La filosofia moderna nel pensiero di Hegel
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Il bene dello Stato è la sola causa di questa produzione gaetano filangieri

Società di studi politici

Diotima Questioni di filosofia e politica

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gaetano Calabrò

la filosofia moderna nel pensiero di Hegel a cura di nicola Capone

la scuola di Pitagora editrice

Collana promossa dalla Società di studi politici.

Questo volume è pubblicato in collaborazione con l’istituto italiano per gli Studi filosofici.

Si ringrazia per la collaborazione Milena Cuccurullo, filippo Matrisciano e antonio Polichetti

Copyright © 2011 istituto italiano per gli Studi filosofici napoli, via Monte di Dio 14 www.iisf.it la scuola di Pitagora editrice Piazza Santa Maria degli angeli, 1 80132 napoli www.scuoladipitagora.it [email protected] iSbn

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Printed in Italy Stampato in italia nel mese di febbraio 2011 dalla tipografia Morconia Print s.r.l., Morcone (bn)

inDiCe

Premessa

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Prima lezione la ricostruzione hegeliana del pensiero moderno, ovvero, il moderno come concetto filosofico

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Seconda lezione la dialettica come superamento dell’opposizione fra antichi e moderni

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Terza lezione il problema (di) Cartesio

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Quarta lezione il carattere della filosofia moderna: l’idealismo oggettivo

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Postfazione di nicola Capone

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Premessa

le pagine che seguono sono tratte da un corso di lezioni tenuto nell’87 ad un gruppo di giovani studiosi nella sede dell’istituto italiano per gli Studi filosofici in napoli sul tema Hegel e il pensiero moderno. Ci si domandava cosa il filosofo della dialettica potesse dirci in un mondo, come quello presente, che sembra essere lontano da lui. Ci sembra che due aspetti giustifichino lo studio del suo pensiero oggi: la caduta della pregiudiziale antimetafisica, retaggio dell’ottocento, e il ritorno alla filosofia come problema, ovvero alla filosofia rivolta a giustificare sé stessa come pensiero autonomo, autocosciente. entrambi ci sono apparsi tali da giustificare il richiamo a Hegel. È infatti un paradosso del nostro tempo quello che, per un lato, ci allontana da lui, e, per l’altro ci lascia nella convinzione che abbia ancora da dirci una parola importante. Si sa che Hegel cercò la legittimazione dell’autonomia della filosofia rispetto

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alle altre forme del sapere mediante la sua storia. l’assunto è sintetizzato nella nota affermazione che «la storia della filosofia è la parte più intima della storia universale». lo studio di Hegel oggi significa comprendere, entro l’orizzonte del nostro tempo, larga parte della storia filosofica del secolo XiX. Comprendere la storia significa però non travisare a detrimento del vero e a vantaggio del presente la realtà non più evocabile di ciò che è accaduto una volta per tutte, ma rendere giustizia al fatto, proprio della storia della vita, che l’albero si giudica dai frutti, il padre dai figli. Se la storia non finisce con Hegel, vero è che non comincia con lui, almeno quella di cui possiamo propriamente parlare. Di qui la particolare importanza che assume la trattazione dell’epoca che definiamo correntemente l’età della filosofia e del pensiero moderni. fino al secolo XiX s’è detto che Hegel rappresentava l’epilogo, la conclusione della filosofia moderna, il Vecchio Testamento della filosofia, che doveva metter capo ad un cambiamento epocale. Che tale cambiamento ci sia effettivamente stato, e in che cosa sia consistito, è ancora sub iudice, è questione ancora aperta. Per quanto ci riguarda, dalla prospettiva del pensiero e della cultura italiane, va tenuto presente che l’incontro con Hegel, alle origini dell’idealismo italiano tra otto e novecento, avviene al riparo di quella che fu detta “la malattia del secolo”, quella decadence d’impronta neoromantica di cui, al contrario, erano pervase le correnti di pensiero d’oltralpe e d’oltreoceano. Questa volta il nuovo idealismo non ebbe da noi la ricchezza e soprattutto il drammatico contrasto razionalismo-irrazionalismo

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PreMeSSa

proprio dell’età romantica e volle presentarsi proprio nel nome di Hegel e della sua dialettica come l’assertore coerente della razionalità della storia e in virtù di esso si ritennero senz’altro superati, dopo averli risolti nel proprio sistema, così il razionalismo dell’illuminismo come quello del positivismo. la dialettica di Hegel, debitamente “riformata”, sembrò sanare l’“irrequietezza romantica”, e gli “opposti” furono riconosciuti come i normali fattori del divenire, senza che da essa potesse scaturire alcuna ragione sostanziale di dubbio e d’incertezza. Questo stato di cose continuò quasi senza variazioni di rilievo fino ai primi anni dopo la prima guerra mondiale, quando cominciarono i primi segni sporadicidi di crisi dell’idealismo. e la crisi fu alimentata soprattutto dai nuovi orientamenti politici, che valsero a dividere sul terreno pratico gli stessi idealisti, senza che si avesse una precisa coscienza della radice speculativa, filosofica, dei dissensi. l’accusa più grave che gli uni mossero agli altri fu appunto quella di irrazionalismo, e l’irrazionalismo fu da Croce etichettato come attivismo e quindi respinto nel generale decadentismo contemporaneo. Ma l’accusa fu ritorta mostrando come irrazionalistico fosse il dualismo tra teoria e pratica, che abbandonava l’azione all’immediatezza; e irrazionalistica la critica della scienza che abbassava questa a “pseudoconcetto”; irrazionalistico, infine, il concetto di “machiavellismo” e di politica come economia e di Stato come potenza. la verità era – come fu osservato1 – che riaffioravano e si precisavano nella polemi1

U. Spirito, Il problematicismo, firenze 1948, p. 153.

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ca, i motivi romantici dell’hegelismo, rimasti impliciti e trasfigurati nella forza logica del nuovo idealismo. Questo aveva creduto di potersi contrapporre al generale indirizzo del pensiero europeo contemporaneo e di poter rinnegare il proprio carattere romantico definendo Hegel antiromantico e classico, ma doveva finire col rivelare la sua vera essenza, tornando alle sue più profonde esigenze. Cadeva infatti la pregiudiziale antimetafisica, che aveva costituito lo sfondo della coesistenza tra romanticismo e positivismo, arte e scienza, caratteristica critica del pensiero italiano tra la fine del positivismo e il ritorno dell’idealismo. Dalla certezza ottimistica della dialettica e dalla visione dell’atto spirituale come continua “sintesi” superatrice si tornò alla coscienza della radicale antinomicità degli opposti insuperati. Con la crisi dell’idealismo, anche il pensiero italiano fu in tal modo investito dal relativismo della cultura europea e in genere occidentale e ai movimenti letterari e politici – come il dannunzianesimo, il futurismo, il pirandellismo e altri – che erano rimasti ai margini dell’indagine filosofica ed a cui s’aggiunsero poi l’esistenzialismo e il neopositivismo. Questi accenni alle vicende italiane hanno essenzialmente lo scopo di sottolineare, agli occhi dei più giovani che si rivolgono alla filosofia e agli studi filosofici per trovarvi risposte ai loro problemi, l’ampiezza e la profondità della crisi che viviamo. Pur nei loro limiti, queste pagine vorrebbero servire da orientamento. Quanto a Hegel, parlare oggi di lui significa presentarsi non in veste di fautori o di sostenitori d’un dato sistema di pensiero, per quanto d’eccezionale importanza e influenza esso sia

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PreMeSSa

stato e tuttora sia, piuttosto per comprendere meglio quegli aspetti del pensiero moderno che più trovano in lui rilievo e forza espressiva particolare. tocca infatti a noi mettere in pratica il detto di nietzsche: «occorre dubitar più a fondo».

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La fiLosofia moderna neL pensiero di HegeL

prima Lezione

La ricostruzione HegeLiana deL pensiero moderno, ovvero, iL moderno come concetto fiLosofico È stato, forse, un azzardo scegliere di trattare il problema delle origini della filosofia moderna quale si presenta nell’opera di Hegel, perché di per sé questo è un problema molto vasto, sia per i suoi contenuti, sia perché oggi esso assume il carattere di una benevola provocazione, dal momento che si fa un gran parlare di fine, di superamento, di conclusione del moderno. oggi è di moda parlare di post-moderno ed è diventato sempre più difficile rendersi conto di quello che qualche decennio fa in italia, e non soltanto in italia, era un punto ben fondato: l’esistenza di una filosofia moderna e la consapevolezza che questa filosofia avesse raggiunto il suo apogeo e il suo limite nell’immanentismo. e non tutte le posizioni, che con essa si volevano misurare, potevano trovare in quella filosofia un interlocutore, in quanto erano ritenute già superate, così come non era possibile trovare in essa, e questo è importante, una

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forma di soddisfacimento per tutte le istanze filosofiche. Questa era la pretesa della filosofia moderna e questo il carattere al quale la generazione dell’immediato dopoguerra si era avvicinata, quando cominciò ad avere accesso alle opere di Benedetto croce, a testi come Il carattere della filosofia moderna. non era, allora, in discussione né il fatto che vi fosse una filosofia moderna, né che questa filosofia potesse provare sé stessa. una delle caratteristiche, quella che sembrava una verità di per sé, era il punto di vista dell’immanenza di contro alla trascendenza di ogni genere; trascendenza intesa non soltanto nel senso della tradizione metafisica, ma anche nel suo significato moderno afferente alle posizioni relativistiche, positivistiche, empiristiche. Queste furono le caratteristiche dell’idealismo di quegli anni: la consapevolezza di trovarsi nel punto più alto che la tradizione filosofica avesse mai raggiunto e l’impegno nella lotta contro ogni forma di trascendenza. va detto tuttavia che gli uomini appartenenti a quella generazione dovettero ben presto prender atto del fatto che tutto ciò che sembrava loro infrangibile, conquistato una volta per tutte, alla fine veniva problematizzandosi, dischiudendosi a posizioni che erano state o che si riteneva fossero state vinte nel principio e nelle conseguenze. Queste posizioni, invece, sono risorte, sono riemerse e hanno conquistato il campo al punto tale che oggi parlare di filosofia moderna può assumere anche il valore di una provocazione.

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in fondo, però, quando in ambito filosofico si pone un quesito, si lancia sempre in qualche modo una provocazione; il domandare filosofico, cioè, intende rimuovere delle abitudini, degli abiti di vita e di pensiero, intende verificare se ciò che si presenta come nuovo non abbia solo l’aspetto del nuovo, non sia semplicemente qualche cosa di esteriore, di estrinseco. sotto questo aspetto, dunque, parlare di filosofia moderna oggi può avere il valore di una provocazione in positivo, cioè, aggiornare, sollecitare nuove risposte da coloro i quali, forse, si sono troppo facilmente acquietati sulle posizioni di autorevoli correnti del pensiero contemporaneo post-hegeliane, come ad esempio il pensiero debole. È necessario tenere sempre aperto lo spazio della riflessione e della discussione filosofica: se ci si adagiasse in queste formule, cioè, sostanzialmente se si rinunciasse allo sforzo di comprensione del vero – che è la ragione d’essere di ogni filosofia – se si rinunciasse dogmaticamente alla tradizione filosofica moderna, si andrebbe incontro ad un isterilimento. La preoccupazione è che i diversi indirizzi, che di quella tradizione hanno raccolto l’eredità, ma che poi se ne sono allontanati, ossia le scienze umane, le scienze storiche, siano condannati in fondo ad una vita mediocre, in quanto soltanto attraverso uno sforzo di pensiero rinnovato, e certamente non garantito nei suoi esiti e nelle sue conseguenze, si può tener vivo il dibattito scientifico, il dibattito speculativo, specialmente in un’epoca in cui la cultura ha un’incidenza forse mai avuta prima sulla pratica e sugli atteggiamenti pratici.

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Questa è, in linea di massima, la posizione da cui si intende muovere dovendo parlare delle origini della filosofia moderna. prima di entrare nello specifico dell’argomentazione e discorrere sulla ricostruzione hegeliana del pensiero moderno, è bene premettere qualche considerazione di ordine generale attinente allo stesso pensatore di cui ci dobbiamo occupare. Hegel, tra i filosofi che noi di solito facciamo risalire alla filosofia moderna, non è stato certo il primo ad aver parlato di filosofia moderna, ad aver definito in che cosa consiste il distacco del pensiero moderno dal pensiero antico, ma è stato di sicuro il primo che, cercando di definire il moderno, non lo ha presentato sotto forma di rappresentazione esterna, ma piuttosto come categoria speculativa, ossia, come concetto filosofico. Questo è il punto da cui occorre partire: egli non è stato il primo ad occuparsi della modernità, ma è stato colui che ne ha parlato nei termini filosoficamente più rigorosi. Questa posizione può essere riscontrata nell’ambito della produzione hegeliana, in particolare nella Fenomenologia dello spirito e nella Scienza della logica, ma anche nelle opere legate alla sua attività d’insegnamento, come, per esempio, le Lezioni di storia della filosofia e i Lineamenti della filosofia del diritto e via seguitando. La Fenomenologia dello spirito e la Scienza della logica, in particolare, sono i capisaldi del pensiero di Hegel, e rappresentano le opere in cui si trova la sua più genuina e più diretta espressione. in ogni caso, il suo giudizio sul moderno verrà analizzato da noi

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innanzitutto da un punto di vista sistematico, attraverso il commento di alcuni brani della Fenomenologia dello spirito e, in seguito, da un punto di vista più storico, attraverso le posizioni dei filosofi da Hegel presi in considerazione. prima di commentare i tre paragrafi che aprono la Fenomenologia e comprendere come Hegel abbia ripensato il moderno nei termini di una categoria speculativa è necessario rifarsi all’uso tecnico che egli faceva delle espressioni “rappresentazione” ed “elemento speculativo”, ossia, “concetto”. innanzitutto va detto che l’espressione “elemento speculativo” viene abitualmente utilizzato in tutt’altra accezione, in quanto è spesso associato all’interpretazione che ne hanno dato feuerbach e in generale la sinistra hegeliana; illustri storici italiani hanno, inoltre, parlato, in linea con questa lettura, in termini negativi di “aroma speculativo” riferendosi a posizioni legate ad una formulazione idealistica. Questo, naturalmente, non è il senso con cui si vuol qui adoperare il termine “speculativo”. per Hegel l’elemento speculativo era l’elemento filosofico per eccellenza; si vedrà in seguito come esso si costruisce e si svolge. per ciò che riguarda la “rappresentazione” l’analisi del suo significato puro verrà condotta non attraverso la Prefazione alla Fenomenologia dello spirito, ma nei primi quattro paragrafi della Introduzione alla stessa opera. per spiegare questa scelta di testo, va detto che la Prefazione alla Fenomenologia dello spirito costituisce un saggio a sé stante sul conoscere scientifico, pubblicato anche autonomamente dalla Fenomenologia

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stessa nelle edizioni di meyner. si tratta, quindi, di un testo compiuto, che Hegel scrisse dopo aver concluso la stesura della Fenomenologia dello spirito. col termine “rappresentazione” Hegel voleva riferirsi a quel lavoro metodico che la filosofia moderna ha sviluppato come presupposto per individuare il cammino verso il vero, il cammino verso l’assoluto; la filosofia moderna, infatti, si caratterizza per la preminenza del problema del metodo. in che cosa consiste questa elaborazione del metodo? Hegel ha utilizzato il termine “rappresentazione” per sottolineare la posizione di coloro che, trovandosi dinanzi a una pluralità di metodi, non hanno ancora stabilito quale di questi li condurrà allo scopo prestabilito. si pensi alle osservazioni dell’autore del Discorso sul metodo. cartesio aveva chiaramente di fronte a sé la mèta della sua ricerca: un metodo per il buon uso della propria ragione e per distinguere il vero dal falso. egli, però, non avendolo trovato, fu costretto a riportare la propria indagine sotto forma di esperienza da comunicare ad altri. per questo motivo, parlando della sua posizione filosofica, cartesio preferì il termine “discorso” al termine “trattato”. il mondo della rappresentazione, dunque, per Hegel, era un mondo in cui i metodi di ricerca, di accesso al vero, erano così numerosi e diversi tra loro, che non si era ancora individuato quello che poteva condurre alla mèta. nella filosofia moderna, pertanto, si fa evidente una preminenza dell’aspetto metodologico; essa, cioè, si presenta anzitutto come una ricerca sul metodo che conduce alla verità.

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per Hegel, però, il momento della rappresentazione doveva essere superato dal momento del concetto; in altri termini, il metodo doveva essere non soltanto cercato, ma trovato: Hegel l’aveva trovato, o almeno riteneva di averlo fatto. tale era, dunque, l’orientamento che Hegel assumeva di fronte al problema del conoscere, il quale era, a suo parere, inscindibile dal problema della verità. ciò significa che, secondo Hegel, non era possibile parlare di conoscenza, e tantomeno portare la ragione davanti al tribunale della critica, perché il conoscere, quando si pone come conoscenza del vero, già deve collocarsi sulla terra ferma dell’assoluto. a tal proposito Hegel nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia (Xv, 328) scriveva: «solo ora siamo giunti veramente alla filosofia del mondo moderno; essa comincia con cartesio. con lui entriamo effettivamente in una filosofia autonoma, consapevole di procedere autonomamente dalla ragione, nonché del fatto che l’autocoscienza è il momento essenziale del vero. Qui, possiamo ben dirlo, siamo a casa nostra e possiamo finalmente gridare “terra”, come il navigante dopo un lungo viaggio su un mare in tempesta... in questo nuovo periodo il principio è costituito dal pensiero, dal pensiero autocostituentesi»1. e qual è la terra su cui essa deve poggiare? La terra è l’autocoscienza, l’autocoscienza come parte della verità e come aspetto inscindibile di essa. Questa è la terra nuova che la filosofia ha toccato e da cui il passo è citato da m. Heidegger, Il concetto filosofico di esperienza, in Sentieri interrotti, La nuova italia, firenze 1968, pp. 116-117. 1

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deve riprendere la sua marcia, il suo cammino. Hegel, che si teneva sempre nell’ambito di questa terra ferma, pretendeva, lui solo, di essere riuscito a indagarla in tutti i suoi aspetti fino a raggiungere quello che egli chiamava il sapere assoluto, cioè, pretendeva di essere riuscito a esplorare, a perimetrare, a stabilire, l’ambito di validità dell’autocoscienza fino al suo estremo, fino a quando da autocoscienza essa sboccava, diveniva, sapere assoluto. ciò che da queste osservazioni può esser dedotto, verrà spiegato ampiamente in seguito; basti qui dire che tale posizione filosofica ha stabilito il punto di partenza del sapere che chiamiamo moderno. Questo sapere, però, presenta una caratteristica di eccezionale importanza e portata: esso per la prima volta osa chiedere a sé stesso la garanzia del principio da cui muove, cioè, la ricerca di un principio assolutamente certo dal quale non si possa deflettere. ci si trova di fronte ad una vera e propria novità nella storia della filosofia ed Hegel diceva, a ragione, che finalmente, dopo tanti erramenti, la filosofia aveva toccato terra, aveva raggiunto, cioè, una base solida. d’ora in poi si tratterà di costruire e sviluppare questo edificio fino al suo completo coronamento. nell’Introduzione alla Fenomenologia, almeno nei primi tre paragrafi, Hegel cercava di dimostrare come, in effetti, fosse stato ingannevole porre come presupposto la critica della conoscenza prima della conoscenza stessa. «secondo una rappresentazione naturale, – scrive Hegel – prima di affrontare la cosa stessa, ossia la reale conoscenza di ciò che è in verità nella filosofia, ci si dovrebbe preliminarmente inten-

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dere circa quel conoscere che viene considerato come strumento con cui ci si impadronisca dell’assoluto o come mezzo con cui si possa sconvolgerlo». Hegel prendeva, quindi, in esame le posizioni dei suoi predecessori, da Kant fino a cartesio. con quest’analisi egli si proponeva di dimostrare come l’assunto secondo il quale la critica della conoscenza era preliminare rispetto alla conoscenza stessa non portava allo scopo che si prefiggeva. nonostante ciò, Hegel cercherà e ritroverà in queste posizioni anche quegli aspetti filosofici in senso genuino, in senso puro, che considerava validi, ma questo aspetto della questione la esamineremo successivamente. sembra, inoltre, giustificata anche la preoccupazione che ci possano essere diverse specie di conoscenza delle quali l’una sia più idonea dell’altra a raggiungere il fine supremo, ossia la verità. È giustificato, dunque, il timore dell’errore causato dalla possibilità di una falsa scelta tra diverse conoscenze. ci si può rendere conto di quello che Hegel voleva dire, pensando al timore di essere ingannati che hanno i maggiori rappresentanti del pensiero moderno. Hegel si riferiva a precise posizioni storico-sistematiche che non chiamava in causa, ma che discuteva nei loro motivi essenziali: il problema dell’errore e il problema del timore di essere ingannati. il pensiero moderno, infatti, nasce dalla critica e dal superamento dello scetticismo tardo-rinascimentale (basti ricordare la polemica fra cartesio e i libertini), nasce, cioè, come vittoria, supremazia e affermazione sullo scetticismo, ed è questo il carattere di novità con cui si presenta.

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su questo punto Hegel diceva che «essendo il conoscere – presso i suoi predecessori, in linea generale Kant e cartesio – una facoltà di specie e comprensione determinate, si possa senza una più precisa determinazione della sua natura e del suo limite, incappare nelle nubi dell’errore, invece di raggiungere il cielo della verità». che cosa significa questo inciso «senza una più precisa determinazione della sua natura e del suo limite»? Hegel voleva sottolineare il problema del metodo. il conoscere doveva essere risolto rigorosamente in un perimetro, in un ambito, di cui poteva essere verificabile la certezza: questa è la posizione del pensiero moderno. a questo punto è necessario fare una precisazione: il pensiero moderno (è sempre difficile nel caso di Hegel ma è necessario risalire in qualche modo a posizioni che egli presupponeva) si trova davanti ad un materiale logico-concettuale tutto già sviluppato: aristotele e platone avevano già dato tutta la materia della logica, avevano già studiato le determinazioni del pensiero, le avevano già analizzate. Basti pensare ad aristotele e al valore della logica aristotelica. il pensiero moderno si trova, dunque, davanti ad una ricca messe di determinazioni concettuali. il problema non è tanto cercarne di nuove, approntare tutta una serie di strumenti concettuali affinché l’intuizione filosofica possa prendere corpo; questo era stato, appunto, il problema dei grandi esponenti del pensiero classico. il problema dei pensatori moderni consiste, al contrario, nel compiere una scelta: davanti a una così ricca messe di determinazioni con-

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cettuali sviluppate fino alle ultime conseguenze il pensiero moderno deve fare una scelta, deve, cioè, farne cadere alcune. con quale autorità, tuttavia, il pensiero moderno può osare far cadere alcune di queste determinazioni? Hegel sapeva che questa determinazione poteva apparire arbitraria, ciononostante egli seguiva su questa linea i suoi predecessori e sosteneva che senza questa determinazione dei limiti del conoscere noi andiamo incontro all’errore. il grande timore, quindi, è quello di incorrere nell’errore, il timore di essere ingannati. «Questa preoccupazione deve mutarsi fin nella convinzione che tutta l’impresa del conquistare alla coscienza, mediante il conoscere, ciò che è in sé, sia, nel suo concetto, un controsenso, e che tra il conoscere e l’assoluto interceda una netta linea di divisione». improvvisamente, in questo passo, mentre sembra seguire la via aperta dal metodo e dalla critica della conoscenza, individua il limite di questa posizione. Hegel, infatti, si affretta subito a mostrare come la via della critica fosse una via insufficiente perché se «tra il conoscere e l’assoluto si pensa interceda una netta linea di divisione», allora, la critica del conoscere si rivela un sentiero che non sfocia in una mèta, si rivela qualche cosa di caduco con conseguenze che, poi, si misureranno. «se infatti il conoscere è uno strumento per impadronirsi dell’assoluto, viene fatto di pensare che l’applicazione di uno strumento a una cosa, anziché lasciarla com’essa è per sé, vi imprima una forma ed inizi un’alterazione». È chiaro, da queste parole, che la critica non è un’operazione così indolore come si può pensare, la

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critica non è semplicemente un processo instaurato nei riguardi delle false pretese della ragione, ma in essa vi è già una sentenza. se mediante lo strumento, cioè, mediante la critica della conoscenza, l’assoluto, come un uccello preso nella rete, ci viene soltanto avvicinato, ma non muta in esso nulla per effetto dell’applicazione del pensiero, allora la nostra operazione sarebbe del tutto sterile; l’uccello è sì nella rete, ma resta sempre vivo e ha sempre uno spazio in cui muoversi, cioè, l’uccellatore non è riuscito effettivamente, in sostanza, a catturare la sua preda, potrà vederla più vicina, più prossima, ma non l’avrà in suo possesso. Qui Hegel adoperava una metafora significativa: la critica è una rete che vuole far cadere nei suoi reticoli l’assoluto, il reale, il vero, senza conquistarlo alla coscienza. pensatori successivi ad Hegel hanno evidenziato un importantissimo inciso dal quale hanno poi tratto conclusioni diverse: «L’assoluto è già in sé e per sé presso di noi e vuole essere presso di noi»2. che cosa significa? L’abbandono del punto di vista critico e l’assunzione della posizione secondo la quale l’assoluto può essere conosciuto soltanto quando è presso di noi, significa che l’assoluto non è solo alla fine del processo, ma è anche all’inizio, e che non potrebbe essere alla fine del processo se non fosse già all’inizio. Questo rappresentava per Hegel la messa in mora del criticismo. il criticismo, in sostanza, voleva catturare la verità sotto forma dell’assoluto vero, del vero 2

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Ibidem, p. 118.

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in quanto tale, ma si trovava davanti a questa imbarazzante contraddizione: esso riuscì a tenere aperta l’esigenza dell’assoluto, ma non poteva parlarne in modo idoneo se non presupponendolo come in sé e per sé già presso di noi. si ripresenta qui l’argomentazione per cui, come si è detto in principio, il moderno, per Hegel, è una categoria speculativa e si esplica sotto forma di sapere assoluto. È da questo punto che il moderno, come problema del metodo, come problema della critica della conoscenza, viene poi sviluppato fino ad infrangere le barriere stesse della critica e ad esprimere una nuova posizione del pensiero, che sarà proprio quella di Hegel. certamente questa terra, sulla quale la filosofia moderna è approdata, deve essere esplorata, ma quello che più importava era il risultato ultimo di tale esplorazione. Hegel riteneva non soltanto di avere preparato la via, riprendendo le posizioni precedenti, ma di avere portato questo processo a compimento. riprendendo le fila del discorso, si potrebbe sostenere che il conoscere, nel tentativo di catturare l’assoluto nei suoi reticoli, sia un’astuzia di cui l’assoluto si beffa. fuori dal linguaggio figurato questo significa che il vero non può essere pensato semplicemente come ricerca del metodo e come critica della conoscenza, in quanto, così facendo, il conoscere, piuttosto che stabilire il “mediato” finirebbe per smarrire il proprio compito in un molteplice e vano affaccendarsi. Hegel prendeva in considerazione tutte le analisi, le varie prove del conoscere della filosofia moderna e

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dei grandi pensatori del razionalismo moderno, riguardanti i metodi della conoscenza. esse erano, per lui, importantissime prove d’autore, e tuttavia, non erano ancora la statua, non erano ancora il prodotto compiuto e completo che avrebbe incorporato certamente queste posizioni in modo da farle vivere non isolatamente, ma nel tutto; è per questo che Hegel non si fermava ad esse, ma al contrario, si guardava bene dal considerarle come una mèta raggiunta. nel secondo paragrafo dell’Introduzione alla Fenomenologia dello spirito si trova un altro passo sul problema della critica della conoscenza. in particolare, se lo si confronta col brano già citato in precedenza, in cui Hegel diceva: «secondo una rappresentazione naturale […] nella filosofia ci si dovrebbe preliminarmente intendere circa quel conoscere che viene considerato come lo strumento con cui ci si impadronisca dell’assoluto», si può notare che Hegel usa il termine “filosofia”, mentre nel paragrafo successivo scrive: «se la tema di cadere in errore insinua sfiducia nella scienza». Hegel, dunque, non parlava più di filosofia, ma usava il termine “scienza”, anch’esso da intendersi, naturalmente, in senso hegeliano: scienza come scienza del sapere compiuto, cioè del sapere assoluto; la filosofia è ancora soltanto l’aspirazione al sapere, ma non è il sapere raggiunto, conquistato, concluso. fra i due termini deve dunque riscontrarsi un’importante sfumatura di significato: parlando di scienza qui Hegel faceva balenare l’idea che la scienza, il sapere, fossero già presso di noi e che a noi tocchi soltanto di accoglierne la rivelazione, lo svelamento; egli assumeva una posizione

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che si conciliava a fatica con l’assunto dei progenitori della filosofia moderna, i quali hanno posto il problema del conoscere in termini preminentemente di critica del conoscere stesso. Hegel spiegava questa sua posizione servendosi del motto dello scolastico, ossia di quel tal filosofo che voleva, a proposito della critica, imparare a nuotare prima di immergersi in acqua, mentre, Hegel sosteneva il contrario e cioè che “si impara a nuotare soltanto nuotando”. in questo motto è possibile riassumere la sostanza di quanto si è detto sinora: la critica della conoscenza assomiglia a colui il quale, preso dalla paura dell’errore, finisce per avere paura della verità. tale era l’argomentazione hegeliana prima dell’elaborazione della Grande logica. a quel tempo Hegel non aveva ancora dimostrato le varie forme del sapere assoluto utilizzando il materiale della logica tradizionale, non aveva ancora illustrato i passaggi logici che l’avevano condotto a quella determinata conclusione, tuttavia, già dichiarava, sia pure in questa forma non sistematica, l’orientamento del suo pensiero. Bisogna, dunque, gettarsi a mare. fuor di metafora, però, sta di fatto che il termine “scienza” indica una nozione del sapere già conquistato, già stabilito, un sapere che, evidentemente, si presenta in forme diverse da quelle con cui, nel pensiero moderno, si è posta la critica del sapere: è un sapere che, per esempio, non fa nessuna distinzione rilevante fra le diverse forme di rappresentazione del sapere stesso, ma le utilizza tutte, contrariamente a quanto avevano fatto o tentato di fare i primi filosofi moderni.

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a tal proposito viene in mente un pensatore che riassume tutta la tradizione del pensiero greco: aristotele. egli, infatti, non privilegiava nessuno dei metodi del conoscere, a nessuno di questi concedeva il marchio della scientificità, privandone gli altri. La posizione che Hegel esprimeva con la frase: «L’assoluto solo è vero, o il vero solo è assoluto», non lasciava spazio ad ulteriori dubbi; egli stava muovendo una critica dall’interno a ciò che, consuetamente, si intendeva per moderno. il concetto hegeliano di moderno, quindi, assumeva una duplice validità: per un verso diveniva affermazione di un sapere speculativo, per l’altro diveniva esplicita richiesta di limitazione, o, se si vuole, di critica della conoscenza. comincia qui ad esser chiara la figura del moderno così come Hegel la intendeva quando affermava che il moderno, una volta inteso l’elemento speculativo, posto soltanto nei termini di una critica della conoscenza, non era altro che una ricaduta, ossia qualche cosa di negativo, di limitato. ancora più chiaro è anche il valore della sostituzione, incontrata nel secondo paragrafo, del termine “filosofia” con quello di “scienza”, e il valore delle questioni che esso pone, la paura dell’errore. così Hegel si esprimeva a questo riguardo: «in effetto quella paura (dell’errore) presuppone come verità qualcosa, anzi molto, e ne fa base delle sue apprensioni e delle loro conseguenze; del che, a sua volta, si deve ricercare se sia verità. una tale paura dell’errore presuppone, cioè, rappresentazioni del conoscere, inteso come strumento e mezzo; presuppone anche una differenza di noi stessi da questo conoscere; ma, sopra tutto,

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presuppone che l’assoluto se ne stia da una parte e il conoscere dall’altra, per sé e separato dall’assoluto, pur essendo (il conoscere) qualcosa di reale; ovverosia presuppone che il conoscere, il quale fuori dell’assoluto è indubbiamente anche fuori della verità, sia poi tuttavia veridico: assunzione per cui ciò che si chiama paura dell’errore si fa invece piuttosto conoscere come paura della verità». attraverso quella che era stata la principale preoccupazione della critica della conoscenza, cioè la paura dell’errore, si fa strada, viceversa, la paura della verità, in quanto il conoscere viene asserito come veridico, e al tempo stesso, viene inteso come strada per giungere alla verità. tuttavia, affinché questa strada possa essere percorsa, il conoscere deve essere già asserito come verità, e ciò significa – come Hegel scriveva nell’inciso precedente a proposito della metafora dell’uccello preso nella rete – che l’assoluto, qualora in sé e per sé non fosse e non volesse essere già presso di noi, allora, in quel caso, l’uccello, ossia l’oggetto, il vero, sarebbe già nella rete, intrappolato. ecco l’ambivalenza della critica: essa si pone come via, come strumento della verità, ma allo stesso tempo assume sé stessa come vera; di conseguenza il passo che dalla sfera della ricerca introduce alla sfera della verità risulta già compiuto, e la critica non sussiste più come tale. il famoso tribunale della ragione o tribunale della critica, davanti al quale bisognava portare le dimostrazioni tradizionali, si smonta come il palcoscenico di una rappresentazione venuta al termine. L’armamentario viene smantellato, perché nel momento in cui il cosiddetto tribunale diviene consa-

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pevole di sé, esso non ha più motivo di esistere, il passo è già fatto. una serie analoga di problemi si presentò anche alla filosofia italiana del novecento. Quando l’idealismo attuale di gentile – che è la forma in cui questi nodi filosofici sono stati ripensati nell’ambito del pensiero nostrano – si trovò ad affrontare la questione di quale fosse la funzione della critica allorché la si assumesse come via per certificare la validità dello strumento, del conoscere, la risposta fu che funzione della critica era quella di esplorare gli strumenti a disposizione della conoscenza come fa, per esempio, il motorista prima che l’aereo si avvii: cerca di sondare i materiali, ma nel momento in cui l’aereo si è avviato il motorista se ne torna nell’hangar. una simile posizione della critica dimostra che essa non esaurisce il problema filosofico. Questi temi furono dibattuti in italia da pensatori come pantaleo carabellese, docente di filosofia teoretica all’università di roma. carabellese non smise mai di obiettare, contro gentile, che se si assumeva la critica come via per assicurarsi la validità del conoscere, si restava soltanto nel vestibolo di questo, in quanto il conoscere come tale, o meglio, la critica della conoscenza, assumendo sé stessa come vera perdeva il carattere di critica, e assumendo sé stessa come critica, conduceva inevitabilmente allo scetticismo e al relativismo. sono due, in particolare, i testi di carabellese che fanno riferimento a questo problema: Il problema della filosofia da Kant a Fichte3, un libro 3 p. carabellese, Il problema della filosofia da Kant a Fiche: 1781-1801, trimarchi, palermo 1929.

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molto interessante, e La critica del concreto4, dove carabellese usa il termine “critica” in senso diverso, ossia, nei confronti di coloro che partivano dalla critica per giungere alla conoscenza assoluta. in altri termini – e chiudendo questa parentesi che va considerata come un ricordo personale e anche come un piccolo atto di omaggio ad un nostro pensatore che non è stato il solo a fare queste osservazioni – il nocciolo del problema è questo: se la critica sia soltanto la via per conoscere, o se debba, secondo l’assoluto, arrivare all’autocertificazione di sé, cessando, in questo caso, di essere semplicemente metodo. inoltre, un’indagine più approfondita porterebbe a riscontrare la presenza delle posizioni finora esaminate anche all’interno del pensiero contemporaneo, ad esempio nel pensiero della scuola di francoforte. Queste correnti filosofiche post-hegeliane hanno certamente riproposto il valore dalla critica, e anzi, lo hanno considerato come preminente, ma non hanno dato il giusto peso, appunto, al suo carattere, il quale resta pur sempre legato a questo presupposto: se la critica si proclama via verso il vero, il passo nel conoscere e per il conoscere è già stato fatto. È questo che Hegel voleva insegnare dall’altezza delle sue capacità speculative: la critica diventa paura della verità, perché se deve prendere sul serio sé stessa – come deve, altrimenti la terra promessa, l’autocoscienza, per la filosofia moderna non ha più alcun valore – deve anche ritenersi vera, e dunque perde la sua funzione specifica. 4 p. carabellese, La critica del concreto, a. signorelli, roma 1940.

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prima di concludere questa parte del discorso va presa in esame ancora un’altra citazione dall’Introduzione. si tratta di una famosa espressione che va di pari passo con quella che si notava poc’anzi, quando si è visto come Hegel abbia parlato non più di filosofia ma di scienza, nel senso di scienza dimostrata, scienza raggiunta; una proposizione che, in qualche modo, è stupefacente nell’ambito del discorso fin qui svolto e che risponde alla seguente domanda: da che cosa nasce la paura della verità? Hegel, scriveva: «Questa conseguenza risulta dal fatto che l’assoluto solo è vero, o il vero solo è assoluto». Questa affermazione non viene dimostrata nel testo da Hegel, egli la proponeva semplicemente per far recepire l’orientamento col quale intendeva continuare il corso della filosofia moderna. si può dire, però, che la dimostrazione sarà il risultato della Grande logica. dopo avere espresso in forma di aforisma, e quasi fuori dal contesto, la sua posizione, Hegel entrava in una considerazione abbastanza secondaria quando diceva che «il conoscere in generale, quando pur fosse incapace di attingere l’assoluto, potrebbe tuttavia essere capace di attingere altra verità», cioè, in altri termini, ci si può accontentare di un assoluto “piccolo”, se il conoscere non ci consente di arrivare all’assoluto “grande”. «ma noi vediamo – conclude Hegel – che un tale dibattito va a finire in un’oscura differenza tra un vero assoluto e un vero comune», tra un assoluto di prima categoria e un assoluto di seconda categoria e se si arriva a questa oscura differenza bisogna cercare di chiarirla altrimenti non si fa un passo avanti.

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si conclude così il terzo capoverso dell’Introduzione, e, a questo punto, Hegel sosteneva che era giunto il momento di lasciar perdere le chiacchiere intorno al conoscere, intorno allo strumento migliore che permetteva di raggiungere l’assoluto e di impossesarsene, trattandosi di tutte rappresentazioni che possono soltanto avvicinarsi alla verità. era giunto il momento di abbandonare il ricorso a scappatoie per l’incapacità di lavorare secondo criteri scientifici, e di trarre, dal presupposto di quelle posizioni medesime, il lavoro del concetto. Le proposizioni di Hegel a questo riguardo possono a volte apparire tediose, in quanto sono espressione di quel carattere “svevo”, cioè, di quel cattivo carattere che, a volte, Hegel assumeva. compito principale, non esclusivo e assoluto, se si vuole, è, dunque, dare il concetto. dunque, volendo concludere questo primo incontro, possiamo ribadire che Hegel non è stato certo il primo a parlare di filosofia moderna, ma è stato certamente il primo che ha osato pensare il moderno in termini speculativi. Hegel è stato colui che ha pensato concettualmente il moderno, che ne ha partorito il concetto. dare il concetto, offrire il concetto di ciò che è, è il compito della scienza; disadempiendo a tale funzione essa potrà rappresentare, più o meno adeguatamente, gli oggetti di cui si interessa, ma resterà, sotto questo aspetto, manchevole e favorirà quell’affaccendarsi più o meno operoso intorno alle cose, agli oggetti, che non arriva mai a stringere la mèta finale.

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seconda Lezione

La diaLettica come superamento deLL’opposizione fra anticHi e moderni dopo aver citato e commentato alcuni passi della Fenomenologia dello spirito siamo giunti alla conclusione che Hegel, pur non essendo il primo a parlare di moderno, è il solo che ha compiuto il tentativo di pensare il moderno in termini filosofici e di presentarlo concettualmente. per poter procedere nell’analisi che ci eravamo proposti, dobbiamo indicare, oltre ai passi già citati, altri due momenti della speculazione hegeliana attraverso i quali possiamo trovare il concetto di moderno: la logica e la dialettica, che è la bussola da cui Hegel si lascia guidare. in riferimento a quest’ultimo punto, la dialettica, va ripreso un tema di cui abbiamo accennato soltanto i contorni: la tesi secondo la quale Hegel avrebbe cercato una composizione della disputa tra antichi e moderni. si sa che la famosa querelle fra antichi e moderni ebbe vari sviluppi, non tutti evidentemente soltanto

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di carattere tecnicamente filosofico. anzi, in realtà, la straordinaria importanza di quella querelle des anciens et des modernes è legata a tutto il mondo della cultura, al mondo delle istituzioni dell’età moderna; una modernità intesa non come concetto, ma come insieme di caratteristiche legate ad un’epoca storica. sono memorabili le proposizioni secondo cui «i veri antichi siamo noi»1 e i legami problematici, che questa posizione comporta, con la filosofia del rinascimento. Bisogna tenere presente che la filosofia moderna si presenta in antitesi alla filosofia rinascimentale e alla rinascita dell’antico da questa propugnata. più avanti si vedrà chiaramente come cartesio, che nella lettura di Hegel è il primo filosofo moderno, sia consapevole di questo carattere di assoluta novità del suo pensiero, che implica sia la critica all’orientamento, alle tesi filosofiche degli antichi, sia l’opposizione alla filosofia del rinascimento. È noto, infatti, che, pur avendo talvolta attinto dal pensiero rinascimentale (come ha rilevato eugenio garin), cartesio non amò i filosofi italiani del rinascimento; egli ebbe nei loro confronti molte riserve, in quanto pensava si dovesse arrivare alla massima accentuazione del distacco tra antico e moderno, anziché cercare una conciliazione. in realtà, sotto il profilo strettamente filosofico, la disputa che aveva opposto i moderni agli antichi non aveva fatto molta strada. una strenua opposizione si era pur verificata, ma mancava una posizione filoso1 f. Bacone, Novum Organum, in La Nuova Atlantide e altri scritti, a cura di paolo rossi, feltrinelli, milano 1954, pp. 84-86.

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fica rigorosa, che si potesse dire decisamente moderna. in ultima analisi, solo Hegel è riuscito a far trasparire chiaramente gli elementi che sono alla base dell’opposizione fra antichi e moderni, il nesso che esiste tra modernità, coscienza del tempo e ragione. Questi emergono, nel loro rigore filosofico, soltanto in Hegel. egli, a questo punto, così come ha fatto per la critica della conoscenza, ha assunto l’opposizione fra antichi e moderni come uno dei fondamenti della filosofia moderna, superandola con un movimento di pensiero veramente inatteso. a questo salto concettuale il lettore non viene da Hegel preparato, ma è possibile presagirlo di tanto in tanto, quando nelle sue pagine i periodi si accavallano, a volte anche con difficoltà di carattere e di senso. solo alla fine, quasi in un lampo, viene fuori una formula in cui tutto quanto è stato detto con fatica trova la sua piena e completa espressione. dunque, quando Hegel si trovava di fronte alla filosofia del suo tempo, la filosofia di Kant e di fichte, ricorre con un moto stupefacente, improvviso, alla dialettica. resta, tuttavia, da chiedersi a quale dialettica Hegel faceva riferimento. alla dialettica degli antichi, alla dialettica di platone e di aristotele? fino a quel momento, se si scorre l’elenco dei pensatori che nella storia della filosofia sono considerati come modelli, quali cartesio, spinoza, Leibniz, malebranche – ad eccezione dell’indirizzo di pensiero empiristico, che ha le sue proprie caratteristiche – ebbene nessuno di loro aveva mai fatto appello a questo strumento che è la dialettica.

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dobbiamo quindi pensare che Hegel abbia tentato di comporre il dissidio tra antichi e moderni cercando di collegare due movimenti di pensiero: da una parte quello della coscienza che certificava sé stessa, ossia la critica della coscienza che esigeva in anticipo di porsi come criterio valido per procedere lungo la via della conoscenza, la critica che pretendeva in anticipo la certificazione della strada che andava ad intraprendere; dall’altra parte, viceversa, vi era il problema legato al pensiero degli antichi, al logos, al nous, nozioni che richiamavano una precisa tradizione e che Hegel ha avuto il coraggio di riattualizzare con una modalità estranea ai filosofi moderni che lo avevano preceduto. per questo motivo si può intendere l’argomentazione filosofica di Hegel come tentativo di comporre finalmente la disputa fra antichi e moderni, la qual cosa Hegel ha fatto attingendo dalla tradizione filosofica. si tratta di un altro aspetto importante in quanto, per la filosofia moderna, tutta la tradizione speculativa restava sospesa dal dubbio cartesiano. intanto, è risaputo che tracce evidenti di questa stessa tradizione sono presenti nella filosofia dei pensatori moderni, come hanno mostrato gli studi fatti su cartesio e su spinoza. tutta la tradizione della scolastica, ad esempio, rappresenta un punto di riferimento da cui i pensatori successivi hanno attinto in larghissima misura e senza il quale la filosofia moderna non sarebbe nata. uno studioso molto noto, etienne gilson, ha promosso una serie di studi su cartesio e spinoza per dimostrare che le fonti dei pensatori cosiddetti “moderni” appartengono alla tradizione

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precedente, cioè si tratta di materiali tradizionali utilizzati in altro modo. se si ammette tutto ciò, si conferma, di conseguenza, la grande novità di Hegel di fronte a questo materiale. egli avrebbe assunto una posizione antitetica rispetto alle matrici teologiche della scolastica, in quanto queste sono, allo stesso tempo, le matrici ideologiche della chiesa cattolica. tali matrici, dunque, diversamente da quanto avviene per il cattolico cartesio, avrebbero subito da parte di Hegel, che appartiene alla tradizione protestante, una previa svalutazione. ciononostante, egli ha compiuto un grande tentativo di riattualizzazione della tradizione scolastica. riferendosi ad essa, nella Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto, Hegel adoperava una particolare espressione: «È da considerare una ventura per la scienza che quella filosofia, che si poteva avvolgere in sé come erudizione pedantesca, si sia posta in un più intimo rapporto con la realtà»2. da un lato, dunque, sembra che tale tradizione filosofica abbia esaurito il suo contenuto, dall’altro lato, però, Hegel ne esaltava incredibilmente il valore. Questo sforzo speculativo potrebbe apparire di una geniale inconcludenza, o incoerenza; tuttavia, uno studio sulle fonti scolastiche nel pensiero di Hegel, così come è stato fatto per spinoza e per cartesio, porterebbe alla luce che, se per un certo verso egli considerava quella tradizione filosofica definitivamente chiusa, allo stesso tempo era capace 2 g. W. f. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, traduzione di francesco messineo, Laterza, Bari 1923, p. 11.

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di renderla attuale, di ricondurla alla modernità, così come faceva, per esempio, per la dialettica, riattualizzando testi come il Parmenide di platone largamente studiati dalla scolastica. in questo senso si potrebbe intendere il tentativo di Hegel come tentativo filosofico di porre fine alla disputa fra antichi e moderni. perché non si è parlato molto di questo? probabilmente si è considerato il fatto che la grande tradizione del pensiero greco era stata rivalutata nell’ambito della filosofia classica tedesca non solo da Hegel. sarebbe il caso, però, di riflettere un po’ più a lungo su questo movimento di pensiero, su questo guardare all’antico, che Hegel ha richiamato in causa nell’Introduzione alle Lezioni di storia della filosofia in cui dice: «oggi non possono più esistere platonici o aristotelici, stoici od epicurei»3. egli escludeva l’atteggiamento di chi, al suo tempo, riprendeva le questioni legate a platone, come faceva per esempio schleiermacker. «non dobbiamo credere di poter trovare negli antichi le risposte agli interrogativi della nostra coscienza, agli interessi del mondo odierno»4. il punto più alto – per Hegel – è il presente. «non si deve adunque in primo luogo, fare poco conto di quel che lo spirito ha conseguito, e proprio adesso. ciò che è più antico va onorato; esso è stato però soltanto un anello. il punto più alto è il presen3 g. W. f. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, traduzione di ernesto codignola e giovanni sanna, La nuova italia, firenze 1981, rist. an. dell’ed. del 1945, vol. i, p. 58. 4 Ibidem, vol. i, p. 57.

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te»5. ciò vuol dire che la ripresa della filosofia di platone e di aristotele non va intesa nei termini di un rinascimento filosofico, non è possibile far rinascere la filosofia di platone e di aristotele, perché spiega Hegel «richiamare in vita questi nomi vorrebbe dire far retrocedere ad uno stadio anteriore lo spirito più progredito, più approfondito in se stesso»6. Bisogna allora interrogarsi su quale possa essere il legame tra le filosofie dell’antichità e quelle attuali, un nesso che può essere individuato mettendo a confronto ciò che le filosofie dell’antichità sono state e ciò che le filosofie moderne sono. c’è un passo della Prefazione alla Fenomenologia dello spirito in cui Hegel scrive: «il genere di studio proprio dell’antichità si differenzia da quello dei tempi moderni, perché era propriamente il processo di formazione della coscienza naturale»7; qui egli faceva riferimento al metodo di filosofare nell’antichità. spiegheremo meglio in seguito cosa Hegel intendeva per coscienza naturale. «allora, – cioè all’epoca di platone e di aristotele – l’individuo, esercitandosi dettagliatamente in ciascuna parte della sua esistenza e filosofando su ogni accadimento, si educò a una universalità intimamente concretata. nei tempi moderni egli trova invece bella e preparata la forma astratta»8. La forma astratta sarebbe la tradizione, i materiali della logica, svolti in tutti i particolari; si pensi alla logica Ibidem, vol. iii, parte ii, p. 412. Ibidem, vol. i, p. 58. 7 g. W. f. Hegel, Fenomenologia dello spirito, La nuova italia, firenze 1998, p. 19. 8 Ibidem, p. 19. 5 6

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aristotelica: non c’era niente da aggiungere e niente in effetti si aggiunse ma ci fu solo un diverso modo di intenderla e in quello si caratterizzò la novità. a tal proposito Hegel scrive: «lo sforzo per giungere ad afferrarla e a farla sua è oggi più un’esteriorizzazione dell’interno, improvvisa e priva di mediazione, – mentre negli antichi sarebbe stato il contrario un’interiorizzazione dell’esterno – è più una monca produzione dell’universale, che non un procedere di questo dalla concreta e molteplice varietà dell’essere determinato. ora, quindi, il compito non consiste tanto nel purificare l’individuo dal modo dell’immediata sensibilità per renderlo una sostanza pensata e pensante, quanto piuttosto nell’opposto: nell’attuare, cioè, l’universale e nell’infondergli spirito, togliendo i pensieri determinati e solidificati»9. in altri termini, arrivando a una fluidificazione del concetto. se si considera il riferimento precedente alla tradizione speculativa ci si rende conto che il punto di partenza di Hegel consisteva nel far diventare pensabili e fluidi questi concetti che nella tradizione speculativa erano apparsi irrigiditi, cioè, fare in modo che essi potessero apparire in movimento. Quindi, il problema del metodo diveniva quello di rimettere in movimento questo materiale ormai irrigidito e privo di sviluppi, quasi si trattasse di un albero che aveva dato tutti i suoi frutti. È evidente, dal passo citato, che Hegel era largamente suggestionato dal modo di pensare della grecità, che il suo interesse andava verso questa univer9

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Ibidem, pp. 19-20.

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salità intimamente concretata, verso questo universale quasi vivente, che accomunava gli individui e che li orientava nel senso di una scoperta del concetto puro, del pensiero puro. Questa, secondo Hegel, era l’opera che la filosofia classica di platone e aristotele aveva portato a termine: il pensiero puro, l’esigenza della teoria come contemplazione disinteressata. elevarsi, quindi, dalle determinatezze concrete verso il puro pensiero; questo per i greci sarebbe stato possibile in una maniera che ai moderni, invece, è tutt’altro che consona. i greci potevano muoversi all’interno del logos, all’interno del pensiero con una libertà straordinaria, e questo universale sarebbe stato così pieno di vita da rendere possibile una circolazione che, viceversa, per i moderni possibile non è. ecco perché Hegel parlava di pensieri irrigiditi da rendere di nuovo fluidi, da rimettere in movimento. si potrebbe pensare ad un’idealizzazione del mondo greco da parte dello Hegel giovane, ma le pagine che ho letto si riferiscono alla sua maturità filosofica, quando, cioè, egli aveva ormai abbandonato il mito della grecità e si forzava di pensare l’autocoscienza, la terra promessa della filosofia moderna, alla luce della grecità. «mediante siffatto movimento – il movimento è certo la dialettica – i puri pensieri divengon concetti – quelli che sono puri pensieri, nella tradizione imbozzolata e ormai priva di spirito, riacquistano vita; affinché l’albero del sapere, della scienza, riprendesse una nuova vita, bisognava, secondo Hegel, infondergli un nuovo moto dialettico – e soltanto allora – quando, cioè, i puri pensieri sono divenuti concetti grazie alla

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dialettica – sono ciò che essi veramente sono: automovimenti, circoli; sono ciò che la loro sostanza è, essenze spirituali»10. e la sostanza «mostra di essere essenzialmente soggetto»11. ecco una di quelle massime che quasi si staccano da queste pagine dall’andamento molte volte faticoso, e si isolano per la loro limpidezza: «la sostanza è anche soggetto». Qui sta la conclusione di questa operazione mediante cui si confronta la posizione dei moderni con quella degli antichi e si chiede aiuto agli antichi per rimettere in movimento il materiale concettuale che i moderni hanno ereditato. ed è qui che si incontra questo aforisma “la sostanza è anche soggetto”, cioè, la logica di aristotele – che è una logica dell’essenza e che Hegel presupponeva e trattava nella seconda parte della sua Scienza della logica – diventa soggetto e non può essere pensata se non come tale. La sostanza, dunque, è anche soggetto e noi sappiamo che il soggetto è l’autocoscienza. con questo aforisma, quindi, secondo il quale la sostanza «mostra di essere essenzialmente soggetto», antichi e moderni sono congiunti in una nuova posizione, la quale non è una congiunzione, né una giustapposizione di antico e moderno, ma è un nuovo momento, una nuova fase: la fase del concetto. per capire meglio queste cose che prendono sempre un aspetto, a prima vista almeno, di aridità e di astrattezza bisogna forse pensare ai vari movimenti 10 11

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Ibidem, p. 20. Ibidem, p. 21.

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di rinascita dell’antico che abbiamo avuto nel nostro secolo. Bisogna pensare, per esempio, ai movimenti del neoumanesimo, di pensatori come Werner Jaeger autore di Paideia12, o come stenzel autore del Platone educatore13. si vede subito che quelle opere erano qualcosa di profondamente diverso dallo spirito di Hegel, la cui posizione non era certamente quella di far resuscitare l’antico, come viene fatto invece da Jaeger, pur sotto forma di un presupposto evoluzionistico di carattere storicistico. noi, oggi, sbaglieremmo se pensassimo che per riprendere la posizione degli antichi basti collocarli in un certo luogo dello sviluppo della storia universale ed Hegel non voleva certo dire questo. difatti l’antico di cui parla il movimento neoumanistico del nostro secolo, che pure ha dato apporti considerevolissimi, è un antico che resta tale, mentre l’antico di cui parlava Hegel viveva e sopravviveva nel concetto, nel moderno. era pensato. chi ha dato il colpo di grazia, sotto questo punto di vista, al neoumanesimo è stato certamente Heidegger. egli ha mostrato come quel movimento, invece di avvicinarci al mondo antico, ci allontana da esso perché, appunto, non ripensa il mondo greco e non lo ripresenta in una filosofia nuova. Quando questa filosofia nuova non c’è, e anzi perde la consapevolezza di sé, allora la filosofia antiW. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, voll. 3, La nuova italia, firenze 1997. 13 J. stenzel, Platone educatore, traduzione italiana di francesco gabrieli, Laterza, Bari 19743. 12

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ca torna ad essere solo antica e diventa in concreto materia dei filologi. in questo modo il pensiero moderno si trova veramente distanziato dal pensiero antico. Quindi, in tal senso, credo che si possa dire che platone e aristotele non hanno influito affatto sulla formazione della più recente filosofia italiana; essi sono stati piuttosto dei monumenti ai quali illustri filologi hanno dedicato le loro fatiche. Ho fatto accenno a queste correnti per mettere in evidenza il seguente paradosso: il filosofo moderno pensa la modernità chiamando in causa gli antichi; ed Hegel in questo movimento del pensiero ha compiuto un’opera di grande ardimento. a questo punto aggiungere altro non farebbe che guastare il quadro di riferimento storico e concettuale che abbiamo cercato di ricostruire. una cosa, tuttavia, va sottolineata: l’interpretazione hegeliana della dialettica di platone. prendiamo, allora, in esame il riassunto che Hegel ha dato della fine del Parmenide di platone. va sottolineato, preliminarmente, che, mentre schleiermacker studiava il metodo per datare i dialoghi, Hegel classificava alcuni di questi come dialoghi filosofici, cioè, vi trovava il cosiddetto elemento speculativo. non faceva in questo senso della filologia, ma la cosa straordinaria è che dal controllo delle citazioni dei testi antichi riportati da Hegel si trova una perfetta corrispondenza con l’originale, e questo sta a dimostrare il suo forte legame col testo. Leggiamo la sua interpretazione filosofica del Parmenide: «L’uno, sia esso o non sia, sia esso medesimo o sia i molti, sia per sé stesso sia in relazione ad altro – tutto, insomma, è

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altrettanto quanto non è, appare e non appare»14. e aggiunge: «La rappresentazione volgare è ben lungi dal considerare idee queste determinazioni affatto astratte, come l’uno, l’essere, il non essere, l’apparire, la quiete, il movimento e simili»15. sul piano della rappresentazione volgare, il senso comune non si rende conto del perché queste idee debbano avere uno status così particolare, così eccezionale: «platone invece – continua Hegel – prende questi universalismi per idee, e perciò questo dialogo contiene la vera e propria teoria platonica delle idee»16. con quest’affermazione, il Parmenide viene messo al di sopra di tutti gli altri dialoghi. non starò a dire se questo è vero o falso (nella biografia intellettuale di platone questa è un’altra questione), ma quello che qui bisogna mettere in evidenza è l’esigenza, da parte di Hegel, di trovare l’elemento speculativo in platone ed egli lo trovava in questo dialogo e più precisamente nelle sue pagine conclusive. ecco, nello specifico, quale valore filosofico Hegel attribuiva a questo dialogo: che l’uno tanto se è quanto se non è, tanto come identico a sé quanto come non identico, tanto come movimento quanto come quiete, come nascere e come perire, è e non è, e il non essere è qualche cosa. Questa è la risposta che platone dava al «venerando e terribile parmenide» il quale aveva escluso dal discorso filosofico il non essere. L’essere è qual14 g. W. f. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, cit., vol. ii, p. 215. 15 Ibidem. 16 Ibidem.

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che cosa che è e non è, così come l’uno – allo stesso modo di tutte le altre idee che pure sono e non sono – è altrettanto uno e molti. «nella proposizione “l’uno è” – scrive – è contenuta anche l’altra “l’uno non è unità, ma molteplicità”»17. Qui filologicamente siamo fuori dal testo platonico; platone, infatti, non conosceva la molteplicità. con quale parola greca si traduce, quindi, il termine molteplicità? il termine molteplicità è ricalcato sulla tradizione scolastica latina, platone piuttosto conosceva oi pollòi, ma non conosceva la molteplicità; anzi, per lui era un fatto da criticare l’elevazione di questo termine ad un genere neutro del discorso, a qualche cosa di ipostatico e di lontano dalla reale concretezza. per Hegel, invece, l’uno non era unità ma molteplicità: «si dice contemporaneamente “il molti non è una molteplicità, ma un’unità”»18, cioè era un sostantivato. per compiere questa evoluzione concettuale, Hegel si doveva servire di un linguaggio che era già stato elaborato attraverso la tradizione speculativa. «Queste idee sono presentate dialetticamente, sono essenzialmente l’identità col loro altro; e questa è la verità. un esempio ce lo offre il “divenire”. nel divenire, essere e non essere – qui si trova una delle formulazioni tipiche di Hegel – si trovano in un’unità indissolubile, e tuttavia vi sono anche come differenti; infatti il divenire si ha soltanto in quanto l’uno trapassa nell’altro»19. Ibidem. Ibidem. 19 Ibidem. 17 18

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Basti questo accenno a dimostrare come in sostanza Hegel apprezzasse profondamente il contributo che viene dato dalla filosofia antica, anche perché la dialettica degli antichi è una dialettica che si estende in tutto l’ambito del reale. Hegel, per questa ragione, apprezzerà molto il modo di filosofare di aristotele, contravvenendo alla polarizzazione fra platone, idealista, e aristotele, empirista o realista. aristotele, in verità, metteva ben in evidenza Hegel, non era un empirista nel senso moderno del termine; egli, piuttosto, era colui il quale indagava sui nessi logici in ogni direzione della realtà e non si fermava davanti a nulla; il campo del reale era tutto quanto preso in considerazione e il pensiero si muoveva in esso con una libertà sconosciuta ai moderni. Quello che nel mondo degli antichi è il pensiero in assoluto, per i moderni diviene rappresentazione. in altri termini, molte sono le rappresentazioni della verità che i filosofi moderni hanno davanti e ne devono scegliere qualcuna. Questo è il punto che stringe inesorabilmente la terra su cui la filosofia moderna è approdata, la terra dell’autocoscienza. nel momento in cui si crede, con Hegel, di avere posto i piedi sul terreno sicuro e saldo dell’autocoscienza, dell’io penso, allora si resta imprigionati, in qualche misura dall’io penso, si resta collocati in una direzione obbligata, si deve percorrere la strada del metodo. per questa ragione Hegel cercava di mettere a confronto gli “antichi” con quella che considerava il vero punto di forza dei “moderni”. Quello che egli riteneva che si doveva sviluppare e svolgere era la larghezza con cui gli antichi si erano mossi nei

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riguardi dell’esperienza e come essi erano riusciti a dare di questa un’immagine ricca e al tempo stesso variegata e che ai moderni non era più possibile. Questo è l’aiuto che, in fondo, Hegel chiedeva ai classici. certo, c’è il problema di rimettere in moto questi pensieri irrigiditi, per usare il linguaggio hegeliano, e attraverso la via del metodo Hegel ricorreva alla dialettica. era la dialettica che doveva dare questa possibilità di rimettere in circolo questo materiale, quindi, come si vede, la formula «la sostanza è anche soggetto», così apparentemente oscura, si manifesta di grande chiarezza perché per arrivare a mostrare che la sostanza è anche soggetto ci vuole l’intera Scienza della logica o perlomeno le ultime due parti, la Logica dell’essenza e la Logica del concetto. il confronto tra antichi e moderni viene poi ripreso anche nelle Lezioni di storia della filosofia dedicate alla filosofia moderna in cui egli scrive: «noi possiamo tornar sempre daccapo alla filosofia antica con riconoscenza: essa ci appaga; è nel suo grado di sviluppo, un concreto punto mediano che soddisfa al compito del pensiero quale esso è inteso»20. dalla lettura di questo brano si è presi dalla tentazione di pensare che Hegel non poteva che dire questo degli antichi, visto che nel sapere assoluto tutto era compendiato e le posizioni filosofiche antecedenti erano solo tappe che hanno portato a questa sintesi finale. il problema, allora, sta nel chiedersi: dopo che Hegel ha scritto che l’elemento speculativo 20

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Ibidem, vol. iii, parte ii, p. 216.

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in platone e in aristotele ha raggiunto il suo punto più alto, dopo di loro, qual era il compito del pensiero in quanto tale? oppure: si può filosofare ancora dopo platone e aristotele? e se anche si superasse indenni questa domanda radicale si potrebbe incorrere in quest’altra: si può ancora filosofare dopo Hegel? ci sono state le risposte che tutti sanno: è stato detto che la filosofia è morta dopo Hegel, che dopo Hegel non si può filosofare più, che Hegel è in realtà l’ultimo filosofo sistematico. a queste domande si è risposto, come tutti quanti sanno, nel modo più svariato. c’è chi ha parlato di morte della filosofia e chi, invece, ritiene che la filosofia moderna non è che un episodio nella storia del pensiero perché esiste una filosofia perenne che è quella della tradizione e chi vuole filosofare non deve che immettersi in questa tradizione. che significa, allora, che la filosofia di platone e aristotele «è nel suo grado di sviluppo un concreto punto mediano che soddisfa al compito del pensiero quale esso è inteso»? mi fermo su questa espressione. La si deve intendere nel senso che platone e aristotele occupano semplicemente un posto nella sacra catena della tradizione, oppure, viceversa, si devono considerare i vari aspetti dell’elemento speculativo, come Hegel stesso diceva, in una forma di partecipazione dalla quale nessuno che abbia detto qualcosa possa essere escluso? Questa è la domanda che si deve porre al testo hegeliano. e allora le cose cambiano anche nella valutazione di Hegel: si dovrà infatti dire che Hegel, in sostanza, non è più soltanto l’ultimo filosofo siste-

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matico dopo di che non si può filosofare più, ma in questo caso Hegel è colui che avrebbe, invece, consentito di filosofare sempre, che ha riaperto sempre la possibilità di filosofare. in tal caso, egli sarebbe veramente non l’ultimo dei moderni ma, in sostanza, l’ultimo degli antichi. Hegel ci dà la possibilità di filosofare sempre se è vero che ha detto che in platone e in aristotele, ma anche in altri autori, si è sviluppato l’elemento speculativo, l’elemento di verità. Questo elemento di verità, si dice, può essere sminuito secondo il movimento del superamento, viene, cioè, negato per essere conservato. ma in che consiste questo movimento: in sostanza il già pensato viene negato e viene sussunto nel pensante. ma in che modo? come pensante o come pensato? sembra, da quanto detto, che Hegel non deve essere più considerato come un punto di partenza, come era considerato qualche generazione fa – si pensi all’introduzione di Benedetto croce alla traduzione della Enciclopedia delle scienze filosofiche di Hegel, ai primi del novecento, in cui è detto che attraverso quel libro ciascun pensatore troverà la collocazione storica giusta – bisogna piuttosto considerare Hegel come punto di rimeditazione, come colui che ci aiuta a filosofare. e lo ha fatto non solo attraverso le sue grandi opere, come la Fenomenologia dello spirito, la Scienza della logica, ma anche mediante le Lezioni di storia della filosofia che sono importanti proprio perché presentano momenti in cui viene concettualizzato chiaramente il presente come il punto più alto. nella conclusione delle sue Lezioni scrive: «L’ultima filosofia comprende in se stessa tutti gli

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stadi, è il prodotto e la conclusione di tutte le filosofie precedenti. […] Ho tentato di tratteggiare questo sviluppo delle forme spirituali della filosofia nel loro progresso, mettendone in rilievo i collegamenti»21. Questo che significa? significa che la via del filosofare si riapre, non si chiude; questo in qualche modo credo possa essere una via per scoprire l’elemento speculativo presente nelle diverse posizioni dei filosofi. nella metafisica moderna i contrasti come al solito sono rigidi, sono contraddizioni assolute, il pensiero non rende fluidi i concetti, quindi, non abbiamo concetti intesi come circoli, come elementi automoventesi. non c’è questa circolazione. Qui va messa in evidenza un’applicazione di cui finora non abbiamo parlato, ma che in passato ha fatto molto discutere e che adesso si accetta tranquillamente, ovvero, l’aspetto teologico della filosofia di Hegel. in passato, quando la mia generazione si è formata, questo non veniva messo in evidenza ma si diceva che l’apparato teologico di Hegel fosse in realtà qualcosa di cui ci si poteva disfare. Hegel, invece, lo utilizzava proprio per platone e aristotele: «dio non è inteso come la ragione, nella quale si risolvono eternamente le contraddizioni, non è inteso come spirito, come il triuno. […] ma questa concreta idea di dio, in quanto ragione, non è ancora accolta dalla filosofia»22. a questo punto si aprirebbe un discorso molto serio e molto importante che mi obblighereb21 22

Ibidem, p. 417. Ibidem, p. 216.

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be a ricorrere anche ad altri corsi di lezioni, come i corsi di Filosofia delle religione. ma per attenerci, sempre che sia possibile, al nostro tema, possiamo dire che l’idea di dio in quanto ragione, che Hegel ha presentato, è quella che gilson, a proposito di cartesio, ha chiamato una nouvelle idée de Dieu23, cioè, iddio creatore delle verità eterne. come si vede, non è l’idea di dio della scolastica perché quella presupponeva – riassumendo in termini molto elementari – che si partisse dai sensi per arrivare all’intelletto. Le prove dell’esistenza di dio, infatti, muovono dalla realtà. nel caso della nouvelle idée de Dieu di cartesio, e quindi anche di spinoza e del pensiero moderno, l’idea di dio non muove dalla realtà, semmai essa garantisce la realtà. effettivamente platone e aristotele non conoscevano l’idea di dio, né gli scolastici, che hanno adottato il dogma in termini di filosofia aristotelica, riuscivano a parlare di questa idea di dio. È un punto molto importante perché tutti coloro che hanno voluto interpretare l’idea di dio nella filosofia moderna alla luce della filosofia scolastica si sono dovuti fermare. Lo stesso gilson, eminente rappresentante di questa esigenza, ha intitolato, appunto, un suo celebre saggio su cartesio, La nouvelle idée de Dieu; un’idea di dio che cartesio stesso chiariva, in una lettera straordinaria del 15 aprile 1630 a padre mercene, suo amico divulgatore, consigliere, esortatore e che voleva ad ogni costo che cartesio scrivese. gilson, Nouvelle idée de Dieu, in Études sur le rôle de la pensée mediévale dans la formation du systéme cartésien, J. vrin, paris 1984. 23

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se un trattato di metafisica. ebbene, in questa lettera cartesio scriveva: «le verità matematiche, che voi dite eterne, sono state stabilite da dio e ne dipendono interamente, al pari di tutto il resto delle sue creature. […] non abbiate timore – vi prego – di assicurare e di pubblicare ovunque che è dio che ha stabilito queste leggi di natura, come un re stabilisce le leggi del suo regno»24. chi è questo dio che crea le verità eterne? È egli, per questo, il peggiore sopraffattore in quanto ci fa credere quello che lui vuole? il grande problema di cartesio nelle Meditazioni sarà proprio questo: passare dal dio ingannatore all’idea del buon dio che non ci inganna. senza avere risolto questo problema il pensiero moderno non può muovere un passo. ora, Hegel non ha evidentemente affermato questo, né probabilmente egli approvava questo tipo di discorso – era, infatti, un uomo ferratissimo in teologia a differenza di cartesio che ha sempre detto che gli argomenti teologici li lasciava a coloro che se ne dovevano occupare per professione –, però ho l’impressione che l’idea di dio di cui egli parlava nel brano che abbiamo letto, e che egli non poteva certamente attribuire a platone o aristotele perché gli antichi non hanno avuto questa idea, somigliava, più che all’idea di dio tradizionale della scolastica, a quella della nouvelle idée de Dieu. ad ogni modo, questo è semplicemente un accenno per ricercare quelli che sono gli elementi specular. descartes, Descartes a Mercenne, Amsterdam, 15 aprile 1630, in Opere filosofiche, a cura di ettore Lojacono, utet, torino 1994, vol. i, p. 365. 24

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tivi che ricompongono il cammino per cui Hegel avrebbe cercato di aprire la via al pensare piuttosto che chiuderla. c’è, poi, ancora un passo in cui ritorna il raffronto con gli antichi: «presso gli antichi la ragione, in quanto essere dentro di sé e per sé della coscienza, aveva avuto soltanto l’eterea esistenza formale come linguaggio – stranissima espressione, ma che probabilmente dà la misura di quello che lui intendeva per logos –, ora invece ha la certezza di sostanza esistente»25. anche qui si trova di nuovo la spiegazione del motto «la sostanza è anche soggetto». conclude dicendo: «quindi in cartesio l’unità del concetto e dell’essere, e così pure in spinoza la realtà universale»26. ritorna la contrapposizione tra antichi e moderni: presso gli antichi la ragione aveva avuto soltanto «l’eterea esistenza formale come linguaggio». il termine linguaggio, logos, ragione, il rapporto fra ragione e linguaggio Hegel lo ha individuato perfettamente, soltanto che questo linguaggio di cui gli antichi disponevano era molto più vasto del linguaggio che i moderni possono parlare in filosofia. i moderni, non possono parlare del logos in modo adeguato, invece, gli antichi avevano parole calzanti. La filosofia moderna, piuttosto, ci consente, secondo Hegel, di ripensare il logos alla luce dell’autocoscienza, alla luce della certezza di sé che è la terra su cui abita la filosofia moderna. Hegel, dung. W. f. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, cit., vol. iii, parte ii, p. 217. 26 Ibidem. 25

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que, è stato colui che ha messo in rapporto col logos la coscienza del tempo, e quindi la modernità. con questo movimento il logos non è più qualcosa di sovratemporale, ma viene violentemente chiamato, coinvolto nella coscienza del tempo. Questo è in fondo l’autoconcetto: autocoscienza, è questa chiamata del logos nell’ambito della coscienza del tempo. e qui il problema del moderno diventa di grande chiarezza. ecco quello che si intendeva dire quando è stato affermato che Hegel in realtà aveva pensato il moderno come categoria speculativa; aveva provato a pensarlo nell’elemento speculativo. in sostanza Hegel è stato il primo che ha pensato speculativamente il logos, ma è stato anche il primo ad aver collegato il logos al tempo individuando il rapporto tra moderno, coscienza del tempo e ragione universale. si trova, in tal senso, nella Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto questa espressione: «la filosofia è il proprio tempo appreso col pensiero»27. il moderno, quindi, si problematizza; tutta la critica del moderno in qualche modo nasce da Hegel stesso che ha fatto il grande tentativo di pensarlo e al tempo stesso pensandolo ne ha mostrato i limiti. tutto ciò che viene dopo, i pensatori del sospetto, freud, nietzsche, ecc., non farebbero che approfondire le crepe di un edificio che già nell’ambito del pensiero hegeliano presenta delle spaccature. Quindi la rivolta contro Hegel sarebbe quella che possiamo chiamare la rivolta degli schiavi, la rivolta di coloro i 27

g. W. f. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., p. 14.

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quali restano legati al suo pensiero per potere formulare la loro critica, sia pure radicale, perché chi ha pensato il moderno è stato Hegel stesso e senza di lui noi in realtà non avremmo una tradizione filosofica moderna. concludiamo questa riflessione con un monito che ci viene da Hegel: «il punto più alto è il presente», ma il presente non va solo additato, il presente va pensato. Hegel, dunque, ha aiutato senza dubbio a pensare il presente, ma a condizione che il presente non venisse inteso come un epilogo, ma come una fase che nel chiudersi mette capo ad una fase nuova e questo naturalmente implica una profonda revisione anche degli aspetti tradizionali su cui negli ultimi tempi, nelle ultime generazioni ci si è fermati.

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Questo capitolo è intitolato Il problema di Cartesio, ma forse avremmo dovuto scrivere “il problema cartesio”, perché cartesio è in qualche modo un problema a sé stesso. Ho voluto però dare questo titolo per riportare alla memoria un saggio omonimo di un altro docente di filosofia che ha avuto un ruolo importante in italia fra le due guerre. e siccome ne abbiamo già ricordato qualcuno di illustre studioso è bene menzionarne un altro; mi riferisco ad armando carlini che ai più giovani è del tutto ignoto. egli fu uno dei maggiori allievi di gentile, professore di filosofia teoretica all’università di pisa, accademico d’italia nel periodo fra le due guerre. carlini nel 1944, quando l’italia era divisa in due come usa dire croce nel suo diario, si ritirò nelle vicinanze di Lucca e scrisse un saggio su cartesio, pub-

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blicato poi da Laterza (Biblioteca di cultura moderna), che intitolò Il problema di Cartesio1. da testimonianze riportate dai suoi allievi pisani oggi si sa che carlini faceva leggere la Metafisica di aristotele e le Meditazioni di cartesio. carlini s’interessò a cartesio partendo dall’attualismo di gentile; e rimeditando sul pensiero gentiliano, giunse a delle conclusioni abbastanza delicate e compromettenti. egli, iniziando a studiare i testi di gentile, arrivò a teorizzare una sorta di spiritualismo trascendente; e gentile, per rispondere alle sue perplessità, gli indirizzò una nota dal titolo esplicativo: Chiarimenti ad un attualista dubbioso2. Qual era, dunque, il motivo per il quale carlini s’interessava a cartesio? La risposta va ricercata nella considerazione che gli attualisti avevano di cartesio. Questi, partendo dalla posizione di Hegel, ritenevano cartesio il progenitore della filosofia moderna. Questa fama cartesio l’ha portata con sé per molto tempo; e fu proprio Hegel il primo ad avere questa considerazione del filosofo francese. ancora oggi, quando si parla di filosofia e di pensiero moderno, inevitabilmente si fa riferimento a questa figura di uomo che non fu un professore, ma aspirò e sperò che i suoi Principi di filosofia venissero adottati al posto dei manuali in uso nelle scuole gesuitiche da cui lui stesso aveva appreso i primi rudimenti della filosofia. ma sperò invano. non riua. carlini, Il problema di Cartesio, Laterza, Bari 1948. g. gentile, Chiarimenti ad un attualista dubbioso, in Introduzione alla filosofia, sansoni, firenze 1958. 1 2

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scendo con quest’opera ad imporsi nell’insegnamento ufficiale, cartesio, pur di avere la soddisfazione che i Principi da lui banditi fossero insegnati, ripensò la sua prima opera scrivendo un’opera sistematica: il Discorso sul metodo; un’opera di estremo interesse, filosoficamente di estrema difficoltà, che si legge come se si trattasse di un racconto pur essendo molto di più. nonostante ciò non ottenne nessun risultato. dalla sua corrispondenza si evince che ad un certo punto, dati i suoi studi di medicina e le sue frequentazioni alla scuola di medicina di poitiers, era intento alla ricerca di un rimedio di lunga vita e invece morì prestissimo a cinquant’anni con una polmonite. Questa è un per sommi capi la vita del progenitore della filosofia moderna. una biografia che è un po’ una metafora della filosofia moderna; infatti questa, proprio come il nostro filosofo, ha avuto inizi abbastanza complessi. Questo induce a guardare all’indirizzo di pensiero, che è detto moderno, più nelle sue ombre che nelle sue luci e credo che questo sia venuto in qualche misura emergendo da quanto detto sin’ora. da cartesio, poi, prendono il via tutti i movimenti che hanno dato luogo, ciascuno per conto suo, ad altrettante direzioni di pensiero: a cartesio si rifanno i positivisti, che si chiedevano se la “metafisica” di cartesio era scritta in funzione della sua “fisica”; se ne occuparono gli idealisti, i quali dissero che cartesio in realtà aveva interesse soprattutto alla sua “metafisica”; si rifecero a lui i fenomenologi: basti ricordare le bellissime lezioni di Husserl a parigi su

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cartesio, intorno agli anni trenta, intitolate per l’appunto Meditazioni cartesiane3. in ultima analisi, chiunque riprende a riflettere su cartesio viene riportato a questi temi, alla complessa questione del rapporto fra gli antichi e i moderni e agli sviluppi che da questi problemi derivano. cartesio, del resto, era un pensatore poliedrico e aveva messo tutto il suo acume e la sua capacità di polemista, nelle questioni che lo interessarono. aveva addirittura scritto, sembra, un trattato sul modo di fare i duelli. era, quindi, uno studioso ma anche un vecchio gentiluomo che sapeva battersi al momento giusto. fu, dunque, un uomo dal temperamento vario. racconto questi aneddoti perché credo che l’analogia tra la biografia di cartesio e lo spirito moderno sia forte e ci aiuta a rappresentarci l’origine eterodossa della filosofia moderna. di questo aspetto eterodosso del pensiero di cartesio Hegel s’era accorto, ma nonostante ciò non esitò a designarlo come il fondatore del pensiero moderno. in realtà cartesio, per essere precisi, fu in qualche modo responsabile di quanto si è detto successivamente su di lui a proposito della filosofia moderna perchè egli sostenne, con molta nettezza, che la sua filosofia non voleva essere in nessun modo una riproduzione della filosofia degli antichi, ma che era una filosofia nuova. egli, dunque, comprendeva sé stesso in questi termini, come colui che aveva instaurato una filosofia nuova. nel capitolo precedente abbiamo citato la lettera dell’aprile 1630 a padre mercene in cui cartesio invi3

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e. Husserl, Meditazioni cartesiane, Bompiani, milano 1970.

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tava il suo amico sacerdote ad andare in giro a dire che dio era il creatore delle verità eterne e delle verità matematiche e geometriche. anche in questo caso bisogna dire che quella cartesiana è una nuova idea di dio, un’idea formulata con una competenza tale da non trovare pari in questo campo. Étienne gilson stesso intitolò un suo celebre studio Une nouvelle idée de Dieu4 in cui spiegava che l’idea di dio formulata da cartesio non aveva precedenti nella scolastica. sento a questo punto il bisogno e il dovere di citare il libro di uno studioso che ritengo fra i maggiori studiosi di storia della filosofia dei nostri tempi, augusto del noce. egli scrisse, nel 1960, un libro intitolato Riforma cattolica e filosofia moderna5; un importante studio dedicato a cartesio e svolto da un punto di vista che vuole essere oggettivo rispetto alle origini della filosofia moderna. del noce non segue la ricostruzione hegeliana secondo la quale cartesio, spinoza e malebranche si susseguono quasi come delle cadenze di un unico processo. Questa lettura è stata fatta anche da altri studiosi, soprattutto da gouilleux in francia e da molti altri autori, i quali hanno messo in evidenza questo carattere di modernità del cartesianesimo, però, come vedremo, non nel senso con cui Hegel l’ha impostato. da queste posizioni si vede subito che ritornare a cartesio non è possibile né da parte di chi voglia tornare ad una posizione tradizionale in filosofia, cioè da parte dei neoscolastici, né da parte dell’idealismo; e. gilson, Une nouvelle idée de Dieu, cit. a. del noce, Riforma cattolica e filosofia moderna, il mulino, Bologna 1965. 4 5

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infatti, nessuno può sulle posizioni cartesiane, pensare ad una restaurazione della filosofia perenne, né si può vedere in cartesio il precursore dell’idealismo perché all’interno del suo pensiero restano delle forti limitazioni. infine, neanche la fenomenologia può in qualche modo ascriverlo fra i suoi precursori. Quello che si evince invece è che più si discute di cartesio e più la sua immagine rimane evanescente. Questo è detto molto bene nel già citato libro di del noce che aiuta non poco a ricostruire le complesse matrici da cui nasce la filosofia che viene detta moderna. Quindi, “il problema cartesio”, come abbiamo detto all’inizio, sta nella difficoltà di assegnare una posizione precisa a questo pensatore rispetto al suo tempo e rispetto al suo stesso pensiero. Hegel per la verità questo l’ha fatto nella sua ricerca dell’elemento speculativo presente nei vari pensatori e a proposito di cartesio, nelle Lezioni di storia della filosofia, vi è un’espressione che ho già usato ovvero la metafora del navigante che arriva finalmente alla terra ferma: «ormai possiamo dire di trovarci in essa proprio a casa nostra – sul terreno, cioè, dell’autocoscienza, sul terreno della filosofia autonoma – e, come il navigatore dopo lungo errare sul pelago infuriato, possiamo gridar “terra!”»6. a cartesio, difatti, mette capo veramente il pensiero della filosofia moderna dopo che a lungo si era andati avanti sulla vecchia via. ma qual era, in breve, questo elemento speculativo, che, come abbiamo 6 g. W. f. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, cit., vol. iii, parte ii, p. 66.

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cercato di dimostrare, Hegel rintraccia e interpreta in ciascuno dei grandi pensatori con i quali veniva a confronto? Quando si parla di elemento speculativo s’intende qualcosa di permanente e di immutabile, un concetto filosofico che resta tale e resta sempre valido, un aspetto del vero, dell’assoluto come unico vero o del vero come unico assoluto. Qual era questo elemento speculativo? Hegel riteneva che il pensiero puro fosse l’elemento speculativo nella filosofia cartesiana e a tal proposito scriveva: «puro pensare è precisamente astrarre da tutto»7. cartesio aveva individuato nel movimento del puro pensiero l’astrazione dalle determinazioni concrete; aveva visto nel puro pensiero un movimento di repulsione, di allontanamento, di presa di distanza dalle determinazioni del sapere concreto. Questo sarebbe l’elemento valido, l’elemento speculativo nel senso che ho cercato di spiegare: la forza del pensiero che mette capo alla nozione di autocoscienza; la terra su cui la filosofia moderna si impianta e su cui resta. La giustificazione della proposizione “cartesio iniziatore del pensiero moderno” sta nel fatto che cartesio aveva messo da parte il sapere sensibile e si era limitato a considerare il pensiero puro come capace di giustificare sé stesso. in questo senso possiamo dire che il movimento del pensiero in cartesio assumeva una caratteristica simile per un aspetto, e opposta per un altro, a quel7

Ibidem, p. 74

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la che caratterizzava l’ascesa verso il pensiero puro, verso la contemplazione pura, tipica della linea di pensiero di platone e di aristotele. platone e aristotele avevano rivendicato la purezza del logos astraendo dalle molteplicità dell’esperienza; cartesio faceva un ragionamento simile, ma fondato su una nozione che platone e aristotele non potevano avere al centro del loro pensiero. nel discorso cartesiano il mondo sensibile veniva messo da parte e il pensiero puro diveniva capace di autogiustificazione. Questa è la differenza fra antichi e moderni. analoga è la critica al sapere sensibile, ma su una base totalmente diversa: l’autocoscienza. ecco i due poli fra cui Hegel si è trovato: l’autocoscienza e il vero come assoluto; l’assoluto come vero nella tradizione platonica e nella tradizione della filosofia moderna. mettere assieme questi due aspetti ha significato per lui dare l’idea di ciò che è moderno, offrire gli elementi speculativi per pensare il moderno. difatti Hegel, riconoscendo a cartesio questo contrassegno, cioè di aver fatto approdare sulla terra dell’autocoscienza il pensiero moderno e la filosofia moderna, affermava che questa posizione portava al pensiero puro, al puro pensare, che dava la possibilità di astrarre dal mondo sensibile. si indovina facilmente a quale posizione cartesiana questa frase si ascrive: all’esperienza del dubbio. nella prima Meditazione cartesio metteva in questione il sapere sensibile poiché, senza aver posto prima il dubbio, l’affermazione «io penso, dunque, esisto», restava un’affermazione dogmatica. era il

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dubbio che determinava la forza di quell’affermazione, che costituiva il supporto di quell’affermazione. il dubbio consisteva, appunto, nel mettere tra parentesi il sapere ricevuto e su questa base si costituiva l’autocoscienza. senza l’esperienza del dubbio l’autocoscienza rischiava di perdere la sua tensione, la sua carica espansiva. Hegel, però, riteneva che questo elemento speculativo cartesio lo aveva mescolato ad una quantità di altri elementi che non erano speculativi e che sarebbero stati, piuttosto, il portato di un suo tentativo personale di filosofare. chi legge le pagine dedicate a cartesio si accorgerà che le riserve, dopo il riconoscimento di ciò che di vero vi è nel suo pensiero, si infittiscono. ma qui va detto che sono riserve legate ad un’esigenza che abbiamo già affrontato nei capitoli precedenti, cioè, sono legate al problema di pensare l’autocoscienza fino in fondo, cioè, di circumnavigare questa terra ferma, di ispezionarla. cartesio avrebbe soltanto iniziato questo viaggio. un passo decisivo in questa direzione sarebbe stato fatto dopo di lui, dice Hegel, e questo passo riguarderebbe spinoza. La posizione di Hegel rispetto a spinoza era certamente una posizione di grande interesse. egli elogiava spinoza in maniera eccezionale affermando addirittura che senza spinoza non si poteva filosofare. dunque, qual è questo passo ulteriore? Hegel scriveva che «essere spinoziani è l’inizio essenziale del filosofare»8 e dicendo ciò sembra che 8

Ibidem, p. 110.

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si decideva ad adottare il modello spinoziano come modello della filosofia tout court. ma vi è un altro passo su cui credo vale la pena meditare. Hegel vedeva in spinoza colui il quale avrebbe ripreso l’idea, che era stata avanzata dalla filosofia eleatica (alle origini della filosofia); egli parla infatti di eleatismo. spinoza, cioè, sarebbe stato in grado di pensare l’assoluto come vero e il vero come assoluto. nel passo che adesso leggeremo Hegel si richiamava al volume primo della Scienza della logica e all’esposizione della filosofia eleatica. Qui egli, trattando della categoria dell’essere, riprendeva in nuce i motivi avanzati da parmenide. Questa parte del libro va letto infatti tenendo come punto di riferimento parmenide, la Logica dell’essenza considerando platone e aristotele e La Logica del concetto tenendo d’occhio Kant ed Hegel stesso. non a caso, allora, il primo volume della Logica, in questa fase di analisi critica del moderno e della filosofia moderna, ha assunto particolare interesse: esso affronta il problema dell’essere, il problema dell’ontologia. Questo è un punto molto importante: che spinoza abbia fatto veramente questo – abbia, cioè, affrontato il problema dell’essere – è una questione relativamente secondaria, ma che spinoza evochi in Hegel il parmenidismo e la filosofia eleatica è un argomento che merita una riflessione. «come già vedemmo – scriveva Hegel – non si comincia a filosofare senza che l’anima si tuffi anzitutto in quest’etere dell’unica sostanza in cui è sommerso tutto quel che si era ritenuto vero»9. con que9

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Ibidem.

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sto passo si ritorna stranamente alle origini del filosofare, alle origini del logos. proviamo a seguire Hegel in queste sue peregrinazioni: tutto il sapere popolare, il sapere comune, veniva messo a parte da questa riflessione parmenidea sull’essere che è «questa negazione di tutto quello ch’è particolare, cui deve essere pervenuto ogni filosofo»10. Qui Hegel dettava una regola: per filosofare bisogna anzitutto mettere da parte il dato sensibile e quindi sospendere il giudizio, negare, al limite, tutte le determinazioni empiriche, le determinazioni particolari, fare questo enorme sforzo di astrazione perché altrimenti non si perviene sul terreno della filosofia. e in ciò consiste «la liberazione dello spirito e la sua base assoluta»11. È chiaro qui l’apprezzamento per la posizione eleatica che è un anello del confronto che Hegel manteneva con gli antichi e con platone. e questo riferimento a parmenide, nel momento in cui parlava dei moderni, ci dice del modo con cui Hegel si avvicinava al pensiero moderno. Questo, penso, debba costituire un elemento di riflessione. Hegel dopo questa dichiarazione passava ad indicare la nostra differenza, in quanto moderni, dalla posizione eleatica. «il nostro punto di vista si distingue dalla filosofia eleatica – qui si faceva esplicito il riferimento alla filosofia eleatica – soltanto in questo, che il mondo moderno grazie al cristianesimo possiede nello spirito l’individualità concretata». Lasciando 10 11

Ibidem. Ibidem.

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da parte la riflessione sulla nozione di spirito che Hegel faceva derivare dal cristianesimo e che considerava un elemento oscuramente speculativo – egli riteneva che la nozione di spirito era stata pensata in filosofia moderna in maniera da poterla pensare al di fuori di ogni riferimento alla tradizione teologica corrente, questo almeno presuntivamente – cerchiamo di spiegare qual è la forza del pensiero che consente di negare quella potenza che in un primo momento è negatrice di ogni particolare, del pensiero che è negazione di ogni determinazione particolare. in un primo momento la forza del pensiero sta nella negazione della particolarità, e questo è un elemento speculativo che come tale per Hegel restava e non poteva essere smentito, non poteva essere superato. veniamo alla posizione di spinoza. di fronte a questa infinita esigenza dell’interamente concreto, la sostanza di spinoza non era ancora stata determinata come in sé stessa concreta. addirittura Hegel vedeva in spinoza colui che possedeva entrambi gli elementi della filosofia moderna: da un lato la concezione dell’assoluto, dall’altro la concezione dell’autocoscienza. spinoza si muoveva sulla terra ferma dell’autocoscienza, come si era già mosso cartesio, ma, e questo è veramente stupefacente, spinoza possedeva una nozione dell’assoluto quale nessun pensatore moderno ha mai posseduto e che permetteva addirittura di richiamare la figura più semplice, più originaria della logica: l’essere. Questo è quel che vi è di grandioso nel pensiero di spinoza, ma, spiegava Hegel, egli «è ben lontano

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dall’avere dimostrato codesta unità con altrettanto vigore, quanto avevano cercato di metterne gli antichi». cioè, secondo Hegel, spinoza non sarebbe riuscito a dimostrare la proposizione «L’assoluto è solo e vero oppure il vero solo e assoluto» con la stessa potenza con cui l’avevano dimostrata gli antichi – c’è qui un riferimento alla tradizione eleatica – «ma quel che c’è di grandioso nella maniera di pensare di spinoza è l’avere egli potuto rinunciare ad ogni determinato, a ogni particolare, per riferirsi soltanto all’uno, per poter tenere in considerazione soltanto questo»12. Questa figura, questo modello del filosofare presente in spinoza era certamente un modello di difficile imitazione ed era un paradigma che più che rappresentare un esempio da seguire era un problema da affrontare. in sostanza la grande forza della filosofia di spinoza stava nell’aver saputo superare, in età moderna, le determinazioni. Qui è bene fare un breve inciso per comprendere a pieno la portata di questa posizione filosofica. nel secondo capitolo, a proposito della necessità di fluidificare i pensieri, abbiamo riportato il passo in cui Hegel ritiene che il problema della metafisica moderna sia quello di dare vita a pensieri rigidi, a contrapposizioni nette, ferme, che rendono difficile la vita del pensiero moderno. spinoza aveva rimesso in movimento questi pensieri irrigiditi, aveva, cioè, cercato di togliere le determinazioni concrete e reali e di risolverle in un nuovo sforzo del pensiero, nell’assoluto o, detto in termini spi12

Ibidem.

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noziani, in dio. mentre cartesio cominciava dal soggetto, dal dubbio, spinoza si insediava sin da principio nella sostanza infinita, in dio, e i due attributi, pensiero ed estensione, diventavano, appunto, dei modi di questa sostanza. Lasciando da parte queste considerazioni, proprie del pensiero di spinoza su cui Hegel si muoveva come al solito cercando di vederne gli aspetti positivi ma mettendo anche in rilievo i limiti, si può dire che spinoza non sarebbe riuscito a pensare l’assoluto in termini di autocoscienza. a tal proposito, dopo aver riconosciuto il valore speculativo nel pensiero di spinoza, Hegel chiariva qual era il suo limite spiegando che, per giustificare l’assoluto, spinoza «dovrebbe dedurlo dalla sua sostanza; ma questa non si schiude, e non perviene quindi ad alcuna vita, spiritualità e attività. La sua filosofia ha soltanto la rigida sostanza, non ancora lo spirito; in essa non si è presso di sé»13. Qui si nota ancora un riferimento allo spirito, cioè, a quella che è la nozione tipica del pensiero moderno, lo spirito come autocoscienza, al quale Hegel faceva evidentemente costante riferimento e senza il quale si sarebbe perso il senso del suo discorso. Quindi questo passaggio da cartesio a spinoza era per Hegel fondamentale, anzi si può dire pure che, al di là delle differenze particolari e profonde esistenti fra i due pensatori, Hegel vedeva una sostanziale continuità fra i due e spinoza sarebbe stato 13

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Ibidem, p. 142.

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colui che avrebbe portato a compimento l’impresa cartesiana. Quindi l’elemento speculativo in cartesio e l’elemento speculativo in spinoza avrebbero costituito un unico elemento che alla fine sarebbe sboccato nella concezione spinoziana che rappresentava la ripresa del motivo dell’assoluto solo vero, del vero solo assoluto. Hegel attraverso spinoza ricostruiva lo sforzo del pensiero di pensare il moderno; e pensare il moderno per Hegel significava innanzitutto avere a disposizione una concezione della realtà in termini di assolutezza e, al tempo stesso, la pensabilità di questo assoluto attraverso l’autocoscienza. Questi erano gli ingredienti che gli davano la possibilità, come dicevamo in principio, di pensare il moderno perché, in realtà, le tendenze che avevano in qualche modo spezzato questo modello spinoziano, che per Hegel era addirittura il modello del filosofare in quanto tale, hanno portato in due direzioni divergenti con il risultato che il concetto di moderno si è infranto. Questa ricostruzione hegeliana del moderno filosofico rispondeva anche ad un’altra domanda: c’era in questo tentativo qualcosa che poi successivamente si era mostrato inadeguato? senza dubbio restava fuori quel qualcosa che era considerato moderno, ma che in termini hegeliani non era più tale, e così vi era da un lato il ritorno ad una filosofia del soggetto – indirizzi, per esempio come quelli di stirner, che costituivano un depauperamento della nozione del soggetto e, in sostanza, la conclusione e l’epilogo della grande filosofia dell’autocoscienza – dall’altro

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lato, viceversa, vi era il momento del concepimento dell’assoluto, del vero come assoluto; ma poiché questo vero come assoluto restava fuori dal pensiero e anticipava o pretendeva di anticipare il pensiero, vi erano posizioni come quella di schelling, che si caratterizzava per la separazione dei due momenti che in Hegel erano viceversa strettamente collegati. il confronto con schelling era stato aperto sin dalle pagine della Fenomenologia e dall’immagine famosa dell’assoluto in cui tutte le vacche sono nere. un assoluto in cui le determinazioni non riescono a mantenere sé stesse e in cui il molteplice non riesce a mantenere sé stesso. Questo assoluto vuoto sarebbe un prius rispetto al pensiero, garantirebbe sì il pensiero, ma al tempo stesso gli toglierebbe la sua forza espansiva. va precisato che questo modo di pensare il moderno, una volta che i due elementi, l’assoluto e l’autocoscienza, si sciolgono l’uno dall’altro, diventa impensabile e si determina la situazione in cui si dice o che la filosofia moderna è stata oltrepassata o, come qualcuno arriva a dire, che non è mai esistita in quanto tale. va, però, segnalato a questo riguardo che proprio in qualcuno dei pensatori che si sono formati con Hegel, anche se poi hanno rotto con l’hegelismo, si sono conservate tracce sostanziose e potenti delle pagine che abbiamo letto. feuerbach, per esempio, scrisse e pubblicò un corso di storia della filosofia, una ricostruzione della storia della filosofia moderna. ebbene, per quanto riguarda gli aspetti della ricostruzione data da feuerbach restano due punti fondamentali: cartesio e spinoza. e proprio il pensiero di quest’ultimo occupava un posto fondamentale

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nella ricostruzione che feuerbach faceva del pensiero moderno. un lavoro interessante sarebbe quello di prendere questo corso di lezioni feuerbachiano per studiarlo in rapporto alle pagine delle Lezioni di storia della filosofia di Hegel, per mostrare come la linea della filosofia moderna persista e permanga sul piano della ricostruzione storica anche quando è stata respinta nelle sue conclusioni. infatti, e questo mi pare un fatto interessante, feuerbach rifiutava l’elemento speculativo della filosofia hegeliana, ma sul piano della ricostruzione delle grandi tappe del pensiero moderno si trovava ancora in accordo con Hegel. Quindi il rifiuto del risultato non si accompagna al rifiuto della ricostruzione storico-sistematica data da Hegel. per dichiarare il pensiero moderno effettivamente concluso si dovrebbe ricostruire la storia della filosofia moderna in modo del tutto diverso da come Hegel ha fatto, altrimenti la critica rivolta alle conclusioni da lui avanzate può essere ribadita quanto si vuole e secondo le prospettive filosofiche più disparate ma si resterà sempre entro la costruzione hegeliana. La stessa critica maturata all’interno del filone hegeliano risulta inadeguata. penso agli esponenti della sinistra hegeliana e, in genere, ai neohegeliani dell’ottocento. Qui è bene ricordare l’opera di un filosofo, anche se qualcuno lo definisce piuttosto un saggista, che ricostruisce le distinzioni interne alla “scuola hegeliana”. mi riferisco a Karl Löwith che, nel suo volume Da Hegel a Nietzsche14, ha distinto la 14 K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, piccola biblioteca einaudi filosofia,

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famiglia degli hegeliani in tre rami: antichi hegeliani, giovani hegeliani, neohegeliani. e questa è, a mio giudizio, una ricostruzione molto pregevole perché consente tra l’altro di cogliere le diverse posizioni che i neohegeliani hanno assunto rispetto ad Hegel. penso a neohegeliani della portata di dilthey o a esponenti dell’hegelismo del novecento come Benedetto croce. per rendersi conto del carattere di questa filosofia, che è detta moderna, è necessario approfondire, oltre che il rifiuto del risultato, soprattutto il modello storico-sistematico legato a questo risultato. tagliare il risultato senza avere scritto una storia della filosofia diversa significa restare ancora nel guado, non averlo veramente oltrepassato. a mio giudizio, una ricostruzione della storia del pensiero moderno, intesa in senso filosofico, deve essere fatta in modo da non lasciare questo scheletro così com’è per poi giustapporgli delle conclusioni teoretiche diverse. finché il pensiero contemporaneo non riuscirà a presentare lo sviluppo storico del pensiero moderno e, quindi, il rapporto con l’antico in modo diverso da Hegel probabilmente resterà sempre suo mancipe, suo debitore. in verità, una ricostruzione della storia della filosofia diversa da quella di Hegel si potrà concepire quando si avrà un pensatore pari ad Hegel. allora, credo che resti una questione di fondo: si continua ancora a pensare la storia della filosofia con categoeinaudi, torino 2000. cfr. anche La sinistra hegeliana, antologia a cura di K. Löwith, Biblioteca universale Laterza, Laterza, roma-Bari 1982.

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rie hegeliane anche quando si è ormai lontani dal pensiero hegeliano. Questo non vuole dire che si è obbligati a restare in questa posizione, ma vuol dire semplicemente che finora non è stato avviato questo processo, nessuno è stato in grado di scrivere un’altra storia della filosofia. Questo è il punto! negli ultimi decenni si è avuto indubbiamente un lavoro storiografico di grande rilievo; soprattutto in italia, tutti hanno plaudito al fatto che si scrivevano volumi su Locke e su Kant, ma non si voleva vedere in Locke e in Kant i precursori di Hegel o i precursori semmai, purtroppo, di gentile o di altri idealisti. non è la categoria del precorrimento che io invoco qui; è chiaro che il precorrimento come tale non dà la soluzione di questo problema, ma resto fermo allo stesso punto. Hegel è stato il solo che ha scritto una storia della filosofia pensata; e la storia sta ancora aspettando un altro pensatore che ne scriva un’altra altrettanto pensata. È vero, Heidegger ha fatto qualche cosa in questo senso: egli ha inteso la storia della filosofia come storia della decadenza della metafisica ed è risalito fino all’eleatismo. ma bisogna porre una domanda: se non ci fosse stata la crisi del pensiero hegeliano, quella ricostruzione sarebbe stata possibile? ecco che allora riemerge ancora, in qualche modo, la dipendenza della storia del pensiero occidentale dalla ricostruzione hegeliana. È chiaro che una filosofia e la sua ricostruzione storica deve nascere da un altro pensiero. Bisogna cercare le tracce del nuovo attraverso l’analisi dei

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movimenti filosofici contemporanei e tutto questo richiederà molto tempo. pertanto si deve essere abbastanza pazienti e bisogna rendersi conto che non basta una semplice confutazione per annullare quella che è l’impronta che il pensiero hegeliano ha lasciato nel pensiero moderno. Questo, mi pare, un punto da tenere in considerazione. per concludere voglio dire ancora qualcosa sul “problema cartesio”. Branchevique, uno storico francese idealista dal punto di vista filosofico, paragonabile al Windelband in germania, parlava di un passaggio da quello che è stato chiamato “cartesianesimo di fatto” al “cartesianesimo di diritto”. Questa espressione, “cartesianesimo di diritto”, vuole definire quel che il cartesianesimo dovrebbe essere rispetto a quello che è. per fare questo Branchevique ha dovuto tenere una posizione che più hegeliana non poteva essere: al centro della sua ricostruzione restava fermo il passaggio da cartesio a spinoza che Hegel aveva visto come necessario. il modello dello spinozismo, indicato da Hegel, – spinoziren significa, appunto, seguire spinoza – resta il sentiero seguito per ricostruire il pensiero moderno, anche per questioni non strettamente hegeliane. Qui ho accennato a problemi riguardanti la filosofia francese: anche in francia Branchevique parlava di “cartesianesimo di diritto” perché cartesio se avesse voluto essere coerente avrebbe dovuto pensare, in sostanza, come ha pensato spinoza. anche qui il pensiero contemporaneo resta, per questo nodo fondamentale, debitore alla ricostruzione storica di Hegel, e quindi al pensiero hegeliano.

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oggi, infatti, c’è la consapevolezza che la storia della filosofia hegeliana, in quanto storia pensata, è una storia che richiama e investe in prima istanza i presupposti stessi del pensiero di Hegel. il problema cartesio è, dunque, il problema della modernità: ogni qualvolta che si fa riferimento alle origini del pensiero moderno ci si imbatte nella sua figura. un passo importante, poi, sta nel nesso fra cartesio e spinoza: il passaggio che Hegel vedeva da cartesio a spinoza resta fondamentale per ciò che oggi viene detto moderno e sta alla base del moderno pensato da Hegel. per tutte queste ragioni ero abbastanza in dubbio nell’intitolare questo capitolo Il problema Cartesio perché avrei voluto dire qualche cosa in più oltre che ad indicare semplicemente le difficoltà – legate appunto alla posizione cartesiana – che nascono fin dalle origini del pensiero moderno. nel momento in cui si indaga sulla legittimità e sulla ragion d’essere del pensiero che si dice moderno non si può fare a meno di risalire a quelle che vengono considerate le sue origini. se ciò non si fa potrebbero nascere tanti problemi; ne indico solo uno: l’autonomia della filosofia, l’autonomia del pensiero in quanto è in grado di certificare a sé stesso la sua esistenza. Questo è il punto fondamentale: è realmente pensabile un’autonomia della filosofia fondata sul terreno dell’autocoscienza? Questo significa domandarsi qualche cosa di fondamentale intorno alle origini della filosofia moderna. concludiamo riportando quello che cartesio dice

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intorno al discorso sul metodo: «di cose teologiche io non desidero occuparmi, le lascio a coloro che se ne intendono, ma per me io mi tengo stretto al lume naturale, alla filosofia come opera umana». L’autonomia della filosofia rispetto alla teologia è certamente un punto importante che segna il principio della filosofia moderna; essa nasce con un’autocoscienza di questo genere: essere riuscita a distinguere sé stessa dalla teologia, di essere riuscita ad inverare sé stessa inverando la teologia e non il contrario, come era avvenuto nelle epoche precedenti. domandarsi qualcosa intorno a questa pretesa, che così semplicisticamente cartesio avanza fra le righe di quello che non ha chiamato trattato ma semplicemente Discorso, non è cosa facile perché questa domanda ha conseguenze forti per il pensiero. non è certo semplice dire: «io mi restringo al mondano, alla luce naturale». Hegel col suo pensare il moderno ha scosso questa specie di neutralità, di apparente indifferenza con cui la filosofia moderna si era nascosta al suo inizio. egli ha voluto la luce piena; ma facendo questo che cosa ha prodotto? Ha prodotto veramente il moderno oppure compiendolo ne ha preparato la dissoluzione? Questo resta il problema al quale, poi, per tante vie torneremo.

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Quarta Lezione

iL carattere deLLa fiLosofia moderna: L’ideaLismo oggettivo

il tema dell’oggettività vuole essere, in qualche modo, un epilogo di quanto abbiamo detto finora e per introdurci nell’argomento leggeremo una proposizione di Hegel presente nella Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio. La questione filosofica che egli vedeva posta nel suo tempo è quella della possibilità di conoscere il vero e a tal proposito scrive: «L’espressione: pensieri oggettivi designa la verità, la quale deve essere l’oggetto assoluto, e non solo lo scopo della filosofia. ma quell’espressione scopre subito un’antitesi, e propriamente quella intorno alla cui determinazione e validità si aggirano l’interesse filosofico dei tempi nostri e la questione intorno alla verità e alla conoscenza di essa»1. g. W. f. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, traduzione, prefazione e note di Benedetto croce, Laterza, Bari 2002, paragrafo 25, pp. 38-39. 1

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vi sono qui congiunte la coscienza del tempo e la verità: la conoscenza del vero. ci sarebbero proposizioni più chiare – soprattutto nei primi scritti a stampa, penso a Fede e scienza2 per esempio – però mi sembra che l’Enciclopedia conservi il ricordo di quello che per Hegel era stato il problema di fondo: il rapporto fra coscienza del tempo e coscienza assoluta, il rapporto fra moderno e verità, la conoscenza della verità. Quindi, si conserva in questa proposizione il nocciolo, l’essenziale del problema che stiamo affrontando. Quali erano le posizioni intorno al problema della conoscenza del vero con le quali Hegel si misurò? Hegel, sempre nell’Enciclopedia, premetteva alla Scienza della logica, che costituisce la prima parte dell’opera, una rapida esposizione di quelle che a lui sembravano le tre posizioni del pensiero rispetto all’oggettività, rispetto alla questione della conoscenza del vero. Hegel attraverso questa esposizione voleva giustificare il modo in cui si disponeva in lui l’elemento logico; si trattava, quindi, di una sorta di preparazione, ovvero, di preliminare alla logica. Le tre posizioni sono rappresentate rispettivamente dall’indirizzo metafisico, così come si trovava costituito prima della filosofia kantiana, dalle due correnti dell’empirismo e del criticismo e infine dalla conoscenza immediata. Queste sarebbero le tre posizioni del pensiero rispetto all’oggettività. g. W. f. Hegel, Fede e sapere o filosofia della riflessione della soggettività nell’integralità delle sue forme come filosofia di Kant, di Jacobi e di Fichte, in Primi scritti critici, mursia, milano 1971. 2

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in ciascuna di queste posizioni Hegel cercava di individuare l’elemento speculativo, l’elemento più propriamente filosofico di ciascuna di esse; cercava, dunque, di individuare qual era l’elemento d’interesse filosofico che ciascuna di queste posizioni conservava. per esempio, l’elemento speculativo che Hegel riscontrava nella tradizione metafisica consisteva nella corrispondenza delle determinazioni concettuali alle determinazioni dell’essere, la corrispondenza del sapere con l’essere. Questo era per lui l’elemento filosofico, l’elemento che andava conservato di questa posizione, anche se lasciava cadere il modo con cui questa posizione era stata argomentata. per quanto riguarda la seconda posizione, abbiamo già detto che egli parlava di due correnti, l’empirismo e il criticismo. in un primo momento le affiancava perché entrambe fondavano il problema della conoscenza sulla base dell’esperienza; però, se si leggono i paragrafi 41, 42 e 43 dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche, si capisce subito che la posizione di Kant e dell’indirizzo kant-fichtiano – c’è un preciso riferimento a fichte – era destinata ad assumere una posizione preminente. Qual era, dunque, a suo giudizio il limite del kant-fichtismo, dell’indirizzo che da Kant ha portato a fichte? in sintesi, il limite era dato dal fatto che questa corrente appariva ad Hegel senza riguardo per l’oggettività; non salvaguardava i diritti della conoscenza oggettiva. per Hegel, il pensiero, nell’elemento speculativo dello scetticismo e del criticismo, tendeva a giustificarsi autonomamente, astraendo dalle deter-

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minazioni, dall’esperienza e concentrandosi, per così dire, in sé medesimo. Questo era l’elemento speculativo, cioè, l’elemento permanente e il lato negativo di questo indirizzo era proprio l’assenza di riguardi per l’oggettività. c’era, poi, il terzo indirizzo, ovvero, la conoscenza immediata. prima di tutto dobbiamo soffermarci su un aspetto: stranamente Hegel ha citato, nel paragrafo 64, il cogito cartesiano. non solo rinnovava a cartesio l’elogio che egli aveva già tributato nelle pagine delle Lezioni sulla storia della filosofia, dichiarando che intorno alla proposizione «cogito, ergo sum» si aggirava tutto l’interesse della moderna filosofia, ma mostrava altresì, citando passi dal Discorso sul metodo, che non era possibile interpretare in senso sillogistico la proposizione cartesiana3. seppure ad una prima lettura lasci abbastanza sorpresi la ripresa di cartesio e la sua collocazione nell’ambito della conoscenza immediata, appare poi chiaro questo richiamo: in sostanza il problema che Hegel aveva davanti era quello di ricollegare essere e pensiero, pensiero ed essere e attraverso questo “oggetto” Hegel è stato costretto sempre a ritornare sulla questione del cogito, sulla questione dell’io penso. ecco perché, in Hegel, il problema dell’io penso, il problema della soggettività, riemerge anche quando non sembrerebbe il caso di presentarlo, come, appunto, nella conoscenza immediata. se queste sono le tre posizioni del pensiero di fronte all’oggettività, quale di esse può aprire la stra3 g. W. f. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, cit., p. 81.

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da alla comprensione della posizione che Hegel va ad esporre nella Scienza della logica? La risposta è abbastanza ovvia: il criticismo kantiano, l’indirizzo kant-fichtiano. a questo riguardo è bene citare un passo dal paragrafo 41: «Le particolari forme dell’a priori, cioè del pensiero e propriamente del pensiero in quanto attività soltanto soggettiva, senza riguardo alla sua oggettività, si ricavano nel modo seguente, – con una sistemazione, del resto, che poggia solo su fondamenti psicologico-storici»4. Qui torna di nuovo in primo piano il problema della utilizzazione del materiale logico che Hegel aveva ereditato dalla tradizione cioè, il problema della classificazione dei giudizi, il problema dell’elenco delle categorie, di tutto il materiale che Hegel aveva ereditato e che aveva adoperato per improntare il suo pensiero, la sua particolare veduta. Qual è il limite che Hegel ha intravisto? egli, all’inizio del paragrafo 41, quando parlava della critica della ragion pura, affermava: «La filosofia critica sottomette poi ad indagine il valore dei concetti dell’intelletto»5, ovvero delle categorie, e a tal proposito, nella nota al paragrafo 42, attribuiva alla filosofia fichtiana «il profondo merito di aver fatto avvertire che, le determinazioni del pensiero son da mostrare nella loro necessità; che sono essenzialmente da dedurre»6. ciò che era mancato, quindi, al criticismo era stato, appunto, la deduzione delle categorie. Questo Ibidem, p. 52. Ibidem, p. 51. 6 Ibidem, p. 53. 4 5

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limite, per Hegel, aveva delle conseguenze molto importanti perché questa mancanza lo costringeva a cercare, per quel materiale logico ereditato dalla tradizione, una disposizione tale che gli consentisse di risolvere questo problema. Lo diceva, infatti, subito dopo: «tale filosofia avrebbe dovuto avere, sul metodo di trattar la logica, almeno questo effetto, che le determinazioni del pensiero in genere o il materiale logico usuale, le specie dei concetti, dei giudizi, dei ragionamenti, non fossero più oltre prese dall’osservazione e concepite, così, solo empiricamente, ma venissero dedotte dal pensiero stesso. se il pensiero dev’essere capace di provare qualche cosa, se la logica deve esigere che si rechino prove, e se vuole insegnare il modo di provare, essa deve essere anzitutto capace di provare il suo peculiare contenuto, e scorgerne la necessità»7. È chiaro quindi che Hegel si trovava davanti al problema dell’universalità, davanti al problema del conoscere assoluto, ed era preoccupato, per la gravità della questione, di trattare il materiale logico della tradizione in modo adatto al conoscere assoluto. È sostanzialmente l’impresa che egli ha cercato di portare a compimento con la sua Logica; la terra promessa della filosofia moderna, l’autocoscienza, non bastava più, non perché era una veduta parziale, ma perché l’affermazione secondo cui l’autocoscienza è parte del vero, è un aspetto inscindibile del vero. Questa affermazione andava continuata e dimostrata nella logica; se questo non avveniva, allora l’affermazione dell’autocoscienza diveniva un qualche 7

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Ibidem.

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cosa che non interessava nel profondo la filosofia e il pensiero speculativo. era questo il momento di maggiore tensione rispetto alla tradizione dell’autocoscienza, all’indirizzo di pensiero che va da cartesio a Kant; se non si riusciva a parlare dell’assoluto in modo adatto attraverso il materiale della logica tradizionale, non si riusciva a disporre questo organismo in modo da investire il problema dell’oggetto, il problema della verità e quindi tutto il lavoro della filosofia moderna rischiava di andare perduto. possiamo dire che qui Hegel provava a pensare il concetto del moderno, metteva alla prova l’affermazione della filosofia moderna sul primato del soggetto. era qui che Hegel dimostrava come era necessario andare oltre l’affermazione della soggettività del pensiero e cercare di metterla alla prova proprio davanti al problema dell’oggettività, davanti al problema della conoscenza del vero. si potrebbe dire che è da qui che comincia il concetto di moderno che abbiamo cercato di ripercorrere attraverso le opere citate. da qui cominciava a presentarsi, sotto una veste problematica, la trasparenza del concetto di moderno che era presente quando Hegel plaudiva al cogito, alla terra nuova dell’autocoscienza; da qui il concetto di moderno cominciava a deteriorarsi e allora se ne presentava anche un aspetto negativo: il moderno come ricaduta nella filosofia che contrapponeva finito a infinito in contrapposizioni rigide, senza soluzioni. ricorderete, a tal proposito, l’espressione contenuta nella Fenomenologia dello spirito “la necessità di fluidificare i concetti”.

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Quindi Hegel, come abbiamo detto fin dal principio, è il primo filosofo che ha pensato effettivamente il moderno in termini speculativi, ma egli è anche il primo che ne ha visto la problematicità. i due aspetti sono indisgiungibili: l’avere tentato di pensare il moderno ha coinciso con l’apertura di una sua problematicità. i riferimenti di Hegel alla falsa soggettività, alla soggettività superba che ignorava le leggi oggettive, che ignorava tutto ciò che era valido e permanente, investivano la stessa conquista dell’autocoscienza che rimaneva, comunque, una conquista essenziale e fondamentale. nel momento in cui Hegel pensava il moderno, la modernità, intesa come concetto, iniziava a deteriorarsi e si può, quindi, considerarlo a capo di tutti coloro che hanno, poi, in modi molto diversi da lui, criticato il moderno. anche la querelle tra antichi e moderni, che Hegel ha sistematizzato, si è aperta ad una nuova fase storica che dopo di lui ha portato ai risultati della filosofia contemporanea. L’espressione “i pensieri oggettivi designano la verità la quale deve essere l’oggetto assoluto e non solo lo scopo della filosofia”, scopriva subito un’antitesi intorno alla cui determinazione e validità si aggirava l’interesse filosofico dei nostri tempi, ossia la verità e la conoscenza di essa. Quindi, questa doppia posizione che emergeva proprio nel momento in cui si affrontava il tema dell’oggettività, ovvero, il tema della conoscenza della verità, della verità in quanto assoluto, resta la questione dei nostri tempi. Quando Hegel ha fatto il tentativo di pensare il presupposto della filosofia moderna, che è il presup-

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posto dell’autocoscienza, il concetto di moderno ha cominciato ad oscurarsi. il fatto che sia stato pensato e che, attraverso quel pensiero, la categoria speculativa del moderno si è oscurata, sta al centro della problematica che ho cercato di illustrare in questo libro. Questo atteggiamento ambivalente che per un verso mostra come Hegel sia da considerare colui che ha dato alla filosofia moderna il suo volto coerente, ma che allo stesso tempo ne ha mostrato anche la parte oscura deve indurre a porsi questo interrogativo: che cosa significa pensare? ecco la domanda che bisogna porsi dopo il tentativo di Hegel di pensare il moderno; un tentativo straordinario che riporta, però, non a caso, alle origini della tradizione filosofica italiana ed europea. e questa prova riporta il pensiero ad una nuova nascita; ecco perché bisogna chiedersi, dopo Hegel, che cosa significa pensare. Questo mi sembra il punto essenziale del discorso che abbiamo tentato di fare. nella Scienza della logica, a proposito dell’oggettività, si trovano delle indicazioni importanti. gli aspetti del problema, indicati in queste pagine, bisogna sforzarsi di leggerli indipendentemente dal riferimento al tema dell’autocoscienza perché essi si presentano in un modo tale da presentare una sorta di scarto rispetto alla linea dell’autocoscienza. Hegel, del resto, accettava il presupposto dell’autocoscienza, ma in determinate occasioni non era pienamente coerente con queste sue assunzioni. dopo avere trattato il giudizio apodittico e avere in sostanza criticato l’insieme della tavola dei giudizi,

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il rapporto, cioè, fra soggetto e predicato, si trovano due cenni al doppio significato della soggettività che prende origine da questo rapporto; la soggettività del concetto e così anche dell’esteriorità e dell’accidentalità che al concetto d’altronde si contrappone. Hegel scrive: «così appare anche per l’oggettività il doppio significato di stare di fronte al concetto per sé stante, ma anche di essere ciò che è in sé e per sé»10. dunque, vi è la difficoltà di mantenere questa duplice accezione dell’oggettività: per un lato l’oggetto è ciò che sta di fronte al soggetto, per l’altro l’oggetto è ciò che “è in sé e per sé”. Qui in sostanza sono presenti le due tradizioni: la tradizione moderna e l’eco della dialettica degli antichi; quella dialettica platonica che Hegel riconosceva soprattutto nel Parmenide. c’è nell’oggettività un doppio significato: l’oggetto di fronte al soggetto. e qui si riscontra subito qual è la posizione storica che corrisponde a questa posizione speculativa: è certamente il criticismo kantiano; ma non è questo quello che Hegel intendeva per oggettività. già abbiamo detto che Hegel criticava il criticismo per la sua noncuranza nei riguardi dell’oggetto; questo significava che la posizione di un oggetto che stava di fronte al soggetto era da Hegel ritenuta una posizione che non soddisfava i diritti dell’oggettività. ma questi diritti, per così dire, erano soddisfatti dalg. W. f. Hegel, Scienza della logica, Laterza (BuL), romaBari 2004, vol. ii, La logica soggettiva ossia Dottrina del concetto, sezione ii, L’oggettività, p. 806. 10

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l’altra posizione che Hegel collegava alla prima mediante un “anche”, «anche di essere ciò che è in sé e per sé». L’idealismo oggettivo è l’idealismo che pone al suo centro l’oggetto che è in sé e per sé e non l’oggetto che è di contro al soggetto, non il noumeno che è di contro al fenomeno, ma l’oggetto che è in sé e per sé. perché questo possa farsi, per soddisfare questa esigenza dello spirito, che nella filosofia moderna era disattesa, Hegel ha dovuto ricorrere alla dialettica degli antichi. nel ricorso che l’Hegel della Fenomenologia ha fatto alla formula, varie volte evocata, «l’assoluto solo è il vero e il vero solo è assoluto», si deve scorgere il tentativo da parte sua di comporre la querelle tra gli antichi e i moderni mediante il recupero della filosofia classica, di platone e di aristotele. io non credo che artifizi dialettici di varia natura, che pure sono stati escogitati per ricondurre sulla linea della filosofia dell’autocoscienza questa posizione hegeliana, possano sortire un loro qualsiasi effetto. si tratta veramente di un punto che, se meditato a fondo, dimostra che se da un lato Hegel restava essotericamente legato alla linea dell’autocoscienza, al pensiero moderno, dall’altro, esotericamente in molte occasioni, presentava un altro itinerario. il grande indirizzo neokantiano dei primi decenni del nostro secolo in germania, rivendicando un passaggio da Kant a Hegel – penso all’opera di Kroner e di Hartmann11 – ha accettato, in sostanza, che Hegel 11 r. Kroner, Da Kant a Hegel (1921-1924); n. Hartmann, La filosofia dell’idealismo tedesco, 2 voll. (1923-1929).

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fosse la continuazione e l’epilogo dell’idealismo kantiano. Questo è stato il più grande sforzo per mantenere la prima posizione dell’oggettività, cioè l’oggetto di fronte al soggetto, ma Hegel non era compiutamente su questa strada. si deve, però, esaminare fino in fondo la posizione hegeliana e domandarsi come si arriva al concetto di ciò che è in sé e per sé? come si arriva in altri termini, a pensare l’assoluto? continuando nella lettura della Scienza della Logica si trovano espressioni di pari chiarezza su questo punto: «nel senso opposto poi l’oggettivo significa quello che è in sé e per sé, quello che è senza limitazione e senza contrapposizione»12. come si vede, la logica dell’essere è così chiaramente evocata da sembrare frutto di un pensatore venuto dopo di lui. e continuando: «i principii razionali, le opere d’arte perfette etc. intanto si dicono oggettivi, in quanto son liberi e al di sopra di ogni accidentalità. Benché i principii razionali, teoretici o morali, appartengano soltanto al soggettivo, alla coscienza, ciò nondimeno il loro essere in sé e per sé si chiama oggettivo»13. il testo è molto denso ed è molto chiaro nella difficile coerenza delle posizioni legate alla ricerca dell’elemento speculativo, per usare i termini hegeliani. ancora: «La conoscenza della verità vien riposta nel conoscere l’oggetto così com’esso è libero in quanto oggetto, dall’aggiunta di ogni artifizio di riflessione 12 13

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g. W. f. Hegel, Scienza della logica, cit., p. 806. Ibidem.

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soggettiva»14. Qui, come si vede, il kant-fichtismo viene ridotto addirittura polemicamente ad artifizi, a meri raziocini sulla cosa che non toccano la cosa in sé, ma che riguardano semmai la sua superficie. Questo artifizio di riflessione soggettiva sarebbe il cascame residuo della filosofia cosiddetta della riflessione che a un certo momento di fronte a questa esigenza di pensare l’oggetto come in sé e per sé si dimostra uno strumento inutilizzabile. «il retto agire – continuava Hegel facendo riferimento all’etica – si fa consistere nell’osservanza di leggi oggettive le quali non hanno origine soggettiva, né ammettono alcun arbitrio né alcuna maniera di comportarsi che ne turbi la necessità»15. Qui si trovano le radici di quello che qualcuno ancora oggi chiama l’istituzionalismo hegeliano interpretando in chiave storico-sociologica quello che è, invece, un punto di filosofia speculativa. in sostanza, l’ossequio alla legge per Hegel era ossequio al pensiero in quanto tale. Questo è il nocciolo speculativo del cosiddetto conformismo (?). osservare le leggi vere – la legge è tale in quanto è oggettiva – significa piegarsi alle esigenze del pensiero. a questo punto della nostra trattazione, cioè, dopo l’oggettività, Hegel iniziava la trattazione finale, passando dal meccanicismo al chimismo, fino alla teleologia. e con la teleologia, la logica del concetto si esaurisce e finisce anche la logica in quanto tale, La scienza della logica si conclude con l’ultima sezione intitolata L’idea. 14 15

Ibidem, pp. 806-807. Ibidem, p. 807.

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L’oggettività in questo passaggio è anzitutto il concetto dell’essere in sé e per sé, del concetto che ha elevata la mediazione posta nel suo proprio determinarsi a immediato riferimento a sé stesso. da questa lettura possiamo trarre ulteriori argomenti per spiegarsi le diverse interpretazioni che del pensiero di Hegel si sono date. per esempio, dai passi citati si può forse spiegare come mai nella letteratura hegeliana ci siano, accanto a indirizzi e movimenti come quelli che ho indicato e che hanno rivendicato la continuità e il passaggio da Kant a Hegel, autori come theodor Haering e l’italiano galvano della volpe che parlarono di Hegel romantico e mistico, come del più grande pensatore irrazionalista della storia del pensiero moderno. perché si arriva a questa interpretazione? probabilmente una risposta sta nel fatto che questi autori vedevano Hegel fuori dalla grande linea del pensiero moderno come sviluppo dell’autocoscienza. va però anche detto che attraverso lo sviluppo della filosofia della vita e col conseguente incontro con categorie come la vita, lo spirito, così come si presentarono prima delle grandi elaborazioni concettuali della Fenomenologia e della Scienza della Logica, si ebbero delle conseguenze nell’interpretazione hegeliana. È anche questa una fase della vicenda hegeliana del novecento e domandarsi perché si è parlato di irrazionalismo ci aiuta a chiarire l’oggetto di questa indagine. dunque, porsi il problema di pensare l’oggetto qual è in sé e per sé è irrazionalismo? porsi il problema di pensare la vita come un presupposto, una cate-

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goria oltre la quale non possiamo andare – e qui c’è tutto l’indirizzo di filosofia della vita da dilthey a nietzsche ecc. – è irrazionalismo? probabilmente lo è, ma nel caso di Hegel, credo che ci si trovi al di sopra della dicotomia razionalismo-irrazionalismo proprio per l’altezza e l’ardimento del suo tentativo di pensare l’assoluto, di porre un nuovo inizio, un nuovo cominciamento in filosofia che era, poi, l’epilogo dell’indirizzo della filosofia moderna. come sempre nel caso di Hegel si arriva ad un punto in cui le due posizioni si toccano, come abbiamo cercato di fare vedere. ecco che allora si arriva alla domanda ultima: che cosa significa pensare? Hegel sapeva benissimo che cosa significasse pensare perché egli si considerava sulla grande linea dei grandi filosofi moderni, pur attraverso le critiche ad essi rivolte. ricordate che Hegel considerava il pensiero di spinoza il modello della filosofia in generale. in sostanza, il problema è come sia possibile pensare, se pensare deve significare pensare l’oggetto in sé e per sé: come è possibile pensare l’assoluto? il carattere della filosofia moderna non era certamente completo, secondo Hegel, se non si arrivava a porre il problema del pensare secondo verità. tutte le altre forme di pensiero, che potevano in qualche modo essere presentate in assenza di questo pensare secondo verità, erano per Hegel ricadimenti in una falsa idea del moderno. come è possibile, allora, sulla base della filosofia moderna pensare l’assoluto secondo verità? Questo credo sia il problema.

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mi ha fatto molta impressione quella proposizione delle Lezioni di storia della filosofia dove a proposito dell’autocoscienza Hegel parlava del navigante che era uscito dal pericolo della tempesta ed era approdato finalmente sulla terraferma e la terraferma metaforicamente sarebbe stata l’autocoscienza. noi oggi sappiamo qual è la sorte riservata a pensatori come cartesio ed altri da parte degli indirizzi contemporanei: sono cancellati dalla storia della filosofia; ma Hegel non è su questa linea perché egli pur ritenendo che l’autocoscienza fosse una terra salda si domandava come era possibile, partendo dal principio della connessione dialettica fra essere e pensiero, pensare l’oggetto in sé e per sé. non è, quindi, una conclusione ma un’ulteriore domanda quella che Hegel ancora oggi spinge a formulare; ed è una domanda alla quale ancora oggi – in cui la critica al moderno e alla filosofia moderna è ormai diventata un retaggio comune a tutti gli indirizzi – si cerca di dare una risposta: come è possibile un pensare conforme a verità, partendo dalla filosofia del soggetto? come è possibile pensare l’oggetto in sé e per sé? Questo è un quesito che ci riporta alle origini della filosofia nel mondo antico, alla domanda sollevata per la prima volta dal «terribile e venerando parmenide» e al quale platone diede la prima risposta. a questo punto, s’impone la domanda: «perché l’uomo moderno dell’epoca dell’illuminismo accetta il conflitto tra ragione e rivelazione, tra lo spirito puramente temporale della nostra civiltà, avanzando la pretesa di superarlo a mezzo della sola ragione,

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invece di rifarsi all’antico e al più antico: alla natura e alla storia mitica originaria? c’è evidentemente di mezzo il cristianesimo e il principio dell’identità dell’uomo-dio, che ravvicina il divino all’umano com’era mai avvenuto in precedenza, in altri termini il cristianesimo come “religione assoluta”. in uno scritto giovanile del periodo di collaborazione con schelling, Hegel avrebbe riassunto, con risolutezza radicale, la sua posizione antitetica a quella di cartesio e a tutta la cultura post cartesiana, attirandosi poi l’opposizione di schelling per aver inteso superare l’intelletto illuministico a mezzo della sola “ragione”. perché l’uomo del nostro tempo ha fatto cadere il patto di pacificazione proposto da Hegel col sistema d’una filosofia «in cui la teologia sembra trovarsi più a suo agio che non nella dimora che gli è propria»? L’evoluzione spirituale seguìta a Hegel può essere considerata un progresso o piuttosto una caduta e un arretramento? È ancora l’interrogativo di oggi, quello cui, lo si voglia o no, siamo chiamati a rispondere. conviene, per restare in tema, rifarsi in breve al principio. fin dai suoi primi scritti Hegel trattò la differenza dei sistemi di filosofia di fichte e di schelling, esaminando poi a fondo le opere di Kant, di fichte e di Jacobi per non fermarsi alla filosofia della “riflessione” della soggettività, e per superare l’opposizione, divenuta prevalente in epoca illuministica, tra sapere e fede, e quindi il dualismo tra dio e il mondo. «contro la filosofia cartesiana… che ha dato espressione filosofica al dualismo che guadagnava universalmente terreno nella civiltà nella storia moderna del nostro

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mondo nord-occidentale, – un dualismo, del quale, in quanto tramonto di tutta la vita antica, tanto il più tacito mutamento della vita pubblica degli uomini, quanto le più numerose rivoluzioni politiche e religiose, non sono altro che aspetti esterni di colore diverso – orbene contro la filosofia cartesiana come contro la civiltà generale da essa portata ad espressione, ogni aspetto della natura vivente, e quindi anche la filosofia, doveva cercare una via di salvezza; ciò che sotto questo rispetto è stato fatto da parte della filosofia, quando si manifestava apertamente, veniva trattato con rabbia, quando assumeva una forma più nascosta e confusa l’intelletto se ne impadroniva tanto più facilmente, per reinserirlo nello schema dualistico di prima; su questa morte si sono fondate tutte le scienze, e ciò che in esse vi era ancora di scientifico, e quindi di vivo almeno in forma soggettiva, lo ha ucciso completamente il tempo; cosicché, se non fosse la filosofia stessa a sentire tanto più intensamente, immerso e costretto in questo vasto mare, la forza delle sue ali creecenti, anche solo la noia delle scienze (questi edifici di un intelletto, abbandonato dalla ragione, il quale, e questo è il peggio, ha rovinato infine anche la teologia prendendo a prestito il nome di ragione illuminante o morale) anche solo la noia delle scienze, dunque, doveva rendere insopportabile tutta questa espansione superficiale e suscitare almeno una nostalgia di ricchezza, di una scintilla, di una concentrazione di intuizione viva e, dopo che ciò ch’era morto era stato riconosciuto ormai da tempo, la nostalgia di una conoscenza di ciò che vive, conoscenza resa possibile solo dalla ragio-

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ne». È un’analisi impietosa del panorama culturale e civile della società tedesca ma altresì europea del tempo, in cui affiora, emerge, l’esigenza d’una filosofia capace di suscitare da sé stessa la passione della verità, cui fa da compendio l’affermazione: «La germania non è più uno stato». tutto questo viene solo in apparenza contraddetto dal giudizio positivo che Hegel darà su cartesio nei suoi corsi posteriori sulla Storia della filosofia; infatti – secondo Hegel nella Fenomenoloia – il principio, fondato da cartesio, della soggettività autocosciente non consiste nell’essere la “sostanza” solo “soggetto”, bensì nell’esserlo “anche”; soggettività sostanziale che si genera come spirito per un mondo dello spirito e della libertà. È questo un punto che non si coglie fino in fondo, se non si pensa che sia Hegel che schelling convenivano nella posizione critica assunta di fronte alla teologia protestante, i cui concetti erano allora determinati da Kant e da fichte. tradurre le “rappresentazioni” religiose in “concetto” filosofico, e concepire filosoficamente i dogmi cristiani era, per Hegel, tanto più necessario, in quanto la maggior parte degli stessi teologi non credeva già più alle dottrine fondamentali del cristianesimo: «se una gran parte del pubblico colto, e proprio molti teologi – afferma Hegel – dovessero dire, la mano sul cuore, se ritengano quelle dottrine di fede strettamente necessarie per raggiungere la beatitudine eterna, oppure se al non credere ad esse consegue l’eterna dannazione, non si può avere dubbi circa la risposta che darebbero. persino la dannazione eterna e l’eterna beatitudine sono parole, che non

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si possono usare in buona società; tali espressioni sono impronunciabili. anche se non le si rifiuta, ci si troverebbe tuttavia in imbarazzo volendo manifestare la propria opinione su di esse. e se si è letto nelle dogmatiche del nostro tempo nei libri edificanti e simili, in cui le dottrine fondamentali del cristianesimo dovrebbero essere esposte o almeno prese per base, e se si dovesse giudicare se ora in essi quelle dottrine fondamentali vengano esposte in modo così nebuloso, finirà col cadere l’ultimo ostacolo alla concezione filosofica dei dogmi. La filosofia si può comportare con maggiore disinvoltura di fronte ad esse, dato che le dottrine della chiesa hanno tanto perso d’interesse». «del resto non è più necessario distruggere i dogmi mediante la filosofia, perchè l’esegesi critico-storica ha già sbrigato questa faccenda». come teologia ecclesiastica e come forma della storia universale, il cristianesimo tradizionale, per lo meno agli occhi di Hegel, si è concluso. già intorno al 1820 Hegel era convinto che i tempi si fossero “compiuti”, ma in senso opposto al Nuovo Testamento, cioè in questo senso: che la fede cristiana non viveva più in una coscienza religiosa originaria, da quando aveva assunto su di sé la critica illuministica della religione, e allora aveva bisogno di essere giustificata dal pensiero razionale della filosofia. «il sale è diventato scipito», e ci si può domandare che cosa mai, del contenuto tradizionale della fede cristiana, venga ancora ritenuto vero e non continui ad essere sostenuto solo per ostinazione. È evidente che qui Hegel intende presentarsi in veste di luterano ortodosso, ma non è questo che ci avvicina a lui e al suo pensie-

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ro e che ci fa decidere se l’epoca di Hegel è già passato o se dobbiamo attendere un suo ritorno. non si tratta evidentemente di motivi confessionali che possono avvicinarci o allontanarci da lui, né d’altri motivi estrinseci, come ad es. “lo stato etico”, a proposito del quale non si finisce mai ancor oggi di polemizzare a diritta e a manca. ciò che Hegel chiama spirito è l’identità tra il pensiero e l’oggetto pensato, realizzato nell’atto del pensiero. La confidenza nel Sé di Hegel è anche una confidenza nello spirito, che è esso stesso identificato con l’assoluto, con dio. e, cosa caratteristica, la fiducia nello “spitito” o in dio deve essere altresì, in tutta la sua estensione e nel modo più rigoroso, una confidenza in Sé, poichè tra il Sé e lo “spirito” vi è una definitiva identità, allo stesso modo e nello stesso senso che tra il pensiero e l’oggetto pensato. asserire questa identità tra l’autocoscienza e l’assoluto e chiamare gli altri a condividerla, tale è il senso della filosofia hegeliana, almeno di chi cerca di coglierne il senso realistico, oggettivo, in ultima istanza prevalente. non è l’io empirico, finito, che s’innalza all’infinito, non si vuole, in altri termini, parlare d’ispirazione e d’illuminazione individuale, particolare, ma di fede nella ragione umana, universale, comune a tutti e a disposizione di ciascuno. Qui, su questa soglia l’assoluto s’incarna e si fa soggetto, l’universale si fa individuo, si particolarizza. Hegel mostra così di raccogliere l’eredità della filosofia dei Lumi, dando compimento all’esigenza essenziale di quel movimento, ma ne assume anche il peso in proporzioni mai avutesi in precedenza.

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affermando questa equivalenza e identità ultima dell’interno e dell’esterno, del soggetto e dell’oggetto, dell’io e del non-io, del conosciuto e dallo sconosciuto, e la loro sintesi, Hegel conferma l’intuizione dei romantici, mentre cerca di darle il fondamento razionale, certo e universalmente valido che le mancava. La verità e la forza di questa sintesi gli sembrarono messe in pericolo dal mero appello alla poesia, all’esperienza creatrice, al genio individuale. È per questo ch’egli è stato un avversario dichiarato di schleiermacher, della sua dottrina del sentimento e della sua dottrina religiosa fondata su quella metafisica. approva anch’egli la sintesi, come novalis, come schelling, come lo stesso schleiermacher volevano; ma per Hegel doveva trattarsi d’una presa di conoscenza solida, un atto cosciente, libero e responsabile della ragione, alla quale ci si potesse richiamare in via di principio presso l’uomo qual è, in ogni luogo e tempo. ma se la critica del suo tempo, della sua epoca ch’egli presenta è ben fondata, allora non può destare maraviglia se quella sintesi era destinata a restare inappagata. egli fu in particolare l’esecutore testamentario di Herder, e, al di là di Herder, di Lessing, facendo rientrare la storia nel concetto di ragione. s’è detto dai suoi più vicini interpreti che il suo gran merito era d’aver oltrepassato definitivamente e legittimamente, grazie al suo concetto di “ragione” che abbraccia anche la verità storica, il dualismo tra il pensiero trascendente e quello storico-empirico, tra la verità razionale eterna e le verità storiche, contingenti, tra il destino e l’idea. ma egli

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ha percorso questa via, ha considerato la filosofia, insieme alla religione, in uno con questa, come un atto di culto, rifiutando d’appellarsi ad un al di là inconoscibile, vago, conoscibile solo mediante l’intuizione e il sentimento. Quanto e avvenuto dopo Hegel, al tempo della “malattia del secolo” – come fu definita correntemente – ha con Hegel un rapporto solo indiretto: egli infatti crede alla possibilità, alla legittimità d’un pensiero puro, d’un pensiero che sia pensiero, capace di giustificare sé stesso. come ha scritto Karl Barth, mai Hegel è apparso tanto aggressivo, tanto aspro quanto ha creduto di dover sospettare – a torto o a ragione – la presenza a ridosso dell’appello a delle forze che falsamente si reputano date, immediate, e pertanto inafferrabili, la pigrizia intellettuale, o la paura del pensiero, ovvero la diffidenza verso la potenza del pensiero. un concetto collettivo, quale quello di “irrazionale”, che sarebbe stato elaborato più tardi con l’incontro tra positivismo e romanticismo, tra arte e scienza, avrebbe trovato in Hegel nient’altro che – scrive ancora Barth – il più radicale disprezzo. È il tratto decisivo che separa Hegel dal suo secolo, ma è anche quello che lo unisce ad esso. con lo sguardo rivolto alla teologia del suo tempo, Karl Barth intende mettere in rilievo quella che chiama «la relazione diretta, indipendentemente di Hegel» con la filosofia dell’illuminismo. come Hegel non s’era arreso a Kant e a fichte, e aveva considerato provvisoria, temporanea la distinzione gnoseologica tra conoscenza e “cosa in sé”, tra io e non-io, finito e infinito – la distinzione dei romantici – così Barth reagisce contro l’indirizzo

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della teologia tardo ottocentesca, la teologia del XiX secolo, che passata, senza fermarsi, davanti alla dottrina di Hegel, non s’era per gran parte messa al riparo all’ombra d’una teologia puramente storica, psicologica e puramente fenomenologica, rinunciando al confronto col filosofo che identificava la conoscenza di dio con quella della verità? e il fatto che si sia oltrepassato Hegel per una più larga comprensione della storia in quanto tale, basta a riparare a tale insufficienza? a cosa serve una tale conoscenza storica – incalza Barth – anche quella della Bibbia – e precisamente quella della Bibbia – se malgrado ciò essa sarebbe forse incapace della vera conoscenza storica, quella cioè del dio vivente? sarebbe sbagliato ritenere che l’esigenza di pervenire alla verità sia questione limitata ai teologi, e da cui le «scienze dello spirito» dovrebbero chiamarsi fuori. com’è possibile – si domanda l’a. della Lettera ai Romani (1918) che da Hegel non si potesse apprendere proprio nulla al di là d’un nuovo più radicale agnosticismo? tutte domande che si dovrebbero rivolgere non solo ai teologi, ma a tutti coloro che, ai giorni nostri, sono impegnati ad “affaccendarsi” col pensiero e la sua esigenza di verità. W. dilthey, il filosofo delle “scienze dello spirito”, spiegando ancora perché i sistemi metafisici tradizionali s’erano dissolti, aveva osservato che la fine della metafisica rappresenta, in pari tempo, anche la fine delle sue premesse religiose e teologiche: essa ha termine perché queste non vivono più. noi che abitiamo, un mondo ormai “disincantato” guardiamo a Hegel e alla sua affermazione che la

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filosofia non può arrestarsi all’idealità priva di contenuto di tale umanità empirica, storica, né rinunciare all’assoluto «in grazia dell’amata umanita» con un misto d’incredulità, ma anche di nascosta attrazione. La critica hegeliana della vocazione puramente umana dell’uomo ha come suo presupposto positivo l’idea che solo il cristianesimo come religione “assoluta” abbia fatto sorgere, secondo Hegel, la vocazione assoluta, cioè spirituale, dell’uomo con la sua dottrina dell’incarnazione di dio. e poiché cristo, in quanto «figlio di dio» e in pari tempo «figlio dell’uomo», appartiene essenzialmente al genere umano e «a nessuna stirpe particolare», esiste da allora anche il concetto universale vero e spirituale dell’uomo. si tocca così il vertice della lotta della ragione umana per affrancarsi dal mito, lotta che non ha mai fine, che trova in Hegel il suo ultimo grande rappresentante, colui che più da vicino ha rappresentato l’uomo moderno, borghese-cristiano, come viene correntemente definito. Karl Löwith, com’è noto, ha sostenuto che ogni “filosofia della storia” ha nella teologia i suoi presupposti e mai può prescinderne, toccando così un tema cui la cultura italiana è tradizionalmente sensibile. La distanza di questa tesi dalle posizioni assunte in italia a troposito dello stesso argomento è netta e innegabile. gia ernst troeltsch ebbe a sottolineare la sostanziale estraneità della concezione della storia in croce rispetto a Hegel e al suo pensiero. il punto critico, la pointe dell’argomento,è che dalla concezione hegeliana dell’uomo risulta che l’uomo finito, empirico, storico non era per nulla un problema ai suoi occhi – com’è per noi oggi – dal

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momento che la suprema istanza della sua filosofia assoluta non era semplicemente finita e umana: solo «al nome di infinito si dischiude allo “spirito” la sua luce». egli avanza ancora la pretesa di sapere con assoluta certezza ciò che fa dell’uomo particolare un uomo in universale, poiché nel suo concetto dello “spirito assoluto” era compreso il dio cristiano. Hegel conduce a compimento e alla fine le concezioni metafisiche autentiche dell’uomo, che lo pongono in bilico tra “finito” e “infinito”, particolare e universale, come i romantici, suoi «fratelli di sangue». se però l’uomo, conforme alla sua essenza universale, è spirito divino, quale significato può avere per Hegel l’idea comune e “umanitaria”, secondo cui l’uomo è nient’altro che una natura indigente, finita e mortale? Hegel rimanda a questa in un passo dei Lineamenti di filosofia del diritto16, dove l’uomo appare il “soggetto” dei “bisogni”, dove è mera “particolarità” in confronto alla sua intima universalità. È qui, e soltanto qui, ossia nel concreto della “rappresentazione” che si chiama “uomo”, che Hegel ammette si possa parlare in positivo di uomo e di uomini concreti, storici. non è casuale che, richiesto d’un parere sull’immortalità dell’anima, egli additi la Bibbia. come osserva Karl Löwith, anche sul terreno del diritto e della società, Hegel non ha semplicemente negato il concetto dell’“uomo in generale” e “in quanto tale”, ma propriamente lo ha riconosciuto soltanto nei riguardi dell’uomo che ha i diritti civili, del cittadino (in quanto bourgeois), e proprio in que16

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g. W. f. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., p.

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sto si rivelerebbe la sua natura eminentemente realistica. egli afferma sì che l’uomo è anzitutto un “uomo”, nonostante la diversità di razza, di nazionalità, di fede, di classe e di professione; e che questa semplice realtà umana non è affatto una qualità “piatta e astratta”, ma il vero e proprio contenuto di questa qualità consiste, però nel fatto che, attraverso la concessione dei diritti civili, si è fatto luce il sentimento di avere un valore come persona giuridica nella “società civile”, e si è inoltre realizzato il «pareggiamento desiderato in tutti i modi di pensare e di sentire». egli si guarda tuttavia espressamente d’assolutizzare, dal rendere assoluta questa “determinazione” dell’uomo in quanto tale, eredità dell’illuminismo e della rivoluzione dell’89. anche se, infatti, ognuno equivale agli altri, in quanto si presenta in genere come “uomo”, e non soltanto come «italiano o tedesco, come cattolico o protestante», tuttavia questa autocoscienza diventa mera “particolarita”, quando in veste di dogma, si sclerotizza – «sotto forma ad es. di cosmopolitismo» – rendendosi impermiabile ad ogni influsso esterno. siamo lontani dalla figura di Hegel «filosofo nazionale», quale si voleva almeno da una parte di coloro che furono detti «vecchi hegeliani», ma che trovò opposizione – come è risaputo – da quei «giovani hegeliani» che, a partire da feuerbach a marx, stirner e Kierkegaard, andarono sviluppando un processo di emancipazione dell’uomo in antitesi alla religione cristiana. comunque sia, è ancora Hegel che può esserci d’aiuto per afferrare, tener fermo, il punto, il «luogo storicouniversale», dove ha sede il nostro destino, nel

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momento in cui questo sembra essersi diffuso su scala planetaria. solo da qui, da questa “situazione”, è possibile pensare, scansando sia la vuota retorica che la sterile “avventura”. È ancora Hegel a ricordarci che «l’idea non ha fretta».

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Quando qualche anno fa, dall’immenso archivio dell’istituto italiano per gli studi filosofici, recuperammo le registrazioni delle lezioni del prof. gaetano calabrò su Hegel e la filosofia moderna, ascoltandole e poi trascrivendole, ci rendemmo subito conto che si trattava di materia viva, pensieri carichi di tensione teoretica. in nessuno degli incontri svoltosi nel 1987 si percepiva l’asfissia discorsiva di chi vuol chiudere le proprie riflessioni in un giudizio definitivo. anzi si avvertiva ad ogni passaggio dell’argomentazione la radicalità del procedere dubitativo. ogni argomento era come un grimaldello posto a scardinare posizioni oramai ritenute inamovibili. una su tutte: l’idea secondo la quale la modernità sarebbe tramontata e la filosofia si trovava errabonda, finalmente fedele al suo destino, nello spazio, senza verità, della postmodernità.

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dinanzi a questa certezza – presunta come verità assoluta dai filosofi contemporanei – calabrò fa suo il detto di nietzsche “occorre dubitare più a fondo”. ed egli non dubita solo del destino postmoderno della filosofia, ma mette in dubbio l’idea stessa della modernità così come ci è stata tramandata dalla tradizione filosofica. il medium di quest’opera di ripensamento è Hegel, colui il quale è «stato di sicuro il primo che, cercando di definire il moderno, non lo ha presentato sotto forma di rappresentazione esterna, ma piuttosto come categoria speculativa, ossia, come concetto filosofico». La stessa rilettura di Hegel proposta nelle lezioni napoletana è scevra di ogni forma recondita di dogmatismo: il filosofo tedesco viene costantemente interrogato e sottoposto a verifica. Questo incessante e profondo dubitare, questo insistere nel domandare, è un continuo provocare il pensiero a ripensare se stesso. «il domandare filosofico intende rimuovere delle abitudini, degli abiti di vita e di pensiero, intende verificare se ciò che si presenta come nuovo non abbia solo l’aspetto di nuovo, non sia qualche cosa di esteriore, di estrinseco. sotto questo aspetto, dunque, parlare di filosofia moderna oggi può avere il valore di una provocazione in positivo, cioè, aggiornare, sollecitare nuove risposte da coloro i quali, forse, si sono troppo facilmente acquietati sulle posizioni di autorevoli correnti del pensiero contemporaneo... se ci si adagiasse in queste formule, cioè, sostanzialmente se si rinunciasse

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allo sforzo di comprensione del vero, se si rinunciasse dogmaticamente alla tradizione filosofica moderna, si andrebbe incontro ad un isterilimento. La preoccupazione è che i diversi indirizzi, che di quella tradizione hanno raccolto l’eredità, ma che poi se ne sono allontanati, ossia le scienze umane, le scienze storiche, siano condannate ad una vita mediocre». Questo atteggiamento filosofico convinse il nostro gruppo di studio a tradurre quelle lezioni in un libro. allora eravamo ancora tutti studenti. non avevamo ancora fondato la società di studi politici, che oggi promuove questa pubblicazione, né tanto meno creato La scuola di pitagora editrice, grazie alla quale il libro viene stampato. Quelle lezioni sono circolate tra di noi in forma di dispensa ed hanno rappresentato un grande contributo scientifico proprio mentre studiavamo le origini della modernità nei filosofi del rinascimento, quali tommaso campanella e giordano Bruno. rileggevamo questi autori guidati dall’interpretazione che ne dava Bertrando spaventa il quale li presenta come i veri iniziatori del pensiero moderno, i primi ad aver posto i germi della modernità: l’autocoscienza, la coincidenza degli opposti e l’immanentismo. La ricchezza di riferimenti, gli spunti filosofici presenti nelle lezioni e il modo con cui calabrò presentava temi così complessi ai giovani di allora hanno rappresentato una preziosa occasione di approfondimento. si è tentato, pertanto, di non tradire lo spirito colloquiale che animava gli incontri e, nello stesso tempo, di rendere il testo quanto più lineare possibi-

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le, evitando i salti e il discorrere del parlato. abbiamo recuperato tutti i riferimenti testuali e aggiunto in nota alcuni riferimenti bibliografici. ma soprattutto abbiamo lasciato il testo nella sua forma aporetica, sperando che il lettore sia continuamente mosso alla riflessione dagli interrogativi che calabrò suscita con la sua argomentazione. ci sembra qui opportuno soffermarci su quei punti della riflessione di calabrò che, almeno per noi, hanno rappresentato uno spazio filosofico di ripensamento di alcune categorie che sembravano acquisite. innanzitutto, viene problematizzata l’idea della filosofia moderna intesa come l’approdo, “dopo un lungo viaggio in un mare in tempesta”, sulla terra ferma dell’autocoscienza. Qui, sul terreno dell’autocoscienza, inizia la modernità. il filosofo che superò i confini del vecchio mondo, secondo consolidate interpretazioni, è stato cartesio. ma è proprio dall’idea di autocoscienza formulata dal filosofo francese che si apre lo spazio di riflessione critica a cui accennavamo. infatti, posta l’autocoscienza, il problema che si pone immediatamente è la necessità da parte di questa di certificare se stessa. e siccome l’essere dell’autocoscienza è il pensiero, cogito ergo sum, possiamo dire che, con la modernità, per la prima volta nella storia del pensiero il sapere osa chiedere a sé stesso la garanzia del principio da cui muove. ma è proprio in questa conquista dello spirito che si annida una contraddizione profonda: il discorso sulla verità si fa discorso sul metodo migliore da seguire per raggiungere la verità. così la critica della

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conoscenza viene posta prima della conoscenza stessa e ben presto il timore di incorrere nell’errore, la paura dell’errore, si trasforma in paura della verità. “in altri termini, molte sono le rappresentazioni della verità che i filosofi moderni hanno davanti e ne devono scegliere qualcuna. Questo è il punto che stringe inesorabilmente la terra su cui la filosofia moderna è approdata, la terra dell’autocoscienza. nel momento in cui si crede di avere posto i piedi sul terreno sicuro e saldo dell’autocoscienza, dell’io penso, allora si resta imprigionati, in qualche misura dall’io penso, si resta collocati in una direzione obbligata, si deve percorrere la strada del metodo”. Le conseguenze di questa contraddizione sono di portata epocale. sulla via della ricerca della verità si è come prigionieri della paura della mèta e in questo timore il soggetto si separa dalla verità, che è come riposta nel cuore insondabile dell’oggetto che gli sta di fronte. all’io assoluto si contrappone un non-io altrettanto assoluto. il mondo degli oggetti diventa così un mondo di conquista da parte di un soggetto armato di metodo scientifico. La conoscenza si fa potenza e volontà di dominio. cosa sia diventato il mondo incancrenito in questa contraddizione è uno spettacolo a tutti noto. ecco posta, allora, una questione secondo noi cruciale: come è possibile la conoscenza del vero se le rappresentazioni del conoscere, inteso come strumento, sono separate dal vero? È possibile ridurre la verità al metodo col quale si intende ricercarla? come è possibile superare la scissione soggettooggetto?

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se non si risponde in modo adeguato a queste questioni come si può affermare di essere fuori dalla modernità? È nostra convinzione che solo superando queste contraddizioni si entra realmente nella modernità e la si supera. in secondo luogo, bisogna tener presente che la filosofia moderna, a partire dal suo fondamento nell’autocoscienza, si presenta in antitesi alla filosofia rinascimentale e alla rinascita dell’antico da questa propugnata. tutta la tradizione speculativa restava sospesa dal dubbio cartesiano. La modernità esigeva un taglio netto da tutta la tradizione filosofica – “i veri antichi siamo noi” è una delle proposizioni memorabili di Bacone che chiarisce bene la questione. La coscienza del tempo nella modernità fu segnata dall’idea che si era entrati in un’epoca nuova, che i ponti col passato, fatto di teologia e metafisica, erano finalmente spezzati. La nuova ragione non aveva più bisogno degli antichi perché fondava la sua autorità non più sull’ipse dixit ma sul metodo scientifico, sulla correttezza delle procedure di indagine. il risultato fu che tutta la tradizione filosofica venne rappresentata come una forma astratta a cui non c’era più niente da aggiungere. “Quello che nel mondo degli antichi è il pensiero in assoluto, per i moderni diviene rappresentazione”. La modernità si separava dal mondo antico come il metodo di ricerca della verità si era separato dalla verità, come il soggetto aveva obiettato l’oggetto. come rimediare a questa scissione? occorreva innanzitutto rimettere in movimento il materiale ormai irrigidito e privo di sviluppi della tradizione. e quale tipo di movimento

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bisognava compiere per fluidificare i pensieri puri posti dalla modernità come forme astratte del pensiero? È chiaro che posta la soggettività non è più pensabile riproporre il mondo antico così com’era. È dunque nella soggettività, cioè nella contraddizione della modernità, ossia nel metodo, che va trovato il modo di superare la scissione fra antichi e moderni, fra il mondo dell’universale concreto e quello dell’universale solamente rappresentato. «mediante siffatto movimento – scrive Hegel facendo riferimento alla dialettica – i pensieri puri divengono concetti e soltanto allora sono ciò che essi veramente sono: automovimenti, circoli; sono ciò che la loro sostanza è, essenze spirituali». L’albero del sapere poteva riprendere vita se gli si infondeva un nuovo moto dialettico. solo a queste condizioni i pensieri puri, fissati nella tradizione chiusa in se stessa e ormai priva di spirito, riacquistavano vita. il loro essere automovimenti, circoli, la loro relazione con se stessi e con l’altro mostra che la loro sostanza è anche soggetto. il pensiero come il soggetto, cioè come l’autocoscienza, non può presupporre niente di diverso da sé per fondare se stesso e la unità che lo contraddistingue è un’unità dinamica in cui il movimento si dà come unione dell’unione e della non-unione. così il soggetto in quanto autocoscienza è unione dell’io e del non-io, del soggetto e dell’oggetto. «nella proposizione “l’uno è” – scrive Hegel – è contenuta anche l’altra “l’uno non è unità, ma molteplicità” [...] queste idee sono essenzialmente l’identità con il loro altro; e questa è la verità. un esempio ce lo offre il “divenire”. nel divenire, essere e non essere si trova-

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no in una unità indissolubile, e tuttavia vi sono anche come differenti; infatti il divenire si ha soltanto in quanto l’uno trapassa nell’altro». L’unità degli opposti come movimento della sostanza apre la via ad un ripensamento del rapporto soggetto-oggetto in cui è possibile pensare l’oggetto “in sé e per sé” e non più solamente come oggetto che mi sta di fronte; in cui è possibile pensare il soggetto come momento della sostanza universale, del pensiero, come una delle manifestazione della vita cosmica in cui il movimento dialettico dell’unità degli opposti si rende evidente al pensiero stesso. ma questa non è una conclusione ma un’ulteriore domanda: “come è possibile pensare conforme a verità partendo dalla filosofia del soggetto? come è possibile pensare l’oggetto in sé e per sé? L’idea che la modernità non si è compiuta, perché le sue più profonde contraddizioni non sono ancora state risolte ci spinge a pensare che probabilmente vada ricostruita la sua stessa origine, ripensando e rileggendo, ad esempio, i filosofi del rinascimento italiano. da lì ripensare criticamente le correnti filosofiche che hanno dominato la modernità e avere la forza e il coraggio intellettuale di ripensare il fondamento stesso dell’età moderna: l’autocoscienza, la terra dalla quale siamo forse troppo presto fuggiti o sulla quale abbiamo troppo frettolosamente rinunciato a guardare più a fondo oltre l’orizzonte.

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