Dynergis. Lineamenti di fondazione dell'etica
 9788855294263, 9788855294331

Table of contents :
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Title
Copyright
Introduzione
Immanuel Kant
L’utilitarismo
Aristotele
Dynergismo
Baruch Spinoza e altri amici
Alcune linee di indagine
Conclusioni
Bibliografia
Indice
Zeugma

Citation preview

Andrea Munforte

Dynergis

Lineamenti di fondazione dell’etica

Zeugma

Collana diretta da:

Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 33 - Proposte

Andrea Munforte

Dynergis Lineamenti di fondazione dell’etica

Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

Stampato con fondi del Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale dell’Università degli Studi di Salerno

© 2023, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 33 - ottobre 2023 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-426-3 ISBN – Ebook: 978-88-5529-433-1 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Philosophy study as learning about moral and ethics tiny person concept. Traditional historical ideology ideas research and education vector illustration. Knowledge and curiosity as explore open head. © VectorMine – stock.adobe.com

Ringrazio Gianfranco Mormino per aver discusso e alimentato con i suoi stimoli e suggerimenti la stesura di queste pagine. Ringrazio Roberto Diodato per l’attenzione e il sostegno che vi ha dedicato. Un pensiero e una dedica ideale infine a Carlo Sini che con i suoi scritti, le sue lezioni e i suoi interventi è stato per me maestro di pensiero e punto di riferimento filosofico.

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Introduzione

Il problema della fondazione dell’etica attraversa i millenni. Esso è stato posto e riconosciuto in modi ora più ora meno espliciti nella storia di quello che viene chiamato Occidente, ma si può immaginare che abbia sempre premuto sotterraneo in ogni posizionamento umano nell’universo. Quando si parla di “etica”, al di là delle differenti sfumature di significato e dei molteplici modi in cui questo termine viene compreso, si intende comunemente la riflessione circa la giusta normazione del comportamento umano, la quale deve contenere una chiarificazione di concetti quali “bene e male”, “giusto e sbagliato”, “dovere”, “valore”, “virtù” ed altri, attraverso cui mostrare come le pratiche di vita umane dovrebbero articolarsi. Nel corso della storia sono apparse, in questo senso, etiche tra loro molto diverse, sia per il loro contenuto normativo sia per le ragioni cui si appoggiavano per trarre la loro validità. Diciamo questo a un livello generale e ancora molto superficiale solo per avvicinarci all’idea di cosa si debba intendere con “fondazione” dell’etica: essa in prima battuta va considerata come l’individuazione e la definizione dei concetti che strutturano un’etica, cioè le radici in cui affonda una determinata postura nel mondo per legittimarsi come giusta (esibendo a sua volta il perché del suo esse-

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re tale). Come è comprensibile, a seconda di dove si inabissi per nutrirsi, l’etica può assumere forme assai diverse; nel comprendere proprio la sua incredibile varietà di evoluzioni, non si può non tener ben ferma, in una simile analisi, la riflessione sull’orizzonte storico in cui una determinata etica si è sviluppata (per comprenderne le ragioni); e dunque, per fondare oggi un’etica valida che permetta di vivere bene nel nostro tempo, è anche necessario rivolgersi a un attento studio dei fenomeni propri di questa (e nessun’altra) epoca e delle conseguenze in campo di revisioni, approfondimenti e stravolgimenti da prendere in merito alle risposte date in passato al nostro problema. L’etica, qualunque specificità assuma nei diversi sistemi in cui venga pensata, dipende anche da una visione del mondo e della natura ultima delle “cose”; giocoforza porta con sé i relativi problemi gnoseologici ed epistemologici legati alla sua ontologia specifica e perciò, per valutare la validità di un ordinamento morale, è fondamentale vagliare anche il campo ontologico in cui si radica. Un’etica, ad esempio, che abbracci l’idea dell’esistenza di un’anima umana che possieda la libertà di scegliere le proprie volizioni, che magari sopravviva al corpo, non potrà che essere molto differente rispetto a un’altra che non ammetta l’esistenza di tale entità. In questo senso le conoscenze che si hanno del mondo (naturale, sociale, culturale…) in una data epoca sono cruciali; un loro approfondimento può mutare ordini ontologici assunti in precedenza e insieme riverberarsi sulla riflessione morale; un fenomeno di questo tipo ha avuto luogo, ad esempio, con la pubblicazione de L’origine delle specie1, momento oltre il quale non è più stato possibile pensare, al di là che in un significato allegorico, alla creazione ex nihilo di un primo uomo. Da qui, come è evidente, vengono meno tut-

1.  C. Darwin, L’origine delle specie, tr. it. di C. Balducci, Newton Compton, Roma 2017.

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te le conseguenze etiche che volessero in tale sola narrazione trovare la fonte della propria validità. Vi sono però stati anche pensatori che sostengono la possibilità di un accesso corretto e immediato alla dimensione morale senza tener conto di alcuno stato “esterno” alla propria soggettività; per costoro, invece, qualsiasi riferimento ad altro rispetto alla libertà della volontà nell’orientare le proprie azioni è, si potrebbe dire, un tradimento della vera moralità e perciò di principio una postura etica sbagliata: dunque chi ascoltare? Ciò che è giusto compiere muta nel tempo o rimane identico a sé? Quali ragioni sostengono questi diversi sentieri e le ramificazioni in cui si irradiano? Nello svolgersi della propria esistenza chiunque performa una specifica postura morale, nella maggior parte dei casi quella che ci si trova cuciti addosso dalla famiglia in cui si nasce, dalla città in cui si vive, dallo Stato in cui si opera e dall’epoca in cui si è raccolti, senza che si metta in discussione con la giusta radicalità i contenuti assiologici di simile eredità: per questa ragione abbiamo scelto di affrontare innanzitutto il problema della fondazione dell’etica in generale. La modalità con cui procederemo alla sua analisi permetterà infatti di rinvenire i materiali con cui alcune tra le massime teorizzazioni in merito costruiscano la scacchiera su cui dispongono le loro categorie; studiando le loro premesse e i loro risultati, le domande cui cercano di rispondere, l’orizzonte in cui prendono dimora, illumineremo ogni angolo del campo che una riflessione morale deve curare per essere completa e avremo sotto il nostro sguardo i punti oscuri delle prospettive in gioco. La prima sezione è perciò dedicata a sistemi etici che hanno avuto un peso decisivo e dominante nel pensiero morale occidentale; questo lavoro preliminare è necessario per avere una precisa illustrazione dell’area di indagine, ma non solo; esso verrà svolto con lo scopo di far propri i risultati più convincenti di ognuna delle riflessioni in esame e di aprire uno spazio teoretico in cui si possano coniugare e rinforzare l’un l’altro, superando le ragioni che li oppongono

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e li vogliono nemici. Così, nella seconda sezione, raggiungeremo l’autentico frutto della presente trattazione: la fondazione di un’etica particolare che tenterà di evitare le difficoltà che interessano le altre e di far proprie le loro virtù. È importante mettere in discussione e dismettere l’eredità assiologica con cui si è stati vestiti, fosse solo per indossarla di nuovo ma con maggiore sicurezza. È anche altresì evidente che ogni “messa in discussione” è a sua volta situata in un contesto culturale che può favorirla ora più, ora meno; si potrebbe perciò presentare il rischio di un rimando all’infinito dell’interrogazione, cioè il paradosso dell’interrogare un’eredità che si dà nell’interrogazione di sé: ma che validità possono avere i risultati teoretici di una messa in discussione dell’eredità culturale che costituisce soggettività in un certo modo rispetto, ad esempio, a una cultura che non lo permettesse, se i contenuti della prima sono comunque un “prodotto culturale” quanto quelli della seconda? Senza dubbio bisogna saper frequentare una simile circolarità, di cui, in un certo senso, non ci si libera in nessun ambito di riflessione. Da qualche parte tuttavia bisogna iniziare e si deve render conto della scelta, nei limiti delle proprie forze, finché non si piega la vanga con cui si scava2; il punto da cui ci pare più ragionevole muovere per aprire uno spiraglio nella sorta di circolo ermeneutico sopra proposto è ben presentato dalle parole di Étienne de la Boétie, quando scrive: «non esiste […] erede tanto prodigo e incurante da non gettare qualche volta uno sguardo sulle carte del padre, per vedere se goda o meno di tutti i diritti di successione, o se qualcosa è stato intrapreso contro di lui o il suo progenitore»3. Il nostro inizio è dunque l’irriducibilità costitutiva degli indi-

2.  Ci riferiamo alla metafora di Wittgenstein. 3.  É. de La Boétie, Discorso della servitù volontaria, tr. it. di E. Donaggio, Feltrinelli, Milano 2014, p. 43.

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vidui nei loro bisogni e interessi, i quali possono essere meglio o peggio realizzati nelle circostanze in cui si trovano a vivere; a partire di qui l’esame di tale orizzonte, insieme all’analisi ontologica degli enti in questione, potrà dirci di più circa le direzioni operative in cui un’etica dovrebbe articolarsi non solo oggi, ma, come vedremo, in un senso universale: in questo modo troveremo anche un criterio per saggiare la bontà delle etiche specifiche passate e per guidare la costruzione di etiche future. Lo diciamo subito: il pensiero di Baruch Spinoza rappresenta la chiave di volta della nostra ricerca. La sua metafisica e le conseguenze etiche che ne derivano avranno un peso decisivo nello sciogliere i nodi che via via incontreremo. E tuttavia, come sarà presto chiaro, questo non è un lavoro su Spinoza: le pagine che lo riguardano infatti interessano circa un quinto di quanto discusso e serviranno a profilare l’atmosfera concettuale in cui si muoverà il momento costruttivo della nostra indagine; esse sono inoltre precedute, come già si è accennato, da un confronto di più ampio respiro con alcune prospettive fondamentali e dominanti nell’evoluzione del pensiero occidentale. Ma in questa sede non si vuole nemmeno aprire uno scorcio di storia della filosofia in cui si presentino in successione le idee di pensatori differenti sopra un determinato argomento: ci sono molti e buoni manuali che svolgono bene tale compito e sarebbe filosoficamente poco interessante impegnarsi in qualcosa del genere per rispondere alle nostre domande. Perciò la breve presentazione delle linee teoriche generali di ogni proposta etica affrontata in queste pagine è volta solo a fornire gli strumenti con cui si lavorerà; nella prima sezione tali presentazioni saranno sempre seguite da un’analisi critica che, nei limiti della comprensione di chi scrive, indicherà le rispettive fragilità degli argomenti in questione; ogni disamina verrà infine completata dal riconoscimento di quelle che esibiremo, assumendoci il rischio di simile scelta, come le loro virtù proprie: saranno queste a non poter mancare alla postura etica che si tenterà di

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scolpire lungo il nostro percorso. Insomma, non si tratterà qui di parlare di filosofia, ma invece di maneggiare idee cercando in questo esercizio, per quanto possibile, di fare filosofia. L’epoca in cui viviamo è costellata di fenomeni mai presentatisi in precedenza nella storia dell’umanità, perlomeno indossando le vesti attuali e con simili possibilità tecnologiche; i confronti teoretici e pratici cui chiamano i nostri tempi si distinguono per l’incredibile complessità che li caratterizza e per l’ampiezza dei settori interessati. La sfida che si raccoglie in questa sede, bisogna ammetterlo, è connotata da una storica e strutturale irresolubilità: il mondo ha infatti visto moltissime etiche scavalcarsi l’un l’altra, e così continuerà con ogni probabilità ad essere. Ma, per ragioni che cercheremo a mano a mano di chiarire, questo non è un buon motivo per sottrarsi a un simile confronto. Giunti sin qui, citando il filosofo Richard Mervyn Hare, che come vedremo ha focalizzato alcuni punti cruciali per avanzare nel labirinto in cui stiamo per avventurarci, ci si potrebbe allora domandare: come scegliere un’etica4? Come orientarsi nella foresta di risposte che la storia offre al nostro problema e sulla base di quale criterio accogliere o rifiutare una prospettiva invece che un’altra? In quale terreno è bene radicare un’etica affinché fiorisca forte e rigogliosa nell’orizzonte di questi tempi? Di più: che cosa è bene e che cosa è male? Quali sono le azioni giuste da compiere? Che cos’è, e come si raggiunge, la felicità? Chi deve essere considerato degno di attenzione etica? Come bisogna intendere davvero l’“etica”? E ad ogni questione qui avanzata leviamo la seguente, semplice ma rovinosa, domanda: perché? Un’etica e la sua fondazione non ambiscono a niente meno che rispondere a tutto questo e a molto altro. Se il cammino che ci accingiamo a percorrere conduce da qualche parte, se 4.  R.M. Hare, Scegliere un’etica, tr. it. di L. Ceri, il Mulino, Bologna 2006.

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la prospettiva conquistata al suo termine avrà una qualche consistenza, se si performerà un valido tentativo di quell’esercizio di radicale interrogazione del mondo che è la filosofia, saremmo felici di esserci avvicinati anche solo di poco a una possibile soluzione per le domande poc’anzi sollevate.

Prima sezione

Sentieri

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I

Immanuel Kant

1. La Fondazione della metafisica dei costumi La prima posizione con cui ci confronteremo è quella di Immanuel Kant. Essa si presenta come un alto tentativo di fondazione razionale dell’etica, con l’ambizione di chiarire niente meno che l’intero spazio dell’azione morale, insieme a tutto quello che orbita al suo interno. Per compiere tale progetto Kant ritiene che si debba affrontare una «ricerca [Aufsuchung] e determinazione [Festsetzung] del principio supremo della moralità»1. All’individuazione [ricerca] di tale principio, dedica le prime due sezioni della Fondazione della metafisica dei costumi; al secondo punto, la terza sezione. Al posto che “determinazione” bisognerebbe tradurre con “consolidamento”; infatti fest-setzen non indica propriamente un determinare, ma invece un render-fisso, solido, capire dove sia il fondamento di un qualcosa che già vi sia e possa esser fatto emergere. Bisogna insistere su questo punto non tanto per pignoleria, quanto per sottolineare l’adesione di Kant a un’idea molto diffusa nella

1.  I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, tr. it. di V. Mathieu, Bompiani, Milano 2019, p. 51.

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sua epoca: la piena disponibilità dei criteri di giudizio morale e la facilità della loro conoscenza2. Ci si potrebbe domandare a cosa serva la riflessione filosofica se «la conoscenza di ciò che ogni uomo è obbligato a fare, e quindi anche a sapere, [è] alla portata di ogni uomo, anche del più comune»3. La particolare concezione dell’uomo che ha Kant, il quale, possiamo dire in prima battuta, lo vede diviso in un mondo governato dalla necessità naturale e insieme in un mondo intellegibile regolato da un’altra legge che, al contrario, lo rende libero, lo conduce innanzi al problema della seduzione che le inclinazioni dei sensi imporrebbero alla pura e innocente ragione4, impedendole in molti casi di determinare in modo giusto l’azione. Perciò il lavoro fondativo kantiano si propone come una chiarificazione del corretto funzionamento della facoltà pratica umana.

2.  Anche Hume scrive, ad esempio: «Per quanto grande sia l’insensibilità d’un uomo, egli non può non essere spesso colpito dalle immagini del giusto e dell’ingiusto; per quanto egli sia ostinato nei suoi pregiudizi, non può non osservare che gli altri sono suscettibili di impressioni simili. L’unico modo, quindi, per convertire un avversario di questo genere, è di abbandonarlo a se stesso. Infatti, quando vedrà che nessuno entra in discussione con lui, è probabile che, alla fine, da solo, per semplice tedio, passi dalla parte del senso comune e della ragione. V’è stata una controversia, avviata di recente, molto più degna di esame, intorno ai fondamenti generali della morale, se essi siano derivati dalla ragione o dal sentimento […]» (D. Hume, Ricerca sui principi della morale, tr. it. di M. Dal Pra, in D. Hume, Opere, a cura di E. Lecaldano e E. Mistretta, 2 voll., Laterza, Bari 1971, vol. II, p. 180). 3.  I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 81. 4.  Cfr. ivi, p. 83.

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1.1. Che cosa è buono L’incipit della Fondazione5 indica con chiarezza cosa per Kant è da considerarsi buono in senso assoluto: la volontà. Solo una volontà può essere detta buona senza limitazioni. Qualsiasi altra “cosa” per essere buona in senso pieno deve appoggiarsi a questa condizione. Un’acuta intelligenza, ad esempio, riconoscibile come una dote da desiderare, potrebbe rivelarsi tutt’altro che una “cosa” buona, qualora fosse posseduta da una volontà che non sia buona; essa offrirebbe infatti a un malintenzionato che ne godesse la possibilità di causare molto più male che se invece ne fosse privo. Lo stesso vale per quelle che potrebbero essere indicate come proprietà del temperamento quali coraggio, decisione e costanza nei propri propositi, così come per beni “esterni” quali ricchezza e onori, financo la felicità. Su quest’ultima è utile soffermarsi un momento, poiché essa, nei diversi modi di intenderla, ricopre un ruolo centrale in molte altre prospettive etiche. Nel Kant della Fondazione viene presentata come la somma della soddisfazione di tutti i desideri e come ciò per cui si ha un’inclinazione naturale6; con quest’ultimo concetto egli intende che la ricerca della felicità e il desiderio di raggiungerla si trovano in ogni essere umano. Tutti vogliono essere felici e perciò si potrebbe pensare che essere felici sia un bene in sé. Ma se ad essere felice fosse una persona che si sa per certo aver compiuto azioni terribili, il pensarla in una condizione gioiosa non potrebbe che renderla ancora più odiosa; non si può considerare il suo essere felice come qualcosa di buono e dunque la felicità non è da pensarsi come un bene di per sé,

5.  «È impossibile pensare nel mondo, e, in genere, anche fuori di esso, una cosa che possa considerarsi come buona senza limitazioni, salvo, unicamente, la volontà buona» (ivi, p. 55). 6.  Cfr. ivi, p. 69.

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ma solo secondario. Un osservatore imparziale e ragionevole infatti non sarebbe contento di chi la esperisse senza una volontà buona: «la felicità da sola è ben lontana dall’essere il bene completo per la nostra ragione. Questa non approva la felicità (per quanto l’inclinazione la desideri) tranne che nel caso in cui la veda congiunta col merito di essere felici, cioè con una condotta morale buona»7. Per fugare l’idea che la volontà buona sia un concetto fantastico, Kant propone quello che si potrebbe chiamare l’argomento teleologico8, il quale va incontro a premesse condivise dalla maggior parte dei lettori della sua epoca: l’assunto è che la natura fornisca alle sue creature certe capacità in vista di certi scopi; così si hanno occhi per vedere, orecchie per sentire e via dicendo; perciò se la natura avesse dotato gli esseri umani della ragione per raggiungere la felicità «avrebbe preso per questo molto male le sue misure»9, poiché la ragione è uno strumento inadeguato allo scopo, mentre gli “istinti animali” sarebbero più adeguati. Inoltre Kant sostiene che quanto più una ragione è coltivata e cerca la felicità, quanto più, spesso, è infelice; dunque, poiché una ragione all’uomo è data, ma non per raggiungere la felicità, e poiché tale ragione è anche una facoltà pratica, «cioè come tale che abbia un influsso sulla volontà»10, il suo fine deve essere quello di rendere buona tale volontà non in vista di altro, ma per se stessa: l’alternativa alla felicità è perciò la dignità di ottenerla. Questo non significa che la felicità sia priva di valore, ma che è dipendente da una volontà

7.  I. Kant, Critica della ragion pura, tr. it., a cura di P. Chiodi, Utet, Torino 2013 (19671), p. 612. 8.  Cfr. J. Timmermann, Kant’s Groundwork of the Metaphysics of Morals. A Commentary, Cambridge University Press, Cambridge 2007, p. 39, nota 60. 9.  I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 59. 10.  Ivi, p. 61.

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buona. Solo questa è da considerarsi il bene supremo con valore incondizionato e metro di paragone di tutto ciò che è buono. Si potrebbe replicare a Kant che ciò che afferma mantiene la sua validità a patto di riconoscere la definizione in cui costringe la felicità. Un malvagio criminale felice di ciò che fa non ha nulla di buono, certo, e questo anche perché la sua felicità, se essa è una mera somma di desideri realizzati, implicherebbe l’infelicità di molti altri (sia per l’indignazione che farebbe emergere, sia perché è probabile che il suo concretizzarsi non terrebbe in conto di quella altrui); ma a questo punto ci si potrebbe domandare se è legittimo pensare all’autentica felicità in termini così personali, senza ricomprendere nel suo concetto anche quella degli altri. Tuttavia per attraversare e intendere fino in fondo la riflessione morale kantiana è necessario in un primo momento abbracciare lo spettro delle sue idee nel significato preciso che vi è stato riposto, e solo in un secondo momento tentare di ritoccarle o decidere di dismetterle. Perciò domandiamoci: se solo una volontà può trovarsi nella situazione di essere considerata incondizionatamente buona, di quali caratteristiche deve rispondere per essere valutata come tale?

1.2. Il dovere Si è detto che la volontà buona è condizione necessaria per essere degni di essere felici; essa, quando lo fosse, lo è non «per ciò che produce o costruisce, non per la sua attitudine a raggiungere un qualsiasi scopo prestabilito, bensì per il volere come tale»11; questo volere è il bene supremo, che condiziona tutti gli altri. Per chiarire cosa intende, Kant a questo punto propone un esame del concetto di dovere, il quale, scrive, contiene l’idea della volontà con limitazioni e impedimenti sogget-

11.  Ivi, p. 57.

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tivi12. Notiamo per inciso che Kant non ha ancora fornito una definizione di come vada intesa la volontà, la quale verrà stesa solo più avanti. Egli, in questa sezione che titola Passaggio dalla conoscenza razionale comune della morale alla conoscenza razionale filosofica della morale, si serve ancora del concetto “comune” di volontà, che potrebbe intendersi come «la facoltà e la capacità di volere, di scegliere e realizzare un comportamento idoneo al raggiungimento di fini determinati»13. Tenendo fermo quest’ultimo senso, rivolgiamoci allora all’analisi del concetto di dovere, che dovrà mostrarci quando una volontà può dirsi buona. Vi sono tre tipi di azione: azioni contrarie al dovere; azioni conformi al dovere per le quali gli umani non hanno inclinazioni; azioni conformi al dovere accompagnate da un’inclinazione immediata. Il primo caso non viene preso in considerazione, poiché è evidente che un’azione contraria al dovere non può essere affatto compiuta per dovere e perciò non dice nulla di esso. Anche il secondo caso non è interessante ai fini dell’analisi kantiana, poiché «si può facilmente distinguere se codeste azioni […] siano compiute per dovere o per un’intenzione egoistica»14. È dunque l’ultimo genere di azioni ad essere oggetto di indagine, poiché in esso è ben più difficile discernere se un’azione è compiuta per dovere o per inclinazione. Osserviamo ad esempio un commerciante prudente: il suo interesse a massimizzare i propri profitti comporta che egli agisca onestamente con tutti i suoi clienti, sia che siano accorti o ingenui, perché qualora circolasse la voce che sia un approfittatore, il suo guadagno ne risentirebbe; egli dunque si comporta in modo onesto (azione

12.  Cfr. ivi, p. 63. 13.  Cfr. la voce Volontà, risorsa online: https://www.treccani.it/vocabolario/ volonta. 14.  I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 65.

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conforme al dovere), ma non si riesce a discernere se agisca così perché è giusto o per il proprio interesse. Non va bene. Pensiamo allora al rimanere in vita, che per Kant corrisponderebbe, come vedremo, a un dovere perfetto verso di sé; nei confronti di esso chiunque ha un’inclinazione immediata e finché le circostanze che compongono un’esistenza non portano al suo rifiuto, è impossibile sapere se uno lo onori per dovere o per inclinazione; quest’ultimo punto si chiarisce solo nell’eventualità in cui un individuo sprofondi in un’irrimediabile infelicità e decida, nonostante non abbia timore di uccidersi, di continuare a vivere per dovere, rivelando così la moralità della propria condotta. Qui il principio del dovere è ben più chiaro quando è all’opera. Che dire invece di un filantropo, un benefattore dell’umanità che si spende in donazioni per aiutare il prossimo? Anche in questo caso, se le azioni di un siffatto uomo sono comandate dal dovere e non da una tendenza personale, possono dirsi giuste e rivelare un valore morale; non vi è dubbio che agli occhi di molti, se fossero compiute solo per ricevere onori, perderebbero il loro smalto; ma Kant è ben più severo. Ai suoi occhi sarebbero immorali perfino se eseguite per generosità. Tale inclinazione, infatti, è una caratteristica che può essere più o meno spiccata negli uomini e in quanto tale, una volta venuta meno, non garantisce che chi la possiede continui nella sua opera caritatevole: se invece l’azione generosa viene svolta per dovere, verrebbe compiuta lo stesso anche se si perdesse la qualità del carattere. È in questi termini che va letta la massima evangelica in merito all’amare il prossimo, compresi i nemici: essa è un’esortazione ad agire in base a principi anche contro la propria inclinazione. In conclusione, Kant ha proposto questi casi per far emergere un primo significato del concetto di dovere, che può essere espresso così: bisogna «compiere il bene non per inclinazione, ma per dovere»15. 15.  Ivi, p. 69.

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Una seconda caratterizzazione del dovere viene formulata nel seguente modo: un’azione compiuta per dovere trae il suo valore morale, non dalla finalità che persegue, bensì dalla massima in base alla quale la si decide: quindi non dipende dalla realtà dell’oggetto dell’azione, ma solo dal principio del volere in base a cui si compie l’azione, prescindendo da qualsiasi oggetto della facoltà di desiderare.16

In questo luogo Kant dichiara il suo anticonsequenzialismo; se con “consequenzialismo” s’intende una concezione che fa dipendere il valore morale dalle conseguenze delle azioni, lui è un suo nemico; gli oggetti esterni che muovono le azioni possono essere i più nobili, ma se non è nobile la massima (si potrebbe dire l’intenzione) con cui si agisce, non si è agito moralmente. Come spiegherà in una nota poco più avanti, “massima” è «il principio soggettivo della volontà»17, la regola che la volontà si dà per agire; ad esempio, se un uomo decidesse di mantenere una promessa fatta a un suo amico, la massima che guiderebbe la sua azione suonerebbe come un “mantieni la promessa”. Infine, Kant definisce il dovere come la «necessità di una azione che va compiuta per rispetto della legge»18. Con “legge” non si intendono le leggi positive che regolano un determinato Stato, bensì il cuore della sua fondazione etica: la legge morale. A questo punto ancora non sappiamo molto di essa, se non che è nostro dovere agire rispettandola. Per questo motivo spiega in luogo della definizione di “massima” che essa è principio soggettivo del dovere, di contro a un principio oggettivo della volontà, «quello cioè che servirebbe anche soggettivamente da 16.  Ivi, p. 71. 17.  Ivi, p. 73. 18.  Ivi, p. 71.

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principio pratico a tutti gli esseri razionali, se la ragione avesse un dominio pieno sulla loro facoltà di desiderare»: la «legge pratica»19, o “legge morale”. Ci troviamo in un punto cruciale e delicato dell’argomentazione kantiana e, come vedremo a breve, egli ne è ben consapevole. La ragione non ha un pieno controllo sulla facoltà di desiderare; la volontà si determina ad agire attraverso principi soggettivi, le massime; queste ultime dovrebbero corrispondere, ma possono evitarlo, a quelli che sarebbero dei principi oggettivi, le leggi pratiche; qualora ciò accada, per dovere e non per inclinazione, l’azione ha pieno valore morale e possiamo dire che la volontà che l’ha determinata è buona. È solo in questa corrispondenza tra massime soggettive e principi oggettivi che si gioca la sua bontà e non in ciò che è voluto, l’«effetto dell’azione progettata»: per l’oggetto della volizione si può avere «bensì un’inclinazione, ma mai rispetto»20; questo rispetto cattura la volontà e la motiva ad agire bene, anche contro alle sue inclinazioni, a causa, potremmo dire, dell’immediata validità riconosciuta dalla ragione alla legge pratica. Dopo aver escluso dai moventi dell’azione qualsiasi oggetto esterno alla volontà, Kant argomenta dunque introducendo questo sentimento del rispetto; lui stesso confessa che possa parere «oscuro»21, e certo così è per chi legge, poiché è difficile pensare che non sia «un sentimento ricevuto per una azione esterna, bensì prodotto da sé, per un concetto della ragione»22; è difficile, insomma, accogliere che la legge pratica, come verrà più avanti formulata, esiga tale reazione non perché le si riconosca un’utilità, o un’efficacia, o un valore de19.  Ivi, p. 73. 20.  Ivi, p. 71. 21.  Ivi, p. 75. 22.  Ivi, p. 75, nota.

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rivante dall’immaginarsi un mondo in cui venga onorata, ma la esiga immediatamente. È impensabile, si capisce, che per Kant possa essere l’utilità (o altro) della legge morale a determinarne l’accettazione razionale; per questo vogliamo qui sottolineare quanto sia impervio proporre di far “impattare” la legge morale sulla volontà da sé, in veste di nuda formulazione, giungendo a dire perfino che «ogni rispetto verso una persona è, propriamente, solo rispetto verso la legge (dell’onestà), di cui essa ci fornisce un esempio»23. Non v’è dubbio che questo è uno dei punti in cui Kant gioca molto della sua fondazione, la cui ambizione, bisogna ammetterlo, è tale che non avrebbe potuto, per come l’ha fin qui tratteggiata, chiedersi di meno. Che aspetto ha questa legge? Essa non può dipendere dalle inclinazioni di un soggetto né dagli effetti che esso si prefiguri, non deve avere un contenuto determinato né derivare dall’esperienza; deve valere per tutti gli esseri razionali in quanto tali, poiché è la ragione a riconoscerne la normatività; essa deve essere perciò a priori; dunque, poiché Kant ha sottratto alla volontà tutti gli impulsi che potrebbero derivare dal prestare obbedienza a una qualche legge, non rimane altro che la universale conformità delle azioni alla legge in genere: solo questa deve servire da principio alla volontà. Cioè, io non devo mai comportarmi in modo tale da non poter volere che la mia massima divenga una legge universale.24

Ecco presentata una prima formulazione della legge morale, che più avanti verrà proposta in forma imperativa; come si nota, essa non dice nulla del contenuto che le massime hanno, ma solo il modo in cui devono articolarsi. Per mostrare all’opera il principio appena esposto, Kant propone l’esempio di chi si impegni in una promessa: è moralmente lecito promettere senza

23.  Ibidem. 24.  Ivi, p. 77.

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l’intenzione di mantenere? Vediamo: se non si segue il principio del dovere, bisogna dedicarsi a numerose valutazioni circa il contesto, la persona ricevente, i vantaggi possibili, i rischi connessi, e via dicendo; sarebbe necessaria dunque una certa conoscenza del mondo, la quale però non garantirebbe circa l’attuarsi delle conseguenze sperate al falso promittente; quindi potrebbe parere che non sia saggio promettere con l’intenzione di non mantenere, a causa dell’ignoranza circa le conseguenze, che potrebbero rivelarsi dannose. In questo modo si otterrebbe una massima (“non promettere senza l’intenzione di mantenere, perché in molti casi può andarti male”) dall’effetto simile a quello che seguirebbe la massima del dovere: il mantenimento delle promesse. Ma se fosse solo una questione di prudenza (primo esempio), si potrebbe pensare che nel caso si presenti l’occasione di controllare in modo quasi certo gli effetti di tale azione, ecco che la massima prudente potrebbe venire meno e consentire una falsa promessa. Perciò fondare le proprie massime sull’accortezza non garantisce che vengano rispettate e non fa guadagnare valore etico alla volontà che vi si conforma; «se, infatti, mi scosto dal principio del dovere, l’azione è senz’altro moralmente cattiva»25. Ma se invece ci domandiamo: possiamo volere che la nostra massima “prometti con l’intenzione di non mantenere quando sei sicuro di ricavarne un vantaggio” (ad esempio) divenga una legge universale? La risposta di Kant è no. Non è possibile volerlo (nemmeno pensarlo, in realtà); se così fosse ogni promessa formulata perderebbe di valore per chi l’ascolta e perciò non avrebbe più senso farne: «non appena, quindi, la mia massima divenisse una legge universale, si distruggerebbe da sé». Per sapere questo non c’è bisogno di alcuna particolare conoscenza del mondo ed è fondamentale che sia così, se il principio pratico supremo deve essere a priori e già sempre disponibile alla ragione. 25.  Ivi, p. 79.

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Siamo dunque giunti a comprendere che cosa renda buona una volontà: «il puro rispetto della legge pratica»26, cioè il dovere. Quando le massime di una volontà si conformano alla legge morale per dovere, allora la volontà che così si determina è buona. Ma perché se questa legge ha una necessaria validità per ogni essere razionale, vi sono al mondo così tante persone che non la rispettano, che si comportano in modo immorale? La risposta di Kant potrebbe essere che la finitezza della volontà razionale umana porta molto spesso le persone a scegliere le proprie massime d’azione rendendo le «severe leggi del dovere […] più adattabili ai [propri] desideri e inclinazioni»27. Perciò, nonostante ogni volontà razionale contenga per costituzione la legge morale, è necessario procedere a un’attenta analisi della fonte della sua validità e del modo in cui opera, per chiarire alla comune ragione il retto modo di agire, farle escludere ogni seduzione derivante da inclinazioni sensibili e così eludere il rischio radicale di un conflitto interno alla ragione stessa; questa «dialettica naturale»28 è pericolosa per la comune ragione pratica e, per educarla bene, bisogna procedere a una chiarificazione del principio supremo della moralità.

1.3. La volontà razionale finita In ogni snodo cruciale della Fondazione si incontra quella che può essere vista come la sua protagonista: la volontà. Sino al dodicesimo capoverso della seconda sezione, Kant non fornisce una sua definizione; essa è stata incontrata nelle primissime righe in veste dell’unica cosa che può essere considerata

26.  Ivi, p. 81. 27.  Ivi, p. 85. 28.  Ivi, p. 83.

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buona senza condizioni; solo prima di tratteggiare la sua dottrina degli imperativi ci dà un’idea di come vada filosoficamente intesa: ogni cosa di natura agisce secondo leggi. Solo un essere razionale ha la capacità di agire secondo la rappresentazione delle leggi, cioè secondo princìpi ovvero con una volontà. Poiché, per desumere le azioni dalle leggi, si richiede la ragione, la volontà altro non è che ragion pratica.29

La volontà si presenta come una facoltà razionale appartenente a un soggetto agente e segue delle leggi che egli si rappresenta; proprio perché le azioni non sono reazioni irriflesse a stimoli, riducibili a eventi naturali, ma determinate da rappresentazioni, la volontà è ragione pratica. Negli uomini però essa «non è in sé interamente conforme alla ragione», ma è «soggetta ancora a condizioni soggettive (a determinati moventi), che non sempre concordano con le oggettive»; a loro la ragione comanda attraverso degli imperativi, cioè rappresentazioni di principi oggettivi in quanto necessari per una volontà nel suo determinarsi: «essi dicono che compiere od omettere una qualche cosa sarebbe bene: però lo dicono a una volontà che non sempre fa senz’altro una cosa perché le si fa presente che è bene farla»30. Il contenuto di razionalità è lo stesso sia che si tratti di volontà razionali finite (uomini) sia di una volontà razionale infinita (Dio); la differenza tra le due è che le prime, trovandosi nella scomoda situazione di “risiedere” in enti la cui azione può essere determinata da inclinazioni e desideri soggettivi, ed essendo perciò imperfette, necessitano di regole. La seconda, invece, è determinata senza mediazioni dalla ragione; rispetta le medesime leggi oggettive del bene (che vengono rappresentate), laddove «buono è ciò che determi-

29.  Ivi, pp. 101-103. 30.  Ivi, p. 103.

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na la volontà per mezzo di rappresentazioni della ragione […] oggettivamente»31, ma queste non le si impongono secondo nessuna necessitazione. Il confronto tra volontà razionale finita e infinita viene svolto da Kant per mettere in luce la modalità prescrittiva cui risponde la prima, cioè ciò che segue in ogni forma di agire pregnante: gli imperativi.

1.4. Gli imperativi Ogni determinazione di una volontà razionale finita risponde a un dovere (Sollen) enunciato in forma imperativa, il quale non è sempre di pertinenza morale nel senso di un’azione doverosa (Pflicht); Kant, infatti, distingue gli imperativi in due generi: gli imperativi ipotetici e l’imperativo categorico. Entrambi prescrivono una determinata azione come buona, ma in due sensi diversi; gli uni informano che l’azione è buona per altro da sé, «per una qualche finalità, possibile o reale», l’altro «sarebbe, per contro, quello che presenta un’azione come oggettivamente necessaria per se stessa, indipendentemente dal rapporto con un altro scopo»32, e dunque rappresenta l’azione buona in sé: poiché la loro differenza riguarda la relazione alla condizione di validità, muta, insieme ad essa, anche il loro contenuto. Con la nozione di imperativo Kant «copre l’intero ambito dell’agire»33 e mostra come «la decisione di agire è sempre sottoposta a una qualche normatività»34. Egli perciò ribalta la prospettiva tradizionale; invece che riflettere su che cosa sia il bene e quali proprietà metafisiche gli pertenga31.  Ivi, pp. 103-104. 32.  Ivi, p. 107. 33.  S. Bacin, Imperativo, Guida, Napoli 2011, p. 27. 34.  Ivi, p. 28.

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no per derivare da lì i doveri, definisce ciò che è buono attraverso i comandi; qualcosa è riconosciuto come buono grazie ad essi. Gli imperativi che comandano ipoteticamente presuppongono un fine legato a un desiderio del soggetto; poiché enunciano una necessità pratica indicano cosa è necessario fare per raggiungere tale fine: questa necessità è valida e oggettiva, ma a una condizione posta in partenza, e da qui derivano il loro statuto ipotetico. Questo genere di comandi si può affermare che appartenga a una ragione strumentale, la quale più conoscenze ha del mondo, più sarà efficace nel far raggiungere alla volontà ciò che desidera. Perciò Kant divide a loro volta gli imperativi ipotetici in regole dell’abilità e in consigli della prudenza; i primi comandano l’azione buona per uno scopo possibile, e perciò più uno è abile, più sarà capace di usare i mezzi migliori per il fine propostosi; i secondi comandano l’azione buona per uno scopo reale dato, un fine naturale per ogni essere finito, cioè la felicità, il quale si può ritenere presente in ogni volontà; per questi ultimi sarà dunque la prudenza a consigliare i mezzi più appropriati per raggiungere il proprio benessere. Questa famiglia di imperativi non ha alcuna relazione con l’ambito morale; si differenzia nei contenuti sulla base di condizioni empiriche determinate, e perciò non può rendere conto dell’universalità e incondizionatezza che deve riguardare l’agire morale, il quale, per essere tale, si deve mostrare che sia determinato in toto a priori. Gli imperativi che comandano categoricamente (tutti, come vedremo, sono variazioni di un unico e solo comando) presentano un’azione come buona in sé, non in relazione ad altro, un’azione per necessità buona; la materia di questi non può dipendere da ciò che si desideri come effetto, ma riguarda il modo in cui il soggetto si determina nel volere: «la bontà essenziale dell’azione stessa consiste nell’intenzione, qualunque

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ne sia poi il risultato»35. Il campo dischiuso da questo imperativo, della cui validità e realtà Kant dovrà convincere il lettore, è quello della morale, l’unico interessante in sede fondativa. Ma come si può pensare la costrizione della volontà che l’imperativo esprime? Da dove trae la sua normatività36? Per le due specie di quello ipotetico Kant rileva un nesso analitico per cui si può dire che, senza dilungarci nelle diverse sfumature da lui analizzate, l’intento di adottare determinati mezzi è per necessità contenuto nell’intento anteriore di conseguire il fine corrispondente; di qui derivano la loro normatività una volta posta la condizione, pena una sorta di contraddizione nel volere. Ad essi si presentano due difficoltà; per quanto concerne entrambi, le relazioni tra i mezzi e fini sono empiriche e perciò richiedono una conoscenza acquisibile solo nel tempo, insieme alla conoscenza di una serie in potenza infinita di nessi causali per individuarli in modo corretto; e per quanto riguarda i “consigli della prudenza” in vista della felicità, anche se il fine è dato, non è possibile determinarlo a priori, poiché varia al variare dei desideri dei soggetti. Di contro, l’imperativo categorico non manifesta questi problemi; essendo una prescrizione per azioni senza riferimento a uno scopo non necessita della conoscenza di infinite informazioni riguardanti nessi causali; inoltre, a differenza di un imperativo ipotetico, il quale «non so in precedenza cosa conterrà […] fin quando […] la condizione non mi sia indicata» (presupposto empirico), deve essere accessibile in sé ad ogni volontà e perciò «so immediatamente che cosa contiene»37. Rispetto agli altri, solo dell’imperativo categorico si può pensare che sia una legge pratica:

35.  I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 111. 36.  Cfr. ivi, p. 113. 37.  Ivi, p. 123.

35 infatti, ciò che è necessario semplicemente per raggiungere un qualche scopo può essere considerato in sé come accidentale, e noi ci possiamo sempre esimere dal precetto rinunciando allo scopo; per contro, il comando incondizionato non lascia alla volontà alcuna scelta di preferire il contrario ed è il solo, pertanto, che comporti quella necessità che è propria della legge.38

Se l’imperativo categorico comanda senza condizioni ad ogni volontà con la necessità propria della legge e la volontà, come abbiamo visto, si determina rappresentandosi delle massime, cioè dei principi soggettivi d’azione, che cosa comanda per l’esattezza tale legge suprema della morale? Si è detto che è incondizionata e perciò come “materia” (oggetto) non può avere nulla di particolare, d’altro rispetto a sé; non resta che rivolgersi alla forma di essa, la quale è l’universalità, cioè il valere per tutti gli esseri razionali a prescindere da qualsiasi differenza empirica: allora «non rimane se non l’universalità di una legge in generale, a cui la massima dell’azione debba conformarsi»39. Perciò il contenuto dell’imperativo categorico non può che corrispondere alla sua forma40, la necessità per la massima di conformarsi alla legge, ed è da Kant formulato nel modo seguente: «agisci solo secondo quella massima che tu puoi volere, al tempo stesso, che divenga una legge universale»41. 1.4.1. Le formulazioni ausiliarie dell’imperativo categorico Nonostante in alcuni luoghi Kant parli di “imperativi catego­ rici”42, l’imperativo categorico è uno e uno soltanto, la cui for38.  Ivi, p. 121. 39.  Ivi, p. 123. 40.  Cfr. ivi, p. 234, nota 13. 41.  Ivi, p. 123. 42.  Cfr. ad es., ivi, p. 203.

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mulazione principale è stata poco sopra riportata; sempre nella seconda sezione vengono proposte delle formulazioni ausiliarie con lo scopo di far risultare la legge morale, già a priori a disposizione, più facile da afferrare. Ci soffermiamo su queste formulazioni poiché, come vedremo, nelle pagine in cui vengono presentate si rendono chiari altri punti cruciali della fondazione morale kantiana: in particolare si getta luce su chi è compreso come partecipante nel circuito della sua etica e per quali ragioni. 1.4.2. «Agisci come se la massima della tua azione dovesse, per tua volontà, divenire una legge universale di natura» La prima formulazione ausiliaria43 sembra non aggiungere molto a quella principale; essa invita a immaginarsi una natura, cioè, a livello formale, un ordine di elementi regolati da leggi, che accada seguendo come leggi le massime che ci si propone; così Kant argomenta che una natura in cui viga la legge “poni fine alla tua vita” e “prometti con l’intenzione di non mantenere”, o “non coltivare i tuoi talenti” e “non aiutare chi è in difficoltà”, nei primi due casi (doveri perfetti verso di sé e verso gli altri) è impensabile, poiché verrebbe meno con la sua stessa istituzione l’ordine che si vuole costituire; mentre negli altri due (doveri imperfetti verso di sé e verso gli altri) è immaginabile, ma impossibile da volere che sia, cioè «che ciò divenga […] un istinto posto dalla natura in noi»44: nel primo caso, agli agenti in quanto esseri razionali è indispensabile sviluppare le capacità che hanno a disposizione per raggiungere i propri fini; nel secondo, può presentarsi con facilità l’eventualità in cui si abbia bisogno di aiuto: sarebbe assurdo non voler in generale riceverlo.

43.  Ivi, p. 125. 44.  Ivi, p. 129.

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Quando la volontà si dà massime contrarie al dovere in realtà non fa altro che riconoscere la sua normatività e cogenza; nessuno può volere che chiunque faccia una promessa sappia già di non mantenerla, la pratica stessa perderebbe il suo senso, e perciò tutti riconoscono la validità del comando45; ciò che vuole chi agisce contro tale comando non è che esso venga meno, ma fare un’eccezione per sé, sottolineandone così la validità. L’imperativo categorico impone di assumere il punto di vista della ragione, la quale mostra in modo netto quando la volontà entra in contraddizione con se stessa o per incoerenza (doveri perfetti) o per il volere stesso (doveri imperfetti). Kant sta dicendo che è proprio l’amore di sé ciò che non va assecondato nell’agire etico; l’azione per essere morale non deve tenere conto in alcun modo di tale inclinazione nel suo determinarsi, pena la perdita del suo stesso valore. Questa visione, se presa fino in fondo, genera una difficoltà di cui lo stesso Kant sembra essere cosciente quando scrive: di qui non si può concludere con sicurezza che, effettivamente, qualche stimolo nascosto dell’amor di sé non sia stata la vera causa determinante della volontà, dietro la mera facciata dell’idea del dovere […] quando si tratta del valore morale, ciò che conta non sono le azioni, che si vedono, bensì i loro princìpi interiori, che non si vedono.46

Come è possibile essere certi che la propria azione sia moralmente giusta se anche quando è conforme al dovere, e anche quando si crede di volere che essa sia compiuta per dovere, forse “dietro di essa” agisce qualche stimolo dell’amor di sé? A questa domanda Kant sembra non dare una risposta soddisfacente, ma di questo tratteremo meglio in sede critica. Con la prima formulazione ausiliaria dell’imperativo categorico si

45.  Sulle difficoltà poste proprio dall’esempio del promettere torneremo. 46.  Ivi, p. 89.

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dovrebbe dunque scorgere meglio come la forma per necessità universale che esso deve possedere sia determinante nell’agire morale, «se il dovere è un concetto dotato di significato e di effettiva giurisdizione sulle nostre azioni»; ma a questo punto Kant ci dice che non si è ancora dimostrato che «un tal imperativo esista realmente, e che vi sia una legge pratica che comanda di per sé, con forza assoluta e al di fuori di ogni altro movente […] e, infine, che l’obbedienza a tale legge sia dovere»47. 1.4.3. La seconda formulazione ausiliaria: il principio dell’uma­ nità Kant nelle pagine della Fondazione ha ribadito a più riprese che la legge morale, per essere tale, non può dipendere in alcun modo da caratteristiche empiriche, come ad esempio la costituzione biologica degli esseri umani; in tal caso, infatti, non potrebbe essere a priori e comandare in modo universale a ogni essere razionale; venisse meno il carattere fisico che la porta con sé, verrebbe meno anch’essa; ma questo è impensabile. Gli esseri umani sono sottoposti alla legge non in quanto umani (nel senso di appartenenti alla specie homo sapiens), ma in quanto razionali; tant’è vero che lo stesso essere razionale infinito non può che riconoscere, per dir così, tale legge, allo stesso modo di come non può che riconoscere la verità del fatto che la somma degli angoli interni di un triangolo fa sempre 180°. Come si è detto in precedenza, la differenza tra gli uomini e Dio (o anche rispetto a volontà sante, come quelle che avrebbero gli angeli) risiede non nel contenuto razionale della legge morale, ma nella relazione che essa assume con le diverse volontà; alla volontà degli uomini in quanto esseri

47.  Ivi, p. 133.

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razionali finiti prescrive di conformarsi ad essa imponendosi categoricamente; la volontà di Dio è invece descritta da essa. Ecco il nodo che va sciolto: l’esistenza della legge morale non è da ricercarsi né in cielo (prodotto della volontà di Dio) né in terra (dipendenza dalla costituzione biologica umana)48, ma va mostrato che essa è connessa «(del tutto a prio­ri) già col concetto della volontà di un essere razionale in genere»49. Kant ripropone, formulandola questa volta in modo esplicito, la definizione di volontà per cui questa «è pensata come una facoltà di determinarsi all’azione secondo la rappresentazione di certe leggi»50; ciò che fonda il suo articolarsi in un modo piuttosto che in un altro è lo scopo che si propone; questo, per essere all’altezza dell’universalità richiesta e dunque un motivo oggettivo, non può dipendere dalle inclinazioni di chi incarna tale volontà (movente soggettivo), ma valere allo stesso modo per tutti gli esseri razionali; un scopo oggettivo non può essere perciò relativo agli effetti che un determinato essere razionale può desiderare in seguito alla sua azione: tale scopo oggettivo deve essere qualcosa che è un fine in sé, e dunque posto […] che vi sia qualcosa la cui esistenza ha in se stessa un valore assoluto, e che, come fine in sé, possa essere fondamento di determinate leggi, in ciò, e soltanto in ciò, si troverebbe il fondamento di un possibile imperativo categorico, cioè della legge pratica.51

È evidente che questo punto è cruciale per tutta la fondazione kantiana. Venisse meno ciò che ha un valore assoluto, il fine in

48.  Ivi, p. 135. 49.  Ivi, p. 139. 50.  Ibidem. 51.  Ivi, p. 141.

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sé, non si troverebbe più alcun imperativo categorico. Ma chi si merita un simile statuto? Kant è sicuro e taglia corto: «l’uomo, e ogni essere razionale in genere»52, è da considerarsi fine in sé. La felicità è esclusa, poiché il suo contenuto è variabile e una sua ipotetica concretizzazione, per quanto saggia possa sembrare (felicità come vita vissuta seguendo questa e quella regola, consiglio, ecc.), non può valere senza condizioni. Allo stesso modo vengono eliminati gli oggetti delle inclinazioni, in quanto condizionati, appunto, dalle inclinazioni, senza le quali non sussisterebbero; le inclinazioni stesse, dalle quali Kant avvisa di tenersi alla larga dall’inizio dell’opera; e infine gli enti di natura privi di ragione, i quali «hanno unicamente un valore relativo, di mezzi, e si chiamano perciò cose»53. Gli esseri razionali, in quanto fini in sé, vanno chiamati persone. Più avanti si spiegherà che cosa rende un ente una persona; dalla prima sezione sappiamo che l’unico oggetto di rispetto è la legge morale e che le persone possono esserlo solo perché soggette ad essa in quanto suo esempio: ma finché non troverà soddisfazione quel punto, cioè perché siano gli uomini in quanto persone i fini in sé, non possiamo evitare di esercitare il dubbio circa tale assunto, nonostante possa essere condiviso prima facie da molti. Lo stesso Kant sembra invitare a pazientare, poiché ribadisce quanto già detto in precedenza, con più specificità, quando scrive: «se ha da esservi, dunque, un principio pratico supremo […] il fondamento di tale principio è: la natura razionale esiste come un fine in sé. Così, necessariamente, l’uomo si rappresenta la propria esistenza»54. Per Kant è scontato che tale principio sussista, ma con questa frase, anche se solo a scopo argomentativo,

52.  Ibidem. 53.  Ivi, p. 143. 54.  Ibidem.

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egli instilla il dubbio nel lettore che esso potrebbe anche non esserci; alla sua esistenza viene inoltre legato quello che non è da considerarsi niente meno che un assioma, più che discutibile, come la qualifica di fine in sé della natura razionale; il quale, per essere reso convincente in prima battuta, si dice che è il modo con cui ogni uomo rappresenta la propria esistenza. Anche ora non si può non notare che ci sono ampi margini di discutibilità in tale catena di assunzioni, ma di questo, ancora una volta, dovremo parlare più tardi. Il punto interessante che vogliamo qui sottolineare è che finalmente incontriamo chi partecipa al circuito dell’etica kantiana, chi, si potrebbe dire, ha valore etico: gli altri uomini in quanto dotati di razionalità55 (in realtà vedremo che l’argomento è più sottile). Perciò la seconda, celebre, formulazione ausiliaria dell’imperativo categorico recita: «agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche al tempo stesso come scopo, e mai come semplice mezzo»56. Si deve allora distinguere tra scopi soggettivi e oggettivi; i primi sono quelli che si pone una volontà; i secondi sono i fini in sé, gli altri esseri razionali, che ne limitano l’arbitrio, in quanto gli scopi soggettivi devono sempre tenere in conto quelli oggettivi; perciò un fine in sé non può essere subordinato ad alcun oggetto. I medesimi esempi utilizzati per vagliare la prima formulazione ausiliaria possono essere riletti alla luce della seconda: è moralmente sbagliato suicidarsi poiché, colui che si usi come mezzo per porre fine alla propria infelice vita, non terrebbe in considerazione l’umanità nella sua persona come fine; allo stesso modo non la rispetterebbe in 55.  Potenzialmente anche degli alieni razionali godrebbero di valore etico, qualora venissero incontrati. In merito ad essi ci si potrebbe tuttavia domandare: sarebbe bene dare per scontato che anche loro avvertano tale reciprocità nei nostri confronti? 56.  Ivi, pp. 143-145.

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un altro uomo quando abusasse della sua fiducia compiendo una falsa promessa (doveri perfetti); quando non valorizzasse i propri talenti e si rifiutasse di aiutare gli altri (doveri imperfetti). Nonostante nel caso dei doveri imperfetti non si violino in senso stretto fini oggettivi, significherebbe comunque non rispettarli, poiché, una volta riconosciuti, essi implicano la loro promozione (non si può non volerli promuovere): è un dovere aiutare il prossimo, se si ha la possibilità di farlo senza violare doveri più incombenti verso di sé e si ha la possibilità di raggiungerlo con le proprie azioni. Questa formulazione permette, secondo Kant, di determinare in modo chiaro le quattro classi di doveri, a differenza per esempio della famosa regola aurea che recita “non fare agli altri quello che vuoi che non sia fatto a te” (con la possibile formulazione positiva), la quale, nonostante abbia una sua utilità pratica, rimane dipendente da desideri e volontà precedenti (ciò che si vuole che venga fatto a sé), e può perciò essere condizionata dal modo soggettivo in cui ognuno può voler essere trattato, perdendo l’universalità di cui necessita il principio supremo della morale: «segue ora di qui il terzo principio pratico della volontà, come condizione suprema del suo accordo con la ragion pratica universale: l’idea della volontà di ogni essere razionale come di una volontà universalmente legislatrice»57. Eccoci giunti alla terza formulazione ausiliaria dell’imperativo categorico58. 57.  Ivi, p. 149. 58.  La si può leggere espressa sotto forma di imperativo a p. 171: «non scegliere, se non in modo che le massime a cui si ispira la scelta siano, nel medesimo tempo, comprese nella volontà come una legge universale», o ancora meglio nella Critica della ragion pratica: «Legge fondamentale della ragion pura pratica. – Agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere sempre, al tempo stesso, come principio di una legislazione universale» (I. Kant, Critica della ragion pratica, tr. it., con testo ted. a fronte, a cura di V. Mathieu, Bompiani, Milano 2017).

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1.4.4. La terza formulazione ausiliaria e l’autonomia della volontà L’enunciazione della terza formulazione ausiliaria è un momento cruciale nell’evoluzione argomentativa dell’opera poiché prepara il tavolo del lettore a ricevere il cuore della ricerca svolta da Kant in questa sezione, se non dell’intera Fondazione: il principio dell’autonomia della volontà59. Il passo successivo alla terza formulazione chiarisce la portata del risultato: essa infatti esclude tutte le massime non compatibili con una legislazione universale della volontà, mostrando che la volontà è sì sottoposta alla legge, ma in quanto è essa stessa auto-legislatrice: non solo, quindi, la volontà viene sottoposta alla legge, ma vi viene sottoposta in modo da dover essere considerata anche come legislatrice rispetto a se stessa, e solo per questo, appunto, sottomessa alla legge (di cui essa stessa può considerarsi come l’autrice).60

Cosa significa che una volontà è sottoposta alla legge morale e allo stesso tempo è da considerarsi la sua autrice? Se si è detto che nemmeno la volontà perfetta (Dio) l’ha creata, sembrerebbe di esser caduti in contraddizione; ma procediamo con le informazioni che già possediamo e vediamo se si scioglie il nodo. La legge morale è necessaria per la determinazione della volontà di un essere razionale perché sarebbe la legge che un essere razionale si dà senza mediazioni né imposizioni estranee alla sua stessa volontà; perciò viene utilizzato il termine “autonomia”, che nel lessico giuridico e politico significa la possibilità di dare leggi a sé stessi, per indicare questo principio. Come 59.  Esplicitato al capoverso 60 («Chiamerò dunque questo principio “principio dell’autonomia della volontà»; I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 153), ma trattato in modo approfondito dal capoverso 80, dopo un riepilogo del percorso sin lì svolto, mostrando come questa sia il vero risultato dell’analisi dell’imperativo categorico. 60.  Ivi, p. 149.

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evitare il rischio di arbitrarismo morale, nonostante dall’inizio dell’opera si ribadisca che bisogna escludere qualsiasi movente soggettivo dall’individuazione del principio supremo della moralità61? La terza formulazione ausiliaria non va letta come se proponesse l’idea secondo la quale qualsiasi massima che un individuo può darsi per determinare la propria volontà ad agire in un certo modo sia, diciamo così, per sua natura, una legge universale, o da considerarsi tale; al contrario, poiché si deve agire solo secondo quella massima che si possa volere, al tempo stesso, che divenga una legge universale, essa non può in alcun modo dipendere da interessi soggettivi; di più, quando Kant scrive “universalmente legislatrice”, si riferisce proprio al fatto che la volontà deve legiferare in base a criteri oggettivi estranei a qualsivoglia arbitrio individuale. Invero, il fatto che la volontà sia autrice della legge non è da intendersi come autrice del suo contenuto o della normatività di esso, ma solo del renderlo vincolante per sé. Un essere razionale riconosce la legge morale come la legge della determinazione della volontà sua propria, e qualora sia finito vi si sottoporrà riconoscendo il dovere che gli imperativi morali gli comandano, in quanto rappresentazioni oggettive di tale legge; qualora invece sia perfetto, vi sarà “sottoposto” anch’Egli, ma in un senso diverso; in quest’ultimo caso, ciò che per un essere razionale imperfetto viene rappresentato come dovere, per un essere razionale perfetto è il suo

61.  Come critica Anscombe: «Kant introduce l’idea di “dare una legge a se stessi”, il che non è meno assurdo di dire – oggi che i voti della maggioranza godono di grande considerazione – che ogni decisione riflessiva che una persona prende è un voto a maggioranza (nella fattispecie, una maggioranza schiacciante, dato che la proporzione è sempre di 1 a 0). Il concetto di legislazione richiede [invece] che il legislatore abbia un potere superiore» (G.E.M. Anscombe, La filosofia morale moderna, tr. it. di M. Falomi, in «Iride», n. 1, 2008, pp. 47-67: p. 48).

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volere. Per cercare di chiarire ancora di più il punto, si può ricordare il problema classico: il Bene è riconosciuto da Dio come tale, o è Dio che stabilisce ciò che è Bene? Nel secondo caso, il Bene dipenderebbe dall’arbitrio di Dio (e si potrebbe pensare che ciò che si considera Male sarebbe potuto essere invece Bene, se Dio così avesse voluto). Seguendo questa analogia si può domandare lo stesso della legge morale: la legge morale è “riconosciuta” da Dio come tale, o è Dio a stabilirne il contenuto? Per ciò che si è detto, è chiaro che Kant ritenga che la legge morale debba avere una validità in sé e non dipendere dall’arbitrio/atto di creazione di nessuno, nemmeno dell’Ente perfettissimo. Dunque, forse si può dire in questo modo: nessuna volontà può aver alcun controllo sul contenuto della legge morale; essa, nel caso di Dio, rispecchia la Sua volontà e non gli impone alcun comando proprio per questo; nel caso di un essere razionale finito, poiché appunto la sua volontà non è perfetta ma inquinata dalla possibilità di determinarsi anche attraverso massime dipendenti da moventi e inclinazioni, essa diventa prescrittiva. Perciò la volontà è, come si è detto, sottoposta alla legge ma allo stesso tempo auto-legislatrice, in quanto responsabile della validità dell’obbligo di essa62. Con il principio dell’autonomia si è dunque raggiunto il primo obiettivo della Fondazione, l’individuazione del principio supremo della moralità; grazie ad esso è possibile comprendere come mai qualsiasi altro tentativo in questa direzione sia fallito in passato, e per dare un nome alla causa degli errori che ne hanno costellato la trama, Kant conia il termine “eteronomia”, in contrapposizione ad autonomia: eteronomia è la caratteristica della volontà per la quale essa lascia che sia un oggetto al di là di essa a darle la legge da seguire nelle proprie determi-

62.  Cfr. S. Bacin, Legge e obbligatorietà: la struttura dell’idea di autolegislazione morale, in «Studi kantiani», XXVI, 2013, pp. 55-70.

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nazioni. Nell’eteronomia cadono le proposte fondative ascrivibili a una prospettiva realista63, che caratterizzano il principio morale in termini empirici, ed anche le proposte volontaristiche, sia che facciano dipendere l’obbligo dall’autorità di un legislatore64 (alla cui legge ci si può sottomettere per interesse o costrizione, e dunque ragioni estranee alla volontà) sia di stampo teonomo65 (legge creata per arbitrio di Dio). L’autonomia proposta da Kant si colloca invece in una posizione mediana rispetto a questi due campi individuati dalla riflessione morale del suo tempo, e insieme oltre: essa conserva un elemento di realismo morale (la struttura portante della morale appartiene alla realtà) poiché esibisce la legge morale come principio razionale, legge necessaria comune a tutti gli esseri razionali; e un elemento di volontarismo, in quanto il carattere vincolante della legge morale dipende dall’autonomia della volontà. In questo modo il concetto dell’essere razionale in genere – che deve considerarsi in tutte le massime della sua volontà come universalmente legislatore, per giudicare da questo punto di vista se stesso e le sue azioni – ci porta a un concetto connesso col primo […] quello di un regno dei fini.66

Questo «regno» va pensato come composto da tutti coloro che sono stati chiamati fini in sé e insieme da tutte le leggi/massime che questi devono darsi nella loro determinazione; esso richiama l’idea leibniziana e agostiniana del regno della Grazia, cioè l’idea di un mondo morale ordinato da leggi morali e retto da Dio (qui «capo supremo» del regno dei fini in quanto «essere del tutto indipendente, libero da bisogni e da limitazioni

63.  Christian Wolff. 64.  Thomas Hobbes. 65.  Christian August Crusius. 66.  I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 153.

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del suo potere, adeguato alla volontà»): la moralità va pensata come dimensione dischiusa dallo scarto tra le massime soggettive e «la legislazione, che rende possibile un regno dei fini»67. Al suo interno viene poi proposta una differenza assiologica tra ciò che ha un prezzo e ciò che ha dignità; il primo oggetto in questione si caratterizza per poter essere sostituito da qualcos’altro di equivalente; il secondo è qualcosa che deve avere «un valore intrinseco», e perciò: la moralità è la condizione a cui soltanto un essere razionale può essere un fine in sé, perché solo in grazia di essa è possibile appartenere, come membro legislatore, al regno dei fini. Dunque, la moralità e l’umanità, in quanto capaci di ciò, sono la sola cosa che abbia dignità.68

In questo passaggio è come se Kant riformulasse in maniera più specifica qualcosa di già affermato in precedenza, quando, in luogo dell’analisi della seconda formulazione ausiliaria, collegava la nozione di fine in sé al requisito della razionalità. L’umanità era allora da intendersi come l’insieme degli esseri umani in quanto razionali e non come insieme di una specie biologica; ora comprendiamo meglio che ciò che rende un uomo persona, dunque un ente con dignità da considerarsi sempre un fine in sé, non è la razionalità, ma l’accesso alla moralità, cioè l’essere soggetti di una possibile volontà buona (soggetti alla legge morale); come dice in una lezione contemporanea a queste pagine: «se solo esseri razionali possono essere fini in se stessi, possono esserlo non perché possiedono ragione, ma perché possiedono la libertà. La ragione è semplicemente un mezzo»69. Tra poco vedremo quale posizione trovi la libertà in questo discorso. 67.  Ivi, p. 155. 68.  Ivi, p. 159. 69.  I. Kant, Lezioni sul diritto naturale, tr. it., con testo ted. a fronte, a cura di N. Hinske e G.S. Bordoni, Bompiani, Milano 2016, p. 75.

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Abbiamo così ripercorso in forma sintetica i passaggi più importanti che conducono Kant a risolvere il primo grande compito di una fondazione dell’etica, e cioè l’individuazione del principio supremo della morale; abbiamo compreso che una volontà è buona quando la sua massima non è in contrasto con se stessa se elevata a legge universale e questo criterio fondamentale viene usato, in modo implicito, anche dal comune intelletto nel giudicare di cose morali; il fine oggettivo non va prodotto ma è il soggetto di una volontà buona possibile e lo status di soggetti razionali come soggetti di una volontà buona possibile dipende dal fatto che ogni essere razionale debba potersi considerare anche come legislatore universale del mondo morale tramite le massime della propria volontà; questa caratteristica propria della volontà razionale di darsi legge da sé è chiamata auto-nomia70, la quale è «il fondamento della dignità della natura umana e di ogni natura razionale»71 ed è il principio della moralità; la moralità consiste nel «rapporto delle azioni con l’autonomia del volere»72 (se un’azione è compatibile con essa, allora è permessa, se no è vietata); la volontà razionale finita è da considerarsi legislatrice nel senso che è autrice dell’obbligatorietà della legge morale, poiché conferisce un assenso necessario al suo contenuto normativo in un prima logico e non temporale; per una volontà razionale finita «la necessità oggettiva di un’azione obbligatoria»73 si presenta come un dovere, in quanto essa può determinarsi anche eteronomamente, cioè lasciare che un oggetto a lei esterno (inclinazione, ad esempio la felicità, o rappresentazione della ragione, ad esempio l’idea

70.  «L’autonomia del volere è quella proprietà della volontà per cui essa è legge a se stessa (indipendentemente da qualsiasi natura degli oggetti del volere)» (I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 171). 71.  Ivi, p. 161. 72.  Ivi, p. 169. 73.  Ivi, p. 171.

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di perfezione) le dia la legge mediante il suo rapporto con essa. Ecco che dunque l’autonomia della volontà è da considerarsi «principio supremo dell’etica»74. L’ultimo compito che Kant si riserva per completare la sua fondazione è accertare la realtà di tale principio, cioè, nei suoi termini, mostrare che ad esso, al fondamento razionale posto come postulato a metà della seconda sezione (di cui aveva promesso che avrebbe mostrato le ragioni)75, corrisponda davvero qualche cosa, e così ultimare il consolidamento del principio supremo della moralità.

1.5. La libertà La terza sezione si apre con una definizione di volontà che getta maggior luce su come vada intesa: «la volontà è un tipo di causalità proprio degli esseri viventi in quanto razionali, e la libertà sarebbe una proprietà di un tale modo di causare, per cui esso agisce indipendentemente da cause esterne che lo determinino»76. Questa prima caratterizzazione negativa della volontà è seguita da una positiva; Kant ha una concezione nomologica della causalità per la quale essa non può sussistere al di fuori di una legge, come accade per tutto ciò che è determinato dalla «necessità naturale»77 e deve rispettare leggi di natura esterne a una volontà; perciò, poiché la libertà consisterebbe proprio nel poter causare a prescindere da cause esterne, essa non può seguire come ogni altra “cosa” le leggi di natura; dunque dovrà essere permessa da una legge di tutt’altro tipo e tale legge è proprio quella data dall’autonomia della volontà: «una volontà libera e una volontà sottoposta alla legge morale sono

74.  Ibidem. 75.  Cfr. ivi, p. 143, nota. 76.  Ivi, p. 185. 77.  Ibidem.

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la stessa cosa»78. Kant è consapevole che non è possibile una trattazione dimostrativa in senso stretto dal punto di vista teoretico della libertà, ma questo fatto, dal punto di vista pratico, non è rilevante, poiché per lui un soggetto non potrebbe avere una volontà se non sotto l’idea di libertà, e perciò questa va attribuita dal punto di vista pratico a tutti gli esseri razionali79; «anche se questa dimostrazione non è compiuta, egualmente valgono, per un essere che non può agire altrimenti che sotto l’idea della sua propria libertà, le stesse leggi che obbligherebbero un essere che fosse libero effettivamente»80. E così ci si libera dal peso che grava in campo teorico. A questo punto, avendo compreso che «il concetto della libertà è la chiave per la spiegazione dell’autonomia del volere»81, non resta che comprendere come possa l’imperativo categorico essere motivante, cioè da dove derivi la sua cogenza. Come sappiamo, a differenza di ogni altra prescrizione ipotetica non può appoggiarsi ad alcuna condizione esterna a sé, e per godere dell’universalità che richiede deve essere a priori, perciò indipendente da ogni oggetto empirico; nonostante ciò, affinché “impatti” sulle azioni, si deve nutrire per esso un qualche interesse, «perché un tal dovere è, propriamente, un volere che vige in ogni essere razionale»82; ma qui si presenta il rischio di una circolarità. Si è assunta l’idea della libertà del volere, si è giunti in virtù dell’autonomia alla legge morale, e poi da qui si è ridiscesi alla libertà del volere. Kant propone di assumere un altro punto di vista per mostrare come questa circolarità dipenda solo dal fatto che libertà del volere e autonomia sono

78.  Ivi, p. 187. 79.  Cfr. ivi, p. 191. 80.  Ivi, p. 189. 81.  Ivi, p. 185. 82.  Ivi, p. 191.

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concetti reciproci, e dunque inspiegabili l’uno mediante l’altro: la distinzione tra la prospettiva del soggetto in quanto semplice elemento naturale inserito nella concatenazione di cause ed effetti e il soggetto come agente attivo. Anche l’intelletto comune deve ammettere che non possa mai conoscere altro che il fenomeno di sé, attraverso le informazioni che ricava dal senso interno durante la sua esperienza; ma come per qualsiasi oggetto che è conoscibile solo nella sua fenomenicità e non come sarebbe in sé, si deve pensare che lo stesso fenomeno di sé celi a suo fondamento un Io, sebbene di questo non si possa conoscere nulla. Il fatto che il soggetto si pensi nel suo fondamento noumenico lo inserisce in quello che viene chiamato «mondo intellegibile»83 di cui è cittadino nella sua parte attiva, «come intelligenza»84; nell’esercizio della propria capacità razionale, infatti, il soggetto si riconosce da un lato modificato e affetto dagli oggetti, ma non riducibile a questa interazione, in un mondo sensibile in cui è «sottoposto alle leggi di natura (eteronomia)»; e insieme si scorge in un mondo intellegibile in cui è «sottoposto a leggi che, indipendentemente dalla natura, non si fondano sull’esperienza, ma esclusivamente sulla ragione»85: perciò l’essere umano deve pensarsi come libero e intelligente. Si giunge così ancora all’idea di libertà non a partire solo dalla stessa, ma anche dalla prospettiva del comprendersi come esseri razionali e consapevoli della propria causalità: l’interesse degli uomini nei confronti delle idee morali nascerebbe dunque dalla loro appartenenza al mondo intellegibile in quanto esseri attivi. Ma come può un uomo in quanto anche essere sensibile, e perciò sottoposto alle leggi naturali, determinare la propria volontà secondo l’imperativo categori-

83.  Ivi, p. 197. 84.  Ivi, p. 199. 85.  Ivi, p. 201.

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co? Come può questo avere un’efficacia nel mondo della sensibilità, se qui tutto ricade sotto l’eteronomia? Insomma, come è possibile un imperativo categorico? La risposta a questa domanda si posiziona nella tensione individuata nella terza antinomia della ragion pura, che contrappone la natura all’idea della libertà; tale antinomia non si può risolvere in forma definitiva in sede teoretica, in cui, anzi, non si può che procedere escludendo da ogni esperienza possibile la libertà: infatti, al livello dei fenomeni, ciò che accade si esperisce solo sotto l’idea di quella causalità che è stata chiamata necessità naturale. Tuttavia, come si è detto, l’uomo in quanto intelligenza non può che pensarsi anche come libero e appartenente al mondo intellegibile; in quanto essere razionale finito non può non pensare che la volontà pura di un essere libero imponga la sua necessitazione sulla volontà esposta ai condizionamenti sensibili; anzi, è proprio questa relazione ad indicare un dovere categorico. Vi è insomma una volontà finita sottoposta alla necessità naturale e l’idea di una volontà pura che contiene la prima; se l’uomo si individuasse solo con la seconda, la sua azione sarebbe sempre conforme all’imperativo categorico, ma, essendo anche volontà finita appartenente al mondo sensibile, la sua azione deve essere conforme all’imperativo categorico: la prescrizione fondamentale espressa in esso non è data da una volontà esterna, ma dalla medesima volontà in cui ci si riconosce come esseri razionali, ed è vincolante proprio perché non giunge da una volontà estranea, ma dalla propria stessa volontà, in forma necessaria. Vi è un Io finito e un Io puro, noumenico; il secondo è a fondamento del primo; pur non potendo conoscere in che modo sia e in che modo eserciti la sua efficacia, il soggetto razionale riconosce che la componente intelligibile della sua costituzione ha priorità normativa rispetto alla componente sensibile: il mondo intelligibile contiene il fondamento del mondo sensibile e, perciò, anche delle sue leggi, e perciò dà immediata-

53 mente la legge alla mia volontà […] nonostante che per un altro verso appartenga al mondo sensibile, come intelligenza mi riconoscerò sottoposto alla legge del primo, cioè della ragione, che racchiude la sua legge nell’idea della libertà, e, quindi, della autonomia del volere. […] Gli imperativi categorici sono così possibili, perché l’idea della libertà fa di me il membro di un mondo intelligibile.86

Si giunge in questo modo al «confine esterno di ogni filosofia pratica», il limite della possibilità dell’imperativo categorico; come si è visto, della libertà non si può avere una conferma empirica nel senso adeguato alla conoscenza del mondo dell’esperienza possibile; ma, nonostante ciò, si ha l’esigenza di ammetterla. Perciò – come già scriveva nella Critica della ragion pura in luogo della soluzione alla terza antinomia – bisogna riconoscere che assumere la libertà non è una tesi di per sé contraddittoria da escludere per ragioni teoretiche; essa non si può dimostrare ma, al tempo stesso, è necessario ammetterla per ragioni pratiche. Dunque si deve riconoscere che la libertà è possibile nonostante non sia possibile conoscere come essa sia possibile: «la filosofia deve dunque presupporre che nessun effettivo contrasto si trovi tra la libertà e la necessità naturale delle medesime azioni umane, non potendo la ragione sacrificare, né il concetto della natura, né quello della libertà»87. Allo stesso modo è impossibile spiegare come sussista un interesse, cioè «ciò con cui la ragione diviene pratica […] [la] causa che determina la volontà», per le leggi morali, cioè «come un puro pensiero, che non contiene in sé nulla di sensibile, produca una sensazione di piacere o di dispiacere»88, ma nonostante ciò gli esseri razionali ne prendono interesse: «solo questo è certo: che quella non ha validità per noi per86.  Ivi, pp. 203-205. 87.  Ivi, p. 209. 88.  Ivi, p. 219.

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ché ci interessa […] bensì che ci interessa perché vale per noi, uomini, scaturendo dalla nostra volontà come intelligenza, e perciò dalla nostra personalità vera e propria»89. Ecco che scorgendo quella che per Kant è la necessità di tale presupposto, fondato sulla necessità di ammettere la libertà, viene consolidato il principio supremo della moralità, se ne vaglia la realtà, l’efficacia, la consistenza. La fondazione dell’etica di Kant è in questo modo compiuta. Ora non resta che metterla alla prova sottoponendo a un’attenta analisi i nodi più problematici che sono stati scorsi in questo percorso. Tale indagine dovrà presentare che cosa andrebbe abbandonato e cosa invece tenuto fermo della sua potente impresa fondativa.

2. Rilievi critici 2.1. Il problema della valutazione morale Una volta terminate le letture della Fondazione della metafisica dei costumi e della Critica della ragion pratica si dovrebbe aver più chiara la risposta alla domanda “che cosa devo fare?”90; senza dubbio Kant, perlomeno in alcuni sensi91, ha proposto

89.  Ivi, p. 221. 90.  «Ogni interesse della mia ragione (tanto lo speculativo che il pratico) si concentra nelle tre domande che seguono: 1. Che cosa posso sapere? 2. Che cosa debbo fare? 3. Che cosa mi è lecito sperare?» (I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 607). 91.  Il compito che Kant non si era proposto in queste opere è quello di fornire precetti pratici “quotidiani”, ma, come si è detto a più riprese, individuare il principio della moralità e mostrare come nella sua relazione necessaria con una volontà razionale permetta la realizzazione di azioni giuste, per così dire; perciò accusare Kant di formalismo vuoto (Hegel, Scheler)

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una via per comprendere come determinare le proprie azioni; ciò che invece sembra continuare a sfuggire al lettore, e per ragioni strutturali, è se possa mai sapere di aver compiuto il suo dovere bene. Per essere più chiari rivediamo una distinzione che ci è già familiare, e cioè quella tra «azioni legalmente morali ed azioni autenticamente morali»92; le prime sono le azioni compiute in conformità al dovere, dietro le quali si annidano però inclinazioni o desideri personali, quali ad esempio l’autocompiacimento o il tentativo di ricevere onori; le seconde sono quelle compiute in conformità al dovere solo e soltanto per dovere. Come scrive nella Fondazione «il caro io» si ritrova dappertutto; così l’amor di sé può in segreto agire anche in quelle azioni volutamente compiute in conformità al dovere e perfino quando si creda davvero di aver agito solo per dovere93. Perché? «Le nostre facoltà conoscitive non possono mai dirci nulla a proposito delle nostre intenzioni e motivazioni autentiche, perché queste non sono conoscibili, non sono oggetti possibili della nostra esperienza»94. Di qui una conseguenza che appare positiva: «nessun uomo può arrogarsi il diritto di ritenersi santo e di nessuno si può pretendere che sia santo»95; ma purtroppo seguono anche molteplici considerazioni che non si presentano in tal modo. per ragioni ascrivibili al non aver indicato le materie empiriche dei diversi voleri possibili «rendendo impossibile l’applicazione della morale, che resterebbe così campata per aria» si fonda su «un assunto errato, comunque si voglia valutare il tentativo di Kant di fondare una morale oggettiva. Ogni volere deve avere un oggetto, quindi una materia», e Kant lo sapeva; semplicemente «la materia […] non può diventare motivo determinante e condizione della legge morale, perché così essa perderebbe il suo valore di legge» (R. Pettoello, Leggere Kant, La Scuola, Brescia 2014, p. 93). 92.  Ivi, p. 99. 93.  Cfr. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 89. 94.  R. Pettoello, Leggere Kant, cit., p. 100. 95.  Ibidem.

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Innanzitutto sembra che l’agire in conformità al dovere per dovere perda in efficacia motivazionale sulla determinazione delle azioni in prima persona, se queste non possono essere afferrate nella loro stoffa morale (cosa legittima da richiedere a una fondazione dell’etica) nemmeno nel proprio giudizio, oltre che in quello di terzi; è chiaro che Kant non può concedere che si debba agire bene per sentirsi virtuosi, o buoni, insomma per compiacersi della propria moralità, poiché questa si sottometterebbe a una condizione empirica e variabile, anche se ammette, certo, che al compimento di un’azione doverosa possa seguire un sentimento di piacere96; ma proprio tale impossibilità strutturale di sapersi giusti in questa o in quella circostanza della propria vita, in particolar modo passata, impedisce la prospettiva consapevole di un auto-miglioramento morale. Questo fatto non può che incidere in senso negativo sul mordente esercitato dall’imperativo categorico, proprio, forse, per la pretesa di una categoricità spinta così a fondo. A questo punto sembra difficile perfino pensare di voler, se ci è permesso il gioco (kantiano) di parole, essere semplici esecutori della legge morale (auto-)impostaci categoricamente; infatti quello che si richiederebbe è qualcosa del tipo: in quanto essere razionale non si può che riconoscere la legge morale e la sua normatività circa le proprie azioni, che dovranno essere determinate attraverso massime soggettive rese conformi alle leggi oggettive della ragion pratica, senza mai sapere se davvero tali azioni siano davvero morali; ciò deve essere accettato perché non si può avere alcuna conoscenza del proprio Io noumenico; deve essere fatto perché deve essere fatto; e poiché se «devi, […]

96.  Seguendo questa direzione, la kantiana C. Bagnoli giustamente riconosce il valore dell’educazione nello sviluppo di “sentimenti morali” e del valore di questi per un’educazione morale efficace (cfr. C. Bagnoli, L’argomento costruttivista contro l’empirismo, in «Bollettino filosofico», XXIX, 2014, pp. 3-27).

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puoi»97, si esegua il comando della legge morale senza fiatare. Insomma, non si comprende perché ci si dovrebbe voler comportare esercitando quella che sarebbe la retta postura morale, se mai si può scorgerne l’ombra lungo il cammino, non già per autocompiacersi, ma per capire se il proprio sforzo etico si stia concentrando nella giusta direzione. Le stesse ragioni conducono, in secondo luogo, una volta estese alla sfera intersoggettiva, all’impossibilità di comprendere il valore delle azioni altrui, operazione che se non ridotta a chiacchiera moralistica può essere importante sotto diversi riguardi (educativo, politico, interculturale, ecc.). Questo problema trova il suo germe nella trama stessa di una «morale dell’intenzione»98 che riservi a quest’ultima sola il valore morale. Come si è detto, tale intenzione si rivela nel suo fondamento, infine, imperscrutabile perfino per il suo stesso portatore, figuriamoci per chi dovrebbe giudicarla da fuori. Nel comune valutare morale cui si riferisce anche Kant con fiducia è evidente che le azioni non vengano valutate solo per le loro intenzioni, ma tutt’al più per gli effetti che provocano; è impensabile che, per esempio, a un fioraio infreddolito venga in mente di giudicare buono l’atto di dar fuoco alle sue lobelie da parte del cliente autenticamente intenzionato a scaldarlo e davvero convinto di comportarsi bene in tal modo. A dispetto della sua assurdità, l’esempio appena riportato può condurci a un terzo punto cruciale e problematico del modo in cui Kant propone la relazione della legge morale con una volontà razionale finita, il seguente: l’inutilità della conoscenza del mondo nello scegliere le proprie massime. Torniamo al nostro esempio; si potrebbe ribattere che un cliente dotato di razionalità sappia che l’atto di dar fuoco alle lobelie di un 97.  I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., Introduzione, p. 14. 98.  R. Pettoello, Leggere Kant, cit., p. 99.

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fioraio infreddolito, nonostante sia fondato sulla disposizione d’animo d’aiutare il prossimo in conformità alla legge morale secondo la massima “procura calore!”, è una pura sciocchezza; gli si rifiuterebbe la razionalità, senza dubbio. Infatti svolgere tale azione per lo scopo che ci siamo inventati è irrazionale. Chiediamoci allora: perché è irrazionale dare fuoco a oggetti intorno a una persona che ha freddo, se l’intenzione è buona? Pare evidente che, senza entrare in distinzioni sofisticate tra i significati di ragione (strumentale, pura, pratica, empirica…), l’universalizzazione della massima non sia sufficiente a produrre un’azione in toto buona se non presuppone, perlomeno alcune, conoscenze del mondo. Qui non stiamo ancora parlando di conoscenze determinate del mondo, ma solo del fatto che determinate conoscenze del mondo vi debbano essere, una materia del volere. Come specificato poco sopra in nota, Kant non era certo così ingenuo da non saperlo; quello che si vuole mostrare è che pare inaccettabile che il valore morale delle azioni risieda solo nelle intenzioni pure; se così fosse, si potrebbe pensare a un’infinità di esempi bislacchi come quello qui sopra proposto, mondi in cui le persone sembrino comportarsi male ma in cui in realtà stiano agendo bene, perché della catena di effetti che segue le loro intenzioni, se buone, devono disinteressarsi99. Un quarto ed ultimo punto da discutere legato al problema della valutazione morale in un’etica stretta delle intenzioni riguar99.  Come scrive A. Zhok ne Il dovere e il piacere. Un’introduzione critica all’etica contemporanea, Mimesis, Milano-Udine 2021, p. 53: «Kant argomenta nel senso di togliere dal piano valutativo la catena delle conseguenze causali di una volontà, e di concentrarsi sulla bontà dell’intenzione. Ma questa rigida divaricazione tra il causale-empirico e il normativo-apriori sembra poco sostenibile già nel momento in cui, per selezionare tra le massime, siamo chiamati ad immaginarne e valutarne l’universalizzazione. Come gli esempi di Kant mostrano bene, immaginarne l’universalizzazione significa immaginare un sistema di relazioni, anche causali».

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da il legame che, voluto o meno in questo contesto, sembra si instauri con Dio. L’inconoscibilità della moralità delle proprie azioni è come se ammiccasse all’idea che da qualche parte vi sia Qualcuno che invece possa valutarci; questo indica che un tale punto permette almeno in potenza una convivenza con universi religiosi, se non la sotterranea necessità di appoggiarvisi. Il primo caso può essere letto anche con positività, il secondo rivelerebbe invece alcune difficoltà, come vedremo tra poco. Chi scrive non ha conoscenze sufficienti per avanzare l’ipotesi di un’influenza diretta di quelle che sembra fossero le convinzioni religiose100 di Kant e, dunque, per ricondurre a una spiegazione psicologica questo legame che si potrebbe leggere tra l’oscurità nel cuore delle intenzioni e la divina vista del creatore dell’universo; ma ciò non sarebbe, in ogni caso, di grande interesse filosofico. Kant non introduce da questo lato il postulato dell’esistenza di Dio, e non è certo per questo che tale postulato andrebbe criticato; l’unica notazione che si vuole perciò compiere va al di là delle intenzioni e del dettato di Kant: se la moralità delle proprie azioni è in fondo inconoscibile, può sorgere a chi riconosca la fondazione kantiana come valida l’esigenza di pensare a un Dio dotato di tale sguardo abissale nella natura degli uomini, per poter sapere, almeno in un’altra vita, chi si sia stati in quella terrena in cui si è cercato di essere giusti, riconoscere se il proprio sforzo è andato a segno oppure se è stato privo di senso. Questo rischio deve essere considerato un problema per ogni fondazione dell’etica che ambisca a non doversi ancorare ad alcun tipo di discorso extra-filosofico, per così dire. Un’etica può dirsi davvero potente se insieme a una retta normazione (fondata) delle azioni restituisca anche a chi

100.  Russell scrive che Kant «come tanti altri, era scettico per quanto riguarda gli argomenti intellettuali [dell’esistenza di Dio], ma abbracciava, senza riserve, i princìpi morali appresi da fanciullo» (B. Russell, Perché non sono cristiano, tr. it. di T.B. Cantarelli, Longanesi, Milano 1960, p. 9).

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agisce il loro senso, arricchendo intensivamente, in tal modo, la sua esistenza.

2.2. Il prezzo del raggiungimento del “sommo bene” Kant nella Fondazione è stato chiaro: la felicità non può essere un fine in sé, non è ciò che ha valore incondizionato, ciò che si deve prima di ogni altra cosa disporsi a conseguire. Solo la volontà buona è buona senza condizioni e solo le persone, in quanto enti razionali soggetti alla legge morale, sono fini in sé. Questo non significa che la felicità non abbia valore o non si debba cercare di ottenerla, ma che il suo valore è condizionato dal possesso di una volontà buona. La moralità, abbiamo visto, rende degni della felicità ma non la implica. La ragion pratica, nella misura in cui regola il determinarsi del ramo empirico, per necessità soggetto a inclinazioni e desideri, della volontà, non può evitare di cercare nel mondo sensibile, in quanto ragione, «la totalità incondizionata dell’oggetto di una ragion pura pratica: […] sotto il nome di sommo bene»101. Questo “sommo bene”, supremo e perfetto, non è la sola volontà buona, come si potrebbe credere da quanto fin qui esposto; essa è infatti il bene supremo in quanto «condizione che è essa stessa incondizionata, cioè che non è subordinata a nessun’altra ed è dunque un che di originario»102, cui però bisogna aggiungere la felicità per ottenere, da questo composto, il “sommo bene”: «virtù e felicità insieme costituiscono, in una persona, il possesso del sommo bene […] questo insieme significa il tutto, il bene perfetto»103. Dovremo pensare che allora la virtù sia felicità o 101.  I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 225. Per la ragione come facoltà dell’incondizionato, si veda la Considerazione conclusiva di Id., Fondazione della metafisica dei costumi, cit., pp. 227-229. 102.  R. Pettoello, Leggere Kant, cit., p. 103. 103.  I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 229.

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che la felicità sia virtù? No categorico. Moralità e felicità non si implicano reciprocamente come ritenevano nel primo caso gli stoici e nel secondo gli epicurei104. Essi hanno commesso due errori: credere di trovare «già in questa vita una giusta proporzione tra virtù e felicità»105 e il non arrivare a scorgere «un autore intellegibile della natura»106. Come sappiamo, l’intenzione di raggiungere la propria felicità non può fondare (produrre) in modo assoluto l’azione morale, virtuosa, che dipende dalla volontà buona; ma non vale lo stesso per il contrario, in questo senso: se è vero che neanche l’intenzione virtuosa produce la felicità, è falso che sia così in modo assoluto. Infatti, che l’intenzione virtuosa non produca di necessità la felicità è vero nel mondo fenomenico, in quanto questo è costituito da una specifica causalità che non contempla tale relazione; ma per quanto concerne il mondo intelligibile, di cui la volontà è membro grazie al suo ramo puro, non si può che riconoscere l’idea che un autore della natura, non condizionato dalle leggi della necessità naturale, secondo altre leggi (morali), corrisponda mediatamente felicità alla volontà buona nel mondo sensibile107. Se infatti non fosse ammissibile il perseguimento del sommo 104.  «Il concetto di virtù, secondo l’epicureo, risiedeva già nella massima di perseguire la propria felicità; il concetto di felicità, per contro, secondo lo stoico era già contenuto nella coscienza della propria virtù» (ivi, p. 233). 105.  R. Pettoello, Leggere Kant, cit., p. 105. 106.  I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 237. 107.  «[…] poiché, non solo sono autorizzato a pensare la mia esistenza anche come noumeno, in un mondo intelligibile, ma ho addirittura, nella legge morale, un fondamento di determinazione puramente intellettuale della mia causalità (nel mondo sensibile), così non è impossibile che la moralità dell’intenzione abbia una connessione se non immediata, almeno mediata (grazie a un autore intelligibile della natura) – e, precisamente, una connessione necessaria, causa – con la felicità come effetto nel mondo sensibile; mentre in una natura che sia puramente oggetto dei sensi quel collegamento non può mai essere altro che accidentale, e non può bastare a produrre il sommo bene» (ibidem).

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bene, «oggetto necessario a priori della nostra volontà, […] la legge morale, che comanda di promuoverlo, dev’essere fantastica e diretta a fini meramente immaginari, quindi falsa in se stessa»108. Di qui si affacciano due idee che Kant pone come postulati della ragion pura pratica, i quali vanno intesi come «condizioni di possibilità dell’oggetto della volontà in quanto determinata dalla legge morale»109. Il primo è quello dell’immortalità dell’anima: dato che la volontà buona deve conformarsi alla legge morale, ma è impossibile per gli esseri sensibili raggiungere una perfetta conformità ad essa durante l’esistenza, e poiché allo stesso tempo sarebbe assurdo che alla volontà si comandi qualcosa che le è impossibile compiere, si deve presupporre che essa duri all’infinito per «realizzare il compito che […] la legge morale e la nostra stessa ragione c’impongono di realizzare»110. Il secondo è quello dell’esistenza di Dio: come si è accennato, in questa vita non è possibile raggiungere una giusta proporzione tra virtù e felicità; ma se il sommo bene è appunto l’insieme di virtù e felicità, ed è un dovere perseguirlo, la nostra ragione può concepire come pensabile tutto questo soltanto «supponendo un’intelligenza suprema» che «garantisca la perfetta concordanza di virtù e felicità», Dio111. Ecco i punti dolenti. Se un’etica ha la necessità di appoggiarsi a postulati di tale natura non può che presentare diversi problemi. Innanzitutto l’inconciliabilità con la “ragione” di ogni individuo ateo; certo, Kant non fa dipendere la normatività della legge morale da Dio; non ci si trova nella situazione in cui si pensa a un Dio che 108.  Ivi, p. 235. 109.  R. Pettoello, Leggere Kant, cit., p. 106. 110.  Ivi, p. 107. 111.  Ivi, p. 108.

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impone le sue leggi; e inoltre l’idea di un’ultraterrena concordanza tra virtù e felicità non deve essere il motivo determinante di una volontà. Tuttavia è inevitabile non leggere quest’ultima come perlomeno in sé consolante, anche se è difficile, una volta accettata (per di più se riconosciuta come ipotesi necessaria), non considerarla davvero motivante per abbracciare l’etica del dovere categorico: un ateo che la rifiuti potrebbe riconoscere comunque la validità di questa morale, nonostante perda la possibilità di compiere l’oggetto necessario a priori della sua ragion pratica? Avrebbe senso? Si potrebbe obiettare: se Kant ha proceduto correttamente sin lì e se ha ragione nel giungere alle sue conclusioni, qualsiasi ragione, in quanto tale e nella misura in cui si comprenda in modo esatto, dovrebbe riconoscersi in esse. Per le finalità che guidano la presente ricerca è bene allora sostare qualche istante su una scelta teorica che orienta la sua stesura. Nella misura in cui un’etica abbia tra le sue radici tali assunti ontologici (“esistenza” di Dio, immortalità dell’anima, e, come approfondiremo meglio più avanti, la libertà della volontà), seppur nei fini limiti individuati da Kant circa la loro pensabilità, deve essere rifiutata. Questo rifiuto non dipende dalla sua validità, che può essere ammessa da tutti coloro che si riconoscono nei suoi principi, ma dalla sua ampiezza, e per la stessa ragione per cui non affronteremo etiche figlie di religioni; come è facile vedere, queste ultime non possono che escludere a livello teoretico112 di principio qualsiasi proposta partorita da un grembo diverso, mentre etiche che si fondino solo sulla “ragione” (per dir in fretta), cioè su un terreno che vogliamo supporre in potenza universalmente riconoscibile da chiunque (certo, posta l’accettazione di determinate premesse, contesti, condizioni, 112.  Ciò non significa certo che a livello pratico e concreto non sia possibile che due religioni convivano, perfino con serenità, pur rifiutando i rispettivi orizzonti altrui.

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ecc.) si presentano in modo diverso. Infatti posizioni che cerchino verità universali113 intersoggettivamente valide, da comprendere nel loro cammino, come direbbe Carlo Sini, devono essere passibili di rettifica, discussione, e perfino, in taluni casi, revoca. Mentre le etiche religiose non possono che rifiutare qualsiasi altra prospettiva ontologicamente estranea, quelle “razionali” possono, qualora coloro che le incarnano ne abbiano il desiderio, riconciliarsi a ontologie religiose al livello della fede, senza sacrificare il requisito di riconoscibilità universale intersoggettiva in campo fondativo. Non si sta dicendo che un’etica razionale debba mettere d’accordo tutti (tutte le culture con rispettive etiche e ontologie e visioni del mondo differenti, o perfino di tutti i tempi passati, presenti e futuri) o che in concreto ciò sia possibile; ma che si deve assumere la possibilità logica di tale accordo, il quale, posto appunto che non sia una fantasia, non può che fiorire, ci sembra, nel giardino della razionalità. Perciò nella misura in cui l’etica kantiana necessiti di fede per la sua piena validità e compiutezza, in tanto, in questa sede, non può che esser criticata e rifiutata, per le ragioni sopra addotte. In chiusura di questo paragrafo vogliamo approfondire una critica appena accennata qualche pagina sopra al modo in cui Kant intende la felicità. Egli la individua nella soddisfazione di tutte le inclinazioni; nella Critica della ragion pratica infatti scrive che è «la condizione di un essere razionale nel mondo, a cui, nell’intera sua esistenza, tutto va secondo il suo desiderio e volere»114; spiegando che le inclinazioni naturali non sono di per sé malvagie, ma vanno solo domate per evitare che si scon-

113.  Sarà nostra premura specificare a suo tempo come vada intesa tale universalità; si dica per il momento che essa non va intesa come assolutezza di un giudizio in ogni tempo e spazio, ma come proprietà di un giudizio che vale per tutti i membri di un determinato dominio, il quale, si capirà, può mutare a seconda di contesti, epoche, circostanze, caratteristiche, ecc. 114. I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 253.

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trino tra di loro, altrove parla della felicità come di un’armonia del tutto115. Ebbene, sembra che a questa impostazione manchi l’altro come anello essenziale per raggiungere tale condizione; è possibile pensare a una persona davvero felice se tutte le persone che ha intorno nella sua vita sono infelici? A meno che non si faccia rientrare nelle proprie tendenze personali l’inclinazione a rendere felici gli altri, o a goderne/esserne arricchiti, riduzione quantomeno curiosa, la felicità per come la tratteggia Kant sembra constare in una condizione privata; se tale è la felicità, allora è chiaro che da sola non possa essere fondamento di una morale degna, come già il senso comune rileva. Non vi fossero altri modi per pensare ad essa, non si potrebbe fare molto, ma dato che si dispone di diversi millenni di riflessione, si potrebbe riflettere su come muterebbe il quadro kantiano utilizzando un concetto di felicità più ricco come, ad esempio (lo vedremo), quello che aveva in mente Baruch Spinoza. Sarà interessante scoprire se e in che modo, in questo e in altri casi, possano i migliori frutti della riflessione di Kant e quelli di altri grandi filosofi sintetizzarsi e potenziarsi l’un altro.

2.3. Il fine in sé Con il “Principio dell’Umanità” Kant giunge a definire la materia degna di attenzione etica: l’umanità. Questa dev’essere considerata fine in sé, sia nella propria persona che in quella degli altri, ed è il tratto, la caratteristica, la condizione per cui un ente può essere definito scopo in sé. L’umanità è l’unica capace di moralità poiché i suoi membri possono essere soggetti di una volontà buona, in quanto esseri razionali finiti; in virtù di questo statuto hanno dignità e non possono essere conside115.  Cfr. I. Kant, La religione nei limiti della semplice ragione, in Id., Critica della ragion pratica e altri scritti morali, tr. it., a cura di P. Chiodi, Utet, Torino 2006, pp. 317-534: pp. 378-379.

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rati mai solo mezzi. Se non vi fosse qualcosa che è fine in sé, verrebbe meno l’imperativo categorico, e, come già si è detto, Kant postula che «la natura razionale esiste come un fine in sé»116. Di più, ogni essere razionale non può che rappresentarsi così la propria condizione. Il primo problema che sorge da queste considerazioni è il seguente: se la razionalità è fine in sé perché permette il possesso di una volontà buona, cioè l’essere soggetti alla legge morale, e in ciò sta l’umanità degli uomini, è evidente che ci sono diversi uomini, che di solito riconosceremmo come tali, che non sono da considerarsi umani (anziani con deficit cognitivi, bambini, persone affette da patologie…). In senso stretto costoro non sono fini in sé. Infatti secondo Kant i doveri che possiamo riconoscere nei loro confronti sono più doveri verso di noi; ad esempio, essere crudeli e comportarsi male con tali individui svilisce chi agisce nella sua moralità. Lo stesso vale nei confronti degli animali non umani, con la differenza che nei confronti di questi ultimi si può supporre117 che si abbiano ancora meno “doveri”. Al di là di tutto ciò, la scelta di ciò che renda fine in sé un ente è arbitraria: perché non dovrebbe essere il possedere un corpo capace di godere e di soffrire? O la vulnerabilità? O il possesso della coscienza? Si potrebbe rispondere che questi tre aspetti non sono posseduti solo da essere umani; ma questo consisterebbe nell’ammettere che si è già deciso che solo gli esseri umani sono degni di attenzione etica. E questo ultimo punto può pure trovare largo favore; ma chi accetterebbe che uomini con deficit cognitivi possano essere trattati, in linea di principio, come cose? Questa possibile conseguenza si può ritenere con buona certezza che chiunque la consi116.  I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 143. 117.  Cfr. quanto scrive Korsgaard in I nostri simili, in J.B.  Callicott  C. Korsgaard - C. Diamond, Contro i diritti degli animali? Ambientalisti ma non animalisti, Medusa, Milano 2012, pp. 57-94.

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dererebbe mostruosa, ma se l’umanità è definita in tal modo, come si è detto molti uomini non sarebbero umani. A questo punto si potrebbe obiettare che sì, certo, non sono umani “fino in fondo”, al massimo delle loro potenzialità, ma nondimeno sono degni di attenzione etica. E di qui daccapo: se è l’umanità in quanto capacità razionale di moralità, negli uomini, ad assegnare a questi dignità etica, moltissimi uomini, in quanto ne sarebbero privi, dovrebbero trarre la loro “dignità” etica da altro. E dunque non sarebbe l’umanità sola a dare dignità etica ad un ente. Kant, che certo non avrebbe accettato la liceità del trattamento di un indigente nel modo poco sopra citato, nel proporre gli uomini (in quanto persone) come fini in sé ha esposto più che un punto ben fondato quello che assomiglia a un pregiudizio; e lo dava così per scontato che vi ha legato la possibilità stessa della legge morale118, senza avanzare argomenti a suo favore. Ma la razionalità in quanto tale, slegata da ogni altro riferimento, non si capisce perché dovrebbe fornire a un individuo il suo status morale: il rapporto kantiano con l’altro è per essenza impersonale, vuoto, astorico, aculturale, e affettivamente indifferente. Affermare che devo rispettare la dignità dell’altro in quanto essere capace di ragione riflessa come me è una pretesa debolmente fondata, giacché non si comprende neppure perché io debba innanzitutto rispettare me stesso semplicemente in quanto portatore di ragione riflessa.119

Un secondo problema nasce dall’idea stessa di un fine in sé; è davvero accettabile che vi sia qualcosa che in ogni caso, in qual-

118.  Ricordiamo questo passaggio già incontrato di Kant: «Se ha da esservi, dunque, un principio pratico supremo […] Il fondamento di tale principio è: la natura razionale esiste come un fine in sé. Così, necessariamente, l’uomo si rappresenta la propria esistenza» (I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 143). 119.  A. Zhok, Il dovere e il piacere, cit., p. 125.

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siasi situazione, non possa essere trattata, per dir così, come mezzo? Sono note le posizioni di Kant circa la pena di morte. Di qui si potrebbe derivare che vi sono delle circostanze che portano determinate persone, in senso tecnico, in qualche modo a scadere dal loro status di fini in sé. Già questo sembrerebbe depotenziare l’idea stessa di scopo in sé; infatti, in quel caso, non sarebbe possibile, e neanche doveroso per Kant, agire in modo tale da trattare l’umanità negli altri sempre anche come fine in sé. Ma se il fine in sé è reso tale dall’umanità, cioè dalla possibile soggezione alla legge morale, che risiede in un ente, nel caso in cui una persona rivelasse di possedere una volontà “cattiva”, tale aspetto sarebbe passibile di gradazioni o meno? Abbiamo visto nei paragrafi precedenti che Kant sa bene che non si possa essere volontà sante in terra e perciò sembra lecito supporre che vada tenuto in conto che si commettano errori durante la vita. Che capiti di comportarsi male, anche quando si vuole in generale agire bene, è un’eventualità inaggirabile. Abbiamo perfino visto che anche se si crede con l’intera propria persona di agire in conformità al dovere per dovere, non si può avere la sicurezza di essersi determinati davvero così per il rischio di qualche stimolo nascosto dell’amor di sé. Allora: se la volontà può intendersi buona con, diciamo, diverse gradazioni, e se all’interno di queste si possono immaginare circostanze in cui una volontà, che è stata (e magari sarà di nuovo) buona, non sia tale, il soggetto di tale volontà è ora umano ora non umano? Ora fine in sé ora no? Ma se è fine in sé per la possibile volontà buona, nel momento in cui il soggetto del nostro esempio compia un “errore morale”, non è lecito pensare che rimanga comunque soggetto alla possibilità di tornare ad essere una volontà buona? E dunque, anche nell’errore, che continui ad essere un fine in sé? Si presentano due situazioni, la cui aporeticità sembrerebbe suggerire di rivedere il senso dell’idea di fine in sé: una prima in cui basta compiere un “errore morale” per perdere il proprio

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status di fine in sé, non essere più umani; ma allora verrebbe da pensare che “in partenza” o si è buoni o si è cattivi, e allora non scorgeremmo più lo spazio per l’autonomia, fondamento della legge morale. Una seconda in cui se si commettono “errori morali”, cosa più che plausibile120, non si perde l’umanità e la dignità morale con essa; ma qui risulta impossibile seguire la seconda formulazione ausiliaria con tali erranti volontà (che si presenterebbero come non passibili di provvedimenti giudiziari, violenza autodifensiva, ecc.), e con ciò si moltiplicherebbero i casi di effrazioni dell’imperativo categorico nell’enunciazione dell’umanità. Da ciò dovremmo allora concludere che se vi deve essere qualcosa ad avere valore etico, qualcosa che spinga gli individui a mettere in questione la propria spontaneità121, questo non può essere l’uomo in quanto persona, né può essere l’umanità122 ciò che conferisce valore etico. Bisogna dunque ripensare a ciò che Kant chiama fine in sé, chi/che cosa possa essere considerato tale, e se l’assolutezza assiologica che gli conferisce è necessaria a individuare bene ciò che ha davvero valore etico.

2.4. La libertà del volere Kant fonda la sua etica sull’autonomia della volontà, proprietà per la quale essa può darsi leggi con cui determinarsi a prescindere da qualsiasi altra fonte che sé medesima. Autonomia

120.  Pare ammessa anche da Kant nell’approfondire le distinzioni tra mondo sensibile e intelligibile. 121.  Come dice bene Lévinas: la «messa in questione della mia spontaneità da parte della presenza d’Altri si chiama etica» (E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, tr. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 2016 [19771], p. 41). 122.  Perlomeno per come è stata definita da Kant.

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si potrebbe dire che è un modo più preciso, tecnico, di pensare quello che il senso comune chiama libertà, ossia la libertà del volere. L’esistenza di questa viene di raro messa in questione; a nessuno verrebbe in mente, pensando a qualche scelta compiuta in passato, di ritenerla frutto di una decisione non libera; si può arrivare ad ammettere che non si è mai pienamente liberi, come se si potesse occupare uno spazio senza un corpo (“ero libero di non mangiare la torta che non dovevo mangiare (e ho mangiato), ma se la torta non avesse avuto quella figura appetitosa sarebbe stato più facile”), poiché ci sono una serie di aspetti della realtà che sembrano indurre ad agire in un certo modo piuttosto che in un altro; ma che, infine, da qualche parte risieda il potere di scegliere in libertà la propria volontà è cosa di cui in generale non si dubita. Di più: se non si fosse liberi di scegliere, non si sarebbe responsabili dei propri atti. Che senso avrebbe chiedersi se è giusto o meno compiere una determinata azione, se tanto ciò che si farà non sarà stato scelto in libertà? Verrebbe meno la morale. Questo è quello che penserebbe Kant, ed è per questo che la fonda, possiamo dire in modo semplificatorio, sulla libertà del volere; di che bontà sarebbe qualificata una volontà che si desse massime conformi alla legge morale per dovere, se non fosse libera di scegliere tali massime? E viceversa. Ma questa libertà del volere, questo potere di cui nessuno di solito dubiterebbe, Kant deve postularla. Come l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima. La ragioni per cui la libertà è un’idea, in senso tecnico, e non un concetto dell’intelletto, è che non si può dare alcuna intuizione in un’esperienza possibile di un evento in cui vi si ritrovi; per la definizione data da Kant, la libertà è una causalitas e naturale lege; ma tutto ciò che può accadere nel mondo fenomenico segue la necessità naturale, le leggi di natura; della libertà non vi possono essere fenomeni; la libertà non può essere conosciuta, non si può dimostrare che esista (e che non esista), può essere solo pensata. Anzi deve essere pensata se si vuole salvare la mo-

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ralità delle azioni e in questo modo, di conseguenza, l’umanità, in quanto unica (e si potrebbe aggiungere minuscola) porzione di natura che in qualche maniera sfugge alle sue leggi. Perciò quanto detto nel paragrafo precedente circa il valore etico si può riformulare dicendo: “l’umanità in quanto libera è capace di moralità”. Kant, come abbiamo visto, deve appellarsi a una sorta di causa noumenon per indicare il fatto che il ramo puro della volontà, che permette la cittadinanza nel regno dei fini, deve avere una sua efficacia causale nel mondo sensibile, seppur inconoscibile. Ma allora sembra legittimo domandarsi: è davvero necessario alla nostra ragion pratica pensare tutto questo? Se senza libertà (per come la si sta intendendo) non si ha moralità e la moralità è una dimensione essenziale della nostra vita sempre frequentata, allora sì, non possiamo far altro che pensarci come agenti liberi in tal senso. Se invece un’etica può trovare fondamento ed efficacia senza postulare un potere causale di cui non si può avere esperienza, anche solo ripensando la libertà in un orizzonte che non costringa ad assumerla in tal modo, quest’ultima guadagnerà in leggerezza di assunzioni in campo ontologico. E questo risulta già essere un bene. Come vedremo, la seconda via è percorribile e lungo di essa non si incontrano uomini fratturati in mondi distinti.

3. Virtù 3.1. Universalità La potenza della fondazione etica kantiana risiede nella sua ambizione: se essa fosse definitiva, avrebbe delineato ogni aspetto dell’universo morale. Che una tale compiutezza sia impensabile, se pretesa, almeno, per un intero sistema etico, sembra essere un dato di fatto; nel corso della storia del mondo si è assistito

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alla comparsa e dipartita di molteplici posture morali diverse. Come sarebbe potuto accadere diversamente? Il mondo è cambiato innumerevoli volte, in qualsiasi modo si intenda “mondo”; l’esperienza di nuovi fenomeni modifica orizzonti di significato, comunità, culture. Kant vorrebbe invece catturare gli invarianti ultimi dell’articolazione morale, ciò che, in qualche modo, in ogni tempo e luogo caratterizza lo svolgersi dell’attività umana, il modo in cui essa si valuta e come dovrebbe compiersi. Tale ambizione, se così si può dire, coglie un carattere imprescindibile per una riflessione etica, e cioè il dover dare ragione di sé, ponendosi e spiegando questa dimensione umana in maniera, per quanto possibile, inaggirabile; ma allo stesso tempo fotografa uno dei punti deboli della trattazione kantiana. Sono noti, infatti, molti argomenti, uno su tutti quello di Benjamin Constant in merito alla falsa promessa123, che mostrano come la proposta di Kant, per il modo in cui intende l’universalità, possa condurre a esiti inaccettabili. Nonostante le difese che lo stesso Kant assunse in merito all’esempio citato, non si può che rifiutare l’idea che la massima “non mentire” debba valere in ogni circostanza: si potrebbe anzi dire che se un fantomatico assassino chiedesse dove trovare la sua vittima si deve mentire; le ragioni per argomentare in questo senso sono fioccate in ogni dove e non verranno ora ripetute. È invece interessante evidenziare che tale conclusione lo stesso Kant avrebbe potuto, forse, accettarla nel suo sistema. Al di là delle speculazioni, come abbiamo visto la formulazione generale dell’imperativo categorico afferma che non si deb123.  «Secondo quest’ultimo era insostenibile dire che mentire ad un assassino alla ricerca della sua vittima, nascosta in casa nostra, sia moralmente sbagliato. L’obiezione di Constant all’imperativo kantiano è che dire la verità sarebbe sì doveroso, ma solo verso coloro i quali hanno diritto alla verità, e nessuno ha diritto a una verità che danneggi gli altri» (A. Zhok, Il dovere e il piacere, cit., p. 46).

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ba scegliere massime per le proprie azioni che non si possano volere anche come leggi universali; nel caso in cui un malintenzionato chieda l’ubicazione di una persona cui vuole fare del male, se la massima da seguire sempre fosse “non mentire”, si sbaglierebbe nel non rispondere con sincerità a tale individuo; ma se invece fosse “non mentire, a meno che farlo non permetta di salvare vite innocenti”, sembrerebbe essere migliore della prima, e non meno universalizzabile. Una tale massima non distruggerebbe la pratica dell’essere sinceri con altri esseri umani, ne regolerebbe solo più in modo più specifico lo svolgersi. Tale pratica, va inoltre detto, non sembra trarre il suo valore dall’essere una pratica e basta, quasi che l’imperativo categorico voglia solo impedire che dei “costumi” (linguistici, sociali, culturali…) vengano meno perché tale venir meno è in sé sbagliato; se così fosse, esso si limiterebbe ad essere una sorta di condizione di coerenza per pratiche specifiche e non si capirebbe, però, perché esse dovrebbero avere valore etico per la sola ragione che vi siano. Ma infatti non bisogna pensare che questo sia ciò che aveva in mente Kant. Tuttavia: ciò che Kant ci invita a fare è in effetti la valutazione di un mondo possibile in cui un certo comportamento divenisse regola generale. Questo giudizio è senza ombra di dubbio una valutazione di tipo assiologico. Per dire che una tipologia di atto sia moralmente censurabile non basta dimostrare che una sua universalizzazione sarebbe inconcepibile, perché produrrebbe l’estinzione di quel tipo d’atto. È anche necessario giudicare che tale estinzione sia di valore negativo.124

Analizziamo ora un caso, tratto dalla cultura pop dei nostri tempi, che sembrerebbe dare conforto alla posizione kantiana e che, al di là del carattere fantastico della sua fonte, presen-

124.  A. Zhok, Il dovere e il piacere, cit., p. 49.

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terebbe nella sua struttura un’idea all’opera in ampie porzioni del senso comune. Chiamiamo dunque a noi la figura di Peter Parker. Nel film Spider-Man125, come è noto, a un certo punto viene mostrato l’evento cruciale che spingerà il nostro giovane studente geneticamente modificato dal morso di un ragno a decidere di diventare un supereroe e combattere il crimine: la svolta è determinata dalla morte di suo zio Ben, della quale si sente responsabile. La presa di coscienza dei suoi poteri, infatti, porta Peter a prendersi una “rivincita” contro un bullo che lo tormenta a scuola e a voler andare a un incontro di wrestling per guadagnare dei soldi con cui comprarsi una macchina per fare bella impressione sull’amata Mary Jane; suo zio Ben gli sconsiglia di prender parte a un duello impari per guadagnare denaro, ammonendolo con la celebre frase “da un grande potere derivano grandi responsabilità”; Peter non lo ascolta, continua nel suo proposito e vince l’incontro. Tuttavia l’uomo che avrebbe dovuto pagarlo gli corrisponde una cifra inferiore a quella pattuita; sempre costui viene poco dopo rapinato da un ladro, il quale poteva essere con facilità fermato da Peter, grazie alla straordinaria forza che aveva dimostrato durante l’incontro (cosa che il promotore del match gli intima di fare). Ma Peter, per vendicarsi del torto subito, lascia scappare il ladro. Poco più tardi scoprirà che suo zio Ben è stato ucciso dal medesimo ladro per rubargli la macchina. Da qui si potrebbe concludere che Peter impara che non bisogna comportarsi male, nello specifico impedire un misfatto, a prescindere dalle proprie inclinazioni; tutto questo lo apprende dalle conseguenze del suo “atto immorale” di vendicarsi non intervenendo in un crimine che si svolge sotto i suoi occhi.

125.  Ci riferiamo al film del 2002, con regista S. Raimi e con T. Maguire a interpretare Peter Parker.

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Il racconto sembra proprio costruito su un’impostazione kantiana. Peter avrebbe dovuto fermare il ladro non perché poteva prevedere quello che sarebbe successo (era impossibile), ma perché era suo dovere farlo e poteva intervenire. Se l’avesse fatto suo zio non sarebbe morto. Il regista sembra così dirci che Peter si è comportato male e il “male” gli si è ritorto contro. Torniamo ora al primo esempio sulla menzogna; anche mentire a un assassino non assicura che, per qualche altro corso di eventi, non accada qualcosa di terribile, o che avvenga persino qualcosa di peggio; se pensiamo allo scenario (in verità abbastanza irrealistico) in cui dopo una menzogna in buona fede, e magari anche proprio in virtù di essa (per qualche coincidenza), l’assassino trovi la vittima e compia il misfatto, si avrà in più, a peggiorare il tutto, l’inadempienza morale del mentitore, che non avrebbe dovuto pensare alle conseguenze della sua azione, ma solo scegliere bene la sua massima. In entrambi i casi (Peter che si rifiuta di fermare un ladro e mentire a un assassino) non si possono conoscere tutte le conseguenze; ma nel secondo si ha un certo grado, non affatto trascurabile, di certezza circa quello che accadrà se non si mente, ed è questa conoscenza a rendere doverosa la menzogna a prescindere dalle conseguenze; mentre nel primo caso, che nasconde un’idea provvidenziale per cui in qualche modo si ottiene quel che si dà, la stessa ignoranza delle conseguenze, che qui si esprime nel sapere che un’azione in linea di massima buona (non vendicarsi) non causerà nulla di male, è un buon motivo per risolversi a favore dell’evitare un costume (vendetta) che se universalizzato porterebbe senza dubbio gravi problemi. Perciò nella scelta delle proprie massime il grado di certezza, più o meno profondo, circa le conseguenze delle azioni non può che ricoprire un ruolo cruciale. Ricordiamo che l’idea provvidenziale insita nel nostro esempio pop non dovrebbe poter essere affermata nel sistema di Kant. Egli è chiaro: alle azioni virtuose non è detto che vengano cor-

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risposti premi in questa vita; non bisogna agire virtuosamente per conquistarli né qui né in un al di là, e per converso possiamo anche dire che ad azioni non virtuose non corrispondono per necessità dei mali. Ma abbiamo anche visto come tale idea venga in un altro senso “pensata” nei postulati della ragione pratica, e dunque potrebbe avere una sua operatività anche in questi casi. L’unica cosa certa è che poiché non si può avere pieno controllo sulla catena causale degli eventi che scaturisce da una determinata azione, per Kant l’unica preoccupazione morale può sussistere solo circa l’intenzione che la muove. Dall’analisi degli esempi proposti sopra e in precedenza ci sembra perciò corretto affermare che la riflessione etica, se ben svolta, debba invece estendersi al di là delle disposizioni d’animo dell’agente. Traiamo dunque da quanto detto alcune conclusioni. Innanzitutto non si può escludere una qualche esperienza o riflessione su ciò che ha valore nel determinare le proprie azioni. Da ciò non consegue, in secondo luogo, che non si possano “universalizzare” massime; in un esempio proposto più sopra (“non mentire, a meno che farlo non permetta di salvare vite innocenti”), le “vite innocenti” sono infatti ciò che viene considerato di valore e che concorre a dare una certa specificità alla massima in questione, che rimane comunque universale. In terzo luogo si scorge che la funzione di universalizzazione può essere letta come una condizione di riconoscibilità intersoggettiva della validità delle ragioni che hanno spinto ad agire in una certa circostanza in un modo piuttosto che in un altro. Ciò che viene meno in questo modo non è l’universalità della massima, ma solo la semplicità con cui Kant ha pensato che dovesse essere formulata: può darsi che essa [l’educazione di Kant] lo abbia portato a insistere sul fatto che i principi morali dovrebbero essere molto generali (cioè semplici), quando invece tutto ciò che essi devono fare è essere universali (il che è coerente con il

77 loro essere piuttosto specifici, se c’è bisogno che lo siano) […] tutto quello che dobbiamo fare è trattare in modo simile tutti i casi che hanno le stesse proprietà universali, per quanto specifiche, inclusi i casi nei quali le posizioni degli individui cambiano […].126

Quello che in letteratura, in maniera più o meno esatta, è stato chiamato il test dell’universalizzabilità non perderebbe in coerenza logica, e nemmeno in persuasività, se venisse ripensato arricchendolo con altri fattori. Come si è mostrato in precedenza, esso non è di per sé, senza conoscenze del mondo, in grado di produrre azioni virtuose in grazia della sua immediata accessibilità da parte di una volontà razionale; ma è in grado, invece, se privato del tacito requisito di semplicità logica che Kant sembra dar per scontato debba avere127, di fornire un solido appoggio nella valutazione e scelta delle azioni. Come Hare invita a fare, bisogna spostare l’attenzione sulle proprietà universali che determinate situazioni presentano, e sulla base di queste, insieme all’accordo che va cercato in merito a un’esauriente descrizioni dei fatti che le compongono, procedere alla loro analisi; in potenza, raggiunta una soddisfacente determinazione dei significati del linguaggio della morale e il loro riconoscimento razionale intersoggettivo, chiunque sia a conoscenza dei fatti di un determinato evento saprà riconoscere la correttezza o meno dell’azione di chi vi ha preso parte: «se […] si può dimostrare che la riflessione morale è razionale, possiamo aspettarci che coloro che riflettono in modo razionale concordino nelle loro opinioni morali, una volta che conoscano i fatti

126.  R.M. Hare, Scegliere un’etica, cit., p. 185. 127.  Kant sembra quasi presupporre che una massima universalizzata più generale contenga come sottocasi massime universalizzate più specifiche, idea che in realtà renderebbe la riflessione morale solo più indeterminata, parziale e confusa, invece che precisa, accurata e razionale (cfr. A. Zhok, Il dovere e il piacere, cit., p. 48).

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e sappiano ragionare in modo chiaro»128, anche se è evidente che «molti […] disaccordi sono radicati in disaccordi sui fatti, che in ogni problema morale di grande difficoltà risultano essere estremamente complessi e difficili da capire»129. Ma tutto questo viene dopo rispetto a quanto stiamo cercando. Non è perciò un’universalità astorica quella che deve essere mantenuta dell’etica kantiana. Il filosofo di Königsberg sembra confondere a volte quanto di normativo si poteva avvertire nella Prussia del suo tempo come se appartenesse a un insieme immutabile di doveri, slegato da ogni luogo e tempo. Questa prospettiva oggi non sembra affatto accettabile. La ragione del nostro tempo con difficoltà può giustificare che azioni, di cui vengono rivendicate la liceità e il dovere morale, di popoli e culture assai distanti dalla Prussia di metà Settecento vengano frustrate nella loro validità etica solo perché alla ragione di Kant risulterebbero sbagliate: così a un popolo colonizzato, per esempio, l’universalismo illuministico può apparire come espressione di una cultura che, non curandosi delle spaventose ingiustizie storiche che ne hanno consentito la supremazia, condanna qualsiasi lotta di liberazione come contraria alla morale razionale.130

Ciò che vogliamo invece tenere fermo della fondazione kantiana è il riconoscimento che l’indagine etica deve, tenendo conto di quanto detto e con tante specifiche, avere un respiro universale. Certo, come dovremmo aver già intravisto, questo non significa che l’etica debba avere, o sia desiderabile che possieda, la forma di qualcosa di eterno, nel senso di sempre uguale a se stesso. Il mondo cambia e con esso il modo in cui gli uomini

128.  R.M. Hare, Scegliere un’etica, cit., p. 156. 129.  Ivi, p. 163. 130.  G. Mormino, Storia della filosofia morale, Cortina, Milano 2020, p. 129, nota 81.

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si pensano e agiscono, e si può presumere che mutino anche i doveri che scoprono di avere. Il filosofo che si interessi di etica deve comprendere il proprio tempo e, per quanto possibile, scorgere quali direzioni sarebbe meglio che il mondo prendesse, dando ragione di ciò, e agire per la loro realizzazione. Kant ha cercato di eliminare ogni aspetto legato al corpo dell’agente, all’ambiente in cui si trova ad agire e alle conseguenze delle sue azioni, seguendo l’idea che tutto ciò avrebbe comportato una particolarizzazione della morale, la quale ne avrebbe compromessa la validità universale che richiede. Vogliamo perciò chiudere questo capitolo con le parole di un autore che abbiamo già incontrato, il quale si presenta come un ponte tra le necessità formali e metodologiche avanzate da Kant e, invece, una prospettiva etica che si propone di normare l’attività umana a partire dalla carne degli agenti e dalle conseguenze delle loro azioni; l’utilitarismo: quando ci domandiamo quale intenzione formare, le intenzioni tra cui possiamo scegliere sono tutte intenzioni di produrre certe conseguenze, cioè di compiere certe azioni o di rendere diverso sotto certi aspetti il corso degli eventi. Perciò la volontà stessa, che viene formata in questo processo deliberativo, è volontà di causare certe conseguenze. Esse sono ciò che è voluto – gli oggetti della volizione, come li chiama Kant. Dunque, sebbene l’unica cosa buona senza ulteriori qualificazioni sia una volontà buona, ciò che la rende una volontà buona è quello che è voluto (autonomamente, universalmente, razionalmente e imparzialmente), cioè le conseguenze che intendiamo produrre.131

131.  R.M. Hare, Scegliere un’etica, cit., p. 210.

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II

L’utilitarismo

1. Un’etica consequenzialista L’utilitarismo si presenta allo stesso tempo come un’etica normativa e come una descrizione del modo in cui gli uomini si comportano, in modo più o meno consapevole, a prescindere dalla loro teoria morale preferita. Questa sembra essere una sua convinzione da quando Jeremy Bentham ne teorizzò il primo nucleo alla fine del Settecento. L’utilitarismo detto classico (Bentham, Mill, Sidgwick) è stato modificato, rielaborato e approfondito da un incredibile numero di pensatori nel secolo successivo e la sua fortuna giunge sino ai giorni nostri. La sua influenza nel campo della filosofia morale contemporanea è tale che, secondo alcuni filosofi, esso vada considerato l’etica egemone, cui contrapporre l’unica altra (meno influente) campana nel dibattito, il (neo)kantismo (ma solo come suo “correttivo”)1. A differenza di quest’ultimo si può subito notare che l’utilitarismo offre nei suoi principi ori-

1.  Per una tale lettura, cfr. A. MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, tr. it. di P. Capriolo, a cura di M. D’Avenia, Armando, Roma 2007, e A. Zhok, Il dovere e il piacere, cit.

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ginari un buon grado di, per dir così, intuibilità, caratteristica che lo rende accessibile al senso comune con facilità; inoltre «ciò che è significativo per il giudizio morale sulle azioni» sono «le conseguenze a cui queste azioni danno luogo»2: tali conseguenze garantiscono, in linea di principio, una materia concreta da cui trarre giudizi e su cui esercitare differenti strumenti teorici. Perciò, a differenza dell’etica di Kant, qui trovano spazio un gran numero di esempi e casi tratti dall’esperienza con cui diverse correnti giustificano e “testano” la loro posizione; proprio la possibilità, anzi, la necessità che ha l’utilitarismo di far riferimento a contenuti a posteriori potrebbe essere una delle ragioni per cui ha prosperato negli ultimi due secoli. Il suo proliferare in così tante varianti troverebbe infatti ragione negli innumerevoli cambiamenti che il mondo, e il modo in cui è stato inteso, ha compiuto in tale arco temporale. Tali variazioni non hanno, malgrado i molteplici e importanti aggiustamenti successivi, mutato il tessuto teoretico con cui sono stati intrecciati ab origine i suoi nodi principali: questi punti fondamentali dell’utilitarismo classico saranno analizzati nei prossimi due paragrafi.

1.1. Jeremy Bentham Forse influenzato dalla grande ambizione leibniziana di trovare un “algoritmo”3 che dirimesse le dispute filosofiche, Bentham avanza una proposta che vuole fornire alla morale e al diritto una precisione e una correttezza analoghe al calcolo matematico. Gli elementi da prendere in considerazione in questo campo sono di natura particolare e si individuano nel piacere

2.  L. Fonnesu, Storia dell’etica contemporanea. Da Kant alla filosofia analitica, Carocci, Roma 2018 (20061), p. 39. 3.  Cfr. A. Zhok, Il dovere e il piacere, cit., p. 76.

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e nel dolore, i «due sovrani» sotto cui la natura ha posto l’umanità4. Quantificare la loro consistenza nelle conseguenze che ci si aspetta seguire da determinate azioni è l’operazione che deve essere compiuta sia nel deliberare sia nel valutare la bontà delle azioni (e delle intenzioni) medesime; tale operazione deve essere svolta sotto la guida di quello che Bentham chiama “principio di utilità”, con il quale «si intende quel principio che approva o disapprova ogni azione a seconda della tendenza che sembra avere ad aumentare o diminuire la felicità della parte il cui interesse è in questione», laddove la stessa “utilità” viene definita come «quella proprietà di qualsiasi oggetto, per mezzo di cui si riesca a produrre beneficio […] o […] ad evitare che si verifichi danno»5. Bentham è molto chiaro: chiunque agisca segue una qualche forma, più o meno corretta, del principio di utilità, cioè cerca di indirizzare le azioni verso esiti quanto più favorevoli all’agente e quanto meno sfavorevoli ad esso; le conseguenze possono dirsi, in prima istanza, buone quando si esplicano in un aumento di piacere, qualcosa che si intende come «beneficio, vantaggio […], bene o felicità»6, e in una limitazione di dolore («danno, […] male o infelicità). Egli fa dipendere le nozioni di bene e di male da quelle di piacere e di dolore e scrive che senza queste ultime le prime «non avrebbero altrimenti alcun significato»7. Tutto ciò che alla fine è da considerarsi bene è qualcosa di piacevole sotto qualche rispetto; Bentham fornisce un’ampia classificazione e differenziazione di diversi tipi di piacere (fa lo stesso con il dolore), come ad esempio «i piaceri

4.  Cfr. J. Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, tr. it. di O. Marcacci, Primiceri, Milano 2020, p. 21. 5.  Ibidem. 6.  Ibidem. 7.  Ibidem.

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del senso, […] della ricchezza, […] del buon nome, […] della memoria […]»8. Quello che è importante sottolineare è che il piacere e il dolore sono da considerarsi grandezze omogenee e, sotto entrambi i loro rispetti, non differenti per qualità; è questa omogeneità a consentire lo svolgimento di un calcolo per individuare il valore di una certa quantità di piacere e dolore prevedibili nelle conseguenze di un’azione. Nel capitolo quarto del suo Introduzione ai principi della morale e della legislazione si descrive il modo in cui si misura tale valore, il quale dipende, nella sua consistenza, da alcune circostanze in cui la persona che agisce si trova; esso deve essere determinato mettendo in conto l’intensità, la durata, la certezza o l’incertezza, la prossimità o la lontananza di un piacere o di un dolore, insieme ad altre due circostanze che sono invece legate alla tendenza che l’azione produce: la fecondità dell’atto («probabilità che essa ha di essere seguita da sensazioni dello stesso tipo, piacere se essa nasce da un piacere, o dolore se essa scaturisce da un dolore») e la sua purezza («probabilità di non essere seguita da sensazioni di tipo opposto: dolori se parliamo di piacere o piaceri se parliamo di dolore»)9. Il piacere, che è «autonomamente [in se stesso] buono […] è l’unico bene», mentre il dolore, che è «autonomamente [in se stesso] un male» è «di fatto, senza eccezioni, l’unico male»10; la massimizzazione del primo e la limitazione del secondo sono le due variabili da determinare nella deliberazione morale. Il calcolo secondo il principio di utilità non deve però essere inteso come uno strumento per arroccarsi in un estremo egoismo edonistico, poiché, proprio se inteso nel modo corretto, non può che condurre a un’ampia estensione del raggio di interes-

8.  Ivi, p. 38. 9.  Ivi, p. 35. 10.  Ivi, p. 82.

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se etico; infatti, se a fondamento di ciò che ha valore etico vi sono il piacere e il dolore, che non sussistono in sé ma dipendono da capacità proprie di specifici corpi, allora nel circuito dell’etica utilitarista benthamiana guadagnano (in potenza) un posto tutti coloro che sono dotati di tale sensibilità. Il punto cruciale che viene raggiunto lungo questo percorso è l’impossibilità di non riconoscere a esseri dotati di un certo apparato corporeo interessi (legati alla capacità di provare piacere e dolore), e così un valore morale; di qui si apre la via per (di) mostrare l’ingiustizia del trattamento che nel corso della storia è stato riservato a precisi gruppi umani, categorie all’interno delle comunità, e persino nei confronti degli altri animali. Perciò per Bentham «l’etica in generale può essere definita l’arte di volgere le azioni degli uomini verso la produzione di quanta più possibile felicità per coloro i cui interessi abbiamo preso in considerazione»11. Gli individui, ma soprattutto le leggi che devono essere pensate per regolare al meglio la vita in società, quanto più sono precisi nella conoscenza delle conseguenze delle loro azioni e nel quantificare, secondo il principio di utilità e lungo i diversi assi in cui va considerata, la consistenza di piaceri e dolori derivanti da un atto, quanto più sapranno cosa è giusto fare; l’azione giusta è quella che, per quanto possibile, imprime una tendenza generale alla promozione della maggiore felicità totale della comunità, laddove per felicità bisogna intendere la «felicità della somma degli individui»12 in considerazione. In questo modo si dovrebbe evitare che il benessere complessivo venga promosso solo «attraverso l’innalzamento di quello di alcuni e una drastica diminuzione di quello di pochi»13. La comunità è

11.  Ivi, p. 213. 12.  L. Fonnesu, Storia dell’etica contemporanea, cit., p. 63. 13.  G. Mormino, Storia della filosofia morale, cit., p. 165.

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formata da individui e per sapere cosa è nel suo migliore interesse bisogna conoscere quali sono i loro bisogni. Favorire la massimizzazione della totalità degli interessi individuali deve essere il fine delle intenzioni degli agenti e soprattutto delle leggi, le quali devono «promuovere la felicità della società attraverso punizioni e ricompense»14. Solo in questo modo può imprimersi una tendenza generale buona per chi appartiene alla comunità. Chiunque neghi quanto detto, chiunque neghi il principio di utilità come criterio indiscutibile per orientare l’azione morale e legale, non può che contraddirsi, o non dare significato a ciò che dice. Infatti, chi procede in questo modo – sostiene Bentham – o non vuole rinunciare ai suoi principi per ragioni più che altro psicologiche, ad esempio perché ritiene di essere sminuito in qualche modo nella propria dignità, oppure si rifà egli stesso al principio di utilità senza rendersene conto. Lo abbiamo visto, non è possibile fondare in modo sensato i concetti di “giusto”, “sbagliato”, “dovere” e così via, senza far riferimento a utilità, piacere e dolore15. È possibile una dimostrazione della validità di tale principio? No, «perché ciò che viene utilizzato per dimostrare ogni altra cosa, non può essere lo stesso dimostrato: una catena di prove deve avere il suo inizio da qualche parte. Dare tale prova è tanto impossibile quanto inutile»16. Bentham ha in questo modo delineato e fondato il primo nucleo concettuale di una corrente che avrà grande influenza ed evoluzione. Come vedremo subito, un suo illustre allievo ne ha modificato le coordinate e approfondito alcuni punti non ancora solidi a sufficienza.

14.  J. Bentham, Introduzione, cit., p. 61. 15.  Cfr. ivi, pp. 23-24. 16.  Ivi, p. 22.

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1.2. John Stuart Mill Mill consacra la corrente morale inaugurata da Bentham titolando un suo illustre saggio L’utilitarismo17. Egli abbraccia le tesi fondamentali del precursore ma, modificandone alcuni risvolti cruciali, ne trae conseguenze differenti. Nelle sue pagine rivela un’attenzione spiccata «per il piano delle relazioni personali e civili piuttosto che per quello delle leggi codificate»18, a differenza di Bentham, e parla dell’utilità come «principio della massima felicità»19: questa deve essere il fine ultimo di ogni azione. Tale ruolo di primum morale non va inteso nel senso che ogni azione è da considerarsi solo un mezzo in vista di essa, ma indica anche che l’azione partecipa, nel suo corretto svolgersi, ad essa; ad esempio, ascoltare buona musica non è desiderabile perché, insieme a infinite altre azioni, concorre a condurci a qualcosa chiamato felicità, ma è una pratica desiderabile in quanto, nel suo svolgersi, si prova un piacere che è parte del fine, la felicità. Ma in che cosa consiste la felicità per Mill? È molto semplice: «per felicità, si intende il piacere e l’assenza di dolore; per infelicità il dolore e la privazione di piacere»20. La svolta cruciale operata da Mill rispetto a Bentham consiste nel modo in cui ritiene giusto intendere i “due sovrani” della natura, il piacere e il dolore. Questi non vanno interpretati come quantità omogenee di cui sia possibile fornire somme e sottrazioni, in quanto sono per qualità diversificabili al loro interno. Così non è possibile addizionare, ad esempio, un piacere legato all’ascoltare una sinfonia di Debussy e quello di una 17.  J.S. Mill, L’utilitarismo, in Id., La libertà. L’utilitarismo. L’asservimento delle donne, tr. it. di E. Mistretta, Bur, Milano 2018 (19991), pp. 229-327. 18. E. Lecaldano, Introduzione, in J.S. Mill, La libertà, cit., pp. 5-43: p. 6. 19.  J.S. Mill, L’utilitarismo, cit., p. 241. 20.  Ibidem.

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buona cena, o il dolore esperito nell’accorgersi di essersi comportati male e quello causato da una sbadata martellata su un dito: tra questi sussiste una differenza di genere. Insomma, per Mill è fuori di dubbio che vi siano piaceri (e dolori) superiori e piaceri (e dolori) inferiori; entrambi vanno tenuti in considerazione nel calcolo, ma non hanno lo stesso valore; la loro individuazione dipende dalle «preferenze assegnate da coloro che sono meglio forniti di strumenti di confronto, grazie alle opportunità offerte loro dall’esperienza ma anche grazie alla loro abitudine all’autoconsapevolezza e all’autosservazione»21. Coloro che per intelligenza ed esperienza hanno provato due generi diversi di piacere, ad esempio, sanno distinguere quale tra di essi sia il più elevato; chi, invece, ha avuto esperienza solo di uno, il quale si presume sia nella maggior parte dei casi un piacere più basso, in quanto più accessibile con facilità e non dipendente da educazione e cultura, non può che avere un giudizio mutilato in merito. Come «la sola evidenza che si può produrre per dimostrare che qualcosa sia desiderabile è che la gente effettivamente la desidera»22, se le persone più erudite, o sagge, o quel che si vuole, convengono nel desiderare determinate pratiche, questo fatto attesterebbe il maggior valore delle pratiche in questione. Così dalla differenza qualitativa tra piaceri (e dolori) Mill fa seguire una differenza assiologica per la quale «è meglio essere una creatura umana inappagata che un maiale appagato; meglio essere un Socrate insoddisfatto che uno sciocco soddisfatto»23; questo punto, come vedremo in sede critica, oltre a rappresentare un rifiuto (seppur non totale) nei confronti dell’apertura morale insita nella proposta di Bentham, produce anche non poche difficoltà teoretiche per la posizione di Mill. 21.  Ivi, p. 248. 22.  Ivi, p. 281. 23.  Ivi, p. 245.

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Se vi sono piaceri superiori e inferiori e se ciò che è più desiderabile «consiste in un’esistenza il più possibile esente dal dolore e il più possibile ricca di godimenti, sia per quantità sia per qualità»24, una buona educazione è un elemento fondamentale per condurre una vita felice in quanto favorirebbe l’accesso a godimenti superiori. Poiché la felicità si differenzia da individuo a individuo a seconda del carattere e delle disposizioni, lo Stato migliore è quello che garantisce ai suoi cittadini la possibilità di scoprire le proprie capacità e svilupparle al meglio, regolando il delicato equilibrio tra la libertà personale, che «consiste nel fare ciò che si desidera»25, e la giustizia, la quale riguarda le relazioni interpersonali. Per Mill si hanno doveri solo nei confronti degli altri e non verso se stessi (a differenza di una lunga tradizione), e perciò «all’individuo si può chiedere conto [solo] di quelle sue azioni che possono pregiudicare gli interessi altrui»26. Tutti devono essere liberi di ricercare la propria felicità senza privare gli altri della possibilità di fare lo stesso; dall’intera storia umana bisogna estrarre le regole di condotta che si riconoscono come le migliori per indirizzare la società verso la sua massima felicità; queste non devono essere imposte paternalisticamente dall’alto, dallo Stato, ma in qualche modo vanno insegnate attraverso l’esempio di vite virtuose e felici per permettere una loro ri-comprensione nell’ambito della libertà di ciascuno. Questo riferimento alla storia umana come “maestra” viene portato da Mill anche per rispondere all’obiezione di quanti affermino che «non c’è tempo, prima dell’azione, per calcolare e soppesare gli effetti di una linea di condotta sulla felicità generale»27; tali linee di condotta vanno interiorizzate e rese, per così dire, degli abiti di comporta24.  Ivi, p. 248. 25.  Ivi, p. 197. 26.  Ibidem. 27.  Ivi, p. 265.

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mento per far sì che i doveri non collidano con le inclinazioni, per usare il linguaggio di Kant. Proprio a quest’ultimo Mill fa riferimento affermando che il principio supremo della morale kantiana ha un significato solo se letto nell’ottica di permettere la scelta di massime che vadano «a beneficio del loro interesse collettivo»28 e così «far nascere quella volontà di essere virtuosi che, una volta rafforzata, agirà senza più pensare al piacere o al dolore»29. Quale diverso compito si potrebbe mai richiedere a una buona educazione? Queste “regole dell’etica” non sono tuttavia date una volta per tutte, per Mill, ma si può trovare nelle sue pagine un’aspirazione al progresso in morale simile a quella che si respirava nelle scienze della natura al suo tempo. Tale possibilità di miglioramento si fonda sulla necessità di poter in qualsiasi momento mettere in discussione ogni cosa che pretenda di essere vera, che sia un’opinione su una condotta o i valori di un’intera epoca; si potrebbe dire che se un’idea è vera si difende da sé, nella misura in cui e per il tempo che si dimostrerà tale; ogni obiezione non potrà che rafforzarla nel suo valore e perciò lo Stato deve lasciare al massimo grado la libertà di esprimere opinioni, senza soffocarne alcuna: le cose che ci sentiamo più giustificati a credere non hanno altra salvaguardia su cui contare, se non un invito permanente al mondo intero a dimostrarle infondate. Se nessuno accetta la sfida, oppure qualcuno l’accetta ma il suo tentativo fallisce, saremo ancora parecchio lontani dalla certezza: ma avremo fatto il massimo consentito dalle attuali condizioni della ragione umana; non avremo trascurato nulla che potesse dare alla verità l’opportunità di raggiungerci.30

28.  Ivi, p. 309. 29.  Ivi, p. 289. 30.  J.S. Mill, Saggio sulla libertà, in Id., La libertà, cit., pp. 57-227: p. 91.

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Questa apertura al confronto e alla messa in discussione rivendicata dal sistema di Mill, oltre a rendergli un grande onore intellettuale, manifesta in senso pieno e suggella la vocazione insita nell’utilitarismo stesso inaugurato da Bentham, cioè il dovere di confrontarsi con i problemi nuovi che emergono di epoca in epoca e correggersi nel trovar loro risposta, alla luce di un principio che rimane tale, ma di cui si scopre di volta in volta come applicarlo al meglio.

2. Teorie utilitariste contemporanee Si è già fatto notare come l’utilitarismo, dalla prima formulazione di Bentham, abbia compiuto un lungo e fertile percorso che continua sino ai giorni nostri. Sarebbe impossibile, oltre che poco interessante ai fini della presente trattazione, seguirlo in ogni sua diramazione e pesarne i risultati. Perciò verranno indagate solo due proposte, tra le più importanti, che vantano una notevole precisione metodologica e chiarezza in ambito fondativo. Vogliamo assumere queste come esempi del modo di procedere dell’utilitarismo attuale e come riferimenti con cui confrontarci in sede critica.

2.1. Richard M. Hare Tra gli autori che si inseriscono in una cornice morale utilitarista va nominato il già citato Richard Mervyn Hare, la cui presenza «nel dibattito etico e meta-etico degli ultimi cinquant’anni è enorme»31. La sua riflessione parte dalla considerazione che la possibilità di risoluzione dei problemi morali che gli uomini si pongono dipende dalla loro capacità di intenderli 31.  L. Fonnesu, Storia dell’etica contemporanea, cit., p. 256.

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in modo corretto. Molti di questi sono sorti e rimasti insoluti per diverso tempo a causa dell’oscurità che avvolge i concetti con cui si è strutturata la riflessione etica; bisogna, allora, operare innanzitutto una determinazione esatta del significato e dello statuto delle proposizioni che compongono il linguaggio morale; quest’ultimo – scrive Hare – «è una della invenzioni più rimarchevoli del genere umano ed è comparabile al linguaggio matematico [e, come di questo,] possiamo osservare la sua evoluzione nel corso della storia»32. In questo senso l’ambizione del filosofo morale non può che essere quella di ottenere, mediante un’accurata analisi, uno “strumento” analogo a quello della matematica (il cui valore di verità non è relativo a opinioni singolari) per dirimere le questioni che di volta in volta si presentano nell’agire pratico delle società umane. Perciò Hare, perlomeno nella prima parte del suo pensiero, «intende l’etica come una disciplina logica – come “logica dei termini morali”»33: «se non comprendiamo i termini esatti in cui i problemi si pongono, come potremo mai arrivare alla loro radice?»34. Si può concludere che il linguaggio della morale, come quello della matematica, o della stessa logica, è suscettibile di ampliamenti e correzioni, caratteristica che però non ne inficia né la validità né l’utilità; così è accaduto ad esempio grazie alla riflessione di Kant sull’uso e lo statuto dell’imperativo in morale (certo da non ridurre a una mera analisi linguistica modale), la quale ha individuato strumenti efficaci per la comprensione e lo svolgimento del pensiero morale come, si potrebbe forse dire, la scoperta del calcolo infinitesimale ha approfondito la comprensione e lo svolgimento della matematica. 32.  R.M. Hare, Scegliere un’etica, cit., p. 162. 33.  S. Bacin, Imperativo, cit., p. 70. 34.  R.M. Hare, Teoria etica e utilitarismo, in A. Sen - B Williams (a cura di), Utilitarismo e oltre, tr. it. di A. Besussi, il Saggiatore, Milano 1990 (19841), pp. 31-49: p. 31.

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Questa fertile impostazione del problema si colloca dunque in una dimensione meta-etica; da questo livello si possono e si devono distinguere almeno due piani attraverso cui intendere i contenuti della morale: uno legato alle intuizioni e un altro che conduce a buone ragioni. Il primo livello intuitivo è quello che ogni persona eredita dal sostrato culturale, familiare, storico e via dicendo, da cui si traggono di solito i propri valori e il significato dei propri concetti morali; questi vengono esperiti in modo spesso immediato e perciò tendono a ingenerare confusione circa la loro realtà, o validità, sia nella gente comune sia in buona parte della riflessione filosofica: questa non riuscendo a renderne conto in modo soddisfacente, si rifà spesso a teorie che sfociano in tesi considerate irrazionali (ad esempio in coloro che Hare chiama intuizionisti), o che, in ogni caso, cadono nella trappola del relativismo, punto di non ritorno morale. Con “relativismo” si intende quella posizione per cui il significato delle proposizioni morali è solo relativo a un insieme (cultura, famiglia, epoca, o altro) di riferimento; cioè, si potrebbe dire, quella posizione per cui i valori etici traggono la loro consistenza e cogenza da eventi accidentali. Ciò che è giusto in una parte del mondo è sbagliato in un’altra, e tremila anni fa certi costumi nemmeno esistevano, o ne esistevano di peggiori (o migliori). Per il relativista ciò che è giusto può essere diverso da come è e dunque è accidentale (e infine irrilevante) che s’intenda ciò che è giusto in un modo piuttosto che in un altro. Tale posizione, a livello intuitivo, appunto, è di solito avversata; ogni insieme (cultura, epoca, famiglia…) che si prenda in considerazione, per lo più riterrà di trovarsi nel giusto e di possedere i valori autentici. Hare ci dice che finché si rimane a questo livello non si può arrivare a un vero accordo in morale; si potrebbe domandare: è necessario raggiungerlo? Quello che il filosofo di Oxford suggerisce è sì. È necessario ed è possibile farlo superando i limiti cognitivi del livello delle intuizioni; su queste non vi è dubbio: le intuizioni morali che

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le persone posseggono vengono ereditate dagli “insiemi” in cui si trovano per accidente ad esistere, e spesso sono in contrasto tra loro. Esse sembrerebbero corrispondere a quelli che in Teoria etica e utilitarismo chiama «principi del livello-I […] di riflessione»35; questi sono quei principi morali appresi con l’educazione che vengono utilizzati nelle situazioni di tensione in cui non vi è la possibilità di svolgere un tranquillo ragionamento morale. È perciò bene che una buona educazione venga svolta per garantire, per quanto possibile, le risposte migliori alle circostanze che si possono incontrare nella vita. Ma ancora siamo daccapo; serve un criterio che vagli la validità dei principi di livello-I che costituiscono le intuizioni morali primarie della popolazione. Posto che sia possibile fornire una corretta analisi intersoggettivamente condivisibile (razionale) del linguaggio morale e posto che il relativismo morale sia inaccettabile, come si costruiscono ragioni etiche valide? Per raggiungere questa dimensione, la quale in qualche modo deve garantire un’imparzialità nell’individuazione di principi normativi corretti, Hare si rivolge a quanto ha scritto Kant sull’universalizzabilità delle massime, inserendovi il principio di utilità. Tale sintesi conduce a quello che ha chiamato prescrittivismo universale; in tale visione le proposizioni morali sono connotate, e distinte a livello formale da enunciati di altri tipi, attraverso le proprietà di prescrittività e universalizzabilità36; perciò quando un agente opera in ambito morale, se ritiene di farlo in modo corretto, sta prescrivendo «universalmente per tutte le situazioni proprio come per quella [presa in esame]; e così per tutte le situazioni analoghe, qualsiasi ruolo [si possa occupare] tra quelli previsti dalla

35.  Ivi, p. 40. 36.  E anche per la loro predominanza (cfr. L. Fonnesu, Storia dell’etica contemporanea, cit., p. 259), ma questa caratteristica qui non ci interessa.

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situazione»37. Tale posizione, secondo Hare, conduce, a livello della materia della decisione (per comprendere cosa è giusto o meno prescrivere), al principio di utilità, il quale ciò che mi richiede è di fare per ogni individuo interessato dalle mie azioni ciò che vorrei fosse fatto per me in circostanze ipotetiche in cui io fossi precisamente nella sua situazione […] devo attribuire il medesimo valore agli eguali interessi di tutti; e […] in quanto sono uno degli individui interessati (come lo sono in quasi tutti i casi), i miei interessi devono avere lo stesso valore e non di più38.

È rispettando le legalità meta-etiche individuate da Hare che si possono formulare proposizioni morali valide; queste, per essere tali, devono rispondere ad alcuni requisiti39 che non verranno qui analizzati, il cui pregio, va notato, è non di condurre a una soluzione definitiva dei problemi in morale, errore in cui spesso si è vista cadere la riflessione filosofica, ma invece di gettare le condizioni di possibilità, per dir così, di comprensione e accordo nel dialogo morale anche tra realtà con intuizioni morali in toto differenti. Così si possono avere due teorie sensate ma antagoniste; la teoria migliore sarà quella che permetterà di raggiungere lo scopo che per Hare deve avere una teoria morale, e cioè «consentire ai membri della società che sono in disaccordo su cosa dovrebbero fare […] di raggiungere l’accordo attraverso una discussione razionale»40. La teoria normativa proposta da Hare si risolve in un «utilitarismo dell’atto universalistico»41 (considerato analogo a quello che chiama “utilitarismo della regola specifico”) che prescrive alle azioni 37.  R.M. Hare, Teoria etica e utilitarismo, cit., p. 34. 38.  Ivi, p. 35. 39.  Neutralità, praticità, incompatibilità, logicità, argomentabilità e conciliazione (cfr. R.M. Hare, Scegliere un’etica, cit., pp. 157-162). 40.  Ibidem. 41.  R.M. Hare, Teoria etica e utilitarismo, cit., p. 43.

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di massimizzare l’utilità sociale media, calcolata individuando gli interessi che costituiscono le preferenze informate (consapevoli) della popolazione.

2.2. John C. Harsanyi A differenza di Hare42, per il quale sono da considerarsi dotate di valore (e dunque da contare nel calcolo utilitarista) anche le preferenze che definiremmo antisociali (sadismo, crudeltà…), John C. Harsanyi rifiuta che debbano essere prese in considerazione nella formulazione di una regola morale; esse infatti si contrapporrebbero per natura al senso di un’etica utilitarista, per cui «le basi fondamentali di tutti i nostri impegni morali verso gli altri sono costituite da una generale benevolenza e dalla simpatia umana»43. Harsanyi offre una sofisticata proposta normativa che intende comprendere l’etica all’interno di una teoria generale del comportamento razionale accanto ad altre teorie (della decisione, raccolta in quella dell’utilità, e dei giochi), fornendo così un quadro accurato di come un essere umano in quanto razionale dovrebbe comportarsi. Così, mentre la teoria dell’utilità ci informa che un individuo si comporta razionalmente in condizioni di certezza, rischio e incertezza, quando massimizza l’utilità (o l’utilità prevista), e la teoria dei giochi regola il «comportamento razionale di due o più individui che interagiscono, ciascuno dei quali intende perseguire i propri interessi […] quali essi sono rappresentati dalla loro funzione di utilità (o funzione di vincita)», l’etica rappresenta «la teoria dei giudizi di valore morale razionali», i quali impli-

42.  Almeno fino a R.M. Hare, Il pensiero morale, tr. it. di S. Sabattini, il Mulino, Bologna 1989 (cfr. L. Fonnesu, Storia dell’etica contemporanea, cit., p. 286). 43.  J.C. Harsanyi, Moralità e teoria del comportamento razionale, in A. Sen B Williams (a cura di), Utilitarismo e oltre, cit., pp. 51-80: p. 72.

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cherebbero «la massimizzazione del livello medio di utilità di tutti gli individui che compongono la società»44. Quest’ultimo punto si raggiunge mediante quella che viene chiamata «assunzione di equiprobabilità»45; poiché il giudizio morale è un tipo particolare di giudizio di preferenza46, per comprendere la sua specifica connotazione poniamo ad esempio che un agente razionale debba scegliere in quale società vivere quando le alternative che gli si propongono consistano in una società capitalista e una società comunista. Per fornire una risposta morale razionale, chi è chiamato a decidere non dovrebbe essere influenzato dalle condizioni sociali in cui già si trova (o in cui, per tratti caratteriali accidentali, desidererebbe trovarsi), ma dovrà appunto astrarsi da queste e valutare senza sapere in anticipo a quale livello sociale apparterrà nei rispettivi scenari. In questo modo egli dovrà analizzare tutte le posizioni in cui è possibile che venga a trovarsi in entrambe le società e posto che potrà allo stesso modo collocarsi nel loro punto più alto quanto in quello più basso, secondo questa teoria del comportamento razionale, egli «valuterà qualsiasi quadro istituzionale […] in termini dell’utilità media che probabilmente ne risulterà»47: da qui deriva che «i giudizi razionali di preferenza [si devono basare] su criteri impersonali e imparziali [e] implicano la massimizzazione del livello medio di utilità di tutti gli individui che compongono la società»48, e favorire tale massimizzazione è il 44.  J.C. Harsanyi, Verso una teoria generale del comportamento razionale, in Id., L’utilitarismo, tr. it. di M. Piccone, a cura di S. Morini, il Saggiatore, Milano 1988, pp. 3-29: p. 12. 45. J.C. Harsanyi, Una critica della teoria di John Rawls, in Id., L’utilitarismo, cit., pp. 109-136: p. 118. 46. Cfr. J.C. Harsanyi, Moralità e teoria del comportamento razionale, cit., p. 58. 47.  J.C. Harsanyi, Una critica della teoria di John Rawls, cit., p. 118. 48.  J.C. Harsanyi, Verso una teoria generale del comportamento razionale, cit., p. 12.

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compito dell’etica. Si noti che Harsanyi rifiuta l’edonismo degli utilitaristi classici che intendevano l’utilità sociale e individuale «nei termini delle sensazioni di piacere e di pena»49, per proporre invece un utilitarismo fondato sulla preferenza e la sua autonomia: per questa versione, «nel decidere ciò che è bene e ciò che è male per un dato individuo, il criterio ultimativo possono essere soltanto i suoi bisogni e le sue preferenze»50. Da quanto appena detto si deve procedere a una distinzione tra preferenze personali e preferenze morali. Le prime, come è intuitivo, riguardano gli individui in quanto tali, i cui interessi saranno di norma rivolti a sé e alle persone a sé care; le seconde invece sono quelle che dovrebbero aver voce in campo etico, poiché derivano dall’aver dato lo stesso peso agli interessi di tutti, come invita a fare il principio di utilità media. Da tenere in conto senza discriminazioni sono inoltre le preferenze dette vere, cioè informate, e non quelle solo manifeste, basate su credenze specifiche delle persone che spesso, per ignoranza, le portano a ledere quelli che, se si intendessero come agenti razionali, dovrebbero essere i loro veri interessi; tantomeno le preferenze negative che «un individuo può volere irrazionalmente» per sé; queste, infatti, «a un qualche livello più profondo» si potrebbe mostrare che «sono incoerenti con quanto egli sta ora cercando di perseguire»51. Le vere preferenze insomma da tenere in considerazione nel computo della massimizzazione dell’utilità sociale media sono quelle che le persone «avrebbero se fossero pienamente informat[e] e facessero uso di questa informazione»52, e su questo punto, come in altri, Harsanyi e Hare si trovano d’accordo. 49.  J.C. Harsanyi, Moralità e teoria del comportamento razionale, cit., p. 69. 50.  Ivi, p. 70. 51.  Ibidem. 52.  J.C. Harsanyi, Utilità individuali e etica utilitarista, in Id., L’utilitarismo, cit., pp. 55-66: p. 60.

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Giungiamo allora alla formulazione completa della proposta normativa di Harsanyi, cui ha dato il nome di utilitarismo delle regole. Specifichiamo innanzitutto che questo nome dipende da una distinzione introdotta da Brandt53 rispetto al cosiddetto utilitarismo dell’atto, che dal nostro premio Nobel54 ungherese viene definito come «quella teoria secondo cui un’azione è moralmente giusta se e solo se essa produrrà, nella situazione di fatto esistente, la massima utilità sociale prevista»55; ma tale teoria, in molte varianti, avrebbe lo svantaggio di non rendere conto di molteplici situazioni in cui produrrebbe risultati controintuitivi e irrazionali. Un esempio su tutti è l’impossibilità di svolgere azioni moralmente irrilevanti come leggere un libro, atto la cui massimizzazione dell’utilità sociale media è senza dubbio inferiore a quella di infinite altre azioni, che perciò andrebbero preferite in quanto più utili; se tutto questo si prendesse sul serio ne deriverebbe una morale eroica perseguibile con difficoltà dalla maggior parte delle persone, che vedrebbe perdute la sua cogenza e efficacia sociali. L’uti­ litarismo delle regole invece non rischia tali conseguenze, poiché invece afferma che un’azione è moralmente giusta se e solo se è conforme alla regola morale corretta applicabile alla situazione di fatto esistente. Esso identifica poi la regola morale corretta con quella particolare regola comportamentale che darebbe la massima utilità sociale prevista se essa fosse seguita da tutte le persone moralmente motivate in tutte le situazioni analoghe.56

53.  Cfr. L. Fonnesu, Storia dell’etica contemporanea, cit., p. 282. 54.  Harsanyi, insieme a John Nash e Reinhard Selten, ha vinto il Premio Nobel per l’economia nel 1994. 55.  J.C. Harsanyi, Utilitarismo delle regole, uguaglianza e giustizia, in Id., L’utilitarismo, cit., pp. 93-108: p. 93. 56.  Ibidem.

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È facile riconoscere l’eco kantiana che si riverbera nelle condizioni poste da questa variante dell’utilitarismo, come Harsanyi stesso ammette nelle prime pagine del suo saggio Moralità e teoria del comportamento razionale. Anche qui infatti si ottiene un criterio di produzione di regole morali giustificato sulla base di una certa concezione dell’agire razionale. Harsanyi, come Hare, ha fatto propri, modificandoli, alcuni risultati della fondazione morale di Kant e degli utilitaristi, con proposte meta-etiche ed etico-normative assai accurate. Quello che ora resta da analizzare sono i limiti dell’impianto utilitarista classico per valutare se vengano superati da queste sue diramazioni contemporanee.

3. Rilievi critici 3.1. Il problema della calcolabilità del valore etico Vi sono state numerose critiche storiche all’impostazione benthamiana, sia interne sia esterne all’impianto utilitarista, e in questa sede non ci sembra opportuno ricordarle. Quello che si tenterà di fare è inquadrare un problema specifico che sembra emergere dalle pagine di Bentham al fine di tematizzare uno snodo cruciale che ogni fondazione morale deve chiarire, e cioè la teoria del valore etico che le è sottesa. Abbiamo visto che l’unica cosa da definirsi davvero buona è il piacere e, al contrario, l’unico male è il dolore. Ciò che è bene è dunque ricercare quanto più possibile, per sé e per chi è preso in considerazione nell’agire, stati fisici e mentali di piacere (nelle sue differenti declinazioni) e combattere quanto invece avversa tali condizioni. Il principio di utilità governa il calcolo da svolgere per sapere qual è l’azione giusta, o migliore, da compiere.

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Accettiamo in un primo momento la teoria del valore che guida queste asserzioni. Quello che si presenta subito come un ostacolo è una precisa categorizzazione dei piaceri e dei dolori; anche solo scorrendo la lista57 che propone Bentham è evidente che non è affatto semplice decidere come quantificare ogni singolo tipo differente di piacere e di dolore, ed è probabile che ogni individuo proporrebbe misurazioni diverse a seconda delle cognizioni in merito a quanto è chiamato a valutare. Oltre al fatto che la lista di Bentham non sembri affatto completa, cosa cui, in potenza, se la teoria è valida, si potrebbe rimediare, la difficoltà è aggravata dal fatto che non sembra percorribile nemmeno la via dell’accordo intersoggettivo. Domandiamo: come possono individui che hanno esperienze diverse di piacere e dolore dirsi la quantità di tali stati che hanno provato/ presumono che proveranno? Pare già abbastanza complicato arrivare a una certezza in merito a sé stessi, come paragonare la propria risposta estesiologica a quella di terzi in maniera oggettiva? Su questo punto Bentham sembra cadere nell’errore di credere nell’esistenza di un linguaggio privato, attirando tutte le critiche che Wittgenstein ha mosso a tale idea, e in qualche modo che sia possibile commensurare mediante il linguaggio tali stati come se fossero cose in sé. Quindi posto persino che sia possibile costruire un piacerometro che trovi tutti d’accordo sulla misura esatta dei differenti piaceri e dolori, eventualità che presenterebbe già un certo grado di arbitrarietà ma potrebbe essere utile (e questo sarebbe il suo scopo), la gerarchia in cui essi (anche solo quelli menzionati da Bentham) per 57.  Piaceri dei sensi, dell’abilità, della ricchezza, del potere, dell’amicizia, della benevolenza, dell’immaginazione, di un buon nome, della pietà, della malevolenza, dell’aspettativa, della memoria, dell’associazione, del sollievo. I dolori della privazione, dei sensi, della goffaggine, dell’inimicizia, della cattiva nomea, della devozione, della benevolenza, della malevolenza, della memoria, dell’immaginazione, dell’aspettativa, dell’associazione (cfr. J. Bentham, Introduzione, cit., pp. 38-43).

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necessità si troverebbero gli uni rispetto agli altri dovrebbe essere tracciata solo sotto i segni del maggiore e del minore: se così non fosse, ne deriverebbero l’impossibilità di attuare un calcolo valido e un’impressionante complicazione nel quantificare per ogni categoria ogni infinito gradino che la compone (che valore dare al piacere di avere un nuovo amico rispetto a quello di coltivare un’amicizia che già c’è? E al dolore di perderlo? Perderlo per colpa sua o perderlo per colpa propria? E il valore assegnato a ognuna di queste circostanze come può essere paragonata al piacere di mangiare una torta? E a quanto sta una torta fatta da sé rispetto a una torta comprata al ristorante?) Data l’infinità di specificazioni che ogni circostanza può rivelare approfondendo l’analisi, potremmo pensare che le categorie di piaceri e di dolori proposti da Bentham, per mantenere omogeneità quantitativa e la possibilità di essere distribuiti su uno stesso piano, si collochino in ordine gerarchico gli uni rispetto agli altri secondo diversi ordini di grandezza; ad esempio, che ai piaceri dei sensi vadano assegnati valori dall’1 al 10, per dire, a quelli dell’amicizia dall’11 al 100, e via dicendo. In questo modo, posto che si superino le difficoltà legate alla quantificazione delle circostanze, si potrebbe in linea di principio far dialogare la categoria con i numeri più bassi insieme a quella con i numeri più alti. Ma l’assegnazione degli “ordini di grandezza” alle variazioni del valore così inteso non potrebbe che risultare arbitraria. Specifichiamo che Bentham di tale gerarchia non fa menzione nelle sue pagine, ma ci sembra che, se pensiamo fino in fondo quanto propone, tale problema senza dubbio emerga. Aggiungiamo infine che in ogni situazione che si incontra si danno molteplici tipi di piaceri e dolori (per come sono stati sin qui intesi) e dunque il calcolo in senso tecnico si farebbe ancora più arduo da svolgere in concreto. Ma se le azioni giuste da compiere sono quelle prodotte da tale calcolo, poiché tale calcolo non sembra svolgibile (perlomeno da ogni singola persona in ogni singola situazione),

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allora non è nemmeno possibile sapere quali sono le azioni giuste da compiere. Ed è proprio questo che ci deve dire l’etica, insieme al perché si dovrebbe agire in un modo piuttosto che in un altro. Bentham non era così ingenuo da ritenere possibile arrivare a conoscere con certezza ogni singola conseguenza di ogni singola azione, e invitava perciò a curarsi solo delle conseguenze prossime, per dir così, individuabili con l’intelletto. Ma, se quanto abbiamo scritto ha un senso, sembra chiaro che la complessità che si richiede di maneggiare per sapere cosa è giusto è troppo elevata anche in questo caso, se si vuole seguire in modo corretto il procedimento. Questa critica è stata mossa assumendo che il valore etico si individui nel piacere, per dir in fretta, e che il piacere/valore mantenga una sua omogeneità nelle diverse circostanze in cui si presenta. Tale assunzione non sembra necessaria e pare anzi provocare un certo grado di oscurità a livello normativo. Come vedremo nel prossimo paragrafo, nemmeno la rettificazione di Mill alla tassonomia dei piaceri di Bentham sembra salvarsi dalle difficoltà in cui questa si è ritrovata. Riteniamo che il problema risieda proprio in ciò che dà potenza e originalità alla teoria di Bentham, segnandone l’ambizione ma insieme anche la fragilità, e cioè nell’idea che si possa dare un senso matematico al piacere e al dolore, o più in generale a ciò che è stato chiamato valore etico, quand’anche questi si esaurisse davvero in tali entità.

3.2. Confusione assiologica Qualche pagina sopra abbiamo incontrato il modo in cui Mill risponde al problema dell’“equivalenza dei piaceri e dei dolori”, e cioè proponendone una distinzione qualitativa. Come viene notato in ogni manuale di etica e storia dell’etica, questo passaggio, nonostante si riconcili a un’evidenza del senso comune, rende impossibile il calcolo utilitarista per come era

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stato pensato da Bentham, consacrando la possibile deriva del ragionamento che abbiamo tratteggiato nel paragrafo sopra. Vediamo perché. Posta la distinzione tra piacere (o dolore) superiore e inferiore, come ci si deve comportare? Bisogna prima ricercare e far propri i piaceri dotati di più valore e poi passare a quelli che valgono di meno? Questo sarebbe assurdo, poiché ci si ritroverebbe presto morti (piacere di nutrirsi vs piacere di filosofeggiare). Se vi è un’incommensurabilità qualitativa, anche solo un piacere superiore non può essere mai eguagliato da infiniti piaceri inferiori. Ma poste certe circostanze, ad esempio essere affamati e non aver cibo, è evidente che il piacere derivante da una necessità inferiore avrebbe per la maggior parte delle persone molto più valore di quello di ascoltare Šostakovič. Dunque la distinzione qualitativa di cui parla Mill non può risiedere al livello dell’oggetto piacevole di per sé o alla sua esperienza archetipica. Risiede allora nella capacità di goderne? Poniamo la circostanza di una vita abbastanza serena, senza preoccupazioni legate alla sopravvivenza e all’espletamento di necessità primarie, situazione che doveva avere in mente Mill quando pensava alle differenze assiologiche tra i diversi tipi di piacere e di dolore; posti in questo quadro, gli uomini possono godere di piaceri inferiori e superiori, e – come scrive Mill – una vita per essere felice non deve ridursi né agli uni né agli altri, ma si compone di entrambi: essa non deve essere intesa come «rapimento estatico, ma [come insieme di] momenti di rapimento in un’esistenza fatta di pochi dolori passeggeri, numerosi e vari piaceri, con una decisa predominanza dell’attivo sul passivo e, a fondamento del tutto, la rinuncia ad aspettarsi dalla vita più di quanto essa sia capace di offrirci»58. Ma poiché, come si è visto, le azioni devono essere pensate e compiute secondo

58.  J.S. Mill, L’utilitarismo, cit., p. 250.

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il principio della massima felicità generale; e poiché i piaceri superiori hanno maggior valore di quelli inferiori, tanto che è meglio essere un «Socrate insoddisfatto piuttosto che uno sciocco soddisfatto»59: allora sarebbe lecito pensare che la felicità superiore di coloro che vi possono accedere deve valere più di quella, composta da piaceri inferiori, di chi, per molteplici ragioni, non può o non ha interesse a godere dei piaceri superiori? Si potrebbe replicare che nel massimizzare la felicità generale è contenuto l’interesse a permettere a quanti più individui possibili l’accesso a tali dimensioni e che dunque le azioni non sono da considerarsi giuste se trascurano di massimizzare in questo senso anche le “felicità inferiori”60; queste, tuttavia, per quanto massimizzate, non peserebbero più di una “felicità superiore” nel conto totale. Se prese sul serio queste considerazioni comporterebbero conseguenze la cui assurdità e ingiustizia invitano a non essere citate. Tali problemi derivano dalla decisione di Mill di disomogeneizzare il valore proposto da Bentham, suggellando l’impossibilità di un calcolo reale della massima felicità totale e aprendo la possibilità di una distinzione assiologica sulla base della capacità di accedere a determinati ambiti esperienziali. Ora, che si possano proporre gerarchie tra diversi aspetti dell’esistenza pare pacifico. Così sembra accettabile che un buon concerto possieda un valore superiore (in qualità) rispetto a grattarsi una puntura di zanzara, e che queste siano realtà incommensurabili, nonostante in qualche modo suscitino entrambe piacere. Ma se il valore etico ultimo, ciò che le nostre azioni devono promuovere, è proprio il piacere, allora diventa inintelligibile come ordinare gli elementi da considerare nell’azione, poiché tale valore consta di una pluralità di realtà irridu-

59.  Ivi, p. 245. 60.  Nel senso che consistono nel soddisfacimento di piaceri inferiori.

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cibili. Inoltre la distinzione qualitativa assiologica operata da Mill sembra aprire, certo contro le sue intenzioni, la possibilità all’ulteriore distinzione tra individui che accedono o meno a determinate dimensioni edonistiche; ma non sembrano esserci ragioni per cui si debba tenere in maggior considerazione etica un individuo che sia in grado di suonare il pianoforte rispetto a uno che non lo sappia suonare, nonostante possa essere vero che il primo, sotto questo rispetto, esperisca un godimento positivo che all’altro è precluso. Proprio per questo sembra errato intendere il valore etico, di cui ogni morale deve rendere conto, nei termini avanzati da Mill. Nella lettura che proponiamo infatti le dimensioni edonistiche di cui si è parlato si situano su piani non già più etici, semmai estetici, la cui incommensurabilità provoca confusione su quale livello sia quello che davvero deve interessare la riflessione morale. Perciò non può essere il piacere inteso in un senso così multiforme ed eterogeneo a cogliere appieno cosa vada inteso con valore etico ultimo.

3.3. Distanza dalla realtà Le difficoltà in cui si trovano Bentham e Mill (a ognuno le sue) quando frequentano l’idea della possibilità di definire azioni giuste mediante un calcolo61 esatto della felicità complessiva, contando individuo per individuo, non possono che essere ereditate, ci sembra, in linea di principio, da ogni posizione 61.  Per Bentham «il problema più grave consiste nell’idea stessa di un calcolo, in quanto non possediamo alcuna scala che ci consenta di valutare un criterio (per esempio l’intensità di un piacere) in modo omogeneo a un altro (per esempio la sua durata)» (G. Mormino, Storia della filosofia morale, cit., pp. 165-166), mentre per Mill «resta però il problema fondamentale della quantificazione: non solo è difficile confrontare tra di loro due piaceri, ma non è nemmeno del tutto ovvio che piacere e dolore siano congeneri» (ivi, p. 169).

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che voglia mantenersi nella dimensione di un utilitarismo che trova il suo cuore, e la sua ambizione, proprio in tale concezione. L’operazione che si può compiere, e che è stata tentata nel corso delle sue evoluzioni, è quella di proporre differenti tipi di approssimazione circa quanto deve essere calcolato, senza la pretesa di produrre risultati definitivi e certi; tale direzione può trovare senza dubbio un ruolo euristico in luogo della scelta di politiche sociali di ampio respiro, offrendo un’efficacia strumentale positiva nel cercare di far star meno peggio le persone di una determinata città, o regione, o Stato. Ecco che questa ragione guadagna così valore come ragione strumentale, per cui se posti determinati fini (aumento del benessere, miglioramento delle strade, edifici e aree pubbliche, diminuzione della criminalità, ecc.) può offrire ottime ragioni per procedere a particolari riforme, ed è inoltre una ragione che ha il pregio di poter esser accresciuta, smentita e rettificata dalle conseguenze analizzabili che produce. Tuttavia le risposte che fornisce circa la natura del valore etico non sembrano soddisfare la dimensione più strutturale e profonda con cui la riflessione etica non smette di confrontarsi. Anche gli utilitarismi hanno proceduto e procedono svolgendo questo confronto, ma non sono soddisfacenti nell’ontologia morale che ottengono: se, quale che sia, il valore etico si può quantificare, non solo in sé ma persino numericamente in chi ne sarebbe provvisto, allora è possibile trovar ragioni aritmetiche di cosa è giusto, doveroso, buono62 fare; ma poiché tale equazione nel suo concreto svolgersi non garantisce alcun tipo di validità etica oggettiva, allora (forse) l’errore sta nell’intendere ciò che è stato chiamato valore etico come un qualcosa di quantificabile in quel senso. Simili astrazioni ci dicono poco della vera carne del valore. 62.  In questo luogo utilizziamo questi termini come se non potessero assumere sottili e pregnanti differenze di significato.

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Da questo svincolo vogliamo tentare, per quanto è consentito, una critica all’impostazione del celebre Hare. Come si è detto in precedenza nel presentare alcuni momenti del suo pensiero, Hare ha il grande merito di aver dedicato un importante lavoro di chiarificazione logica del linguaggio della morale, senza dubbio utile, come, d’altronde, è utilitarista la cornice in cui vuole radicarsi (di cui certo eredita anche i problemi accennati poco sopra). Questa eredità non incide affatto sulla validità di alcuni punti teorici formali, diciamo condizioni di formulabilità di giudizi etici sensati, o, si capisce, sull’importanza di vagliare con la massima attenzione l’organo linguistico morale per affrontare con adeguatezza i suoi problemi. Tuttavia questa concentrazione sull’aspetto logico-linguistico, per quanto se ne riconosca la necessità, che in un primo momento qualsiasi proposta teorica (a suo modo) deve soddisfare per rendersi intellegibile, rischia di ridurre l’etica a un “semplice” (per quanto si legge in autori con questa impostazione, in realtà assai complesso) discorso sulla vita, vincolando il suo ruolo a esigenze troppo razionalistiche che le fanno perdere una presa sulla realtà, un po’ come abbiamo visto avvenire con Kant, il quale aveva cercato di scansare l’equivoco introducendo il sentimento razionale del rispetto. Qui ci si potrebbe fermare e chiedere: ma come, non stiamo mica discorrendo di filosofia? Cos’è la filosofia se non un discorso sulla vita, e, in questo caso, su come vivere (bene, in modo giusto, con moralità…)? La risposta è sì e no. E nel caso particolare dell’etica più no che sì, in quanto, certo, saranno un discorso e delle ragioni, una fondazione insomma, a guidare le azioni, o più spesso a giustificarle in una direzione retroattiva; ma se non si comprende e sottolinea che il valore dell’etica emerge solo nell’agire, che cioè la parte più importante dell’etica, potremmo forse arrischiarci a dire, si esprime nell’articolazione stessa di un’esistenza, e che è questa il fine e il banco di prova di ogni discorso che si può (e si deve) con legittimità fare

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(il quale non potrà che continuare a riassemblarsi nei giorni e nei secoli in seguito ai colpi inferti dall’esistere stesso), se, in conclusione, tale dimensione essenziale viene trascurata dai discorsi in merito, questi ne risultano impoveriti nel loro senso etico precipuo. Cioè nel motivo stesso per cui dovrebbero essere formulati. Questa critica più che rivolgersi in modo diretto a Hare prende di mira una possibilità che la sua impostazione apre e che si può ritrovare, a posteriori, in quanto si dice nel raggio di quella che viene chiamata “etica applicata”. Beninteso, l’etica (teorica) deve essere applicata per non scadere in chiacchiere sofisticate. L’obiettivo polemico cui ci stiamo riferendo è quel modo di intendere l’applicazione dell’etica che prevede il sottoporre le molteplici proposte morali che sono fiorite nel corso della storia del pensiero, dopo averle ridotte a meri contenitori di argomenti più o meno coerenti, consistenti e simbolizzabili, alla prova di casi assurdi quanto ridicoli (uno su tutti il “dilemma” di scegliere se uccidere una persona per salvarne cinque su delle rotaie o meno, nelle sue mille varianti). Questa operazione ci sembra innanzitutto scorretta perché se una teoria etica ha anche (e forse soprattutto) il compito di fornire alle persone una bussola su come agire nella vita quotidiana, insieme a una comprensione di sé, del loro bene, di ciò che è bene e così via, assegnare validità a un sistema sulla base di come si comporta in situazioni incredibili ha davvero poco senso. Chiunque potrebbe accontentarsi di una teoria che illumini le scelte da compiere, fornendone ragioni, in merito alla maggior parte dei casi incontrabili durante la propria esistenza. In secondo luogo, intendere le diverse proposte etiche, quando autentiche, come meri agglomerati argomentativi da cui attingere su personale arbitrio, tradisce il senso per cui sono state formulate. Tale “tradimento” potrebbe essere anche ignorato se spesso non fosse causa della mistificazione

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degli stessi argomenti in questione63 e al contempo del senso dell’etica in generale64. In conclusione, dunque, la tendenza di certa “filosofia analitica”, sotto il rispetto evidenziato nella cosiddetta “etica applicata”, rischia di promuovere sterili (per quanto interessanti) meta-dibattiti e non un’autentica riflessione etica che, per come la vogliamo intendere, può assurgere a modello, o anche solo rappresentare un esempio, di quel che è l’essenza della filosofia, e cioè esercizio di65 verità. Laddove s’intenda che «la verità è l’errare del suo essere in errore»66 e il dirlo in tal modo non ambisce ad alcuno statuto definitorio, ma appunto a dischiudere la pratica filosofica. Etica in senso pieno.

3.4. Claustrofobia imperativa L’ultima nota critica che vogliamo sollevare in questo capitolo riguarda tanto lo spirito che anima la costruzione di numerosi sistemi normativi utilitaristi, di cui Harsanyi (ma lo stesso Hare), può fornire un esempio calzante, quanto un’ambizione presente anche nella prospettiva kantiana67. Scrive Kant venti capoversi (circa) prima della fine della seconda sezione della Fondazione della metafisica dei costumi che le massime dell’azione trovano, grazie all’ordine imposto dalla legge suprema della moralità e al loro dovervisi conformare per dovere, una 63.  Pensiamo all’ipotesi inquietante formulata da A. MacIntyre in Dopo la virtù, cit., pp. 29-33. 64.  Certo si intende il senso dell’etica cui ci si sta rivolgendo in queste pagine, per la cui preferenza si auspica che le argomentazioni che verranno proposte portino a sbilanciarsi. 65.  Genitivo soggettivo e oggettivo. 66.  C. Sini, Spinoza o l’archivio del sapere, in Id., Opere, vol. IV/1, Il pensiero delle pratiche, Jaca Book, Milano 2013, p. 114. 67.  Lo stesso Harsanyi potrebbe averla forse ereditata da Kant.

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«determinazione completa»68 nel regno dei fini e costituiscono una totalità sistematica69. In parole semplici, la prospettiva kantiana non ammette conflitti tra doveri e per essa dovrebbe, in linea di principio (ma abbiamo visto le difficoltà generate dalla “co-appartenenza” di mondo sensibile e mondo noumenico), essere sempre possibile stabilire cosa è moralmente giusto fare e secondo quale priorità. Non si danno doveri che implicano la trasgressione di doveri. Tutto questo può risultare controintuitivo, in quanto è anche proprio perché gli eventi dell’esistenza si presentano e ci chiamano spesso a dover decidere tra situazioni inconciliabili ma allo stesso tempo percorribili, ragionevoli eppure irriducibili all’accordo, dove ogni passo appare in certo grado sbagliato, ebbene, alla luce di queste esperienze primarie è difficile convincersi che invece un sistema etico possa individuare la totalità conchiusa di tutte le azioni giuste in tutte le circostanze che si sono date e che si daranno. Una simile assolutezza può sembrare un’ingenuità, o comunque un’idea che se presa sul serio e pensata fino in fondo, in questo senso, pare inconciliabile con l’esperienza morale comune. Ed è quello che sembra cercare Harsanyi quando scrive, ad esempio, Teorema 4: la funzione di benessere sociale come media aritmetica delle utilità individuali. In base al modello di equiprobabilità, un individuo che segua i postulati di razionalità bayesiani formulerà i suoi giudizi di valore morale in modo da massimizzare la funzione di benessere sociale:

[…] il teorema conduce a una funzione di benessere sociale conforme alla tradizione utilitarista.70

68.  I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 161. 69.  Ivi, p. 163. 70.  J.C. Harsanyi, Teoria della decisione bayesiana e etica utilitarista, in Id., L’utilitarismo, cit., pp. 31-54: pp. 38-39.

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La critica non prende di mira l’utilizzo dello strumento matematico in etica, il quale, in certi casi la cui natura tuttavia sembrerebbe essere più politica o economica, potrebbe rivelarsi efficace; certo, usare equazioni in questo ambito non sembra aggiungere nulla alla sostanza filosofica del discorso, la quale si gioca tutta nello stabilire e comprendere la natura di quei valori che proprio l’espressione matematica manipolerebbe secondo determinati scopi; ma no, niente di tutto questo. L’equivoco che si vorrebbe smascherare si nasconde dietro all’idea stessa che in etica possa avere senso una tale ossessione di sistematicità ben rappresentata da una qualche sua matematizzazione. Precisiamo che in ogni caso non ci si deve situare in uno sconsolato relativismo poiché, come affermato in precedenza, una prospettiva etica deve avere un respiro universale (prendiamo per buona questa espressione e rimandiamo in sede costruttiva la chiarificazione del suo significato): tuttavia quella che troviamo in Harsanyi (e non solo) sembra la stessa ossessione, certo tecnicamente più sofisticata, che aveva Kant nel cercare un criterio per determinare in modo completo la totalità del suo sistema normativo. Questa direzione appare poco praticabile, irraggiungibile, e, soprattutto, non desiderabile. Una simile impresa, qualora venisse compiuta davvero, priverebbe la dimensione etica del senso con cui sembra chiamarci quando nelle nostre esistenze avvertiamo di essere messi in discussione dagli altri, dal mondo, circa il modo in cui ci relazioniamo con essi. Come se fosse auspicabile desiderare di essere dei computer che si limitano a seguire precisi input senza farsi carico, nella costruzione della propria identità e integrità, nella scoperta del proprio senso e della propria natura, del senso degli altri, del mondo e di sé. Come bambini che invece di mettere in discussione (anche solo per confermare) le regole dei genitori per scoprire quali siano le direzioni che invece vadano bene per loro in quanto loro, non desiderassero altro che essere guidati a colpi di imperati-

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vi e funzioni di massimizzazione che determinino le scelte di ogni momento della loro vita. Un’etica che ricerchi un tale panorama sembra perdere alcune dimensioni essenziali dell’agire etico stesso, e insieme il suo senso.

4. Virtù 4.1. Razionalità Il primo grande merito dell’utilitarismo – come scrive bene Harsanyi all’inizio di Moralità e teoria del comportamento razionale – è che «in politica come in etica, essi [gli utilitaristi classici] si schierarono per la ragione contro la semplice tradizione, il dogmatismo e gli interessi acquisti. [In particolare,] in etica, proposero di sottoporre tutte le regole morali comunemente accettate a verifiche di razionalità»71. Come abbiamo visto, la razionalità utilitarista è strumentale e da utilizzare per massimizzare l’utilità sociale, o la felicità complessiva. Al di là delle specifiche posizioni circa come vadano inquadrati tali concetti e obiettivi, è da evidenziare come (in maniera affine a quanto ha fatto Kant lungo un percorso assai diverso) la bussola che tali pensatori hanno individuato per permettere di discernere, in potenza a chiunque, ciò che è giusto o meno, per sé e per gli altri, ha un grande valore. Infatti la “bussola utilitarista” permette, in linea di principio e certo trascurando molte specifiche che andrebbero svolte, l’indipendenza dell’agente da istanze esterne al proprio giudizio razionale. Qui potremmo cadere in un equivoco: non è infatti questo uno dei risultati dello stesso Kant, l’autonomia della ragione?

71.  Cfr. J.C. Harsanyi, Moralità e teoria del comportamento razionale, cit., p. 52.

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Si potrebbe forse rispondere in modo affermativo dal punto di vista dell’obiettivo; ma sotto il rispetto teorico certo che no. La ragione di Kant deve bastare a se stessa (diciamo in fretta) nel suo determinarsi; il mondo sensibile non può che, anzi, rischiare di compromettere la sua corretta messa in pratica; la ragione degli utilitaristi, invece, dipende dall’esperienza nel trovare le sue regole più appropriate di determinazione, non può che valutare a partire dalle conseguenze degli atti, e di qui stanare i suoi errori passati e rettificarsi, cercando di migliorarsi sempre più. Quest’ultima, inoltre, si impegna con gran coraggio a cercare di offrire una via percorribile per ciò che si presume tutti desiderino, e cioè la felicità; di più, in qualche modo si potrebbe anche dire che sono da considerarsi irragionevoli quelle azioni che vadano contro al perseguimento di tale scopo, in quanto mistificano il principio di utilità, che per gli utilitaristi, si capisce, è criterio indiscutibile di razionalità morale. In primo luogo riteniamo dunque fondamentale nella costruzione di un’etica tale radicamento in una razionalità che abbracci nel suo orizzonte anche la felicità degli individui insieme al peso delle conseguenze delle loro azioni.

4.2. Libertà e educazione Un altro elemento che riteniamo vada conservato della prospettiva utilitarista è l’attenzione che essa riserva agli individui e alla loro formazione morale. Mill in particolare ha scritto pagine che hanno fatto storia su questo argomento. Egli non si pronuncia nel suo celebre On liberty in merito al libero arbitrio, se non per accennare, all’inizio dell’opera, agli equivoci generati dalla sua tensione con il concetto di necessità; la libertà di cui parla il suo saggio è quella che deve essere garantita ai cittadini in merito all’autodeterminazione delle loro vite. Gli individui, secondo Mill, devono essere liberi di pensare ciò che vogliono e di dire ciò che pensano senza timore

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di punizioni; come abbiamo visto in precedenza, infatti, non vi può essere alcun male nell’esprimere un’opinione; se questa è vera è sbagliato privare la comunità di una verità; se invece è falsa è ancor più sbagliato negarla nel suo pronunciamento, poiché si priverebbe in tal modo la comunità della possibilità di vedere una verità rafforzata da un’opposizione sbagliata. Le persone devono inoltre essere libere di agire come meglio credono per sé, certo, fintantoché la loro libertà non minacci di ridurre la libertà di terzi; tanto che «quando […] non c’è la certezza, ma c’è semplicemente il rischio di un male [derivante da un’azione], è soltanto il diretto interessato l’unico che può giudicare se il motivo che lo spinge a correre il rischio è sufficiente o no»72. A una persona che decida di arrischiarsi in una scelta che potrebbe danneggiare solo lei si può dunque solo consigliare di desistere da quella, ma non impedirgliela con la forza. Così lo Stato deve garantire che si rispetti la libertà dei suoi cittadini senza immischiarsi in modo paternalistico nella loro autodeterminazione. Vi è però un grande problema che Mill scorge già nel suo tempo e che ai giorni nostri si constata tiranneggiare ovunque, e cioè che «la tendenza generale in tutto il mondo è quella di assegnare il predominio alla mediocrità. […] Oggi, gli individui si perdono nella folla. In politica è ormai una banalità dire che è l’opinione pubblica a governare il mondo di oggi»73. Il punto da afferrare è che l’individuo massificato nei suoi desideri e nei suoi pensieri non può considerarsi un’individualità in senso pieno; il suo dissolversi nella folla, con tutti i fenomeni che la psicologia delle masse più avanti descriverà, deve essere considerato un male per lui. Un buono Stato perciò, anche se non deve interferire nell’autodeterminazione delle persone, ha tuttavia il

72.  J.S. Mill, Saggio sulla libertà, cit., p. 200. 73.  Ivi, p. 155.

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compito di favorire la preservazione di un humus74 che permetta la formazione di cittadini, diciamo, intelligenti, cioè davvero liberi di «studiare i fondamenti delle proprie opinioni»75. Infatti «sembra che solo per un certo arco di tempo i popoli riescano a progredire, per poi fermarsi, ma quand’è che si fermano? Quando non hanno più individualità»76. Una buona educazione deve perciò premere nella direzione di mostrare come far coincidere la ricerca della propria felicità con l’utile della società in generale; colui che viene educato deve fare esperienza in prima persona di quanto gli viene insegnato e solo così, attraverso buoni esempi e regole ragionevoli e discutibili, far propria la virtù morale77. Un’educazione solo coercitiva non può affatto dirsi buona, poiché scadrebbe nel paternalismo da cui si deve guardare lo stesso Stato. Perciò un’educazione alla libertà, nel senso sopra riportato, alla messa in discussione dei valori che si ereditano, che si svolga incarnando attraverso la propria esistenza quanto si apprende, è fondamentale per la formazione di agenti morali, e questo è l’altro grande insegnamento di Mill che vogliamo conservare: infatti «chi fa una cosa perché si usa farla, non fa alcuna scelta, non impara affatto né a discernere né a desiderare il meglio. La forza mentale e quella morale, proprio come la forza muscolare, si sviluppano soltanto se le si usa»78.

4.3. Cittadinanza morale Vogliamo individuare infine un grande traguardo dell’utilitarismo nella prospettiva dischiusa dal celebre passaggio dell’opera principale di Bentham, in cui egli scrive: 74.  Cfr. ivi, p. 153. 75.  Ivi, p. 112. 76.  Ivi, p. 162. 77.  Cfr. ivi, p. 170. 78.  Ivi, p. 144.

117 c’è stato un giorno, mi rattrista dire che in molti luoghi non è ancora passato, in cui la maggior parte delle specie umane, sotto il nome di schiavi, veniva trattata dalla legge esattamente come lo sono ancora oggi in Inghilterra, ad esempio, le razze inferiori degli animali. Può arrivare il giorno in cui il resto degli animali del creato potrà acquistare quei diritti di cui non si sarebbe mai potuto privarli, se non per mano della tirannia. I francesi hanno già scoperto che il nero della pelle non è una ragione per cui un essere umano debba essere abbandonato senza rimedio al capriccio di un carnefice. Può arrivare il giorno in cui si riconoscerà che il numero delle gambe, la villosità della pelle o la terminazione del’os sacrum sono ragioni altrettanto insufficienti per abbandonare un essere senziente allo stesso destino? […] La domanda da porre non è “Possono ragionare’“, né “Possono parlare?” ma “Possono soffrire?”.79

Certo, Bentham, nel passaggio subito precedente a quello qui riportato, e che spesso viene dimenticato da chi lo propone, si esprime solo a favore dell’eliminazione della tortura nei confronti degli altri animali; è intollerabile la crudeltà con cui vengono trattati gli altri esseri senzienti poiché per lui non vi sono ragioni valide per farlo, se non appunto sadismo e depravazione; quanto invece al nutrirsi di essi, specifica: se tutto stesse nell’essere mangiati, esiste una buona ragione per cui si dovrebbe tollerare che mangiamo gli animali che vogliamo: per noi è la cosa migliore e per loro non è mai la peggiore. Essi non possiedono nessuna di quelle capacità di prolungata anticipazione della disgrazia futura che abbiamo noi. La morte che ricevono da noi comunemente è, e può essere sempre, una morte più veloce e per questo meno dolorosa di quella che li aspetterebbe nell’inevitabile corso della natura.80

79.  J. Bentham, Introduzione, cit., pp. 271-272, nota 122. 80.  Ibidem.

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In questo passaggio si rivela un possibile esito problematico già ravvisato più sopra, per cui si potrebbe ritenere accettabile un certo tipo di sofferenza in favore di un godimento reso possibile da essa qualora il suo risultato rimanesse positivo, per dir così; tale possibilità apre a scenari anche raccapriccianti e inaccettabili, in cui si può immaginare che individui, o classi di individui, vengano misconosciuti nei loro interessi e nel loro valore etico e sacrificati al fine di un’estensione considerata accettabile e positiva di godimento/piacere. Per evitare questo effetto lo stesso Bentham aveva perciò specificato, come abbiamo visto, che bisogna tenere in considerazione la somma della felicità di ogni individuo, per cercare di distribuire egualmente benessere nel modo più ampio possibile. Qui, in merito alla considerazione da avere nei confronti degli altri animali, ci sembra che dunque egli non pensi fino in fondo quanto ha proposto, poiché se, in quanto dotati di sensibilità, gli altri animali sono degni di attenzione etica (tanto che è sbagliato torturarli), allora non si vede perché sia lecito mangiarli. In ambito intra-umano, con le persone che «non possiedono nessuna […] capacità di prolungata anticipazione della disgrazia futura»81, sarebbe assurdo pensare di comportarsi in questo modo, ma per come è impostata la questione, pare che tale atroce deriva sia perlomeno formulabile. Queste conseguenze terribili e un po’ sofistiche, tuttavia, cui si può spingere tale discorso vanno lasciate cadere: non ha senso anticipare con sguardo retroattivo (e imputare di aver trascurato) conoscenze82 e risultati che gli sono posteriori. Tra questi, l’opera di Peter Singer Liberazione animale83 81.  Ibidem. 82.  Tra cui il fatto che per avere tutti i nutrienti fondamentali per vivere bene non è necessario nutrirsi di altri animali, idea che pare Bentham desse per scontata. 83.  P. Singer, Liberazione animale. Il manifesto di un movimento diffuso in tutto il mondo, tr. it. di E. Ferreri, a cura di P. Cavalieri, il Saggiatore, Milano 2015.

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rappresenta un’importante evoluzione della freccia scagliata da Bentham; in essa infatti vengono derivate le piene conseguenze di quanto egli ha seminato. Riteniamo dunque che il fondatore dell’utilitarismo abbia il merito di aver posto una base, certo ancora parziale, per comprendere le ragioni di un allargamento dei diritti degli individui e per riconoscere chi vada considerato in possesso, per dir così, di una cittadinanza morale. È evidente il suo distacco da Kant, per il quale hanno titolo a membri del circuito dell’etica solo le volontà razionali in quanto capaci di moralità, cioè soggette alla legge morale. Bentham è come se gli rispondesse: attenzione, è vero, non tutti possono “legiferare” con le proprie azioni come se fossero i cittadini di un regno dei fini, ma questa non è una ragione valida per non tenere conto degli interessi di tali individui quando si agisce, perché degli interessi a un ente senziente, che sia umano o meno, anche se non può rivendicare dei diritti in merito, vanno moralmente riconosciuti. Si potrebbe così distinguere a questo punto, se si sente la necessità farlo, tra agenti morali e pazienti morali; i primi sarebbero coloro cui si può riconoscere un qualche potere intenzionale sul proprio comportamento e i secondi coloro di cui si deve avere considerazione quando si agisce. L’insieme dei “pazienti morali” contiene perciò quello degli agenti e, rispetto a questo, se sono da considerarsi tali coloro a cui si può riconoscere un certo grado di sensibilità (capacità di soffrire), è con ogni evidenza più vasto di quello che la morale tradizionale riteneva.

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III

Aristotele

1. Una scienza pratica Aristotele distingue le scienze sulla base del loro telos. Alle scienze teoretiche (fisica, matematica, metafisica), come suggerito dalla radice di orao nella parola theoria, pertiene il fine della verità, all’interno di un orizzonte semantico che trova nella conoscenza come visione il suo modello. Le scienze pratiche, invece, nelle divisioni più accurate e mature dello Stagirita1, si dividono in due generi; uno consta di quei saperi che hanno il loro telos nell’azione (etica e politica), l’altro individua quelli il cui scopo è oltre l’azione, prodotto da esse (competenze artigianali, poetica, retorica, medicina…). Si hanno così scienze pratiche propriamente dette e scienze poietiche. Tale divisione è importante per comprendere il ruolo che viene assegnato all’etica; quest’ultima, infatti, viene fatta rientrare tra le scienze pratiche propriamente dette, insieme alla politica, la quale, essendo «architettonica in massimo grado»2, come 1.  Cfr. Aristotele, Metafisica, tr. it., con testo greco a fronte, a cura di G. Rea­ le, Bompiani, Milano 2020 (20001), pp. 269-273 (VI, 1, 1025b3-1026a32). 2. Aristotele, Etica Nicomachea, tr. it., con testo greco a fronte, a cura di C. Mazzarelli, Bompiani, Milano 2019 (20001), p. 53 (I, 2, 1094a26-27).

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vedremo a breve, “contiene” l’etica stessa. Con tale distinzione Aristotele vuole rivendicare l’autonomia della sua concezione rispetto a quella del maestro, che tendeva ad assimilare l’etica alle tecniche, le quali, insegnava, hanno un momento conoscitivo e uno produttivo; Platone, infatti, riteneva che l’etica avesse come fine la felicità e che compito del filosofo fosse conoscere il bene e produrlo nella vita pratica: invece per il suo discepolo è nell’ergon, nell’opera, nella prassi, che si riduce il fine dell’etica e della politica, le quali devono guidare lo sviluppo dell’azione. Mentre l’oggetto delle scienze teoretiche è il vero, quello delle scienze pratiche propriamente dette è il bene dell’uomo3; in questo senso la politica, ricercando il bene per un gran numero di uomini è più architettonica dell’etica e la “contiene”: «infatti, ci si può, sì, contentare anche del bene di un solo individuo, ma è più bello e più divino il bene di un popolo, cioè di intere città»4. Ora, per delineare i tratti fondamentali dell’etica di Aristotele e individuare la sua fondazione, bisogna comprendere cosa sia per lo Stagirita bene per qualcuno, come lo si raggiunge e perché sia tale.

1.1. La felicità Se l’etica e la politica hanno come oggetto il bene dell’uomo, su che cosa sia questo bene Aristotele è d’accordo, perlomeno quanto al nome, con «la maggioranza degli uomini […] [infatti] sia la massa sia le persone distinte lo chiamano “felicità”, e ritengono che “vivere bene” e “riuscire” esprimano la stessa cosa

3.  «Il problema fondamentale dell’etica è: che cosa è il bene per l’uomo?» (ivi, Introduzione, p. 5). 4.  Ivi, p. 53 (I, 2, 1094b9-10).

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che “essere felici”»5. Su cosa sia la felicità, tuttavia, le opinioni divergono. Per avvicinarsi alla sua comprensione propone tre modi distinti di vivere; il primo guida l’esistenza secondo la ricerca del piacere, ma manca di centrare cosa sia la felicità; infatti, nonostante «il piacere […] perfezion[i] l’attività»6 e una vita felice, per Aristotele, sia anche, senza dubbio, piacevole, non è il piacere in sé il bene dell’uomo, non è questo il fine dell’azione: esso si aggiunge all’azione ben riuscita, ma se lo si intende come suo scopo, ci si allontana da cosa è davvero bene per l’uomo. La capacità di provare piacere è condivisa infatti anche dagli altri animali e perciò non può individuare quello che è il bene dell’uomo in quanto tale. Un secondo stile di vita è quello che ricerca onori e l’onore sembrerebbe essere «più o meno, […] il fine della vita politica»; ma anche qui, nonostante gli uomini che ricercano onore, una volta ottenuto, possano anche ritenere di essersi comportati bene, non si può dire che la felicità consista nell’averlo ricevuto, poiché, più che venir posseduta da chi è onorato, dipende troppo da chi onora, mentre il bene supremo «è qualcosa di intimamente proprio e inalienabile»7. La vita felice si compone anche di questi beni (piaceri e onori), e altri che individuano fini di azioni di diversa natura, ma se vi sono diversi fini, ve ne saranno allora di più perfetti e di meno perfetti, e la felicità non potrà che essere quello più perfetto di tutti. Con «“più perfetto” [s’intende] ciò che è perseguito per se stesso in confronto con ciò che è perseguito per altro, e ciò che non è mai scelto in vista di altro in confronto con quelle cose che sono scelte sia per se stesse sia per altro»; così la felicità deve essere diversa sia da fini scelti in vista di altro, come la ricchezza, sia da fini scelti sia per se

5.  Ivi, p. 55 (I, 4, 1095a17-20). 6.  Ivi, p. 381 (X, 4, 1174b23). 7.  Ivi, p. 57 (I, 5, 1095b23).

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stessi sia per altro, come l’essere virtuosi (tra poco approfondiremo cosa si intende con “virtù”), in quanto tale modo d’essere è un bene che si sceglie per se stesso, ma «anche in vista della felicità»8. La felicità si sceglie sempre per se stessa e mai in vista di altro. Ci serve un ulteriore passaggio per cogliere davvero la sua essenza, dobbiamo cioè gettare uno sguardo sul finalismo che intesse la visione del mondo di Aristotele. Ogni “cosa” ha una funzione in vista di qualcos’altro; così gli occhi per vedere, le mani per afferrare, l’erba per nutrire gli animali, gli animali per nutrire gli umani, e via dicendo. Anche l’uomo avrà perciò una sua funzione propria e per comprendere quale sia, bisogna cogliere la sua essenza, ciò che lo definisce come quello che è. Tale essenza è individuata da Aristotele nella “parte razionale” della sua anima; come un occhio si dice che svolge bene la sua funzione se permette di vedere bene, un uomo allora, la cui attività consisterà nel vivere umanamente, a differenza delle piante, o degli altri animali, le cui rispettive anime attualizzano la loro potenzialità di vivere vegetativamente e sensitivamente9, per dir così, si affermerà che svolge bene la sua funzione, cioè vive bene, il che equivale a dire “è felice”, se riesce a svolgere bene la funzione che gli è propria: insomma, se esercita la razionalità «secondo virtù, cioè nel modo migliore e più perfetto possibile»10. Felicità e virtù iniziano così a intrecciarsi, e si comprende subito che la seconda, in questa prospettiva, è necessaria alla prima ma non sufficiente: «è impossibile, infatti, o non è facile, compiere le azioni belle se si

8.  Ivi, p. 63 (I, 7, 1097a30-34). 9.  «L’anima è infatti per Aristotele l’atto primo di un corpo fisico organico che ha la vita in potenza (I, 1, 412a27-28). Essa consiste cioè nella realizzazione della potenzialità di vivere propria di alcuni corpi» (F. Trabattoni, Storia della filosofia antica, vol. II, Platone e Aristotele, Carocci, Roma 2016, p. 226). 10. F. Trabattoni, Storia della filosofia antica, cit., p. 251.

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è privi di risorse materiali»11. Per realizzare appieno la propria felicità l’uomo virtuoso ha anche bisogno del concorso di circostanze a lui esterne e da lui indipendenti; sarebbe difficile ammettere che un uomo, per quanto pieno di virtù, possa dirsi felice dopo aver subito ogni tipo di disgrazia, come nel caso di Priamo (esempio di Aristotele)12: perciò il bene supremo per l’uomo si inizia a delineare come il prodotto di un impegno individuale «nel fare bene le cose che producono la vita buona»13, reso possibile e coadiuvato da una serie di agi, e si intuisce così, infine, il terzo stile di vita con cui Aristotele vuole mostrarci la felicità, la quale però «ancora non è chiaro se […] consista nella vita attiva (la politica) o nella vita contemplativa (la conoscenza)»14. Posto che si voglia tenere in maggior conto il primo libro dell’Etica Nicomachea, in cui lo Stagirita sembra sostenere entrambe le opzioni come possibili “stili” razionali di vita, o il decimo, in cui si parla della completa indipendenza e autosufficienza della vita contemplativa, segnandone la superiorità, rimane da capire se la vita buona, la quale «consiste nell’esercizio della razionalità secondo virtù»15 e per la cui realizzazione l’etica e la politica si impegnano, sia una dimensione accessibile a chiunque e quale ruolo giochino le “virtù” nel raggiungerla. Iniziamo da quest’ultimo punto.

1.2. La virtù Per raggiungere la felicità (fine dell’azione umana) la razionalità (tratto essenziale che caratterizza l’umanità) deve essere

11. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., p. 71 (I, 8, 1099a32-33). 12.  Cfr. ivi, p. 77 (I, 10, 1101a6-8). 13. F. Trabattoni, Storia della filosofia antica, cit., p. 251. 14.  Ivi, p. 252. 15.  Ibidem.

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praticata con virtù, cioè nel modo migliore e più perfetto possibile; perciò con virtù si intende l’eccellenza di un’azione16. È famoso l’esempio che Aristotele propone in merito; come la funzione del citaredo è suonare la cetra e il suo fine è di suonarla nel modo migliore possibile, e perciò si dice che il citaredo di valore (virtuoso) è colui che la suona bene, così, se la funzione dell’uomo è vivere secondo ragione, il suo fine è farlo nel modo migliore possibile, cioè con «aggiunta alla funzione l’eccellenza dovuta alla virtù»17: e perciò si dice che l’uomo di valore è virtuoso, cioè vive bene. Aristotele afferma che le virtù sono molteplici e non appartengono tutte allo stesso genere. Secondo la sua teoria della distinzione delle funzioni dell’anima, l’essenza razionale degli uomini è fornita dalla parte intellettiva di essa, ma si deve dire anche che la loro parte sensitiva (condivisa dagli altri animali), nella misura in cui obbedisce a quella, «è in qualche modo partecipe della ragione»18. Da qui segue una distinzione tra due generi di virtù; le virtù etiche (relazionali, del “carattere”, concernenti «le attività dell’anima sensitiva»19, acquisite attraverso l’educazione e l’esercizio) e le virtù dianoetiche (razionali, del “pensiero”, proprie dell’anima intellettiva, acquisite attraverso l’esperienza e l’insegnamento): le virtù di entrambe le classi vengono via via acquistate e non sono parte di una dotazione innata. Proprio la loro molteplicità implica che il bene supremo dell’uomo consista «in un’attività dell’anima […] secondo la [virtù] migliore e […] più perfetta»20. Tra non molto vedremo di quale si potrebbe trattare, ma ora è bene comprende-

16. Cfr. ibidem. 17. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., p. 67 (I, 7, 1098a10-11). 18. F. Trabattoni, Storia della filosofia antica, cit., p. 252. 19.  Ivi, p. 252. 20. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., p. 67 (I, 7, 1098a16-18).

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re come si debbano identificare; per farlo, prendiamo come esempio il coraggio, tratto del carattere che ancora oggi sembra risuonare come un bene da possedere. In consonanza con l’orizzonte culturale della Grecia del suo tempo, costituito da principi quali γνῶθι σεαυτόν (“conosci te stesso”) e μηδεν ἄγαν (“niente di troppo”), che prescrivevano di comprendere i propri limiti esistenziali (e civili) e di non oltrepassarli, Aristotele pensa la virtù come una medietà, cioè la disposizione (l’“abito di risposta” «per cui ci comportiamo bene o male in rapporto alle passioni»21), in una certa circostanza, a (re)agire nel modo corretto, cioè secondo il “giusto mezzo” tra un’azione eccessiva o troppo fiacca. Vi sono dunque tre tipi di disposizioni: una virtù e due vizi (eccesso e difetto). Così, per tornare al nostro esempio, il coraggio si caratterizza come una virtù in quanto si posiziona in un punto intermedio tra la viltà, cioè una risposta inadeguata per difetto a una situazione che richieda di agire con una certa fermezza, e la temerarietà, cioè la disposizione inadeguata per eccesso che moltiplica le situazioni pericolose per l’agente e chi è con lui. Aristotele parla di giusto mezzo perché il tipo di azione richiesta per essere virtuosa varia a seconda della circostanza e dalla natura dell’agente; così, ad esempio, in una certa situazione l’agire con coraggio sarà, nelle eventualità più ricorrenti, più vicino alla temerarietà che alla viltà; questa medietà non è dunque “geometrica” rispetto ai suoi estremi, proprio come la dieta equilibrata di un body builder dovrà essere molto più abbondante della dieta equilibrata di un giocatore di scacchi, pur essendo entrambe, se buone, il risultato di una media tra un eccesso e un difetto: la differenza nel risultato dipende dal fatto che il calcolo va svolto a partire dalla specificità dell’individuo in questione. Ma rimanendo alle virtù etiche: come capire dove si collochi il giusto mezzo tra due vizi?

21.  Ivi, p. 97 (II, 5, 1105b25-26).

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Aristotele risponde invitando a pensare agli uomini virtuosi “concreti”, cioè agli esempi di virtù che si conoscono: infatti «di ciascuna cosa sono misura la virtù e l’uomo buono in quanto tale»22. L’uomo saggio e virtuoso sa che cosa fare in ogni circostanza e deve essere considerato come un modello per chi vuole agire rettamente. È evidente che il modo in cui è ordinata la città riveste allora un’importanza cruciale nella formazione di uomini di tal fatta, e per questo, come si è detto, la politica in qualche modo ingloba l’etica23: una città ha un buon ordinamento se fornisce «le condizioni in cui ciascuno può realizzare al meglio la propria natura, ossia esercitare le virtù, ed essere quindi felice»24. Le virtù che Aristotele chiama etiche (coraggio, temperanza, liberalità, magnificenza, amicizia, giustizia…) si acquisiscono e perfezionano attraverso il loro esercizio, cioè sono il frutto di un’abitudine; ad esempio, «a seconda di come ci comportiamo nei pericoli, cioè se prendiamo l’abitudine di aver paura oppure di aver coraggio, diventiamo gli uni coraggiosi, gli altri vili»25; e qui si presenta il problema: ci si deve o meno considerare responsabili delle proprie virtù? Per Aristotele si può attribuire lode o biasimo alle azioni degli uomini qualora queste siano frutto di una scelta deliberata; secondo lui, cioè, la volontà deve essere pensata come libera nel prendere decisioni, perlomeno in alcuni casi26; ma come si fa a scegliere di agire in modo retto se non si è stati abituati ad esercitarsi

22.  Ivi, p. 389 (X, 5, 1176a17-18). 23.  «La saldatura tra etica e politica è dunque evidente nel fatto che l’etica può allargarsi fino a diventare politica, e la politica affonda le sue basi negli aspetti più semplici della vita relazionale» (F. Trabattoni, Storia della filosofia antica, cit., p. 264). 24.  G. De Anna - P. Donatelli - R. Mordacci, Filosofia morale. Fondamenti, metodi, sfide pratiche, Le Monnier, Firenze 2019, p. 118. 25. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., p. 89 (II, 1, 1103b16-17). 26.  Cfr. F. Trabattoni, Storia della filosofia antica, cit., p. 255.

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alla virtù? Se si è cresciuti in una città con un pessimo ordinamento politico? Aristotele ha ben chiaro il punto: «non è piccola […] la differenza tra l’essere abituati subito, fin da piccoli, in un modo piuttosto che in un altro; al contrario, c’è una differenza grandissima, anzi è tutto»27; questo passaggio, se pensato fino in fondo, non potrebbe che eliminare la possibilità di attribuzione di giudizi di lode o biasimo circa le azioni, poiché una responsabilità dipendente, in senso stretto, dalla libertà di scegliere di agire in un modo piuttosto che in un altro non si darebbe. Le interpretazioni sul posizionamento dello Stagirita nel dibattito sul libero arbitrio divergono. In questa sede non ci interessa però procedere oltre l’indicare che tale problema segnala una tensione all’interno della sua fondazione etica, di cui egli non era certo ignaro. Ci rivolgeremo ora un momento a ciò che Aristotele chiama “giustizia”, in quanto questa può essere considerata modello delle virtù e allo stesso tempo è una virtù (etica). Essa consiste nel dar quanto spetta a ciascuno secondo una corretta proporzione tra ciò che si ripartisce e chi riceve. Esser giusti è dunque la virtù che si situa tra l’estremo per eccesso del commettere ingiustizia (prendere più di quanto si meriti) e il subire ingiustizia (ricevere meno di quanto si meriti28), e allo stesso tempo è modello, o anche criterio, con cui intendere le altre virtù. Quando infatti si è detto che esse consistono in una medietà che si incarna in differenti esiti a seconda dell’agente, si è parlato di giusto mezzo, e per “giusto” non si intende allora altro che questo: esso «è insieme medio e uguale, e relativo, cioè è giusto per certe persone; e, in quanto è medio, è medio tra certi estremi (e questi sono il più e il meno); in quanto, invece, è uguale, è uguaglianza di due cose; in quanto è giusto, lo

27. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., p. 89 (II, 1, 1103b24-25). 28.  Cfr. ivi, p. 207 (V, 5, 1134a1-16).

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è per certe persone»29. Così la giustizia è una virtù e, insieme, le virtù vanno individuate nel rispondere alle circostanze della vita seguendo una giusta via di mezzo tra due comportamenti che rappresentano dei vizi. Si è detto però che non vi sono solo virtù etiche, ma anche virtù chiamate dianoetiche, «cioè relative all’esercizio del pensiero in quanto tale»30, e corrispondenti ad arte, scienza, intelletto, saggezza e sapienza. Salta all’occhio la distinzione tra le ultime due; Aristotele infatti vuole così segnare la sua distanza rispetto alla morale socratico-platonica che sosteneva la tesi forte per cui conoscere ciò che è giusto implica comportarsi di conseguenza, e che dunque il vizio è espressione dell’ignoranza dell’agente di ciò che è bene. La sapienza è da pensarsi invece come «una conoscenza di carattere puramente teoretico»31 e rappresenta il culmine dell’attività umana, poiché esprime il fine più alto della parte razionale più nobile dell’anima; così essa è autosufficiente e indipendente da fini a lei esterni e permette all’uomo oltremodo virtuoso di godere, contemplandoli, degli oggetti più perfetti che un’intelligenza può cogliere. Rimane dunque la saggezza a porsi come una sorta di “ponte” tra il pensiero e la prassi, e in tal senso a incarnare la virtù principale dell’uomo virtuoso in quanto, nonostante non sia «facile capire con precisione che cosa Aristotele intendesse con saggezza, perché si tratta di una virtù complessa, a cui egli attribuisce svariate funzioni»32, chi la possiede è colui che sa «ben deliberare su ciò che è buono e utile per giungere alla felicità»33. Essa è da considerarsi come «una sorta di intelligen-

29.  Ivi, p. 195 (V, 3, 1131a15-18). 30. F. Trabattoni, Storia della filosofia antica, cit., p. 260. 31.  Ivi, p. 261. 32.  Ibidem. 33. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., Introduzione, p. 34.

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za pratica»34 che permette di affrontare nel modo migliore le difficoltà che si presentano durante la vita; inoltre essa consegna a chi la possiede la vita migliore possibile: «quando, infatti, gli appartiene una sola virtù, la saggezza, gli apparterranno tutte le virtù»35. Dunque qual è la virtù superiore tra sapienza e saggezza? È difficile stabilirlo. La prima rappresenta il culmine della vita umana, ma senza la seconda, «che permette di deliberare circa il modo in cui la sapienza può essere conseguita»36, non è possibile raggiungerlo; così come la salute è il fine della medicina e possederla è meglio che saper esercitare la seconda, senza tale scienza non si può riavere la prima una volta persa, e in questo senso le è superiore37. Abbiamo dunque sfiorato in cosa consista il fine della vita umana e come è possibile compierlo; quello che resta da capire è se chiunque possa raggiungerlo e per quali ragioni. In tal modo avremo sotto lo sguardo le linee principali dell’etica aristotelica e la sua fondazione.

1.3. Il circuito dell’etica aristotelico Sin qui quando abbiamo parlato di fine dell’“uomo” l’abbiamo usato nel senso di “umanità” in genere, ma non è il significato che Aristotele attribuiva a tale termine, nel senso che non tutti coloro che sono uomini partecipano dell’“umanità” in senso pieno, e perciò non possono raggiungere gran parte di quanto si è detto sin qui circa la felicità e la vita buona. Nella sua Politica infatti, quando inizia l’analisi a partire dalla “famiglia”, nel descrivere come essa si componeva al suo tempo si comprende

34. F. Trabattoni, Storia della filosofia antica, cit., p. 262. 35. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., p. 255 (VI, 13, 1145a1-2). 36. F. Trabattoni, Storia della filosofia antica, cit., p. 262. 37. Cfr. ibidem.

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bene chi appartenga al suo circuito dell’etica e in che misura, come vedremo più avanti; la famiglia, si dica qui in fretta, infatti è costituita da un capo (maschio, adulto, libero), una moglie, la prole, gli schiavi, e per chi non se li può permettere, gli animali38. Solo il primo può svolgere al massimo grado la funzione che individua l’essenza dell’umano, nel senso che possedendo la razionalità in senso pieno (che la eserciti in modo retto o meno è questione di virtù, appunto) solo può accedere alla felicità suprema della vita contemplativa, mentre gli altri membri, pur dovendosi vedere riconosciuta la razionalità sotto qualche rispetto, non si può dire che possano accedervi. Il cuore di tali differenze si può rinvenire nel dualismo che caratterizza la sua biologia e la sua ontologia, il quale ha degli effetti notevoli sull’etica e sulla politica. Aristotele distingue infatti in ogni essere vivente una forma, l’anima, e una materia, il corpo; non interessa qui discutere i problemi e le diverse interpretazioni che vi sono di questa concezione, ma invece è fondamentale comprendere la loro relazione gerarchica, come l’idea per cui l’anima governi sul corpo39 si rispecchi all’interno della comunità e dei sistemi che la compongono. Negli esseri umani la parte razionale dell’anima dirige la parte irrazionale; il padre governa sui figli, poiché questi non hanno sviluppato ancora appieno la ragione; il marito governa sulla moglie, ma in generale gli uomini sulle donne, poiché «ciò che manca loro […] è l’attitudine al comando»40; il padrone sugli schiavi

38.  «[…] a ragione Esiodo ha detto nel suo poema “casa nella sua essenza è la donna e il bove che ara” perché per i poveri il bove rimpiazza lo schiavo» (Aristotele, Politica, in Id., Opere, vol. IX, tr. it. di R. Laurenti, Laterza, Roma-Bari 1986 [19731], pp. 1-280: p. 5 [I, 2, 1252b10-12]). 39.  «[…] il vivente […], in primo luogo, è composto di anima e di corpo, e di questi la prima per natura comanda, l’altro è comandato» (ivi, p. 10 [I, 5, 1254a34-36]). 40. F. Trabattoni, Storia della filosofia antica, cit., p. 264.

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in quanto questi non hanno sviluppata appieno la razionalità, come i fanciulli, ma con la differenza che non l’acquisiranno mai. Gli animali non umani sono sprovvisti della funzione razionale dell’anima e perciò sono in toto alla mercé degli esseri umani, ed è in fondo questa differenza onto-biologica primaria a segnare tutte le successive differenze intra-umane; infatti sia i fanciulli, che le donne, che gli schiavi (e i barbari), sono più vicini agli animali in grazia di qualche deficit della loro anima. Possiamo dunque dire che l’etica di Aristotele si fonda soprattutto sui valori della società della Grecia del suo tempo, di cui egli propone una giustificazione razionale e una descrizione, più che una riflessione originale a partire da una loro critica41. Difatti, la stessa ambiguità dell’uomo virtuoso e saggio, che abbiamo delineato in breve nel paragrafo precedente, da cui si dovrebbero imparare le virtù, si produce dal fatto che i valori che incarna sono quelli dell’orizzonte culturale in cui vive e non oltre fondati42; si dà insomma per assodato che siano quelli ad essere validi. Il salto vero e proprio, però, che getta agli occhi di noi moderni una cattiva luce sulla posizione etica aristotelica, è il ruolo che egli, in conformità al suo pensiero anche in altri ambiti, assegna alla natura per fondare i valori e le virtù di cui parla; questi non sono inseriti e prodotti da una certa storia, ma rispecchiano, non tanto nel contenuto quanto nella loro ripartizione e qualità, delle differenze ontologiche forti e aculturali. Queste premesse gli permettono sì di evita-

41.  «Aristotele non ritiene di stare inventando un’interpretazione delle virtù, ma di stare articolando un’interpretazione che è implicita nel pensiero, nel discorso e nell’azione di un ateniese colto» (A. MacIntyre, Dopo la virtù, cit., p. 189). 42.  «Appare qui una circolarità del discorso: per sviluppare le virtù etiche, è necessario prendere a modello coloro i quali, secondo l’attestazione dell’unanime giudizio sociale, le posseggono» (G. Mormino, Storia della filosofia morale, cit., p. 31).

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re i problemi connessi alla relativizzazione dei valori, e tuttavia rischiano di chiudere la sua riflessione ai limiti del tempo in cui è stata formulata, ma di questo parleremo più a fondo nel prossimo paragrafo. Quello che ora domandiamo è: a donne, giovani e schiavi è in qualsiasi modo negata da Aristotele una vita buona, virtuosa e felice? Pare che la risposta sia no. Le differenze qualitative che sussistono tra queste categorie di persone implicano che le virtù che sono in grado di guadagnarsi non possano, per quanto consistenti siano, essere sullo stesso piano dell’ateniese colto, adulto, maschio, libero e virtuoso, ma ne possiedono solo quanto a ciascuno per compiere la sua funzione […] non è la stessa la temperanza d’una donna e d’un uomo, e neppure il coraggio e la giustizia, come pensava Socrate, ma nell’uno c’è il coraggio del comando, nell’altra della subordinazione, e lo stesso vale per le altre virtù […] come il poeta ha detto della donna, lo stesso valga per tutti: “alla donna il silenzio reca grazia”, ma all’uomo no davvero.43

In questo senso si può pensare che Aristotele avesse in mente un complesso sistema per il quale, a seconda delle circostanze, le persone avessero dei doveri in base a quanto richiesto dal loro status, o meglio, dalla loro natura, e che nell’espletare al meglio la loro funzione trovino, come dire, una loro specifica felicità; così Aristotele scrive che lo schiavo, non possedendo appieno la ragione, condivide gli stessi interessi del padrone (che invece sa cosa è bene per entrambi) e anzi ha necessità di essere comandato per svolgere al meglio la sua funzione44. Non vi è dubbio allora che quella dimensione complessa che

43. Aristotele, Politica, cit., p. 27 (I, 13, 1260a16-31). 44.  «In realtà, l’essere che può prevedere con l’intelligenza è capo per natura, è padrone per natura, mentre quello che può col corpo faticare, è soggetto e quindi per natura schiavo: perciò padrone e schiavo hanno gli stessi interessi» (ivi, p. 4 [I, 2, 1252a32-1252b1]).

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si vive esercitando le virtù e che rende ricca, piacevole, bella e perfetta un’esistenza al suo sommo grado, ossia quando attualizza la potenzialità insita nell’essenza più propria dell’umanità, la razionalità, è una condizione a cui, in fin dei conti, pochi esseri umani possono accedere. Tutto questo non per la difficoltà della sua ricerca, fatto che è arduo non riconoscere, ma per limiti onto-biologici precisi. È da qui che vogliamo iniziare a muovere alcune critiche alla fondazione dell’etica aristotelica.

2. Rilievi critici 2.1. Una grave astoricità La prima premessa necessaria all’ordine di critiche che tenteremo di sollevare, è che esse non vogliono presentarsi marchiate dello stesso “difetto” da cui intendono muoversi, e cioè l’astoricità del sistema etico aristotelico; non si vuole dunque scadere in un moralismo anacronista nell’attaccare alcune premesse del suo discorso, nonostante molti aspetti di tale visione del mondo non possano che risultare oggi inaccettabili. Con ciò non si vuole nemmeno giustificare quelli che possono essere con serenità letti come “errori” del pensiero o postulati dovuti all’interesse personale del filosofo, in quanto, dato che «già alcuni suoi contemporanei» avevano criticato, ad esempio, «il carattere naturale della schiavitù, affermando che essa deriv[i] semplicemente dalla violenza»45, già al suo tempo si può pensare che si desse, perlomeno in linea teorica, la possibilità di una messa in discussione di quella eredità culturale. La seconda premessa, collegata alla prima, riguarda ancora l’anacronismo, ma sotto un altro versante, in cui si sono a volte

45.  G. Mormino, Storia della filosofia morale, cit., p. 29.

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trovate nel loro riflettere le etiche moderne, come ha mostrato bene MacIntyre nel suo After Virtue; vogliamo cioè sottolineare che nonostante gli assiomi ontologici dell’etica aristotelica la rendano in qualche modo immutabile, segnandone l’astoricità, essa «è stata dominante per due millenni» e ha «costituito un modello per culture lontanissime da quella d’origine»46; di qui deriva la frequente astoricità, per dir così, di noi moderni nell’utilizzare concetti e termini che in Aristotele hanno trovato la loro nascita, per poi modificarsi attraverso una lunga storia, non accorgendoci che nel mondo effettuale in cui viviamo il linguaggio della morale [è in uno] stato di grave disordine […] Ciò che possediamo […] sono i frammenti di uno schema concettuale, parti ormai prive di quei contesti da cui derivava il loro significato. Abbiamo, è vero, dei simulacri di morale, continuiamo ad usare molte delle espressioni fondamentali. Ma abbiamo perduto, in grandissima parte se non del tutto, la nostra comprensione, sia teoretica sia pratica, della morale.47

Nonostante, lo diciamo subito, riteniamo che vadano rifiutati alcuni punti, o meglio, alcune conseguenze che MacIntyre fa derivare dalla formulazione del problema proposta poco sopra all’interno della sua opera, come avremo modo di vedere più avanti, questa potente tesi illumina l’altro versante dell’astoricità da cui vogliamo guardarci proponendo la nostra seconda premessa, in questo capitolo e, se possibile, nell’intera trattazione; cioè cadere nell’errore di attribuire il significato risultante da innumerevoli stratificazioni semantiche successive dei termini e concetti che ancor oggi utilizziamo, di matrice aristotelica, a quelli che, ab origine, usava Aristotele con altre intenzioni, mediante una retrodatazione anacronistica. Il mondo che ha prodotto quelle idee era molto diverso dai mondi in 46.  Ivi, p. 33. 47. A. MacIntyre, Dopo la virtù, cit., p. 30.

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cui quelle idee si sono evolute, mutate, e infine giunte sino a noi. Cercheremo dunque, per quanto possibile, di affrontare con senso critico la posizione etica di Aristotele, tenendo ferme le due premesse qui proposte, nella misura in cui alcune sue idee siano ancora ben presenti e agiscano nella trama del nostro orizzonte culturale, influenzando, nel bene e nel male, il nostro modo di vivere. La prima e più grave debolezza dell’etica aristotelica è, come si è già accennato, la differenziazione onto-biologica con cui si caratterizzano gli individui che partecipano, o sono esclusi, dal suo circuito morale; infatti, attribuendo alla «natura […] che indica la costituzione ontologica di ogni ente […] un valore normativo assoluto, […]»48 egli produce un’etica che «prescrive […] le giuste norme di azione per esseri diseguali»49. È in virtù di ciò che si può domandare: se, come è accaduto, la sua biologia venisse rifiutata, come ci si dovrebbe comportare per quanto riguarda la normazione che ne veniva fatta derivare? Il rischio che la struttura ontologica tratteggiata dallo Stagirita releghi la sua etica delle virtù a un fenomeno di interesse solo storico e non a un esercizio di verità ancora percorribile, mutatis mutandis, che si è detto essere il cuore della filosofia è molto alto. Certo è che nonostante gli infiniti rivolgimenti politici, sociali, scientifici e morali avvenuti dal IV secolo a.C. sino ai giorni nostri, si scorge ancora il permanere nel senso comune di ampie frange della popolazione (perlomeno italiana, ma forse di gran parte dell’Occidente, e non solo), di alcune idee che componevano proprio l’onto-biologia aristotelica: due esempi su tutti sono il ritenere le donne in qualche modo più soggette alle “passioni”, e dunque meno “razionali”, degli uomini, e il considerare e trattare gli altri animali non umani

48.  G. Mormino, Storia della filosofia morale, cit., p. 27. 49.  Ivi, p. 28.

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come oggetti di cui servirsi a piacimento, in quanto ontologicamente inferiori. La produzione di questa gerarchia sembra seguire quella «che Agamben ha chiamato “macchina antropologica”», uno strumento concettuale assai esplicativo, all’opera in modo trasversale in differenti epoche e contesti sociali; essa lavorerebbe per la materializzazione de l’Uomo «separandolo dalla nuda vita attraverso un’operazione geometrica complessa che, ruotando attorno a un centro vuoto, si avvale di meccanismi che sono, simultaneamente, escludenti e includenti»50. La macchina ruota intorno a un centro vuoto perché, a prescindere dal periodo storico in cui ha “prodotto” un determinato concetto di Uomo, essa non produce in concreto nulla, ma fa comparire lì ciò che è «chiamata a giustificare», ciò che a priori, per specifici motivi e contingenze, ha la dignità di essere chiamato Uomo, escludendo di volta in volta gruppi, che sono già esclusi, e riappropriandosene sotto un’altra forma. Così nell’Atene di Aristotele «Uomo è chi ha accesso all’agorà, ossia chi non deve dedicarsi a lavori materiali, chi sa argomentare senza farsi travolgere dalle passioni, chi parla correttamente il greco»51. Come è ovvio, chi viene riconosciuto tale faceva già parte del “gruppo’ degli ateniesi maschi, adulti e liberi, i soli che potessero esprimere al massimo l’essenza dell’umanità. Il processo di riconoscimento, come abbiamo visto, esclude dunque gli schiavi (che devono lavorare), le donne (facili prede delle passioni), i figli (non ancora maturi) e i barbari (che non parlano greco), ma tutte queste categorie, escluse, vengono riappropriate mediante l’esternalizzazione delle funzioni corporee (degli ateniesi maschi, adulti e liberi) alle donne e agli schiavi (insieme ai barbari che permettono di scolpire i contorni dell’identità

50.  M. Filippi, Questioni di specie, Elèuthera, Milano 2017, p. 56. 51.  Ivi, p. 57.

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greca e ai figli che rafforzano l’identità del capo della famiglia, essendo di sua proprietà)52. Il lavoro di questa macchina «fa sì che l’Ateniese sia contemporaneamente dentro (come “spirito”) e fuori (come “corpo”) la sfera del privilegio e che il Barbaro, la Donna e lo Schiavo siano contemporaneamente fuori (come corpi che non contano) e dentro (come forza lavoro o beni di consumo) la polis»53. Nel centro vuoto dell’Atene di Aristotele si materializza dunque l’Uomo per natura con le caratteristiche dell’Ateniese, quando invece è la pratica di dominio dell’Ateniese che troverebbe una giustificazione successiva nella produzione di un concetto di Uomo, che non ha invece nulla di naturale. Ecco che infine, dunque, si impone la necessità di abbandonare l’astoricità grave che struttura la riflessione etica di Aristotele; “grave” innanzitutto per gli effetti che abbiamo visto che produce, al di là del fatto incontestabile che fosse “figlia del suo tempo” ed è giusto pensare che, «in contesti sociali e politici differenti, Aristotele avrebbe avuto i mezzi epistemologici per rimettere in discussione la validità assoluta dei valori etici che propone, delle gerarchie che istituisce e delle forme di vita associata che descrive»54. In secondo luogo perché non rende conto delle ragioni che governano la produzione storica e sociale dei valori che propone, finendo più col giustificare una posizione di potere pre-posseduta che fornire una fondazione, per quanto possibile, ragionevolmente disinteressata dell’etica. Infine per il rischio cui condanna le sue stesse categorie morali che, se fosse impossibile slegarle, perlomeno alcune, dall’ontobiologia che le sostiene, rimarrebbero sepolte sotto la frana del tempo che le ha abbandonate. Perciò l’idea che l’etica aristote-

52.  Cfr. ivi, p. 58. 53.  Ibidem. 54.  G. Mormino, Storia della filosofia morale, cit., p. 33.

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lica tragga la sua validità per le ragioni che hanno mosso il suo autore a formularla nei termini che ci sono pervenuti, cioè sia valida in virtù della veridicità della sua teoria circa la natura degli enti, deve essere con ogni evidenza dismessa. Il suo valore non può che essere rintracciato altrove.

2.2. La concezione aristotelica della virtù Abbiamo incontrato in precedenza la distinzione che Aristotele propone tra le virtù etiche, quelle del carattere «acquisite attraverso l’esercizio abituale», e le virtù dianoetiche, quelle del pensiero «acquisite attraverso l’insegnamento»55; per divenire davvero virtuosi bisogna esercitare secondo ragione le prime, disposizioni che in certa misura si può pensare che vengano possedute come dotazione inziale in qualità di virtù naturali; «tutti ritengono che ciascun tipo di carattere ci appartenga in qualche modo per natura: infatti, giusti, inclini alla temperanza, coraggiosi e così via, noi lo siamo subito fin dalla nascita»56. Ma esse diventano virtù vere e proprie se esercitate in vista dell’autentico bene dell’uomo e tale esercizio è possibile in senso pieno solo se si possiede la virtù intellettuale, di cui abbiamo già accennato, della “saggezza” (φρόνησις), poiché «è l’esercizio dell’intelligenza a costituire la differenza fondamentale fra una disposizione naturale di una certa specie e la virtù corrispondente»57. Allo stesso tempo la saggezza, che regola l’attuazione delle virtù etiche, dipende però dal loro possesso: perciò si dà che per Aristotele l’uomo davvero virtuoso non può che possedere tutte le virtù. Se la saggezza fosse priva delle virtù del carattere scadrebbe, «fin dall’inizio, in una

55. A. MacIntyre, Dopo la virtù, cit., p. 196. 56. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., p. 253 (VI, 13, 1144b1-10). 57. A. MacIntyre, Dopo la virtù, cit., p. 196.

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mera capacità astuta di collegare i mezzi a un fine qualsiasi, anziché a quei fini che sono gli autentici beni per l’uomo»58; se non vi fosse, però, essa a guidare il loro esercizio, le virtù del carattere non potrebbero svilupparsi nel loro pieno senso etico; perciò Aristotele scrive: è chiaro, dunque, da quanto si è detto che non è possibile essere buoni in senso proprio senza saggezza, né essere saggio senza la virtù etica. Ma in questo modo resterà anche confutato l’argomento dialettico con cui si vorrebbe provare che le virtù esistono separatamente l’una dall’altra: infatti, la medesima persona non è ugualmente ben disposta per natura verso tutte le virtù, ma sarà tale che una l’ha già acquisita, l’altra non ancora; questo, infatti può capitare per quanto riguarda le virtù naturali, ma per quanto riguarda le virtù per cui uno è chiamato buono in senso assoluto, non è possibile: quando, infatti, gli appartiene una sola virtù, la saggezza, gli apparterranno insieme tutte le virtù.59

Questa concezione che prevede l’unità delle virtù è il primo punto su cui vogliamo muovere una critica. Tale conseguenza infatti collide con evidenze della vita comune e circostanze storiche in cui emerge con chiarezza che uomini dotati senza dubbio di una virtù etica come il coraggio o la temperanza, non possiedano quella intelligenza pratica che dovrebbe orientare le loro azioni in vista del bene di cui si è parlato. Così si può dare il classico caso del nazista coraggioso, laddove con coraggio si può intendere «la capacità di rischiare il danno e il pericolo»60, il quale non si può certo dire che agisca in vista di un qualche fine considerabile benigno. Allo stesso modo, viceversa, rivisitando un esempio di kantiano, si può dare il caso di un killer intelligente, dotato di un’eccellenza pratica nel cal58.  Ibidem. 59. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., p. 255 (VI, 13, 1144b30-1145a2). 60. A. MacIntyre, Dopo la virtù, cit., p. 237.

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colare bene i mezzi in vista di un fine, il quale certo è difficile pensarlo come virtuoso. Ma qui si rischia di cadere nell’errore premonito nel paragrafo precedente per cui si sovrappone un uso moderno di termini che alla loro origine possedevano un significato differente. Così il succitato killer kantiano, per Aristotele, potremmo supporre che non andrebbe pensato come davvero intelligente a livello pratico, nel senso della saggezza da lui proposto; e allo stesso modo che quello del classico nazista non sia da considerarsi vero coraggio poiché non guidato da reale saggezza, ma tant’è: con serenità si può ritenere che per comprendere a fondo cosa sia da intendersi con virtù, cercando di abbracciare sia l’uso antico che moderno, vada abbandonata la richiesta della loro unità pretesa da Aristotele senza rinunciare ad alcune sue intuizioni, che andrebbero rilette però alla luce di premesse diverse. Questa è l’operazione che, ad esempio, viene proposta da MacIntyre nel suo più volte citato After Virtue, nel quale in modo provvisorio definisce la virtù come «una qualità umana acquisita il cui possesso ed esercizio tende a consentirci di raggiungere quei valori che sono interni alle pratiche, e la cui mancanza ci impedisce effettivamente di raggiungere qualsiasi valore del genere»61. In conclusione di questo paragrafo vogliamo concentrare la nostra attenzione sull’idea che l’azione virtuosa, giusta, sia per necessità una forma di medietà; anche la tradizione latina, sotto certi aspetti, farà propria questa concezione, come si può leggere nella dottrina del “giusto mezzo” di Orazio e in altri autori; ma siamo sicuri che l’azione giusta si caratterizzi sempre così? Aristotele pensa la buona azione come una via di mezzo tra due vizi poiché pensa gli “estremi” in questa ombra; certo va ricordato che la giusta via di mezzo è cucita sulla misura delle caratteristiche dell’individuo agente, e che dunque una

61.  Ivi, p. 235.

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stessa azione può essere virtuosa o meno a seconda di chi la compie (chi ha di più, ad esempio, si può pensare che debba dare di più di chi ha di meno, e quanto viene dato non può che differire, a parità di bontà dell’azione); perciò – come scrive lo stesso Aristotele – «secondo la sostanza e secondo la definizione che ne esprime l’essenza, la virtù è una medietà, mentre dal punto di vista dell’ottimo e del bene è un culmine»62. Ma si possono dare, e si sono date eccome, configurazioni storiche per cui non si può pensare che l’azione giusta sia individuata da una via di mezzo tra due estremi; pensiamo, ad esempio, a quali sarebbero gli estremi per porre in una qualche metà un’azione, della cui giustizia non si dubita, come l’abolizione della schiavitù; questa o rappresenta un “estremo”, o si pone al di là di esso, o non è ben comprensibile come si possa farla rientrare tra due estremi a definirla. È un fenomeno simile a quanto accade, in maniera speculare, in merito a certe azioni ingiuste per cui Aristotele sostiene che esse non siano né l’apice in eccesso né quello in difetto di una disposizione e che «non è mai possibile, riguardo ad esse, agire rettamente»63. Quest’ultimo punto, più che essere una critica diretta alla concezione aristotelica della virtù, per cui una tale interpretazione potrebbe anche risultare inadeguata a uno studio più riavvicinato, magari svolto nella direzione di sottolineare lo spazio assiologico aperto dalla μεσώτες in quanto culmine e non la sua definizione mediante due vizi64, vuole essere sollevato contro il μηδεν ἄγαν da cui si origina la visione dello Stagirita. Una possibile inter-

62. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., p. 101 (II, 6, 1107a6-9). 63.  Ibidem. Nella stessa pagina continua: «ma non ogni azione ammette la medietà: alcune, infatti, implicano già nel nome la malvagità, come la malevolenza, l’impudenza, l’invidia, e, tra le azioni, l’adulterio, il furto, l’omicidio». 64.  Lo stesso Aristotele per alcune virtù non “trova il nome” dei due vizi che la circondano se non riferendosi a una variabile ora maggiore ora minore. Cfr. ivi, pp. 101-105 (II, 6, 1107a28-1108b10).

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pretazione di tale principio, come quella che si può ritrovare in certi luoghi del pensiero romano, rischia infatti di cadere in quella che si presenta come un’incomprensione della natura dell’azione giusta. Tale eventuale incomprensione si può pensare che derivi dalla rigidezza della “regola” di individuazione dell’eccellenza, come mostra l’esempio poco sopra riportato dell’abolizione della schiavitù.

2.3. Finalità in natura Quanto verrà ora discusso riguarda il rifiuto di un’idea fondamentale della biologia metafisica aristotelica, e cioè la posizione di finalità intrinseche nella natura e nei suoi enti. Quest’idea, come si è visto in precedenza, si riflette sul piano etico nell’operazione di individuazione del bene degli individui sulla base di funzioni che si presume siano legate alla loro essenza e ne indichino il fine. Dopo la rivoluzione operata da Darwin con la sua teoria dell’evoluzione, nonostante vi siano stati anche prima di lui pensatori (come Spinoza) che avevano rifiutato un’interpretazione teleologica della natura, si può dire che tale visione debba essere abbandonata. Vogliamo specificare subito, onde evitare alcune facili critiche che potrebbero essere sollevate riguardo all’uso del concetto di telos in etica, che quanto si deve abbandonare è la lettura che le finalità proprie degli individui sia legata a una loro biologia, e in particolare a quella di Aristotele, ma non che si debba rifiutare di servirsene proponendolo da premesse diverse. Insomma, che l’essenza dell’uomo sia individuata dal possesso di un’anima razionale cui pertiene una specifica funzione; che in virtù di ciò il fine, il bene supremo, la felicità dell’uomo risieda in quanto si è detto più sopra; e che tutto questo si inserisca in un sistema naturale finalizzato anche, proprio, a questo apice che è l’umanità così intesa: ecco, sembra evidente che, dato che la natura non accade seguendo finalità e le caratteristiche degli enti che la popolano dipendono

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da variazioni evolutive casuali, se è quella individuata da Aristotele la vera felicità dell’uomo, non lo è per le ragioni con cui intende fondarla, e le idee poc’anzi elencate vanno abbandonate. Con ciò si potrà ancora parlare con legittimità di finalità in etica o dell’etica e quant’altro, ma, rispettando le premesse che ci si è dati in questa trattazione circa l’esclusione di fondazioni religiose dell’etica, certo le finalità di cui sarà lecito parlare non andranno radicate nemmeno in onto-biologie “laiche”, ma finalistiche, come quella di Aristotele. Se quanto abbiamo detto ha un senso, ne deriva che bisognerà ripensare il contenuto proprio di quanto vada inteso con felicità e vita buona dell’uomo, oltre che lo statuto di chi appartiene al circuito dell’etica.

2.4. Aristotele e gli altri animali La Politica di Aristotele ha avuto un’influenza immensa sulla nostra cultura e continua tutt’ora ad averne: il suo segno è riconoscibile in ampi strati del senso comune collettivo, come già si accennava qualche paragrafo sopra. Alcuni passaggi e definizioni del primo libro, le loro conseguenze e ciò che implicano certe assunzioni, sono presenti nei discorsi di tutti i giorni, nelle parole quotidiane, nei continui, non percepiti ma presenti, riferimenti agli animali e all’animalità come a parti della realtà che hanno uno statuto di naturale inferiorità rispetto a chi li pronuncia. Sono presenti nei processi di animalizzazione che avvengono durante le guerre nei confronti dei nemici, nelle religioni nei confronti delle donne, nelle società nei confronti delle anormalità non tollerabili. Abbia avuto, la Politica, un’influenza diretta o meno in taluni casi, in quelle pagine c’è una batteria argomentativa, della quale il ventaglio di esempi succitati è solo una manifestazione sintomatica della sua pervasività, che per secoli ha fornito una solida struttura alle giustificazioni teoriche delle pratiche di molti e differenti tipi di

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organizzazioni umane. Approfondiamo ora alcuni aspetti di tale opera di cui in precedenza abbiamo avuto modo di parlare in modo solo tangenziale. Per trattare dello «stato»65, lo Stagirita si dedica a un’analisi dei suoi «elementi semplici» ponendo alla base la famiglia, che si comporrebbe di due diverse unioni, quella tra padrone e schiavo e quella tra «maschio» e «femmina»66. Al suo interno, l’uomo ha autorità sullo schiavo in quanto padrone, sulla moglie in quanto marito (come un «uomo di stato»67), sui figli in quanto padre (come un re sui sudditi); questo perché, nonostante si riconosca che siano tutti esseri umani e che abbiano tutti «le parti dell’anima» razionale, essi «le possiedono in maniera diversa»68: lo schiavo è «per natura chi può appartenere a un altro (per cui è di un altro) e chi in tanto partecipa di ragione in quanto può apprenderla, ma non averla»69 e dunque «non possiede in tutta la sua pienezza la parte deliberativa», mentre «la donna la possiede ma senza autorità» e il giovane «la possiede, ma non sviluppata»70. Dunque il padrone è «capo per natura» poiché «può prevedere con l’intelligenza» e si serve dello schiavo, che invece «può col corpo

65.  «Poiché vediamo che ogni stato è una comunità e ogni comunità si costituisce in vista di un bene […]» (Aristotele, Politica, cit., p. 3 [I, 1, 1252a1-2]; corsivi nostri), riportiamo la nota, alla stessa pagina, del curatore sulla scelta di tradurre con «stato» il termine polis, a cui ci stiamo riferendo: «È nota a tutti la complessità e ambiguità del termine greco πόλις (sottolineato da Aristotele stesso: Γ 1276 a 22 ss.) e di conseguenza l’impossibilità di una traduzione adeguata. Ho preferito renderlo “stato” dove è prevalente il significato politico, “città” dove tale significato è assente». 66.  Ivi, p. 4 (I, 1, 1252a20). 67.  Ivi, p. 25 (I, 12, 1259b1-2). 68.  Ivi, p. 27 (I, 13, 1260a11-12). 69.  Ivi, p. 11 (I, 5, 1254b21-24). 70.  Ivi, p. 27 (I, 13, 1260a13-14).

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faticare»71 ed è un «oggetto di proprietà», come di uno strumento animato; questi non possiede nemmeno il suo corpo, ma appartiene in toto al padrone, come la porzione di qualcosa appartiene alla sua totalità, mentre «il padrone è solo padrone dello schiavo»72 e non gli appartiene. Il maschio è per natura «più adatto al comando della femmina, tolte alcune eccezioni contro natura», ed egli si relaziona alla moglie sempre come avviene alternamente ai governanti rispetto ai governati nelle magistrature, che sono «per la massima parte in mano ai cittadini» che «vogliono essere uguali per natura e non avere alcuna differenza»73. Infine, sui figli l’autorità del capo della famiglia si esercita come quella del re sui sudditi poiché «il re dev’essere superiore per natura ai suoi sudditi, anche se è della stessa stirpe di loro: ed è proprio questa la posizione del più anziano rispetto al più giovane, del genitore rispetto al figlio»74. La premessa e la condizione per poter definire questi tre rapporti, sulla quale si sono radicate molteplici teorie politiche, è l’indiscutibile, naturale e netta superiorità dell’essere umano rispetto agli altri animali: era questo il punto indubitabile cui riferire le argomentazioni per renderle inattaccabili. Gli animali esistono per sfamarci e per vestirci, quelli domestici per farci compagnia e proteggerci; noi disponiamo dei loro corpi come di strumenti animati (anche loro possiederebbero la cosiddetta anima sensitiva) in virtù della loro evidente inferiorità. La seconda premessa è che è lecito, in modo assoluto, fare ciò che si vuole di chi è inferiore. Le relazioni di dominio vengono così giustificate poiché esistono in natura; chi lo mette in dubbio? Come l’anima per natura 71.  Ivi, p. 4 (I, 2, 1252a33). 72.  Ivi, p. 10 (I, 4, 1254a13). 73.  Ivi, p. 25 (I, 12, 1259b2). 74.  Ibidem.

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governa il corpo, così per natura l’uomo domina gli animali e gli schiavi, che hanno una differenza minima «quanto all’utilità»75, e governa la donna e i figli in casa. Schiavi, donne, figli e barbari (i primi e gli ultimi sono intercambiabili, in quanto tra i barbari non esistono uomini e donne ma solo schiavi e schiave) sono per natura più vicini agli animali; lo abbiamo visto, questi esseri umani partecipano della ragione ma in maniera minore a seconda dell’aspetto: c’è chi non è in grado di governarsi del tutto, chi non riesce in parte, chi non può ancora. Viene fissata una scala e una gerarchia non solo tra gli esseri viventi, ma anche all’interno della stessa categoria Uomo, sostenuta dal livello più basso che regge tutte le altre, l’Animale, e al vertice di questa piramide vi è un uomo che per natura è legittimo domini sugli altri. Nel primo paragrafo critico di questo capitolo abbiamo mostrato come Agamben, attraverso lo strumento concettuale della “macchina antropologica”, abbia descritto il processo di produzione del privilegio socio-morale; Massimo Filippi, neurologo e attivista antispecista, ha riletto il lavoro della macchina antropologica astraendo dalle determinazioni storiche che di volta in volta hanno prodotto un Uomo diverso, per mostrare come tale meccanismo attualizzi non tanto la produzione di «una qualche forma di Uomo», quanto quella dell’«Uomo tout court»76, indicando la sua materializzazione nel centro vuoto come giustificazione dell’esclusione de “l’Animale”, idea priva di contenuto77, dal circuito dell’etica (corpi di cui si può disporre a piacimento) riappropriandosene sotto forma di cibo, vestiti e attività ludiche. Questa è quella che infatti egli chia-

75.  Ivi, p. 11 (I, 5, 1254b25). 76.  M. Filippi, Questioni di specie, cit., p. 58. 77.  Come dimostra bene J. Derrida in L’animale che dunque sono, tr. it. di M. Zannini, Jaca Book, Milano 2006.

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ma macchina specista78, il cui lavoro è ancora invisibile agli occhi dei più. La macchina antropogenica e specista si può dunque vedere già all’opera nel sistema delineato da Aristotele, nel quale il concetto di natura, come abbiamo indicato, non viene interrogato in quanto risultato di dinamiche storiche e pratiche ben precise, legate a bisogni, interessi e contingenze, ma assurto ad assioma e a giudice di normalità; quello che in tal modo accade è la naturalizzazione delle norme, anteponendo la loro legittimità fuori dal divenire storico che le ha prodotte, rendendole così incontestabili, per poi animalizzare e anormalizzare delle categorie per giustificare il dominio su di esse. È evidente l’efficacia e la pericolosità di tali meccanismi. Oggi è (dovrebbe essere, almeno) difficile trovare qualcuno che sostenga i risultati e le conseguenze del lavoro della macchina antropogenica di stampo aristotelico che, al suo tempo, ha prodotto una determinata definizione di Uomo che giustificava un sistema in cui schiavismo e misoginia erano legittimi e naturali; tuttavia, nonostante la schiavitù sia stata abolita e, almeno in alcune parti del mondo, sebbene di sicuro non fino in fondo e con tutte le conseguenze che vanno prese, la parità di genere sia stata riconosciuta, è facile incontrare chi sostiene ancora le premesse che hanno giustificato tali pratiche (anche nei millenni successivi). Esse possono essere riassunte in: a) le norme che ci governano hanno un’origine naturale; b) «la natura […] non fa niente senza scopo» e tende al bene delle sue parti; c) l’uomo è per natura superiore agli animali in quanto «l’uomo, solo tra gli animali, ha la parola», il linguaggio, e ciò lo definisce, differenzia e implica che ha, «egli solo, la percezione del bene e del male del giusto e dell’ingiusto e degli al-

78.  Per una sua illustrazione accurata, cfr. M. Filippi, Questioni di specie, cit., pp. 55-66.

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tri valori»79; d) è lecito, in quanto naturalmente inferiori, fare ciò che si vuole degli animali. Il problema su cui si vuole porre l’attenzione è che gettando uno sguardo rapido alla nostra sanguinaria storia, ora era più animale questa categoria, ora quell’altra, ora questa razza, ora chi ha determinati orientamenti sessuali, secondo il processo di produzione della norma (storicamente variabile) e anormalizzazione di chi non la rispetta. Riteniamo dunque che, in virtù delle critiche mosse nei paragrafi precedenti e presente ai concetti di natura e finalità, vada ripensato il modo di definire l’Uomo tout court, il modo con cui si produce l’essenza dell’Uomo, scardinando la logica opposizionale de “l’animale” versus l’uomo, in forza dell’abbandono dell’illegittimo concetto di Animale80, delle perversioni spregevoli che derivano da questo modo di argomentare e legittimare il processo di animalizzazione che nella storia è molteplici volte avvenuto e continua a perpetrarsi nei confronti dei gruppi umani più fragili; per il funzionamento viziato che produce la sua definizione attraverso una “macchina antropogenica e specista” il cui solo scopo è giustificare pratiche di violenza inter/intra-specifiche già in atto; e infine perché, forse, tra le molteplici differenze che intercorrono tra specie e specie (compresa quella umana e le differenze tra gli individui al suo interno), ciò che deve essere degno di attenzione etica travalica l’ingenuità di definizioni che si appellano a un oscuro concetto di natura, che le renderebbe immutabili, e va invece ricercato spogliandosi, per quanto possibile, dei pregiudizi legati alle abitudini, alle eredità e ai processi storici

79. Aristotele, Politica, cit., p. 6 (I, 2, 1253a9-10). 80.  «Non esiste l’Animale al singolare generale. Separato dall’uomo da un unico limite indivisibile. Bisogna rendersi conto che ci sono dei “viventi” la cui pluralità non può essere raccolta nella sola figura dell’animalità semplicemente opposta all’umanità» (J. Derrida, L’animale che dunque sono, cit., p. 89).

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che li hanno prodotti, pregiudizi che vengono indicati a valle come risultati, mentre erano già nascosti a monte. Abbiamo così, infine, terminato il tentativo di critica ad alcuni aspetti dell’etica e della politica di Aristotele, delle ragioni in cui affondano e dei loro effetti più o meno collaterali. Ora è bene, invece, rivolgerci a quanto sembra che debba essere mantenuto della posizione aristotelica per articolare oggi un’etica valida, guardandoci, per quanto è nelle nostre capacità, dal cadere nell’errore, cui più volte in queste pagine ci si è riferiti, di riflettere maneggiando scorretti anacronismi, piuttosto che idee che ancora comunicano qualcosa di fondamentale.

3. Virtù 3.1. Premessa metodologica La tesi centrale del più volte citato After Virtue di MacIntyre è che l’etica, dalla modernità in poi, è rimasta incagliata in difficoltà irrisolvibili, dovute al fatto che ha ereditato dall’antichità termini, problemi e formule che hanno subito profonde risignificazioni nel corso dei secoli, insieme ad aver perduto l’orizzonte culturale e pratico in cui trovavano senso e applicazioni; come se dopo una catastrofe mondiale si perdesse ogni cognizione di quanto è accaduto prima di essa, e, ritrovati i frammenti di manuali di fisica del liceo, si cercasse di metterli insieme e interpretarli, senza avere la minima idea della loro genealogia e delle loro finalità. Così MacIntyre, ad esempio, liquida (troppo) facilmente gli utilitaristi e i loro argomenti per principio, in quanto “bisticciano” in continuazione su i metodi, i contenuti e le applicazioni più corrette di tale prospettiva morale, decretando già in questo modo il fallimento del loro progetto; questa mossa (abbastanza comune tra i pensatori che si chiamano fuori dalla cornice utilitarista) evita a MacIntyre

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di confrontarsi di petto con ogni diramazione dell’utilitarismo, che, come si è detto in precedenza e di cui, nel piccolo della presente trattazione, se n’è scorta e affrontata una minuscola porzione, raccoglie una straordinaria molteplicità di posizioni differenti. Così ogni tentativo di far chiarezza in morale, da Hume a Kant a Kierkegaard a oggi, fallisce, poiché si lavora su un insieme di concetti in buona parte aristotelici che non hanno più presa sullo spettro dell’esistenza comunitaria attuale. È una tesi potente il cui valore, riteniamo, non risiede in quello che pretende di affermare. Una certa tendenza analitica sembra rispecchiare bene quanto affermato dal filosofo irlandese, come abbiamo avuto modo in precedenza di accennare per altre ragioni; la riduzione cioè dell’etica a meta-etica e il suo slegamento totale dalle pratiche di vita, usando concetti che acquisiscono il loro autentico senso solo attraverso queste, è un rischio da cui bisogna ben guardarsi: manipolare le idee di Aristotele in questo modo può produrre grandi fraintendimenti e sfociare perfino nel nichilismo, come anche altri, oltre a MacIntyre, ritengono che sia avvenuto. Tuttavia vi è un sentiero per cui ci sembra che sia ancora possibile, e forse necessario, confrontarsi con i problemi di Aristotele (come di altri), con le sue posizioni e le sue ragioni. Innanzitutto i concetti con cui rifletteva lo Stagirita avevano loro stessi, al suo tempo, una storia, come l’hanno avuta poi; ed è con quelli giunti alla stazione del nostro tempo che ci confrontiamo, pur riconoscendo che avessero un altro significato in origine. In secondo luogo, di questo significato autentico perché originario e via dicendo noi sappiamo, forse, ben poco; esso viene ricostruito sulla base di teorie, metodi, scienze con precisi limiti epistemologici, cui come è giusto ci affidiamo, ma di cui, appunto, non dobbiamo dimenticare i limiti; e dunque se si volesse dire che non ha senso parlare di etica nel modo in cui è stato fatto in età moderna perché “etica” (o qualsiasi altra cosa) in origine voleva indicare questa o quell’altra pratica,

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e che ora non essendoci più quei contesti specifici che sostenevano e rendevano intellegibile quel gioco linguistico, è poco rilevante sottolinearlo così, che si trovi un altro termine, suvvia, per ciò che ora si vuole intendere; quello che, a nostro avviso, dovrebbe contare quando oggi si fa etica è il situarsi di fronte a una serie di problemi esistenziali secondo un certo taglio o prospettiva già presente in Aristotele che, posti i succitati limiti delle ricostruzioni filologiche della concettualità antica, e anche nell’eventualità che quanto si stia per affermare derivi da un’incredibile mistificazione storica, mantiene un legame stretto con quanto ancora, nella nostra idea di etica, si ha da pensare. In terzo luogo, per inciso, anche ai tempi di Aristotele non c’era una visione unica di quanto chiamiamo “etica”, e i filosofi delle diverse polis “bisticciavano” molto tra loro, assai, come i nostri81. In conclusione, quanto si vuole sostenere è che diversi concetti di Aristotele, nella misura in cui hanno valore le ricostruzioni che ne abbiamo e secondo il senso che hanno assunto lungo la loro storia, sono validi strumenti per comprendere come debba articolarsi un’etica oggi e delineano in modo chiaro alcune sue aree di interesse. Con questo spirito rivolgiamoci ora a quanto ci sembra debba essere conservato di tale illustre prospettiva.

3.2. La virtù come abito Abbiamo visto cosa Aristotele intendesse con “virtù” e in che modo vada identificata; essa è l’eccellenza di una certa azione posto l’agente e le circostanze che la richiedono, e si colloca di norma tra due estremi da considerarsi erronei; le virtù chiama-

81.  Lo stesso MacIntyre riconosce la molteplicità prospettica e a volte irriducibile della antica Grecia nell’opera in questione (cfr. A. MacIntyre, Dopo la virtù, cit., cap. 11, Le virtù ad Atene, pp. 171-186).

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te “etiche”, che riguardano le relazioni e vanno a costituire il carattere di un individuo, si apprendono mediante l’educazione come disposizioni a (re)agire nel modo migliore possibile agli eventi della vita, e si fanno proprie solo dopo un reiterato esercizio. Essendo oggi il mondo assai diverso da quello in cui viveva lui, è chiaro che molte delle virtù che ivi erano richieste e gli parevano un bene non si presentino più come tali. Ma che “comportarsi in modo retto” si apprenda per gran parte tramite l’educazione che si riceve e non si nasca “buoni” o “cattivi” (nonostante alcuni passi in cui sembra contraddire questo punto)82; che per acquisire certe disposizioni ad agire sia necessario un loro esercizio reale; che la pratica delle virtù sia arricchita, rettificata e migliore se accompagnata dal pensiero e da una consapevolezza circa il valore e il senso che ha: tutto questo è ancora cogente e illumina alcuni punti su cui la riflessione etica contemporanea non può non focalizzarsi. Innanzitutto questa deve saper fornire valori razionalmente fondati (o per altra via convincenti) che guidino la trasmissione di abiti di risposta che li conservino mediante l’educazione e l’istruzione di chi viene al mondo; in secondo luogo deve saper indicare quali pratiche favoriscano la loro acquisizione; infine deve saper offrire ragioni e criteri per comprendere come indirizzare le proprie azioni, migliorarsi e costruire una propria consapevole, integra e soddisfacente postura nel mondo. L’idea che le vere virtù siano quelle di un certo tipo di uomo e che lo siano in forza di una sua indiscussa bontà va di certo abbandonata; ma che l’esempio di come uomini che diremmo virtuosi si siano comportati in determinate circostanze, l’apprensione del modo in cui in queste abbiano rivelato delle buone vie di azione, ricopra un ruolo importante per conoscere certe virtù, non può che avere ancora una parte fondamenta-

82.  Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., p. 253 (VI, 13, 1144b4-6).

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le. Un’etica implica infatti un impegno in prima persona e la vita che le corrisponde, o mediante cui si svolge, procura una prova della sua percorribilità, dei suoi risultati e insieme una forte influenza su chi ne entra in contatto. Buoni cammini di vita battono la strada per molti viaggiatori che giungeranno. Certo, quanto è stato detto sin qui non ha fornito alcun esempio di virtù, né ha chiarito quale sia un buon modello da seguire, e ancor meno ne ha spiegato il perché. Tutto questo riteniamo che sia bene cercarlo dopo aver fissato i punti che delineano l’area di quanto si deve discutere, così da permettere un accordo su cui svolgere confronti, miglioramenti e ripensamenti. I contenuti di cui si sta parlando non possono prescindere da alcune analisi in merito al sostrato culturale (insieme a una comprensione dei suoi limiti) e a diversi fenomeni storici che raffigurano il palcoscenico senza cui è impossibile rappresentare quanto si propone di intendere oggi con virtù e valori. Con ogni probabilità quanto accadrà da qui a un secolo allargherà il teatro di tale riflessione. Detto ciò, una volta che avremo terminato questo lavoro preliminare, non ci esimeremo dall’impegnarci a indicare a quel livello cosa proponga la posizione etica che stiamo cercando.

3.3. Ciò che è bene L’etica per Aristotele riguarda la ricerca di ciò che è bene per l’uomo e dovrebbe essere una sorta di guida che permetta di raggiungere la felicità; abbiamo visto che è quest’ultima, per la maggior parte delle persone e per il filosofo stesso, il bene supremo per un individuo. Spesso la si confonde con qualche tipo di piacere, in quanto essa è una forma di benessere, o con beni esteriori (materiali o sociali), ma in realtà è assai legata all’esplicazione, più perfetta possibile, delle potenzialità insite nella natura degli uomini; l’umanità (tenute presenti le criticità più sopra affrontate), se ascoltiamo quanto Aristotele so-

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stiene nel decimo libro dell’Etica Nicomachea, trova la felicità in massimo grado nella vita contemplativa, in quanto questa esprime nella sua forma più nobile la sua essenza razionale: «[…] se la felicità è attività conforme a virtù, è logico che lo sia conformemente alla virtù più alta: e questa sarà la virtù della nostra parte migliore […] è attività contemplativa»83. Pare che in realtà solo tale attività possa dirsi felicità in senso proprio, tanto che in un passaggio scrive come segue: «[…] tutti gli altri animali non partecipano della felicità, perché sono completamente privi di tale tipo di attività […] la felicità sarà una forma di contemplazione»84. Abbiamo già avuto modo di criticare la biologia di Aristotele, la teoria sulla tripartizione delle funzioni dell’anima, i concetti di finalismo e natura; proprio in virtù dell’abbandono di queste premesse metafisiche non possiamo che dismettere anche ciò che aveva in mente quando pensava la felicità: senza la sua onto-biologia sarebbe troppo arbitrario mantenere la convinzione che quanto intendesse con “sapienza” e “contemplazione” fosse la felicità e non una forma di felicità possibile. Ebbene, anche in questo caso, come poco fa è accaduto con le virtù, dobbiamo abbandonare un certo modo in cui si concretizzava la sua idea di felicità in forza della messa da parte delle ragioni che ne governavano lo svolgimento, ma non dobbiamo, perciò, accantonare pure la prospettiva per cui l’etica ha tra i suoi compiti quello di comprendere cosa sia bene per coloro di cui si interessa e permettere, per quanto possibile, alla vita di arricchirsi di qualcosa che continuiamo a chiamare felicità. Riteniamo che il favorire tale condizione dica qualcosa, secondo una via tutta da indagare, dell’eticità stessa di un’azione. A differenza di quanto pensava Kant, una “volontà” buona

83.  Ivi, p. 393 (X, 7, 1177a12-18). 84.  Ivi, p. 399 (X, 8, 1178b24-32).

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deve essere sotto qualche aspetto lieta e non può considerarsi davvero buona se pregiudica l’altrui benessere, non incoraggiando, con la sua semplice realtà, un aumento della gioia del mondo. Come vada pensata la felicità è un’avventura che un’etica deve affrontare e di cui deve fornire una comprensione e un modello d’accesso. In questo senso, lo anticipiamo in breve qui ma ce ne occuperemo con cura nella prossima sezione, ci sembra che Aristotele abbia visto giusto quando pensava alla felicità come un’attività in cui si esprimono le potenzialità proprie di una determinata natura. Certo, non ci riferiamo a quanto intendesse lui con “natura”; lo abbiamo visto, la “natura umana” non va individuata in un’essenza data una volta per tutte in una definizione che sia in grado di comprendere quanti chiamiamo “uomini” e nessun altro, così come all’interno dell’umanità le classi e i generi in cui lo Stagirita ha raccolto gli individui non sono individuate da alcun tipo di “natura” particolare nel modo in cui la pensava. No, ciò che vogliamo iniziare a suggerire è che quanto si va cercando utilizzando termini come “natura” ed “essenza” è da scoprire in individualità irriducibili a specie e classi che identifichino la loro entelechia. La felicità è da ripensarsi invece alla luce della promozione delle capacità proprie degli individui intesi come unicità e dell’estrinsecazione, per dirlo in un modo preliminare, delle loro potenzialità atomiche. *** Siamo così giunti al termine della prima sezione della presente trattazione, in cui si è voluto percorrere alcuni tra i più importanti sentieri della riflessione etica occidentale. Essi sono stati proposti nelle loro linee generali e sono stati analizzati nelle loro rispettive fondazioni. È stato riportato quanto è parso giusto dovesse venir criticato e di ogni contestazione si è fornita

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ragione. Con i frutti che infine sono stati raccolti lungo questi cammini si ha intenzione di nutrire una (per quanto possibile) originale proposta di fondazione dell’etica. Questo è quanto ci promettiamo di compiere nella sezione a venire.

Seconda sezione

Dynergismo

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IV

Baruch Spinoza e altri amici

1. L’ateo divino Baruch Spinoza percorre un sentiero che, sebbene a un primo e superficiale sguardo potrebbe sembrar srotolarsi lungo tracciati già battuti nella foresta del pensiero occidentale, conduce in realtà in luoghi inauditi e ancora tutti da abitare. Nonostante si possano trovare alcuni, rari, predecessori che hanno scorto l’abisso con cui lui si confronterà, l’apertura teoretica incarnata dal sistema spinoziano non ha precedenti quanto a coraggio1 e rigore. Gli odiosi avvenimenti che hanno turbato la sua vita, così come gli spregevoli appellativi con cui per molto tempo dopo la sua morte i rappresentanti del pensiero dominante si sono rivolti alla sua persona, sono ben noti e sintomatici della profonda distanza cui la sua riflessione ha chiamato il mondo rispetto a quanto si è sempre ritenuto certo. L’etica di Spinoza e la sua fondazione si oppongono perciò, sotto molti e cruciali aspetti, a quanto è stato esaminato sin qui. Ci troviamo in un campo nuovo che richiede, per realizzare la sua fecondità, una torsione radicale della nostra postura.

1.  Con l’eccezione di Giordano Bruno.

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Per tentare di afferrare la portata dello sconvolgimento introdotto da questo ateo divino, maledetto dalla comunità cui apparteneva, bandito da ogni religione, divino perché solo ha pensato fino in fondo quanto si è sempre fantasticato con il termine “Dio”, e dell’Ethica Dio è senza dubbio il protagonista, non possiamo che rivolgerci subito alla sua metafisica, l’ontologia fondamentale da cui fiorisce la sua etica.

2. Dio Carlo Sini ha affermato2 che l’arduo compito di chi vuole comprendere sino in fondo l’Ethica risiede nel fronteggiare quello che lui chiama il pensiero abissale di Spinoza, individuato dalla prima definizione che apre l’opera, e di cui l’opera stessa non rappresenterebbe altro che l’impegno a trarne tutte le conseguenze. La prima definizione dell’Ethica, come è noto, recita: «intendo per causa di sé ciò la cui essenza implica l’esistenza; ossia ciò la cui natura non si può concepire se non esistente»3. Spinoza si sta riferendo a quella che chiama Sostanza. La prima parte dell’Ethica conduce il lettore a una progressiva chiarificazione di che cosa vada inteso con “Sostanza”, (di)mostrandone la sua natura e unicità (IP1-IP6), la sua necessaria esistenza e 2.  Cfr. C. Sini, Spinoza, cit. 3.  B. Spinoza, Ethica. Ordine geometrico demonstrata, tr. it., con testo latino a fronte, di G. Durante, note di G. Gentile, Sansoni, Firenze 1984 (19631) [d’ora in avanti: Eth. S.], ID1. Facciamo seguire la legenda di come ci riferiamo in nota e nel corpo del testo ai luoghi dell’Ethica citati: D = definizione, A = assioma, P = proposizione, S = spiegazione, s = scolio, l = lemma, c = corollario, p = postulato, d = dimostrazione, Dda = Definizione degli affetti. I numeri che precedono le lettere indicano il libro dell’Ethica in cui si trova quanto viene citato, i numeri che seguono le lettere indicano il numero della definizione, proposizione, ecc. Inoltre indicheremo tra parentesi l’edizione cui ci riferiremo di volta in volta nelle citazioni.

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infinità (IP7-IP11), la sua indivisibilità (IP12-IP13) e la necessaria dipendenza causale di ogni cosa da lei (IP14-IP18). Tale Sostanza viene anche chiamata Dio e fin qui sembrerebbe procedere tutto secondo religiosa regolarità; Spinoza dimostrerebbe a modo suo, con alcuni argomenti che ne ricordano altri passati, l’esistenza di Dio e la sua infinita potenza. In realtà si tratta di intendere davvero cosa significhi tutto questo. Il Dio di Spinoza è assolutamente infinito nel senso che la sua essenza si esprime in infiniti Attributi i quali, a loro volta, sono infiniti ma nel loro genere (cioè sono indelimitabili da altri Attributi e “concentrano” tutta la Sostanza sotto un certo rispetto). Di questi infiniti attributi l’intelletto umano ne conosce solo due: l’Estensione e il Pensiero. Ma chiariamo subito: l’intelletto umano non è in un al di là rispetto a tali attributi da cui li conoscerebbe rapportandosi ad essi mediante una qualche distanza ontologica; l’intelletto umano, così come ogni cosa determinata nel mondo, non è altro che una (appunto) determinazione finita, circoscritta, della Sostanza assolutamente infinita esprimentesi sotto l’uno o l’altro attributo. E cerchiamo di chiarire subito un secondo punto: la Sostanza non è altro rispetto ai suoi Attributi, per cui vi è prima (chissà dove) una Sostanza che poi si manifesta in due ordini differenti, ma è immediatamente i suoi Attributi, accade nella differenza di tali Attributi, e solo in ciò si può leggere una distinzione logico-concettuale tra Sostanza/Dio e i suoi Attributi: «[…] la differenza della sostanza rispetto ai suoi attributi, non essendo un’altra cosa, non è altro che l’accadere della differenza tra gli attributi stessi»4. Le cose finite vengono chiamate “modi” e sono modificazioni della Sostanza infinita sotto determinati rispetti; «le cose particolari non sono altro se non affezioni degli attributi di Dio, ossia modi mediante i quali gli

4.  C. Sini, Spinoza, cit., p. 238.

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attributi di Dio sono espressi in maniera certa e determinata»5: essi si inseriscono nell’infinita catena causale di effetti che discendono e dipendono dalla potenza stessa della Sostanza. Il punto di partenza indubitabile è dunque che Dio, così inteso, esiste per necessità e non v’è nulla al di fuori di esso, infatti «tutto ciò che è, è in Dio, e senza Dio nessuna cosa può essere né essere concepita»6. Poiché la potenza di Dio, che è la sua stessa essenza (IP34), nella quale è implicata l’esistenza, è infinita, tutto quello che Dio può essere è, e non v’è nulla che possa esistere che non esista realmente. Possiamo dunque trarre una prima conclusione da questo pensiero abissale di Spinoza, la quale si può esprimere, per far in fretta, così: tutto è in Dio, inteso «come totalità […] che include assolutamente ogni cosa»7 (ogni evento di qualsiasi tipo), e tutto è, in un certo senso, Dio. Ogni modo è, in quanto sua modificazione determinata, la Sostanza (certo non nel suo senso assoluto) e di conseguenza ogni modo, in quanto modificazione della Sostanza, non ha in sé alcuna natura sostanziale. Iniziamo a intuire i primi scandali. Il primo, evidente, sconvolgente, è che Dio non è qualcosa di altro rispetto alla Natura, intesa in un senso tradizionale come totalità del creato; Dio non è creatore nel senso che da una parte c’è Dio e dall’altra c’è la sua creazione che sarebbe la Natura. La Sostanza, o Dio, è la Natura. Questi tre termini sono sinonimi: l’intuizione fondamentale di Spinoza nella prima parte è che la Natura è una totalità indivisibile, infinita, incausata, sostanziale – di fatto, è la sola totalità sostanziale. Al di fuori della Natura non c’è nulla e tutto ciò che esiste è parte della Na-

5.  Eth. S., IP25c. 6.  Eth. S., IP15. 7.  S. Nadler, La via alla felicità. L’Etica di Spinoza nella cultura del Seicento, tr. it. di E. Andri, Hoepli, Milano 2018, p. 97.

165 tura ed è portato all’esistenza da e dentro la Natura con una necessità deterministica secondo le leggi di Natura.8

Si potrebbe dire, ed è stato assunto anche da correnti importanti del pensiero nell’Ottocento, che Spinoza sia un panteista. Nei limiti della nostra comprensione, riteniamo che tale modo di intendere la sua metafisica sia non solo semplicistico e riduttivo rispetto all’autentico spessore della sua riflessione, ma ponga chi assuma tale prospettiva nell’incapacità di capire la sua ontologia fondamentale, pregiudicandosi in tal modo il raggiungimento della beatitudine cui conduce l’Ethica. A breve mostreremo il perché di quanto appena affermato, ma ora ci serve fare un passo indietro e ripensare a cosa porta con sé l’idea tradizionale “Dio”. Per le religioni rivelate, Dio è il creatore dell’universo e padre di ogni cosa; è infinitamente potente e assolutamente libero, di una libertà intesa come arbitrio infinito, cioè, secondo alcune interpretazioni, tale che, in virtù della sua potenza, sia perfino in grado di rendere esistenti contraddizioni logico-materiali (come un cerchio rotondo), etiche (come rendere ciò che è male bene e viceversa) e addirittura cambiare quanto in precedenza Egli stesso avesse deciso; Dio inoltre premia chi lo venera e punisce chi lo disonora; Dio è infine assolutamente buono e perfetto. È chiaro da quanto già si è detto del “Dio di Spinoza” che Esso non abbia nulla a che fare con quello della tradizione, se non condividerne il nome e alcuni aspetti: la potenza infinita, la libertà e la perfezione. Ora però bisogna pensare fino in fondo queste idee. Se Dio è infinitamente potente, non può essere certo “libero” di cambiare quanto è implicato dalla sua potenza, se no sarebbe limitato da se stesso, o meglio, da un suo capriccio; ma un esse-

8.  Ivi, p. 106.

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re assolutamente perfetto non può avere capricci e se è davvero infinitamente potente, tutto quello che può derivare dalla sua essenza non può che derivarne per necessità: infatti «tutto ciò che concepiamo essere in potere di Dio, è necessariamente»9. Dio dunque non ha quella che si chiama “volontà libera”, anzi, non ha proprio volontà, nonostante alcuni pensino che «Dio [sia] causa libera perché può, come credono, far sì che le cose che abbiamo detto seguire dalla sua natura, cioè che sono in suo potere, non accadano o non siano prodotte da lui»10: un Dio di questo tipo non sarebbe affatto infinitamente potente e perciò «Spinoza respinge il principio che intelletto e volontà appartengano alla natura divina e, più in generale, respinge i fondamenti stessi di ogni volontarismo divino»11. Ecco allora il secondo scandalo. Dio non è affatto analogo a un padre che premia i suoi figli se si comportano bene e li punisce se fanno il contrario; Dio non è buono e nemmeno cattivo, è indifferente a queste qualificazioni: la sua attività non trova ragion d’essere in nessun fine al di fuori del suo infinito svolgimento. Si è detto che Spinoza utilizzi il termine “Natura” come sinonimo di Dio e può essere stato questo ad aver prodotto l’incomprensione che ha portato a considerarlo un panteista; ma se così fosse, vorrebbe dire che o Dio è in qualche modo diverso dalla Natura e, per così dire, l’anima, la pervade, e allora si potrebbe anche giustificare una sorta di sguardo incantato su ogni cosa (divinizzata) che ci circonda; o (forse peggio) si produrrebbe una sorta di moralizzazione della Natura, la quale potrebbe venire letta ancora come l’antica buona (o cattiva) Madre di tutte 9.  Eth. S., IP35. 10.  Eth. S., IP17s. 11.  A. Sangiacomo, in B. Spinoza, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico [d’ora in avanti: Eth. B.], in Id., Tutte le opere, tr. it., con testo a fronte, a cura di A. Sangiacomo, Bompiani, Milano 2010/2011, pp. 11411623: p. 1612, nota 14.

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le cose che dà ai suoi figli ciò di cui hanno bisogno, e via dicendo. Il pensiero di Spinoza non porta certo a questi esiti. Infatti l’espressione “Dio o Natura” non intende affermare una relazione di contenimento tra Dio e la Natura, ma un’identità strettamente numerica. Dio non è “nella” Natura nel senso che la natura contiene, oltre ai suoi contenuti naturali, un distinto contenuto divino e soprannaturale.12

Terzo scandalo. Se Dio non possiede né intelletto né libero arbitrio, è possibile per noi modificazioni finite della Sostanza infinita pensare di possedere qualcosa del genere? Qualcosa come il potere di scegliere in arbitraria libertà le nostre volizioni senza essere determinati da nient’altro che il nostro capriccio? Ecco «una delle cose di Spinoza che nessuno ha mai mandato giù; una di quelle che costituiscono proprio la sua differenza, la sua incompatibilità con tutta la nostra tradizione. Ciò che è peccato pensare»13: non v’è la libertà di scelta, né assolutamente per Dio, né di conseguenza per noi. Cerchiamo di capirne bene il perché.

2.1. Il determinismo universale Dio, essendo causa di sé, esiste per necessità e non v’è nulla al di fuori lui; non c’è né un prima né un dopo l’esistenza della Sostanza che, in sé, è eterna; Dio è infinito non nel senso di indeterminato ma «proprio perché infinitamente determinantesi nelle sue espressioni»14; si è detto che il Pensiero e l’Estensione sono i due attributi, «due delle nature più generali delle cose nell’universo»15, conoscibili dall’intelletto

12. S. Nadler, La via alla felicità, cit., p. 110. 13.  C. Sini, Spinoza, cit., p. 62. 14.  A. Sangiacomo, in Eth. B., p. 1610, nota 2. 15.  S. Nadler, La via alla felicità, cit., p. 116.

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umano che esprimono l’essenza infinita della Sostanza ciascuno nel suo genere. Come effetto immediato della natura di ciascun attributo, cioè della causalità di Dio, seguono i cosiddetti modi infiniti immediati, «che esistono sempre insieme all’attributo stesso, dunque eternamente, giacché l’attributo è eterno»16; diverse interpretazioni17, nonostante varie divergenze, riferiscono tali effetti infiniti immediati a quello che viene chiamato “intelletto infinito”, che raccoglie le essenze e le leggi che governano le menti esprimentesi nell’attributo del Pensiero, e il rapporto moto-quiete, che raccoglie le essenze e le leggi che governano i corpi esprimentesi nell’attributo dell’Estensione18, come sembra sostenere lo stesso Spinoza in una lettera di chiarimenti a Schuller19. Da questi modi infiniti immediati si possono distinguere i cosiddetti “modi infiniti mediati”, i quali, seguendo «immediatamente dal modo infinito immediato»20, derivano con tale mediazione dall’attributo; essi individuano la serie causale infinita dei corpi attualmente esistenti sotto il rispetto materiale (Estensione) della Natura/Dio, la cosiddetta facies totius Universi21, e quella del-

16.  A. Sangiacomo, in Eth. B., p. 1611, nota 8. 17.  Cfr. S. Nadler, La via alla felicità, cit.; A. Sangiacomo, in Eth. S.; E. Giancotti, in B. Spinoza, Etica. Dimostrata con metodo geometrico, tr. it., a cura di E. Giancotti, Editori Riuniti, Roma 1988 [d’ora in avanti: Eth. R.]; S. Landucci, in B. Spinoza, Etica, tr. it., a cura di S. Landucci, Laterza, Roma-Bari 2009; M.E. Scribano, Guida alla lettura dell’Etica di Spinoza, Laterza, Roma-­Bari 2008. 18.  Cfr. S. Nadler, La via alla felicità, cit., pp. 82-91. 19.  «Infine, gli esempi che chiedi del primo genere sono nel pensiero l’intelletto assolutamente infinito, nell’estensione anche il moto e la quiete» (B. Spinoza, Lettera 64, in Id., Tutte le opere, cit., pp. 2129-2131: p. 2131). 20.  A. Sangiacomo, in Eth. B., p. 1611, nota 9. 21.  «[…] l’aspetto di tutto l’universo, che, benché vari in infiniti modi, permane tuttavia sempre lo stesso» (B. Spinoza, Lettera 64, cit., p. 2131).

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le idee attualmente esistenti nel Pensiero22. Non ci interessa approfondire alcune aporeticità che è stato fatto notare23 sorgerebbero dai rapporti sussistenti tra le varie qualificazioni dell’infinito che offre Spinoza (l’infinito assoluto della Sostanza, l’infinito assoluto nel suo genere dell’Attributo, l’infinito concernente le serie causali dei modi infiniti immediati e mediati), quanto piuttosto fare una breve notazione circa il modo in cui non si devono leggere gli effetti della causalità di Dio. Non si deve intendere quanto riportato come una neoplatonica deduzione del molteplice dall’Uno, del finito dall’infinito, che vedrebbe gli enti particolari come risultati di una progressiva degradazione dell’Essere; e tantomeno pensare l’analisi (onto)logico-concettuale del dispiegamento della Sostanza in un senso fichtiano di infinito ([D]Io) che produce pensandosi un infinito (Non-[D]Io) altro da sé e così via. Spinoza vuole invece solo mostrare come ogni cosa finita sia inserita nella Sostanza, come cioè abbia luogo in quanto prodotto di infinite cause finite e sia insieme causa di effetti finiti che si srotolano all’infinito, serie causale che esprime «la totalità delle modificazioni che seguono dalla natura infinita della sostanza divina [riconoscendo il] regresso causale infinito, […] tradizionalmente pensato come impossibile, come struttura stessa dell’Essere»24. Possiamo dunque ben comprendere ora la portata del terzo assioma della prima parte dell’Ethica, che recita: «da una determinata causa data segue necessariamente un effetto, e, al contrario, se non è data nessuna causa determinata, è impossibile che segua un effetto»25; e anche quando scrive: «nella

22.  Cfr. S. Nadler, La via alla felicità, cit., pp. 82-91. 23.  Cfr. A. Sangiacomo, in Eth. B., p. 1611, note 8-9. 24.  Ivi, p. 1611, nota 10. 25.  Eth. S., IA3.

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natura non si dà nulla di contingente, ma tutto è determinato dalla necessità della natura divina ad esistere e ad operare in una certa maniera»26; e infine che «le cose non hanno potuto essere prodotte da Dio in nessun’altra maniera né in nessun altro ordine se non nella maniera e nell’ordine in cui sono state prodotte»27. Tutto nell’universo è determinato ad essere quello che è e niente, di ciò che è attualmente, sarebbe potuto essere diverso da come è. Il determinismo universale di Spinoza, che, come dovrebbe essere ormai chiaro, comprende anche tutto quello che pensano attualmente gli esseri umani, il modo in cui sono cresciuti e le ragioni delle loro scelte, è una delle conseguenze del pensiero abissale che apre la sua opera. È facile intuire come tutto questo sia risultato inaccettabile al suo tempo e continui ad esserlo nella nostra epoca. La credenza di poter determinare da sé le proprie azioni in arbitraria libertà, nel senso di credere di avere la possibilità reale di scegliere tra diverse alternative e percorrere quella che si vuole, come se tale volontà non fosse determinata dalle volizioni che l’hanno preceduta, dovrebbe venir meno; comprendere insomma che non c’è mai un momento della catena causale volitiva in cui intervenga un potere appartenente a un oscuro “io” che non si sia formato in forza di essa, demolisce una superstizione di cui abbiamo difficoltà a liberarci: la fede nel libero arbitrio. Ma se il libero arbitrio è un’illusione salta subito all’occhio che non si è responsabili delle proprie azioni, se con “responsabilità” si intende la colpa derivante dall’aver liberamente deciso di compiere un atto che sarebbe stato bene non eseguire, colpa che macchia l’esecutore di una sorta di malvagità morale (lo stesso Nietzsche, che abitava quest’atmosfera concettuale, scriverà che il libero arbitrio è il prodotto (anche) del desiderio

26.  Eth. S., IP29. 27.  Eth. S., IP33.

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di punire)28. Alcune conseguenze, ad esempio sul piano giudiziario, che si potrebbero trarre da questa prima liberazione cui ci ha condotto il filosofo, avremo modo di tematizzarle più avanti, ma ora è bene concentrarci su quanto abbiamo appena scoperto: non siamo liberi di scegliere le nostre volizioni. Per afferrare questo punto fino in fondo ci servirà chiarire in breve anche alcuni aspetti del rapporto mente-corpo, nei termini in cui è pensato da Spinoza.

2.2. La superstizione del libero arbitrio La metafisica spinoziana implica, come si è mostrato, che tutto quello che accade sia con rigore determinato in senso causale. Abbiamo visto che Kant ammetteva questo tipo di determinismo sotto il nome di necessità naturale, il quale individuava le leggi che governano il mondo sensibile, ma, fondando egli la sua etica sull’idea di libertà e sull’autonomia della ragione, ha avuto un gran da fare per cercare di conciliare quello che Spinoza chiamerebbe un impero in un impero; e cioè qualcosa all’interno della Natura che non rispetti le sue leggi necessarie. Quelle difficoltà Kant si può pensare che le abbia ereditate dalla visione dualista che domina nella filosofia occidentale; prima di lui Cartesio aveva fatto i salti mortali (concettuali) per unire i due regni che aveva diviso, la res extensa e la res cogitans, come si sa. Spinoza invece rifiuta quell’antica idea per cui la mente, o l’io, o l’anima, come dir si voglia, sia quell’entità «soprannaturale […] impiantata (da Dio) in un corpo e circondata dalla natura, ma dotata di quella libertà della volontà che la lascia indeterminata in molte delle sue operazioni»29. Non possono 28.  Cfr. F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, tr. it. di F. Masini, in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VI/2, Adelphi, Milano 1964, pp. 211-367. 29.  S. Nadler, La via alla felicità, cit., p. 182.

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darsi due Sostanze, ma solo una, infinita, eterna, indivisibile, la cui essenza consta di infiniti Attributi incommensurabili. Noi già sappiamo che possiamo conoscere solo due di questi infiniti attributi, l’Estensione e il Pensiero. Modificazioni dell’Estensione sono le cose estese e i corpi, modificazioni del Pensiero sono le idee e le idee dei corpi (menti); ma tra gli oggetti di entrambi questi aspetti della Natura non vi è una differenza reale, solo modale. Soltanto la Sostanza è essere massimamente reale e la Sostanza è una30. Così il dispiegarsi della serie causale infinita della potenza attiva della Natura si esprime con una corrispondenza perfetta in ognuno dei suoi attributi secondo il loro genere; questo non perché vi sia una “sopravvenienza” dell’uno sull’altro, o un legame causale tra loro; non si deve perciò pensare che, ad esempio, una modificazione nel cervello causi una modificazione nella mente che è l’idea dell’oggetto del corpo cui appartiene tale organo, ma è invece la stessa Sostanza che in tale determinazione può essere intesa ora sotto questo, ora sotto quel rispetto. Per questo Spinoza scrive: «l’ordine e la connessione delle idee si identificano con l’ordine e la connessione delle cose»31. Così, a discapito del senso comune, non accade che, ad esempio, il “comando” della mente di alzare un braccio causi il movimento corrispondente; pensare in questa maniera significa credere che vi siano due sostanze di natura in toto diversa che in qualche modo si influenzino l’un l’altra: ma che luogo può darsi in cui un pensiero e una cosa estesa “si tocchino” realmente?

30.  In questo luogo non ci interessa penetrare nelle esegesi più fini della concezione della Sostanza in Spinoza, ma in ogni caso è bene qui ricordare, come scrive Vinciguerra, che: «A rigore, non si è neppure autorizzati a parlare di monismo, in quanto lo stesso Spinoza ebbe a precisare che è improprio dire della sostanza che è una e unica» (L. Vinciguerra, Spinoza, Carocci, Roma 2015, p. 91), a causa della natura immaginativa del numero. 31.  Eth. S., IIP7.

173 […] quando gli uomini dicono che questa o quell’azione del Corpo deriva dalla Mente, la quale ha dominio sul Corpo, non sanno cosa dicono e non fanno altro se non confessare con parole speciose d’ignorare, senza meravigliarsene, la vera causa di tale azione. […] la stessa esperienza, non meno che la ragione, insegna che gli uomini credono di essere liberi solo perché sono consapevoli delle proprie azioni, e ignari delle cause da cui sono determinati32.

Ora che abbiamo intravisto un po’ meglio come vada intesa la relazione mente-corpo, possiamo fare un passo oltre e comprendere davvero perché vada abbandonata la superstizione del libero arbitrio, il potere di causare liberamente la propria volontà. Spinoza lo chiarisce subito nelle prime battute dell’Ethica: «si dice libera quella cosa che esiste per la sola necessita della sua natura e che è determinata da sé sola ad agire: si dice invece necessaria, o meglio coatta, la cosa che è determinata da altro ad esistere e ad agire in una certa e determinata maniera»33. Noi esseri umani sotto che tipo di “cosa” dovremmo pensarci? Nessuno viene al mondo senza genitori. L’essenza individuale di chi scrive non implica la sua esistenza necessaria, non è causa di sé. È invece un modo e «il modo può essere concepito solo entro l’attributo in cui sta: è in virtù del pensiero che c’è un modo del pensiero, cioè questo pensiero determinato; è in virtù del corpo che c’è un modo del corpo, che è questo corpo determinato»34. Così solo Dio, ossia la Natura, ossia i suoi infiniti Attributi, è libero in senso proprio, in quanto determinato soltanto da sé ad agire. Certo, questo non vale a dire che la Natura abbia una volontà e sia libera di cambiare il modo in cui si è svolta e si svolge, ma l’abbiamo già visto. Dio non ha né un intelletto né una volontà intesi 32.  Eth. S., IIIP2s. 33.  Eth. S., ID7. 34.  C. Sini, Spinoza, cit., p. 199.

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come vuole la tradizione antropomorfica delle religioni35. Perciò non c’è una distinzione, come pensava Kant, tra l’eteronomia delle cause della necessità naturale e l’autonomia causale della ragione umana; la necessità di Dio si esprime nell’ordine delle cose estese ed è la stessa che lega le implicazioni logiche del pensiero: è una necessità onto-logica in senso forte36. È per questo che non c’è nessun “noi” che causi dei pensieri, ma piuttosto quel “noi” è il prodotto della serie delle idee che lo costituiscono; così noi non siamo liberi di volere questo e quello, ma ogni volizione è implicata dalla volizione precedente37: «nella Mente non c’è alcuna volontà assoluta o libera; ma la Mente è determinata a volere questo o quello da una causa che pure è determinata da un’altra, e questa a sua volta da un’altra, e così all’infinito»38. Una frase di Peirce riportata da Sini nel suo Lo spazio del segno ci sembra cogliere bene il 35.  Se non nel senso che come effetto produca quello che si è chiamato “intelletto infinito”, o cui anche si riferisce come “Figlio di Dio” («l’intelletto infinito, da noi chiamato Figlio di Dio, deve essere eternamente nella natura. Difatti, se Dio è dall’eternità, la sua idea deve essere dall’eternità nella cosa pensante, cioè in se stesso, la quale idea conviene oggettivamente con lui» (in B. Spinoza, Breve trattato su Dio, l’uomo, e la sua felicità, in Id., Tutte le opere, cit., pp. 185-362: p. 321, nota). 36.  «Spinoza sta sostenendo la tesi […] forte che nel Pensiero si diano serie ordinate di idee, ciascuna delle quali è ordinata in modo corrispondente all’ordine dei modi in uno degli altri attributi […] In Dio o Natura, l’ordine causale delle cose è identico all’ordine logico-causale delle idee. Ecco la famosa dottrina spinoziana del parallelismo» (S. Nadler, La via alla felicità, cit., p. 119). 37.  «[…] l’io che decide, la volontà che vuole, non è però lei la causa; io non causo a partire da me il mio inizio, perché “me”, “inizio”, è sempre il causato dell’inizio e non c’è una parte di me o dell’io che è fuori dall’esser causato. Non posso esibire un pensiero, un’intenzione, una tendenza che non sia connessa a un presupposto e che non accada nella oscurità del suo accadere. Io sono quello che sono a causa delle mie decisioni, dei miei inizi. L’io è l’effetto, non la causa» (C. Sini, Spinoza, cit., p. 72). 38.  Eth. S., IIP48.

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punto: «Proprio come diciamo che un corpo è in moto, e non che il moto è in un corpo, dovremmo dire che noi siamo nel pensiero e non che i pensieri sono in noi (5.289, nota)»39. Si intuisce allora il ruolo fondamentale che ha la conoscenza vera e adeguata per vivere una vita gioiosa; quanto più è in nostro potere, bisogna conoscere le cause che hanno determinato i nostri pensieri e i nostri desideri per comprendere chi si è davvero e il proprio posizionamento attivo nell’universo infinito. Il fatto che debba esser lasciata cadere l’illusione di possedere il libero arbitrio non significa che non vi sia un modo per ricomprendere la libertà, ma di questo tratteremo più avanti. Ora dobbiamo affrontare un’altra conseguenza cruciale del pensiero abissale di Spinoza, che ancora lo vedrà contrapposto alle correnti filosofiche dominanti della storia del pensiero occidentale.

2.3. Eliminazione del finalismo dalla Natura Così M.E. Scribano, grande conoscitrice di Spinoza, scrive: […] il finalismo […] è la logica conseguenza dell’errata convinzione che l’uomo ha di essere libero nelle sue scelte. […] alla consapevolezza di desiderare alcune cose si unisce l’ignoranza delle cause di questi desideri, per cui l’uomo tende a pensare che i propri desideri siano senza causa […] e le azioni siano guidate solo dal fine cui esse tendono. […] Questo modello è

39.  C. Sini, Lo spazio del segno. Semiotica ed ermeneutica, in Id., Opere, vol. I/1, Semiotica ed ermeneutica, Jaca Book, Milano 2017, p. 39, nota 10. Riportiamo la nota con il nome del volume di Peirce in questione e la rispettiva chiarificazione del criterio in cui viene citato: «Questions Concerning Certain Faculties Claimed for Man; Some Consequences of Four Incapacities; Grounds of Validity of the Laws of Logic: Further Consequences of Four Incapacities. Riprodotti nel quinto volume dei Collected Papers, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1965 (citati secondo la consueta abbreviazione che indica il numero del volume seguito da quello del o dei capoversi: 5.213-357» (ivi, p. 22, nota 2).

176 poi proiettato sulla natura, che l’uomo si immagina agire, come lui, in vista di qualcosa, e poiché in natura vi sono molte cose utili all’uomo, ci si convince che la natura è stata fatta da un ente superiore dotato, come l’uomo, di libero volere, e che ha tutto disposto a favore dell’uomo stesso40.

Ma Dio non possiede le caratteristiche antropomorfiche con cui è stato pensato da millenni; non è un umano ultrapotente e sapiente che ha creato l’universo inserendo al suo interno qualche fine per questa o quella specie di esseri: non vi è alcuna causa finale per cui gli uomini sono venuti al mondo e verso cui tenderebbero per la loro intrinseca natura. Dio non ha creato Adamo a sua immagine e somiglianza nel senso che ha posto negli uomini la direzione che dovrebbero prendere nel corso della loro vita, l’impegno a diventare immagine di Dio41; Egli non ha disposto il giardino e le creature cui l’uomo impose i nomi, sancendone il dominio42, affinché si potesse esercitare ad essere un “buon soggiogatore”, così «come lo è Dio nei confronti di tutte le sue creature»43. Dio non agisce sotto la spinta di nessun fine, fatto che se fosse vero, inoltre, «annull[erebbe] la perfezione di Dio; giacché se Dio agisce per un fine, egli allora necessariamente appetisce qualcosa che gli manca»44: dunque Dio non ha intenzioni. La Natura non è buona né cat40. M.E. Scribano, Guida alla lettura dell’Etica, cit., p. 46. 41.  Cfr. P. De Benedetti, Teologia degli animali, Morcelliana, Brescia 2016 (20071), pp. 33-34. 42.  Recita il Genesi: «Il Signore Dio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto degno di lui”. Allora il Signore Dio plasmò dal suolo tutti gli animali della campagna e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato gli esseri viventi, quello doveva essere il loro nome. E così l’uomo impose dei nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche» (Gen 2,18-20). 43.  P. De Benedetti, Teologia degli animali, cit., p. 34. 44.  Eth. S., I Appendice, p. 93.

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tiva e gli esseri umani non sono certo i suoi “figli prediletti”, di più: «in termini ontologici, non c’è assolutamente nulla che distingue l’essere umano da ogni altro modo particolare e determinato in natura. È solo una delle infinite cose finite che seguono dagli attributi e dai modi infiniti»45. Si devono perciò trarre dalla prospettiva di Spinoza tutte le conseguenze già incontrate quando si è discusso del rifiuto dell’onto-biologia finalistica aristotelica. Spinoza è il filosofo che ha abbattuto la superstizione del Diopersona, del libero arbitrio, del finalismo in natura, e che ha saputo pensare fino in fondo la rivoluzione copernicana, deantropocentrizzando l’universo e affrontando così davvero la sua dischiusa infinità.

3. Potentia sive conatus Ogni cosa che esiste tende a conservare se stessa, si sforza cioè, per quanto può, di perseverare nel proprio essere, e tale sforzo (conatus) «non è altro che l’essenza attuale della cosa stessa»46. Ma poiché ogni ente è la modificazione finita di una Natura infinita, è chiaro che non solo è infinitamente superato dall’insieme degli altri conati insiti in ogni modo, ma anche che «nessuna cosa singolare è data nella natura delle cose, senza che sia data un’altra più potente e più forte. Ma, se ne è data, una qualunque, ne è data un’altra più potente dalla quale quella data può essere distrutta»47. Spinoza nelle parti terza e quarta dell’Ethica si dedica allo studio di quel particolare conatus che è il corpo

45. S. Nadler, La via alla felicità, cit., p. 115. 46.  Eth. S., IP7. 47.  Eth. S., IVA.

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sive la mente48 degli umani «come se si trattasse di linee, di superfici e di corpi»49, cioè con l’intento di «studiare l’uomo del pari di una qualsiasi altra parte della natura»50; egli scrive che quando tale sforzo, o tendenza, viene riferito solo alla mente si chiama volontà, quando è riferito insieme al corpo e alla mente si chiama appetito, il quale veniamo a sapere che «non è altro se non la stessa essenza dell’uomo, dalla cui natura segue necessariamente ciò che serve alla sua conservazione»51. Infine, quando l’appetito è consapevole di sé, esso viene definito cupiditas52. Poiché tale sforzo individua la potenza d’agire di un ente («potentia, sive conatus»53), cioè l’ampiezza, per dir così, di quanto compie nel perseverare in suo esse, si può dire che una cosa è tanto più potente quanto più le determinazioni del suo esistere derivano dalla sua stessa natura, quando cioè il suo conatus ha successo nella tensione a conservarsi, e invece che è impotente nella misura in cui è coatta a determinarsi da forze esterne al suo sforzo: «una cosa agisce nella misura in cui i suoi stati seguono soltanto dal suo potere innato o conatus, dal suo sforzo intrinseco di perseverare nell’esistenza e non dal modo in cui quel potere è affetto dalle cose esterne»54. È in tal modo evidente che, per quanto riguarda le azioni umane, non venga perseguito ciò che si ritiene essere buono, «ma, al contrario, che noi giudichiamo buona qualche cosa perché ci sforziamo

48.  «[…] ho il pensiero, ossia il corpo; ho il corpo, ossia il pensiero» (C. Sini, Spinoza, cit., p. 243). 49.  Eth. S., p. 237. 50.  Ivi, p. 1617, nota 37. 51.  Eth. S., IIIP9s. 52. Cfr. ibidem. 53.  Eth. S., IIIP7d. 54. S. Nadler, La via alla felicità, cit., p. 201.

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verso di essa, la vogliamo, l’appetiamo e la desideriamo»55; si conferma in tal modo che non vi sono cause finali a guidare le azioni, ma queste sono determinate da appetiti: si deve così giungere a riconoscere che i giudizi di valore «diventano necessariamente egoistici […] una cosa è “buona” se mi giova e “cattiva” se mi danneggia»56. La potenza di ogni individuo è dunque in ogni momento soggetta a incremento e diminuzione nel campo di forze in atto nell’ambiente in cui si trova. La cupiditas degli esseri umani, cioè il loro appetito cosciente, al suo essere ora più perfetta, cioè causalmente adeguata rispetto agli effetti che produce, ora meno perfetta, cioè causalmente parziale nelle conseguenze che determina, corrisponde ora un affetto di gioia e ora un affetto di tristezza: sulla base di questi tre elementi (desiderio, gioia e tristezza), con la combinazione di oggetti, immaginazioni e idee, Spinoza ha offerto una dettagliata panoramica delle passioni che popolano l’esistenza umana. Ma precisiamo: questi affetti, che possono essere qui intesi in fretta come emozioni o sentimenti57, non causano il passaggio da una perfezione minore a una maggiore o viceversa, e invece sono «la transizione stessa da una condizione all’altra»58. L’analisi che conduce Spinoza di questa cruciale dimensione umana è affascinante, ma ciò che interessa in questa sede è comprendere come vadano ripensati il bene e il male sulla base della sua fondazione metafisica e di quanto appena discusso, per inquadrare come si articoli una vita felice e una ripensata libertà. Non dilunghiamoci oltre.

55.  Eth. S., IIIP9s. 56. S. Nadler, La via alla felicità, cit., p. 200. 57.  Per una distinzione tra emozione e sentimenti si veda A. Damasio, Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello, tr. it. di I. Blum, Adelphi, Milano 2003. 58. S. Nadler, La via alla felicità, cit., p. 191.

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3.1. Bene, male e felicità Se l’essenza dell’uomo è cupidità in quanto appetizione di ciò che conserva il proprio essere e la virtù, sinonimo di potenza59, «consiste nel riuscire a conservare il proprio essere»60, poiché non si danno un bene e un male in sé, buono sarà ciò che aumenta lo sforzo di conservazione di un determinato ente e male il suo contrario; bene e male vanno dunque compresi in relazione alla potenza d’agire degli individui: questi si diranno virtuosi quando realizzano tale sforzo con successo61. Perciò Spinoza scrive: «per bene intenderò ciò che sappiamo con certezza che ci è utile […] per male invece ciò che sappiamo con certezza che ci impedisce di impadronirci di un certo bene»62. Nella ricerca di ciò che è bene è perciò implicata la conoscenza di ciò che si è, per comprendere in che modo aumentare la propria potenza. Come è noto, nell’Ethica Spinoza propone una classificazione in tre generi della conoscenza, il primo delle quali è caratterizzato dalla parzialità, e dunque inadeguatezza, circa le cause di quanto (ci) accade, mentre gli altri due sono costituiti da idee vere e adeguate. Il possesso di queste ultime, cioè della conoscenza vera del bene e del male, la quale «non è altro che l’affetto della Gioia o della Tristezza in quanto ne siamo consapevoli»63 e «soltanto in quanto si considera come

59.  «Per virtù e potenza intendo la medesima cosa; cioè, la virtù, in quanto si riferisce all’uomo, è l’essenza stessa o la natura dell’uomo in quanto egli ha il potere di fare certe cose che si possono intendere solo mediante le leggi della sua natura» (Eth. S., IVD8). 60. S. Nadler, La via alla felicità, cit., p. 217. 61.  «La virtù consiste nel realizzare lo sforzo di incrementare la propria potenza o pulsione a conservarsi» (ivi, p. 221). 62.  Eth. R., IVD1 e IVD2. 63.  Eth. R., IVP8.

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affetto»64, permette di liberarsi dalle passioni tristi e di espandere la propria potenza. L’espansione della potentia agendi non produce come risultato l’esser felici ma è tale stato gioioso. Per essere felice dunque un uomo deve conoscere e ricercare sotto la guida della ragione, cioè mediante un sapere adeguato, ciò che gli è utile e deve evitare ciò che invece gli è dannoso: il bene per lui, come per ogni altra cosa, è ciò che incrementa la sua forza in exsistere, per dir così, e il suo male è invece ciò che porta alla disgregazione della sua integrità vitale. Perciò, poiché se […] due individui di natura del tutto identica si uniscono l’uno all’altro, essi vengono a formare un individuo due volte più potente che ciascuno singolarmente […] [,] gli uomini che sono guidati dalla ragione, cioè gli uomini che cercano il proprio utile sotto la guida della ragione, non appetiscono nulla per sé che non desiderino per gli altri uomini, e perciò sono giusti, fedeli e onesti.65

Così l’uomo saggio e davvero potente, per essere tale, nell’attuare il proprio utile non potrà non tenere in conto di ciò che è il bene anche degli individui a lui simili, poiché quello è il suo stesso bene: la sua potenza infatti s’incrementa all’accrescersi della loro e «il sommo bene di coloro che seguono la virtù è comune a tutti, e tutti ne possono ugualmente godere»66. Le ragioni della benevolenza e dell’aiuto reciproco si radicano dunque in una forma di egoismo, derivante dalla struttura ontologica dei modi, che, se sviluppato sotto la guida della ragione, non si esplica in un senso centripeto, quello di chi, per rubare le parole di Kant, usi gli altri come semplici mezzi; ma invece si esprime in una direzione centrifuga, che cioè arricchisce chi lo circonda.

64.  Eth. R., IVP14. 65.  Eth. S., IVP18s. 66.  Eth. S., IVP36.

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È in questa attività gioiosa e potente che consiste la libertà umana. Vediamo perché.

3.2. Libera necessitas67 Ogni essere umano, come ogni modo finito, è il prodotto di un’infinita catena causale che lo precede e lo determina ad essere com’è attualmente, con le sue volontà, desideri e ambizioni. Da qui non si scappa: «la volontà non può essere chiamata causa libera, ma solo necessaria»68. Tuttavia, per quanto riguarda gli esseri umani almeno, Spinoza rintraccia una via per esprimere al massimo la propria potenza e così vivere in uno stato di ampia e concentrata felicità. Infatti la ragione principale per cui si soffre è che si subiscono gli affetti e non si comprendono i motivi per cui avvengono determinati eventi: si è passivi rispetto a quanto succede. La passività è infelicità in quanto diminuzione della propria potenza d’agire e l’etica deve liberare le persone proprio da questa condizione. Si potrebbe a questo punto domandare: ma come, non abbiamo fatto altro che ribadire e dimostrare che tutto è determinato da cause necessarie e inaggirabili, non è questo di per sé un votarsi sine exceptione alla passività assoluta rispetto al corso degli eventi? Sì e no. Sì perché, certo, tutto ciò che è cade sotto il determinismo universale dell’infinita potenza di Dio, ogni cosa particolare è effetto di infinite cause che l’hanno preceduta; ma non solo è prodotta, naturata, essa è anche produttrice, naturans69, di infiniti effet-

67.  «Vides igitur me libertatem non in libero decreto; sed in libera necessitate ponere» (B. Spinoza, Lettera 58, in Id., Tutte le opere, cit., pp. 21102115: p. 2110). 68.  Eth. S., IP32. 69.  «La natura naturante è Dio in quanto si esprime negli infiniti modi degli infiniti attributi, la natura naturata è invece il risultato di questa espressione […] la distinzione è solo di ragione e non implica una distinzione reale,

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ti: ed è su questo secondo aspetto che dobbiamo concentrare la nostra attenzione. Infatti essere passivi significa non solo subire le cause che ci determinano ad essere in un tal modo, ma anche, se si può dir così, a subire i propri effetti, in quanto non se ne è causa adeguata, cioè completa, piena, consapevole: Dico che agiamo quando in noi o fuori di noi avviene qualcosa di cui noi siamo causa adeguata […] E, al contrario, dico che noi siamo passivi quando in noi accade qualcosa, o dalla nostra natura segue qualcosa di cui noi non siamo che una causa parziale.70

Così quanto più si è attivi, cioè agenti adeguati per ciò che segue le proprie azioni, in tanto si può dire che si è liberi; certo non liberi dalla causalità di Dio, ma liberati da quelle passioni tristi che comportano il subire la propria vita e l’ignoranza di come perseguire quello che è il proprio bene. Ogni particolare evento che incontriamo è avvenuto per cause che più si conoscono nei dettagli, più ci permettono di comprenderne la necessità; e nonostante non si possano certo conoscere in maniera esaustiva tutte le cause che hanno portato a un qualsiasi evento, in quanto la natura è infinita e così è infinita la storia che l’ha portata a modificarsi proprio in quel modo determinato, e dunque, in un certo senso, non si può avere un’idea assolutamente adeguata di niente, tuttavia già solo comprendere, intuire, la necessità naturante in ogni accadimento in modo intensivo e non estensivo, ha due conseguenze positive. La prima, meno importante, ma comunque assai rilevante per la propria serenità, consiste nel liberarsi da specifiche passioni giacché, al contrario, l’espressione di Dio nei modi e l’appartenenza di questi a Dio sono solo le due facce di un’unica realtà» (A. Sangiacomo, in Eth. B., p. 1612, nota 11). Il nostro riferirci ai modi in quanto naturati e naturantes vuole solo essere un’analogia con queste accezioni della Sostanza, per richiamare anche l’espressione intensiva di questa nelle sue modificazioni. 70.  Eth. R., IIID2.

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tristi diluendo lungo l’asse orizzontale delle cause che le hanno determinate la loro forza coercitiva, smettendo cioè di pensarle come un fulmine che precipita istantaneo e che avrebbe potuto non saettare: «in quanto la Mente conosce tutte le cose come necessarie, in tanto essa ha una potenza maggiore sugli affetti, ossia ne patisce meno»71. Prendiamo una persona che fa un torto a un’altra; se quest’ultima ritiene che la prima sia stata libera di decidere di compiere un’azione che avrebbe potuto evitare, certo si rattristerà ben di più che se comprendesse, invece, che quella stessa persona che le ha fatto danno è il frutto di infinite cause che forse ignora, come ignora che danneggiando gli altri non favorisce il suo bene, e che quindi ciò che ha compiuto non le è stato in verità utile. Insomma, comprendere la necessità di ogni evento libera dalla fantasia che le cose sarebbero potute andare in maniera diversa, eliminando passioni tristi quali il senso di colpa, il rimorso e il pentimento. Ma c’è ben altro. La seconda conseguenza di tale cognizione è che permette di mettersi a lavorare in modo efficace su sé e sul mondo per produrre cambiamenti reali. Bisogna sapere con precisione come funzionano le cose per comprendere ciò che è bene e ciò che non lo è (per qualcuno), cosa accresca la propria potenza o meno, e come intervenire. Quanto più si conoscono i particolari e si possiedono idee adeguate, tanto più si sarà attivi nel dispiegarsi della propria esistenza e si sarà felici del proprio agire. Ecco che allora «essere liberi significa essere attivi […] e quindi vivere secondo ragione. […] La libertà dell’uomo libero non differisce da quella di Dio (o Natura)»72. Certo, l’essenza di nessun modo particolare implica l’esistenza, e dunque nessuno possiede quella libertà; ma nell’essere autori

71.  Eth. S., VP6. 72. S. Nadler, La via alla felicità, cit., p. 227.

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attivi degli effetti che seguono da sé, questi, venendo derivati dalla sola propria potenza, non sono coatti da forze esterne alla propria cupiditas. Questa è vera libertà, non arbitrio, ma necessità. In conclusione, mediante i due generi superiori di conoscenza gli uomini entrano in possesso di idee vere e adeguate su di sé e sul mondo («quanto più noi conosciamo le cose singole, tanto più conosciamo Dio»73); per questa via comprendono che, per quanto è in loro potere, devono approfondire la loro conoscenza delle cause in atto nelle specifiche situazioni e adoperarsi, sotto la guida della ragione, per produrre i cambiamenti migliori nel mondo: intuire la propria necessità è il primo passo per conquistare un ruolo attivo nel mondo e agire liber(at)i dalle passioni tristi, essere cause adeguate nella e della propria esistenza. D’altronde, «necessità e libertà, nella sostanza, non sono due cose differenti»74.

4. La beatitudine Il pensiero abissale di Spinoza conduce lontano. Non v’è un mondo al di là del mondo. Il modo in cui si agisce non permette di guadagnarsi un paradiso ultraterreno. Non c’è un Dio-re (dell’universo) da compiacere e ingraziarsi. Non ci sono finalità in quello che accade, se non nei propositi che si danno gli uomini. La Natura è perfetta in ogni suo svolgersi, completa, adeguata, e indifferente alle nostre richieste; Dio è questa unica Sostanza eterna infinitamente potente e causa libera di sé; gli uomini sono «nel corpo di Dio, anzi [sono] il corpo

73.  Eth. S., VP24. 74.  C. Sini, Spinoza, cit., p. 253.

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di Dio, e […] il corpo di Dio non sta nel più alto dei cieli, ma sta qui»75. Non v’è libero arbitrio, né per Dio, né tantomeno per le sue modificazioni finite. Gli uomini possono solo comprendere cosa è bene per loro, in quanto enti dotati di corpi e menti simili, e adoperarsi per incrementare ciò che sanno con certezza esser loro utile, cioè vivere secondo la ragione. Ma questo è assai difficile, in quanto segue dalla stessa natura degli uomini che siano facili prede delle loro immaginazioni e passioni. L’uomo saggio e libero di Spinoza, modello esemplare per stabilire in modo oggettivo ciò che è bene e male per gli uomini in quanto ne incarna il rappresentante oltremodo potente, «l’esemplare più perfetto di umanità […] che possiede il potere sommo di preservarsi, la massima attività»76, è un individuo ideale difficile da eguagliare, e il filosofo lo sapeva bene. Quello che è interessante in tutto ciò, a nostro avviso, non risiede solo nelle straordinarie pagine in cui viene descritto l’homo exemplar, come viene connotato e le azioni che seguono dalla sua potenza. Come vedremo nel prossimo capitolo, forse è possibile ampliare il suo raggio d’azione e gli individui che ne sono interessati, scorgendo così una via che accresca ben di più la sua potenza. Ecco, quanto ha scritto Spinoza dell’homo exemplar è di grande interesse, ma ancora di più la sua affermazione che non si deve agire secondo questo o quel modello di virtù per ottenere dei benefici, diciamo così, tra cui felicità, tranquillità, e via dicendo; ma che la virtù stessa, l’espansione adeguata della propria potenza, è la Gioia, e che dunque la virtù dev’essere ricercata per se stessa. È il vero paradiso, ed esso si può raggiungere solo qui, in terra, da nessun’altra parte che in questo campo di potenze e desideri. Per gli uomini allora la virtù è fine in sé, per dir così, la via che li conduce alla massima realizzazione gioiosa della loro natura: 75.  Ivi, p. 131. 76. S. Nadler, La via alla felicità, cit., p. 210.

187 l’uomo forte non ha nessuno in odio, non ha ira, invidia, sdegno, disprezzo verso nessuno, e non insuperbisce affatto. […] egli si sforza di concepire le cose come sono in se stesse, e di allontanare tutti gli ostacoli alla vera conoscenza.77 La beatitudine non è il premio della virtù, ma la virtù stessa; e noi non godiamo perché reprimiamo le nostre voglie; ma, viceversa, perché ne godiamo, possiamo reprimere le nostre voglie.78

5. Ius sive potentia. La democrazia La postura etica scolpita da Spinoza s’incardina in quel sistema di relazioni complesso che chiamiamo politica e trova in questa dimensione una eco significativa. Non è un caso che a metà degli anni Sessanta del Seicento egli interrompa la stesura dell’Ethica (forse ancora nella forma tripartita79) per dedicarsi al Trattato teologico-politico, pubblicato nel 1670; forse le conclusioni cui stava giungendo nella sua opera più importante, oltreché l’atmosfera di libertà che si respirava nell’Olanda di quegli anni (inquinata, purtroppo, pochi anni dopo questa pubblicazione80), gli hanno imposto di dedicare pagine, in un

77.  Eth. S., IVP73s. 78.  Eth. S., VP42. 79.  A. Sangiacomo, Cronologia della vita e delle opere di Spinoza, in B. Spinoza, Tutte le opere, cit., pp. 89-93: p. 91. 80.  «1672 – La Francia invade i Paesi Bassi meridionali. Jan de Witt, tra l’altro accusato di possedere una copia del Trattato di Spinoza, è costretto a dimettersi e Guglielmo III d’Orange assume le cariche di capitano generale e governatore. In seguito ad un’insurrezione, Jan e il fratello vengono uccisi. Spinoza, che era un risaputo sostenitore di De Witt e ormai privo di protezione, diventa il bersaglio di attacchi polemici sempre più violenti» (ivi, p. 92).

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luogo più appropriato dell’opus ordine geometrico demonstratum, alla naturale evoluzione di quanto andava scrivendo. La costituzione ontologica stessa degli umani, infatti, implica che questi si sforzino nella conservazione della loro individualità e in ciò essi trovano, per dir così, un diritto inalienabile, naturale: poiché la legge suprema della natura è che qualunque cosa si sforzi di perseverare per quanto è in suo potere nel proprio stato, e ciò non in ragione di un’altra cosa ma soltanto di se stessa, ne segue che ciascuno individuo ha il supremo diritto a ciò, ossia (come ho detto) ad esistere ed operare a seconda di come è naturalmente determinato.81

Abbiamo visto che la via battuta da Spinoza mostra che un accrescimento autentico della propria potenza sia possibile solo sotto la guida della ragione, e che tale incremento vada di pari passo con il favorire quello di chi è a sé simile, in una forma di egoismo centrifugo che cattura le persone in un circolo virtuoso. È in queste considerazioni che bisogna ricercare la ragione principale per cui gli umani si associano e vivono in comunità. Per loro non vi è situazione più utile di quella in cui tutti limitano la propria potenza d’azione “investendola”, per così dire, nel riconoscimento di leggi che regolino la vita comune secondo ragione; infatti «non c’è nessuno che non desideri vivere, per quanto è possibile, in sicurezza e senza paura; cosa che tuttavia non può affatto avvenire finché a ciascuno è lecito fare tutto ciò che gli piace»82: così ad essi è più conveniente stringere un patto che garantisca loro pace, prosperità e libertà d’azione sia che uno sia persuaso dalla bontà dei regolamenti che sancisce, sia che uno ne tema i castighi. Perciò «il diritto, lungi dall’essere un valore morale ideale, coincide e si risolve totalmente

81.  B. Spinoza, Trattato teologico-politico, in Id., Tutte le opere, cit., pp. 6291139: cap. 16, §§ 2-3, p. 1005. 82.  Ivi, p. 1007.

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nella potenza dell’individuo»83, ius sive potentia. Una fondazione tutt’altro che celeste. Quanto appena visto ha illuminato le ragioni della nascita dello Stato, ma non ci ha detto nulla circa il modo in cui si dovrebbe strutturare. Sono infatti sotto gli occhi di tutti le ingiustizie perpetrate in nome dello “Stato” da parte di chi è al potere, nelle diverse configurazioni associative umane, nel corso dei secoli; a volte le persone più sagge e buone di una città vengono da questa messe alla gogna, rivelando l’irrazionalità e la disutilità di sottomettersi alle sue leggi: Spinoza aveva sotto gli occhi tutto questo e, nonostante il Trattato politico84 (in cui avrebbe affrontato a fondo questi temi) sia rimasto incompiuto, ha indicato alcune caratteristiche che uno Stato guidato dalla ragione deve possedere. La libertà di pensiero e parola sono condizioni inderogabili affinché una città prosperi. Questa e chi la guida infatti non hanno nulla da temere, ma tutto da guadagnare in campo di stabilità interna, dal suo mantenimento. Come si sa, la vita del filosofo olandese è stata attraversata da molteplici difficoltà legate al rifiuto di cui sono state fatte oggetto le sue idee, per cui egli ha rischiato tanto; era infatti un’epoca divisa da guerre di religione, civili, di liberazione, che insieme alle loro violenze e brutalità inaudite imprimevano il segno della paura, della diffidenza e della superstizione nelle menti delle persone: Spinoza, con i suoi scritti e una coerenza corrispondente nella sua vita, si è battuto anche contro tutto questo. Uno Stato i cui membri vengano puniti per il contenuto delle loro opinioni, oltre che tradire il fine per cui viene costituito, cioè l’utilità dei cittadini, che vengono in tal modo assai depotenziati, ha in sé i germi

83.  A. Sangiacomo, Saggio introduttivo, in B. Spinoza, Tutte le opere, cit., pp. 5-88: p. 49. 84.  B. Spinoza, Trattato politico, in Id., Tutte le opere, cit., pp. 1625-1791.

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della sua stessa dissoluzione. Per quanto siano dure le pene di chi sostenga qualcosa che è stato proibito, nessun potere potrà mai impedire che le persone continuino perlomeno a pensare ciò che credono; la via del terrore, quand’anche fosse diretta contro idee sbagliate, tende a favorire infatti l’associazione di dissidenti e ribelli, i quali rappresenterebbero una minaccia sicura alla pace e al benessere di tutti; inoltre, si garantirebbe il costume perverso per il quale gli uomini pensano una cosa e ne dicono un’altra: infine, «coloro che sanno di essere onesti […] non temono la morte come i malfattori né maledicono la pena; il loro animo, invero, non è tormentato da nessun rimorso per una turpe azione, ma, al contrario, ritengono onorevole e glorioso, e non un supplizio, morire per una giusta causa»85. Invece è di fondamentale importanza che gli uomini, «sebbene pensino apertamente cose diverse e contrarie, vivano tuttavia in concordia»86. Abbiamo in precedenza visto il modo in cui Mill ha difeso la libertà di opinione, ingiungendo che è la verità stessa, per dir così, che trae vantaggio da tale libertà, in quanto se un’opinione è vera, è bene che sia di dominio pubblico, e se è falsa, ancor meglio, poiché in questo caso si potrebbe smentire sotto gli occhi di tutti (procurando così un vantaggio collettivo), e si può dire che Spinoza l’abbia anticipato di due secoli in questa direzione. Lo Stato raccoglie le potenze dei cittadini che si sono in esso uniti e trae da questa unione il suo potere superiore sui cittadini, i quali infatti sono tenuti a osservarne le leggi; ma va ricordato che «il patto non può avere alcuna forza se non in ragione dell’utilità, tolta la quale anche il patto viene insieme tolto e non è più valido»87: ecco che allora è nell’interesse della con-

85.  B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cit., cap. 20, §§ 13-15, p. 1121. 86.  Ibidem. 87.  Ivi, cap. 16, §§ 6-7, p. 1011.

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servazione dello Stato stesso e delle sue potestà sovrane articolarsi secondo leggi quanto più formulate sotto la guida della ragione. Per questa via infatti si sublimerebbe, per così dire, quel diritto naturale degli umani di perseverare in ciò che sono nel suo massimo splendore. Infatti, trasferendo la loro potenza alla società e creando quel «diritto della società» chiamato democrazia, che «si definisce come l’assemblea di tutti che collegialmente ha il diritto a tutto ciò che può»88, il potere sovrano che agisce sotto la guida della ragione comanderebbe ai suoi sudditi di eseguire non qualcosa che ripugni la loro natura, ma che invece la realizzi appieno: l’azione per comando, cioè l’ubbidienza, toglie di sicuro in qualche modo la libertà, ma non rende senz’altro schiavi: a far ciò è il motivo dell’azione. Se il fine dell’azione non è l’utilità di chi agisce, ma di chi comanda, allora chi agisce è schiavo e inutile a se stesso; ma nell’ambito dello Stato e dell’esercizio del potere, dove è legge suprema la salvezza di tutto il popolo, e non di chi comanda, colui che ubbidisce in tutto al potere sovrano non deve essere detto schiavo inutile a se stesso, ma suddito. E perciò è massimamente libero quello Stato le cui leggi sono fondate sulla retta ragione: qui infatti ciascuno, se vuole, può essere libero.89

Quando Spinoza parla di “democrazia” e di Stato democratico, non dobbiamo pensare al regime politico che conosciamo attraverso le nostre democrazie rappresentative, quanto piuttosto all’espressione migliore di ciò che comanda la comune ragione umana secondo il diritto naturale di ognuno a perseverare in suo esse; l’espressione riguarda più una forma di agire comune che massimizza la gioia dei suoi attori, poiché gli uomini, se guidati dalla ragione, possono trovare nella democrazia un’autentica espressione della loro libertà nel riconoscimento 88.  Ivi, cap. 16, §§ 8-9, p. 1013. 89.  Ivi, cap. 16, §§ 9-10, p. 1015.

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delle regole necessarie che essa impone per il mantenimento della concordia e della pace; e quando invece non sono ancora “elevati” a quel punto, vengono limitati nella loro nocività e al contempo educati nel modo migliore possibile affinché vi giungano: «in questo senso la democrazia non è un regime politico, è la politica che consegue necessariamente dall’immanenza come riappropriazione [dell’]essenza dell’uomo come ζῷον πολιτικόν»90. Il pensiero di Spinoza, lungo la tormentata storia che ha seguito la sua morte, ha avuto importanti influenze in circostanze numerose e diverse tra loro, producendo effetti incalcolabili. Ora vogliamo affrontare uno di questi effetti per incontrare un esempio attuale e autorevole di come si possa fare filosofia con Spinoza, e cosa ciò comporti a livello politico, nel senso individuato in questo paragrafo. Ma non solo. Vedremo in che modo la sua etica si presti a essere vissuta in una condizione non rara come quella cui si riferisce al termine della sua opera più importante, ma non per questo meno potente.

6. L’ecologia profonda di Arne Næss Siamo nell’era della crisi ambientale. Il pensiero deve mostrarsi all’altezza del tempo che viviamo e guidarci nell’azione al massimo delle sue potenzialità, se ha un qualche valore che la nostra forma di vita prosegua il suo cammino nei secoli a venire. Oggi vi sono numerosi attivisti di diverse fazioni che si battono per promuovere stili di vita alternativi a quelli che hanno portato alla situazione critica in cui versa il nostro 90.  V. Morfino, Democrazia. Politica dell’immanenza. Machiavelli, Spinoza, Marx, in R. Panattoni - R. Ronchi (a cura di), Immanenza. Una mappa, Mimesis, Milano-Udine 2019, pp. 93-110.

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pianeta; critica per noi umani e per molte altre forme di vita, s’intende, non certo per il pianeta in sé. Si può con sicurezza ritenere che la Terra non sia affatto interessata a conservare alcunché di quanto la popola e che continuerà ad avere una sua consistenza se anche si estinguessero tutte le specie animali e vegetali ad ora esistenti. Ma a chi importerebbe, a quel punto? Ci sarebbe qualcosa che si potrebbe dire essere importante? Il mondo, il nostro mondo (in un senso più ampio di quello che si pensa di norma) verrebbe a mancare, e questo rappresenterebbe senza dubbio una perdita, perlomeno nel senso che alla Natura verrebbero a mancare molteplici aperture assiologiche. Questo certo non in senso assoluto, ma relativo ad alcune modificazioni in cui si esprime e, potremmo dire in un’accezione spinoziana, si pensa. Vi sono diverse fazioni, si è detto, e spesso si riscontra una grande confusione su quali siano i veri obiettivi dei diversi movimenti, quali i più importanti, perché, e per chi scendere in campo. Arne Næss, longevo filosofo norvegese, ha ritenuto che la filosofia di Spinoza (insieme al pensiero di altri) fosse la chiave per fronteggiare i problemi che affliggono la nostra epoca91. Egli ha infatti trovato nel suo Dio-Natura uno strumento adeguato per comprendere le interrelazioni tra tutti i viventi (e non solo) di cui l’ecologia è scienza, e vi ha letto molto altro, come vedremo a breve. Næss sapeva che, data la necessità di iniziare azioni consistenti e cambiamenti immediati di ampio respiro nelle nostre società e modi di vivere, vi è bisogno di non disperdere le forze sul campo e coordinarle verso degli obiettivi: questo è il senso della fondazione di quel-

91.  «[…] nessun altro grande filosofo ha tanto da offrire, sulla via della chiarificazione e dell’articolazione dei comportamenti ecologici essenziali, quanto Baruch Spinoza» (A. Næss, Spinoza e l’ecologia, in Id., Introduzione all’ecologia, tr. it. e intr. a cura di L. Valera, Ets, Pisa 2015, pp. 127-135: p. 135).

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la piattaforma comune di azione e teorizzazione che è l’ecologia profonda. Essa risponde al dovere immediato di agire e di cooperare per affrontare la crisi ambientale. Tale piattaforma si caratterizza per un fruttuoso equilibrio tra coerenza e ampiezza; vi possono partecipare distinte filosofie, religioni e visioni del mondo anche se non condividono i principi primi (premesse non oltre dimostrabili, fondative, livello 1 della piattaforma) sulla natura delle cose, alcuni obiettivi, e via dicendo, ma solo abbracciando quelli che si potrebbero chiamare “principi penultimi”92 (livello 2 della piattaforma). Non è affatto vero che se si hanno origini diverse non si possano percorrere cammini efficaci insieme. Questi principi penultimi, che hanno il pregio di condurre prospettive distinte ad alcune conclusioni simili e condivisibili, permettono di unire posizioni differenti sul modo di operare; così, ad esempio, si possono mettere d’accordo un cristiano e uno spinoziano sul fatto di dover ridurre o eliminare l’utilizzo di risorse che producono rifiuti metabolizzabili dall’ecosistema con difficoltà, pur possedendo entrambi, a un livello più profondo, principi ultimi incompatibili, cioè visioni del mondo e della vita assai lontane. I sistemi normativi che vi orbitano si costruiscono a partire da norme ultime cui vengono combinate ipotesi sul mondo, da verificare e falsificare, da cui si producono a cascata ulteriori norme derivate che vengono poi approfondite con il porre ulteriori ipotesi da verificare, o mutate al falsificarsi di altre precedenti, e così via.

92.  «La discussione è composta da quattro livelli: (1) le concezioni fondamentali filosofiche e religiose formulate; (2) la piattaforma dell’ecologia profonda; (3) le conseguenze più o meno generali derivate dalla piattaforma – le linee guida per gli stili di vita e per le politiche di ogni genere; (4) le norme correlate alle situazioni concrete e le decisioni databili, prese in quelle stesse situazioni» (A. Næss, I fondamenti del movimento dell’ecologia profonda, in Id., Introduzione all’ecologia, cit., pp. 39-53: p. 40).

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Certo, su questa piattaforma non si può accogliere qualsiasi insieme di premesse prime93, ma sacrificando un po’ di coerenza al livello 1 (insieme dei principi ultimi) si guadagna in ampiezza ed efficacia: questo può essere considerato senza dubbio un risultato positivo poiché «esiste una ricca varietà di visioni fondamentali compatibili con la piattaforma dell’ecologia profonda. E senza questa ricchezza, il movimento perderebbe il suo carattere transculturale»94. Næss offre alcuni esempi di come per mezzo di questa si possano muovere i suoi partecipanti nel saggio I fondamenti del movimento dell’ecologia profonda, ma, per quel che qui ci riguarda, è interessante solo capirne il funzionamento e lo scopo. Nonostante l’indiscutibile utilità pragmatica di questo modo di procedere, avremo occasione di muovere dei rilievi critici in merito, ma per questo rimandiamo ai prossimi capitoli. Ora è bene approfondire gli elementi, che ci risulteranno familiari, attraverso cui si articola la postura etica che Næss ha chiamato Ecosofia (T)95.

6.1. La Natura L’uomo, come moltissime altre forme di vita, è figlio della natura e parte di essa, non qualcosa di separato dalla totalità in cui è inserito. Di più, ogni sua azione produce degli effetti che

93.  Ad esempio quelle incompatibili con il livello 2, in cui vi sono i principi del movimento dell’ecologia profonda stesso, individuati negli otto punti enunciati nel saggio citato alla nota precedente. 94. A. Næss, I fondamenti del movimento dell’ecologia profonda, cit., p. 40. 95.  «Næss ha sottolineato a più riprese il legame della sua ecosofia alla sua terra d’origine, e in particolare al luogo cui più apparteneva, Tvergastein (in norvegese: “pietre incrociate”), la baita da lui stesso costruita ai piedi del monte Hallingskarvet (tanto da chiamarla, per l’appunto, Ecosofia T)» (L. Valera, Il pensiero di Arne Næss, in A. Næss, Introduzione all’ecologia, cit., pp. 7-38: p. 11).

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riguardano tutta la natura: «una massima dell’ecologia è che tutto è collegato»96. Questo punto deve essere ben compreso. L’umanità non è una forma di vita migliore né peggiore di altre. Alcune correnti ambientaliste si sono riferite ad essa come il cancro della Terra97 e opinioni simili sono ricorrenti anche in diverse porzioni del senso comune. Questo modo di pensare l’umanità è ancora, sebbene a una polarità negativa, antropocentrico. Non si tratta infatti di auto-eliminarsi dal mondo, come se questo potesse in qualche modo migliorarlo; pensare così significa antropomorfizzare la natura impiantandole valori che si attivano nella loro riconoscibilità solo attraverso il mondo umano. Fare così equivale ascrivere ad enti che sono finite porzioni di infinito un potere di cui non dispongono e destini di cui non sono i padroni: gli umani non hanno meno diritto di ogni altra forma di vita di cambiare il mondo. […] La nostra specie non è destinata ad essere la piaga della Terra. Se l’uomo è destinato ad essere qualcosa, probabilmente è ad essere colui che, consapevolmente gioioso, coglie il significato di questo pianeta come un’ancor più grande totalità nella sua immensa ricchezza. […] Se mi si chiedesse come faccio a saperlo, la mia risposta è che, naturalmente, non lo so. Ma non lo sanno neanche coloro che vorrebbero asserire che gli interessi umani maturi costituiscono una minaccia.98

Perciò è bene abbandonare ogni residuo di antropocentrismo, che sia lusinghiero o degradante.

96.  A. Næss, Ecosofia e ontologia della Gestalt, in Id., Introduzione all’ecologia, cit., pp. 165-171: p. 165. 97.  «L’espressione “cancro del pianeta” è stata mutuata da Potter, padre della bioetica» (L. Valera, Il pensiero di Arne Næss, cit., pp. 33-34, nota 108). 98.  A. Næss, L’arroganza dell’antiumanesimo?, in Id., Introduzione all’ecologia, cit., pp. 123-125: pp. 124-125.

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La natura a cui pensa Næss è la Natura di Spinoza, l’eterna causa di sé che esprime la sua infinita potenza in infinite proprie modificazioni. L’uomo non deve essere pensato come un suo fantasma, non si annichilisce nell’infinito ma è collegato a tutto l’infinito, e tutto è collegato ad esso, il che è lo stesso. E così è per ogni altra modificazione della Totalità: tutte dipendono da tutte99. L’ontologia gestaltica100 di Næss permette di comprendere come non vi siano fratture ontologiche fra oggetti e soggetti, ma questi fioriscano da interconnessioni, quelle che Barad101 chiamerebbe intra-azioni; gli enti che distinguiamo in soggetti e oggetti sono cioè nodi relazionali, sciolti i quali della loro “sostanza” non resta, appunto, più nulla: essenziale per il pensiero ecologico, e per la teoresi nella fisica quantistica, è l’insistenza sul fatto che le cose non possono essere separate da ciò che le circonda, con una minore o maggiore arbitrarietà. La cosa A non può essere pensata in sé e per sé, a causa della relazione interna con la cosa B. E nemmeno la cosa B è separabile, tranne che superficialmente, da C, e così via.102

Le individualità così ricomprese non sono perciò solo enti naturati, sciolti cioè da quella Natura naturans che abbiamo visto corrispondere a «Dio in quanto si esprime negli infiniti modi degli infiniti attributi»103, che tanto ha a cuore Næss. Ma sono anche enti naturanti. È infatti proprio l’idea di questo naturare di ogni parte della Natura, il fatto che qualunque cosa è produt-

99.  «Una buona traduzione del primo principio dell’ecologia “everything hangs together” potrebbe anche essere: “Tutto dipende da tutto”» (L. Valera, Il pensiero di Arne Næss, cit., p. 26, nota 70). 100.  Cfr. A. Næss, Ecosofia e ontologia della Gestalt, cit. 101.  Cfr. K. Barad, Performatività della natura. Quanto e queer, tr. it. di R. Castiello, Ets, Pisa 2017. 102.  A. Næss, Il mondo dei contenuti concreti, in Id., Introduzione all’ecologia, cit., pp. 55-67: p. 57. 103.  A. Sangiacomo, in Eth. B., p. 1612, nota 11.

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tiva di determinati effetti, il fondamento dell’etica del filosofo norvegese. La natura non è qualcosa di inerte e oggettificato di cui fare analisi autoptiche per estrarne beni strumentali che non la riguardano104. Perciò le scienze “dure” e “molli”, che rivestono un ruolo cruciale per il movimento dell’ecologia in quanto sono i migliori mezzi per comprendere le interrelazioni che costituiscono la totalità, devono abbandonare, quando la possiedono, una simile idea di natura, che per Næss dipende da una visione meccanicistica del mondo. Le società umane e le organizzazioni al loro interno devono cioè abbandonare i fini che si sono prefisse se sono inutili a favorire un miglior adattamento di tutti, e certo quando si rivelano contrari ad esso e dannosi105: perciò la conoscenza è fondamentale per organizzare un sistema normativo, ma deve essere quanto più efficiente nell’anticipare i mali e porvi rimedio. «Dal momento che “ogni cosa incide su ogni altra cosa”, non possiamo prevedere gli effetti a lungo termine delle nostre particolari azioni e politiche»106, ma più la comprensione del mondo si affina e

104.  «La natura, per come è concepita da molti ecologisti, ed espressa filosoficamente da James Lovelock e altri, non è la natura passiva, morta, neutra (in quanto a valore) della scienza meccanicistica, ma è simile all’attiva natura “naturante” di Spinoza. È omnicomprensiva, creativa (come la natura naturans), infinitamente ricca, e viva nel senso più ampio del cosiddetto panpsichismo spinoziano» (A. Næss, Spinoza e il movimento dell’ecologia profonda, in Id., Introduzione all’ecologia, cit., pp. 137-163: p. 154). 105.  Scrive infatti Næss: «Secondo i sostenitori del movimento dell’ecologia profonda, gli umani non hanno il diritto di ridurre gli habitat o le condizioni di vita degli esseri non-umani, meramente a causa dei desideri umani o di vane aspirazioni, o a causa di una scarsa gestione degli affari umani. Gli umani non possono trattare il pianeta come se fosse una loro proprietà» (A. Næss, Lo sviluppo sostenibile e il movimento dell’ecologia profonda, in Id., Introduzione all’ecologia, cit., pp. 183-192: p. 184); e ancora «ciò che viene fatto e non è in armonia con i fini ultimi della vita, non può essere ragionevole» (A. Næss, Spinoza, cit., p. 149). 106.  A. Næss, Spinoza e il movimento dell’ecologia profonda, cit., p. 154.

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più aumenta la probabilità che le azioni si rivelino vantaggiose. Quando invece ci si trova in una grande ignoranza delle conseguenze di certe azioni, come l’utilizzo di determinate tecnologie o lo sfruttamento di certe risorse, è bene servirsi del principio di cautela e sospenderle sino ad avere ipotesi ragionevoli in merito, «in armonia con l’ammonimento di Spinoza, per cui non dobbiamo pensare che gli umani siano totalmente capaci di comprendere in maniera sempre piena l’“ordine comune della natura”»107. La concezione che ha Næss della Natura e l’importanza che assegna alla sua conoscenza per l’agire sono frutti che ha raccolto dal pensiero di Spinoza, con cui nutrire il movimento dell’ecologia profonda affinché sia causa adeguata dei cambiamenti che si propone di realizzare.

6.2. Auto-realizzazione Ciò che Spinoza intende per attività, azione, essere causa adeguata di sé, Næss lo chiama auto-realizzazione e indica il cuore e il fine dell’etica, in quanto insieme di conoscenze che deve favorirla il più possibile. Tale concetto dipende da ciò che abbiamo appena visto: ogni cosa della e nella natura è produttrice di effetti. Combinando questo fatto a una riflessione circa la bontà delle conseguenze delle azioni, la cui analisi dev’essere svolta sulla base delle più accurate conoscenze ecologiche, si ottiene che gli individui, ripensandosi in quanto sé ecologici108 e non 107.  Ibidem. 108.  «[…] introduco, tentativamente, forse per la prima volta, il concetto di sé ecologico. Si può dire che siamo nella – e della – natura, fin dalla nostra origine. La società e le relazioni umane sono importanti, ma il nostro sé è molto più ricco nelle sue relazioni costitutive. Tali relazioni non sono solo quelle che abbiamo con gli altri umani e con la comunità umana […] ma anche quelle che abbiamo con altri esseri viventi» (A. Næss, Auto-realizzazione: un approccio ecologico all’essere nel mondo, in Id., Introduzione all’ecologia, cit., pp. 105-121: p. 106).

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meri ego slegati dalla Natura, agiscono davvero e raggiungono la propria auto-realizzazione quando non si separano dalla totalità con cui sono intrinsecamente collegati. La nozione di sé ecologico ci sembra possa essere fatta corrispondere all’egoismo centrifugo analizzato qualche paragrafo sopra; un’azione per essere tale non può avvantaggiare solo chi la compie, ma deve riverberarsi in modo positivo sul tutto a cui essa è legata, e dev’essere pensata a partire da questa considerazione: a causa di un inevitabile processo d’identificazione con gli altri, assieme ad una crescente maturazione, il sé viene allargato e approfondito. “Vediamo noi stessi negli altri”. Viene impedita la nostra auto-realizzazione se l’auto-realizzazione degli altri, con i quali ci identifichiamo, è ostacolata. Il nostro amor proprio lotterà con questo impedimento aiutando l’auto-­ realizzazione degli altri […] Così, tutto quello che può essere ottenuto tramite l’altruismo – la doverosa, morale considerazione per gli altri – può essere raggiunto, ancor di più, dal processo di allargamento e approfondimento di noi stessi.109

Anche in Næss la gioia ha un ruolo cruciale: essa consiste nel­ l’essere attivi ed esserne consapevoli. La percezione della propria attività come modificazione positiva dell’ambiente in cui intra-agisce è, in qualche modo, già felicità: «l’agire – un termine migliore di attività – produce gioia […] Esprime la natura dell’essere attivo, dell’essere nella misura in cui è in se stesso (in se), e, più direttamente, esprime la sua natura singolare, quanto più grande è la gioia»110. È chiaro che anche qui la felicità personale non possa essere intesa come la mera somma di tutti i propri desideri, come la intendeva Kant111, ma si inserisca in un campo di estrinsecazione di potenze che favorisce un circolo virtuoso e se ne nutre. Auto-realizzarsi appieno non 109.  Ibidem. 110. A. Næss, Spinoza, cit., p. 151. 111.  Cfr. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 69.

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può avvenire se la propria etica, o postura nel mondo, getta le basi per la distruzione dell’azione essenziale che l’etica stessa deve favorire. L’auto-realizzazione è dunque la norma prima dell’Ecosofia T, l’imperativo dell’ecologia di Næss che, ancora una volta, si presenta come una massima unificatrice di potenze, una chiamata a mettersi in gioco e unirsi con altri per prosperare112. Un punto nobile, che rivela la profondità della sua ecologia, è che per Næss, a differenza di altri ecologisti e ambientalisti, l’auto-realizzazione non è una mera prerogativa umana, ma viene riconosciuta anche a moltissime altre forme di vita; infatti, per l’ontologia gestaltica e l’idea di Natura che propone, risulta chiaro che l’azione umana non deve prescindere dal favorire anche le auto-realizzazioni delle altre forme di vita, come indicano i primi tre punti degli otto principi della sua piattaforma (livello 2): 1. La prosperità della vita umana e non umana sulla Terra ha un valore intrinseco. Il valore delle forme di vita non-umana è indipendente dall’utilità del mondo non-umano per scopi umani. 2. La ricchezza e la diversità delle forme di vita sono anch’esse valori in se stessi e contribuiscono alla prosperità della vita umana e non-umana sulla Terra. 3. Gli uomini non hanno il diritto di ridurre tale ricchezza e diversità, tranne che per soddisfare i loro bisogni vitali113. Næss sostiene queste posizioni perché pensando fino in fondo la massima centrale secondo cui tutto è collegato, tutto dipen112.  «La pesante frustrazione e tristezza provate da milioni nella situazione attuale sulla Terra possono essere superate, e stanno per essere superate, aderendo unitamente a relazioni attive, e ciascuna persona prendendo parte secondo le proprie capacità e interessi particolari» (A. Næss, Spinoza, cit., p. 151). 113. A. Næss, I fondamenti del movimento dell’ecologia profonda, cit., p. 47.

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de da tutto, oltreché considerando le conoscenze che abbiamo raggiunto circa la sopravvivenza e il prosperare degli ecosistemi, deriva che per auto-realizzarci in senso pieno, in quanto umani, non possiamo più trascurare con il nostro modo di abitare il mondo gli interessi delle altre specie animali. Næss ci sembra che vada oltre all’egoismo centripeto di tanto ambientalismo che fonda la necessità di cambiare le relazioni intrattenute con gli altri animali sulla base di premesse ancora antropocentriche; tali correnti mirerebbero alla conservazione di (alcune) altre specie solo come mezzi per permettere la sussistenza umana, “perché non ce li possiamo più permettere gli allevamenti intensivi”: l’ecologia di Næss va invece nella direzione di affermare che proprio la nostra gioia, corrispondente a una nostra autentica auto-realizzazione, non può essere tale, piena, se non comprende anche la loro. Che fare, dunque? Il filosofo norvegese invita a pensare che riconoscere il proprio ruolo attivo nel mondo non comporta il sobbarcarsi di responsabilità titaniche, obiettivi irraggiungibili e atti di straordinario eroismo. Questo è ancora un antropocentrismo che nella maggior parte dei casi porterebbe al tradimento della norma prima dell’Ecosofia T: il suo compimento sarebbe infatti frustrato in partenza per la maggiore parte degli individui114. Nonostante sia stato un suo grande ammiratore e abbia influenzato molto il suo pensiero, crediamo che Næss 114.  «[…] nelle questioni ambientali dovremmo forse tentare in prima battuta di influenzare la gente nella direzione delle belle azioni. Lavorare sulle loro inclinazioni, anziché sulle morali. Sfortunatamente, la moralizzazione estesa all’interno dell’ambientalismo ha dato al pubblico la falsa impressione che chiediamo loro in primo luogo di sacrificarsi, di mostrare maggior responsabilità, più interesse, morali migliori. Per come la vedo, abbiamo bisogno dell’immensa varietà di risorse di gioia, dischiuse mediante un’accresciuta sensibilità verso la ricchezza e la diversità della vita e dei paesaggi della natura selvaggia. Tutti quanti possono contribuirvi individualmente» (A. Næss, Auto-realizzazione, cit., p. 118).

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avrebbe potuto dire senza indugi “non siamo tutti Gandhi”. L’attività cui chiama la sua filosofia infatti concerne l’accrescimento dell’intensità e dell’estensione della propria auto-causazione115 in relazione a quanto è in nostro potere; e questo non è marginale. Tutto dipende da tutto, infatti. Noi dipendiamo dal tutto e tutto dipende da noi, anche. E perciò comprendere la propria via all’auto-realizzazione è importante per il Tutto, per quanto piccoli siamo. A ben vedere, ogni cosa si ridimensiona nell’infinito e non vi sono grandi differenze tra le sue modificazioni; dopotutto – come scriveva Thoreau – «quando muore, un uomo solleva la polvere»116. Ma ribadiamolo: questo non significa che gli individui scompaiano nella Natura, almeno per Næss. Il loro auto-realizzarsi infatti, che è, in ultima istanza, amore verso la Natura e amor di sé in quanto Natura, corrisponde al suo stesso gioire: dal momento che la mente umana è esattamente Dio – per quanto non nella sua essenza assoluta, ma in quanto modificato da un modo particolare finito nel Pensiero – ne consegue che l’amore della mente umana verso Dio è proprio, in ultima analisi, l’amore di Dio verso se stesso.117

7. L’ecologia sociale di Murray Bookchin La riflessione ecologica contemporanea trova nell’anarchico newyorkese Murray Bookchin un altro importante contributo, sebbene questi prenda notevoli distanze dal movimento di 115.  «Il desiderio elementare è quello di guadagnare in estensione e in intensità di auto-causazione» (A. Næss, Spinoza e l’ecologia, cit., p. 130). 116.  H.D. Thoreau, Walden. Vita nel bosco, ed. it. a cura di S. Proietti, Feltrinelli, Milano 2005, p. 92. 117. S. Nadler, La via alla felicità, cit., p. 263.

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Næss. Vedremo che, in realtà, tra la sua proposta e quella del filosofo norvegese ci sono più punti di contatto di quelli che l’anarchico avrebbe riconosciuto a cuor sereno. Per far fronte al disastro ambientale Bookchin teorizza cambiamenti strutturali dell’assetto socio-politico delle civiltà umane, ascrivendo le cause di quanto in atto non solo a un uso sconsiderato della tecnologia e dello sfruttamento spregiudicato delle risorse della Terra; certo, questi sono aspetti cruciali su cui bisogna prendere posizione, ma individuano solo i sintomi di un problema genetico di un preciso modello socio-economico: il capitalismo. La sua logica dell’accumulo e crescita indefiniti, che favorisce la rivalità intra-umana per accaparrarsi quanti più vantaggi possibili senza curarsi dei danni fatti ai conspecifici (e non solo) e all’ambiente, contiene in sé tutti i presupposti per il biocidio e l’estinzione118. Essa si radica a sua volta in un certo tipo di articolazione sociale che nasconde un assetto gerarchico e dinamiche predatorie. Egli non vede una lotta dell’umanità intera contro la natura per il suo vantaggio, ma invece l’aggressione di una parte ben precisa dell’umanità, da identificare con coloro che detengono il potere economico, politico e sociale, contro l’ambiente e il resto dell’umanità119. Così il suo pensiero è sociale, in quanto affronta i drastici cambiamenti antropici

118.  «Così, la tecnologia e l’industria vengono rappresentate come i protagonisti malvagi di questo dramma, al posto del mercato e dell’illimitata accumulazione di capitale, al posto cioè di un sistema di accumulazione, di “crescita”, che alla fine si mangerà l’intera biosfera, se gli si consentirà di sopravvivere abbastanza a lungo» (M. Bookchin, L’ecologia della libertà, tr. it. di A. Bertolo e R. Di Leo, Elèuthera, Milano 2017 [19881], p. 9). 119.  «There has been a historical social development, all its many setbacks notwithstanding, setbacks that can in part be attribute to elites of agonistic men whose power gave them the scope to play out their destructive fantasies, impulses, and designs on a large social stage» (M. Bookchin, The Philosophy of Social Ecology. Essays on Dialectical Naturalism, Black Rose Books, Montréal-New York-London 2017 [19961], pp. XV-XVI).

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introdotti nell’ambiente non ascrivendone le cause a un’esuberanza della specie, ma leggendovi invece l’azione di un’impresa tecno-scientifica guidata da intenti precisi e forze che sono le vere autrici del processo di distruzione degli ecosistemi; e insieme ecologico, poiché per compiere un miglioramento reale della nostra forma di vita (e non solo) sono necessarie conoscenze approfondite circa i diversi rapporti che le specie intrattengono con il pianeta, una conoscenza delle risorse finite indispensabili per la sopravvivenza della vita sulla Terra e di modelli socioeconomici che non distruggano le sue condizioni di possibilità: nessuno dei principali problemi ecologici che ci troviamo oggi ad affrontare può essere risolto senza un profondo mutamento sociale. […] non si può pensare di trasformare la società presente un po’ alla volta, con piccoli cambiamenti. […] Si deve accettare il fatto che l’attuale società capitalista debba essere rimpiazzata da quella che io chiamo «società ecologica», cioè da una società che implichi i radicali mutamenti sociali indispensabili per eliminare gli abusi ecologici.120

Per far fronte a tutto questo egli rifiuta ogni forma di pensiero “orientaleggiante” che sfoci in un qualsiasi stoico quietismo nei confronti del corso degli eventi o mistici riassorbimenti all’Uno della natura, e anche ogni variante di “ecocapitalismo”, che rendendo più umano questo modello economico, in grazia della fede nelle magnifiche sorti e progressive dell’impresa tecnoscientifica, permetterà un “verde” e prospero sviluppo per tutti: L’ecologia sociale […] lancia un messaggio che non è primitivista né tecnocratico. Essa cerca di definire il posto dell’umanità nella natura – posto singolare, posto straordinario – senza ricadere in un mondo di cavernicoli anti-tecnologici, da un lato, e senza volare via dal pianeta con fantascientifiche astronavi e stazioni orbitali, dall’altro.121 120. M. Bookchin, L’ecologia della libertà, cit., pp. 10-11. 121.  Ivi, pp. 12-13.

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Bookchin cerca di fare chiarezza sui rapporti tra l’uomo e la natura facendo propri gli strumenti della dialettica hegeliana, proponendo un naturalismo dialettico entro cui ripensare i valori dell’ecologia e rintracciare le direzioni operative da prendere per superare la crisi ambientale. Per intendere l’etica che propone dobbiamo dunque, prima, comprendere a che cosa Bookchin pensi quando parla di “natura”, in quanto è in essa che egli la radica.

7.1. La natura e la sua dialettica Come per Næss, anche in Bookchin l’uomo non è un ente separato dal resto di ciò che viene chiamato “natura”; non è estraneo ai meccanismi che regolano il suo svolgimento e non ha poteri che esulano da loro: tuttavia non vi possiede un posto marginale. Il filosofo newyorkese legge nella sua razionalità e possibilità di comunicazione simbolica un momento importante e unico, in qualche modo, dell’evoluzione che governa le forme di vita122. Di più, la capacità razionale dell’uomo lo conduce a smarcarsi in qualche misura dalle leggi evolutive che riguardano gli organismi più semplici innestandolo in organizzazioni sociali, politiche ed economiche complesse che sono guidate da dinamiche proprie di una seconda natura123. E tale caratteristica di questa porzione di mondo che è l’umanità ha un ruo-

122.  «L’umanità, sostengo, è parte della natura anche se differisce profondamente dalla vita non umana per la capacità che ha di pensare concettualmente e di comunicare simbolicamente. […] [Gli umani] Sono esseri che, per lo meno potenzialmente, potrebbero rendere l’evoluzione biotica autocosciente e consapevolmente auto-direzionata» (ivi, p. 13). 123.  «[…] what is decisive here is the compelling fact that humanity’s natural capacity to consciously intervene into and act upon first nature has given rise to a “second nature”, a cultural, social, and political “nature” that today

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lo fondamentale per fronteggiare il disastro ambientale. Non solo. In essa Bookchin vi legge la possibilità di far prendere al corso naturale degli eventi delle direzioni di maggior prosperità per la natura stessa124. Questa, infatti, da buon hegeliano, è considerata intrinsecamente razionale; l’abbiamo detto: l’uomo non è altro dalla natura, ed essendone parte razionale, la qualifica in questo senso. In questo modo egli ritiene di poter fondare i valori etici nella natura stessa e non solo nella dimensione umana, evitando il rischio di relativismo e di riduzione della giustizia a un qualcosa di illusorio125. Per sostenere questa fondazione naturale dei valori etici egli si riferisce al concetto di evoluzione; Darwin ha infatti liberato l’umanità dalla superstizione che vi sia una catena dell’essere e una gerarchia degli individui: tuttavia egli non avrebbe saputo comprendere la logica implicita nel meccanismo che ha scoperto operare nel mondo126. Così nella visione di Bookchin, più spenceriana che darwiniana, l’evoluzione si dirige verso una maggiore complessificazione dei sistemi che produce e in

has all but absorbed first nature» (M. Bookchin, The Philosophy of Social Ecology, cit., p. 31). 124.  «Con questo non voglio dire che mai l’umanità arriverà ad avere una conoscenza sufficiente delle complessità del mondo naturale da potere prendere “il timone” dell’evoluzione naturale e dirigerla del tutto a sua volontà. […] Ma […] quello che veramente ci fa unici, singolari nello schema ecologico delle cose è che possiamo intervenire in natura con un grado di autocoscienza e di flessibilità sconosciuto a tutte le altre specie» (M. Bookchin, L’ecologia della libertà, cit., p. 13). 125.  «[…] nature can indeed acquire ethical meaning – an objectively grounded ethical meaning» (M. Bookchin, The Philosophy of Social Ecolo­ gy, cit., p. 34). 126.  «[…] we need only point to the fact that there is a generally orderly development in the real world or, to use philosophical terminology, a “logical” development when a development succeeds in becoming what it is structured to become» (ivi, p. 17).

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cui opera, i quali si differenziano e diversificano mantenendo una stretta continuità con quanto li precede127. È evidente che quel sistema complesso di organizzazione naturale che è la società umana e la sua ragione sono il frutto di tale evoluzione, la quale trova un fondamento bio-fisico nella materia stessa. Bookchin pensa a Diderot e al suo Il sogno di d’Alembert128, in cui si postulava una prospettiva che ascrive alla materia un carattere attivo e addirittura intelligente, «that yields increasing complexity, from the atomic level to the brain»129; tali proprietà sarebbero la sensibilità e reattività e sono analoghe alle versioni più complesse che riscontriamo nella mente («complexity, specialization, and consciousness»130): così nel suo dialettico svolgersi ed evolversi, la natura avrebbe conservato, mediante innumerevoli serie di negazioni, differenziazioni e diversificazioni, tali caratteri, portandoli a un’espressione più compiuta e articolata. Questa prospettiva consente di riportare quelle dimensioni da sempre considerate di dominio umano quali la bellezza e l’eticità a livelli più complessi di organizzazione della materia, ma non al di là della natura: «speaking metaphorically, it is nature itself that seems to “write” natural philosophy and ethics, not logicians, positivists, neo-Kantians, and heirs of Galilean scientism»131. Perciò l’umanità invece che annichilir127.  Scrive Bookchin: «Despite the external selective factors with which Darwin describe evolution, the tendency of life toward a greater complexity of selfhood – tendency that yields increasing degrees of subjectivity – constitutes the internal or immanent impulse of evolution toward growing self awareness» (ivi, p. 128); e anche: «if the thrust of evolution has any meaning, it is that a continuum is processual precisely in that it is graded as well as united, a flow of derived phases as well as a shared development from the simpler to the more complex» (ivi, p. 76). 128.  Cfr. ivi, pp. 56-66. 129.  Ivi, p. 57. 130.  Ivi, p. 64. 131.  Ivi, p. 59.

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si, o pensare di auto-eliminarsi, deve comprendere il suo ruolo fondamentale nel riconoscimento di ciò che ha valore nel mondo e prendersene cura. In quanto appena affrontato ci sembra che agisca in Bookchin una qualche forma di antropocentrismo, sebbene più virtuoso e attivo rispetto ad altre varianti che vedono l’umano come l’apice del creato132. Riteniamo che tale permanenza dipenda dal senso che l’anarchico newyorkese ha voluto imprimere, sotto l’influenza di Spencer, all’evoluzione. In realtà l’evoluzione darwiniana non ha alcuna direzione di questo tipo e pensarlo rischia di introdurre ancora idee finalistiche in natura, operazione che, come abbiamo avuto modo di vedere in diversi luoghi, è una superstizione che deve essere abbandonata. Nell’idea di evoluzione non vi è in alcun modo quella di progresso, inteso come un progredire verso una maggiore complessità. Gli organismi che si evolvono sono solo diversi da quelli precedenti; l’evoluzione non favorisce maggiore organizzazione e i figli non sono necessariamente “più complessi” dei genitori; evoluzione può infatti anche significare produzione di minor complessità, in una direzione che in quest’ottica sarebbe letta come regressiva rispetto alle precedenti organizzazioni vitali, ma invece non lo è affatto. L’evoluzione è indifferente alle direzioni che le imprimiamo: maggior complessità non implica migliori capacità adattive, che sono quelle ad aver più peso nella selezione. Ma, come vedremo nel prossimo capitolo, pur rifiutando tale assunto errato a monte del naturalismo dialettico di Bookchin, si 132.  Nonostante egli scriva: «By singling out humanity as a unique life-form that can consciously change the entire realm of first nature, I do not claim that first natura was “made” to be “exploited” by humanity, as those ecologists critical of “anthropocentrism” sometimes charge. […] humans cannot “exploit” nature, owing to a “commanding” place in a supposed “hierarchy” of nature. Words like commanding, exploitation, and hierarchy are actually social terms that describe how people relate to each other; applied to the natural world, they are merely anthropomorphic» (ivi, p. 30).

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potranno condividere ancora alcune conclusioni simili a quelle da lui tratte. Quello che ora ci rimane da affrontare è il modo in cui intende quel frutto naturale dell’evoluzione che sarebbe la razionalità umana, e come questa debba intervenire per affrontare i problemi del nostro tempo.

7.2. I tre tipi di ragione Bookchin distingue nella ragione umana tre diversi tipi di operazioni all’interno delle quali si può leggere uno sviluppo dialettico analogo a quello che abbiamo visto riguardare tutto ciò che è. Il primo tipo viene chiamato analitico ed è dominato dal principio di non contraddizione. Questa è la ragione che si occupa solo di ciò che è e, per dir così, delle sue relazioni logiche. Essa guida lo sviluppo delle scienze quali la matematica, la fisica, la chimica, che non oltrepassano i limiti d’indagine del campo ontologico in cui si individuano i loro oggetti. Essa è uno strumento importante per la comprensione di come funziona il mondo, ma non ci dice nulla di come dovrebbe funzionare. Il secondo tipo di ragione viene chiamato strumentale e concerne l’individuazione dei mezzi necessari per raggiungere specifici obiettivi ad esempio in politica, economia ed etica. Essa, come è chiaro, si serve della ragione detta analitica per orientarsi nella scelta e la ingloba in un livello di organizzazione superiore a quello delle scienze dure. Bookchin chiama l’unione di entrambe conventional reason133. Anche questa 133.  «The reason for my choice of the name conventional reason is that it encompasses two logical traditions that are often referred to interchangeably, as if they were synonyms. They are in fact distinguishable, analytical reason being the highly formalized and abstract logic that was elaborated out of Aristotle’s Posterior Analytics, and instrumental reason, the more concrete rationality developed by the pragmatic tradition in philosophy. These two

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però resta muta dinnanzi alla bontà degli scopi in questione ed è in grado di risolvere problemi non all’altezza delle sfide ecologiche del nostro tempo, che sono di vasta portata e richiedono una visione di ben più ampio respiro, ecologica appunto, del mondo. Infine Bookchin parla di una ragione dialettica la quale sarebbe in grado di spiegare non solo ciò che è, ma anche ciò che dovrebbe essere134, poiché si interroga circa le potenzialità inscritte negli enti. Così essa studia il mondo considerando la realtà in accezione hegeliana come Wirklichkeit, che raccoglie implicitamente ciò che ha la potenzialità di divenire, e non solo come Realität, ciò che è e basta135. La ragione dialettica è in grado di leggere quelle linee di sviluppo rintracciabili nell’evoluzione della vita sulla terra136, indicando quali siano erronee in virtù del fatto che non seguono ciò che hanno la potenzialità di essere. Essa non afferma che le cose sono, ma che divengono, e le rilegge sotto l’idea di un’entelechia non più estroindotta, ma inscritta nella loro stessa natura. Perciò questa ragione, se combinata al naturalismo, si interroga sulle potenzialità inespresse degli enti che abitano il mondo e promuove la loro realizzazione, cioè seguendo ciò che essi hanno in sé, favorendo ciò che traditions meld, often unconsciously, into the commonsensical reason that most people use in everyday life; hence the word conventional» (ivi, p. 36, nota 1). 134.  Cfr. ivi, p. 8. 135.  «Wirklichkeit is what a dialectical naturalism infers from an objectively given potentiality; it is present, if only implicitly, as an existential fact, and dialectical reason can analyze and subject it to processual inferences. Even in the seemingly most subjective projections of speculative reason, Wirklichkeit, the “what-should-be”, is anchored in a continuum that emerges from an objective potentiality, or “what-is”» (ivi, p. 24). 136.  «The increase in diversity in the biosphere opens new evolutionary pathways, indeed, alternative evolutionary directions, in which species play an active role in their own survival and change» (ivi, p. 77).

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dovrebbero essere se non fossero impediti nel loro attualizzarsi. Quest’ultimo tipo di ragione ingloba le due precedenti e se ne serve ponendo loro dei fini buoni, che favoriscono il compimento di tutte le potenzialità latenti. Così mutualism, self-organization, freedom, and subjectivity, cohered by social ecology’s principles of unity in diversity, spontaneity, and nonhierarchical relationships, are constitutive of evolution’s potentialities. […] these principles of social ecology require not analysis but merely verification. They are elements of an ethical ontology, not rules of a game that can be changed to suit personal needs and interests.137

Gli esseri umani sono dunque inscritti nel divenire dialettico della natura e in quanto tali non sono altro che differenziazioni di organismi a loro precedenti, che attualizzano alcune potenzialità che sono riconducibili persino alla stessa materia di cui sono fatti. Tale differenziazione implica l’assorbimento di tutto ciò che è negato da parte di ciò che è nuovo, e perciò la natura che si è sviluppata in questa specie particolare porta con sé tutte le tracce di ciò che è stato negato: così l’uomo non è altro se non perché è identico all’“animale”. Ecco come Bookchin ripensa la famosa negazione di negazione hegeliana: it is becoming a cliché to fault humanity’s “separation” from nature as the source of “alienation” in our highly fragmented world. We must see that every process is also a form of alienation, in the sense that differentiation involves separation from older forms of being as well as the absorption of what is negated into the new, such that the whole is the richly varied fulfillment of its latent potentialities […] That the “other” is at least part of a whole, however differentiated it is, eludes the modern mind in a flux of experience that knows division exclusively as conflict or breakdown.138

137.  Ivi, p. 66. 138.  Ivi, p. 76.

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Poiché l’evoluzione dialettica ha prodotto e favorito in molte forme di vita impulsi sociali quali la cooperazione e l’aiuto reciproco, egli legge in queste direzioni la strada da percorrere per estrinsecare le reali potenzialità del genere umano. Questi non è diverso, cioè in toto estraneo, a coloro di cui è “negazione evolutiva” in quanto propria determinazione, ma semmai differente, cioè continua a possedere una natura comune con quanto lo “precede”. Per queste ragioni secondo Bookchin vi è, e si deve seguire, la possibilità di condivisione anche con quegli enti da cui ci siamo differenziati: è possibile allora una convivenza più fruttuosa e potente, non solo tra esseri umani, senza rifarsi a nessuna forma di primitivismo: this dialectical naturalism offers an alternative to an ecology movement that rightly distrusts conventional reason. It can bring coherence to ecological thinking, and it can dispel arbitrary and anti-intellectual tendencies toward the sentimental, cloudy, and theistic at best and the dangerously antirational, mystical, and potentially reactionary at worst. […] dialectical naturalism is organic enough to give a more liberatory meaning to vague words like interconnectedness and holism without sacrificing intellectuality. It can answer the question […]: what nature is, humanity’s place in nature, the thrust of natural evolution, and society’s relationship with the natural world.139

L’ecologia sociale muove dunque a partire da questo ordine normo-bio-ontologico che evidenzia le differenze tra gli individui e le rispetta riconoscendole, ma allo stesso tempo le mantiene insieme per ciò che hanno in comune. L’essere umano rappresenta l’attualizzarsi di potenzialità che sono inscritte nella materia stessa del mondo e non è affatto un agente cancerogeno per la natura; certo non l’essere umano della ragione strumentale che ignora la bontà dei fini nella scelta dei mezzi, ma di quella ragione dialettica che si prende cura della vita alla 139.  Ivi, p. 15.

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luce di una comprensione non solo strumentale della Terra. Perciò si deve combinare alle operazioni razionali delle tecniche e delle scienze una sensibilità ecologica che permetta di individuare le migliori pratiche di convivenza, e non sfruttamento, con le altre forme di vita e le risorse del pianeta, avendo cura che sia mantenuto un equilibrio metabolico tra ciò che si assorbe e ciò che si rigetta. Tutto questo non può essere compiuto se non a partire da radicali cambiamenti nell’assetto socio-politico-economico ora dominante, trasformazioni profonde del modo in cui le nostre società pensano e organizzano la vita dei loro membri, frustrando le loro potenzialità più proprie. Il resto sono fantasie primitivistiche o ingenua, prometeica, arroganza di dominare la natura. Entrambe illusioni incapaci di comprendere il senso del divenire del mondo, del posto dell’umanità in esso e il loro valore: loro e ogni loro sfumatura devono essere abbandonate. Non fanno altro che accelerare il disastro ambientale in atto.

8. Luoghi di incontro tra Spinoza, Næss e Bookchin Bookchin si rivolge in maniera sprezzante140 alla visione del mondo proposta dall’ecologia profonda di Næss, poiché essa, 140.  «Oggi, in tutto il mondo, si offrono inquietanti alternative ai movimenti ecologici. Da un lato si va diffondendo, soprattutto in Nord America, ma anche in Europa, una sorta di malattia spirituale, un atteggiamo antiilluminista che, in nome del “ritorno alla natura”, evoca atavici irrazionalismi, misticismi, religiosità dichiaratamente “pagane”. Culti delle “divinità femminili”, “tradizioni paleolitiche” (o, secondo i gusti, “neolitiche”), rituali “ecologici” (insomma tutta una sorta di ecologia vudù, auto-definitasi “ecologia profonda”, che quanto a primitivismo fa il pari con l’economia vudù dell’amministrazione Reagan) vanno prendendo piede di qua e di là dell’Atlantico in nome di una “nuova spiritualità”» (M. Bookchin, L’ecologia della libertà, cit., p. 11).

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assumendo una prospettiva spinoziana della Natura, considera l’umanità come una parte non centrale del Tutto. Inoltre è certo estranea al Dio di Spinoza una qualsiasi razionalità nelle sue direzioni evolutive. Tuttavia, eliminando alcuni residui di mascherato finalismo che orientano la riflessione naturalistica dell’anarchico newyorkese, si può, crediamo, constatare con facilità come alcune importanti conclusioni raggiunte da queste differenti ecologie non siano così distanti. Di più: una loro sintesi può dare frutti positivi per l’etica. Tra queste visioni vi è infatti in comune l’idea che l’uomo non sia da pensarsi come altro dalla natura, ma entrambe lo considerano solo come una sua espressione particolare. Sebbene gli spinoziani non possano accettare che la natura sia in sé, in senso assoluto, razionale, convengono anch’essi che la ragione non può essere per ciò innaturale. La razionalità dunque non può essere trascurata nella riflessione etica per quanto concerne la liberazione dalle passioni, in Spinoza, l’attuarsi di specifiche potenzialità, in Bookchin o, come direbbe Næss, nel comprendere l’auto-realizzazione di determinate individualità. Il materialismo di Bookchin, che rifiuta l’atomismo come prospettiva che dà la massima realtà al mondo-in-quanto-cosa e si allontana dalle visioni che dissolvono la realtà in un discorso sulla realtà141, si fonda sul soggetto, non inteso in accezione kantiana come funzione unificatrice, ma in quanto soggetto e natura insieme; non vi è un soggetto che comprende una natura-oggetto, ma solo natura che comprende sé a un certo grado di organizzazione142; ecco, in tutto questo, a nostro avviso, egli non è così distante da Spinoza, e di riflesso da Næss, se consideriamo che, rammemorando la sua Ethica, «quando percepiamo qualcosa in modo adeguato, raggiungiamo una sorta di identità cogniti-

141.  Cfr. M. Bookchin, The Philosophy of Social Ecology, cit., pp. 47-55. 142.  Ivi, pp. 55-66.

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va con la mente di Dio»143 (o Natura). Se in tutto questo non si inserisce quella sorta di finalità che porterebbe la natura ad evolversi per giungere a pensarsi “razionalmente”, che sembra avere in mente talvolta Bookchin, la cooperazione tra queste prospettive può dirsi possibile. Infatti entrambe le ecologie che abbiamo discusso riconoscono, ad esempio, l’importanza che riveste la conoscenza scientifica nel determinare le scelte operative da prendere e orientare l’azione nel mondo. Checché ne dica Bookchin, Næss non scioglie l’individuo in un olismo indistinto prescrivendo un ritorno alla verde Madre Natura mediante meditazioni zen144, ma invece, sulla scia di Spinoza, valorizza gli apporti che le conoscenze più specializzate possono fornire per favorire l’auto-realizzazione di quanti più individui possibili. E proprio quest’ultimo punto, l’auto-realizzazione, cuore dell’etica del filosofo norvegese, presenta la più grande vicinanza con la ragione dialettica del filosofo newyorkese. Næss l’ha caratterizzata come l’estrinsecazione a livelli crescenti di perfezione, e dunque di gioia, della propria natura ed è quanto dev’essere favorito e ricercato dall’azione etica. Cosa la distingue dal perseguimento dell’attuazione delle potenzialità inscritte nella natura stessa degli enti145? Non dicono forse entrambe, le loro bio-norme, che è sbagliato tutto quello che soffoca il libero esprimersi della vita e che la stessa auto-realizzazione, l’attuazione delle proprie potenzialità, è più compiuta se (per quanto possibile) centrifuga, se cioè comprende in sé l’impegno a favorire quella degli altri, come la musica di un’orchestra è migliore se al suo interno ogni 143. S. Nadler, La via alla felicità, cit., p. 157. 144.  Nei limiti della conoscenza di chi scrive. Qui ci riferiamo unicamente ai testi indicati in bibliografia. 145.  «La più importante caratteristica dell’auto-realizzazione […] è la sua dipendenza da una visione delle capacità umane, o, meglio, delle potenzialità» (A. Næss, Auto-realizzazione, cit., p. 120).

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strumento ha trovato il proprio spazio di espressione? Ci sembra evidente allora che tali pensieri, nonostante alcune ovvie distanze, condividano punti fondamentali e possano essere in grado di arricchirsi l’un l’altro. Con la volontà di rimanere nell’atmosfera di pensiero analizzata in questo capitolo, ci rivolgeremo ora ai problemi che hanno guidato sin dall’inizio la presente trattazione, cercando, con l’aiuto degli strumenti raccolti lungo questo cammino, di abbozzare la fondazione di un’etica che resista all’orizzonte tempestoso dei nostri tempi.

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V

Dynergis

1. L’enigma Cortés Domandiamo: qual è il senso dei nostri atti? Perché riflettiamo sul modo in cui ci si dovrebbe comportare o meno, giudicando come buone o cattive le azioni (soprattutto quelle degli altri)? Chiunque conosce qualcuno che non se ne preoccupa affatto, o così almeno dà a vedere, suggerendo che, in fondo, dedicarsi a questi problemi è una perdita di tempo, una questione di etichetta. Che ragioni ci sarebbero infatti, qualora si fosse lontani da casa, in un paese ancora sconosciuto, abitato da popolazioni tecnologicamente arretrate, per non far di costoro ciò che si vuole? La storia insegna che gli umani tendono a rivelarsi in grado di commettere i crimini più spregevoli, se posti nelle condizioni appropriate. Perché dunque non rubare, uccidere, violentare, se tutto questo si potesse perpetrare senza il rischio di essere puniti, ed anzi con la certezza di essere premiati dal proprio paese? Un’etica valida, a nostro avviso, deve sapere risolvere questo problema e il modo in cui si posiziona in seno ad esso fornisce un’indicazione circa la sua bontà. Tale problema lo chiamiamo “enigma Cortés” in “onore” di quell’Hernán Cortés che l’ha incarnato alla perfezione, la cui vita efferata ha

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risposto, per dir così, che non vi è nessuna ragione per limitare il proprio potere. Kant, in questo esempio, qualora considerasse i membri del popolo azteco fini in sé, potrebbe reagire al suddetto enigma affermando che è un dovere trattare l’umanità nell’altrui persona sempre anche come fine, e mai come semplice mezzo, e dunque che si violerebbe un dovere inderogabile nel perpetrare simili azioni; ma l’imperativo categorico, qui come in ogni caso simile, sembrerebbe vincolarsi all’ipotesi circa lo statuto morale degli enti interessati, tramutandosi in una forma che ricorda più quella di un imperativo ipotetico, e dunque non propriamente morale, piuttosto che una legge inviolabile: se gli enti interessati dalla tua azione rispondono a certe caratteristiche (l’essere possibili volontà buone, dunque soggette alla legge morale in quanto volontà razionali finite) che, per tagliare corto, definiscono ciò che sarebbe l’umanità, allora agisci di conseguenza. Ma come abbiamo avuto modo di vedere in diverse occasioni, è assai difficile definire una volta per tutte un qualcosa del genere, e tale modo di procedere si presta a facili strumentalizzazioni; così Kant, in quanto individuo vissuto a Königsberg nel Settecento, all’enigma Cortés potrebbe anche rispondere in un modo che riteniamo adeguato1, ma un kantiano, lavorando sulla premessa ipotetica ed escludendo il popolo azteco dall’alveo dell’umanità 1.  Infatti egli scrive: «Si rimane inorriditi a vedere l’ingiustizia che [gli Stati europei] commettono nel visitare terre e popoli stranieri (il che per essi significa conquistarli). L’America, i paesi abitati dai negri, le Isole delle spezie, il Capo di Buona Speranza, ecc., all’atto della loro scoperta erano per essi terre di nessuno, non facendo essi calcolo alcuno degli indigeni. Nell’India orientale (Indostan), col pretesto di stabilire stazioni commerciali, introdussero truppe straniere e ne venne l’oppressione degli indigeni, l’incitamento dei diversi Stati a guerre sempre più estese, carestia, insurrezioni, tradimenti e tutta la lunga serie di mali che possono affliggere l’umanità» (I. Kant, Per la pace perpetua, in Id., Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto,

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vera e propria, potrebbe risolverlo in una sua giustificazione razionale. Gli utilitaristi sembrerebbero offrire un ventaglio di risposte variegate; innanzitutto si tratterebbe di capire se vadano tenuti in conto gli interessi antisociali o meno; se il piacere, in un senso largo e articolato (che gli fa perdere, come abbiamo visto, un significato preciso e individuabile con facilità), massimizzato da tali azioni efferate fosse, in fin dei conti, positivo per l’esercito aggressore, l’enigma Cortés si risolverebbe in suo favore? Perché si dovrebbero tenere in conto gli interessi di uomini sconosciuti e appartenenti a culture in toto diverse? Ma il calcolo, secondo alcuni, dovrebbe essere fatto a partire dagli interessi stessi e non dai loro portatori; anche qui, presupponendo che gli unici interessi da tenere in conto siano quelli umani e che il popolo azteco venga considerato davvero umano, se, comunque sia, i vantaggi e il piacere risultanti fossero talmente alti da giustificare ogni crimine? Bisognerebbe calcolare sulla base dell’utilità sociale media e non assoluta, per tenere in conto degli interessi di tutti; ma di che socialità si può parlare mettendo in relazione due società in tutto diverse? E se gli interessi del popolo azteco per essere soddisfatti richiedessero azioni inaccettabili per la società spagnola, andrebbero tenuti in conto nel calcolo? Bisognerebbe, ancora, operare numerose distinzioni tra le preferenze vere e quelle apparenti e via dicendo. Le complicazioni che abbiamo affrontato nella sezione precedente circa il calcolo utilitarista e la sua teoria del valore sembrano imporsi anche di fronte al nostro enigma, intorpidendo le acque e non permettendo una risposta univoca e trasparente. Aristotele è quello che sembra offrire la soluzione più chiara, nonostante si presenti come la più inaccettabile; è molto pro-

tr. it. di G. Solari e G. Vidari, a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu, Utet, Torino 1956, pp. 283-336: p. 303).

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babile che egli considererebbe il popolo azteco e i suoi membri dei barbari, cioè schiavi inutili a se stessi di cui certo non ci si deve fare scrupolo morale. Spinoza, invece, forse, riconoscendo al popolo azteco il supremo diritto naturale di perseverare in ciò che è e il potere posseduto da Cortés nei suoi confronti, nonostante tutti i vantaggi e i piaceri e le glorie che quest’ultimo potrebbe conquistarsi nel massacrarlo, risponderebbe che non dovrebbe farlo. Un uomo libero dalle passioni che è causa adeguata di quanto (gli) succede infatti, agendo sotto la guida della ragione, comprenderebbe che non può trarre alcun vero vantaggio da quelle violenze, ma che invece la via da percorrere sarebbe o quella di non immischiarsi in una società a lui estranea, o al massimo tentare di instaurare relazioni amiche, democratiche, che portino tutti a un accrescimento della propria potenza e gioia; infatti la virtù è premio a se stessa, beatitudine, e implica l’amicizia tra gli uomini: se questo Cortés non lo comprende e invece ritiene di trarre vantaggio dalla sua violenza e crudeltà, non sa cosa si perde, non saprà mai cos’è la vera felicità. Ma ciò è da ritenersi soddisfacente? Questa posizione sa difendersi dall’enigma qui sollevato, ma è una direzione che dovrà essere approfondita. Ora è bene pensare che cosa s’intenda, o si debba intendere, con “etica”, raccogliendo le domande via via incontrate in questo percorso cui una simile riflessione deve dare risposta. L’individuazione e la separazione degli aspetti di cui è costituita sono il primo passo da muovere per fare chiarezza in merito e per comprendere come debba strutturarsi per offrire una postura completa, nell’inevitabile parzialità che connota ogni posizione di questo tipo. Ci discosteremo un po’ dai modi in cui è stata intesa nelle sue parti dalla tradizione, pur ritrovando, infine, tutti i momenti che abbiamo analizzato in precedenza.

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Figura 1. Albero dell’Etica, illustrazione di Ilaria Reed.

2. Ripensare l’etica Ci piace pensare all’etica, intesa nel senso di riflessione filosofica generale e, allo stesso tempo, di ogni sua istanziazione particolare, come a un albero dei cui frutti si nutrono gli uomini e gli altri animali. Le sezioni di cui è composto individuano le sue strutture operative: così le radici che affondano nella terra rappresentano il suo livello fondativo, il campo ontologico su cui si innesta e da cui trae le ragioni ultime della sua vitalità (validità); il tronco individua invece la postura etica vera e propria che fronteggia le intemperie della regione in cui si trova; i rami sono le molteplici specificazioni che assume con il passare del

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tempo, che pur diverse rimangono legate a un’origine comune; i frutti, il livello delle conseguenze e implicazioni di una determinata postura nel mondo, nutrono le creature, e se sono buoni permettono loro di prosperare e mantenersi in forze, mentre se sono avvelenati le fanno ammalare; il sole, centro di idee e nutrimento, è ciò che l’albero appetisce tendendovi con i suoi rami; gli altri astri rappresentano le configurazioni storiche in cui una determinata etica ha preso forma; il mutare del cielo e delle condizioni atmosferiche, strettamente connessi alla terra per conservare la vita dell’albero e permettergli di fiorire, cioè il mutare delle epoche, sfida la sua sopravvivenza. Se l’etica è radicata in una terra fertile e alla luce di idee potenti è in grado di fronteggiare e resistere alle perturbazioni che l’affrontano, offrendo una casa sicura e cibo per chi trae da lei nutrimento; se invece le sue radici e il suo tronco sono troppo fragili, se il terreno in cui è innestata diviene deserto a causa di uno sconvolgimento celeste, verrà spazzata via dal tempo, e con lei chi la abita: questo significa che un’etica solida deve saper affrontare i fenomeni nuovi che si affacciano via via nel mondo. Gli uomini devono saper interpretare i segni del tempo in cui vivono e la qualità degli alimenti di cui si nutrono. Abitare un’etica debole implica indebolirsi e trascorrere un’esistenza più infelice di quella che si potrebbe avere soggiornando in altri luoghi. Ma come può un uomo sapere che i frutti con cui è stato cresciuto, invece che renderlo più potente, lo costringono a una vita piegata come il fragile tronco da cui ha imparato a star dritto? Come può vedere oltre la postura dell’albero che lo nutre? Chi gli suggerisce che potrebbe ergersi più grandioso? Forse scorgendo vette più verdi all’orizzonte. O forse accorgendosi della propria tristezza e di quella di chi lo circonda, tristezza che potrebbe essere rovesciata. Ma come potrebbe sapere che quella dimensione in cui sono catturati i suoi amici è tristezza, se ha vissuto solo con chi lo circonda e chi ne è vittima magari la chiama felicità? Una risposta potrebbe essere trovata nel-

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la sua giovinezza: solo colui le cui forze non sono state ancora senza rimedio impoverite e distrutte dalla malnutrizione può domandarsi, incontrando le tristi morti di chi si alimenta lì da più tempo, se non sia possibile che le cose vadano in un’altra direzione. Potrebbe cercare di guarire la terra che ammala le radici dell’albero, avvertendo chi vi si sostenta di astenersene e aiutarlo a curarlo; o, se ne è in grado, sradicarlo e piantarlo in un altro campo: ma se il clima è troppo duro, l’unica via che potrà percorrere sarà raccogliere i semi dei frutti delle etiche più resistenti e avviarsi, con i suoi amici, verso terre più fertili dove piantarli e prendersene cura, sotto un cielo più terso e luminoso. Il primo punto da cui vogliamo tentare di ripensare l’etica è delineare con attenzione le categorie in cui si articola, si formula e si muove, cioè quell’aspetto logico-costitutivo che chiamiamo grammetica.

3. Grammetica Definiamo “Grammetica”, con la maiuscola, la struttura logico-­ vitale che regola i contenuti propri dell’Etica, intesa come filosofia generale, contenuti non ancora “riempiti” da oggetti specifici ma indicanti i campi operativi di cui ogni etica particolare deve rendere conto nella sua articolazione per potersi dire completa e instaurare un dialogo con sistemi diversi da sé. Con questo concetto ci riferiamo a qualcosa di simile a quanto ha proposto Hare che, come abbiamo visto in precedenza, si è impegnato nella ricerca e definizione di un linguaggio della morale i cui significati fossero esaustivi e intendibili per chiunque ne accetti la logica, cercando di rendere così i contenuti della morale analoghi a quelli della matematica e favorendo l’accordo su specifiche conclusioni, o perlomeno permettendo

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la comprensibilità reciproca. Il nostro concetto di Grammetica vuole però discostarsi dalla mera indagine chiamata “metaetica”, che vi è contenuta, poiché con esso si vuole indicare la specifica, ma universale, forma in cui si articolano determinati posizionamenti nel mondo, forma specifica che si può pensare non sia l’unica possibile o agibile. È tale specifica forma che indichiamo con il termine “Grammetica” e incarna quella che potremmo chiamare anche Etica della scrittura2, del gramma o della traccia, con cui si è pensata la riflessione filosofica in questo ambito, spesso non ascoltandone la logica; essa si presenta infatti come quel posizionamento umano nel mondo che si muove al suo interno tracciandolo e tracciandosi con scritture relazionali che si è tentato di volta in volta di fissare in un senso assoluto mediante la grammatica specifica di rituali, religioni ed etiche particolari: ma poiché si traccia solo ciò che ivi non vi è più, tale specifica forma di vivere e di comprensione del mondo non può ottenere alcuna veste definitiva, e quando crede di catturare così il movimento del valore, lascia che invece il suo senso le sfugga. Questa logica essenziale della Grammetica dev’essere accettata per abitare tale apertura esistenziale, la quale, in questo caso, sarebbe in realtà più corretto chiamare Etica della scrittura umana, che possiede a sua volta numerose variazioni. La Grammetica umana infatti si specifica in forme diverse: l’ethos di un popolo che abiti una scrittura orale è diverso da quello di uno che abiti una scrittura reificata in segni scritti, e in quest’ultimo contesto vi sono ulteriori diramazioni a seconda che tali segni siano pittografici, alfabetici, digitali, e via dicendo. Tuttavia la Grammetica non si riferisce solo alle articolazioni relazionali umane e alle loro strutture concettuali generali, che chiamiamo (Gramm)etica, ma anche a quelle di tutte le forme di vita che abitano il mondo secondo la dinamica esistenziale della traccia e della scrittura relazionali, che sono 2.  Il riferimento è a C. Sini, Etica della scrittura, il Saggiatore, Milano 1992.

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intrinsecamente legate ai corpi viventi animali, e dunque niente affatto prerogativa solo umana. Perciò riteniamo che ogni etica particolare che si pensi all’interno dell’apertura esistenziale individuata dalla Grammetica animale debba saper comprendere la sua logica all’interno di un sistema relazionale ben più ampio di quanto di solito si crede, di cui è istanziazione. Chiamiamo invece “grammetica”, con la minuscola, qualcosa di più vicino alla meta-etica tradizionale, e cioè la struttura logico-concettuale costitutiva di ogni etica particolare, che raccoglie i significati specifici dei campi operativi che interessano la (Gramm)etica umana più generale; perciò si danno una grammetica kantiana, una utilitarista, una aristotelica, una spinoziana e così via; ognuna di queste “riempie” di contenuti specifici i punti che delineano l’area di quell’etica, fornendone una mappa linguistico-concettuale: il modo in cui determinano quei punti e risolvono le loro relazioni le caratterizza nella loro originalità, e tale operazione la chiamiamo (gramm)etica3. Quanto seguirà sarà un breve sguardo sulle grammetiche delle etiche analizzate sin qui per ricercare le categorie proprie della (Gramm)etica umana più generale, vagliare la completezza di quelle specifiche che abbiamo incontrato e, per quanto possibile, cogliere la logica che le governa. Inoltre, a mano a mano che procederemo, verranno definiti gli altri aspetti che costituiscono il corpo di un’etica in generale, fornendo un esempio di quello che vuole essere l’esercizio di un’apertura della Grammetica stessa. 3.  L’utilizzo delle parentesi serve per distinguere e indicare i due significati posseduti dalla medesima parola: così “Grammetica” significa sia “Grammetica = etica della scrittura vivente, logica vitale generale che governa il modo animale di abitare il mondo” sia “(Gramm)etica = categorie generali dell’etica umana”. E “grammetica”, d’altra parte, significa sia “grammetica = definizioni particolari delle categorie generali dell’etica umana operate da un’etica specifica” sia “(gramm)etica = modo specifico di un’etica particolare di mettere in relazione le sue categorie costitutive e produrle dinamicamente”.

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3.1. Cenni alle grammetiche kantiana, utilitarista, aristotelica e spinoziana L’etica, per come è emersa dal nostro percorso, individua in un senso preliminare quell’ambito di riflessione che s’interroga sulla vita buona definendo ciò che è bene e ciò che è male in relazione all’azione; combinando questi ultimi tre concetti si ottiene che se un’azione è buona, cioè sotto il segno del bene, è giusta, nel senso che è bene compierla, mentre se è cattiva, cioè sotto il segno del male, è ingiusta, nel senso che è sbagliato compierla: la relazione di implicazione tra ciò che è giusto fare e l’azione corrispondente è ciò che si chiama dovere, in un senso più o meno forte, e agire bene significa condurre una vita buona. Questa sembra essere una prima ossatura grammetica di ogni etica in genere per quanto si è analizzato sin qui. La grammetica kantiana, ad esempio, sotto questo rispetto, individua il bene nella volontà buona; l’azione nella determinazione causale libera che una volontà si dà; il male nel compiere azioni moralmente vietate. La volontà è buona quando sceglie di eseguire ciò che la legge morale per necessità le impone in quanto volontà razionale finita e il suo comando esprime in modo netto ciò che si deve fare; la morale di Kant in questo senso rappresenta un’anomalia rispetto alle altre che, come vedremo a breve, intendono il dovere in una maniera meno stringente, vincolandolo a fini precisi; invece il filosofo di Königsberg, come abbiamo visto, sostiene che l’azione giusta da compiere, cioè quella che deriva da una volontà buona, è bene compierla per nient’altro che se stessa e perciò si deve eseguirla, o meglio, si deve compierla per dovere e, in un certo senso, è questo ciò che è bene. Il fine è interno all’azione e non influenzato dai suoi effetti, perciò la moralità è tutta nella disposizione dell’agente che decide se rispondere ai suoi doveri o meno: la vita buona è la vita morale, cioè che rispetta il dovere. Da qui si possono approfondire tutte

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le altre categorie grammetiche kantiane come gli imperativi, il fine in sé, l’autonomia, la libertà; le idee di sommo bene e immortalità dell’anima si potrebbero anch’esse far rientrare nella sua grammetica, ma riteniamo che una rigida fedeltà al dettato kantiano le espella dall’alveo dell’etica vera e propria, nel senso preliminare che abbiamo qui proposto, nonostante egli stesso le abbia tematizzate per completare il suo sistema morale: cioè, per essere più chiari, queste idee per Kant non dovrebbero avere alcun peso nella determinazione dell’azione giusta. La grammetica utilitarista individua il bene nel piacere, inteso in sensi differenti che possono essere definiti ora in direzioni edonistiche ora eudemonistiche, o anche in loro combinazioni; l’azione nella determinazione causale finalizzata di un agente; il male nel dolore, anche questo definibile in vari modi. L’azione giusta è allora quella che massimizza il piacere/felicità e sbagliata è quella che produce più dolore del suo contrario; il dovere, essendo mediato dal concetto di utilità, non è categorico come quello di Kant; infatti la grammetica utilitarista, identificando ciò che è bene con ciò che è utile, e dunque ciò che è utile è il valore piacere/felicità calcolato a partire da una previsione degli effetti, vincola l’azione giusta al valore da ottenere in una relazione del tipo “se vuoi x, allora fai y. Ma x è ciò che è bene, allora devi fare y”: perciò il dovere, essendo legato al riconoscimento dell’utilità che l’azione giusta favorisce, è dipendente da una condizione esterna all’azione che ne media la normatività. La vita buona è la vita che persegue ciò che è utile. Come è chiaro, queste categorie si approfondiscono e diversificano, distanziandosi anche molto nei loro significati, a seconda delle diramazioni grammetiche interne all’utilitarismo stesso. La grammetica aristotelica individua il bene nella felicità; l’azione negli abiti comportamentali che si sceglie di far propri;

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il male nel perseguire gli eccessi. L’azione giusta è quella che conduce alla felicità e si identifica nell’esercizio virtuoso, eccellente, delle funzioni specifiche di un individuo; il dovere è anche qui vincolato all’esternalità del fine rispetto all’azione, che ne media la normatività, e alle funzioni proprie riconosciute all’agente: la vita buona è la vita felice. La grammetica spinoziana individua il bene in ciò che si sa con certezza essere utile; l’azione in una determinazione causale necessaria; il male in ciò che si sa con certezza impedire il possesso di un certo bene. Ciò che si sa con certezza essere utile è l’incremento della propria potenza d’agire, il perseverare in ciò che si è “con successo”, e l’azione giusta non è altro che questo; con Spinoza è però bene distinguere quella determinazione causale che in questo paragrafo abbiamo chiamato “azione” in due modi: l’agire e il subire, laddove il primo è, appunto, l’azione giusta, e il secondo l’azione sbagliata. Il dovere è mediato dalla conoscenza a(ffe)ttiva di ciò che è bene, e qualora questa sia tale, si identifica con l’agire stesso. Il fine non è né interno né esterno all’azione ma è l’azio­ne nel senso dell’agire, ossia la gioia; obiettivo dell’etica è indicare questa strada: la vita buona è la vita potente, ossia lieta. Quanto scritto sin qui, come è evidente, è assai parziale. Non bastano certo le categorie di azione, bene e dovere, i reciproci, e le loro combinazioni per individuare l’intera area di un’etica, cioè la via alla vita buona, al vivere bene. Un’etica infatti deve saper distinguere al suo interno i membri che sono interessati dal suo circuito e le direzioni agentive che indica a ciascuno di loro: la definizione di questi aspetti è necessaria per determinare in modo concreto le categorie sopra riportate ed evitare che la confusione tra le diverse parti interne all’etica stessa generi contraddizioni.

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4. Morale Come è noto, Hegel ha proposto una distinzione tra la dimensione morale e quella dell’eticità nella direzione di comprendere la prima nella sfera della coscienza individuale mentre la seconda in quella dell’ordine comportamentale collettivo, nonostante si possa supporre che l’etimologia latina e greca delle due parole conduca a un ambito molto simile, se non lo stesso4. Nel cammino sin qui percorso non si è voluta avanzare alcuna diversificazione terminologica e le due parole sono state usate come sinonimi; ora procederemo a definire la prima, la morale, come un aspetto interno all’etica, una sua parte essenziale e costitutiva, ma in un senso che non ha nulla a che vedere con la dialettica hegeliana. Definiamo “Morale”, con la maiuscola, quell’aspetto dell’Etica, intesa come filosofia generale, che individua certe classi di individui da lei contenute come importanti, cioè gli enti cui viene riconosciuto valore. Definiamo “morale”, con la minuscola, il valore degli enti di cui l’azione di un’etica particolare si interessa, cioè degli individui cui una determinata postura nel mondo riconosce lo statuto di contare all’interno delle pratiche relazionali. Per usare le parole, già incontrate in precedenza, di Lévinas, se la «messa in questione della mia spontaneità da parte della presenza d’Altri si chiama etica»5, noi intendiamo che tale messa in questione è innestata dal valore morale incarnato in quegli “Altri” che ci si presentano: l’etica, cui, come si è detto, assegniamo un significato più ampio, si preoccupa poi di comprendere cosa comporti l’incontro con ciò che ha tale 4.  «Etica deriva da ethos (ἦϑος) che in greco nominava inizialmente il luogo che ospita la propria vita, e da ciò la disposizione a vivere in un certo modo, e poi l’insieme dei costumi. Morale deriva da mos, moris, che in latino indica l’insieme delle usanze, dei costumi, della tradizione» (A. Zhok, Il dovere e il piacere, cit., p. 8). 5.  E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 41.

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valore e chi viene identificato come Altri. Riconoscere valore morale a degli individui significa dunque inscriverli all’interno di quello che si è chiamato circuito dell’etica. Così ogni etica particolare assegna, a suo modo, tale valore a classi di individui differenti e la giustificazione di tale riconoscimento è un momento inaggirabile della sua fondazione. Abbiamo visto, ad esempio, che per Kant possiede valore morale solo quell’ente che è possibile soggetto di volontà buona, cioè una volontà razionale finita6 (tenendo fermi tutti gli aspetti indagati nel primo capitolo della prima sezione); egli li chiama fini in sé e tale appellativo ci sembra felice per indicare gli enti cui si riconosce un valore intrinseco: l’agente, nelle scelte con cui tesse la sua vita, ha il dovere di preoccuparsene e “mettere in questione” ciò che può fare con e di loro. L’utilitarismo è invece ben più variegato: tale postura, infatti, a seconda di chi la rappresenta, dato che identifica il valore col “piacere” spazia nel conferire valore morale dai soli esseri umani, in quanto capaci di provare piacere e dolore, sino a comprendere via via molte altre specie animali le cui caratteristiche corporee consentano tale esperienza. Il circuito dell’etica aristotelico è ben più ristretto rispetto a questi due, come abbiamo già avuto modo di riscontrare, e consta di un’élite in seno all’umanità. Spinoza sembrerebbe riconoscere moralità agli stessi individui cui la riconosce Kant e per motivazioni simili, cioè, per farla breve, in grazia del possesso della ragione; tuttavia, come avremo modo di vedere tra poco, riteniamo che il sistema tratteggiato dal filosofo olandese possa ammettere, pur contro le opinioni del suo stesso autore, un circuito dell’etica ben più ampio di quello che avesse in mente.

6.  Fondamentalmente solo gli esseri umani. Non ribadiamo qui le gravi difficoltà, discusse in precedenza e che risolleveremo ancora più avanti, circa la definizione di “umanità” che fornisce Kant per l’individuazione dei membri degni di attenzione etica.

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Ora che abbiamo chiarito cosa si vuole intendere qui con quella parte dell’etica chiamata morale, con cui non indichiamo una disciplina specifica o un sinonimo della prima, ma piuttosto un “segno”, o se si vuole un’“aura”, che conferisce ad alcuni individui un valore intrinseco, e cioè il riconoscimento di avere un peso nelle pratiche degli agenti, rivolgiamoci a un altro suo aspetto essenziale e costitutivo, ciò che vogliamo chiamare “Iteca”.

5. Iteca Definiamo “Iteca”, con la maiuscola, la parte dell’Etica, intesa come filosofia generale, che si occupa di comprendere e indicare le articolazioni della postura esistenziale che si identifica con una vita buona; quest’ultima, come si è detto, può essere intesa come il fine della riflessione etica stessa e può assumere molteplici e diversi significati a seconda della proposta particolare che si prende in considerazione (vita morale, vita che persegue l’utile, vita felice, vita potente…). Così ogni etica particolare consta anche di una precipua sfera iteca, con la minuscola, e si impegna a fornirne ragione. Questo neologismo è frutto dell’intento di evidenziare il livello telico delle azioni prescritte da un’etica distinguendolo dagli enti morali, che in quanto tali possono non accedere a quella dimensione performativa, cioè tutti quegli individui che pur non essendo agenti etici sono da riconoscere come pazienti etici. L’iteca è un aspetto dell’etica stessa e non qualcosa di separato da essa ed è proprio per sottolineare tale loro coappartenenza che si è scelto come termine un anagramma di “etica” per indicarla sotto questo suo rispetto. Ma non è l’unica ragione. La parola “Iteca”, infatti, ricorda “Itaca”, e cioè, se è concesso piegar così tale immagine letteraria ai nostri scopi, la ragione per cui

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l’eroe Odisseo ha plasmato la sua vita7 e le sue azioni in una certa direzione, l’orizzonte della postura che ha performato e l’ha reso ciò che di lui è stato narrato. A questa sfera dell’etica si riconduce la dimensione esemplare che ognuna vuole proporre o incarnare: così, ad esempio, riteniamo che Kant si figuri colui che performi la sua etica come l’uomo di cui parla nella parte seconda della Critica della ragion pratica, all’interno della Dottrina del metodo della ragion pura pratica, quando, volendo mostrare che la comune ragione umana ha accesso “da sé” alla moralità, scrive che se si raccontasse a un bambino di dieci anni come si comporta il vero agente morale, non potrebbe che riconoscerne la grandezza. Riportiamo il passaggio per intero: si racconti la storia d’un uomo onesto, che si vuole indurre ad associarsi ai calunniatori di una persona innocente, la quale, per di più, si trova in balìa di un’altra (come ad esempio Anna Bolena, accusata da Enrico Ottavo d’Inghilterra). Gli si offrono vantaggi, cioè grandi regali, o un rango elevato, ed egli li respinge. Ciò provocherà soltanto approvazione nell’animo dell’ascoltatore, perché si tratta di un guadagno. A questo punto si comincia con la minaccia di un danno. Tra quei calunniatori si trovano i suoi migliori amici, che, ora, gli negano la loro amicizia: parenti stretti, che minacciano di diseredarlo (mentre lui è senza mezzi); potenti che possono perseguitarlo e danneggiarlo in ogni luogo e condizione, e un principe in grado di minacciarlo della perdita della libertà, e perfino della vita. E perché la misura del dolore sia colma, facendogli sentire anche quel dolore che solo un cuore moralmente buono può percepire in sé, si può rappresentare la sua famiglia minacciata da estremo bisogno e indigenza, che lo scongiura di cedere; e lui stesso, benché onesto, per ciò appunto non dotato di una sensibilità così resistente alla compassione

7.  Perlomeno una buona parte della sua vita, ma è chiaro a cosa ci si vuole riferire.

235 verso gli altri come al bisogno suo proprio, in un momento in cui non vorrebbe mai aver visto il giorno, che lo sottopone a un dolore così indicibile: e che, tuttavia, rimane fedele al suo proposito di lealtà senza tentennamenti o anche semplici dubbi. Il mio giovane ascoltatore si sentirà trasportato, a poco a poco, dalla mera approvazione all’ammirazione, e di qui allo stupore, fino alla venerazione più grande, con un vivo desiderio di poter essere lui stesso un uomo del genere.8

In Mill, come abbiamo già visto in precedenza, il livello iteco può essere rappresentato da un uomo la cui felicità non è «rapimento estatico, ma momenti di rapimento in un’esistenza fatta di pochi dolori passeggeri, numerosi e vari piaceri, con una decisa predominanza dell’attivo sul passivo e, a fondamento del tutto, la rinuncia ad aspettarsi dalla vita più di quanto essa sia capace di offrir[e]»9. Per Aristotele, invece, come riassume bene Mazzarelli nella sua Introduzione all’Etica Nicomachea: l’uomo virtuoso […] è coraggioso, perché non ha o, meglio, sa vincere, la paura di fronte al pericolo più grande e più bello, la morte in guerra in difesa della patria; è temperante, cioè moderato nel godimento dei piaceri fisici più elementari, comuni anche agli animali, del mangiare, del bere e dei rapporti sessuali, anche se può abbandonarsi senza preoccupazioni al godimento estetico, derivantegli dalla vista o dall’udito. È liberale nel dare, e parco nell’accettare dagli altri; se è ricco, mostrerà la sua magnificenza con grandi e lodevoli spese per scopi pubblici, di tipo religioso o sociale; è rettamente ambizioso, e sa comportarsi con bonarietà, affabilità e garbo in tutte le circostanze della vita di relazione. Il pudore, invece, è un sentimento lodevole solo nei giovani, i quali, non essendo ancora pienamente formati dal punto di vista morale, sono facilmente preda della passione e della colpa, di cui è bene che si vergognino; ma è del tutto estraneo all’uomo maturo,

8.  I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 307. 9.  J.S. Mill, L’utilitarismo, cit., p. 250.

236 perché questi, se è veramente virtuoso, non commetterà mai nulla di cui debba poi pentirsi […].10

Nel seguente modo, infine, Spinoza, come è stato più sopra già riportato, si figura colui che incarna la sua etica: l’uomo forte non ha nessuno in odio, non ha ira, invidia, sdegno, disprezzo verso nessuno, e non insuperbisce affatto. […] egli si sforza di concepire le cose come sono in se stesse, e di allontanare tutti gli ostacoli alla vera conoscenza.11 La beatitudine non è il premio della virtù, ma la virtù stessa; e noi non godiamo perché reprimiamo le nostre voglie; ma, viceversa, perché ne godiamo, possiamo reprimere le nostre voglie.12

Gli esempi appena avanzati hanno il solo scopo di suggerire alcuni aspetti iteci delle posizioni che abbiamo analizzato in precedenza; ogni iteca particolare infatti presenta non solo l’obiettivo da raggiungere o la postura da performare, ma anche il livello delle indicazioni specifiche per gli agenti. Ora che abbiamo operato queste distinzioni raccoglieremo il senso che si vuole qui dare a quanto viene chiamato “etica” per consolidare gli aspetti che verranno toccati, definiti e proposti dal tentativo di sua fondazione che seguirà.

6. Etica Se ricordiamo la distinzione tra Grammetica in senso ampio, cioè quel modo multiforme di abitare il mondo di coloro che vi si inscrivono con il proprio corpo e perseverano nella loro 10.  C. Mazzarelli, Introduzione, in Aristotele, Etica Nicomachea, cit., p. 27. 11.  Eth. S., IVP73s. 12.  Eth. S., VP42.

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vita recandone traccia, e (Gramm)etica, cioè l’insieme delle categorie generali che è compito di ogni etica particolare specificare, vediamo che l’Etica si articola in questi tre aspetti: (Gramm)etica, Morale e Iteca.

Figura 2. Triangolo dell’Etica.

Come è subito chiaro questi suoi punti non sono slegati l’uno dall’altro, ma si definiscono a vicenda in quello che abbiamo chiamato “Triangolo dell’Etica”. Il modo in cui si determinano a vicenda corrisponde al posizionamento nel mondo proposto; così l’orizzonte iteco ricercato da un’etica particolare dovrà comprendere gli enti che hanno valore morale; e questi enti morali, per il loro semplice presentarsi, influenzeranno ciò che è itecamente giusto o ingiusto; e a loro volta questi aspetti, che si è voluto separare logicamente dalla grammetica e dalle sue categorie primarie (azione, bene, male e dovere), fanno parte della grammetica stessa, la quale si costituisce come (gramm)etica in virtù del modo in cui articola le sue categorie primarie con quelle morali e iteche. Con ciò non si vuole dire che vi sia una preminenza delle categorie di “azione, bene, male e dovere” su quelle “morale e iteca”; sono tutti questi infatti i punti fondamentali che delimitano l’area (Gramm)etica da cui vengono derivate le altre categorie note della etica tradizionale (giusto, ingiusto, virtù, felicità…): le differenze nei modi e nei sensi in cui vengono collegate e “riempite” rendo-

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no ragione dell’incredibile varietà e diversità tra le proposte etiche conosciute.

Figura 3. Esagono della (Gramm)etica.

Così, ad esempio, in quello che chiamiamo “Esagono della (Gramm)etica” l’area del triangolo individuata dai punti “azione”, “bene” e “dovere”, che intendiamo come “azione giusta” (si potrebbe chiamare virtuosa), in Kant assume il significato di azione libera guidata da una massima che rispecchi la legge morale; negli utilitaristi di azione che massimizza l’utilità (sociale media, assoluta, secondo il criterio dell’atto, della regola…); in Aristotele di azione che esprime il giusto mezzo nella circostanza vigente; in Spinoza di causa adeguata; e si potrebbe proseguire determinando le relazioni che legano nello specifico i diversi punti all’interno della figura proposta ottenendo via via le grammetiche proprie di ogni etica incontrata. Le immagini che abbiamo inserito per figurare l’Etica e la (Gramm)etica sono parziali e incomplete, e certo non aspirano ad aver nulla di definitivo; esse sono infatti il frutto di una sistemazione grafica (che si vorrebbe utile) a partire da una raccolta abduttiva, piuttosto che il risultato di una deduzione: sarebbe interessante studiare e comprendere a fondo la logica che governa queste categorie, di cui abbiamo forse scorto qualche relazione, e con ogni certezza tale ricerca comporte-

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rebbe una loro rivisitazione e ripensamento. Ma non è questa la sede per svolgerla. L’Etica, nel modo in cui la stiamo intendendo, si presenta come un organismo logicamente tripartito le cui determinazioni moltiplicano l’area che l’individua; il perimetro che la contiene deve essere inteso come la configurazione storica in cui accade, che determina i punti di cui è composto: tale perimetro è la volta celeste della prima immagine (Albero dell’Etica) con cui l’abbiamo avvicinata in questo capitolo. Come l’Etica (ambito generale di riflessione filosofica) si istanzia in etiche particolari (etica kantiana, utilitarista, aristotelica, spinoziana…), e così la (Gramm)etica, la Morale e l’Iteca che la compongono si incontrano come (gramm)etica, morale e iteca specifiche di tali determinazioni, queste ultime, come già si è detto, debbono pensarsi all’interno del perimetro epocale in cui emergono e pensare, per quanto possibile, tale perimetro, frequentare questo limite: e così, infine, al livello più specifico dei contenuti concreti e normativi di ogni etica particolare, colui che performa una certa postura nel mondo dovrà comprendere (non solo in senso intellettuale) le circostanze in cui gli accade di agire (la presenza di questo tal ente morale, il perseguimento di questo tal fine iteco) in quanto la sua (gramm)etica vivente giace lungo il loro perimetro e ne è inevitabilmente influenzata. In questo modo vogliamo sostenere che ogni sistema etico particolare deve incarnarsi e vivere nel suo esercizio, che non avviene in un mondo fatto di idee, e tale carattere strutturale comporta la sua continua messa in discussione e rifusione di significato attraverso ogni individualità unica, nell’istante e nel luogo in cui agisce, che vive l’incontro ogni volta nuovo del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, del dovere e di tutto quello di cui si è parlato sin qui. Ora che abbiamo chiarito la direzione in cui questo cammino vuole ripensare l’etica, possediamo le categorie che andremo

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a definire nelle loro relazioni per pensare e azzardare una sua fondazione.

7. Dynergismo Il dynergismo è una forma di spinozismo. Esso accoglie la metafisica e gli intenti dell’etica di Spinoza, modificando, o approfondendo, alcuni suoi elementi. Prende il nome dalla parola dynergis, o dynergia, coniata a partire dalle radici dei termini greci dynamis (δύναμις = potenza, capacità, forza) e ergon (ἒργον = opera, azione, esecuzione); dynergis vuole essere una sintesi dei concetti di causa adeguata, auto-realizzazione e attualizzazione delle potenzialità proprie di un ente discussi nell’ultimo paragrafo del capitolo precedente; si distingue dal concetto di energheia (ἐνέργεια = attività, effetto, essere in atto) in quanto quest’ultimo indica il semplice esercizio di un’attività latente nelle possibilità agentive di un ente, mentre la dynergia identifica le potenzialità proprie, costitutive ed essenziali, di un individuo nella sua unicità e irriducibilità, e lo sforzo nell’esprimerle: il dynergismo è quella postura che si impegna a liberare la dynergia di ogni membro del suo circuito etico. Giuste sono le azioni che realizzano, quanto più possibile, la propria e altrui dynergis, viceversa sono sbagliate quelle che la soffocano e la impediscono. Esprimere dynergia è, in termini spinoziani, allargare la propria potentia agendi, passare a una perfezione maggiore, agire, essere gioiosi; la via per estrinsecarla è in profondità connessa alla conoscenza che si ha di sé, degli altri e delle condizioni di vita in cui ci si trova: la straordinaria, infinita, varietà di posture dynergiste performabili è unita nel riconoscimento che tale motus exprimendi è il valore che l’azione etica deve ampliare. Tale azione è per necessità catturata in quell’egoismo centrifugo

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di cui abbiamo parlato in diversi luoghi e non si identifica in nessuna forma di relativismo etico personalista ed egoistico; come vedremo a breve, l’espressione individuale di dynergis corrisponde all’approfondimento di quella di altri agenti ed è da questo intensificata: perciò diciamo che il dynergismo è un individuolismo. Più avanti avremo modo di intendere meglio come il dynergismo pensi la relazione tra individuo e totalità, ora dobbiamo però procedere a definire prima chi viene compreso nella morale dynergista e fornirne ragione, e poi rivolgerci alla sua iteca, che approfondirà aspetti cui già qui si è accennato, e fornirne ragione.

8. Morale dynergista Il circuito dell’etica dynergista riconosce valore morale a tutti gli enti che sono accomunati da quella che chiamiamo vulnerabilità ontologica, cioè quegli individui che per esistere sono costitutivamente esposti alle tracce, anche fatali, di ciò che li circonda, le quali, inscrivendosi nei loro corpi, permettono la loro progressiva individualizzazione e identificazione, mediante una continua separazione tra ciò che traccia e ciò che viene tracciato. In un’analoga separazione si svolge anche il loro auto-affettarsi, cioè la graduale presa di coscienza affettiva di sé, e questo performarsi come sempre altro da sé è ciò che in senso proprio sono, produce il loro “sé”, mai pieno e presente a se stesso. Questa apertura vitale porta con sé il rischio perenne della propria distruzione e questo rischio è la condizione di possibilità stessa del movimento e dell’affermarsi di tale forma di vita, che, per la costituzione essenziale dei corpi che la esprimono, è sempre rimessa alla possibilità della sua negazione in quanto auto-affettivamente cosciente. Ci riferiamo, come è ovvio, a quella forma di vita che si usa chiamare

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“animale” e che raccoglie in sé un’infinità di individualità assai differenti le une dalle altre sotto numerosi rispetti; la maggior parte delle etiche che sono state formulate non riconosce valore morale agli altri animali in virtù di quelle particolari differenze che vorrebbero rappresentare una separazione netta degli umani da loro: riteniamo che questa operazione metta nelle condizioni di non comprendere davvero che cosa sia il valore morale di un ente in genere e anche di lasciarsi sfuggire le vere ragioni del perché si consideri, come è gusto, perlomeno nella gran parte del senso comune contemporaneo, che gli esseri umani lo posseggano. Tra le infinite differenze che sussistono tra gli animali, umani compresi, vi è in comune quello che chiamiamo auto-zoo-­grafar-si13, e cioè la struttura ontologica di un ente che si costituisce e si produce come sé vivente in quanto originariamente affetto dalla traccia dell’altro, di sé e di sé come altro; l’ente che si produce come autòs nella possibilità costante della sua impossibilità (che sola lo rende possibile come tale): l’ente che per una sorta di vulnerabilità ontologica è dischiuso all’apertura dell’altro inatteso, entro cui l’Altro può incidersi (anche fatalmente), attraverso un “far-Io” prelinguistico che si manifesta e si annuncia in un grafar-si. Va da sé che l’auto­zoografia non sia l’unico tratto che accomuni gli animali tra loro, ma è quello che, a nostro avviso, rivela il loro valore morale; e però, se si è definito quest’ultimo come ciò che l’azione etica deve tenere in conto nel suo svolgersi e di cui deve prendersi cura, perché proprio tale struttura vivente lo incarnerebbe? Perché gli individui autozoografantesi sarebbero degni di attenzione etica, e non solo una parte di essi? La nota sul valore morale che seguirà dovrebbe chiarirlo.

13.  Per una discussione di tale concetto a partire da alcuni strumenti teorici forniti da Derrida, ci permettiamo di segnalare A. Munforte, Per un’ontologia antispecista, in «Liberazioni. Rivista di critica antispecista», XI, n. 41, 2020, pp. 14-25.

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8.1. Nota sul valore morale Per fare luce su quanto si è voluto affermare sin qui, è bene soffermarci un momento su un’idea implicita nella maggior parte delle etiche analizzate in questo cammino (e non solo), e cioè che l’unico ente morale davvero degno di attenzione etica sia l’essere umano. Si è infatti sentito spesso, non si esagererebbe dicendo troppo, che tra l’“uomo” e l’“animale” vi sia una differenza abissale14. Concentriamoci sul primo termine: “differenza”. A un primo sguardo si potrebbe dire che vi sono molte differenze: l’arte, la tecnologia, la parola, la scienza… ma anche tra gli altri animali, tra loro e loro e tra loro e noi, s’intende, vi sono innumerevoli differenze. Dunque nulla di speciale l’uomo, se tutti con tutti sono assai differenti gli uni dagli altri. Quello che si pretende è che però vi sia una differenza abissale. Ora concentriamoci su questo secondo termine. Esso implicherebbe che l’essenza dell’uomo lo tragga fuori dal “genere” (animale) in cui, in quanto sua “specie”, è inscritto. Al di là delle varie definizioni, che in fondo girano quasi tutte intorno alla simbolicità15,

14.  Uno su tutti Heidegger, che scrive: «si tratta di questo […] se e come l’animale possa, in generale, apprendere qualcosa in quanto qualcosa, qualcosa in quanto ente, oppure no. Se non lo può, l’animale è separato dall’uomo da un abisso» (M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – Finitezza – Solitudine, tr. it. di P. Coriando, il melangolo, Genova 1999, p. 337). 15.  L’uomo è “l’animale che possiede il linguaggio, il logos, la ragione…”; certo sono state avanzate definizioni anche di altra natura, come «l’Uomo è l’unico animale dotato di anima […] l’unico animale con la capacità di realizzare azioni politiche o morali; l’unico animale in grado di utilizzare strumenti, di celebrare riti funebri, di anticipare la propria morte; l’unico animale che ride o l’unico animale che piange; l’unico animale che danza, che compone musica, che scrive, che risponde, che prova empatia, che sogna, che sa far di conto; l’unico animale […] storico, ecc.…» (M. Filippi, Questioni di specie, cit., p. 44).

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alla capacità di simbolizzare dell’uomo, possiamo in un primo momento anche accettare questo: l’uomo è animale simbolico, in quanto nessun altro animale, per quanto si sappia, è in grado di simbolizzare. Forse sarebbe meglio aggiungere nel modo in cui simbolizza l’uomo, perché non è implausibile che qualcosa di simile, “analogo” vorrebbero che si dicesse alcuni, accada in altre specie. Il punto è che questa “simbolicità”, per essere ciò che si pretende che sia, dovrebbe rappresentare un tratto essenziale in un senso che lo vuole come totalmente assente in altre specie16, le quali dunque, qualora in qualche modo simbolizzassero, lo farebbero in maniera analoga e non simile alla nostra. Ora, è plausibile tenere fermo che il segno dell’umanità nell’uomo sia la sua capacità di simbolizzare; modi simili di intenderla, anche più raffinati, li abbiamo già incontrati nella prima sezione della presente trattazione: ma bisogna pensare fino in fondo cosa ciò implichi, se si sente il bisogno di pensarlo e specificarlo in questo modo. Se le cose stanno come poc’anzi affermate, se “umano” è così definito, allora non tutti gli uomini sono umani. È evidente. E sarebbe anche pacifico se non si volesse tenere insieme questa sorta di mania definitoria e la superstizione che sia l’“umanità” ciò che ha valore morale. Anche tra gli uomini, infatti, vi sono innumerevoli differenze e certo non tutti, per svariate ragioni, possiedono tale “capacità” simbolica: che tali individui non siano enti morali? Che non siano degni di attenzione etica? Simili conclusioni fanno rabbrividire e aprono

16.  «[…] l’idea secondo cui esisterebbe un tratto presente, senza eccezioni, in tutti gli umani e assente, senza eccezioni, in tutti gli altri animali – divisione alquanto improbabile, soprattutto alla luce delle acquisizioni della biologia darwiniana e post-darwiniana che mostrano come le specie si differenzino per grado (distribuzione differenziale di capacità e caratteristiche condivise) e non per genere (la capacità o la caratteristica è presente o è assente)» (ibidem).

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scenari di cui la storia è stata testimone innumerevoli volte; in questa atmosfera concettuale, chi incontrasse un uomo semanticamente perduto, anziano, o una persona con deficit cognitivi, non potrebbe, a rigore, per ciò che si è detto e supponendo che ciò che si è detto sia vero, incontrare un umano, cioè un portatore di umanità, e, perciò, un portatore di valore morale; ma se ciò che ha valore morale è ciò che mette in discussione la spontaneità di un agente, eccome, incontrando individui simili, che le spontaneità degli agenti vengono messe in questione: chiunque considererebbe come minimo criminale chi non lo riconoscesse. Perché? Quegli individui hanno valore morale, nel senso che è giusto riconoscerglielo, ma non è la presenza in loro di una “umanità” male o peggio definita a conferirglielo: perciò si deve abbandonare questo pregiudizio una volta per tutte e cogliere la vera carne del valore morale. Per questa ragione abbiamo proposto di concentrare la riflessione sul carattere autozoografantesi di certe forme di vita. Le cose cui viene di norma riconosciuto un valore sono quelle che, per la loro struttura materiale, si conservano meglio nel tempo, e a seconda della loro capacità di perseverare in ciò che sono, mantenendo la loro integrità e identità, ne posseggono ora più, ora meno; basti pensare ai metalli preziosi e agli oggetti di scambio di questo tipo. Tale conferimento di senso accade in ambito intra-umano forse perché si ha l’intrinseco conatus di strappare qualcosa alla caducità che intesse l’infinito divenire del mondo; e così per analogia hanno anche valore tutte quelle cose che permettono la conservazione del proprio corpo (cibo, bevande, dimore…). Quel valore che chiamiamo morale è esso stesso un segno del tempo, figlio della sua logica, e conseguenza della finitudine e vulnerabilità ontologica intrinseca degli individui autozoografantesi. L’azione etica ne è interessata perché nel suo rafforzare lo sforzo in exsistere, o meglio, nell’intensificare e estendere l’estrinsecazione di dynergia, riconosce lo stesso motus exprimendi in ogni individuo del gene-

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re; tale riconoscimento avviene quando si comprende la natura dell’espressività dynergica, che non si svolge secondo un egoismo centripeto, ma centrifugo: e così la sofferenza e il dolore che la soffocano vengono identificati, in sé e negli altri, come male. La possibilità di morire, auto-affettivamente cosciente e sempre presente agli individui autozoografantesi, che li determina in questa forma exsistendi, dischiude perciò la dimensione morale propria di questi enti. Se quanto abbiamo scritto sin qui ha un senso, chi a questo punto sottraesse loro (agli individui autozoografantesi) valore morale, come forse farebbe un Heidegger ad esempio, proponendo magari sofisticate distinzioni terminologiche per salvare la specialità umana17, dovrebbe privarsene lui stesso. Infatti per il filosofo di Sein und Zeit18 solo l’esserci, cioè gli esseri umani19, morirebbe davvero, in quanto capace di anticipare la propria morte e dispiegandosi esistenzialmente nella sua forma essenziale grazie a questa possibilità, mentre gli altri animali, ignari del loro destino e perciò privati del tempo, “cesserebbero di vivere” e basta. Ora, si potrebbero anche accogliere queste distinzioni di significato se tutto ciò avesse un senso, e magari per qualcuno ce l’ha, nonostante si potrebbe dimostrare che approfondendole sino ad arrivare all’essere-per-la-­morte

17.  Scrive Heidegger: «la morte dell’animale è un morire o un cessare di vivere? Poiché lo stordimento fa parte dell’essenza dell’animale, questo non può morire, ma soltanto cessare di vivere, visto che attribuiamo all’uomo il morire» (M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., p. 232). 18.  M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976 (19701). 19.  Non ci spendiamo nel distinguere e definire le categorie heideggeriane perché riteniamo non abbia qui alcun senso, e perciò tagliamo corto identificando “esserci” e “essere umano”; segnaliamo però che si potrebbe mostrare, anche in questo luogo, che non tutti coloro che in genere vengono considerati “esseri umani” siano propriamente dei Dasein.

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autentico e inautentico in ambito intra-umano si generano delle conseguenze etiche a dir poco aberranti20; quello che si deve rifiutare di accogliere, però, se il nostro discorso ha una consistenza, è che non è il “morire”, nel significato che gli dà Heidegger, a dischiudere quello che abbiamo chiamato valore morale, ma piuttosto, allora, il “cessare di vivere”. La temporalità propria dell’“uomo”, senza per ciò dire che sia “posseduta esistenzialmente” da tutti gli uomini, è senza dubbio condizione di possibilità del riconoscimento riflessivo, per dir così, del valore morale, e porta con sé certo tante altre conseguenze; ma non è per questo condizione necessaria della sua incarnazione, come gli occhi sono condizione di possibilità di vedere i colori, ma non sono condizione necessaria per essere colorati. La dimensione della moralità non è aperta da quella relazione che viene chiamata intersoggettività, laddove con ciò si intenda quanto orbiti negli studi sulle pratiche di soggettivazione e produzione dell’autocoscienza umana, ma piuttosto da quella che chiamiamo intercorporalità21, che riguarda invece il livello

20.  Tali distinzioni condurrebbero infatti all’«inquietante ambiguità con cui Heidegger descrive la morte nei campi di sterminio: essa non è una morte autentica, che comporta l’assunzione individuale della propria morte come la possibilità della più alta impossibilità, ma soltanto un altro processo industriale-tecnologico anonimo: le persone non “muoiono” veramente nei campi, sono solo sterminate su scala industriale. Heidegger suggerisce che le vittime assassinate nei campi in qualche modo non muoiano “autenticamente”, traducendo così tutta la loro sofferenza in una “non autenticità” soggettiva. La questione che non solleva è precisamente come esse soggettivizzavano (si relazionavano al) la loro tragedia. La morte era davvero un processo di sterminio industriale per gli esecutori, ma non per le vittime» (S. Žižek, Meno di niente. Hegel e l’ombra del materialismo dialettico, 2 voll., tr. it. di C. Salzani e W. Montefusco, Ponte alle Grazie, Milano 2013, vol. II, p. 427). 21.  Diciamo “corporalità” invece che “corporeità”, poiché questo secondo termine sembra riferirsi più al corpo-cosa che al corpo sensuale e autozoogra­ fantesi.

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della costruzione di comprensione affettiva reciproca propria della autozoografia. Perciò il dynergismo, pur essendo una forma di spinozismo, si distacca dal dettato di Spinoza, che considera i corpi umani simili solo tra loro e assai diversi da quelli degli altri animali, decretando la loro esclusione dal circuito della sua etica; egli infatti scrive: la legge che proibisce di ammazzare gli animali è fondata piuttosto sopra una vana superstizione e una femminea compassione anziché sulla sana ragione. Il dettame della ragione di ricercare il nostro utile prescrive, bensì di stringere rapporti di amicizia con gli uomini, ma non coi bruti o con le cose la cui natura è diversa dalla natura umana.22

Noi diremmo, piuttosto, appoggiandoci a Bookchin, che gli altri animali sono differenti dagli esseri umani, ma non diversi, perlomeno per quanto riguarda il loro valore morale: in quanto enti autozoografantesi infatti sono simili ed è questa somiglianza a importare a livello etico, non il “possesso della ragione” o tratti analoghi, come abbiamo visto. Il dynergismo afferma dunque, infine, che il vero valore morale è incarnato da ogni individuo che esista nel modo dell’apertura autozoografantesi. Vogliamo sottolineare l’individualità e l’unicità23 di ogni singolo portatore di valore morale; questi infatti non si deve pensare come dissolvibile in categorie come quella di “specie” o genere”, ma deve essere compreso nella sua irriducibilità: ad esso riconosciamo, con Spinoza, «il supremo diritto […] ad esistere ed operare a seconda di come è naturalmente determinato»24. È chiaro, dunque, che il dyner22.  Eth. S., IVP37s1. 23.  Nel senso forte che conferisce M. Stirner all’Unico ne L’unico e la sua proprietà, tr. it. di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1979. 24.  B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cit., cap. 16, §§ 2-3, p. 1005.

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gismo fa proprio il traguardo raggiunto da un certo utilitarismo istanziato nell’allargamento della cittadinanza morale agli altri animali non umani. Cosa ciò comporti a livello iteco, ed etico nel suo complesso, è quanto andremo a scoprire nei paragrafi che seguono.

9. Iteca dynergista Il dynergismo afferma che l’azione giusta e virtuosa è quella che approfondisce l’espressione di dynergis di un individuo; questa sarà tanto più intensa e ampia quanto più (r)accoglierà quella altrui: ogni individuo ha diritto ad autorealizzarsi estrinsecando le potenzialità più proprie che possiede nella sua relazione con l’ambiente in cui si trova a vivere. È bene fugare subito un problema che potrebbe essere sollevato, e cioè: se si è detto che ogni ente autozoografantesi ha, in virtù della sua forma vitale, valore morale e insieme il supremo diritto a realizzarsi dynergicamente, ma anche che il vero passaggio a una perfezione maggiore può avvenire solo nella direzione di un egoismo centrifugo e non centripeto, come si conciliano queste istanze con la conflittualità propria della vita? È sotto gli occhi di tutti che l’espressività dynergica può implicare l’altrui distruzione, come si legge nella catena alimentare. Ma l’iteca dynergista non chiede a nessuno l’auto-eliminazione; il suo fondamento morale è infatti l’individuo nella sua unicità e irriducibilità atomica; semmai essa afferma che, per quanto è possibile senza distruggere la propria individualità, l’incremento della propria potenza è legato all’incremento di quella altrui, e si è più intensamente gioiosi quanto più estesamente la propria azione approfondisca la realizzazione dynergica. Come scrive Spinoza: «[…] se […] due individui di natura del tutto identica si uniscono l’uno all’altro, qui vengono a formare un individuo

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due volte più potente che ciascuno singolarmente»25; se si aggiunge a ciò la tesi forte che vogliamo sostenere in queste pagine, e cioè che la natura morale degli enti autozoografantesi è identica nelle loro infinite differenze specifiche, si chiarisce la nostra conclusione iteca: per quanto possibile, si deve agire realizzandosi dynergicamente comprendendo ed estendendo l’estrinsecazione dynergica degli altri individui morali. Le condizioni di possibilità che influenzano una più o meno estesa realizzazione dynergica sono molteplici: l’epoca in cui si vive, il livello di sviluppo tecnologico che si ha a disposizione, le conoscenze scientifiche… Tutto questo ha un peso fondamentale nella comprensione di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, di ciò che si può o meno fare, e perciò anche di ciò che si dovrebbe compiere. Nel prossimo capitolo dedicheremo alcune pagine alla produzione industriale di carne utilizzando le lenti del dynergismo, per fornirne una sua interpretazione; possiamo anticipare, come sarà già chiaro, che rappresenta a nostro avviso un fenomeno oltremodo sbagliato, il cui perpetrarsi non può che rimettere in discussione quanto si è sempre pensato, con poche eccezioni nei millenni, della relazione tra l’uomo e gli altri animali: ma di questo avremo modo di parlare più avanti. Quello che ora ci preme fissare è che l’iteca dynergista propone di comprendere la propria gioia all’interno di un sistema di relazioni assai vasto che si incarna in moltissime forme di Grammetica vivente, tutte saldate tra loro; la realizzazione dynergica di un individuo si compie nelle azioni che, per quanto gli è possibile, aumentano l’approfondimento di dynergis altrui: chi distrugga la gioia di chi ha valore morale non per la necessità di continuare a perseverare nel proprio essere, ma credendo di accrescere così, in qualche modo, la sua felicità, non sa quello che sta facendo, e non è davvero fe-

25.  Eth. S., IVP18s.

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lice come invece potrebbe essere. Per queste ragioni si è voluto dare al termine “Grammetica” un senso così ampio; esso rappresenta il multiforme sistema di comportamenti che gli individui autozoografantesi acquisiscono per perseverare nel loro essere, di cui l’Etica della scrittura vivente umana, nelle sue numerose varietà e formulazioni, è un suo tipo di istanziazione: questi diversissimi posizionamenti nel mondo sono accomunati da quella particolare forma di abitarlo che abbiamo chiamato “autozoografia”, in cui si fonda la dimensione morale. Riteniamo perciò che una grammetica umana debba comprendere la logica vivente in cui è inscritta per dare risposte soddisfacenti alle sue istanze etiche; non comprendere quello che si è chiamato il movimento del valore, cioè le ragioni dinamiche del prodursi del valore morale e il sostegno dynergico che lo preserva e lo approfondisce, significa, a nostro avviso, mettersi nella condizione di darsi risposte immaginifiche e superstiziose. Per queste ragioni e per indicare la direzione rappresentata dall’iteca dynergista, è bene ora comprendere il meccanismo che regola lo strutturarsi vivente degli individui autozoografantesi: l’auto-imitazione.

9.1. Auto-imitazione In una cornice ontologica spinoziana come quella abbracciata in queste pagine, in una visione del mondo cioè che rifiuti ogni tipo di finalismo, provvidenza e libero arbitrio, bisogna capire come gli individui apprendano i comportamenti necessari alla loro sopravvivenza. Riteniamo che l’analisi offerta da Gianfranco Mormino nel suo Per una teoria dell’imitazione del meccanismo auto-imitativo che sta alla base della possibilità di sopravvivenza di ogni animale rappresenti la dinamica vitale fondamentale di ogni ente autozoografantesi, e che in esso si possa rintracciare una direzione iteca cruciale per la piena espressione dynergica di un individuo: in questo luo-

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go ci limiteremo solo a richiamare gli elementi principali del meccanismo auto-imitativo e a trarne le dovute conseguenze iteche, poiché una sua discussione approfondita ci prenderebbe troppo spazio, e non avremmo inoltre nulla di nuovo da aggiungere a quanto è già stato scritto nel testo sopra citato. Quando un cucciolo di una qualsiasi specie viene alla luce non possiede nessun tipo di istinto innato o schema motorio finalizzato alla sua sopravvivenza; se così non fosse, infatti, non si spiegherebbe il gran numero di neonati che non sopravvivono alle prime fasi della vita. Quello che si può riconoscere e constatare con facilità è che i viventi animali vengono al mondo trovandosi in una condizione di bisogno che li accompagnerà per tutta la vita; essa è da loro percepibile mediante un dolore, il trovarsi in una situazione di disagio, da cui cercano di liberarsi: l’unico strumento con cui un neonato può farle fronte, se non è in possesso di conoscenze innate o pre-­esperienziali, è muoversi a caso (una parte del suo corpo, o tutto), finché non cessa. Questo è quanto viene chiamato «moto esplorativo»26 e si arresta quando il vivente s’imbatte in qualcosa che gli piace, che, si può presumere, nei primi tempi non sia altro che la cessazione della situazione dolorosa o di disagio in cui versava; è importante sottolineare la dimensione casuale di tale movimento, in quanto «esplorare non è lo stesso che “andare in cerca di qualcosa”: manca del tutto la dimensione teleologica che è implicita nel cercare e che presupporrebbe una qualche conoscenza del proprio corpo e di quelli circostanti»27. Qui entra in gioco l’auto-imitazione: l’individuo, esplorando l’ambiente circostante, conserva le tracce del piacere incontrato mediante i movimenti casuali del suo

26.  G. Mormino, Per una teoria dell’imitazione, Cortina, Milano 2016, p. 35. 27.  Ibidem.

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corpo e li replica auto-imitandosi quando gli si presentano situazioni simili. L’auto-imitazione, cioè ripetere un movimento compiuto in precedenza, è una sorta di selezione naturale per ciò che ogni individuo fa, velocissima, «è il modo con il quale un’abilità trovata attraverso il semplice “provare” viene ripetuta e acquisita, divenendo patrimonio dell’individuo»28. È chiaro che questo meccanismo non riguardi ogni forma di vita, ma solo quelle dotate di sensibilità (per la percezione del dolore e del piacere) e di memoria (per la conservazione dei movimenti vantaggiosi), ossia di quegli enti che si producono come individualità viventi grazie e mediante le tracce che il mondo inscrive nei loro corpi e che i loro corpi inscrivono nel mondo e su di sé, cioè degli enti autozoografantesi che incarnano la Grammetica animale: imitarsi è utile e l’imitazione di sé viene a sua volta imitata, individuando la loro modalità essenziale di comportamento. È subito chiaro che questa prospettiva si riverberi in ambito intra-umano con importanti conseguenze circa l’educazione e l’imposizione di modelli. Una società che costringa i suoi membri a soggettivizzarsi secondo standard e identità che confliggono con i bisogni e le potenzialità proprie dei loro corpi non può che produrre soggetti la cui espressività dynergica è compromessa. Poiché anche l’imitazione degli altri passa attraverso una propria auto-imitazione, cioè un apprendimento corporeo reiterato e approfondito secondo le personali capacità di un individuo, i modelli di comportamento non devono essere imposti ma proposti; ogni soggettività infatti, tessendoli autoimitativamente su di sé, deve poterseli scucire se essi la costringono in uno spazio che impedisce l’incremento della sua potenza: perciò per il dynergismo, come per Mill e Aristotele, l’educazione, in un senso da approfondire, è fonda-

28.  Ivi, p. 40.

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mentale. I modelli di virtù, cioè di vita potente e gioiosa, che dovrebbero essere i più gratificanti, determinano nel loro semplice svolgersi un’estensione di estrinsecazione di dynergis, in quanto, se auto-imitati e così inscritti dagli individui su di sé, incrementano la potentia agendi di chi li incarna. È chiaro che tali modelli differiscano al variare delle configurazioni storiche, delle circostanze e delle possibilità presenti in una certa epoca; l’iteca dynergica vuole assicurarsi che l’educazione si svolga sotto il segno della presentazione di exemplares che incrementino la potentia agendi degli individui e non li soffochino in un’infelicità da cui è difficile liberarsi, riconoscendo come il meccanismo fondamentale dell’auto-imitazione negli enti autozoografantesi rappresenti la bussola con cui questi possano arrivare a comprendersi ed esprimersi dynergicamente al meglio: credo che una nozione accettabile di “eticamente valido” sia quella che non impone ad alcun vivente uno sradicamento dalle proprie modalità di vita; un’etica “conservativa”, dunque, la cui regola fondamentale consiste nel diritto di ciascun vivente di esplorare il mondo sotto la spinta dei propri bisogni, in continuità con quanto avviene nelle primissime fasi dell’esistenza. […] Il male […] nasce dunque […] dall’imposizione di modelli unici e totalizzanti a corpi inevitabilmente diversi l’uno dall’altro. La stabilità nel perseguire le proprie modalità di esistenza è un valore per ogni vivente, come manifesta la tenace resistenza di tutti gli animali, umani e non, ai cambiamenti imposti dall’esterno.29

Ora che abbiamo affrontato la dimensione morale con la sua fondazione e la dimensione iteca con la sua fondazione, possiamo completare quella del dynergismo definendo le sue rimanenti categorie (gramm)etiche.

29.  Ivi, p. 95.

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10. La (gramm)etica dynergista Il dynergismo è una postura etica che riconosce valore morale a ogni animale e ritiene sia buona ogni azione che intensifichi ed estenda l’estrinsecazione delle potenzialità proprie di ogni ente morale, nei limiti del rispetto dell’aspetto morale presente in ogni agente; perciò il dynergismo è un individuolismo in cui il valore dell’individuo precede quello della totalità e gliene conferisce, ma per cui l’autorealizzazione non può essere slegata dal rafforzamento dynergico del mondo in cui l’individuo vive. Cogliamo così l’occasione per muovere una breve critica a ogni forma di “olismo”, tra cui quello recente di certo ambientalismo, che voglia sciogliere il valore morale dell’individuo in quello dell’ambiente in cui si trova; ogni sistema che faccia precedere in valore la totalità ai suoi membri contiene il seme di un totalitarismo e manca di cogliere in cosa si incarni il vero valore morale. Il valore morale non è qualcosa che si possa accumulare o scambiare, un suo portatore non è un oggetto che si possa sacrificare in nome di un bene più ampio: chi lo incarna è in esso intensivamente ogni bene, in quanto valore non divisibile o sommabile. Questo non significa che un individuo non debba “sacrificarsi per un bene più ampio” qualora lo ritenesse opportuno e esprimesse con tale azione un’autentica intensificazione ed estensione di estrinsecazione dynergica, ma solo che un’etica valida, a nostro avviso, non impone a nessun individuo simili azioni: perciò il dynergismo è un individuolismo, lo ripetiamo, e afferma che l’individuo e il suo perseverare in suo esse vengano prima della totalità e delle interpretazioni antropomorfiche che si danno del suo bene. Ora, precisando (anche se non dovrebbe essere necessario) che l’azione viene intesa dal dynergismo in accezione spinoziana, e cioè non (arbitrariamente) libera ma sempre necessitata, seguendo l’Esagono della (Gramm)etica proposto dovremmo aver chiarito che cosa sono il bene, il male, l’azione, la morale e l’iteca dynergista, ma ci manca il dovere. La dimensione

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normativa dynergista è diretta implicazione del riconoscimento della sua validità ontologica; se si accetta che gli individui autozoografantesi hanno valore morale, che la loro intrinseca costituzione corporea li spinge a cercare di incrementare la propria potenza, esprimere la loro dynergis, e in ciò vivere la loro gioia, e accettato che l’espressione di dynergis è tanto più intensa e ampia quanto più rafforza quella altrui, non si può che agire di conseguenza e tentare di divenire ciò che si è, se possiamo permetterci questa citazione. Così se la vita buona è la vita che esprime la propria dynergia al massimo grado, si deve perseverare nella propria esistenza non trascurando e soffocando l’altrui autorealizzazione, ma anzi trovando in essa parte importante della propria. Perciò diciamo che il dynergismo è antispecista, antirazzista, antitotalitarista (individuolista) e femminista. Esso presenta il primo vantaggio, seppur marginale, di non concepirsi in opposizione antitetica a certe posture nel mondo, come i primi tre aggettivi con cui lo abbiamo definito lasciano immaginare (cosa che a nostro avviso rappresenta pur sempre un limite teorico); e il secondo, più consistente, vantaggio di raccogliere le loro lotte di liberazione entro un unico orizzonte concettuale. Inoltre, se un’etica ha come fine il guidare un individuo verso la sua felicità facendolo agire rettamente, e se la gioia corrisponde a un incremento della potentia agendi, secondo quello che chiamiamo il criterio della potenza un’etica sarà tanto più valida quanto più permetterà il passaggio a una maggiore perfezione; e se, come si è detto, più individui che condividano una natura (morale) simile “sommano” la propria estrinsecazione dynergica; e se «tutta la natura è un unico Individuo le cui parti, cioè tutti i corpi, variano in infiniti modi senza alcun mutamento dell’Individuo totale»30: l’etica più potente, che permette cioè

30.  Eth. R., IIl7s.

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di agire di più, sarà quella che massimamente favorirà la realizzazione dynergica degli individui morali. Così, immaginando che il proprio corpo sia legato al corpo di ogni altro individuo morale, quanto più si lascerà essere l’altro in quanto altro, nei limiti della propria potenza s’intende, tanto più si sarà potenti e gioiosi, non solo del perseverare in proprio esse ma anche di quello di tutti gli individui che verranno raggiunti e incoraggiati in ciò dalla propria azione. Per queste ragioni riteniamo che, secondo il criterio poc’anzi proposto, il dynergismo si presenti come una via robusta per incrementare la gioia in un mondo che è un campo di forze in relazione e volontà di potenza31, mondo di volontà di attività e realizzazioni della potenza di individui, “potenza” nel senso di ampiezza agentiva e potenzialità intrinseche. Così, certo – come diceva Aristotele – è ancora la felicità cui l’etica deve condurre, ma la felicità non è quella che pensava lo Stagirita; ella non è vincolata a classi gerarchiche ma invece legata alla realizzazione dynergica unica e atomica di ogni individuo32, cui è rimessa la fatica di comprendere il proprio posizionamento nel mondo: perciò non vi è una via etica data una volta per tutte, o una felicità estroindotta da postulate finalità naturali, ma si procede sempre comprendendo e agendo ciò che di volta in volta, nell’esplorazione della vita, si riveli essere un estensore di estrinsecazione dynergica, performandolo autoimitativamente sì da trasformare la virtù in un abito.

31.  Non nel senso nietzscheano, il quale sembra, nei modi in cui ricorre nei suoi scritti, identificarsi spesso di più con volontà di potere. 32.  Infatti: «ogni individuo è assolutamente unico nelle sue modalità di esplorazione dell’ambiente e nelle sue preferenze verso la ripetizione di questa o quella azione. Gli individui non sono ordinabili in classi, così come non sono ordinabili in specie perfettamente chiuse. A renderci diversi è tutto: la costituzione fisiologica, la sensibilità al dolore e al piacere, le cose in cui ci siamo imbattuti nell’esperienza» (G. Mormino, Per una teoria dell’imitazione, cit., p. 94).

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Quanto si è detto sin qui dovrebbe rendere conto di ciò che si è chiamato nella scorsa sezione il “respiro universale” che un’etica dovrebbe avere. Abbiamo cercato di raccogliere nel dynergismo le virtù che ci sembra possiedano le etiche in precedenza analizzate e di evitare, per quanto possibile, gli “errori” in cui sono incappate, spingendo nella direzione di un’endoinclusione33 storica delle etiche nell’etica, dinamica che si presenta come già implicitamente in atto da millenni, forse non a sufficienza tematizzata; si vuole cioè qui proporre di leggere la storia delle etiche via via affermatesi come momenti importanti per comprendere quali sentieri percorrere e quali no, come cantieri da cui prendere elementi per costruire nuove navi che conservino ciò che di meglio è stato pensato in precedenza per la realizzazione dynergica: così, in un certo senso, si possono rileggere i sentieri dell’etica battuti come esposizioni particolari della ricerca alla migliore espressione di dynergis, e nel dynergismo il tentativo di raccoglierne alcuni frutti.

11. Una soluzione all’enigma Cortés Ora che abbiamo terminato di tratteggiare i principali assi di una proposta etica e ne abbiamo esibito la sua fondazione, possiamo tornare all’enigma Cortés con cui abbiamo aperto il capitolo, per vedere come il dynergismo gli risponde. Tale enigma domandava: per quale ragione un individuo, qualora si trovasse nella posizione di avere il massimo potere su altri individui e fosse insieme incoraggiato, dall’ambiente in cui si trova (fami33.  Mutuiamo questo termine da A. Zhok, Il concetto di valore: dall’etica all’economia, Mimesis, Milano 2001, in cui viene coniato per «descrivere la natura di inclusione progressiva “a scatole cinesi” tra unità d’azione» (ivi, p. 64). Noi lo intendiamo qui come “inclusione progressiva delle virtù delle etiche nell’etica”.

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glia, città, paese…) e dai suoi appetiti, nella direzione di compiere su di loro i crimini più orribili, dovrebbe astenersi dal fare del male se è nelle condizioni di farlo senza conseguenze per lui spiacevoli? Il dynergismo risponde approfondendo la via di Spinoza in questo modo: poiché gli individui rappresentati dal popolo azteco sono enti morali, Cortés, agendo come ha agito, ha estirpato la loro realizzazione dynergica, e ha soffocato insieme alla loro la sua; chi si trovi nella possibilità, e non nella necessità, di far del male a uno o più individui percorre un sentiero che lo rende più debole invece che più forte, più infelice invece che più gioioso: e nessuno vuole davvero essere infelice, quando può essere lieto. La domanda da porsi è: quale mia azione aumenterà in intensità e in estensione l’estrinsecazione di dynergis nel mondo? Se Cortés se lo fosse chiesto e avesse agito di conseguenza, non sarebbe avvenuta quella tragedia.

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VI

Alcune linee di indagine

1. La produzione industriale di carne e la “questione animale” Nella seconda metà dell’Ottocento, secolo che conobbe importanti fenomeni di inurbazione, industrializzazione e massificazione, Chicago si affermò come un modello nella produzione industriale di carne, sperimentando metodi che avrebbero fatto scuola non solo in quel campo. «Nel 1865 furono inaugurati gli Stock Yards, i più grandi mattatoi del mondo, che già nel 1868 avevano la capacità di ospitare simultaneamente 21.000 manzi, 75.000 maiali e 22.000 ovini»; il cuore del suo meccanismo produttivo consisteva nell’utilizzo di un insieme di macchinari che permettevano di macellare e utilizzare ogni parte del corpo degli animali che arrivavano da «tutto l’ovest degli Stati Uniti»1; mediante il complesso sistema ferroviario che andava perfezionandosi ed espandendosi sempre più, insieme alle moderne macchine di refrigerazione, la carne ivi prodotta poteva coprire il territorio nazionale e dai suoi porti essere esportata

1.  L. Caracciolo - A. Roccucci, Storia contemporanea. Dal mondo europeo al mondo senza centro, Le Monnier, Firenze 2017, p. 186.

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in tutta Europa. Chicago fu inoltre la prima città a inventarsi la “carne in scatola”, nel 1874, e così a investire nel consumo di massa, «aspetto decisivo nei processi di trasformazione della società: alimenti sempre e ovunque disponibili (almeno in potenza), standardizzati (la misura uniforme data dalla scatola), prodotti in maniera seriale»2. Il modo in cui si operava allo smembramento degli animali all’interno degli Stock Yards fu perfino di ispirazione per Henry Ford e per l’organizzazione del lavoro umano all’interno delle industrie: il primo nastro convogliatore fu utilizzato in sede industriale proprio negli impianti di macellazione di Chicago e la catena di smontaggio (disassembly line) degli animali macellati fu il modello per la catena di montaggio (assembly line) dell’industria automobilistica. Lo sfruttamento estremo della manodopera spinta al massimo della produttività era l’altro pilastro di questo sistema industriale […].3

Come è noto, rispetto a un secolo e mezzo fa la situazione attuale di produzione industriale di carne è straordinariamente superiore, nonostante i numeri che già si registrava in quegli anni a Chicago fossero molto alti. Per avere un’idea delle proporzioni cui si è giunti oggi nel campo alimentare, e in tutti gli altri ambiti in cui ci si serve dei corpi degli altri animali per avere qualche tipo di risultato, riportiamo i seguenti dati: il numero degli animali macellati ogni anno nel mondo per produrre alimenti varia, a seconda delle stime – sempre datate e verosimilmente imprecise per difetto –, tra i 15 e i 70 miliardi, senza contare gli animali di piccola taglia, i cui cadaveri vengono venduti a tonnellaggio. Tra questi i pesci uccisi a scopi alimentari raggiungono una cifra astronomica compresa tra i 37 e i 120 miliardi all’anno […] 115 milioni (sempre all’anno) sacrificati nei laboratori per la ricerca bio-

2.  Ivi, p. 187. 3.  Ivi, pp. 186-187.

263 medica, veterinaria e militare, per la didattica nell’ambito delle discipline biologiche e per i test di tossicità richiesti da tutte le legislazioni per la commercializzazione di qualsiasi prodotto con cui gli umani possono entrare in contatto […] vanno aggiunti gli animali che muoiono sul lavoro nei circhi, negli zoo e negli acquari, quelli che costituiscono le vittime designate di attività “sportive” o “ricreative”, quali caccia, pesca, ippica, fiere e gare, quelli che invece sono vittime collaterali di un’urbanizzazione sempre più invasiva […] quelli trasformati in capi e accessori di abbigliamento, quelli che non rispondono agli standard commerciali degli allevamenti “pet” […].4

La portata di tale fenomeno è tale da richiamare l’attenzione di chiunque vi si soffermi anche solo per un istante: è la cosiddetta “questione animale”. In questa sede si vorrà solo mostrare quale posizione assuma il dynergismo nei suoi confronti e quali indirizzi suggerisca di prendere. Una trattazione completa ed esaustiva di simile fenomeno richiederebbe un percorso a parte che esula dagli obiettivi del presente cammino. L’analisi muove dai tre aspetti dell’etica con cui abbiamo familiarizzato nel precedente capitolo. Innanzitutto rivolgiamoci alla dimensione morale e domandiamo: gli individui sopra citati che ogni anno vengono uccisi in un numero così elevato sono enti morali? La risposta è sì, in quanto sono enti auto­ zoografantesi, pur nelle incredibili differenze che li separano l’uno dall’altro, e perciò bisogna ancora domandare: è possibile che tutto ciò non avvenga? Gli esseri umani in quanto attori di queste pratiche e autori di un simile “conteggio della morte” hanno la necessità di perpetrarle per incrementare la loro potenza? La risposta è no e, anzi, a livello iteco un simile massacro pregiudica una piena realizzazione ed espansione di estrinsecazione di dynergis nel mondo. La configurazione storica in 4. M. Filippi, Questioni di specie, cit., pp. 24-25.

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cui ci troviamo, le conoscenze acquisite in campo alimentare, le reti di comunicazione stradali, aeree e marine, le tecnologie per il trasporto, la conservazione del cibo e per la produzione di oggetti, tutto questo (e molto altro) traccia il perimetro che ogni etica contemporanea deve pensare ed entro cui si formula; perciò bisogna domandare: che possibilità di abitare il mondo si hanno oggi che non si avevano cento, duecento, diecimila anni fa? Il dynergismo afferma che si deve, per quanto possibile, incoraggiare la realizzazione dynergica di ogni ente morale lasciando l’altro libero di essere in quanto altro e, poiché la propria auto-realizzazione si compie nell’orizzonte di circostanze in cui ci si trova ad operare, l’etica dynergista si impegna a studiare, accogliere e proporre tutti quei modi di abitare il mondo che ampliano l’incremento delle potenze individuali; questi si concretizzano al livello delle scelte personali nel modo in cui i singoli soddisfano i loro bisogni, e al livello delle scelte collettive nelle azioni volte a scardinare le posture nel mondo che soffocano l’espressività dynergica. In questo senso la piattaforma ecologica di Næss, di cui abbiamo parlato in precedenza, rappresenta uno strumento operativo molto utile. Tuttavia ci sembra anche opportuno sottolineare una sua criticità di cui è bene non dimenticarsi. Come è noto, il problema della crisi climatica è conosciuto da un numero sempre più ampio di individui e si è giunti a un punto in cui è nell’interesse di tutti agire in qualche modo per arginarlo. Sono sempre più noti anche i legami sussistenti tra allevamenti intensivi, le coltivazioni immense poste al servizio della nutrizione di animali destinati al consumo umano, la connessa deforestazione, e la crisi climatica. Perciò nell’opinione pubblica sembra affacciarsi in maniera lenta, ma sempre più chiara, l’idea che una risposta efficace al disastro ambientale passi anche dal cambiamento nel modo in cui ci si alimenta; e insieme avanza la convinzione che nutrirsi di altri animali sia sbagliato perché non-“ecofriendly” e “inquinante”, ma non perché

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gli altri animali siano enti morali: questo riteniamo che sia un grosso problema. Se quanto abbiamo scritto sin qui ha un senso, l’ordine delle ragioni in simili “ambientalismi” è invertito: abitare il mondo nel modo dello sfruttamento sfrenato degli (altri e non solo) animali in ogni campo è sbagliato perché essi sono enti morali e non è inoltre affatto necessario dominarli in tale maniera per vivere un’autentica realizzazione dynergica. I connessi problemi ambientali, certo importantissimi, vengono, a nostro avviso, dopo queste considerazioni; un loro ridimensionamento mediante “mutamenti di dieta” sono un guadagno consequenziale, e non la ragione per trasformare le pratiche di relazione con gli altri animali: fraintenderlo significa non comprendere chi abbia valore morale e cosa ciò implichi. Secondo la logica della piattaforma di Næss questo tipo di ambientalismo e il dynergismo, che come si è detto è antispecista, o animalista, possono unire le forze su diversi livelli operativi; e tuttavia, a nostro avviso, come nella risoluzione di un’equazione i passaggi che portano alla conclusione possono essere giusti, ma se il segno in alto è scorretto il risultato viene sbagliato, bisogna chiarire con fermezza i cosiddetti principi primi: confusioni assiologiche circa il valore morale degli individui possono portare, nonostante l’ampiezza di risultati condivisi, a posture etiche inaccettabili per il dynergismo, che, limitando lo sfruttamento animale per ragioni secondarie, invece che incoraggiare un suo superamento, lo “coprirebbero” finché non si scoprisse come perpetrarlo eco-friendly. Ma gli esseri umani e gli altri animali hanno valore morale in quanto enti autozoografantesi e perciò sono individui degni di attenzione etica che devono essere rispettati nella loro libertà di espressione dynergica. In conclusione, il dynergismo affronta la questione animale posizionandosi accanto a tutti i movimenti di liberazione dell’animalità che riconoscono negli enti autozoografantesi ciò che ha valore morale; le direzioni operative che invita a seguire sono

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quelle che incrementano l’intensità e l’estensione di estrinsecazione di dynergis del maggior numero possibile di individui morali; l’ambiente e il “paesaggio” hanno un valore derivato dal valore degli individui che lo abitano e devono essere curati in vista della loro fioritura esistenziale: un individuo è tanto più potente quanto più la sua espressione dynergica, nello svolgersi della sua vita, incoraggi e accolga quella altrui, essendo la propria potenza moltiplicata nelle attività che libera e intensificata nell’ampiezza di gioia che incrementa.

2. Libero arbitrio e pena Il dynergismo, abbracciando la metafisica spinoziana, è una posizione che rifiuta la credenza nel libero arbitrio: le righe che seguono tenteranno di indicare quali direzioni di riflessione si aprono in campo giudiziario-penale se si intende accoglierne le istanze. Se gettiamo un occhio al sistema maggioritario con cui le società umane hanno pensato la pena per chi trasgredisca le norme che le strutturano, ci si accorge subito che si è per lo più articolato secondo una logica retribuzionista che rendesse “il male a chi ha fatto del male”; hanno fatto scuola le pagine di Sorvegliare e punire5 di Foucault in cui viene analizzata l’evoluzione del desiderio di vendetta che anima la “Giustizia” umana nelle sue istanziazioni punitive e carcerarie. Questa logica è sostenuta dall’idea che le persone siano libere di scegliere quello che fanno e che dunque in luogo di un delitto compiuto si sarebbe potuto fare in modo diverso, ma poiché in modo diverso non è stato fatto e il delitto ha avuto luogo, si ritiene l’autore del reato cattivo in quanto l’ha libe-

5.  M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, tr. it. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 2014.

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ramente voluto compiere; chi è libero di scegliere come agire si merita di essere punito se commette degli errori in virtù proprio della responsabilità che gli deriva da tale potere. In precedenza abbiamo avuto occasione in più luoghi di criticare l’idea che una simile facoltà abbia una qualche realtà ed ora dobbiamo domandare: se non vi è libero arbitrio, allora non vi sono più nemmeno responsabilità? In un certo senso no. E come si fa con i “criminali”? Li si lascia liberi di fare ciò che vogliono perché tanto non potrebbero fare in modo diverso? Anche a quest’ultima domanda bisogna rispondere di no. Si tratta qui di capire che se non vi è libero arbitrio è necessario anche cambiare la logica retribuzionista e vendicativa che anima i nostri concetti e organi di giustizia; non ha infatti alcun senso punire qualcuno perché ha fatto qualcosa di sbagliato una volta date le cause che l’hanno determinato in quel senso: poste le cause, seguono per necessità gli effetti. Così, al contrario di quanto solletica gli appetiti peggiori dell’opinione pubblica, non ha alcun senso, a nostro avviso, spingere e invocare pene più dure per gli autori dei reati; la punizione esemplare può anche avere un effetto deterrente (nonostante vi siano degli studi che ne minimizzano molto la portata)6 e rendere ai telespettatori un qualche senso di giustizia: ma tale sentimento è perverso in quanto fondato su un assunto sbagliato, la credenza nel libero arbitrio, e in quanto favorisce un sistema che si preoccupa di intervenire solo sugli effetti, i crimini compiuti, mentre ignora le cause concrete e reali che li hanno prodotti. Si capisce quanto sia poco utile tutto questo. Gli autori dei reati, i cosiddetti “criminali”, sono il risultato di

6.  Cfr. G. Forti, L’immane concretezza. Metamorfosi del crimine e controllo penale, Cortina, Milano 2000, pp. 524-554; C. Mazzucato, Consenso alle norme e prevenzione dei reati. Studi sul sistema sanzionatorio penale, Aracne, Roma 2005, pp. 68 ss.; L. Eusebi, Sviluppi normativi per una giustizia riparativa, in «Minori giustizia», n. 1, 2016, pp. 33-40.

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complesse circostanze storico-culturali-sociali concrete ed è su queste che bisogna soprattutto intervenire; certo, un individuo pericoloso per la società deve essere fermato e non gli deve essere permesso di perpetrare azioni violente, ma se ci si limita a ingabbiarlo e buttar via la chiave senza lavorare sul contesto che l’ha soggettivato in quel modo (contesto sociale, familiare, abitativo, di istruzione, lavorativo…), il problema non viene affatto risolto ma aggravato: bisogna perciò comprendere che se si vuole parlare di responsabilità, in ogni crimine che si verifica vi è una corresponsabilità dello Stato che non ha saputo agire prima che il reato avesse luogo intervenendo sulle condizioni socio-vitali del contesto che ha determinato l’autore del reato ad essere ciò che è diventato. L’autore del reato non deve perciò essere punito perché cattivo, perché avrebbe potuto fare in modo diverso, ma deve essere fermato e dovrebbe essergli offerta la possibilità di partecipare a un percorso rieducativo; si devono inoltre comprendere le ragioni concrete a monte che lo hanno determinato in quel modo e bisogna lavorare a quel livello per impedire davvero che simili azioni si ripetano. Nell’orizzonte di incrementare l’estensione d’estrinsecazione di dynergis appare dunque chiaro che le carceri devono essere ripensate e ristrutturate nel senso di divenire centri di rieducazione e non luoghi in cui si può dar sfogo a una violenza istituzionalizzata che vorrebbe pareggiare una violenza precedente, la quale non può che rimanere impareggiabile, irrisolvibile e incancellabile. Perciò il dynergismo può fornire un appoggio concettuale a tutti quei percorsi giudiziari che si ispirano all’approccio della giustizia riparativa; questa infatti rappresenta una modalità di risoluzione dei conflitti per molti aspetti antitetica a quelle tradizionali, prediligendo il dialogo e il confronto rispetto alle logiche di contrapposizione del processo penale: i percorsi di giustizia riparativa, nella straordinaria varietà in cui possono articolarsi a seconda della complessità dei diversi

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casi, prevedono fondamentalmente l’organizzazione di incontri volontari tra autori del reato e vittime con la presenza di un mediatore7. Questi dialoghi vengono intrapresi con l’obiettivo di aiutare sia le vittime di un reato a superare quanto subito mediante una partecipazione attiva nella ricerca di risposte per ciò che è accaduto – cosa che un tribunale non può offrire in quanto i processi vengono subiti sia dagli autori dei reati sia dalle vittime – sia di riavvicinare il consenso delle persone che hanno violato norme ai precetti interni che le guidano, operando nella direzione di una loro rieducazione. In questo solco si inserisce la teoria della responsive regulation formulata da Ayres e Braithwaite8, la quale propone una modalità di regolamentazione di diversi ambiti che dovrebbe incentivare i singoli al rispetto delle norme. Ayres e Braithwaite immaginano una enforcement pyramid9 (o regulatory) che raffigura la modalità di regolamentazione che intendono introdurre: tale piramide è suddivisa in sezioni orizzontali che corrispondono ai diversi tipi di risposta che si dovrebbe intraprendere di fronte a un reato; alla sua base trovano spazio gli interventi interlocutori come quelli proposti dai percorsi di giustizia riparativa, che rappresentano i provvedimenti maggiormente consigliati; a salire si incontrano modalità di azione sempre più coercitive che dovrebbero riguardare un numero in proporzione inferiore di casi10. Tutto questo viene pensato nell’ottica di “recuperare” gli autori dei reati incentivandoli al rispetto delle norme 7.  Cfr. G. Bertagna - A. Ceretti - C. Mazzucato, Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto, il Saggiatore, Milano 2015. 8.  Cfr. I. Ayres - J. Braithwaite, Responsive Regulation. Transcending the Deregulation Debate, Oxford University Press, New York-Oxford 1992; e il sito di Braithwaite: http://johnbraithwaite.com/responsive-regulation (ultima consultazione: 23 febbraio 2022). 9.  Cfr. I. Ayres - J. Braithwaite, Responsive Regulation, cit., p. 35. 10.  Braithwaite ha fornito molteplici proposte di piramidi a seconda del contesto in cui utilizzarle, come si può vedere nel suo sito poco sopra citato.

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mediante azioni più morbide e in forza della loro istruzione al funzionamento di tale sistema, al fine di stimolarli ad attivarsi in una direzione opposta a quella intrapresa al momento della violazione delle norme. La consapevolezza dell’ordine delle risposte giuridiche e della possibilità di salire e scendere attraverso i diversi livelli della enforcement pyramid favorirebbe gli individui nel loro determinarsi, per utilizzare la lingua di Spinoza, come cause (il più possibile) adeguate di quanto accade loro, sottraendoli alla logica retribuzionista che mette in scena “buoni” e “cattivi” da premiare e da punire. Riteniamo perciò, in conclusione, che il dynergismo debba dialogare con le realtà giudiziarie della giustizia riparativa e della responsive regulation, insieme a tutte le dimensioni analoghe e antitetiche alla tradizionale concezione retribuzionista della pena e della giustizia. L’etica dynergista infatti è in sintonia con le istanze che le muovono, in quanto postura fondata nel valore morale irriducibile degli enti autozoografantesi e itecamente rivolta al massimo incremento possibile in intensità ed estensione d’estrinsecazione di dynergis degli individui morali, di cui autori di reati e vittime sono esempio.

3. Dynergis ed estetica L’ultima direzione di indagine che vogliamo aprire si muove in campo estetico. Il dynergismo, infatti, volendo essere un posizionamento nel mondo che permetta al massimo grado di esprimere la dynergis individuale, riconosce nella creazione artistica un esempio calzante di azione che incrementa la propria e altrui potenza. Sarebbe dunque interessante approfondire le relazioni dynergiche che sussistono tra artista e opera d’arte e tra questa e i suoi fruitori. A una sua lezione, ricordando il maestro Giovanni Piana, Elio Franzini ha esordito dicendo:

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“l’arte è qualcosa che fa pensare molto”. Il verbo “pensare” è da intendersi in senso kantiano, poiché qui vuole indicare una dimensione che va oltre al conoscere e che non è vincolata alle sue categorie. Su questa frase si potrebbe sostare a lungo, essendo essa proposta come una definizione volutamente aperta e vaga; la proponiamo torcendola in un senso spinoziano e dynergico: cosa accade a un corpo che gode di un’esperienza artistica? Come e perché, se accade, la sua potentia agendi ne risulterebbe aumentata? Ne Il vagabondo delle stelle11, Jack London racconta la storia di un uomo incarcerato a San Quentin, a nord di San Francisco, in una cella di isolamento e condannato alla pena di morte, che scrive le sue memorie nei tre giorni prima dell’esecuzione; tra le torture inflittegli dai carcerieri e l’amicizia che stringe con altri due prigionieri in isolamento, con cui comunica mediante un linguaggio segreto che si articola nel battere le nocche sui muri, si legge dei “viaggi” che compie attraverso una tecnica auto-ipnotica chiamata “piccola morte”, la quale gli permette di sopportare giorni di camicia di forza e di vivere, in una sorta di metempsicosi, vite di uomini svoltesi in altre epoche. Ricordando la trama di questo splendido romanzo (o meglio, raccolta di racconti) si vuole approfondire le domande poco sopra sollevate: citando Deleuze12, cosa può un corpo? Fin dove si estende la sua potentia agendi, finanche immaginativa, quando è impedito in ogni movimento dalle circostanze esterne? Di qui concludiamo proponendo una terza area di interesse estetico-estesiologico, domandando: che relazione sussiste tra la creazione artistica, che amplia incredibilmente la propria 11.  J. London, Il vagabondo delle stelle, tr. it. di S. Manferlotti, Adelphi, Milano 2005. 12.  Cfr. G. Deleuze, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, tr. it., a cura di A. Pardi, Ombre corte, Verona 2013 (20071).

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espressività dynergica, e quella sorta di “ricaduta” che pare coinvolgere molti artisti, spingendoli spesso a pratiche autodistruttive che invece sembrano limitare la loro potentia agendi? Che legame c’è tra morte, arte ed espressività dynergica? *** Quelle tratteggiate in questo capitolo sono solo alcune linee di indagine interessanti per un’analisi a partire dalle categorie del dynergismo. Certo, seguendo questi sentieri si evade dalla dimensione etica in senso proprio, campo di interesse della presente trattazione, per rivolgersi verso l’orizzonte più ampio di quella che chiamiamo “Dynergilogia”, di cui il dynergismo è istanziazione, appunto, etica. La dynergilogia si presenta come quella prospettiva che interroga la realtà nelle relazioni di realizzazione di dynergis degli oggetti d’indagine in questione, fornendo un criterio di valutazione assiologica delle specifiche pratiche nel loro incrementare o limitare l’espressività dynergica. Questa apre uno scenario tutto da esplorare, di cui in questo capitolo si sono proposti solo tre ambiti di approfondimento, ma che, a nostro avviso, può rappresentare un ulteriore strumento di lettura del reale in molte altre circostanze.

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Conclusioni

Il nostro cammino giunge così al suo termine, che certo non è affatto una fine, ma piuttosto un abbrivio. Allo scopo di interrogare l’eredità culturale in cui ci troviamo inscritti, frequentando la circolarità che interessa ogni discorso di questo tipo, l’abbiamo indagata immaginandola non come una ricorsività irresolubile, ma come una spirale che può condurre la riflessione più in profondità: la necessità inevitabile nell’esistenza di ognuno di performare una qualche postura etica richiede perlomeno lo sforzo di domandarsi chi si sia, chi si voglia diventare e perché. Così ci siamo rivolti all’importante teorizzazione di Kant sui fondamenti della morale. Abbiamo visto che secondo il filosofo di Königsberg solo la volontà può dirsi buona senza limitazioni e la sua bontà consiste proprio nel determinarsi scegliendo massime che si conformino alla legge morale per dovere e non per ragioni esterne ad esso, come inclinazioni personali o il desiderio di guadagnare qualche sorta di vantaggio; la volontà razionale finita, in quanto tale, non può che provare rispetto per la legge morale, in cui riconosce l’unica guida per una vita degna di felicità e che le si presenta come un comando assoluto; tuttavia questo imperativo categorico non è imposto

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“da fuori”, ma è la volontà stessa a darselo essendo autrice del vincolo con cui si lega alla normatività della legge morale, in quanto razionale: come risultato della ricerca del principio supremo della moralità Kant ottiene dunque l’autonomia della ragione nel suo esser pratica, cioè nel determinare la volontà, la quale indica la necessità di pensarla sotto l’idea della libertà, vero e proprio fondamento dell’etica kantiana. Quest’ultima presenta però il problema insolubile della valutazione morale altrui e personale, in quanto l’agente, nel determinarsi liberamente in un certo o in un altro modo, non potrà mai davvero sapere se si è comportato in modo retto, cioè se ha agito in conformità al dovere per dovere e non in conformità al dovere per qualche recondito stimolo dell’amor di sé; il prezzo del raggiungimento del “sommo bene”, virtù insieme alla felicità, è a livello metafisico troppo caro in quanto necessita di postulare l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio, oltre che la libertà della volontà; il circuito morale kantiano individua i suoi membri, i fini in sé degni di attenzione etica, in coloro che sono “portatori di umanità”, in quanto soggetti di possibile volontà buona, cioè soggetti alla legge morale in grazia della loro razionalità, ed esclude perciò tutti quegli individui, umani e non, che non istanziano un’“umanità” così intesa, esclusione che troviamo inaccettabile; infine, la necessità di postulare la libertà del volere, nel modo in cui l’argomenta, rappresenta un carico metafisico troppo pesante per essere accettato. Sgombrando il campo da quelle che sono sembrate le difficoltà più gravi della proposta kantiana, abbiamo potuto poi scorgere quello che è a nostro avviso il suo più grande pregio, e cioè la sua ambizione all’universalità: un’universalità non intesa come astorica imposizione normativa, ma come scommessa in un potenziale riconoscimento intersoggettivo della validità di una postura etica che apre un campo razionale di discussione e dialogo, per principio (anche se con ogni probabilità mai di fatto) aperto a una concordia universale.

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L’utilitarismo invece pone attenzione più alle conseguenze delle azioni che alle intenzioni che le muovono e valuta la loro bontà secondo il principio di utilità; le azioni giuste da compiere sono quelle utili, che massimizzino il piacere medio (per Bentham quantità omogenea, per Mill valore con discontinuità qualitative) e così la felicità generale, o che massimizzino variazioni del valore di riferimento come l’utilità sociale media di un atto contata a partire dalle preferenze informate (Hare) o il livello medio di utilità di una regola comportamentale tenendo conto delle preferenze vere (Harsanyi). Abbiamo descritto le difficoltà, che si presentano più come un’impossibilità, contenute nell’idea di una calcolabilità del valore etico (omogeneo o meno) ed anche le confusioni assiologiche che ne potrebbero derivare; abbiamo constatato come questo modo di svolgere la riflessione in etica possa condurre a una decisa distanza dalla realtà che rischia di mancare il senso stesso che dovrebbe animarla; e infine che la ricerca di un sistema normativo che riduca le scelte morali a una sorta di computazione soffoca quel farsi carico di sé che alimenta la propria identità e integrità, un aspetto certo importante dell’etica. Tra le sue virtù abbiamo analizzato la razionalità, punto di partenza e di investimento dell’utilitarismo, rappresentata da un criterio attraverso il quale chiunque, in linea di principio, può riconoscere cosa sia giusto e sbagliato; perciò gli utilitaristi rivendicano un grande spazio per l’educazione corretta della cittadinanza e la difesa della sua libertà di pensiero e opinione (secondo aspetto da conservare); infine l’utilitarismo che segue la scuola di Bentham è giunto ad argomentare in favore di un’estensione della “cittadinanza morale” anche ad animali non umani, punto teorico assai importante nella direzione di una chiarificazione circa quali enti siano degni di attenzione etica. Al termine della prima sezione abbiamo incontrato Aristotele e la sua “etica delle virtù”, il cui scopo principale è quello di comprendere in che cosa consista la felicità umana e come rag-

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giungerla; necessaria a questo fine è, appunto, la virtù, medietà tra due vizi, che indica l’eccellenza di una certa azione sulla base delle circostanze in cui un uomo, in forza della sua specificità, la produce; la felicità è dunque intrecciata alla virtuosa realizzazione delle funzioni proprie di una persona e così, poiché l’essenza dell’umanità è data dalla razionalità, la felicità più perfetta per gli uomini consiste nel giusto esercizio della parte più alta di siffatta facoltà; ma gli uomini non sono tutti uguali tra loro e perciò ognuno deve capire qual è la sua funzione e il suo ruolo a partire dalle sue “capacità” (status sociale). Come si è detto l’etica di Aristotele soffre di una grave astoricità che la rende, nei suoi contenuti particolari (virtù specifiche e categorizzazione morale), inagibile e inaccettabile; l’unità delle virtù che prevede è da rifiutare e così una loro rigida definizione come punto medio tra due estremi; la distruzione dell’ontobiologia aristotelica operata in età moderna e contemporanea porta con sé il rifiuto dell’idea che vi siano finalità in natura e un’entelechia estroindotta propria di ogni suo ente, e perciò si impone un ripensamento della materia della felicità umana; allo stesso modo la sua politica, fondata su questa biologia metafisica, presenta molte categorie che oggi non sono nemmeno passibili di discussione circa una loro qualche validità teorica. Tuttavia abbiamo compreso che l’idea di virtù come abito che ci si tesse addosso nel performarla non va affatto abbandonata, ma semmai ripensata nei suoi contenuti specifici, che ai giorni nostri dovranno essere differenti da quelli che ha immaginato Aristotele; e così, infine, è bene anche conservare il proposito dell’etica di essere una guida per il modo retto di vivere e per giungere alla felicità, riplasmandone senza dubbio la sostanza. Percorsi alcuni dei più importanti sentieri della riflessione etica occidentale, nella seconda sezione abbiamo stravolto le coordinate concettuali tradizionali muovendo da Spinoza; egli infatti si presenta come un’“anomalia” nella storia del pensiero e apre a una dimensione diversa da quelle incontrate in pre-

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cedenza. Abbiamo attraversato alcuni momenti cruciali della sua metafisica, su cui si fonda la sua etica, e analizzato alcune immediate conseguenze della causa sui/Deus sive Natura: il riconoscimento del determinismo universale, la distruzione della superstizione nel libero arbitrio e l’eliminazione del finalismo dalla natura. Ci siamo poi rivolti all’analisi di ciò che il filosofo ha chiamato conatus, cioè lo sforzo a perseverare nella propria esistenza che rappresenta l’essenza propria di ogni cosa, e di quel particolare conatus che è l’essere umano, la cui essenza ha definito cupiditas; ci siamo allora addentrati nella sua concezione “prospettica” di bene e male, fondamentale per comprendere cosa sia l’autentica felicità e come raggiungerla. Quest’ultima si presenta come una dimensione rara, accessibile per i pochi che riescono a comprendere davvero il loro posizionamento nell’universo e liberarsi dalle passioni che li rendono infelici, raggiungendo quella beatitudine che è un vero e proprio paradiso in terra; si è mostrato inoltre come la felicità non possa essere limitata a una condizione privata ma si incrementi all’aumentare della gioia delle persone che si ha intorno. È proprio in vista di simili vantaggi che gli uomini si uniscono e “investono” la loro potenza nello Stato, il quale è tanto più forte e utile quanto più democratico; infatti la democrazia, in senso spinoziano, lasciando liberi i suoi cittadini nel pensiero e nella parola, e mantenendo le condizioni migliori per la loro realizzazione esistenziale, favorisce in sommo grado la felicità dei suoi membri e assolve così al compito principale dello Stato: difendere la libertà1 dei suoi sudditi. Abbiamo incontrato poi Arne Næss, pensatore contemporaneo che ha contratto un grande debito intellettuale con Spinoza: egli è uno dei fondatori dell’ecologia profonda, della quale

1.  «Il fine dello Stato, dunque, è la libertà» (B. Spinoza, Trattato teologicopolitico, cit., p. 1113).

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abbiamo analizzato gli scopi e la piattaforma in cui si articola. La concezione della natura che il filosofo norvegese assume è grossomodo quella del filosofo olandese; essa sostiene i contenuti normativi dell’etica proposta da Næss, la quale vuole affrontare l’enorme problema della crisi climatica che angoscia i nostri tempi e favorire una convivenza pacifica sul pianeta tra le forme di vita che lo abitano, a partire dalla comprensione dei meccanismi fondamentali che lo regolano; abbiamo infine appurato che anche la visione della felicità di Næss è spinoziana e consiste in quella che egli chiama “auto-realizzazione”. Ci siamo rivolti poi all’ecologia sociale di Bookchin, sotto molti rispetti diversa dall’ecologia profonda di Næss, e, anzi, per intenzione del suo stesso autore contrapposta a quest’ultima; la natura dell’anarchico newyorkese è dialettica nella sua struttura e la ragione umana, momento importante dell’evoluzione della natura stessa, può rintracciarvi, comprendendo le sue linee potenziali di sviluppo, cosa è giusto o meno fare. Nonostante le distanze che Bookchin preferirebbe tenere nei confronti di Næss, abbiamo argomentato su come le loro concezioni generali della natura non siano così incompatibili, perlomeno nell’intendere l’umanità come una porzione della natura stessa e non qualcosa di altro da essa; abbiamo inoltre visto come i concetti di causa adeguata (Spinoza), auto-realizzazione (Næss), estrinsecazione delle potenzialità proprie di un ente (Bookchin) puntino nella stessa direzione. In una loro sintesi abbiamo così rintracciato il concetto di dynergis, cuore della proposta etica che abbiamo chiamato “dynergismo”. Prima di adoperarci alla sua costruzione e presentazione abbiamo sollevato quello che ci è piaciuto definire l’“enigma Cortés”, il quale, a nostro avviso, deve essere risolto da ogni etica che si ritenga valida, a cui perciò anche quanto siamo andati proponendo in queste pagine dovrà rispondere. Ci siamo mossi poi nella direzione di ripensare l’etica tradizionale, intesa come ambito di riflessione filosofica, offrendone una chiari-

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ficazione logico-strutturale: al fine di approfondirne meglio i contenuti e i risultati, si sono mostrate le ragioni per cui ciò che di norma s’intende con “etica” debba essere inserito nello spazio più ampio di quella che abbiamo chiamato “Grammetica”, e cioè l’“Etica della scrittura vivente, la logica vitale generale che governa il modo animale di abitare il mondo”; abbiamo poi distinto in questo termine scritto con la maiuscola, mediante l’indicazione grafica delle parentesi tonde, e cioè scrivendo “(Gramm)etica”, anche il significato di “categorie generali dell’Etica umana”, le quali sono, come vuole essere reso chiaro dal nome, strettamente dipendenti dall’ampio universo esistenziale di cui sono istanziazione; si è poi distinto nel termine “grammetica”, con la minuscola, il significato di “definizioni particolari delle categorie generali dell’Etica umana operate da un’etica specifica” e quello di (gramm)etica come “modo specifico di un’etica particolare di mettere in relazione le sue categorie costitutive e produrle dinamicamente”; abbiamo così proposto un breve accenno alle grammetiche kantiana, utilitarista, aristotelica e spinoziana per chiarire quanto avanzato poco sopra. Ci siamo allora impegnati a definire quell’aspetto chiamato “Morale”, il quale non si è voluto qui intendere né nell’accezione classica hegeliana né come sinonimo di “Etica”, ma invece si è precisato come “la parte dell’Etica che individua certe classi di individui da lei contenute come importanti, cioè gli enti cui viene riconosciuto valore”, e il corrispettivo con la minuscola come “il valore degli enti di cui l’azione di un’etica particolare si interessa, cioè degli individui cui una determinata postura nel mondo riconosce lo statuto di contare all’interno delle pratiche relazionali”. Il terzo e ultimo aspetto con cui abbiamo tentato di approfondire il concetto di Etica è ciò che abbiamo chiamato Iteca, in quanto anagramma della parola “Etica” (per indicarne l’identità sotto un certo rispetto) e insieme per l’assonanza con la parola “Itaca”; l’Iteca infatti è stata definita come “la parte dell’Etica che si occupa di comprendere

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e indicare le articolazioni della postura esistenziale che si identifica con una vita buona”, e il corrispettivo con la minuscola individua la parte propria di un’etica particolare che si dedica a ciò. La distinzione di questi aspetti coessenziali in quello che si è chiamato “Triangolo dell’Etica” ([Gramm]etica, Morale, Iteca), è volta a evitare errori derivanti dalla confusione del posto e dal peso che ciascuno dei suoi “angoli” ha nella produzione di contenuti normativi. Per le stesse ragioni di chiarificazione concettuale abbiamo anche delineato il cosiddetto “Esagono della (Gramm)etica” (bene, male, azione, dovere, morale, iteca). Terminato questo lavoro preliminare ci siamo dedicati a tratteggiare la nostra proposta di fondazione dell’etica che abbiamo chiamato “dynergismo”, definendo i tre assi del Triangolo dell’Etica poco prima discusso. Ci siamo innanzitutto impegnati nella ricerca di ciò che ha valore morale, cioè degli enti degni di attenzione etica, e abbiamo argomentato in favore di una sua fondazione in quegli individui che abbiamo definito “enti autozoografantesi”; abbiamo proceduto poi alla delinea­ zione dell’iteca dynergista, la quale, appoggiandosi alla teoria dell’auto-imitazione, si struttura intorno all’idea che, per quanto possibile, si deve agire realizzandosi dynergicamente comprendendo ed estendendo l’estrinsecazione dynergica degli altri individui morali; abbiamo infine completato la nostra fondazione tentando di illuminare gli ultimi aspetti non analizzati dell’“esagono della (gramm)etica” dynergista e proponendo il “criterio della potenza” per valutare la bontà delle etiche particolari e del dynergismo stesso: si è sottolineato così il suo carattere antispecista, anti-razzista, anti-totalitarista (indivi­duolista) e femminista. Infine, abbiamo offerto la nostra soluzione all’enigma Cortés. Nello svolgersi dell’argomentazione si è cercato di raccogliere via via le virtù delle posizioni etiche studiate nella prima sezione e di evitare le difficoltà in cui esse ci è parso si fossero trovate. Conclusa questa prima e senza dubbio parziale fondazione

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dell’etica dynergista, abbiamo aperto alcune linee di indagine che sarebbe interessante approfondire servendosi delle sue categorie, quali: la produzione industriale di carne e l’inerente “questione animale”; la relazione tra dynergismo e la logica del sistema penale; e infine il rapporto che sussiste tra dynergis ed estetica. Queste ultime sono solo tre direzioni di riflessione che ci è sembrato opportuno indicare a partire da quanto indagato in precedenza e alcune evadono, come è evidente, la dimensione etica in senso proprio che interessa la presente trattazione. Esse conducono infatti a quell’universo più ampio che abbiamo chiamato “Dynergilogia”, la quale intende profilarsi come il campo di ricerca che studia gli oggetti presi in considerazione nelle loro relazioni dynergiche e, allo stesso tempo, come criterio di valutazione assiologica delle pratiche in esame, che siano etiche, politiche, economiche od estetiche e via dicendo. Il dynergismo è la sua istanziazione etica e la versione che abbiamo disegnato in queste pagine è senza dubbio assai limitata e passibile di approfondimenti e interpretazioni differenti. Ciò che si voleva provare qui è un tentativo di fondazione ontologica solida di un’etica che sappia confrontarsi con i problemi del nostro tempo e farli propri nel suo costituirsi come postura nel mondo, ma anche costruire un criterio di valutazione etica delle pratiche, all’indietro e in avanti: si potrebbe così aprire una disamina dynergista della storia della filosofia morale passata, saggiando il valore delle posizioni in esame sulla base del criterio dynergico della potenza alla luce delle circostanze in cui sono state formulate, l’orizzonte epocale in cui erano raccolte, gli agenti in questione… così come sistemi presenti e futuri. L’universalità cui aspira il dynergismo non è astorica ma ben radicata nei differenti perimetri spazio-temporali selezionati; raccoglie e riguarda tutti gli individui morali e prescrive azioni specifiche, ma universali, nei rispettivi domini abbracciati dalla riflessione, secondo le potenzialità e le possibilità proprie dell’agente in oggetto.

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A quanto sia stato raggiunto di ciò che si voleva conseguire lungo questo cammino, chi scrive non può dare risposta: certo è che se ci ha condotti da qualche parte, nella terra dove ci fermiamo, più che una dimora dove riposare, incontriamo l’impegno di una città da costruire. Un inizio.

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Sitografia http://johnbraithwaite.com/responsive-regulation (ultima consultazione: 23 febbraio 2022).

Indice

Introduzione Prima sezione Sentieri I Immanuel Kant 1. La Fondazione della metafisica dei costumi 1.1. Che cosa è buono 1.2. Il dovere 1.3 La volontà razionale finita 1.4 Gli imperativi 1.4.1. Le formulazioni ausiliarie dell’impe rativo categorico 1.4.2. «Agisci come se la massima della tua azione dovesse, per tua volontà, dive nire una legge universale di natura» 1.4.3. La seconda formulazione ausiliaria: il principio dell’umanità 1.4.4. La terza formulazione ausiliaria e l’au tonomia della volontà 1.5 La libertà

p. 9

p. 19 p. 19 p. 21 p. 23 p. 30 p. 32 p. 35 p. 36 p. 38 p. 43 p. 49

2. Rilievi critici 2.1. Il problema della valutazione morale 2.2. Il prezzo del raggiungimento del “sommo bene” 2.3. Il fine in sé 2.4. La libertà del volere 3. Virtù 3.1. Universalità

p. 54 p. 54 p. 60 p. 65 p. 69 p. 71 p. 71

II L’utilitarismo 1. Un’etica consequenzialista 1.1. Jeremy Bentham 1.2. John Stuart Mill 2. Teorie utilitariste contemporanee 2.1 Richard M. Hare 2.2 John C. Harsanyi 3. Rilievi critici 3.1. Il problema della calcolabilità del valore etico 3.2. Confusione assiologica 3.3. Distanza dalla realtà 3.4. Claustrofobia imperativa 4. Virtù 4.1. Razionalità 4.2 Libertà e educazione 4.3 Cittadinanza morale

p. 81 p. 81 p. 82 p. 87 p. 91 p. 91 p. 96 p. 100 p. 100 p. 103 p. 106 p. 110 p. 113 p. 113 p. 114 p. 116

III Aristotele 1. Una scienza pratica 1.1. La felicità 1.2. La virtù 1.3. Il circuito dell’etica aristotelico

p. 121 p. 121 p. 122 p. 125 p. 131

2. Rilievi critici 2.1. Una grave astoricità 2.2. La concezione aristotelica della virtù 2.3. Finalità in natura 2.4. Aristotele e gli altri animali 3. Virtù 3.1. Premessa metodologica 3.2. La virtù come abito 3.3. Ciò che è bene

p. 135 p. 135 p. 140 p. 144 p. 145 p. 151 p. 151 p. 153 p. 155

Seconda sezione Dynergismo IV Baruch Spinoza e altri amici 1. L’ateo divino 2. Dio 2.1. Il determinismo universale 2.2. La superstizione del libero arbitrio 2.3. Eliminazione del finalismo dalla Natura 3. Potentia sive conatus 3.1. Bene, male e felicità 3.2. Libera necessitas 4. La beatitudine 5. Ius sive potentia. La democrazia 6. L’ecologia profonda di Arne Næss 6.1. La Natura 6.2. Auto-realizzazione 7. L’ecologia sociale di Murray Bookchin 7.1. La natura e la sua dialettica 7.2. I tre tipi di ragione 8. Luoghi di incontro tra Spinoza, Næss e Bookchin

p. 161 p. 161 p. 162 p. 167 p. 171 p. 175 p. 177 p. 180 p. 182 p. 185 p. 187 p. 192 p. 195 p. 199 p. 203 p. 206 p. 210 p. 214

V Dynergis 1. L’enigma Cortés 2. Ripensare l’etica 3. Grammetica 3.1. Cenni alle grammetiche kantiana, utilitarista, aristotelica e spinoziana 4. Morale 5. Iteca 6. Etica 7. Dynergismo 8. Morale dynergista 8.1. Nota sul valore morale 9. Iteca dynergista 9.1. Auto-imitazione 10. La (gramm)etica dynergista 11. Una soluzione all’enigma Cortés VI Alcune linee di indagine 1. La produzione industriale di carne e la “questione animale” 2. Libero arbitrio e pena 3. Dynergis ed estetica

p. 219 p. 219 p. 223 p. 225 p. 228 p. 231 p. 233 p. 236 p. 240 p. 241 p. 243 p. 249 p. 251 p. 255 p. 258 p. 261 p. 261 p. 266 p. 270

Conclusioni

p. 273

Bibliografia e sitografia

p. 283

Zeugma

Lineamenti di Filosofia italiana | Proposte Diretta da: Massimo ADINOLFI e Massimo DONÀ

1. Francesco Valagussa, La scienza incerta. Vico nel Novecento. 2. Alfredo Gatto, René Descartes e il teatro della modernità. 3. Fabio Vander, Ortologia della contraddizione. Critica di Heidegger interprete di Aristotele. 4. Ernesto Forcellino (a cura di), Verità dell’Europa. 5. Lucilla Guidi, Il rovescio del performativo. Studio sulla fenomenologia di Heidegger. 6. Armando d’Ippolito, Arte e metafisica delle forme. Creazione. Crisi. Destino. 7. Guido Bianchini, L’inquietudine dell’Altro. Ebraismo e cristianesimo. 8.  Pedro Manuel Bortoluzzi, Carlo Michelstaedter e la testimonianza della verità dell’essere. 9. Antonio Branca (a cura di), Possibilità. Dell’uomo e delle cose. 10. Federico Croci, Deus Terribilis. Quattro studi su onnipotenza e me-ontologia nel Medioevo.

11. Federica Buongiorno, La linea del tempo. Coscienza, percezione, memoria tra Bergson e Husserl. 12. Giuseppe Pintus (a cura di), Figure dell’alterità. 13. Marco Martino, Il sistema dei bisogni di Hegel. Un possibile itinerario. 14.  Maria Teresa Pansera, La specificità dell’umano. Percorsi di antropologia filosofica. 15. Massimo Donà - Francesco Valagussa (a cura di), Alterità e negazione. 16. Giuseppe Pintus (a cura di), Relazione e alterità. 17.  Maurizio Maria Malimpensa, La scienza inquieta. Sistema e nichilismo nella Wissenschaftslehre di Fichte. 18. Marco Bruni, La natura divisa. Hans Jonas e la questione del dualismo. 19. Nazareno Pastorino, Destino ed eternità di tutti gli enti. L’opera di Emanuele Severino. 20. Massimo Adinolfi, Qui, accanto. Movimenti del pensiero. 21. Giuseppe Gris, L’escatologia del destino. L’apocalisse del linguaggio nell’opera di Emanuele Severino. 22. Michele Ricciotti, Provare l’Io. Julius Evola e la filosofia. 23. Valentina Gaudiano, La filosofia dell’amore in Dietrich von Hildebrand. Spunti per una ontologia dell’amore. 24. Silvia Dadà, Il paradosso della giustizia. Levinas e Derrida. 25.  Giulio Goria, La filosofia e l’immagine del metodo. 26. Carmelo Marcianò, Essere epicurei. Divagazioni su Epicuro e noi.

27. Fabio Vander, Genesi e destino. Filosofia e onto-teologia del mysterium iniquitatis. 28. Massimo Villani, Time and History. Researches on the Ontology of the Present.

29. Massimo Villani, On Extension. Jean-Luc Nancy in the Wake of Hannah Arendt. 30.  Raul Buffo, Pensare dal riconoscimento. Paul Ricoeur e il sapere come evento intersoggettivo. 31.  Enrico Arduin, K. Bucefalo e i Cavalli del Dottore. 32.  Davide Monaco, L’Uno senza fondamento. Cusano tra neoplatonismo ed ermeneutica. 33.  Andrea Munforte, Dynergis. Lineamenti di fondazione dell’etica.

Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 33 - Proposte

Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà Comitato scientifico:

Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

ISBN ebook 9788855294331

Il volume indaga il problema della fondazione dell’etica. In un primo momento si dedica all’analisi e alla critica di tre sistemi etici “laici” che hanno avuto un peso decisivo e dominante nel pensiero morale occidentale: la filosofia pratica di Kant, l’utilitarismo nelle formulazioni di alcuni suoi autori classici (Bentham e Mill) e contemporanei (Hare e Harsanyi), e infine l’“etica delle virtù” di Aristotele. Questo confronto viene condotto non solo per avere una precisa illustrazione dell’area di indagine, ma anche con lo scopo di far propri i risultati più convincenti di ognuna delle riflessioni in esame e di aprire uno spazio teoretico in cui si possano coniugare e rinforzare l’un l’altro. Tale spazio viene cercato muovendo da un ripensamento della logica e della natura dell’etica, a partire dal quale viene avanzata la proposta di postura esistenziale chiamata “dynergismo”. Essa, radicandosi in un orizzonte di pensiero spinoziano, tenta di risolvere le difficoltà e di sintetizzare le virtù dei sistemi analizzati in precedenza. Andrea Munforte, nato a Milano nel 1997, ha studiato Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano, laureandosi in triennale con il Professor Carmine Di Martino e in magistrale con il Professor Gianfranco Mormino. Nel 2015 ha pubblicato Dio, il suo primo racconto, in una raccolta di 80144 Edizioni, e nel 2017 il romanzo noir Vivi da Impazzire (Il Seme Bianco). Ha scritto alcuni saggi per “Liberazioni – Rivista di critica antispecista”. Dal 2016 al 2021 ha studiato teatro ed è andato in scena come attore con il laboratorio attoriale della compagnia Puntoteatrostudio, per cui collabora come drammaturgo.

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