La fondazione dell'ontologia

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La fondazione dell'ontologia

Table of contents :
La
F ondazione dellOntologia
IL PENSIERO DI NICOLAI HARTMANN
PREFAZIONE
INTRODUZIONE
Sezione I
IL CONCETTO DELL’ENTE E LA SUA APORIA
Sezione II
CONCEZIONI TRADIZIONALI DELL’ENTE
Sezione III
DETERMINAZIONI DELL’ENTE SECONDO LA MANIERA D’ESSERE
Sezione 1
L’APORETICA DEL « CHE » E DEL « CHE COSA »
Sezione II
IL RAPPORTO ONTICO POSITIVO DELL’ESSERCI E DELL’ESSERE-COSÌ
Sezione III
IL RAPPORTO INTERNO DEI MOMENTI DELL’ESSERE
Sezione I
LA CONOSCENZA E IL SUO OGGETTO
Sezione li
GLI ATTI EMOZIONALI-TRASCENDENTI
Sezione III
VITA REALE E CONOSCENZA DELLA REALTÀ

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NICOLAI HARTMANN

La Fondazione dellOntologia A CURA DI FRANCESCO BARONE

FRATELLI FABBRI EDITORI

Titolo originale: ZUR GRUNDLEGUNG DER ONTOLOGIE WALTER DE GRUYTER & CO VERLAG - BERLIN 1935

Traduzione dal tedesco di Francesco Barone

PROPRIETÀ LETTERARIA E ARTISTICA RISERVATA

© 1963 by Fratelli Fabbri Editori, Milano Arti Grafiche RAIMONDI - Milano Printed in Italy

INTRODUZIONE

IL PENSIERO DI NICOLAI HARTMANN

1. Attualità dello Hartmann.

«La vita dell’uomo moderno non è favorevole all’approfondimen­ to. Essa si sottrae alla tranquillità e alla contemplazione, è una vita di attività continua e affrettata, una lotta senza scopo e riflessione. Chi si ferma un istante è subito superato. E anche le impressioni, le esperienze immediate e le sensazioni si succedono l’una all’altra come le istanze della vita esteriore. Il nostro sguardo è sempre rivolto alla novità più recente, a ogni istante siamo sotto il dominio di ciò che è ultimo, e quello che precede è subito dimenticato, non soltanto prima di com­ prenderlo, ma addirittura ancor prima di vederlo con esattezza. Noi vi­ viamo di sensazione in sensazione: la nostra capacità di penetrazione si appiattisce e il nostro sentimento del valore degrada nella ricerca del sensazionale ». Così Nicolai Hartmann delineava la situazione dell’uomo moderno, nell’introduzione AYEtica del 1925; e lo stesso giudizio ripeteva, immu­ tato, nella terza edizione dell’opera, l’anno precedente la sua scompar­ sa, avvenuta il 9 ottobre 1950. L’amara condanna che traspare da queste parole ha portata più vasta di quella di un giudizio storico, che pur racchiude in sé profondi aspetti di verità: non solo essa colpisce quello spirito di insofferenza e di irrequietezza capricciosa che lo Hartmann vedeva affermarsi nella generazione uscita dall’esperienza della prima guerra mondiale e che è diventato una nota dominante della nostra epoca, ma rivela anche gli aspetti più caratteristici della personalità del filosofo tedesco, con una nitidezza pari a quella che fa delle sue opere un esempio singolare nella letteratura filosofica contemporanea.

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L’appello alla «tranquillità» e alla «contemplazione», di fronte all’urgere frenetico della vita, è innanzi tutto espressione della persona­ lità umana dello Hartmann, del suo distacco dal presente, della sua indifferenza alle nuove consuetudini, dell’incapacità di abbandonarsi allo « spirito dell’epoca » anche nelle manifestazioni più semplici e co­ muni della vita quotidiana. Così ci appare l’«uomo» Hartmann nelle descrizioni e nei ricordi degli amici e degli allievi: schivo e un po’ freddo all’apparenza, ma ricco di comunicatività nelle lezioni e nei se­ minari. Personalità umana e personalità scientifica sono tuttavia così intimamente fuse nello Hartmann che i caratteri salienti della prima illuminano di luce singolarmente vivida anche l’intonazione e il meto­ do della sua filosofia. Come l’uomo, anche il filosofo è lontano dallo spirito dell’epoca e dalla modernità che assorbono in un presente feb­ brile. L’uomo amante della tradizione e avverso alle innovazioni este­ riori, sian pur le più innocenti, si rivela anche nello stile del suo filoso­ fare, sordo alle sirene delle mode culturali ed esemplificato piuttosto, pur con piena originalità, sui grandi modelli del passato. Filosofia accademica, dunque, quella dello Hartmann? Filosofia da cattedra universitaria che, in un’accezione diventata oggi sin troppo corrente, pare esser sinonimo di lontananza dalla vita, di mancanza di contatto con i problemi effettivamente concreti ed urgenti? Tale quali­ ficazione, non riferita alle soluzioni e ai temi specifici del pensiero hartmanniano, bensì già al suo stesso tono e all’impostazione problema­ tica, può apparire plausibile a chi guardi quasi esclusivamente alla riso­ nanza e al successo della filosofia dello Hartmann presso i contempora­ nei. Nel pensiero odierno non c’è un « caso » Hartmann analogamente ad altri casi ben noti di filosofi europei ed americani; le sue opere hanno avuto diffusione soltanto in ambienti ristretti e tecnici e, anche le maggiori, sono state scarsamente tradotte. Tutto ciò, ovviamente, può dipendere da molti motivi: da diversità di statura speculativa, dalla forza innovatrice delle tesi proposte, dalla complessità dei loro contesti, dalla scarsa presa che questi offrono alle libere « variazioni » personali ; ma, senza dubbio, non è estranea a tale situazione la particolare forma mentis dell’autore che si esprime direttamente nella sua opera e non la lascia indulgere a ciò che l’epoca pare richiedere, che impone la rinun­ cia alle più facili e diffondibili intuizioni del mondo per il lavoro mi­ nuto, seriamente impegnato sui singoli problemi e non timoroso d’ap­ pannare la brillantezza con la modesta fedeltà professionale alla Ge­ lehrsamkeit, allo spirito della ricerca scientifica. Da questo punto di vista, qualificare «accademico» in senso de­ teriore il tono e il modo di filosofare dello Hartmann in base alla por­ 6

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tata più o meno ampia del suo successo, sarebbe fortemente ingiusto ed inesatto. Vi è in essi una modernità e un’attualità assai più profonde del­ le spesso labili consacrazioni culturali, perché i problemi su cui si im­ pernia tutta l’attività hartmanniana sono radicati, di là dalla varietà delle soluzioni, in quel moto di pensiero che, tra la fine del secolo scor­ so e l’inizio del nostro, rappresenta l’effettiva base comune di tutta la più significativa meditazione odierna. Ciò vale, in primo luogo, già per l’impegno «metafisico» del filosofare hartmanniano; si potrà anche non condividere l’asserzione così spesso ripetuta dal nostro autore che la filosofia dall’inizio del secolo è ritornata, per necessità interiore, ad essere metafisica; potrà apparir forzata la riduzione di tutte le tendenze significative del pensiero contemporaneo a quest’unico, generico deno­ minatore. Ma è indubbio che lo sforzo hartmanniano per il chiarimen­ to del significato della metafisica e per la sua consapevole ricostituzione rientra a buon diritto in un orientamento speculativo che è stato ed è tuttora un elemento comune e caratteristico della filosofia novecentesca. Se, infatti, è tutt’altro che caratteristica comune la ricerca di ricostitu­ zione della metafisica, è d’altra parte proprio il problema della metafi­ sica, dei suoi significati e della sua possibilità, che si ripresenta con con­ tinua insistenza in un orizzonte amplissimo, pur con varietà e addirit­ tura opposizione di soluzioni. La querelle tra metafisici ed antimetafi­ sici, spesso aspra e senza esclusione di colpi, è un contrassegno persin ovvio del panorama filosofico attuale: ed essa trae origine da una situa­ zione problematica ben più profonda delle argomentazioni e delle giu­ stificazioni che sono state proposte, secondo il tempo e l’ambiente, pro o contro la possibilità della metafisica, in quanto proprio il ripresen­ tarsi in veste diversissima ne testimonia il carattere di questione concre­ ta ed urgente. Hartmann non esaspera sino al paradosso la « crisi » implicita in questa polemica. E in un’epoca che ama le « crisi » e i paradossi ciò non stimola l’interesse. D’altra parte, bisogna pur riconoscere che il suo con­ tributo serio e meritevole d’ogni attenzione al problema della metafisica non tiene sostanzialmente conto, come sarebbe stato opportuno, di molti altri contributi contemporanei, non solo di quelli stranieri, bensì anche di quelli appartenenti alla cultura di lingua tedesca. Ciò sorprende in un uomo della cultura dello Hartmann, che in tutte le sue opere con­ duce un « dialogo » filosofico fitto e serrato : ma il « dialogo » è con i classici e, tutt’al più, con i filosofi dell’ultimo ’800 e del primo ’900. L’avversione dello Hartmann per «il dominio di ciò che è ultimo» e per la dimenticanza « di ciò che precede » ha forse qui operato come freno eccessivo; e il dialogo con i classici avrebbe certo tratto giova­ 7

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mento dall’integrazione di un dialogo diretto con i contemporanei: se il primo è un’ottima garanzia contro le ingenuità e le deficienze nei confronti del senso storico, il secondo offre un ampliamento di prospet­ tiva che non è senza importanza anche per le stesse soluzioni proposte. Nonostante queste osservazioni, che possono chiarire la questione della « fortuna » dello Hartmann, rimane tuttavia certa 1’« attualità » del suo impegno metafisico. E ciò appare ancor meglio quando si riflet­ ta su tutte le implicanze che esso comporta. La ricerca sulla possibilità della metafisica è infatti soltanto un aspetto fondamentale d’un pro­ blema ancor più vasto ed essenziale della ricerca filosofica: quello della possibilità e del significato della ricerca stessa. Problema primo della filosofia d’ogni tempo, e che tuttavia si acuisce in modo particolare nelle epoche in cui profondi mutamenti in settori specifici della cultura generale scuotono le concezioni tradizionali e lo ripropongono con in­ sistenza. E questa fu appunto la situazione tipica di fronte a cui venne a trovarsi il pensiero filosofico di fine Ottocento, e che improntò di sé anche gli sviluppi successivi sino a quelli odierni. È stato di recente osservato, acutamente, quanto si inserisca a fon­ do in tale situazione culturale, che esaspera l’esigenza che la filosofia definisca i propri compiti, il pensiero husserliano (1). E molto dell’at­ tualità di Husserl si connette a questo inserimento. Qualcosa di analogo vale anche per lo Hartmann, anche se per la sua « fortuna » è manca­ to il favorevolissimo fattore di una « riscoperta » mediata dal successo dell’esistenzialismo, ed ha pesato anzi negativamente la rapida chiusura di conti che lo Hartmann ha operato con quest’ultimo. Eppure non va dimenticato che a vantaggio dell’effettiva attualità dell’impostazione hartmanniana sta il fatto ch’essa non solo si riferisce alla stessa situa­ zione problematica da cui muove lo Husserl, ma che nel suo sforzo di chiarimento della ricerca filosofica a se stessa tien conto anche delle intenzioni e dei risultati della fenomenologia. Nella « storia » del pensiero hartmanniano, infatti, la fenomenolo­ gia compare cronologicamente come ultimo elemento nella formazione preparatoria degli sviluppi originali. E ciò avviene non estrinsecamente, quasi si trattasse - come pur s’è pensato - d’una semplice apertura eclettica, bensì proprio perché lo Hartmann riconosceva nell’imposta­ zione fenomenologica e nello sforzo verso una filosofia come scienza rigorosa gli stessi suoi problemi, che erano, anche, i problemi effettivi dell’epoca. Vi sono pagine hartmanniane assai significative in merito, (1) Cfr. E. Garin, Introduzione storica, nel volume: E. Garin, E. Paci, P. Prini, Bilancio della jenomenologia e dell’esistenzialismo, Liviana, Padova 1960, p. 24 e ss.

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ovunque il nostro autore ricerca ed interpreta le condizioni storiche del­ la propria impostazione speculativa. Così è, ad esempio, nel saggio Neue Ontologìe in Deutschland e in alcuni capitoli centrali di Zur Grundle­ gung der Ontologie, che qui presentiamo ai lettori italiani. Nella fioritura del positivismo e negli sviluppi del kantismo ritor­ na con insistenza un motivo fondamentale: quello della determinazio­ ne dei rapporti tra filosofia e scienza. Lo sforzo di autodeterminazione della ricerca filosofica si acuisce nei confronti della scienza o, meglio, della molteplicità delle scienze via via consolidatesi su una base rigo­ rosa ed autonoma. Hartmann interpreta l’emergenza storica di questo problema come approfondimento della questione della Grundwissenschaft, della « scienza fondamentale », e vede ruotare attorno ad essa, come centro unitario, tutta la varietà delle soluzioni proposte. Che la filosofia vada alla ricerca di se stessa come « scienza fondamentale » significa più cose: che almeno essa deve fare i conti seriamente con le scienze positive rifuggendo dalle costruzioni e dalle forzature arbitrarie della metafisica idealistica; che pur mantenendo l’orientamento e lo spirito di ricerca delle scienze particolari deve trovarne un centro unifi­ catore che garantisca la propria fondamentalità; che il piano centrale di ricerca deve permettere uno sviluppo sistematico di indagine su tutti gli altri piani, senza cadere nelle unilateralità dei sistemi tradizionali che hanno dato facile gioco alla critica con la loro precarietà. Hartmann vede una risposta a queste istanze essenziali in tutti i tentativi che hanno via via individuato la scienza fondamentale nella logica, nella gnoseologia, nella psicologia e nella fenomenologia. V’è una dialettica interna ad essi, che sono accomunati non solo dall’esigen­ za di sostituirsi alla vecchia metafisica della «filosofia prima», bensì anche da una « riflessione » dell’atteggiamento di ricerca dal mondo al­ l’uomo. La filosofia pare volersi distinguere dalla scienza, assumendo l’aspetto di «coscienza della scienza», mediante una introversione del proprio orientamento. Così è quando si presenta come logica indagante le condizioni di validità formale del giudizio e dell’inferimento scien­ tifico, e anche quando, riconosciuta l’insufficienza dello strumento for­ male, propone la gnoseologia quale scienza fondamentale. La teoria della conoscenza inclinò sempre più a lasciare sullo sfondo l’effettiva « comprensione » di ciò che è per ripiegarsi sui modi della compren­ sione, sui fenomeni della coscienza; e in tale situazione diventa stori­ camente comprensibile la candidatura della psicologia a Grundwissen­ schaft, tanto frequentemente avanzata negli ambienti positivistici. Nel­ l’analisi psicologica degli atti del percepire, del ricordare, del rappre­ sentare e di tutti gli altri atti che costituiscono il processo conoscitivo,

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pare di pervenire all’origine di ogni datità e di ogni orientamento, sen­ za trascendere in alcun modo la coscienza, che diventa il proprio oggetto. Contro il dilagare dello psicologismo e quale rimedio alle sue aporie - da quella dell’impossibilità di accertare la validità gnoseolo­ gica dell’atto attraverso l’analisi della sua genesi, a quelle proprie dei metodi di autosservazione o di esperimentazione — si eresse la reazione fenomenologica. Nella fenomenologia c’è la più vigorosa espressione storica della situazione problematica in cui la filosofia contemporanea va alla ricerca di una propria autodefinizione. Da un lato, infatti, vi è in essa l’esigenza della più rigorosa scientificità, che non viene a com­ promessi, per la ricerca del carattere di fondamento, con costruzioni arbitrarie; dall’altro, tuttavia, l’esigenza della scientificità non la vinco­ la all’imitazione dei metodi delle scienze, sicché, attraverso 1’« analisi essenziale », essa può effettivamente pretendere alla fondamentalità. Lo Hartmann riconosce ciò e su tale riconoscimento poggia la sua accet­ tazione dell’istanza fenomenologica. Nondimeno, confortato anche dal cammino intellettuale dello Husserl, egli scorge nella fenomenologia un orientamento di fondo riflesso alla pari con i tentativi precedenti di costituzione di una Grundwissenschaft: l’analisi dei fenomeni non cade nelle unilateralità dello psicologismo, ma è ancor sempre rivolta più all’atto che all’oggetto dell’atto, e non può elevarsi ad analisi degli oggetti finché le manchi un criterio di distinzione tra fenomeno reale e fenomeno apparente. Anche la fenomenologia è, per il nostro autore, più l’indicazione che la risposta al problema primo della filosofia. Se le riflessioni precedenti valgono per le tendenze intellettualisti­ che o razionalistiche della filosofia a cavallo dei due secoli, un’interpre­ tazione analoga viene data dallo Hartmann anche alle correnti « antintellettualistiche », dalla critica della scienza all’intuizionismo bergsoniano, dallo storicismo alla filosofia della vita e al pragmatismo. Alla loro base vi è la stessa esigenza già rilevata per la filosofia di distinguersi e confrontarsi con la scienza, sia pur con una forte accentuazione dei caratteri differenziali; e a loro termine sta pure un orientamento «ri­ flesso », un ripiegamento sull’uomo nella ricerca del centro fondante ed unificante della filosofia. Per tutte le tendenze di opposizione al dominio unilaterale della scienza si verifica un paradossale adattamento agli orientamenti propri delle tendenze « intellettualistiche ». In queste ultime l’insistente attenzione ai successi e ai metodi delle scienze aveva portato - attraverso la mediazione della logica e della gnoseologia — ad una riflessione quasi esclusiva sui procedimenti interni alla scienza, sen­ za più riferimento alla sua apertura al mondo. E la stessa via seguono

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anche le correnti di pensiero polemicamente attive contro l’intellettuali­ smo : esse soggiacciono, involontariamente, al gioco interno dei loro av­ versari, identificano la scienza con il puro movimento del pensiero scien­ tifico, e concentrano il loro sguardo sugli altri aspetti delle diverse attività dell’uomo, senza tuttavia più inserirle nelle loro maggiori con­ nessioni ontiche. Su questa base di interpretazione storica poggia l’impostazione ori­ ginale dello Hartmann e il suo tentativo di costituzione di una ricerca filosofica autonoma eppure rigorosamente scientifica, non legata ai ca­ noni dell’intellettualismo e tuttavia lontana dalle seduzioni irraziona­ listiche. Ciò gli parve possibile soltanto con un’inversione radicale del­ l’orientamento di pensiero comune a tutte le correnti, di cui tuttavia ac­ coglieva i problemi: se la filosofia dev’essere «coscienza della scienza» non deve diventar tale con una riflessione e una chiusura all’interno della coscienza e della sfera umana, bensì piuttosto riprendendo in modo esplicito l’apertura della scienza al mondo e la sua impostazione « on­ tologica». Ovviamente, la soluzione proposta dallo Hartmann, come tutte le soluzioni, e il modo della sua attuazione potranno essere di­ scussi: ma proprio per questo, oltre che per la loro manifesta connes­ sione con una situazione problematica che noi sentiamo ancor viva, è fuori dubbio l’effettiva attualità dell’impostazione del suo filosofare.

2. L’ L’Ethil^ assolve nel campo assiologico alla stessa funzione dei Grundzüge nel campo gnoseologico: si oppone alla tendenza soggettij vistica di considerare unilateralmente la coscienza morale ed i suoi atti, i prescindendo dall’aspetto ontico-contenutivo delle istanze morali e dei valori corrispondenti. Nello stesso tempo essa affronta l’esame della ma­ niera d’essere dei valori e dell’uomo valutante ed agente, contribuendo così allo sviluppo di un campo specifico di quell’analisi categoriale che si era venuta prospettando come piano di lavoro proprio dell’ontologia. Lo Hartmann accetta la critica scheleriana del formalismo e del­ l’intellettualismo kantiano, fondata sulla distinzione delle coppie « formale-materiale » e « a priori-a posteriori ». Kant ebbe il merito di chia1 rire la natura aprioristica della valutazione morale, contro tutti i ten। tarivi di fondazione empiristica di essa, dall’eudemonismo all’utilitarismo; la debolezza della sua teoria sta però nell’identificazione del­ l’« a priori » con il « formale » e dell’« a posteriori » con il « materia> le ». L’apriorità implica sempre validità universale, ma l’universalità non si identifica necessariamente con il formale. Nella geometria, ad esem­ pio, ci sono leggi con un ambito ristretto ed altre che hanno un ambito più vasto; le ultime sono formali rispetto a quelle, mentre le prime , sono materiali nei loro confronti; entrambi i tipi di leggi conservano ( tuttavia la loro apriorità. Una situazione analoga si ha anche nell’etica: la legge morale o il criterio del valore può avere una « materia » senza perdere l’apriorità. Una volontà determinata materialmente non è de­ terminata in modo empirico, poiché la determinazione «materiale»! non è necessariamente né determinazione naturale né dipendenza cau­ sale, e può conservare la sua origine a priori completamente autonoma. L’etica contemporanea può così svincolarsi dal predominio formalistico del « dover essere » e ritornare in consonanza con la grande etica clas­ 25

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sica alla ricerca delle determinazioni contenutive di ciò che ha valore, perché è solo dal riconoscimento delle determinazioni assiologiche ma­ teriali che può emergere, senza essere vuoto, il loro carattere impera­ tivo di istanza, di Sollen. Nell’etica kantiana, inoltre, accanto e strettamente congiunto al di­ fetto formalistico, ce il difetto soggettivistico che altera anche tutta la prospettiva teoretica. Qui sta per Hartmann la radice del relativismo morale, che trasforma la molteplicità e la variabilità storica delle morali correnti in una arbitrarietà di valutazioni e in una « creazione » uma­ na dei valori. Il soggettivismo trascendentale, che mirava a fondare la libertà e la responsabilità morale, le rende in realtà incomprensibili, poiché esse non richiedono l’autonomia del volere o la posizione del principio morale da parte della volontà, bensì piuttosto la distanza dal principio, in modo che la volontà possa muoversi pro o contro esso. E la condizione della distanza può essere soddisfatta solo se il principio non si radica nella volontà ed ha un’origine diversa. L’assolutezza del । principio - a cui paradossalmente riporta, se non vuole annullarsi, an! che la più recisa affermazione relativistica -, può essere garantita, dun; que, non dalla sua origine soggettiva, ma dal sussistere di esso nella sfera dell’essere ideale. La concezione scheleriana dell’oggettività dei valori e della loro intuibilità emozionale offre per lo Hartmann la possibilità di tale prin­ cipio morale assoluto. Egli tuttavia interpreta l’oggettività in senso schiet­ tamente ontologico, sciogliendo l’implesso scheleriano in cui l’oggetti­ vità si rivelava ora come il puro correlativo dell’intenzionalità della 1 coscienza ora invece come gerarchia assiologica fissata da un ordina; mento divino. Lo Hartmann chiude in parentesi lo sfondo teologico dell’etica dello Scheier, come risulta chiaramente dall’inserimento dei valori morali o virtù nel « mondo dei valori », mentre nella prospettiva scheleriana il bene morale non rientrava nella gerarchia assiologica ed era semplicemente l’adesione ai valori preferiti emozionalmente secon­ do una destinazione d’origine divina. Il mondo dei valori diventa per lo Hartmann un κόσμος νοητός dell’essere ideale, accanto agli enti maX tematici ed alle essenze; un insieme di entità ontologiche che hanno ^essere in sé indipendente dalla relazione al soggetto che ne ha coscienza. Non c’è differenza tra i valori e le altre essenze quanto alla aseità della loro maniera d’essere, sebbene l’uomo ne diventi consapevole attraverso un sentimento immediato anziché con una conoscenza intellettuale. E non ne altera l’aseità nemmeno la diversità del rapporto che rispetto alle altre essenze i valori hanno con il mondo reale. Non solo, infatti, essi sono indifferenti — come tutte le essenze ideali — alla loro realiz26

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zazione nel mondo, ma anche la realtà è indifferente ad essi, men­ tre assume gli enti matematici e le essenze anche come suoi principi e strutture categoriali. In ogni valore c’è il momento del «dover es­ sere », della tendenza alla realizzazione ; ma questa non si compie finché un ente reale - la persona umana - non accoglie l’appello del valore ,-\e non ne porta la legge a penetrare la realtà. È soltanto attraverso l’in1 tuizione emozionale della persona umana che il mondo, cioè la nostra vita, le persone e le cose con cui essa si rapporta si colorano assiologicamente: l’essere reale del mondo è di per sé neutro. La teoria della persona acquista così, in Hartmann come già in \ Scheier, una funzione centrale. Ma nelle caratteristiche di tale teoria si rivela nuovamente l’allontanamento dei due pensatori. La contrapposi­ zione scheleriana di io e persona, l’affermata correlazionalità del mondo a quest’ultima, l’ammissione di una Persona infinita appaiono allo Hart­ mann come tipici esempi di una « morale teologica » che contrasta con la datità fenomenologica e s’illude di superare quella che è per lui l’antinomicità fondamentale di etica e religione. « Le materie di tutti i ' valori morali riguardano il comportamento concreto dell’uomo in que­ sto mondo rispetto a uomini di questo mondo... La tendenza all’al di là dal punto di vista etico è tanto contraria al valore quanto la ten­ denza all’al di qua dal punto di vista religioso. Essa è la dissipazione e la deviazione della forza morale dai valori veri e dalla loro realiz­ zazione, ed è perciò immorale... Questa antinomia non è risolvibile per mezzo di alcun compromesso. Il fatto che raramente le due tendenze siano sostenute in modo così netto prova in fine soltanto l’inconseguen­ za umana. In fondo esse sono rigorosamente contraddittorie. Ognuna . nega l’altra. Una delle due tendenze deve necessariamente essere illu­ soria. Nel caso che il contrasto dovesse risolversi, ciò non sarebbe a ogni modo possibile per la ratio, ma di là da essa, nell’irrazionale » (Ethi\, III ed., p. 811). Il personalismo scheleriano ripete per lo Hartmann, nonostante la polemica contro l’idealismo, i motivi del trascendentalismo soggettivi­ stico kantiano. La sua teoria della persona manca di una salda fonda­ zione ontologica, perché Scheier separa la persona dalle determinazioni ontiche che la condizionano. Per lo Hartmann l’analisi fenomenologica mostra nella persona umana l’unico tipo di personalità morale che noi conosciamo; e la persona umana è inscindibilmente vincolata al sog­ getto umano. Si può immaginare un soggetto senza personalità, cioè un ente dotato solo di capacità rappresentativa e privo del sentimento Λ· assiologico, benché tale ente non esista nel mondo reale. Ma un ente personale senza soggettività è per Hartmann impossibile non per sem-

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[ plice contraddittorietà logica, bensì perché esso contraddirebbe la strut' tura del mondo reale, in cui v’è una successione non reversibile di gradi categoriali. Le categorie della realtà fisica sono condizioni materiali . dell’esistenza degli organismi, quelle della vita condizionano a loro C’volta il sorgere della psichicità e della soggettività e, infine, le strutI ture della coscienza ritornano a fondamento della persona morale. In ogni piano dell’essere reale c’è una novità categoriale che è autonoma ; nei confronti della struttura degli enti del piano inferiore, ma che tut­ tavia non può sussistere senza essa. L’irreversibilità della successione categoriale esclude come specula­ tivamente astratta l’ammissione di persone di «ordine più alto» della i> persona umana. Soltanto l’uomo è il mediatore della realizzazione del­ l’ordine assiologico nel mondo : l’etica hartmanniana unisce al platoni­ smo dei valori un rigoroso umanismo. L’apertura all’appello dei valori è il momento più autentico dell’uomo, il contrassegno della sua posi­ zione di superiorità al vertice del reale. Di qui risulta l’importanza del­ l’etica, che si rivolge al lavoro specifico dell’umanità, e non si riduce alla formulazione di una norma formale, ma consiste nel riconoscere e nell’apprezzare tutti i valori. L’intuizione immediata dei valori non \è mai esaustiva; la storia dell’umanità vede anzi un continuo sorgere e decadere di valori nuovi assunti a norma della vita. Ciò non significa, come spesso si è interpretato, una relatività dei valori: questi conser­ vano la loro assolutezza; mutevole è soltanto la coscienza che l’uomo \ ha di essi, cosicché ogni epoca ha una relativa « cecità assiologica » per ' determinati ordini di valori. Compito centrale dell’etica è di tentare, indipendentemente dalla relatività dei punti di vista storici, una «as­ siologia dei costumi», cioè una descrizione fenomenologica dei vari ordini di valori e delle dottrine morali che li hanno assunti a norma. La trattazione dell’ordine dei valori è in alcuni punti appesantita da una soverchia predilezione per la classificazione minuta a cui lo Hartmann talvolta indulse nonostante l’avversione per i sistemi chiusi. Tuttavia, molte delle pagine hartmanniane dedicate alla descrizione assiologica vanno annoverate tra le più felici espressioni del metodo fenomenologico. La loro efficacia non è strettamente legata al tentativo di ordinamento gerarchico dei valori in base all’immediatezza intuitiva àeWordre du coeur - tentativo che introduce nella sfera assiologica una pianificazione analoga a quella di cui lo Hartmann si vale nella deter­ minazione degli strati del reale, e che perviene a delineare due tipi fondamentali di moralità, quello della rettitudine, imperniato sui valori più bassi e forti, e quello della perfezione, in cui prevalgono i valori più deboli e alti -, ma si inserisce con nuovo vigore nella nobile tradi28

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zione dei «moralisti». Lo schema ordinativo non soffoca la vivacità delle singole analisi dei valori morali fondamentali e, specialmente, dei valori morali particolari o virtù, analisi che reggono validamente il confronto con le indagini classiche sulle «virtù» e sulle «passioni». Un particolare interesse suscitano in questo contesto le analisi dedi­ cate al valore della «personalità ideale» e all’amore che le si rivolge, poiché in esse è affrontato il problema dell’universalità dei valori indi­ viduali. Si tratta di un problema particolarmente urgente per il pen­ siero dello Hartmann, che gli dedicò anche uno dei suoi ultimi scrit­ ti — Das Ethos der Persönlichkeit (cfr. Kleinere Schriften, I) —, e di profondo valore indicativo. «Il valore della personalità non può coin. cidere con la personalità reale. Esso dev’essere qualcosa che sussiste . costante di fronte a questa, che non partecipa al mutamento del suo " essere empirico, ma a cui la personalità reale rimane univocamente rapportata, come tutto il comportamento umano ai valori universali» (Ethil{, p. 509): vi è in queste parole una testimonianza dell’analisi fe­ nomenologica spregiudicata, ma d’altro canto esse pongono in questione la consistenza del tema ontologico dell’etica. Non c’è il rischio ch’esso superi di gran lunga il minimum di metafisica quando popola il cosmo assiologico intelligibile con la indefinita molteplicità dei «valori delle personalità », e proietta nella sfera dei valori in sé, atemporale e indif­ ferente alla realtà, i valori corrispondenti alle persone esistenti nella spazio-temporalità, contingente di fronte alla maniera d’essere ideale? L’Ethih col suo chiarimento della tematica ontologica hartmanniana ci pone di fronte ad un aspetto caratteristico del pensiero del nostro autore: l’efficacia stimolante del momento fenomenologico ed aporetico della sua ricerca a cui non sempre si adegua in positività il momento della «teoria». Il presupposto realistico dell’ontologia grava sovente in modo paralizzante. La diversità di forza tra la schietta apertura feno­ menologica e la costruzione teorica è confermata del resto anche dalla terza parte dell’EiAz^ - la « metafisica dei costumi » - in cui si affronta \il problema della libertà. La soluzione dello Hartmann — validamente contornata dall’esame delle tesi naturalistiche - si muove entro gli sche­ mi della sua concezione ontologica: l’uomo è libero di fronte alla deter­ minazione causale del reale, non perché si sottragga ad essa (a cui lo vincola la sua realtà), ma perché vi inserisce le sue azioni che hanno come norma il dover essere ideale dei valori. D’altra parte, l’autonomia dell’uomo è garantita anche di fronte al valore in virtù della distanza ontica tra questo e la coscienza: l’uomo ha perciò capacità di scelta innanzi all’appello del dover essere. L’autentica libertà è l’autodetermi­ nazione dell’uomo a rispondere alla situazione esteriore con una scelta

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operata nella situazione assiologica rivelatagli dal suo sentimento del valore. Ma nella prospettiva hartmanniana l’autonomia della determi­ nazione umana, indagata acutamente nelle sue testimonianze fenome­ nologiche, è resa dubbia proprio dall’asserita aseità del ς νοητμοοκοό ς, che implica una fondamentale eteronomia della volontà. Se per Hart­ mann è assurdo il concetto della libertà come indifferenza di fronte al nesso causale, non si vede perché tale concetto diventi sensato di fronte al valore: l’atto di libertà negativa con cui si presume di sottrarsi alla ^determinazione di un valore non può essere, per la tematica ontologica, che il cadere inconsapevole sotto la determinazione di altri valori. Il ; « lavoro dell’umanità », la mediazione attuata tra un mondo indiffe­ rente al valore e una sfera assiologica indifferente alla realizzazione, diventa così insipido e insignificante non soltanto per il mondo ma anche per l’uomo. La trattazione assiologica acuisce l’urgenza della questione circa il significato dell’impostazione originaria dell’«ontologia critica» e della valutazione hartmanniana dell’idealismo. Assai calzanti in proposito, e di piena attualità, sono le brevi osservazioni con cui Max Scheier, nel dicembre del ’26, rispose alla discussione dello Hartmann nella prefa­ zione della terza edizione di Der Formalismus. « L’insieme della sua opera mi suggerisce alcune riserve generali, che è senz’altro utile in­ dicare qui con tutta franchezza. Innanzi tutto, mi spiace di non tro­ vare in questo libro un’analisi della vita morale della personalità, qua­ le si manifesta nei grandi processi della coscienza morale, e assolutamente parlando in tutte le specie di “ atti ” morali. Non basta mettersi in grado d’occuparsi del “ contenuto oggettivo ” dei valori ; se non vo­ gliamo ricadere in un oggettivismo e in un ontologismo che raggelano lo spirito vivente, non ci è permesso di trascurare i problemi posti dalla vita morale del soggetto. Proprio in linea di principio, io mi sento co­ stretto a respingere, sin dal limitare della filosofia, un cielo di idee e di valori che dovrebbero esistere del tutto “ indipendentemente ” dal­ l’essenza e dal compimento possibile datti viventi di carattere spiritua­ le, — “ indipendentemente ” non solo dall’uomo e dalla coscienza uma­ na, ma dall’crrcw.sa e dal compimento di uno spirito vivente, quale che sia. Tale principio vale tanto per la teoria della conoscenza e per l’on­ tologia quanto per l’etica (si confronti la Metaphysik der Erkenntnis dello Hartmann con il mio studio intitolato Arbeit und Erkenntnis, particolarmente con la sezione che tratta dell’essenza e della datità della realtà). Questo è il motivo per cui, nonostante i progressi autentici di cui riconosco volentieri che l’etica materiale dei valori è debitrice al­ l’opera di Hartmann, comprese parecchie critiche ch’egli rivolge alle 30

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mie stesse concezioni, come quelle che riguardano il mio concetto di persona (e, tra le altre, la tesi da me sostenuta, per cui è impossibile che la persona sia mai “ oggetto ”), io non posso tuttavia accettare la sua critica della persona comune. Mi sembra frutto di una reazione esagerata contro il posto eccessivo accordato dalla scuola di Marburg all’idea di un “ pensiero creatore ” e di un “ volere puro ”, che cree­ rebbe da solo i valori conformemente a una legge, il fatto che lo Hart­ mann giunga ora, in modo troppo evidente, a un ontologismo del reale e ad un oggettivismo dell’essenza dei valori che rievocano quasi il medioevo, o meglio: che ci fanno retrocedere di qua dalle sostanze spirituali quali le concepisce il cristianesimo, di qua dalla scoperta principale del cristianesimo: quella di un diritto eterno della sogget­ tività vivente, sia in Dio sia nell’uomo, soggettività incapace di qualsiasi oggettivazione e che non può esistere che in atto. A maggior ragione, ciò che lo Hartmann rimette in questione è la scoperta moderna del diritto dello spirito vivente, scoperta che oltrepassa di molto in esten­ sione il progresso che il cristianesimo aveva rappresentato nei confronti del pensiero antico ».

7. L’essere spirituale.

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La nuova opera elaborata dallo Hartmann durante gli anni d’inse­ gnamento nell’università di Colonia, e pubblicata nel ’33, quando già da due anni era stato chiamato, dopo la rinuncia dello Heidegger, alla cattedra di filosofia dell’università di Berlino, è quasi una risposta indi­ retta agli appunti circa l’indifferenza ontologica alla vita spirituale. Das Problem des geistigen Seins è infatti lo studio dell’essere reale nel suo piano più alto, della vita dello spirito in tutte le sue forme. Natural­ mente, la risposta è condotta secondo lo stile e la prospettiva di pen­ siero che lo Hartmann riteneva ormai consolidati e richiedenti soltanto un ulteriore approfondimento. Non si ha in essa una revisione della sua interpretazione e valutazione dell’idealismo, ma piuttosto una ri­ presa delle idee già avanzate nelle sue opere storiche, per metterle alla prova della considerazione teorica e ampliare al tempo stesso l’ambito della ricerca categoriale con la considerazione della forma più complessa della realtà. L’essere spirituale non deve essere confuso, per lo Hartmann, con la pura psichicità. La coscienza non è già di per sé coscienza spirituale: i benché questa sia condizionata, per la legge di stratificazione del reale, dai principi determinativi dei piani inferiori dell’essere, dallo psichico

31 3 - La fondazione dell’omologia

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al fisico, ha tuttavia una novità strutturale in cui vengono accolte e sopraformate le strutture categoriali inferiori. Essa si costituisce attraverso il distacco del soggetto dal suo mondo ambiente e il riconosci­ mento che esso compie della propria eccentricità. L’atteggiamento gno­ seologico caratterizza il sorgere della prima forma dell’essere spirituale, ® quella dello spirito personale·, e tale forma si attua compiutamente nel comportamento pratico, in cui il soggetto diventa persona impegnata nella scelta assiologica di fronte alle situazioni. Il fenomeno etico è il contrassegno autentico della vita spirituale personale. La vita dello spi­ rito non si esaurisce tuttavia in essa, ma si protende nelle due forme P ulteriori dello spirito obiettivo e dello spirito obicttivato. Le tre « forJ me » in cui si presenta lo spirito non sono tre piani d’essere sopraele■ vantisi l’uno sull’altro, ma « tre categorie fondamentali dello stesso esl sere spirituale » : esse non rappresentano una prosecuzione della piani­ ficazione, « non si sopraformano né si sopracostruiscono l’una all’altra », perché appartengono a un medesimo piano ontico; sopraformazione e sopracostruzione categoriale sono invece proprie dell’essere spirituale nel I suo complesso nei confronti dei piani inferiori ontici, ed è attraverso la / considerazione di esse che si può cogliere l’essere spirituale nella sua originalità e nella sua connessione con il mondo, senza l’estensione ca­ tegoriale arbitraria che è caratteristica delle metafisiche materialistiche o idealistiche. La forma obiettiva ed obicttivata dello spirito sono chiaramente indicate per lo Hartmann dalla datità fenomenologica. « Dietro l’azioCx ne del singolo — sia essa involontaria o spontanea — c’è già determi­ nante ed indicante la via la tendenza comune in cui egli è cresciuto e da cui trae la propria iniziativa come particolare e personale » (Das Problem des geistigen Seins, p. 271): questa vita spirituale comune, che ! non si risolve in nessun individuo e sopravvive alle generazioni, mutan­ dosi storicamente, è lo spirito obiettivo: non un’astrazione o un collet­ tivo risultante dalla somma di individui, bensì una forza reale e con| creta ineliminabile dalla vita del singolo. Lo stesso si può dire per le creazioni dello spirito vivente — le opere scientifiche, linguistiche, giu­ ridiche ed artistiche —, che non sono legate alla caducità dei loro creatori : esse formano il dominio dello spirito obicttivato, i cui enti sono sempre costituiti da un piano reale materiale e da un « contenuto spiri­ tuale », che non è di per sé « vivente », in quanto è il significato che si cela nella presenza fisica e che può apparire soltanto alla persona spiri­ tuale che ha in sé la capacità della comprensione. /- Già la tripartizione dello Hartmann richiama quella celebre dello1 ( Hegel in spirito soggettivo, oggettivo ed assoluto ; ed in realtà Das Pro-

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blem des geistigen Seins è un continuo confronto con la problematica e la tematica hegeliana, per cogliere ciò che in essa è a giudizio dello Hartmann autenticamente soprastorico. Ma la denominazione hartmanniana delle tre forme, la sostituzione dello spirito « obiettivato » al1’« assoluto » indica anche l’intento di evitare lo scivolamento dalla dia7 lettica del reale alla dialettica speculativa. La dialettica hegeliana che estende arbitrariamente l’implicazione reciproca delle categorie dal modo orizzontale nei vari piani alla dimensione verticale della sovrapposi­ zione dei piani, non riconosce i limiti dell’essere spirituale e le basi su cui esso sorge, ha una visione finalistica ed ottimistica della storia, che urta contro elementi che non sono strutturalmente riducibili a forze spirituali. E, soprattutto, si lascia sfuggire la condizionalità vicendevole tra lo spirito personale e quello obiettivo tra cui « il rapporto portatore­ portato è reciproco ». Se si elimina la concezione metafisica dello spirito come sostanza ; 1 del mondo e della storia, Hegel appare veramente come colui che per primo problematizzò l’essenza dello spirito obiettivo e scoprì la natura superindividuale di questo portatore strutturale delle personalità indi; viduali. Egli vide esattamente i portati storici e giuridici, morali e poli­ tici, culturali in genere, la cui determinazione è propria dello spirito t oggettivo; ma quest’ultimo nel suo pensiero diventa una sostanza, non '-una vita «negli» individui, ma una vita «dietro» di essi, sicché lo ' spirito personale svanisce nella pura accidentalità. La coscienza vien trasferita allo spirito obiettivo sostanziale, mentre in effetti questo non è né cosciente, né incosciente, né sopracosciente, poiché la sua coscienza risiede nelle persone individuali e in maniera rappresentativa nelle personalità più forti che esprimono lo spirito di un popolo o di un’epo-^ ca. Il pericolo della sostanzializzazione dello spirito obiettivo è latente nelle ricerche proprie delle Geisteswissenschaften, e con esso quello i strettamente congiunto del teleologismo, poiché il trasferimento della , ! coscienza allo spirito obiettivo comporta anche il trasferimento in esso ! e la generalizzazione di quella struttura teleologica della posizione del ì fine e della ricerca dei mezzi per la sua realizzazione che è propria • della coscienza individuale (1). i La forza suggestiva dell’analisi e della polemica hartmanniana su ! questo punto è indubbia; e altrettanto si può dire per la sostituzione / dell’indagine sullo spirito « obiettivato » a quella sullo spirito « asso-

(1) Allo studio e allo smascheramento delle generalizzazioni delle categorie teleologiche in campo filosofico, storiografico ed anche storico, lo Hartmann dedicò un’opera, Teleologisches Denken, pubblicata postuma nel 1951.

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। luto », la quale è dominata dallo schema del « superamento », ed è stata la fonte di tutte le disposizioni e i capovolgimenti che hanno ricercato, con dialettica astratta e chiusura fenomenologica, la forma «superiore» tra le manifestazioni dello spirito. D’altra parte, l’analisi v dello spirito obicttivato, dei significati e dei valori che emergono per la coscienza dal rapporto tra il primo piano reale e lo sfondo irreale dei suoi enti ha un altro motivo di vivo interesse per le questioni che i suoi problemi sollevano nei confronti dei già noti temi ontologici. L’estre­ ma aporeticità di tale analisi trova conferma nell’attenzione non sopita che lo Hartmann mostrò per essa anche negli ultimi anni della sua vita. Ästhetik, che fu pubblicata postuma nel ’53, è un’opera elaborata a lungo durante il periodo berlinese, terminata nei drammatici mesi del­ la primavera del 1945 e riveduta, seppur non completamente, nei cin­ que anni che costituirono l’ultima tappa dell’insegnamento accademico dello Hartmann presso l’università di Gottinga. Lo studio specifico dell’opera d’arte è un approfondimento dell’ana­ lisi del tipico rapporto di piani che caratterizza lo spirito obiettivato. L’Ästhetik non si limita, nelle sue indagini sull’atto di fruizione este­ tica e sulla struttura dell’oggetto estetico, ad analizzare il rapporto di manifestazione del complesso sfondo irreale nel primo-piano fisico sol­ tanto nello specifico prodotto artistico, poiché prende in considerazione anche il «bello naturale»; tuttavia è proprio nell’opera d’arte, nelle tecniche particolari condizionate dalla materia su cui si agisce che tale rapporto risulta in piena evidenza. E benché lo Hartmann sostenga che la determinazione di esso quale portatore dei valori estetici sia possibile soltanto attraverso la prospettiva ontologica, il lettore spregiudicato sen­ te che la ricerca hartmanniana corre anche qui, come nelle già ricor­ date sezioni àcWEthi^, lungo il confine di rottura della consequenzialità tra il momento ontologico e quello fenomenologico-aporetico. Ciò vale in primo luogo per il profilo particolare che assume 1’« oggetto » este­ tico. «Un essere in sé non è necessariamente oggetto, esso è superogget­ tivo. L’oggetto estetico non è superoggettivo, non sussiste in sé, bensì soltanto come oggetto dell’atto determinato dell’intuizione e del godi­ mento. Ciò che sussiste senza l’atto è semplicemente un primo piano reale, materiale come le altre cose e in cui non si manifesta niente. Solo all’intuizione di una determinata specie può manifestarsi lo sfon­ do; e questo è costitutivo dell’oggetto estetico » (Ästhetik, p. 357). E questa particolare « oggettività » si riflette anche sulla natura dell’in­ tuizione assiologica e dei valori estetici: «Il valore della riuscita prati­ ca o della conoscenza intellettuale sussiste obiettivamente a pieno di­ ritto anche senza il piacere di esso; il valore di un’opera d’arte sussi­

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ste invece soltanto ‘‘ per ” un soggetto che la intuisca e ne goda nell’intuirla. Il piacere contribuisce così a costituire il valore ch’esso indi­ ca e da cui è determinato... Il sentimento estetico del valore — a diffe­ renza degli altri sentimenti assiologici — è anche costitutivo del valore » (op. cit., p. 80). Se a ciò si aggiunge il fatto che « l’autentico valore estetico è individuale : è il valore di un oggetto singolo » (qualcosa di analogo a ciò che nel campo etico è il valore della personalità), e che nella conoscenza ingenua 1’« oggetto » si presenta sempre anche con una tonalità estetica, e solo successivamente da questa situazione origi­ naria si dipartono la pura contemplazione estetica e la conoscenza intel­ lettuale (cfr., p. 49 e ss. e 356 e ss.),-non ci si può certo sottrarre all’incalzare del dubbio circa la coerenza di tali penetranti risultati feno­ menologici con la cornice ontologica in cui dovrebbero inserirsi. La relazionalità del valore estetico all’atto dello « spirito vivente » non scuote forse nuovamente quell’aseità del cosmo assiologico intelli­ gibile la cui affermazione è uno dei punti su cui si arrocca la tematica ontologica? E, analogamente, la relazionalità dell’oggetto estetico al soggetto, che si profonda nella più radicale relazionalità dell’« oggetti­ vità» originaria alla coscienza ingenua, non colpisce il realismo su cui poggia la « metafisica della conoscenza » e che è un altro cardine della « teoria » ontologica ? È la stessa impostazione dell’ontologia critica - la «retrocessione» indicata dallo Scheier —, ad essere posta in questione; la reazione alla metafisica idealistica pare andar troppo oltre la giusta polemica contro l’artificiosità costruttiva e incidere talvolta sulla feno­ menologia della ricerca. Il « fatto » fenomenologico che il pensiero rico­ nosce la non arbitrarietà del proprio oggetto non può cancellare il « fat­ to » altrettanto fenomenologico che la validità oggettiva della conoscen­ za è ancora riconosciuta in un atto di pensiero, che quanto più si sfor­ za di determinare l’oggetto in una sfera trascendente il momento dell’obiettazione, tanto più lo lega a sé con questo suo sforzo. L’esclusione, in nome dei rivestimenti soggettivistico-relativistici o metafisici, dell’af­ fermazione idealistica della relazionalità di ente e ricerca sull’ente, pone il tentativo ontologico nel rischio di contraddire la sua stessa natura di ricerca.

8. La fondazione dell’ontologia.

Le possibilità di revisione dell’impostazione ontologica, che pur son suggerite dalle germinazioni interne del pensiero dello Hartmann, non incidono tuttavia nell’elaborazione dell'opus magnum a cui egli si dedi35

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cò nel periodo berlinese: la tetralogia di Zur Grundlegung der Ontologie (1935), Möglichkeit und Wirklichkeit (1938), Der Aufbau der realen Welt (1940) e, infine, della Philosophie der Natur, preparata da lungo tempo, ma pubblicata, a causa degli eventi bellici, soltanto nel ’50, poco prima della sua scomparsa. Tutta l’attività veramente notevole dello Hartmann in quegli anni fu concentrata nello sforzo grandioso, non dimentico forse dell’amato-odiato modello hegeliano, della creazio­ ne di una «enciclopedia delle scienze filosofiche» di stampo ontologi­ co: anche i numerosi saggi minori - pubblicati per la maggior parte negli atti e nelle memorie dell’«Accademia prussiana delle scienze», di cui dal ’34 era membro - rispondono a questo intento, quali prepa­ razioni o sviluppi delle opere più complesse, e nel medesimo piano rientra pure quell’insieme di ricerche logiche, già articolate in ventiquattro capitoli tra il ’31 e il ’44, che avrebbe dovuto comparire sotto il titolo di Studien zur Logik, e il cui manoscritto andò invece distrutto durante l’attacco russo a Berlino, assieme a buona parte delle carte hartmanniane.

Attraverso la discussione dei problemi della gnoseologia, dell’etica e della storia lo Hartmann riteneva di aver ormai raggiunto le basi della sua impostazione filosofica. L’analisi categoriale ontologica che si era prospettata come compito nel ’21 era ora non solo già sviluppata per alcuni piani dell’essere, ma aveva ricevuto anche stimolanti indi­ cazioni per il proprio orientamento: specie l’indagine sull’essere spiri­ tuale aveva messo in guardia contro il pericolo di fondo di tale ana­ lisi - - l’estensione o la generalizzazione unilaterale delle categorie quale strumento interpretativo -, e aveva posto in luce la « criticità » come ix rifiuto al trasferimento analogico delle leggi categoriali da un piano / ontico all’altro, come vigilanza contro le metafisiche « dall’alto » o « dal basso ». Inoltre, essendo identificata per il nostro autore \\intentip-recta del filosofare, la sua apertura al mondo, con i presupposti di' una gno­ seologia realistica, l’analisi ontologica precisa ulteriormente le sue ca­ ratteristiche, impegnandosi, attraverso l’esame dei problemi ultimi che emergono in tutti i campi dell’attività umana e specie nelle scienze, a determinare i principi e le strutture dell’essere in sé. Qui c’è il nucleo di pensiero ch’era rimasto continuamente vivo in tutto il processo filoso­ fico hartmanniano: l’esigenza di una scienza fondamentale, «realisti­ ca» come tutte le scienze, e tuttavia procedente, nella loro direzione, di là da esse. E, infine, poiché tale scienza fondamentale o ontologia ha già avuto nel corso dei secoli formulazioni ormai classiche, la ricerca hartmanniana sente l’istanza di caratterizzarsi in modo specifico di fron­

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te ad esse. L’Auseinandersetzung sinora condotta contro le espressioni filosofiche della intentio^obliqua va instaurata anche nei confronti di quelle della intentio recta che si vuole adottare. In tale contesto vanno considerate le grandi opere ontologiche e in particolare La fondazione dell’ontologia, che ha un carattere singolare tra tutti gli scritti hartmanniani che la precedono e la seguono. Ognu­ no di essi ha una sua conchiusa unità, anche quelli che, come gli ultimi volumi dell’ontologia, rientrano in un piano generale e procedono attra­ verso un’indagine minuta; tuttavia nessuno di essi raggiunge nella sua unitarietà il carattere di summa che è proprio della Fondazione. Essa sta al centro del più maturo pensiero dello Hartmann non solo crono­ logicamente, poiché è al tempo stesso il riepilogo delle conclusioni es­ senziali raggiunte precedentemente, lo sviluppo delle loro implicanze e l’indicazione della problematica ulteriore. Ciò risulta addirittura dalla forma di composizione della Fondazione, che riunisce quattro ricerche relativamente autonome, eppure intimamente implicantisi quando le si sappia guardare nella loro complessa funzionalità. I temi ontologici che già abbiamo visto formulati in precedenza ritornano immutati particolarmente nelle due ultime parti - « La datità dell’essere reale » e « Problema e posizione dell’essere ideale » -, che ripropongono le dimostrazioni già svolte nelle trattazioni del problema gnoseologico e del problema etico circa l’aseità delle due maniere d’es­ sere. V’è tuttavia un elemento nuovo nel tentativo di integrare la prova gnoseologica dell’aseità. dell’essere reale mediante l’indagine sugli atti emozionali-trascendenti, cioè sulle varie forme in cui l’uomo « sente », ancor prima di conoscere, la durezza dell’esperienza che lo colpisce e che non dipende dal suo arbitrio. Si tratta per lo Hartmann di una ma­ niera più semplice ed immediata di accostarsi alla comprensione della trascendenza del reale attraverso il suo modo di darsi, di una maniera su cui già s’era soffermato nel saggio del ’31 Das Problem der Reali­ tätsgegebenheit. E non è senza importanza il fatto che lo stesso Hart­ mann senta l’esigenza di trovare, di là dalla fenomenologia e dall’aporetica della conoscenza, altre garanzie per la sua « integrale confutazio­ ne dell’idealismo»; e sebbene anche dinanzi ad esse possa affacciarsi nel lettore il dubbio circa la consistenza della ipostatizzazione della non-arbitrarietà dell’esperienza in una realtà in sé, tuttavia l’analisi hartmanniana si impone pure in questo caso per la sua limpidezza, e il coordinamento di atti emozionali e di conoscenza esprime l’esigenza validissima che la ricerca filosofica non appunti esclusivamente la sua attenzione su un processo gnoseologico modellato in modo schematico, ma tenga conto di tutta la vita spirituale anche nelle sue forme più

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immediate, non disperdendo, per unilateralità di interessi, alcun inse­ gnamento fenomenologico. Vi è del resto nella Fondazione uno sviluppo più schietto ed origi­ nale delle implicanze dell’impostazione realistica e della sua dimensio­ ne ontologica. Già l’ampia « Introduzione » (1), insistendo sui motivi della necessità del ritorno all’ontologia, attraverso l’indicazione dei pro­ blemi « metafisici » che emergono in tutti i piani culturali - dalla logi­ ca alla matematica, dalla fisica alla biologia e alla psicologia, dal campo etico a quello storico ed artistico —, contribuisce a chiarire i caratteri peculiari della novità di tale ritorno. L’orientamento filosofico che si vuole reinstaurare è schiettamente quello «precritico», cheJal-Wolff, attraverso i medievali, risale sino ad Aristotele; ma non per questo la « filosofia prima » in cui esso deve trovare espressione può rinunciare al suo diritto di critica nei confronti degli aspetti dogmatici delle espres­ sioni precedenti. L’ontologia « classica » nel suo complesso è stata vizia­ ta per lo Hartmann dal carattere aprioristico-deduttivo : anche quando i suoi fautori sentirono l’istanza di apertura all’esperienza, non seppero trarre da essa tutte le conseguenze implicite, non la attuarono consape­ volmente quale philosophia ultima, com’essa è secondo la ratio cognoscendi, nonostante il suo carattere ontologico di philosophia prima. Nel­ l’ontologia tradizionale vi è la limitazione a pochi principi ontici colti immediatamente, senza un approfondimento esaustivo di tutti i campi del sapere e di tutta la ricchezza fenomenologica: è su questi elementi, invece, che vuol far leva la «criticità» della nuova ontologia, specie per le indagini categoriali più specifiche e particolari. Ma anche nel­ l’analisi dei principi più fondamentali dell’essere e nello stesso proble­ ma dell’« ente in quanto ente », ove la trama aporetica ha una profonda analogia con quella dell’ontologia classica, l’ontologia critica si distin­ gue per il suo canone fondamentale della non subordinazione della fedeltà fenomenologica alla generalizzazione categoriale. Tale è infatti il principio regolativo delle prime due parti della Fondazione - « dell’ente come ente in generale » e « il rapporto di esser­ ci ed essere-così » -, che affrontano le determinazioni ontiche più « ele­ mentari ». La primalità dell’essere lo sottrae alla comprensione di una definizione esplicita e definitiva: l’unica via che si apre alla ricerca è la dimensione storica del problema, l’esame dei molteplici tentativi di comprensione dell’essere, che in diverse prospettive ne scoprono i linea-

(1) In essa sono rifusi i motivi precedentemente esposti in Systematische Philosophie in­ eigener Darstellung (1931), di cui è stata pubblicata la traduzione italiana in: N. Hartmann, Filosofia sistematica, Milano 1943.

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menti fondamentali. L’essere non si dilacera ma si distende nell’oppo­ sizione antinomica dell’unità e della molteplicità, del persistere e del divenire, del determinato e dell’indeterminato, del sostanziale e dell’ac­ cidentale. Questa opposizione antinomica, che è dilacerante solo quando l’entusiasmo per la scoperta di un elemento costitutivo porta a genera­ lizzarlo a scapito degli altri, si assomma e si potenzia per lo Hartmann 'S-nella contrapposizione di « esserci » e di « essere-così », i « momenti » fondamentali che caratterizzano inseparabilmente ogni ente. L’esserci dell’ente non è mai esistenza indeterminata, ma è l’esistere di un ente omnimode determinato, così come la determinatezza di un ente è elemento costitutivo dell’esserci di un altro. Questa correlazione s’interrompe soltanto, a favore dell’esserci, per la totalità del mondo, poiché il complesso degli enti non può avere fuori di sé qualcosa nei cui confronti sia un essere-così. La compresenza determinativa nell’ente di essere-così ed esserci elimina dalla coppia dei « momenti » l’ambigui­ tà di significato della coppia « essenza »-« esistenza », in cui si è fissata tradizionalmente la tensione tra i vari elementi definitori dell’ente. Nei concetti di « essenza » ed « esistenza » i « momenti » dell’essere ven­ gono confusi con le «maniere» dell’essere, l’idealità e la realtà: l’es­ senza è identificata con l’essere ideale sottratto al divenire spazio-tempo­ rale, e l’esistenza con l’essere reale caratterizzato totalmente dalla tem­ poralità e dall’individualità e, in parte, anche dalla dimensione spaziale. 5 Per Io Hartmann tale identificazione è equivoca, poiché nell’ente ideale c’è pure un esserci della determinatezza contenutiva, così come l’ente reale ha sempre Tesserci in qualche modo determinato. Se tra le ma­ niere e i momenti dell’essere non c’è identità, vi è tuttavia connessione: l’elemento connettivo è dato daìPessere-cp&ì, il quale conserva una certa neutralità di fronte alla realtà e all’idealità (vi è, ad esempio, una idenj tità delle « proprietà sferiche » sia in una sfera geometrica sia in una ! sfera materiale); mcntrc-pTlsscrci è invece l’elemento di disgiunzione, ! perché Tesserci reale ha maggior gravezza ed è, per così dire, l’esistenza in senso stretto, diversamente dall’esserci ideale che è privo di forza d’urto e afferrabile soltanto in una riflessione teoretica. C’è una datità gnoseologica dell’essere ideale, che non s’impone tuttavia con l’urgenza della datità degli atti emozionali-trascendenti, e permette quindi di co­ gliere l’aseità dell’ideale solo in maniera mediata. Il pregiudizio platoi nico che ha dominato tanta parte della storia del pensiero, circa la supe­ riorità dell’essere ideale come eterno e soprasensibile, ha per lo Hart­ mann un’origine puramente soggettiva nell’aspirazione dell’uomo alla persistenza assoluta del proprio essere, ch’egli vorrebbe sottratto alla tem­ poralità del reale. Ma Tessere come tale è assiologicamente indifferente

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'alla duplicità delle sue maniere. La forza, la durezza e la pienezza ontologica sono anzi proprie della realtà, mentre l’idealità pur nella sua autonomia, si presenta come maniera d’essere depotenziata, quasi un □essere incompleto ed attenuato.

9. L’analisi modale e categoriale.

Le analisi sui momenti dell’essere e sui modi della loro conoscibilità hanno permesso la distinzione delle due maniere o «sfere» ontiche primarie, e le già ricordate ultime due sezioni della Fondazione insi­ stono sui caratteri della loro datità. Il carattere d’essere di realtà e idea­ lità non si può tuttavia cogliere direttamente attraverso tali considera­ zioni; esso sfugge anzi ad ogni comprensione diretta, come tutte le de­ terminazioni ontiche primarie: nei limiti metafisici della sua compren­ sibilità può essere avvicinato soltanto attraverso l’analisi «modale». E ad essa è dedicato il secondo volume della « Ontologie », Möglichkeit und Wirklichkeit. Le categorie modali deH’essere ^possibilità, necessi­ tà, effettualità (Wirklichkeit], casualità, e le rispettive categorie negati­ ve — si riferiscono allesserei dell’ente: e se ciò fa di esse, nei confronti L,delle categorie costitutive, che si riferiscono alla specificità dell’esserecosì, lo strumento primario di penetrazione del carattere ontico di realtà ed idealità, le rende anche, per la loro generalità, determinabili solo indirettamente, attraverso la connessione e il rapporto dei singoli « modi ». Possibilità, impossibilità e necessità sono modi soltanto «relazio\ nali », che non avrebbero senso senza il riferimento al modgfoad&nen\ tale dcll’effcttualità : il poter essere, il non poter essere e il dover essere j non sono infatti potere, non potere e dovere (müssen) di « nulla », ma i di un essere che è appunto l’effettuale. La diversità della struttura mo­ dale nelle maniere ontiche va quindi ricercata nella diversa importanza che in esse acquista l’effettualità. Nell’essere reale — che è tale solo in quanto è effettuale - vi è una biforcazione della possibilità. Lo Hart­ mann contrappone l’argomento di Diodoro Crono alla concezione ari­ stotelica della possibilità come potenzialità indifferenziata dell’essere e del non essere: nella sfera reale la possibilità dell’essere esclude quella del non essere, poiché altrimenti l’effettuale reale, che è pure possibile, avrebbe in sé anche la possibilità del suo non esserci. D’altra parte, non si può nemmeno parlare di un ente reale puramente possibile, poiché il reale è « realmente » possibile solo quando sono presenti e realizzate tutte le condizioni del suo esserci, e in tal caso esso è anche effettuale. 40

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Quando poi sono presenti tutte le condizioni dell’effettualità, l’ente non - può più mancare, ed è quindi realmente necessario. La legge reale di determinazione della realtà - o principio reale di ragion sufficiente consiste dunque nella presenza contemporanea di possibilità e necessità reali nella reale effettualità. La «durezza» del reale, l’irripetibilità di ciò che è trascorso, l’inesorabile impendere del futuro, non sono che la manifestazione più appariscente del rapporto tra le categorie modali ! reali. Tra esse la casualità non ha posto : si tratta di un modo ai margini ! della sfera, all’inizio dell’intera serie delle condizioni. Qui l’ontologia ! critica trova un elemento di netta differenziazione rispetto a quella tra­ dizionale, volta a cercare in Dio il fondamento necessario di ogni essere. In tal modo si disconosce per Hartmann il carattere relazionale della necessità e si conclude erroneamente dalla necessità di qualcosa rispetto a un fondamento alla necessità del fondamento stesso : « Dio anziché r\ l’essere assolutamente necessario è piuttosto l’essere assolutamente ca'' suale » (Möglichkeit und Wirklichkeit, p. 94). q Diverso è il rapporto dei modi nell’essere ideale: in esso dominano^ i modi relazionali, mentre l’effettualità retrocede in secondo piano. Non J vi è biforcazione della possibilità ideale, che è semplicemente mancanza di contraddizione. L’essere ideale si presenta come un complesso di । ^sistemi entro i quali la non contraddizione degli enti (la compossibilità) * costituisce la loro effettualità. Poiché l’effettualità ideale dipende dalla I struttura relazionale degli enti all’interno di un sistema, la sfera ideale ! contiene una molteplicità di sistemi (quali, ad esempio, la geometria , euclidea e quelle non-euclidee dell’essere matematico), incompossibili tra loro e scorrenti parallelamente. La molteplicità dei sistemi ideali, । i 1 a cui si contrappone l’unicità del mondo reale rigidamente determinato, | ■ I ■ è il segno caratteristico dell’attenuazione della maniera d’essere ideale ì ' ■ di fronte alla realtà sempre univocamente determinata. La ricerca modale hartmanniana è d’altra parte complicata dal pre, supposto dell’aseità delle sfere ontiche della realtà e dell’idealità. L’ana- | lisi modale deve contribuire alla determinazione anche delle sfere d’es- i sere « secondarie » - quella gnoseologica e quella logica - che per il L '/ nostro autore sono rappresentazioni inadeguate delle maniere ontiche primarie, poiché i modi dell’oggetto, alla pari di tutte le categorie, si rispecchiano nella coscienza dell’oggetto «non fedelmente, ma spostati e contorti come in uno specchio non piano» (op. cit., p. 361). Nella conoscenza, ad esempio, il momento dell’intuizione immediata è domi­ nato dal modo dell’effettualità, mentre i modi relazionali sono quasi completamente assenti; essi ricompaiono invece, strettamente uniti al­ l’effettualità, nel momento superiore della comprensione, nella quale

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( diventa sempre più marginale il modo della casualità. La modalità del comprendere presenta quindi una notevole similarità con la modalità reale, ma se ne distingue per la posizione della possibilità, perché la conoscenza non abbraccia mai la totalità delle condizioni dell’effettuale e rimane limitata alla possibilità parziale. Tale limitazione è all’origine delle anticipazioni aprioristiche di visioni totali, ma è anche, quando sia rettamente intesa, l’elemento propulsore del progresso della cono­ scenza. Il ramificarsi dell’analisi categoriale, imposto per lo Hartmann dal­ la distinzione di sfere ontiche secondarie accanto a quelle primarie del­ l’essere in sé, caratterizza anche l’ulteriore sviluppo della sua indagine in Der Aufbau der realen Welt, che ricerca i principi costitutivi dell’essere-così in genere e degli enti reali in specie. Se « il primo compito dell’ontologia » era rivolto « a chiarire il problema dell’essere come es­ sere nella sua piena generalità, e ad accertarsi fondamentalmente della datità ontica», e «in seconda linea si presenta il problema delle ma­ niere d’essere e del loro reciproco rapporto », si tratta ora di penetrare, nella stessa direzione, le situazioni fondamentali costitutive dell’essere: « tutte le differenze fondamentali degli ambiti, dei gradi o dei piani 0 dell’essere, così come i tratti generali dominanti all’interno degli ambiti ed i rapporti colleganti, prendono la forma di categorie » (op. eit., p. 1). Ed è ovvio che per lo Hartmann « la dottrina delle categorie non tratta zdei concetti dell’intelletto, ma dei fondamenti strutturali del mondo reale, così come l’analisi modale tratta delle maniere d’essere ».

. Il primo scopo dell’Aufbau è delineare le categorie fondamentali, 1 che nella loro generalità sono le più povere e costituiscono tuttavia un intreccio a larghe maglie, quasi una trama in cui si dispongono le categorie di contenuto più complesso. Hartmann stabilisce e discute una tabella di dodici coppie di determinazioni opposte (categorie bipolari), che pur conservando quali coppie un carattere autonomo si implicano tuttavia a vicenda: principio-concreto, struttura-modo, forma-materia, interno-esterno, determinazione-dipendenza, qualità-quantità, unità-mol­ teplicità, armonia-discordanza, polarità-dimensione, discreto-continuo, sostrato-relazione, elemento-connessione. Non si tratta di una tabella esaustiva, bensì di un quadro rapsodico ricavato dalla fenomenologia dell’esperienza e dalla storia dei tentativi ontologici: sotto quest’aspetto è un efficace esempio del metodo hartmanniano che si oppone alla de­ duzione aprioristica delle categorie. I principi dell’essere non hanno esserci sullo stesso piano degli enti concreti; l’essere delle categorie non è l’esistenza, ma 1’« essere-principio » determinante la concretezza degli 42

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1 enti: le categorie esistono soltanto in questi, e la loro funzione di prinifcipio può essere colta esclusivamente nell’indagine del concretum. i Per la loro natura ontologica le categorie si sottraggono con un residuo transintelligibile e irrazionale alla comprensione totale: i prin> l V cipi gnoseologici sono copie deformate dei principi ontici. Ciò è con-i seguenza della « stratificazione » dell’essere reale e della particolare po­ sizione della coscienza, che è l’ente in cui l’essere si rispecchia e che sovrasta i piani della realtà fisica, organica e psichica. Lo studio della stratificazione del reale e delle leggi categoriali che la regolano è il secondo centro di interesse deWAufbau. Gli strati o piani della realtà j ubbidiscono innanzi tutto alle leggi della pianificazione e della dipen■ denza, che rispecchiano la situazione per cui le categorie fondamenj tali, a causa della loro generalità, si ripresentano negli strati molteplici ' del reale, trasformate però in ognuno di essi, perché la loro connessione ■ dialettica è mutata dalla presenza della novità specifica dei piani della materia, della vita, della psiche e della coscienza spirituale. Il novum categoriale dei singoli piani di realtà garantisce una relativa libertà dei piani più alti rispetto ai piani inferiori, ma comporta anche una forza un’indifferenza di questi nei confronti dei primi: di qui sorge l’istan­ za di non trasferire alla realtà in genere quelle categorie che per la loro intimità sono familiari alla coscienza. Ciò è tanto più valido in quanto, nei passaggi successivi dal piano fisico a quello della coscienza, la trasformazione categoriale assume un’accentuazione sempre maggio­ re. Nella stratificazione dal fisico-materiale all’organico il mutamento ’ ha l’aspetto di sopraformazione, perché l’intera struttura categoriale in­ feriore è assunta nella più alta, nonostante l’irruzione del novum rap­ presentato dalla vitalità; nella stratificazione dall’organico allo psichico, invece, solo alcune categorie del piano più basso ricompaiono nel supe­ riore, mentre altre, come la spazialità, scompaiono: si ha quindi un rapporto di sopracostruzione per cui l’organico non è più elemento, bensì «portatore» dello psichico e dello spirituale.

10. La filosofia della natura. L’illustrazione dell’analisi categoriale hartmanniana, sia nei suoi aspetti modali sia in quelli contenutivi, deve necessariamente limitarsi all’indicazione, quasi schematica, dei suoi motivi fondamentali. Solo se­ guendola direttamente in tutta la sua complessa ramificazione se ne può cogliere la ricchezza profondamente suggestiva per chiunque ami l’esattezza del pensiero e non soggiaccia all’ansia delle conclusioni af­ 43

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frettate, perché essa spinge sempre l’indagine attraverso le sfumature e i mutamenti che le strutture categoriali presentano nei vari contesti di esperienza. In questo carattere non riassumibile, nell’efficacia dei singoli risultati più che in quella delle formule generali e di certi temi-guida, una singolare affinità lega 1’«analisi» hartmanniana con un’altra ten­ denza tra le più significative del pensiero contemporaneo : 1’« analisi del linguaggio » quale s’è venuta sviluppando nel mondo culturale an­ glosassone e, in particolare, nelle « scuole » di Cambridge e di Oxford. i Non si può certo dire che si tratti di un’affinità voluta o cercata, ^poiché la «filosofia analitica» insieme con le altre tendenze che, come il neopositivismo, le si collegano in qualche modo, cade fuori dell’at­ tenzione diretta dello Hartmann: abbiamo proprio in questo caso un esempio tipico di quella più generale chiusura hartmanniana al dialogo con i contemporanei che è un’espressione non felice della sua avversione all’entusiasmo per la modernità. Non per questo, tuttavia, l’affinità è meno significativa: trae anzi vigore dal suo connettersi con una situa­ zione problematica comune e profonda che non si esaurisce nei temi speculativi personali, e che rivela — per usare un’espressione hartman­ niana — la tensione del pensiero-problema di là dagli schemi del pen­ siero-sistema. Le indagini categoriali modali dello Hartmann, con le loro distinzioni tra modalità reale e ideale, e lo studio delle trasposizio­ ni e dei mutamenti delle categorie bipolari nei vari piani ontici sono effettivamente, sebbene non volutamente, autentiche analisi linguistiche delle molteplicità di significati di concetti spesso ritenuti univoci. È lo ì stesso momento fenomenologico che porta le indagini hartmanniane ■ sul piano dell’analisi linguistica, poiché è il linguaggio il portatore delle varie forme di penetrazione e di intepretazione della realtà di cui l’uomo fa parte e da cui trascende per comprenderla; in quanto l’apertura feno­ menologica vuol essere rinuncia agli « ismi », alle interpretazioni mono­ litiche dell’essere, per coglierne le distinzioni di piani e di maniere, essa ha implicita in sé anche l’analisi dei molteplici universi di discorso in cui tali distinzioni vengono espresse. Guardati da questo punto di vista, i risultati a cui perviene lo Hartmann rientrano a buon diritto in quel patrimonio ideale a cui ha contribuito in generale, senza distin­ zione di scuole e tendenze, la « filosofia analitica » : la consapevolezza critica di fronte alla costituzione, implicita o esplicita, di universi lin­ guistici privilegiati che impongano un’interpretazione e un’espressione pregiudiziale dell’esperienza. i II punto di vista suddetto va tuttavia raggiunto nello studio dì ! Hartmann attraverso una riduzione del tema programmatico dell’onto­ logia. Quando invece si insista su esso, e la distinzione delle strutture

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categoriali venga indirizzata in linea di principio non all’analisi dei piani d’esperienza, ma alla contrapposizione della totalità dell’esperien­ za all’essere in sé, il pericolo degli « ismi » e dell’unilateralità si riaffac­ cia nonostante ogni polemica contraria. Nell’interpretazione ontologica la ricerca categoriale mira infatti a purificare le categorie dalle « defor­ mazioni » gnoseologiche per cogliere i principi « autentici » che rive­ lano, seppur incompletamente, la natura dell’essere in sé di là dalla ricerca. Le difficoltà di fondo della tematica hartmanniana riappaiono qui chiaramente, ad esempio, nella contrapposizione della modalità della conoscenza a quella della realtà ontica. Supposta l’inadeguatezza fon­ damentale delle categorie modali gnoseologiche nei confronti della real­ tà in sé, rimane un enigma il modo in cui lo Hartmann giunga a deter­ minare «ontologicamente» l’assoluta determinatezza del reale in cui ogni ente è reso al tempo stesso possibile effettuale e necessario da una compiuta serie di condizioni. È un enigma che non ha il fascino dei limiti dell’irrazionale, perché riguarda la possibilità stessa della ricerca ontologica. E non è forse provocato dal fatto che in essa si ipostatizza la modalità che lo Hartmann caratterizza per il « comprendere », nella modalità della presunta «realtà in sé»? Vi sono elementi convincenti nella distinzione operata dal nostro autore tra la modalità del momento intuitivo e quella del momento comprensivo della conoscenza; e si può anche dire che la modalità « deterministica » del comprendere da lui tratteggiata - con l’implicazione della possibilità e della necessità da parte dell’effettualità — rispecchia effettivamente la forma del compren­ dere caratteristica di alcuni domini di esperienza, quale quello in cui si è attuata la fisica « classica » : tutto ciò è vero e « analiticamente » effi­ cace quando si riconosca nel modello deterministico uno tra i modelli possibili di comprensione dell’esperienza. Quando invece, conformemen­ te all’impostazione ontologica, si rende assoluta tale struttura e la si proietta nella realtà in sé, si ha sul piano modale la trascrizione di quel determinismo causale che fu tipico del positivismo ottocentesco e che è una palese violazione dell’apertura fenomenologica. Torna così ad affacciarsi la possibilità e l’esigenza della distinzione tra il momento fenomenologico-aporetico e quello « teorico » dell’opera hartmanniana; ed un’ulteriore conferma la si trova nella Philosophie der Natur, in cui l’analisi categoriale diventa ancor più specifica e si rivolge ai piani reali legati dal rapporto di sopraformazione: il piano dell’essere fisico e quello dell’essere organico. La Philosophie der Natur è effettivamente la « conclusione » del­ l’ontologia critica, e non soltanto perché in essa viene condotta a ter­ mine la ricerca categoriale sui vari strati dell’essere reale. Si tratta infat­

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ti di una « conclusione » che non concerne puramente la tetralogia on­ tologica, bensì l’intero cammino ideale del pensiero hartmanniano. Ab­ biamo visto come dai primi anni della sua formazione, ancor prima dell’adesione al neokantismo, il centro di interesse dello Hartmann, in consonanza con la problematica effettiva dell’epoca, gravitasse intorno alla questione dell’autodefinizione della filosofia e della sua costituzione in modo autonomo e tuttavia non indifferente nei confronti della scien­ za. E tale centro rimane costante attraverso le esperienze di pensiero, anche profondamente diverse via via provate: anzi, considerate nel loro complesso, esse ci appaiono come intimamente unite e dominate dalla presenza stimolante di quel problema fondamentale. L’ontologia criti­ ca è in effetti la risposta più matura e meditata che lo Hartmann riten­ ne di poter proporre; risposta complessa e attuantesi su un fronte vastis­ simo, senza risparmio di forze: ma per la sua stessa natura e per quella del problema relativo, l’intero tentativo ontologico ha nella filosofia del­ la natura il suo banco di prova. È nell’orizzonte di quest’ultima, infatti, che la ricerca ontologica, costituita come l’unico modo possibile del filo­ sofare autonomo e nondimeno « scientificamente » impostato secondo la intentio recta, viene a trovarsi di fronte alle « scienze », e si sente impegnata a giustificare la necessità e l’originalità che pretende per sé quale « scienza fondamentale ». Il lungo periodo di elaborazione della Philosophie der Natur, sia pur complicato dagli eventi bellici, non è qualcosa di casuale: è piuttosto l’indicazione manifesta della consapevo­ lezza dell’autore di trovarsi di fronte al punto decisivo della sua impo­ stazione tematica. «La filosofia della natura non è una metafisica che cerchi, indipendentemente dalle scienze naturali, di attaccare con me­ todi propri i problemi di queste o addirittura di portarli a “ migliori ” soluzioni. Sono passati i tempi di simili ambizioni. Essa ha bensì pro­ blemi metafisici come ogni disciplina filosofica, ma sono quelli stessi che giacciono nello sfondo dei problemi scientifico-naturali. Essa non costituiscc una seconda scienza della natura accanto a queste, ma solo una >> dottrina categoriale che si misura con le basi presupposte e indiscusse ì della scienza naturale. Ciò non significa che essa debba accettare ogni ! ipotesi o addirittura ogni conseguenza speculativa di un dato stadio della scienza come verità garantita. Qui l’analisi categoriale specifica poggia su un suolo più vasto, ha dietro di sé l’analisi delle categorie fondamentali e innanzi a sé la visione dei piani superiori dell’essere; e su tale base, da una maggior distanza, può giudicare su qualche aspet­ to delle particolarità» (op. cit., pp. VLVII). L’impegno hartmanniano è dunque rivolto a determinare ontologi­ camente quei principi categoriali — come il tempo, lo spazio, la forza,

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la massa, e così via — di cui si vale il pensiero quantitativo della scienza, che tuttavia gli appare incapace di definirli nella loro portata ontica. Ed egli passa in rassegna con la consueta infaticabile minuzia le cate­ gorie dimensionali dello spazio e del tempo, i principi costitutivi della dinamica reale - le categorie cosmologiche accentrate attorno a quelle di sostanza, causalità e azione reciproca — e le categorie organologiche, in cui ritornano i due gruppi precedenti attraverso il rapporto di sopra­ formazione, caratterizzato dalla presenza di una nuova serie di principi determinativi (nexus organicus'}. L’impegno è tuttavia di una gravezza difficilmente sostenibile. Nel­ la filosofia della natura il momento fenomenologico passa necessaria­ mente in secondo piano, poiché è la stessa metodologia della scienza che si assume questo compito di aperta descrizione delle strutture e dei metodi adottati sul terreno della ricerca. Ciò che prevale è quindi il momento « teorico », il tentativo di determinazione delle strutture onto­ logiche « al di là » delle deformazioni gnoseologiche : ed è così inevi­ tabile il tentativo di correzione di teorie scientifiche, quali la teoria del­ la relatività e quelle della meccanica quantistica, giudicate parziali e contingenti sulla base del modello ontico del mondo in sé. La dottrina l ontologica della causalità offre un singolare esempio di questa situazio­ ne. La causa non è ciò che si conserva, ma ciò che sparisce nell’effetto, una determinazione totale che non lascia niente di indeterminato negli stati successivi a partire dai precedenti. Lo sparire della causa nell’effet­ to e il venire in luce di questo sono un unico processo, sicché il processo causale è eminentemente creatore. Che cosa sia il momento della « pro- « duzione » causale sfugge, per Hartmann, alla comprensione, perché è quel momento irrazionale tipico di tutti i principi ontici; e, analoga­ mente, rimane inconoscibile la causalità come totalità, in quanto noi conosciamo soltanto cause parziali. Tuttavia Hartmann afferma che nel­ l’essere reale il processo causale è totale e abbraccia l’intero divenire cosmico; la contingenza del reale può significare soltanto l’assenza di ; predeterminazione finale. La Weltanschauung deterministica, che traspariva in termini modali ' in Möglichkeit und Wirklichkeit, prende qui più decisamente la veste del determinismo causale. La causalità diventa un principio ontologico anziché un principio esplicativo di una ben determinata situazione spe­ rimentale, e ci si lascia sfuggire quel significato ampiamente «operati­ vo » dei concetti scientifici di cui la coscienza contemporanea ha acqui­ stato chiara consapevolezza. Ciò risulta, ad esempio, dalla critica che lo Hartmann rivolge all’« indeterminismo » della fisica microscopica: infatti, l’affermazione che i processi subatomici non contraddicono la 47 4 - La fondazione deli’ontologia

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> causalità generale quale principio ontologico, ma semplicemente alle leggi della meccanica classica, avrebbe significato soltanto se il princi! pio ontologico potesse essere fissato indipendentemente da ogni formui lazione di legge scientifica. Ma lo stesso Hartmann riconosce che le categorie sono ritrovabili solo nella loro azione determinante il con3 cretum dell’esperienza, e l’interpretazione scientifica di questa è possi­ bile soltanto attraverso la concreta formulazione di leggi. La descri­ zione ontologica della causalità, e delle altre categorie, rischia così di . diventare una pura generalizzazione di principi strutturali effettivamen■ te adottati nella ricerca umana. Nella filosofia della natura abbiamo l’impressione di veder ritorna­ re tutte le difficoltà che si erano annunciate nei vari campi di attuazio­ ne dell’ontologia come scienza fondamentale: vi è in esse il denomi­ natore comune della stessa impostazione ontologica, della convinzione che Vintentio recta si possa attuare saltando di là dalla relazionalità fondamentale di ciò che è indagato con la ricerca che si instaura su esso. Le difficoltà non consistono nell’analisi categoriale, bensì nell’in­ terpretazione che sì dà di essa in base al presupposto della scienza fon­ damentale: nel momento fenomenologico-aporetico l’analisi ha infatti un’efficacia indubbia proprio per la sua neutralità di fronte all’ontologi­ smo; ed è solo il punto d’arrivo, il momento teorico, che pretende stac­ carsi dal punto di partenza fenomenologico mediante un illusorio irri­ gidimento di alcune strutture colte in esso. L’unilateralità rimproverata dall’ontologia critica a quella classica — prescindendo qui da altre diver­ sità di impostazione e di valore delle due ontologie —, ricade su di essa, poiché se l’ontologia critica non deduce le determinazioni dell’essere da un ristretto numero di principi, si costituisce nondimeno come scien­ za fondamentale erigendo ad ipostasi alcuni principi e strutture che trova nella sua ampia base di partenza. Il problema che è stato continuamente al centro della meditazione hartmanniana risulta così ancora aperto, poiché difficilmente può sod­ disfare una concezione della « scientificità » della filosofia che nella ri­ sposta ontologica — e in particolare nella filosofia della natura — pro­ spetta una scienza fondamentale che, nel tentativo di andare verso 1’« al di là » metafisico delle scienze, si mette in un contrasto bloccante con - il loro effettivo e concreto procedere. Non si può cercare l’autonomia dell’attività filosofica lungo una strada che porta a disconoscere l’auto­ nomia delle altre attività umane; ed è opportuno non respingere sol­ tanto verbalmente la concezione della scienza fondamentale come « regi­ na delle scienze». Giova forse a tal proposito una maggior chiarezza nel precisare il significato della scientificità della filosofia, una più netta 48

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distinzione tra la scientificità come adesione al rigore e alla vigilanza critica e la scientificità come accettazione incondizionata dell’interpreta­ zione realistica àcWintentio recta. Poiché il filosofare non perde la sua apertura al mondo anche quando rinuncia al sogno della « scienza fon­ damentale» e si atteggia a riflessione sulle condizioni e sul significato delle attività specifiche con cui l’uomo sta nel mondo e lo affronta. È in questa tensione aporetica che sta l’eredità più preziosa dello Hartmann, in questa problematica aperta sul compito della filosofia: sia perché le sue soluzioni tematiche, anche quando non convincono, ci aprono non­ dimeno nuove prospettive, sia perché egli ha saputo dire una parola imperitura attraverso la limpidezza delle sue analisi categoriali. Quale che sia l’autodefinizione con cui la filosofia cerca di determinarsi con nettezza di lineamenti, vi è sempre il suo contributo indubitabile del chiarimento dei concetti, cioè del chiarimento dell’uomo a se stesso: le analisi hartmanniane hanno di esso tutta l’autentica validità. Francesco Barone

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I. SCRITTI DI NICOLAI HARTMANN

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(21) Über die Stellung der ästhetischen Werte im Reich der Werte über­ haupt, in « Proceed. of the Sixth Internat. Congress of Philosophy, Harvard Univ., Cambridge Mass., 1926 », New York, 1927, pp. 428-36. Ripubbl. in Kleinere Schriften, voi. Ili, W. de Gruyter, Berlin, 1958, pp. 314-21. (22) Max Scheier, in « Kant-Studien », 33 (1928), pp. IX-XVI. Ripubbl. in Kleinere Schriften, voi. Ili, W. de Gruyter, Berlin, 1958, pp. 350-56. (23) Die Philosophie des deutschen Idealismus, voi. II: Hegel, W. de Gruyter, Berlin-Leipzig, 1929, pp. IX-392. Cfr. n. (15). (24) Kategorien der Geschichte, in « Proceed. of the Seventh Internat. Congress of Philosophy, Oxford 1930 », Oxford, 1931, pp. 24-30. Ripubbl. in Kleinere Schriften, voi. Ili, W. de Gruyter, Berlin, 1958, pp. 321-27. (25) G. W. F. Hegel.Zum 100 Todestag am 14-XI, in «Voss. Zeitung», 1931. Ripubbl. in Kleinere Schriften, voi. Ili, W. de Gruyter, Berlin, 1958, pp. 357-62. > (26) Hegel et le problème de la dialectique du réel, in «Revue de métaph. et de morale», 38 (1931), pp. 285-316. Ripubbl. in tedesco con il titolo: Hegel und das Problem der Realdialektik, in « Blätter f. dt. Philos. », 9 (1935), pp. 1-27. Ripubbl. in Kleinere Schriften, voi. II, W. de Gruyter, Berlin, 1957, pp. 323-46. (27) Systematische Philosophie in eigener Darstellung, in «Deutsche systemat. Philosophie nach ihren Gestaltern », ed. da H. Schwarz, Berlin, 1931, voi. I, pp. 283-340. II ediz., come opuscolo separato: Systematische Philosophie in eigener Darstellung, Junker & Dünnhaupt, Berlin, 1935, pp. 60. Ripubbl. con il titolo : Systematische Selbstdarstellung, in Kleinere Schrif­ ten, voi. I, W. de Gruyter, Berlin, 1955, pp. 1-51. (28) Das Problem der Realitätsgegebenheit, Pan-Verlag, Berlin, 1931, pp. 97. (29) Recensione a: Sesemann W., Die logische Gesetze und das Sein, Kowno, 1932, pp. 170, in « Kant-Studien », 38 (1933), pp. 227-32. Ripubbl. in Kleinere Schriften, voi. Ili, W. de Gruyter, Berlin, 1958, pp. 368-74. (30) Majorität und öffentliche Meinung, in « Natur und Geist », 1 (1933), pp. 129-32. ->?■ (31) Das Problem des geistigen Seins. Untersuchungen zur Grundlegung der Geschichtsphilosophie und Geschichtswissenschaften, W. de Gruyter, Ber­ lin, 1933, pp. XIV-482; II ediz.: ibid, 1949, pp. XVI-564.

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BIBLIOGRAFIA

(32) Antrittsrede, in « Sitz.-Berichte der Preuss. Akadem. d. Wissenschaf­ ten », Phil.-hist. Kl., 14, 1934, pp. 98-99. (33) Sinngebung und Sinnerfüllung, in « Blätter f. dt Philos. », 8 (1934), pp. 1-38. Ripubbl. in Kleinere Schriften, voi. I, W. de Gruyter, Berlin, 1955, pp. 245-79. 7^(34) Zur Grundlegung der Ontologie, W. de Gruyter, 1935, pp. XIV-322; II ediz.: ibid., 1941, pp. XVI-322; III ediz.: Westkulturverlag, Meisenheim am Glan, 1948, pp. XX-322. (35) Das Problem des Apriorismus in der platonischen Philosophie, in « Sitz.-Ber. d. Preuss. Akad. d. Wiss. », Phil.-hist. Kl., 15, 1935, pp. 223-60. Ripubbl. in Kleinere Schriften, voi. II, W. de Gruyter, Berlin, 1957, pp. 48-85. (36) Der philosophische Gedankte und seine Geschichte, in « Abhandl­ ungen d. Preuss. Akad. d. Wiss.», Phil.-hist. Kl., 5, 1936, pp. 47. Ripubbl. in Kleinere Schriften, voi. II, W. de Gruyter, Berlin, 1957, pp. 1-48. (37) Das Wertproblem in der Philosophie der Gegenwart, in «Actes du Congr. intern, de philos. à Prague», 1936, pp. 975-81. Ripubbl. in Kleinere Schriften, voi. Ili, W. de Gruyter, Berlin, 1958, pp. 327-33. (38) Bericht über die Kantausgabe, in « Sitz.-Ber. d. Preuss. Akad. d. Wiss. », Phil.-hist. Kl., 17, 1937, pp. XXXI-XXXVII. (39) Gedächtnisrede auf Carl Stumpf, in « Sitz.-Ber. d. Preuss. Akad. d. Wiss. », Phil.-hist. Kl., 17, 1937, pp. CXVI-CXX. (40) Der Megarische und der Aristotelische Möglichkeitsbegriff. Ein Beitrag zur Geschichte des ontologischen Modalitätsproblems, in « Abhandl­ ungen d. Preuss. Akad. d. Wiss.», Phil.-hist. KI., 10, 1937, pp. 17. Ripubbl. in Kleinere Schriften, voi. II, W. de Gruyter, Berlin, 1957, pp. 85-100. (41) Recensione a: B. Schwarz, Der Irrtum in der Philosophie (1934), in « Blätter f. dt. Philos. », 10 (1936-37), pp. 342-44. Ripubbl. in Kleinere Schriften, voi. Ili, W. de Gruyter, Berlin. 1958, pp. 374-78. (42) Heinrich Maiers Beitrag zum Problem der Kategorien, in « Abhandl­ ungen d. Preuss. Akad. d. Wiss. », Phil.-hist. Kl., 8, 1938, pp. 19. Ripubbl. in Kleinere Schriften, voi. II, W. de Gruyter, Berlin, 1957, pp. 346-64. (43) Möglichkeit und Wirklichkeit, W. de Gruyter, Berlin, 1938, pp. XVII-481; II ediz.: Westkulturverlag, Meisenheim am Glan, 1949, pp. XIX-481. (44) Zeitlichkeit und Substantialität, in « Blätter f. dt. Philos. », 12 (193839), pp. 1-38.

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Ripubbl. in Kleinere Schriften, voi. I, W. de Gruyter, Berlin, 1955, pp. 180-214. (45) Aristoteles und das Problem des Begriff, in « Abhandlungen d. Preuss. Akad. d. Wiss. », Phil.-hist. Kl., 5, 1939, pp. 32. Ripubbl. in Kleinere Schriften, voi. II, W. de Gruyter, Berlin, 1957, pp. 100-129. (46) Der Aufbau der realen Welt. Grundriss der allgemeinen Katego­ rienlehre, W. de Gruyter, Berlin, 1940, pp. XVII-616; II ediz.: Westkulturverlag, Meisenheim am Glan, 1949, pp. XX-616. (47) Zur philosophischen Lage der Gegenwart, in « Protestantenblatt », 74 (1941), pp. 32-3 (sono pagine estratte da Zur Grundlegung der Ontologie, cfr. n. 34). (48) Zur Lehre vom Eidos bei Platon und Aristoteles, in « Abhandlun­ gen d. Preuss. Akad. d. Wiss. », Phil.-hist. Kl., 8, 1941, pp. 38. Ripubbl. in Kleinere Schriften, voi. II, W. de Gruyter, Berlin, 1957, pp. 129-64. (49) Una nueva ontologia en Alemania, in « Ensayos y Estudios » (Bonn), 3 (1941), pp. 3-50. Il saggio fu composto in tedesco nel 1940, e venne poi pubblicato in origiy naie — Neue Ontologie in Deutschland —, in «Felsefe Archivi» (Istanbul), 1 (1946), pp. 1-50. Ripubbl. in Kleinere Schriften, voi. I, W. de Gruyter, Berlin, 1955, pp. 51-89. (50) Neue Anthropologie in Deutschland. Betrachtung zu Arnold Geh­ lens Werk «Der Mensch, seine Natur und seine Stellung in der Welt», in « Blätter f. dt. Philosophie », 15 (1941-42), pp. 159-77. Ripubbl. in Kleinere Schriften, voi. Ili, W. de Gruyter, Berlin, 1958, pp. 378-92. (52) Neue Wege der Ontologie, in « Systematische Philosophie », ed. da N. Hartmann, Kohlhammer, Stuttgart-Berlin, 1942, pp. 199-311; II ediz.: ibid., 1947, pp. 202-311; III ediz., in opuscolo separato: Kohlhammer, Stuttgart, 1949, pp. 115. (52) Die Anfänge des Schichtiingsgedankes in der alten Philosophie, in « Abhandlungen d. Preuss. Akad. d. Wiss. », Phil.-hist. Kl., 3, 1943, pp. 31. Ripubbl. in Kleinere Schriften, voi. II, W. de Gruyter, Berlin, 1957, pp. 164-91. (53) Naturphilosophie und Anthropologie, in « Blätter f. dt. Philos. », 18 (1944), pp. 1-39. Ripubbl. in Kleinere Schriften, voi. I, W. de Gruyter, Berlin, 1955, pp. 214-44. (54) Die Wertdimensionen der Nikomachischen Ethik, in « Abhandlun­ gen d. Preuss. Akad. d. Wiss.», Phil.-hist. Kl., 5, 1944, pp. 27. Ripubbl. in Kleinere Schriften, voi. II, W. de Gruyter, Berlin, 1957, pp. 191-214.

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(55) Max Hartmann und die Philosophie, in « Zeitschrift f. Naturfor­ schung », 1 (1946), pp. 353-57. (56) Leibniz als Metaphysiker, in «Leibniz zu seinem 300. Geburtstag», ed. da E. Hochstetter, I. Lfrg., W. de Gruyter, Berlin, 1946, p. 28. Ripubbl. in Kleinere Schriften, voi. II, W. de Gruyter, Berlin, 1957, pp. 252-77. (57) Die Wahrheit ist das Ganze. N. Hartmann über « Die Stellung des Menschen im Kosmos», in «Aligera. Hamburger Zeitung», 3 (1948), p. 3. (53) Ziele und Wege der Kategorialanalyse, in «Zeitschrift f. philos. Forschung», 2 (1948), pp. 499-536. Ripubbl. in Kleinere Schrijten, voi. I, W. de Gruyter, Berlin, 1955, pp. 89-122. (59) Einleitung in der Philosophie (Riassunto di un corso tenuto nel se­ mestre estivo del 1949 nell’università di Göttingen), lit., 1949; II ediz., 1952, pp. 160; III ediz., a cura di K. Auerbach, Hanckel, Osnabrük, 1954, pp. 209, con il titolo Einführung in die Philosophie. Vorlesungsnachschrift. (60) Articolo: Hartmann Nicolai, nel « Philosophen-Lexikon » di W. Ziegenfuss, voi, I, W. de Gruyter, Berlin, 1949, pp. 454-71. Le Thesen zur Logik contenute in tale articolo sono state ripubbl. in Kleinere Schriften, voi. Ili, W. de Gruyter, Berlin, 1958, pp. 337-38. (61) German Philosophy in thè last ten years (tr. di J. Ladd), in « Mind », 58 (1949) pp. 413-33. (62) Das Ethos der Persönlichkeit, in « Actas del prim. Congreso Nacional de Filos., Mendoza 1949 », Univ. Nacion. de Cuyo, 1949, voi. I, pp. 300-308. Ripubbl. in Nicolai Hartmann. Der Denker und sein Werk, ed. da H. Heimsoeth e R. Heiss, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1952, pp. 7-14. Ripubbl. anche in Kleinere Schriften, voi. I, W. de Gruyter, Berlin, 1955, pp. 311-18. (63) Alte und neue Ontologie, in « Actas del prim. Congreso Nacion. de Filos., Mendoza 1949 », Univ. Nacional de Cuyo, 1949, voi. II, pp. 782-87. Ripubbl. in Kleinere Schriften, voi. Ili, W. de Gruyter, Berlin, 1958, pp. 333-37. (64) Philosophie der Natur. Abriss der speziellen Kategorienlehre, W. de ^Gruyter, Berlin, 1950, pp. XX-709. (65) Teleologisches Denken, W. de Gruyter, Berlin, 1951, pp. VIII-136. (66) Ästhetik, W. de Gruyter, Berlin, 1953, pp. XII-476. (67) Philosophische Gespräche, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1954, pp. 79. Contiene la trascrizione di due discussioni dello Hartmann con un gruppo di studenti e di vecchi allievi: Klugheit und Weisheit (già pubbl. in Nicolai Hartmann. Der Denker und sein Werpf) e Der Wahrheitsanspruch der Dichtung.

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BIBLIOGRAFIA

(68) Kleinere Schriften, voi. I: Abhandlungen zur systematischen Philo­ sophie, W. de Gruyter, Berlin, pp. 318. (Contiene, oltre alla ristampa dei nu­ meri 27, 33, 44, 49, 53, 58, 62, anche due scritti inediti: Die Erkenntnis im Lichte der Ontologie, pp. 122-80, e Vom Wesen sittlicher Forderungen, pp. 279-311). (69) Kleinere Schriften, Voi. II: Abhandlungen zur Philosophie Geschich­ te, W. de Gruyter, Berlin, 1957, pp. 364. (Contiene la ristampa dei numeri 14, 16, 26, 35, 36, 40, 42, 45, 48, 52, 54, 56). (70) Kleinere Schriften, voi. Ili: Vom Neukantianismus zur Ontologie, W. de Gruyter, Berlin, 1958, pp. 395. [Contiene la ristampa dei numeri 3, 5, 6, 7, 10, 11, 12, 17, 21, 22, 24, 25, 29, 37, 41, 50, 60, 63; inoltre l’autopresentazione nelle « Kant-Studien » della Platos Logip des Seins (1909) e le note 7.um fahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung (1913), Kant und die Philosophie unserer Tage (1924), Kants Metaphysip der Sitten und die Ethip unserer Tage (1924)1.

IL TRADUZIONI DI SCRITTI DI NICOLAI HARTMANN

Dei Grundzüge einer Metaphysip der Erpenntnis (Cfr. I, 13): (1) Les principes d’une métaphysique de la connaissance, tr. e pref. di R. Vancourt, Aubier, Paris 1947, voll. 2, pp. 724. (2) Rasgos fundamentales de una metafisica del conocimiento, tr. di J. Rovira Armengol, Edit. Losada, Buenos Aires 1957, voll. 2, pp. 676. Dell’EM^ (Cfr. I, 19): (3) Ethics, tr. di S. Coit, Allen, London, 1932, voll. 3: I. Moral phenomena, pp. 343; II. Moral Values, pp. 476; III. Moral Freedom, pp. 282. II ediz.: ibid., 1950. (4) Etica, tr. di R. Kaiser-Lenoir, Paris, 1945, pp. 351 (tr. non completa). Di Systematische Philosophie in eigener Darstellung (Cfr. I, 27) : (5) Filosofia sistematica, in: N. Hartmann, Filosofia sistematica, tr. di A. Denti e R. Cantoni, pref. di R. Cantoni, Milano, Bompiani, 1943, pp. 111-223. Il volume contiene anche la trad, di Der philosophische Gedanpe und seine Geschichte (Cfr. I, 36). Di Zur Grundlegung der Ontologie (Cfr. I, 34):

(6) Ontologia. I: Fundamentos, tr. di J. Gaos, Fondo de Cultura Eco­ nòmica, Mexico, 1955, pp. XVIII-384.

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BIBLIOGRAFIA

Di Der philosophische Gedanke und seine Geschichte (Cfr. I, 36): (7) Il pensiero filosofico e la sua storia, in : Nicolai Hartmann, Filosofia sistematica, tr. di A. Denti e R. Cantoni, pref. di R. Cantoni, Bompiani, Mila­ no, 1943, pp. 15-109. (Cfr. II, 5). Di Neue Ontologie in Deutschland (Cfr. I, 49): (8) Ontologia nuova in Germania, tr. di R. Cantoni, in « Studi Filoso­ fici », 4 (1943). Di Neue Wege der Ontologie (Cfr. I, 51): (9) The netv ways of ontology, tr. di H. Regnery, Chicago, 1952. (10) La nueva ontologia, tr. di Emilio Estiu, Edit. Sudamericana, Buenos Aires, 1954, pp. 259. Di Ziele und Wege der Kategorialanalyse (Cfr. I, 58): (11) Tareas actuales del anàlisis categorial, in « Notas y Estudios de filos. », 1 (1949), pp. 225-59. Di Das Ethos der Persönlichkeit (Cfr. I, 62): (12) El « ethos·» de la personalidad, in « Actas del prim. Congreso Nacional de Filos., Mendoza 1949 », Univ. Nacion. de Cuyo, 1949, voi. I, pp. 308-15. Di Alte und neue Ontologie (Cfr. I, 63): (13) Viefa y nueva ontologia, in « Actas del prim. Congreso Nacion. de Filos., Mendoza 1949», Univ. Nacion. de Cuyo, 1949, voi. II, pp. 787-91.

III. CENNI SULLA LETTERATURA HARTMANNIANA

Una bibliografia, mirante alla completezza, degli scritti dedicati al pen­ siero dello Hartmann è stata raccolta da Theodor Ballauff, nella « Bibliogra­ phie der Veröffentlichungen Nicolai Hartmanns und zur Philosophie Nicolai Hartmanns » pubblicata in Nicolai Hartmann. Der Denker und sein Wer^ ed. da H. Heimsoeth e R. Heiss, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1952, pp. 286-312; e, successivamente, da Francesco Barone negli « Scritti su Nico­ lai Hartmann », in Nicolai Hartmann nella filosofia del Novecento, Ed. di «Filosofia», Torino, 1957, pp. 402-31. Il cenno presente si limita di proposito all’indicazione di alcuni tra i vo­ lumi e i saggi più significativi dedicati allo Hartmann, cercando di aggior­ nare le due bibliografie ricordate e soffermandosi particolarmente sugli scritti in lingua italiana. Per ricchezza di informazione e varietà di punti di vista critici va ri­ cordato in primo luogo il volume miscellaneo, già citato, Nicolai Hartmann

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BIBLIOGRAFIA

Der Denker und sein Werfo a cura di H. Heimsoeth e R. Heiss che com­ prende tredici saggi sui diversi aspetti del pensiero hartmanniano: un nitido profilo dello Heiss, Nicolai Hartmann, integrato dall’analisi di J. Klein sulla sua prima formazione speculativa, N. H. und die Marburger Schule-, gli studi di E. Spranger — Das Echte im objektiven Geiste — e di I. Pape — Das Individuum in der Geschichte. Untersuchung zur Geschichtsphilosophie von N. H. und Max Scheier —■, sulla filosofia dello spirito; il saggio di O. F. Bollnow sull’etica, Die Behandlung der Tugenden bei N. H., e quelli di E. May — Die Stellung N. H.s in der neueren Naturphilosophie — e di H. J. Höfert e di Μ. Hartmann — Kategorialanalyse und physikalische Grundlagenfor­ schung, Die Philosophie des Organischen im Werke von N. H. — sulle fun­ zioni e sulle sezioni della filosofia della natura; l’articolo di H. Plessner, Offene Problemgeschichte, sulla concezione hartmanniana della storia della filosofia; e, infine, gli studi di G. Martin, Aporetik als philosophische Metho­ de, H. Heimsoeth, Zur Geschichte der Kategorienlehre, H. Wein, N. H.s Kategorialanalyse und die Idee einer Strukturlogik, H. Pichler, Die Wieder­ geburt der Ontologie, sul metodo, lo sviluppo categoriale e il fondamento rea­ listico dell’ontologia.

Come sguardo complessivo cfr. anche Hermann Herrigel, Der philoso­ phische Gedanke N. H.s., in « Kant-Studien », 13 (1959-60), pp. 34-66; e Heinz Hülsmann, Die Methode in der Philosophie N. H.s., Düsseldorf, Schwann, 1959. Al problema della conoscenza e alle tesi realistiche hartmanniane hanno rivolto considerazioni critiche, da un punto di vista idealistico, H. Gadamer, Metaphysik der Erkenntnis. Zu dem gleichnamigen Buch von N. H., in « Lo­ gos», 12 (1923-24), pp. 340-59; in una prospettiva fenomenologica ortodossa, P. F. Linke, Bild und Erkenntnis. Ein Beitrag zur Gegenstandsphänomenolo­ gie im kritischen Anschluss an N. H.s. Lehre vom Satz des Bewusstseins, in « Philos. Anzeiger », 1 (1925-26), pp. 299-358. Particolare attenzione alla gno­ seologia dello H., come del resto a tutta la sua ontologia, è stata dedicata negli ambienti neoscolastici: J. Klosters, Die «kritische Ontologie » N. H.s. und ihre Bedeutung für das Erkenntnisproblem, Fulda, Philos. Diss. München, 1928; H. Kuhaupt, Das Problem des erkenntnistheoretischen Realismus in N. H.s. Metaphysik der Erkenntnis, Würzburg, Becker, 1938; A. Guggenberger, Zwei Wege zum Realismus. Ein Vergleich zwischen N. Hs. «Erkenntnisponderanz » und ]. Maréchal « Erkenntnisdynamismus », in « Revue ncoscol. de philos.», 41 (1938), pp. 46-79; Konrad A., Irrationalismus und Subjekti­ vismus. Eine immanente Kritik des Satzes des Bewusstseins in N. H.s. Er­ kenntnismetaphysik, Würzburg, Triltsch, 1938. Del Klosters cfr. anche N. H.s kritische Ontologie, in « Philos. Jahrb. d. Görres-Gesellschaft », 41 (1928), pp. 405-31 e 42 (1929), pp. 25-41; del Guggenberger, Der Menschengeist und das Sein. Eine Begegnung mit N. H., Krailing von München, Wewel, 1942. Sui presupposti storiografici del realismo dello H. cfr. Μ. Scheler, Idealismus-

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Realismus, in « Philos. Anzeiger », 2 (1927-28), pp. 255-324; e A. Seelbach, N. H.s. Kantkritik, Berlin, Pan-Verlagsges., 1933. Sulle analisi etiche e sulle loro interpretazioni ontologiche cfr. E. von Aster, Zur Kritik der Materialenwertethik, in « Kant-Studien », 23 (1928), pp. 172-99; i numerosi saggi del neoscolastico Μ. Wittmann e, in particolare, Die Moderne Wertethik, Münster, Aschendorff, 1940; R. Otto, Freiheit und Notwendigkeit. Ein Gespräch mit N. H. über Autonomie und Theonomie der Werte, Tübingen, Mohr, 1940; E. J. Koehle, Personality. A study according to thè philosophies of value and spirit of Μ. Scheier and N. H., Newton, N.J., 1941; e lo studio analiticamente completo di E. Mayer, Die Objektivität der Werterkenntnis bei N. H., Meisenheim am Glan, Westkulturverlag, 1952. Per i temi 'fóndamelitali dell’patólogia : sull’analisi modale, G. Hawighorst, Der Möglichkeitsbegriffin der kf^tschen Ontologie N. H.s., Passau, Gogeissl., 1942; O. Becker, Das formale System der ontologischen Modalitä­ ten, in « Blätter f. dt. Philos. », 16 (1943), pp. 387-422; sulla idealità, A. Millan Pnelles, El problema del ente ideal. Un examen a través de Husserl y H., Madrid, Consejo Sup. Inv. Cient., 1948; sul ritorno all’ontologia, O. Samuel, A foundation of ontology. A criticai analysis of N. H., New York, Philos. Lib., 1953; R. Vancourt, N. H. et le renouveau métaphysique, in « Revue Orom. », 54 (1954), pp. 584-607 e 55 (1955), pp. 138-58; C. T. Frey, Grundla'gendeì\pntologie N. H.s., Tübingen, Niemeyer, 1955; sulle analisi categoriali, J. Wahl, La structure du monde réel d’après N. H., Paris, Tournier et Conspans, 1953, e dello stesso, Les aspects qualitatifs du réel, fase. Ili : La philosophie deta nature de N. H., Paris, Centre de docum. univ., 1955. Ancora sulla filo­ sofia della natura, W. Baumann, Das Problem der Finalität im Organischen bei N. H., Meisenheim am Glan, Hain, 1955; E. Mayer, Die organische Zweck­ mässigkeit im Blickfeld der Teleologie bei N. H., in « Wiss. Weisheit», 21 (1958), pp. 30-50 e 117-33.

Di particolare interesse sono i confronti di temi ontologici hartmanniani con altri motivi speculativi del passato e del presente. Cfr. I. Klein, Das Sein und das Seiende. Das Grundproblem der Ontologie N. H.s. und Martin Hei­ degger, Köln, Philos. Diss., 1949; J. Urbanavicius, Essentia und Existentia bei Duns Scotus und der Begriff der Seinsmomente in der Ontologie N. H.s., Bonn, Philos. Diss., 1949; O. Kühler, Wert, Person, Gott. Zur Ethik Max Scheiers, N. H.s., und die Philosophie des Ungegebenen, Berlin, Junker & Dünnhaupt, 1932; R. Groos, Wertethik oder religiöse Sittlichkeit ? Auseinandersetzung mit der Ethik N. H.s. und der neueren evangel. Ethik, München, Kaiser Ver­ lag, 1933; Μ. G. Walker, Perry and Hartmann. Antithetical or complementary ?, in «The intern. Journal of Ethics», 49 (1938), pp. 37-61; Ch. Hartlich, Die ethischen Theorien Fr. Brentanos und N. H.s in ihrem Verhältnis zu Ari­ stoteles, Würzburg, Triltsch, 1939; E. Schaper, The aesthetics of Hartmann and Bense, in «Review of Metaphysics », 10 (1956), pp. 289-307; A. T. Tymienieca, Essence et existence. Etüde à propos de la philosophie de Roman 60

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Ingarden et N. H., Paris Aubier, 1957; N. Mohanty Jitendra, N. H. and Alfred North Whitehead. A study in recent platonism, con pref. di H. Wein, Calcutta, Progressive Pubi., 1957. Sull’atteggiamento dell’ontologia critica nei confronti del problema reli­ gioso, cfr. infine: T. Barth, Moralidad y religión (un diàlogo con N. H.), in « Verdad y Vida », 14 (1956), pp. 5-24; e i saggi di J. Aragó, Presupuestos históricos de la filosofia de N. H.: la supremacia del ser sabre el logos, in « Pensamiento», 14 (1958), pp. 5-28; La estructura de nuestro entendimiento corno raiz de lo irracional, y la total exclusión de Diós en la ontologia de N. H., ibid., pp. 159-90; Die antimetaphysische Seinslehre N. H.s, in « Philos. Jahrbuch », 67, 1958, pp. 179-204.

Il primo ad occuparsi con una certa ampiezza (n Italia del pensiero hartmanniano fu Antonio^ Banfi che si soffermò sui tenii-propósti dalla « metafi­ sica della conoscenza » nei Principi di una teoria della ragione (Paravia, Torino, 1926, pp. 374-88): e il suo interesse per il pensatore tedesco rimase vivo anche in seguito, in quanto è nella collana « Idee nuove » da lui diretta per l’editore milanese Bompiani che comparve la traduzione (1943) dei due scritti hartmanniani Systematische Philosophie in eigener Darstellung e Der philosophi- . sche Gedanke und seine Geschichte, sotto il titolo complessivo di Filosofia siste- \ rnatica (Cfr. II, 5 e II, 7); ed è dello stesso anno il fascicolo della sua rivista « Studi Filosofici », dedicato interamente allo Hartmann. Ancor prima della guerra, tuttavia, due altri studiosi delle Università mila­ nesi avevano rivolto allo Hartmann la propria attenzione: Piero Martinetti, che in un ampio e lucidissimo saggio pubblicato sulla « Rivista dì FiTosofia », 26, 1935, pp. 1-46 — e poi ripubbl. in Ragione e Fede, Torino, Einaudi, 1942 — aveva analizzato criticamente La filosofia morale di Nicolai Hartmann·, e Sofia k, VANNi-RgviGHi che nel 1939 (in « Rivista di Filosofia Neoscolastica », 31, pp7T74-92) aveva messo in luce, con la preparazione che le veniva dalle sue indagini dirette sulla fenomenologia, i motivi schiettamente originali dell’O»tologia di Nicolai Hartmann.

Il già ricordato fascicolo del ’43 degli « Studi Filosofici » trovò così l’inte­ resse dei lettori italiani opportunamente indirizzato e diede ad esso un nuovo ed importante contributo, offrendo la traduzione (cfr. II, 8) della recentissima Neue Ontologie in Deutschland, non ancora comparsa in tedesco, ed i tre sag­ gi di Secondo Boccio, Kate Nadler e Remo Cantoni, dedicati rispettivamente all’analisi della gnoseologia hartmanniana, dei suoi sviluppi ontologici e della correlativa filosofia dello spirito e della storia (cfr. « Studi Filosofici », 4, 1943, pp. 152-66: Intorno al realismo di Nicolai Hartmann·, pp. 125-51: L’ontologia di Nicolai Hartmann·, pp. 167-215: Il problema dello spirito nella filosofia di Nicolai Hartmann). Il saggio del Cantoni — che aveva curato anche la pre­ fazione alle traduzioni di Filosofia Sistematica — venne ripubblicato successi­ vamente in Mito e Storia, Mondadori, Milano, 1953. Ancora in periodo bellico

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BIBLIOGRAFIA

si occupò dello Hartmann Michele Federico Sciacca nel profilo del pensiero contemporaneo La filosofia, oggi, Mondadori, Milano, 1945 (IL ed., Bocca, Roma-Milano, 1952, pp. 232-46). Nei primi anni del dopoguerra si ebbe un ampliamento di studi hartmanniani: è del ’48 il volume litografato di Francesco Barone^ L’ontologia di Ni­ colai Hartmann (Istituto di Filos. della Facoltà di Lèttere, Torino), che si sof­ ferma particolarmente sulle prime tre opere della tetralogia ontologica. Il Barone in seguito ampliò la sua indagine hartmanniana con lo studio dell’ulti­ ma opera ontologica comparsa nel ’50 — L’ontologia di Nicolai Hartmann e la filosofia della natura, in « Atti dell’Accad. delle Scienze di Torino », voi. 85 (1950-51), pp. 69-110 — e con altre due note (sempre negli « Atti dell’Accad. delle Scienze di Torino », voli. 86 (1951-52), pp. 147-71 e 88 (1953-54), pp. 217-314): La finalità come categoria metafisica nel pensiero di Nicolai Hart­ mann e Assiologia e ontologia. Etica ed estetica nel pensiero di Nicolai Hart­ mann. I risultati di queste analisi specifiche, integrati da una considerazione complessiva della produzione hartmanniana anche nella sua formazione sto­ rica e da una valutazione critica del suo significato nel pensiero contempora­ neo, sono stati infine raccolti dal Barone nel volume già ricordato Nicolai Hartmann nella filosofia del Novecento, Ediz. di « Filosofia », Torino, 1957, pp. XIV-434. Sempre nel 1948 la rivista « Ricerche Filosofiche » pubblicò nel suo primo volume il saggio di Μ. Landmann, Il concetto del problema nella filosofia di Nicolai Hartmann. E del 1949 è sia lo studio di Leo Lugarini su Essere e co­ noscere in Nicolai Hartmann (in « Acme », 2, pp. 101-24) sia l’analisi della dottrina modale hartmanniana condotta da Vittorio Mathieu in L’equivoco dell’incompossibilità e il problema del virtuale Atti dell’Accad. delle Scien­ ze di Torino », voi. 84 (1949-50), pp. 206-29). Contemporaneamente Corrado Rosso studiò l’etica hartmanniana in Figure e dottrine della filosofia dei valori, Istit. di Filosofia della Facoltà di Lettere, Torino, 1949 (cfr. pp. 207-20); e sul­ l’etica hartmanniana vanno pure ricordate le penetranti osservazioni critiche di Augusto Guzzo nql volume La Moralità, Ediz. di «Filosofia», Torino, 1950, pp. 481-87. Nicola Abbagnano ha dato dello Hartmann un profilo gene­ rale nella Storia della filosofiaA^àT.E.T., Torino, 1950, voi. II-2, pp. 645-58), in­ sistendo sugli aspetti meno convincenti del suo determinismo. Altri profili ge­ nerali hartmanniani sono compresi nella Concezione dell’essere nella filosofia contemporanea (Studium, Roma, 1953, pp. 151-73: «Nicolai Hartmann e la da­ tità dell’essere ») di Giovanni Di Napoli e nella Storia della filosofia, opera in collaborazione a cura di Cornelio Fabro (Coletti, Roma, 1954, pp. 695-702). Su L’estetica di Nicolai Hartmann ha scritto F. Löw, in « Aut Aut », n. 23 (sett. 1954), pp. 377-88; e sul significato delle sue analisi fenomenologiche per la filo­ sofia del diritto Luigi Bagolini, Descrittiva pura del dato giuridico, in « Ri­ vista Intern, di Filos. del Diritto », 32 (1955), pp. 749-55. La problematica hartmanniana per la ricostituzione della metafisica è stata studiata criticamen-

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BIBLIOGRAFIA

te, con riferimento alla filosofia neoscolastica, da Franco Sirchia, L’istanza on­ tologica e la « nuova ontologia» di Nicolai Hartmann [in «Rivista di filos. neoscolastica», 49 (1957), pp. 220-39], e con molta simpatia da Enzo Paci, quale testimonianza di una situazione significativa del pensiero contemporà­ neo: La filosofia contemporanea, Garzanti, Milano, 1957 (pp. 194-203) e Hart­ mann e la tradizione metafisica (« Aut Aut », n. 42, novembre 1957, pp. 486-91).

63 5 - La fondazione dell’ontologia

LA FONDAZIONE DELL’ ONTOLOGIA

PREFAZIONE

Le quattro ricerche che presento riunite in questo volume - sul­ l’ente come ente, su esserci ed essere-così, sulla datità della realtà e sul­ l’essere ideale — formano l’introduzione a uri ontologia a cui sto lavo­ rando da due decenni, e le cui parti successive sono già abbozzate e se­ guiranno in un lasso di tempo ragionevole. Il piano intero dell’opera costituisce lo sfondo filosofico fondamen­ tale dei lavori sistematici che ho sinora pubblicato - la Metafisica della conoscenza, /'Etica e il Problema dell’essere spirituale - e si è anche annunciato ripetutamente nella loro costruzione. Realizzare il piano fu però un compito che poteva essere attuato solo lentamente. È implicito nella natura di un’opera fondamentale che essa sottostia a una legge di sviluppo diversa da quella della trattazione di campi periferici parti­ colari; essa raggiunge più tardi la sua maturità, perché il campo dei dati da cui muove si estende ai domini particolari, e tutte le esperienze filosofiche vengono raccolte soltanto in questi. Abbiamo in ciò una con­ ferma della legge aristotelica per cui il cammino di ogni atto di cono­ scenza procede da ciò che è primo per noi a ciò che è primo per sé e più fondamentale. Non si può invertire il cammino, se non si vuole che la filosofia degeneri in una speculazione astratta. È l’impazienza dei bisogni speculativi che fa prendere una strada diversa: essa è sempre pronta ad anticipare il tutto, a dedurne conseguenze e a spacciarle per conoscenze rigorose. Ma l’impazienza deve tacere quando si tratta di ottenere una conoscenza rigorosa effettiva. La ricerca odierna non può proporsi di riportare in auge i tempi della vecchia ontologia aprioristico-deduttiva. Ritorneranno bensì ne­ tt

PREFAZIONE

cessariamente, in nuova veste, alcuni dei vecchi temi; i problemi, in­ fatti, non sorgono e non cadono assieme ai metodi che li indagano. Ma la maniera di trattazione è diventata diversa. Le conquiste filosofiche dei secoli moderni e la scuola del pensiero critico non le sono passate innanzi senza lasciar traccia. È diventata possibile un’ontologia nuova, critica. Il compito è di realizzatici. Il suo metodo non può essere espo­ sto in anticipo, non corrisponde a nessuno dei semplici schemi metodici tradizionali. Potrà essere mostrato e giustificato nel suo oggetto solo procedendo. Anche le quattro ricerche di questo volume non sono an­ cora sufficienti per una visione sinottica in base a cui si possa giudi­ carlo definitivamente. Queste ricerche non hanno la pretesa di costituire un tutto con­ chiuso; non sono che il primo membro di una successione naturale di problemi e acquistano il loro peso solo dallo sviluppo di questi. Sarebbe forse rischioso presentarle separatamente, se la gran massa dell’intera connessione problematica non imponesse imperiosamente una separa­ zione provvisoria. Non è praticamente possibile riunire in un volume una serie così ingente di ricerche qual è richiesta dal tema complessivo dell’ontologia. Nello stesso tempo, comincio così a soddisfare un vecchio debito. Nei miei lavori precedenti non sono mancati presupposti ontologici, che dovevo porre senza poter fondare sufficientemente. Ho cercato di ripa­ rare a questa mancanza con una serie di memorie minori (Com’è pos­ sibile l’ontologia critica, Leggi categoriali, eccf\. Ciò non poteva ba­ stare a lungo andare, poiché non si trattava del chiarimento di problemi marginali, ma della fondazione di un tutto. Il carattere frammentario di tale trattazione poteva suscitare nuovi malintesi, che non sono infatti mancati nella valutazione dei colleghi. Mi parve vano rispondere ad essi minutamente senza presentare anche qualcosa di conchiuso. Ma non si poteva spingere avanti a viva forza la totalità conchiusa. Credo di essere ancor più debitore di una giustificazione a coloro che dai miei lavori trassero per conto proprio conseguenze di tipo siste­ matico universale. Per mostrarne il carattere, potrebbe bastare come esempio il fatto che alcuni anni fa comparve una dissertazione sulla mia « ontologia », in cui vidi con meraviglia come l’opera non ancora scritta e neppur maturata nella mia testa fosse già compiuta da un bel po’ in quella di un contemporaneo più svelto, bollata con un « ismo » e confutata punto per punto con estrema accuratezza.

Non si interpreti ciò come una facezia di cattivo gusto. Il piccolo lavoro non era poi tanto cattivo e confutava rettamente ciò che confu68

PREFAZIONE

tava. Il solo difetto era di confutare un’altra ontologia e non la mia. Non si tratta nemmeno di un caso isolato: nella maggior parte dei miei critici ho incontrato integrazioni arbitrarie, che si muovono sempre nel cammino già tracciato di qualcuno dei tipi sistematici tradizionali. Non solo si fondano su invenzioni gratuite, ma operano anche con concetti e abitudini intellettuali tramandate ciecamente, e di regola proprio con quelle abitudini e con quei concetti che io avevo respinto come erronei. Non serve molto mettere in guardia coloro che si abbandonano all’inventiva. Nemmeno il mio espresso rifiuto a inferimenti su un’in­ tuizione generale del mondo fu una difesa sufficiente contro le defor­ mazioni. Il semplice riserbo non convince nessuno; si può rimanere riservati fin che si vuole, e nessuno ci crede. Tutti fiutano qualcosa di inespresso e credono di aver diritto di esprimerlo per intima convin­ zione anche senza ulteriore ricerca. La pratica della scienza insegna qualcosa di ben diverso: prima di ogni comprensione e di ogni con­ quista gli dei hanno imposto il sudore del lavoro. Ed è il lavoro ciò a cui bisogna necessariamente dedicarsi qui come in ogni altra cosa, nel leggere come nel pensare per proprio conto. Senza il lavoro ogni filo­ sofia diventa speculazione. Ciò che qui presento è pur sempre una parte di lavoro che non si contenta di frammenti, ma incomincia dalle fondamenta, anche se non presenta eguale rifinitura delle parti superiori. È la parte fondamentale dell’ontologia e comprende i problemi preliminari indispensabili per ogni ulteriore ricerca sulla costruzione del mondo esistente. Le ricerche qui presentate rientrano quindi a maggior diritto di ogni ricerca spe­ cifica sotto il titolo comprensivo di « ontologia », in quanto esso soltanto riguarda l’essere in generale e coglie, quanto all’argomento, il tema cor­ rispondente dell’antica dottrina ontologica de ente et essentia. Dal ti­ tolo non appare certo troppo chiaramente che ΐargomento debba d’al­ tra parte mantenerne le promesse solo con un contenuto nuovo. Avrei preferito la denominazione di philosophia prima coniata da Aristotele, se ci fosse stata la speranza di farla nuovamente accogliere nella repub­ blica filosofica. Ma mi parve che tale speranza non sussistesse. Negli ultimi decenni abbiamo sentito parlare in modi diversi di « ontologia ». A questo argomento non appartengono soltanto le opere che ne portano il titolo, come quelle di H. Conrad-Martius e Günther Jacoby (1). Si devono ricordare a tale proposito anche la teoria degli og­ getti del Meinong, i saggi metafisici di Scheier ed Essere e tempo dello (1) Hedwig Conrad-Martius, nata nel 1888, fu scolara di Husserl e autrice di Zur Ontologie und Erscheinungslehre der realen Aussenwelt, in « Jahrbuch für Philosophie und phänomenolo-

PREFAZIONE

Heidegger, come pure alcuni tentativi meno noti (1). La comparsa di questa tendenza è connessa in modo strettissimo con il risorgere della metafisica, che all’inizio del nostro secolo si affermò contro la mancanza di contenuto del declinante neokantismo, del positivismo e dello psicolo­ gismo. In questa reazione si annunciava un movimento di universale rinascita dello spirito filosofico, movimento che si sarebbe certo imposto in misura maggiore se non fosse avvenuta proprio in questo periodo la fioritura dello storicismo che, rendendo relativo il concetto di verità, costituì un contrappeso frenante scetticamente e dissolvente la proble­ matica dell’essere. Ovunque guardi, in questi approcci iniziali trovo soltanto l’annun­ cio dell’ontologia sopravveniente e mai un tentativo di porla effettiva­ mente in atto. In parte, essi si fermano alla ricerca preliminare che concerne il rapporto di conoscenza ed essere, e in cui poi il concetto ontologicamente confuso di conoscenza rende illusorio a limine tutto il resto; in parte, confondono il problema dell’essere con il problema della datità, o addirittura l’ente stesso con l’) quello sul carattere ontico sia del reale sia dell’ideale; c) quello sulla struttura interna del loro rapporto reciproco. Il primo di questi problemi è gnoseologico e può essere trattato separatamente; ad esso sono dedicate le parti seguenti di questo volu­ me. Il secondo, nei limiti in cui è discutibile, può essere trattato solo nella connessione dei rapporti modali. Esso appartiene all’ambito pro­ blematico di un’altra ricerca. Il terzo, invece, riguarda già la costruzio­ ne strutturale del mondo. È un problema del rapporto degli strati con le sfere dell’essere, richiede una vasta analisi della normatività catego­ riale e costituisce l’oggetto di una terza serie di ricerche''^.

c) L’apparenza della separazione e il suo fondamento ontologico.

Gli argomenti in favore della separazione di esserci e di essere-così, esaminati in precedenza (Cap. XII, a-c), si sono rivelati pseudo-argo­ menti. Tra i momenti dell’essere non c’è una diversità ontologica essen­ ziale, ma essi sono aspetti omogenei dello stesso ente. Né Tesserci ha un’autonomia mancante all’essere-così, né l’essere-così ha una dipendenza di cui sia privo l’esserci. La loro eterogeneità è solo quella di membri in(*) (*) I due ultimi problemi indicati non appartengono quindi al tema di questo libro. Essi sono trattati nelle opere seguenti: Möglichkeit und Wirklichkeit (Pos­ sibilità ed effettualità), 1938, e Der Aufbau-der realen Welt (La costruzione del mondo reale), 1940.

234

SEZ. Ili - IL RAPPORTO INTERNO

rapporto tra loro. E poiché nella connessione ontica la relazionalità si dispone serialmente, essa si trasforma in identità all’interno di ogni tota­ lità maggiore, e del contrasto rimane solo la differenza di direzione. Ma quando si è chiarito questo rapporto sorge il problema su che cosa si fondi l’apparenza della separazione essenziale. Non è un’apparenza introdotta arbitrariamente, è ' non"scómpare nemmeno semplicemente dopo la scoperta della situazione effettiva; essa continua a persistere, è un’apparenza inevitabile, che non ha il semplice carattere di un errore correggibile con un esame attento. Essa è piuttosto simile all’illusione che rimane tale anche quando è penetrata a fondo. Ci sono due fondamenti di questa apparenza. Il primo è ontologico, e consiste nel ìatto che le relazioni in cui si trova una cosa non sono implicite contenutivamente nel suo esserci - poiché esse rientrano nel­ l’aspetto della determinatezza, mentre Tesserci come tale è solo maniera d’essere - ma sono contenute nel suo essere-così. Anche per l’essere-così di una cosa si può certo astrarre da tutte le altre relazioni e considerare un singolo elemento determinativo. Ma a tale scopo è necessaria l’astra­ zione, che deve essere messa in atto, mentre Tesserci si presenta in una certa nuda schiettezza anche senza Tatto particolare dell’astrazione. Nell’essere-così non si può mai astrarre da «una» relazione, quel­ la della sua appartenenza a un esistente. La determinatezza è, per sua essenza, qualcosa « in » qualcosa. La maniera d’essere è invece indiffe­ rente alla aderenza e alla inerenza. L’esserci di una cosa si trova natu­ ralmente entro relazioni ontiche che sono esse pure esistenti; ma non « consiste » in esse, in cui invece consiste essenzialmente Tessere-così. È questo il motivo per cui Tesserci e Tessere-così « appaiono » rispetti­ vamente come qualcosa di autonomo e di dipendente. E non si tratta di un motivo apparente ma di uno schietto motivo ontico. È falso ritenere che i motivi dell’apparenza siano apparenza essi stessi. Un’apparenza con costanza ineliminabile può fondarsi, al contra­ rio, solo su una base ontica. Soltanto la penetrazione del fondamento ontico della ineliminabilità indebolisce l’apparenza, che viene però solo svelata dalla penetrazione e non tolta di mezzo. Questa situazione è ben nota nel campo metafisico attraverso la dia­ lettica trascendentale kantiana, che è una logica dell’apparenza ed è volta alla scoperta dei motivi di essa. È invece assai meno nota nella sfera della vita quotidiana, che qui appunto è in questione. Ciò diventa evidente nel rapporto tra cosa e proprietà. La proprietà è tale che può sussistere solo «in» un esistente. Perciò non si può per essa astrarre da tutte le relazioni. Solo la proprietà, nel pensiero rivolto alle cose, è salvaguardata dall’astrazione isolante, mentre non lo sono le cose stes­ 235

PARTE II - IL RAPPORTO DI ESSERCI ED ESSERE-COSI

se. Perciò nella coscienza ingenua le cose suscitano quell’apparenza dell’autonomia che ricade sull’esserci. È appunto nel pensiero «cosale» che si radica primariamente il pregiudizio della separazione essenziale. Le cose sono rese indipendenti come sostanze e le proprietà appaiono dipendenti. E così pare che esse non abbiano alcun esserci e che i loro portatori non abbiano «in sé» alcun essere-così : poiché le proprietà non sono « in sé », e l’essere-così consiste tuttavia in esse, anche quest’ultimo non può appartenere «in sé » alle cose. L’errore consiste nell’attenersi ai fenomeni sensibili. Non ci si accorge che i fenomeni delle cose non sono le cose stesse.

d) Il fondamento gnoseologico della separazione.

Il secondo motivo che contribuisce a produrre l’apparenza consiste nella struttura caratteristica della conoscenza umana. Anche questo fon­ damento è ontico in senso ampio, in quanto la conoscenza appartiene all’essere spirituale e il rapporto gnoseologico del soggetto con il mondo è un rapporto ontico. Tale motivo è facilmente comprensibile: negli oggetti Tesserci e l’essere-così vengono separati perché la loro maniera di datità è diversa e spesso anche separata in due atti conoscitivi assai divergenti. Il punto saliente in questa diversità è la dualità delle fonti di conoscenza - o, per usare la terminologia kantiana, dei rami della conoscenza (Erkenntnis­ stämme), dell’elemento gnoseologico a priori e di quello a posteriori. Il rapporto di questa dualità con i due momenti dell’essere può venir espresso in due semplici proposizioni: 1. l’esserci è conoscibile solo a posteriori; 2. a priori è conoscibile solo l’essere-così. Ciò naturalmente vale soltanto per l’esserci e per l’essere-così reali. L’essere ideale in generale è conoscibile solamente a priori; ma il pro­ blema dell’esserci consiste prevalentemente per la sfera reale. Va inoltre notato che la seconda proposizione è vera soltanto se si tratta di « pura » conoscenza a priori; non appena sono posti a base elementi dell’esperien­ za si può stabilire anche Tesserci di qualcosa di determinato con l’ap­ plicazione della conoscenza aprioristica delle leggi. È qui necessario prescindere da questo caso, che è comune sia nella scienza sia nella vita; in esso infatti gli elementi della conoscenza compaiono già mescolati. Tuttavia il caso della pura conoscenza a priori non è affatto costruito artificiosamente. In molti campi del sapere c’è conoscenza a priori del­ l’universale in quanto tale — ad esempio, la conoscenza della legge — 236

SEZ. Ili - IL RAPPORTO INTERNO

senza che siano dati i casi singoli. C’è allora conoscenza dell’essere-così senza conoscenza dell’esserci. Osservato meglio, il rapporto si presenta nel modo seguente. Am­ messo che a priori e a posteriori (da non confondersi con pensiero e in­ tuizione) siano maniere originarie di datità dell’ente, non per questo vale la semplice coordinazione: esserci — dato a posteriori, essere-così — dato a priori. In primo luogo, per entrambi non c’è alcuna necessità di essere dati: tanto Tesserci quanto l’essere-così di una cosa sussistono anche sen­ za datità e anche senza essere conoscibili. E, in secondo luogo, c’è anche un essere-così dato a posteriori. Rientrano in questa specie di essere-così tutte le qualità, le forme spaziali, i rapporti e i processi sensibili. È vero che la sensazione dà Tesserci della cosa, ma non dà il nudo esserci, bensì Tesserci con una considerevole parte dell’essere-così. Ciò è espresso chiaramente dalle due proposizioni suddette, che non affermano un rapporto parallelo. Si dovrebbe altrimenti poter in­ vertire la seconda proposizione, il che non è invece possibile. In molte cose Tessere-così è anche conoscibile a posteriori. C’è dunque un rapporto di sovrapposizione tra i momenti dell’es­ sere e le maniere di datità. Il rapporto delle due coppie di contrari è instaurato dalla obiettazione dell’ente e viene naturalmente in questione solo all’interno dei limiti della possibile obiettazione. Esso non è espri­ mibile come rapporto dimensionale di intersecazione. La sovrapposizio­ ne è qualcosa di completamente diverso dalla intersecazione. Ciò che è evidente nel rapporto, è piuttosto un duplice rapporto di limitazione in cui i due limiti non corrispondono l’uno all’altro. Il confine tra datità a priori e a posteriori non coincide con quello ontico tra esserci ed es­ sere-così (fig. 4).

Con. a posteriori

Con. a priori Essere-così

Esserci

Fig. 4

Dell’essere-così c’è dunque conoscenza sia a priori sia a posteriori, dell’esserci c’è solo conoscenza a posteriori. E viceversa: c’è conoscenza a posteriori tanto dell’essere-così quanto dell’esserci, mentre conoscenza a priori c’è solo dell’essere-così. Nei confronti delle due fonti di cono­ scenza - e quindi nei confronti della conoscenza in generale - l’essere237

PARTE II - IL RAPPORTO DI ESSERCI ED ESSERE-COS!

così è privilegiato. L’esserci rimane unicamente affidato all’elemento a posteriori. Se si considera ora quale enorme peso l’elemento gnoseologico a priori abbia nella conoscenza — specie in quella scientifica — diventa assai comprensibile perché il fatto che l’esserci ne sia escluso abbia susci­ tato l’apparenza che l’essere-così sia qualcosa di separabile dall’esserci. Infatti, in ogni conoscenza a priori l’essere-così appare conosciuto effet­ tivamente come separato dall’esserci. Si può esprimere ciò anche in forma più netta: nell’ente obiettato l’essere-così è effettivamente separato. Ma ciò che è obiettato è l’oggetto. E poiché né la coscienza naturale né quella scientifica sanno distinguere nettamente l’ente dall’oggetto in quanto tale, la separazione di esserci ed essere-così appare necessariamente come separazione ontica. La cono­ scenza non può non ritenere diviso anche in sé, ciò che essa divide.

CAPITOLO XXI

MANIERE DI DATITÀ E MANIERE D’ESSERE

a) Triplice sovrapposizione e triplice rapporto di limitazione.

Mostrammo in precedenza che c’è un rapporto assai determinato tra i due contrasti ontici, quello di esserci ed essere-così e quello di essere reale ed essere ideale. Tale rapporto si rivelò come intersezione dimensionale. Da parte loro le due specie della datità mostrano di nuovo un rapporto altrettanto determinato con il contrasto di reale e ideale, rapporto che è tuttavia diverso da quello con i momenti dell’essere. Anche il nuovo rapporto è rappresentabile approssimativamente (non certo esaustivamente) come rapporto di sovrapposizione. E anche in esso i confini non coincidono. Il confine tra le maniere d’essere è però spostato dall’altra parte rispetto a quello delle maniere di datità. Questa situazione è di nuovo riassumibile in alcune proposizioni: 1. La conoscenza a priori c’è tanto dell’ideale quanto del reale, la conoscenza a posteriori solo del reale. 2. Del reale c’è tanto conoscenza a priori quanto a posteriori, del­ l’ideale c’è solo conoscenza a priori. L’elemento gnoseologico a priori prevale quindi nei confronti della dualità delle maniere d’essere e delle loro sfere. Ciò è abbastanza sor-

23?,

SEZ. Ili - IL RAPPORTO INTERNO

prendente poiché rispetto alla dualità dei momenti dell’essere risultò una prevalenza dell’elemento a posteriori. In questo fatto si può senz’al­ tro vedere una nuova convincente prova della eterogeneità delle due coppie ontiche di contrari in cui si è risolto il vecchio contrasto di es­ sentia ed existentia. Rappresentando schematicamente questa nuova sovrapposizione allo stesso modo della prima e riportando da questa (fig. 4) tal quale il rapporto delle maniere di datità con i momenti dell’essere, si ottiene la triplice sovrapposizione di tre coppie di contrari i cui confini sono spostati gli uni rispetto agli altri (fig. 5). In questa sovrapposizione colpisce subito la differenza di direzione nello spostamento di due con­ fini ontici rispetto a quello gnoseologico. Movendo da quest’ultimo, il confine tra le maniere d’essere è spostato verso sinistra (nel dominio di ciò che è conoscibile a priori), il confine tra i momenti dell’essere è inve­ ce spostato a destra (nel dominio di ciò che è conoscibile a posteriori). Essi sono quindi spostati in direzione contraria.

Con. a posteriori

Con. a priori Essere reale

Essere reale

Essere-così

(Esserci)

Fig. 5

Considerando più attentamente lo schema, vi si nota però una ine­ sattezza, consistente nel rapporto di sovrapposizione in esso implicito tra maniere e momenti dell’essere. Il contrasto di reale ed ideale e il contrasto di esserci e essere-così non possono sovrapporsi, perché si intersecano dimensionalmente. Questo errore dello schema è rilevabile particolarmente nella posizione dell’esserci. L’essere-così è situato in modo esatto poiché si estende, come gli si addice, sia all’essere ideale sia all’essere reale. Ma l’esserci è limitato nello schema all’essere reale, e non è quindi situato esattamente (questo fatto è indicato nella figu­ ra 5 dalla parentesi). Questa disposizione corrisponderebbe al vecchio concetto di existentia, ma non si accorda con il fatto che dal momento dell’esserci dipende la differenza delle maniere d’essere.

239 Ì6 - La fondazione dell’ontologia

PARTE II - IL RAPPORTO DI ESSERCI ED ESSERE-COSI

b) Correzione dello schema. La vera posizione delle maniere di datità.

Se si vuol correggere questo errore, si trova facilmente che è impos­ sibile farlo all’interno dello schema. Non si possono comprendere in modo univoco con una triplice sovrapposizione le tre coppie di contrari e i loro rispettivi rapporti di limitazione. In questa sovrapposizione non c’è posto per Vesserei ideale, e si apre così un vuoto nell’intera disposi­ zione. Si dovrebbe prolungare l’essere ideale nella regione intermedia sin sopra Tesserci; o si dovrebbe spostare, nella regione inferiore, il con­ fine tra i momenti dell’essere molto a sinistra, ancora più in là di quello delle maniere d’essere. Ma in entrambi i casi non concorderebbero più i rimanenti rapporti di limitazione. È quindi evidente che si deve ricorrere a un altro schema e trasfor­ mare il rapporto di sovrapposizione in rapporto di intersecazione dimen­ sionale, corrispondente alla posizione di entrambe le coppie ontiche di contrari. Bisogna partire dal lato ontico e non da quello gnoseologico. Il rapporto di sovrapposizione venne applicato in generale solo per il fatto che si assunse il contrasto delle maniere di datità come punto di partenza. E ciò fu l’errore. Questo contrasto ammette bensì un rapporto di sovrapposizione con ciascuno dei due contrasti ontici, ma combinan­ do le due sovrapposizioni l’una con l’altra, ne risulta una terza; e que­ sta è errata perché non si accorda con Con. a priori il rapporto delle due coppie ontiche di contrari. Partiamo dunque dal rapporto bi­ dimensionale di queste ultime coppie, come venne indicato nella figura 1, prima della riduzione dell’essere-così (trascurando quindi la sua neutralità). Il problema è come ripartire l’esten­ sione della conoscibilità a priori e del­ la conoscibilità a posteriori sui quattro Con. a posteriori membri dello schema. Questa riparti­ zione è rappresentabile esattamente eFig. 6 sprimendo in modo intuitivo il rapporto dei suoi ambiti (fig. 6). Il risultato è riepilogabile nei seguenti punti. 1. La conoscenza a priori copre tre dei campi ontici contrastanti (Ec.i., E.i., Ec.r.). Solo Tesserci reale è escluso da essa.

2. La conoscenza a posteriori copre solo due campi (Ec.r., E.r.). En­ trambi i campi dell’essere-così ideale sono esclusi da essa. 240

SEZ. Ili - IL RAPPORTO INTERNO

3. La conoscenza a priori e quella a posteriori hanno in comune solo uno dei quattro campi, l’essere-così reale. 4. L’esserci reale è solo accessibile alla conoscenza a posteriori. 5. L’essere ideale (sia essere-così sia esserci) è accessibile solo alla conoscenza a priori. I punti 1, 3 e 4 sono modificati solo dal fatto che la conoscenza a priori si estende mediatamente (con il presupposto di una datità ini­ ziale a posteriori) anche all’esserci reale. I tre principi suddetti sono quindi rigorosamente esatti solo se si intende la conoscenza a priori come « puro » elemento gnoseologico a priori, senza considerare sino a qual punto esso si presenti con una simile purezza.

c) Biforcazione della conoscenza e apparenza della scissione ontica.

Nel nuovo schema c’è tuttavia ancora un punto criticabile. La sua disposizione presuppone un netto rapporto di limitazione tra esserci ed essere-così. Ma la nostra ricerca ha mostrato che tale rapporto non esiste e che tra esserci ed essere-così rimane solo una differenza di direzione. Ciò risultò dalla universale situazione ontica per cui ogni esserci di qualcosa è a sua volta essere-così di qualcosa ed ogni essere-così di un ente è a sua volta anche esserci di un altro ente. D’altra parte, la cesura tra ciò che è conoscibile a priori e ciò che è conoscibile a posteriori cade proprio tra l’essere-così e Tesserci reali; tale fatto nella fig. 6 è espresso dalla linea obliqua di confine dell’am­ bito a priori della conoscenza. Ciò sarebbe assurdo se le maniere di datità dell’oggetto fossero an­ che momenti dell’essere dell’oggetto in sé, o corrispondessero anche sol­ tanto rigorosamente ai momenti dell’essere. Nessuna delle due ipotesi è però valida. I confini della conoscenza non sono in generale confini dell’essere. Anche il confine dell’a priori è puramente gnoseologico e non c’è un confine ontico che gli corrisponda. Ma poiché la linea di separazione segnata dal confine dell’a priori riguarda l’oggetto, e questo è in sé, sorge l’apparenza che il confine separi in tal modo l’esserci dall’essere-così. La duplicità delle fonti gnoseologiche ha il suo fondamento nella organizzazione della conoscenza e quindi nella struttura del soggetto conoscente, non nella struttura dell’ente, e nemmeno in una biforcazio­ ne dell’ente in esserci ed essere-così. L’ente, in quanto in generale entra nel rapporto di obiettazione, continua a rimanere omogeneo. L’esserci e l’essere-così sono in esso 241

PARTE II - IL RAPPORTO DI ESSERCI ED ESSERE-COSI

diversi solo per direzione, e all’interno delle maggiori connessioni ontiche si trasformano reciprocamente e senza residui l’uno nell’altro. È soltanto la struttura e l’organizzazione della nostra conoscenza che intro­ duce la frattura, poiché si tratta effettivamente di una struttura biforca­ ta. Essa non può certo introdurre la biforcazione nell’ente stesso — che è in sé e sottratto al suo potere - ma la può introdurre nel concetto dell’ente che viene formando. E così, in base alla propria biforcazione, la conoscenza suscita l’apparenza che lo stesso ente sia biforcato. Questa apparenza è naturalmente estranea alla impostazione inge­ nua, ma sorge con l’istituirsi della riflessione e si consolida nella consi­ derazione gnoseologica. A suo modo essa è anche ineliminabile, ma possiamo benissimo svelarla, scoprendo la relazionalità ontica dell’esser­ ci e dell’essere-così e il loro rapporto con la biforcazione delle maniere di datità. L’ordinamento descritto in precedenza (fig. 6) e i cinque principi che lo espongono sono quindi esatti. L’obliquità ontologica del con­ fine non è arbitraria, ma corrisponde al fenomeno delle maniere di datità. Essa mostra gli effettivi ambiti oggettivi della conoscenza a prio­ ri e a posteriori nell’ente. Questi ambiti si delimitano reciprocamente in modo netto dal punto di vista gnoseologico. E forse in ciò consiste il motivo più profondo del­ l’ostinato persistere della separazione di esserci ed essere-così nelle teorie filosofiche.

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Parte Terza

LA DATITÀ DELL’ESSERE REALE

Sezione I LA CONOSCENZA E IL SUO OGGETTO

CAPITOLO XXII

ESSERE IN SÉ GNOSEOLOGICO ED ESSERE IN SÉ ONTOLOGICO

a) Superamento della neutralità ontologica.

Nella nostra iniziale determinazione dell’«ente come ente» ebbe una funzione decisiva la distinzione tra l’ente e l’essere oggetto. Il punto fondamentale della distinzione è l’indipendenza dell’ente dalla obiettazione. Ma poiché ogni datità dell’ente ha la forma dell’obiettazione, e l’ente stesso è concepito sempre come oggetto, sorge la questione del­ l’autentico significato della datità. Non basta per ciò la distinzione tra essere ed essere dato. Si chiarisce in tal modo solo il fatto che si tratta di un ente in sé, ma non è chiarito come si possa affermare un simile ente. Orbene, in quanto Eaffermazione. si fonda sulla datità e afferma al tempo stesso che l’ente non si riduce all’essere dato, sorge qui Un’apo­ ria che si deve risolvere. Per il suo argomento, la ricerca che così si apre avrebbe dovuto tro­ varsi all’inizio dell’opera. Non è però possibile svolgerla prima del chia­ rimento del rapporto di esserci ed essere-così, in quanto essa concerne interamente il momento dell’esserci. Dire che qualcosa « è in sé » si­ gnifica appunto dire che sussiste, che esiste, e non solo « per noi », non semplicemente nel pensiero o nell’opinione. È dunque in questione la prova dell’esserci. E poiché questa prova non riguarda un certo ente determinato, ma riguarda nel complesso e in generale Tesserci di tutto ciò che consideriamo come ente, non si può 245

PARTE III - LA DATITÀ DELL’ESSERE REALE

qui far valere la trasformazione dell’esserci in essere-così. Tale trasfor­ mazione ha infatti il suo limite nella totalità del mondo. Diventa qui evidente, al contrario, che ci troviamo nel punto in cui l’ontologia non j può più conservare la sua posizione neutrale di qua dàll’ideàlismo e | dal realismo. Solo gli inizi possono essere neutrali: il problema del[ l’essere in sé richiede la decisione di fronte a questa alternativa. Dopo quanto è stato detto in precedenza è facile ^vedere che la de­ cisione va presa in favore del realismo. Bisogna(però ruotare subito che l’espressione «realismo» non conviene per nuìla effettivamente alla posizione dell’ontologia; e del resto nessuno dei tipi tradizionali della sistematica realistica coincide con essa. L’espressione non è appropriata già per il fatto che nell’ontologia non si tratta soltanto dell’essere reale ma anche di quello ideale. E sarebbe del tutto fuori posto baloccarsi qui sin dall’inizio con l’idea della riduzione ad un tipo unico d’essere. Si deve innanzitutto evitare l’errore di ritenere che il concetto di essere ideale abbia qualcosa che fare con l’idealismo. L’idealismo afferma 1’« idealità » del reale, ed è solito poi non curarsi più dell’essere ideale.

b) Sfondo gnoseologico del concetto di essere in sé.

Un chiarimento ulteriore è richiesto anche dallo stesso concetto di éssere_ni_sé, il quale non è affatto un concetto ontologico e non equivale per nulla al concetto di «ente come ente». Tale concetto proviene totalmente da considerazioni gnoseologiche e rientra nell’angolo visuale della intentio obliqua·, è il contrario del concetto di apparenza, di feno­ meno, di oggetto. Questa contrapposizione gli è inerente e lo rende anfibologico, poiché si tratta di un contrasto puramente gnoseologico. La contrapposizione è ontologicamente falsa, in quantol’essereuTggetto, l’essere-per-me, l’essere fenomeno sono essi pure essere e, onticamente, altrettanto « in sé ». L’intera relazione a cui appartengono — la relazione gnoseologica - è una relazione tra enti reali, il soggetto reale e l’oggetto reale. Il fatto che io conosca qualcosa può essere inessenziale per questa cosa, ma non certo per me, ed è in me qualcosa di reale. Del resto, tale fatto può essere assai importante e ricco di conseguenze nella connessione del reale, in quanto accade temporalmente nel pro­ cesso gnoseologico. Ciò significa di nuovo che anche l’essere oggetto come tale è a suo modo essere in sé. Perciò anche l’essere oggetto può essere reso a sua volta oggetto di conoscenza; il che effettivamente accade nella gnoseo­

SEZ. I - LA CONOSCENZA

logia. Sarebbe altrimenti impossibile un sapere filosofico intorno alla conoscenza. Ma se l’essere oggetto è anche qualcosa « in sé », lo stesso vale pure per 1’« essere-per-me », per l’apparenza, per il fenomeno. E così, anche ciò da cui 1’« essere in sé » dovrebbe distinguersi è conosciuto come es­ sere in sé. Siamo di fronte ad una contraddizione ? Il concetto di essere in sé si è formato erroneamente? Ciò non è possibile, perché senza il carattere in sé dell’oggetto non c’è conoscenza. La difficoltà scompare facilmente se si tien presente l’origine gnoseologica del concetto di essere in sé. Dah-punte-dr vista gnoseologico la distinzione tra «in sé» e «per \ me» è pienamente significante ed essenziale. Un ente può essere «og- l getto » (Gegenstand) solo quando « sta di fronte » (nur im Gegen­ stellen), quindi solo relativamente ad un soggetto. L’essere in sé, in contrasto con quest’essere relativo, non significa altro che l’indipen­ denza dal soggetto, e in particolare, l’indipendenza dall’essere cono­ sciuto da parte del soggetto. L’essere conosciuto non esaurisce il ca­ rattere dell’essere nell’« ente come ente ». Ma ciò non è per nulla con­ traddetto dal fatto che anche l’essere-per-me e l’essere oggetto possono diventare essi stessi oggetto di conoscenza, e avere quindi un essere in sé gnoseologico. Non è infatti lo stesso atto gnoseologico che li rende oggetti. L’essere oggetto di un ente può certamente realizzarsi solo in un atto primario di conoscenza, ma per un secondo atto di conoscenza sovrapposto al primo tale essere oggetto può avere un essere in sé, cioè una sussistenza indipendente. Il rapporto gnoseologico può estendersi a tutto, anche a se stesso. In tal caso si tratta soltanto di un altro atto di conoscenza. Dal punto di vista ontologico, al contrario, l’indipendenza è ines­ senziale. Se qualcosa è «in sé» - se, cioè, nella sua sfera d’essere ha un esserci assieme all’essere-così — è del tutto indifferente che questo suo esserci stia o non stia in relazione con qualche altro ente della sua sfera (ad esempio, con un soggetto reale). È indifferente anche se la rela­ zione ha la forma di un essere-dipendente; anche la dipendenza ha infatti essere, e in essa ciò che dipende non ha minor essere di ciò che è indipendente. Ogni ente è inserito entro dipendenze generali. Ciò che è completamente indipendente è solo un caso limite.

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PARTE III - LA DATITA DELL’ESSERE REALE

c) Superamento della riflessività nell’essere in sé ontologico.

In quanto l’ontologia si occupa del problema della datità, non può fare a meno del concetto di essere in sé, benché esso sia anfibologico: la. datità è infatti una questione gnoseologica. E la datità dell’essere mostra proprio l’ente nella contrapposizione dell’«in sé» e del «per me ». Si deve quindi distinguere dall’essere in sé gnoseologico, che con­ siste solo in questo contrasto, l’essere in sé ontologico, in cui il contrasto è superato. Ma al tempo stesso il superamento va compiuto nella dire­ zione giusta: non nella direzione del soggetto, ma in quella dell’« ente come ente ». Dall’angolo visuale del soggetto (secondo il principio della coscienza) ogni ente in sé si riduce ad un ente per me; dall’angolo vi­ suale dell’« ente come ente » ogni ente in sé e ogni ente per me si ri­ ducono ad ente puro e semplice. Il concetto ontologico dell’essere in sé. rappresenta così il ritorno dell’aspetto-dèffèssere dalla intentio obliqua alla intentio recta. Il supe­ rato conserva qui ancora in sé - con rigorosa osservanza della legge hegeliana del «superamento» {Aufhebung') — la determinatezza da cui proviene. Esso non è semplicemente identico con 1’« ente come ente » ; in cui, infatti, niente è superato. Rivolgendo l’attenzione dalla riflessi­ vità alla impostazione naturale, il superato accoglie piuttosto soltanto l’aspetto dell’« ente come ente ». L’essere in sé ontologico è il supera­ mento della riflessività nell’essere in sé gnoseologico. Tutto ciò che esiste è onticamente « in sé » in un certo senso. An­ che ciò che è solo in mente. Anche la mente, infatti, con i suoi conte­ nuti è un ente (un ente spirituale). Non si può limitare l’essere in sé ontologico alla presenza, o mancanza, di relazioni determinate; e quindi nemmeno alla mancanza della relazione con il soggetto. Tanto l’indi­ pendenza quanto la dipendenza sono in sé allo stesso modo. « Essere in sé » come concetto gnoseologico è solo un espediente della riflessione contro l’essere-per-me e il puro essere oggetto. La sua anfibolia ontologica è il permanere di questa contrapposizione nel supe­ ramento della riflessione. Infatti: 1. esso preserva solo da una relatività, che non è più in questione dal punto di vista ontologico (nella intentio recto)·, 2. esso esprime ancor sempre la relatività negativa al soggetto (l’indipendenza da esso); il che contraddice alla fondamentale indiffe­ renza dell’« ente come ente » di fronte alle relazioni che si instaurano in esso.

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SEZ. I - LA CONOSCENZA

d) La legge dell’oggetto di conoscenza e l’ente. Ciò che è oggetto di conoscenza ha piuttosto un essere superogget­ tivo, è in sé. Questa proposizione formula la legge dell’oggetto di conoscenzrr.' Essa è anche la legge fondamentale della conoscenza stessa. E ciò significa che un atto di coscienza che non comprenda un ente in sé, può essere atto di pensiero, di rappresentazione o di fantasia - for­ se anche di giudizio - ma non un atto di conoscenza. Questi altri atti di coscienza hanno anche i loro oggetti, ma solo intenzionali e non aventi un essere in sé. Con questo riconoscimento la metafisica della conoscenza si tra­ sforma in ontologia. Ci si libera còsi completamente della riflessività nel concetto'di essere in sé. L’essere in sé gnoseologico, che era un sem­ plice concetto ausiliario, diventa il centro di gravità della relazione gno­ seologica; esso sovrasta l’intero rapporto e si trasforma in essere in sé ontologico. Ma questo si presenta con l’esigenza di rivelare il carattere ontico di ogni ente in generale movendo dall’angolo visuale della cono­ scenza. Quest’angolo visuale è anche ontologicamente essenziale, perché in esso è implicito il problema della datità. Sulla base ontologica acquisita sono evitabili tutte le anfibolie che, per la sua origine, inerivano al concetto di essere in sé. Esse consiste­ vano nel fatto che anche l’essere oggetto « è » qualcosa, e che addirit­ tura «sono» gli oggetti puramente intenzionali, i pensieri, le rappre­ sentazioni, i quali sussistono a loro volta in sé in quanto aventi essere e costituiscono oggetti di possibile conoscenza. La legge dell’oggetto di conoscenza non perde qui il suo valore, ma riceve conferma proprio in queste entità portate dal soggetto e rela­ tive ad esso. Tali entità non sono infatti oggetto di quella conoscenza di cui sono contenuto. In questa rimangono veramente sconosciute e non oggettivate. La conoscenza è sempre rivolta solo al suo oggetto — che essa intende come ciò che non dipende da se stessa - e non alle entità contenutive della coscienza conoscente, che sono prodotte esclusivamen­ te dalla conoscenza. Essa non conosce l’immagine che forma dell’og­ getto, e non conosce la rappresentazione, il concetto, il pensiero; la co­ noscenza ha sapere solo dell’oggetto, ma questo suo sapere ha la forma della rappresentazione, del concetto, del pensiero. Perciò anche nel fe­ nomeno della conoscenza l’immagine non è indicabile direttamente. Immagine, rappresentazione e pensiero sono diafani, non ci « stanno di fronte », e vengono rivelati solo dalla riflessione gnoseologica. In que­ sta riflessione essi diventano oggetti di una seconda conoscenza che è «ripiegata» (riflessa) verso la prima. Ma quando questa nuova cono­

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PARTE III - LA DATITÀ DELL’ESSERE REALE

scenza si rivolge alla prima, non ha più per oggetto lo stesso ente che fu oggetto di quella. L’essere in sé gnoseologico ha un’essenza relazionale; esso significa solo che l’essere dell’oggetto non dipende mai da quella conoscenza di cui è oggetto. Quindi, se si cercano argomenti contro l’essere in sé nel­ l’essere spirituale della rappresentazione, si fraintende il significato del­ l’indipendenza. Anche la rappresentazione è infatti indipendente da quell’atto di conoscenza che la prende a proprio oggetto; è dipendente solo dall’atto primario di conoscenza in cui sorge. Ma in quest’atto essa non è conosciuta e non è affatto oggetto di conoscenza. L’essere in sé gnoseologico di una cosa consiste essenzialmente nella « relatività negativa » di essa all’atto in cui la si comprende come avente essere. In questa comprensione della cosa non è però contenuto un secondo atto rispetto a cui sia « relativa negativamente » anche la rap­ presentazione della cosa e per cui sia quindi dato l’essere della rappre­ sentazione. La rappresentazione ha anch’essa il suo essere in sé gnoseo­ logico solo in quanto una seconda conoscenza si rivolge ad essa come tale. Ma essa ha il suo essere in sé non in base a questa conoscenza, ma in base alla prima. Così, senza mutamenti di significato, già l’essere in sé gnoseologico mostra fondamentalmente la stessa apertura di quello ontologico. Mo­ vendo dalla propria interna densità ontica esso si espande quasi all’in­ finito. È questa una prova che dietro di esso sta sin dall’inizio l’essere in sé ontologico, che richiede solo lo sviluppo della propria dialettica per diventare pienamente manifesto. Il chiarimento della datità dell’« ente come ente » può quindi tran­ quillamente iniziare dall’essere in sé gnoseologico come da un costituen­ te essenziale del fenomeno gnoseologico. Infatti, nell’essere in sé gno­ seologico questo fenomeno si trascende e porta direttamente al proble­ ma ontologico.

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CAPITOLO XXIII

LA TRASCENDENZA DELL’ATTO DI CONOSCENZA

a) L’onere di prova dello scetticismo e il problema della datità della realtà. Lo scetticismo,, il criticismo e certe forme dell’idealismo hanno ne­ gato che ci sia un ente in sé. Non è difficile confutare queste teorie. Esse poggiano sui puri Argomenti dellà intentio obliqua e non colgono quindi i fenomeni fondamentali. La stessa riflessività è già, infatti, al­ lontanamento da essi. Le teorie ripropongono sempre variazioni tema­ tiche di tre motivi, di cui il primo è il principio della coscienza (a noi sono date solo le nostre rappresentazioni), il secondo è il pregiudizio correlativistico (non c’è alcun ente che non sia oggetto di un soggetto), e il terzo si fonda sull’ammissione che valore e significato nel mondo si possano comprendere solo in base ad una soggettività che ne stia a fondamento, in base ad una ragione cosmica analogicamente simile a quella umana. Quest’ultimo argomento è puramente metafisico-speculativo e non richiede alcuna discussione. Il secondo dipende da una falsa analisi della relazione gnoseologica. Solo il primo si basa almeno su un fenomeno effettuale, sia puf interpretato in modo unilaterale. Avremo ancora a che fare con esso e con il secondo argomento; ci imbattiamo infatti in essi, seppur mascherati, anche nelle teorie odierne. Tali argomenti han­ no nondimeno il merito storico di aver portato a maturità il problema dell’essere in sé. Tra l’altro, essi hanno avuto una assai chiara consapevolezza che non si può «provare» veramente l’essere in sé. Noi troviamo sempre soltanto datità; ma le datità possono anche appartenere al soggetto e non garantiscono alcun «in sé». Noi troviamo solo fenomeni; ma i fenomeni possono essere anche apparenza illusoria. Ma la vera questione è se ci sia bisogno in generale di una « prova » dell’essere in sé. È assurdo voler « provare » le cose ultime, poiché esse dovrebbero già fondarsi in tal caso su qualche altra cosa, in base a cui si potrebbero provare; ma allora non sarebbero più ultime. Ci sono del resto tre particolari ragioni per cui la prova non è necessaria. 1. L’onere della prova ricade piuttosto su chi nega l’essere in sé. La datità dell’essere in sé - specie nella forma dell’esserci reale - è contenuta nel fenomeno fondamentale della datità del mondo; essa ac­

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PARTE III - LA DATITÀ DELL’ESSERE REALE

compagna tutti i fenomeni parziali, e accompagna l’uomo nella vita in tutte le situazioni. Se si dichiara che questo fenomeno è un’apparenza illusoria, si deve quindi mostrare anche come sorge l’illusione. Lo scet­ ticismo prudentemente non ha mai tentato questa prova, che non potrà mai riuscire. 2. La prova è stata invece tentata dalla metafisica idealistica. Fichte e Schelling per spiegare l’illusione ricorsero ad una « produzione incon­ scia » in cui 1’« Io » produce il mondo. Ma in tal modo l’io stesso — e cioè non l’io conscio, ma quello inconscio - diventa un ente in sé. I due filosofi provarono quindi il contrario di ciò che volevano. 3. Anche ammettendo che si possa mostrare che ogni supposto ente in sé si fonda sull’illusione, tuttavia nemmeno in tal modo si riesce a liberarsi dell’essere in sé. Infatti, si dovrebbe allora trasferire necessa­ riamente 1’« in sé » al fondamento ontico che sta dietro all’ente svelato come apparenza illusoria. E questo fondamento ontico sarebbe l’auten­ tico ente in sé, poiché l’illusione deve pur fondarsi su qualcosa. Tutto il resto — tutte le categorie ontiche particolari - apparterrebbe alla « apparenza illusoria ». E poiché questa in tale prospettiva non sarebbe arbitraria, ma necessaria in base a quel fondamento ontico (che non si può evitare), l’apparenza illusoria apparterrebbe ad esso ontologicamente in maniera necessaria. Queste stesse determinazioni costituirebbero quin­ di una ben fondata ontologia dell’apparenza, che si distinguerebbe dal­ l’ontologia dell’essere solo per l’indice « apparenza », e sarebbe dunque la stessa ontologia. Essa avrebbe che fare con l’essere dell’apparenza, poiché anche l’apparenza « è » pur qualcosa.

b) Conseguenze. Il problema del «come» della datità ontica.

Da quanto si è detto si possono ricavare subito due conseguenze. La prima riguarda il rapporto dell’ontologia con l’opposizione metafi­ sica dei punti di vista. È vero che l’ontologia può mantenere solo nel momento iniziale la sua neutralità rigorosa nei confronti dell’idealismo e del realismo; allorché si presenta il problema della datità la posizione idealistica diventa insostenibile. Ma non perciò l’ontologia viene anco­ rata unilateralmente al realismo. L’ultima delle considerazioni fatte in precedenza mostra piuttosto chiaramente che l’intera opposizione dei punti di vista rimane di secondaria importanza per l’ontologia. / Ciò corrisponde perfettamente allo sviluppo storico dell’idealismo / da Berkeley a Hegel. La base portante è sempre più spostata al di sopra del soggetto empirico sino a posare infine in un assoluto; e nello stesso

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SEZ. I - LA. CONOSCENZA

tempo ciò che è portato, il mondo apparente, viene inteso sempre più oggettivamente e ricondotto infine al pieno valore ontico del reale. Non si tratta di uno sviluppo casuale, ma necessario, perché 1’« apparenza illusoria» non è più assolutamente distinguibile dall’essere, quando è universalizzata. La seconda conseguenza è che l’ontologia, nel problema della da­ tità, non è affatto impegnata nella giustificazione di sé o nella confu­ tazione delle teorie non naturali. Infatti, poiché già lo scetticismo e l’idealismo gnoseologico {Bewusstseinsidealismus) poggiano sul tentativo di confutazione di una soluzione naturale, imposta da un fenomeno fondamentale ineliminabile, con il tentativo di giustificazione non si perverrebbe che ad una vuota confutazione di una confutazione; e ciò maschererebbe solamente il fatto che l’obbligo di prova tocca alla parte avversa. La questione importante è ben diversa; il problema non e «se» l’ess£re_ia-sé è. dato, ma «come» è dato. È la stessa distinzione che domina la Critica della Ragion Pura: ii problema di' questa non è « se » sono possibili giudizi sintetici a priori, ma « come » sono possibili. E an­ che nel nostro caso si tratta di una questione di possibilità, poiché la datità dell’essere in sé include effettivamente una difficoltà non elimi­ nabile con la semplice polemica contro argomenti e teorie. Può essere qui d’aiuto solo un’analisi positiva del fenomeno di datità che è in questione. Tre sono i gruppi di fenomeni offerti a questo scopo: 1. il feno­ meno gnoseologico con i suoi fenomeni parziali; 2. il fenomeno degli atti emozionali-trascendenti; 3. il fenomeno della connessione vitale. Il primo di questi gruppi mostra la costruzione più limpida ed è ap­ propriato per rendere evidente la struttura del rapporto fondamentale. Sul secondo gruppo cade il maggior peso della datità dell’esserci reale; e poiché questo ha posizione centrale nel problema dell’essere in sé on­ tologico, il gruppo degli atti emozionali-trascendenti costituisce l’oggetto fondamentale della ricerca. Il terzo gruppo, infine, inserisce i due primi fenomeni in una connessione comprensiva e assegna così al fenomeno della datità in generale la sua posizione ontologica. Per ora ci limitiamo a considerare il primo dei tre gruppi, quello del fenomeno gnoseologico.

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PARTE III -LA DATITÀ DELL’ESSERE REALE

c) La conoscenza come attQ trascendente. Nelle pagine seguenti intenderemo sempre per « atto trascendente » un attoche non si attua solo nella coscienza - come l’atto di pensiero, di rappresentazione, di fantasia - ma va oltre la coscienza^- protenden­ dosi fuori, di essa e collegandola con ciò che sussiste in sé indipendente da essa, senza riguardo al fatto che questo..ente indipendente sia qual­ cosa di cosale, di psichico o di spirituale. Gli atti trascendenti sono \ dunque atti che istituiscono una relazione tra il soggetto e un ente \ che non sorge solo in virtù dell’atto; possiamo anche dire che sono atti che rendono oggetto qualcosa di super-oggettivo. È'vero che gli atti trascendenti sono «anche» atti di coscienza e rimangono legati ad essa con un membro della relazione. Tuttavia essi non si riducono a ciò. L’altro membro o sta al di là della coscienza o sussiste almeno indipendente dall’atto di coscienza. L’ultima osserva­ zione non è superflua. Infatti il secondo membro non è necessariamente qualcosa di esteriore alla coscienza. Può essere a sua volta un atto o un contenuto di questa; ma gli è essenziale lo stare in una posizione di trascendenza rispetto alla coscienza nel momento in cui essa compie l’atto. La trascendenza dell’atto significa solo il suo sfociare a qualcosa che in quanto tale - appartenga o meno alla coscienza - è indipen­ dente dall’atto. Il significato di « trascendente » qui introdotto non è quello solito nella filosofia, ma corrisponde meglio al significato della parola. Di solito sono gli oggetti ad essere denotati come trascendenti e distinti da oggetti immanenti. Ciò contraddice al significato letterale di transcendere (« salire sopra »). Gli oggetti non oltrepassano confini, poiché sin dall’inizio sono o di qua o di là dai confini. Ma è invece l’atto — o la relazione all’oggetto — che deve necessariamente superare un confine quando l’oggetto giace di là da esso. Non sono quindi gli oggetti de­ gli atti che possono essere immanenti o trascendenti, ma solo gli atti stessi. Con questi presupposti, il fenomeno fondamentale della conoscenza I può essere formulato così: la conoscenza intesa come atto (poiché essa f non è «solo» atto), non si riduce ad essere atto della coscienza, ma è |ì un atto trascendente. Questo principio ha importanza fondamentale per l’ontologia, poi­ ché la datità dell’ente si fonda innanzitutto sulla conoscenza. Ma solo come atto trascendente la conoscenza può « dare » alla coscienza Tes­ serci dell’ente. Se la coscienza non fosse capace di alcun atto trascen­ dente, non potrebbe saper nulla dell’essere del mondo in cui vive.

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SEZ. I - LA CONOSCENZA

Essa — come sempre ha affermato lo scetticismo — sarebbe prigioniera della propria immanenza e non conoscerebbe nulla all’infuori dei pro­ pri prodotti, dei suoi pensieri e delle sue rappresentazioni. Non è solo lo scetticismo che disconosce la situazione effettiva; la disconoscono anche tutte le teorie che identificano la conoscenza con il pensiero o con il giudizio. Si può pensare tutto ciò che è possibile, anche ciò che non ha essere; ma si può conoscere solo ciò che «è». Il giudizio, inoltre, è soltanto una forma logica che può essere accolta o non accolta da ciò che è conosciuto e che ne è diventato contenuto. L’espressione di una conoscenza prende senz’altro la forma del giu­ dizio; e ciò è vero anche se si inserisce consapevolmente la conoscenza in una connessione gnoseologica. Tuttavia, né l’espressione né l’inseri­ mento sono identici con la penetrazione gnoseologica. Solo questa è conoscenza, è istanza di datità e presa di contatto con l’ente.

d) L’atto di comprensione e il suo oggetto. Il ^carattere comune degli atti trascendenti è di essere-diretti verso gli oggetti in sé. L’atto di conoscenza non e mai isolato e non è nem­ meno un rapporto onticamente primario del soggetto con il mondo: è sempre inserito in una connessione di atti diversi, trascendenti e non trascendenti. Rispetto agli altri atti trascendenti la conoscenza ha il vantaggio di essere il solo atto di pura comprensione (der rein erfassen­ de Alpt)· La coscienza filosofante consiste nella comprensione del mon­ do quale esso è. Nella sua autoconsapevolezza essa si trova quindi come coscienza conoscente: e solo movendo da questo rapporto gnoseologico, che la coscienza trova per primo in sé, è possibile ricostruire gli altri tipi, onticamente più fondamentali, di rapporto con il mondo. L’analisi degli atti trascendenti deve quindi iniziare dall’atto gnoseologico in quanto essoi è il primo secondo la ratio cognoscendi. La leggè-.husserliàna della intenzionalità è una legge generale degli atti di coscienza; e vale anche per gli atti trascendenti in quanto essi sono « anche » atti di coscienza e hanno essi pure il loro oggetto inten­ zionale. Anche la conoscenza ha il suo oggetto intenzionale: essa pro­ duce un contenuto, una rappresentazione, un’immagine dell’ente in sé, e tra atto ed immagine sussiste il rapporto di intenzionalità. Ma l’im­ magine non è l’oggetto di conoscenza; anche quando è completamente adeguata l’immagine non coincide con esso e gli rimane di fronte come un’entità diversa, un’entità di coscienza. La legge dell’essere in sé e della superoggettività dell’oggetto è la 255 17 - La fondazione dell’ontologia

PARTE III - LA DATITÀ DELL’ESSERE REALE

legge specifica degli atti trascendenti, e sta pertanto perfettamente a riscontro con la legge della intenzionalità. Allo stesso modo come que­ sta è la legge generale della coscienza, così la legge dell’essere in sé è quella della trascendenza della coscienza, la quale prende appunto la forma degli atti trascendenti. La legge dell’essere in sé distingue dai puri atti di coscienza gli atti trascendenti come atti «portatori di da­ tità » (gebende), vale a dire, portatori di datità dell’essere. Solo così è possibile distinguere la conoscenza, come comprensione di un ente in sé, dal puro pensare, rappresentare, fantasticare. Non è senza motivo il fatto che la legge husserliana non offre alcun punto d’appoggio a tale scopo: infatti il fenomeno della comprensione è rimasto sinora del tutto sconosciuto alla fenomenologia dell’atto. Tra gli atti trascendenti, l’atto di conoscenza si distingue di nuovo per il puro carattere della comprensione. Il rapporto del soggetto con il suo oggetto in sé è qui pienamente unilaterale:precettivo: il soggetto è sì determinato dall’oggetto, ma da parte sua non determina questo in alcun modo. L’ente che viene fatto oggetto (obiettato) non risente i alcuna influenza e niente muta in esso. È solo nel soggetto che muta qualcosa, poiché in esso si genera il sapere intorno all’oggetto. In ciò consiste la sua recettività. Per l’ente che viene obiettato, l’obiettazione rimane esteriore. L’ente rimane indifferente all’essere fatto oggetto del soggetto e alla misura in cui è fatto tale. In ciò consiste il suo essere in sé. La comprensione è proprio tale comportamento del soggetto ri­ spetto ad un ente in sé. Il termine «comprensione» (Erfassen) rispecchia certamente una spontaneità del soggetto. E nel conoscere c’è anche questa spontaneità: non è però un’attività nei riguardi dell’oggetto. Essa si risolve nella sintesi deH’immagine. La comprensione non significa nemmeno che il soggetto afferri l’oggetto o lo tragga in sé. Anche quando è compreso l’oggetto non si introduce nella coscienza e rimane irriducibile di fronte ad essa. Non è l’oggetto che diventa rappresentazione, pensiero, conte­ nuto di conoscenza; rimane intatto in sé ciò che era in sé. E il soggetto, anche dopo averlo compreso, lo conosce come un oggetto in sé. Comprendere non è « avere-nella-coscienza ». Non si possono « ave­ re » oggetti in sé, così come si « hanno » pensieri e rappresentazioni. Il comprendere esprime piuttosto la trascendenza dell’atto, mentre l’ave­ re esprime solo un rapporto immanente di coscienza. Comprendere si può soltanto l’ente in sé, mentre si possono avere solo contenuti di co­ scienza. Ma poiché nel comprendere sorge un contenuto di coscienza (l’immagine7 dell’oggetto), nell’atto di conoscenza c’è sicuramente anche un avere. Si ha però l’immagine che sorge nella comprensione e non

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SEZ. I - LA CONOSCENZA

l’oggetto di conoscenza. L’avere non è quindi l’istanza portatrice della datità; esso si fonda già sul comprendere. Avere l’immagine è nient’altro che la forma di coscienza dell’avere compreso; non è un secondo atto accanto a quello della conoscenza, ma solo l’immanente aspetto interno del suo risultato. E poiché il contenuto di coscienza (l’imma­ gine) non è oggetto della conoscenza, non viene nemmeno notato come tale nella coscienza conoscente e non è indicabile direttamente nel fe­ nomeno irriflesso del comprendere. La coscienza conoscente è proprio esclusivamente coscienza comprendente l’oggetto e non conosce la ma­ niera d’essere del proprio contenuto distinta dall’oggetto.

CAPITOLO XXIV

LE ANTINOMIE NEL FENOMENO DELLA CONOSCENZA \ /

a) Fenomeno e teoria.\ll realismo naturale.

Questa situazione è ontologicamente più importante di quanto possa sembrare ad un primo sguardo. Essa significa che se non c’è un ente in sé, non c’è nemmeno conoscenza, perché non c’è allora niente che possa essere conosciuto. Si può certo trarre la conseguenza che la vera questione è se ci sia conoscenza, cioè, se è conoscenza autentica ciò che noi chiamiamo la nostra conoscenza. Ma la conseguenza è straordinariamente dubbia, poiché il « fenomeno » della conoscenza sussiste innegabilmente e non si lascia ignorare. Se non lo si considera fondamentalmente come un fenomeno reale, lo si deve interpretare come apparenza illusoria nella sua totalità. Ma in tal caso si dovrebbe poi mostrare su che cosa poggia l’apparenza e perché essa è inevitabile, generale e dominante in tutta la vita. Abbiamo mostrato in precedenza perché questa prova non può riuscire. In qualsiasi tipo di spiegazione continuano a rimanere, in primo luogo, l’essere del fondamento su cui poggia l’apparenza illu­ soria e, in secondo luogo, l’essere dell’apparenza stessa. A ciò si deve inoltre aggiungere il fatto che le spiegazioni stesse sono teorie estre­ mamente ardite e criticabili metafisicamente, i cui presupposti non sono giustificabili in qualche modo e si avvolgono da soli in contraddizioni. I famosi tentativi idealistici sono stati sufficientemente istruttivi in pro­ 257

PARTE III - LA DATITÀ DELL’ESSERE REALE

posito. Essi non sostengono assolutamente l’onere della prova che spet­ ta loro. Le teorie lottano invano contro i fenomeni. Solo « con » i fenomeni possono concludere qualcosa. Ma qui si tratta del fenomeno fondamen­ tale di ogni conoscenza: l’essere in sé dell’oggetto non è solo implicito nell’essenza della relazione gnoseologica, quale è scoperta soltanto dalla riflessione filosofica; ogni conoscenza, anche la più ingenua, già sa dell’essere in sé del suo oggetto e lo intende sin dall’inizio come un ente indipendente da se stessa. Questa consapevolezza immediata dell’essere in sé è identica al fenomeno fondamentale del realismo naturale. Diversamente dalle al­ tre forme del realismo — come in generale da altri « punti di vista » il realismo naturale non è una teoria, una dottrina, una tesi, ma è piut­ tosto la base su cui si trova originariamente ogni coscienza umana de’ mondo. Tutte le divergenti concezioni del mondo emergono da essa con tesi particolari, pur non potendo al tempo stesso eliminarla come fenomeno fondamentale, ma essendo costrette a spiegarla. Esse non sono fenomeni, ma teorie; devono quindi rendere conto di essa come fenomeno fondamentale. Solo negli atti emozionali-trascendenti apparirà quanto è trionfal­ mente forte questo fenomeno fondamentale. Per ora è sufficiente con­ siderare la sua ampiezza all’interno della conoscenza, poiché tale am­ piezza abbraccia tutti i gradi della conoscenza, da quella più ingenua sino a quella sviluppata scientificamente. Si tratta di un fatto ben noto in tutti i gradi gnoseologici. Non c’è nessuno che percependo una cosa (vedendola, toccandola) si immagini che essa sorga solo nell’atto del vedere e sparisca di nuovo quando l’atto non c’è più. Già la percezione distingue il proprio fare dal suo oggetto e sa della casualità sua rispetto all’oggetto e dell’indifierenza di questo nei suoi confronti. La perce­ zione non trasferisce all’oggetto la propria soggettività, e lo considera come avente essere in sé. Questa distinzione e questo sapere della per­ cezione non sono soltanto elevati sino alla coscienza, ma costituiscono piuttosto in essa la forma interna, evidente della coscienza dell’essere. Lo stesso si può dire dei gradi più alti di conoscenza. Lo sperimen­ tatore che ricerca una determinata legalità, sa in anticipo che questa, se sussiste in generale, sussiste indipendente dal suo cercare e dal suo trovare. Se la trova, non gli viene in mente di credere che essa sorga solo per questo fatto; egli sa benissimo che esistette sempre e che non muta in quanto trovata. Lo sperimentatore vede nella legalità un ente in sé. E così è per lo storico che ricostruisce un avvenimento scono­ sciuto attraverso le « fonti ». Egli sa che l’avvenimento fu tale e quale

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SEZ. I - LA CONOSCENZA

anche senza la sua ricostruzione; dalla sua opera sorge solo il sapere intorno ad esso. Solo la coscienza filosofica si scosta da questa linea quando formula teorie. Ma assume in tal modo su di sé un onere di prova che non può sostenere. La teoria non può infatti respingere il fenomeno comune alla realtà naturale e scientifica, ma deve misurarsi con esso.

b) Le antinomie dell’essere in sé e dell’essere oggetto.

Nel fenomeno della conoscenza come atto trascendente è implicita una duplice antinomia che richiede un chiarimento. Il rapporto sog­ getto-oggetto ha la forma di una correlazione. L’essere oggetto è quindi connesso con l’essere soggetto proprio del suo termine contrario non meno di quanto questo sia connesso a quello. Ma la trascendenza del­ l’atto significa che l’essere dell’oggetto è indipendente dal soggetto. L’essere in sé è indipendenza, l’essere oggetto è dipendenza. In una formulazione così radicale la contraddizione pare insolu­ bile. Ma si tratta solo di apparenza. In tale formulazione non sì tiene conto della cosa fondamentale, e cioè che l’essere oggetto non è affatto l’essere in sé. L’essere oggetto si fonda su quest’ultimo ma non coin­ cide con esso. È l’ente in sé che viene «fatto oggetto»; esso rimane indipendente, ma non è indipendente dal soggetto il suo essere oggetto, i che può comparire solo in contrapposizione ad un soggetto. L’essere oggetto è qualcosa di esteriore per un ente in sé come tale, mentre nòh'è esteriore per un oggetto di conoscenza l’essere in sé. Se l’oggetto di’ conoscenza manca dell’essere in sé può ben essere oggetto, ma non oggetto di conoscenza e l’atto non può essere conoscenza. Possiamo formulare questa situazione in modo ancor più sottile: nel rapporto di conoscenza l’essere in sé è essenziale all’oggetto, ma l’es­ sere in sé è indifferente rispetto all’essere oggetto; lo permette ma non lo esige. Da questo rapporto risulta che l’indipendenza dell’oggetto di conoscenza dal soggetto - il suo essere in sé - non viene affatto intac­ cata dalla dipendenza dell’essere oggetto dal soggetto. Qui c’è la solu­ zione dell’apparente antinomia. Dipendenza e indipendenza non si con­ traddicono nell’oggetto di conoscenza, perché la prima concerne solo l’essere oggetto, mentre la seconda riguarda l’essere in sé di esso, e l’es­ sere oggetto è qualcosa di esteriore per l’essere in sé. Un rapporto simile non è per nulla insolito. Lo si confronti con quello di massa e peso di un corpo: la massa è indipendente dal punto della terra o della luna su cui il corpo si trova, mentre il peso non ne 259

PARTE III - LA DATITÀ DELL’ESSERE REALE

è indipendente. Lo stesso corpo nello stesso rapporto è dunque dipen­ dente e indipendente. E la dipendenza del suo peso non intacca l’indi­ pendenza della sua massa. Nello stesso senso si deve intendere il fatto che la dipendenza dell’esser oggetto non intacca l’indipendenza del­ l’essere in sé.

c) Idantinomia del fenomeno della trascendenza. j

Dalla soluzione dell’antinomia dell’oggetto risulta chiaramente che il fenomeno della conoscenza si trascende e trapassa in un fenomeno dell’essere. Esso rompe le sue strettoie. Come interpretare diversamente il fatto che l’oggetto (Objekt) di conoscenza non si risolve nel suo essere oggetto e questo suo non risolversi è nondimeno essenziale al rapporto gnoseologico e quindi anche all’essere oggetto? Mentre questa antino­ mia si risolve, ne compare un’altra, che riguarda il carattere del feno­ meno come tale nel fenomeno gnoseologico. È proprio dell’essenza del fenomeno che esso abbia il carattere con­ statabile di un fatto, ma anche che non sia in esso c^afistàtabile la fatti­ cità di ciò che costituisce il suo contenuto. Così, per esempio, è dato e sempre constatabile il fenomeno del movimento quotidiano del sole nel cielo da est ad ovest; ma non è constatabile in questo fenomeno se effettivamente il sole compie un simile movimento nello spazio cosmico. In generale: un fenomeno A non significa come tale l’essere di A. Dietro questo fenomeno può anche stare l’essere di B (cioè di tutt’altro). Nell’esempio precedente: dietro al fenomeno può celarsi un movimento della terra anziché un movimento del sole. Se non fosse così non ci sarebbero affatto illusione ed apparenza. Nel fenomeno A non si può mai scorgere se A è anche in sé, e quindi se il fenomeno è manifesta­ zione autentica (Erscheinung) di A o apparenza illusoria (Schein). Si ha quindi una fondamentale indifferenza del fenomeno rispetto all’es­ sere o al non-essere di A. Ma se le cose stanno così, come ci può essere il fenomeno dell’es­ sere in sé (di A)? Un simile fenomeno significherebbe necessariamente la constatabilità dell’essere in sé. Ma ciò non è possibile, poiché è nel­ l’essenza del fenomeno A che solo il fenomeno stesso è constatabile e non l’essere in sé di A. Abbiamo d’altra parte mostrato che nel fenomeno gnoseologico è implicito un fenomeno dell’essere in sé. È infatti evidente che l’atto in generale è conoscenza solo se il suo oggetto non si risolve nell’essere oggetto. Per conseguenza, nel fenomeno gnoseologico c’è una contrad­ 260

SEZ. I - LA CONOSCENZA

dizione interna: esso è in sé antinomico, e il suo contenuto contraddice con l’essenza dell’essere fenomenico. Esprimendoci positivamente: il fenomeno della conoscenza è strutturato in modo tale da superare il suo proprio carattere di fenomeno. In questo superamento consiste la sua «trascendenza del fenome­ no», che si connette intimamente con la trascendenza dell’atto propria della conoscenza, ma non è identica con essa. L’antinomia può essere risolta in due direzioni. Da un lato si può dire che la trascendenza del fenomeno è anch’essa solo fenomeno; sus­ siste allora la possibilità che anche la « trascendenza dell’atto » di cono­ scenza e l’essere in sé dell’oggetto siano solo apparenza illusoria. Ma si dovrebbe poi scoprire e « spiegare » questa illusione. Oppure si deve dire che i fenomeni di atti trascendenti sono essi stessi in realtà « feno­ meni trascendenti » ; e ciò significherebbe che essi sono più che feno­ meni, e che in essi deve essere contenuta la datità dell’ente in sé. Di questi due casi va escluso il primo, perché non si riesce a spie­ gare 1’« apparenza illusoria » come qualcosa di universale e necessario. Il secondo è invece discutibile. Poiché il fenomeno A è di per sé indif­ ferente rispetto all’essere e al non essere di A, il fenomeno dell’essere in sé permette anche che l’essere in sé sussista effettualmente. Ciò che tuttavia non è possibile è che nel fenomeno dell’essere in sé, lo stesso essere in sé sia constatabile. Ed è proprio ciò che pare affermato in questo secondo caso. Può darsi tuttavia che l’errore sia proprio qui. Nel secondo caso non si afferma affatto che nel fenomeno dell’essere in sé l’essere in sé sia constatabile. Il fenomeno rimane tale anche quando è un fenomeno del­ l’ente in sé; e in fondo, anzi, tutti i fenomeni sono anche fenomeni dell’essere in sé. In essi A appare sempre come avente essere. È quin­ di proprio dell’essenza del fenomeno in generale che esso « trascenda » se stesso e faccia apparire superfenomenico il suo contenuto. Ma se tutti i fenomeni per principio rinviano sopra di sé, il fenomeno dell’essere in sé non è più un caso eccezionale, e il rapporto generale acquista in esso solo una particolare evidenza. È però altrettanto evidente che la trascendenza del fenomeno non elimina in esso il carattere di fenomeno, ma, al contrario, lo soddisfa.

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PARTE III - LA PATITA DELL’ESSERE REALE

d) La soluzione dell’antinomia e il suo residuo problematico. I fenomeni in quanto tali sono instabili e provocano la coscienza a decidere in essi dell’essere o dell’apparenza. Non li si può respingere, ma non si può nemmeno rimanere fermi ad essi. È già così nella vita, e ciò vale ancor più per la scienza e in modo assoluto per i problemi filosofici fondamentali. L’autentica autotrascendenza, caratteristica co­ mune di tutti i fenomeni, consiste appunto nell’esigere e nell’impegnare la coscienza a causa della instabilità della coscienza del fenomeno. L’autotrascendenza non è quindi, come poteva apparire in un pri­ mo tempo, quasi una garanzia dell’essere in sé del proprio contenuto data da fenomeni di una specie determinata. In nessun caso i fenomeni possono dare una simile garanzia. Nel fenomeno dell’essere in sé ab­ biamo pertanto solo un caso particolare, in quanto qui si tratta del ca­ rattere ontico in genere dell’essere in sé come tale. In tale fenomeno è accentuato l’aspetto ontico del problema, ed è perciò in verità accen­ tuata anche l’autotrascendenza del fenomeno e la coscienza di essa. E infatti l’autotrascendenza pare qui addirittura distruggere il carattere di fenomeno. In questa apparenza ci sono due errori. Innanzitutto, l’autotrascen­ denza dovrebbe distruggere nello stesso modo anche altri fenomeni e, in secondo luogo, la distruzione è puramente illusoria. Di vero c’è solo la descrizione della instabilità dei fenomeni come tali. Ma in tal modo risulta che anche l’antinomia indicata nella trascendenza del fenomeno poggia su un’apparenza illusoria. L’antinomia si risolve e la contrad­ dizione cade. E questo significa a sua volta che anche la trascendenza del fenomeno sussiste a buon diritto senza interiori contraddizioni e non è quindi illusione. Essa significa però, in questo caso e in generale, qualcosa di ben diverso dalla constatabilità dell’essere in sé: la trascendenza è sempli­ cemente il tendere del fenomeno al di sopra di sé, verso una decisione sull’essere o non-essere del suo contenuto. E bisogna aggiungere che questo tendere a superarsi non è una spinta verso un lato determinato dell’alternativa·, in esso non c’è una decisione preliminare a favore del­ l’essere in sé. Così è, per lo meno, nella chiara coscienza puramente descrittiva del fenomeno. Se il fenomeno dell’essere in sé portasse necessariamente al sussi­ stere di quest’ultimo, sarebbe realizzata la dimostrazione dell’essere in sé e lo scetticismo scomparirebbe. Ma non è così. In linea di principio eontitma a sussistere la possibilità che negli oggetti di coscienza non ci sia essere in se, il che vorrebbe dire che essi non sarebbero affatto

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SEZ. 1 - LA CONOSCENZA

oggetti di conoscenza. Ma allora non sarebbe conoscenza nemmeno ciò che noi chiamiamo con questo nome. Questa è la conseguenza tratta dal dubbio cartesiano. La sua importanza teoretica è ristretta, poiché l’onere della prova spetta alla parte avversa; ma essa non è per ora su­ perata.

capitolo

xxv

TRANSOBIETTIVITÀ E SUPEROGGETTIVITÀ

a) Coscienza del problema e progresso della conoscenza.

La base fenomenica dev’essere ampliata. Ciò è immediatamente possibile ancora all’interno del fenomeno gnoseologico, che non è esau­ rito da quanto è stato sinora esposto. Vi sono altri fenomeni parziali della conoscenza in cui il peso della datità dell’essere in sé è maggiore: il fenomeno della coscienza del problema e quello del progresso della conoscenza. Nell’oggetto è problema ciò che non è ancora compreso, lo sconoj sciuto in esso. La coscienza del problema è la consapevolezza del quid sconosciuto, la quale si impone nel contenuto di conoscenza come co­ scienza della inadeguatezza di questo, e corrisponde quindi al socratico sapere di non sapere. — Il progresso della conoscenza è il superamento della inadeguatezza, la tendenza e il movimento all’adeguazione, lo spingersi della cono­ scenza in ciò che è sconosciuto e il trasformarsi di questo in conosciuto. Il punto ontologico importante è qui il fatto che il concetto di « oggetto di conoscenza » si trasforma essenzialmente ancora una volta. Di fronte al soggetto sta ora non soltanto la parte obiettata dell’oggetto totale, ma anche quella non obiettata, il «transobiettivo», che non è I objectum ma objiciendum. L’ente oggetto di conoscenza si biforca quin’ di in conosciuto e sconosciuto, e tra questi due tronchi corre il confine della obiettazione momentanea. Il transobicttivo è ciò che giace al di là : di esso. y La coscienza del problema è quiridi ähche coscienza del transobiet­ tivo, poiché è la consapevolezza - in anticipo sulla obiettazione - del­ l’essere di ciò che è sconosciuto. In tal modo il fenomeno della co­ scienza del problema si rivela come un fenomeno eminente dell’essere in sé. È sempre possibile immaginare a proposito di ciò che è obiet­

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PARTE III - LA DATITA DELL’ESSERE REALE

tato - in quanto parte conosciuta dell’oggetto - ch’esso sorga nell’atto del suo essere oggetto e che non abbia un essere in sé; ma non si può immaginare qualcosa di simile a proposito del transobiettivo, in quanto esso è ciò che non è diventato ancora per nulla oggetto. Il transobiettivo sta ancora di là dall’ambito della correlazione soggetto-oggetto. Ma poiché essere in sé significa appunto indifferenza rispetto a questa cor­ relazione - esso è infatti indipendenza dal soggetto - al transobiettivo spetta necessariamente l’essere in sé. Contro il nostro argomento si può opporre che il transobiettivo non è tuttavia l’essere in sé, ma solo un « fenomeno » di esso. La co­ scienza del problema potrebbe infatti errare e indagare nel vuoto, dove non c’è niente. A questa critica si contrappone il fenomeno del progresso della conoscenza. Quando i problemi vengono risolti, il transobiettivo viene trasformato nell’obiettato. E ciò prova che il transobiettivo non era un vuoto nulla, ma qualcosa che si offriva alla possibile conoscenza. È vero che il progresso gnoseologico, quanto al contenuto, si sviluppa di solito in modo che il transobiettivo, con l’estendersi della obiettazione, si mostra con proprietà diverse da quelle che si potevano prevedere in anticipo; ma da ciò non consegue che esso sia niente. La pura coscienza del problema non anticipa la determinazione contenutiva del transobiet­ tivo; essa è inscienza del contenuto, ed è solo consapevolezza della presenza. Il progresso della conoscenza - in quanto istituzione di sapere in­ torno alla determinatezza - è la conferma che nel prolungamento della direzione dell’oggetto — di là dai limiti della obiettazione — c’era ef­ fettivamente un ente in sé, qualcosa che sussisteva già prima della penetrazione della conoscenza, indipendente da essa, e che si imponeva nella coscienza del problema. Questo fenomeno ha una grandissima portata ontologica. Se l’og­ getto di conoscenza consistesse solo in ciò che è attualmente obiettato, si potrebbe anche credere che esso si riduca all’essere oggetto per il sog­ getto. Se invece non si riduce all’obiettato, nemmeno la sua maniera d’essere si riduce all’essere oggetto. L’oggetto di conoscenza ha neces­ sariamente un essere in sé e sussiste indifferente rispetto al rapporto gnoseologico.

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SEZ. I - LA CONOSCENZA

b) L’essere in sé del transobiettivo e dell’obiettato.

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Poiché l’oggetto di conoscenza è diviso dal limite della obiettazione in obiettato e transobiettivo, e quest’ultimo risulta avere essere in sé, anche l’obiettato deve avere tale essere. Vale a dire che l’oggetto come totalità ha l’essere in sé. È assurdo attribuire alle diverse parti di un tutto maniere d’essere diverse. E solo così si soddisfa all’indiffe­ renza dell’ente rispetto alla sua obiettazione e al confine attuale di essa. Ciò risulta in modo ancor più chiaro dal progresso della cono­ scenza. L’obiettazione progredisce: sé solo il transobiettivo avesse l’es­ sere in se c non l’avesse ciò che è obiettato, si dovrebbe concludere che attraverso il progresso della conoscenza l’essere in sé viene via via eliminato o annientato. Infatti nel progredire della conoscenza il transo­ biettivo viene progressivamente obiettato. Ma questa conclusione è ma­ nifestamente assurda. Si cadrebbe in tal modo nel più risibile di tutti i pregiudizi, nell’idea che gli oggetti, diventando conosciuti, «facciano una passeggiata nella coscienza ». Gli oggetti di conoscenza - conosciuti o no - rimangono irridu­ cibilmente di fronte alla coscienza. Non ci sono « cose » nella coscien­ za, come non ci sono pensieri o rappresentazioni fuori della coscienza. L’obiettazione non altera questa situazione, che esprime appunto l’in­ differenza dell’ente nei confronti della obiettazione. O tutto l’oggetto della conoscenza ha essere in sé, o non lo ha nessuna delle sue parti. L’oggetto di conoscenza è omogeneo: se la sua parte transobiettiva è in sé, lo è anche la parte obiettata. Dobbiamo qui combattere ancora un altro,pregiudizio,"Cioè la convinzione che.1 oggetto «cambi » con il progredire della conoscenza. Gli atomi della fisica odierna sono diversi da quelli di Democrito. Il neokantismo ne ha tratto la conseguenza, che l’oggetto « sorga » in generale solo nel progresso della conoscenza. Questo inferimento poggia su una grossolana confusione: non è l’oggetto che sorge, ma la sua immagine, la sua rappresentazione o il suo concetto. È.il «concetto» di .atomo che subisce un mutamento, e in qugsto mutamento consiste l’approssimazione alla verità. Gli atomi di cui sono formate le cose non mutano-affatto. Se ci sono, essi sono oggi come erano una volta. Il loro essere è indifferente al mutamento della concezione e alla cono­ scenza progressiva che si acquista della loro essenza.

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CAPITOLO XXVI

I LIMITI DELLA CONOSCIBILITÀ

a) Comparsa dell’irrazionale gnoseologico. Il fenomeno dell’irrazionale gnoseologico ci fa compiere ancora un passo in avanti. Per irrazionale gnoseologico non si intende qualcosa di alogico, ma di transjntelligibile, non qualcosa di impensabile, ma di .inconoscibile. La comparsa dell’irrazionale è il fenomeno del limite della conoscenza. Il limite dell’obiettazione non è fisso, ma spostabile, e viene spo­ stato nel progresso gnoseologico. Ogni nuova acquisizione di conoscen­ za lo spinge oltre. L’oggetto rimane tale e quale com’era, ed è solo la conoscenza che aumenta. La questione è se la spostabilità del limite va in infimtum o se pure essa è limitata. C’è anche un secondo limite oltre al primo, un limite della obiettabilità, della conoscibilità, della razionalità gnoseologica? Esso sarebbe necessariamente un limite non spostabile. Il problema di questo limite coincide con la comparsa del transintelligibile. Non ci riferiamo ad un limite che consista nella finitezza e nella esauribilità dell’oggetto. Un limite simile non lascerebbe niente di inco­ noscibile. Si può certo anche pensare che la cosa, da parte sua, im­ ponga ad un certo punto un limite alla penetrazione della conoscenza. Ma in tal caso si dovrebbe ammettere che l’oggetto si oppone all’ul­ teriore penetrazione della conoscenza e la respinge. Allora esso non sarebbe sempre indifferente alla obiettazione. Un terzo caso possibile è che la cosa non si opponga, ma che la conoscenza sia strutturata in modo tale da non poter avanzare a pia­ cere; l’organizzazione della nostra conoscenza potrebbe essere sì adatta per certi aspetti dell’ente, ma venir fondamentalmente meno di fronte ad altri. La conoscenza stessa in questo caso traccerebbe il limite alla sua penetrazione. Se, per esempio, la conoscenza è vincolata a partico­ lari condizioni interne - forme o categorie - c’è addirittura da aspet­ tarsi a priori il sorgere di un limite di conoscibilità dell’ente. II primo di questi casi va escluso dall’inizio, poiché non riguarda la comparsa dell’inconoscibile. Il secondo deve già essere considerato più seriamente. Conosciamo casi specifici in cui un oggetto si oppone ad essere conosciuto: un og­ getto di tale specie è la persona umana. Un uomo può difendersi dalla

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SEZ. I - LA CONOSCENZA

penetrazione della conoscenza altrui nella propria interiorità, può na­ scondere il proprio essere, deludere chi vuole conoscerlo. Può occultarsi, mascherarsi e trarre in inganno. Ma il nostro problema non concerne, in primo luogo, il rendersi irriconoscibile, bensì semplicemente ciò che è di per sé inconoscibile. In secondo luogo, l’iniziativa di schermirsi dalla conoscenza altrui è presa solo da oggetti che posseggono la conoscenza essi stessi e sono consapevoli del loro diventare conosciuti. Questa particolare condizione non è certo generalizzabile. In terzo luogo poi, il fatto di rendersi in­ conoscibili dipende dal controfattore dell’altrui capacità conoscitiva, dall’intelligenza, dall’esperienza, dalla conoscenza degli uomini. Nella lotta tra chi cerca di penetrare con la conoscenza e chi cerca di ingan­ nare, si dovrebbe quindi ammettere in generale un predominio di que­ st’ultimo, poiché altrimenti la difesa sarebbe violata e sarebbe svelato il proprio mascheramento. Del resto, già la semplice possibilità di venir penetrati dalla conoscenza altrui mostra che una limitazione di questo genere non è affatto inamovibile. Dobbiamo quindi prescindere dalla bizzarra rappresentazione di un oggetto che si sottragga alla conoscenza, se non vogliamo credere al cartesiano deus malignus che abbia disposto il mondo in modo da in­ gannarci. L’ente come tale non si oppone ad essere conosciuto, ma si offre del tutto indifeso. Esso è appunto indifferente alla obiettazione. Meno inverosimile è pensare il limite della obiettabilità dell’ente in un altro senso: l’ente potrebbe essere per certi aspetti strutturato in modo tale da non poter diventare oggetto. Si sono spesso sostenute tesi di questo genere, per esempio, « Dio non può essere oggetto », « il soggetto non può diventare oggetto », secondo il principio di Scheier, « persone e atti non sono oggettivabili ». Affermazioni simili non tengono conto della neutralità dell’ente rispetto alla obiettazione e presuppongono che la cosa conosciuta cambi o venga addirittura attratta nella coscienza. Ma la cosa rimane inamo­ vibilmente di fronte alla coscienza, fondamentalmente intatta dalla obiettazione. Ogni ente può diventare oggetto se c’è una coscienza che lo sa rendere tale. È una realtà di fatto che anche atti e persone pos­ sono venire compresi benissimo già nella vita quotidiana e altrettanto bene nella scienza (ad esempio, nella scienza della storia). Non neghia­ mo che non si possa penetrarli sin nell’intimo più profondo, ma ciò non dipende da essi, bensì da noi, da coloro che conoscono, che non sap­ piamo spingerci oltre o non possiamo penetrare esaurientemente entità tanto complesse e variabili. Non si può sostenere che un ente - nella sua totalità o in parte -

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PARTE III - LA DATITÀ DELL’ESSERE REALE

è strutturato in modo tale da non poter diventare oggetto di conoscenza, se non si limita questa alla sua forma logico-concettuale. Ma la cono­ scenza non si riduce a tale forma ed è connessa solo mediatamente alla concettualità. Si possono avere idee molto diverse sulla conoscenza umana; ma nessuno negherà che ci sia conoscenza o che l’uomo adulto non possa vivere senza una certa conoscenza degli uomini. E si tratta senza dubbio di un conoscere non concettuale. Non c’è un ente in sé inoggettivabile. Nell’essenza dell’ente in sé \ c’è invece la piena possibilità di diventare oggetto di conoscenza, e non dipende da esso il poterlo diventare o meno. Detto in maniera rigorosa ciò significa che non c’è un inconoscibile in sé. Questa è la verità espressa dal principio di Husserl: tutto ciò che è, è anche conoscibile. L’ente in sé è senza difesa di fronte alla conoscen­ za, e gli è sempre essenziale il manifestarsi quando la conoscenza gli si rivolge. L’unico problema è se anche per la conoscenza è essenziale il potersi rivolgere a tutto ciò che le si manifesta. È in grado la cono­ scenza di far diventare proprio oggetto ogni ente?

b) Concetto e posizione dell’inconoscibile « per noi ». Ciò significa che se anche non c’è un irrazionale in sé, ci può tutta­ via essere benissimo un irrazionale per noi. Passiamo così al terzo caso. Se esiste una struttura e un’organizzazione determinata e insupe­ rabile della conoscenza - cioè, della conoscenza effettiva, umana, la sola che ci è nota - e tale struttura è adatta per l’obiettazione di certi aspetti dell’ente e inadeguata per altri, anche nell’ente esiste qualcosa di escluso dalla conoscibilità. E allora esiste « l’inconoscibile per noi ». C’è una serie di motivi che provano l’esistenza di questo inconosci­ bile e il sorgere di un limite della conoscibilità soggettivamente condi­ zionato e tuttavia non spostabile per il soggetto. 1. Nel sistema dei sensi noi abbiamo, in piccolo, uno schema del modo come è disposta in generale l’organizzazione della conoscenza. Gli organi di senso di cui disponiamo sono coordinati ad aspetti del tutto specifici dell’ente, sono adatti alla comprensione di determinati gruppi di proprietà o di processi. Oltre questi gli organi non percepi­ scono niente. È ben noto, per esempio, che vista, udito e senso del calore sono coordinati a sezioni molto ristrette del continuum delle lunghezze d’onda. Ciò che non rientra in queste sezioni non è immediatamente accessibile ai sensi. Se lo stesso vale per la conoscenza non sensibile - per la conoscenza intellettiva e concettuale, per l’inferire e per l’interpre­

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SEZ. I - LA CONOSCENZA

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tare —, allora anche l’intera organizzazione umana della conoscenza è necessariamente commisurata ad una sezione complessiva dell’ente, oltre i limiti della quale l’ente è inconoscibile. 2. Che sia effettivamente così risulta già dal fatto, rilevato in pre­ cedenza, che l’atto della nostra intellezione, comprensione e penetrazio­ ne è legato a forme o categorie ben determinate. Tutto ciò che com­ prendiamo rimane legato a queste forme, e oltre esse viene meno ogni nostra rappresentazione. A tale situazione corrisponde l’adattamento della nostra conoscen­ za alle necessità della vita. Ciò che si manifesta e si presenta in sé alla coscienza naturale del mondo è selezionato secondo l’importanza vitale. Intelletto e sensi non servono originariamente al puro sapere, ma all’af­ fermazione di sé; entrambi sono inizialmente poco adatti ai fini supe­ riori della conoscenza e soltanto metodi particolari nell’uso dell’intellet­ to ne insegnano una più ampia applicazione. Ma anche l’applicazione metodica non si può ampliare a piacere e rimane legata all’ambito delle categorie. v 3. Nella pr'assL delle- scienze ci imbattiamo inoltre dappertutto in limiti evidentissimi. Nell’introduzione abbiamo accennato ad una serie · ___ ·■ ■ di problemi fondamentali aventi tutti carattere metafisico e, cioè, contenenti un ineliminabile residuo irrazionale; gli esempi più noti sono: l’enigma della vita, dell’unità psico-fisica, della libertà, della causa pri­ ma, e così via. Sono tutti residui problematici inevitabili, che non si possono respingere perché radicati in lunghe e significanti serie di feno­ meni. L’inscioglibilità dipende qui manifestamente non dal modo ina­ deguato di « impostare » il problema, ma dal sistematico venir meno delle categorie gnoseologiche umane. 4. Anche l’essere ha i suoi principi (categorie ontiche), e tra essi ve ne sono alcuni non commisurati alle categorie gnoseologiche. Essi si impongono nella ricerca come punti problematici, nei quali ogni so­ luzione di Un’aporia ne rende visibili altre. A questa specie di principi appartengono l’infinità, il continuo, i sostrati, l’individualità, le totalità concrete; quindi, da un lato, ciò che è più semplice ed elementare e, dall’altro, ciò che è massimamente complesso. Di fronte a questi mo­ menti categoriali dell’ente la nostra organizzazione gnoseologica rimane saldamente ancorata alle opposte categorie corrispondenti: alla fini­ tezza, al discreto, alla forma, alla generalità tipica, all’aspetto parziale. 5. A questo proposito si può tener conto anche del vincolamento della conoscenza alle leggi logiche. Non si può dire con certezza quanto il reale corrisponda ad esse. Il sorgere delle antinomie in certe direzioni problematiche fa apparire assai improbabile che l’ente ubbidisca total­

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PARTE III - LA DATITÀ DELL’ESSERE REALE

mente alla legge di contraddizione. Ma se l’ente contiene in sé la con­ traddizione - ad esempio, nella forma di contrasto reale - le antinomie sono insolubili; e sarebbe quindi addirittura un errore il tentativo di risolverle. 6. Anche il razionalismo classico ha riconosciuto i limiti della co­ noscibilità in questo senso, poiché contrappose aH’intelletto finito Xintellectus infinitus e soltanto per questo affermò la conoscibilità illimi­ tata di tutte le cose. Ciò significa un chiaro concetto della limitatezza della conoscenza: l’idea logicamente corretta di una conoscenza quale noi non possediamo. L’errore consistette nel ritenere di poter inferire da tale idea l’ampliabilità del nostro intelletto e la sua approssimazione ad essa. Inferire l’approssimarsi della conoscenza umana alla conoscenza perfetta movendo dall’idea di questa è tanto assurdo quanto inferire dal­ l’idea di Dio la capacità dell’uomo di diventare Dio. Il significato posi­ tivo dell’idea è piuttosto la consapevolezza che si ha dell’irraggiungibile in quanto tale.

c) L’importanza ontica del residuo infinito.

Si può quindi considerare l’inconoscibile nello sfondo degli oggetti di conoscenza come un dato fenomenologico di questa. Ciò significa che c’è effettivamente il secondo limite, quello non spostabile, e che di là da esso sta qualcosa di transintelligibile. Natu­ ralmente, il transintelligibile non è situato al di là del transobiettivo, r ma è una parte di esso, così come questo è parte dell’intero objiciendum. j Ma anche il secondo limite è solo gnoseologico. Esso limita soltanto i l’estensione della conoscibilità dell’ente, e non l’ente stesso. Tanto il conoscibile quanto l’inconoscibile hanno piuttosto essere in sé. Per l’ente in sé né l’essere conosciuto né l’essere conoscibile segna­ no una distinzione. Questa fu la conseguenza della legge dell’oggetto di conoscenza che è tale soltanto se è in sé come è, indipendente dal­ l’essere conosciuto e conoscibile. Né l’essere conosciuto né l’essere cono­ scibile possono aggiungere o togliere qualcosa all’essere. Vi sono state violazioni di questa legge su due opposti fronti. Da un lato, si ritenne che ciò che non è conosciuto, e a maggior ragione ciò che non è conoscibile, non possa avere essere in alcun modo, e che l’ente sia pensabile solo correlatìvisticamente come oggetto di un sog­ getto. E d’altro canto, si ritenne che solo l’inconoscibile possa avere essere autentico (indipendente dal soggetto); e che il conoscibile sia dipendente dal soggetto o, addirittura, sia puro fenomeno (Kant). 270

SEZ. I - LA CONOSCENZA

Entrambe le concezioni compiono lo stesso errore, benché in modo inverso. Esse non riconoscono l’indifferenza dell’ente in sé all’obiettazione e all’obiettabilità, e il carattere puramente gnoseologico di en­ trambi i limiti. L’essere non comincia esclusivamente di qua o di là da uno di questi confini, ma si estende con continuità. È soltanto il sapere intorno all’ente che viene limitato da essi. È difficile eliminare i pregiudizi dell’uno e dell’altro tipo dal pro­ prio pensiero. Essi hanno permeato tutti i nostri concetti e traggono continuo sostentamento dal fatto che i due limiti si proiettano come oriz­ zonti dal soggetto nel mondo in sé. Sorge quindi sempre l’illusione che essi siano confini ontici. Ma per la comprensione del fenomeno del­ l’essere in sé nella conoscenza - e, in modo particolare, nel limite della conoscibilità - è necessario scoprire l’illusione. Quando si sia chiarito ciò, la comparsa dell’irrazionale gnoseologico acquista una singolare importanza. Infatti il conoscibile si presenta ora come sezione finita dell’ente, e il centro naturale di gravità dell’oggetto totale (àfdXob'jiciendwm) giace non solo al di sopra del primo, ma anche al di sopra del secondo limite: esso non si trova soltanto nel transobiet­ tivo, ma addirittura nel transintelligibile. È questo il motivo per cui ogni progresso della conoscenza gravita verso l’inconoscibile e per cui L 'i tutte le concatenazioni di problemi di qualche importanza portano ne­ cessariamente ai fondamentali problemi irrazionali. , Il transmtelligibile è, per così dire, il residuo infinito di tutti i con­ tenuti problematici che segnano un limite della penetrazione possibile per la conoscenza finita. L’ente infatti non ha alcun bisogno d’essere limitato. Nella vita quotidiana non si nota questo grande residuo sol­ tanto perché la nostra apertura verso l’essere è adattata a ciò che è rile­ vante vitalmente e trascura ciò che è irrilevante. È inoltre proprio del­ l’irrazionale il poter emergere solo come fenomeno limite della cono­ scenza, afferrabile, per così dire, nella negazione di questa. L’irrazio­ nale è appunto lo sparire della «posizione contrapposta » dell’ente; e comprendere direttamente si può solo ciò che compare in questa po­ sizione.

d) L’essere in sé dell’irrazionale.

La comparsa dell’irrazionale nel fenomeno della conoscenza ha importanza decisiva per la datità dell’ente in sé. Tale importanza non consiste tuttavia nel fatto che l’irrazionale abbia essere in senso più alto del razionale, ma piuttosto nel fatto che l’essere in sé dell’intero campo

271 18 - La fondazione dell’ontologia

PARTE III - LA LATITA DELL’ESSERE REALE

oggettivo di conoscenza si impone nell’irrazionale in modo assai più evidente. È quindi rafforzata la stessa importanza del transobiettivo. Infatti se l’oggetto di conoscenza si risolvesse nel transobiettivo co­ noscibile, si potrebbe ancor sempre ritenerlo semplicemente oggetto possibile del soggetto (e quindi «oggetto di possibile conoscenza», in senso correlativistico). Ma se esso si estende di là dai limiti della pos­ sibile obiettazione ed ha un contenuto più ricco di ciò che è com­ prensibile secondo le nostre categorie, la situazione è ben diversa. In tal caso è un palese controsenso ritenere che l’oggetto di conoscenza si riduca al suo essere oggetto anche di là dalla sua possibile contrappo\ sizione al soggetto. Di là da questo confine scompare necessariamente λ ogni dipendenza dal soggetto, ogni relatività all’atto di conoscenza, ogni correlatività. Se c’è un inconoscibile, esso deve necessariamente sussistere indipendentemente dal soggetto e deve avere un essere in sé. Poiché, tuttavia, la totalità dell’oggetto di conoscenza (Γobjiciendum} è divisa dal limite della conoscibilità in razionale e in irrazionale, e quest’ultimo è necessariamente in sé, anche il razionale deve avere egual­ mente essere in sé, tanto nella parte già obiettata (conosciuta) quanto nella parte obiettabile (conoscibile) del transobiettivo. E ciò significa che l’oggetto di conoscenza deve avere essere in sé in generale e nella sua totalità. Infatti, se in generale sussiste in esso l’essere in sé, l’oggetto di conoscenza è indifferente per sua natura alla obiettazione e alla obiettabilità, ed è indifferente anche ai limiti di esse. L’oggetto totale è omogeneo sotto tutti gli aspetti. Se una parte di esso è relativa al soggetto, è relativo l’intero oggetto. Ma se una parte di esso è in sé, è necessariamente in sé anche l’intero oggetto. Che qualcosa dell’oggetto sia obiettabile non significa tuttavia che esso si possa risolvere nel puro essere oggetto. Il diventare oggetto non diminuisce il suo carattere ontico e rimane in generale qualcosa di esteriore all’ente in quanto tale. E poiché la datità dell’essere in sé è posta nella massima evidenza dal fenomeno dell’irrazionale, questo fenomeno illumina limpidissima­ mente anche l’obiettato e l’obiettabile : il loro essere in sé è tanto certo quanto quello dell’irrazionale.

272

Sezione li

GLI ATTI EMOZIONALI-TRASCENDENTI

CAPITOLO XXVII

ATTI EMOZIONALI-RECETTIVI

a) Posizione e struttura degli atti anticamente fondamentali.

La conoscenza è tra gli atti trascendenti quello più trasparente, puro e obiettivo. Essa non è però la testimonianza più importante dell’essere in sé. Lo scetticismo ebbe facile gioco contro l’atto gnoseologico preso isolatamente. Il vantaggio dell’oggettività è controbilanciato in esso dallo svantaggio d’essere un atto secondario nella connessione vitale. L’atto gnoseologico sorge sempre solamente da un intreccio di atti più profondamente radicati e altrettanto trascendenti; anzi, il più delle vol­ te, non emerge nemmeno da essi, ma rimane avviluppato nel loro in­ treccio. Solo la scienza lo libera nella sua purezza e appunto per questo si espone allo scetticismo. Ad essa vien meno, per così dire, il terreno in cui si radica. Ma questo radicarsi è fondamentale per il problema dell’essere: nella connessione vitale degli atti esso si spinge più a fondo nella tota­ lità dell’ente. Infatti la connessione degli atti negli uomini che ne sono i portatori è una sezione della connessione cosmica ed ontica in cui gli uomini si trovano. La conoscenza è l’unico atto trascendente non emozionale. In tutti gli altri c’è in più il carattere dell’attività, dell’energia, dello sforzo, dell’impegno, del rischio, della sofferenza e dell’essere colpito: in ciò consiste il loro carattere emozionale. Appartengono a questa categoria di atti tutti i rapporti con le persone, l’operare con le cose, l’esperire 273

PARTE III - LA DATITA DELL’ESSERE REALE

immediato, le aspirazioni, i desideri, il fare, l’agire, il volere, le inten­ zioni; e vi appartengono anche il successo e lo scacco, il subire e il sop­ portare, l’attesa, la speranza e il timore. In questa connessione di atti rientrano anzi già la disposizione interiore, la reazione e la risposta ai valori. Nella vita questi atti non sono separati e trapassano l’uno nel­ l’altro; d’altra parte la loro differenziazione procede sino a sfumature impercettibili. All’analisi non è lecito rendere netti artificiosamente i confini confusi o ridurre la varietà introducendo un certo numero di tipi. Ciò che importa è però proprio il carattere comune di questi atti: la loroJrascendenza e l’essere in sé dell’oggetto. Sotto quest’aspetto essi sono infatti superiori all’atto gnoseologico. Proveremo che la nostra ge­ nerale convinzione dell’essere in sé del mondo in cui viviamo non è tan­ to fondata sulla percezione quanto su quella resistenza immediatamen­ te vissuta che il reale offre all’attività del soggetto, e che tale convin­ zione poggia quindi su un’ampia base di esperienza vitale, quale è offerta dagli atti emozionali. Procedendo dalla conoscenza alla connessione di atti che è sullo sfondo di questa, l’analisi passa dall’onticamente secondario a ciò che è onticamente primario e fondamentale, e al tempo stesso, però, meno penetrabile e analizzabile. In questo passaggio essa ha tuttavia il van­ taggio che i nuovi atti riconoscono solo un’unica maniera d’essere degli oggetti, quella reale; nella loro trascendenza è in questione soltanto l’essere in sé reale. Nell’analisi di questi atti si può quindi tralasciare il greve concetto di essere in sé e parlare direttamente di « realtà », non dimenticando tuttavia che nella « realtà » non è in questiona la specie dell’essere in sé, ma l’essere in sé in quanto tale. Nell’analisi degli atti attivi (spontanei) si ha inoltre il vantaggio che in essi è già la stessa coscienza dell’atto a distinguere tra l’oggetto intenzionale e quello reale, mentre ciò non avviene nella conoscenza. In questa è solo la teoria a portare in luce l’entità gnoseologica che è stata formata (il pensiero, la rappresentazione, l’idea). Nel volere, inve­ ce, sin dall’inizio lo scopo proposto è distinto dallo scopo da raggiun­ gere. E l’atto si muove nel rapporto di tensione tra l’uno e l’altro. h

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b) Caratteristica degli dtfi emozionali-rece^tit'i.

Tutti gli atti trascendenti hanno la forma di relazioni tra un sog­ getto e un oggetto esistenti. Essi sono atti dello stesso soggetto che co­ nosce, e anche i loro oggetti, almeno in linea di principio, sono gli stessi oggetti che possono pure essere conosciuti. Ma diversa è la struttura

274

SEZ. II - GLI ATTI EMOZIONALI

dell’atto. Nella relazione gnoseologica l’oggetto rimane intatto, immu­ tato; e il soggetto non è colpito, almeno nel suo habitus vitale, bensì soltanto modificato secondo il contenuto di coscienza. Negli fotti emozionali 'mutano invece sia l’oggetto sia il soggetto: il primo negli atti spontanei, il secondo in tutti, ma nel modo più evi­ dente negli atti con carattere recettivo. Dobbiamo qui cominciare con gli atti emozionali-recettivi, perché in essi il modo di datità dell’esserci reale ha la forma più saliente e il peso più immediato. Appartengono a questo tipo gli atti dell’« esperire » (Erfahren), del « sentire immediato » (Erleben), del « subire » (Erleiden) con le loro varie sottospecie. Per un certo aspetto vi appartiene anche il « sopportare » (Ertragen), non nel senso dell’attività del « riuscire a dominare » (damit-fertig-Werden), ma in quello del puro momento passivo del «dover portare» (Tragen-Müssen). Questi atti hanno in comune il fatto che al soggetto «capita» (widerfährt) qualcosa. Il soggetto stesso sente immediatamente o espe­ risce 1’« accidente» (Widerfahrnis) nella forma di un ben determinato « essere colpito » (Betroffensein). Si è colpiti in maniera affatto reale ; e poiché si tratta essenzialmente di un « essere colpiti da qualcosa », si annuncia in esso in modo inevitabile la realtà dell’accidente, e quindi dell’ente che, quando siamo colpiti, viene sentito come ciò che colpisce, che urge, o che si impone. Nel «subire» l’imporsi di ciò che capita è particolarmente rude. E così già nel caso più superficiale, quando si riceve un colpo fisico o un urto, e il dolore ci prova drasticamente più di tutte le argomen­ tazioni la realtà di ciò che ci colpisce o ci urta. Non c’è bisogno a que­ sto proposito di un inferimento causale, di una riflessione o di una com­ binazione. La convincente forza probativa di ciò che capita si identi­ fica immediatamente con la coscienza di essere colpiti. La stessa situazione si ripete anche quando si soccombe in una lotta, fisica o spirituale, quando si soggiace ad una pressione psichica o si è trascinati da una forza estranea: nell’essere colpiti dalla forza che ci vince, ci opprime o ci trascina, la forza viene sentita immedia­ tamente come reale. Nel sentire immediato e nell’esperire propriamente detti non si è colpiti in modo così drastico. Perciò entrambi sono infinitamente più ricchi di contenuto. In questi due tipi di atto spazia prevalentemente la coscienza di tutto ciò che capita a noi e alle altre persone.

PARTE III - LA DATITÀ DELL’ESSERE REALE

c) L’« accidente » e Γ «essere colpito». La durezza del reale e ries­ sere in balia». Ci sono tuttavia ulteriori sfumature. Nel «sentire immediato» l’accentuazione personale è ancor più forte. L’«esperire» è più ogget­ tivo, mostra una contrapposizione più consapevole a ciò che capita, è più vicino alla conoscenza. Chi «sente immediatamente» (Der Erle­ bende) sprofonda invece maggiormente nell’esperienza immediata (Er­ lebnis)·, quindi nel sentire immediato si è colpiti più immediatamente e fortemente, quasi come nel subire. Si è colpiti tuttavia anche nell’esperire. Non bisogna qui lasciarsi ingannare dall’uso gnoseologico del linguaggio che fa rientrare ogni esperienza nella conoscenza. L’esperire di cui qui si parla è ancora assai di qua dalla conoscenza e non ha niente in comune con l’empiria; il suo correlato non è un oggetto di osservazione, ma un evento che « capita »_a_jqualcuno. Schietto esperire in questo senso si ha quando sono ingannato da qualche persona a cui avevo creduto. In questo caso non esperisco solo l’inganno, bensì anche che la persona è priva di onore. Tale esperienza può trasformarsi direttamente in conoscenza, ma non si trasforma in conoscenza il tono con cui si impone ed è sentito ciò che si esperisce. L’« essere colpito » non è un atto di comprensione. Sono così esperiti e sentiti immediatamente avvenimenti, situazioni, tensioni e soluzioni a cui si partecipa in qualche modo o in cui ci si trova inseriti. Si è colpiti da essi in proporzione alla partecipazione: e in proporzione al modo in cui se ne è colpiti è data più o meno con­ vincentemente la realtà degli avvenimenti e delle situazioni. Nessuno pensa che per avere coscienza della situazione attuale si debba attendere la conoscenza. È vero piuttosto il contrario: la datità della conoscenza, quando si pervenga ad essa, è già sempre sostenuta dalla datità primaria del sentire immediato. Ciò è anche evidentissimo nel modo in cui si esperiscono le conse­ guenze delle proprie azioni. Non si tratta di un’esperienza indiretta «di» esse, di una conoscenza «per sentito dire». All’occasione venia­ mo a contatto con esse in modo assai sensibile e ne siamo colpiti. Si devono subire sino in fondo le conseguenze delle proprie azioni, non si possono evitare e si devono assumere su di sé: le conseguenze sono lì presenti e sono pesanti da portare. Si ha la stessa specie di esperienza immediata quando altre perso­ ne agiscono nei miei riguardi e mi trattano bene o male: io « esperisco » il trattamento ed « esperisco » pure i loro sentimentTverso di me. An­ che in questi due casi non si tratta di un’esperienza nel senso di cono­ 276

SEZ. II - GLI ATTI EMOZIONALI

scenza. Può darsi benissimo che io disconosca i loro sentimenti e li fraintenda e che disconosca anche completamente il trattamento di cui ho avuto l’impressione; malgrado ciò, io l’ho tuttavia «esperito» e sono stato colpito da esso. Posso trattenere in certi limiti il conoscere e guidare l’attenzione, ma non posso trattenere ciò che è esperito immediatamente e non atten­ de che l’attenzione gli si rivolga. L’« accidente » infatti è inarrestabile, non tiene conto delle mie disposizioni, ma mi accade : e cioè « capita ». / Posso forse evitarlo entro certi limiti, ma solo in quanto lo prpyccfo; non posso evitarlo tuttavia senza intervenire attivamente e provocare così un nuovo accidente. La capacità di evitare ha una portata ristretta e non significa affatto che ci si possa comportare come spettatori inerti e disinteressati. Negli atti emozionali non c’è, come nella conoscenza, una scelta con cui ci si orienta verso ciò che interessa o a cui si aspira. L’uomo inserito nel corso degli eventi non può, a piacere, avere espe­ rienze immediate o sottrarsi ad esse. Egli esperisce né più né meno di quanto gli capita, ed è sottoposto a questa legge per tutta la sua vita. Siamo di fronte a una certa fatalità. Non si deve però intendere questa parola in senso metafisico-fatalistico: non si tratta di una desti­ nazione degli eventi, ma semplicemente del loro comparire in virtù di forze su cui non abbiamo alcun potere. Si tratta dell’inserimento del­ l’uomo nell’ampio corso delle connessioni reali, che egli non ha né dispo­ sto né creato, ma di cui non può impedire l’azione sulla propria vita. L’essere dell’uomo nel mondo non è puramente passivo né indifeso di fronte ai singoli eventi. Ma è passivo e indifeso nel complesso, poiché l’attività opera solo contro ciò che capita. Fondamentale è il fatto - non voluto, non prodotto e in generale anche immeritato - che l’essere umano, indifeso e vulnerabile da ogni lato, è afferrato e dato in balìa al flusso del divenire reale—=^alla durezza del reale, per così dire, sempre nuovamente esperita - indipendentemente dal grado in cui tale flusso è conosciuto. / i È questa durezza del reale che ci urta quando siamo colpiti; e si annuncia così mamediatamente a noi l’essere in sé reale dei rapporti, degli avvenimenti e~déHe situazioni.

d) L’idea di destino. L’esperire immediato e il comprendere.

In conclusione, si « esperisce » e si « sente immediatamente » allo stesso modo tutto ciò che entra nell’ambito della propria vita. Si espe­ risce il divenire del mondo, si subisce il proprio destino, si sente con 277

PARTE III - LA DATITA DELL’ESSERE REALE

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immediatezza il successo e lo scacco, non solo propri bensì anche degli altri, proporzionatamente alla nostra partecipazione. E si vivono imme­ diatamente anche gli avvenimenti comuni, pubblici; si ha esperienza immediata anche del corso diveniente della storia. E, secondo il grado della vita politica comune, si è colpiti anche da questa; si può venire da essa scossi, oppressi, respinti o esaltati. L’uomo di media levatura esperisce i rapporti sociali in cui si trova, come una specie di sfondo continuo da cui vengono emergendo gli avvenimenti particolari. Egli ne ha esperienza immediata, come del sapore del pane quotidiano; li esperisce concedendo o meno il suo assen­ so, portato od oppresso da essi, ma non può liberarsene senz’altro. L’uo­ mo è prigioniero nei rapporti sociali, e ancora una volta questo impri­ gionamento è sentito come forza coercitiva, pressione e destino. Anche qui è la pesantezza, la resistenza, la durezza del reale che viene soprat­ tutto esperita, sentita o subita nella propria vita: certezza evidente e im­ mediata dell’essere in sé. Nemmeno qui è però implicita la conoscenza di ciò che è esperito. Non solo si rimane a lungo senza comprendere da che cosa esso dipen­ de, ma il più delle volte manca anche la conoscenza fattuale del modo in cui si presentano i rapporti. Lo stare in mezzo ad essi ne rende difficile la comprensione. Gli epigoni, storicamente lontani, li ricono­ scono facilmente, ma non li sentono più immediatamente né li esperi­ scono: non sono più colpiti da essi. Nell’esperire, nel sentire immediato, nel subire, c’è sempre il mo- \ mento del « sopportare » o, almeno, del « dover sopportare » (Ertragen- ) müssen). È certamente un momento limitato a ciò che viene sentito come pesante, duro o amaro; ma sono proprio gli accidenti di questa specie che testimoniano prevalentemente la realtà. Il « dovere » ha qui uno schietto significato di costrizione: rispecchia chiaramente l’inarrestabilità e l’inevitabilità degli eventi ed è sentito come la loro «inesorabilità », la spaventosa indifferenza dell’accadimento nei confronti di chi lo deve sopportare. L’idea di destino è germogliata da questo sentimento sollevato su un piano metafisica e da esso ha tratto sino ad oggi un continuo sosten­ tamento. Molto ingenua è in questa concezione l’idea della predetermi­ nazione, la rappresentazione del fatto ( είμαρηένη), il cui evidente schema teleologico lascia trasparire l’antropomorfismo; tuttavia la concezione della potenza superiore del divenire cosmico, riconoscibile anche in que­ sta interpretazione, conserva la sua grandiosità. In effetti, tale potenza è niente altro che il peso della realtà, di cui esperimentiamo immedia­ tamente l’inesorabilità nelle diverse forme dell’« essere colpiti ». L’in­

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SEZ. II - GLI ATTI EMOZIONALI

terpretazione metafìsica che si dà a questo peso con l’idea di destino, è la prova migliore che esperire immediatamente non è comprendere (conoscere, intelhgere). Infatti in questa interpretazione si disconosce fondamentalmente l’intreccio della connessione reale su cui l’esperire immediato si fonda. Altra luce ancora si riverbera di qui sul rapporto tra l’esperire e il comprendere. Entrambi possono concernere lo stesso divenire reale, e in tal caso è identico, quanto al contenuto, ciò che viene portato a datità. Ma anche in tal modo rimane fondamentalmente diverso il tipo di da­ tità: nell’esperire, immediato la datità è un essere afferrato dell’uomo da parte del drienire, è un sopravvenirgli di ciò che non può essere respinto; nel comprendere, invece, la datità è uno star di fronte, quasi senza il suo essere tgccato o, ad ogni modo, indipendente da esso. Forse è questo in generale il contrasto caratteristico: l’esperire non è comprendere (Erfassen) perché è, al contrario, un « essere compreso » (1) (Erfasstsein). In questo rapporto l’essenziale è che, nella totalità della vita umana, all’« essere compreso » spetta una priorità sul comprendere. E vero che 1’« essere compreso » non si estendeva in origine a tutti gli oggetti di possibile conoscenza, e che l’estensione della conoscenza svi­ luppata è più ampia. Ma è vero anche che la realtà del mondo, in cui il conoscere si attua indagandola, è data preliminarmente all’uomo dal suo « essere compreso » dal flusso del divenire in cui quella realtà consiste. L’« essere compreso » non è una semplice immagine, ma un fatto reale che ci accade, un esser tratti a partecipare (In-MitleidenschaftGezogensein) effettuale. E questa partecipazione traspare altrettanto chia­ ramente anche nelle sfumature più tenui del nostro « essere colpiti » dalla realtà: nel nostro essere commossi, soggiogati, emozionati, o nel nostro essere eccitati, stimolati, avvinti e attratti. Come ultimo termine di questa serie graduata si può considerare il provare interesse (J.nteressiertsein), in cui l’uomo non è più veramente « colpito », v che rappre­ senta il termine di passaggio all’atto del comprendere. „ri

(1) Nel significato etimologico di «essere preso», «essere afferrato».

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CAPITOLO XXVIII

GRADAZIONI DELL’ESPERIRE E UNITÀ DELLA REALTÀ

a) L’esperienza immediata della resistenza e la realtà delle cose.

Assai affine a questi fenomeni è l’affermarsi in noi della coscienza della resistenza quando la nostra attività è ostacolata. Tale coscienza si distingue dall’esperire puramente recettivo o dal subire, per la sponta­ neità (del desiderio, dell’aspirazione, della volontà) che è all’inizio del­ l’atto e che subisce la resistenza. Pertanto questo fenomeno appartiene per metà già a un altro gruppo di atti; tuttavia l’esperienza immediata dell’ostacolo non si identifica con l’aspirazione che è ostacolata e, d’altra parte, non si possono naturalmente isolare in modo netto gli atti recet­ tivi da quelli spontanei. In ogni esperienza immediata e in ogni sentire vissuto sono già contenute le reazioni contrarie alla tendenza caratte­ ristica della persona, reazioni che si impongono come momenti essen­ ziali nella forma del nostro essere colpiti dalla realtà. Anche qui non si tratta di isolare gli atti, ma di indicare i momenti sempre compresenti nella totale esperienza vissuta. Quando si considerano i momenti dell’esperienza immediata della resistenza, non si può disconoscere che proprio in essi la datità della realtà prende una forma pregnante caratteristica. L’importante è che questa forma accompagna tutti i gradi dell’attività umana, dai più bassi ai più alti, senza che muti sostanzialmente il peso immediatamente vis­ suto della resistenza della realtà. Ciò che muta è solo la drasticità del nostro essere colpiti, la quale dipende però esclusivamente dalla diffe­ rente altezza dei piani d’essere che ci resistono. Si confronti la seguente serie di esempi. Io voglio sollevare una pietra ed esperisco la resistenza del suo peso; voglio lottare con qual­ cuno ed esperisco la sua difesa; voglio appropriarmi di un bene altrui ed esperisco il contraccolpo della legge; voglio convincere qualcuno ed esperisco la resistenza del suo pensiero originale. In tutti questi casi ho un’identica esperienza immediata della stessa resistenza reale. Non solo il peso della pietra, infatti, è reale, ma sono altrettanto reali la difesa di chi è assalito, la forza del diritto vigente o dei suoi legali rappre­ sentanti, e la spontaneità del pensiero altrui. La resistenza esperita ha certamente una drasticità caratteristica nei gradi più bassi. È un errore ritenere che solo i sensi garantiscano la datità della realtà delle cose. Ciò che è esperito ha già nell’esperienza 280

SEZ. II - GLI ATTI EMOZIONALI

vissuta della resistenza un fondamento che è poi incorporato in ciò che è percepito. La percezione cade sul terreno già preparato di un’espe­ rienza di realtà più primitiva ma più forte. Ciò non significa che ogni atto di visione delle cose debba essere preceduto dall’urto con esse; al contrario, noi generalizziamo la resistenza di cui abbiamo un’ingenua esperienza immediata; ma anche così generalizzata essa rimane nondi­ meno a fondamento e non ha quindi affatto bisogno di essere interpre­ tata solo all’interno di ciò che è visto. È questo il motivo per cui il senso motorio e quello del tatto pre­ valgono rispetto a tutti gli altri nel dare la certezza della realtà. Grazie al loro modo assai attivo di funzionamento (toccare, urtare, sollevare) sono già essi stessi fondati su un’attività ostacolata. Da questi fatti Max Scheier ha ricavato la conseguenza che ogni coscienza della realtà si fondi sull’esperienza vissuta della resistenza e ha sistematizzato questa tesi in un « realismo volontaristico » (*). Ma così accentuata la tesi non può essere sostenuta. In primo luogo, infatti, la varietà degli atti emozionali implicati nella testimonianza della real­ tà è assai maggiore e, in secondo luogo, è errato trasferire all’ente stesso la maniera della datità. Non si può attribuire al reale uno sfondo volon­ taristico per il solo fatto che ha un simile sfondo la forma di coscienza in cui il reale è dato primariamente. In terzo luogo, non è permesso ricorrere alla datità emozionale solo per ciò che ha una realtà «cosa­ le » ; la forma in cui questa datità si afferma potrà bensì avere un vigore particolare a proposito delle cose, ma vale tuttavia per tutto il reale, per l’organico, lo psichico e lo spirituale non meno che per la rozza materialità. Del resto, non è forse nemmeno vero che nell’esperienza vissuta di resistenza dell’ostacolo motorio esteriore siamo colpiti nel mo­ do più forte. Il modo d’essere colpiti grava in maniera ben diversa nelle forme più alte dell’esperire e del subire. b) Chiarimento del concetto ontologico di realtà.

Prima di procedere oltre è qui opportuna una giustificazione del concetto di realtà posto a base delle nostre considerazioni, poiché esso non è senz’altro il concetto solito, che considera prevalentemente la maniera d’essere delle cose come l’autentica realtà (il che è conforme anche al significato letterale originario di realitas\ Per la coscienza in(*) Egli seguì su questo punto le vecchie idee di F. Bouterwek e di Maine de Biran.

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PARTE III - LA LATITA DELL’ESSERE REALE

gen.ua le cose sono infatti le rappresentanti più immediate del reale, e paiono avere con la loro sostanzialità una superiorità ontica su tutto ciò che nel mondo si presenta in modo diverso. Mostrammo già in precedenza che una simile superiorità ontica del sostanziale non è affatto giustificata; si può mostrare inoltre che il carattere sostanziale è del tutto problematico per le cose (dimostrazione che rientra in un’analisi categoriale altamente specifica). A queste con­ siderazioni se ne aggiunge ancora una terza, che è qui suggerita dalla fenomenologia degli atti che abbiamo or ora descritti. Le cose non sono solo oggetti della sensazione, ma anche del desi­ derio, della conquista, dello scambio, dell’acquisto, del commercio, sono manipolate e utilizzate, sono oggetto di lotta e di disputa. Esse si trova­ no nel bel mezzo della sfera in cui si svolge la vita umana, nella sfera dell’azione e dello sforzo, del dolore e della lotta, delle situazioni, dei rapporti umani e del divenire storico. Quando nel mondo è in questione la realtà delle cose è sempre anche in questione la realtà dei rapporti, delle situazioni, dei conflitti e dei destini umani, la realtà, cioè, del corso della storia. Di qui deriva l’importanza del problema della realtà, che riguarda sempre assieme e con la stessa immediatezza l’essere umano e quello cosale, l’essere del mondo materiale e di quello spirituale, inclu­ dendovi tutto ciò che si estende gradualmente tra l’uno e l’altro. Il concetto di realtà da noi preso qui a fondamento è quindi ini­ zialmente ampliato e in contrasto con tutte le concezioni puramente orientate al mondo delle cose. Ma proprio per questo è il concetto na­ turale di realtà : solo esso intende il « mondo reale » in cui viviamo come mondo unitario, come mondo, cioè, che contiene in sé, connessi e va­ riamente intrecciati tra loro, enti eterogenei: entità organiche e inor­ ganiche, processi fisici e spirituali. La stessa maniera d’essere abbraccia spirito e materia, che rivelano infatti gli stessi momenti fondamentali dell’individualità e della temporalità. Anche l’essere spirituale sorge e scompare nel tempo, e in tutte le sue forme particolari è unico e irri­ petibile allorché è scomparso. Solo la spazialità distingue da esso il mondo delle cose. | È l’errore fondamentale del tipo materialistico dh pensiero ritenere , reale solo ciò che è esteso. La materia infatti è estesa, ma non.solo essa è reale. La nota distintiva (specifica) del reale non è la spazialità ma il tempo. Non sono la grandezza, la misurabilità e la percettibilità a contrassegnare il reale, bensì il divenire, il processo, l’irripetibilità, la durata, la successione e la contemporaneità.

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SEZ. II - GLI ATTI EMOZIONALI

/ \ c) Reàfyà e temporalità. Questo concetto ontologico di realtà dipende interamente dallùmità e unicità^del tempo-reale. Nella nostra epoca è stata più volte negata l’esistenza di un simile tempo e l’unità di esso è stata risolta in una pluralità di tempi. Si parte dalla differenza del divenire all’interno del tempo — per esempio, dalla differenza del divenire storico e di quello naturale — e si attribuisce tale differenza al tempo stesso. O si interpreta addirittura il flusso temporale come produzione (Hervorbringen) di eventi (come un «fare maturare»); e poiché la produzione è molto di­ versa nella natura e nella storia, si crede che anche il tempo debba es­ sere diverso. In tal modo però non solo si dissolve l’unità del mondo, che pure- è_al tempo, stesso naturale e storico, ma si privano anche di senso la contemporaneità e la successione Universali che abbracciano e connettono tutto il divenire. -___ La nota esscnzialc deL tempo reale è appunto il fatto che esso abbraccia ogriTrèalé senza distinzione di specie e di gradone che unifica il divenire naturale e quello storico, il divenire psichico e quello fisico. Cm_rùulta -ehiarissimo -nella scienza- storica che fa l’uso più fecondo della contemporaneità universale: il suo computo del tempo è model­ lato sul divenire naturale; essa calcola infatti secondo giorni, anni e secoli. E presuppone quindi in modo del tutto esplicito l’universale pa­ rallelismo di ogni divenire - sia fisico sia storico-umano — in un uni­ co tempo. Un’analisi del tempo che ignori questo fenomeno dell’unità è un’ana­ lisi falsa; ed egualmente falsa sarebbe una ontologia del reale che pog­ giasse su una simile ignoranza. Essa abbraccerebbe solo una frazione del reale, cioè gli strati inferiori, mentre rimarrebbe incompresa la ma­ niera d’essere degli strati più alti. Ciò è quanto viene in luce nell’analisi degli atti emozionali-trascendenti, e che già si è imposto all’attenzione nel primo gruppo di questi atti, quelli recettivi. La durezza caratteristica del reale è data imme­ diatamente in tutto ciò che si fa sentire nell’esperienza vissuta e imme­ diata e nel subire. Nel mondo delle cose, chi sente immediatamente è colpito in modo relativamente debole o, almeno, superficiale. È solo ne­ gli accidenti, nelle situazioni e nei destini della sfera umana che questo « essere colpito » raggiunge la sua piena forza. Abbiamo così una prova che solo in questi e non nelle cose c’è il momento veramente essenziale della datità del reale.

PARTE III - LA DATITÀ DELL’ESSERE REALE

d) Conoscenza e coscienza emozionale della realtà.

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Già è stato mostrato in precedenza che il fenomeno della conoscenza non garantisce interamente l’istanza di realtà che esso stesso solleva e garantisce ancor meno, quindi, l’intera certezza di realtà in cui noi viviamo. L’isolamento — divenuto tradizionale — del problema della cono­ scenza lo stacca dalla sua base naturale, che consiste nella connessione dei fenomeni della vita. Quell’isolamento è una conseguenza delle ambiziose speranze riposte dopo Kant nel compito della « critica », e provenne dal pregiudizio che ogni datità primaria risieda nel campo della conoscenza. Il rapporto vero è invece il contrario. Nell a vita._non c’è un rapporto gnoseologico isolato, e nella scienza tale-rapporto c’è solo in modo approssimato e quando si,astragga da tutte le forme primarie di datità. Il puro rapporto-«-soggetto-oggetto » è onticamente secondario, è già inserito in un ricco complesso di rap­ porti primari con gli stessi oggetti - cose, persone, situazioni della vita, avvenimenti. Gli « oggetti » non sono principalmente qualcosa che conosciamo. ma qualcosa che ci «interessa» praticamente, con cui «abbia­ mo che fare» nella-vita c con cui dobbiamo «entrare in discussione»; qualcosa di cui è necessario « venire a capo », che dobbiamo sfruttare, dominare o sopportare. Il conoscere, di solito, viene soltanto dopo con un’andatura meno spedita. Così, per- esempio, le persone possono certo diventare anche oggetti di conoscenza. Ma per lo più non si giunge a tanto nella vita; non è molto facile stabilire la distanza, la contrapposizione disinteressata, la penetrazione, dovendosi prima liberare dall’attualità. Infatti, in un primo momento le persone ci compaiono di fronte come forze con cui dob­ biamo fare i conti, venire a patti, accordarci o lottare; o compaiono come fattori delle situazioni della vita in cui ci troviamo e nelle quali dobbiamo orientarci. Se, nonostante ciò, le si vuole chiamare oggetti, esse sono tuttavia in primo luogo oggetti del nostro prendere posizione, dell’amore e dell’odio, ecc., e non oggetti del conoscere. Come per le persone, così è anche per tutto ciò che appartiene alla sfera della vita umana: dappertutto si rivela il primato dell’esperire immediato e del sentire vissuto sopra il conoscere. La coscienza emozio­ nale della realtà è fondamentale: la conoscenza si istituisce inserita nel­ la connessione della vita; e anche quando successivamente se ne libera e la lascia dietro di sé, rimane tuttavia ancora legata ad essa per un lato. Questo lato è la datità originaria dell’esserci reale del mondo che noi conosciamo, poiché esso è anche lo stesso mondo in cui viviamo.

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CAPITOLO XXIX

GLI ATTI EMOZIONALI-PROSPETTIVI

a) La trita nell’anticipazione e Γ« essere colpito in anticipo ».

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Il flusso~3eTdivenire in cui ci troviamo non ci tocca solamente con ciò che è presente al momento attuale. Noi viviamo di fronte a ciò che sopraggiunge e, entro certi limiti, possiamo vederlo accostarsi. L’uomo non vive senza «previsione» (Vorsehung); e per quanto limitata, que­ sta pone tuttavia l’uomo e la sua coscienza del mondo su una base più ampia. Infatti, proprio la capacità di veder venire ciò che sopraggiunge dà all’uomo la forza di provvedere in merito, di disporsi in anticipo ad accoglierlo e di prepararsi convenientemente in modo attivo. Anche il veder sopraggiungere, come la coscienza del presente, non è un puro atto conoscitivo: la conoscenza di ciò che sopraggiunge è più limitata dell’anticipazione emozionale. Indipendentemente .dal conoscere auten­ tico, noi viviamo continuamente nella consapevolezza che il flusso del divenire « avanza » in modo inarrestabile su noi, che questo « futuro » entra "irresistibilmente nel presente, e quindi anche che esso ci deve necessariamente colpire in proporzione di questa sua irruzione. Abbiamo certezza di ciò che sopraggiunge come qualcosa di sconosciuto. Ne teniamo perciò conto come dell’imponderabile, dell’inatteso, del sor­ prendente. E il nostro computo è sempre esatto, perché c’è sempre un nuovo accadere in arrivo. Agli atti emozionali-recettivi si affiancano così gli atti emozionalianticipanti (prospettivi), che non sono meno trascendenti dei primi. Il tener conto di ciò che sopravviene, come di qualcosa di inarrestabile, ha in sé originariamente un carattere ben determinato di certezza, assai diverso da quello della coscienza del presente, e che è tuttavia certezza schietta di realtà. Si tratta però di una certezza che precede la datità del reale determinato. Gli atti di questa specie — i cui tipi fondamentali sono l’attendere, il presentire, il prepararsi, l’accingersi - precedono l’e­ sperire e il sentire immediato. O, in modo più esatto, essi consistono nell’anticipazione dell’esperire e del sentire immediato, e in quella del subire e del sopportare. Ma in tal modo essi sono senz’altro l’anticipa­ zione del nostro «essere colpiti» dalla realtà, il quale in essi è «pre­ sentito » e si trasforma in « essere colpiti in anticipo ». La generale situazione ontologica fondamentale dell’uomo è il suo

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PARTE III - LA PATITA DELL’ESSERE REALE

k^tare-nel-tepapo. E non è uno stare fermo, ma un procedere con il flusso temporale^ in cui il punto del presente si sposta continuamente e muta quindi assieme ad esso. La coscienza è legata con la sua realtà attuale a questo presente mutevole, e non può uscire da esso, poiché la sua esi­ stenza, come quella di ogni reale, è l’esistenza del momento presente. Essa mantiene lo stesso ritmo del tempo. Ma con il suo contenuto non è legata a ciò ch’è presente: il comprendere e l’essere compreso ci sono anche del passato e del futuro, sebbene non illimitatamente. La caratte­ ristica degli atti trascendenti è appunto che essi trascendono anche il legame con il presente di quella coscienza di cui sono atti presenti. In essi avviene l’anticipazionejleiruturo, la quale non significa che l’uomo possa realiter vivere anticipatamente in ciò che non è ancora presente, quasi anticipando se stesso; l’uomo non può affatto fare que­ sto. Ma l’anticipazione consiste invece nel fatto che l’uomo, con la coscienza, anticipa su quel presente a cui rimane legato per la sua esi­ stenza reale. Egli non può esperire o sentire immediatamente ciò che non è ancora comparso, ma lo può prevedere, presentire, attendere, e può prepararsi ad esso. Ciò non è poco. Ed è profondamente caratteri\ stico che l’uomo non solo sia capace dell’anticipazione in questo senso, ! ma viva essenzialmente anticipando anche con ciò che lo occupa sul ' momento e lo interessa attualmente. Perciò l’uomo nella sua vita è continuamente « colpito in anticipo ». S’avvicina inarrestabilmente a noi un accadere sempre nuovo di cui avremo esperienza immediata e che ci colpirà. Ciò che si avvicina è il futuro, proprio in quanto è ancora impendente. Ma ci colpisce appunto come tale: gli atti prospettivi-trascendenti non sono altro che le forme particolari del nostro abituale e universale essere rivolti a ciò che impen­ de in quanto tale. Ad esso è dato un enorme peso di realtà, prima ancora che diventi reale, dalla nostra impossibilità di sfuggire, di sottrarsi, di evadere dal flusso degli eventi e, insieme, dalla limitatezza delle nostre capacità di difendercene, di influenzarlo e di mutarlo contenutivamente. E tutto ciò dà contemporaneamente agli atti anticipativi il peso della testi­ monianza di realtà. Con tale situazione s’accorda di nuovo il fatto che anche la specie anticipativa della datità della realtà è tipicamente ineliminabile, mentre è assai lacunosa la conoscenza delle proprietà particolari del reale che im­ pende. Se si trattasse di conoscenza, tale fatto equivarrebbe ad una con­ traddizione — poiché ogni esserci è anche essere-così di qualcosa — ma l’attesa, il presentimento, il prepararsi non sono conoscenza.

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SEZ. II - GLI ATTI EMOZIONALI

b) L’anticipazione autentica. L’attesa e il prepararsi.

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Ciò è chiarissimo nell’atto dell’attesa a cui appartengono intima­ mente anche il prepararsi e l’essere pronto. Ciò chezimpend$ ha, ad ogni istante, una notevole prevalenza su ciò che è présente e che, per metà, ha già finito di esistere. Il grembo oscuro del futuro affascina lo sguar­ do: esso appare come la fonte inesauribile della buona e della cattiva fortuna. Ed è sempre quello che erompe da esso che ci capita addosso, ci sorprende e ci assale all’improvviso. La vita si adatta a questa situazione con l’attesa continua di ciò che sopraggiunge. In tale senso generale l’attesa non è affatto illudente, benché possa sempre errare riguardo al contenuto. L’attesa è continuamente giustificata dal fluire degli eventi, almeno in linea di principio, perché impendono sempre nuovi eventi. Noi siamo effettualmente « col­ piti in anticipo » da ciò che impende, così come nell’esperire e nel sen­ tire immediato siamo colpiti dal presente. L’attesa concerne il comparire di qualcosa di determinato, ma può deludere quanto alla determinatezza. Questa possibilità di inganno non sopprime del resto in essa il significato pieno dell’« esser colpito in anticipo». L’attesa, infatti, non solo «può» conoscere la propria pos­ sibilità di ingannarsi, ma la conosce effettivamente, e tale conoscenza le è essenziale. Quando attendiamo qualcosa di determinato, non ne abbiamo la certezza; e anche nel prepararci ad una realtà determinata che avanza verso di noi, siamo chiaramente consapevoli che essa può « eventualmente » presentarsi anche in modo diverso. Ciò significa che l’attesa considera effettivamente solo l’eventualità, e tiene conto quindi anche della possibilità di un esito diverso. L’attesa è perciò del tutto validamente fondata, anche quando la previsione sia ristrettissima o poggi, per esempio, su un’analogia este­ riore, di cui non si deve necessariamente essere consci. Noti si tratta qui infatti della conoscenza di ciò che impende: l’attesa determina il comportamento e non il sapere. La distinzione: tra l’evento atteso e quel­ lo che accade effettivamente — o, possiamo dire, tra gli oggetti intenzio­ nali e quelli reali dell’attesa —, non è data solamente dall’attuarsi del­ l’evento, e non è nemmeno stabilita dall’eventuale conoscenza che ac­ compagni l’attesa, ma è già implicita nella pura attesa in quanto tale. L’attesa ha in sé la coscienza della propria indeterminatezza e ne tiene conto. Ciò può avere una funzione essenziale anche nel disporsi e nel prepararsi; si può benissimo essere preparati a qualcosa che non si ritiene nemmeno molto probabile. È proprio nella indeterminatezza della aspettazione che viene chiaramente in luce la coscienza della realtà. Si

287 19 - La fondazione dell’ontologia

PARTE III - LA DATITA DELL’ESSERE REALE

tratta infatti solo di una indeterminatezza di contenuto, che è sempre accompagnata dalla certezza ben maggiore che il corso degli eventi apporterà la determinatezza piena e irrevocabile. D’altra parte, la stretta connessione dell’attesa e del prepararsi ri­ vela ancora un altro aspetto del rapporto con ciò che impende. Il pre­ pararsi e, soprattutto, l’essere pronto a ciò che sopravviene, sono già un interiore e reale provvedere in merito; non sono quindi semplicemente un tener conto di ciò che sopravviene, ma anche un prendere posizione per il suo apparire, un cercar riparo, per così dire, contro la sua forza, o un dar avvio ad una resistenza autoanticipantesi. Diventa qui del tutto tangibile la realtà dell’« essere colpito in anticipo ». L’uomo ha. in esso una specie di istanza protettiva, in cui trova un limite il suo essere in balìa al flusso del divenire. Mediante il suo essere colpito in anticipo e la sua capacità di prepararsi l’uomo si adatta all’assalto impetuoso di ciò che sopraggiunge assai meglio di quanto potrebbe fare con una resi­ stenza rigida. Egli riesce ad adattarsi flessibilmente nei rapporti reali sempre nuovi; tuttavia vi riesce solo perché, essendo colpito in anticipo, può anticipare l’effettivo essere colpito e attenuarne la violenza tenendosi pronto di fronte ad essa. Nell’atto prospettivo dell’aspettazione è così implicita una testimo­ nianza di realtà di importanza del tutto singolare, quale non poteva apparire ad un primo sguardo. Questo atto si rivela come un modo alta­ mente reale dell’adattamento dell’uomo alla vita, del suo dominio di quegli stessi rapporti reali sopravvenienti, che sono indicati alla coscien­ za dall’attesa. Ma nella, necessità di dover acquistare questo dominio è implicita tutta la durezza' del reale.

c) Forme secondarie del presentire. ! Nella connessione degli atti anticipanti vanno considerati anche il presentimento e il sospetto istintivo. Essi si distinguono dall’attesa e dal prepararsi per la loro indeterminatezza, il loro carattere vago, l’aspetto fluttuante delle apparenze suscitate, la forte illusorietà, l’inter­ vento del gioco di fantasia e della soggettività, cioè, in breve, per la loro mancanza di fondatezza. In questi atti il contatto contenutivo con il reale viene facilmente perduto e cede il posto all’illusione. Ma in tal modo non si considerano esattamente questi atti da un punto di vista ontologico. Almeno in un punto essi sono e restano fon­ dati: nell’essere in generale un contatto con ciò che impende irresisti­ bilmente. Su questo punto essi non ingannano, ma si fondano piuttosto

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SEZ. II - GLI ATTI EMOZIONALI

sulla certezza; sono anzi la testimonianza emozionale più ampiamente presagente di questa certezza, una testimonianza nella coscienza della realtà di ciò che impende, anteriore alla stessa aspettazione determinata. In questi atti vi è l’oscuro annuncio degli eventi prima ch’essi divengano percettibili, vi è, per così dire, la loro ombra proiettata in avanti nella coscienza; è vero che ciò che impende resta deformato nella sua ombra, ma il suo impendere è tuttavia certo. Nel prcsentirjmito .la testimonianza di realtL.è_-tale_da-valere appieno solopcLÌ’« esserci» dFciò chéTsopraggiunge,. mentre resta vaga e confusa per il suo essere-così. E nella confusione si esprime appunto quella relatività di esserci ed essere-così, che abbiamo discusso in prece­ denza. E la coscienza, infatti, che separa ciò che è onticamente insepa­ rabile.

Per gli stessi motivi dpbbiamo considerare anche la curiosità, in quanto è curiosità del futuroi Anch’essa infatti è una forma del nostro vivere guardando a ciòcche7 impende, benché la non serietà della sua impostazioneTa”distmgua completamente da quegli atti che accolgono nell’anticipazione ciò che impende assieme alla fatalità dell’accadere. Benché la curiosità provenga dalla insoddisfazione del presente e dalla vacuità della noia, il suo fondamento è quel comportamento anticipante, quell’aprirsi della coscienza verso il futuro che sono propri anche del­ l’attesa e dell’apprensione. Nella curiosità però essi hanno il superfi­ ciale tono emozionale della bramosia di sensazioni, e quasi dell’abituale ficcare il naso nel futuro. Per quanto ciò possa sembrare paradossale, la curiosità ha un fon­ damento ancor più solido degli altri atti prospettivi: l’indeterminatezza del contenuto è in essa non solo assoluta, ma ne è addirittura l’elemento essenziale. Non solo la curiosità non si attende e non presagisce ciò che è determinato, ma non vuole nemmeno presagirlo. In generale il suo presentimento non riguarda il contenuto. Essa guarda a ciò che accade benché non voluto, mira a ciò che disillude, all’essere sorpreso: la curio­ sità vuol farsi sorprendere. Essa vuole il colpo di fulmine a ciel sereno, e lo può volere perché non tiene conto della serietà dell’« essere col­ pito». La caratteristica della curiosità è la sua completa certezza circa il proprio oggetto: essa gioca a colpo sicuro, poiché ci sovrastano sem­ pre nuovi eventi. Tutte le incertezze nello sguardo verso il futuro con­ cernono l’essere-così di ciò che impende; ma nella curiosità non viene anticipato l’essere-così, bensì solo l’impendere stesso. L’« essere colpito in anticipo » acquista la forma più adeguata alla previsione umana pro­ prio nell’attesa di ciò che è inaspettato. 289

CAPITOLO XXX

AUTENTICI ATTI EMOZIONALI DI TIPO PROSPETTIVO

a) La trascendenza dell’atto nell’anticipazione emozionale-selettiva.

L’attesa e le sue sottospecie, sino alla curiosità, sono neutrali nel tono emotivo. Non così è invece pervia speranza, il timore e le loro specificazioni. Al gruppo di atti della speranza appartengono, per esem­ pio, la tensione vitale verso ciò a cui si aspira, l’aprirsi di una prospet­ tiva, il rallegrarsi all’idea di qualcosa, l’atto del pregustare, che si ri­ solve già nel presente; e tra gli atti appartenenti al gruppo del timore possiamo annoverare le varie sfumature dell’apprensione e dell’inquie­ tudine, dell’ansia e dell’autentica angoscia. A questi due gruppi di atti è comune il momento fondamentale dell’attesa; la novità è però rappresentata dall’accentuazione valutativoselettiva. In atti di tale specie c’è sempre la certezza di ciò che impende in quanto tale, e in questa certezza consiste anche per essi la datità della realtà e la schiettezza della loro trascendenza. La loro accentua­ zione valutativa non è invece soltanto un tono emotivo dell’« essere colpito in anticipo », ma anche un principio della scelta soggettiva. Gli atti di speranza anticipano la visione di ciò che è desiderato, isolano in anticipo quell’aspetto della realtà impendente che ha valore e si atten­ gono unilateralmente ad esso. Gli atti di timore hanno la tendenza ad anticipare nel loro campo visivo ciò che è indesiderato, ostile o addirit­ tura minaccioso; isolano l’aspetto contrario al valore della realtà im­ pendente - quasi affascinati dal suo inarrestabile approssimarsi - e su questo aspetto si affisano in modo unilaterale. A questa caratteristica corrisponde, per i primi, il tono emotivo del « sentirsi sollevato » e, per i secondi, del « sentirsi oppresso ». E l’intero atteggiamento della vita umana diventa ottimistico o pessimistico secondo il predominare degli atti dell’una o dell’altra specie. È evidente che questo momento emozionale-selettivo introduce nei due gruppi di atti un elemento assai soggettivo, infondato, addirittura illusorio. Non va tuttavia dimenticato l’elemento di fondatezza di tali atti: il loro tener conto di ciò che impende come di qualcosa eminen­ temente reale, indipendentemente dal suo essere desiderato o temuto e minaccioso; se ne tiene conto infatti come di una realtà indipendente da noi e abbiamo consapevolezza di questa indipendenza. Ciò che im­ pende appare senza dubbio sia al timore sia alla speranza come qual-

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SEZ. II - GLI ATTI EMOZIONALI

cosa che ubbidisce ad una normatività, ad una consequenzialità o ad una necessità che le sono proprie e sussistono in sé - accada o no ciò che è atteso (temuto, sperato) - e non può in alcun modo essere favorito o allontanato dal nostro atto di speranza, di desiderio o di timore. La consapevolezza di questa indipendenza è la stessa del rapporto gnoseologico con il futuro; ma in questi atti ha ben altra importanza ed è determinante il nostro tono emotivo. Di fronte all’oggetto del de­ siderio e della speranza l’uomo sente fortemente la ristrettezza dei li­ miti della propria forza; li «esperisce immediatamente» come inca­ pacità di correggere la fortuna e di difendersi dalla sventura. E di fronte a ciò che incombe minaccioso, questo senso di incapacità può crescere sino a diventare schiacciante. Il « fondamento autentico » di questi atti, la loro caratteristica e ineliminabile testimonianza di realtà, senza pregiudizio della loro sog­ gettività, consiste proprio nel tono emotivo della incapacità. Non si-tratta però della testimonianza dell’essere in sé di una determinata realtà temuta o sperata, ma dell’essere in sé dell’intero flusso degli eventi, in quanto ci troviamo in esso e ne siamo in balia. Questo tono emotivo è altissimo nel timore, in cui sentiamo - e questo sentire è « fondato » l’estrema fatalità dell’indifferenza della realtà impendente per il nostro essere colpiti da essa. Negli atti di timore l’uomo ha la più profonda sensazione del peso di realtà di ciò che incombe; sensazione che diventa ancor più trasparente, se possibile, nell’atteggiamento del « tenersi pron­ to» ch’egli contrappone a ciò che è temuto. Con tale atteggiamento egli compie già nel momento del suo essere colpito in anticipo il reale rivolgimento interiore e con il prepararsi equilibra se stesso contro il peso della realtà in sé che avanza irresistibile.

b) Il computo della possibilità favorevole.

Anche nell’atteggiamento ottimistico non manca tuttavia la coscien­ za dell’indifferenza ontica di ciò che impende. In ogni atto di pura speranza c’è la consapevolezza assai chiara che ciò ch’è sperato è solo una « possibilità » (Chance) e che la decisione su essa non dipende da noi. L’ottimismo dell’atto di speranza e il suo valore vitale positivo non consistono in un accrescimento soggettivo della possibilità - sì da avere una sicura fiducia del suo avverarsi -, e non sono quindi nemmeno annullati dalla « delusione della speranza » ; la delusione riguarda infat­ ti solo la cecità di chi si lascia abbagliare. L’aspetto positivo della spe­ ranza consiste puramente nel tener conto della possibilità favorevole 291

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PARTE III - LA DATITA DELL’ESSERE REALE

in quanto tale, nella pennellata di luce con cui la speranza rischiara l’oscuro presente. Sotto questo aspetto anche il pregustare un piacere è un atto fondato e per niente illusorio: esso pure è già schietta gioia e soddisfazione. L’alto pathos che spesso si connette con la speranza intesa come forza morale ha il suo senso autentico solo in questo aspetto positivo e non in una superstiziosa garanzia dell’attuazione effettiva di ciò che è sperato. La rappresentazione popolare che il persistere nella speranza sia un merito che potrebbe ottenere la realizzazione come ricompensa, è un’immagine che spoglia la speranza del suo schietto carattere di tra­ scendenza, poiché le toglie la consapevolezza che la decisione circa il suo avverarsi o il suo non avverarsi non dipende da essa; è un’immagine che fa credere ad un influsso della speranza sul corso degli eventi ed eleva oscuramente la sua essenza ad attività immaginaria, ad una specie di azione metafisica; in tal modo quella rappresentazione non permette alla speranza di riconoscersi e non fa altro che esporla alla grande de­ lusione della vita, al riconoscimento successivo che la speranza s’è presa gioco di se stessa. Possiamo dire, benché questa considerazione non rientri nel nostro argomento, che anche il disconoscimento del carattere morale della speranza come forza nella vita, dipende dalla stessa distorsione della sua essenza. Con l’annientamento della trascendenza dell’atto l’uomo è privato nell’avversità della forza dell’affermazione vitale. Non può in­ fatti non abbatterlo il fallimento di una speranza che si attacca rigida­ mente ad una possibilità determinata e crede in tal modo di forzarla. La stessa situazione, rimpicciolita e quasi portata alla banalità, si ritrova in tutte le « speculazioni » sulla possibilità favorevole, per esem­ pio, nei giochi d’azzardo, nel principio su cui si basano le lotterie, e an­ che in certi tipi della speculazione in borsa. Nel giocatore non accanito c’è, come tono emotivo, la consapevolezza dell’indifferenza del « caso » che decide nei confronti del suo desiderio e della sua speranza. Sotto questo aspetto egli assume un atteggiamento che è anche del tutto fon­ dato. Solo quando è afferrato dalla passione del gioco d’azzardo egli per­ de questa consapevolezza e si illude di poter forzare il « caso ». Ma al­ lora il suo comportamento non è più una pura « speculazione ». Il suo ingannarsi si identifica addirittura, da un punto di vista soggettivo, con l’atto del barare. C’è infatti psicologicamente un breve passo da questo autoinganno all’inganno dell’avversario di gioco, cioè all’azione auten­ tica del barare.

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SEZ. II - GLI ATTI EMOZIONALI

c) Il momento illusorio nell’«, essere colpito in anticipo » e il limite del­ la trascendenza dell’atto.

Ciò che contrasta alla datità della realtà negli atti prospettivi è il momento di illusorietà che inerisce ad essi. La speranza e la pregusta­ zione di un piacere inclinano a dipingere tutto in rosa, mentre il ti­ more e l’angoscia tendono a vedere tutto nero. Anche il presentimento neutrale e il sospetto immediato tendono all’eccesso. Questi atti si di­ stinguono per la loro interna labilità e infondatezza (Unreellitäi) dalla semplice attesa, dal prepararsi, e da tutti quegli atti che tengono pura­ mente conto di ciò che sopraggiunge come di una realtà sconosciuta. Tanto nello sperare quanto nel temere c’è sempre un’avida ricerca di presentimenti, ma anche, al tempo stesso, la tendenza a disconoscere ciò che è l’aspetto «fondato» del presentimento: cioè, il fatto che esso tiene conto legittimamente solo del sopraggiungere di una realtà incombente. La speranza considera il presentimento come una specie di garanzia per ciò che si è fantasticato, e soggiace perciò all’illusione dei sogni. L’angoscia è pienamente affascinata dal cattivo presentimento che si è autogenerato. Anch’essa soggiace alle false apparenze, con la sola differenza dei presagi nefasti; il suo sopportare e consumarsi nel­ l’irreale che non diventa mai effettuale, può ben essere un sopportare realissimo. Si scorge qui chiaramente il limite della trascendenza dell’atto. Con il loro elemento illusorio questi atti - in quanto vi soggiacciano - sono rigettati nell’« infondatezza » e perdono il valore del riferimento alla realtà. L’illusipnc significa in generale che è perduto il .contatto con l’ente in sé; essa è nel campo degli atti emozionali ciò che la fantasia è in 'quello degli atti rappresentativi. La fantasia corre sbrigliata, senza un oggetto reale; e così fa anche l’illusione: anch’essa ha solo oggetti inten­ zionali, autoprodotti. E come ciò ch’è fantastico non ha alcun valore gnoseologico nel campo rappresentativo, così ciò che è illusorio non ha alcun valore ontico. Si tratta di qualcosa di ben diverso dal semplice scarto tra oggetto intenzionale e oggetto reale. Un simile scarto c’è nell’errore, nell’in­ ganno, nella inadeguatezza, nella divergenza tra ciò che si attende e ciò che capita; esso non elimina la trascendenza dell’atto, il riferimento alla realtà, bensì la limita solo contenutivamente. Invece nella fantasia sbrigliata e nell’illusione è dissolto l’intero rapporto. Tutte e due non rivolgono più la loro intenzione al flusso dell’accadere reale: se ne sono emancipate. Con il loro lato oggettivo non sono legate a nulla, e non 293

PARTE III - LA DATITÀ DELL’ESSERE REALE

ne ricevono quindi alcuna rettificazione. Esse non tengono più nem­ meno conto del reale e della sua preponderanza, autonomia e indiffe­ renza per l’attività degli atti. Al contrario, esse fanno valere da parte loro questa indifferenza nei confronti dell’ente in sé, come se questo fosse eliminato in tal modo insieme con il « venir colpiti » da esso. La fantasia ne ha certo il diritto : essa può ben permettersi l’indifferenza quando conduce il proprio gioco per se stesso e non lo spaccia per conoscenza. Per l’illusione ciò non è invece possibile: ad essa manca l’innocenza del giocare e la consapevo­ lezza del proprio carattere non impegnativo. Puntando sull’indifferenza nei confronti del reale essa perde necessariamente nella vita. L’indiffe­ renza è un autoinganno, che l’illusione non può effettivamente permet­ tersi. Il flusso dell’accadere reale passa altrettanto indifferente sopra le false apparenze quanto sopra le chimere e i timori dell’illusione e li seppellisce nella loro stessa nullità.

d) lllusorietà metafisica e argomentazione illusoria.

Va ancora osservata a questo proposito una caratteristica dell’an­ goscia che è esposta all’illusorietà in misura assai maggiore della spe­ ranza, della gioia anticipata o del timore. Essa è, tra tutti gli atti pro­ spettivi, quello più illusorio e ontologicamente ambiguo. Nella vita ci si\angoscia per lo più senza un motivo per temere veramente — ad esem­ pio;-quando una persona aspettata si fa attendere un po’ a lungo —, si fanno elucubrazioni su ciò che può essere successo e si rimane sugge­ stionati da esse; la possibilità improbabile prende forma. L’angoscia è immaginosa, eccessiva e indocile nel suo estremismo; per quanto essa esperimenti spesso la propria vanità, persiste tuttavia nella sua autoillu­ sione. La sua essenza non consiste nel tener conto di ciò che incombe effettivamente, sia pure nella sua indeterminatezza, ma nel turbamento interno dell’equilibrio e nella costrizione soggettiva ad autotormentarsi. Non si può dire che l’angoscia sia senza oggetto, poiché è manife­ stamente volta a ciò che incombe, e ben fondata è l’indeterminatezza con cui ciò le appare. La «mancanza di oggetto» che si rimprovera all’angoscia è qualcosa di ben diverso: è la perdita di quel contatto con ciò che realmente sopravviene, di cui è capace la schietta attesa, è l’in­ clinazione sia a falsare la previsione sia alla creazione puramente sog­ gettiva di immagini e di rappresentazioni che vengono senza ritegno sostituite a ciò che è effettivamente prevedibile (e forse anche effetti­ vamente da temere). Il fatto caratteristico dell’angoscia è quindi che

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in essa è rotto quel contatto effettivo con ciò che incombe e di cui l’uomo è pienamente capace. La trascendenza dell’atto e il riferimento alla realtà sono eliminati. E ben noto che l’inganno e il tormento dell’angoscia si estendono sino alle sconfinate prospettive metafisiche: anche qui, come nella vita, essa distrugge la tranquilla considerazione del reale. E questo è il punto in cui anche l’ontologia deve guardarsi dal falsamento che è sempre nuovamente introdotto nel suo àmbito problematico da metafisici che amano tormentarsi. Sin dall’antichità, per esempio, l’angoscia degli uomini di fronte alla morte è stata sfruttata senza scrupoli da fanatici speculativi. Invece di distogliere da essa l’insipiente, si acuì tale angoscia e la si nutrì con le più ardite rappresentazioni dell’al di là. E tuttavia è evidente che qui manca ogni contatto autentico con ciò che sopravviene, ogni mo­ tivo per ritenere che la morte sia in qualche modo particolarmente im­ portante per gli uomini. Essa non lo è affatto come puro cessare, e noi non sappiamo altro di essa. La morte deve naturalmente essere spaven­ tosa per chi regola esclusivamente la vita sull’importanza della propria persona e considera il mondo puramente come il suo: l’assurdità abi­ tuale del ritenersi importante {Sich-selbst-Wichtignehmerì) si vendica sull’io-uomo (Ich-Menschen). La morte diventa relativamente indille- / rente per chi si vede, nell’impostazione ontica non falsata, come un / individuo senza importanza tra altri individui, come una goccia nel flusso universale dell’accadere del mondo, sia in quello storico sia in । (quello cosmico che è ancor più ampio, e sa rassegnarsi con reverenza ~ di fronte a ciò che è grande. Questo è l’atteggiamento naturale del- ; l’uomo quando è ancora interamente radicato nella vita. Il dare impor- j tanza alla propria esistenza è già sempre uno sradicarsi, un elevare arti- ; ficialmente l’io ad esistente unico, o è addirittura un’intimidazione su­ perstiziosa di chi si è moralmente sbandato. Ogni angoscia di fronte alla morte — in quanto non sia l’opposizione vitale al dissolvimento — è una pena voluta e suggerita. Il funambolismo metafisico dell’angoscia, acuita dalla immoralità dello sregolato autotormentarsi, è la fonte inesauribile di infiniti errori. ' Sorprende il vedere come pensatori seri si abbandonino a questo funam­ bolismo nell’elaborazione di teorie filosofiche ed erigano l’angoscia a principio di ciò che è autentico e caratteristico dell’uomo (*). (*) Così Martin \Heidegger nella sua famosissima analisi dell’angoscia·, e pro­ prio con espressa predilezione per l’angoscia di fronte alla morte. In ciò egli segue il più infelice e raffinato di tutti gli autotormentatori che la storia conosca: Sören Kierkegaard.

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PARTE III - LA DATITA DELL’ESSERE REALE

L’angoscia è proprio la peggior guida che si possa immaginare verso ciò che è autentico e caratteristico. Essa soggiace per principio ad ogni inganno, sia della tradizione sia delle illusioni di cui è essa stessa responsabile. Chi è pieno d’angoscia è senz’altro incapace di una visione sobria della vita e dell’ente quale esso è. Egli è predisposto a cadere in ogni inganno sia nella vita sia nella teoria, e da un punto di vista filosofico viene ad impelagarsi irrimediabilmente nella riflessione, sbar­ randosi da cima a fondo la strada del ritorno alla intentio recto, e alla impostazione del pensiero ontologico.

CAPITOLO XXXI

ATTI EMOZIONALI-SPONTANEI

a) Inattività e il suo tipo di trascendenza.

L’uomo non vive solo nell’aspettazione del futuro, sia che si pre­ pari a ciò ch’è importante o abbia avidità di sensazioni futili, sia che speri o tema.yEgli vive anche anticipando attivamente il futuro. Il suo desiderare, il suo volere/il suo fare e il suo agire e, in germe, già il suo atteggiarsi inferiore e il suo sentimento sono un’anticipazione e una predeterminazione. Questa è una legge essenziale di tali atti. Ciò che è già fatto, che è com’è, non è più aperto alla decisione e all’intervento attivo dell’uomo, al quale sono quindi chiusi sia il pas­ sato, che egli ha esperito, sia l’autentico presente ch’egli esperisce ad ogni istante. Entrambi sono già pienamente formati in sé, e nessuna forza del mondo li può mutare. L’uomo non può più influenzare ciò che già è accaduto e avvenuto. Ma può influenzare invece entro certi limiti ciò che non è ancora stato, poiché può inserire la sua decisione nella catena delle condizioni che lo costituiscono mentre si approssima. All’iniziativa dell’uomo è aperto solo il futuro. E questo il motivo per cui tutti gli atti attivi (spontanei) sono orien­ tati prospetticamente, benché lo siano in maniera del tutto diversa dagli atti anticipanti, perché questi ultimi sono ancora completamente recet­ tivi e contrassegnati dall’«essere colpito in anticipo». Nel volere e nell’agire non c’è un essere colpito in anticipo e nemmeno un’accetta­ zione, un aprirsi passivo. Essi costituiscono piuttosto il limite dell’« es­ sere in balia» e della fatalità; essi sono la forza che l’uomo di__per sé

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contrappone alia propria debolezza, e costituiscono veramente l’aspetto meraviglioso dell’essere umano: muovono ciò che incombe già durante il suo approssimarsi, quasi da lontano; e lo dominano nei limiti della previsione umana e dell’umana capacità. Questa situazione è invero quanto mai sorprendente. Ciò che è espe­ ribile nel flusso dell’accadere non è più dominabile; e ciò che in questo flusso è ancora dominabile - - e proprio finché è tale - non è esperibile. Questo è il significato dell’immagine del velo che per noi copre il fu­ turo. Ma se il velo fosse del tutto impenetrabile ci sarebbe tolta ogni possibilità di vivere anticipando e, con essa, ogni possibilità di dirigerci e di agire. Saremmo completamente in balia dell’accadere cosmico. Il piccolo strappo nel velo, la previsione strettamente limitata dell’uo­ mo — congiuntamente con la sua capacità di agire, cioè, di realizzare lo scopo proposto - sottrae l’uomo alla fatalità. È evidente che gli atti emozionali-spontanei sono altrettanto tra­ scendenti quanto quelli di esperienza immediata e di attesa. Ma la loro trascendenza è di tipo diverso: essa non consiste nella datità del reale, bensì nella tendenza a produrlo. Non è infatti la persona agente che viene colpita in essi, ma è piuttosto qualcosa del suo cerchio vitale che viene colpito dalla persona. Se in questi atti si trattasse solo dello scopo in quanto posto nella coscienza, sarebbe certo possibile porre in dubbio la loro trascendenza; ma si tratta invece senz’altro della realizzazione dello scopo. L’atto di volontà si rivolge solo a ciò che è ottenibile, e per cui quindi scorge i mezzi di realizzazione, non già a ciò che è vagheg­ giato e di cui non è capace. In tal modo esso si distingue dai desideri e dalle aspirazioni impotenti. È vero che l’atto di volontà può ingan­ narsi sulla sua capacità; però, anche quando si inganna tiene conto ori­ ginariamente della possibilità reale di raggiungere lo scopo, e rivela così chiaramente la propria trascendenza. Possiamo desiderare arden­ temente anche l’impossibile, ma è follia volerlo quando se ne conosce l’impossibilità. Non tutti gli atti di volontà trapassano nell’azione, ma tutti hanno però la tendenza a farlo. Questa tendenza è essenziale all’atto di vo­ lontà, che senza essa non sarebbe tale. Nella volontà la trascendenza reale dell’atto è già attuata in via preliminare, e non deve attendere la realizzazione di ciò che è voluto. E, analogamente, anche Jasfera reale a cui la volontà si rivolge, viene sempre prescelta in base ai mezzi della possibile realizzazione. Quanto più determinata e prudente è que­ sta selezione, tanto più evidentemente spicca sin dall’inizio la trascen­ denza dell’atto teleologico; sulla immanenza impotente del desiderio sognante.

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PARTE III - LA DATITÀ DELL’ESSERE REALE

b) Spontaneità immediata e recettività mediata.

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La trascendenza degli atti attivi è quindi ancor più importante di quella degli atti recettivi: è una trascendenza reale percepibile imme­ diatamente, una forza, da guidare e da esercitare, che rivela il suo peso di realtà nel mondo intervenendo in esso. La volontà, l’azione e tutti gli atti affini si inseriscono perciò in modo omogeneo nella connessione reale degli accadimenti e sono al tempo stesso consapevolezza di que­ sto inserirsi. L’accento cade in essi sulla .consapevolezza. L’inserimento nella connessione reale degli avvenimenti non è infatti loro proprietà esclusiva, poiché tutti gli atti sono già fondamentalmente nella connes­ sione, essendoci sempre in essi una reazione al reale. L’inserirsi dell’atto di volontà e di azione nella connessione reale ha tuttavia un’evidenza palmare per la coscienza dell’atto. Il soggetto agente non può immagi­ nare di starsene isolato e senza alcun mondo « su » cui agire. L’azione è il suo modo di partecipare al mondo. E si tratta di una partecipa­ zione attualmente consapevole e gravante di responsabilità la coscienza: essa è assolutamente insopprimibile. Poiché il mondo reale a cui la volontà e l’azione sanno di riferirsi è lo stesso mondo reale a cui si trovano rapportati anche gli atti recet­ tivi e il conoscere, la trascendenza reale dell’atto di volontà attesta ancora una volta con forza singolare l’essere in sé di questo unico mondo. Questa datità dell’essere in sé non dipende affatto tuttavia soltanto dall’attività in quanto tale, ma dipende ancor più dalla recettività me­ diata che accompagna tutti gli atti spontanei ed è addirittura implicata da essi. Ogni « essere dato » ha la forma della recettività e - negli atti emozionali - dell’« essere colpito ». Si possono infatti anche indicare in realtà tre momenti assai diversi della recettività che accompagna gli atti spontanei, momenti in cui il reale è dato emozionalmente a colui che vuole ed agisce. Va qui ricordata innanzitutto l’opposizione del reale all’attività, op­ posizione che costituisce - come fu mostrato in precedenza - una forma speciale dell’esperienza immediata. È ora possibile esaminare più a fon­ do ed esaustivamente questo fenomeno in base alla provata trascen­ denza reale degli atti spontanei. Ogni azione dell’uomo urta in una connessione reale che possiede già la sua salda determinatezza, e in essa trova i mezzi, ma anche i confini, di ciò che le è possibile. In questa connessione si può realiz­ zare solo ciò per cui si hanno i mezzi. Non sono soltanto il successo e l’insuccesso del risultato a decidere della realizzabilità dei fini umani;

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in verità, si fa già un bilancio dei mezzi nello stesso atto di volontà, e corrispondentemente ad essi — nei limiti del prevedibile — si scelgono i fini in base alla raggiungibilità. Quando la realizzazione comprende una lunga catena di azioni sin­ gole, si svolge in una lotta continua con il caso mutevole: si attua ten­ tando e ritentando, con continue prove, progressi, insuccessi e anynaestramenti. È un’avanzata in cui ogni passo è compiuto lottando con la resistenza del reale. Ciò che noi chiamiamo comunemente «lavoro»,, senza distinguerne il tipo, è una faticosa conquista di questcNgenerei Il lavoro non è costituito solo dall’esecuzione; vi appartiene anche quel modo caratteristico dell’esperienza immediata senza cui l’esecu­ zione non sarebbe possibile. L’uomo « esperisce » la cosa a cui lavora sempre soltanto nel corso del lavoro. Ma la cosa gli si rivela nella resi­ stenza che oppone, e quindi appunto in ciò con cui pare sottrarglisi. Nella resistenza della cosa l’uomo perviene a sentire il peso della sua determinatezza. Egli lotta con le leggi che le sono proprie: e in questa esperienza riesce a conquistarla e impara a padroneggiarla. Nella resistenza della cosa non si esperisce solo la durezza della sua realtà, ma anche la forza propria dell’uomo che può acquistarne il dominio. Anche questa forza, sebbene consista nel penetrare, nell’intendere e nell’adattarsi, è una forza reale, ed è reale l’esperienza che l’uomo ha di essa.

c) La persona « è colpita di rimando » nella sua azione. L’attività nel volere e nell’agire ' non è limitata alle cose come og­ getti reali, ma s( estende alle persóne. Anche il lavoro non è fatto per amore delle cose,e sulsuosfondo vi è l’interesse per le persone. In senso stretto l’agire è sempre completamente rivolto alle persone e con­ tro esse. Il « secondo » e autentico oggetto reale dell’azione, del volere e anche del sentimento, è la persona altrui, che è colpita immediata­ mente in questi atti. Su tale situazione si fonda il secondo momento della datità di realtà negli atti spontanei. Naturalmente, ad un primo sguardo pare il contra­ rio. Chi è colpito non è colui che agisce, ma la persona a cui l’azione è rivolta; colui che agisce, così pare, può esperire al massimo la resi­ stenza dell’altra persona, la sua difesa, la sua reazione. Ma qui non è in questione questo fatto che appartiene all’esperienza vissuta della resistenza del reale. La persona che agisce esperisce tuttavia ancora in un modo diverso l’altra persona come oggetto reale.

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PARTE III - LA DATITA DELL’ESSERE REALE

L’agente, proprio per il fatto che è l’altro ad essere colpito, esperisce nella sua azione che azione e volontà vengono riflesse dalla persona colpita sulla sua propria persona e che hanno la particolare forza di « colpirla » in modo assai notevole e del tutto inconfondibile, di « se­ gnarla», di imprimervi, in certo modo, un marchio. Sono i momenti del valore e del disvalore morale, apparentemente imponderabili e ra­ dicati di là dal reale, che ricadono su colui che agisce e vengono poi ad inerirgli come suoi propri, sia che li accetti o che li rifiuti, sia che li riconosca o che non li riconosca. Qui non si tratta della consistenza ideale dei valori, bensì del soddisfacimento e dell’inadempimento, nel comportamento reale dell’uomo, dell’istanza ideale che proviene da essi. Perciò nel mondo della effettualità umana i valori hanno un peso reale che può crescere enormemente e superare qualsiasi durezza este­ riore della realtà. Questo peso reale non consiste nella concezione che l’uomo ha dell’aver valore e dell’aver disvalore, ma fonda piuttosto ogni conce­ zione e ogni interpretazione. È un fenomeno elementare insopprimi­ bile che l’azione e la volontà esperiscono il loro marchio assiologico at­ traverso ciò che esse fanno a persone reali nel mondo reale, e il fare non consiste solo nell’accadere esteriore (nel risultato), ma è già impli­ cito nell’intenzione. Il « fare », infatti, già nell’intenzione di chi agisce e vuole fa sentire il suo peso sul modo in cui le persone «vengono col­ pite ». Il peso ricade su chi ha voluto in quel tal modo, grava su di lui, lo « segna », lo colpisce di rimando : egli non può impedire in alcun modo che ricada su lui - come colpa o come merito - ciò che ha vo­ luto; il ricadere si attua senza la sua partecipazione, come maledizione o benedizione della sua azione. Esso infattti sussiste in sé e non dipende dalla sua convinzione e dal giudizio assiologico del prossimo. Si tratta di un inevitabile «essere colpito di rimando» (Rücl^betroffensein} non meno autentico e reale del diretto « essere colpito » dall’evento este­ riore. Esso « sopravviene » al responsabile come conseguenza interiore dell’azione; e il responsabile 1’«esperisce» interiormente in modo non diverso da come esperisce esteriormente le conseguenze visibili della sua azione. A questa caratteristica dell’essere colpito di rimando corri­ sponde anche il modo con cui l’uomo lo sente e ne ha esperienza vis­ suta: egli lo sente cioè come qualcosa di indipendente dal suo sentire, come qualcosa che irrompe fatalmente su lui in quanto responsabile, che lo assale ed è, in certo modo, spietato: l’essere colpito di rimando cade su lui come qualcosa che egli deve portare, di cui non può libe­ rarsi anche se intimamente lo opprime e l’affligge.

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In breve, ciò significa che quando siamo colpiti di rimando ab­ biamo esperienza immediata di ciò che irrompe su noi, e da cui siamo colpiti nel nostro volere e agire, come di qualcosa eminentemente reale.

d) Il peso di realtà delle persone per le persone. Se dipendesse solo dalle conseguenze esteriori delle azioni, l’es­ sere colpito moralmente di rimando sarebbe soltanto una forma parti­ colare dell’esperienza immediata, e concorderebbe in tal modo con la concezione propria della « morale del risultato ». Il vero peso dell’ethos è però radicato più profondamente: nel primo atteggiarsi dell’iniziativa, nell’atto embrionale del volere, nella disposizione interiore. Già il sen­ timento come tale, da cui scaturiscono il fare e il non fare, mostra pri­ ma di qualsiasi volontà determinata la trascendenza dell’atto con cui si rivolge all’altra persona. Il sentimento è originariamente, già nel suo primo proporsi, contrassegnato dal valore e dal disvalore morale, e viene colpito di rimando da ciò che può conseguire da esso nel momento della decisione. E non può essere diversamente, poiché in esso si anticipa 1’« essere colpito » dell’altra persona già nel primo atteggiarsi della pos­ sibile intenzione. Risulta così dal punto di vista pratico - che nella vita è quello decisivo ■- che l’importanza ontica delle persone per le persone è più attuale ed è sentita più immediatamente di quella delle cose e dei fatti. Dalle cose e dal nostro operare con esse noi non siamo colpiti di ri­ mando finché un’altra persona non viene colpita assieme con le cose dal nostro operare. E ciò collima perfettamente con il fatto che nessuna teoria scettica o idealistica ha osato contestare la realtà delle persone allo stesso modo come si è fatto per le cose. Questo riconoscimento dell’importanza ontica delle persone ha già la sua storia nell’epoca moderna. Ci sono teorie che per il suo influssi attribuiscono solo alle persone quell'autentica realtà che negano alle cose. Viene così ipostatizzata in una differenza ontica quella che è una differenza di datità: si tratta di un errore che abbiamo già incontrar« diverse volte. Contro di esso va affermato che le persone e i loro atti non hanno una «realtà» più alta delle cose e dei rapporti cosali; la sola differenza è che le persone appartengono ad un piano superiore del reale, hanno una pienezza d’essere e di struttura incomparabilmente più alta e sono entità contenutìvamente superiori. Esse posseggono quin­ di per noi una specie assai più importante di « datità della realtà », in quanto la datità non dipende dalla maniera d’essere, bensì dalla rile­

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PARTE III - LA DATITÀ DELL’ESSERE REALE

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vanza pratica. La maniera d’essere è però la stessa, poiché persone e cose sussistono comunemente assieme in un mondo e in un tempo reali, e appunto per questa connessione ontica portano su un unico piano la molteplicità di situazioni che sono sempre condizionate tanto dalle cose quanto dalle persone. II fenomeno ontologico fondamentale della realtà come tale è l’unità della maniera d’essere nella varietà delle altezze ontiche e della loro importanza per l’uomo. Il fondamento della diversità di datità consiste nella ricchezza incomparabilmente maggiore del legame emozionale tra persona e persona, nell’infinita ricchezza e preponderanza degli atti emozionali-trascendenti in cui questo legame si esplica. Noi non ab­ biamo legami di egual profondità e interiorità con le cose e con i loro rapporti. Per questo motivo lo scetticismo ha facilmente partita vinta quando riferisce solo alle cose quel rapporto di trascendenza che esso nega. Ma proprio in questo riferimento esclusivo consiste il suo errore: esso procede come se ci fosse un mondo reale delle cose che non fosse al tempo stesso il mondo delle persone e del loro operare con le cose in rapporto alle persone.

e) Frattura apparente della realtà. L’errore della teoria.

Lo scetticismo ignora il peso di realtà delle persone; il realismo della persona lo riconosce, ma ignora la sua insopprimibile connessione con il peso ontico delle cose. Entrambi sono incompleti e assurdi quan­ do si tiene presente la totalità della corrispondente connessione feno­ menica. Non si può concedere alle persone quella realtà che si nega alle cose e agli eventi: le persone sono troppo profondamente situate nella connessione reale degli eventi e colpite da essa da ogni lato. Se esse sono reali lo è anche il loro essere colpite. Ma allora è reale anche l’intera sfera in cui si svolge la loro vita e la loro lotta per il possesso, per i beni, per la potenza, e così via. Se le cose e gli eventi non sono reali, non lo è nemmeno Tesserne colpiti; e non sono allora reali nem­ meno le persone colpite. La realtà non è un privilegio ontico di esseri determinati e non cresce con la forma ontica, con l’organizzazione, con l’altezza del va­ lore. O essa si addice a tutto ciò che sorge e scompare nel tempo o non si addice a niente. È completamente assurdo ritenere che l’uomo sia più reale dell’aria che respira o, al contrario, che sia più reale l’aria; infatti lo stesso atto del respirare può solamente essere o un processo reale o un processo non reale. Nel primo caso sono reali sia l’uomo sia

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l’aria, nel secondo sono entrambi irreali. La frattura della realtà è l’er­ rore della teoria. La conseguenza da trarre è piuttosto la seguente: se nell’essere col­ piti di rimando nella persona propria si ha una datità insopprimibile delle altre persone col pieno peso del loro essere reale, questo peso si trasmette necessariamente all’intera sfera in cui si svolge la vita delle persone, e quindi alle cose, agli avvenimenti, ai rapporti, alle situazioni, in breve, all’intera connessione cosmica di cui la loro vita è una sezione. Tale conseguenza è, in fondo, il frutto di una saggezza assai sem­ plice. Come le cose sono incorporate nell’agire umano, così l’essere del­ l’uomo è incorporato nell’accadere cosale. Una pietra può cadere su un uomo e ucciderlo, e con il corpo uccide anche l’essere spirituale della persona che dal corpo è portato. Solo un pregiudizio metafisico po­ trebbe disconoscere una connessione tanto semplice e familiare. Se si riconosce nuovamente la validità di questa connessione, l’on­ tologia ottiene dal peso della vita pratica e, particolarmente, dell’eiùos la datità più forte e insopprimibile della realtà, non solo per le forme più alte del reale, ma per la totalità della connessione cosmica. Infatti la maniera d’essere unitaria di questa è certa, indipendentemente dal suo modo di datità.

CAPITOLO XXXII

ATTIVITÀ INTERIORE E LIBERTÀ

a) La caratteristica del legame interpersonale.

Gli atti di sentimento, in quanto sono di qua da qualsiasi azione e, anzi, di ogni posizione di fini, presentano ancora un aspetto parti­ colare. Si è inclini a considerare benevolenza e invidia, simpatia e ge­ losia, rispetto e disprezzo, odio e amore come qualcosa di puramente interiore, privo di ogni trascendenza; e si giudicano poi puramente intenzionali gli oggetti di questi atti. La realtà è perfettamente contraria : ciò che in tali atti è difficil­ mente indicabile è proprio l’oggetto intenzionale, anche se lo si inten­ de in maniera puramente schematica come correlato dell’atto. Ma non c’è mai uno schietto atto di sentimento senza oggetto reale; e il suo oggetto reale è sempre una persona.

303 20 - La fondazione dell’ontologia

PARTE III - LA DATITA DELL’ESSERE REALE

Non si può amare od odiare senza amare od odiare « qualcuno ». E anche quando si ama qualcosa di determinato in una persona, questa è pur sempre colpita congiuntamente dal sentimento. Si possono certo ammirare i fenomeni di natura, ma in tal caso l’ammirazione è più che altro un meravigliarsi e non un autentico sentimento verso l’oggetto di cui ci si meraviglia. E chi si meraviglia sa benissimo che l’og­ getto non se ne avvantaggia e rimane estraneo all’ammirazione. Si può del resto disprezzare l’oro e onorare il ferro, si può amare un paese o una città, si può essere attaccati agli oggetti che si usano. Ma in verità si disprezza la forza che umilia l’uomo, si onorano le armi che lo no­ bilitano, si ama il luogo in cui si vive e che è la propria terra e il campo delle proprie azioni, ci si affeziona ai muti testimoni del proprio la­ voro e della propria diligenza. L’essere della persona è sempre coin­ volto e il sentimento vale mediatamente per essa. Ciò che scompare effettivamente nel sentimento è invece il mo­ mento teleologico-attivo. Esso non è escluso del tutto, ma è ridotto allo stato potenziale o, piuttosto, non è ancora risvegliato ad attività. Scom­ pare così lo scopo determinato come oggetto di intenzione attiva e con esso scompare anche il consapevole carattere anticipativo dell’atto. Tale carattere sussiste tuttavia potenzialmente e rimane percepibile nella sua continua possibilità di erompere. Questa percepibilità del sentimento — per esempio, quella della esa­ sperazione contro chi sfrutta senza riguardi la propria posizione perso­ nale - sussiste tanto nel portatore del sentimento quanto nella persona che ne è l’oggetto. E al tempo stesso è in entrambi quasi un presenti­ mento del possibile erompere. La volontà, e con essa l’azione, sono solo assopite nel sentimento; o la volontà è trattenuta dall’incapacità all’azio­ ne. Nel primo caso essa si libererà e passerà all’azione. Pertanto anche nel sentimento ci sono già attività e anticipazione, e con esse si ha già 1’« essere colpito di rimando » della propria persona e la datità reale delle altre. Questa datità si manifesta del resto ancora in un’altra forma. Allo stesso modo come la volontà tiene conto in modo determinatissimo della volontà altrui, l’inserisce nell’orizzonte delle sue possibilità e cerca di incontrarsi con essa, così anche il sentimento tiene già conto del sentimento altrui. Il fatto che il sentimento si riferisca essenzialmente ad una persona, significa in primo luogo ch’esso si riferisce ad una per­ sona in quanto animata da sentimenti ben determinati. Non si onora e non si disprezza a caso, e nemmeno per motivi superficiali, bensì per un generale atteggiamento interiore, cioè per il sentimento. In una per­ sona si ammira la generosità e lo spirito di sacrificio, si disprezza la 304

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meschinità, la si ama nella consapevolezza della sua bontà, della sua lealtà, della sua superiorità morale. Ogni sentimento è già rapportato al sentimento e nella vita non conosciamo affatto un sentimento isolato per sé. Nel contrapporsi vitale delle persone questo rapporto è totale e continuo. Esso stringe gli uo­ mini, nella loro comunione pluristratificata, con un nuovo legame, ancor più profondo ed elementare della volontà, dell’azione, e dell’esperienza vissuta e immediata: tale rapporto forma una rete di riferimenti estre­ mamente reali e attuali attraverso cui le persone sono date l’una all’al­ tra nell’effettualità più profondamente sentita prima di qualsiasi rifles­ sione consapevole. Esso è una datità eminente della realtà.

b) La datità primaria nella presa di posizione interiore.

Questo legame non c’è solo in un secondo tempo, nella connessione più drastica, quando gli uomini sono colpiti più duramente dall’azione, ma già preesiste come suo sostrato, e ogni datità della realtà che si affacci drasticamente alla coscienza emerge dal suo fondo, in modo che in essa è già sempre implicita la datità primaria delle persone. È certamente assai misterioso il modo con cui ci sono dati i senti­ menti altrui. Il modo ontico del contatto è condizionato da un compli­ cato intreccio di fattori. Ma non per questo è tuttavia dubbia la datità stessa. Essa non è nemmeno più enigmatica di un’altra datità, ad esem­ pio, di quella sensibile del fenomeno corporeo. E considerata come datità è del tutto semplice: essa sussiste come fenomeno indipendente­ mente dalla sua risolvibilità in fattori. Il fenomeno però consiste nel fatto che in genere le persone ci sono date innanzitutto nei loro sentimenti e non nella loro apparenza este­ riore, nel loro comportamento, nell’agire, nel muoversi, nell’espressione. Questi momenti concorrono e sono senza dubbio fattori della datità, ma non sono il primum che si presenta alla coscienza con il suo peso di realtà. La prima coscienza che si acquista di una persona ha la forma della presa di posizione interiore : è 1’« avere una determinata impres­ sione » di un uomo, il sentire repulsione, l’essere respinto o attirato, l’aprirsi all’altro o il chiudersi in sé, l’aver fiducia o il sospettare, il sentimento di intimità o di distanza. Sono questi momenti che domi­ nano le cosiddette prime impressioni e rimangono determinanti in tutte le impressioni posteriori più riflesse e « obiettive ». È vero che tali mo­ menti vengono anche coperti dalle impressioni posteriori e spesso fal­ sati a detrimento della schietta datità della realtà da modelli, da con­ 305

PARTE III - LA DATITÀ DELL’ESSERE REALE

cetti e da convenzioni consapevoli. Ma la più lieve esperienza che si accordi con essi li richiama nuovamente mostrando così la loro fondamentalità. Questi primi momenti del sentimento, quale prima risposta al sen­ timento altrui, sono non soltanto fortemente prospettivi — poiché ci di­ cono ciò che dobbiamo attenderci dagli uomini — ma in essi già la no­ stra persona è colpita in un modo contenutivamente assai determinato e attuale dalle altre persone. E pertanto in essi c’è una prima datità di realtà che precede tutte le altre. Tuttavia, dato che le persone non possono pretendere ad una propria maniera d’essere, ma condividono quella del resto del mondo in cui si trovano, anche questa datità si estende, come quella dell’azione e della volontà, alla totalità del mondo reale.

c) La funzione della situazione e la sua forma di datità. Nella volontà e nell’azione compare ancora tuttavia una terza for­ ma dell’oggetto reale accanto alla cosa e alla persona: la situazione attuale in cui e su cui si agisce. Ogni iniziativa dell’uomo è condizio­ nata da una situazione, e al tempo stesso è anche plasmatrice della si­ tuazione. L’iniziativa è provocata, e quasi imposta, dalla situazione vi­ tale, ma l’iniziativa stessa irrompe nella situazione, plasmandola. Questo rapporto mostra ancora una nuova forma di datità della realtà. Noi non scegliamo a piacere la situazione in cui agiamo. Possia­ mo tutt’al più, entro certi limiti, porvi riparo o evitarla quando la ve­ diamo profilarsi; ma anche evitandola provochiamo una nuova situa­ zione non voluta e, in generale, non la vediamo neppure profilarsi. La situazione sopraggiunge non chiamata, sorprende l’uomo che «cade» in essa. Ma quando vi è caduto, vi è anche prigioniero; egli non può « tornare indietro » poiché dovrebbe annullare ciò che è accaduto, men­ tre l’annullamento è onticamente impossibile. L’uomo non può nem­ meno tirarsi « a parte », poiché anche per ciò è troppo tardi quando la situazione è sopravvenuta. Egli deve sempre procedere avanti secon­ do la legge del tempo che mai si arresta. E ciò significa ch’egli deve agire, che deve decidere su ciò di cui sempre gli spetta la decisione in base alla situazione sopravvenuta. In ciò egli non ha alcuna libertà, voglia o non voglia in generale decidere ed agire. Di fatto egli decide sempre in un modo o nell’altro, quale che sia il suo comportamento. Egli decide effettivamente anche quando, non decidendo e non agendo, evita di intervenire. Non gli 306

SEZ. II - GLI ATTI EMOZIONALI

serve sottrarsi all’azione. Anche l’astensione è azione, e causa nel mon­ do conseguenze tanto gravi quanto l’azione attiva: infatti, come coloro che sono compartecipi della situazione sono colpiti dall’astensione, così anche la persona che si astiene è egualmente colpita di rimando. La situazione costringe l’uomo ad agire in tutte le circostanze, qua­ lunque sia il suo atteggiamento. Essa però non gli prescrive il modo d’agire, e qui l’uomo ha la sua libertà. Si ha così questo fatto caratte­ ristico: la situazione in cui l’uomo cade è per lui al tempo stesso libertà e soggezione, costrizione e margine d’azione. È costrizione a decidere in generale, ma libertà nel modo di decidere. Considerando assieme i due momenti - che sono infatti inscioglibilmente legati, -- appare evidente l’essenza paradossale della situazione: l’uomo è costretto ad una libera decisione dalla situazione in cui viene a trovarsi; o in breve: la situazione, quando è attuata, è per lui «co­ strizione alla libertà ». Ciò significa ch’egli non può evitare la situazione tirandosi « in­ dietro » o « a parte », e che può solo procedere « attraverso » essa ; ma dipende da lui « come » superarla. Se l’uomo si lasciasse solo portare, senza poter fare altro, la costrizione sarebbe completa e non gli rimar­ rebbe alcuna libertà. Ma le situazioni della vita non sono tali: esse non costringono né alla inattività né all’azione determinata, bensì alla deci­ sione tra l’una e l’altra. Esse spingono l’uomo alla decisione e si appel­ lano alla sua libertà. Costringono in tal modo a porre in azione la libertà. L’uomo « esperisce » quindi immediatamente la situazione come costrizione proprio in quanto è essere libero. L’esperisce come una forza reale, che non lo colpisce solo esteriormente ma nell’essenza più intima della personalità. La costrizione reale alla libertà è un modo nuovo e particolare dell’essere colpito dell’uomo da parte del mondo reale in cui vive. Questo modo di «essere colpito» è infatti più profondamente incisivo di ogni altro; non si tratta qui di un «evento accidentale» che colpisca l’uomo, ma del suo inevitabile essere sospinto alla respon­ sabilità e alla colpevolezza. Egli non può infatti prendere una decisione nei conflitti di valore senza il pericolo di diventare colpevole, e il con­ flitto di valore è prodotto dalla situazione. La fatalità degli accidenti è solo esteriore, anche se è tanto grave; quella delle situazioni - benché esse siano così fuggevoli, caduche, effi­ mere e imponderabili — è invece interiore, poiché riguarda l’essere mo­ rale dell’uomo. Ricade su lui ciò che egli decide e di cui è causa sotto la costrizione alla libertà. E tutta la vita umana consiste essenzialmente di una ininterrotta catena di situazioni e viene continuamente tenuta

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PARTE III - LA DATITÀ DELL’ESSERE REALE

in sospeso da essa. Ogni singola situazione impegna l’uomo ad agire, e all’azione segue l’essere colpito di rimando. La vita umana è un uni­ co, continuo essere gravati da parte della catena ininterrotta delle istan­ ze alla sua libertà. L’uomo esperisce in ciò — in un modo ancora una volta diverso e più profondamente decisivo - la durezza del reale: l’esperisce con l’organo della sua libertà.

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Sezione III VITA REALE E CONOSCENZA DELLA REALTÀ

CAPITOLO XXXIII

L’ESSERE DEL CONTESTO VITALE

a) Ih complesso degli atti trascendenti come modo reale di vita. La serie degli atti emozionali trascendenti non è esaurita dai tre gruppi trattati, i quali sono soltanto quelli che si possono approssima­ tivamente isolare ed analizzare. Nello stesso tempo però l’isolamento oscura un loro lato essenziale: l’insQÌoglibile connessione degli.atti. Ad essa si connette una quantità di altri atti difficilmente differenziabili, la quale forma un contesto di rapporti intrecciantisi dell’uomo con il mondo - dai rapporti più primitivi sino ai più spirituali - e si estende profondamente ovunque a base della coscienza riflettente. Il flusso reale della coscienza e il flusso reale dell’accadere cosmico si incontrano in questa connessione nella cui sfera agisce ogni particolare datità della realtà. Tale connessione, appena percepibile nei particolari, nel suo ef­ fetto totale, è la vita. Il conteste vitale oggettivo in senso ampio, qual è apparso parzial­ mente - in esempi tipici - negli atti che abbiamo indicato, può essere colto esaurientemente quale datità generale solo .nella pienezza di, que­ sto intreccio. La questione verte ora sull’essere in sé reale del contesto, in quajQto esso. è. abbracciabile come unità in un fenomeno totale. Nel suo infinito ramificarsi vi è qualcosa di generalmente unitario: la tra­ scendenza degli atti e l’essere in sé di ciò a cui essi si riferiscono. Gli atti singoli scompaiono nella connessione degli atti, ma non scompare la loro trascendenza, che è ancora indicabile nel fenomeno totale della connessione in modo tanto immediato quanto nei singoli tipi di atti.

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PARTE III - LA DATITÀ DELL’ESSERE REALE

La trascendenza è generale, identica in tutta la molteplicità degli atti; e ciò è essenziale per il problema della realtà, poiché prova che il pas­ saggio dalla realtà interiore a quella esteriore è onnilaterale. Il flusso della coscienza si inserisce nel flusso dell’accadere cosmico ed è al tem­ po stesso coscienza di questo inserimento: esso è tale nella totalità come nei particolari, senza riguardo agli implessi e alla isolabilità degli atti. Infatti, solo il peso dell’essere colpito dell’uomo è diverso, mentre è identico il modo d’essere di ciò che è esperito. Non è qui possibile esaminare tutta questa varietà; è sufficiente delinearla per il completamento del quadro generale. Si tratta di co­ gliere ancora alcuni universali tipi fondamentali dell’inserimento, i quali non si risolvono più in una forma di atto determinata, ma presuppon­ gono l’intero implesso degli atti. Appartengono a questa specie il sen­ timento dei valori nell’esperienza immediata, le relazioni con le per­ sone, l’operare con le cose, il partecipare vissuto ai rapporti sociali, cul­ turali e storici, e l’inserimento nella connessione cosmica.

b) Il peso di realtà nei rapporti con i valori. È ben difficile che nell’uomo ci sia qualcosa che non abbia per lui un determinato accento di valore o di disvalore. Non si tratta solo di valori morali; nella sua vita entrano in gioco i valori vitali, i valori del successo di ogni tipo, i valori estetici e l’intera molteplicità dei valori dei beni spirituali. Ogni comportamento, ogni espressione di sentimento, ogni reazione è piacevole o inquietante, è accolta con sentimenti «di favore » o « di avversione ». Ed anche quando non sono notati, questi accenti sono tuttavia presenti e danno la tonalità a tutto. Ogni cosa è accompagnata dalla interiore «risposta assiologica » ; la comprensione neutrale di ciò che è umano è solo un caso limite, che compare nella sua purezza esclusivamente nella riflessione teoretica, ed è sempre dif­ ficilmente dato nella vita. La reazione del sentimento assiologico non è affatto legata all’au­ tentico essere colpito nella propria persona, non accompagna solo gli atti trascendenti dell’altra persona, ma accompagna assolutamente tutto ciò che si manifesta in essa, cioè l’intero suo essere-così. Ogni cosa su­ scita gioia, entusiasmo, tacito accordo o ripulsa e avversione: il modo con cui uno cammina o sta fermo, con cui si presenta e parla, dissi­ mula o si rivela, la maniera di lottare con le difficoltà o di abbando­ narsi ad un’impressione dimenticando se stesso. Lo stesso vale per la comprensione di tutti gli oggetti, delle cose,

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SEZ. Ili - VITA REALE E CONOSCENZA

degli avvenimenti, dei rapporti, delle situazioni. La sola differenza è data dal fatto che sono altri valori a determinarli. È ben vero che qual­ cosa ci può lasciare indifferenti, ma nella vita non c’è un limite netto della accentuazione di valore-disvalore. Tale limite svanisce e oscilla secondo che l’uomo è aperto o chiuso ai valori. Tuttavia, quando gli accenti assiologici compaiono non sono mai successivi, ma sempre con­ temporanei alla comprensione della cosa. La caratteristica di questo universale, c continuo sentimento assiologico sta nel fatto che esso è momento di un atto assolutamente tra­ scendente, e che quindi i suoi oggetti sono dati come realmente in sé. In questo sentimento non si tratta solo dei valori nella loro pura idea­ lità, ma della datità di un « reale » in quanto dotato di valore o con­ trario ad esso. Ed è proprio per questi accenti assiologici che il reale esperito ha per noi nella vita un’importanza e una forza impositiva particolari. Ciò si vede in modo chiarissimo quando si scelga un esempio in cui sia profondamente marcata l’accentuazione di valore. Io constato direttamente, ad esempio, che un uomo viene trattato duramente o che una persona notoriamente innocente viene calunniata: l’intera questio­ ne non mi riguarda e so anche che casi simili capitano migliaia di volte senza che io possa mutarli. Ma « che » capiti qui e ora, sotto i miei occhi, è una dura effettualità che mi commuove e non mi dà pace. La forza dell’impressione è costituita dal peso di realtà dell’ingiustizia in quanto compiuta, e cioè dalla sua negatività assiologica inerente a qualcosa di reale. Se l’azione constatata fosse indifferente al valore, il suo essere reale non mi colpirebbe. Se si trattasse di un caso puramente immaginato, an­ che la repulsione sarebbe puramente immaginata e non sarebbe una ef­ fettiva — cioè, attualmente reale — reazione assiologica. Solo l’ingiustizia realmente compiuta suscita il reale sentimento di offesa. In generale possiamo quindi dire che solo il fatto che qualcosa di «reale» abbia valore o disvalore provoca la viva ed effettiva risposta assiologica. Ciò vale rigorosamente in generale per qualsiasi effettiva reazione di tale specie, anche quando si tratta soltanto del gradevole o dello sgradevole, del vantaggioso o dello svantaggioso, dell’importuno, del­ l’utile, del soddisfacente, o di qualsiasi altro valore e disvalore. Il senti­ mento assiologico risponde effettivamente sempre solo al reale, non a ciò ch’è puramente immaginato o rappresentato. Non ci si «commo­ verebbe» se ciò che commuove non fosse accaduto effettivamente. An­ che quando il poeta fa apparire il fatto commovente nei suoi fantasmi e l’attore lo rappresenta naturalmente sulla scena, manca infatti l’au­ 311

PARTE III - LA DATITÀ DELL’ESSERE REALE

tentica gravezza della reazione assiologica. La reazione c’è certamente, e ha lo stesso tono, ma le manca il peso della realtà. Il sentimento assiologico ha nella vita la funzione ontologica di porre in risalto ciò che ha l’accento del valore e del disvalore in ogni reale che incontriamo, e di rendercelo percepibile nel suo peso di realtà. Noi sentiamo appunto con la maggiore intensità il reale inamovibile nella sua durezza, là dove esso viene a contatto con il sentimento assio­ logico. Non siamo commossi né da ciò che è indifferente al valore né dall’irreale. L’ambito della nostra esperienza immediata e vissuta è ori­ ginariamente selezionato dalla risonanza della risposta al valore. In tal modo il sentimento assiologico, benché in sé sia qualcosa di completamente diverso - cioè, un sentimento soltanto assiologico e non ontologico - acquista tuttavia mediatamente nella vita il significato di un’importante testimonianza di realtà. E poiché per il reale è manife­ stamente indifferente se, e come, il sentimento assiologico risponde ad esso assiologicamente, anche questa forma di datità della realtà si esten­ de a tutto il reale, pure a quel reale a cui non si risponde assiologica­ mente. Cioè essa si estende all’intera sfera.

c) La datità pratica del mondo delle cose.

L’operare e l’agire con le cose introducono nel contesto vitale in una direzione diversa e costituiscono in esso l’altro aspetto, non meno primario, della datità della realtà. L’uomo « usa » le cose, se ne serve, ne trae profitto e le impiega, così come le trova, per i suoi scopi. Egli, anzi, le deteriora e le consuma. Le cose rientrano nella sua sfera personale come sue, appartengono ad essa, e ne ricevono l’impronta secondo ciò che sono « per lui ». Ciascun uomo ha intorno a sé una simile ristretta sfera di cose: vi appartengono λ abiti, mobili, casa, strumenti di lavoro e molte altre cose ancora. L’importanza primaria di queste cose non consiste per l’uomo in ciò che esse sono in sé, ma esclusivamente in ciò che sono «per lui». Nella sua concezione e nella sua vita esse hanno un « essere-per-lui » di un tipo accentuatamente caratteristico. Heidegger. ha coniato per esse l’espressione «essere a mano » {Zuhandenseinf;\i quale coglie con molta esattezza il rapporto ed è solo, forse, un po’ troppo ristretta, poiché s’ad­ dice rigorosamente solo al tipico strumento di lavoro. L’espressione on­ tologica più generale per la maniera d’essere di tali cose nella sfera personale dovrebbe suonare: «il loro esserci serve a qualcosa per noi» (« ihr Dasein zu etwas für uns »). L’« essere-per-me » degli oggetti

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SEZ. Ili - VITA REALE E CONOSCENZA

d’uso, considerato dal punto di vista della persona in quanto « io » che \ \ ne fa uso, è non solo qualcosa di diverso dal loro essere in sé, ma è \ anche il prìmum secondo la datità, uno schietto πρότερον προς ημάς. I Tuttavia, dal punto di vista ontico, nella connessione del mondo, esso può ben essere qualcosa di posteriore. Sarebbe però errato credere che nell’essere-per-me delle «mie cose» non sia implicito un essere in sé. L’essere-per-me non si fonda semplicemente sull’opinione dell’io, non consiste puramente nelle «mie rappresentazioni»: è un rapporto reale che sussiste indipendente dalla mia comprensione conoscitiva, indiffe­ rente al fatto che io ne abbia o meno una rappresentazione. Esso è quin­ di gnoseologicamente un rapporto affatto in sé in senso rigoroso, seb­ bene sia secondario nelle più ampie connessioni ontiche; è essere-per-me reale. E, per conseguenza, anche la cosa usata è affatto reale proprio in quanto tale, non solo prescindendo dal suo essere-per-me, bensì pro­ prio in esso e con esso. Ne è prova il fatto che l’essere-per-me del mio strumento di lavoro — e cioè, quello che esso è effettivamente per me, per il mio lavoro, per la mia vita - viene esperito da me in esso solo gradualmente: imparan­ done l’uso (il mestiere), applicandolo, mettendolo alla prova e anche scoprendo tutto ciò che posso fare con esso. Questo processo è però un processo in me, non nello strumento. È il processo della formazione pratica attraverso il lavoro con lo strumento, lo sviluppo dell’io, l’eleva­ zione della sua capacità e della sua abilità. Si può forse dire che «lo strumento si perfeziona sempre più per me » ; ma in verità ci si perfe­ ziona nell’uso dello strumento, mentre questo da parte sua persiste im­ mutato. Persiste inoltre proprio nel suo essere-per-me; poiché in questo sviluppo io sono pienamente consapevole che la limitatezza anteriore dell’uso non dipendeva da esso ma da me. Il processo si trasferisce allo strumento solo quando io cambio qualcosa in esso e, cioè, lo « miglio­ ro». Muta allora fondamentalmente il suo reale essere-per-me; cambia non solo la « mia » capacità produttiva con esso, ma anche la « sua » possibilità produttiva in mano mia. L’analisi heideggeriana dell’« essere a mano » è preziosa, in quanto scopre una manièra di datità determinata e affatto primaria - non certo «la» primaria - del reale e del mondo. La forza di tale analisi è la limitazione alla sfera più stretta dell’esperienza quotidiana, in quanto essa non è escludibile dalla vita. Errata è invece la confusione di ma­ niera di datità e di maniera d’essere. Il tipo della scoperta viene attri­ buito all’essere scoperto come sua caratteristica; questo essere viene così riferito all’io a cui è dato, e il mondo viene ad essere relativizzato come «il mio».

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PARTE III - LA DATITÀ DELL’ESSERE REALE

x \ j ’i

In altri termini: è disconosciuto il carattere di essere in sé (la real­ tà) nello stesso essere a mano. Non è lecito concepire l’essere-nel-mondo di colui che ha a mano « ciò che è a mano », come un essere nel suo proprio mondo; non è permesso mettere in evidenza Γ« esserci » del­ l’uomo come il solo reale. Poiché Γ« essere a mano » per l’uomo delle cose è portato dal loro esserci e dal loro essere-così nel mondo reale. Quindi, il mondo in cui l’uomo si trova in base a questo rapporto, non è originariamente soltanto il suo mondo. L’essere-a-mano, considerato senza pregiudizi interpretativi, è piut­ tosto una ben determinata e ineliminabile datità del mondo che è uno e in sé. È certo solo una forma tra molte di questa datità, ma è tutta­ via una forma fondamentale. È tale perché la proprietà delle cose d’uso di essere a mano « per me » si rivela come proprietà reale ed esperita realmente in modo immediato nella vita. Questa datità è la realtà delle cose esperita immediatamente e vissutamente nell’uso, e come tale è percepibilissima nella produzione ottenuta con lo strumento, e c’è in essa una testimonianza della totalità della connessione reale in cui, sol­ tanto, l’uso è possibile. Concepito ontologicamente il rapporto si presenta nel modo seguente. Ciò « che è a mano » non è certo « dato » come sussistente ; è dato cioè solo nella connessione del reale essere-per-me. Ma non si può trar­ ne la conseguenza ch’esso non « sia » affatto sussistente. È invece evidente che può essere « a mano » solo ciò che in primo luogo è sussi­ stente. Può «essere .per; me » solo se « è » in generale. L’indipendenza ontica è contrapposta alla dipendenza della datità. La datità dell’essere in sé è mediata dalla datità dell’essere-per-me, ma l’essere-per-me è a sua volta condizionato dall’essere in sé. Risulta così con maggior precisione ciò a cui mira lo Heidegger: il dischiudersi del mondo attraverso la proprietà di essere a mano. Il mondo non mi si offre come puro « ambiente » e tanto meno come « il mio mondo », bensì come l’unico mondo reale in cui si localizzano tutte le persone e gli ambiti ad esse pertinenti di ciò che è a mano. Ma allora il dischiudersi del mondo è rigorosa datità di realtà.

d) L’oggetto della « cura ». Appartiene a questo contesto anche il fenomeno della « cura », ampiamente discusso da Heidegger. Il prendersi cura di qualcosa ha la chiara impronta del carattere dell’atto trascendente, ed è strettamente affine all’atto del volere, del desiderare, del fare, dell’agire e, egualmen­

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SEZ. Ili - VITA REALE E CONOSCENZA

te, agli atti dell’attesa, del timore e della speranza. Secondo che esso viene concepito in modo più ampio o più ristretto, abbraccia tutti que­ sti atti o viene ad essere una loro forma particolare. Nella concezione più ampia, il prendersi cura rimane un atteggiamento totale del soggetto, indifferenziato e diffuso, di fronte a ciò che incombe temporalmente, atteggiamento che non ha l’impronta di un atto determinato. La posizione centrale che Heidegger gli assegna può forse essere suggerita dalla tendenza a ricostruire una coscienza dell’essere e del mondo il più possibile primitiva. Il solo problema è se noi conosciamo una coscienza tanto primitiva, oppure se la ricostruzione coglie un dato effettivo. In realtà noi conosciamo una coscienza che sempre già desi­ dera, agisce, lavora, soffre, spera o teme, e che, nello stesso tempo, è sempre già coscienza conoscente. Oltre a ciò, vi è nell’ineupimento heideggeriano della cura una cer- | ta unilateralità. L’incupimento non è nemmeno generalizzabile per la j grigia vita quotidiana con la sua ri strettezza e la sua meschinità. Può ì essere edificante sprofondare la vita nell’atmosfera ammorbata per poi mostrare il miracolo dell’evasione da essa nella luce e nella libertà. Ma l’una e l’altra cosa appariranno credibili solo a chi ha in sé, per dispo­ sizione infelice, eguale oppressione e vede originariamente svilito il mondo in cui lotta e opera. E ciò del resto ha poco da fare con l’ontologia. Se ci si attiene rigorosamente a un « prendersi cura » inteso in modo neutrale, in esso è implicita l’intera serie degli atti trascendenti, ! in quanto prospettivi. Vi è implicito innanzitutto ciò che si può chia­ mare lavoro schietto, il procurare il necessario, il far fronte ai bisogni - e non solo ai propri -, il prendersi la responsabilità per ciò che manca, il curare gli affari, il dedicarsi a ciò a cui si aspira, l’accingersi e il disporsi attivamente a ciò che sopraggiunge, il portarne la responsabili­ tà, il rispondere di ciò che si è intrapreso, il mantenimento degli obbli­ ghi contratti. Si può proseguire questa enumerazione sin nei particolari tanto ampiamente quanto si vuole. Nei confronti del concetto di «cura», che è come un titolo comprensivo, essa ha il doppio vantaggio della neu­ tralità valutativa rispetto al mondo e della più pura e varia prospettiva'. Tutti questi atti hanno in comune l’inquietudine e l’essere-tenuto-in-ansia dell’uomo da parte di ciò che incombe; e questo appunto è il contenuto fondato di ciò che Heidegger chiama l’essersi-autoanticipato (das Sich-Selbst-Vorwegsein}. La cura in senso stretto è però solo uno di questi atti. Ontologicamente essenziale in essi è la loro trascendenza e, cioè,

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PARTE III - LA DATITÀ DELL’ESSERE REALE

il fatto che in tali atti è dato come oggetto reale proprio ciò che incom­ be. Considerati come totalità essi sono soltanto un’unica forma fonda­ mentale, benché complessa e differenziata, della datità della realtà. Filo­ soficamente importante nella cura è ciò che solo ha importanza anche per essa, il suo oggetto, per cui vale interamente ciò che vale per l’og­ getto di tutti gli atti prospettivi: la sua maniera d’essere è inconfondi­ bilmente data nella cura come essere in sé reale che fa sentire piena­ mente il suo peso.

CAPITOLO XXXIV

SFERE PARTICOLARI DELL’INSERIMENTO NEL MONDO REALE

a) il fenomeno reale del « lavoro >y. In una posizione più centrale di quella della cura emerge, tra questi,atti, il «lavoro». Il suo fenomeno fondamentale non è né economico né sociologico, ma ontologico. In quanto atto trascendente il lavoro è un fare di specie determi­ nata: è un produrre reale nel reale, un dominare le cose come mezzi e, pertanto, un utilizzare e trarre vantaggio (cfr. Cap. xxxi, b). Esso ha inoltre il suo oggetto-fine che rende effettuale e costituisce come oggetto reale solo nella effettuazione. Ma, al tempo stesso, è sempre lavoro « su qualcosa», e riguarda quindi qualcosa di già esistente ch’esso trasforma nel suo essere-così. Attraverso il lavoro, infine, lo scopo viene sempre anche riferito a « qualcuno », alle persone « per » cui il lavoro viene fatto e a cui il fine deve toccare come frutto. Il fatto che il lavoro venga compiuto per la propria persona, o per una persona estranea, o per una comunità di persone non altera per nulla tale situazione. In questo modo il lavoro, come atto reale della persona, è riferito a quattro diversi piani di realtà. E in quanto nella coscienza del lavoro c’è una consapevolezza del riferimento, è implicita in essa una quadru­ plice datità di realtà. /' Particolare importanza ha qui l’aspetto interiore delTavoro, l’aspet­ to che si potrebbe dire morale. Il lavoro- è impegno, sforzo, sacrificio : la persona vi si applica"p-spende le sue forze, sacrifica la sua energia. Il lavoro va compiuto, « prodotto ». Non solo esso urta -nella resistenza 316

SEZ. Ili - VITA REALE E CONOSCENZA

della .cosa, ma contende a questa ciò a cui aspira e glielo strappa a forza. È vero che l’uomo fa lavorare per sé la forza estranea e utilizza la potenza in sé neutrale della natura. Ma egli deve guidarla e deve, anzitutto, impadronirsene; e tutto ciò richiede in primo luogo il pro­ prio impegno di forza, di esperienza, di penetrazione. L’uomo si sacri­ fica nel lavoro e si consuma addirittura in esso. Il fatto che il lavoro non scorre mai di per sé, ma va « compiuto » con impegno da parte dell’uomo, costituisce un rapporto caratteristico tra la persona e la cosa. L’uomo non può fare a meno nel suo lavoro di misurarsi continuamente con la cosa. La sua tendenza è di ergersi su essa e di dominarla. L’uomo ha quindi nel suo lavoro una continua « esperienza immediata » di sé e della cosa : di sé nella spontaneità del­ l’energia impegnata, sia fisica sia spirituale, della cosa nella sua resi­ stenza a questa energia. Entrambe sono esperienze inscioglibilmente connesse e costituiscono tutte e due un’esperienza di realtà. È qui evidente la prova che nel lavoro — e, in generale, nell’operare con le cose — io non esperisco il jnondo come « mio ». Ne ho invece esperienza nella durezza ideila sua resistenza, nella determinatezza e nel senso autonomo e proprio delle cose. Io esperisco questa determi­ natezza propria come forza estranea, di fronte a cui o cedo o m’impon­ go. La decisione in proposito non dipende solo dalla volontà. Dal punto di vista ontologico va inoltre considerata l’esperienza della parità di persona e cosa nel carattere di realtà. Essa è una funzione della reciprocità di azione e resistenza, del commisurarsi di due forze diverse su uno stesso piano. La prevalenza della cosa quanto a peso di realtà è data dalla sua passività e indifferenza, dal neutrale lasciar acca­ dere, ma, nello stesso tempo, anche dalla durezza della determinatezza che porta in sé e, per così dire, dalla sua forza d’inerzia. La prevalenza della persona è di un’altra specie: consiste nella sua spontaneità, nel­ l’iniziativa, nella capacità di adattamento, nello sperimentare e nell’inventare, nella sua forza teleologica di superare in qualche modo la resi­ stenza passiva. Una forza si contrappone tuttavia sempre ad un’altra forza. E ciò è neifenomeno reale del lavoro la prova inconfondibile che la sfera del reale è in sé omogenea, vale a dire che ogni ente effettuale ha cufica­ mente in essa una posizione di parità e costituisce secondo la sua ma­ niera d’essere un mondo unitario.

su

PARTE III - LA DATITÀ DELL’ESSERE REALE

b) La forma di datità delle connessioni reali più ampie.

Parallelamente all’operare con le cose ci sono