padroni sugli schiavi. Delle due categorie sopraccennate l’una è quella dei druidi, l’altra quella dei cavalieri. I druidi si interessano del culto, provvedono ai sacrifici pubblici e privati, interpretano le cose attinenti alla religione: presso di loro si raccoglie per istruirsi un gran numero di giovani ed essi sono tenuti in grande onore e considerazione. Sono chiamati a decidere in quasi tutte le controversie pubbliche e private e se viene commesso qualche delitto, se avviene qualche uccisione, se sorge una lite per un’eredità o per la delimitazione di terreni, sono i druidi a decidere e a stabilire i risarcimenti e le pene. E se

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eorum decreto non stetit, sacrificiis interdicunt. Haec poena apud eos est gravissima. Quibus ita est interdictum, hi numero impiorum ac sceleratorum habentur, his omnes decedunt, aditum sermonemque defugiunt, ne quid ex contagione incommodi accipiant, neque iis petentibus ius redditur neque honos ullus communicatur. His autem omnibus druidibus praeest unus, qui summam inter eos habet auctoritatem. Hoc mortuo aut, si qui ex reliquis excellit dignitate, succedit, aut, si sunt plures pares, suffragio druidum, non numquam etiam armis de principatu contendunt. Hi certo anni tempore in finibus Carnutum, quae regio totius Galliae media habetur, considunt in loco consecrato. Huc omnes undique qui controversias habent conveniunt eorumque decretis iudiciisque parent. Disciplina in Britannia reperta atque inde in Galliam translata esse existimatur, et nunc qui diligentius eam rem cognoscere volunt plerumque illo discendi causa proficiscuntur. XIV. Druides a bello abesse consuerunt neque tributa una cum reliquis pendunt, militiae vacationem omniumque rerum habent immunitatem. Tantis excitati praemiis et sua sponte multi in disciplinam conveniunt et a parentibus propinquisque mittuntur. Magnum ibi numerum versuum ediscere dicuntur. Itaque annos non nulli XX in disciplina permanent. Neque fas esse existimant ea litteris mandare, cum in reliquis fere rebus, publicis privatisque rationibus, Graecis litteris utantur. Id mihi duabus de causis instituisse videntur, quod neque in vulgum disciplinam efferri velint, neque eos qui discunt lit-

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qualcuno, sia che si tratti di un cittadino privato o di un intero popolo, non si attiene al loro giudizio, lo bandiscono dalle funzioni del culto, pena che è, presso i Galli, gravissima, giacché quelli che sono a questo modo banditi sono considerati empi e scellerati; tutti si allontanano da loro, evitano di incontrarli e di parlare con essi, per non essere contaminati dal loro contatto; non ottengono giustizia anche se la chiedono, né alcun onore. Tutti i druidi obbediscono ad un unico capo che ha su di loro la più alta autorità. Quando costui muore, gli succede chi eccelle tra gli altri per dignità e se più di uno gode della stessa stima, allora decidono dell’assegnazione del primo posto con una votazione e talvolta anche con le armi. I druidi in un periodo fisso dell’anno siedono in giudizio in un luogo sacro, nella terra dei Carnuti, che si ritiene essere il centro della Gallia. Qui vengono da ogni parte coloro che hanno delle controversie e si sottopongono al loro giudizio e alle loro decisioni. È comune opinione che l’organizzazione dei druidi sia originaria della Britannia e di lì sia passata in Gallia ed ora chi vuole approfondirne lo studio, si reca per lo più in tale isola, alla ricerca di notizie al riguardo. XIV. I druidi non partecipano alle guerre, né pagano i tributi come gli altri, sono esenti dal servizio militare e da ogni altro gravame. Attirati da così grandi privilegi, molti giovani di loro volontà si recano da loro per esserne discepoli e molti sono mandati dai genitori e dai parenti. Da loro, a quanto pare, debbono imparare a memoria un gran numero di versi; per molti il tempo del noviziato dura venti anni. Non ritengono lecito scrivere i loro sacri precetti; invece per gli altri affari, sia pubblici che privati, usano l’alfabeto greco. Mi sembra che due siano le ragioni per cui essi evitano la scrittura: prima di tutto perché non vogliono che le norme che regolano la loro organizzazione siano risapute dal volgo, poi perché

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teris confisos minus memoriae studere; quod fere plerisque accidit, ut praesidio litterarum diligentiam in perdiscendo ac memoriam remittant. In primis hoc volunt persuadere, non interire animas, sed ab aliis post mortem transire ad alios, atque hoc maxime ad virtutem excitari putant, metu mortis neglecto. Multa praeterea de sideribus atque eorum motu, de mundi ac terrarum magnitudine, de rerum natura, de deorum immortalium vi ac potestate disputant et iuventuti tradunt. XV. Alterum genus est equitum. Hi, cum est usus atque aliquod bellum incidit (quod ante Caesaris adventum quotannis fere accidere solebat, uti aut ipsi iniurias inferrent aut inlatas propulsarent), omnes in bello versantur, atque eorum ut quisque est genere copiisque amplissimus, ita plurimos circum se ambactos clientesque habet. Hanc unam gratiam potentiamque noverunt. XVI. Natio est omnis Gallorum admodum dedita religionibus, atque ob eam causam qui sunt affecti gravioribus morbis quique in proeliis periculisque versantur, aut pro victimis homines immolant aut se immolaturos vovent administrisque ad ea sacrificia druidibus utuntur, quod, pro vita hominis nisi hominis vita reddatur, non posse deorum immortalium numen placari arbitrantur, publiceque eiusdem generis habent instituta sacrificia. Alii immani magnitudine simulacra habent, quorum contexta viminibus membra vivis hominibus complent; quibus succensis circumventi flamma exanimantur homines. Supplicia eorum qui in furto aut in latrocinio aut aliqua noxia sint comprehensi gratiora dis immortalibus esse arbitrantur; sed cum eius generis copia deficit, etiam ad innocentium supplicia descendunt.

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i discepoli non le studino con minore diligenza, confidando negli scritti (accade, infatti, quasi a tutti che, fidando sull’aiuto della scrittura, non si tenga in esercizio la memoria). Il principale loro insegnamento è l’immortalità dell’anima e la sua migrazione, dopo la morte, da un corpo all’altro; essi ritengono che questa dottrina, eliminato il timore della morte, sia il più grande incitamento al valore. Vengono anche trattate ed insegnate ai giovani molte questioni sugli astri e i loro movimenti, sulla grandezza del mondo e della terra, sulla natura, sulla essenza e sul potere degli dèi. XV. L’altra classe privilegiata è quella dei cavalieri. Costoro, quando ce n’è bisogno, in caso di qualche guerra (e questo prima dell’arrivo di Cesare capitava quasi ogni anno, o che portassero le armi contro qualcuno o che si difendessero), accorrono tutti per combattere e quanto più sono nobili e facoltosi, tanto più numerosi servi e clienti hanno con sé. Conoscono questa sola specie di autorità e di potenza. XVI. I Galli sono molto dediti alle pratiche religiose, perciò quelli che sono ammalati gravemente o si trovano in guerra o in pericolo, fanno sacrifici umani o fanno voto di immolare se stessi e si servono dei druidi come esecutori di questi sacrifici: essi credono, infatti, che gli dèi immortali non possano essere soddisfatti se non si dà loro, in cambio della vita di un uomo, la vita di un altro uomo; fanno, perciò, anche sacrifici ufficiali di questo genere. Certe popolazioni costruiscono statue enormi, fatte di vimini intrecciati, che riempiono di uomini vivi ed incendiano, facendoli morire tra le fiamme. Credono che cosa più gradita agli dèi sia il sacrificio di coloro che sono sorpresi a rubare, rapinare o commettere qualche altro delitto; ma quando mancano costoro, sacrificano anche degli innocenti.

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XVII. Deum maxime Mercurium colunt: huius sunt plurima simulacra; hunc omnium inventorem artium ferunt, hunc viarum atque itinerum ducem, hunc ad quaestus pecuniae mercaturasque habere vim maximam arbitrantur. Post hunc Apollinem et Martem et Iovem et Minervam. De his eandem fere quam reliquae gentes habent opinionem: Apollinem morbos depellere, Minervam operum atque artificiorum initia tradere, Iovem imperium caelestium tenere, Martem bella regere. Huic, cum proelio dimicare constituerunt, ea quae bello ceperint plerumque devovent; cum superaverunt, animalia capta immolant reliquasque res in unum locum conferunt. Multis in civitatibus harum rerum extructos tumulos locis consecratis conspicari licet; neque saepe accidit ut neglecta quispiam religione aut capta apud se occultare aut posita tollere auderet, gravissimumque ei rei supplicium cum cruciatu constitutum est. XVIII. Galli se omnes ab Dite patre prognatos praedicant idque ab druidibus proditum dicunt. Ob eam causam spatia omnis temporis non numero dierum, sed noctium finiunt; dies natales et mensum et annorum initia sic observant, ut noctem dies subsequatur. In reliquis vitae institutis hoc fere ab reliquis differunt, quod suos liberos, nisi cum adoleverunt, ut munus militiae sustinere possint, palam ad se adire non patiuntur filiumque puerili aetate in publico in conspectu patris adsistere turpe ducunt. XIX. Viri, quantas pecunias ab uxoribus dotis nomine acceperunt, tantas ex suis bonis aestimatione facta cum dotibus communicant. Huius omnis pecuniae coniunctim ratio habetur fructusque servantur: uter eorum vita superarit, ad eum pars utriusque cum fructibus superiorum temporum pervenit. Viri in uxores sicuti in liberos

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XVII. Tra gli dèi venerano soprattutto Mercurio: ve ne sono moltissime statue; lo credono inventore di tutte le arti, guida delle strade e dei viaggi, patrono di grandissima potenza per la ricerca di guadagno e per i commerci. Dopo di lui adorano Apollo, Marte, Giove, Minerva, ai quali danno quasi le stesse attribuzioni degli altri popoli; credono che Apollo scacci le malattie, che Minerva insegni i principi delle opere e delle arti, che Giove sia il re dei celesti, che Marte diriga le guerre. A Marte, per lo più, quando decidono di combattere, fanno voto del bottino e dopo la vittoria sacrificano il bestiame catturato e accumulano in un punto tutto il resto: si possono vedere in molte terre tumuli innalzati, con le spoglie di guerra, in luoghi consacrati e non accade spesso che qualcuno trascuri i suoi doveri religiosi e nasconda il suo bottino od osi prendere qualcosa dal tumulo del dio: per questo delitto è stabilita la pena di morte con supplizio. XVIII. I Galli dicono di essere tutti discendenti del padre Dite e che ciò sia stato tramandato dai druidi. Perciò non calcolano il tempo contando i giorni, ma le notti: le date natalizie, il principio dei mesi e degli anni sono contati facendo incominciare la giornata con la notte. Riguardo alle rimanenti usanze differiscono dagli altri popoli quasi solo per questo, che permettono ai figli di presentarsi a loro in pubblico solo quando sono in età tale da poter prestare servizio militare e credono cosa vergognosa che un fanciullo si fermi davanti al padre in presenza degli altri. XIX. Gli uomini, fatta la stima dei danari e dei beni che ricevono come dote dalle mogli, ve ne uniscono altrettanti, tolti dai loro; amministrano poi l’intera somma e ne accumulano i frutti; quello dei due coniugi che sopravvive eredita sia il capitale di entrambi, sia il frutto degli anni precedenti. Gli uomini hanno diritto di vita e

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vitae necisque habent potestatem; et cum pater familiae inlustriore loco natus decessit, eius propinqui conveniunt et, de morte si res in suspicionem venit, de uxoribus in servilem modum quaestionem habent et, si conpertum est, igni atque omnibus tormentis excruciatas interficiunt. Funera sunt pro cultu Gallorum magnifica et sumptuosa; omnia quaeque vivis cordi fuisse arbitrantur in ignem inferunt, etiam animalia, ac paulo supra hanc memoriam servi et clientes quos ab iis dilectos esse constabat iustis funeribus confectis una cremabantur. XX. Quae civitates commodius suam rem publicam administrare existimantur habent legibus sanctum, si quis quid de re publica a finitimis rumore ac fama acceperit, uti ad magistratum deferat neve cum quo alio communicet, quod saepe homines temerarios atque imperitos falsis rumoribus terreri et ad facinus inpelli et de summis rebus consilium capere cognitum est. Magistratus quae visa sunt occultant, quae esse ex usu iudicaverunt multitudini produnt. De re publica nisi per concilium loqui non conceditur. XXI. Germani multum ab hac consuetudine differunt. Nam neque druides habent qui rebus divinis praesint, neque sacrificiis student. Deorum numero eos solos ducunt quos cernunt et quorum aperte opibus iuvantur, Solem et Vulcanum et Lunam, reliquos ne fama quidem acceperunt. Vita omnis in venationibus atque in studiis rei militaris consistit: a parvis labori ac duritiae student. Qui diutissime impuberes permanserunt maximam inter suos ferunt laudem: hoc ali staturam, ali vires nervo-

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di morte sulle mogli, come sui figli; quando muore un capofamiglia di nobile stirpe, i suoi parenti si riuniscono tutti, e se per quella morte sorge qualche sospetto sulla moglie, conducono, in merito, le indagini come usano per gli schiavi; in caso di colpevolezza la donna è condannata a morire tra le fiamme o con altri atroci supplizi. I funerali sono, per quel che la civiltà dei Galli permette, veramente lussuosi: vien gettato sul rogo tutto ciò che era caro al vivo, anche gli animali; poco tempo fa anche i servi e i clienti cui era particolarmente affezionato venivano bruciati insieme al cadavere, dopo la celebrazione dei riti. XX. Presso le genti che, secondo l’opinione comune, hanno un’organizzazione politica migliore, è prescritto dalla legge che chiunque senta dire dai popoli confinanti qualcosa circa gli affari pubblici, sia che si tratti di diceria isolata, sia di voce diffusa, deve riferire tutto al magistrato, senza parlarne con nessuno. Ciò perché si sa che spesso le dicerie infondate, spaventando uomini impulsivi ed ignoranti, li spingono ad atti inconsulti o a commettere eccessi. I magistrati tengono segreto ciò che credono opportuno e mettono il popolo al corrente di ciò che giudicano necessario. Non è permesso trattare affari di Stato se non nelle pubbliche adunanze. XXI. Gli usi dei Germani sono molto diversi. Non hanno, infatti, druidi che si occupino del culto, né si curano dei sacrifici. Considerano quali dèi solo quelli che essi vedono e dalle cui forze è evidente che traggono vantaggio, il Sole, Vulcano, la Luna; degli altri non hanno neppure sentito parlare. Tutta la loro attività consiste nella caccia e negli esercizi militari; fin da piccoli si abituano alla fatica e alla vita dura. I giovani, quanto più a lungo restano casti, tanto più sono lodati, perché si crede che la continenza contribuisca a rendere più alta la

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sque confirmari putant. Intra annum vero vicesimum feminae notitiam habuisse in turpissimis habent rebus; cuius rei nulla est occultatio, quod et promiscue in fluminibus perluuntur et pellibus aut parvis renonum tegimentis utuntur magna corporis parte nuda. XXII. Agriculturae non student, maiorque pars eorum victus in lacte, caseo, carne consistit. Neque quisquam agri modum certum aut fines habet proprios; sed magistratus ac principes in annos singulos gentibus cognationibusque hominum qui [cum] una coierunt, quantum et quo loco visum est agri adtribuunt atque anno post alio transire cogunt. Eius rei multas adferunt causas: ne adsidua consuetudine capti studium belli gerendi agricultura commutent; ne latos fines parare studeant, potentioresque humiliores possessionibus expellant; ne accuratius ad frigora atque aestus vitandos aedificent; ne qua oriatur pecuniae cupiditas, qua ex re factiones dissensionesque nascuntur; ut animi aequitate plebem contineant, cum suas quisque opes cum potentissimis aequari videat. XXIII. Civitatibus maxima laus est quam latissime circum se vastatis finibus solitudines habere. Hoc proprium virtutis existimant, expulsos agris finitimos cedere, neque quemquam prope audere consistere; simul hoc se fore tutiores arbitrantur, repentinae incursionis timore sublato. Cum bellum civitas aut inlatum defendit aut infert, magistratus qui ei bello praesint et vitae necisque habeant potestatem deliguntur. In pace nullus est com-

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statura, più robusto il corpo e più saldi i nervi. Considerano tra le cose più vergognose aver contatto con una donna prima dei venti anni: eppure non si fa mistero di sesso, tanto è vero che uomini e donne si bagnano insieme nei fiumi e si coprono con corte pellicce, che lasciano nuda gran parte del corpo. XXII. Non si dedicano all’agricoltura e la maggior parte di essi vive di latte, formaggio e carne. Nessuno ha terreni di proprietà privata: i principi e i magistrati ogni anno assegnano la quantità di terra che credono opportuna, e nella località da essi stabilita, alle genti o alle famiglie in cui i parenti vivono insieme e l’anno dopo li costringono a migrare in un altro punto. Spiegano quest’uso adducendo molte ragioni: perché una prolungata abitudine non muti il loro interesse per la guerra con quello per l’agricoltura; perché non sentano il desiderio di accaparrarsi grandi proprietà e i più potenti prevalgano sui più deboli; perché non fabbrichino case adatte a ripararli dal freddo e dal caldo; perché non nasca l’avidità di ricchezze, che sempre provoca discussioni e dissensi; vogliono inoltre, col disinteresse di tutti, tenere a freno la plebe, evitando che sorga tra essa l’invidia, poiché ciascuno può così vedere che le sue ricchezze sono pari a quelle dei più potenti. XXIII. La più grande gloria per quelle genti è che intorno ai loro confini vi siano zone deserte e devastate: ritengono segno di valore che i confinanti, scacciati dalle loro terre, se ne allontanino per sempre e che nessuno osi più avvicinarsi; nello stesso tempo pensano di poter essere più tranquilli quando sia tolto di mezzo il timore di una irruzione improvvisa. Quando devono affrontare una guerra, offensiva o difensiva, eleggono dei magistrati che ne assumono il comando e ad essi danno potere di vita e di morte. In tempo di pace, invece, non vi sono ma-

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munis magistratus, sed principes regionum atque pagorum inter suos ius dicunt controversiasque minuunt. Latrocinia nullam habent infamiam, quae extra fines cuiusque civitatis fiunt, atque ea iuventutis exercendae ac desidiae minuendae causa fieri praedicant. Atque ubi quis ex principibus in concilio dixit se ducem fore, qui sequi velint profiteantur, consurgunt ii qui et causam et hominem probant, suumque auxilium pollicentur atque ab multitudine conlaudantur; qui ex his secuti non sunt in desertorum ac proditorum numero ducuntur, omniumque his rerum postea fides derogatur. Hospitem violare fas non putant; qui quaque de causa ad eos venerunt, ab iniuria prohibent, sanctos habent, hisque omnium domus patent victusque communicatur. XXIV. Ac fuit antea tempus cum Germanos Galli virtute superarent, ultro bella inferrent, propter hominum multitudinem agrique inopiam trans Rhenum colonias mitterent. Itaque ea quae fertilissima Germaniae sunt loca circum Hercyniam silvam, quam Eratostheni et quibusdam Graecis fama notam esse video, quam illi Orcyniam appellant, Volcae Tectosages occupaverunt atque ibi consederunt: quae gens ad hoc tempus his sedibus sese continet summamque habet iustitiae et bellicae laudis opinionem. Nunc, quod in eadem inopia, egestate patientiaque Germani permanent, eodem victu et cultu corporis utuntur, Gallis autem provinciarum propinquitas et transmarinarum rerum notitia multa ad copiam atque usum largitur, paulatim adsuefacti superari multisque victi proeliis ne se quidem ipsi cum illis virtute comparant.

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gistrati, ma i capi di ciascuna regione o di ciascun villaggio siedono come giudici e appianano le controversie. Non considerano infamante il furto se lo si commette fuori dai confini delle loro terre, anzi dicono che esso serve ad esercitare la gioventù e ad allontanare la pigrizia. Quando qualcuno dei principi in un’assemblea propone di guidare un’impresa di guerra ed invita quelli che lo vogliono seguire a farsi avanti, si alzano in piedi tutti coloro che approvano l’azione e stimano il capo, promettendo il loro aiuto tra le lodi dei presenti. Quelli che non lo seguono sono ritenuti disertori e traditori e ad essi è negata ogni fiducia per qualsiasi altra impresa. Ritengono sacrilegio il violare l’ospitalità, difendono da ogni offesa chiunque, per qualunque ragione, venga da loro, lo ritengono sacro, gli aprono la loro casa e con lui dividono il loro cibo. XXIV.Vi fu un tempo in cui i Galli erano più valorosi dei Germani, portavano loro guerra e, per l’eccessivo numero degli abitanti e la scarsa quantità di terre, mandavano colonie oltre il Reno. Così le terre più fertili di tutta la Germania, quelle intorno alla Selva Ercinia (che, a quanto è noto, era già conosciuta da Eratostene e da altri Greci che la chiamavano Orcinia), furono occupate e abitate dai Volci Tectosagi: anche attualmente queste genti sono stanziate in quelle terre ed hanno grande fama per giustizia e virtù militare. Ma oggi, mentre i Germani, che conducono sempre la stessa vita di privazioni e di povertà, tollerate pazientemente, sono rimasti fermi allo stesso grado di civiltà, i Galli, invece, per la vicinanza con la nostra provincia e la conoscenza di cose importate da terre oltremare, molto hanno appreso riguardo agli agi della vita. Si sono, quindi, a poco a poco abituati a considerarsi più deboli e sono stati vinti in molte battaglie; tanto che oggi essi stessi non pensano neppure di paragonarsi ai Germani per valore militare.

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XXV. Huius Hercyniae silvae, quae supra demonstrata est, latitudo novem dierum iter expedito patet: non enim aliter finiri potest, neque mensuras itinerum noverunt. Oritur ab Helvetiorum et Nemetum et Rauracorum finibus rectaque fluminis Danubii regione pertinet ad fines Dacorum et Anartium; hinc se flectit sinistrorsus diversis a flumine regionibus multarumque gentium fines propter magnitudinem attingit; neque quisquam est huius Germaniae qui se aut [audisse aut] adisse ad initium eius silvae dicat, cum dierum iter LX processerit, aut quo ex loco oriatur acceperit; multaque in ea genera ferarum nasci constat quae reliquis in locis visa non sint; ex quibus quae maxime differant ab ceteris et memoriae prodenda videantur haec sunt. XXVI. Est bos cervi figura, cuius a media fronte inter aures unum cornu existit excelsius magisque derectum his quae nobis nota sunt cornibus: ab eius summo sicut palmae ramique late diffunduntur. Eadem est feminae marisque natura, eadem forma magnitudoque cornuum. XXVII. Sunt item, quae appellantur alces. Harum est consimilis capris figura et varietas pellium, sed magnitudine paulo antecedunt mutilaeque sunt cornibus et crura sine nodis articulisque habent, neque quietis causa procumbunt, neque, si quo adflictae casu conciderunt, erigere sese aut sublevare possunt. His sunt arbores pro cubilibus: ad eas se adplicant atque ita paulum modo reclinatae quietem capiunt. Quarum ex vestigiis cum est animadversum a venatoribus quo se recipere consuerint, omnes eo loco aut ab radicibus subruunt aut accidunt arbores, tantum ut summa species earum stantium relinquatur. Huc cum se consuetudine reclinaverunt, in-

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XXV. La selva Ercinia, di cui abbiamo parlato, si estende in larghezza per nove giorni di buon cammino: non si può determinarne diversamente la misura, poiché i Germani non conoscono le misure itinerarie. Comincia ai confini degli Elvezi, dei Nemeti e dei Ràuraci e, seguendo il corso del Danubio, si estende fino alle terre dei Daci e degli Anarti; da qui piega verso sinistra in regioni lontane dal fiume e attraversa, vasta come è, le terre di molte genti. Non c’è nessuno in Germania che possa dire di aver raggiunto il principio di questa selva, pur avendola seguita per sessanta giorni, o che abbia sentito dire dove essa ha inizio; si sa che vi si trovano fiere che non sono mai state viste in altri luoghi: tra queste, quelle che sono più diverse dalle altre e più degne di essere ricordate sono le seguenti. XXVI. Vi è un quadrupede simile al cervo, che porta in mezzo alla fronte, tra le due orecchie, un solo corno più alto e più diritto di quelli degli animali a noi noti, che alla sommità si divide, come una palma, in rami di grande estensione.14 Uguale è la corporatura del maschio e della femmina, ed uguali anche la grandezza e la forma delle corna. XXVII. Vi sono poi le così dette alci, che hanno aspetto e pelo simile a quello delle capre, ma sono un po’ più grandi. Hanno corna mutile e gambe senza giunture né articolazioni; non si sdraiano per dormire, né possono, se per caso cadono, rialzarsi o sollevarsi. Per dormire si appoggiano agli alberi e vi restano, semplicemente, un po’ inclinate. Quando i cacciatori si accorgono, dalle orine, della loro presenza, nel luogo dove esse vanno a riunirsi, sradicano e tagliano tutti gli alberi, in modo, però, che sembrino ancora diritti in piedi. Quando le alci, co14

Sembra trattarsi della renna.

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firmas arbores pondere adfligunt atque una ipsae concidunt. XXVIII. Tertium est genus eorum qui uri appellantur. Hi sunt magnitudine paulo infra elephantos, specie et colore et figura tauri. Magna vis eorum est et magna velocitas, neque homini neque ferae quam conspexerunt parcunt. Hos studiose foveis captos interficiunt; hoc se labore durant adulescentes atque hoc genere venationis exercent, et qui plurimos ex his interfecerunt, relatis in publicum cornibus, quae sint testimonio, magnam ferunt laudem. Sed assuescere ad homines et mansuefieri ne parvuli quidem excepti possunt. Amplitudo cornuum et figura et species multum a nostrorum boum cornibus differt. Haec studiose conquisita ab labris argento circumcludunt atque in amplissimis epulis pro poculis utuntur. XXIX. Caesar, postquam per Ubios exploratores conperit Suebos se in silvas recepisse, inopiam frumenti veritus, quod, ut supra demonstravimus, minime omnes Germani agriculturae student, constituit non progredi longius; sed ne omnino metum reditus sui barbaris tolleret atque ut eorum auxilia tardaret, reducto exercitu partem ultimam pontis, quae ripas Ubiorum contingebat, in longitudinem pedum ducentorum rescindit atque in extremo ponte turrim tabulatorum quattuor constituit praesidiumque cohortium duodecim pontis tuendi causa ponit magnisque eum locum munitionibus firmat. Ei loco praesidioque C. Volcacium Tullum adulescentem praeficit. Ipse, cum maturescere frumenta inciperent, ad bellum Ambiorigis profectus per Arduennam

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me sempre fanno, vi si appoggiano col loro peso li abbattono e cadono anch’esse insieme. XXVIII. La terza specie è quella dei così detti uri,15 che sono poco più piccoli degli elefanti ed hanno l’aspetto, il colore e la conformazione dei tori. Sono dotati di grande forza e di grande velocità e non risparmiano né gli uomini né le bestie che incontrano. I Germani cercano di farli cadere in fosse per catturarli e ucciderli: i giovani si esercitano in questa caccia, allenandosi così alla fatica e quelli che più ne uccidono ne portano le corna in pubblico come prova e ne ricevono grande lode. Gli uri non possono abituarsi alla vista degli uomini, né addomesticarsi anche se sono catturati da piccoli. Le loro corna differiscono molto da quelle dei nostri buoi sia per grandezza che per forma e aspetto. Se ne fa molta ricerca: orlate di argento alla base, vengono usate, invece delle tazze, nei banchetti più lussuosi. XXIX. Cesare, dopo aver saputo dagli esploratori degli Ubii che gli Svevi si erano ritirati nelle selve, ebbe timore che gli venisse a mancare il grano, giacché, come abbiamo detto, i Germani non si occupano per niente di agricoltura, e decise di non avanzare di più. Però, affinché i barbari temessero un suo possibile ritorno e per ritardare gli aiuti che avrebbero potuto mandare in Gallia, tagliò per una lunghezza di duecento piedi la parte del ponte che toccava la riva degli Ubii, eresse all’altra estremità una torre di quattro piani e vi lasciò a guardia dodici coorti, rafforzando inoltre quella località con grandi opere di difesa. Pose a capo della zona e delle forze di presidio il giovane Gaio Vulcazio Tullo. Già le messi cominciavano a maturare e Cesare partì per condurre la guerra contro Ambiorige; mandò avanti Lucio 15

Probabilmente l’urus, o bos primigenius, ora estinto.

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silvam, quae est totius Galliae maxima atque a ripis Rheni finibusque Treverorum ad Nervios pertinet milibusque amplius quingentis in longitudinem patet, L. Minucium Basilum cum omni equitatu praemittit, si quid celeritate itineris atque oportunitate temporis proficere possit; monet ut ignes in castris fieri prohibeat, ne qua eius adventus procul significatio fiat; sese confestim subsequi dicit. XXX. Basilus ut imperatum est facit. Celeriter contraque omnium opinionem confecto itinere multos in agris inopinantes deprehendit; eorum indicio ad ipsum Ambiorigem contendit, quo in loco cum paucis equitibus esse dicebatur. Multum cum in omnibus rebus, tum in re militari potest Fortuna. Nam ut magno accidit casu, ut in ipsum incautum etiam atque inparatum incideret, priusque eius adventus ab hominibus videretur quam fama ac nuntius adferretur, sic magnae fuit fortunae omni militari instrumento quod circum se habebat erepto redis equisque conprehensis ipsum effugere mortem. Sed hoc quoque factum est quod aedificio circumdato silva, ut sunt fere domicilia Gallorum, qui vitandi aestus causa plerumque silvarum ac fluminum petunt propinquitates, comites familiaresque eius angusto in loco paulisper equitum nostrorum vim sustinuerunt. His pugnantibus illum in equum quidam ex suis intulit: fugientem silvae texerunt. Sic et ad subeundum periculum et ad vitandum multum Fortuna valuit. XXXI. Ambiorix copias suas iudicione non conduxerit, quod proelio dimicandum non existimaret, an tempore

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Minucio Basilo con tutta la cavalleria, facendolo passare attraverso la selva Ardenna, la più grande che vi sia in Gallia, che si estende dalle rive del Reno, attraverso le terre dei Treveri, fino a quelle dei Nervi, per una lunghezza di più di cinquecento miglia; egli sperava infatti che Minucio potesse ottenere qualche vantaggio dalla rapidità della marcia e dall’opportunità della stagione. Gli ordinò di proibire nel campo i fuochi, per non dare da lontano qualche segno della sua avanzata e lo avvertì che al più presto lo avrebbe seguito. XXX. Basilo eseguì gli ordini. Fece il viaggio rapidamente, senza che nessuno se l’aspettasse e sorprese molti nei campi alla sprovvista: avute indicazioni da costoro si diresse proprio verso Ambiorige, là dove si diceva che egli fosse con pochi cavalieri. Molto può la Fortuna in ogni cosa e più ancora nelle imprese militari. Così, come fu dovuto a un benefico caso che i Romani sorprendessero Ambiorige indifeso e impreparato, e che gli piombassero addosso prima che giungesse voce del loro arrivo, gran sorte fu per lui se, pur perdendo, è vero, tutta la sua attrezzatura militare, i carri e i cavalli, poté sfuggire alla morte. Ciò fu dovuto anche al fatto che la costruzione dove egli risiedeva era circondata da un bosco, come lo sono generalmente le case dei Galli, che, per evitare il caldo, preferiscono abitare vicino alle selve e ai fiumi. I suoi seguaci e i suoi amici riuscirono a ritardare in quello stretto spazio l’impeto dei nostri cavalieri; nel frattempo uno dei suoi lo fece salire a cavallo e protetto dalla selva egli riuscì a fuggire. Molto, dunque, poté la Fortuna: dopo averlo messo in pericolo, permise, poi, che riuscisse a porsi in salvo. XXXI. Non si può stabilire con certezza se Ambiorige non radunò le sue forze di proposito, perché non voleva attaccare battaglia, o se ne fu impedito dalla brevità del

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exclusus et repentino equitum adventu prohibitus, cum reliquum exercitum subsequi crederet, dubium est; sed certe dimissis per agros nuntiis sibi quemque consulere iussit. Quorum pars in Arduennam silvam, pars in continentes paludes profugit; qui proximi Oceano fuerunt, hi insulis sese occultaverunt, quas aestus efficere consuerunt; multi ex suis finibus egressi se suaque omnia alienissimis crediderunt. Catuvolcus, rex dimidiae partis Eburonum, qui una cum Ambiorige consilium inierat, aetate iam confectus cum laborem aut belli aut fugae ferre non posset, omnibus precibus detestatus Ambiorigem, qui eius consilii auctor fuisset, taxo, cuius magna in Gallia Germaniaque copia est, se exanimavit. XXXII. Segni Condrusique ex gente et numero Germanorum, qui sunt inter Eburones Treverosque, legatos ad Caesarem miserunt oratum ne se in hostium numero duceret neve omnium Germanorum qui essent citra Rhenum unam esse causam iudicaret; nihil se de bello cogitavisse, nulla Ambiorigi auxilia misisse. Caesar explorata re quaestione captivorum, si qui ad eos Eburones ex fuga convenissent, ad se ut reducerentur, inperavit: si ita fecissent, fines eorum se violaturum negavit. Tum copiis in tres partes distributis inpedimenta omnium legionum Atuatucam contulit. Id castelli nomen est. Hoc fere est in mediis Eburonum finibus, ubi Titurius atque Aurunculeius hiemandi causa consederant. Hunc cum reliquis rebus locum probarat, tum quod superioris anni munitiones integrae manebant, ut militum

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tempo e dall’improvviso arrivo della nostra cavalleria, che egli dovette credere seguìta dal resto dell’esercito. Ma è certo che mandò messi per le campagne ad ordinare che ciascuno provvedesse per la propria salvezza. Una parte di quei barbari fuggì nella selva Ardenna, una parte nelle paludi interne, quelli che si trovavano vicini all’Oceano si rifugiarono nelle zone che restano isolate durante le alte maree; molti, usciti dalle loro terre, si affidarono a popoli con cui non avevano niente in comune. Catuvolco, re di una metà degli Eburoni, che si era associato ai disegni di Ambiorige, poiché per la sua avanzata età non poteva sopportare la fatica di una guerra o di una fuga, dopo aver imprecato contro Ambiorige, che era stato il promotore di quell’impresa, si uccise col tasso,16 albero molto diffuso in Gallia e in Germania. XXXII. I Segni e i Condrusi, Germani che abitavano tra gli Eburoni e i Treveri, mandarono ambasciatori a Cesare per pregarlo di non considerarli nemici e di non credere che tutti i Germani cisrenani avessero fatto causa comune contro di lui: essi non avevano affatto pensato a far la guerra, né avevano mandato aiuti ad Ambiorige. Cesare fece delle indagini interrogando i prigionieri, poi chiese che gli fossero mandati gli Eburoni che eventualmente si fossero rifugiati presso di loro: promise che, se avessero ubbidito ai suoi ordini, avrebbe rispettato le loro terre. Divise poi le sue forze in tre gruppi e mandò l’equipaggiamento di tutte le legioni ad Aduatuca, campo fortificato che si trova quasi al centro della regione degli Eburoni, dove avevano svernato Titurio e Aurunculeio. Cesare trovava adatto quel posto per molte ragioni e particolarmente perché vi erano ancora intatte le fortificazioni dell’anno precedente: così veniva rispar16

Le foglie del tasso erano ritenute velenose.

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laborem sublevaret. Praesidio inpedimentis legionem quartam decimam reliquit, unam ex his tribus quas proxime conscriptas ex Italia traduxerat. Ei legioni castrisque Q. Tullium Ciceronem praefecit ducentosque equites ei adtribuit. XXXIII. Partito exercitu T. Labienum cum legionibus tribus ad Oceanum versus in eas partes quae Menapios attingunt proficisci iubet; C. Trebonium cum pari legionum numero ad eam regionem quae Atuatucis adiacet depopulandam mittit; ipse cum reliquis tribus ad flumen Scaldem, quod influit in Mosam, extremasque Arduennae partes ire constituit, quo cum paucis equitibus profectum Ambiorigem audiebat. Discedens post diem septimum sese reversurum confirmat, quam ad diem ei legioni quae in praesidio relinquebatur deberi frumentum sciebat. Labienum Treboniumque hortatur, si rei publicae commodo facere possint, ad eam diem revertantur, ut rursus communicato consilio exploratisque hostium rationibus aliud initium belli capere possint. XXXIV. Erat, ut supra demonstravimus, manus certa nulla, non oppidum, non praesidium, quod se armis defenderet, sed in omnes partes dispersa multitudo. Ubi cuique aut valles abdita aut locus silvestris aut palus impedita spem praesidii aut salutis aliquam offerebat, consederat. Haec loca vicinitatibus erant nota, magnamque res diligentiam requirebat non in summa exercitus tuenda (nullum enim poterat universis a perterritis ac dispersis periculum accidere, sed in singulis militibus conservandis) quae tamen ex parte res ad salutem exercitus

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miato lavoro ai soldati. Lasciò a guardia dei bagagli la quattordicesima legione, una delle tre che, di recente arruolate, erano venute dall’Italia. Dette il comando della legione e del campo a Quinto Tullio Cicerone, e gli assegnò duecento cavalieri. XXXIII. Diviso come segue l’esercito, a Tito Labieno ordinò di partire con tre legioni in direzione dell’Oceano, verso le terre confinanti coi Menapi; a Gaio Trebonio affidò un ugual numero di legioni con l’incarico di devastare il territorio vicino a quello degli Aduatuci; egli stesso, con le altre tre legioni, decise di andare verso il fiume Schelda, che si versa nella Mosa, e verso le zone più lontane dell’Ardenna, dove, a quel che si sentiva dire, si era rifugiato Ambiorige, con pochi cavalieri. Al momento di partire dichiarò che sarebbe ritornato dopo sette giorni, dovendosi in tale data consegnare il frumento alla legione che rimaneva di presidio. Invitò anche Labieno e Trebonio a ritornare per quel giorno, se avessero potuto farlo senza inconvenienti, affinché, esaminate in un consiglio la situazione e le ultime notizie sul nemico, si potesse decidere sulle future operazioni di guerra. XXXIV. Come abbiamo già detto, i Galli non avevano nessuna formazione regolare di soldati, nessuna fortezza, nessun presidio che si difendesse con le armi, ma erano una moltitudine dispersa un po’ dovunque. Ciascuno si era fermato dove una valle nascosta o una zona boscosa o una palude impraticabile dava adito a speranza di difesa o di salvezza. Questi luoghi erano noti a chi abitava sul posto: la situazione richiedeva da parte nostra grande vigilanza, non per salvare l’insieme dell’esercito – perché non poteva certo venire pericolo alle forze nostre, nel loro complesso, da parte di popolazioni atterrite e disperse –, ma per tutelare la vita di ciascun

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pertinebat. Nam et praedae cupiditas multos longius evocabat, et silvae incertis occultisque itineribus confertos adire prohibebant. Si negotium confici stirpemque hominum sceleratorum interfici vellent, dimittendae plures manus diducendique erant milites: si continere ad signa manipulos vellent, ut instituta ratio et consuetudo exercitus Romani postulabat, locus ipse erat praesidio barbaris, neque ex occulto insidiandi et dispersos circumveniendi singulis deerat audacia. Ut in eiusmodi difficultatibus, quantum diligentia provideri poterat providebatur, ut potius in nocendo aliquid praetermitteretur, etsi omnium animi ad ulciscendum ardebant, quam cum aliquo militum detrimento noceretur. Dimittit ad finitimas civitates nuntios Caesar: omnes ad se vocat spe praedae ad diripiendos Eburones, ut potius in silvis Gallorum vita quam legionarius miles periclitetur, simul ut magna multitudine circumfusa pro tali facinore stirps ac nomen civitatis tollatur. Magnus undique numerus celeriter convenit. XXXV. Haec in omnibus Eburonum partibus gerebantur, diesque adpetebat septimus, quam ad diem Caesar ad inpedimenta legionemque reverti constituerat. Hic quantum in bello Fortuna possit et quantos adferat casus cognosci potuit. Dissipatis ac perterritis hostibus, ut demonstravimus, manus erat nulla quae parvam modo causam timoris adferret. Trans Rhenum ad Germanos

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soldato, cosa che aveva la sua importanza nei riguardi della sicurezza di tutto l’esercito. D’altra parte l’avidità della preda spingeva molti soldati ad allontanarsi ed era impossibile una marcia di grosse formazioni attraverso le selve, per sentieri mal segnati e nascosti. Per portare a termine la sua impresa e sterminare quella gente scellerata, Cesare avrebbe dovuto dividere i soldati, facendoli avanzare in piccole schiere in più direzioni. Se voleva, invece, trattenere uniti i manipoli presso le insegne, come richiedeva la tattica consueta dei Romani, la conformazione stessa dei luoghi avrebbe difeso i barbari, ai quali non mancava certo l’audacia, anche se erano alla spicciolata, di preparare insidie dai loro nascondigli e di circondare i Romani se erano isolati. Cesare prendeva provvedimenti con tutta l’accortezza che poteva adoperare in una situazione così difficile, tralasciando qualche volta di recare danno ai nemici, benché tutti ardessero dal desiderio di vendetta, piuttosto che mettere a rischio i suoi uomini. Mandò, allora, dei messaggeri ai popoli confinanti e, facendo intravedere la possibilità di preda, li invitava a saccheggiare il territorio degli Eburoni: egli preferiva che fosse messa a repentaglio la vita dei Galli in quelle selve, piuttosto che quella dei suoi legionari e sperava che, se fosse scesa in campo una grande moltitudine, come pena per il grave delitto commesso, la stirpe degli Eburoni e il loro nome stesso venissero annientati. Subito si raccolse un gran numero di gente proveniente da ogni parte. XXXV. Questo avveniva in tutto il territorio degli Eburoni mentre si avvicinava il settimo giorno, data che Cesare aveva stabilito per il suo ritorno alla legione e ai bagagli. Allora si poté vedere quanto vale la Fortuna in guerra e quanti eventi provoca. I nemici erano dispersi e atterriti, come ho già detto, né vi erano forze ostili che potessero dare motivo, anche lieve, di timore. Oltre il

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pervenit fama, diripi Eburones atque ultro omnes ad praedam evocari. Cogunt equitum duo milia Sugambri, qui sunt proximi Rheno, a quibus receptos ex fuga Tenctheros atque Usipetes supra docuimus. Transeunt Rhenum navibus ratibusque triginta milibus passuum infra eum locum ubi pons erat perfectus praesidiumque ab Caesare relictum; primos Eburonum fines adeunt; multos ex fuga dispersos excipiunt, magno pecoris numero, cuius sunt cupidissimi barbari, potiuntur. Invitati praeda longius procedunt. Non hos palus in bello latrociniisque natos, non silvae morantur. Quibus in locis sit Caesar ex captivis quaerunt; profectum longius reperiunt omnemque exercitum discessisse cognoscunt. Atque unus ex captivis «quid vos» inquit «hanc miseram ac tenuem sectamini praedam, quibus licet iam esse fortunatissimos? Tribus horis Atuatucam venire potestis: huc omnes suas fortunas exercitus Romanorum contulit: praesidii tantum est, ut ne murus quidem cingi possit, neque quisquam egredi extra munitiones audeat». Oblata spe Germani quam nacti erant praedam in occulto relinquunt; ipsi Atuatucam contendunt usi eodem duce cuius haec indicio cognoverant. XXXVI. Cicero, qui omnes superiores dies praeceptis Caesaris summa diligentia milites in castris continuisset ac ne calonem quidem quemquam extra munitiones egredi passus esset, septimo die diffidens de numero dierum Caesarem fidem servaturum, quod longius progressum audiebat neque ulla de reditu eius fama adferebatur, simul eorum permotus vocibus qui illius patientiam paene obsessionem appellabant, si quidem ex castris egredi non liceret, nullum eius modi casum expec-

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Reno arrivò la voce che il territorio degli Eburoni era saccheggiato e che, anzi, tutti i popoli venivano chiamati a depredare. Allora i Sigambri, i più vicini al Reno, che come abbiamo raccontato avevano accolto i Tenteri e gli Usipeti fuggiaschi, radunarono duemila cavalieri, attraversarono il Reno con barche e zattere, trenta miglia più a sud del punto dove c’era il ponte e il presidio lasciato da Cesare e si avvicinarono ai confini degli Eburoni: ne trovarono molti che fuggivano disordinatamente e si impadronirono di una grande quantità di bestiame, di cui i barbari sono avidissimi. Allettati dalla preda, avanzarono ancora, né le paludi, né le selve trattennero quella gente nata fra le guerre e le rapine. Chiesto ai prigionieri dove si trovasse Cesare, vennero a sapere che era partito con tutto l’esercito e che si trovava già lontano. Ma uno dei prigionieri disse loro: «Perché vi perdete nella ricerca di una preda così esigua e povera, quando potreste ormai sfruttare completamente la Fortuna? In tre ore potete arrivare ad Aduatuca: là è radunato tutto quanto l’esercito romano possiede, le forze di presidio non bastano neppure a cingere tutto il muro del campo e nessuno osa uscire fuori delle difese». Pieni di speranza i Germani nascosero il bottino già fatto e partirono verso Aduatuca, facendosi guidare da quello stesso da cui avevano avuto il suggerimento. XXXVI. Cicerone, nei giorni precedenti, seguendo con scrupolo gli ordini di Cesare, aveva tenuto tutti i soldati nell’accampamento senza far uscire dalle trincee neppure uno schiavo; ma al settimo giorno, non sperando che Cesare potesse mantenere la promessa circa la data del ritorno, giacché aveva saputo che era andato molto lontano e non vi era nessuna notizia di un suo prossimo arrivo, turbato dalle lamentele della truppa che chiamava quella sua attesa paziente un vero e proprio assedio, giacché non si poteva neppure uscire dal campo, consi-

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tans, quo novem oppositis legionibus maximoque equitatu, dispersis ac paene deletis hostibus, in milibus passuum tribus offendi posset, quinque cohortes frumentatum in proximas segetes mittit, quas inter et castra unus omnino collis intererat. Conplures erant ex legionibus aegri relicti; ex quibus qui hoc spatio dierum convaluerant, circiter CCC, sub vexillo una mittuntur; magna praeterea multitudo calonum, magna vis iumentorum, quae in castris subsederat, facta potestate sequitur. XXXVII. Hoc ipso tempore casu Germani equites interveniunt protinusque eodem illo quo venerant cursu ab decumana porta in castra inrumpere conantur, nec prius sunt visi, obiectis ab ea parte silvis, quam castris adpropinquarent, usque eo ut qui sub vallo tenderent mercatores recipiendi sui facultatem non haberent. Inopinantes nostri re nova perturbantur, ac vix primum impetum cohors in statione sustinet. Circumfunduntur ex reliquis hostes partibus, si quem aditum reperire possent. Aegre portas nostri tuentur, reliquos aditus locus ipse per se munitioque defendit. Totis trepidatur castris, atque alius ex alio causam tumultus quaerit: neque quo signa ferantur, neque quam in partem quisque conveniat provident. Alius castra iam capta pronuntiat, alius deleto exercitu atque imperatore victores barbaros venisse contendit; plerique novas sibi ex loco religiones fingunt Cottaeque et Titurii calamitatem, qui in eodem occiderint castello, ante oculos ponunt. Tali timore omnibus perterritis confirmatur opinio barbaris, ut ex captivo audierant, nullum esse intus praesidium. Perrumpere nituntur seque ipsi adhortantur ne tantam fortunam ex manibus dimittant.

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derò che certo entro tre miglia non vi poteva essere pericolo per loro, visto che nove legioni e un grandissimo numero di cavalieri fronteggiavano, in quel momento, un nemico che, fra l’altro, era stato già quasi distrutto; perciò mandò cinque coorti a mietere frumento nei campi più vicini, che erano divisi dall’accampamento da un solo colle. Erano rimasti ad Aduatuca anche molti malati appartenenti ad altre legioni e quelli che in quei giorni erano guariti, circa trecento, formarono un distaccamento che uscì insieme alle altre coorti; ebbero inoltre il permesso di seguirli moltissimi servi con molti giumenti, che erano nel campo. XXXVII. Proprio allora il caso volle che i cavalieri germani arrivassero: essi, senza cambiare andatura, tentarono di entrare nel campo dalla porta posteriore e, coperti dalla fitta vegetazione, furono visti solo quando erano già molto vicini all’accampamento, tanto che i mercanti attendati ai piedi del vallo non ebbero neppure il tempo di rifugiarsi nel campo. I nostri, presi alla sprovvista, si turbarono e la coorte rimasta di guardia a stento poté sostenere il primo urto. I nemici si sparsero tutt’intorno alla ricerca di un passaggio: a mala pena i nostri difendevano le porte; ma per il resto solo le opere di fortificazione impedivano l’ingresso. In tutto il campo c’era disordine e spavento, ognuno ne domandava ansiosamente la causa, anziché pensare a dislocare opportunamente gli uomini e i reparti. Chi diceva che ormai il campo era preso, chi affermava che l’esercito e Cesare erano periti e i nemici venivano come vincitori; i più erano spaventati dall’idea superstiziosa che Titurio e Cotta erano morti in quelle stesse posizioni. Il disordine provocato da questi timori rafforzò nei barbari l’opinione che, come avevano appreso dal prigioniero, nel campo vi fossero ben pochi difensori. Si sforzarono perciò di sfondare, esortandosi a non lasciarsi sfuggire dalle mani una così grande fortuna.

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XXXVIII. Erat aeger cum praesidio relictus P. Sextius Baculus, qui primum pilum apud Caesarem duxerat, cuius mentionem superioribus proeliis fecimus, ac diem iam quintum cibo caruerat. Hic diffisus suae atque omnium saluti inermis ex tabernaculo prodit: videt imminere hostes atque in summo rem esse discrimine: capit arma a proximis atque in porta consistit. Consequuntur hunc centuriones eius cohortis quae in statione erat; paulisper una proelium sustinent. Relinquit animus Sextium gravibus acceptis vulneribus: aegre per manus tractus servatur. Hoc spatio interposito reliqui sese confirmant tantum ut in munitionibus consistere audeant speciemque defensorum praebeant. XXXIX. Interim confecta frumentatione milites nostri clamorem exaudiunt: praecurrunt equites; quanto res sit in periculo cognoscunt. Hic vero nulla munitio est quae perterritos recipiat: modo conscripti atque usus militaris imperiti ad tribunum militum centurionesque ora convertunt; quid ab his praecipiatur expectant. Nemo est tam fortis quin rei novitate perturbetur. Barbari signa procul conspicati oppugnatione desistunt: redisse primo legiones credunt, quas longius discessisse ex captivis cognoverant; postea despecta paucitate ex omnibus partibus impetum faciunt. XL. Calones in proximum tumulum procurrunt. Hinc celeriter deiecti in signa se manipulosque coniciunt; eo magis timidos perterrent milites. Alii cuneo facto ut celeriter perrumpant censent, quoniam tam propinqua sint castra, et si pars aliqua circumventa ceciderit, at re-

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XXXVIII. Era rimasto nel campo, malato, Publio Sestio Baculo, che era stato centurione primipilo agli ordini di Cesare e che abbiamo menzionato nelle precedenti battaglie; da cinque giorni non aveva toccato cibo; ora, egli uscì, disarmato, dalla tenda, vide la violenza dei nemici e la gravità della situazione: disperando della salvezza sua e di tutti gli altri, afferrò dalle mani dei più vicini le armi e si portò alla porta. Lo seguirono i centurioni della coorte di guardia e sostennero per un po’ tutti insieme la battaglia. Ma Sestio gravemente ferito svenne e, passato da braccia a braccia, venne a fatica tratto in salvo. Nel frattempo, però, gli altri si erano rianimati, tanto che, ripreso coraggio, si disposero sulle linee di fortificazione, dando l’apparenza di una difesa organizzata. XXXIX. Intanto, i nostri soldati, che avevano ultimato la provvista di frumento, udirono le grida: i cavalieri corsero al campo e videro quanto era grave la situazione; i soldati furono presi dal panico; non vi era nessun luogo difeso dove potessero rifugiarsi ed essi, nuove reclute inesperte della vita militare, si rivolgevano ansiosi al tribuno ed ai centurioni, aspettando degli ordini, ma nessuno era tanto forte da non essere turbato da questa situazione inaspettata. I barbari, quando videro da lontano le insegne, cessarono l’attacco, credendo, sul principio, che stessero tornando le legioni che, come avevano saputo dai prigionieri, si erano addentrate in quei territori; ma poi, vedendo l’esiguità della schiera, attaccarono da ogni parte. XL. Gli schiavi addetti ai bagagli corsero sull’altura vicina; respinti da quel luogo, si buttarono tra le insegne dei manipoli, accrescendo ancora di più la confusione e il terrore dei soldati. Alcuni proposero di disporsi a cuneo per aprirsi un varco tra i nemici, dato che l’accampamento era tanto vicino, e che almeno in parte poteva-

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liquos servari posse confidunt; alii ut in iugo consistant atque eundem omnes ferant casum. Hoc veteres non probant milites, quos sub vexillo una profectos docuimus. Itaque inter se cohortati duce C. Trebonio, equite Romano, qui eis erat praepositus, per medios hostes perrumpunt incolumesque ad unum omnes in castra perveniunt. Hos subsecuti calones equitesque eodem impetu militum virtute servantur. At ii qui in iugo constiterant, nullo etiam nunc usu rei militaris percepto neque in eo quod probaverant, consilio permanere, ut se loco superiore defenderent, neque eam quam prodesse aliis vim celeritatemque viderant imitari potuerunt, sed se in castra recipere conati iniquum in locum demiserunt. Centuriones, quorum non nulli ex inferioribus ordinibus reliquarum legionum virtutis causa in superiores erant ordines huius legionis traducti, ne ante partam rei militaris laudem amitterent, fortissime pugnantes conciderunt. Militum pars horum virtute submotis hostibus praeter spem incolumis in castra pervenit, pars a barbaris circumventa periit. XLI. Germani desperata expugnatione castrorum, quod nostros iam constitisse in munitionibus videbant, cum ea praeda quam in silvis deposuerant trans Rhenum sese receperunt. Ac tantus fuit etiam post discessum hostium terror, ut ea nocte, cum C. Volusenus missus cum equitatu in castra venisset, fidem non faceret adesse cum incolumi Caesarem exercitu. Sic omnium animos timor praeoccupaverat ut paene alienata mente deletis

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no salvarsi anche se parecchi fossero caduti; altri, invece, volevano che si prendesse posizione sul colle e che si affrontasse tutti la stessa sorte. I soldati veterani convalescenti, di cui abbiamo parlato, non approvarono questo disegno; esortatisi a vicenda e guidati da Gaio Trebonio, il cavaliere romano loro capo, si lanciarono in mezzo ai nemici e si aprirono la strada fino al campo, dove arrivarono tutti, senza perdere un solo uomo. I servi e i cavalieri li seguirono e poterono così giungervi incolumi anch’essi, per il valore dei soldati. Invece quelli che si erano fermati sul colle, che non avevano ancora nessuna esperienza di tattica militare, non riuscirono né ad attuare il piano stabilito, di difendersi sull’altura, né ad imitare l’azione rapidissima che avevano visto fare con successo dai veterani; infatti, nel tentativo di raggiungere l’accampamento si inoltrarono in una posizione sfavorevole. I centurioni, di cui parecchi erano stati trasferiti dagli ordini secondari di altre legioni ai primi ordini di questa per prove di valore, caddero combattendo valorosamente, non volendo dimostrarsi indegni della gloria acquistata prima. Dei soldati, una parte, incoraggiata dal valore di questi loro ufficiali, riuscì a passare tra i nemici e a raggiungere, contro ogni speranza, il campo sana e salva; gli altri furono circondati dai barbari e massacrati. XLI. I Germani, non sperando più di poter espugnare l’accampamento, perché vedevano i nostri ormai saldamente fermi sulla linea di difesa, si ritirarono oltre il Reno con la preda fatta precedentemente e che avevano nascosta nelle selve. Ma così grande era il terrore dei soldati anche dopo la loro partenza, che quando in quella notte arrivò Gaio Voluseno, che precedeva l’esercito con la cavalleria, nessuno credette che anche le legioni, insieme a Cesare sano e salvo, fossero vicine: la paura aveva invaso gli animi di tutti a tal punto che, come im-

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omnibus copiis equitatum se ex fuga recepisse dicerent neque incolumi exercitu Germanos castra oppugnaturos fuisse contenderent. Quem timorem Caesaris adventus sustulit. XLII. Reversus ille eventus belli non ignorans unum, quod cohortes ex statione et praesidio essent emissae, questus – ne minimo quidem casu locum relinqui debuisse – multum Fortunam in repentino hostium adventu potuisse iudicavit, multo etiam amplius, quod paene ab ipso vallo portisque castrorum barbaros avertisset. Quarum omnium rerum maxime admirandum videbatur quod Germani, qui eo consilio Rhenum transierant ut Ambiorigis fines depopularentur, ad castra Romanorum delati optatissimum Ambiorigi beneficium obtulerant. XLIII. Caesar rursus ad vexandos hostes profectus equitatus magno coacto numero ex finitimis civitatibus in omnes partes dimittit. Omnes vici atque omnia aedificia quae quisque conspexerat incendebantur, pecora interficiebantur, praeda ex omnibus locis agebatur, frumenta non solum tanta multitudine iumentorum atque hominum consumebantur, sed etiam anni tempore atque imbribus procubuerant, ut, si qui etiam in praesentia se occultassent, tamen his deducto exercitu rerum omnium inopia pereundum videretur. Ac saepe in eum locum ventum est tanto in omnis partis dimisso equitatu, ut [non] modo visum ab se Ambiorigem in fuga circumspicerent captivi nec plane etiam abisse ex conspectu con-

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pazziti, andavano dicendo che tutto l’esercito era stato distrutto, che la cavalleria era riuscita a sfuggire e a ritirarsi nel campo, e che i Germani non sarebbero certo venuti ad assediare l’accampamento se le forze di Cesare fossero state intatte. Ma l’arrivo di Cesare pose fine a queste paure. XLII. Quando ritornò, egli, che ben conosceva quante possano essere le vicende di una guerra, si lamentò soltanto che le coorti fossero state mandate fuori dall’accampamento: non si doveva lasciare, egli disse, proprio nulla al caso e giudicò che molto la Fortuna aveva potuto nell’improvviso arrivo dei barbari, ma molto di più nell’allontanarli quando stavano già per impadronirsi del vallo e delle porte. In tutti questi avvenimenti la cosa più strana sembrava il fatto che i Germani, venuti da oltre il Reno proprio per saccheggiare le terre di Ambiorige, rivoltisi poi contro il campo romano, avevano finito per portare a costui il più grande vantaggio che egli avesse potuto desiderare. XLIII. Cesare, insistendo nel saccheggiare le terre dei nemici, radunò una quantità di cavalieri dai paesi circostanti e li mandò in ogni direzione. Tutti i villaggi e tutte le costruzioni isolate venivano incendiati; si faceva bottino dovunque; le messi non solo erano consumate dal grande numero di giumenti e di uomini dell’esercito, ma per la stagione inoltrata e le piogge, si erano coricate a terra. Si poteva, quindi, prevedere che anche quelli che si fossero sottratti ai pericoli attuali, quando i Romani avessero lasciato il paese, avrebbero finito per soccombere per la mancanza di viveri. Un grande numero di cavalieri era sparso in tutte le direzioni, spesso i prigionieri Eburoni asserivano di aver visto poco prima Ambiorige, che poi aveva ripreso la fuga: essi insistevano che non poteva essersi ancora allontanato troppo dalla loro

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tenderent, ut spe consequendi inlata atque infinito labore suscepto qui se summam ab Caesare gratiam inituros putarent paene naturam studio vincerent, semperque paulum ad summam felicitatem defuisse videretur, atque ille latebris aut saltibus se eriperet et noctu occultatus alias regiones partesque peteret non maiore equitum praesidio quam quattuor, quibus solis vitam suam committere audebat. XLIV. Tali modo vastatis regionibus exercitum Caesar duarum cohortium damno Durocortorum Remorum reducit, concilioque in eum locum Galliae indicto de coniuratione Senonum et Carnutum quaestionem habere instituit; et de Accone, qui princeps eius consilii fuerat, graviore sententia pronuntiata more maiorum supplicium sumpsit. Non nulli iudicium veriti profugerunt. Quibus cum aqua atque igni interdixisset, duas legiones ad fines Treverorum, duas in Lingonibus, sex reliquas in Senonum finibus Agedinci in hibernis conlocavit frumentoque exercitui proviso, ut instituerat, in Italiam ad conventus agendos profectus est.

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vista; così senza mai perdere la speranza di raggiungerlo si continuava in una fatica senza fine ed i cavalieri, persuasi di fare cosa molto gradita a Cesare, si prodigavano in tutti i modi, nonostante la stanchezza, forzando quasi la natura; ma sempre Ambiorige riuscì a sottrarsi all’inseguimento rifugiandosi in nascondigli naturali, come caverne o terreni boscosi, nascondendosi di notte e cambiando sempre direzione, con una guardia armata di non più di quattro cavalieri, ai quali soli osava affidare la sua vita. XLIV. Dopo aver devastato così la regione, Cesare ricondusse il suo esercito, che aveva subìto solo la perdita di due coorti, a Durocortoro, città dei Remi, indisse in quel luogo l’assemblea dei Galli, e iniziò un’inchiesta sulla congiura dei Senoni e dei Carnuti; con sentenza molto severa condannò Accone, promotore di quel piano, al supplizio, secondo le vecchie usanze romane. Parecchi, temendo di affrontare il giudizio, fuggirono: Cesare li bandì. Sistemò poi per l’inverno due legioni nelle terre dei Treveri, due in quelle dei Lingoni, le sei rimanenti nella regione dei Senoni ad Agedinco; provvide alle scorte di frumento per l’esercito, e poi, secondo il solito, partì alla volta dell’Italia per tenervi le adunanze giudiziarie.

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I. Quieta Gallia Caesar, ut constituerat, in Italiam ad conventus agendos proficiscitur. Ibi cognoscit de P. Clodii caede de senatusque consulto certior factus ut omnes iuniores Italiae coniurarent delectum tota provincia habere instituit. Eae res in Galliam Transalpinam celeriter perferuntur. Addunt ipsi et adfingunt rumoribus Galli, quod res poscere videbatur, ritineri urbano motu Caesarem neque in tantis dissensionibus ad exercitum venire posse. Hac inpulsi occasione, qui iam ante se populi Romani imperio subiectos dolerent, liberius atque audacius de bello consilia inire incipiunt. Indictis inter se principes Galliae conciliis silvestribus ac remotis locis queruntur de Acconis morte; posse hunc casum ad ipsos recidere demonstrant; miserantur communem Galliae fortunam: omnibus pollicitationibus ac praemiis deposcunt qui belli initium faciant et sui capitis periculo Galliam in libertatem vindicent. In primis rationem esse ha-

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I. La Gallia era ormai tranquilla e Cesare partì, come aveva deciso, alla volta dell’Italia per tenervi le sessioni giudiziarie. Qui venne a sapere dell’uccisione di Clodio17 e dell’ordine del senato di chiamare a giuramento tutti i giovani dell’Italia; iniziò, quindi, lui pure, la leva in tutta la sua provincia. Queste notizie giunsero subito nella Gallia transalpina e ad esse i Galli aggiungevano dicerie e invenzioni, secondo ciò che sembrava essere in armonia con le condizioni del momento: Cesare, essi dicevano, era trattenuto in Italia dai torbidi di Roma e, per quei gravi contrasti, non avrebbe potuto raggiungere l’esercito. Spinti dal desiderio di cogliere questa occasione, quei popoli, che già prima si dolevano di dover subire l’autorità dei Romani, cominciarono a fare piani di guerra con maggiore libertà e maggiore audacia. I principi della Gallia si riunirono in conciliaboli segreti in zone selvose e poco accessibili e si dolsero della morte di Accone, affermando che una uguale sorte poteva capitare a loro stessi; deplorarono la situazione di tutta la Gallia; con promesse di premi di ogni genere chiesero che venisse dato principio alla guerra e che ognuno mettesse a rischio la propria vita per la libertà della Gallia. 17 Clodio Publio Pulcro, il tribuno avversario di Cicerone, morto quell’anno (52 a.C.) in uno scontro con una banda armata di Milone. Ne erano seguiti tumulti e il processo che dette origine alla celebre orazione ciceroniana Pro Milone.

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bendam dicunt, prius quam eorum clandestina consilia efferantur, ut Caesar ab exercitu intercludatur. Id esse facile, quod neque legiones audeant absente imperatore ex hibernis egredi neque imperator sine praesidio ad legiones pervenire possit. Postremo in acie praestare interfici, quam non veterem belli gloriam libertatemque quam a maioribus acceperint reciperare. II. His rebus agitatis profitentur Carnutes se nullum periculum communis salutis causa recusare principesque ex omnibus bellum facturos pollicentur et, quoniam in praesentia obsidibus cavere inter se non possint ne res efferatur, at iure iurando ac fide sanciatur petunt, conlatis militaribus signis, quo more eorum gravissima caerimonia continetur, ne facto initio belli ab reliquis deserantur. Tum conlaudatis Carnutibus, dato iure iurando ab omnibus qui aderant, tempore eius rei constituto ab concilio disceditur. III. Ubi ea dies venit, Carnutes Cotuato et Conconnetodumno ducibus, desperatis hominibus, Cenabum signo dato concurrunt civesque Romanos, qui negotiandi causa ibi constiterant, in his C. Fufium Citam, honestum equitem Romanum, qui rei frumentariae iussu Caesaris praeerat, interficiunt bonaque eorum diripiunt. Celeriter ad omnes Galliae civitates fama perfertur. Nam ubi quae maior atque inlustrior incidit res, clamore per agros regionesque significant: hunc alii deinceps excipiunt et proximis tradunt, ut tum accidit. Nam quae Ce-

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Per prima cosa, essi dicevano, bisognava chiudere a Cesare la strada verso l’esercito prima che egli venisse a sapere dei loro piani segreti: ciò era facile, perché le legioni, quando era assente il comandante, non osavano uscire dai quartieri d’inverno, né Cesare poteva, senza adeguata scorta armata, raggiungere le sue legioni. Infine era meglio morire in battaglia piuttosto che non riuscire a recuperare l’antica gloria militare e la libertà che avevano ereditato dagli avi. II. Dopo questi discorsi i Carnuti dichiararono che essi avrebbero affrontato qualsiasi pericolo per la salvezza comune e promisero di iniziare, primi tra tutti, la guerra. Poiché in quel momento non potevano scambiarsi garanzie di ostaggi, per non palesare i loro piani, richiesero che, riunite in fascio le rispettive insegne militari, tutti si impegnassero con la parola e il giuramento (rito che nei loro costumi è considerato di somma gravità) a non staccarsi dagli altri una volta iniziata la guerra. I Carnuti ricevettero grandi elogi e tutti i presenti aderirono al giuramento; poi, fissato il giorno per l’azione, il concilio fu risolto. III. Quando giunse il giorno stabilito, i Carnuti, al comando di Cotuato e Conconnetodumno, uomini decisi ad ogni eventualità, accorsero, ad un segnale prestabilito, a Cenabo: qui uccisero i cittadini romani che si trovavano nella città per commercio e tra gli altri Gaio Fufio Cita, un nobile cavaliere romano che per ordine di Cesare si occupava dei rifornimenti di grano, e saccheggiarono i loro beni. La notizia si diffuse con grande rapidità per tutte le città della Gallia: infatti, quando accade qualcosa di grave o di notevole, i Galli usano trasmettersi la notizia attraverso i campi e le regioni con alte grida che altri sentono e trasmettono successivamente ai vicini. Anche allora accadde così: quel che era succes-

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nabi oriente sole gesta essent ante primam confectam vigiliam in finibus Arvernorum audita sunt, quod spatium est milium passuum circiter centum LX. IV. Simili ratione ibi Vercingetorix, Celtilli filius, Arvernus, summae potentiae adulescens, cuius pater principatum Galliae totius obtinuerat et ob eam causam, quod regnum appetebat, ab civitate erat interfectus, convocatis suis clientibus facile incendit. Cognito eius consilio ad arma concurritur. Prohibetur a Gobannitione, patruo suo, reliquisque principibus, qui hanc temptandam fortunam non existimabant; expellitur ex oppido Gergovia; non desistit tamen atque in agris habet delectum egentium ac perditorum. Hac coacta manu quoscumque adit ex civitate ad suam sententiam perducit; hortatur ut communis libertatis causa arma capiant, magnisque coactis copiis adversarios suos, a quibus paulo ante erat eiectus, expellit ex civitate. Rex ab suis appellatur. Dimittit quoque versus legationes; obtestatur ut in fide maneant. Celeriter sibi Senones, Parisios, Pictones, Cadurcos, Turonos, Aulercos, Lemovices, Andos reliquosque omnes qui Oceanum attingunt adiungit; omnium consensu ad eum defertur imperium. Qua oblata potestate omnibus his civitatibus obsides imperat, certum numerum militum ad se celeriter adduci iubet, armorum quantum quaeque civitas domi quodque ante tempus efficiat constituit; in primis equitatui studet. Summae diligentiae summam imperii severitatem addit; magnitudine supplicii dubitantes cogit. Nam maiore commisso delicto igni atque omnibus tormentis necat, leviore de cau-

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so a Cenabo al sorgere del sole, fu risaputo prima delle nove di sera nelle terre degli Arverni, distanti circa centosettanta miglia. IV. In tale regione viveva Vercingetorige, figlio di Celtillo arverno, giovane di grande autorità, il padre del quale aveva avuto il potere supremo in tutta la Gallia e, poiché voleva farsi re, era stato giustiziato dal popolo; egli radunò tutti i suoi clienti e facilmente riuscì ad infiammarli d’entusiasmo. Quando si conobbero le sue intenzioni, tutti corsero alle armi. Ma egli trovò l’opposizione di suo zio Gobannitione e degli altri principi che non ritenevano opportuno tentare quell’impresa e fu scacciato dalla città di Gergovia; purtuttavia non desistette dal suo proposito; cominciò a radunare nelle campagne i poveri e gli sbandati; poi, organizzata una schiera, attirò alla sua causa tutti quelli provenienti dalla città, che egli avvicinava, esortandoli a prendere le armi per la libertà di tutti; riuscì così a raccogliere grandi forze e scacciò dalla città gli avversari che pochi giorni prima avevano scacciato lui. I suoi partigiani lo proclamarono re. Mandò, allora, ambasciatori in tutte le direzioni, invitando tutti a rimanere fedeli al giuramento fatto e riuscì in poco tempo ad ottenere l’alleanza dei Senoni, dei Parisi, dei Pictoni, dei Cadurci, dei Turoni, degli Aulerci, dei Lemovici, degli Andi e di tutti i popoli delle rive dell’Oceano: per consenso di tutti fu dato a lui il comando supremo. Egli, assunto l’incarico, impose a tutti i popoli la consegna di ostaggi e l’obbligo di fornirgli un dato numero di soldati; stabilì quante armi dovesse preparare ciascuna gente nei suoi confini ed entro quale tempo; pensò soprattutto alla cavalleria. Alla grande diligenza univa una grande severità nel comando; costringeva gli incerti con la paura delle pene più severe. Condannava al rogo e ad ogni sorta di supplizi chi era colpevole dei delitti più gravi, a chi commetteva qualcosa di più lieve

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sa auribus desectis aut singulis effossis oculis domum remittit, ut sint reliquis documento et magnitudine poenae perterreant alios. V. His suppliciis celeriter coacto exercitu Lucterium Cadurcum, summae hominem audaciae, cum parte copiarum in Rutenos mittit; ipse in Bituriges proficiscitur. Eius adventu Bituriges ad Haeduos, quorum erant in fide, legatos mittunt, subsidium rogatum, quo facilius hostium copias sustinere possint. Haedui de consilio legatorum quos Caesar ad exercitum reliquerat copias equitatus peditatusque subsidio Biturigibus mittunt. Qui cum ad flumen Ligerim venissent, quod Bituriges ab Haeduis dividit, paucos dies ibi morati neque flumen transire ausi domum revertuntur legatisque nostris renuntiant se Biturigum perfidiam veritos revertisse, quibus id consilii fuisse cognoverint ut, si flumen transissent, una ex parte ipsi, altera Arverni se circumsisterent. Id eane de causa quam legatis pronuntiarint, an perfidia adducti fecerint, quod nihil nobis constat, non videtur pro certo esse ponendum. Bituriges eorum discessu statim se cum Arvernis iunguntur. VI. His rebus in Italiam Caesari nuntiatis, cum iam ille urbanas res virtute Cn. Pompei commodiorem in statum pervenisse intellegeret, in Transalpinam Galliam profectus est. Eo cum venisset, magna difficultate adficiebatur, qua ratione ad exercitum pervenire posset. Nam si legiones in provinciam arcesseret, se absente in itinere proelio dimicaturas intellegebat; si ipse ad exercitum

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faceva tagliare le orecchie o cavare un occhio, poi li rimandava alle proprie case, perché fossero di ammonimento per gli altri e li atterrissero con la gravità delle pene. V. Raccolto con questi metodi crudeli un grande esercito, ne mandò contro i Ruteni una gran parte, al comando di Lucterio cadurco, uomo di grande audacia; egli stesso partì contro i Biturigi. Al suo arrivo questi inviarono subito dei messi agli Edui, di cui erano clienti, per chiedere aiuti con cui poter far fronte ai nemici. Gli Edui, per consiglio dei legati che Cesare aveva lasciato presso l’esercito, mandarono ai Biturigi aiuti di fanteria e di cavalleria. Costoro, però, giunti alla Loira, che divide i Biturigi dagli Edui, vi si fermarono per pochi giorni, poi, senza osare di attraversarla, ritornarono indietro riferendo ai nostri legati che avevano temuto la falsità dei Biturigi, perché erano venuti a sapere che, secondo un piano stabilito dai barbari, se avessero attraversato il fiume, sarebbero stati circondati da una parte dai Biturigi stessi, dall’altra dagli Arverni. Se il loro ritorno fosse determinato proprio da tale causa o da loro tradimento, non possiamo dire con sicurezza, giacché non abbiamo notizie certe in proposito. I Biturigi, dopo la loro ritirata, si unirono senz’altro agli Arverni. VI. Quando Cesare ebbe in Italia notizia di questi avvenimenti, e vide che la situazione di Roma, per la fermezza di C. Pompeo, era migliorata, partì per la Gallia transalpina. Giuntovi, si trovò in grave imbarazzo, non sapendo come riunirsi all’esercito: se avesse dato l’ordine alle legioni di portarsi nella Provincia, era certo che i Galli le avrebbero attaccate durante la marcia, mentre egli era ancora lontano; d’altra parte, se avesse cercato di raggiungere lui stesso le legioni, si sarebbe esposto a serio pericolo, non giudicando prudente, in quel mo-

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contenderet, ne iis quidem eo tempore qui quieti viderentur suam salutem recte committi videbat. VII. Interim Lucterius Cadurcus in Rutenos missus eam civitatem Arvernis conciliat. Progressus in Nitiobroges et Gabalos ab utrisque obsides accipit et magna coacta manu in provinciam Narbonem versus eruptionem facere contendit. Qua re nuntiata Caesar omnibus consiliis antevertendum existimavit ut Narbonem proficisceretur. Eo cum venisset, timentes confirmat, praesidia in Rutenis provincialibus, Volcis Arecomicis, Tolosatibus circumque Narbonem, quae loca hostibus erant finitima, constituit, partem copiarum ex provincia supplementumque quod ex Italia adduxerat in Helvios, qui fines Arvernorum contingunt, convenire iubet. VIII. His rebus comparatis represso iam Lucterio et remoto, quod intrare intra praesidia periculosum putabat, in Helvios proficiscitur. Etsi mons Cevenna, qui Arvernos ab Helviis discludit, durissimo tempore anni altissima nive iter impediebat, tamen discussa nive in altitudinem pedum VI atque ita viis patefactis summo militum labore ad fines Arvernorum pervenit. Quibus oppressis inopinantibus, quod se Cevenna ut muro munitos existimabant, ac ne singulari quidem umquam homini eo tempore anni semitae patuerant, equitibus imperat ut quam latissime possint vagentur et quam maximum hostibus terrorem inferant. Celeriter haec fama ac nuntiis ad Vercingetorigem perferuntur; quem perterriti omnes Arverni circumsistunt atque obsecrant ut suis fortunis consulat neu se ab hostibus diripi patiatur, praesertim

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mento, affidarsi neppure ai popoli che sembravano tranquilli. VII. Frattanto Lucterio cadurco che era andato verso i Ruteni attirò quel popolo all’alleanza con gli Arverni. Poi, passato nelle terre dei Nitiobrogi e Gabali, ne ricevette ostaggi e, con una grossa schiera di armati, tentò di fare un’incursione nella Provincia, in direzione di Narbona. Quando Cesare lo seppe capì che prima di ogni altra cosa doveva pensare di raggiungere tale città. Quando vi giunse, rassicurò gli incerti, collocò presidi armati nelle terre dei Ruteni, appartenenti alla Provincia, dei Volci Arecomici, dei Tolosati, e intorno a Narbona, regioni confinanti coi nemici; fece poi andare una parte delle forze della Provincia, unita ad altro contingente che aveva portato dall’Italia, nel territorio degli Elvi, che confinano con gli Arverni. VIII. In seguito a questi provvedimenti, Lucterio arrestò la sua avanzata ed anzi si allontanò, stimando pericoloso addentrarsi in zone presidiate dai Romani, e Cesare partì alla volta degli Elvi. In quella stagione rigidissima i monti Cevenne, che dividono gli Arverni dagli Elvi, coperti di alta neve, erano grave ostacolo alla marcia. Tuttavia i soldati, spalata la neve per una profondità di sei piedi, si aprirono le vie con grande fatica e Cesare arrivò ai confini degli Arverni. Qui, presi i nemici alla sprovvista, perché essi pensavano di essere protetti dalle Cevenne come da un muro e mai neppure un uomo isolato era riuscito ad aprirsi un sentiero d’inverno, diede ordine ai cavalieri di aggirarsi nel più vasto raggio possibile e di terrorizzare i nemici. Subito la diceria e poi la precisa notizia di tutto questo arrivò a Vercingetorige: tutti gli Arverni, atterriti, gli si strinsero intorno, supplicandolo di provvedere, di non permettere che i nemici saccheggiassero le loro terre, visto che tutto il pe-

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cum videat omne ad se bellum translatum. Quorum ille precibus permotus castra ex Biturigibus movet in Arvernos versus. IX. At Caesar biduum in his locis moratus, quod haec de Vercingetorige usu ventura opinione praeceperat, per causam supplementi equitatusque cogendi ab exercitu discedit, Brutum adulescentem his copiis praeficit; hunc monet, ut in omnis partes equites quam latissime pervagentur: daturum se operam ne longius triduo ab castris absit. His constitutis rebus omnibus suis inopinantibus quam maximis potest itineribus Viennam pervenit. Ibi nactus recentem equitatum, quem multis ante diebus eo praemiserat, neque diurno neque nocturno itinere intermisso per fines Haeduorum in Lingones contendit, ubi duae legiones hiemabant, ut si quid etiam de sua salute ab Haeduis iniretur consilii, celeritate praecurreret. Eo cum pervenisset, ad reliquas legiones mittit priusque omnes in unum locum cogit quam de eius adventu Arvernis nuntiari posset. Hac re cognita Vercingetorix rursus in Bituriges exercitum reducit atque inde profectus Gorgobinam, Boiorum oppidum, quos ibi Helvetico proelio victos Caesar conlocaverat Haeduisque adtribuerat, oppugnare instituit. X. Magnam haec res Caesari difficultatem ad consilium capiendum adferebat: si reliquam partem hiemis uno loco legiones contineret, ne stipendiariis Haeduorum expugnatis cuncta Gallia deficeret, quod nullum amicis in eo praesidium videret positum esse: si maturius ex hibernis educeret, ne ab re frumentaria duris subvectioni-

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so della guerra era passato su di loro. Vercingetorige, scosso da quelle preghiere, tolse il campo dalla regione dei Biturigi e si diresse verso gli Arverni. IX. Ma Cesare due giorni dopo, prevedendo la mossa di Vercingetorige, si allontanò dall’esercito col pretesto di raccogliere aiuti e cavalleria e lasciò a capo di quelle truppe il giovane Bruto, esortandolo a far continuare in tutte le direzioni e in grande spazio le scorrerie dei cavalieri e promettendo di non rimanere lontano più di tre giorni. Presi questi provvedimenti, mentre nessuno dei suoi se lo aspettava, con una marcia forzata si diresse a Vienna.18 Qui trovò cavalleria fresca, che vi aveva mandato parecchi giorni prima e, senza interrompere il cammino né di giorno né di notte, per poter prevenire con la rapidità qualche eventuale insidia da parte degli Edui, per le terre di questi si diresse verso i Lingoni, dove svernavano due legioni. Giuntovi, mandò messi alle altre legioni e riuscì a riunirle tutte prima che giungesse agli Arverni l’annunzio del suo arrivo. Vercingetorige, quando seppe ciò, portò di nuovo il suo esercito nelle terre dei Biturigi dalle quali si diresse verso Gorgòbina (città dei Boi, popolo che Cesare, dopo averlo vinto nella guerra elvetica, aveva collocato in quella regione, assegnandolo come tributario agli Edui), e la strinse di assedio. X. Questa situazione poneva a Cesare un grave problema: se avesse trattenuto fino a primavera le legioni nei loro quartieri d’inverno, c’era pericolo che, non essendo intervenuto in soccorso di un popolo tributario degli Edui, tutta la Gallia si ribellasse, vedendo che non si poteva ottenere da lui nessun aiuto; se le avesse tratte dagli alloggiamenti invernali troppo presto, sarebbe anda18

L’attuale Vienne, sul Rodano, a sud di Lione.

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bus laboraret. Praestare visum est tamen omnes difficultates perpeti quam tanta contumelia accepta omnium suorum voluntates alienare. itaque cohortatus Haeduos de supportando commeatu praemittit ad Boios, qui de suo adventu doceant hortenturque ut in fide maneant atque hostium impetum magno animo sustineant. Duabus Agedinci legionibus atque impedimentis totius exercitus relictis ad Boios proficiscitur. XI. Altero die cum ad oppidum Senonum Vellaunodunum venisset, ne quem post se hostem relinqueret, quo expeditiore re frumentaria uteretur, oppugnare instituit idque biduo circumvallavit; tertio die missis ex oppido legatis de deditione arma conferri, iumenta produci, sexcentos obsides dari iubet. Ea qui conficeret C. Trebonium legatum relinquit, ipse, ut quam primum iter conficeret, Cenabum Carnutum proficiscitur; qui tum primum adlato nuntio de oppugnatione Vellaunoduni, cum longius eam rem ductum iri existimarent, praesidium Cenabi tuendi causa, quod eo mitterent, comparabant. Huc biduo pervenit. Castris ante oppidum positis diei tempore exclusus in posterum oppugnationem differt quaeque ad eam rem usui sint militibus imperat et, quod oppidum Cenabum pons fluminis Ligeris contingebat, veritus ne noctu ex oppido profugerent, duas legiones in armis excubare iubet. Cenabenses paulo ante mediam noctem silentio ex oppido egressi flumen transire coeperunt. Qua re per exploratores nuntiata Caesar legiones quas expeditas esse iusserat portis incensis intromittit atque oppido potitur perpaucis ex hostium numero desideratis quin cuncti caperentur, quod pontis atque itinerum angustiae multitudini fugam intercluserant.

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to incontro a gravi ostacoli nel vettovagliamento per le difficoltà dei trasporti. Ma tuttavia gli sembrò bene affrontare qualsiasi cosa piuttosto che sottostare a una così grande offesa e alienarsi l’animo di tutti. Perciò, dopo aver esortato gli Edui a fornire grano, mandò messi ai Boi per annunziare loro il suo arrivo, esortandoli a rimanere fedeli e a difendersi con coraggio dall’attacco dei nemici. Lasciò ad Agedinco due legioni e i bagagli di tutto l’esercito e partì alla volta dei Boi. XI. Due giorni dopo, giunto a Vellaunoduno, città dei Senoni, con l’intento di non lasciarsi alle spalle nessun nemico e ottenere più sicurezza nei rifornimenti, cominciò l’assedio della città e in due giorni la cinse di un vallo; il terzo giorno gli giunsero parlamentari per trattare la resa, ed egli impose la consegna di armi, di bestiame e di seicento ostaggi. Lasciò C. Trebonio a sorvegliare queste operazioni di resa ed egli, senza attardarsi oltre, partì verso Cenabo, città dei Carnuti. Questi, avendo saputo dell’assedio di Vellaunoduno pensavano che la cosa sarebbe andata per le lunghe; solo allora, quindi, stavano preparando forze da mandare a Cenabo per difenderla. Cesare vi arrivò in due giorni; pose il campo davanti alla città e, vista l’ora tarda, rimandò l’assedio all’indomani, dando ordini perché si facessero tutti i preparativi necessari in simili circostanze; comandò poi a due legioni di vegliare in armi, perché temeva che gli abitanti potessero fuggire di notte, attraversando il vicino ponte sulla Loira. I Cenabesi, infatti, poco prima della mezzanotte uscirono in massa dalla città senza far rumore e cominciarono a passare il fiume. La cosa fu subito riferita dagli esploratori a Cesare, che, incendiate le porte, fece entrare le due legioni che aveva tenute pronte, e si impadronì della città: pochissimi dei nemici gli sfuggirono: quasi tutti furono catturati, perché la strettezza del ponte e delle strade impedì la fuga alla grande

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Oppidum diripit atque incendit, praedam militibus donat, exercitum Ligerim traducit atque in Biturigum fines pervenit. XII. Vercingetorix, ubi de Caesaris adventu cognovit, oppugnatione desistit atque obviam Caesari proficiscitur. Ille oppidum Biturigum positum in via Noviodunum oppugnare instituerat. Quo ex oppido cum legati ad eum venissent oratum ut sibi ignosceret suaeque vitae consuleret, ut celeritate reliquas res conficeret, qua pleraque erat consecutus, arma conferri, equos produci, obsides dari iubet. Parte iam obsidum tradita, cum reliqua administrarentur, centurionibus et paucis militibus intromissis qui arma iumentaque conquirerent, equitatus hostium procul visus est, qui agmen Vercingetorigis antecesserat. Quem simul atque oppidani conspexerunt atque in spem auxilii venerunt, clamore sublato arma capere, portas claudere, murum complere coeperunt. Centuriones in oppido cum ex significatione Gallorum novi aliquid ab iis iniri consilii intellexissent, gladiis destrictis portas occupaverunt suosque omnes incolumes receperunt. XIII. Caesar ex castris equitatum educi iubet, proelium equestre committit; laborantibus iam suis Germanos equites circiter CCCC submittit, quos ab initio secum habere instituerat. Eorum impetum Galli sustinere non potuerunt atque in fugam coniecti multis amissis se ad agmen receperunt. Quibus profligatis rursus oppidani perterriti conprehensos eos quorum opera plebem concitatam existimabant ad Caesarem perduxerunt seseque ei dediderunt. Quibus rebus confectis Caesar ad oppi-

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moltitudine. La città fu saccheggiata ed incendiata, la preda divisa fra i soldati; poi Cesare portò l’esercito oltre la Loira e giunse nelle terre dei Biturigi. XII. Vercingetorige, appena informato dell’arrivo dell’esercito romano, interruppe l’assedio e gli mosse contro. Cesare aveva iniziato l’assedio di Novioduno, città dei Biturigi che era sulla sua strada. Da questa città gli furono inviati parlamentari per pregarlo di risparmiarli e lasciarli in vita ed egli, volendo seguitare a condurre le operazioni con la stessa rapidità da cui aveva avuto tanti vantaggi, ordinò loro di consegnare armi, cavalli ed ostaggi. Già parte di questi era stata data e gli altri venivano preparati; alcuni centurioni e pochi soldati erano entrati in città per sorvegliare la consegna delle armi e dei giumenti, quando da lontano apparve la cavalleria gallica, che precedeva le truppe di Vercingetorige. I cittadini, appena la videro e poterono sperare nell’arrivo di aiuti, con grandi grida accorsero alle armi, a chiudere le porte e ad occupare i posti di difesa sulle mura. I centurioni romani che erano in città capirono dai segni che ne davano i Galli che qualcosa di nuovo stava accadendo e, impugnate le spade, si impadronirono delle porte e riuscirono a trarre in salvo i loro uomini. XIII. Cesare fece uscire dal campo la cavalleria e attaccò una battaglia equestre: poiché i suoi erano in difficoltà, fece entrare nella mischia circa quattrocento cavalieri Germani, che aveva con sé fin dal principio della guerra. I Galli non riuscirono a sostenere l’attacco di costoro, si diedero alla fuga e riportando gravi perdite si riunirono al grosso dell’esercito. Dopo la sconfitta di questi cavalieri gli abitanti di Novioduno, di nuovo atterriti, catturarono quelli che ritenevano avessero capeggiato il movimento popolare, li consegnarono a Ce-

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dum Avaricum, quod erat maximum munitissimumque in finibus Biturigum atque agri fertilissima regione, profectus est, quod eo oppido recepto civitatem Biturigum se in potestatem redacturum confidebat. XIV. Vercingetorix tot continuis incommodis Vellaunoduni, Cenabi, Novioduni acceptis suos ad concilium convocat. Docet longe alia ratione esse bellum gerendum atque antea gestum sit. Omnibus modis huic rei studendum, ut pabulatione et commeatu Romani prohibeantur. Id esse facile, quod equitatu ipsi abundent et quod anni tempore subleventur. Pabulum secari non posse; necessario dispersos hostes ex aedificiis petere: hos omnes cotidie ab equitibus deleri posse. Praeterea salutis causa rei familiaris commoda neglegenda; vicos atque aedificia incendi oportere hoc spatio ab via quoque versus, quo pabulandi causa adire posse videantur. Harum ipsis rerum copiam suppetere, quod, quorum in finibus bellum geratur, eorum opibus subleventur; Romanos aut inopiam non laturos aut magno cum periculo longius ab castris processuros: neque interesse, ipsosne interficiant impedimentisne exuant, quibus amissis bellum geri non possit. Praeterea oppida incendi oportere, quae non munitione et loci natura ab omni sint periculo tuta, ne suis sint ad detractandam militiam receptacula neu Romanis proposita ad copiam commeatus praedamque tollendam. Haec si gravia aut acerba videantur, multo il-

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sare e si arresero. Dopo, Cesare partì verso Avarico,19 la città più grande e meglio fortificata dei Biturigi e posta nella regione più ricca: egli pensava che caduta quella città tutti i Biturigi si sarebbero sottomessi. XIV. Vercingetorige, alla notizia di tante consecutive disgrazie (la resa di Vellaunoduno e di Novioduno e la distruzione di Cenabo) convocò i suoi a concilio. Li informò che era opportuno adottare una tattica di guerra diversa da quella seguita fino ad allora: bisognava impiegare ogni mezzo per impedire ai Romani i rifornimenti di viveri e di foraggi; ciò era facile per essi che avevano tanta cavalleria, data anche la stagione. I nemici non potevano tagliare il foraggio nei prati, ma erano costretti ad andarlo a cercare nei granai e nei fienili delle case, distaccando piccoli gruppi che i cavalieri galli potevano ogni giorno distruggere. Inoltre si doveva sacrificare, per la salvezza di tutti, l’utile dei singoli ed incendiare i villaggi e case in tutte le direzioni, nelle zone dove sembrava che i Romani potessero andare in cerca di rifornimenti. Essi avevano a sufficienza viveri e foraggi, perché si potevano giovare delle scorte dei popoli sul cui territorio si sarebbe combattuto: i Romani invece o non avrebbero potuto sopportare la mancanza di rifornimenti, o avrebbero dovuto ricercarli allontanandosi, con grande rischio, dal campo: inoltre il cercare di privarli dei bagagli sarebbe stato utile tanto quanto uccidere gli uomini, perché senza bagagli un esercito non può combattere. Bisognava, infine, incendiare le città non abbastanza difese da fortificazioni e da posizione naturale, perché non fossero rifugio per i Galli che si volessero sottrarre al servizio militare, né meta per i Romani per rifornirsi di viveri e per far bottino. Se questi provvedimenti potevano sembrare duri e severi, si do19

L’attuale Bourges.

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la gravius aestimari debere, liberos, coniuges in servitutem abstrahi, ipsos interfici; quae sit necesse accidere victis. XV. Omnium consensu hac sententia probata uno die amplius XX urbes Biturigum incenduntur. Hoc idem fit in reliquis civitatibus: in omnibus partibus incendia conspiciuntur: quae etsi magno cum dolore omnes ferebant, tamen hoc sibi solacii proponebant, quod se prope explorata victoria celeriter amissa reciperaturos confidebant. Deliberatur de Avarico in communi concilio, incendi placeat an defendi. Procumbunt omnibus Gallis ad pedes Bituriges, ne pulcherrimam prope totius Galliae urbem, quae praesidio et ornamento sit civitati, suis manibus succendere cogantur: facile se loci natura defensuros dicunt, quod prope ex omnibus partibus flumine et palude circumdata unum habeat et perangustum aditum. Datur petentibus venia dissuadente primo Vercingetorige, post concedente et precibus ipsorum et misericordia vulgi. Defensores oppido idonei deliguntur. XVI. Vercingetorix minoribus Caesarem itineribus subsequitur et locum castris deligit paludibus silvisque munitum ab Avarico longe milia passuum XVI. Ibi per certos exploratores in singula diei tempora quae ad Avaricum agerentur cognoscebat et quid fieri vellet imperabat. Omnis nostras pabulationes frumentationesque observabat dispersosque, cum longius necessario procederent, adoriebatur magnoque incommodo adficiebat, etsi, quantum ratione provideri poterat, ab nostris

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veva stimare molto più dura la minaccia della schiavitù per i figli e per le mogli e della morte per loro stessi, destino fatale dei vinti. XV. Questa proposta fu approvata per consenso unanime: in un solo giorno furono incendiate più di venti città dei Biturigi, e la stessa cosa fu fatta presso gli altri popoli. Dovunque si vedevano incendi; tutti ne provavano grande dolore, però cercavano di consolarsi con la speranza che, assicuratisi ormai la vittoria finale, avrebbero recuperato tutto ciò che avevano perduto. Si discusse in un’assemblea generale se si dovesse distruggere o difendere Avarico; i Biturigi si gettarono ai piedi dei capi Galli scongiurandoli di non obbligarli ad incendiare con le loro mani quella che era, si può dire, la più bella città di tutta la Gallia e che costituiva la difesa e il vanto del loro popolo; affermavano che con facilità l’avrebbero difesa, data la sua posizione, perché, essendo circondata quasi interamente dal fiume e da una palude, offriva un solo punto di passaggio molto angusto. L’assemblea finì per acconsentire: anche Vercingetorige, che dapprima era stato contrario, cedette alle loro preghiere e per la pietà che tutti ne provavano. Furono scelti per la difesa della città uomini adatti. XVI. Vercingetorige seguì Cesare con una marcia più lenta e scelse per l’accampamento un punto difeso da paludi e selve, lontano sedici miglia da Avarico. Là, momento per momento, per mezzo di esploratori organizzati in regolare servizio, veniva informato di quello che avveniva ad Avarico e trasmetteva i suoi ordini. Osservava tutti i nostri movimenti diretti alla ricerca di rifornimenti e quando vedeva che dei gruppi isolati si allontanavano più del necessario, li assaliva e arrecava loro gravi danni, sebbene da parte nostra si adottassero tutte le misure che la prudenza poteva suggerire,

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occurrebatur ut incertis temporibus diversisque itineribus iretur. XVII. Castris ad eam partem oppidi positis Caesar quae intermissa a flumine et a paludibus aditum, ut supra diximus, angustum habebat, aggerem apparare, vineas agere, turres duas constituere coepit; nam circumvallare loci natura prohibebat. De re frumentaria Boios atque Haeduos adhortari non destitit: quorum alteri, quod nullo studio agebant, non multum adiuvabant, alteri non magnis facultatibus, quod civitas erat exigua et infirma, celeriter quod habuerunt consumpserunt. Summa difficultate rei frumentariae adfecto exercitu tenuitate Boiorum, indiligentia Haeduorum, incendiis aedificiorum, usque eo ut conplures dies frumento milites caruerint et pecore ex longinquioribus vicis adacto extremam famem sustentarent, nulla tamen vox est ab iis audita populi Romani maiestate et superioribus victoriis indigna. Quin etiam Caesar cum in opere singulas legiones appellaret et, si acerbius inopiam ferrent, se dimissurum oppugnationem diceret, universi ab eo ne id faceret petebant: sic se conplures annos illo imperante meruisse, ut nullam ignominiam acciperent, numquam infecta re discederent: hoc se ignominiae laturos loco, si inceptam oppugnationem reliquissent: praestare omnes perferre acerbitates quam non civibus Romanis qui Cenabi perfidia Gallorum interissent parentarent. Haec eadem centurionibus tribunisque militum mandabant, ut per eos ad Caesarem deferrentur.

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facendo uscire i soldati in momenti e per vie sempre diversi. XVII. Dopo aver posto il campo davanti alla città, in quella parte in cui il fiume e la palude lasciavano, come abbiamo detto, uno stretto passaggio, Cesare cominciò a preparare il terrapieno, ad accostare le tettoie di legno, ad innalzare due torri: circondare la città con un vallo era, infatti, impossibile per la natura del terreno. Non cessò di sollecitare i Boi e gli Edui per la consegna di grano: ma questi soddisfacevano a malincuore e senza alcuno zelo alle sue richieste e quelli, che non avevano molte risorse, essendo una popolazione esigua e debole, consumarono ben presto tutte le loro riserve. L’esercito travagliato così per la penuria del vettovagliamento, dovuta alla povertà dei Boi, alla negligenza degli Edui e agli incendi delle città, si ridusse fino al punto che per parecchi giorni i soldati rimasero senza grano ed evitarono gli orrori della fame solo grazie al bestiame fatto affluire da località più lontane. Nonostante ciò, nessuna voce sorse tra i soldati che fosse indegna della dignità del popolo romano e delle precedenti vittorie. Anzi, quando Cesare parlò sul lavoro a ciascuna legione, affermando che se era troppo duro per loro sopportare quelle ristrettezze avrebbe desistito dall’assedio, tutti i soldati gli chiesero di non farlo e gli ricordarono che sotto il suo comando, per tanti anni avevano sempre agito in modo da non subire nessun affronto, né avevano mai lasciato incompiuta un’impresa. Perciò, ora avrebbero considerato infamia abbandonare l’assedio iniziato; era meglio sopportare tutte le sofferenze piuttosto che non vendicare i cittadini romani uccisi a Cenabo per il tradimento dei Galli. E queste stesse considerazioni ripeterono ai centurioni e ai tribuni militari, perché le riferissero a Cesare.

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XVIII. Cum iam muro turres adpropinquassent, ex captivis Caesar cognovit Vercingetorigem consumpto pabulo castra movisse propius Avaricum atque ipsum cum equitatu expeditisque, qui inter equites proeliari consuessent, insidiandi causa eo profectum quo nostros postero die pabulatum venturos arbitraretur. Quibus rebus cognitis media nocte silentio profectus ad hostium castra mane pervenit. Illi celeriter per exploratores adventu Caesaris cognito carros impedimentaque sua in artiores silvas abdiderunt, copias omnes in loco edito atque aperto instruxerunt. Qua re nuntiata Caesar celeriter sarcinas conferri, arma expediri iussit. XIX. Collis erat leniter ab infimo acclivis. Hunc ex omnibus fere partibus palus difficilis atque inpedita cingebat non latior pedibus quinquaginta. Hoc se colle interruptis pontibus Galli fiducia loci continebant generatimque distributi in civitates omnia vada ac saltus eius paludis obtinebant sic animo parati ut, si eam paludem Romani perrumpere conarentur, haesitantes premerent ex loco superiore, ut, qui propinquitatem loci videret, paratos prope aequo Marte ad dimicandum existimaret, qui iniquitatem condicionis perspiceret, inani simulatione sese ostentare cognosceret. Indignantes milites Caesar quod conspectum suum hostes ferre possent tantulo spatio interiecto et signum proelii exposcentes edocet quanto detrimento et quot virorum fortium morte necesse sit constare victoriam; quos cum sic animo paratos videat ut nullum pro sua laude periculum recusent, summae se iniquitatis condemnari debere, nisi eorum vitam

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XVIII. Cesare aveva già avvicinato le torri al muro, quando seppe dai prigionieri che Vercingetorige, finito il foraggio, aveva mosso il campo portandolo più vicino ad Avarico ed era andato lui stesso con la cavalleria e gli armati alla leggera, che di solito combattevano insieme ai cavalieri, per tendere un’imboscata, là dove pensava che il giorno dopo i nostri sarebbero andati a foraggiare. Saputo ciò, a mezzanotte Cesare partì in silenzio e giunse di mattina al campo dei nemici. Costoro, subito informati dagli esploratori dell’arrivo di Cesare, nascosero i carri e i bagagli nei punti più folti della selva e schierarono tutte le forze su un’altura aperta. All’annunzio di ciò Cesare subito ordinò di riunire i bagagli individuali della truppa e di preparare le armi. XIX. La posizione nemica era costituita da un colle a dolce pendìo che era cinto quasi completamente da una palude di difficile accesso, non più larga di cinquanta piedi. Su questo colle stavano i Galli, fidando nella forza della loro posizione, divisi per nazione: essi presidiavano saldamente tutti i punti di guado e di accesso della palude, pronti, se i Romani ne avessero tentato il passaggio, a fare impeto dall’alto su di essi, mentre erano ancora in critica situazione. Chi non avesse osservato che la vicinanza dei due eserciti, avrebbe creduto che fossero pronti a combattere in pari condizioni, ma chi avesse osservato meglio la situazione, avrebbe capito che i nostri ostentavano una baldanza infondata. Si mostravano infatti sdegnati che i nemici potessero sopportare la loro vista a così poca distanza e chiedevano il segnale di battaglia: ma Cesare li avvertì che quella vittoria sarebbe inevitabilmente stata pagata a prezzo di molti danni e della vita di molti di loro; egli, vedendoli pronti ad affrontare qualunque pericolo per la sua gloria, dichiarò che sarebbe stato colpevole egoismo da parte sua se non avesse considerato la loro vita più cara

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sua salute habeat cariorem. Sic milites consolatus eodem die reducit in castra reliquaque quae ad oppugnationem oppidi pertinebant administrare instituit. XX. Vercingetorix, cum ad suos redisset, proditionis insimulatus, quod castra propius Romanos movisset, quod cum omni equitatu discessisset, quod sine imperio tantas copias reliquisset, quod eius discessu Romani tanta oportunitate et celeritate venissent – non haec omnia fortuito aut sine consilio accidere potuisse; regnum illum Galliae malle Caesaris concessu quam ipsorum habere beneficio – tali modo accusatus ad haec respondit: quod castra movisset, factum inopia pabuli etiam ipsis hortantibus: quod propius Romanos accessisset, persuasum loci oportunitate, qui se ipse sine munitione defenderet: equitum vero operam neque in loco palustri desiderari debuisse et illic fuisse utilem quo sint profecti. Summam imperii se consulto nulli discedentem tradidisse, ne is multitudinis studio ad dimicandum impelleretur, cui rei propter animi mollitiem studere omnes videret, quod diutius laborem ferre non possent. Romani si casu intervenerint, Fortunae, si alicuius indicio vocati, huic habendam gratiam, quod et paucitatem eorum ex loco superiore cognoscere et virtutem despicere potuerint, qui dimicare non ausi turpiter se in castra receperint. Imperium se ab Caesare per proditionem nullum desiderare, quod habere victoria posset, quae iam esset sibi atque omnibus Gallis explorata: quin etiam ipsis re-

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ancora della sua. Calmatili così con le sue parole, in quello stesso giorno li ricondusse al campo, dove dispose tutto ciò che rimaneva da preparare per l’assedio. XX. Vercingetorige appena ritornò tra i suoi fu accusato di tradimento perché aveva avvicinato troppo il campo ai Romani; era partito con tutta la cavalleria; aveva lasciato numerose truppe senza assegnare loro un comandante e infine alla sua partenza i Romani erano arrivati tanto rapidamente e con tanta tempestività: tutte queste cose non potevano essere successe per caso, senza un piano prestabilito; era chiaro che egli preferiva ottenere il regno della Gallia per concessione di Cesare piuttosto che esserne loro debitore. A queste accuse Vercingetorige rispose punto per punto: aveva mosso il campo per mancanza di foraggio e spinto dalle loro stesse esortazioni; si era accostato molto ai Romani, indotto a ciò dalla favorevole posizione da lui prescelta, difesa da validi ostacoli naturali; la cavalleria poi non poteva dare nessun aiuto nelle paludi, mentre era stata utile là dove egli l’aveva diretta. Di proposito, inoltre, egli, partendo, non aveva lasciato il comando a nessuno per evitare che, spinto dal volere della moltitudine il comandante eletto si lasciasse indurre a combattere: sapeva infatti che tutti desideravano ciò, perché privi di una forte volontà non riuscivano a sopportare più a lungo le fatiche della guerra. Se i Romani erano arrivati per caso si doveva ringraziare la Fortuna, se erano stati chiamati dalle informazioni di qualcuno, si doveva ringraziare costui, perché essi, dalla zona elevata dove si trovavano, avevano potuto vedere come erano pochi e di quanto poco valore avevano dato prova, visto che si erano ritirati vergognosamente, senza osare di attaccarli. Egli non aveva bisogno di ottenere, con un tradimento, da Cesare, quell’impero che poteva conquistare con la vittoria ormai certa per lui e per tutti i Galli, anzi era pronto a restituir loro il potere

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mittere, si sibi magis honorem tribuere quam ab se salutem accipere videantur. «haec ut intellegatis» inquit «a me sincere pronuntiari, audite Romanos milites». Producit servos, quos in pabulatione paucis ante diebus exceperat et fame vinculisque excruciaverat. Hi iam ante edocti quae interrogati pronuntiarent milites se esse legionarios dicunt; fame et inopia adductos clam ex castris exisse, si quid frumenti aut pecoris in agris reperire possent: simili omnem exercitum inopia premi nec iam vires sufficere cuiusquam nec ferre operis laborem posse: itaque statuisse imperatorem, si nihil in oppugnatione oppidi profecisset, triduo exercitum deducere. «Haec» inquit «a me» Vercingetorix «beneficia habetis, quem proditionis insimulatis; cuius opera sine vestro sanguine tantum exercitum victorem fame paene consumptum videtis; quem turpiter se ex hac fuga recipientem ne qua civitas suis finibus recipiat, a me provisum est.» XXI. Conclamat omnis multitudo et suo more armis concrepat, quod facere in eo consuerunt, cuius orationem adprobant; summum esse Vercingetorigem ducem, nec de eius fide dubitandum, nec maiore ratione bellum administrari posse. Statuunt ut decem milia hominum delecta ex omnibus copiis in oppidum mittantur, nec solis Biturigibus communem salutem committendam censent, quod penes eos, si id oppidum retinuissent, summam victoriae constare intellegebant. XXII. Singulari militum nostrorum virtuti consilia cuiusque modi Gallorum occurrebant, ut est summae genus

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se, dandoglielo, essi credevano di avergli concesso un vantaggio maggiore di quanto egli avrebbe dato loro, cioè la salvezza. «E perché comprendiate che ho detto tutto ciò con sincerità,» aggiunse «ascoltate i soldati romani.» Fece presentare alcuni servi che aveva sorpresi pochi giorni prima a fare raccolta di foraggio e aveva tormentato con la fame e le catene. Questi, già istruiti su quello che dovevano rispondere, quando fossero interrogati, dissero di essere legionari, che spinti dalla fame e dalla carestia erano usciti di nascosto dall’accampamento per vedere se potevano trovare nei campi un po’ di frumento o qualche animale; tutto l’esercito romano, essi affermavano, soffriva ugualmente per mancanza di viveri, non bastavano le forze a sopportare la fatica; pertanto il comandante aveva già stabilito che, se non poteva avere alcun vantaggio nell’assedio, dopo tre giorni avrebbe condotto via l’esercito. «Questi benefici» aggiunse allora Vercingetorige «avete ricevuto da me, mentre voi mi avete accusato di tradimento; per opera mia, senza spargimento di sangue vostro, voi vedete un esercito così grande e vittorioso quasi distrutto dalla fame; e quando vergognosamente si ritirerà in fuga, ho già provveduto a che nessun popolo lo accolga nelle sue terre.» XXI. Acclamarono allora tutti e secondo il loro uso fecero risuonare le armi, come fanno quando approvano un discorso: Vercingetorige era il loro capo supremo, non si doveva dubitare della sua fedeltà, nessuno avrebbe potuto condurre la guerra con senno maggiore. Stabilirono di mandare nella città diecimila uomini scelti tra tutte le truppe, per non lasciare ai soli Biturigi la cura della salvezza di tutti e perché capivano che la vittoria era loro se avessero salvato quella città. XXII. Allo straordinario valore dei nostri soldati si opponevano gli espedienti di ogni genere dei Galli, popolo

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sollertiae atque ad omnia imitanda et efficienda quae a quoque traduntur aptissimum. Nam et laqueis falces avertebant, quas, cum destinaverant, tormentis introrsus reducebant, et aggerem cuniculis subtrahebant, eo scientius quod apud eos magnae sunt ferrariae atque omne genus cuniculorum notum atque usitatum est. Totum autem murum ex omni parte turribus contabulaverant atque has coriis intexerant. Tum crebris diurnis nocturnisque eruptionibus aut aggeri ignem inferebant aut milites occupatos in opere adoriebantur et nostrarum turrium altitudinem, quantum has cotidianus agger expresserat, commissis suarum turrium malis adaequabant et apertos cuniculos praeusta et praeacuta materia et pice fervefacta et maximi ponderis saxis morabantur moenibusque adpropinquare prohibebant. XXIII. Muri autem omnes Gallici hac fere forma sunt. Trabes derectae perpetuae in longitudinem paribus intervallis distantes inter se binos pedes in solo conlocantur. Hae revinciuntur introrsus et multo aggere vestiuntur; ea autem quae diximus intervalla grandibus in fronte saxis effarciuntur. His conlocatis et coagmentatis alius insuper ordo additur, ut idem illud intervallum servetur neque inter se contingant trabes, sed paribus intermissae spatiis singulae singulis saxis interiectis arte contineantur. Sic deinceps omne opus contexitur, dum iusta muri altitudo expleatur. Hoc cum in speciem varietatemque opus deforme non est alternis trabibus ac

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di grande vivacità, capacissimo di imitare e rifare qualunque cosa da qualunque persona gli venga insegnata. Così tenevano lontane dalle mura con dei lacci le falci e quando le avevano afferrate nei loro nodi, le tiravano nell’interno con delle macchine; con gallerie sotterranee facevano il vuoto sotto al nostro terrapieno facendolo crollare e in ciò riuscivano tanto più facilmente perché da loro sono molte le cave di ferro e conoscono e usano ogni specie di gallerie. Poi su tutto il muro, torno torno, avevano innalzato delle torri, e le proteggevano con pelli fresche. Inoltre con frequenti sortite, fatte di giorno e di notte, ora incendiavano le opere del terrapieno, ora assalivano i soldati intenti al lavoro e di quanto giorno per giorno l’aumentata altezza del terrapieno faceva salire le nostre torri, essi facevano innalzare anche le loro, aggiungendo nuovi pali; infine bloccavano le gallerie che i nostri avevano aperte, con pali acuminati induriti al fuoco, con pece bollente, con grandi massi di pietra e ci impedivano così di avvicinarci al piede delle mura. XXIII. Le mura delle città galliche erano, generalmente, costruite in questo modo. Venivano collocate a terra delle travi perpendicolari all’andamento del muro e per tutta la sua lunghezza, distanti tra loro due piedi. Queste travi erano collegate tra loro nella parte interna della costruzione e coperte con molta terra. Il rivestimento esterno era formato da grossi blocchi di pietra, resi più solidi incastrandoli negli spazi tra palo e palo. Su questo primo strato, rassodato, ne veniva aggiunto un secondo che conservava gli stessi intervalli, in modo che le travi non si toccassero, ma che ogni trave, a pari distanza dalle altre, poggiasse sui sassi frapposti e ne restasse saldamente unita. E così di seguito era fatta tutta l’opera, fino a completare l’altezza voluta. Questa costruzione non era brutta all’apparenza, offrendo la varietà dell’al-

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saxis, quae rectis lineis suos ordines servant, tum ad utilitatem et defensionem urbium summam habet oportunitatem, quod et ab incendio lapis et ab ariete materia defendit, quae perpetuis trabibus pedes quadragenos plerumque introrsus revincta neque perrumpi neque distrahi potest. XXIV. His tot rebus inpedita oppugnatione milites, cum toto tempore frigore et adsiduis imbribus tardarentur, tamen continenti labore omnia haec superaverunt et diebus XXV aggerem longum pedes CCCXXX, altum pedes LXXX extruxerunt. Cum is murum hostium paene contingeret, et Caesar ad opus consuetudine excubaret militesque hortaretur ne quod omnino tempus ab opere intermitteretur, paulo ante tertiam vigiliam est animadversum fumare aggerem, quem cuniculo hostes succenderant, eodemque tempore toto muro clamore sublato duabus portis ab utroque latere turrium eruptio fiebat: alii faces atque aridam materiam de muro in aggerem eminus iaciebant, picem reliquasque res quibus ignis excitari potest fundebant, ut quo primum occurreretur aut cui rei ferretur auxilium vix ratio iniri posset. Tamen, quod instituto Caesaris duae semper legiones pro castris excubabant pluresque partitis temporibus erant in opere, celeriter factum est ut alii eruptionibus resisterent, alii turres reducerent aggeremque interscinderent, omnis vero ex castris multitudo ad restinguendum concurreret. XXV. Cum in omnibus locis consumpta iam reliqua parte noctis pugnaretur semperque hostibus spes victoriae redintegraretur, eo magis quod deustos pluteos turrium

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ternarsi di travi e sassi, che conservavano in linee diritte i loro ordini, ed era poi molto adatta alla difesa della città, in quanto le pietre garantivano contro gli incendi e il legname contro i colpi dell’ariete, che non poteva sbriciolare il muro, né sradicare le travi, collegate come erano all’interno con traverse della lunghezza di quaranta piedi. XXIV. L’assedio era duro per tutte queste difficoltà mentre il lavoro dei soldati veniva rallentato, per tutto il tempo, dal freddo e dalle piogge: tuttavia, lavorando continuamente, essi superarono ogni ostacolo e in venticinque giorni innalzarono un terrapieno largo trecentotrenta piedi e alto ottanta. Già esso raggiungeva, in altezza, quasi il muro della città, e Cesare, secondo il suo solito, vegliava ed esortava i soldati a non perdere un minuto, quando, poco prima della mezzanotte, si vide che del fumo usciva dal terrapieno che i nemici avevano incendiato raggiungendolo per mezzo di una galleria: nello stesso momento, mentre da tutta la cinta delle mura si elevavano grida, truppe dei Galli irrompevano dalle due porte poste ai lati delle torri. Altri lanciavano dall’alto del muro sul terrapieno fiaccole e legno secco e spargevano pece e altre materie adatte a far divampare il fuoco. Era quindi difficile, in tale situazione, decidere dove accorrere e portare aiuto. Tuttavia, poiché per ordine di Cesare due legioni vegliavano sempre davanti al campo, mentre le altre attendevano a turno ai lavori, si organizzò presto la difesa: parte opponendo resistenza agli assalitori, altri ritirando le torri e tagliando il terrapieno, mentre la massa dei soldati accorreva dal campo a spegnere il fuoco. XXV. Già la notte volgeva al termine e ancora si combatteva dappertutto: nei nemici si rafforzava la speranza di vittoria, tanto più quando videro bruciare i ripari

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videbant nec facile adire apertos ad auxiliandum animadvertebant, semperque ipsi recentes defessis succederent omnemque Galliae salutem in illo vestigio temporis positam arbitrarentur, accidit inspectantibus nobis quod dignum memoria visum praetereundum non existimavimus. Quidam ante portam oppidi Gallus, qui per manus sevi ac picis traditas glebas in ignem e regione turris proiciebat: scorpione ab latere dextro traiectus exanimatusque concidit. Hunc ex proximis unus iacentem transgressus eodem illo munere fungebatur; eadem ratione ictu scorpionis exanimato alteri successit tertius et tertio quartus, nec prius ille est a propugnatoribus vacuus relictus locus quam restincto aggere atque omni ea parte summotis hostibus finis est pugnandi factus. XXVI. Omnia experti Galli, quod res nulla successerat, postero die consilium ceperunt ex oppido profugere, hortante et iubente Vercingetorige. Id silentio noctis conati non magna iactura suorum sese effecturos sperabant, propterea quod neque longe ab oppido castra Vercingetorigis aberant, et palus, quae perpetua intercedebat, Romanos ad insequendum tardabat. Iamque haec facere noctu apparabant, cum matres familiae repente in publicum procurrerunt, flentesque proiectae ad pedes suorum omnibus precibus petierunt ne se et communes liberos hostibus ad supplicium dederent, quas ad capiendam fugam naturae et virium infirmitas inpediret. Ubi eos in sententia perstare viderunt, quod plerumque in summo periculo timor misericordiam non recipit,

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delle torri e capirono che i nostri difficilmente potevano accostarsi per portare aiuto allo scoperto ai loro compagni; continuamente gli attaccanti sostituivano con truppe fresche quelle stanche, convinti che in quel momento fosse in gioco la salvezza di tutta la Gallia. Accadde allora, davanti ai nostri occhi, un fatto che ci sembra veramente degno di ricordo e che perciò non tralasceremo di narrare. Un Gallo, davanti a una porta della città, gettava nel fuoco in direzione della torre pezzi di sego e di pece che gli venivano dati con passaggio di mano in mano; fu colpito al fianco destro da una saetta lanciata da uno scorpione e cadde morto. Uno di quelli che gli erano più vicini, scavalcò il cadavere ed assunse la stessa funzione; costui fu colpito a morte nello stesso modo e un altro lo sostituì, poi un quarto sostituì il terzo, né quel punto fu lasciato vuoto dagli assalitori finché il fuoco del terrapieno fu spento, tutti i nemici furono allontanati e la battaglia ebbe termine. XXVI. I Galli misero in opera ogni espediente, ma visto che non riuscivano ad ottenere alcun vantaggio, il giorno dopo decisero di fuggire dalla città, per consiglio ed ordine di Vercingetorige. Speravano che, tentando l’impresa nel silenzio della notte, l’avrebbero compiuta senza grandi perdite, perché l’accampamento di Vercingetorige non era lontano e la palude, che si estendeva senza interruzione in quei luoghi, sarebbe stata di ostacolo all’inseguimento dei Romani. Già, dunque, si preparavano a mettere in atto il loro piano, quando le madri di famiglia all’improvviso corsero per le strade e si gettarono ai piedi dei loro uomini piangendo e supplicandoli di non consegnare alla crudeltà dei nemici mogli e figli, cui la naturale debolezza impediva di fuggire. Quando videro che essi insistevano nella loro decisione – per lo più, infatti, al momento del supremo pericolo la paura non lascia posto alla pietà – cominciarono a gridare e a

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conclamare et significare de fuga Romanis coeperunt. Quo timore perterriti Galli, ne ab equitatu Romanorum viae praeoccuparentur, consilio destiterunt. XXVII. Postero die Caesar, promota turri perfectisque operibus quae facere instituerat, magno coorto imbri non inutilem hanc ad capiendum consilium tempestatem arbitratus est, quod paulo incautius custodias in muro dispositas videbat, suosque languidius in opere versari iussit et quid fieri vellet ostendit. Legionibusque citra vineas in occulto expeditis cohortatus ut aliquando pro tantis laboribus fructum victoriae perciperent iis qui primi murum ascendissent praemia proposuit militibusque signum dedit. Illi subito ex omnibus partibus evolaverunt murumque celeriter compleverunt. XXVIII. Hostes re nova perterriti, muro turribusque deiecti in foro ac locis patentioribus cuneatim constiterunt, hoc animo ut, si qua ex parte obviam [contra] veniretur, acie instructa depugnarent. Ubi neminem in aequum locum sese demittere, sed toto undique muro circumfundi viderunt, veriti ne omnino spes fugae tolleretur, abiectis armis ultimas oppidi partes continenti impetu petiverunt, parsque ibi, cum angusto exitu portarum se ipsi premerent, a militibus, pars iam egressa portis ab equitibus est interfecta. Nec fuit quisquam qui praedae studeret. Sic et Cenabensi caede et labore operis incitati non aetate confectis, non mulieribus, non infantibus pepercerunt. Denique ex omni eo numero, qui

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segnalare ai Romani il tentativo di fuga. Atterriti, allora, i Galli, pensando che la cavalleria romana prevenendoli avrebbe tagliato loro la strada, desistettero dal proposito. XXVII. Il giorno dopo, quando una torre era stata già portata avanti e le opere cominciate erano nella posizione voluta, scoppiò un grande temporale. Cesare allora pensò che quella tempesta capitava a proposito per favorire il suo piano, perché vedeva che le precauzioni prese dai Galli per la sorveglianza del muro erano minori; comandò perciò ai suoi di rallentare il lavoro e chiarì il suo proposito. Fece tenere pronte alla battaglia le legioni, nascoste dietro i ripari in legno, e le esortò a cogliere finalmente il frutto della vittoria meritato dopo tante fatiche; promise premi a quelli che avessero scalato per primi il muro e diede il segnale dell’attacco. Subito da tutte le parti balzarono i legionari che rapidamente occuparono il muro. XXVIII. I nemici, atterriti da questo improvviso attacco, abbandonarono muro e torri e si riunirono, disponendosi a cuneo, nelle piazze e nei punti più aperti, decisi ad affrontare in regolare battaglia i Romani. Quando videro che anziché accettare il combattimento i Romani li circondavano da ogni parte, occupando l’intera cerchia delle mura, temettero di perdere completamente la possibilità di fuggire e, gettate le armi, si lanciarono verso le estreme zone della città, dove raggiunti dai legionari mentre si premevano tra loro negli stretti spazi delle porte, o dalla cavalleria, dopo essere riusciti a uscire, furono tutti uccisi. Non ci fu nessuno dei nostri che cercasse di darsi al saccheggio: pieni di ira per la strage di Cenabo e le fatiche sostenute durante l’assedio, non risparmiarono né vecchi, né donne, né fanciulli. Insomma, di tutti i difensori che ammontavano a circa quaran-

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fuit circiter milium XL, vix DCCC, qui primo clamore audito se ex oppido eiecerant, incolumes ad Vercingetorigem pervenerunt. Quos ille multa iam nocte silentio sic ex fuga excepit, veritus ne qua in castris ex eorum concursu et misericordia vulgi seditio oreretur, ut procul in via dispositis familiaribus suis principibusque civitatum disparandos deducendosque ad suos curaret, quae cuique civitati pars castrorum ab initio obvenerat. XXIX. Postero die concilio convocato consolatus cohortatusque est ne se admodum animo demitterent neve perturbarentur incommodo. Non virtute neque in acie vicisse Romanos, sed artificio quodam et scientia oppugnationis, cuius rei fuerint ipsi imperiti. Errare, si qui in bello omnis secundos rerum proventus exspectent. Sibi numquam placuisse Avaricum defendi, cuius rei testes ipsos haberet; sed factum imprudentia Biturigum et nimia obsequentia reliquorum uti hoc incommodum acciperetur. Id tamen se celeriter maioribus commodis sanaturum. Nam quae ab reliquis Gallis civitates dissentirent, has sua diligentia adiuncturum atque unum consilium totius Galliae effecturum, cuius consensui ne orbis quidem terrarum possit obsistere; idque se prope iam effectum habere. Interea aequum esse ab iis communis salutis causa impetrari ut castra munire instituerent, quo facilius repentinos hostium impetus sustinerent. XXX. Fuit haec oratio non ingrata Gallis, et maxime quod ipse animo non defecerat tanto accepto incommodo neque se in occultum abdiderat et conspectum multitudinis fugerat; plusque animo providere et praesentire

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tamila, solo ottocento, quelli che alle prime grida erano fuggiti dalla città, arrivarono incolumi da Vercingetorige. Questi li accolse in piena notte, silenziosamente, temendo che qualche moto potesse scoppiare nel campo per la pietà provocata nella moltitudine dalla notizia del loro arrivo e fece andare loro incontro i parenti e i capi dei vari popoli, perché li dividessero e li riaccompagnassero presso i loro compagni, nella parte del campo che era toccata in sorte a ciascuna gente. XXIX. Il giorno dopo, indetta un’adunanza, disse parole di conforto ed esortò i suoi a non avvilirsi né abbattersi per quella disgrazia. I Romani non avevano vinto per loro valore né in battaglia campale, ma per merito della loro superiore tecnica nell’arte degli assedi, nella quale essi non avevano alcuna esperienza. Errerebbe chi si aspettasse in una guerra ogni evento favorevole. A lui non era mai sembrata opportuna la difesa di Avarico e tutti ne erano testimoni; ma per l’imprudenza dei Biturigi e la condiscendenza eccessiva degli altri era successo questo rovescio; egli, tuttavia, vi avrebbe presto posto rimedio con vittorie più grandi. Si sarebbe adoperato in ogni modo per far entrare nella loro alleanza le genti della Gallia che ancora non l’avevano fatto; avrebbe stretto in un solo fascio tutta la Gallia e di fronte a questa unità neppure il mondo intero avrebbe potuto resistere: in quest’opera egli era già a buon punto. Frattanto era opportuno che, per la salvezza di tutti, essi cominciassero a fortificare l’accampamento per sostenere più facilmente eventuali improvvisi attacchi del nemico. XXX. Questo discorso non dispiacque ai Galli, specialmente perché vedevano che Vercingetorige non si era avvilito di fronte a così grande sconfitta, né si era nascosto o aveva evitato di presentarsi al popolo, e riconoscevano in lui rare doti di previdenza e di accortezza dal

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existimabatur, quod re integra primo incendendum Avaricum, post deserendum censuerat. Itaque ut reliquorum imperatorum res adversae auctoritatem minuunt, sic huius ex contrario dignitas incommodo accepto in dies augebatur. Simul in spem veniebant eius adfirmatione de reliquis adiungendis civitatibus; primumque eo tempore Galli castra munire instituerunt, et sic sunt animo confirmati homines insueti laboris, ut omnia quae imperarentur sibi patienda existimarent. XXXI. Nec minus quam est pollicitus Vercingetorix animo laborabat ut reliquas civitates adiungeret, atque earum principes donis pollicitationibusque alliciebat. Huic rei idoneos homines deligebat, quorum quisque aut oratione subdola aut amicitia facillime capi posset. Qui Avarico expugnato refugerant, armandos vestiendosque curat; simul ut deminutae copiae redintegrarentur imperat certum numerum militum civitatibus, quem et quam ante diem in castra adduci velit, sagittariosque omnes, quorum erat permagnus in Gallia numerus, conquiri et ad se mitti iubet. His rebus celeriter id quod Avarici deperierat expletur. Interim Teutomatus, Olloviconis filius, rex Nitiobrogum, cuius pater ab senatu nostro amicus erat appellatus, cum magno equitum suorum numero et quos ex Aquitania conduxerat ad eum pervenit. XXXII. Caesar Avarici complures dies commoratus summamque ibi copiam frumenti et reliqui commeatus nactus exercitum ex labore atque inopia refecit. Iam prope hieme confecta cum ipso anni tempore ad geren-

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momento che, quando tutto era tranquillo, aveva consigliato prima di incendiare Avarico, e, poi, di abbandonarla. Pertanto mentre l’autorità di altri capi veniva sminuita dagli eventi disastrosi, al contrario la dignità di Vercingetorige aumentò di giorno in giorno anche dopo questa sconfitta. Contemporaneamente in tutti si rafforzava la speranza nell’alleanza delle altre genti di cui egli aveva parlato. Per la prima volta, allora, i Galli cominciarono a fortificare il campo, ed erano così sconcertati che essi, uomini insofferenti ad ogni fatica, erano decisi ad ubbidire ad ogni ordine. XXXI. Vercingetorige da parte sua, come aveva promesso, si dava da fare per guadagnare alla sua parte gli altri popoli e cercava di attirarli con promesse e doni. Sceglieva per questa opera di propaganda uomini adatti, ciascuno dei quali potesse convincere facilmente quelle genti con abili discorsi o per relazioni personali. Forniva di armi e di vestiti i profughi da Avarico; contemporaneamente, per riparare alle perdite subite, ordinò ai vari popoli di fornirgli un determinato numero di soldati, fissando la data di presentazione ed ordinò, altresì, il reclutamento e la presentazione al suo campo di tutti gli arcieri, che erano molto numerosi in Gallia. In tal modo presto annullò le perdite subite ad Avarico. Frattanto si presentò a lui Teutomato, figlio di Ollovicone e re dei Nitiobrogi, il cui padre aveva ricevuto dal senato romano il titolo di amico, e gli portò un forte numero di cavalieri in parte della sua gente e in parte assoldati in Aquitania. XXXII. Cesare si trattenne parecchi giorni ad Avarico, dove trovò grande quantità di frumento e di altri viveri, cosicché l’esercito poté riaversi dalle fatiche e dalle privazioni. L’inverno era ormai finito e Cesare, invitato dalla stagione stessa ad agire, aveva già stabilito di ini-

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dum bellum vocaretur et ad hostem proficisci constituisset, sive eum ex paludibus silvisque elicere sive obsidione premere posset, legati ad eum principes Haeduorum veniunt oratum ut maxime necessario tempore civitati subveniat; summo esse in periculo rem, quod, cum singuli magistratus antiquitus creari atque regiam potestatem annum obtinere consuessent, duo magistratum gerant et se uterque eorum legibus creatum dicat. Horum esse alterum Convictolitavem, florentem et inlustrem adulescentem, alterum Cotum, antiquissima familia natum atque ipsum hominem summae potentiae et magnae cognationis, cuius frater Valetiacus proximo anno eundem magistratum gesserit. Civitatem esse omnem in armis, divisum senatum, divisum populum, suas cuiusque eorum clientelas. Quod si diutius alatur controversia, fore uti pars cum parte civitatis confligat. Id ne accidat, positum in eius diligentia atque auctoritate. XXXIII. Caesar, etsi a bello atque hoste discedere detrimentosum esse existimabat, tamen non ignorans quanta ex dissensionibus incommoda oriri consuessent, ne tanta et tam coniuncta populo Romano civitas, quam ipse semper aluisset omnibusque rebus ornasset, ad vim atque arma descenderet, atque ea pars quae minus sibi confideret auxilia a Vercingetorige arcesseret, huic rei praevertendum existimavit, et, quod legibus Haeduorum iis qui summum magistratum obtinerent excedere ex finibus non liceret, ne quid de iure aut de legibus eorum deminuisse videretur, ipse in Haeduos proficisci statuit senatumque omnem et quos inter controversia esset ad se Decetiam evocavit. Cum prope omnis civitas eo convenisset, docereturque paucis clam convocatis

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ziare le operazioni contro il nemico con l’intento di tentare di scacciarlo dalle zone di palude e boschi dove si era asserragliato, o di assediarvelo, quando arrivò da lui una deputazione di principi degli Edui, a pregarlo di portare aiuto al loro popolo in un momento per esso particolarmente pericoloso. La condizione era molto critica: mentre fin dall’antichità c’era la consuetudine di eleggere un solo magistrato e di assegnargli il potere di re per un anno, allora due erano i magistrati in carica ed entrambi affermavano di essere stati eletti secondo le leggi. L’uno era Convictolitave, giovane forte, ricco e di nascita illustre; l’altro Coto, discendente di un’antichissima famiglia e lui stesso uomo di grande autorità e legato da buone parentele, il cui fratello, Valetiaco, aveva avuto l’anno prima la stessa carica. Tutta la nazione era in armi ed erano in discordia gli anziani, il popolo, le clientele di ciascuno di loro. Se quella controversia fosse durata ancora a lungo sarebbe certo scoppiata una guerra civile. Per evitare questa sciagura si affidavano all’interessamento e all’autorità di Cesare. XXXIII. Cesare riteneva dannoso allontanarsi dal nemico con cui stava combattendo, ma non ignorava quante difficoltà di solito derivano dalle discordie e, per evitare che un popolo tanto numeroso e tanto legato ai Romani, alla cui prosperità egli aveva sempre contribuito concedendogli onori di ogni specie, scendesse alle armi e il partito che si riteneva più debole chiedesse aiuti a Vercingetorige, giudicò di dover prima di tutto sistemare questa questione. Poiché le leggi degli Edui non consentivano ai sommi magistrati di uscire dai confini, affinché non sembrasse che egli offendeva il loro diritto e le loro leggi, decise di andare egli stesso in territorio eduo e convocò a Decezia gli anziani e i due magistrati rivali. Quasi tutto il popolo si recò là. Cesare poté appurare che Coto era stato eletto da un gruppo di pochi ca-

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alio loco, alio tempore atque oportuerit fratrem a fratre renuntiatum, cum leges duos ex una familia vivo utroque non solum magistratus creari vetarent, sed etiam in senatu esse prohiberent, Cotum imperium deponere coegit. Convictolitavem, qui per sacerdotes more civitatis intermissis magistratibus esset creatus, potestatem obtinere iussit. XXXIV. Hoc decreto interposito cohortatus Haeduos, ut controversiarum ac dissensionis obliviscerentur atque omnibus omissis [his] rebus huic bello servirent eaque quae meruissent praemia ab se devicta Gallia exspectarent equitatumque omnem et peditum milia decem sibi celeriter mitterent, quae in praesidiis rei frumentariae causa disponeret, exercitum in duas partes divisit: quattuor legiones in Senones Parisiosque Labieno ducendas dedit, sex ipse in Arvernos ad oppidum Gergoviam secundum flumen Elaver duxit: equitatus partem illi adtribuit, partem sibi reliquit. Qua re cognita Vercingetorix omnibus interruptis eius fluminis pontibus ab altera fluminis parte iter facere coepit. XXXV. Cum uterque utrique esset exercitui in conspectu fereque e regione castris castra poneret, dispositis exploratoribus necubi effecto ponte Romani copias traducerent, erat in magnis Caesari difficultatibus res, ne maiorem aestatis partem flumine impediretur, quod non fere ante autumnum Elaver vado transiri solet. Itaque, ne id accideret, silvestri loco castris positis e regione unius eorum pontium quos Vercingetorix rescindendos curaverat, postero die cum duabus legionibus in occulto

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pi in luogo e tempo illegali e per di più da suo fratello, mentre le leggi non solo vietavano che due della stessa famiglia, entrambi vivi, fossero eletti magistrati, ma proibivano persino che fossero ambedue membri del consiglio degli anziani. Costrinse, quindi, Coto a lasciare la carica e ordinò che fosse confermato Convictolitave che era stato scelto, secondo le norme di legge, dai sacerdoti quando tale carica era vacante. XXXIV. Dopo aver preso queste decisioni, Cesare esortò gli Edui a dimenticare le discordie e le liti e a dedicarsi, senza pensare ad altro, alla guerra in corso aspettando; soggiogata la Gallia, avrebbero ricevuto i premi che si fossero meritati. Per intanto gli mandassero subito tutta la loro cavalleria e diecimila fanti, che avrebbe dislocato a protezione dei convogli e dei depositi di viveri. Poi divise l’esercito in due parti: diede a Labieno quattro legioni per le operazioni da condurre fra i Senoni e i Parisi, egli stesso con le altre sei invase il paese degli Arverni, dirigendosi verso la città di Gergovia, lungo il fiume Allier; della cavalleria assegnò una parte a Labieno, una parte tenne per sé. Venutolo a sapere, Vercingetorige interruppe tutti i ponti e prese a risalire sull’altra sponda il fiume. XXXV. I due eserciti erano in vista l’uno dell’altro, ponevano gli accampamenti quasi di fronte e le sentinelle dei Galli erano disposte in modo che i Romani non avevano la possibilità di costruire in nessun punto un ponte per attraversare il fiume. Cesare, perciò, si trovava di fronte al pericolo di essere bloccato dal fiume per la maggior parte dell’estate, perché, in genere, l’Allier non si può attraversare a guado prima dell’autunno. Per evitare ciò, dispose il campo in una località boscosa, di fronte a uno di quei ponti che Vercingetorige aveva fatto tagliare; il giorno dopo rimase nascosto nei boschi

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restitit; reliquas copias cum omnibus impedimentis, ut consueverat, misit, carptis quibusdam cohortibus, ut numerus legionum constare videretur. His quam longissime possent progredi iussis, cum iam ex diei tempore coniecturam caperet in castra perventum, isdem sublicis, quarum pars inferior integra remanebat, pontem reficere coepit. Celeriter effecto opere legionibusque traductis et loco castris idoneo delecto reliquas copias revocavit. Vercingetorix re cognita, ne contra suam voluntatem dimicare cogeretur, magnis itineribus antecessit. XXXVI. Caesar ex eo loco quintis castris Gergoviam pervenit equestrique eo die proelio levi facto, perspecto urbis situ, quae posita in altissimo monte omnes aditus difficiles habebat, de oppugnatione desperavit, de obsessione non prius agendum constituit quam rem frumentariam expedisset. At Vercingetorix castris prope oppidum in monte positis mediocribus circum se intervallis separatim singularum civitatum copias conlocaverat, atque omnibus eius iugi collibus occupatis qua despici poterat horribilem speciem praebebat, principesque earum civitatum, quos sibi ad consilium capiendum delegerat, prima luce cotidie ad se convenire iubebat, seu quid communicandum seu quid administrandum videretur, neque ullum fere diem intermittebat quin equestri proelio interiectis sagittariis quid in quoque esset animi ac virtutis suorum periclitaretur. Erat e regione oppidi collis sub ipsis radicibus montis egregie munitus atque ex omni parte circumcisus; quem si tenerent nostri, et aquae magna parte et pabulatione libera prohibituri hostes videbantur. Sed is locus praesidio ab his non

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con due legioni e fece proseguire l’avanzata alle altre con tutti i bagagli, come di solito, avendo cura di frazionare un certo numero di coorti in modo che sembrasse inalterato quello delle legioni. Diede a queste l’ordine di andare quanto più innanzi fosse possibile e quando, data l’ora, immaginò che fossero arrivati al campo, cominciò a riparare il ponte sugli stessi pilastri che nella parte più bassa erano rimasti intatti. Compiuta l’opera, le legioni passarono e Cesare, scelto un luogo adatto per il campo, richiamò le altre truppe. Vercingetorige, informato di ciò, si allontanò a marce forzate, per non essere costretto a combattere contro la sua volontà. XXXVI. Cesare in cinque tappe arrivò a Gergovia, e avendo avuto modo di osservare, dopo un leggero scontro di cavalleria avvenuto in quello stesso giorno, la posizione della città che, posta sulla cima di un monte, offriva grandi difficoltà di accesso, capì l’impossibilità di espugnarla d’assalto; quanto all’assedio, decise di non cominciarlo prima di aver provveduto alle scorte di viveri. Vercingetorige invece, posto il campo vicino alla città, aveva collocato intorno a sé, a poco intervallo, le forze di ciascun popolo, separate tra loro; aveva occupato tutti i colli di quella zona da cui si potesse avere la vista sul piano, offrendo un terrificante spettacolo. Ordinava poi ai capi delle varie genti, che egli stesso aveva scelto come suoi consiglieri, di presentarglisi ogni giorno, a prima mattina, per ricevere comunicazioni o prendere ordini e non passava giorno che con scontri di cavalieri, frammisti ad arcieri, non mettesse alla prova lo spirito e il valore di ciascuno dei suoi. Vi era, di fronte alla città, proprio alle radici del monte, un colle ben protetto e scosceso da ogni parte: se i nostri lo avessero preso, avrebbero potuto impedire ai nemici in gran parte i rifornimenti di acqua e completamente quelli di foraggio. Ma anche questo punto era

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infirmo tenebatur. Tamen silentio noctis Caesar ex castris egressus, prius quam subsidio ex oppido veniri posset, deiecto praesidio potitus loco duas ibi legiones conlocavit fossamque duplicem duodenum pedum a maioribus castris ad minora perduxit, ut tuto ab repentino hostium incursu singuli commeare possent. XXXVII. Dum haec ad Gergoviam geruntur, Convictolitavis Haeduus, cui magistratum adiudicatum a Caesare demonstravimus, sollicitatus ab Arvernis pecunia cum quibusdam adulescentibus conloquitur; quorum erat princeps Litaviccus atque eius fratres, amplissima familia nati adulescentes. Cum his praemium communicat hortaturque ut se liberos et imperio natos meminerint. Unam esse Haeduorum civitatem, quae certissimam Galliae victoriam distineat; eius auctoritate reliquas contineri; qua traducta locum consistendi Romanis in Gallia non fore. Esse non nullo se Caesaris beneficio affectum, sic tamen, ut iustissimam apud eum causam obtinuerit; sed plus communi libertati tribuere. Cur enim potius Haedui de suo iure et de legibus ad Caesarem disceptatorem quam Romani ad Haeduos veniant? Celeriter adulescentibus et oratione magistratus et praemio deductis, cum se vel principes eius consilii fore profiterentur, ratio perficiendi quaerebatur, quod civitatem temere ad suscipiendum bellum adduci posse non confidebant. Placuit ut Litaviccus decem illis milibus quae Caesari ad bellum mitterentur praeficeretur atque ea

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tenuto dai Galli, con forze non disprezzabili. Cesare uscì dal suo campo in piena notte e messo in fuga il presidio, prima che potessero giungere aiuti dalla città, si impadronì del colle, dove collocò due legioni mettendo in comunicazione questo accampamento minore con quello maggiore per mezzo di un camminamento doppio di dodici piedi, in modo che anche uomini isolati potessero andare dall’uno all’altro al sicuro da improvvisi attacchi nemici. XXXVII. Ciò avveniva intorno a Gergovia; intanto Convictolitave, eduo, a cui, come abbiamo visto, era stato aggiudicato da Cesare il potere, cedendo al danaro degli Arverni, venuto a colloquio con alcuni giovani, capeggiati da Litavicco e dai suoi fratelli, discendenti di una nobilissima famiglia, spartì con loro parte del danaro ricevuto e li esortò a ricordarsi di essere liberi e nati per il comando. Gli Edui – egli disse – erano il solo popolo che ostacolava la pronta vittoria della Gallia: le altre genti erano trattenute solo dall’autorità e dall’esempio degli Edui: se essi fossero passati dall’altra parte, i Romani non avrebbero avuto più la possibilità di fermarsi in Gallia. Egli aveva ricevuto – continuava – un beneficio non piccolo da Cesare, ma in fondo tutto consisteva nell’avere ottenuto ragione, per interposizione di Cesare, in una causa di per sé giusta: un maggior valore attribuiva alla comune libertà. Perché, infatti, gli Edui dovevano chiedere a Cesare di essere giudice della loro costituzione e delle loro leggi, e non i Romani agli Edui? – Subito quei giovani, convinti dal discorso del magistrato e dal danaro, si dichiararono pronti ad essere i promotori di quel movimento e studiavano il modo di portarlo a compimento, perché non speravano di poter attirare il popolo ad una guerra, senza una ragione. Fu deciso di dare a Litavicco il comando dei diecimila uomini che dovevano essere inviati a Cesare e di farlo pre-

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ducenda curaret, fratresque eius ad Caesarem praecurrerent. Reliqua qua ratione agi placeat constituunt. XXXVIII. Litaviccus accepto exercitu cum milia passuum circiter XXX ab Gergovia abesset, convocatis subito militibus lacrimans «Quo proficiscimur,» inquit «milites? Omnis noster equitatus, omnis nobilitas interiit: principes civitatis, Eporedorix et Viridomarus, insimulati proditionis ab Romanis indicta causa interfecti sunt. Haec ab his cognoscite, qui ex ipsa caede fugerunt: nam ego fratribus atque omnibus meis propinquis interfectis dolore prohibeor quae gesta sunt pronuntiare.» Producuntur ii quos ille edocuerat quae dici vellet, atque eadem quae Litaviccus pronuntiaverat multitudini exponunt: [multos] equites Haeduorum interfectos, quod conlocuti cum Arvernis dicerentur; ipsos se inter multitudinem militum occultasse atque ex media caede fugisse. Conclamant Haedui et Litaviccum obsecrant ut sibi consulat. «Quasi vero» inquit ille «consilii sit res, ac non necesse sit nobis Gergoviam contendere et cum Arvernis nosmet coniungere. An dubitamus quin nefario facinore admisso Romani iam ad nos interficiendos concurrant? Proinde, si quid in nobis animi est, persequamur eorum mortem qui indignissime interierunt, atque hos latrones interficiamus.» Ostendit cives Romanos, qui eius praesidii fiducia una erant: continuo magnum numerum frumenti commeatusque diripit, ipsos crudeliter excruciatos interficit. Nuntios tota civitate Haeduorum dimittit, eodem mendacio de caede equitum et principum permanet; hortatur ut simili ratione atque ipse fecerit suas iniurias persequantur.

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cedere presso di lui dai suoi fratelli. Stabilirono anche il piano per tutto il resto. XXXVIII. Litavicco quando giunse, a capo dell’esercito eduo, a circa trenta miglia da Gergovia, convocati ad un tratto i soldati, disse piangendo: «Dove andiamo, soldati? Tutti i nostri cavalieri, tutti i nostri nobili sono morti: i capi della città Eporedorige e Viridomaro, accusati di tradimento, sono stati, senza giudizio regolare, uccisi dai Romani. Fatevelo raccontare da quelli che sono sfuggiti alla strage: io, sopraffatto dal dolore per l’uccisione dei miei fratelli e di tutti i miei parenti, non posso dirvi ciò che è accaduto». Si presentarono degli uomini che avevano avuto istruzioni su quanto dovevano dire e raccontarono alla moltitudine le stesse cose cui Litavicco aveva fatto un accenno: che tutti i cavalieri edui erano stati uccisi perché accusati di aver stretto rapporti con gli Arverni; essi si erano frammischiati alla folla dei soldati ed erano così sfuggiti alla strage. Un clamore accolse il racconto, ed i soldati supplicarono Litavicco di provvedere alla loro salvezza. «C’è forse bisogno di pensarci su?» cominciò egli a dire «non è meglio andare senz’altro a Gergovia e unirci agli Arverni? Che possiamo aspettarci? Che dopo questo delitto i Romani ci risparmino? Se ci resta ancora del coraggio, vendichiamo la morte di quegli innocenti ed uccidiamo questi ladroni.» Ed indicò alcuni cittadini romani che si erano uniti a loro allo scopo di raggiungere Cesare, fidando nella protezione di quegli armati. Allora tutti saccheggiarono una grande quantità di frumento e di vettovaglie, e uccisero i Romani con atroci supplizi. Litavicco mandò poi messaggeri in tutta la regione degli Edui e scosse il popolo con la stessa menzogna della strage dei cavalieri e dei nobili; esortò tutti a seguire il suo esempio ed a vendicare l’affronto patito.

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XXXIX. Eporedorix Haeduus, summo loco natus adulescens et summae domi potentiae, et una Viridomarus, pari aetate et gratia, sed genere dispari, quem Caesar ab Diviciaco sibi traditum ex humili loco ad summam dignitatem perduxerat, in equitum numero convenerant nominatim ab eo evocati. His erat inter se de principatu contentio, et in illa magistratuum controversia alter pro Convictolitavi, alter pro Coto summis opibus pugnaverat. Ex his Eporedorix cognito Litavicci consilio media fere nocte rem ad Caesarem defert; orat ne patiatur civitatem pravis adulescentium consiliis ab amicitia populi Romani deficere; quod futurum provideat, si se tot hominum milia cum hostibus coniunxerint, quorum salutem neque propinqui neglegere neque civitas levi momento aestimare posset. XL. Magna adfectus sollicitudine hoc nuntio Caesar, quod semper Haeduorum civitati praecipue indulserat, nulla interposita dubitatione legiones expeditas quattuor equitatumque omnem ex castris educit, nec fuit spatium tali tempore ad contrahenda castra, quod res posita in celeritate videbatur: C. Fabium legatum cum legionibus duabus castris praesidio relinquit. Fratres Litavicci cum comprehendi iussisset, paulo ante reperit ad hostes fugisse. Adhortatus milites ne necessario tempore itineris labore permoveantur, cupidissimis omnibus progressus milia passuum XXV agmen Haeduorum conspicatur; inmisso equitatu iter eorum moratur atque inpedit interdicitque omnibus ne quemquam interficiant. Eporedorigem et Viridomarum, quos illi interfectos existimabant, inter equites versari suosque appellare

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XXXIX. Eporedorige, eduo, giovane di nobilissima famiglia che godeva in patria di grande autorità, e Viridomaro, di pari età e prestigio, ma per nascita inferiore (a Cesare era stato raccomandato da Diviziaco ed egli lo aveva fatto salire alla più alta dignità, malgrado la sua modesta origine), erano venuti tra i cavalieri, chiamati singolarmente da Cesare. Essi gareggiavano tra loro per il principato e nella precedente lotta per la magistratura uno aveva preso, con tutte le forze, le parti di Convictolitave, l’altro quelle di Coto. Eporedorige, conosciuto il piano di Litavicco, verso la mezzanotte si recò da Cesare e glielo comunicò e lo pregò di non permettere che il suo popolo si staccasse dalla alleanza dei Romani per i disegni di giovani incoscienti e di pensare a quello che sarebbe accaduto se si fossero uniti ai nemici tante migliaia di uomini, la cui sorte non poteva, d’altra parte, essere né trascurata dai parenti né tenuta in poco conto dal popolo. XL. Cesare, preoccupato a questa notizia perché aveva sempre mostrato una speciale benevolenza per gli Edui, senza un momento di esitazione, fece uscire dal campo quattro legioni in assetto di guerra e tutta la cavalleria; né vi fu tempo, in quell’occasione, di restringere il campo, perché era chiaro che tutto si dovesse risolvere con rapidità: Cesare lasciò a guardia dell’accampamento il legato Gaio Fabio con due legioni. Aveva ordinato di imprigionare i fratelli di Litavicco, ma questi poco prima erano fuggiti presso i nemici. Esortò i soldati ad affrontare virilmente, in quel momento di necessità, le fatiche della marcia: tutti lo seguirono con slancio; dopo venticinque miglia raggiunse la schiera degli Edui, li fece circondare dalla cavalleria e li fece fermare, dando l’ordine che non si uccidesse nessuno. Comandò a Eporedorige e Viridomaro, che quelli credevano morti, di farsi vedere tra i cavalieri e di chiamare i loro uomini.

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iubet. His cognitis et Litavicci fraude perspecta Haedui manus tendere et deditionem significare et proiectis armis mortem deprecari incipiunt. Litaviccus cum suis clientibus, quibus more Gallorum nefas est etiam in extrema fortuna deserere patronos, Gergoviam perfugit. XLI. Caesar nuntiis ad civitatem Haeduorum missis, qui suo beneficio conservatos docerent, quos iure belli interficere potuisset, tribusque horis noctis exercitui ad quietem datis castra ad Gergoviam movit. Medio fere itinere equites a Fabio missi quanto res in periculo fuerit exponunt. Summis copiis castra oppugnata demonstrant, cum crebro integri defessis succederent nostrosque adsiduo labore defatigarent, quibus propter magnitudinem castrorum perpetuo esset isdem in vallo permanendum. Multitudine sagittarum atque omni genere telorum multos vulneratos; ad haec sustinenda magno usui fuisse tormenta. Fabium discessu eorum duabus relictis portis obstruere ceteras pluteosque vallo addere et se in posterum diem ad similem casum parare. His rebus cognitis Caesar summo studio militum ante ortum solis in castra pervenit. XLII. Dum haec ad Gergoviam geruntur, Haedui primis nuntiis ab Litavicco acceptis nullum sibi ad cognoscendum spatium relinquunt. Inpellit alios avaritia, alios iracundia et temeritas, quae maxime illi hominum generi est innata, ut levem auditionem habeant pro re comperta. Bona civium Romanorum diripiunt, caedes faciunt, in servitutem abstrahunt. Adiuvat rem proclinatam Convictolitavis plebemque ad furorem inpellit, ut faci-

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Quando li riconobbero e compresero l’infamia di Litavicco, gli Edui, tese in alto le mani in segno di resa, gettate le armi, supplicarono di non essere uccisi. Litavicco e i suoi clienti, poiché secondo l’uso dei Galli è turpe, anche in situazione disperata, abbandonare i padroni, fuggirono a Gergovia. XLI. Cesare per mezzo di messaggeri fece sapere agli Edui di avere fatto grazia a quelli che, per diritto di guerra, avrebbe potuto uccidere; e, fatto riposare per tre ore l’esercito, riprese il cammino per Gergovia. Quasi a mezza strada lo raggiunsero dei cavalieri mandati da Fabio per fargli sapere che si era trovato in pericolosa situazione: gli raccontarono che il campo era stato attaccato da grandi forze e che i nemici sostituivano spesso le truppe combattenti affaticate, mentre i nostri, pur essendo molto stanchi, data la grandezza dell’accampamento, dovevano rimanere in permanenza sul vallo. Molti erano stati feriti dal grande numero di frecce lanciate dal nemico; di grande utilità, per resistere agli assalti, erano state le nostre macchine. Fabio, dopo che il nemico si era allontanato, aveva chiuso tutte le porte lasciandone agibili solo due; aggiungeva altre difese al vallo, e si preparava a sostenere un nuovo attacco il giorno dopo. Ricevute queste informazioni, Cesare, assecondato dall’impegno dei soldati, prima del sorgere del sole arrivò al campo. XLII. Ciò avveniva a Gergovia. Intanto gli Edui, appena avute le prime notizie da Litavicco, non aspettarono conferma delle informazioni ricevute: spinti chi dall’avidità, chi dall’ira e dalla temerarietà, chi dalla leggerezza che è propria di quelle stirpi le quali accettano ogni diceria come notizia fondata, si dettero a saccheggiare i beni dei cittadini romani, ad ucciderli, a farli schiavi. Convictolitave contribuiva a peggiorare la situazione

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nore admisso ad sanitatem reverti pudeat. M. Aristium, tribunum militum, iter ad legionem facientem fide data ex oppido Cavillono educunt: idem facere cogunt eos qui negotiandi causa ibi constiterant. Hos continuo in itinere adorti omnibus impedimentis exuunt; repugnantes diem noctemque obsident; multis utrimque interfectis maiorem multitudinem ad arma concitant. XLIII. Interim nuntio allato omnes eorum milites in potestate Caesaris teneri concurrunt ad Aristium, nihil publico factum consilio demonstrant; quaestionem de bonis direptis decernunt, Litavicci fratrumque bona publicant, legatos ad Caesarem sui purgandi gratia mittunt. Haec faciunt reciperandorum suorum causa; sed contaminati facinore et capti conpendio ex direptis bonis, quod ea res ad multos pertinebat, et timore poenae exterriti consilia clam de bello inire incipiunt civitatesque reliquas legationibus sollicitant. Quae tametsi Caesar intellegebat, tamen quam mitissime potest legatos appellat: nihil se propter inscientiam levitatemque vulgi gravius de civitate iudicare neque de sua in Haeduos benevolentia deminuere. Ipse maiorem Galliae motum expectans, ne ab omnibus civitatibus circumsisteretur, consilia inibat, quem ad modum a Gergovia discederet ac rursus omnem exercitum contraheret, ne profectio nata ab timore defectionis similis fugae videretur. XLIV. Haec cogitanti accidere visa est facultas bene gerendae rei. Nam cum in minora castra operis perspicien-

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già tesa e spingeva il popolo a furore perché, una volta commessi degli eccessi, si vergognasse poi a ritornare alla ragione. Venne fatto uscire dalla città di Cavillono il tribuno militare Marco Aristio, che doveva raggiungere la sua legione, promettendogli libertà di passaggio e costrinsero a seguirlo anche i cittadini romani che si erano stabiliti in quella città per ragioni di commercio. Poi li assalirono durante il cammino, spogliandoli di tutti i bagagli: quelli resistettero ed essi li attaccarono notte e giorno: poiché molte erano le perdite da entrambe le parti, i Galli chiesero l’aiuto di altre bande armate. XLIII. Ma intanto giunse loro la notizia che tutti i soldati erano nelle mani di Cesare: allora corsero da Aristio e lo assicurarono che niente era avvenuto col concorso delle autorità: iniziarono un processo sul saccheggio dei beni romani, confiscarono le proprietà di Litavicco e dei suoi fratelli e mandarono a Cesare una deputazione per scusarsi. Fecero ciò per riavere i loro soldati: ma tutti quelli che si erano macchiati di violenza e avevano partecipato al guadagno dai saccheggi – ed erano in molti – atterriti dalla paura della pena si diedero, segretamente, a macchinare la guerra e a sollecitare con loro fiduciari le altre genti. Cesare era al corrente di tutto ciò, tuttavia parlò ai delegati con la massima benignità, dicendo che non giudicava più severamente la gente edua per la leggerezza e l’incoscienza del volgo, né diminuiva la propria benevolenza nei suoi riguardi. Aspettandosi poi un movimento più vasto della Gallia, per non essere preso in mezzo da tutte le genti, studiava il modo di allontanarsi da Gergovia e riunire tutto l’esercito, senza che la partenza, dovuta al timore di una ribellione generale, prendesse l’aspetto di una fuga. XLIV. Mentre pensava a questo si presentò l’opportunità di conseguire un buon successo. Andato, infatti, ad

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di causa venisset, animadvertit collem, qui ab hostibus tenebatur, nudatum hominibus, qui superioribus diebus vix prae multitudine cerni poterat. Admiratus quaerit ex perfugis causam, quorum magnus ad eum cotidie numerus confluebat. Constabat inter omnes, quod iam ipse Caesar per exploratores cognoverat, dorsum esse eius iugi prope aequum, sed hunc silvestrem et angustum, qua esset aditus ad alteram partem oppidi; vehementer huic illos loco timere nec iam aliter sentire, uno colle ab Romanis occupato si alterum amisissent, quin paene circumvallati atque omni exitu et pabulatione interclusi viderentur; ad hunc muniendum locum omnes a Vercingetorige evocatos. XLV. Hac re cognita Caesar mittit conplures equitum turmas eo de media nocte; imperat his ut paulo tumultuosius omnibus locis pervagentur. Prima luce magnum numerum impedimentorum ex castris mulorumque produci deque his stramenta detrahi mulionesque cum cassidibus equitum specie ac simulatione collibus circumvehi iubet. His paucos addit equites, qui latius ostentationis causa vagentur. Longo circuitu easdem omnes iubet petere regiones. Haec procul ex oppido videbantur, ut erat a Gergovia despectus in castra, neque tanto spatio certi quid esset explorari poterat. Legionem unam eodem iugo mittit et paulum progressam inferiore constituit loco silvisque occultat. Augetur Gallis suspicio atque omnes illo ad munitionem copiae traducuntur. Vacua castra hostium Caesar conspicatus tectis insignibus suorum occultatisque signis militaribus raros milites, ne

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ispezionare i lavori dell’accampamento minore, rilevò che uno dei colli tenuti dai nemici, di cui nei giorni precedenti non si poteva neppure distinguere il terreno per la quantità dei soldati che vi si trovavano, era, invece, deserto. Meravigliato ne chiese la causa ai disertori, che gli arrivavano ogni giorno in grande numero. Tutti sapevano – ed anche Cesare ne era stato informato dagli esploratori – che il dorso di quell’altura, dalla parte dove vi era il passaggio che portava all’altro lato della città, era quasi pianeggiante, ma boscoso e stretto; i Galli erano molto in pensiero per quella posizione perché, essendo già un colle nelle mani dei Romani, se ne avessero perduto un altro, sarebbero stati circondati e sarebbe divenuto loro impossibile uscire a rifornirsi di foraggio: per questo Vercingetorige aveva raccolto tutti a presidio di quel colle. XLV. Ricevuta questa informazione, Cesare ordinò a parecchie torme di cavalieri di aggirarsi durante la notte in tutte le direzioni esagerando il rumore. A prima mattina, poi, fece uscire dal campo una grande quantità di bestie da tiro e di muli e ordinò ai mulattieri di togliere agli animali i basti, di indossare gli elmi e, fingendosi cavalieri, cavalcare per quelle colline; aggiunse loro pochi cavalieri, perché si mettessero in mostra spingendosi a maggiori distanze. Comandò a tutti di convergere con un lungo giro sulle stesse posizioni. Tutti questi movimenti si vedevano benissimo da Gergovia, da cui era aperta la vista sugli accampamenti, ma poiché molta era la distanza, non si poteva capire che cosa veramente stesse succedendo. Cesare mandò sulle stesse pendici delle alture una legione che, dopo una breve avanzata, fece fermare al piano, nascosta tra le selve. Aumentò, allora, l’inquietudine dei Galli e tutte le loro forze si riversarono in quel punto per rafforzare le difese. Cesare, quando vide che il loro campo era vuoto, fece passare

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ex oppido animadverterentur, ex maioribus castris in minora traducit legatisque quos singulis legionibus praefecerat quid fieri velit ostendit: in primis monet ut contineant milites, ne studio pugnandi aut spe praedae longius progrediantur; quid iniquitas loci habeat incommodi proponit: hoc una celeritate posse vitari; occasionis esse rem, non proelii. His rebus expositis signum dat et ab dextra parte alio ascensu eodem tempore Haeduos mittit. XLVI. Oppidi murus a planitie atque initio ascensus recta regione, si nullus amfractus intercederet, mille CC passus aberat: quicquid huc spatio ad molliendum clivum accesserat, id spatium itineris augebat. A medio fere colle in longitudinem, ut natura montis ferebat, ex grandibus saxis sex pedum murum, qui nostrorum impetum tardaret, praeduxerant Galli atque inferiore omni spatio vacuo relicto superiorem partem collis usque ad murum oppidi densissimis castris compleverant. Milites dato signo celeriter ad munitionem perveniunt eamque transgressi trinis castris potiuntur; ac tanta fuit in castris capiendis celeritas ut Teutomatus, rex Nitiobrogum, subito in tabernaculo oppressus, ut meridie conquieverat, superiore corporis parte nudata, vulnerato equo vix se ex manibus praedantium militum eriperet. XLVII. Consecutus id quod animo proposuerat Caesar receptui cani iussit, legionique decimae, quacum erat,

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dal campo maggiore a quello minore i suoi soldati con i distintivi e le insegne nascoste, divisi in piccoli gruppi, per non attirare l’attenzione dei Galli che presidiavano la città, e chiarì il suo piano ai legati che aveva messi al comando di ogni legione: anzitutto raccomandò di frenare i soldati, ad evitare che per l’ardore del combattimento o per la speranza di preda si distanziassero troppo: espose quali rischi presentava la zona poco favorevole, che riteneva si potessero evitare solo con la rapidità dell’azione; era quella l’occasione buona per compiere un colpo di mano, non per venire ad una vera battaglia campale. Chiariti questi punti, dette il segnale dell’attacco e, nello stesso momento, lanciò, sulla sua destra e per un’altra via, gli Edui. XLVI. Le mura della città in linea retta, senza calcolare le asperità del terreno, distavano dalla pianura e dal punto dove cominciava la salita milleduecento passi; i tornanti, che mitigavano la rapidità della salita, aumentavano questa distanza. I Galli a cominciare quasi dalla metà del colle avevano costruito con grandi sassi, seguendo i naturali ostacoli del terreno, un muro alto sei piedi, per opporsi ad eventuali attacchi dei nostri, e, abbandonata tutta la zona inferiore, avevano collocato gli alloggiamenti molto vicini tra loro, nella parte superiore del colle, fino alle mura della città. Appena dato il segnale d’attacco i legionari rapidamente raggiunsero il muro di difesa, lo superarono e si impadronirono di tre campi: e tanta fu la rapidità dell’occupazione di questi accampamenti che Teutomato, re dei Nitiobrogi, sorpreso all’improvviso nella sua tenda, mentre riposava, a stento e mezzo nudo poté sottrarsi, dopo l’uccisione del suo cavallo, alle mani dei soldati che depredavano. XLVII. Raggiunto il suo proposito, Cesare fece dare il segnale di ritirata e fermò subito la decima legione con

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contionatus signa constituit. At reliquarum legionum milites non exaudito sono tubae, quod satis magna valles intercedebat, tamen ab tribunis militum legatisque, ut erat a Caesare praeceptum, retinebantur. Sed elati spe celeris victoriae et hostium fuga et superiorum temporum secundis proeliis nihil adeo arduum sibi existimaverunt quod non virtute consequi possent, neque finem prius sequendi fecerunt quam muro oppidi portisque adpropinquarunt. Tum vero ex omnibus urbis partibus orto clamore, qui longius aberant repentino tumultu perterriti, cum hostem intra portas esse existimarent, sese ex oppido eiecerunt. Matres familiae de muro vestem argentumque iactabant et pectore nudo prominentes passis manibus obtestabantur Romanos ut sibi parcerent neu, sicut Avarici fecissent, ne a mulieribus quidem atque infantibus abstinerent: non nullae de muro per manus demissae sese militibus tradebant. L. Fabius centurio legionis VIII, quem inter suos eo die dixisse constabat excitari se Avaricensibus praemiis, neque commissurum ut prius quisquam murum ascenderet, tres suos nactus manipulares atque ab his sublevatus murum ascendit; hos ipse rursus singulos exceptans in murum extulit. XLVIII. Interim ii qui ad alteram partem oppidi, ut supra demonstravimus, munitionis causa convenerant, primo exaudito clamore, inde etiam crebris nuntiis incitati, oppidum a Romanis teneri, praemissis equitibus magno cursu eo contenderunt. Eorum ut quisque primus venerat, sub muro consistebat suorumque pugnantium numerum augebat. Quorum cum magna multitudo convenisset, matres familiae, quae paulo ante Romanis de muro manus tendebant, suos obtestari et more Gallico passum capillum ostentare liberosque in conspectum pro-

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cui egli si trovava. I soldati delle altre legioni, invece, non udirono il suono della tromba, perché erano separati da un avvallamento abbastanza grande: secondo l’ordine di Cesare, i tribuni militari e i legati cercavano di tenerli a freno, ma, entusiasmati dalla speranza di una celere vittoria, dalla fuga dei nemici e, abituati dai successi precedenti a pensare che niente poteva opporsi al loro valore, essi non cessarono dall’inseguimento prima di essere giunti al muro e alle porte della città. Allora da tutte le parti della città stessa si elevò un grande clamore, i difensori che erano più lontani, atterriti da questo tumulto, credendo che i Romani fossero entrati per le porte, si lanciarono fuori. Le madri di famiglia gettavano giù dal muro vesti e argento e, col petto denudato e le mani tese, scongiuravano i Romani di risparmiarle e non fare come ad Avarico, dove avevano ucciso fanciulli e donne: parecchie, aiutandosi a forza di braccia, si calavano dalle mura e si consegnavano ai soldati. Lucio Fabio, centurione dell’ottava legione, che, come era noto, aveva detto quel giorno ai suoi che, allettato dai premi promessi ad Avarico, non avrebbe permesso a nessuno di salire sul muro prima di lui, aiutato da tre suoi soldati, si fece sollevare e salì sugli spalti, da dove aiutò i suoi a raggiungerlo. XLVIII. Frattanto quei Galli che erano andati, come abbiamo detto, all’altra parte della città per eseguire lavori di difesa, udite le grida, e incitati dai messaggeri che venivano continuamente ad annunziare che i Romani avevano occupata la città, facendosi precedere dai cavalieri accorsero sul luogo della battaglia. Ciascuno, come arrivava, si portava alle mura e si aggiungeva al numero dei difensori. Quando se ne accorsero, le donne che poco prima tendevano le mani ai Romani, cominciarono a chiamare i loro uomini e secondo l’uso gallico mostravano i capelli sciolti e mettevano in vista i figli. La batta-

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ferre coeperunt. Erat Romanis nec loco nec numero aequa contentio; simul et cursu et spatio pugnae defatigati non facile recentes atque integros sustinebant. XLIX. Caesar cum iniquo loco pugnari hostiumque augeri copias videret, praemetuens suis ad T. Sextium legatum, quem minoribus castris praesidio reliquerat, misit ut cohortes ex castris celeriter educeret et sub infimo colle ab dextro latere hostium constitueret, ut, si nostros loco depulsos vidisset, quo minus libere hostes insequerentur terreret. Ipse paulum ex eo loco cum legione progressus ubi constiterat eventum pugnae expectabat. L. Cum acerrime comminus pugnaretur, hostes loco et numero, nostri virtute confiderent, subito sunt Haedui visi ab latere nostris aperto, quos Caesar ab dextra parte alio ascensu manus distinendae causa miserat. Hi similitudine armorum vehementer nostros perterruerunt, ac tametsi dextris umeris exsertis animadvertebantur, quod insigne pactum esse consuerat, tamen id ipsum sui fallendi causa milites ab hostibus factum existimabant. Eodem tempore L. Fabius centurio quique una murum ascenderant circumventi atque interfecti de muro praecipitabantur. M. Petronius, eiusdem legionis centurio, cum portas excidere conatus esset, a multitudine oppressus ac sibi desperans multis iam vulneribus acceptis manipularibus suis, qui illum secuti erant «Quoniam» inquit «me una vobiscum servare non possum, vestrae quidem certe vitae prospiciam, quos cupiditate gloriae

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glia non era favorevole ai Romani né per la posizione né per il numero: inoltre essi erano già affaticati dalla lunga corsa e dal combattimento; non era facile, quindi, che potessero opporsi a uomini freschi e riposati. XLIX. Cesare, visto che si combatteva in condizioni sfavorevoli e che le forze nemiche crescevano sempre più di numero, mandò al legato Tito Sestio, che aveva lasciato a guardia del campo minore, l’ordine di far uscire subito le coorti dal campo e di porle ai piedi del colle, verso il lato destro dei nemici, per intimorirli e ostacolarli nell’inseguimento, se avesse visto i nostri respinti dal punto dove stavano. Lui stesso avanzò alquanto con la sua legione dal luogo dove si era fermato e restò in attesa degli eventi. L. Mentre si combatteva a corpo a corpo con accanimento e i nemici confidavano nella posizione e nel numero, i Romani nel valore, all’improvviso i nostri videro venire dal loro fianco scoperto gli Edui, che Cesare per altra strada aveva inviato sull’ala destra con l’intento di tenerli lontani dalle forze nemiche durante il combattimento. Alla vista di costoro, armati come i Galli, i nostri furono vivamente impauriti: vedevano bensì che avevano la spalla destra denudata, il che era segno di popolo soggetto ai Romani, ma pensavano che questo potesse essere un inganno dei nemici. In quello stesso momento il centurione Lucio Fabio e quelli che con lui avevano dato la scalata al muro, circondati e colpiti, venivano buttati giù. Marco Petronio, centurione della stessa legione, preso in mezzo da un grande numero di nemici, mentre tentava di scardinare una delle porte, disperando ormai di salvarsi e ripetutamente ferito, si rivolse ai soldati che lo avevano seguito gridando che per lui non c’era più nulla da fare, ma che voleva che almeno loro si salvassero, dal momento che era stato lui, per desiderio

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adductus in periculum deduxi. Vos data facultate vobis consulite». Simul in medios hostes inrupit duobusque interfectis reliquos a porta paulum submovit. Conantibus auxiliari suis «Frustra» inquit «meae vitae subvenire conamini, quem iam sanguis viresque deficiunt. Proinde abite, dum est facultas, vosque ad legionem recipite». Ita pugnans post paulo concidit ac suis saluti fuit. LI. Nostri, cum undique premerentur, XLVI centurionibus amissis deiecti sunt loco. Sed intolerantius Gallos insequentes legio decima tardavit, quae pro subsidio paulo aequiore loco constiterat. Hanc rursus XIII. legionis cohortes exceperunt quae ex castris minoribus eductae cum T. Sextio legato locum ceperant superiorem. Legiones, ubi primum planitiem attigerunt, infestis contra hostes signis constiterunt. Vercingetorix ab radicibus collis suos intra munitiones reduxit. Eo die milites sunt paulo minus septingenti desiderati. LII. Postero die Caesar contione advocata temeritatem militum cupiditatemque reprehendit, quod sibi ipsi iudicavissent quo procedendum aut quid agendum videretur, neque signo recipiendi dato constitissent neque ab tribunis militum legatisque retineri potuissent. Exposuit quid iniquitas loci posset, quod ipse ad Avaricum sensisset, cum sine duce et sine equitatu deprehensis hostibus exploratam victoriam dimisisset, ne parvum modo detrimentum in contentione propter iniquitatem loci accideret. Quanto opere eorum animi magnitudinem admiraretur, quos non castrorum munitiones, non altitudo montis, non murus oppidi tardare potuisset, tanto opere

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di gloria, a condurli al pericolo. Si ritirassero quindi e pensassero a salvarsi. Poi si buttò in mezzo ai nemici, ne uccise due, riuscì ad allontanare alquanto gli altri dalla porta e ai suoi che cercavano di soccorrerlo urlò che era inutile che tentassero di salvarlo. Ormai non aveva più né forza né sangue. Finché era possibile, raggiungessero la legione. E così, combattendo fino all’ultimo, dopo un po’ cadde e fu di salvezza ai suoi. LI. I nostri, incalzati da ogni parte, dopo aver perduto quarantasei centurioni, furono respinti. Ma i Galli, che si erano lanciati con foga all’inseguimento, furono fermati dalla decima legione, che stava di riserva in terreno pianeggiante. Poi questa trovò a sua volta l’appoggio delle coorti della tredicesima legione, che uscite dal campo minore con Tito Sestio avevano occupato una posizione elevata. Le legioni, appena giunsero alla pianura, si fermarono, rivolgendo le insegne al nemico, pronte a difendersi. Vercingetorige fece rientrare i suoi, dal piede del colle, all’interno del trinceramento. In quel giorno caddero poco meno di settecento soldati. LII. Il giorno dopo Cesare convocò le legioni e rimproverò i soldati per la loro temerarietà e l’avventata foga, perché avevano voluto decidere da sé fin dove andare e che cosa fare, non si erano fermati al segnale di ritirata, né avevano potuto essere trattenuti dai tribuni militari e dai legati. Dimostrò loro che danni potesse portare un terreno sfavorevole: egli stesso lo aveva capito ad Avarico, quando aveva sorpreso i nemici senza comandante e senza cavalleria, eppure aveva rinunziato ad una vittoria sicura per non subire perdite, anche lievi, per un combattimento su terreno svantaggioso. Egli ammirava il coraggio che avevano dimostrato nel non lasciarsi fermare né dalle fortificazioni, né dall’asprezza del monte, né dal muro della città, ma altrettanto biasimava il pre-

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licentiam adrogantiamque reprehendere, quod plus se quam imperatorem de victoria atque exitu rerum sentire existimarent; nec minus se ab milite modestiam et continentiam quam virtutem atque animi magnitudinem desiderare. LIII. Hac habita contione et ad extremam orationem confirmatis militibus, ne ob hanc causam animo permoverentur neu quod iniquitas loci attulisset, id virtuti hostium tribuerent, eadem de profectione cogitans quae ante senserat legiones ex castris eduxit aciemque idoneo loco constituit. Cum Vercingetorix nihilo minus intra munitiones remaneret neque in aequum locum descenderet, levi facto equestri proelio atque eo secundo in castra exercitum reduxit. Cum hoc idem postero die fecisset, satis ad Gallicam ostentationem minuendam militumque animos confirmandos factum existimans in Haeduos movit castra. Ne tum quidem insecutis hostibus tertio die ad flumen Elaver pontes reficit eoque exercitum traducit. LIV. Ibi a Viridomaro atque Eporedorige Haeduis appellatus discit cum omni equitatu Litaviccum ad sollicitandos Haeduos profectum: opus esse ipsos antecedere ad confirmandam civitatem. Etsi multis iam rebus perfidiam Haeduorum perspectam habebat atque horum discessu maturari defectionem civitatis existimabat, tamen eos retinendos non constituit, ne aut inferre iniuriam videretur aut daret timoris aliquam suspicionem. Discedentibus his breviter sua in Haeduos merita exposuit: quos et quam humiles accepisset, conpulsos in oppida, multatos agris, omnibus ereptis copiis, inposito sti-

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suntuoso arbitrio per cui avevano creduto di poter giudicare meglio del loro comandante sulla vittoria e sull’esito delle operazioni; egli pretendeva dai suoi soldati obbedienza e disciplina non meno che coraggio e sprezzo del pericolo. LIII. Tenuta quest’adunanza, nella quale, verso la fine del discorso, esortò i soldati a non lasciarsi scuotere dall’accaduto e non attribuire al valore dei nemici quello che era dovuto solo allo svantaggio del terreno, fermo sul suo proposito circa l’opportunità di allontanarsi, fece uscire dal campo le legioni e le schierò in formazione di battaglia in un punto adatto. Poiché Vercingetorige non accettò la sfida scendendo verso il piano, ma restò sulle sue posizioni, dopo un breve combattimento equestre, a lui favorevole, ricondusse l’esercito nel campo. La cosa si ripeté il giorno dopo, e Cesare, giudicando di aver fatto abbastanza per sminuire le vanterie dei Galli e aumentare il coraggio dei suoi, tolse il campo e partì alla volta degli Edui. Neppure allora i nemici lo seguirono, ed egli, nel sesto giorno, fatto ricostruire il ponte sull’Allier, fece passare dall’altra parte l’esercito. LIV. Quivi Viridomaro ed Eporedorige edui, chiestogli un colloquio, lo informarono che Litavicco era partito con tutta la cavalleria edua per andare a sollevare il suo popolo; essi ritenevano necessario precederlo per tener calme le città. Benché Cesare avesse spesso sperimentato la falsità degli Edui e pensasse che il ritorno di costoro non avrebbe fatto che accelerare la ribellione, tuttavia non giudicò di doverli trattenere, non volendo offenderli, né lasciar comprendere la sua preoccupazione. Prima che partissero, ricordò loro quel che gli Edui gli dovevano e in quale stato si trovavano quando egli li aveva accolti sotto la sua protezione: costretti a stare chiusi nelle città, a pagare tributi, spogliati delle loro ter-

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pendio, obsidibus summa cum contumelia extortis, et quam in fortunam quamque in amplitudinem deduxisset, ut non solum in pristinum statum redissent, sed omnium temporum dignitatem et gratiam antecessisse viderentur. His datis mandatis eos ab se dimisit. LV. Noviodunum erat oppidum Haeduorum ad ripas Ligeris oportuno loco positum. Huc Caesar omnes obsides Galliae, frumentum, pecuniam publicam, suorum atque exercitus inpedimentorum magnam partem contulerat, huc magnum numerum equorum huius belli causa in Italia atque Hispania coemptum miserat. Eo cum Eporedorix Viridomarusque venissent et de statu civitatis cognovissent, Litaviccum Bibracte ab Haeduis receptum, quod est oppidum apud eos maximae auctoritatis, Convictolitavem magistratum magnamque partem senatus ad eum convenisse, legatos ad Vercingetorigem de pace et de amicitia concilianda publice missos, non praetermittendum tantum commodum existimaverunt. Itaque interfectis Novioduni custodibus quique eo negotiandi causa convenerant pecuniam atque equos inter se partiti sunt; obsides civitatum Bibracte ad magistratum deducendos curaverunt; oppidum, quod a se teneri non posse iudicabant, ne cui esset usui Romanis, incenderunt; frumenti quod subito potuerunt navibus avexerunt, reliquum flumine atque incendio corruperunt. Ipsi ex finitimis regionibus copias cogere, praesidia custodiasque ad ripas Ligeris disponere equitatumque omnibus locis iniciendi timoris causa ostentare coeperunt, si ab re frumentaria Romanos excludere aut adductos inopia in provinciam expellere possent. Quam ad spem mul-

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re, senza esercito, che era stato distrutto, obbligati in modo umiliante a fornire ostaggi e, per contro, a quali condizioni di fortuna e di dignità egli li aveva riportati, tanto che non solo avevano ripreso il prestigio di prima, ma erano saliti a potenza e ad autorità mai avute in tutti i tempi. Con questi ammonimenti li congedò. LV. Novioduno20 è una città degli Edui posta in un luogo adatto sulle rive della Loira. Qui Cesare aveva riunito tutti gli ostaggi della Gallia, il grano, il danaro pubblico, gran parte dei bagagli suoi e dell’esercito e una gran quantità di cavalli comprati in Italia e in Spagna per questa guerra. Quando Eporedorige e Viridomaro vi giunsero, furono informati delle condizioni del paese. Appresero che Litavicco era stato accolto dagli Edui a Bibracte, una delle loro città di maggior importanza dove Convictolitave e gran parte degli anziani si erano recati a visitarlo; che erano stati ufficialmente mandati ambasciatori a Vercingetorige per trattative di pace e di alleanza. Pensarono perciò di non lasciarsi sfuggire quella così buona opportunità; assalirono e distrussero il distaccamento di guardia a Novioduno; uccisero i commercianti di grano; si divisero il danaro e i cavalli; trasferirono a Bibracte, consegnandoli al loro magistrato, gli ostaggi delle altre genti galliche; incendiarono la città che pensavano di non poter difendere e che non volevano servisse ai Romani, portarono via con le imbarcazioni tutto il frumento che poterono, buttando il resto nel fiume o bruciandolo. Poi si dettero a radunare soldati dalle regioni vicine, a collocare presidi e posti di guardia sulle rive della Loira e a compiere incursioni di cavalleria in tutte le direzioni, per incutere timore, nel tentativo di chiudere ai Romani le vie di rifornimento e scacciarli dalla zona per fame. Accresceva la loro spe20

L’odierna Soissons.

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tum eos adiuvabat quod Liger ex nivibus creverat, ut omnino vado non posse transiri videretur. LVI. Quibus rebus cognitis Caesar maturandum sibi censuit, si esset in perficiendis pontibus periclitandum, ut prius quam essent maiores eo coactae copiae dimicaret. Nam ne commutato consilio iter in provinciam converteret, ut nemo tum quidem necessario faciundum existimabat, cum infamia atque indignitas rei et oppositus mons Cevenna viarumque difficultas impediebat, tum maxime quod abiuncto Labieno atque iis legionibus quas una miserat vehementer timebat. Itaque admodum magnis diurnis nocturnisque itineribus confectis contra omnium opinionem ad Ligerim venit vadoque per equites invento pro rei necessitate oportuno, ut brachia modo atque umeri ad sustinenda arma liberi ab aqua esse possent, disposito equitatu, qui vim fluminis refringeret, atque hostibus primo aspectu perturbatis incolumem exercitum traduxit frumentumque in agris et pecoris copiam nactus repleto his rebus exercitu iter in Senones facere instituit. LVII. Dum haec apud Caesarem geruntur, Labienus eo supplemento, quod nuper ex Italia venerat relicto Agedinci, ut esset inpedimentis praesidio, cum quattuor legionibus Luteciam proficiscitur. Id est oppidum Parisiorum, quod positum est in insula fluminis Sequanae. Cuius adventu ab hostibus cognito magnae ex finitimis civitatibus copiae convenerunt. Summa imperii traditur Camulogeno Aulerco, qui prope confectus aetate tamen propter singularem scientiam rei militaris ad eum est

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ranza il fatto che la Loira, per lo scioglimento delle nevi, era in piena e non pareva che potesse essere in nessun punto guadata. LVI. Cesare, come seppe tutto ciò, pensò che bisognava affrettarsi: se doveva affrontare dei pericoli nella costruzione dei ponti, era necessario che lo facesse prima che i nemici radunassero sul posto truppe più numerose. Quanto a mutare il suo piano e dirigersi verso la Provincia, nessuno, neppure allora, riteneva che fosse necessario; né Cesare poteva prendere tale decisione perché glielo impedivano la considerazione che sarebbe stata una soluzione disonorevole, che ci avrebbe fatto disprezzare da tutta la Gallia, l’ostacolo delle Cevenne e la difficoltà delle strade; in particolar modo, poi, la preoccupazione per Labieno lontano e per le sue legioni. Così, compiendo il viaggio a marce forzate, di giorno e di notte, quando nessuno se lo aspettava, arrivò alla Loira: i cavalieri trovarono un guado che la necessità del momento faceva sembrare adatto, benché solo le braccia e le spalle restassero fuori dall’acqua a sostenere le armi e, disposta la cavalleria in modo che rompesse la corrente del fiume, mentre i nemici rimanevano a guardare senza sapere cosa fare, Cesare fece passare l’esercito incolume; trovato frumento e molto bestiame e rifornito l’esercito, si diresse verso i Senoni. LVIL Mentre questo avveniva presso Cesare, Labieno, lasciato a guardia dei bagagli ad Agedinco un contingente venuto da poco dall’Italia, partì con quattro legioni per Lutezia, città dei Parisi situata in un’isola della Senna. Appena i nemici seppero del suo arrivo, subito raccolsero dalle regioni vicine molte truppe; ne fu affidato il comando supremo a Camulogeno, della gente aulerca, che, benché molto vecchio, fu chiamato a questa carica per la sua straordinaria perizia nell’arte militare.

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honorem vocatus. Is cum animadvertisset perpetuam esse paludem, quae influeret in Sequanam atque illum omnem locum magnopere inpediret, hic consedit nostrosque transitu prohibere instituit. LVIII. Labienus primo vineas agere, cratibus atque aggere paludem explere atque iter munire conabatur. Postquam id difficilius confieri animadvertit, silentio e castris tertia vigilia egressus eodem quo venerat itinere Metlosedum pervenit. Id est oppidum Senonum in insula Sequanae positum, ut paulo ante de Lutecia diximus. Deprehensis navibus circiter quinquaginta celeriterque coniunctis atque eo militibus iniectis et rei novitate perterritis oppidanis, quorum magna pars erat ad bellum evocata, sine contentione oppido potitur. Refecto ponte quem superioribus diebus hostes resciderant exercitum traducit et secundo flumine ad Luteciam iter facere coepit. Hostes re cognita ab iis qui Metlosedo fugerant Luteciam incendi pontesque eius oppidi rescindi iubent; ipsi profecti a palude in ripa Sequanae e regione Luteciae contra Labieni castra considunt. LIX. Iam Caesar a Gergovia discessisse audiebatur, iam de Haeduorum defectione et secundo Galliae motu rumores adferebantur Gallique in conloquiis interclusum itinere et Ligeri Caesarem inopia frumenti coactum in provinciam contendisse confirmabant. Bellovaci autem defectione Haeduorum cognita, qui iam ante erant per se infideles, manus cogere atque aperte bellum parare coeperunt. Tum Labienus tanta rerum commutatione longe aliud sibi capiendum consilium atque antea senserat intellegebat, neque iam ut aliquid adquireret proe-

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Questi, avendo saputo che vi era una palude molto estesa che si immetteva nella Senna e impediva l’accesso a tutta la regione, vi si stabilì e si apprestò ad impedire la nostra avanzata. LVIII. Labieno dapprima tentò di accostare macchine da guerra, riempire la palude con cespi e materiali da terrapieno, costruire un argine, ma quando comprese che era opera troppo difficile, uscito dal campo in silenzio a mezzanotte, per la stessa strada per cui era venuto raggiunse Metlosedo, città dei Senoni posta anch’essa in un’isola della Senna come abbiamo detto essere Lutezia. Là trovò circa cinquanta navi e subito le riunì una all’altra e vi fece salire i soldati, mentre gli abitanti, di cui gran parte erano partiti per la guerra, restavano atterriti per la sorpresa. Allora, senza combattere, si impadronì della città. Riparato il ponte che i nemici avevano nei giorni precedenti tagliato, fece passare l’esercito e nel senso della corrente del fiume si diresse verso Lutezia. I nemici, avvertiti dell’accaduto dai profughi di Metlosedo, dettero l’ordine di incendiare Lutezia e distruggere i ponti di questa città e, abbandonata la palude, si accamparono sulla riva della Senna, di fronte a Lutezia e alla stessa altezza del campo di Labieno. LIX. Già si diffondeva la voce che Cesare era partito da Gergovia, si parlava della ribellione degli Edui e del riuscito moto della Gallia, si affermava che Cesare, trovatasi la strada chiusa dalla Loira e costretto dalla mancanza di rifornimenti, si dirigeva verso la Provincia. I Bellovaci, poi, che erano stati sempre poco fedeli, appena seppero della ribellione degli Edui, cominciarono a radunare armati e a preparare apertamente la guerra. Poiché la situazione era tanto mutata, Labieno capì che bisognava prendere una decisione molto diversa da quella di prima e non pensar più a condurre una guerra

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lioque hostes lacesseret, sed ut incolumem exercitum Agedincum reduceret cogitabat. Namque altera ex parte Bellovaci, quae civitas in Gallia maximam habet opinionem virtutis, instabant, alteram Camulogenus parato atque instructo exercitu tenebat; tum legiones a praesidio atque impedimentis interclusas maximum flumen distinebat. Tantis subito difficultatibus obiectis ab animi virtute auxilium petendum videbat. LX. Sub vesperum consilio convocato cohortatus ut ea quae imperasset diligenter industrieque administrarent, naves quas Metlosedo deduxerat singulas equitibus Romanis attribuit et prima confecta vigilia IIII milia passuum secundo flumine silentio progredi ibique se expectari iubet. Quinque cohortes, quas minime firmas ad dimicandum esse existimabat, castris praesidio relinquit; quinque eiusdem legionis reliquas de media nocte cum omnibus impedimentis adverso flumine magno tumultu proficisci imperat. Conquirit etiam lintres: has magno sonitu remorum incitatas in eandem partem mittit. Ipse post paulo silentio egressus cum tribus legionibus eum locum petit quo naves appelli iusserat. LXI. Eo cum esset ventum, exploratores hostium, ut omni fluminis parte erant dispositi, inopinantes, quod magna subito erat coorta tempestas, ab nostris opprimuntur; exercitus equitatusque equitibus Romanis administrantibus quos ei negotio praefecerat celeriter transmittitur. Uno fere tempore sub lucem hostibus nuntiatur in castris Romanorum praeter consuetudinem tumultuari et magnum ire agmen adverso flumine sonitumque remorum in eadem parte exaudiri et paulo infra milites navibus transportari. Quibus rebus auditis, quod

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offensiva, bensì al modo di riportare l’esercito in salvo ad Agedinco; infatti, da una parte poteva essere minacciato dai Bellovaci, popolo stimato in Gallia come il più bellicoso, dall’altra vi era Camulogeno con un esercito allestito di tutto punto; inoltre un grande fiume divideva le legioni dagli equipaggiamenti e dal presidio lasciato indietro. Di fronte a tante difficoltà egli comprese che solo una decisione coraggiosa poteva salvarlo. LX. Sul far della sera convocò il consiglio di guerra e esortati i suoi ad eseguire con diligenza e scrupolosità gli ordini, assegnò le navi, che aveva portato da Metlosedo, ai cavalieri romani coll’ordine di partire allo scadere del primo turno di guardia notturna, di avanzare per quattro miglia secondo la corrente, e di attenderlo. Lasciò a guardia del campo cinque coorti, quelle che gli sembravano meno forti in battaglia; a mezzanotte comandò alle altre cinque della stessa legione di avanzare contro la corrente del fiume con tutti i bagagli facendo un grande rumore. Radunò anche delle zattere e le fece andare, spinte da numerosi remi, nella stessa direzione. Egli stesso poco dopo uscì in silenzio con tre legioni e si diresse al punto dove aveva ordinato alle navi di approdare. LXI. Giunti sul posto, uccisero gli esploratori nemici (ve ne erano dovunque lungo il fiume) cogliendoli di sorpresa perché intanto era scoppiato un grande temporale. Le legioni e la cavalleria, sotto la guida dei cavalieri romani incaricati di questo ufficio, passarono celermente il fiume. All’alba, quasi in uno stesso momento, i Galli vennero a sapere che nell’accampamento romano si notava una insolita confusione, che una numerosa schiera avanzava in direzione contraria della corrente e si sentiva da quella parte anche il rumore dei remi e che poco più giù navigavano navi cariche di soldati. A que-

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existimabant tribus locis transire legiones atque omnes perturbatos defectione Haeduorum fugam parare, suas quoque copias in tres partes distribuerunt. Nam praesidio e regione castrorum relicto et parva manu Metlosedum versus missa, quae tantum progrederetur quantum naves processissent, reliquas copias contra Labienum duxerunt. LXII. Prima luce et nostri omnes erant transportati et hostium acies cernebatur. Labienus milites cohortatus ut suae pristinae virtutis et tot secundissimorum proeliorum memoriam retinerent atque ipsum Caesarem, cuius ductu saepe numero hostes superassent, praesentem adesse existimarent, dat signum proelii. Primo concursu ab dextro cornu, ubi septima legio constiterat, hostes pelluntur atque in fugam coniciuntur; ab sinistro, quem locum duodecima legio tenebat, cum primi ordines hostium transfixi pilis concidissent, tamen acerrime reliqui resistebant, nec dabat suspicionem fugae quisquam. Ipse dux hostium Camulogenus suis aderat atque eos cohortabatur. At incerto etiam nunc exitu victoriae, cum VII legionis tribunis esset nuntiatum quae in sinistro cornu gererentur, post tergum hostium legionem ostenderunt signaque intulerunt. Ne eo quidem tempore quisquam loco cessit, sed circumventi omnes interfectique sunt. Eandem fortunam tulit Camulogenus. At ii qui praesidio contra castra Labieni erant relicti, cum proelium commissum audissent, subsidio suis ierunt collemque ceperunt, neque nostrorum militum victorum impetum sustinere potuerunt. Sic cum suis fugientibus permixti, quos non silvae montesque texerunt, ab equitatu sunt interfecti. Hoc negotio confecto Labienus revertitur Agedincum, ubi inpedimenta totius exercitus

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ste notizie essi pensarono che le legioni volessero passare in tre punti e che i Romani, atterriti per la ribellione degli Edui, si preparassero a fuggire; così divisero anche le loro forze in tre parti. Lasciarono di fronte al campo un presidio, mandarono verso Metlosedo un piccolo contingente, che doveva avanzare quanto le navi, e condussero le altre forze contro Labieno. LXII. A primo mattino tutti i nostri avevano attraversato il fiume e contemporaneamente erano in vista dei nemici. Labieno, dopo aver esortato i suoi a ricordare il loro antico valore e tutti i combattimenti vittoriosi e a considerare presente fra loro Cesare, sotto la cui guida avevano tante volte vinto, dette il segnale della battaglia. Al primo scontro, verso l’ala destra, dove era la settima legione, i nemici furono respinti e messi in fuga; all’ala sinistra, dove era schierata la dodicesima legione, i nemici delle prime file, trafitti dai giavellotti, caddero, ma gli altri resistettero con grande accanimento e nessuno diede segno di voler fuggire. Lo stesso loro capo Camulogeno era tra i suoi e li incoraggiava. Era ancora incerto l’esito della battaglia, quando fu riferito ai tribuni della settima legione quello che succedeva all’ala sinistra; allora essi condussero la legione alle spalle dei nemici attaccandoli da tergo. Ciononostante nessuno dei barbari abbandonò il suo posto; cosicché, circondati, furono tutti uccisi; la stessa sorte toccò a Camulogeno. Quanto ai Galli lasciati di fronte al campo di Labieno, appena sentirono che era stata attaccata battaglia corsero in aiuto ai compagni; occuparono un colle, ma non riuscirono a resistere all’impeto delle nostre truppe vittoriose. Così, insieme ai compagni che già fuggivano, alcuni di essi riuscirono a ripararsi fra i boschi e sui monti, gli altri furono uccisi dalla cavalleria. Portata a termine quest’impresa, Labieno tornò ad Agedinco, dove erano rimaste le salme-

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relicta erant; inde cum omnibus copiis ad Caesarem pervenit. LXIII. Defectione Haeduorum cognita bellum augetur. Legationes in omnes partes circummittuntur: quantum gratia, auctoritate, pecunia valent, ad sollicitandas civitates nituntur; nacti obsides quos Caesar apud eos deposuerat, horum supplicio dubitantes territant. Petunt a Vercingetorige Haedui ut ad se veniat rationesque belli gerendi communicet. Re impetrata contendunt ut ipsis summa imperii tradatur, et re in controversiam deducta totius Galliae concilium Bibracte indicitur. Conveniunt undique frequentes. Multitudinis suffragiis res permittitur: ad unum omnes Vercingetorigem probant imperatorem. Ab hoc concilio Remi, Lingones, Treveri afuerunt: illi quod amicitiam Romanorum sequebantur, Treveri, quod aberant longius et ab Germanis premebantur, quae fuit causa quare toto abessent bello et neutris auxilia mitterent. Magno dolore Haedui ferunt se deiectos principatu, queruntur fortunae commutationem et Caesaris in se indulgentiam requirunt, neque tamen suscepto bello suum consilium ab reliquis separare audent. Inviti summae spei adulescentes Eporedorix et Viridomarus Vercingetorigi parent. LXIV. Ille imperat reliquis civitatibus obsides diemque ei rei constituit. Huc omnes equites, XV milia numero, celeriter convenire iubet: peditatu quem antea habuerit se fore contentum dicit, neque fortunam temptaturum aut acie dimicaturum; sed, quoniam abundet equitatu, perfacile esse factu frumentationibus pabulationibusque Romanos prohibere; aequo modo animo sua ipsi

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rie dell’esercito, e da lì in tre giorni, portando con sé ogni cosa, raggiunse Cesare. LXIII. All’annunzio della defezione degli Edui la guerra si estese; essi mandarono ambascerie in tutte le direzioni e, avvalendosi del prestigio, dell’autorità, del danaro, cercavano di far sollevare altre genti; atterrivano gli esitanti, minacciando di suppliziare gli ostaggi già di Cesare, caduti in mani loro. Chiesero poi a Vercingetorige di recarsi a trovarli, per concertare di comune accordo i piani di guerra. Ottenuto ciò, cercarono di farsi affidare il comando supremo, ma poiché ne sorse una controversia, fu indetta un’assemblea di tutti i Galli a Bibracte. Questi arrivarono da ogni parte in grande numero, si stabilì di votare sulla questione e tutti, uno per uno, confermarono a Vercingetorige il comando. Da questo concilio furono assenti i Remi, i Lingoni, i Treveri; i primi perché sempre fedeli ai Romani e i Treveri per la troppa distanza e perché sotto la minaccia continua dei Germani, motivo per cui si astennero completamente dalla guerra e non mandarono aiuti a nessuna delle due parti. Gli Edui, molto scontenti di essere stati esclusi dal comando, deploravano la mutata fortuna e rimpiangevano la benevolenza che Cesare aveva per loro; però non osarono staccarsi dagli altri dopo essere stati essi stessi così accesi partigiani della guerra. Mal volentieri Eporedorige e Viridomaro, giovani di grandi ambizioni, si adattavano ad ubbidire a Vercingetorige. LXIV. Questi ordinò alle altre popolazioni di consegnargli ostaggi e fissò la data; fece subito radunare tutti i cavalieri, circa quindicimila. Disse che per la fanteria gli era sufficiente quella che già aveva ai suoi ordini e che non avrebbe tentato la sorte in una battaglia campale, perché, con tanta cavalleria, gli sarebbe stato facile impedire ai Romani i rifornimenti di grano e forag-

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frumenta corrumpant aedificiaque incendant, qua rei familiaris iactura perpetuum imperium libertatemque se consequi videant. His constitutis rebus Haeduis Segusiavisque, qui sunt finitimi [ei] provinciae, decem milia peditum imperat; huc addit equites DCCC. His praeficit fratrem Eporedorigis bellumque inferre Allobrogibus iubet. Altera ex parte Gabalos proximosque pagos Arvernorum in Helvios, item Rutenos Cadurcosque ad fines Volcarum Arecomicorum depopulandos mittit. Nihilo minus clandestinis nuntiis legationibusque Allobroges sollicitat, quorum mentes nondum ab superiore bello resedisse sperabat. Horum principibus pecunias, civitati autem imperium totius provinciae pollicetur. LXV. Ad hos omnes casus provisa erant praesidia cohortium duarum et XX, quae ex ipsa coacta provincia ab L. Caesare legato ad omnes partes opponebantur. Helvii sua sponte cum finitimis proelio congressi pelluntur et C. Valerio Domnotauro, Caburi filio, principe civitatis, conpluribusque aliis interfectis intra oppida ac muros conpelluntur. Allobroges crebris ad Rhodanum dispositis praesidiis magna cum cura et diligentia suos fines tuentur. Caesar, quod hostes equitatu superiores esse intellegebat et interclusis omnibus itineribus nulla re ex provincia atque Italia sublevari poterat, trans Rhenum in Germaniam mittit ad eas civitates quas superioribus annis pacaverat, equitesque ab his arcessit et levis armaturae pedites qui inter eos proeliari consuerant. Eorum adventu, quod minus idoneis equis utebantur, a

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gio; soltanto, essi non dovevano addolorarsi di distruggere con le loro mani il raccolto e incendiare le abitazioni, poiché era chiaro che col sacrificio dei beni familiari avrebbero potuto conquistare per sempre la libertà e l’indipendenza. Prese queste decisioni, ordinò agli Edui e ai Segusiàvi, popolo vicino alla frontiera della Provincia, di fornirgli diecimila soldati, cui aggiunse ottocento cavalieri. Mise al comando di costoro il fratello di Eporedorige con l’ordine di portare la guerra agli Allobrogi. Nello stesso tempo, mandò i Gabali e gli abitanti delle zone di frontiera degli Arverni contro gli Elvi ed i Ruteni e i Cadurci a devastare le terre dei Volci Arecomici. Però non cessò di mandare segretamente messaggeri e ambasciatori agli Allobrogi, che sperava non ancora pacificati dopo la recente guerra. Ai loro principi prometteva danaro e al popolo il dominio su tutta la Provincia. LXV. Per fronteggiare qualsiasi eventualità e per presidiare il paese era stato organizzato un corpo di ventidue coorti, arruolate nella Provincia, che, sotto il comando del legato Lucio Cesare, dovevano opporsi ovunque al nemico. Gli Elvi vennero da soli a battaglia con i popoli confinanti, furono respinti e, morto Gaio Valerio Domnotauro, figlio di Caburio, principe del paese, e molti altri, dovettero chiudersi entro le mura delle città. Gli Allobrogi, collocati numerosi posti di guardia sul Rodano, controllavano i loro confini con attenzione e vigilanza. Cesare, che vedeva i nemici superiori per cavalleria e non poteva avere rinforzi dalla Provincia né dall’Italia, dato il controllo nemico su tutte le strade, mandò dei messi oltre il Reno a quelle popolazioni germaniche che aveva vinte negli anni precedenti e chiese loro cavalieri e soldati di armatura leggera soliti a combattere con la cavalleria. Quando arrivarono, poiché non avevano buoni cavalli, Cesare prese quelli dei tribuni militari, de-

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tribunis militum reliquisque [sed et] equitibus Romanis atque evocatis equos sumit Germanisque distribuit. LXVI. Interea dum haec geruntur, hostium copiae ex Arvernis equitesque qui toti Galliae erant imperati conveniunt. Magno horum coacto numero, cum Caesar in Sequanos per extremos Lingonum fines iter faceret, quo facilius subsidium provinciae ferre posset, circiter milia passuum X ab Romanis trinis castris Vercingetorix consedit convocatisque ad concilium praefectis equitum venisse tempus victoriae demonstrat: fugere in provinciam Romanos Galliaque excedere; id sibi ad praesentem obtinendam libertatem satis esse; ad reliqui temporis pacem atque otium parum profici: maioribus enim coactis copiis reversuros neque finem bellandi facturos. Proinde agmine impeditos adoriantur. Si pedites suis auxilium ferant atque in eo morentur, iter confici non posse; si, id quod magis futurum confidat, relictis impedimentis suae saluti consulant, et usu rerum necessariarum et dignitate spoliatum iri. Nam de equitibus hostium, quin nemo eorum progredi modo extra agmen audeat ne ipsos quidem debere dubitare. Id quo maiore faciant animo copias se omnes pro castris habiturum et terrori hostibus futurum. Conclamant equites: sanctissimo iure iurando confirmari oportere, ne tecto recipiatur, ne ad liberos, ad parentes, ad uxorem aditum habeat, qui non bis per agmen hostium perequitarit.

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gli altri cavalieri e dei veterani richiamati e li distribuì ai Germani. LXVI. Mentre i Romani prendevano questi provvedimenti, le forze nemiche che si trovavano presso gli Arverni e i cavalieri richiesti a tutta la Gallia si radunarono in gran numero. Allora, mentre Cesare, attraversando la parte meridionale del territorio dei Lingoni, si dirigeva verso i Sèquani, pensando così di portare più facilmente aiuto alla Provincia, Vercingetorige si fermò e si stabilì in tre accampamenti a circa dieci miglia dai Romani e, radunati a consiglio i comandanti della cavalleria, annunziò loro che era venuto il momento della vittoria; i Romani fuggivano verso la Provincia lasciando la Gallia. Questo – affermò – era sufficiente per ottenere al momento la libertà, ma poco giovava alla pace e alla tranquillità futura, perché i Romani sarebbero certo tornati con maggiori forze. Perciò essi li dovevano assalire ora, mentre marciavano impacciati dai loro bagagli. Se i legionari a piedi si fossero attardati a portare aiuto a coloro che sarebbero stati attaccati, non avrebbero portato a termine il loro viaggio; se, come egli riteneva più probabile, avessero abbandonato i bagagli per cercare di salvarsi, avrebbero perduto insieme le cose più necessarie e l’onore. Quanto ai cavalieri nemici, era cosa certa che nessuno di loro avrebbe osato mostrarsi fuori dallo schieramento. Perché i suoi fossero incoraggiati a combattere con maggiore ardire, egli avrebbe schierato l’intero esercito davanti ai campi, contribuendo con ciò ad atterrire i Romani. I cavalieri lo acclamarono e tutti insieme gridarono che si doveva fare un giuramento solenne: che cioè nessuno sarebbe stato ricevuto in una casa, né si sarebbe accostato ai figli, ai genitori, alla moglie se non avesse per due volte attraversato le linee nemiche.

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LXVII. Probata re atque omnibus iure iurando adactis postero die in tres partes distributo equitatu duae se acies a duobus lateribus ostendunt, una a primo agmine iter impedire coepit. Qua re nuntiata Caesar suum quoque equitatum tripertito divisum contra hostem ire iubet. Pugnatur una omnibus in partibus. Consistit agmen; impedimenta intra legiones recipiuntur. Si qua in parte nostri laborare aut gravius premi videbantur, eo signa inferri Caesar aciemque constitui iubebat; quae res et hostes ad insequendum tardabat et nostros spe auxilii confirmabat. Tandem Germani ab dextro latere summum iugum nacti hostes loco depellunt: fugientes usque ad flumen, ubi Vercingetorix cum pedestribus copiis consederat, persequuntur conpluresque interficiunt. Qua re animadversa reliqui ne circumvenirentur veriti, se fugae mandant. Omnibus locis fit caedes. Tres nobilissimi Haedui capti ad Caesarem perducuntur: Cotus, praefectus equitum, qui controversiam cum Convictolitavi proximis comitiis habuerat, et Cavarillus, qui post defectionem Litavicci pedestribus copiis praefuerat, et Eporedorix, quo duce ante adventum Caesaris Haedui cum Sequanis bello contenderant. LXVIII. Fugato omni equitatu Vercingetorix copias, ut pro castris conlocaverat, reduxit protinusque Alesiam, quod est oppidum Mandubiorum, iter facere coepit celeriterque impedimenta ex castris educi et se subsequi iussit. Caesar impedimentis in proximum collem deductis, duabus legionibus praesidio relictis, secutus quantum diei tempus est passum, circiter tribus milibus hostium ex novissimo agmine interfectis altero die ad Alesiam castra fecit. Perspecto urbis situ perterritisque hostibus, quod equitatu, qua maxime parte exercitus confidebant,

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LXVII. La proposta fu approvata e tutti giurarono. Il giorno dopo, divisa la cavalleria in tre parti, due formazioni attaccarono i due fianchi dei Romani, la terza assalì la testa della colonna al fine di ostacolare la marcia. Cesare, appena resosi conto della situazione, divise anch’egli la sua cavalleria in tre gruppi, cui ordinò di affrontare separatamente i nemici. Si combatté contemporaneamente da ogni parte. La colonna si fermò, i bagagli furono messi al centro di ogni legione. Se in qualche punto i cavalieri apparivano in difficoltà o in pericolo, Cesare li faceva sostenere dai legionari pronti ad accorrere, ritardando così l’inseguimento dei nemici e rincuorando i nostri, con la speranza di aiuto. Finalmente i Germani sul fianco destro occuparono la sommità di un’altura, respingendo da quel luogo i nemici: li inseguirono fino al fiume dove era Vercingetorige con la fanteria, e ne uccisero molti. Appena videro ciò, anche gli altri cavalieri galli, per il timore di essere circondati, si volsero in fuga. Vi fu dovunque una grande strage. Tre nobili edui furono condotti prigionieri a Cesare; Coto, comandante della cavalleria, che aveva sostenuto nei recenti comizi la lite con Convictolitave, Cavarillo che era stato capo della fanteria dopo la defezione di Litavicco, ed Eporedorige, capo della guerra degli Edui contro i Sèquani, prima dell’arrivo di Cesare. LXVIII. Vista in fuga la sua cavalleria, Vercingetorige ritirò le truppe che aveva posto davanti ai campi e si diresse ad Alesia, città dei Mandubii, ordinando che bagagli e salmerie lo seguissero al più presto. Cesare portò i suoi bagagli su un colle vicino, vi lasciò a guardia due legioni, e inseguì il nemico per tutto il giorno, uccidendo circa tremila uomini della retroguardia; il giorno dopo pose il campo presso Alesia. Esaminata la posizione della città e tenuto presente che i nemici erano atterriti per la sconfitta della cavalleria, arma sulla quale avevano ri-

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erant pulsi, adhortatus ad laborem milites circumvallare instituit. LXIX. Ipsum erat oppidum Alesia in colle summo admodum edito loco, ut nisi obsidione expugnari non posse videretur. Cuius collis radices duo duabus ex partibus flumina subluebant. Ante id oppidum planities circiter milia passuum III in longitudinem patebat; reliquis ex omnibus partibus colles mediocri interiecto spatio pari altitudinis fastigio oppidum cingebant. Sub muro quae pars collis ad orientem solem spectabat, hunc omnem locum copiae Gallorum conpleverant fossamque et maceriam in altitudinem VI pedum praeduxerant. Eius munitionis quae ab Romanis instituebatur circuitus X milia passuum tenebat. Castra oportunis locis erant posita ibique castella XXIII facta; quibus in castellis interdiu stationes ponebantur, ne qua subito eruptio fieret: haec eadem noctu excubitoribus ac firmis praesidiis tenebantur. LXX. Opere instituto fit equestre proelium in ea planitie quam intermissam collibus tria milia passuum in longitudinem patere supra demonstravimus summa vi ab utrisque contenditur. Laborantibus nostris Caesar Germanos submittit legionesque pro castris constituit, ne qua subito inruptio ab hostium peditatu fiat. Praesidio legionum addito nostris animus augetur: hostes in fugam coniecti se ipsi multitudine inpediunt atque angustioribus portis relictis coartantur. Germani acrius usque ad munitiones sequuntur. Fit magna caedes: non nulli relictis equis fossam transire et maceriam transcendere conantur. Paulum legiones Caesar quas pro vallo constituerat promoveri iubet. Non minus qui intra mu-

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posto tutte le loro speranze, esortò i soldati al lavoro e iniziò la costruzione di un vallo intorno alla città. LXIX La città di Alesia si trovava alla sommità di un colle molto elevato ed era chiaro che non si poteva prenderla se non per assedio; le radici di questo colle erano bagnate da due parti da due fiumi. Davanti alla città si estendeva una pianura lunga circa tre miglia, dagli altri lati la città era circondata da colli di uguale altezza, posti a non molta distanza. Lo spazio sotto le mura, nella parte orientale, era tutto occupato dalle truppe dei Galli, che si erano fortificate con un fosso e un terrapieno alto sei piedi. Il perimetro del vallo iniziato dai Romani doveva essere di circa undici miglia. L’accampamento era posto in luogo adatto, e vi erano stati costruiti ventitré forti nei quali di giorno stazionavano le sentinelle, per prevenire sorprese di sortite improvvise, e di notte picchetti di guardia e saldi presidi. LXX. Appena finite le opere di difesa, avvenne uno scontro di cavalleria nella pianura che, come abbiamo già detto, si estendeva tra i colli per una lunghezza di tre miglia. Si combatté con grande accanimento da entrambe le parti. I nostri si trovarono in difficoltà; Cesare mandò in aiuto i Germani e fece schierare le legioni davanti al campo, per non essere preso alla sprovvista da un’eventuale improvvisa irruzione della fanteria nemica. Sentendosi protetti dalle legioni, i nostri cavalieri ripresero animo e i nemici furono messi in fuga: per il loro gran numero si trovarono in grave impaccio, non riuscendo a defluire ordinatamente per le porte troppo strette. I Germani li inseguirono con foga fino alle loro difese. Grande fu la strage; parecchi abbandonarono i cavalli e cercarono di superare il fossato e di scalare il muro. Cesare allora fece avanzare per un po’ le legioni che stavano schierate davanti al vallo. I Galli che erano

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nitiones erant perturbantur: Galli veniri ad se confestim existimantes ad arma conclamant; non nulli perterriti in oppidum inrumpunt. Vercingetorix iubet portas claudi, ne castra nudentur. Multis interfectis, conpluribus equis captis Germani sese recipiunt. LXXI. Vercingetorix, prius quam munitiones ab Romanis perficiantur, consilium capit omnem ab se equitatum noctu dimittere. Discedentibus mandat ut suam quisque eorum civitatem adeat omnesque qui per aetatem arma ferre possint ad bellum cogant. Sua in illos merita proponit obtestaturque ut suae salutis rationem habeant neu se optime de communi libertate meritum hostibus in cruciatum dedant. Quod si indiligentiores fuerint, milia hominum delecta LXXX una secum interitura demonstrat. Ratione inita exigue dierum se XXX habere frumentum, sed paulo etiam longius tolerari posse parcendo. His datis mandatis qua opus erat intermissum secunda vigilia silentio equitatum dimittit. Frumentum omne ad se referri iubet; capitis poenam iis qui non paruerint constituit; pecus, cuius magna erat copia a Mandubiis conpulsa, viritim distribuit; frumentum parce et paulatim metiri instituit; copias omnes quas pro oppido collocaverat in oppidum recepit. His rationibus auxilia Galliae exspectare et bellum administrare parat. LXXII. Quibus rebus cognitis ex perfugis et captivis Caesar haec genera munitionis instituit. Fossam pedum viginti derectis lateribus duxit, ut eius solum tantundem pateret quantum summae fossae labra distarent; reliquas omnes munitiones ab ea fossa pedibus quadringen-

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dentro la linea di difesa si turbarono e credendo ad un imminente attacco gridarono all’armi; parecchi, atterriti, si rifugiarono nella città. Vercingetorige fece chiudere le porte, perché l’accampamento non si vuotasse. Ad azione finita, i cavalieri germani tornarono al campo dopo aver ucciso molti uomini e catturati molti cavalli. LXXI. Vercingetorige, prima che i Romani terminassero le fortificazioni, decise di far uscire di notte tutti i cavalieri. Quando furono pronti li incaricò di recarsi alle proprie città a raccogliere per la guerra tutti quelli che fossero in grado di portare le armi; ricordò i meriti che egli aveva, pregandoli di pensare a salvarlo e di non abbandonare alle mani dei nemici chi aveva fatto tanto per la libertà di tutti. Soggiunse, ancora, che se essi non avessero messo in opera tutta la loro attività, ottantamila uomini scelti sarebbero periti insieme a lui. Secondo i suoi calcoli, aveva frumento a stento per trenta giorni; avrebbe forse potuto resistere, con uno stretto razionamento, anche qualche giorno di più. Dopo aver dato loro questi incarichi, verso le nove di sera li fece uscire, in silenzio, dalla zona non ancora raggiunta dai nostri lavori. Ordinò, poi, la consegna di tutto il frumento, stabilendo la pena di morte per i contravventori. Distribuì ad ognuno il bestiame che i Mandubii avevano portato in grande quantità, e divise il frumento in razioni scarse e rade. Fece ritirare entro le mura tutte le truppe che aveva posto davanti alla città. Così aspettava gli aiuti dei Galli per continuare la guerra. LXXII. Cesare venne a sapere tutto ciò da prigionieri e disertori; intanto diede inizio alle seguenti opere di fortificazione: fece scavare un fossato profondo venti piedi, con le pareti verticali, in modo che il fondo di esso fosse largo quanto erano distanti fra loro i bordi superiori. Costruì tutte le altre opere ad una distanza di quattro-

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tos reduxit, id hoc consilio, quoniam tantum esset necessario spatium conplexus, nec facile totum opus corona militum cingeretur, ne de inproviso aut noctu ad munitiones hostium multitudo advolaret, aut interdiu tela in nostros operi destinatos conicere posset. Hoc intermisso spatio duas fossas quindecim pedes latas eadem altitudine perduxit; quarum interiorem campestribus ac demissis locis aqua ex flumine derivata conplevit. Post eas aggerem ac vallum XII pedum exstruxit. Huic loricam pinnasque adiecit, grandibus cervis eminentibus ad commissuras pluteorum atque aggeris, qui ascensum hostium tardarent, et turres toto opere circumdedit, quae pedes LXXX inter se distarent. LXXIII. Erat eodem tempore et materiari et frumentari et tantas munitiones fieri necesse deminutis nostris copiis, quae longius ab castris progrediebantur; ac non numquam opera nostra Galli temptare atque eruptionem ex oppido pluribus portis summa vi facere conabantur. Quare ad haec rursus opera addendum Caesar putavit, quo minore numero militum munitiones defendi possent. Itaque truncis arborum [aut] admodum firmis ramis abscisis atque horum delibratis ac praeacutis cacuminibus perpetuae fossae quinos pedes altae ducebantur. Huc illi stipites demissi et ab infimo revincti, ne revelli possent, ab ramis eminebant. Quini erant ordines, coniuncti inter se atque inplicati; quo qui intraverant se ipsi acutissimis vallis induebant. Hos cippos appellabant. Ante hos obliquis ordinibus in quincuncem

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cento piedi dal fossato, affinché, non essendo possibile guarnire di difensori tutta la linea di difesa, dato il suo grande sviluppo, non potessero i nemici di notte arrivare improvvisamente fino alle difese e di giorno lanciare frecce contro i soldati occupati nei lavori. Dopo questo intervallo, dunque, fece scavare due fossi larghi quindici piedi e profondi altrettanto: il più interno dei due, che correva tra i campi, più in basso, fu riempito con acqua deviata da un fiume. Dietro i fossi costruì un terrapieno e una palizzata alta dodici piedi, a questa aggiunse un parapetto di legno merlato, e fece disporre pali aguzzi e forcuti, incastrati tra il parapetto di protezione e il terrapieno, e rivolti in direzione del nemico, che avevano lo scopo di rendere più difficile la scalata; infine lungo tutta la linea di difesa costruì torri, distanti tra loro ottanta piedi. LXXIII. Era necessario contemporaneamente rifornirsi di materiali da costruzione e di viveri e lavorare a difese così impegnative, mentre le nostre forze erano ridotte per l’assenza di quelle che, per le necessarie ricerche, dovevano allontanarsi parecchio dall’accampamento; inoltre spesso i Galli assalivano le nostre opere, facendo violente irruzioni da più porte della città. Perciò Cesare pensò di dover fare delle aggiunte alle difese, perché la linea potesse essere tenuta da un minor numero di soldati. Così fece tagliare dei tronchi di albero aventi i rami molto forti e ne fece scortecciare e appuntire le cime, mentre venivano scavate fosse continue della profondità di cinque piedi. In queste fosse fece conficcare i tronchi e li fece legare in fondo fra di loro, in modo che non potessero essere divelti, lasciandone fuori i rami. Furono sistemate in tal modo quindici file di tronchi tra loro collegati e coi rami intrecciati e chi penetrava in quel punto si impalava sulle aguzze palizzate, che venivano chiamate cippi. Davanti a queste furono scavate

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dispositis scrobes in altitudinem trium pedum fodiebantur paulatim angustiore ad infimum fastigio. Huc teretes stipites feminis crassitudine ab summo praeacuti et praeusti demittebantur ita ut non amplius digitis IIII ex terra eminerent; simul confirmandi et stabiliendi causa singuli ab infimo solo pedes terra exculcabantur, reliqua pars scrobis ad occultandas insidias viminibus ac virgultis integebatur. Huius generis octoni ordines ducti ternos inter se pedes distabant. Id ex similitudine floris lilium appellabant. Ante haec taleae pedem longae ferreis hamis infixis totae in terram infodiebantur mediocribusque intermissis spatiis omnibus locis disserebantur, quos stimulos nominabant. LXXIV. His rebus perfectis regiones secutus quam potuit aequissimas pro loci natura XIIII milia passuum conplexus pares eiusdem generis munitiones, diversas ab his, contra exteriorem hostem perfecit, ut ne magna quidem multitudine, si ita accidat, eius discessu munitionum praesidia circumfundi possent, aut cum periculo ex castris egredi cogatur; dierum XXX pabulum frumentumque habere omnes convectum iubet. LXXV. Dum haec ad Alesiam geruntur, Galli concilio principum indicto non omnes qui arma ferre possent, ut censuit Vercingetorix, convocandos statuunt, sed certum numerum cuique civitati imperandum, ne tanta multitudine confusa nec moderari nec discernere suos nec frumenti rationem habere possent. Imperant Haeduis at-

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delle buche profonde tre piedi, un po’ più strette al fondo, disposte in linee oblique, come i punti nel cinque dei dadi. In queste buche vennero infissi dei tronchi lisci, grossi quanto un femore, molto aguzzi e induriti col fuoco alla cima; non emergevano più di quattro dita da terra, mentre per tenerli saldamente piantati ognuno di essi era rincalzato con terra dell’altezza di un piede ben pigiata; per nascondere il pericoloso paletto, le buche venivano coperte di giunchi e cespi. Queste difese erano allineate su otto file alla distanza di tre piedi ciascuna; e poiché presentavano una somiglianza coi fiori, erano dette gigli. Avanti a questi erano, completamente infissi a terra, dei pioli della lunghezza di un piede, che portavano, nella parte superiore, uncini di ferro ed erano disseminati dovunque a poca distanza tra loro: questi artifizi erano detti stimoli. LXXIV. Finita questa linea di difesa, Cesare ne fece costruire un’altra della stessa specie nella parte più piana, seguendo, come poté, le accidentalità del terreno per quattordici miglia, con orientamento opposto alla prima, rivolta, cioè, verso un nemico che venisse dall’esterno, per evitare che forze anche molto superiori potessero prendere alle spalle la difesa. Inoltre per impedire che i posti di difesa fossero costretti ad uscire con gran rischio dal campo, dispose che ognuno di essi fosse provvisto di foraggio e grano per trenta giorni. LXXV. Mentre ciò avveniva davanti ad Alesia, i Galli nell’assemblea dei principi decisero di non chiamare alle armi tutti gli uomini validi, come aveva detto Vercingetorige, ma di chiamarne un determinato numero per ogni popolo, per evitare che una così grande massa di truppe impedisse l’organizzazione dei comandi e rendesse difficile fare un’organica divisione in gruppi, mantenere la disciplina, provvedere ai rifornimenti. Ordina-

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que eorum clientibus, Segusiavis, Ambivaretis, Aulercis Brannovicibus, Blannoviis, milia XXXV; parem numerum Arvernis adiunctis Eleutetis, Cadurcis, Gabalis, Vellaviis, qui sub imperio Arvernorum esse consuerunt; Sequanis, Senonibus, Biturigibus, Santonis, Rutenis, Carnutibus duodena milia; Bellovacis X; [totidem Lemovicibus;] octona Pictonibus et Turonis et Parisiis et Helvetiis; [Senonibus,] Ambianis, Mediomatricis, Petrocoriis, Nerviis, Morinis, Nitiobrogibus quina milia; Aulercis Cenomanis totidem; Atrebatibus IIII; Veliocassis, Lexoviis et Aulercis Eburovicibus terna; Rauracis et Bois singula; XX universis civitatibus quae Oceanum attingunt quaeque eorum consuetudine Aremoricae appellantur, quo sunt in numero Coriosolites, Redones, Ambibarii, Caletes, Osismi, Veneti, Lemovices, Unelli. Ex his Bellovaci suum numerum non contulerunt, quod se suo nomine atque arbitrio cum Romanis bellum gesturos dicebant neque cuiusquam imperio optemperaturos; rogati tamen a Commio pro eius hospitio duo milia una miserunt. LXXVI. Huius opera Commii, ut antea demonstravimus, fideli atque utili superioribus annis erat usus in Britannia Caesar; quibus ille pro meritis civitatem eius immunem esse iusserat, iura legesque reddiderat atque ipsi Morinos attribuerat. Tamen si universae Galliae consensio fuit libertatis vindicandae et pristinae belli laudis recuperandae, ut neque beneficiis neque amicitiae memoria moverentur, omnesque et animo et opibus in id bellum incumberent. Coactis equitum milibus VIII et peditum circiter CCXL haec in Haeduorum finibus recensebantur, numerusque inibatur, praefecti constituebantur. Commio Atrebati, Viridomaro et Eporedorigi Haeduis,

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rono agli Edui e ai loro clienti, i Segusiavi, gli Ambivareti, gli Aulerci Brannovici, i Blannovi, di fornire trentacinquemila uomini; lo stesso numero agli Arverni e agli Eleuteti, ai Cadurci, ai Gabali, ai Vellavi, clienti degli Arverni; ai Sèquani, ai Senoni, ai Biturigi, ai Sàntoni, ai Ruteni, ai Carnuti, dodicimila per ciascuno, ai Bellovaci diecimila; ottomila ai Pictoni, ai Turoni, ai Parisi, e agli Elvezi; cinquemila agli Ambiani, ai Mediomatrici, ai Petrocori, ai Nervi, ai Morini, ai Nitiobrogi; altrettanti agli Aulerci Cenomani; quattromila agli Atrebati, tremila ai Veliocassi, ai Lexovi e agli Aulerci Eburovici, duemila ai Ràuraci e ai Boi; ventimila a tutte le genti che toccano l’Oceano e che sono chiamate per tradizione Aremorici, tra le quali sono i Coriosoliti, i Redoni, gli Ambibari, i Caleti, gli Osismi, i Lemovici, gli Unelli. I Bellovaci non mandarono il contingente ordinato, perché dichiararono che volevano far guerra ai Romani di propria iniziativa, a modo loro, e non volevano ubbidire a nessuno; poi pregati da Commio in nome della sua ospitalità, mandarono duemila soldati. LXXVI. Di questo Commio, come abbiamo detto altrove, Cesare si era servito, trovandolo fedele ed utile, durante la spedizione di anni prima in Britannia: per compensare i suoi meriti aveva esentato la sua gente dai tributi, aveva concesso che si governasse secondo le sue leggi e gli aveva dato come tributari i Morini. Ma allora così generale fu l’adesione della Gallia a quella lotta per l’indipendenza e per recuperare l’antica gloria militare, che nessuno ricordò i benefici ricevuti e l’amicizia; ma ognuno si dedicò alla guerra con tutto l’animo e con tutti i suoi mezzi. Furono messi insieme ottomila cavalieri e circa duecentoquarantamila soldati; nel territorio degli Edui vennero contati ed enumerati e si nominarono i comandanti. Il comando supremo fu dato a Commio, atrebate; a Viridomaro ed Eporedorige, edui; a Vercassi-

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Vercassivellauno Arverno, consobrino Vercingetorigis, summa imperii traditur. His delecti ex civitatibus attribuuntur, quorum consilio bellum administraretur. Omnes alacres et fiduciae pleni ad Alesiam proficiscuntur, neque erat omnium quisquam, qui adspectum modo tantae multitudinis sustineri posse arbitraretur, praesertim ancipiti proelio, cum ex oppido eruptione pugnaretur, foris tantae copiae equitatus peditatusque cernerentur. LXXVII. At ii qui Alesiae obsidebantur, praeterita die qua auxilia suorum exspectaverant, consumpto omni frumento, inscii quid in Haeduis gereretur, concilio convocato de exitu suarum fortunarum consultabant. Ac variis dictis sententiis, quarum pars deditionem, pars, dum vires suppeterent, eruptionem censebat, non praetereunda oratio Critognati videtur propter eius singularem et nefariam crudelitatem. Hic summo in Arvernis ortus loco et magnae habitus auctoritatis «Nihil» inquit «de eorum sententia dicturus sum, qui turpissimam servitutem deditionis nomine appellant, neque hos habendos civium loco neque ad concilium adhibendos censeo. Cum his mihi res sit, qui eruptionem probant; quorum in consilio omnium vestrum consensu pristinae residere virtutis memoria videtur. Animi est ista mollitia, non virtus, paulisper inopiam ferre non posse. Qui se ultro morti offerant facilius reperiantur, quam qui dolorem patienter ferant. Atque ego hanc sententiam probarem (tantum apud me dignitas potest), si nullam praeterquam vitae nostrae iacturam fieri viderem: sed in consilio capiendo omnem Galliam respiciamus, quam ad nostrum auxilium concitavimus. Quid hominum milibus LXXX uno loco interfectis propinquis consanguineisque nostris animi fore existumatis, si paene in ipsis cadaveribus proelio decertare cogentur? Nolite hos vestro auxi-

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vellauno, arverno, cugino di Vercingetorige. Ad essi furono affiancati dei consiglieri militari, scelti dalle varie popolazioni. Partirono per Alesia tutti pieni di ardimento e di fiducia; nessuno di loro pensava che i nostri potessero sostenere anche solo la vista di tanta moltitudine, specialmente, poi, tenendo conto che era indubbia una doppia battaglia perché certo ci sarebbe stata una sortita dalla città, quando fosse apparsa all’esterno una così imponente massa di fanti e di cavalieri. LXXVII. Gli assediati ad Alesia, trascorso il giorno in cui aspettavano l’arrivo dei soccorsi e consumato tutto il grano, non sapendo quel che avveniva in Gallia, si radunarono a consiglio per esaminare la situazione. Furono fatte varie proposte: alcuni consigliavano di arrendersi, altri di tentare una sortita mentre le forze bastavano; ma ci sembra qui opportuno riportare, per la sua singolare e nefanda crudeltà, il discorso di Critognato, arverno di nobile nascita e grande autorità. «Nulla» disse costui «io voglio dire circa la proposta di coloro che chiamano col nome di resa una turpissima servitù, che io ritengo non meritevoli di essere detti cittadini, né di essere interpellati nel consiglio. Apro la discussione con quelli che approvano l’idea della sortita, proposta in cui voi tutti siete d’accordo nel vedervi un richiamo alla nostra antica virtù. Ma è debolezza d’animo, non valore, questo non saper sopportare per un po’ le privazioni. È più facile trovare chi si offre spontaneamente alla morte che uno che sappia sopportare con pazienza la sofferenza. Ed io approverei questa proposta – tanto può in me il senso dell’onore – qualora vedessi che si metterebbe in gioco solo la nostra vita; ma nel decidere dobbiamo pensare a tutta la Gallia, che abbiamo chiamata ad aiutarci. Uccisi ottantamila uomini in un sol punto, quale spirito credete che potrebbero avere i parenti e i familiari nostri, costretti a combattere quasi sui cadaveri? Non private del

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lio exspoliare, qui vestrae salutis causa suum periculum neglexerunt, nec stultitia ac temeritate vestra aut animi inbecillitate omnem Galliam prosternere et perpetuae servituti subdicere. An, quod ad diem non venerunt, de eorum fide constantiaque dubitatis? Quid ergo? Romanos in illis ulterioribus munitionibus animine causa cotidie exerceri putatis? Si illorum nuntiis confirmari non potestis omni aditu praesaepto, his utimini testibus adpropinquare eorum adventum; cuius rei timore exterriti diem noctemque in opere versantur. Quid ergo mei consilii est? Facere quod nostri maiores nequaquam pari bello Cimbrorum Teutonumque fecerunt: qui in oppida conpulsi ac simili inopia subacti eorum corporibus qui aetate ad bellum inutiles videbantur vitam toleraverunt neque se hostibus tradiderunt. Cuius rei si exemplum non haberemus, tamen libertatis causa institui et posteris prodi pulcherrimum iudicarem. Nam quid illi simile bello fuit? Ddepopulata Gallia Cimbri magnaque inlata calamitate finibus quidem nostris aliquando excesserunt atque alias terras petierunt; iura, leges, agros, libertatem nobis reliquerunt. Romani vero quid petunt aliud aut quid volunt, nisi invidia adducti quos fama nobiles potentesque bello cognoverunt, horum in agris civitatibusque considere atque his aeternam iniungere servitutem? Neque enim ulla alia condicione bella gesserunt. Quod si ea quae in longinquis nationibus geruntur ignoratis, respicite finitimam Galliam, quae in provinciam redacta, iure et legibus commutatis, securibus subiecta perpetua premitur servitute». LXXVIII. Sententiis dictis constituunt ut ii qui valetudine aut aetate inutiles sint bello oppido excedant, atque

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vostro aiuto quelli che, per la vostra salvezza, non hanno pensato al pericolo, non vogliate abbattere e piegare a una eterna servitù la Gallia per stoltezza, per temerarietà o per vostra debolezza. Dubitate forse della parola e della fedeltà loro perché non sono arrivati proprio nel giorno stabilito? Voi credete che i Romani lavorino ogni giorno a tutte quelle nuove difese per divertimento? Se non potete avere notizie dei compagni perché tutte le vie sono chiuse, i Romani vi attestano il loro prossimo arrivo: proprio per timore di questo essi si affaticano lavorando giorno e notte. Quale è dunque la mia proposta? Fare quello che i nostri antenati fecero nella guerra contro i Cimbri e i Teutoni, che pure non era pari a questa: essi, chiusi nelle città di fronte a una carestia simile alla nostra, tirarono in lungo la loro vita nutrendosi delle carni di quelli che non sembravano atti alle armi, ma non si arresero ai nemici. Se non avessimo già un esempio di un simile espediente, io giudicherei cosa bellissima usarlo per primi e tramandarlo ai posteri, giacché si tratta ora della nostra libertà. Infatti, che cosa c’è di simile tra quella guerra e questa? Dopo aver devastata la Gallia, seminando sventure dovunque, i Cimbri uscirono, infine, dalla nostra terra per dirigersi altrove e ci lasciarono le nostre leggi, i nostri campi, la libertà. I Romani, invece, cosa cercano e cosa vogliono? Spinti dall’invidia, per averci conosciuti nobili per fama e potenti in guerra, vogliono impadronirsi dei nostri campi e delle nostre città e tenerci in perpetua servitù. Nessuna guerra essi hanno mai fatto per altro scopo. E se non sapete quel che accade nelle regioni più lontane, guardate la Gallia a noi vicina, ridotta a Provincia romana, che ha avuto leggi e istituzioni nuove e che soffre in continua servitù, piegata alle scuri littorie.» LXXVIII. Al termine della discussione, i Galli decisero di far uscire dalla città i malati e i vecchi, inutili alla

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omnia prius experiantur quam ad Critognati sententiam descendant; illo tamen potius utendum consilio, si res cogat atque auxilia morentur, quam aut deditionis aut pacis subeundam condicionem. Mandubii, qui eos oppido receperant, cum liberis atque uxoribus exire coguntur. Hi, cum ad munitiones Romanorum accessissent, flentes omnibus precibus orabant ut se in servitutem receptos cibo iuvarent. At Caesar dispositis in vallo custodiis recipi prohibebat. LXXIX. Interea Commius reliquique duces quibus summa imperii permissa erat cum omnibus copiis ad Alesiam perveniunt et colle exteriore occupato non longius mille passibus ab nostris munitionibus considunt. Postero die equitatu ex castris educto omnem eam planitiem quam in longitudinem milia passuum III patere demonstravimus complent pedestresque copias paulum ab eo loco abditas in locis superioribus constituunt. Erat ex oppido Alesia despectus in campum. Concurrunt his auxiliis visis; fit gratulatio inter eos atque omnium animi ad laetitiam excitantur. Itaque productis copiis ante oppidum considunt et proximam fossam cratibus integunt atque aggere explent seque ad eruptionem atque omnes casus comparant. LXXX. Caesar omni exercitu ad utramque partem munitionum disposito, ut, si usus veniat, suum quisque locum teneat et noverit, equitatum ex castris educi et proelium committi iubet. Erat ex omnibus castris, quae summum undique iugum tenebant, despectus, atque omnes milites intentis animis proventum pugnae expectabant. Galli inter equites raros sagittarios expeditosque levis armaturae interiecerant, qui suis cedentibus auxilio succurrerent et nostrorum equitum impetus sustine-

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guerra, e di tentare ogni mezzo prima di cedere alla proposta di Critognato: ma a questa avrebbero aderito, se vi fossero stati costretti dalla necessità, piuttosto di arrendersi o piegarsi a patti di pace. Anche i Mandubii, che li avevano accolti nella loro città, furono costretti ad uscire con le donne e i bambini; essi, accostatisi alla linea dei Romani, li supplicarono piangendo di accoglierli in servitù e dar loro del cibo. Ma Cesare dispose guardie sul vallo ordinando di non lasciarli entrare. LXXIX. Intanto Commio e gli altri comandanti con l’armata di soccorso arrivarono ad Alesia; occuparono un colle più esterno e si fermarono a non più di mille passi dalla nostra linea fortificata. Il giorno dopo fecero uscire dall’accampamento la cavalleria ed occuparono tutta la pianura, che, come abbiamo già detto, si estendeva per tre miglia al di là delle nostre linee; collocarono le forze di fanteria a poca distanza, stabilendole sulle alture. Dalla città di Alesia si poteva vedere il campo: alla vista degli aiuti, tutti accorsero: si rallegravano tra loro, gli animi di tutti erano eccitati ed allegri. Gli assediati, fatte uscire le loro truppe, le schierarono davanti alla città, riempirono di fascine e terra il fossato più vicino, preparandosi all’attacco e a tutte le evenienze. LXXX. Cesare fece occupare dalle legioni le linee fortificate, in modo che, venuto il momento, ognuno conoscesse e fosse pronto a tenere la sua posizione, poi fece uscire dal campo la cavalleria con l’ordine di attaccare il nemico. Da tutto l’accampamento, che occupava la sommità delle alture, si poteva vedere il campo di battaglia, e tutti i soldati aspettavano ansiosamente l’esito del combattimento. I Galli avevano unito alla cavalleria arcieri e soldati armati alla leggera, che avevano il compito di sostenere i cavalieri in caso di necessità e di arrestare la carica della cavalleria romana. Parecchi dei no-

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rent. Ab his complures de inproviso vulnerati proelio excedebant. Cum suos pugna superiores esse Galli confiderent et nostros multitudine premi viderent, ex omnibus partibus et ii qui munitionibus continebantur et ii qui ad auxilium convenerant clamore et ululatu suorum animos confirmabant. Quod in conspectu omnium res gerebatur neque recte aut turpiter factum celari poterat, utrosque et laudis cupiditas et timor ignominiae ad virtutem excitabat. Cum a meridie prope ad solis occasum dubia victoria pugnaretur, Germani una in parte confertis turmis in hostes impetum fecerunt eosque propulerunt; quibus in fugam coniectis sagittarii circumventi interfectique sunt. Item ex reliquis partibus nostri cedentes usque ad castra insecuti sui colligendi facultatem non dederunt. At ii qui ab Alesia processerant, maesti, prope victoria desperata, se in oppidum receperunt. LXXXI. Uno die intermisso Galli atque hoc spatio magno cratium, scalarum, harpagonum numero effecto media nocte silentio ex castris egressi ad campestres munitiones accedunt. Subito clamore sublato, qua significatione qui in oppido obsidebantur de suo adventu cognoscere possent, crates proicere, fundis, sagittis, lapidibus nostros de vallo proturbare reliquaque quae ad oppugnationem pertinent parant administrare. Eodem tempore clamore exaudito dat tuba signum suis Vercingetorix atque ex oppido educit. Nostri, ut superioribus diebus suus cuique erat locus attributus, ad munitiones accedunt; fundis librilibus sudibusque, quas in opere disposuerant, Gallos [glandibus] proterrent. Prospectu tenebris adempto multa utrimque vulnera accipiuntur.

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stri, feriti all’improvviso a questo modo, dovettero ritirarsi dalla battaglia. Persuasi della loro superiorità e visto che i Romani erano in difficoltà, perché inferiori di numero, tutti i Galli, sia gli assediati di Alesia come quelli che erano venuti in aiuto, spronavano con grida e urla i compagni. Il combattimento si svolgeva sotto gli occhi di tutti e nessuna azione valorosa o vergognosa poteva essere nascosta: così il desiderio di guadagnarsi lodi e il timore di riportare ignominia incitavano al valore i cavalieri di entrambi gli eserciti. Si combatté da mezzogiorno al tramonto, sempre con risultato incerto; infine i Germani raccolsero in un solo punto gli squadroni, fecero impeto sui nemici e li dispersero; i cavalieri galli fuggirono; gli arcieri furono circondati e uccisi. Anche dalle altre parti del campo di battaglia la cavalleria romana inseguì il nemico in fuga fino al suo accampamento senza dargli il tempo di riordinarsi. I Galli che erano usciti da Alesia, addolorati come se ormai disperassero della vittoria, rientrarono nella città. LXXXI. Dopo l’intervallo di un giorno, che impiegarono per preparare numerosi graticci, scale e uncini, i Galli uscirono nel silenzio della notte dal campo e si avvicinarono alla linea di difesa verso il piano. Elevate grandi grida all’improvviso, per dare ai difensori di Alesia il segnale del loro arrivo, cominciarono a gettare i graticci, a tentare di respingere i nostri dal vallo col tiro delle fionde, saette, pietre e a mettere in opera tutto ciò che serve a un assalto. Nello stesso tempo, udito il grido dei compagni, Vercingetorige dette ai suoi il segnale con la tromba e li condusse fuori dalla città. I nostri accorsero alle difese, ciascuno al posto che giorni prima gli era stato individualmente assegnato; respinsero i Galli con le fionde da pietre di una libbra, con pali che avevano disposto sulla linea di difesa, e con grossi proiettili. La notte non permetteva visibilità alcuna; molte furono le per-

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Conplura tormentis tela coniciuntur. At M. Antonius et C. Trebonius legati, quibus hae partes ad defendendum obvenerant, qua ex parte nostros premi intellexerant, his auxilio ex ulterioribus castellis deductos submittebant. LXXXII. Dum longius ab munitione aberant Galli, plus multitudine telorum proficiebant; postea quam propius successerunt, aut se stimulis inopinantes induebant aut in scrobes delati transfodiebantur aut ex vallo ac turribus traiecti pilis muralibus interibant. Multis undique vulneribus acceptis nulla munitione perrupta, cum lux adpeteret, veriti ne ab latere aperto ex superioribus castris eruptione circumvenirentur, se ad suos receperunt. At interiores, dum ea quae a Vercingetorige ad eruptionem praeparata erant proferunt, priores fossam explent, diutius in his rebus administrandis morati prius suos discessisse cognoverunt quam munitionibus adpropinquarent. Ita re infecta in oppidum reverterunt. LXXXIII. Bis magno cum detrimento repulsi Galli quid agant consulunt: locorum peritos adhibent; ex his superiorum castrorum situs munitionesque cognoscunt. Erat a septentrionibus collis quem propter magnitudinem circuitus opere circumplecti non potuerant nostri: necessario paene iniquo loco et leviter declivi castra fecerant. Haec C. Antistius Reginus et C. Caninius Rebilus legati cum duabus legionibus obtinebant. Cognitis per

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dite da entrambe le parti. Molti dardi furono lanciati anche con le macchine. E i legati Marco Antonio e Gaio Trebonio, a cui era toccato questo settore di difesa, dove capivano che i nostri minacciavano di cedere, rinforzavano la linea, con uomini tratti dai fortini più lontani. LXXXII. Finché furono lontani dalla linea, i Galli ebbero una certa superiorità, dovuta al lancio, da parte loro, di numerosissimi dardi, ma quando si accostarono o andarono ad incappare, presi alla sprovvista, nella zona degli stimoli, o caddero nelle buche e furono trafitti dai pali acuminati, o colpiti dai giavellotti murali, lanciati dal vallo e dalle torri, riportarono gravi perdite, senza riuscire ad intaccare in nessun punto la linea romana. All’avvicinarsi dell’alba, temendo di poter essere circondati, sulla loro destra, se le truppe del campo romano che dominava la pianura avessero fatto una irruzione, si ritirarono sulle loro posizioni di partenza. Intanto gli assediati di Alesia, che, secondo gli ordini di Vercingetorige, avevano fatto avanzare le macchine da guerra, riempiti i primi fossati, impiegarono molto tempo in questi preparativi e seppero che gli altri attaccanti si erano ritirati prima ancora di raggiungere le difese romane. Allora se ne ritornarono in città, senza aver nulla concluso. LXXXIII. Respinti due volte con grandi perdite, i Galli si consigliarono sul da farsi: interrogarono gente che conosceva bene quei luoghi e vennero informati sulle posizioni degli accampamenti alti e sulle fortificazioni. Vi era a settentrione un’altura che i nostri non avevano potuto includere nella linea di difesa perché eccessivamente estesa, anzi, essi erano stati costretti a porre il campo in un punto poco favorevole e in leggera pendenza: esso era occupato dai legati Gaio Antistio Regino e Gaio Caninio Rebilo con due legioni. I capi nemici, quando eb-

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exploratores regionibus duces hostium LX milia ex omni numero deligunt earum civitatum quae maximam virtutis opinionem habebant; quid quoque pacto agi placeat occulte inter se constituunt: adeundi tempus definiunt, cum meridie esse videatur. His copiis Vercassivellaunum Arvernum, unum ex quattuor ducibus, propinquum Vercingetorigis, praeficiunt. Ille ex castris prima vigilia egressus prope confecto sub lucem itinere post montem se occultavit militesque ex nocturno labore sese reficere iussit. Cum iam meridies adpropinquare videretur, ad ea castra quae supra demonstravimus contendit; eodemque tempore equitatus ad campestres munitiones accedere et reliquae copiae pro castris sese ostendere coeperunt. LXXXIV. Vercingetorix ex arce Alesiae suos conspicatus ex oppido egreditur; cratis, longurios, mulculos, falces reliquaque quae eruptionis causa paraverat profert. Pugnatur uno tempore omnibus locis atque omnia temptantur: quae minime visa pars firma est, huc concurritur. Romanorum manus tantis munitionibus distinetur nec facile pluribus locis occurrit. Multum ad terrendos nostros valet clamor qui post tergum pugnantibus extitit, quod suum periculum in aliena vident virtute constare: omnia enim plerumque quae absunt vehementius hominum mentes perturbant. LXXXV. Caesar idoneum locum nactus quid quaque in parte geratur cognoscit; laborantibus submittit. Utrisque ad animum occurrit unum esse illud tempus, quo maxime contendi conveniat: Galli, nisi perfregerint mu-

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bero saputo dagli esploratori come era conformato quel terreno, raccolsero sessantamila uomini, scegliendoli tra le genti ritenute più valorose, decisero in segreto il piano di azione e fissarono il momento dell’attacco per mezzogiorno. Misero a capo di queste truppe Vercassivellauno, arverno, uno dei quattro comandanti, parente di Vercingetorige. Egli, uscito dall’accampamento verso le nove di sera, portò a termine la sua marcia all’alba e si nascose dietro l’altura, facendo riposare i suoi soldati dalle fatiche sostenute durante la notte. Quando sembrò vicino il mezzogiorno si diresse contro l’accampamento di cui abbiamo parlato. In pari tempo la cavalleria cominciò ad avvicinarsi alla linea fortificata della pianura e le altre truppe si schierarono davanti al loro campo. LXXXIV. Vercingetorige, visti i suoi dalla rocca di Alesia, uscì dalla città portando graticci, pertiche, schermi di riparo, falci e tutti gli altri attrezzi che aveva preparato per l’attacco. Si combatté contemporaneamente in tutti i punti: i Galli attaccavano dovunque e dove sembrava che le nostre posizioni fossero meno salde, ivi accorrevano. I Romani dovevano difendere linee tanto estese che non era loro facile far fronte ai simultanei attacchi nemici. Più di tutto li impressionavano le grida che si elevavano alle spalle di ciascun gruppo combattente, perché ognuno capiva che la sua sicurezza dipendeva dal valore dei compagni che aveva alle spalle; infatti il pericolo che non è davanti agli occhi è quello che turba maggiormente gli uomini. LXXXV. Cesare, scelto un luogo adatto dal quale poteva vedere ciò che avveniva in entrambe le parti, mandava rinforzi nei punti che si trovavano in pericolo. I combattenti di tutti e due gli eserciti capivano che quello era il momento in cui bisognava fare lo sforzo supremo; i

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nitiones, de omni salute desperant; Romani, si rem obtinuerint, finem laborum omnium exspectant. Maxime ad superiores munitiones laboratur, quo Vercassivellaunum missum demonstravimus. Iniquum loci ad declivitatem fastigium magnum habet momentum. Alii tela coiciunt, alii testudine facta subeunt; defatigatis in vicem integri succedunt. Agger ab universis in munitionem coniectus et ascensum dat Gallis et ea quae in terra occultaverant Romani contegit; nec iam arma nostris nec vires suppetunt. LXXXVI. His rebus cognitis Caesar Labienum cum cohortibus sex subsidio laborantibus mittit: imperat, si sustinere non possit, deductis cohortibus eruptione pugnet: id nisi necessario ne faciat. Ipse adit reliquos, cohortatur ne labori succumbant; omnium superiorum dimicationum fructum in eo die atque hora docet consistere. Interiores desperatis campestribus locis propter magnitudinem munitionum loca praerupta ex ascensu temptant: huc ea quae paraverant conferunt. Multitudine telorum ex turribus propugnantes deturbant, aggere et cratibus fossas explent, falcibus vallum ac loricam rescindunt. LXXXVII. Mittit primum Brutum adulescentem cum cohortibus Caesar, post cum aliis C. Fabium legatum; postremo ipse, cum vehementius pugnaretur, integros

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Galli vedevano l’impossibilità di salvarsi se non avessero potuto rompere la linea di difesa; i Romani sentivano che sarebbe stata la fine di tutte le fatiche se avessero vinto. La situazione era più critica alle fortificazioni alte, dove abbiamo detto che l’attacco era diretto da Vercassivellauno. Grande importanza aveva il terreno per la pendenza in senso sfavorevole ai nostri. I Galli attaccavano lanciando dardi, avvicinandosi in formazioni coperte dagli scudi; continuamente forze fresche sostituivano quelle stanche; gran quantità di materiale veniva gettata sulle nostre opere di difesa, permettendo ai Galli di tentare la scalata e ricoprendo le difese che i Romani avevano nascoste sotto terra. Ormai i nostri non avevano più armi e le forze stavano per abbandonarli. LXXXVI. Accortosi di ciò, Cesare mandò in aiuto dei reparti in pericolo Labieno con sei coorti, con l’ordine di far uscire le coorti dal vallo per un contrattacco se non avesse potuto sostenere l’assalto nemico, ma di far ciò solo in caso di estrema necessità. Egli stesso, poi, scese tra gli altri soldati e li esortò a non lasciarsi vincere dalla fatica, dicendo che da quel giorno e da quell’ora dipendeva il frutto di tutte le battaglie precedenti. I Galli di Vercingetorige, che combattevano nella linea interna, perduta la speranza di poter sfondare il trinceramento romano fortificato in modo formidabile, tentarono di raggiungere e attaccare le posizioni più alte, e là portarono tutte le macchine di guerra che avevano preparato; paralizzarono i difensori delle torri lanciando una grande quantità di dardi; riempirono con graticci e materiali i fossati, aprirono brecce con le falci nella palizzata e nel parapetto. LXXXVII. Cesare mandò prima il giovane Bruto con alcune coorti, poi il legato Gaio Fabio con altre, infine, mentre si combatteva più accanitamente, andò egli stes-

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subsidio adducit. Restituto proelio ac repulsis hostibus eo quo Labienum miserat contendit; cohortes IV ex proximo castello deducit, equitum partem se sequi, partem circumire exteriores munitiones et ab tergo hostes adoriri iubet. Labienus, postquam neque aggeres neque fossae vim hostium sustinere poterant, coactis una de XL cohortibus quas ex proximis praesidiis deductas fors obtulit, Caesarem per nuntios facit certiorem, quid faciendum existimet. LXXXVIII. Accelerat Caesar, ut proelio intersit. Eius adventu ex colore vestitus cognito, quo insigni in proeliis uti consuerat, turmisque equitum et cohortibus visis, quas se sequi iusserat, ut de locis superioribus haec declivia et devexa cernebantur, hostes proelium committunt. Utrimque clamore sublato excipit rursus ex vallo atque omnibus munitionibus clamor. Nostri omissis pilis gladiis rem gerunt. Repente post tergum equitatus cernitur: cohortes aliae adpropinquabant: hostes terga vertunt. Fugientibus equites occurrunt. Fit magna caedes. Sedullus, dux et princeps Lemovicum Aremoricorum occiditur: Vercassivellaunus Arvernus vivus in fuga conprehenditur; signa militaria LXXIV ad Caesarem referuntur: pauci ex tanto numero incolumes se in castra recipiunt. Conspicati ex oppido caedem et fugam suorum desperata salute copias a munitionibus reducunt. Fit protinus hac re audita ex castris Gallorum fuga. Quod nisi crebris subsidiis ac totius diei labore milites essent defessi, omnes hostium copiae deleri potuissent. De me-

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so a portare aiuto con forze fresche. Rinnovata la battaglia e respinti i nemici si diresse dove aveva mandato Labieno: portò con sé quattro coorti prelevandole da un vicino forte e ordinò a una parte della cavalleria di seguirlo, a un’altra parte di procedere lungo le difese esterne e attaccare i nemici alle spalle. Labieno, dopo aver visto che né i terrapieni né i fossati potevano resistere all’impeto dei nemici, radunò trentanove coorti, che poté trarre dalle posizioni vicine, e mandò ad avvertire Cesare di quello che riteneva necessario fare. Cesare allora si affrettò per essere presente al combattimento. LXXXVIII. Quando lo videro arrivare, riconoscendolo dal colore del mantello che solitamente portava in battaglia, e videro le torme dei cavalieri e le coorti da cui si era fatto seguire (dalle alture occupate dai Galli, infatti, si vedeva il declivio dal quale egli discendeva), i nemici si lanciarono all’attacco. Entrambi gli eserciti elevarono alte grida e un grande clamore rispose dal vallo e da tutte le fortificazioni. I nostri lasciarono i giavellotti e diedero mano alle spade. All’improvviso apparve alle spalle dei nemici la cavalleria; altre coorti si avvicinavano. Inseguiti dai cavalieri, i Galli volsero in fuga. Vi fu grande strage: Sedullo, comandante e principe dei Lemovici, fu ucciso; Vercassivellauno arverno fu catturato mentre fuggiva; furono portate a Cesare settantaquattro insegne militari; pochi soltanto di un sì gran numero arrivarono salvi al campo. Quelli della città, vista la strage e la fuga dei loro compagni, perduta ogni speranza di essere liberati, ritirarono le truppe dalla linea romana che essi attaccavano. Appena inteso il segnale di ritirata i Galli dell’armata di soccorso uscirono in massa dal campo e si diedero alla fuga. E se i nostri legionari non fossero stati troppo stanchi per le fatiche di tutto quel giorno e per i continui spostamenti, avrebbero potuto completamente distruggere l’intero esercito nemico. A mezzanotte la

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dia nocte missus equitatus novissimum agmen consequitur; magnus numerus capitur atque interficitur; reliqui ex fuga in civitates discedunt. LXXXIX. Postero die Vercingetorix concilio convocato id bellum se suscepisse non suarum necessitatum, sed communis libertatis causa demonstrat, et quoniam sit fortunae cedendum, ad utramque rem se illis offerre, seu morte sua Romanis satisfacere seu vivum tradere velint. Mittuntur de his rebus ad Caesarem legati. Iubet arma tradi, principes produci. Ipse in munitione pro castris consedit: eo duces producuntur; Vercingetorix deditur, arma proiciuntur. Reservatis Haeduis atque Arvernis, si per eos civitates recuperare posset, ex reliquis captivis toti exercitui capita singula praedae nomine distribuit. XC. His rebus confectis in Haeduos proficiscitur; civitatem recipit. Eo legati ab Arvernis missi quae imperaret se facturos pollicentur. Imperat magnum numerum obsidum. Legiones in hiberna mittit. Captivorum circiter XX milia Haeduis Avernisque reddit. T. Labienum cum duabus legionibus et equitatu in Sequanos proficisci iubet: huic M. Sempronium Rutilum attribuit. C. Fabium legatum et L. Minucium Basilum cum legionibus duabus in Remis conlocat, ne quam a finitimis Bellovacis calamitatem accipiant. C. Antistium Reginum in Ambivaretos, T. Sextium in Bituriges, C. Caninium Rebilum in Rutenos cum singulis legionibus mittit. Q. Tullium Ciceronem et P. Sulpicium Cavilloni et Matiscone

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nostra cavalleria, mandata all’inseguimento, raggiunse la retroguardia dell’esercito in fuga, molti uomini furono catturati e uccisi, gli altri rientrarono nelle loro patrie. LXXXIX. Il giorno dopo Vercingetorige, convocato il consiglio, dichiarò di aver intrapreso la guerra non per proprio tornaconto, ma per la libertà di tutti e poiché bisognava cedere alla sorte egli era pronto a fare ciò che i suoi avessero deciso, sia che volessero con la sua morte dare soddisfazione ai Romani, sia che lo volessero consegnare vivo. Furono mandati parlamentari a Cesare per le trattative. Cesare ordinò che venissero consegnate le armi e i principi delle città. Egli installò il suo seggio sulle fortificazioni, davanti al campo: là gli furono condotti i capi dei Galli, gli fu consegnato Vercingetorige, gli furono portate le armi. Esclusi gli Edui e gli Arverni, perché sperava di recuperare per mezzo loro l’amicizia delle rispettive genti, distribuì gli altri prigionieri a tutti i soldati, uno per ognuno, a titolo di preda. XC. Provveduto a ciò, partì verso gli Edui, dove ricevette la resa di quel popolo. Là lo raggiunsero gli ambasciatori degli Arverni che gli promisero di eseguire i suoi ordini. Cesare impose numerosi ostaggi. Mandò le legioni negli alloggiamenti invernali; restituì i prigionieri, circa ventimila, agli Edui e agli Arverni; ordinò a Labieno di partire con due legioni e la cavalleria verso la terra dei Sèquani e gli assegnò come dipendente Marco Sempronio Rutilo. Sistemò il legato Gaio Fabio e Lucio Minucio Basilo con due legioni tra i Remi, per evitare che questi subissero qualche attacco da parte dei Bellovaci confinanti. Mandò Gaio Antistio Regino tra gli Ambivareti, Tito Sestio tra i Biturigi, Gaio Caninio Rebilo tra i Ruteni, ciascuno con una legione. Sistemò Quinto Tullio Cicerone e Publio Sulpicio a Cavillono e a Matisco-

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in Haeduis ad Ararim rei frumentariae causa conlocat. Ipse Bibracte hiemare constituit. †His litteris† cognitis Romae dierum XX supplicatio redditur.

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ne sulla Saona, nel territorio degli Edui, per i rifornimenti di grano. Egli decise di passare l’inverno a Bibracte. Quando si seppero le vicende di quella campagna, a Roma furono indetti riti di ringraziamento per venti giorni.

LIBER OCTAVUS

Coactus assiduis tuis vocibus, Balbe, cum cotidiana mea recusatio non difficultatis excusationem sed inertiae videretur deprecationem habere, difficillimam rem suscepi: Caesaris nostri commentarios rerum gestarum Galliae, non conparentibus supplevi rebus atque insequentibus eius scriptis contexui novissimumque inperfectum ab rebus gestis Alexandriae confeci usque ad exitum non quidem civilis dissensionis, cuius finem nullum videmus, sed vitae Caesaris. Quos utinam qui legent scire possint, quam invitus susceperim scribendos, quo facilius caream stultitiae atque arrogantiae crimine, qui me mediis interposuerim Caesaris scriptis. Constat enim inter omnes nihil tam operose ab aliis esse perfectum, quod non horum elegantia commentariorum superetur. Qui sunt editi ne scientia tantarum rerum scriptoribus deesset, adeoque probantur omnium iudicio, ut praerepta, non praebita facultas scriptoribus videatur. Cuius tamen rei maior nostra quam reliquorum est admiratio;

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Spinto dalle tue insistenti esortazioni, Balbo,22 poiché di fronte ai miei continui rifiuti non reggeva più la scusa della difficoltà, ma sembrava che io volessi sottrarmi per pigrizia alla fatica, ho intrapreso un’opera difficilissima. Ho colmato la lacuna lasciata dai commentari delle imprese di Cesare in Gallia, poiché non vi era continuità tra i suoi scritti antecedenti e quelli susseguenti, ed ho continuato l’ultima opera lasciata incompiuta, a cominciare dagli avvenimenti di Alessandria fino, non dirò al termine della guerra civile, di cui non vediamo la conclusione, ma al termine della vita di Cesare.23 Possano i lettori dei miei commentari capire quanto malvolentieri mi sia assunto l’incarico di scriverli e non mi accusino di stoltezza o di superbia per aver fatto posto ai miei tra gli scritti di Cesare. Tutti sanno, infatti, che non vi è nessuna opera compiuta da altri, anche dopo grande elaborazione, che non sia vinta dall’eloquenza di questi commentari: essi furono scritti per fornire agli storici notizie su imprese così importanti e riscossero da tutti tanta ammirazione che invece di faci21 È il libro dovuto al luogotenente di Cesare, Aulo Irzio, come s’è detto nella nota introduttiva. 22 Lucio Cornelio Balbo, di origine spagnola, amico di Cesare e al suo fianco durante la guerra gallica. Sarebbe stato console una decina di anni dopo, nel 40 a.C. 23 In effetti l’opera di Irzio si limitò a questo libro VIII del De bello gallico. La narrazione delle altre guerre cesariane fu dovuta quasi certamente ad altri generali di Cesare.

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ceteri enim quam bene atque emendate, nos etiam quam facile atque celeriter eos perfecerit scimus. Erat autem in Caesare cum facultas atque elegantia summa scribendi, tum verissima scientia suorum consiliorum explicandorum. Mihi ne illud quidem accidit, ut Alexandrino atque Africano bello interessem; quae bella quamquam ex parte nobis Caesaris sermone sunt nota, tamen aliter audimus ea quae rerum novitate aut admiratione nos capiunt, aliter quae pro testimonio sumus dicturi. Sed ego nimirum, dum omnes excusationis causas colligo, ne cum Caesare conferar, hoc ipso crimen arrogantiae subeo, quod me iudicio cuiusquam existimem posse cum Caesare comparari. Vale. I. Omni Gallia devicta Caesar cum a superiore aestate nullum bellandi tempus intermisisset militesque hibernorum quiete reficere a tantis laboribus vellet, complures eodem tempore civitates renovare belli consilia nuntiabantur coniurationesque facere. Cuius rei verisimilis causa adferebatur, quod Gallis omnibus cognitum esset neque ulla multitudine in unum locum coacta resisti posse [a] Romanis, nec si diversa bella conplures eodem tempore intulissent civitates, satis auxilii aut spatii aut copiarum habiturum exercitum populi Romani ad omnia persequenda; non esse autem alicui civitati sortem incommodi recusandam, si tali mora reliquae possent se vindicare in libertatem. II. Quae ne opinio Gallorum confirmaretur, Caesar M. Antonium quaestorem suis praefecit hibernis, ipse equi-

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litare l’opera degli scrittori, gliel’hanno resa impossibile. Ma la mia ammirazione è certo maggiore di quella di tutti gli altri: ognuno sa, infatti, di quale finezza ed eleganza essi siano, io so anche con quale facilità e rapidità li ha dettati. Cesare non soltanto aveva stile insuperabile nello scrivere, ma anche una spiccata abilità nell’esporre con chiarezza e precisione i suoi disegni. Io, poi, non partecipai neppure alla guerra alessandrina né a quella africana e sebbene in parte ne abbia avuta notizia dai racconti di Cesare, tuttavia c’è differenza tra l’udire le cose che ci colpiscono, perché sono nuove e mirabili, e ascoltarle con l’intenzione di narrarle per lasciarne sicura testimonianza. Ma, certo, mentre mi procuro motivi di scusa per non essere paragonato a Cesare, proprio per questo posso andare incontro all’accusa di presunzione, per aver pensato di poter essere paragonato a Cesare nel giudizio di qualcuno. Addio. I. Dopo aver soggiogata tutta la Gallia, Cesare, che dall’estate precedente non aveva mai interrotto la guerra, voleva che i suoi soldati si riposassero negli alloggiamenti invernali dalle tante fatiche sostenute; ma in quello stesso tempo si veniva a sapere che parecchie genti volevano riprendere la lotta e si univano in lega. Di ciò si recava una ragione attendibile: i Galli avevano compreso che non potevano resistere ai Romani se riunivano tutte le loro forze in un punto; ma che se li avessero attaccati contemporaneamente da più parti, essi non avrebbero avuto né risorse, né tempo, né forze sufficienti per far fronte ai diversi focolai di guerra; nessun popolo gallico avrebbe dovuto dolersi di subire la sua parte di danno, se, trattenendo il nemico, avesse permesso ad altre genti di recuperare la libertà. II. Perché questa opinione tra i Galli non prendesse piede, Cesare dette il comando del suo accampamento al

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tum praesidio pridie Kal. Ianuarias ab oppido Bibracte proficiscitur ad legionem XIII., quam non longe a finibus Haeduorum conlocaverat in finibus Biturigum, eique adiungit legionem undecimam, quae proxima fuerat. Binis cohortibus ad impedimenta tuenda relictis reliquum exercitum in copiosissimos agros Biturigum inducit, qui cum latos fines et complura oppida haberent, unius legionis hibernis non potuerant contineri quin bellum pararent coniurationesque facerent. III. Repentino adventu Caesaris accidit, quod inparatis disiectisque accidere fuit necesse, ut sine timore ullo rura colentes prius ab equitatu opprimerentur quam confugere in oppida possent. Namque etiam illud vulgare incursionis hostium signum, quod incendiis aedificiorum intellegi consuevit, Caesaris erat interdicto sublatum, ne aut copia pabuli frumentique, si longius progredi vellet, deficeretur, aut hostes incendiis terrerentur. Multis hominum milibus captis perterriti Bituriges, qui primum adventum potuerant effugere Romanorum, in finitimas civitates aut privatis hospitiis confisi aut societate consiliorum confugerant. Frustra: nam Caesar magnis itineribus omnibus locis occurrit nec dat ulli civitati spatium de aliena potius quam de domestica salute cogitandi; qua celeritate et fideles amicos retinebat et dubitantes terrore ad condiciones pacis adducebat. Tali condicione proposita Bituriges, cum sibi viderent clementia Caesaris reditum patere in eius amicitiam finitimasque civitates sine ulla poena dedisse obsides atque in fidem receptas esse, idem fecerunt.

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questore Marco Antonio e partì con la cavalleria il trentuno dicembre da Bibracte, per raggiungere la tredicesima legione, che aveva sistemata nelle terre dei Biturigi, non lontano dagli Edui; a questa unì la undicesima, che si trovava vicino. Lasciate due coorti a guardia delle salmerie, condusse il resto dell’esercito nei fertilissimi campi dei Biturigi, che avevano estese terre e numerose città e che la presenza di una sola legione non aveva dissuaso dal preparare la guerra e dal complottare segretamente. III. L’improvviso arrivo di Cesare fece accadere ciò che era inevitabile per gente impreparata e dispersa; i contadini che coltivavano i campi senza timore furono sorpresi dalla cavalleria prima di potersi rifugiare nelle città. Infatti, quello che comunemente costituisce il segnale dell’arrivo dei nemici, cioè l’incendio degli edifici, era stato proibito da Cesare, per evitare che mancassero il foraggio e il frumento, qualora avesse voluto spingersi più all’interno e per non mettere sull’avviso i nemici con le fiamme. I Biturigi furono atterriti: molte migliaia di uomini caddero prigionieri e quelli che poterono sfuggire all’improvviso arrivo dei Romani si rifugiarono presso i popoli vicini, fidando nei vincoli personali di ospitalità o nella comune alleanza. Ma inutilmente, perché Cesare con veloci marce accorse dovunque, senza dare tempo ai vari popoli di pensare alla salvezza degli altri piuttosto che alla propria. Con questa rapidità mantenne saldi i popoli fedeli e spinse quelli che esitavano a scendere a patti per la pace. Di fronte a questi avvenimenti i Biturigi, vedendo che la clemenza di Cesare lasciava loro la possibilità di ritornare suoi amici e che le nazioni confinanti, senza essere altrimenti punite, avevano dato ostaggi ed erano state accolte sotto la protezione romana, ne imitarono l’esempio.

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IV. Caesar militibus pro tanto labore ac patientia, qui brumalibus diebus, itineribus difficillimis, frigoribus intolerandis studiosissime permanserant in labore, ducenos sestertios, centurionibus singula milia nummum praedae nomine condonata pollicetur legionibusque in hiberna remissis ipse se recipit die XXXX Bibracte. Ibi cum ius diceret, Bituriges ad eum legatos mittunt auxilium petitum contra Carnutes, quos intulisse bellum sibi querebantur. Qua re cognita cum dies non amplius X et VIII in hibernis esset moratus, legiones XIIII. et VI. ex hibernis ab Arare educit, quas ibi conlocatas explicandae rei frumentariae causa superiore commentario demonstratum est. ita cum duabus legionibus ad persequendos Carnutes proficiscitur. V. Cum fama exercitus ad hostes esset perlata, calamitate ceterorum docti Carnutes desertis vicis oppidisque, quae tolerandae hiemis causa constitutis repente exiguis ad necessitatem aedificiis incolebant (nuper enim devicti conplura oppida dimiserant), dispersi profugiunt. Caesar erumpentes eo maxime tempore acerrimas tempestates cum subire milites nollet, in oppido Carnutum Cenabo castra ponit atque in tecta partim Gallorum, partim quae coniectis celeriter stramentis tentoriorum integendorum gratia erant inaedificata, milites conpegit. Equites tamen et auxiliarios pedites in omnes partes mittit, quascumque petisse dicebantur hostes; nec frustra: nam plerumque magna praeda potiti nostri revertuntur. Oppressi Carnutes hiemis difficultate, terrore periculi, cum tectis expulsi nullo loco diutius consistere auderent nec silvarum praesidio tempestatibus durissimis tegi possent, dispersi magna parte amissa suorum dissipantur in finitimas civitates.

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IV. Cesare promise di donare ai soldati, come premio in luogo del bottino e per premiarli di tante fatiche e della sopportazione dimostrata resistendo con fortezza d’animo alle difficili marce in giorni invernali, con freddo rigidissimo, duecento sesterzi a testa e ai centurioni duemila; rimandò, poi, le legioni nei quartieri d’inverno ed egli ritornò dopo quaranta giorni a Bibracte. Mentre vi amministrava la giustizia, i Biturigi mandarono ambasciatori a chiedergli aiuto contro i Carnuti, che avevano portato loro guerra. Saputo ciò, dopo essere rimasto nell’accampamento non più di diciotto giorni, richiamò le legioni quattordicesima e sesta dai quartieri d’inverno, sulla Saona, dove, come è detto nel libro precedente, egli le aveva sistemate per completare i rifornimenti di grano e con queste due legioni partì contro i Carnuti. V. Quando si diffuse la notizia dell’arrivo dei Romani, i Carnuti, ammaestrati dalla disgrazia degli altri, abbandonarono i villaggi e le città che abitavano e dove avevano costruito alla meglio piccoli edifici, per ripararsi dai rigori dell’inverno, dato che avevano perduto, in seguito alla guerra, molte città, e si dispersero. Cesare non volle che i suoi legionari fossero esposti ai rigori invernali e pose il campo a Cenabo, città dei Carnuti, accantonando in parte i soldati nelle case dei Galli, e in parte riparandoli nelle tende ricoperte di paglia. Mandò tuttavia cavalieri e soldati ausiliari in tutte le direzioni, dovunque si sapeva che i nemici erano fuggiti. Né la manovra fu vana: infatti i nostri ritornavano dopo avere fatto dappertutto grande bottino. I Carnuti, sopraffatti dalle intemperie invernali, terrorizzati dal pericolo che loro sovrastava, cacciati dalle loro case, non osavano fermarsi a lungo in nessun posto, né le selve potevano servir loro da ricovero in quella stagione rigidissima; cosicché, divisi, perduta gran parte dei loro, si dispersero nelle terre confinanti.

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VI. Caesar tempore anni difficillimo cum satis haberet convenientes manus dissipare, ne quod initium belli nasceretur, quantumque in ratione esset, exploratum haberet sub tempus aestivorum nullum summum bellum posse conflari, C. Trebonium cum duabus legionibus, quas secum habebat, in hibernis Cenabi conlocavit; ipse cum crebris legationibus Remorum certior fieret Bellovacos, qui belli gloria Gallos omnes Belgasque praestabant, finitimasque his civitates duce Correo Bellovaco et Commio Atrebate exercitus conparare atque in unum locum cogere, ut omni multitudine in fines Suessionum, qui Remis erant attributi, facerent impressionem, pertinere autem non tantum ad dignitatem, sed etiam ad salutem suam iudicaret, nullam calamitatem socios optime de republica meritos accipere, legionem ex hibernis evocat rursus undecimam, litteras autem ad C. Fabium mittit ut in fines Suessionum legiones duas quas habebat adduceret, alteramque ex duabus ab [L.] Labieno arcessit. Ita, quantum hibernorum oportunitas bellique ratio postulabat, perpetuo suo labore in vicem legionibus expeditionum onus iniungebat. VII. His copiis coactis ad Bellovacos proficiscitur castrisque in eorum finibus positis equitum turmas dimittit in omnes partes ad aliquos excipiendos, ex quibus hostium consilia cognosceret. Equites officio functi renuntiant paucos in aedificiis esse inventos, atque hos, non qui agrorum colendorum causa remansissent (namque esse undique diligenter demigratum), sed qui speculandi causa essent remissi. A quibus cum quaereret Caesar, quo loco multitudo esset Bellovacorum quodve esset consilium eorum, inveniebat Bellovacos omnes qui ar-

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VI. Cesare, ritenendo di aver fatto abbastanza per disperdere le forze nemiche che si venivano raccogliendo, al fine di prevenire qualsiasi principio di guerra ed essendo sicuro, per quanto almeno si poteva congetturare, che nessuna azione decisiva poteva essere organizzata fino all’estate, affidò a Gaio Trebonio le due legioni che aveva con sé e dispose che svernassero a Cenabo. Poiché, poi, frequenti ambascerie dei Remi lo avevano informato che i Bellovaci, il popolo più reputato per gloria militare tra tutti i Galli e i Belgi, e le genti confinanti preparavano eserciti, comandati da Correo bellovaco e Commio atrebate, e li riunivano per assalire con grandi forze i Suessioni, clienti dei Remi, giudicò che, non solo per la dignità romana, ma anche per la salvezza del suo esercito era necessario che quei fedeli alleati non patissero nessuna offesa; richiamò allora di nuovo dal quartiere d’inverno l’undicesima legione, ordinò a Gaio Fabio di condurgli le sue due nel territorio dei Suessioni e un’altra ne fece venire togliendola alle due di Tito Labieno. Così, tenendo presenti le necessità dei campi invernali e quelle della condotta della guerra, alternava tra le legioni l’onere delle campagne militari, senza concedere a se stesso alcun riposo. VII. Con queste truppe partì contro i Bellovaci e, sistemato l’accampamento nelle loro terre, mandò la cavalleria in tutte le direzioni per catturare prigionieri dai quali conoscere i piani dei nemici. I cavalieri, adempiuto l’incarico, gli riferirono di avere trovato solo pochi uomini nelle case, che non erano rimasti per lavori dei campi, ma in qualità di esploratori nemici, mentre la popolazione era stata completamente evacuata. Quando Cesare chiese a costoro dove fossero i Bellovaci e quale piano avessero, venne a sapere che tutti i Bellovaci atti 24

Alla vigilia del nuovo anno, 51 a.C. 25. Il 50 a.C.

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ma ferre possent in unum locum convenisse, itemque Ambianos, Aulercos, Caletos, Veliocasses, Atrebates; locum castris excelsum in silva circumdata palude delegisse, impedimenta omnia in ulteriores silvas contulisse. Conplures esse principes belli auctores, sed multitudinem maxime Correo obtemperare, quod ei summo esse odio nomen populi Romani intellexissent. Paucis ante diebus ex his castris Atrebatem Commium discessisse ad auxilia Germanorum adducenda, quorum et vicinitas propinqua et multitudo esset infinita. Constituisse autem Bellovacos omnium principum consensu, summa plebis cupiditate, si, ut diceretur, Caesar cum tribus legionibus veniret, sese offerre ad dimicandum, ne miseriore ac duriore postea condicione cum toto exercitu decertare cogerentur; si maiores copias adduceret, in eo loco permanere quem delegissent, pabulatione autem quae propter anni tempus cum exigua tum disiecta esset, et frumentatione et reliquo commeatu ex insidiis prohibere Romanos. VIII. Quae Caesar consentientibus pluribus cum cognosset atque ea quae proponerentur consilia plena prudentiae longeque a temeritate barbarorum remota esse iudicaret, omnibus rebus inserviendum statuit, quo celerius hostes contempta suorum paucitate prodirent in aciem. Singularis enim virtutis veterrimas legiones VII., VIII., VIIII. habebat, summae spei delectaeque iuventutis XI., quae octavo iam stipendio tamen in conlatione reliquarum nondum eandem vetustatis ac virtutis ceperat opinionem. Itaque consilio advocato rebus iis quae ad se essent delatae omnibus expositis animos multitudinis confirmat. Si forte hostes trium legionum numero posset elicere ad dimicandum, agminis ordinem ita constituit, ut legio VII., VIII., VIIII. ante omnia irent impe-

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alle armi si erano radunati in un sol luogo, insieme agli Ambiani, agli Aulerci, ai Caleti, ai Veliocassi e agli Atrebati; avevano scelto per gli accampamenti un’altura in mezzo a una selva circondata da una palude; avevano portato tutti i bagagli nei boschi più interni. Parecchi erano i capi della guerra, ma il più influente era Correo, di cui era a tutti noto il particolare ed ostinato odio per i Romani. Pochi giorni prima era partito da questo campo Commio, atrebate, per andare a sollecitare aiuti ai Germani al di là del Reno, molto vicini e molto numerosi. Il piano dei Bellovaci, approvato da tutti i capi e, con grande entusiasmo, dal popolo, era di attaccare battaglia se Cesare fosse venuto, come sembrava, con tre legioni, per non essere costretti a combattere più tardi in condizioni peggiori contro tutto l’esercito romano; se invece Cesare avesse portato forze più numerose essi sarebbero rimasti nel posto scelto e, con agguati, avrebbero impedito ai Romani di raccogliere foraggio (che, data la stagione, era scarso e necessariamente doveva essere ricercato su vasto territorio) e di rifornirsi di grano e di altri viveri. VIII. Cesare seppe ciò da testimonianza concorde di parecchi uomini e, giudicando il piano stabilito pieno di prudenza e molto lontano dalla solita temerarietà dei barbari, stabilì di dover far di tutto perché i nemici, al più presto, disprezzando lo scarso numero dei suoi, scendessero a battaglia. Aveva con sé infatti le legioni settima, ottava, nona, le più antiche e valorose, e la undicesima, composta di giovani di grandi speranze: questa, sebbene avesse militato già per otto anni, tuttavia non aveva ancora fama di essere ugualmente valorosa. Cesare convocò il consiglio di guerra, riferì a tutti ciò che aveva saputo e incoraggiò i soldati. Per tentare di attirare il nemico a battaglia, facendogli credere le sue forze essere di sole tre legioni, decise di procedere nel-

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dimenta, deinde omnium impedimentorum agmen, quod tamen erat mediocre, ut in expeditionibus esse consuevit, cogeret undecima, ne maioris multitudinis species accidere hostibus posset quam ipsi depoposcissent. Hac ratione paene quadrato agmine instructo in conspectum hostium celerius opinione eorum exercitum adducit. IX. Cum repente instructas velut in acie certo gradu legiones accedere Galli viderent, quorum erant ad Caesarem plena fiduciae consilia perlata, sive certaminis periculo sive subito adventu sive expectatione nostri consilii copias instruunt pro castris nec loco superiore decedunt. Caesar, etsi dimicare optaverat, tamen admiratus tantam multitudinem hostium valle intermissa magis in altitudinem depressa quam late patente castra castris hostium confert. Haec imperat vallo pedum XII muniri, loriculam pro [hac] ratione eius altitudinis inaedificari; fossam duplicem pedum quinum denum lateribus deprimi derectis, turris excitari crebras in altitudinem trium tabulatorum, pontibus traiectis constratisque coniungi, quorum frontes viminea loricula munirentur: ut ab hostibus duplici fossa, duplici propugnatorum ordine defenderentur, quorum alter ex pontibus, quo tutior altitudine esset, hoc audacius longiusque permitteret tela, alter, qui propior hostem in ipso vallo conlocatus esset, ponte ab incidentibus telis tegeretur. Portis fores altioresque turres inposuit. X. Huius munitionis duplex erat consilium. Namque et operum magnitudinem et timorem suum sperabat fidu-

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l’avanzata in questo modo: le legioni settima, ottava e nona sarebbero andate avanti; avrebbe seguito la colonna dei bagagli, che era breve, come sempre nelle spedizioni; avrebbe chiuso la marcia la undicesima legione. In tal modo si sarebbe evitato di far vedere ai nemici che le forze romane erano più numerose di quelle che essi volevano. Con questo schieramento, cioè quasi in ordine quadrato, Cesare avanzò verso il nemico che raggiunse più rapidamente di quanto questo potesse pensare. IX. Quando i Galli videro all’improvviso le legioni che avanzavano schierate in battaglia, con passo sicuro, per quanto i piani riferiti a Cesare fossero quelli di uomini risoluti, o spaventati dal pericolo della battaglia, o sorpresi dall’improvviso arrivo, o per conoscere le decisioni dei Romani, schierarono le loro forze davanti al campo senza scendere dal colle. Cesare desiderava il combattimento, tuttavia, considerato il grande numero dei nemici, decise di porre il suo campo di fronte a quello dell’avversario, da cui era diviso da una valle più profonda che larga; lo fece fortificare con un vallo alto dodici piedi e con una palizzata alta in proporzione; fece scavare due fossati con le pareti perpendicolari, profondi quindici piedi; ordinò la costruzione di parecchie torri a tre piani, congiunte con ponti ricoperti, con la parte rivolta al nemico protetta da graticciate; così l’accampamento sarebbe stato difeso da un doppio fossato e da un doppio ordine di difensori: l’uno dai ponti, che, più al sicuro per l’altezza, avrebbe potuto lanciare dardi con maggiore precisione e a maggior distanza, l’altro più vicino ai nemici, sul vallo, che i ponti suddetti avrebbero protetto dalla caduta dei proiettili. Fece, poi, apporre alle porte dei battenti, fiancheggiandole, inoltre, con torri più alte. X. Doppio era lo scopo di queste fortificazioni. Cesare sperava infatti di incoraggiare i nemici, dimostrando,

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ciam barbaris allaturum, et, cum pabulatum frumentatumque longius esset proficiscendum, parvis copiis castra munitione ipsa videbat posse defendi. Interim crebro paucis utrimque procurrentibus inter bina castra palude interiecta contendebatur; quam tamen paludem non numquam aut nostra auxilia [aut] Gallorum Germanorumque transibant acriusque hostes insequebantur, aut vicissim hostes eadem transgressi nostros longius submovebant. Accidebat autem cotidianis pabulationibus (id quod accidere erat necesse, cum raris disiectisque ex aedificiis pabulum conquireretur), ut impeditis locis dispersi pabulatores circumvenirentur; quae res, etsi mediocre detrimentum iumentorum ac servorum nostris adferebat, tamen stultas cogitationes incitabat barbarorum, atque eo magis quod Commius, quem profectum ad auxilia Germanorum arcessenda docui, cum equitibus venerat; qui tametsi numero non amplius erant quingenti, tamen Germanorum adventu barbari inflabantur. XI. Caesar, cum animadverteret hostem conplures dies castris palude et loci natura munitis se tenere neque oppugnari castra eorum sine dimicatione perniciosa nec locum munitionibus claudi nisi a maiore exercitu posse, litteras ad Trebonium mittit, ut quam celerrime posset legionem XIII., quae cum T. Sextio legato in Biturigibus hiemabat, arcesseret atque ita cum tribus legionibus magnis itineribus ad se veniret; ipse equites in vicem Remorum ac Lingonum reliquarumque civitatum, quorum magnum numerum evocaverat, praesidio pabulationibus mittit, qui subitas incursiones hostium sustinerent. XII. Quod cum cotidie fieret ac iam consuetudine diligentia minueretur, quod plerumque accidit diuturnitate,

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con quelle poderose opere di fortificazione, di aver paura; d’altra parte l’importanza delle opere stesse avrebbe consentito di difendere il campo con pochi uomini quando si sarebbero dovuti allontanare forti reparti per procurare foraggio e viveri. Frattanto, avvenivano frequenti scaramucce di pochi uomini dei due eserciti: tra i due campi c’era una palude; talvolta però gli ausiliari nostri, galli o germani, la attraversavano per inseguire più a fondo il nemico o, a loro volta, i nemici la passavano per respingere i nostri più lontano. Nelle quotidiane ricognizioni per i rifornimenti accadeva, poi, quello che era inevitabile, dato che bisognava cercare il foraggio in zone vaste e lontane: gli uomini addetti a quel servizio erano cioè circondati, il che ci arrecava qualche perdita di giumenti e di servi; ma alimentava le stolte speranze dei barbari, già imbaldanziti perché Commio era tornato con un contingente di cavalieri germani, non superiore, però, ai cinquecento uomini; ma il loro arrivo era bastato per esaltare i Galli. XI. Cesare allora, vedendo che il nemico non aveva intenzione di abbandonare l’accampamento, difeso dalla palude e dalla posizione naturale, capì che non poteva attaccarlo senza affrontare un combattimento pericoloso, né procedere al suo investimento senza un esercito più numeroso. Scrisse, allora, a Trebonio di farsi raggiungere al più presto dalla tredicesima legione, che svernava col legato T. Sestio tra i Biturigi e di venire da lui con le tre legioni, marciando rapidamente; egli, intanto, distaccava a turno i cavalieri dei Remi, dei Lingoni e delle altre genti, che aveva richiamato in gran numero, a sostegno delle forze che foraggiavano, perché le proteggessero dagli improvvisi attacchi dei nemici. XII. Ciò avveniva ogni giorno e, come suole accadere quando una cosa continua per molto tempo, l’abitudine

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Bellovaci delecta manu peditum cognitis stationibus cotidianis equitum nostrorum silvestribus locis insidias disponunt, eodemque equites postero die mittunt, qui primum elicerent nostros, insidiae deinde circumventos adgrederentur. Cuius mali sors incidit Remis, quibus ille dies fungendi muneris obvenerat. Namque hi, cum repente hostium equites animadvertissent ac numero superiores paucitatem contempsissent, cupidius insecuti peditibus undique sunt circumdati. Quo facto perturbati celerius quam consuetudo fert equestris proelii se receperunt amisso Vertisco, principe civitatis, praefecto equitum; qui cum vix equo propter aetatem posset uti, tamen consuetudine Gallorum neque aetatis excusatione in suscipienda praefectura usus erat neque dimicari sine se voluerat. Inflantur atque incitantur hostium animi secundo proelio, principe et praefecto Remorum interfecto, nostrique detrimento admonentur diligentius exploratis locis stationes disponere ac moderatius cedentem insequi hostem. XIII. Non intermittunt interim cotidiana proelia in conspectu utrorumque castrorum, quae ad vada transitusque fiebant paludis. Qua contentione Germani, quos propterea Caesar traduxerat Rhenum ut equitibus interpositi proeliarentur, cum constantius universi paludem transissent paucisque in resistendo interfectis pertinacius reliquam multitudinem essent insecuti, perterriti non solum ii qui aut comminus opprimebantur aut eminus vulnerabantur, sed etiam qui longius subsidiari consuerant, turpiter refugerunt nec prius finem fugae fecerunt saepe amissis superioribus locis quam se aut in

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faceva diminuire la vigilanza: i Bellovaci, conosciute le posizioni dei distaccamenti di cavalleria, disposero un’imboscata nella selva, con una scelta schiera di fanteria e vi mandarono, il giorno dopo, un gruppo di cavalieri che dovevano attirare la nostra cavalleria nel luogo dell’imboscata per poi assalirla e circondarla. Toccò ai Remi di affrontare quel pericolo, essendo in quel giorno di turno. Essi, quando all’improvviso si accorsero della presenza dei cavalieri nemici, disprezzandone l’esiguo numero, li inseguirono con foga, ma vennero circondati da ogni parte. Per non essere sopraffatti si ritirarono più rapidamente di quel che suole avvenire in una battaglia equestre; cadde Vertisco, principe remo, comandante dei cavalieri: questi, sebbene riuscisse a stento a tenersi a cavallo, data la sua tarda età, non aveva rinunziato, come del resto fanno sempre i Galli, alla carica di comandante della cavalleria né aveva voluto che si combattesse senza di lui. I nemici si imbaldanzirono e si eccitarono per la vittoria riportata e per l’uccisione del principe e capo dei Remi; e i nostri impararono, a loro spese, ad eseguire una più accurata perlustrazione prima di disporre i loro posti di cavalleria e ad inseguire con più moderazione i nemici quando ripiegavano. XIII. Continuarono intanto gli scontri che ogni giorno avvenivano al cospetto dei due campi, presso i guadi e i passaggi della palude. In uno di questi combattimenti, i Germani che Cesare aveva fatto venire presso il suo esercito per combattere con la cavalleria passarono tutti insieme, con impeto, la palude e, uccisi i pochi che facevano resistenza, inseguirono gli altri spingendosi più avanti; ne furono atterriti non solo quelli che erano incalzati da vicino o erano colpiti, da lontano, dai dardi, ma anche quelli che erano dislocati a buona distanza, pronti a portare aiuto. Tutti fuggirono vergognosamente abbandonando le loro posizioni dominanti e non smise-

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castra suorum reciperent aut non nulli pudore coacti longius profugerent. Quorum periculo sic omnes copiae sunt perturbatae ut vix iudicari posset utrum secundis minimisque rebus insolentiores, an adverso mediocri casu timidiores essent. XIV. Conpluribus diebus isdem in castris consumptis, cum propius accessisse legiones et C. Trebonium legatum cognossent, duces Bellovacorum veriti similem obsessionem Alesiae noctu dimittunt eos quos aut aetate aut viribus inferiores aut inermes habebant, unaque reliqua impedimenta. Quorum perturbatum et confusum dum explicant agmen (magna enim multitudo carrorum etiam expeditos sequi Gallos consuevit), oppressi luce copias armatorum pro suis instruunt castris, ne prius Romani persequi se inciperent quam longius agmen impedimentorum suorum processisset. At Caesar neque resistentes adgrediundos tanto collis ascensu iudicabat neque non usque eo legiones admovendas, ut discedere ex eo loco sine periculo barbari militibus instantibus non possent. Ita cum palude inpedita a castris castra dividi videret, quae transeundi difficultas celeritatem insequendi tardare posset, atque id iugum, quod trans paludem paene ad hostium castra pertineret, mediocri valle a castris eorum intercisum animadverteret, pontibus palude constrata legiones traducit celeriterque in summam planitiem iugi pervenit, quae declivi fastigio duobus a lateribus muniebatur. Ibi legionibus instructis ad ultimum iugum pervenit aciemque eo loco constituit unde tormento missa tela in hostium cuneos conici possent.

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ro la fuga prima di essersi rifugiati presso il campo dei compagni: alcuni, anzi, vergognandosi per la loro viltà, fuggivano anche più lontano. Questo combattimento turbò a tal punto i barbari, che a stento si potrebbe stabilire se essi siano più inclini ad inorgoglirsi per modesti successi o ad avvilirsi per mediocri avversità. XIV. Passati parecchi giorni in quegli stessi accampamenti, i capi dei Bellovaci vennero a sapere che il legato Gaio Trebonio si avvicinava con le legioni e, temendo di venire circondati come ad Alesia, fecero allontanare coloro che per età, per debolezza o per mancanza di armi non erano utili alla guerra e tutti i bagagli. Mentre ordinavano la colonna, che era in disordine e confusione, perché i Galli si fanno seguire da un gran numero di carri anche quando si tratta di brevi viaggi, sorpresi dallo spuntare del giorno, schierarono l’esercito davanti al campo, perché i Romani non inseguissero la colonna prima che si fosse allontanata. Cesare ritenne che non fosse opportuno assalire i nemici mentre erano in posizione di difesa, data la pendenza dei fianchi del colle che rendeva malagevole la salita; era necessario spostare le legioni in modo da porsi in posizione più elevata di quella dei barbari, perché questi non potessero allontanarsi da quel posto senza pericolo. Così, poiché gli accampamenti erano divisi da una palude inguadabile, il cui difficile passaggio avrebbe impedito la rapidità dell’inseguimento e visto che un susseguirsi di colli, che arrivavano quasi agli accampamenti nemici, ne erano divisi solo da una piccola valle, Cesare fece gettare dei ponti sulla palude, vi condusse l’esercito e rapidamente arrivò ad un altopiano che era difeso da due lati da una erta salita. Là riordinò le legioni e, raggiunto l’estremo lato dell’altopiano, le schierò in battaglia in un punto dal quale i dardi lanciati con le macchine potevano raggiungere le formazioni a cuneo dei nemici.

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XV. Barbari confisi loci natura cum dimicare non recusarent, si forte Romani subire collem conarentur, paulatimque copias distributas dimittere non possent, ne dispersi perturbarentur, in acie permanserunt. Quorum pertinacia cognita Caesar viginti ohortibus instructis castrisque eo loco metatis muniri iubet castra. Absolutis operibus pro vallo legiones instructas conlocat, equites frenatis equis in statione disponit. Bellovaci, cum Romanos ad insequendum paratos viderent neque pernoctare aut diutius permanere sine periculo eodem loco possent, tale consilium sui recipiendi ceperunt. Fasces ubi consederant (namque in fasce considere Gallos consuesse superioribus commentariis Caesaris declaratum est), per manus stramentorum ac virgultorum, quorum summa erat in castris copia, inter se traditos ante aciem conlocarunt extremoque tempore diei signo pronuntiato uno tempore incenderunt. Ita continens flamma copias omnes repente a conspectu texit Romanorum. Quod ubi accidit, barbari vehementissimo cursu refugerunt. XVI. Caesar etsi discessum hostium animadvertere non poterat incendiis oppositis, tamen id consilium cum fugae causa initum suspicaretur, legiones promovet, turmas mittit ad insequendum; ipse veritus insidias, ne forte in eodem loco subsistere hostis atque elicere nostros in locum conaretur iniquum, tardius procedit. Equites cum intrare fumum et flammam densissimam timerent ac, si qui cupidius intraverant, vix suorum ipsi priores partes animadverterent equorum, insidias veriti liberam facultatem sui recipiendi Bellovacis dederunt. Ita fuga timoris simul calliditatisque plena sine ullo detrimento

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XV. I barbari confidavano sulla natura del terreno, pronti a combattere se i Romani avessero tentato di avvicinarsi al loro accampamento, ma non osavano spostare le loro truppe in piccole formazioni per timore che i gruppi così divisi non si demoralizzassero: rimasero, quindi, nel loro schieramento. Cesare, resosi conto della loro ostinazione, lasciò in ordine di battaglia venti coorti e, prese le misure per il campo, ne ordinò l’allestimento. Finiti i lavori collocò davanti alla palizzata le legioni pronte al combattimento e tenne riunita la cavalleria, con i cavalli insellati. I Bellovaci, vedendo i Romani pronti all’inseguimento, non potendo vegliare tutta la notte né rimanere più a lungo in quella posizione senza gravi rischi, decisero di ritirarsi valendosi di uno stratagemma. Si passarono di mano in mano fasci di frasche e di paglia che abbondavano nel campo e su cui i Galli usano sedere quando sono schierati per la guerra, come è detto nei precedenti commentari di Cesare, li posero davanti alla loro linea e alla fine del giorno, contemporaneamente a un determinato segnale, li incendiarono. Così quell’ininterrotta linea di fiamme nascose alla vista dei Romani i Galli che ne approfittarono per ritirarsi rapidamente. XVI. Cesare, che non aveva potuto accorgersi, per gli incendi che si frapponevano, della partenza dei nemici, sospettò che essi avessero usato quello stratagemma per fuggire; mosse perciò le legioni e mandò la cavalleria all’inseguimento; ma temendo di cadere in una imboscata, se il nemico si fosse fermato in qualche zona tentando di attirare i nostri in posizione sfavorevole, avanzò lentamente. I cavalieri temevano di penetrare tra il fumo e le fiamme tuttora alte e se qualcuno vi si spingeva con più ardimento, a stento riusciva a scorgere la testa del proprio cavallo: così i Bellovaci poterono ritirarsi a loro agio. Con una fuga dovuta alla paura e compiuta

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milia non amplius decem progressi hostes loco munitissimo castra posuerunt. Inde cum saepe in insidiis equites peditesque disponerent, magna detrimenta Romanis in pabulationibus inferebant. XVII. Quod cum crebrius accideret, ex captivo quodam comperit Caesar Correum, Bellovacorum ducem, fortissimorum milia sex peditum delegisse equitesque ex omni numero mille, quos in insidiis eo loco conlocaret, quem in locum propter copiam frumenti ac pabuli Romanos pabulatum missuros suspicaretur. Quo cognito consilio Caesar legiones plures quam solebat educit equitatumque, qua consuetudine pabulatoribus mittere praesidio consuerat, praemittit: huic interponit auxilia levis armaturae; ipse cum legionibus quam potest maxime adpropinquat. XVIII. Hostes in insidiis dispositi, cum sibi delegissent campum ad rem gerendam non amplius patentem in omnes partes passibus mille, silvis undique aut inpeditissimo flumine munitum, velut indagine hunc insidiis circumdederunt. Explorato hostium consilio nostri ad proeliandum animo atque armis parati cum subsequentibus legionibus nullam dimicationem recusarent, turmatim in eum locum devenerunt. Quorum adventu cum sibi Correus oblatam occasionem rei gerendae existimaret, primum cum paucis se ostendit atque in proximas turmas impetum fecit. Nostri constanter incursum sustinent insidiatorum, neque plures in unum locum conveniunt: quod plerumque equestribus proeliis cum propter aliquem timorem accidit, tum multitudine ipsorum detrimentum accipitur. XIX. Cum dispositis turmis in vicem rari proeliarentur neque ab lateribus circumveniri suos paterentur, erum-

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con astuzia, essi si ritirarono senza alcun danno per più di dieci miglia e posero il campo in una posizione molto forte. Da lì, disponendo spesso in agguato soldati e cavalieri, procurarono gravi danni ai Romani incaricati del rifornimento di foraggio. XVII. Ciò avveniva con grande frequenza, quando Cesare venne a sapere da un prigioniero che Correo, il capo dei Bellovaci, aveva scelto seimila tra i soldati più forti e mille tra tutti i cavalieri per tendere con essi un agguato dove pensava che i Romani, data l’abbondanza di foraggio e grano, avrebbero mandato a fare rifornimenti. Conosciuto il piano, Cesare fece uscire più legioni del solito e mandò avanti la cavalleria, così come di consueto, inviandola a sostegno dei foraggeri. Tra i cavalieri, pose soldati armati alla leggera ed egli si avvicinò più che poté con le legioni. XVIII. I nemici in agguato, che avevano scelto per combattere un campo non più largo, da ogni lato, di mille passi e difeso da selve impraticabili e da un fiume molto profondo, circondarono il luogo come per un appostamento di caccia. I nostri, che conoscevano il piano nemico e avevano l’animo e le armi pronti alla battaglia, sapendosi le legioni alle spalle, non rifiutarono il combattimento e arrivarono in quel luogo divisi in squadroni. Al loro arrivo Correo, pensando che gli si offriva l’occasione di combattere, si mostrò prima con pochi uomini e assalì le formazioni più vicine. I nostri sostennero l’urto con forza, ma senza raggrupparsi in una sola massa, come per lo più avviene nelle battaglie di cavalleria quando c’è qualcosa da temere: e allora grande danno è provocato dalla stessa moltitudine dei combattenti. XIX. Mentre gli squadroni combattevano in ordine rado, alternandosi a turno, e non lasciavano attaccare i

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punt ceteri Correo proeliante ex silvis. Fit magna contentione diversum proelium. Quod cum diutius pari Marte iniretur, paulatim ex silvis instructa multitudo procedit peditum, quae nostros cogit cedere equites. Quibus celeriter subveniunt levis armaturae pedites, quos ante legiones missos esse docui, turmisque nostrorum interpositi constanter proeliantur. Pugnatur aliquamdiu pari contentione; deinde, ut ratio postulabat proelii, qui sustinuerant primos impetus insidiarum hoc ipso fiunt superiores quod nullum ab insidiantibus inprudentes acceperant detrimentum. Accedunt propius interim legiones crebrique eodem tempore et nostris et hostibus nuntii adferuntur, imperatorem instructis copiis adesse. Qua re cognita praesidio cohortium confisi nostri acerrime proeliantur, ne, si tardius rem gessissent, victoriae gloriam communicasse cum legionibus viderentur. Hostes concidunt animis atque itineribus diversis fugam quaerunt. Nequiquam: nam quibus difficultatibus locorum Romanos claudere voluerant, iis tenebantur. Victi tandem perculsique maiore parte amissa consternati profugiunt partim silvis petitis, partim flumine, qui tamen in fuga a nostris acriter insequentibus conficiuntur, cum interim nulla calamitate victus Correus excedere proelio silvasque petere aut invitantibus nostris ad deditionem potuit adduci, quin fortissime proeliando conpluresque vulnerando cogeret elatos iracundia victores in se tela conicere. XX. Tali modo re gesta recentibus proelii vestigiis ingressus Caesar cum victos tanta calamitate existimaret hostes nuntio accepto locum castrorum relicturos, quae non longius ab ea caede abesse plus minus octo milibus dicebantur, tametsi flumine impeditum transitum vide-

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compagni ai fianchi, uscirono dalla selva tutti gli altri guidati da Correo. Si combatté aspramente dalle due parti. L’esito fu a lungo incerto; ma ecco che a poco a poco avanzarono le truppe schierate nelle selve e costrinsero i nostri cavalieri a ripiegare. Ad essi subito portarono aiuto i soldati armati alla leggera che, come si è detto, erano stati mandati avanti alle legioni; essi, frammischiati ai nostri squadroni, lottarono accanitamente contro il nemico. Per un po’ si combatté con pari ardore; poi, come è proprio di queste battaglie, quelli che avevano sostenuto i primi attacchi da parte dei barbari in agguato, ebbero la meglio, proprio per il fatto che non erano stati colti di sorpresa. Frattanto si avvicinavano le legioni e nello stesso tempo ai nostri e ai nemici ne giungeva notizia. A questo annunzio i Romani, fiduciosi nell’aiuto di Cesare, presero a combattere col massimo slancio, per evitare di dover dividere la gloria e il merito della vittoria con le legioni; i nemici si perdettero d’animo e fuggirono da tutte le parti. Invano, però, perché erano ostacolati essi stessi dalle difficoltà di quei luoghi dove avrebbero voluto chiudere i Romani. Così, vinti e sbigottiti dalla perdita della maggior parte dei compagni, si volsero in fuga, chi verso le selve, chi verso il fiume e i nostri li inseguirono con foga, facendone strage. Correo in tanta sciagura non si lasciò risolvere a tentare la fuga verso i boschi, né si lasciò indurre dalle esortazioni dei nostri alla resa: anzi, combattendo con grande coraggio, colpì parecchi soldati romani, costringendo i vincitori, incolleriti, a farlo bersaglio dei loro dardi. XX. Conclusasi in questo modo la battaglia, Cesare arrivò che erano ancora recenti i segni del combattimento; pensò allora che, dopo tanta disgrazia, i nemici, appena ne avessero avuta notizia, avrebbero abbandonato l’accampamento che si diceva non più lontano di otto miglia dal luogo della strage, e, sebbene la strada fosse

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bat, tamen exercitu traducto progreditur. At Bellovaci reliquaeque civitates repente ex fuga paucis atque his vulneratis receptis, qui silvarum beneficio casum evitaverant, omnibus adversis, cognita calamitate, interfecto Correo, amisso equitatu et fortissimis peditibus, cum adventare Romanos existimarent, concilio repente cantu tubarum convocato conclamant, legati obsidesque ad Caesarem mittantur. XXI. Hoc consilio omnibus probato Commius Atrebas ad eos confugit Germanos a quibus ad id bellum auxilia mutuatus erat. Ceteri e vestigio mittunt ad Caesarem legatos petuntque ut ea poena sit contentus hostium quam, si sine dimicatione inferre integris posset, pro sua clementia atque humanitate numquam profecto esset inlaturus. Adflictas opes equestri proelio Bellovacorum esse; delectorum peditum multa milia interisse, vix refugisse nuntios caedis. Tamen magnum, ut in tanta calamitate, Bellovacos eo proelio commodum esse consecutos, quod Correus, auctor belli, concitator multitudinis, esset interfectus. Numquam enim senatum tantum in civitate illo vivo quantum imperitam plebem potuisse. XXII. Haec orantibus legatis commemorat Caesar: eodem tempore superiore anno Bellovacos ceterasque Galliae civitates suscepisse bellum; pertinacissime hos ex omnibus in sententia permansisse neque ad sanitatem reliquorum deditione esse perductos. Scire atque

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ostacolata dal fiume, pure fece passare l’esercito. I Bellovaci e le altre genti, quando si videro arrivare inaspettatamente i pochi superstiti, anch’essi feriti, che si erano salvati con la fuga e protetti dai boschi e seppero l’esito disastroso della battaglia, conclusasi con una grande sconfitta; che Correo era morto; che la cavalleria e i più forti dei fanti erano perduti, pensarono che i Romani stavano certo avvicinandosi e, convocato con le trombe il consiglio, decisero a grande maggioranza che fossero mandati a Cesare ambasciatori e ostaggi. XXI. Quando questa proposta fu approvata, Commio atrebate si rifugiò presso quei Germani da cui aveva avuto aiuti per quella guerra. Gli altri mandarono subito ambasciatori a Cesare chiedendogli che egli si accontentasse, considerandoli come pena, dei danni che essi avevano subìto: egli certo, data la sua clemenza e umanità, non avrebbe mai richiesto una simile soddisfazione se anche avesse potuto imporla a un popolo nel pieno delle forze, arresosi senza combattere. Con quella battaglia, essi dissero, erano annientate le forze dei Bellovaci; molte migliaia di soldati scelti erano caduti, a stento erano ritornati i pochi che avevano dato notizia della strage. Ma pure, in così grande disgrazia, un vantaggio i Bellovaci avevano ottenuto, perché Correo, autore della rivolta, e istigatore del popolo, era stato ucciso: mai, infatti, mentre egli era vivo, l’assemblea dei principi aveva potuto, nel loro paese, avere il sopravvento sulla plebe ignorante. XXII. Agli ambasciatori che gli facevano questa preghiera, Cesare ricordò che i Bellovaci l’anno prima avevano preso le armi insieme a tutte le altre genti della Gallia e, più ostinatamente di tutti, erano rimasti nel loro proposito, né la resa degli altri li aveva condotti a più sano consiglio. Egli sapeva e capiva – aggiunse – che era

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intellegere se causam peccati facillime mortuis delegari. Neminem vero tantum pollere ut invitis principibus, resistente senatu, omnibus bonis repugnantibus infirma manu plebis bellum concitare et gerere posset; sed tamen se contentum fore ea poena quam sibi ipsi contraxissent. XXIII. Nocte insequenti legati responsa ad suos referunt, obsides conficiunt. Concurrunt reliquarum civitatum legati, quae Bellovacorum speculabantur eventum. Obsides dant, imperata faciunt excepto Commio, quem timor prohibebat cuiusquam fidei suam committere salutem. Nam superiore anno T. Labienus Caesare in Gallia citeriore ius dicente, cum Commium comperisset sollicitare civitates et coniurationem contra Caesarem facere, infidelitatem eius sine ulla perfidia iudicavit comprimi posse. Quem quia non arbitrabatur vocatum in castra venturum ne temptando cautiorem faceret, C. Volusenum Quadratum misit, qui eum per simulationem conloquii curaret interficiendum. Ad eam rem delectos idoneos ei tradidit centuriones. Cum in conloquium ventum esset et, ut convenerat, manum Commii Volusenus adripuisset, centurio vel insueta re permotus vel celeriter a familiaribus prohibitus Commii conficere hominem non potuit; graviter tamen primo ictu gladio caput percussit. Cum utrimque gladii destricti essent, non tam pugnandi quam diffugiendi fuit utrorumque consilium: nostrorum, quod mortifero vulnere Commium credebant adfectum, Gallorum, quod insidiis cognitis plura quam videbant extimescebant. Quo facto statuisse

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molto facile attribuire ai morti tutte le colpe. Nessuno, in realtà, è mai tanto potente da poter ideare e fare una guerra coll’incerto aiuto della sola plebe, quando i principi, il senato, tutti i migliori si oppongono: tuttavia egli si sarebbe accontentato della punizione che essi stessi si erano attirata. XXIII. La notte seguente gli ambasciatori riferirono all’assemblea la risposta e, pertanto, si radunarono gli ostaggi. Accorsero allora da Cesare anche gli ambasciatori delle altre genti, che stavano aspettando quel che sarebbe accaduto ai Bellovaci; consegnarono ostaggi ed ubbidirono agli ordini. Solo Commio si astenne dal farsi vedere, perché il timore gli proibiva di affidarsi a un Romano. L’anno prima, infatti, Tito Labieno, mentre Cesare teneva le sessioni giudiziarie in Italia, aveva saputo che Commio cercava di sollevare le genti in una lega contro Cesare; e Cesare pensò, quindi, che non sarebbe stato sleale il reprimere, anche violentemente, la sua infedeltà. Poiché credeva che se lo avesse mandato a chiamare egli non si sarebbe presentato, per non renderlo più guardingo col farne la prova, gli mandò Gaio Voluseno Quadrato col pretesto di volergli parlare, ma coll’ordine di ucciderlo, facendolo accompagnare da alcuni centurioni adatti a tale compito. Trovatisi a colloquio, Voluseno, così era stato stabilito come segnale, afferrò la mano di Commio, ma il centurione o perché colpito da quell’ufficio insolito o perché trattenuto subito dai familiari di Commio, non riuscì ad ucciderlo, pur avendolo ferito gravemente al capo con la spada. Gli uomini di entrambe le parti impugnarono le armi, più con l’idea di fuggire che di combattere: i nostri perché credevano che Commio fosse stato ferito a morte, i Galli perché, compreso che era stato teso un tranello, temevano che altre insidie fossero ancora celate. Si diceva che dopo questo episo-

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Commius dicebatur numquam in conspectum cuiusquam Romani venire. XXIV. Bellicosissimis gentibus devictis Caesar cum videret nullam iam esse civitatem, quae bellum pararet quo sibi resisteret, sed non nullos ex oppidis demigrare, ex agris diffugere ad praesens imperium evitandum, plures in partes exercitum dimittere constituit. M. Antonium quaestorem cum legione duodecima sibi coniungit. C. Fabium legatum cum cohortibus XXV mittit in diversissimam partem Galliae, quod ibi quasdam civitates in armis esse audiebat, neque C. Caninium Rebilum legatum, qui in illis regionibus erat, satis firmas duas legiones habere existimabat. T. Labienum ad se evocat; legionem autem XV., quae cum eo fuerat in hibernis, in togatam Galliam mittit ad colonias civium Romanorum tuendas, ne quod simile incommodum accideret decursione barbarorum ac superiore aestate Tergestinis acciderat, qui repentino latrocinio atque impetu [incolae] illorum erant oppressi. Ipse ad vastandos depopulandosque fines Ambiorigis proficiscitur; quem perterritum ac fugientem cum redigi posse in suam potestatem desperasset, proximum suae dignitatis esse ducebat, adeo fines eius vastare civibus, aedificiis, pecore, ut odio suorum Ambiorix, si quos fortuna reliquos fecisset, nullum reditum propter tantas calamitates haberet in civitatem. XXV. Cum in omnes partes finium Ambiorigis aut auxilia dimisisset atque omnia caedibus, incendiis, rapinis vastasset, magno numero hominum interfecto aut capto Labienum cum duabus legionibus in Treveros mittit; quorum civitas propter Germaniae vicinitatem cotidianis exercitata bellis cultu et feritate non multum a Ger-

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dio Commio aveva stabilito di non presentarsi mai più davanti a un Romano. XXIV. Vinte quelle genti bellicose, Cesare vide che nessun popolo preparava più la guerra per resistergli, ma che molti si allontanavano dalle città e fuggivano dai campi per sottrarsi al nuovo governo. Stabilì di ripartire l’esercito fra diverse regioni: congiunse alle sue forze le due legioni del questore Marco Antonio; mandò il legato C. Fabio con venticinque coorti nella zona più lontana della Gallia, perché gli era giunta voce che alcune di quelle genti erano in armi e non credeva che fossero abbastanza forti le due legioni del legato G. Caninio Rebilo, che era già in quelle terre. Chiamò T. Labieno, e mandò la legione quindicesima (che aveva svernato con lui) nella Gallia cisalpina, a tutela delle colonie dei cittadini romani, per evitare che incorressero, per incursioni di barbari, in qualche danno simile a quello che nell’estate precedente era toccato ai Tergestini che, inaspettatamente, avevano subìto irruzioni e rapine. Per parte sua, partì per andare a devastare e saccheggiare le terre di Ambiorige: questi errava atterrito e Cesare non sperava più di potersi impadronire di lui; ritenne perciò che la cosa migliore per il suo prestigio fosse quella di devastare il suo paese, distruggendo uomini, costruzioni, bestiame, in modo che, odiato per tante disgrazie da tutti quelli che la fortuna avrebbe lasciati in vita, egli non avrebbe più avuto la possibilità di tornare in patria. XXV. Mandò, dunque, in tutte le direzioni nelle terre di Ambiorige legioni o truppe ausiliarie, che distrussero ogni cosa con stragi, incendi, rapine e presero prigionieri o uccisero un grande numero di abitanti; poi mandò Labieno con due legioni nel territorio dei Treveri, popolo che per il continuo stato di guerra e la vicinanza coi Germani non era molto dissimile da loro per civiltà e fe-

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manis differebat neque imperata umquam nisi exercitu coacta faciebat. XXVI. Interim C. Caninius legatus, cum magnam multitudinem convenisse hostium in fines Pictonum litteris nuntiisque Durati cognosceret, qui perpetuo in amicitia manserat Romanorum, cum pars quaedam civitatis eius defecisset, ad oppidum Lemonum contendit. Quo cum adventaret atque ex captivis certius cognosceret multis hominum milibus a Dumnaco, duce Andium, Duratium clausum Lemoni oppugnari neque infirmas legiones hostibus committere auderet, castra posuit loco munito. Dumnacus, cum adpropinquare Caninium cognosset, copiis omnibus ad legiones conversis castra Romanorum oppugnare instituit. Cum complures dies in oppugnatione consumpsisset et magno suorum detrimento nullam partem munitionum convellere potuisset, rursus ad obsidendum Lemonum redit. XXVII. Eodem tempore C. Fabius legatus conplures civitates in fidem recipit, obsidibus firmat litterisque Canini fit certior quae in Pictonibus gerantur. Quibus rebus cognitis proficiscitur ad auxilium Duratio ferendum. At Dumnacus adventu Fabii cognito desperata salute, si tempore eodem coactus esset et Romanum et externum sustinere hostem et respicere ac timere oppidanos, repente ex eo loco cum copiis recedit nec se satis tutum fore arbitratur, nisi flumen Ligerim, quod erat ponte propter magnitudinem transeundum, copias traduxisset. Fabius, etsi nondum in conspectum hostium venerat neque se Caninio coniunxerat, tamen doctus ab iis qui locorum noverant naturam, potissimum credidit hostes

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rocia e non ubbidiva se non costretto dalla forza di un esercito. XXVI. Frattanto il legato Gaio Caninio da una lettera e un messaggio di Durazio, che sempre era rimasto fedele ai Romani, mentre un altro partito del suo popolo si era ribellato, saputo che un grande numero di uomini si era radunato nel territorio dei Pictoni, partì verso la città di Lemono. Quando stava per giungervi venne a sapere da alcuni prigionieri notizie più precise: che, cioè, Durazio era chiuso in Lemono e assediato da Dumnaco, capo degli Andi, che aveva con sé molte migliaia di soldati. Allora non osando arrischiare in uno scontro coi nemici le sue legioni poco agguerrite, si accampò in una forte posizione. Dumnaco, saputo che Caninio si avvicinava, rivolse tutte le sue forze contro di lui ed assalì il campo romano. Dopo vari giorni di vani attacchi, che gli costarono grosse perdite senza riuscire ad intaccare in nessun punto le difese, tornò ad assediare Lemono. XXVII. Nello stesso tempo il legato C. Fabio che aveva accettato la resa di parecchie popolazioni e le aveva legate a sé con ostaggi, da una lettera di Gaio Caninio Rebilo venne a sapere quel che avveniva tra i Pictoni e subito partì per portare aiuto a Durazio. Ma Dumnaco, appena seppe che Fabio stava per arrivare, perdette la speranza di vincere dato che, nello stesso tempo, oltre a questo nuovo nemico, doveva far fronte anche alle legioni di Caninio alle sue spalle e doveva tener d’occhio e temere gli assediati. Subito si ritirò con le sue truppe, né ritenne di essere al sicuro prima di avere portato i suoi armati oltre la Loira che per l’abbondanza d’acqua poteva essere attraversata solo sul ponte. Fabio, sebbene fosse ancora lontano dai nemici, e non si fosse ricongiunto con Caninio, prese informazioni da quelli che conoscevano il paese, ritenne cosa probabile che i barbari

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perterritos eum locum quem petebant petituros. Itaque cum copiis ad eundem pontem contendit equitatumque tantum procedere ante agmen imperat legionum quantum, cum processisset, sine defatigatione equorum in eadem se reciperet castra. Consequuntur equites nostri, ut erat praeceptum, invaduntque Dumnaci agmen et fugientes perterritosque sub sarcinis in itinere adgressi magna praeda multis interfectis potiuntur. Ita re bene gesta se recipiunt in castra. XXVIII. Insequenti nocte Fabius equites praemittit sic paratos ut confligerent atque omne agmen morarentur, dum consequeretur ipse. Cuius praeceptis ut res gereretur Q. Atius Varus, praefectus equitum, singularis et animi et prudentiae vir, suos hortatur agmenque hostium consecutus turmas partim idoneis locis disponit, partim equitum proelium committit. Confligit audacius equitatus hostium succedentibus sibi peditibus, qui toto agmine subsistentes equitibus suis contra nostros ferunt auxilium. Fit proelium acri certamine. Namque nostri contemptis pridie superatis hostibus, cum subsequi legiones meminissent, et pudore cedendi et cupiditate per se conficiendi proelii fortissime contra pedites proeliantur, hostesque nihil amplius copiarum accessurum credentes, ut pridie cognoverant, delendi equitatus nostri nacti occasionem videbantur. XXIX. Cum aliquandiu summa contentione dimicaretur, Dumnacus instruit aciem, quae suis esset equitibus in vicem praesidio, cum repente confertae legiones in

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atterriti sarebbero andati proprio là dove in realtà si dirigevano. Perciò si avviò con le sue truppe verso il medesimo ponte, ordinando alla cavalleria di precedere le legioni in misura tale che, senza stancare i cavalli, potesse ritirarsi, se necessario, nello stesso accampamento. I cavalieri, secondo l’ordine ricevuto, inseguirono e raggiunsero le schiere di Dumnaco; assalirono quei nemici già in fuga, atterriti e, per di più, impacciati dai bagagli; uccisero molti uomini e si impadronirono di un grosso bottino. Poi compiuta brillantemente l’azione rientrarono al campo. XXVIII. La notte successiva Fabio mandò avanti la cavalleria con l’ordine di iniziare il combattimento e trattenere la colonna nemica fino a quando non fosse arrivato lui. Per attenersi a questi ordini, Quinto Azio Varo, prefetto dei cavalieri, uomo di coraggio e senno straordinario, esortati i suoi, quando raggiunse i nemici, fece occupare da parte degli squadroni posizioni favorevoli e con gli altri attaccò battaglia. La cavalleria dei nemici reagì con grande audacia, sostenuta dalle truppe a piedi, fermatesi con tutta la colonna. La battaglia fu accanita. I nostri, disprezzando i nemici che già il giorno prima avevano vinto e sicuri che le legioni erano alle spalle, un po’ perché si sarebbero disonorati se avessero ceduto, un po’ per ambizione di concludere da soli la battaglia, combattevano con grandissimo ardore contro la fanteria; d’altra parte i nemici che, dall’esperienza del giorno prima, non sospettavano che altre forze sarebbero giunte, credevano di aver l’occasione propizia per distruggere la nostra cavalleria. XXIX. Si combatteva già da qualche tempo, con grande accanimento, quando Dumnaco ordinò lo schieramento in battaglia della fanteria, in modo che essa potesse, a turno, portare aiuto ai cavalieri, quand’ecco, all’improv-

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conspectum hostium veniunt. Quibus visis perculsae barbarorum turmae ac perterrita acies hostium perturbato inpedimentorum agmine magno clamore discursuque passim fugae se mandant. At nostri equites, qui paulo ante cum resistentibus fortissime conflixerant, laetitia victoriae elati magno undique clamore sublato cedentibus circumfusi, quantum equorum vires ad persequendum dextraeque ad caedendum valent, tantum eo proelio interficiunt. Itaque amplius milibus duodecim aut armatorum aut eorum qui timore arma proiecerant interfectis omnis multitudo capitur inpedimentorum. XXX. Qua ex fuga cum constaret Drappetem Senonem, qui, ut primum defecerat Gallia, collectis undique perditis hominibus, servis ad libertatem vocatis, exulibus omnium civitatum ascitis, repentinis latrociniis inpedimenta et commeatus Romanorum interceperat, non amplius hominum duobus milibus ex fuga collectis provinciam petere unaque consilium cum eo Lucterium Cadurcum cepisse, quem superiore commentario prima defectione Galliae facere in provinciam voluisse impetum cognitum est, Caninius legatus cum legionibus duabus ad eos persequendos contendit, ne detrimento aut timore provinciae magna infamia perditorum hominum latrociniis caperetur. XXXI. C. Fabius cum reliquo exercitu in Carnutes ceterasque proficiscitur civitates, quarum eo proelio quod cum Dumnaco fecerat copias esse accisas sciebat. Non enim dubitabat quin recenti calamitate submissiores essent futurae, dato vero spatio ac tempore eodem instigante Dumnaco possent concitari. Qua in re summa fe-

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viso, apparire le legioni in ordine serrato. Grande turbamento si diffuse nella cavalleria dei barbari, il terrore nella fanteria schierata, la confusione e lo spavento nella colonna delle salmerie; si levò un alto clamore e correndo disperatamente, tutti si diedero alla fuga. I nostri cavalieri, che poco prima avevano combattuto con foga contro forze che offrivano seria resistenza, imbaldanziti per la vittoria, circondarono con grandi grida i nemici già in rotta e ne fecero strage, finché le forze dei cavalli bastarono ad inseguire e le loro destre ad uccidere. Più di dodicimila uomini, armati o disarmati perché per la paura avevano gettate le armi, furono massacrati e l’intera colonna delle salmerie catturata. XXX. Si seppe quindi che Drappete senone (quello che appena scoppiata la ribellione della Gallia con forze composte di sbandati fatti venire da ogni parte, di schiavi emancipati, di esuli di tutte le genti e di banditi, aveva catturato una colonna di salmerie e provviste dei Romani), con non più di cinquemila uomini messi insieme dopo la fuga, si dirigeva verso la Provincia e, insieme a lui, faceva la stessa cosa Lucterio cadurco, che, come si è visto nel libro precedente, nel primo momento della ribellione avrebbe dovuto attaccare la Provincia. Il legato Caninio, allora, con due legioni partì all’inseguimento di costoro, per evitare che grande infamia ricadesse sui Romani se la Provincia fosse stata danneggiata o intimorita dal brigantaggio di quei criminali. XXXI. Gaio Fabio andò con il resto dell’esercito verso le terre dei Carnuti e degli altri popoli, le cui truppe egli sapeva che avevano avuto grandi danni nella battaglia combattuta contro Dumnaco; era infatti sicuro che si sarebbero mostrate meno fiere dopo la recente sconfitta; ma se avesse dato loro tempo di rimettersi, per istigazione di Dumnaco, potevano di nuovo solle-

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licitas celeritasque in recipiendis civitatibus Fabium consequitur. Nam Carnutes, qui saepe vexati numquam pacis fecerant mentionem, datis obsidibus veniunt in deditionem, ceteraeque civitates positae in ultimis Galliae finibus, Oceanoque coniunctae, quae Aremoricae appellantur, auctoritate adductae Carnutum adventu Fabii legionumque imperata sine mora faciunt. Dumnacus suis finibus expulsus errans latitansque solus extremas Galliae regiones petere est coactus. XXXII. At Drappes unaque Lucterius, cum legiones Caniniumque adesse cognoscerent nec se sine certa pernicie persequente exercitu putarent provinciae fines intrare posse nec iam libere vagandi latrociniorumque faciendorum facultatem haberent, in finibus consistunt Cadurcorum. Ibi cum Lucterius apud suos cives quondam integris rebus multum potuisset semperque auctor novorum consiliorum magnam apud barbaros auctoritatem haberet, oppidum Uxellodunum, quod in clientela fuerat eius, egregie natura loci munitum, occupat suis et Drappetis copiis oppidanosque sibi coniungit. XXXIII. Quo cum confestim C. Caninius venisset animadverteretque omnes oppidi partes praeruptissimis saxis esse munitas, quo defendente nullo tamen armatis ascendere esset difficile, magna autem inpedimenta oppidanorum videret, quae si clandestina fuga subtrahere conarentur, effugere non modo equitatum, sed ne legiones quidem possent, tripertito cohortibus divisis trina excelsissimo loco castra fecit; a quibus paulatim, quan-

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varsi. Fabio ebbe allora la fortuna di poter procedere rapidamente alla sottomissione di quelle popolazioni, perché i Carnuti, che, sebbene spesso danneggiati, mai si erano decisi a chiedere la pace, si arresero e consegnarono ostaggi. Le altre genti situate ai confini della Gallia e adiacenti all’Oceano, quelle chiamate Aremoriche, spinte dall’autorevole esempio dei Carnuti, all’arrivo di Fabio e delle legioni si sottomisero senz’altro. Dumnaco, cacciato dalle sue terre, fu costretto a errare solo e nascosto, dirigendosi verso le più lontane regioni della Gallia. XXXII. Drappete e Lucterio, invece, quando seppero che le legioni di Caninio erano vicine, pensando di non poter entrare nel territorio della Provincia senza correre serio pericolo, dal momento che i Romani li inseguivano, e di non avere più nemmeno la possibilità di vagare e rapinare liberamente, si fermarono nelle terre dei Cadurci. Qui Lucterio, che aveva goduto, quando tutto era tranquillo, di un gran prestigio presso i suoi e aveva ancora molta autorità fra i Galli, perché sapeva escogitare sempre nuovi progetti, occupò con le forze sue e di Drappete e guadagnando alla sua causa i cittadini, la città di Uxelloduno, molto salda per posizione naturale, già stata sotto la sua protezione. XXXIII. Gaio Caninio, giunto al più presto, osservò che la città era tutto intorno difesa da rocce a picco, per cui non sarebbe stato agevole impadronirsene anche se fosse stata priva di difensori; ma vide anche che nella città vi era una grande quantità di bagagli e che, se avessero tentato di portarli via fuggendo di nascosto, non avrebbero potuto sfuggire non solo alla cavalleria, ma neppure alle legioni stesse. Divise, allora, le coorti in tre gruppi, stabilì tre accampamenti in punti dominanti; e, partendo da essi, a poco a poco, secondo quanto glielo con-

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tum copiae patiebantur, vallum in oppidi circuitum ducere instituit. XXXIV. Quod cum animadverterent oppidani miserrimaque Alesiae memoria solliciti similem casum obsessionis vererentur, maximeque ex omnibus Lucterius, qui fortunae illius periculum fecerat, moneret frumenti rationem esse habendam, constituunt omnium consensu parte ibi relicta copiarum ipsi cum expeditis ad inportandum frumentum proficisci. Eo consilio probato proxima nocte duobus milibus armatorum relictis reliquos ex oppido Drappes et Lucterius educunt. Hi paucos dies morati ex finibus Cadurcorum, qui partim re frumentaria sublevare eos cupiebant, partim prohibere quo minus sumerent non poterant, magnum numerum frumenti conparant, non numquam autem expeditionibus nocturnis castella nostrorum adoriuntur. Quam ob causam Caninius toto oppido munitiones circumdare moratur, ne aut opus effectum tueri non possit aut plurimis in locis infirma disponat praesidia. XXXV. Magna copia frumenti conparata considunt Drappes et Lucterius non longius ab oppido X milibus, unde paulatim frumentum in oppidum supportarent. Ipsi inter se provincias partiuntur: Drappes castris praesidio cum parte copiarum resistit, Lucterius agmen iumentorum ad oppidum ducit. Dispositis ibi praesidiis hora noctis circiter decima silvestribus angustisque itineribus frumentum inportare in oppidum instituit. Quorum strepitum vigiles castrorum cum sensissent explo-

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sentivano le forze di cui disponeva, fece costruire un trinceramento tutto intorno alla città. XXXIV. Quando i cittadini se ne accorsero, preoccupati dal ricordo tristissimo di Alesia, temettero di incorrere negli stessi rischi di un assedio e tra tutti Lucterio, che si era trovato in quella pericolosa situazione, ammoniva che più d’ogni altra cosa era necessario provvedersi di grano: decisero così, unanimemente, di lasciare a presidio della città una parte dell’esercito e di andare essi stessi, con soldati armati alla leggera, a procurarsi frumento. Presa questa deliberazione, nella notte successiva Drappete e Lucterio portarono fuori dalla città i loro soldati, lasciandovene solo duemila; in pochi giorni raccolsero una grande quantità di grano nelle terre dei Cadurci, i quali in parte li aiutavano volentieri a rifornirsi di vettovaglie, in parte non poterono opporsi a che se ne impadronissero; di tanto in tanto, poi, con assalti notturni attaccarono i ridotti dei nostri. Per questa ragione Gaio Caninio rallentò i lavori che avrebbero dovuto eseguirsi per circondare di fortificazioni tutta la città, temendo di non poterne assicurare la difesa o che, se avesse collocato troppo numerosi posti isolati, non avrebbe potuto assegnare loro che troppo deboli presidi. XXXV. Dopo avere raccolto una grande quantità di grano, Drappete e Lucterio si fermarono a non più di dieci miglia dalla città per portare da lì a poco a poco il grano dentro le mura. Si divisero tra loro gli incarichi: Drappete si fermò con una parte delle truppe a guardia dell’accampamento, Lucterio condusse la colonna dei giumenti verso la città. Collocati dei posti a protezione del suo movimento, alle dieci circa di notte, Lucterio cominciò a portare il frumento verso Uxelloduno attraverso sentieri tra i boschi. Ma le sentinelle dei campi romani udirono il rumore e, quando gli esploratori mandati in rico-

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ratoresque missi quae gererentur renuntiassent, Caninius celeriter cum cohortibus armatis ex proximis castellis in frumentarios sub ipsam lucem impetum facit. Ii repentino malo perterriti diffugiunt ad sua praesidia; quae nostri ut viderunt, acrius contra armatos incitati neminem ex eo numero vivum capi patiuntur. Profugit inde cum paucis Lucterius nec se recipit in castra. XXXVI. Re bene gesta Caninius ex captivis comperit partem copiarum cum Drappete esse in castris a milibus non amplius XII. Qua re ex compluribus cognita, cum intellegeret fugato duce altero perterritos reliquos facile opprimi posse, magnae felicitatis esse arbitrabatur neminem ex caede refugisse in castra, qui de accepta calamitate nuntium Drappeti perferret, sed in experiundo cum periculum nullum videret, equitatum omnem Germanosque pedites, summae velocitatis homines, ad castra hostium praemittit; ipse legionem unam in trina castra distribuit, alteram secum expeditam ducit. Cum propius hostes accessisset, ab exploratoribus quos praemiserat cognoscit castra eorum, ut barbarorum fere consuetudo est, relictis locis superioribus ad ripas esse fluminis demissa, at Germanos equitesque inprudentibus omnibus de improviso advolasse proeliumque commisisse. Qua re cognita legionem armatam instructamque adducit. Ita repente omnibus ex partibus signo dato loca superiora capiuntur. Quod ubi accidit, Germani equitesque signis legionis visis vehementissime proeliantur. Confestim cohortes undique impetum faciunt omnibusque aut interfectis aut captis magna praeda potiuntur. Capitur ipse eo proelio Drappes.

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gnizione riferirono quello che accadeva, Caninio, all’alba, colle coorti dei ridotti più vicini, già pronte in armi, attaccò i portatori di grano. Costoro, atterriti dall’assalto improvviso, si rifugiarono presso i loro posti di protezione, ma i nostri li attaccarono con maggiore accanimento quando videro trattarsi di nemici armati, e li distrussero, senza prendere un solo prigioniero. Lucterio riuscì con pochi a fuggire, ma non si ritirò nel campo. XXXVI. Portata a termine, con successo, questa operazione, Caninio seppe dai prigionieri che una parte delle truppe era con Drappete nell’accampamento a non più di dodici miglia. Parecchi gli confermarono questa notizia. Allora pensò che, dopo la sconfitta di uno dei due capi, non sarebbe stato difficile vincere anche l’altro: credeva, però, che sarebbe stato ben poco probabile che nessuno degli scampati alla strage fosse ritornato da Drappete ad annunziargli la sconfitta subita. Ad ogni modo non vedeva nessun rischio nel tentativo di sorprendere il gruppo di costui. Perciò mandò avanti contro il campo nemico tutta la cavalleria e i fanti Germani, che erano velocissimi; poi divise una legione nei tre accampamenti e condusse con sé l’altra senza bagagli. Quando fu vicino ai nemici, seppe dagli esploratori, che aveva mandato avanti, che il campo loro, secondo l’uso dei barbari, non era stato posto sui colli, ma in basso, presso le rive del fiume, e che i Germani e i cavalieri, cogliendoli alla sprovvista, erano piombati loro addosso e avevano attaccato battaglia. Allora, portò avanti la legione in armi e schierata. All’improvviso, dato il segnale, fece occupare tutte le posizioni elevate: i Germani e i cavalieri, viste le insegne delle legioni, combatterono col massimo slancio, mentre le coorti attaccarono da ogni lato, uccisero o catturarono tutti i nemici ed un ingente bottino. Anche Drappete fu fatto prigioniero in quello scontro.

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XXXVII. Caninius re felicissime gesta sine ullo paene militis vulnere ad obsidendos oppidanos revertitur externoque hoste deleto, cuius timore antea dividere praesidia et munitione oppidanos circumdare prohibitus erat, opera undique imperat administrari. Venit eodem cum suis copiis postero die C. Fabius partemque oppidi sumit ad obsidendum. XXXVIII. Caesar interim M. Antonium quaestorem cum cohortibus XV in Bellovacis relinquit, ne qua rursus novorum consiliorum capiendorum Belgis facultas daretur. Ipse reliquas civitates adit, obsides plures imperat, timentes omnium animos consolatione sanat. Cum in Carnutes venisset, quorum in civitate superiore commentario Caesar exposuit initium belli esse ortum, quod praecipue eos propter conscientiam facti timere animadvertebat, quo celerius civitatem timore liberaret, principem sceleris illius et concitatorem belli, Gutuatrum, ad supplicium deposcit. Qui etsi ne civibus quidem suis se committebat, tamen celeriter omnium cura quaesitus in castra perducitur. Cogitur in eius supplicium Caesar contra suam naturam concursu maximo militum qui ei omnia pericula et detrimenta belli [a Gutruato] accepta referebant, adeo ut verberibus exanimatum corpus securi feriretur. XXXIX. Ibi crebris litteris Caninii fit certior quae de Drappete et Lucterio gesta essent quoque in consilio permanerent oppidani. Quorum etsi paucitatem contemnebat, tamen pertinaciam magna poena esse adfi-

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XXXVII. Compiuta con così felice esito questa azione, senza che quasi nessun soldato fosse ferito, Caninio riprese di nuovo l’assedio della città. Eliminato il timore di un attacco alle spalle, per paura del quale prima non aveva potuto dividere le sue truppe fra i numerosi posti di vigilanza occorrenti per l’investimento della città, fece riprendere da ogni parte il lavoro. Il giorno dopo arrivò pure Gaio Fabio con le sue legioni e si prese l’incarico di un settore delle fortificazioni che circondavano la città. XXXVIII. Intanto Cesare lasciò il questore M. Antonio con quindici coorti tra i Bellovaci, per non dare ai Belgi la possibilità di progettare nuove rivolte e quindi visitò le altre genti, impose più numerosi ostaggi, calmò gli animi timorosi di tutti. Quando arrivò dai Carnuti, nelle cui terre, come Cesare ha narrato nel precedente commentario, era nato il primo focolaio della rivolta, poiché capiva che questi, consapevoli della loro colpevolezza, erano più spaventati di tutti, per tranquillizzarne gli spiriti al più presto, richiese, per giustiziarlo, Gutruato, che era stato l’agitatore del popolo e l’istigatore della guerra: sebbene costui restasse nascosto, non osando affidarsi neppure ai suoi concittadini, ricercato da tutti con zelo, fu consegnato a Cesare, che, nonostante la sua naturale clemenza, si vide costretto ad abbandonarlo alla giustizia dei suoi soldati che incolpavano Gutruato di tutti i pericoli, le pene e le fatiche della guerra; colpito dalle verghe fino a perdere conoscenza, fu poi decapitato con la scure. XXXIX. Là gli giunsero lettere di Caninio che lo informavano di quel che era successo contro Drappete e Lucterio e di come i cittadini di Uxelloduno persistevano nella decisione di difendersi. Cesare pensava che il numero di costoro fosse trascurabile, tuttavia giudicava

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ciendam iudicabat, ne universa Gallia non sibi vires defuisse ad resistendum Romanis, sed constantiam putaret, neve hoc exemplo ceterae civitates locorum opportunitate fretae se vindicarent in libertatem, cum omnibus Gallis notum esse sciret reliquam esse unam aestatem suae provinciae, quam si sustinere potuissent, nullum ultra periculum vererentur. Itaque Q. Calenum legatum cum legionibus duabus reliquit, qui iustis itineribus se subsequeretur; ipse cum omni equitatu quam potest celerrime ad Caninium contendit. XL. Cum contra exspectationem omnium Caesar Uxellodunum venisset oppidumque operibus clausum animadverteret neque ab oppugnatione recedi videret ulla condicione posse, magna autem copia frumenti abundare oppidanos ex perfugis cognosset, aqua prohibere hostem temptare coepit. Flumen infimam vallem dividebat, quae totum paene montem cingebat, in quo positum erat [praeruptum undique oppidum] Uxellodunum. Hoc avertere loci natura prohibebat; in infimis enim sic radicibus montis ferebatur, ut nullam in partem depressis fossis derivari posset. Erat autem oppidanis difficilis et praeruptus eo descensus, ut prohibentibus nostris sine vulneribus ac periculo vitae neque adire flumen neque arduo se recipere possent ascensu. Qua difficultate eorum cognita Caesar sagittariis funditoribusque dispositis, tormentis etiam quibusdam locis contra facillimos descensus conlocatis, aqua fluminis prohibebat oppidanos.

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di dover punire con severità la loro ostinazione, per evitare che i Galli avessero a ritenere che non la forza, ma la costanza, era loro mancata nella lotta contro Roma e che altre genti, sull’esempio di costoro, si avvalessero di posizioni particolarmente forti per resistere ai Romani; tanto più che egli sapeva come fosse noto in tutta la Gallia che quello era l’ultimo anno del suo proconsolato e che, se i Galli avessero saputo resistere per questo periodo, non avrebbero dovuto temere più nessun pericolo. Perciò lasciò Q. Caleno con due legioni, con l’ordine di seguirlo con marce regolari ed egli, con tutta la cavalleria, si diresse, alla massima velocità, alla volta di Caninio. XL. Giunto ad Uxelloduno mentre nessuno lo aspettava, Cesare trovò la città circondata dalla linea di fortificazioni e giudicò che a nessun patto si poteva abbandonare quell’assedio. Poiché seppe dai disertori che i cittadini avevano forti scorte di grano, esaminò se era possibile tagliare l’acqua ai nemici. Un fiume percorreva la parte più bassa della valle, cingendo quasi tutto il monte, aspro e scosceso, sul quale era posta la città di Uxelloduno. La conformazione del terreno impediva di deviare questo fiume, che scorreva così profondamente incassato alle radici del monte che non era possibile scavare canali di derivazione. Però i cittadini per raggiungere il fiume dovevano percorrere sentieri molto ripidi e malagevoli e se i nostri si fossero appostati in punti opportuni, essi non avrebbero potuto né scendere al fiume né risalire senza correre il rischio di essere colpiti dal tiro delle nostri armi. Cesare, resosi conto di questa difficoltà del nemico, collocò, allora, arcieri, frombolieri e macchine da lancio in punti tali, di fronte ai sentieri più facili, che riuscì così ad ostacolare agli assediati il rifornimento di acqua dal fiume.

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XLI. Quorum omnis postea multitudo aquatum in unum locum conveniebat sub ipsius oppidi murum ubi magnus fons aquae prorumpebat ab ea parte quae fere pedum trecentorum intervallo fluminis circuitu vacabat. Hoc fonte prohiberi posse oppidanos cum optarent reliqui, Caesar unus videret, e regione eius vineas agere adversus montem et aggerem exstruere coepit magno cum labore et continua dimicatione. Oppidani enim loco superiore decurrunt et eminus sine periculo proeliantur multosque pertinaciter succedentes vulnerant; non deterrentur tamen milites nostri vineas proferre et labore atque operibus locorum vincere difficultates. Eodem tempore cuniculos tectos ad venas agunt et caput fontis; quod genus operis sine ullo periculo, sine suspicione hostium facere licebat. Extruitur agger in altitudinem pedum LX, conlocatur in eo turris decem tabulatorum, non quidem quae moenibus adaequaret (id enim nullis operibus effici poterat), sed quae superare fontis fastigium posset. Ex ea cum tela tormentis iacerentur ad fontis aditum, nec sine periculo possent aquari oppidani, non tantum pecora atque iumenta, sed etiam magna hominum multitudo siti consumebatur. XLII. Quo malo perterriti oppidani cupas sevo, pice, scandulis complent; eas ardentes in opera provolvunt, eodemque tempore acerrime proeliantur, ut ab incendio restinguendo dimicationis periculo deterreant Romanos. Magna repente in ipsis operibus flamma exstitit. Quaecumque enim per locum praecipitem missa erant,

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XLI. Tutti gli abitanti della città si recavano, allora, ad attingere acqua ad una grossa sorgente che sgorgava sotto le mura della città, nella parte in cui, per uno spazio di trecento piedi, era interrotto il giro che il fiume faceva intorno alle mura. Tutti avrebbero voluto poter tenere lontani i cittadini anche da questa fonte e Cesare vide come si poteva riuscirvi: fece accostare sui fianchi del monte, proprio di fronte alla sorgente, gli schermi di legno ed innalzare un terrapieno, a prezzo di un faticoso lavoro e combattendo continuamente. I nemici, infatti, dalle loro posizioni dominanti e senza correre troppi rischi, combattevano da lontano, ferendo molti dei nostri che seguitavano ostinatamente ad accostarsi; tuttavia i legionari non si lasciarono distogliere dal portare avanti i ripari e dal superare con la fatica e i lavori le difficoltà naturali del terreno. Nello stesso tempo scavarono gallerie sotterranee in direzione della sorgente, opera cui potevano lavorare senza pericolo e senza sospetto da parte dei nemici. Il terrapieno raggiunse l’altezza di sessanta piedi e su di esso fu posta una torre di dieci piani, non tale certo da uguagliare le mura (ciò non poteva ottenersi con nessuna costruzione), ma tale da essere più alta del punto dove era la sorgente. Da questa torre con macchine da guerra venivano scagliati i dardi verso l’accesso della fonte e i cittadini non potevano attingere acqua senza pericolo: quindi non solo il bestiame e i cavalli, ma anche gli uomini cominciarono a soffrire la sete. XLII. Allarmati da questa minaccia, i nemici riempirono dei barili di sego, pece e assicelle, li incendiarono e li fecero rotolare contro le nostre difese, attaccando contemporaneamente battaglia con grande impeto per distogliere i Romani, impegnandoli in combattimento, dalle operazioni necessarie per spegnere le fiamme. Un grande incendio si levò dalle opere di difesa; infatti dovunque quei barili giungevano, rotolando per il ripido

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ea vineis et aggere suppressa conprehendebant id ipsum quod morabatur. Milites contra nostri quamquam periculoso genere proelii locoque iniquo premebantur, tamen omnia fortissimo sustinebant animo. Res enim gerebatur et excelso loco et in conspectu exercitus nostri magnusque utrimque clamor oriebatur. Itaque quisque prout erat maxime insignis, quo notior testatiorque virtus esset eius, telis hostium flammaeque se offerebat. XLIII. Caesar cum conplures suos vulnerari videret, ex omnibus oppidi partibus cohortes montem ascendere et simulatione moenium occupandorum clamorem undique iubet tollere. Quo facto perterriti oppidani, cum quid ageretur in locis reliquis essent suspensi, revocant ab inpugnandis operibus armatos murisque disponunt. Ita nostri fine proelii facto celeriter opera flamma conprehensa partim restinguunt, partim interscindunt. Cum pertinaciter resisterent oppidani, magna et iam parte amissa siti suorum in sententia permanerent, ad postremum cuniculis venae fontis intercisae sunt atque aversae. Quo facto repente perennis exaruit fons tantamque attulit oppidanis salutis desperationem, ut id non hominum consilio, sed deorum voluntate factum putarent. Itaque se necessitate coacti tradiderunt. XLIV. Caesar, cum suam lenitatem cognitam omnibus sciret neque vereretur ne quid crudelitate naturae videretur asperius fecisse, neque exitum consiliorum suorum animadverteret, si tali ratione diversis in locis plures consilia inissent, exemplo supplicii deterrendos reliquos existimavit. Itaque omnibus qui arma tulerant manus

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pendìo, trovavano l’ostacolo dei ripari in legno e del terrapieno, e incendiavano questi stessi ostacoli che li trattenevano. Ma i nostri soldati, sebbene fossero impegnati in una lotta pericolosa e per di più si trovassero svantaggiati per la posizione, fecero fronte al pericolo con forte animo. La battaglia si svolgeva in luogo elevato, grandi grida si alzavano da entrambe le parti e ciascun soldato, sapendo di combattere sotto lo sguardo di tutti, per far conoscere ai compagni il suo valore, si esponeva con audacia alle frecce dei nemici e alle fiamme. XLIII. Cesare, quando vide che troppi dei suoi erano colpiti, simulò un assalto generale alla città, ordinando alle coorti di salire il monte da tutte le parti e di lanciare alte grida per far credere ai nemici che in qualche punto già si fosse in procinto di conquistare le mura. Allora i capi, atterriti, richiamarono i soldati dall’attacco esterno e li disposero a difesa delle mura. Così i nostri, interrotto il combattimento, riuscirono ad isolare le fiamme ed a spegnere gli incendi. Ma i cittadini resistevano con tenacia e sebbene molti fossero morti di sete, non cedevano: finalmente, per mezzo delle gallerie sotterranee, le vene che alimentavano la sorgente furono interrotte o deviate e la sorgente inaridì. Tanta disperazione prese allora gli assediati, che ascrissero ciò non a disegno umano, ma a volontà divina. E così, vinti dalla necessità, si arresero. XLIV. Cesare sapeva che la sua clemenza era nota a tutti e non temeva di essere accusato di crudeltà se anche avesse preso i provvedimenti più severi; capiva anche che non avrebbe mai portato a termine i suoi disegni se popolazioni delle varie regioni della Gallia continuavano in tal modo a ribellarsi: credette opportuno, pertanto, atterrire gli altri dando un esempio di castigo severissimo. Perciò a tutti quelli che avevano impugnato le ar-

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praecidit vitamque concessit, quo testatior esset poena inproborum. Drappes, quem captum esse a Caninio docui, sive indignitate et dolore vinculorum sive timore gravioris supplicii paucis diebus cibo se abstinuit atque ita interiit. Eodem tempore Lucterius, quem profugisse ex proelio scripsi, cum in potestatem venisset Epasnacti Arverni (crebro enim mutandis locis multorum fidei se committebat, quod nusquam diutius sine periculo commoraturus videbatur, cum sibi conscius esset quam inimicum deberet Caesarem habere), hunc Epasnactus Arvernus, amicissimus populi Romani, sine dubitatione ulla vinctum ad Caesarem deduxit. XLV. Labienus interim in Treveris equestre proelium facit secundum compluribusque Treveris interfectis et Germanis, qui nullis adversus Romanos auxilia denegabant, principes eorum vivos redigit in suam potestatem atque in his Surum Haeduum, qui et virtutis et generis summam nobilitatem habebat solusque ex Haeduis ad id tempus permanserat in armis. XLVI. Ea re cognita Caesar cum in omnibus partibus Galliae bene res geri videret iudicaretque superioribus aestivis Galliam devictam subactamque esse, Aquitaniam numquam ipse adisset, sed per P. Crassum quadam ex parte devicisset, cum duabus legionibus in eam partem Galliae est profectus, ut ibi extremum tempus consumeret aestivorum. Quam rem sicuti cetera celeriter feliciterque confecit. Namque omnes Aquitaniae civitates legatos ad Caesarem miserunt obsidesque ei dederunt. Quibus rebus gestis ipse cum equitum praesidio Narbonem profectus est, exercitum per legatos in hiberna deduxit: quattuor legiones in Belgio conlocavit cum M. Antonio et C. Trebonio et P. Vatinio legatis, duas le-

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mi contro i Romani fece amputare le mani, lasciando loro la vita perché potessero maggiormente testimoniare come i Romani punivano i ribelli. Drappete, che, come ho detto, era stato fatto prigioniero da Caninio, per non sopportare la vergogna e il dolore della prigionia o perché temeva di essere crudelmente suppliziato, non toccò cibo per vari giorni e morì di fame. Nello stesso tempo Lucterio, fuggito dalla battaglia, dopo aver continuato per un pezzo a mutar luogo senza affidarsi alla stessa persona se non per pochi giorni, perché sapeva come Cesare gli doveva essere nemico, finì per mettersi nelle mani dell’arverno Epasnacto, che, molto amico dei Romani, non esitò a consegnarlo, prigioniero, a Cesare. XLV. Intanto Labieno nelle terre dei Treveri combatté una favorevole battaglia di cavalleria, uccise parecchi Treveri e Germani, che non negavano mai aiuti a nessuno contro i Romani; catturò diversi loro capi e fra questi l’eduo Suro, nobile di nascita e valoroso, che era il solo degli Edui rimasto fino allora in armi. XLVI. A questa notizia, Cesare, vedendo che tutte le azioni, dovunque, si erano svolte brillantemente e giudicando che la Gallia dopo le operazioni dell’estate passata era vinta e sottomessa, partì con due legioni verso l’Aquitania, dove mai egli era stato, ma che aveva sottomessa in parte per l’opera di Publio Crasso, intendendo trascorrere, in tale regione, l’ultimo periodo di quella stagione estiva. Anche ciò, come tutto il resto, portò a compimento con rapidità e fortuna. Infatti, tutte le genti dell’Aquitania gli mandarono delegazioni e gli consegnarono ostaggi. Dopo di che, accompagnato da una scorta di cavalleria, partì per Narbona e fece condurre dai suoi legati l’esercito negli alloggiamenti invernali: collocò quattro legioni tra i Belgi, coi legati Marco Antonio, C. Trebonio e P. Vatinio; fece andare due legioni

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giones in Haeduos deduxit, quorum in omni Gallia summam esse auctoritatem sciebat, duas in Turonis ad fines Carnutum posuit, quae omnem illam regionem coniunctam Oceano continerent, duas reliquas in Lemovicum finibus non longe ab Arvernis, ne qua pars Galliae vacua ab exercitu esset. Paucos dies ipse in provincia moratus, cum celeriter omnes conventus percucurrisset, publicas controversias cognosset, bene meritis praemia tribuisset (cognoscendi enim maximam facultatem habebat quali quisque fuisset animo in totius Galliae defectione, quam sustinuerat fidelitate atque auxiliis provinciae illius), his confectis rebus ad legiones in Belgium se recepit hibernavitque Nemetocennae. XLVII. Ibi cognoscit Commium Atrebatem proelio cum equitatu suo contendisse. Nam cum Antonius in hiberna venisset civitasque Atrebatum in officio esset, Commius, qui post illam vulnerationem quam supra commemoravi semper ad omnes motus paratus suis civibus esse consuesset, ne consilia belli quaerentibus auctor armorum duxque deesset, parente Romanis civitate cum suis equitibus latrociniis se suosque alebat infestisque itineribus commeatus conplures, qui comportabantur in hiberna Romanorum, intercipiebat. XLVIII. Erat attributus Antonio praefectus equitum C. Volusenus Quadratus, qui cum eo hibernaret. Hunc Antonius ad persequendum equitatum hostium mittit. Volusenus ad eam virtutem, quae singularis erat in eo, magnum odium Commii adiungebat, quo libentius id faceret quod imperabatur. Itaque dispositis insidiis saepius equites eius adgressus secunda proelia faciebat. Novissi-

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tra gli Edui, che ben sapeva di quanto prestigio godessero in tutta la Gallia; due tra i Turoni, presso i confini dei Carnuti, per tenere a freno tutta la regione confinante con l’Oceano; sistemò le altre due legioni sulle terre dei Lemovici, non lontano dagli Arverni, perché nessuna zona della Gallia rimanesse senza presidi romani. Egli si fermò per pochi giorni nella Provincia, a visitare rapidamente tutte le sedi delle assemblee giudiziarie, informarsi delle questioni politiche e dare premi ai benemeriti: aveva, infatti, avuto la possibilità di venire a sapere quale era stato l’atteggiamento di ciascuno durante la generale sollevazione della Gallia, a cui egli aveva fatto fronte fidando nella fedeltà e negli aiuti di quella Provincia. Successivamente si recò presso le legioni che erano tra i Belgi e passò l’inverno a Nemetocenna. XLVII. Là venne a sapere che Commio atrebate era venuto a battaglia con la sua cavalleria. Dopo l’arrivo di Antonio nei suoi quartieri d’inverno, gli Atrebati si erano mantenuti tranquilli; ma Commio che, dopo essere stato ferito, come sopra ho detto, era sempre pronto ad offrirsi alla frazione turbolenta dei suoi concittadini, quale comandante di guerra, vedendo la sua gente sottomessa, e ubbidiente ai Romani, si era dato, con i suoi cavalieri, ad atti di brigantaggio, ad agguati sulle strade, ed aveva, tra l’altro, intercettato parecchi carichi di vettovaglie diretti agli accampamenti dei Romani. XLVIII. Era stato assegnato ad Antonio, come prefetto della cavalleria, C. Voluseno Quadrato, che al valore, che in lui era straordinario, univa un grande odio contro Commio. A lui Antonio affidò il compito di inseguire la cavalleria nemica. Voluseno, perciò, ben volentieri si dispose ad eseguire l’ordine. Disposti degli agguati, riuscì a venire a contatto e ad attaccare, con buon esito, i cavalieri nemici. In ultimo, mentre la lotta era più accanita,

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me, cum vehementius contenderetur ac Volusenus ipsius intercipiendi Commii cupiditate pertinacius eum cum paucis insecutus esset, ille autem fuga vehementi Volusenum produxisset longius, inimicus homini repente suorum invocat fidem atque auxilium, ne sua vulnera per fidem imposita paterentur inpunita, conversoque equo se a ceteris incautius permittit in praefectum. Faciunt hoc idem omnes eius equites paucosque nostros convertunt atque insequuntur. Commius incensum calcaribus equum coniungit equo Quadrati lanceaque infesta magnis viribus medium femur eius traicit. Praefecto vulnerato non dubitant nostri resistere et conversis equis hostem pellere. Quod ubi accidit, conplures hostium magno nostrorum impetu perculsi vulnerantur ac partim in fuga proteruntur, partim intercipiuntur; quod [ubi] malum dux equi velocitate evitavit, ac sic proelio secundo graviter ab eo vulneratus praefectus, ut vitae periculum aditurus videretur, refertur in castra. Commius autem sive expiato suo dolore sive magna parte amissa suorum legatos ad Antonium mittit seque et ibi futurum ubi praescripserit, et ea facturum quae imperarit, obsidibus datis firmat; unum illud orat, ut timori suo concedatur ne in conspectum veniat cuiusquam Romani. Cuius postulationem Antonius cum iudicaret ab iusto nasci timore, veniam petenti dedit, obsides accepit. Scio Caesarem singulorum annorum singulos commentarios confecisse; quod ego non existimavi mihi esse faciendum, propterea quod insequens annus, L. Paulo C. Marcello consulibus, nullas habet magnopere Galliae res gestas. Ne quis tamen ignoraret, quibus in locis Cae-

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spinto dal desiderio di catturare personalmente Commio, lo inseguì, ostinatamente, con pochi uomini, allontanandosi troppo dal grosso delle sue forze; allora Commio, invocando la fedeltà e l’aiuto dei suoi uomini, perché non lasciassero invendicate le ferite che egli aveva ricevute a tradimento, volse il cavallo e staccandosi dagli altri si slanciò impetuosamente contro il prefetto romano. Lo stesso fecero anche tutti i suoi cavalieri, che volsero in fuga i nostri che erano pochi e li inseguirono. Commio lanciò il cavallo, spronandolo energicamente, addosso al cavallo di Voluseno e ferì costui, attraversandogli, con un colpo di lancia, una coscia. Visto ferito il prefetto, i nostri, voltati di nuovo i cavalli, caricarono e riuscirono a respingere i nemici, ferendone parecchi, mentre altri furono calpestati nella corsa ed altri presi prigionieri. Commio riuscì a mettersi in salvo per la velocità del suo cavallo. Il prefetto, che era stato gravemente ferito, quasi morente, venne riportato all’accampamento. Commio, sia che si considerasse vendicato, sia che lo intimorissero le gravi perdite dei suoi, mandò dei messi ad Antonio, offrendosi di fermarsi dove egli volesse e di ubbidire agli ordini, confermando i patti con la consegna di ostaggi: chiese solo che gli fosse concesso, dato il suo timore, di non doversi trovare davanti a nessun romano. Antonio giudicò che questa richiesta derivasse da un giusto timore, concesse la grazia richiesta e accettò gli ostaggi. So che Cesare ha dedicato a ciascun anno un commentario: ma io non ho ritenuto opportuno fare così, perché l’anno successivo, quello del consolato di L. Paolo e C. Marcello,25 non annovera nessuna importante impresa in Gallia. Tuttavia, perché non si ignori dove fossero Cesare e il suo esercito in quel periodo, ho deciso 25

Il 50 a.C.

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sar exercitusque eo tempore fuissent, pauca esse scribenda coniungendaque huic commentario statui. XLIX. Caesar in Belgio cum hiemaret, unum illud propositum habebat, continere in amicitia civitates, nulli spem aut causam dare armorum. Nihil enim minus volebat, quam sub decessum suum necessitatem sibi aliquam imponi belli gerendi, ne, cum exercitum deducturus esset, bellum aliquod relinqueretur, quod omnis Gallia libenter sine praesenti periculo susciperet. Itaque honorifice civitates appellando, principes maximis praemiis adficiendo, nulla onera nova iniungendo, defessam tot adversis proeliis Galliam condicione parendi meliore facile in pace continuit. L. Ipse hibernis peractis contra consuetudinem in Italiam quam maximis itineribus est profectus, ut municipia et colonias appellaret, quibus M. Antonii, quaestoris sui, commendaverat sacerdotii petitionem. Contendebat enim gratia cum libenter pro homine sibi coniunctissimo, quem paulo ante praemiserat ad petitionem, tum acriter contra factionem et potentiam paucorum, qui M. Antonii repulsa Caesaris decedentis gratiam convellere cupiebant. Hunc etsi augurem prius factum quam Italiam attingeret in itinere audierat, tamen non minus iustam sibi causam municipia et colonias adeundi existimavit, ut iis gratias ageret quod frequentiam atque officium suum Antonio praestitissent, simulque se et hono-

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di scrivere poche annotazioni in calce a questo commentario. XLIX. Cesare durante l’inverno passato tra i Belgi si proponeva soltanto di conservare in amicizia le popolazioni e di non offrire a nessuno né motivo, né speranza per prendere le armi. Egli tutto voleva, infatti, tranne che sorgesse, al momento in cui doveva lasciare il comando della Provincia, la necessità di combattere, perché, quando egli avesse condotto seco il suo esercito, non rimanesse ancora in atto qualche focolaio di guerra, cui certo avrebbe partecipato volentieri tutta la Gallia, liberata dal pericolo determinato dalla sua presenza. Pertanto dava titoli onorifici alle città, grandi premi ai capi, non imponeva nessun tributo: così gli fu facile, migliorando la condizione di sudditanza, tenere in pace la Gallia, già stanca per tante battaglie. L. Finito l’inverno Cesare partì, contro la sua abitudine, per l’Italia, marciando il più rapidamente possibile, per sollecitare i municipi e le colonie, cui aveva raccomandato la candidatura al sacerdozio del suo questore Marco Antonio.26 Voleva infatti esercitare la sua influenza in favore di quell’uomo a lui molto legato, che poco prima aveva mandato a presentare la sua candidatura, particolarmente contro il potente partito dei nobili, che, con la sconfitta di Marco Antonio, voleva umiliate il prestigio di Cesare nel momento in cui usciva di carica. Sentì dire, prima ancora di arrivare in Italia, che Marco Antonio era stato eletto augure; pur tuttavia ritenne di aver motivo sufficiente per visitare i municipi e le colonie, volendo ringraziarli di aver dato ad Antonio, votando per lui, il segno del loro favore; nello stesso tempo 26 È il famoso Marco Antonio (83-30 a.C.), che sarebbe stato arbitro della politica romana dopo la morte di Cesare. Era figlio della sorella di lui, Giulia.

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rem suum in sequentis anni commendaret, propterea quod insolenter adversarii sui gloriarentur L. Lentulum et C. Marcellum consules creatos, qui omnem honorem et dignitatem Caesaris spoliarent, ereptum Ser. Galbae consulatum, cum is multo plus gratia suffragii valuisset, quod sibi coniunctus et familiaritate et necessitudine legationis esset. LI. Exceptus est Caesaris adventus ab omnibus municipiis et coloniis incredibili honore atque amore. Tum primum enim veniebat ab illo universae Galliae bello. Nihil relinquebatur quod ad ornatum portarum, itinerum, locorum omnium, qua Caesar iturus erat, excogitari poterat. Cum liberis omnis multitudo obviam procedebat, hostiae omnibus locis immolabantur, tricliniis stratis fora templaque occupabantur, ut vel spectatissimi triumphi laetitia praecipi posset. Tanta erat magnificentia apud opulentiores, cupiditas apud humiliores. LII. Cum omnes regiones Galliae togatae Caesar percucurrisset, summa celeritate ad exercitum Nemetocennam rediit legionibusque ex omnibus hibernis ad fines Treverorum evocatis eo profectus est ibique exercitum lustravit. T. Labienum Galliae praefecit togatae, quo maiore commendatione conciliaretur ad consulatus petitionem. Ipse tantum itinerum faciebat quantum satis esse ad mutationem locorum propter salubritatem existimabat. Ibi quamquam crebro audiebat Labienum ab

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avrebbe raccomandato se stesso per la sua candidatura al consolato per l’anno seguente, dato che i suoi avversari erano trionfanti per l’elezione di L. Lentulo e C. Marcello, che, nominati consoli, si proponevano di privare Cesare di ogni onore e dignità, e per lo scacco di Servio Galba27 che non aveva ottenuto il consolato, pur avendo riportato maggiori consensi e più voti, proprio perché era a lui stretto da vincoli di amicizia e da rapporti intimi, essendo stato suo legato. LI. Cesare al suo arrivo fu accolto in tutti i municipi e in tutte le colonie con incredibile onore e grandi manifestazioni d’affetto: era la prima volta, infatti, che veniva dopo la grande sollevazione della Gallia. Niente si trascurò di tutto quello che si poteva ideare per ornare le porte, le strade, le zone dove Cesare sarebbe passato. Tutta la massa del popolo, con i figli, gli andava incontro, si sacrificavano vittime dovunque, le piazze e i templi erano pieni di mense imbandite, in modo che fosse chiara a tutti la gioia per un trionfo impazientemente atteso: tanto era il fasto mostrato dai ricchi e l’entusiasmo dei poveri. LII. Cesare, dopo aver attraversato tutte le regioni della Gallia cisalpina, tornò rapidamente a Nemetocenna presso l’esercito, e, convocate tutte le legioni dagli accampamenti invernali nelle terre dei Treveri, vi si recò e passò in rassegna le truppe. Diede il comando della Gallia cisalpina a T. Labieno, affinché questo paese desse la maggiore adesione alla sua candidatura al consolato. Quanto a lui faceva spostamenti solo quando riteneva opportuno cambiare residenza per l’igiene dei suoi soldati. In questo frattempo gli giunse voce insistente che Labieno era sollecitato dai suoi avversari che intrigava27

Servio Sulpicio Galba, che era stato legato in Gallia.

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inimicis suis sollicitari certiorque fiebat id agi paucorum consiliis, ut interposita senatus auctoritate aliqua parte exercitus spoliaretur, tamen neque de Labieno credidit quicquam neque contra senatus auctoritatem ut aliquid faceret adduci potuit. Iudicabat enim liberis sententiis patrum conscriptorum causam suam facile obtineri. Nam C. Curio tribunus plebis, cum Caesaris causam dignitatemque defendendam suscepisset, saepe erat senatui pollicitus, si quem timor armorum Caesaris laederet, et quoniam Pompei dominatio atque arma non minimum terrorem foro inferrent, discederet uterque ab armis exercitusque dimitteret: fore eo facto liberam et sui iuris civitatem. Neque hoc tantum pollicitus est, sed etiam per se discessionem facere coepit: quod ne fieret consules amicique Pompei iusserunt atque ita rem morando discesserunt. LIII. Magnum hoc testimonium senatus erat universi conveniensque superiori facto. Nam M. Marcellus proximo anno cum inpugnaret Caesaris dignitatem, contra legem Pompei et Crassi retulerat ante tempus ad senatum de Caesaris provinciis, sententiisque dictis discessionem faciente Marcello, qui sibi omnem dignitatem ex Caesaris invidia quaerebat, senatus frequens in alia omnia transiit. Quibus non frangebantur animi inimicorum Caesaris, sed admonebantur quo maiores pararent necessitates, quibus cogi posset senatus id probare quod ipsi constituissent. LIV. Fit deinde senatus consultum, ut ad bellum Parthicum legio una a Cn. Pompeio, altera a C. Caesare mitteretur; neque obscure duae legiones uni detrahuntur.

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no presso di lui e venne a sapere che, per iniziativa dei nobili, si cercava di ottenere dal senato che lo si spogliasse di una parte delle sue truppe: tuttavia non credette che vi fosse qualcosa di vero per quel che riguardava Labieno, né si lasciò indurre a contrastare l’autorità del senato. Riteneva, infatti, che se i senatori avessero votato liberamente, la sua causa avrebbe ottenuto un facile trionfo. C. Curione, tribuno della plebe, aveva preso a difendere la causa e l’onore di Cesare e spesso aveva proposto al senato che se il timore delle armi di Cesare poteva dar ombra a qualcuno, anche il potere assoluto e gli armamenti di Pompeo incutevano non meno timore; perciò disarmassero entrambi e congedassero le truppe: se ciò fosse avvenuto Roma sarebbe stata libera e tranquilla. Oltre a fare questa proposta, Curione aveva preso l’iniziativa di provocare un voto del senato, il quale aveva incominciato a votare per divisione: ma i consoli e gli amici di Pompeo vi si opposero e portarono in lungo la cosa, fino a far cadere la proposta. LIII. Tutto ciò era buona testimonianza di quel che pensava il senato e concordava con quanto era avvenuto l’anno prima. Allora, infatti, quando Marcello, che voleva abbattere l’autorità di Cesare, aveva proposto al senato, contro una precedente legge di Pompeo e Crasso, di revocare a Cesare, prima del termine, l’amministrazione delle sue province e aveva posto ai voti la sua proposta, quasi tutto il senato aveva votato contro. Nonostante ciò non si persero d’animo gli avversari di Cesare: anzi si sentirono incitati a ricorrere a mezzi più energici per costringere il senato ad approvare ciò che essi volevano. LIV. Fu dal senato deliberato di mandare alla guerra contro i Parti una delle legioni di Pompeo e una di quelle di Cesare. Ma le legioni furono tolte ambedue dall’e-

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Nam Cn. Pompeius legionem primam, quam ad Caesarem miserat, confectam ex delectu provinciae Caesaris, eam tamquam ex suo numero dedit. Caesar tamen, cum de voluntate minime dubium esset adversariorum suorum, Pompeio legionem remisit et suo nomine quintam decimam, quam in Gallia citeriore habuerat, ex senatus consulto iubet tradi. In eius locum XIII.legionem in Italiam mittit, quae praesidia tueretur, ex quibus praesidiis quinta decima deducebatur. Ipse exercitui distribuit hiberna: C. Trebonium cum legionibus quattuor in Belgio conlocat, C. Fabium cum totidem in Haeduos deducit. Sic enim existimabat tutissimam fore Galliam, si Belgae, quorum maxima virtus, et Haedui quorum auctoritas summa esset exercitibus continerentur. Ipse in Italiam profectus est. LV. Quo cum venisset, cognoscit per C. Marcellum consulem legiones duas ab se remissas, quae ex senatus consulto deberent ad Parthicum bellum duci, Cn. Pompeio traditas atque in Italia retentas esse. Hoc facto quamquam nulli erat dubium quidnam contra Caesarem pararetur, tamen Caesar omnia patienda esse statuit, quoad sibi spes aliqua relinqueretur iure potius disceptandi quam belligerandi. Contendit…

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sercito del solo Cesare, perché Pompeo consegnò, come se l’avesse sottratta alle sue forze, la prima legione, quella arruolata nella Provincia di Cesare e che a Cesare egli aveva mandato. Questi, pur non avendo dubbi sulle intenzioni dei suoi avversari, rimandò la legione a Pompeo e fece consegnare, come era stato stabilito dal senato, la sua legione quindicesima, che stava nella Gallia citeriore. Al posto di questa, mandò in Italia la tredicesima legione, per sostituire nei suoi presidi la quindicesima. Assegnò poi i quartieri invernali all’esercito: sistemò tra i Belgi C. Trebonio con quattro legioni; mandò tra gli Edui C. Fabio con altre quattro. Riteneva infatti che la Gallia sarebbe stata presidiata fortemente se le legioni erano in grado di controllare i Belgi, che erano i più bellicosi, e gli Edui che in Gallia godevano della maggiore influenza. Egli, poi, partì per l’Italia. LV. Giuntovi seppe che per disposizione del console C. Marcello le due legioni da lui mandate, che secondo l’ordine del senato erano destinate alla guerra partica, erano rimaste in Italia assegnate a Pompeo. Sebbene dopo ciò non vi potessero essere dubbi su quel che si preparava contro di lui, Cesare decise di sopportare ogni affronto finché gli rimaneva una qualche speranza di poter risolvere legalmente la questione, prima di ricorrere alle armi. Si diresse…28

28

Così termina il testo di Irzio. Il resto è andato perduto.

INDICE DEI NOMI, DELLE PERSONE, DELLE DIVINITÀ, DEI POPOLI E DEI LUOGHI

ACCONE (Acco) Capo dei Senoni, istigatore della rivolta del 53 a.C.: VI, 4; 44; VII, 1. ADIATUANO (Adiatuanus) Capo dei Soziati: III, 22. ADMAGETOBRIGA (id.) Città sulla Saona: I, 31. ADUATUCA (Atuatuca) Campo fortificato, posto nel territorio degli Eburoni, dove caddero Titurio e Cotta: VI, 32; 35. ADUATUCI (Atuatuci) Popolo belga sulla sponda sinistra della Mosa; discendeva dai Germani: II, 4; 16; 29; 31; V, 27; 38; 39; 56; VI, 2; 33. AFRICO (Africus) Vento: V, 8. AGEDINCO (Agedincum) Capitale dei Senoni, oggi Sens: VI, 44; VII, 10; 57; 59; 62. AISNE (Axona) Affluente dell’Isara: II, 5; 9. ALESIA (id.) Città fortifica-

ta dei Mandubii, posta sul monte Auxois, oggi Alise St. Reine, dove Cesare vinse Vercingetorige: VII, 68, 69; 75; 76; 77; 79; 80; 84; VIII, 14; 34. ALLIER (Elauer) Affluente della Loira: VII, 34; 35; 53. ALLOBROGI (Allobroges) Popolazione celtica abitante tra il Rodano, l’Isara e il lago di Ginevra. Capitale Vienna: I, 6; 10; 11; 14; 28; 44; III, 1; 6; VII, 64; 65. ALPI (Alpes) Catena montuosa: I, 10; III, 1; 2; 7; IV, 10. AMBARRI (id.) Popolo sulla riva destra del Rodano, tra Sèquani e Allobrogi: I, 11; 14. AMBIANI (id.) Popolo della Gallia Belgica, sulla Somme Inferiore. Capitale Samarobriva (Amiens): II, 4; 15; VII, 75; VIII, 7. AMBIBARI (Ambibarii) Po-

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polazione facente parte degli Aremorici: VII, 75. AMBILIATI (id.) Popolo abitante sulle rive della Somme: III, 9. AMBIORIGE (Ambiorix) Capo degli Eburoni, promotore di una vasta ribellione che danneggiò l’esercito di Cesare, ma fu per intervento di questi presto repressa: V, 24; 26; 27; 29; 31; 34; 36; 37; 38; 41; VI, 2; 5; 6; 9; 29; 30; 31; 32; 33; 42; 43; VIII, 24; 25. AMBIVARETI (Ambiuareti) Popolo celtico cliente degli Edui: VII, 75; 90. AMBIVARITI (Ambiuariti) Popolo della Gallia Belgica, stanziato al di là della Mosa: IV, 9. ANARTI (Anartes) Popolo confinante con i Daci: VI, 25. ANCALITI (Ancalites) Popolo abitante nella parte sud-est della Britannia: V, 21. ANDI (Andes) Abitanti sulla bassa Loira. Città principale Juliomagus (Angers): II, 35; III, 7; VII, 4; VIII, 26. ANDOCUMBORIO (Andocumborius) Notabile dei Remi: II, 3. ANTISTIO,

CAIO

REGINO

(Antistius Reginus, C.) Le-

gato di Cesare: VI, 1; VII, 83; 90. ANTONIO, MARCO (Antonius, M.) Parente di Cesare, legato durante la campagna gallica, nel 45 a.C. console con Cesare, morto il quale, lottò contro Ottaviano e fu vinto a Modena nel 43. Si riconciliò con Ottaviano e fu triumviro insieme con lui e con Lepido. Governatore dell’Oriente, perseguì una politica avversa a Ottaviano e fu con Cleopatra sconfitto nel 31 nella battaglia di Azio. Si uccise: VII, 81; VIII, 2; 24; 38; 46; 47; 48; 50. APOLLO (id.) Uno degli dèi adorati dai Galli: VI, 17. AQUILEIA (id.) Città dell’Istria: I, 10. AQUITANI (id.) Popolo dell’Aquitania: I, 1; III, 21. AQUITANIA (id.) Regione della Gallia compresa tra i Pirenei, la Garonna, l’Oceano e la Provincia: I, 1; III, 11; 20; 21; 23; 26; 27; VII, 31; VIII, 46. ARDENNE, SELVA (Arduenna, silua) Foresta che si estendeva dal Reno alla Schelda; corrisponde alla regione degli odierni monti Ardenne: V, 3; VI, 29; 31; 33. AREMORICI (Aremoricae) Popoli che toccano l’Ocea-

INDICE DEI NOMI

no: V, 53; VII, 75; VIII, 31. ARIOVISTO (Ariouistus) Capo dei Germani passati in Italia. Dopo aver vinto i popoli galli dominò crudelmente sulla regione, finché non fu sconfitto da Cesare e costretto ad abbandonare la Gallia: I, 31; 32; 33; 34; 36; 37; 38; 39; 40; 41; 42: 43; 44; 45; 46; 47; 48; 49; 50; 53; IV, 16; V, 29; 55; VI, 12. ARISTIO, MARCO (Aristius, M.) Tribuno militare che gli Edui tentarono di uccidere nella loro sollevazione del 52 a.C.: VII, 42; 43. ARPINEJO, GAIO (Arpineius, C.) Cavaliere romano, amico di Quinto Titurio: V, 27; 28. ARUDI (Harudes) Popolo germanico di stanza tra il Reno, il Meno e il Danubio: I, 31; 37; 51. ARVERNI (Aruerni) Abitanti a nord della Provenza, Capitale Gergovia: I, 31; 45; VII, 3; 5; 7; 8; 9; 34; 37; 38; 64; 66; 75; 77; 89; 90; VIII, 46. ARVERNO (Aruernus): VII, 4; 76; 83; 88; VIII, 44. ATREBATE (Atrebas): IV, 27; 35; V, 22; VI, 6; VII, 76; VIII, 6; 7; 21; 47. ATREBATE (Atrebates) Popolo abitante sulla costa

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settentrionale della Gallia Belgica: II, 4; 16; 23; IV, 21; V, 46; VII, 75; VIII, 7; 47. ATRIO (Atrius, Q.) Comandante del distaccamento lasciato da Cesare a guardia della flotta nel punto di sbarco della seconda spedizione in Britannia: V, 9; 10. AULERCI (id.) Popolo della Normandia meridionale di considerevole importanza. Erano divisi in Brannovici, Cenomani, Diablinti, Eburovici. Città principale Mediolanum (Evreux): II, 34; III, 29; VII, 4; VIII, 7. AULERCI BRANNOVICI (Aulerci Brannouices): VII, 75. AULERCI CENOMANI (id.): VII, 75. AULERCI EBUROVICI (Aulerci Eburouices): III, 17; VII, 75. AULERCO (Aulercus) V. Camulogeno: VII, 57. AURUNCULEIO COTTA, L. (Aurunculeius Cotta, L.) Legato di Cesare, cadde in battaglia contro Ambiorige nel 54 a.C.: II, 11; IV, 22; 38; V, 24; 26; 28; 29; 30; 31; 33; 35; 36; 37; 52; VI, 32; 37. AUSCI (id.) Popolo dell’Aquitania, sull’alta Garonna: III, 27. AVARICO (Avaricum) Città fortificata dei Biturigi. Oggi

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Bourges: VII, 13; 15; 16; 18; 29; 30; 31; 32; 47; 52. AZIO VARO, QUINTO (Atius Varus, Q.) Prefetto di cavalleria di Gaio Fabio, legato di Cesare, nel 51 a.C.: VIII, 28. BACENIS (Bacenis silua) Una parte della selva Ercinia: forse l’odierno Harz: VI, 10. BALBO, LUCIO CORNELIO

(Balbus, L. Cornelius) Di Cadice. Amico di Cesare e di Irzio, che a lui dedicò l’VIII commentario: VIII, Intr. BALEARI (Baleares) Abitanti delle Baleari. Valorosi frombolieri ausiliari di Cesare: II, 7. BALVENZIO, TITO (Baluentius, T.) Centurione: V, 35. BATAVI (Bataui) Abitanti di un’isola sulla Mosa: IV, 10. BELGI (Belgae) Popolo della Gallia settentrionale; occupava il territorio tra la Marna, la Senna, il Reno e il Mare del Nord: I, 1; II, 1; 2; 3; 4; 5; 6; 14; 15; 17; 19; III, 7; 11; IV, 38; V 24; VIII, 6; 38; 46; 49; 54. BELGIO (Belgium) Regione della Gallia: V, 12; 25. BELLOVACI (Bellouaci) Po-

polo della Gallia Belgica, posto tra la Sequana (Senna), la Oesia (Oise), la Samara (Somme), con capitale Nemetocenna (Beauvais): II, 4; 5; 10; 13; 14; V, 46; VII, 59; 75; 90; VIII, 6; 7; 12; 14; 15; 16; 17; 20; 21; 22; 23; 38. BELLOVACO (Bellouacus): VIII, 6. BIBRACTE (id.) Città degli Edui: I, 23; VII, 55; 63; 90; VIII, 2; 4. BIBRATTE (Bibrax) Città dei Remi, corrisponde a Beaurieux o a Vieux Laon: II, 6. BIBROCI (id.) Popolo abitante nella parte sud della Britannia: V, 21. BIGERRIONI (Bigerriones) Popolo abitante alle falde dei Pirenei: III, 27. BITURIGI (Bituriges) Popolo celtico diviso in due rami, con capitali Novioduno e Avarico: I, 18; VII, 5; 8; 9; 11; 12; 13; 15; 21; 29; 75; 90; VIII, 2; 3, 4; 11. BLANNOVI (Blannouii) Popolo celtico cliente degli Edui: VII, 75. BODUOGNATO (Boduognatus) Capo del popolo dei Nervi: II, 23. BOI (Boii) Popoli situati tra il Liger e l’Elaver: capitale

INDICE DEI NOMI

Gorgobina: I, 5; 25; 28; 29; VII, 9; 10, 17; 75. BRATUSPANZIO (Bratuspantium) Città dei Bellovaci: II, 13. BRITANNI (id.) Popolo della Britannia: IV, 21; V, 11; 14; 21. BRITANNIA (id.) L’odierna Gran Bretagna, abitata da popoli di razza celtica provenienti dalla Gallia; II, 4; 14; III, 8; 9; IV, 20; 21; 22: 23; 27; 28; 30; 37; 38; V, 2; 6; 8; 12; 13; 22; VI, 13; VII, 76. BRUTO, DECIMO (Brutus, D. Junius) Decimo Giunio Bruto combatté con Cesare in Gallia e nella guerra civile comandò la flotta cesariana a Marsiglia. Fu poi governatore della Gallia. Prese parte alla congiura contro Cesare. Combatté contro Antonio. Dopo la costituzione del secondo triumvirato volle raggiungere il fratello Marco in Macedonia, ma, tradito da un amico, fu consegnato ad Antonio e ucciso: III, 11; 14; VII, 9; 87. CADURCI (id.) Popolo celtico abitante sul corso medio della Garonna: VII, 4; 64; 75; VIII, 32; 34. CADURCO (Cadurcus): VII, 5; 7; VIII, 30.

547

(Calenus, Q. Fufius) Legato di Cesare: VIII, 39. CALETI (Caleti o Caletes) Popolo belga abitante la zona costiera nei pressi della foce della Sèquana: II, 4; VII, 75; VIII, 7. CALENO, Q. FUFIO

CAMULOGENO,

AULERCO

(Camulogenus, A.) Capo dei Galli in armi contro Labieno, morto nella battaglia di Lutezia nel 52 a.C.: VII, 57; 59; 62. CANINIO, REBILO (Caninius, Rebilus) Fu legato di Cesare nella Gallia nel 52 a.C. e nel 51. Cesare nel 49 lo mandò come intermediario a Pompeo, ma la sua missione non ebbe esito positivo. Era con Curione quando questi fu sconfitto in Africa dal re Giuba che era venuto in aiuto di Azio Varo. Nel 45, per la morte improvvisa del console collega di Cesare, fu console per poche ore: VII, 83; 90; VIII, 24; 26; 27; 30; 32; 33; 34; 35; 36; 37; 39; 44. CANTABRI (id.) Popolo della Spagna abitante presso la costa settentrionale: III, 26. CANZIO (Cantium) Regione della Britannia, l’odierna contea di Kent: V, 13; 14; 22.

548

LA GUERRA GALLICA

(Carnutes) Abitanti sul corso medio della Loira, capitale Cenabo (Orléans): II, 35; V, 25; 29; 56; VI, 2; 3; 4; 13; 44; VII, 2; 3; 11; 75; VIII, 4; 5; 31; 38; 46. CARVILIO (Caruilius) Uno dei quattro re del Canzio: V, 22. CASSI (id.) Popolo abitante nella parte sud della Britannia: V, 21. CARNUTI

CASSIO, LUCIO

LONGINO

(Cassius, L.L.) Console nell’anno 107 a.C., durante la guerra cimbrica fu sconfitto dai Tigurini e dagli Amboni elvezii, e l’esercito passò sotto il giogo: I, 7; 12; 13. CASSIVELLAUNO (Cassiuellaunus) Condottiero dei Britanni: V, 11; 18; 19; 20; 21; 22. CASTICO (Casticus) Condottiero del popolo dei Sèquani, sollecitato da Orgetorige a farsi re: I, 3. CATAMANTALÉDE (Catamantaloedis) Re dei Sèquani, amico dei Romani: I, 3. CATURIGI (Caturiges) Popolo abitante nelle Alpi Cozie: I, 10. CATUVOLCO (Catuuolcus) Comandante e capo degli Eburoni: con Ambiorige ri-

belle a Cesare: V, 24; 26; VI, 31. CAVARILLO (Cauarillus) Nobile Eduo, capo della fanteria dopo la defezione di Litavicco nel 52 a.C.: VII, 67. CAVARINO (Cauarinus) Re dei Senoni: V, 54; VI, 5. CAVILLONO (Cauillonum) Città sulla Saona, odierna Châlon-sur-Saône: VII, 42; 90. CELTI (Celtae) I popoli della Gallia: I, 1. CELTILLO (Celtillus) Padre di Vercingetorige: VII, 4. CEMANI (Caemani) Popolo germanico abitante tra la Mosa e la Mosella: II, 4. CENABESI (Cenabensis-enses) Gli abitanti di Cenabo: VII, 11. CENABO (Cenabum) L’odierna Orléans: VII, 3; 11; 14; 17; VIII, 5; 6. CENIMAGNI (id.) Popolo abitante nella parte sud-est della Britannia: V, 21. CEROSI (Caeroesi) Popolo germanico abitante tra la Mosa e la Mosella: II, 4. CESARE, CAIO GIULIO (Caesar, C. Julius) L’autore: I, 7 e passim, circa 450 volte. CESARE, LUCIO (Caesar, L.) Cugino di Cesare e suo legato nella provincia: VII, 65.

INDICE DEI NOMI

(Ceutrones) Tribù dei Nervi: I, 10. CEUTRONI (Ceutrones) Popolo belga: V, 39. CEVENNE (Ceuenna) Catena montuosa: VII, 8; 56. CHERUSCI (id.) Popolo germanico situato tra il Weser e l’Elba: VI, 10. CEUTRONI

CICERONE, QUINTO TULLIO

(Cicero, Q.T.) Fratello minore dell’oratore, legato di Cesare dal 54 a.C. alla fine del 52: V, 24; 27; 38; 39; 40; 41; 45; 48; 49; 52; 53; VI, 32; 36; VII, 90. CIMBERIO (Cimberius) Capo tribù svevo: I, 37. CIMBRI (id.) Popolazione germanica: I, 33; 40; II, 4; 29; VII, 77. CINGETORIGE (Cingetorix) Capo della fazione dei Treveri favorevole a Cesare: V, 3; 4; 56; 57; VI, 8. CINGETORIGE (Cingetorix) Re Bretone: V, 22. CLAUDIO, APPIO (Claudius, A.) Fu console nel 54 a.C.: V, I. CLODIO, PULCRO (Clodius, P.) Tribuno della plebe, ucciso da Milone: VII, 1. COCOSATI (Cocosates) Popolo abitante alle foci della Garonna: III, 27. COMMIO, ATREBATE (Commius, A.) Fattore degli

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Atrebati da Cesare. Fu uno dei capi della grande ribellione del 52-51 a.C.: IV, 21; 27; 35; V, 22; VI, 6; VII, 75; 76; 79; XIII, 6; 7; 10; 21; 23; 47; 48. CONCONNETODUMNO

(Conconnetodumnus) Capo dei Carnuti: VII, 3. CONDRUSI (id.) Popolo di origine germanica, abitante sulla sponda destra della Mosa: II, 4; IV, 6; VI, 32. CONSIDIO, P. (Considius, P.) Centurione romano, che aveva militato nell’esercito di Silla e Crasso: I, 21; 22. CONVICTOLITAVE (Conuictolitauis) Principe degli Edui: VII, 32; 33; 37; 39; 42; 55; 67. CORIOSOLITI (Coriosolites) Popolo della costa settentrionale, nei pressi della odierna St. Malo: II, 34; III, 7; 11; VII, 75. CORREO (Correus) Del popolo dei Bellovaci, capo, insieme a Commio, della ribellione del 51 a.C.: VIII, 6; 7; 17; 18; 19; 20; 21. COTO (Cotus) Principe degli Edui: VII, 32; 33; 39; 67. COTUATO (Cotuatus): VII, 3. CRASSO,

MARCO

LICINIO

(Crassus, M.L.) Triumviro con Cesare e Pompeo, con-

550

LA GUERRA GALLICA

sole nel 55 a.C. Domò la rivolta degli schiavi. Comandante dell’esercito romano contro i Parti, fu sconfitto e ucciso a Carre, l’8 giugno del 54: I, 21; IV, 1; VIII, 53. CRASSO,

MARCO

LICINIO

(Crasso M.L.) Fu questore di Cesare, figlio del triumviro e fratello di Publio Crasso: V, 24: 46; 47; VI, 6. CRASSO,

PUBLIO

LICINIO

(Crassus, P.L.) Era figlio del triumviro Marco Crasso; valoroso legato di Cesare nel 56 .a.C., morì nel 54 combattendo contro i Parti col padre. Fu molto amico di Cicerone che lo ricorda per la sua cultura: I, 52; II, 34; III, 7; 8; 9; 11; 20; 21; 22; 23; 24; 25; 26; 27; VIII, 46. CRETESI (Cretae) Arcieri: II, 7. CRITOCNATO (Critognatus) Nobile arverno, facente parte dell’esercito di Vercingetorige, chiuso in Alesia: VII, 77; 78. CURIONE, CAIO SCRIBONIO

(Curio, C. Scribonius) Appartenne da principio al partito aristocratico. Divenne poi partigiano di Cesare. A lui si fa risalire la principale responsabilità della guerra tra Cesare e Pompeo. Condusse in Africa

una infelicissima guerra nella quale trovò la morte: VIII, 52. DACI (id.) Popolazione tracia abitante tra il Danubio e i Carpazi: VI, 25. DANUBIO (Danubius): VI, 25. DECEZIA (Decetia) Città degli Edui: VII, 33. DIABLINTI (Diablintes) Tribù degli Aulerci: III, 9. DITE PADRE (Dis Pater) Antenato dei Galli: VI, 18. DIVICONE (Diuico) Comandante degli Elvezi nella guerra contro Cassio: I, 13; 14. DIVIZIACO (Diuiciacus) Potente re dei Suessioni. Da non confondersi con il seguente: II, 4. DIVIZIACO (Diuiciacus) Capo degli Edui, amico di Cesare, di cui fu alleato contro Ariovisto e contro i Belgi. Venne a Roma e fu anche conosciuto da Cicerone: I, 3; 16; 18; 19; 20; 31; 32; 41; II, 5; 10; 14; 15; VI, 12; VII, 39. DOMIZIO, LUCIO (Domitius, L.) Console nel 54. Era marito di Porcia, sorella di Catone l’Uticense. Nemico irriducibile di Cesare, fu ucciso a Farsalo dai cavalieri di M. Antonio: V, 1.

INDICE DEI NOMI

DOMNOTAURO, CAIO VALERIO (Domnotaurus, C.V.), v. VALERIO, CAIO DOMNOTAURO. DRAPPETE (Drappes) Se-

none, capo della ribellione del 52-51 a.C.: VIII, 30; 32; 34; 35; 36; 39; 44. DUBIS (id.) Affluente della Saona: I, 38. DUMNACO (Dumnacus) Comandante degli Andi: VIII, 26; 27; 29; 31. DUMNORIGE (Dumnorix) Eduo, fratello di Diviziaco, tentato da Orgetorige a farsi re e poi graziato da Cesare: I, 3; 9; 18; 19; 20; V, 6; 7. DURAZIO (Duratio) Influente personaggio dei Pictoni, fedele a Cesare: VIII, 26; 27. DUROCORTORO (Durocortorum) Capitale dei Remi. Oggi Reims: VI, 44. EBURONI (Eburones) Popolo belga sulla Mosa: II, 4; IV, 6; V, 24; 28; 29; 39; 47; 58; VI, 5; 31; 32; 34; 35. EBUROVICI (Eburouices) Ramo del popolo degli Aulerci, abitanti nella zona più a nord: Capitale Mediolanum (Ereux): III, 17; VII, 75. EDUI (Haedui) Importante popolo celtico che abitava

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tra la Loira e la Saona: è citato circa 120 volte, da I, 10 in poi. ELEUTETI (id.) Popolo celtico, cliente degli Arverni: VII, 75. ELUSATI (Elusates) Popolo abitante nelle valli dei Pirenei, lungo il corso superiore della Garonna: III, 27. ELVEZI (Heluetii) Popolo di stirpe celtica di grande valore, abitante tra il Giura, il lago Lemano, il Rodano e il Reno. Era diviso in quattro cantoni, aveva dodici città e quattrocento villaggi: è citato circa 60 volte dal libro I, 1 in poi. ELVII (Heluii) Popolo celtico della Provenza situato vicino al Rodano: VII, 7; 8; 64; 65. EMILIO, L. (Aemilius, L.) Decurione: I, 23. EPASNACTO (Epasnactus) Capo arverno, amico dei Romani: VIII, 44. EPOREDORIGE (Eporedorix) Eduo, giovane di grande autorità, che riferì le trame di Litavicco a Cesare e che fu poi uno dei capi della grande rivolta del 52 a.C.: VII, 38; 39; 40; 54; 55; 63; 64; 76. EPOREDORIGE (Eporedorix) Eduo, capo della guer-

552

LA GUERRA GALLICA

ra degli Edui contro i Sèquani nel 52 a.C.: VII, 67. ERATOSTENE (Eratosthenes) Di Cirene, famoso geografo dell’antichità: VI, 24. ERCINIA (Hercynia o Orcynia) Selva estesissima della Germania. Si estendeva dalle sorgenti del Danubio fino alla Dacia, comprendendo tutta la regione montuosa e boscosa della Germania meridionale: VI, 24. ESUVI (Esuuii) Popolo della Normandia settentrionale: II, 34; III, 7; V, 24. (Fabius, C.) Legato di Cesare durante la campagna di Gallia: V, 24; 46; 47; 53; VI, 6; VII; 40; 41; 87; 90; VIII, 6; 24; 27; 28; 31; 37; 54. FABIO, LUCIO (Fabius, L.) Centurione morto valorosamente nell’attacco di Gergovia nel 52 a.C.: VII, 47; 50. FABIO, GAIO

FABIO, QUINTO ALLOBROGICO.

MASSIMO

(Fabius, Maximus Q.) Nipote di Scipione l’Africano, console nel 121 a.C., vinse gli Allobrogi, gli Arverni e i Ruteni in una famosa battaglia per cui riportò uno splendido trionfo: I, 45.

(Fufus, Cita C.) Nobile cavaliere romano, provveditore dell’esercito, ucciso a Cenabo nel 52 a.C.: VII, 3.

FUFIO, CITA GAIO

GABALI (id.) Popolo abitante nella zona delle Cevenne: VII, 7; 64; 75. GABINIO, AULO (Gabinius, A.) Pompeiano, console nel 58 a.C.: I, 6. GALBA (id.) Re dei Suessioni, capo dei Belgi nella guerra contro Cesare: II, 4; 1.3. GALBA, SERVIO SULPICIO

(Galba, Ser. Sulpicius) Legato di Cesare, pretore nel 54 a.C. Fu candidato alle elezioni consolari del 49, come uomo di parte cesariana, ma fu battuto. Prese poi parte alla congiura contro Cesare. Fu condannato a morte nel 43: III, 1; 3; 5; 6; VII1, 50. GALLI (id.) Circa 110 volte. GALLIA (id.) Circa 160 volte. GARONNA (Garunna) L’odierno fiume Garonna: divideva l’Aquitania dalla Gallia Celtica: I, 1. GARUNNI (id.) Popolo abitante presso il corso superiore della Garonna: III, 27. GATI (Gates) Popolo abi-

INDICE DEI NOMI

tante sulla riva sinistra della Garonna: III, 27. GEIDUMNI (id.) Popolazione belgica; dipendente dai Nervi: V, 39. GERGOVIA (Gergouia) Città fortificata degli Arverni in vicinanza dell’Allier: VII, 4; 34; 36; 37; 38; 40; 41; 42; 43; 45; 59. GERMANI (id.) Citati circa 100 volte. GERMANIA (id.) La regione al di là del Reno: IV, 4; V, 13; VI, 11; 24; 25; 31; VII, 65; VIII, 25. GINEVRA (Genua) Città degli Allobrogi: I, 6; 7. GIOVE (Juppiter) Uno degli dèi adorati dai Galli: VI, 17. GIUNTO, QUINTO (Junius, Q.): V, 27; 28. GIURA (Jura) Catena montuosa che ha ancora lo stesso nome: divideva i Sèquani dagli Elvezi: I, 2; 6; 8. GOBANNITIONE (Gobannitio) Zio di Vercingetorige, principe degli Arverni, contrario alla ribellione contro Cesare: VII, 4 GORGOBINA (id.) Città dei Boi: VII, 9. GRAIOCELI (id.) Popolo abitante nelle Alpi Graie: I, 10. GRECI (Graeci): VI, 24.

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GRUDII (id.) Tribù dei Nervi: V, 39. GUTRUATO (Gutuater) Capo dei Carnuti, giustiziato da Cesare: VIII, 38.

(Hibernia) L’odierna isola d’Irlanda: V, 13. ICCIO (Iccius) Notabile dei Remi. Valoroso combattente: II, 3; 6; 7. ILLIRICO (Illyricum) Regione posta lungo la riva orientale dell’Adriatico, corrispondente alla Dalmazia e all’Istria: II, 35; III, 7; V, 1. INDUTIOMARO (Indutiomarus) Capo della fazione dei Treveri ostile a Cesare: V, 3; 4; 26; 53; 55; 57; 58; VI, 2; 8. ITALIA (id.): I, 10; 33; 40; II, 29; 35; III, 1; V, 1; 29; VI, 1; 32; 44; VII, 1; 6; 7; 55; 57; 65; VIII, 50; 54; 55. IZIO (Itium) Il porto da cui Cesare salpò per le sue spedizioni in Britannia; sembra corrisponda a Boulognesur-mer: V, 2; 5. IBERNIA

LABERIO,

QUINTO

DURO

(Laberius Durus, Q.) Tribuno militare ucciso in combattimento nella spedizione in Britannia del 54 a.C.: V, 15. LABIENO, TITO AZIO (Labie-

554

LA GUERRA GALLICA

nus, T. Atius) Legato di Cesare durante la campagna di Gallia, poi governatore della Gallia Togata. All’inizio della guerra civile passò a Pompeo. Dopo Farsalo combatté contro Cesare in Africa, poi in Spagna, dove morì nella battaglia di Munda: I, 10; 21; 22; 54; II, 1; 11; 26; III, 11; IV, 38; V, 8; 11; 23; 24; 27; 37; 46; 47; 53; 56; 57; 58; VI, 5; 7; 8; 33; VII, 34; 56; 57; 58; 59; 61; 62; 86; 87; 90; VIII, 6; 23; 24; 25; 45; 52. LATOVICI (Latobici) Popolo germanico abitante sull’alto corso del Reno: I, 5; 28; 29. LEMANO (Lemannus, lacus) È il lago di Ginevra: I, 2; 8; III, 1. LEMONO (Lemonum) Città dei Pictoni; oggi Poitiers: VIII, 26. LEMOVICI (Lemouices, Aremorici) Popolo gallico stanziato ad ovest degli Arverni: VII, 4; 75; 88. LEMOVICI (Lemouices): VIII, 46. LENTULO, LUCIO (Lentulus, L. Cornelius) Console nel 49, era seguace di Pompeo. Riparò, dopo Farsalo, in Egitto. Ivi fu ucciso per ordine del re Tolomeo XII: VIII, 50.

LEPONZI (Lepontii) Popolazioni delle Alpi: IV, 10. LEUCI (id.) Popolo celtico abitante nella Lotaringia del Sud: I, 40. LEVACI (Leuaci) Tribù dei Nervi: V, 39. LEXOVI (Lexouii) Popolo abitante alle foci della Senna: III, 9; 11; 17; 29. LINGONI (Lingones) Popolo celtico abitante sull’alto corso della Mosa, della Marna e della Senna: I, 26; 40; IV, 10; VI, 44; VII, 9; 63; 66; VIII, 11. LISCO (Liscus) Magistrato supremo degli Edui: I, 16; 17; 18. LITAVICCO (Litauiccus) Eduo, giovane audace e ambizioso che tentò di fare insorgere la sua gente contro Cesare: VII, 37; 38; 39; 40; 42; 43; 54; 55; 67. LOIRA (Liger) Fiume della Gallia: III, 9; VII, 5; 11; 55; 56; 59; VIII, 27. LUCANIO, QUINTO (Lucanius, Q.) Centurione: V, 35. LUCTERIO (Lucterius) Principe del popolo dei Cadurci, uno dei capi della ribellione del 52-51 a.C.: VII, 5; 7; 8; VIII, 30; 32; 34; 35; 39; 44. LUGOTORIGE (Lugotorix) Nobile capo della regione di Canzio, in Britannia, pre-

INDICE DEI NOMI

so prigioniero dai Romani: V, 22. LUNA (id.) Il satellite della terra, considerato una divinità dai Germani: VI, 21. LUTEZIA (Lutecia) Città dei Parisi: l’odierna Parigi: VI, 3; VII, 57; 58. MANDUBII (id.) Popolo celtico posto a nord degli Edui: VII, 68; 71; 78. MANDUBRACIO (Mandubracius) Capo dei Trinovanti: V, 20; 22. MANLIO, LUCIO (Manlius, L.) Proconsole in Gallia durante la guerra sertoriana. Fu sconfitto nel 78 a.C. da Irtuleio, questore di Sertorio: III, 20. MARCELLO, GAIO CLAUDIO

(Marcellus, C. Claudius) Console nel 50 a.C. avverso a Cesare: VIII, 48; 55. MARCELLO, GAIO CLAUDIO

(Marcellus, C. Claudius) Console nel 49, cugino del precedente: VIII, 50. MARCELLO,

M.

CLAUDIO

(Marcellus, M. Claudius) Console nel 51, fratello del precedente: VIII, 53. MARCOMANNI (Marcomani) Popolo germanico posto tra il Meno e il Danubio, passato in Gallia con Ariovisto: I, 51.

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(Marius, C.) Console romano, famoso per le vittorie sui Cimbri e i Teutoni e per la sua rivalità con L. Cornelio Silla: I, 40. MARNA (Matrona) Affluente della Senna. Divideva i Celti dai Belgi: I, 1. MARTE (Mars) Uno degli dèi venerati dai Galli: VI, 17. MATISCONE (Matisco) Località sulla Saôna: VII, 90. MEDIOMATRICI (id.) Popolo tra la Mosella e il Reno: IV, 10; VII, 75. MELDI (id.) Piccolo popolo abitante sulla bassa Marna, nella regione dell’odierna Meaux: V, 5. MENAPII (id.) Popolo belga della costa, posto tra la Schelda inferiore e la Mosa: II, 4; III, 9; 28; IV, 4; 22; 38; VI, 2; 5; 6; 9; 33. MERCURIO (Mercurius) Uno degli dèi venerati dai Galli: VI, 17. MARIO, CAIO

MESSALA, MARCO VALERIO

(Messala, M. Valerius) Console nel 61. Noto oratore apprezzato anche da Cicerone: I, 2; 35. METLOSEDO (Metlosedum) Città dei Senoni: oggi Melun: VII, 58; 60; 61. MEZIO, M. (Metius, M.) Ospite di Ariovisto: I, 47; 53.

556

LA GUERRA GALLICA

MINERVA (Minerua) Uno degli dèi venerati dai Galli: VI, 17. MINUCIO,

LUCIO

BASILO

(Minucius Basilus, L.) Combatté con Cesare in Gallia. Fu poi partecipe della congiura contro Cesare. Morì nel 43 a.C.: VI, 29; 30; VII, 90. MONA (id.) L’odierna isola Man: V, 13. MORINI (id.) Popolo abitante sulla costa settentrionale della Gallia Belgica: II, 4; III, 9; 28; IV, 21; 22; 37; 38; V, 24; VII, 75; 76. MORITASGO (Moritasgus) Fratello di Cavarino, re al tempo dell’arrivo di Cesare in Gallia: V, 54. MOSA (id.) Fiume della Francia e del Belgio, di cui Cesare descrive il corso: IV, 9; 10; 12; 15; 16; V, 24; VI, 33. MUNAZIO, LUCIO PLANCO

(Munatius Plancus, L.) Legato di Cesare: V, 24; 25. NAMNETI (Namnetes) Abitanti alle foci della Loira: III, 9. NANTUATI (Nantuates) Popolo delle Alpi Pennine: III, 1; 6; IV, 10. NARBONA (Narbo) Città della Provenza nella zona

abitata dai Volci, sull’Atax: III, 20; VII, 7; VIII, 46. NASUA (id.) Capo tribù svevo: I, 37. NEMETI (Nemetes) Popolo germanico sulla sinistra del Reno: I, 51; VI, 25. NEMETOCENNA (id.) Capitale del popolo degli Atrebati: VIII, 46; 52. NERVI (Neruii) Popolo della Gallia Belgica, abitante nell’estremo nord, tra la Schelda e la Somme. Capitale Bagaco (Bavay): II, 4; 15; 16; 17; 19; 23; 28; 29; 32; V, 24; 38; 39; 41; 42; 46; 48: 56; 58; VI, 2; 3; 29; VII, 75. NITIOBROGI (Nitiobroges) Popolo dell’Aquitania: VII, 7; 31; 46; 75. NORÉIA (id.) Capitale della terra norica: I, 5. NOVIODUNO (Nouiodunum Suessionum) Città dei Suessioni. Oggi Soissons: II, 12. NOVIODUNO (Nouiodunum Biturigum): VII, 12; 14. NOVIODUNO (Nouiodunum Haeduorum): VII, 55. NUMIDI (Numidae) Ausiliari di Cesare provenienti dalla Numidia (Africa): II, 7; 10; 24. OCEANO (Oceanus) Cesare indica con questo nome l’o-

INDICE DEI NOMI

ceano Atlantico ed in particolare la Manica e il Golfo di Guascogna: I, 1; II, 34; III, 7; 9; 13; IV, 10; 29; VI, 31; 33; VII, 4; 75; VIII, 31; 46. OCELO (Ocelum) Città dei Graioceli, nella Gallia Cisalpina: I, 10. OCTODURO (Octodurus) Villaggio dei Veragri, oggi Martigny: III, 1. OLLOVICONE (Ollouico) Padre di Teutomato: VII, 31. ORCYNIA, v. Ercinia, selva. ORGETORIGE (Orgetorix) Elvezio, propose la migrazione del suo popolo verso la Gallia, forse con l’intento di approfittare della situazione e farsi re. Quando i suoi scoprirono queste trame lo imprigionarono e pare si sia allora ucciso: I, 2; 3; 4; 9; 26. OSISMI (id.) Popolo della costa settentrionale dell’odierna Bretagna: II, 34; III, 9; VII, 75. PAOLO, LUCIO (Paulus, L.) Fu console nel 50 a.C. insieme a Claudio Marcello: VIII, 48. PARISI (Parisii) Popolazione celtica stanziata sul medio corso della Senna: VI, 3; VII, 4; 34; 57; 75.

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(Pedius, Q.) Figlio di una sorella di Cesare. Console nel 43 a.C., fu poi fautore del secondo triumvirato: II, 2; 11. PEMANI (Paemani) Popolazione germanica: II, 4. PETROCORI (Petrocorii) Popolo celtico abitante sull’alto corso degli affluenti di destra della Dordogna: VII, 75. PETRONIO, MARCO (Petronius, M.) Centurione dell’ottava legione, morto eroicamente nell’attacco di Gergovia nel 52 a.C.: VII, 50. PETROSIDIO, LUCIO (Petrosidius, L.) Vessillifero della legione di Titurio, morto (54 a.C.) combattendo contro Ambiorige: V, 37. PICTONI (Pictones) Popolazione celtica abitante sulla costa occidentale, a sud della Loira: III, 11; VII, 4; 75; VIII, 26; 27. PIRENEI (Pyrenaei montes) Catena montuosa: I, 1. PIRUSTI (Pirustae) Popolo dell’Illiria che viveva di rapina: V, 1. PISONE, AQUITANO (Piso) Nobile e valoroso cavaliere aquitano morto combattendo contro i Germani: IV, 12. PISONE, L. CALPURNIO (PiPEDIO, QUINTO

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LA GUERRA GALLICA

so, L. Calpurnius) Console nel 112: I, 12. PISONE, L. CALPURNIO (Piso, L. Calpurnius) Console nel 58, nipote del precedente: I, 6; 12. PISONE, MARCO PUPIO (Piso, M. Pupius) Console nel 61: I, 2; 35. PLEUMOZI (Pleumoxii) Popolo della Gallia belgica dipendente dai Nervi: V, 39. PO (Padus): V, 24. POMPEO (Pompeius, Cn.) Triumviro con Cesare e Crasso nel 60 a.C, console nel 55 con Crasso. Confermò a Cesare il comando nella Gallia per altri cinque anni. Venuto in dissidio armato con Cesare, fu da lui sconfitto a Farsalo, nel 49 a.C.: IV, 1; VI, 1; VII, 6; VIII, 52; 53; 54; 55. POMPEO (Pompeius Cn.) Gallo: V, 36. PORTO IZIO, v. Izio. PTIANI (Ptianii) Popolo dell’Aquitania: III, 27. PULLONE (Pullo, T.) Centurione dell’esercito di Cesare protagonista della gara di valore descritta in: V, 44. (id.) Popolo che era stanziato nella regione a nord degli Elvezi: I, 5; 29; VI, 25; VII, 75.

RAURACI

REDONI (Redones) Popolo dell’odierna Bretagna nel territorio di Rennes: II, 34; VII, 75. REMI (id.) Popolo belga abitante fra l’Aisne e la Marna: II, 3; 4; 5; 6; 7; 9; 12; III, 11: V, 3; 24; 53; 54; 56; VI, 5; 12; 44; VII, 63; 90; VIII, 6; 11; 12. RENO (Rhenus) Fiume della Germania: I, 1; 2; 5; 27; 28; 31; 33; 35; 37; 43; 44; 53; 54; II, 3; 4; 29; 35; III, 11; IV, 1; 3; 4; 6; 10; 14; 15; 16; 17; 19; V, 3; 24; 27; 29; 41; 55; VI, 9; 24; 29; 32; 35; 41; 42; VII, 65; VIII, 13. RODANO (Rhodanus) Fiume che dal S. Gottardo, attraversato il lago di Ginevra, si versa nel Mediterraneo: I, 1; 2; 6; 8; 10; 11; 12; 33; III, 1; VIII, 65. ROMA (id.): I, 31; VI, 12; VII, 90. ROMANI: Il nome ricorre circa 200 volte. ROSCIO, LUCIO (Roscius, L.) Lucio Roscio Fabato fu un cesariano, legato di Cesare in Gallia. Cadde nella battaglia di Modena, combattuta tra Ottaviano e Antonio: V, 24; 53. RUTENI (id.) Popolo abitante sulle rive del Tarn, affluente della Garonna: I, 45; VII, 5; 64; 75; 90.

INDICE DEI NOMI

(Samarobriua) Odierna Amiens: V, 24; 47; 53. SAMBRE (Sabis) Affluente della Mosa: II, 16; 18. SÀNTONI (id.) Popolo abitante sulla riva destra della Garonna, nella zona verso il mare: I, 10; 11; III, 11; VII, 75. SAONA (Arar) Fiume; attraversava le terre dei Sèquani e degli Edui: I, 12; 13; 16; VII, 90; VIII, 4. SCHELDA (Scaldis) Affluente della Mosa: VI, 33. SEDULLO (Sedullus) Principe e comandante dei Lemovici, morto ad Alesia nel 52 a.C.: VII, 88. SEDUNI (id.) Popolazione abitante nelle Alpi Pennine: III, 1; 2; 7. SEDUSI (Sedusii) Popolo germanico: I, 51. SEGNI (id.) Piccolo popolo sulle rive della Mosa: VI, 32. SEGONTIACI (id.) Popolo abitante nella parte sud della Britannia: V, 21. SEGOVACE (Segouax) Uno dei quattro re del Canzio: V, 22. SEGUSIÀVI (Segusiaui) Popolo celtico situato ad ovest del Rodano. Capitale Lugduno, oggi Lyon: I, 10; VII, 64; 75. SAMAROBRIVA

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SEMPRONIO, MARCO RUTILO (Sempronius Rutilus,

M.) Assegnato come dipendente a Labieno, dopo la vittoria di Alesia: VII, 90. SENNA (Sèquana) Il fiume di Parigi: I, 1; VII, 57; 58. SENONI (Senones) Popolazione celtica abitante sull’alto corso della Senna: II, 2; V, 54; 56; VI, 2; 3; 5; 44; VII, 4; 11; 34; 56; 58; 7.5. SÈQUANI (id.) Popolo compreso tra l’alto corso del Rodano, del Reno e i Vosgi. Capitale: Vesonzione, oggi Besançon: I, 1; 2; 3; 6; 8; 9; 10; 11; 12; 19; 31; 32; 33; 35; 38; 40; 44; 48; 54; IV, 10, VI, 12; VII, 66; 67; 75; 90. SERTORIO, QUINTO (Sertorius, Q.) Legato di Mario: III, 23. SESTIO,

PUBLIO

BACULO

(Sextius Baculus, P.) Valoroso combattente dell’esercito di Cesare, da lui spesso ricordato: II, 25; III, 5; VI, 38. SESTIO, TITO (Sextius, T.) Legato di Cesare: VI, 1; VII, 49; 51; 90; VIII, 11. SIBUZATI (Sibuzates) Popolo dell’Aquitania, abitante sulla costa dell’Oceano: III, 27. SIGAMBRI (Sugambri) Popolo germanico abitante in-

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LA GUERRA GALLICA

torno al Sieg: IV, 16; 18; 19; VI, 35. SILANO, MARIO (Silanus, M.) Legato di Cesare: VI, 1.

SVEVI

SILLA,

(Tamesis) Fiume della Britannia: V, 11 18. TARBELLI (id.) Popolo sul golfo di Guascogna: III, 27, TARUSATI (Tarusates) Popolo ad occidente dell’Aquitania: III, 23; 27. TASGEZIO (Tasgetius) Re dei Carnuti, fedele a Cesare, assassinato da avversari politici nel 54 a.C.: V, 25; 29. TASSIMAGULO (Taximagulus) uno dei quattro re del Canzio: V, 22. TENTERI (Tenctheri) Popolo germanico sulla riva destra del Reno: IV, 1; 4; 16; 18; V, 55; VI, 35. TERGESTINI (id.) Abitanti di Tergeste (Trieste): VIII, 24. TERRASIDIO, TITO (Terrasidius, T.) Tribuno militare nelle legioni di Cesare. Nel 56 a.C. venne fatto prigioniero dagli Esuvi: III, 7; 8. TEUTOMATO (Teutomatus) Re dei Nítiobrugi: VII, 31; 46. TEUTONI (id.) Popolo abitante nella Germania settentrionale, sceso in Italia e vinto da G. Mario nel 104 a.C.: I, 33; 40; II, 4; 29; VII, 77.

LUCIO

CORNELIO

(Sulla, L. Cornelius) Il famoso dittatore rivale di G. Mario: I, 21. SILLIO, TITO (Sillius, T.) Militò sotto Cesare nella Gallia con il grado di tribuno militare. Nel 56 a.C. venne fatto prigioniero dai Veneti: III, 7; 8. SOLE (Sol) Una delle deità venerate dai Germani:VI, 21. SOZIATI (Sotiates) Popolo sulla riva sinistra della Garonna: III, 20; 21; 22. SPAGNA (Hispania): I, 1; III, 23; V, 1; 13; 27; VII, 55. SUESSIONI (Suessiones) Popolo belga che occupava la zona tra la Marna, l’Aisne e l’Oise e aveva per capitale Novioduno (Soissons): II, 3; 4; 12; 13; VIII, 6. SULPICIO,

PUBLIO

RUFO

(Sulpicius Rufus, P.) Militò con Cesare in Gallia; nel 48 a.C. fu comandante della flotta cesariana. Ottenne nel 47 come provincia l’Illiria e vi rimase fino al 45: IV, 22; VII, 90. SURO (Surus) Capo eduo ribelle, catturato da Labieno nel 51 a.C.: VIII, 45.

(Suebi) Popolo germanico: I, 37; 51; 54; IV, 1; 3; 4; 7; 8; 16; 19; VI, 9; 10; 29.

TAMIGI

INDICE DEI NOMI

(id.) Tribù degli Elvezi: I, 12.

TIGURINI

TITURIO, QUINTO SABINO

(Titurius Sabinus, Q.) Legato di Cesare, morì nel 54 a.C. combattendo contro Ambiorige: II, 5; 9; 10; III, 11; 17; 18; 19; IV, 22; 38; V, 24; 26; 27; 29; 30; 31; 33; 36; 37; 39; 41; 47; 52; 53: VI, 1; 32; 37. TOLOSA (id.) Capitale della Provenza: III, 20. TOLOSATI (Tolosates) Abitanti della Provenza sulla Garonna. Loro capitale era Tolosa: I, 10; VII, 7. TREBIO, MARCO (Trebius, M.) Tribuno militare nelle legioni di Cesare: III, 7; 8. TREBONIO, C. (Trebonius, C.) Cavaliere romano: VI, 40. TREBONIO, CAIO (Trebonius, C.) Questore nel 60 a.C. e nel 55 tribuno della plebe. Nel 54 fu legato di Cesare in Gallia. Combatté nel 49 nella Spagna contro Afranio e partecipò all’assedio di Marsiglia. Pretore nel 48 in Spagna. Nel 44 prese parte alla congiura contro Cesare. Diede aiuto a Cassio e fu governatore dell’Asia: V, 17; 24; VI, 33; VII, 11; 81; VIII, 6; 11; 14; 46; 54.

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(Treueri) Popolo abitante sulle due rive della Mosella. Capitale Augusta dei Treveri, oggi Trier: I, 37; II, 24; III, 11; IV, 6; 10; V, 2; 3; 4; 24; 47; 53; 55; 58; VI, 2; 3; 5; 6; 7; 8; 9; 29; 32; 44; VII, 63; VIII, 25; 45; 52. TRIBOCI (id.) Popolo germanico sulla sinistra del Reno: I, 51; IV, 10. TRINOVANTI (Trinouantes) Popolo abitante nella parte sud-est della Britannia: V, 20; 21; 22. TULINGI (id.) Popolo germanico dell’alto Retto: I, 5; 25; 28; 29. TURONI (id.) Popolo gallico abitante sulla Loira. La capitale era Cesaroduno, oggi Tours: II, 35; VII, 4; 75; VIII, 46. TREVERI

UBII (id.) Popolo germanico sulla sinistra del Reno: IV, 3; 8; 11; 16; 19; VI, 9; 10; 29. UNELLI (id.) Popolo abitante in una breve penisola nel nord della Normandia: II, 34; III, 11; 17; VII, 75. USIPETI (Usipetes) Popolo germanico sulla destra del Reno: IV, 1; 4; 16; 18; VI, 35. UXELLODUNO (Uxellodunum) Città fortificata dei Cadurci, dove è ora Puy d’Issolu: VIII, 32; 40.

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LA GUERRA GALLICA

(Vacalus) Braccio del Reno che si getta nella Mosa: IV, 10. VALERIO CABURO, c. (Valerius Caburus, C.): I, 47; VII, 65. VACALO

VALERIO, GAIO DOMNOTAURO (Valerius Domnotaurus,

C.) Fratello di Gaio Valerio Procillo. Gallo di origine, fu adottato dalla gente Valeria: VII, 65. VALERIO,

GAIO

PLACCO

(Valerius Flaccus, C.) Governatore della Gallia nell’83 a.C. Adottò il precedente e il fratello Procillo: I, 47. VALERIO, GAIO PROCILLO

(Valerius Procillus, C.) Figlio di C. Valerio Caburo, fratello di C. Valerio Domnotauro, adottato da Gaio Valerio Flacco: I, 47; 53. VALERIO, CAIO TROCILLO

(Valerius Troucillus, C.) Principe della Provenza: I, 19. VALERIO, LUCIO PRECONINO

(Valerius Praeconinus, L.) Personaggio conosciuto solo per accenno di Cesare. Probabilmente combatté in Gallia durante la guerra di Sertorio (80-72 a.C.): III, 20. VALETIACO (Valetiacus) Nobile eduo, fratello di Coro: VII, 32.

VANGIONI (Vangiones) Popolo germanico fra i Treviri e i Nemeti: I, 51. VATINIO, P. (Vatinius, P.) Legato di Cesare: VIII, 46. VELANIO, QUINTO (Velanius, Q.) Tribuno militare nell’esercito di Cesare in Gallia. Nel 56 a.C. venne fatto prigioniero dai Veneti: III, 7; 8. VELIOCASSI (Veliocasses) Popolo belga sulla Senna, a sud dei Bellovaci. Loro capitale era Rotomagus (Rouen): II, 4; VII, 75; VIII, 7. VELLAUNODUNO (Vellaunodunum) Città dei Senoni, forse l’odierna Landon: VII, 11; 14. VELLAVI (Vellauii) Popolo celtico, cliente degli Arverni: VII, 75. VENETI (id.) Popolo abitante sulla costa meridionale della Bretagna, nella regione con capitale Venezia (Vannes): II, 34; III, 7; 8; 9; 11; 16; 17; 18. VENEZIA (Venetia) Capitale dell’omonima regione: III, 9. VERAGRI (id.) Popolo delle Alpi Pennine: III, 1; 2. VERBIGENO (Verbigenus, pagus) Tribù degli Elvezi: I, 27.

INDICE DEI NOMI

VERCASSIVELLAUNO (Vercassiuellaunus) Del popolo degli Arverni, cugino di Vercingetorige, guidò le truppe che dovevano aiutare gli assediati di Alesia ma fu lui pure vinto da Cesare: VII, 76; 83; 85; 88. VERCINGETORIGE (Vercingetorix) Del popolo degli Arverni. Aspirava a regnare sulla sua gente e si fece promotore della ribellione contro Cesare nel 52 a.C. Combatté valorosamente, finché si diede prigioniero dopo la sconfitta subita ad Alesia: VII, 4; 8; 9; 12; 14; 15; 16; 18; 20; 21; 26; 28; 31; 33; 34; 35; 36; 44; 51; 53; 55; 63; 66; 67; 68; 70; 71; 75; 76; 81; 82; 83; 84; 89. VERTICONE (Vertico) Nobile Nervio, fedele al legato Cicerone: V, 45; 49. VERTISCO (Vertiscus) Capo e comandante la cavalleria dei Remi, morto combattendo contro i Bellovaci nel 51 a.C.: VIII, 12. VERUCLEZIO (Verucloetius) Nobile elvezio: I, 7. VESONZIONE (Vesontio) Capitale dei Sèquani, oggi Besançon: I, 38; 39. VIENNA (id.) Capitale degli Allobrogi: VII, 9. VIRIDOMARO (Viridoma-

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rus) Uno dei capi edui, di umile origine: VII, 38; 39; 40; 54; 55; 63; 76. VIRIDOVICE (Viridouix) Capo dei Vnelli: III, 17; 18. VIROMANDUI (id.) Popolo belga nell’odierna Vermandois; capitale Augusta dei Viromandui. Oggi St. Quintin: II, 4: 16; 23. VOCATI (Vocates) Popolo dell’Aquitania: III, 23; 27. VOCCIONE (Voccio) Re del Norico; una sua sorella era moglie di Ariovisto: I, 53. VOCONZI (Vocontii) Popolo abitante nel sud della Provenza: I, 10. VOLCI ARECOMICI (Volcae Arecomici) Popolo stanziato nella regione che si stendeva dalla Provenza all’Aquitania e al Rodano. Capitale Namauro, oggi Nîmes: VII, 7; 64. VOLCI TECTOSAGI (Volcae Tectosages) Popolo stanziato tra i Pirenei e Narbona, con capitale Tolosa. Una parte di esso emigrò in Germania: VI, 24. VOLUSENO, GAIO QUADRATO (Volusenus Quadratus,

C.) Tribuno militare di Cesare a cui fu fedele anche durante la guerra civile. Dopo la morte di Cesare fu tribuno della plebe e seguì il par-

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LA GUERRA GALLICA

tito di M. Antonio: III, 5; IV, 21; 23; VI, 41; VIII, 23; 48. VORENO, LUCIO (Vorenus, L.) Centurione della legione di Cicerone, protagonista della gara di valore con Tito Pulione: V, 44. VOSGI (Vosegus, mons) Monti dai quali nasce la Mosa: IV, 10.

(Vulcanus) Uno degli dèi venerati dai Germani: VI, 21,

VULCANO

VULCAZIO,

CAIO

TULLIO

(Volcacius Tullus, C.) Comandante del distaccamento lasciato da Cesare di guardia al ponte sul Reno nel 53 a.C.: VI, 29.