La condizione postmediale. Media, linguaggi e narrazioni

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ISSN 2282-6076

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Ruggero Eugeni La condizione postmediale

Dopo l’età postmoderna siamo entrati nell’età postmediale? La domanda presuppone che i media siano morti: ed è esattamente ciò che questo saggio sostiene. I dispositivi otto e novecenteschi che siamo ancora soliti chiamare “media” si sono in realtà dissolti negli apparati di commercio, controllo, combattimento, gioco, viaggio e relazione propri della società contemporanea. La vita nella condizione postmediale implica una paziente ricostruzione del senso delle nostre pratiche quotidiane, attraverso tre grandi narrazioni epiche: la naturalizzazione della tecnologia, la soggettivazione dell’esperienza e la socializzazione del legame relazionale. Seguirne le tracce consente all’autore di tracciare un quadro problematico e articolato, in cui ritorna la domanda: quali spazi restano (o si aprono) per una progettazione dell’umano?

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Ruggero Eugeni è professore ordinario di Semiotica dei media presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove dirige l’Alta Scuola in Media, Comunicazione e Spettacolo. Tra i suoi lavori più recenti: Invito al cinema di Stanley Kubrick (Mursia, 2014); Semiotica dei media. Le forme dell’esperienza (Carocci, 2010). Il suo sito: media | experience | semiotics (http://ruggeroeugeni.com).

Media, linguaggi e narrazioni

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La condizione postmediale

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In copertina:

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm), sono riservati per tutti i Paesi. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana n. 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org © Copyright by Editrice La Scuola, 2015 Stampa Vincenzo Bona 1777 S.p.A. ISBN 978 - 88 - 350 - 3621 - 0

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Ringraziamenti

La parte che amo di più delle tesi dei miei studenti è quella dei ringraziamenti (prima o poi vorrei farne una antologia). In genere sono relegati alla fine, i ragazzi sperano quasi che il relatore non se ne accorga, ma molto spesso spiegano cosa è stato veramente fare quella ricerca, portare avanti quell’impegno, raggiungere quel traguardo. Mutatis mutandis, la cosa non è molto differente per chi si trova a chiudere un libretto come questo. Perché dietro a ogni ricerca e a ogni percorso di riflessione ci sono storie, volti, affetti, viaggi, convegni, dibattiti, lezioni, articoli, tesi, chiacchierate, pranzi e cene, discussioni, affinità, incomprensioni, amicizie, rotture, invidie, pentimenti, ammirazioni, successi, fallimenti. Ci sono, insomma, comunità di lavoro e di vita che obbligano sempre alla relazione e al confronto – e questo è l’unico modo che io conosca per pensare. Questo volumetto è il frutto di una decina di anni di pensiero: la lista dei debiti è quindi lunga. Ho condiviso molta parte del mio lavoro con i colleghi del Dipartimento di Scienze della comunicazione e dello spettacolo dell’Università Cattolica: potrei fare il taglia e incolla dei membri dal sito, ma non sarebbe etico, per cui ringrazio soprattutto Alice Cati, Maria Grazia Fanchi, Massimo Locatelli, Fausto Colombo, Aldo Grasso, Massimo Scaglioni, Chiara Giaccardi, Silvano Petrosino, Armando Fumagalli, Nicoletta Vittadini, Piermarco Aroldi, Adriano D’Aloia, Claudio Bernardi, Carla Bino, Matteo Tarantino; ho vari debiti con i “giovani” Giogio Avezzù, Giancarlo Grossi e Simona Arilotta. Varie discussioni sono avvenute all’interno del gruppo degli studiosi italiani di cinema; anche qui la lista sarebbe lunga e mi limito a ricordare Guglielmo Pescatore, Giacomo Manzoli, Ro-

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Ringraziamenti berto de Gaetano, Enrico Menduni, Vito Zagarrio, Sandro Bernardi, Leonardo Quaresima, Valentina Re, Francesco Pitassio, Carmelo Marabello, Peppino Ortoleva, Vincenzo Trione. Lavorando fianco a fianco con alcuni eccellenti professionisti della comunicazione (spesso anche docenti della nostra università) all’interno dell’Alta Scuola in Media, Comunicazione e Spettacolo, ho avuto il privilegio di imparare da loro varie cose di prima mano: penso per esempio a Federica Olivares, Paolo dalla Sega, Dario Viganò, Luca Borsoni, Antonello Carlucci, Layla Pavone, Davide Dattoli, Lorenzo Maternini, Federico di Chio, Daniele Chieffi, Simonetta Saracino, Stefano Lucchini e tutti i docenti del Master in Media Relation. Sono grato a docenti di altre università italiane o straniere per le occasioni di confronto e gli inviti a convegni o a partecipare a pubblicazioni: penso in particolare a Antonio Somaini, Andrea Pinotti, Mauro Carbone, André Gaudreault, Agnes Petho, Massimo Leone, Maurizio Guerri, Pietro Montani, Tiziana Migliore, Ninni Pennisi, Cisco Parisi e Dario Tomasello. Un grazie sempre particolare a Francesco Casetti, più vicino adesso di quanto lo fosse da vicino, che ha letto il manoscritto e formulato alcune osservazioni di cui ho cercato di tener conto. One more thing. Questo libro è per te, Valeria.

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Introduzione

1. 22/01/1984 Una teoria di uomini avanza in un tubo di plexiglass, il cranio rasato, lo sguardo assente, il passo di marcia cadenzato. Alle pareti, una sequela di video mostra in primissimo piano un volto magro e feroce. Nell’aria perlacea risuonano le note stridule, feroci di un discorso di indottrinamento propagandistico. Gli uomini si recano in un cinema, si dispongono in file regolari, sul grande schermo lo stesso volto continua il suo discorso martellante di esaltazione dell’ideologia al potere. È il 1984, è il mondo del Grande Fratello. Ma qualcosa non torna. Una ragazza in shorts rossi corre verso la macchina da presa, armata di un grosso martello; entra nella sala cinematografica inseguita da una squadra di poliziotti, prende slancio, con un grido lancia il martello verso lo schermo. «We shall prevail»: la frase del Grande Fratello ha appena risuonato quando il martello colpisce lo schermo, lo fa esplodere, libera un vento luminoso che colpisce i volti e i corpi esterrefatti degli spettatori. In sovrimpressione, e in voce over, scorre la seguente scritta: «On January 24th, Apple Computer will introduce Macintosh. And you will see why 1984 won’t be like “1984”»1. Il commercial incaricato di lanciare il nuovo computer Macintosh irruppe nelle case degli americani il 22 gennaio 1984, in una delle pause pubblicitarie finali del Superbowl, il più importante appuntamento televisivo. L’impatto sugli spettatori fu «Il 24 gennaio 1984 Apple Computer presenterà il Macintosh. E vedrete perché il 1984 non sarà un “1984”». 1

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Introduzione tale che immediatamente i programmi di informazione lo ritrasmisero, creando un effetto spirale che ne ingigantì la diffusione. Il filmato non sarebbe mai più stato ritrasmesso in televisione dopo quella sera. 22 gennaio 1984: teniamo a mente questa data, perché è il giorno in cui i media iniziarono a finire.

2. La fine dei media Il filmato 1984 è oggi un caposaldo della storia della pubblicità audiovisiva: diretto da Ridley Scott (reduce dal film Blade Runner), osteggiato dalla Apple, fortemente voluto da Steve Jobs in persona, è senza dubbio molto più di un commercial: si tratta della visione teoricamente lucidissima di cosa sarebbero stati i media del futuro – ovvero i media di oggi. E della profezia altrettanto lucida che i media, oggi, non ci sarebbero più stati2. Il riferimento alla satira distopica di Orwell è sintomatico. Alcuni commentatori hanno voluto vedere nel Grande Fratello un riferimento a Bill Gates e al principale competitor della Apple del periodo, la Microsoft; si tratta tuttavia di una visione riduttiva. Dietro il Grande Fratello del commercial Apple si apre, infatti, l’intero panorama dei media otto-novecenteschi e della loro stretta alleanza con i regimi totalitaristi che hanno contraddistinto il Secolo breve. Media identificati in grandi e complessi apparati tecnologici (prima meccanici, poi meccanico-elettronici); media legati a grandi e talvolta giganteschi agglomerati economici; media utilizzati da istituzioni e da Stati come strumenti di propaganda, di massificazione, di depersonalizzazione dell’individuo. Ebbene, rispetto a questa idea di media, il commercial 1984 dice due cose decisive. In primo luogo, esso annuncia l’avvento di un nuovo media, mai visto e radicalmente differente da quanto fino a quel momento conosciuto: il personal computer. La cosa non è banale, se si considera cosa fosse in realtà il personal computer fino a quel momento. Entrati sul mercato dell’elettronica di consumo 2 Il caso del commercial 1984 per il lancio del Macintosh e del suo impatto sulla “computer culture” viene attentamente analizzato da T. Friedman, Electric Dreams: Computers in American Culture, New York University Press, New York 2005, pp. 100-120.

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Introduzione a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, i microcomputer (o personal o home computers, in quanto opposti ai grandi mainframes aziendali) erano inizialmente macchine per il calcolo o per la elaborazione di testi scritti (Commodore, Apple II, IBM PC e relativi cloni) e in alcuni casi per il videogioco o altre funzioni ludiche (Atari). Da un punto di vista strettamente tecnico, il Macintosh rappresentava un passo avanti molto importante ma tutto sommato relativo; esso proponeva un’interfaccia grafica a finestre (ben differente e più piacevole delle righe di testo degli altri personal) e richiedeva l’uso di un nuovo strumento di interazione cui gli esperti davano pochissimi anni di vita: il mouse. La vera innovazione implicata dal lancio del Macintosh tuttavia non era strettamente tecnica ma più ampiamente culturale; ed è esattamente quanto viene comunicato dal commercial 1984: Steve Jobs e il suo team creativo intendono spostare la percezione sociale del computer dall’area delle macchine di calcolo a quella dei mezzi di comunicazione. Il commercial diretto da Scott presenta per la prima volta il personal computer come un media, al pari del cinema e della televisione. Ma si salda qui immediatamente il secondo punto chiave di 1984. Noi non vediamo affatto il nuovo Macintosh (al limite, riguardando con attenzione il filmato, possiamo scorgerne una versione stilizzata sulla maglietta bianca della ragazza): il prodotto è rappresentato solo metaforicamente attraverso la giovane atleta che irrompe nel cinema e manda in frantumi lo schermo. Una cosa tuttavia è certa: nel momento in cui si presenta alla corte dei media otto-novecenteschi, il computer ne decreta la distruzione. Non, si badi bene, una distruzione economica ma anzitutto una vaporizzazione culturale e politica. Il sistema dei media è già morto, ci dice il commercial, anche se non lo sa; e proprio nel momento in cui celebra i propri trionfi (il discorso del Grande Fratello, l’audience stratosferica del Superbowl che sta guardando lo spot) non si accorge che è iniziato il processo della propria vaporizzazione.

3. La condizione postmediale Questo libro parte dall’idea che la profezia espressa dal commercial 1984 si sia oggi pienamente realizzata, e che i media siano definitivamente morti. Certo, continuiamo a parlare di me-

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Introduzione dia, a dibattere dei loro effetti e dei loro rischi. Ci chiediamo quanto dei media del secolo scorso sia rifluito nel presente, e dunque se possiamo qualificare la situazione presente come post-cinematografica o post-televisiva. Arriviamo anche a definire il computer come un “metamedia”, in grado di “ri-mediare” media precedenti ricomprendendoli al proprio interno e incoraggiando scambi reciproci. Il punto di vista di questo libro è che tutte queste discussioni, per quanto importanti e talvolta necessarie, partano da una premessa sbagliata: ovvero dall’idea che esistano ancora i media. In realtà, ritengo, viviamo oggi all’interno di una condizione postmediale, che ha superato l’idea di una presenza dei media in seno alla società liquidando di fatto i media otto-novecenteschi. Tale condizione chiede la messa a punto di idee, concetti e modelli radicalmente nuovi rispetto a quelli che nel passato ci hanno aiutato a fare i conti con i media e a regolare le nostre relazioni (ludiche, critiche, professionali) con essi. Per cercare punti di riferimento e direzioni di ricerca, non abbandonerò l’universo delle produzioni discorsive, ovvero dei racconti, dei temi, delle rappresentazioni che circolano nel vasto e complessissimo universo della comunicazione. Ritengo, infatti, che questo universo non si limiti a funzionare (e a funzionare, come ho detto, in un modo profondamente differente da quello dei media otto-novecenteschi), ma sia in grado di riflettere sul proprio funzionamento e di metterlo in scena attraverso le grandi narrazioni che lo percorrono e ne animano le dinamiche. Ecco perché, dopo aver riassunto in un primo capitolo le avventure che hanno portato alla nascita, al trionfo e infine alla vaporizzazione dei media, concentrerò l’attenzione su tre grandi complessi narrativi che ricorrono ossessivamente nell’universo della comunicazione contemporanea: li chiamerò rispettivamente l’epos della naturalizzazione, l’epos della soggettivazione e l’epos della socializzazione. A ciascuno di essi dedicherò uno dei successivi capitoli. «And ou will see why 1984 won’t be like “1984”». Già, la nostra condizione non è il 1984. Ma cosa è davvero la condizione postmediale?

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1. L’insetto e l’hacker Una mattina soleggiata, il Conte di Montecristo si reca presso una torre del telegrafo. Il telegrafo ottico (inventato alla fine del Settecento da Claude Chappe) era costituito da una serie di torri a portata di vista reciproca; ciascuna torre montava un sistema di bracci snodabili, che potevano comporre con le loro figure le parole di una lingua elementare permettendo quindi in buone condizioni di visibilità una trasmissione a distanza di notizie. A prima vista l’intento del Conte è di pura curiosità, come egli stesso confessa: Talvolta, in una bella giornata di sole, in fondo a un sentiero entro un terreno ho visto svettare quei bracci neri e flessuosi simili alle zampe di un gigantesco coleottero, e mai fu senza emozione […]. A quel punto mi sono sentito prendere da un bislacco desiderio di vedere da vicino quella crisalide vivente […]. Ma vi dico che, non voglio capire nulla! Dal momento in cui capirò qualcosa non vi sarà più alcun telegrafo, non vi sarà più altro che un segno […] travestito in due parole greche: te¯le, gráphein. Quel che voglio serbare in tutta la loro purezza e in tutta la mia venerazione sono la bestia dalle zampe nere e l’orribile parola1.

In realtà lo scopo del Conte è meno confessabile: egli corrompe il telegrafista con una forte somma di denaro e lo induce a trasmettere la falsa notizia di un colpo di stato di A. Dumas, Il Conte di Montecristo (1845-1846), trad. di Gaia Panfili, Feltrinelli, Milano 2012, p. 689. 1

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Carlo di Borbone contro la regina di Spagna. Danglars, il banchiere che in passato aveva fatto ingiustamente imprigionare Edmond Dantès, apprende immediatamente la notizia grazie ai suoi ambigui legami con il Ministero e svende subito tutti i suoi fondi spagnoli. La successiva scoperta che la notizia è falsa rappresenta per lui un grave colpo finanziario: un altro tassello del complesso disegno di vendetta di Edmond Dantès, Conte di Montecristo, si è incastrato al suo posto. Il Conte di Montecristo, di Alexandre Dumas padre, viene pubblicato tra il 1844 e il 1846, ed è ambientato nella prima metà del secolo. La società che esso rappresenta è uno scenario tumultuoso di ascese e cadute sociali, di grandi avventure finanziarie, di lotte di potere; ma, soprattutto, si tratta di una società già lanciata verso una rapida modernizzazione, all’interno della quale le nuove reti di comunicazione occupano un posto fondamentale. Se il Conte di Montecristo è in sostanza il primo hacker della storia della comunicazione, ciò è dovuto al fatto che la società del primo Ottocento è già una società delle reti, capace di integrare i flussi di informazione con le dinamiche economiche e politiche in atto. E tuttavia, la società raffigurata da Dumas non è ancora una società dei media in senso moderno. Ciò che ad essa ancora manca, e che arriverà solo alla metà del secolo, è proprio Il Conte di Montecristo, inteso questa volta come romanzo: mancano cioè dispositivi mediali (e prodotti destinati ad alimentarli) capaci di penetrare nell’esperienza quotidiana dei soggetti, di prendere possesso di alcune porzioni di tale esperienza e di trasformarla radicalmente: gli ambienti e le situazioni di lettura del romanzo popolare costituiscono come vedremo uno di questi dispositivi. L’avvento dei dispositivi mediali e la loro diffusione capillare nel tessuto sociale rappresentano l’atto di nascita dei media moderni veri e propri; ed è appunto da qui che comincia la nostra storia dei media e della loro avventura all’interno della modernità occidentale. Una storia che articoleremo in tre grandi fasi.

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2. La fase di insorgenza: i media meccanici (18501914) Le condizioni tecnologiche, sociali ed economiche necessarie affinché nascesse un sistema dei mezzi di comunicazione di massa in senso moderno si presentano con sufficiente chiarezza negli USA e in Europa verso la metà dell’Ottocento, all’interno della seconda Rivoluzione industriale. Due fenomeni risultano salienti. Da un lato, molti oggetti precedentemente legati a una pratica produttiva e di diffusione artigianale o semi-industriale (gli abiti, i cibi…) iniziano a essere prodotti industrialmente e serialmente; dall’altra, la metropoli moderna diviene un nuovo scenario di vita e di esperienza. Le due trasformazioni sono connesse: nel 1851, a Londra, viene ospitata la prima Esposizione Universale; nel 1852, a Parigi, viene inaugurato Le Bon Marchè, il primo grande magazzino. In questo contesto anche la produzione culturale conosce una radicale industrializzazione, in un processo che coinvolge e connette tecnologie di creazione e di esibizione, apparati e canali di produzione e distribuzione, forme e contenuti dei prodotti, caratteristiche dei pubblici. Il primo settore coinvolto nelle innovazioni dell’industria culturale è quello della riproduzione della parola scritta. Per quanto concerne il libro, le nuove tecnologie permettono una più ampia disponibilità di carta e una più agevole ed economica possibilità di stampa. Al tempo stesso, nasce nuovo pubblico di lettori urbano, al tempo stesso “di massa” e settoriale: la nuova letteratura si distingue in opere per bambini, letture “sentimentali” per donne, romanzi di avventure per adolescenti e giovani adulti… Gli stessi autori ripensano la propria professione in funzione dei gusti del pubblico, incoraggiati, guidati e spesso sfruttati dalla presenza di nuove figure di editori che si pongono come mediatori tra il pubblico e l’autore. Sono infatti gli editori a commissionare opere ritenute di successo, corredandole di illustrazioni opportune e orchestrando vere e proprie campagne di marketing. Un solo esempio: il libro Cuore fu commissionato dall’editore Treves a Edmondo de Amicis in forma di diario scolasti-

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co, e lanciato strategicamente il 17 ottobre 1886, primo giorno di scuola. Un discorso analogo si può fare per quanto riguarda la stampa quotidiana e periodica. Già nel 1833 era nata negli USA la stampa popolare, o Penny Press con il «New York Sun»; a metà del secolo il nuovo modello di stampa popolare viene esportato in Europa. Nel 1866 viene introdotta la linotype, che permette una lavorazione molto più veloce del processo di composizione tipografica. Il quotidiano si concentra sulla diffusione di notizie sensazionalistiche e trova un potente mezzo di diffusione nella pubblicazione di romanzi a puntate, i cosiddetti romans-feuilletons o romanzi d’appendice, già avviata nella prima metà del secolo. Affiorano in tal modo due caratteri tipici del prodotto mediale. Anzitutto, la tendenza alla contaminazione tra generi differenti: storia, cronaca, fiction, che tendono a costituire un continuum, attraggono l’attenzione delle folle e ne plasmano i gusti e la cultura. Altrettanto importante la nascita di forme di racconti “in serie”, che spostano i criteri della produzione standardizzata di oggetti alle forme narrative. Emergono a questo proposito due possibilità: la “saga”, in cui un unico racconto tendenzialmente infinito o comunque ampio procede per puntate alternando vari personaggi (come accade nel capostipite dei romanzi d’appendice, Les Mystères de Paris, pubblicato da Eugène Sue tra il 1842 e il 1843, il cui modello viene ripreso anche da Dumas nel Conte di Montecristo citato all’inizio); oppure la “serie” vera e propria, in cui si susseguono differenti racconti aventi al centro lo stesso gruppo di personaggi e una struttura ricorrente (ad esempio i romanzi e i racconti di Sherlock Holmes, scaturiti tra il 1887 e il 1921 dalla penna di Sir Arthur Conan Doyle). A partire dagli anni Novanta dell’Ottocento, la produzione culturale si allarga alla riproduzione e diffusione di immagini e di suoni. Già nel corso dell’Ottocento le immagini avevano conquistato spazi sempre più ampi nei romanzi e nei periodici illustrati, facendo emergere nomi famosi quali Grandville, Gustave Dorè o Albert Robida. Alla fine del secolo tuttavia si assiste a una vera e propria esplosione della presenza di immagini a stampa. Da un lato, infatti, l’invenzione della

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cronolitografia permette la stampa di manifesti a colori che, ispirati ai principi dell’Art Nouveau, entrano a far parte integrante dei paesaggi urbani della Belle époque con nomi di grande rilievo quali Alphonse Mucha e Henri de ToulouseLautrec: nasce la moderna pubblicità quale spazio di collegamento tra creatività grafico-artistica e industria. Dall’altro lato l’introduzione della stampa offset diffonde nei periodici e nei supplementi dei quotidiani la presenza di illustrazioni e di fotografie. In questo contesto nasce il fumetto: nel 1895 Richard F. Outcault crea sulle pagine domenicali del «New York World» il personaggio di Yellow Kid; il nuovo media riprende e articola in ampie tavole o in sequenza narrative continue le illustrazioni del romanzo ottocentesco portando le innovazioni grafiche del periodo a un serrato confronto con la narrazione. Nello stesso 1895 i fratelli Lumière offrono in Francia la prima manifestazione pubblica del cinematografo, destinato a dar vita nei primi decenni del xx secolo a una disordinata ma vivace industria semiartigianale. D’altra parte anche Thomas Alva Edison in America aveva introdotto sul mercato un apparecchio per la visione di immagini in movimento, il Kinetoscope, destinato poi a evolversi dal 1896 in poi in Vitascope. Al contrario dei Lumière, Edison pensava la sua macchina come il prolungamento di una propria precedente invenzione: il fonografo, in grado di riprodurre meccanicamente voci e suoni incise su un cilindro di cera. Ma i tempi erano prematuri, e l’industria dell’incisione musicale si sarebbe sviluppata autonomamente da quella del cinema, in particolare con il grammofono, commercializzato da Emile Berliner nel 1893, che permetteva l’ascolto di musica su disco (un supporto più facilmente stampabile e trasportabile). Al di là di questa tumultuosa serie di trasformazioni, mi preme sottolineare un aspetto di novità decisivo: la nascita dei media moderni è determinata dalla introduzione di specifici dispositivi. Con questo termine non intendo semplicemente gli strumenti tecnici, ma più ampiamente le situazioni sociali specificatamente dedicate al consumo di prodotti mediali: le forme della lettura, sia individuali che collettive; le modalità di esecuzione di musica registrata in spazi privati o pubblici; gli assetti della proiezione e della visione di film. È cer-

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tamente vero che alcune di queste situazioni (la lettura, il teatro o il varietà in quanto preparatori del cinema…) preesistevano alla modernità; tuttavia esse vengono ora travolte da due ordini di trasformazioni. In primo luogo trova posto e diviene centrale al loro interno uno strumento tecnologico: dalla illuminazione a gas prima e poi elettrica fino ai vari strumenti di riproduzione automatizzata di suoni e immagini. In tal modo all’interno di tali situazioni il corpo del lettore, ascoltatore e spettatore entra in simbiosi con alcuni oggetti tecnologici. In secondo luogo (e di conseguenza) le situazioni sociali dedicate al consumo di prodotti mediali divengono al tempo stesso di massa e serializzate: esse permettono che intere folle abbiano accesso a un tipo di esperienza progettata, regolata, e dunque identica e ripetibile; un’esperienza del tutto privata dai caratteri della unicità e della privatezza, ma non per questo meno affascinante e coinvolgente per ciascuno dei soggetti che vi prende parte o che vi viene risucchiato. La più importante invenzione della modernità è dunque quella dei dispositivi: ed è con essi che, possiamo dire, nascono i media.

3. La fase di consolidamento: i media elettronici (1915-1980) Se la prima fase, appena analizzata, rappresenta il momento di nascita del sistema mediale, la fase successiva vede una maturazione e una stabilizzazione del mercato dei media. Tale periodo si estende fino all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso. L’industria culturale conosce non solo uno sviluppo tecnologico e una forte espansione, ma soprattutto una decisa centralizzazione e razionalizzazione delle proprie attività produttive e distributive. Divengono in particolare determinanti i criteri distributivi, ovvero i modi mediante i quali i prodotti culturali raggiungono i propri pubblici; ed è possibile cogliere da questo punto di vista due ampie logiche che guidano lo sviluppo. La prima logica si ritrova nel campo cinematografico. L’industria del cinema esce gradatamente da una situazione di piccola e frammentata imprenditorialità e diviene a parti-

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re dagli anni Venti e definitivamente negli anni Trenta una grande industria rigidamente organizzata (si pensi in particolare allo studio system di Hollywood, con sette grandi aziende che monopolizzano il mercato). Il film richiede di essere fruito in apposite sale: queste, nate già all’inizio del Novecento, si diffondono e si arricchiscono in particolare nel corso degli anni Venti. L’introduzione del sonoro, alla fine di questo decennio, porta a compimento la configurazione della sala come luogo rituale, pubblico e intimo al tempo stesso, di consumo di film. Questa prima logica di distribuzione prevede quindi una dislocazione dei soggetti rispetto agli spazi di lavoro e di vita quotidiana. La seconda logica impronta la diffusione prima della radio e poi della televisione. Le differenze rispetto ai precedenti modelli risiedono nel fatto che la radio rappresenta l’ultima e più avanzata espressione di una distribuzione dei messaggi mediante reti che penetrano capillarmente negli spazi sociali e in particolare in quelli casalinghi. Nel passato le reti di distribuzione di messaggi erano state di molti tipi: a parte le reti viarie e ferroviarie (e a parte le reti di distribuzione di energia come il gas o l’elettricità, che pure costituiscono il modello per i tipi di rete che più direttamente ci interessano) ricordiamo il telegrafo visivo di Claude Chappe con cui abbiamo aperto il nostro capitolo, che cederà il passo al telegrafo elettrico (la prima linea viene istituita nel 1839 da Morse negli USA), e quindi alle reti telefoniche (nel 1877 per la prima volta una rete telegrafica viene convertita in telefonica a Bridgeport nel Connecticut, benché la vera e propria diffusione si abbia solo a partire dal 1910 circa). A questi modelli di rete “a fili” vanno aggiunte le reti commerciali, vale a dire le catene di distribuzione di supporti fisici: abbiamo già accennato al mercato discografico a partire dal 1895 e con punte massime di penetrazione negli anni Venti; o possiamo pensare alla sempre maggior diffusione del libro con l’invenzione del tascabile, negli anni Trenta; oppure all’incremento delle immagini sulle riviste grazie all’invenzione e diffusione della stampa rotocalco (o off-set), alla fine degli anni Trenta. L’introduzione della radio aggiunge però un nuovo e decisivo tipo di rete, che si svin-

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cola da ogni collegamento materiale (il filo elettrico, la catena commerciale) da emittente a ricevente. Nel 1912 l’affondamento del Titanic avviene per così dire in diretta: il transatlantico monta, tra le altre novità tecnologiche, il recente telegrafo senza fili della “Marconi Wireless Telegraph Company of America”; le segnalazioni inviate permettono di salvare i 700 superstiti, ma anche di vivere a distanza la tragedia momento per momento. Non sappiamo con sicurezza se l’operatore della Marconi in servizio quella notte fosse David Sarnoff – come egli stesso afferma; sappiamo però che Sarnoff di lì a poco matura una idea rivoluzionaria: sfruttare la tecnologia di trasmissione di segnali attraverso le onde hertziane non per comunicare da punto a punto, ma per trasmettere messaggi (soprattutto musica) da un unico punto di emittenza a infiniti punti di recezione: con il progetto della “radio music box” (1916) nasce la rete broadcasting. Su questo nuovo principio a partire dal 1920 sorgono le prime stazioni radiofoniche, sia private che pubbliche: nel 1930 Sarnoff diventerà presidente della RCA; le radio entrano gradualmente nelle case e divengono una presenza importante, un vero e proprio focolare elettronico intorno al quale si raduna la famiglia. Non solo: il nuovo modello di distribuzione e di consumo aperto dalla radio costituisce il modello e la base per l’avvento della televisione: non a caso è ancora Sarnoff a lanciare nel 1939 il primo network televisivo americano, la NBC, una costola della RCA. Gradualmente (anche per l’impatto della Seconda guerra mondiale), e ancora sul modello radiofonico, gli apparati privati (negli USA) o statali (in Europa) avrebbero sviluppato e commercializzato il nuovo mezzo. L’avvento del modello di rete broadcasting caratterizza questa seconda fase di sviluppo dei media. Anzitutto, essa introduce una nuova forma del discorso mediale. Nella fase precedente i media avevano ripreso il modello tradizionale di testo derivato sostanzialmente dal romanzo: un discorso lineare dotato di un inizio e una conclusione, per quanto talvolta ingigantito dai meccanismi del racconto seriale. Il modello di distribuzione broadcasting fa saltare tale forma e ne introduce una radicalmente nuova: il flusso ininterrotto di suoni e / o di immagini; il flusso occupa tendenzialmente

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tutte le ventiquattro ore della giornata, aderisce come una seconda pelle al fluire del tempo sociale e domestico, ne ritma e ne ridefinisce i momenti feriali e quelli festivi, gli orari meno rilevanti e quelli decisivi (il prime time serale). È evidente inoltre che questa serie di evoluzioni trasforma profondamente lo scenario: la diffusione dei media site specific come il cinema e, soprattutto, l’avvento dei media broadcasting come la televisione rendono percepibile la presenza degli apparati in seno alla società e permettono di cogliere la loro enorme potenza. I media di massa, o mass media, sono in grado di influenzare verticisticamente i gusti dei soggetti sociali, le loro tendenze culturali e la forma stessa del loro immaginario, ma anche i loro consumi, le loro ideologie e il grado del loro consenso ai differenti tipi di regime politico. Ci troviamo di fronte in altri termini a quel “sistema dei media” raffigurato da Orwell in 1984 e ripreso da Ridley Scott nel commercial per la Apple con cui abbiamo aperto questo volume. Tuttavia, mi sembra che la chiave di lettura più appropriata per queste trasformazioni risieda nelle vicende che coinvolgono i dispositivi mediali, come li abbiamo definiti alla fine del paragrafo precedente. Essi sono al centro di un duplice processo. Per un verso i dispositivi si moltiplicano e soprattutto si localizzano capillarmente nel tessuto sociale: grazie alla logica broadcasting essi entrano addirittura nelle case, invadono gli spazi privati, riconfigurano i luoghi di vita comune. Per altro verso i differenti dispositivi rimangono individuabili e riconoscibili, sia nel senso che essi sono ben distinti l’uno dall’altro, sia nel senso che essi sono percepiti come differenti rispetto alle situazioni non mediali di vita sociale: l’andare al cinema, o l’accendere la radio o la televisione sono accompagnati da piccoli e grandi rituali di passaggio che sottolineano l’attraversamento di una soglia, l’accesso a un’area deputata alla relazione con i media.

4. La fase di vaporizzazione: i media digitali (1984 - oggi) Ed eccoci dunque tornati al 1984, “l’anno in cui i media iniziano a finire”. La data è ovviamente convenzionale, e ser-

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ve a indicare l’esplosione di due serie di fenomeni che, nel loro intreccio, hanno prodotto la fine dei media. La prima serie di fenomeni consiste nella moltiplicazione esponenziale dei canali di erogazione dei prodotti mediali, e quindi delle occasioni di accesso ai media: si è parlato non a caso di una fase di “saturazione” e di “ridondanza”. Anzitutto, si moltiplica in alcuni Paesi l’offerta di canali basati sul tradizionale segnale hertziano: è il caso dell’Italia, che conosce già dagli anni Settanta la nascita di radio e di televisioni “private”. Nel corso degli anni Ottanta si aggiungono canali basati sul cavo coassiale (già conosciuto e usato fin dagli anni Cinquanta per portare la televisione in alcune zone in cui il segnale hertziano non poteva giungere, ma che ora si lega a una offerta autonoma di canali televisivi) e quelli legati al segnale via satellite. Al tempo stesso, nuovi apparecchi di fruizione liberano lo spettatore dai vincoli spaziali e temporali delle precedenti situazioni mediali. Dal punto di vista del tempo i videoregistratori, che si diffondono dalla metà degli anni Ottanta, permettono un uso del televisore libero dai vincoli della programmazione palinsestuale – un tipo di consumo ulteriormente incentivato prima dall’acquisto o affitto di videocassette o DVD, poi dal video on demand e dai download di rete. Dal punto di vista spaziale, i media divengono ubiqui, sia per una moltiplicazione di siti in cui essi possono essere collocati (si amplia il numero di televisori in casa; gli schermi si “rilocano” in stazioni, piazze, aeroporti, mezzi di trasporto…); sia per l’introduzione di numerosi apparecchi di consumo “nomadico” e “mobile”: walkman, Ipod, Ipad, e lo stesso telefono cellulare usato per ascoltare musica o vedere filmati, rendono il consumo di media parte integrante della vita quotidiana. Infine, sempre all’interno di questa prima serie di fenomeni, troviamo il riuso di precedenti reti di comunicazione (opportunamente modificate e rinforzate) quali canali di distribuzione e di scambio di informazioni e prodotti mediali. Nel 1982 viene introdotta la Internet Protocol Suite (TCP/IP), una serie di protocolli che uniformava la trasmissione di pacchetti di informazioni tra un computer e l’altro attraverso la rete telefonica, e permetteva in tal modo di ampliare la rete di connessione Arpanet (nata per scopi militari negli anni cinquan-

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ta) ad alcune università riconvertendola gradualmente a usi civili. Nel 1989, Tim Berners-Lee ripensa questa rete di connessione come World Wide Web, una rete di documenti contenenti una serie di rimandi ad altri documenti, all’infinito – secondo il modello dell’ipertesto (su cui torneremo tra poco), e introduce l’Hypertext Transfer Protocol (HTTP). Un simile allargamento di funzione della rete telefonica implica una trasformazione non solo quantitativa, ma qualitativa. Il cavo telefonico era dedicato fino a questo punto alla comunicazione interpersonale; nel momento in cui diventa rete di distribuzione di prodotti mediali si assiste a una ibridazione tra la comunicazione monodirezionale tipica della logica broadcasting e la comunicazione bidirezionale propria del telefono, ovvero tra mass media e personal (o interpersonal) media. La seconda serie di fenomeni che esplodono alla metà degli anni Novanta del Novecento consiste nello sviluppo delle tecnologie di digitalizzazione dei materiali che compongono i prodotti culturali: parole, suoni, immagini fisse e in movimento vengono scomposti in elementi molecolari, ciascuno dei quali viene codificato in bytes (cioè stringhe di numeri binari, composti da 0 da 1); in tal modo tali informazioni possono essere manipolate, memorizzate, trasmesse o scambiate, e in ogni momento essere condotte a ricostituire in modo il più possibile fedele il materiale di origine. Lo sviluppo delle tecniche di digitalizzazione implica una svolta decisiva: i differenti materiali percettivi ed espressivi veicolati dai media vengono ora scomposti in molecole di informazioni considerate pertinenti, e in quanto tali entrano nella sfera di azione dell’informatica, la disciplina e la pratica di trattamento dell’informazione su base numerica (in particolare mediante quelle particolari procedure standardizzate che si chiamano algoritmi). Le conseguenze di questo spostamento sono notevoli. Anzitutto il computer diviene un “metamedia”, cioè una macchina dotata di differenti possibilità. Essa è capace anzitutto di riprodurre e simulare documenti appartenenti a media precedenti materialmente differenti: per esempio sullo schermo del PC può apparire una pagina del mio settimanale preferito, distaccata dal proprio supporto cartaceo. Poi, il computer può ibridare all’interno dello stesso documento

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materiali espressivi propri di media differenti: per esempio una foto sulla pagina può animarsi e rivelarsi un filmato. Infine, il computer è in grado di rimandare da un punto di un documento a un punto dello stesso o di un altro documento: un rimando nel testo dell’articolo mi permette di cambiare schermata e accedere direttamente a notizie aggiuntive, approfondimenti, definizioni di dizionario di una certa parola… Se nella prima fase di sviluppo dei media trovavamo una espansione del testo tradizionale (lineare e finito) e nella seconda dominava il modello del flusso (lineare e infinito), la terza fase è dominata dal modello dell’ipertesto multimediale interattivo (reticolare e infinito). Inoltre, i materiali mediali in forma digitale sono caratterizzati da due aspetti molto importanti: ogni copia che si effettua è identica all’originale, ed è disponibile a essere manipolata e modificata da chiunque abbia gli strumenti per farlo. La copia dell’ultimo film del mio regista preferito scaricata dal web è identica byte per byte a quella presente sul supporto fisico del DVD o del Blu Ray e, possedendo alcuni semplici ed economici software, posso smontarla e rimontarla, ingrandirne delle parti, velocizzare alcune sequenze, rifare il doppiaggio e così via. E, una volta concluso il lavoro, posso ridistribuirlo attraverso il web. In altri termini con il digitale viene radicalmente distrutta la gerarchia dei ruoli tra emittente e ricettore che dominava nelle due fasi precedenti: l’emittente è solo in parte depositario di un “originale” dotato di valore più o meno sacrale, mentre il recettore assume alcune funzioni di autorialità o co-autorialità e di distribuzione di materiali mediali che erano prima appannaggio degli apparati di emittenza. Con un termine ibrido tra producer (produttore) e consumer (consumatore), si è parlato a questo proposito di una nuova figura di prosumer. Infine, occorre sottolineare più di quanto non abbia fatto fin qui che la serie di fenomeni legati alla digitalizzazione interagisce in modo molto stretto con le trasformazioni dei canali di distribuzione dei materiali mediali che ho evidenziato sopra: la convergenza tra reti di telecomunicazioni e informatica, che prende il nome di telematica, è il fenomeno caratteristico del nostro tempo. Osserviamo anzitutto che

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l’avvento del digitale contribuisce alla moltiplicazione dei canali di distribuzione sia on line che off line: tutti i canali on line descritti, sfruttando il digitale, moltiplicano le possibilità di trasmissione (un canale analogico aerial terrestre “contiene” fino a sei canali digitali); anche il mercato dell’off line viene modificato in termini di alleggerimento e portabilità dei messaggi (con il DVD in luogo delle videocassette, o con la musica ascoltata su Ipod o simili apparecchi in luogo del lettore di audiocassette). Ma soprattutto su un punto le nuove logiche di distribuzione e la digitalizzazione si incontrano in modo innovativo: le nuove possibilità di interazione tra fruitori e media offerte da entrambi. Non a caso, come abbiamo visto, il Web nasce dalla sovrapposizione della logica dell’ipertesto digitale con quella degli scambi di dati consentiti dal riuso della rete telefonica. In seguito a tali trasformazioni, la precedente logica di distribuzione broadcasting viene frammentata in almeno quattro logiche di distribuzione. La prima, che riproduce la forma più tradizionale, viene definita push: il broadcaster (ancora operante come tale) “spinge” i contenuti verso il fruitore. A questa si aggiunge però immediatamente la logica pull: il fruitore tira a sé determinati contenuti, per esempio scegliendo quale film vedere in una offerta video on demand, oppure semplicemente navigando in rete e di fatto scegliendo quali materiali percettivi ed espressivi richiamare e comporre sul proprio schermo. A questa si aggiunge, in un percorso di graduale allontanamento dalle logiche tradizionali, la modalità prosuming, in cui il consumatore si fa anche produttore attivo di contenuti per esempio aprendo un suo sito, gestendo un blog, caricando in rete propri testi, diapositive, filmati, e così via. Infine la quarta logica (che si è pienamente realizzata solo negli ultimi anni ma le cui origini stanno nel DNA del web) è la logica social: il fruitore interagisce (tendenzialmente in tempo reale) con altri fruitori; scambia battute di dialogo; mostra materiali propri o altrui e raccoglie commenti; riprende e invia in diretta quello che sta vivendo; offre e riceve confidenze, informazioni e consigli; invia messaggi vocali o in alcuni casi effettua videochiamate singole o di gruppo.

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D’altronde, per rendersi conto di come operano queste logiche è sufficiente studiare il nuovo tipo di media che il digitale e il suo incontro con le reti di comunicazione hanno reso possibile: il videogioco – il media non a caso più caratteristico di questi ambienti mediali che implicano in ogni caso un aspetto leggero e ludico. I videogiochi prevedono sequenze push di taglio cinematografico su cui il giocatore non ha potere, ma più spesso si basano su una interazione pull in cui il giocatore è chiamato a compiere delle scelte e a subirne le conseguenze. Essi offrono al giocatore la possibilità di condividere con altri giocatori sequenze di partite, soluzioni a enigmi difficoltosi, oppure addirittura parti del mondo di finzione da lui stesso create (come accade in The Sims, che ritroveremo più avanti). Infine, oltre al fatto che molti videogiochi prevedono la costruzione di community on line, esistono videogiochi da giocare in forma “social”, assumendo un certo ruolo finzionale e collaborando con altri giocatori compresenti in rete quel momento per raggiungere determinati obiettivi (i cosiddetti MMORPG, Massive Multiplayer Online Role-Playing Game).

5. This is the end, my only friend Rileggendo l’ultimo paragrafo che ho scritto mi rendo conto che sembrerei smentire me stesso: i media appaiono tutt’altro che morti o finiti, e anzi essi sembrano trionfanti e onnipresenti all’interno del tessuto sociale. In realtà, dietro questo panorama di effervescenze e trionfi si nasconde una crisi radicale dei media otto-novecenteschi – crisi che come ho detto inizialmente mi spinge a parlare di una “condizione postmediale” e a sollecitare un profondo ripensamento delle categorie e dei concetti con i quali pensiamo i fenomeni appena descritti. Possiamo renderci conto delle dimensioni di questa crisi tornando ancora una volta a considerare cosa ne è dei dispositivi mediali – cioè delle situazioni sociali di incontro con i materiali percettivi erogati da apparecchi tecnologici che, come il lettore avrà capito, sono le vere protagoniste di questo capitolo. Abbiamo detto che nella precedente fase di sviluppo i dispositivi avevano raggiunto un punto di equilibrio tra la lo-

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ro pervasività sociale e la loro individuabilità. Possiamo descrivere quanto è avvenuto e sta avvenendo nella terza fase sostenendo che tale equilibrio si è rotto e che una ulteriore spinta verso la pervasività sociale viene pagata con una de-individuazione dei dispositivi. È appunto questo processo di deindividuazione dei dispositivi mediali che definisco “fine dei media”. Ne ripercorrerò qui di seguito i progressivi passaggi come al rallentatore, in modo da far emergere gli aspetti che la velocità delle trasformazioni in atto normalmente non ci permette di cogliere. Anzitutto viene meno una chiara distinzione tra i diversi dispositivi mediali ereditati dal passato. Il fondamento di tale sfocatura è tecnologico: tutti i dispositivi si fondano su tecnologie digitali, e tra il film che vedo al cinema e quello che vedo sul mio televisore o sul mio tablet non c’è in linea di massima distinzione (se non nella risoluzione dell’immagine); si è parlato a questo proposito di una “convergenza” dei media sulla piattaforma digitale (Henry Jenkins). Inoltre la sfocatura dei confini tra dispositivi differenti ha anche una ragione pratica, sia perché alcuni dispositivi possono simularne altri (il mio impianto home theatre riproduce in casa la visione cinematografica, la mia autoradio riproduce nell’abitacolo dell’auto l’ascolto di musica dell’impianto stereo), sia perché alcuni dispositivi (in particolare il computer) possono simulare tutti gli altri, in quanto “metamedia” (cfr. sopra). In secondo luogo, alcuni dispositivi tradizionali vengono “rilocati” in spazi e situazioni che non sono loro propri. Per esempio Francesco Casetti ha studiato a fondo gli spostamenti che subisce il dispositivo del cinema in spazi pubblici (videowalls), nei musei, sugli aerei e in generale sui mezzi di trasporto, sui telefonini e sui tablet, e così via. Un discorso analogo si può fare riguardo al dispositivo televisivo. In alcuni casi queste rilocazioni hanno uno scopo artistico, e servono a ragionare sul dispositivo stesso, le sue origini e le sue possibilità meno esplorate nel corso della loro storia: è il caso di molte installazioni artistiche – come per esempio quelle di Tacita Dean o di Douglas Gordon. Infine, i dispositivi mediali non solo vedono sparire i propri confini rispetto ad altri dispositivi o rispetto ai propri usi

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e assetti tradizionali, ma più radicalmente essi si integrano perfettamente ad apparati sociali in linea di principio non mediali fondendosi con essi. Per esempio i dispositivi di videosorveglianza sono oggi del tutto integrati alle reti di comunicazione, con uno scambio intenso di dati, informazioni ma anche di soluzioni espressive con film, reality show e serie televisive. Un discorso analogo riguarda i dispositivi di registrazione e documentazione, per esempio le helmet e le combat cam di cui sono dotati alcuni membri degli eserciti in azioni di combattimento. Stesso discorso per i dispositivi di memoria di gruppi ristretti (per esempio gli archivi familiari e i film di famiglia); per quelli di controllo e gestione degli ambienti domestici (domotica); per quelli di interazione conversazionale; per quelli del commercio di beni e servizi, e l’elenco potrebbe continuare. In altri termini, non è più possibile oggi stabilire con chiarezza cosa è “mediale” e cosa non lo è, né si può definire quando entriamo in una situazione mediale e quando ne usciamo: siamo piuttosto immersi in sistemi e ambienti di relazioni e di scambi, pronti a usare le differenti risorse che tali ambienti ci mettono a disposizione rispetto agli obiettivi che ci vengono proposti o che ci proponiamo, e ad assumere ruoli e posizioni corrispondenti a quanto implicato dall’uso di tali risorse. I media sono ovunque. Noi stessi siamo media. Ed è per questo che i media non esistono più.

6. Gamification Senta, caro Eugeni, ho capito il suo discorso: i media sono oggi onnipresenti nella società ma, proprio per questo, essi perdono la loro specificità e vedono quindi vaporizzarsi la forte identità che li aveva contraddistinti nel corso del Novecento. E nei prossimi capitoli ci racconterà quali grandi racconti epici sorreggono e guidano questa grande trasformazione. Però, mi scusi, ma i media novecenteschi non sono mica spariti. Io vado al cinema e ascolto la radio come faceva mio nonno, guardo la televisione come faceva mio padre, e mi leggo i miei bei libri come faceva Machiavelli nel suo giardino.

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Be’, caro lettore ideale, lei ha senz’altro ragione, ma vorrei parlarle un momento della Zynga. Lei si aspetta, immagino, che metta su una faccia stupita così lei poi mi spiega cos’è la Zynga, ma guardi che anche io sono su Facebook e gioco a Farmville… Sì, infatti, la Zynga è una software house californiana specializzata nello sviluppo di videogiochi “casual”: sono giochi molto economici, con regole semplici e ripetitive, che si possono giocare senza troppo impegno (mentre si pensa ad altro, se si è sulla metro, mente si chiacchiera del più e del meno con qualcuno…), ma che tendono a coinvolgere il giocatore occupando larghe porzioni del suo tempo. Zynga, in particolare, è specializzata in giochi per piattaforme social come Facebook: per esempio Farmville di cui lei sembra appassionato simula la vita di un agricoltore, e le permette di far crescere piante e animali. Come in tutti i videogiochi ci sono punteggi da conquistare, livelli di gioco da raggiungere, e coccarde che attestano il raggiungimento di un certo status. Ma sì, Eugeni, alla fine è un giochino, non la faccia troppo grossa. Sarà un giochino, ma tenga conto che coinvolge circa 83 milioni di giocatori al mese e che è stimato sul mercato tra i 3 e i 5 miliardi di dollari! Comunque la Zynga era uno spunto per spingerla a fare un’osservazione più generale. Lei va al supermercato? Che domande sono, certo che ci vado. E possiede una tessera fedeltà? Altra domanda del cavolo, certo che la possiedo! Anzi, ne ho una decina di carte fedeltà: supermercati, commerciali, benzinai, profumerie… Solo di supermercati ne ho tre di carte fedeltà: sono fedelissimo!

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Bene. Allora immagini che una carta fedeltà altro non sia che lo strumento per partecipare a un grande gioco che funziona come Farmville: punti, livelli, classifiche, premi… E guardi che questa logica ce la ritroviamo in una quantità di ambiti della vita normale: molti programmi di dieta sono gestiti alla stessa maniera, stessa cosa per corsi di apprendimento e di aggiornamento (per esempio delle lingue), per siti di recensioni on line (ce l’ha la coccarda di Trip Advisors?), e così via. Sì è vero, non ci avevo pensato. Ma cosa vuole arrivare a dire? Voglio dire, con un sociologo dei media che si chiama Peppino Ortoleva, che il nuovo secolo si prospetta come “il secolo del gioco”. Sotto questo aspetto i differenti fenomeni casi che ho abbozzato sopra rimandano a una tendenza più ampia e fondamentale della nostra epoca, che è stata chiamata gamification: meccanismi, comportamenti e atteggiamenti propri del mondo del gioco e in modo specifico del videogioco vengono spostati in contesti e situazioni non di gioco. E voglio dire, riagganciandomi al discorso che sto facendo in questo libretto, che la condizione postmediale è profondamente legata a questa “svolta ludica” delle nostre pratiche. Senta Eugeni, lei è simpatico e qualche volta dice delle cose interessanti, ma qui sta girando in circolo e non ha risposto alla mia domanda: come giustifica il mio Montalbano di stasera se i media non esistono più? Ci stavo arrivando, un po’ di pazienza! Non ho detto, infatti, che i dispositivi tradizionali scompaiono, ma che divengono meno chiaramente individuabili. E, soprattutto, ho detto e dirò che sono venute meno le premesse culturali che ne assicuravano la riconoscibilità, i caratteri profondi e un certo modo di funzionare. Per esempio, suo padre aveva nei confronti della televisione e dei suoi programmi un atteggiamento di “rispetto” e una serie di comportamenti rituali che lei ha perduto. Insomma: il terzo step che ho descritto nel

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paragrafo precedente – l’ibridarsi dei media con apparati non mediali – retroagisce sui due precedenti e in particolare sul primo – l’esperienza dei dispositivi tradizionali – trasformandoli profondamente. E il gioco cosa c’entra? C’entra moltissimo, perché il modo in cui noi oggi viviamo i “vecchi” dispositivi è differente rispetto al nostro passato mediale proprio perché è “gamificato”. Noi viviamo la relazione con il cinema, con la televisione, con la radio… come un gioco: non solo non c’è più nulla di rituale e non ci sono più relazioni autoritarie forti, ma possiamo ora giocare a simulare e a riprodurre suoni, immagini e situazioni, dall’uso degli home theatre ai nostri rifacimenti al computer. Mi sta dicendo che facciamo oggi un uso “postmoderno”, ludico e effimero, dei dispositivi mediali moderni? No, assolutamente: non credo che la condizione postmediale sia al tempo stesso “postmoderna”, e lo argomenterò nelle conclusioni. Voglio dire invece che viviamo in una fase di transizione e di adattamento, che questo adattamento riguarda profondamente la nostra relazione con i dispositivi mediali in seguito alla loro progressiva ibridazione, e che il gioco è l’atteggiamento più adatto a definire quello che stiamo facendo. Se vuole una formula finale che mi fa fare bella figura nella chiusura del capitolo, il gioco serve ad adattarci a un ambiente mediale che ancora non esiste.

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1. Pandora Un ex marine paraplegico, Jake Sully, prende il posto del proprio gemello Tom, uno scienziato che è rimasto accidentalmente ucciso: dovrà “indossare” il corpo di un Na’vi, popolazione indigena di Pandora, una delle quattordici lune di un lontano pianeta. Pandora è oggetto di una colonizzazione da parte dei terrestri ingolositi dall’estrazione dell’unobtanium, un preziosissimo minerale che solo essa produce. Ad essi si oppongono i Na’vi, esseri alti più di tre metri, la cui cultura tecnologica è relativamente primitiva. Tra i due gruppi si collocano i membri del progetto Avatar. Una scienziata, la dottoressa Grace Augustine, ha trovato il modo di far sviluppare corpi artificiali di Na’vi il cui DNA è mescolato a quello umano, e di rendere possibile il trasferimento della coscienza di un soggetto umano nel proprio avatar alieno. L’obiettivo della dottoressa Agustine è scientifico e umanitario, ma la compagnia di estrazione e i contractors alle sue dipendenze pensano di sfruttare il progetto ai fini dell’impresa di colonizzazione. Calandosi nel proprio corpo da Na’vi, Jack può sperimentare quella libertà di movimento che le ferite di guerra gli hanno precluso. Nonostante l’iniziale diffidenza del gruppo di scienziati, Jack riesce dove essi avevano fallito: viene accettato dalla comunità dei Na’vi, da essi addestrato e sottoposto ad alcuni riti di passaggio che ne fanno un membro della comunità; Jack stringe inoltre una relazione sentimentale con Neytiri, figlia del capo tribù. Gradualmente Jack comprende la logica profonda della cultura Na’vi, basata su una connessione tra tutti gli esseri viventi di Pandora. Pandora è una rete di vita, di

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Tecnologie e trasfigurazioni

energia e di informazione cui i Na’vi si connettono mediante la treccia dei propri capelli che costituisce un vero e proprio cavo di connessione. Il luogo chiave di tale connessione è l’“albero delle voci”, con il quale ci si connette a tutti gli esseri viventi o già defunti e con Eiwa, lo spirito stesso di Pandora e l’incarnazione della sua memoria culturale. La situazione precipita quando le forze armate terrestri decidono di sferrare un violentissimo attacco contro Pandora per impossessarsi di un giacimento di unobtanium. Gli scarsi mezzi bellici dei Na’vi possono poco contro gli imponenti mezzi terrestri: enormi bulldozer, elicotteri e carri armati, armature che ingigantiscono e moltiplicano le forze dei corpi umani. Nonostante la sua situazione sia di nuovo difficile (è visto come un traditore sia dagli umani che dai Na’vi), Jack riesce a indicare una via di salvezza per i nativi: riunisce i clan di Pandora e, soprattutto, chiede l’aiuto di Eiwa; la comunicazione in tal modo attivata richiama in breve tempo non solo i nativi, ma anche le piante e gli animali di Pandora, collegati da una medesima mobilitazione “di rete” e “dal basso” contro l’invasione “dall’alto” delle massicce tecnologie terrestri. L’ultima, epica battaglia contro i terrestri vede così il trionfo finale dei Na’vi, o per meglio dire dell’intero Pandora. Nel finale Jack decide di trasferire definitivamente la propria coscienza nel corpo del suo avatar.

2. Tecnologie e trasfigurazioni Il film Avatar (James Cameron, USA-Regno Unito, 2009) sembra a prima vista attraversato da una netta opposizione tra tecnologia e natura. Da un lato i terrestri sono portatori di una enorme potenza tecnologica che si esprime visivamente e narrativamente nelle forme massicce e nelle enormi dimensioni delle differenti macchine presenti nel film (mezzi di trasporto, mezzi di estrazione, armi e armature giganti). La loro relazione con la natura è esclusivamente di tipo predatorio: il loro atteggiamento raffigura perfettamente quella visione del mondo in quanto ge-stellen, pura riserva di forme energetiche di cui appropriarsi, di cui parlava Heidegger nel-

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le sue conferenze dei primi anni Cinquanta1. Dall’altro lato e all’opposto i Na’vi vivono in una quasi completa ignoranza tecnologica (i loro archi appaiono primitivi e quasi inoffensivi), ma sono perfettamente integrati con la luna che li ospita: la loro dimora è il grande albero che verrà distrutto dai terrestri; essi sono in grado di comunicare direttamente con le creature alate che rappresentano i loro mezzi di trasporto, con lo spirito di Pandora, e in definitiva con il suo intero ecosistema. Insomma: a una prima lettura Avatar sembrerebbe il racconto epico di uno scontro tra tecnologia e natura, con la vittoria finale di quest’ultima. Non a caso vari commenti hanno insistito sull’etica “ecologista” del film di Cameron. Eppure a ben vedere le cose stanno diversamente. Analizziamo con attenzione l’ecosistema di Pandora, e osserviamo in particolare la logica e l’etica che esso esprime. Pandora costituisce a ben vedere un sistema completamente cablato, in cui ogni individuo ha pieno e immediato accesso a ogni possibile informazione e alla comunicazione con altre creature. Tale fitta rete di comunicazione implica una gestione “orizzontale” e non verticale delle pratiche comuni: è un simile coinvolgimento “dal basso” che, come abbiamo detto, ha la meglio sulla gestione verticistica dell’offensiva messa in atto dai terrestri. In altri termini non è difficile vedere nel sistema di Pandora una trasfigurazione della tecnologia mediale contemporanea: ritorna in altre vesti la distruzione del Grande Fratello e delle sue protesi tecnologiche che abbiamo visto profilarsi nel commercial della Apple all’inizio di questo volume. Siamo ora in grado di valutare meglio la portata tematica del film. L’opposizione che regge Avatar non è affatto tra tecnologia e natura, quanto piuttosto tra due differenti forme e concezioni di tecnologia. I terrestri sono portatori di apparati tecnologici meccanici ed elettronici possenti: si tratta di vere e proprie protesi artificiali del corpo umano volte al suo potenziamento fisico. Il loro intero sistema di visione del mondo è condizionato da una simile tecnologia pensata e vissuta

M. Heidegger, La questione della tecnica (1954), in Id., Saggi e discorsi, a cura di Gianni Vattimo, Mursia, Milano 1976, pp. 5-27. 1

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come strumento per uno sfruttamento intensivo delle risorse di Pandora. I Na’vi, al contrario, sono portatori di una tecnologia completamente trasfigurata in natura: la rete di comunicazione che regge il sistema di Pandora (e che articola la sua stessa memoria culturale) è una metafora evidente delle reti digitali dell’epoca contemporanea, grandi sistemi di scambio ininterrotto e vitale di informazioni e di servizi, ininterrotti flussi di oggetti immateriali al di là di qualunque confine geografico tradizionale, smisurato dispositivo di tracciabilità di percorsi e di presenze. L’albero delle voci è insomma un grande server biologico capace di connettere tutti gli esseri di Pandora e di conservarne le memorie. Il tema profondo di Avatar è dunque la percezione di una condizione di vita ipertecnologizzata e ipersocializzata quale forma di esperienza “naturale”. Una simile situazione è paradossale (e su questo paradosso dovremo ritornare); tuttavia essa è una caratteristica essenziale della condizione postmediale. Pensiamo a come la tecnologia sia oggi in larga parte divenuta “invisibile”: usiamo tranquillamente carte di credito, navigatori satellitari, telefoni cellulari, senza neppure sospettare la complessità delle strutture e dei processi tecnologici con i quali i nostri semplici gesti interagiscono. D’altra parte gli stessi dispositivi tecnologici tendono a divenire piccoli, maneggevoli, portabili: gli schermi televisivi si appiattiscono; i computer vengono integrati agli stessi schermi che ne visualizzano i dati, oppure si rimpiccioliscono in vari dispositivi portabili e talvolta indossabili (orologi, occhiali, talvolta veri e propri vestiti); le varie forme di sensori disseminati nei nostri habitat ci permettono di interagire con la tecnologia senza che dobbiamo neppure muovere un dito (come accade per esempio con i nuovi dispositivi di pagamento contactless). In tal modo, infine, la tecnologia entra in un rapporto immediato con il nostro corpo: per esempio mediante le interfacce touch, oppure le piattaforme di videogioco gestite attraverso una pura gestualità del giocatore (come Kinect per Xbox 360), ma anche per altro verso con tutti i dispositivi biomedici computerizzati (dai pacemaker alle protesi visive o uditive) che interagiscono profondamente con l’anatomia e la fisiologia degli organismi.

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D’altra parte, su quest’ultimo punto, Avatar risulta ancora una volta sintomatico: la storia del suo protagonista, Jake Sully, è quella di un uomo che letteralmente cambia corpo, e passa gradualmente da un corpo immobilizzato e isolato a un corpo dinamico e iperconnesso. Ma attenzione: la parabola del corpo dell’ex marine è la narrazione metaforica di quanto viene proposto allo stesso spettatore: grazie alla visione in 3D, infatti, anche lo spettatore viene invitato a entrare in un nuovo corpo, e a fare in tal modo un’esperienza fisica e somatica di un mondo interamente digitale. In definitiva, se Avatar è un grande discorso epico, l’epos che lo attraversa e che esso esprime è quello di una grande naturalizzazione dell’esperienza tecnologica. Si tratta del primo, grande sistema epico che articola la condizione postmediale, attraversandone in maniera ora implicita ora esplicita le differenti forme di comunicazione e di espressione. Ad esso è dedicato questo capitolo; tuttavia, prima di procedere è necessario che apra una parentesi: ho iniziato a usare una parola, “epos”, piuttosto impegnativa per le implicazioni che nasconde e per la funzione che riveste in questo libro; pertanto, non intendo rinviare ulteriormente alcuni chiarimenti circa il significato e il ruolo dell’epica nella condizione postmediale.

3. Epos A prima vista la condizione postmediale appare lontana anni luce dai generi narrativi dell’epica. Come è noto infatti la teoria della letteratura ha scavato un solco tra epica e romanzo, ascrivendo la prima all’età classica e il secondo alla modernità. Questa idea nasce nel 1920 con la Teoria del romanzo di György Lukács: il filosofo ungherese, partendo da un passo dell’Estetica di Hegel, insiste sul fatto che l’età moderna ha perduto il senso di totalità conchiusa del mondo epico, e può solo aspirarvi in una tensione costantemente irrisolta attraverso il suo genere per eccellenza che è appunto il romanzo2. Alla fine degli anni Trenta Michail Bachtin ri2

G. Lukács, Teoria del romanzo (1920), Pratiche, Parma 1994.

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prende l’idea di Lukács, pur invertendone il giudizio implicito: secondo il critico e filosofo russo l’epica è il genere della conclusività, della monologia e della astrazione, tanto quanto il romanzo è legato al presente nella sua fluidità, nella sua incompiutezza, nel suo realismo e nella pluralità polifonica delle sue voci3. Sempre negli anni Trenta risuona la voce di un altro filosofo, questa volta tedesco: Walter Benjamin. L’attenzione si sposta ora sugli aspetti specificatamente mediali della distinzione tra epica e romanzo, che rappresentano per Benjamin gli idealtipi di due modalità di comunicazione sociale. L’epica si basa sul senso comunitario: sia l’autore che gli ascoltatori sono parte di una “coralità” condivisa. Recitazione e ascolto richiedono tempo, addirittura noia. Queste particolari condizioni aprono due caratteristiche della narrazione epica: in primo luogo essa trasmette una esperienza comunitaria, sedimentata nel tempo, e costituisce oggetti-ricordo (Andenken) condivisi socialmente; inoltre la narrazione epica trasmette un ethos comune, una morale che prende le vesti della saggezza. Al contrario, la forma di comunicazione sociale rappresentata dal romanzo (e dalla informazione) è individualizzata: lo scrittore scrive in solitudine, il lettore altrettanto solitario accumula non ricordi oggetto ma rimembranze inconsapevoli (Eingedenken), e si nutre avidamente di una esperienza individuale che non sa essere saggezza ma solamente un “senso della vita”. La modernità abbandonando l’epica per il romanzo ha dunque perso la capacità di narrare: essa non sa più scambiare esperienze, e dunque scompaiono insieme arte del narrare e capacità di trasmettere saggezza4. L’epica sembrerebbe dunque un genere abbandonato al passato, mentre il presente sarebbe segnato dal trionfo del genere moderno per eccellenza, il romanzo. Eppure le cose non 3 M. Bachtin, Epos e romanzo. Sulla metodologia dello studio del romanzo (1938), in Id. Estetica e romanzo, a cura di C. Strada Janovic, Einaudi, Torino 1979. 4 W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicolai Leskov (1936), in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di Renato Solmi, Einaudi, Torino 1962, pp. 247-274.

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sono così semplici. Anzitutto possiamo osservare che lo stesso romanzo contemporaneo si spinge in molti casi verso le forme dell’epica. Per esempio, secondo Franco Moretti, contro l’ipotesi di Bachtin, la vera forma polifonica dell’Occidente moderno non è il romanzo ma è ancora l’epica, con le ambizioni enciclopediche e totalizzanti delle sue “opere mondo”, dal Faust di Goethe (1808) a Cent’anni di solitudine di Garcia Marquez (1967)5. Su questa stessa linea Massimo Fusillo: la negoziazione tra totalità e frammento dell’universo narrativo ha prodotto forme di epica contemporanea che giungono a produrre “iper-romanzi”, sistemi narrativi complessi e corali costituiti dal montaggio e dall’intreccio di miriadi di frammenti – come avviene per esempio nel design narrativo di un film come America oggi (Robert Altman, USA, 1993), tratto dai racconti di Raymond Carver, o in un romanzo come Underworld di Don DeLillo (1997)6. Tuttavia, è soprattutto nel panorama postmediale contemporaneo che si può osservare un clamoroso ritorno delle forme epiche. Pensiamo anzitutto alla frequenza con cui pagine scritte o disegnate, e piccoli o grandi schermi ospitano figure eroiche e supereroiche: da Harry Potter ai personaggi della Marvel o della dc Comics; dai grandi eroi delle Termopili dipinti in 300 (Zack Snyder, 2007, tratto da un fumetto di Frank Miller del 1998) ai campioni di arti marziali dei film gongfu, wuxia o ninja di origine orientale; dalla saga del Signore degli Anelli (portata sullo schermo da Peter Jackson tra il 2001 e il 2003) a quella di Star Wars (la cui proprietà è passata dal suo ideatore George Lucas alla Disney, la quale sta producendo la terza trilogia cinematografica) – fino alla saga dello stesso Avatar che, dopo l’epico film del 2007, sta producendo ora due consistenti sequels. Pensiamo, ancora, al modo in cui queste e altre narrazioni si espandono e si allargano in forme di narrazione tran-

5 F. Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal “Faust” a “Cent’anni di solitudine”, Einaudi, Torino 1994. 6 M. Fusillo, Fra epica e romanzo, in F. Moretti (ed.), Il romanzo. Vol. II: Le forme, Einaudi, Torino 2002, pp. 5-34.

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smediale (transmedia storytelling): non solo i racconti si estendono per diversi romanzi o stagioni di fiction televisive, o serie di film, ma si muovono agevolmente da una piattaforma a un’altra e da un canale di distribuzione a un altro, coinvolgendo in forma coordinata romanzi, film, serie televisive, videogiochi, cartoni animati, video virali, attrazioni di parchi tematici, spettacoli teatrali, eventi e così via; e si badi bene: non si tratta di “traduzioni” di un racconto su diverse piattaforme e canali, ma piuttosto di una sua “espansione” in parti e sviluppi differenti ma coerentemente organizzati all’interno di un universo narrativo complesso ma unitario. Non a caso Henry Jenkins ha parlato a questo proposito dell’esistenza di alcuni grandi franchise nei media contemporanei, ovvero marchi che rappresentano interi mondi narrativi: questi per un verso sono distribuiti ed espansi su piattaforme e canali differenti – e vengono talvolta alimentati dall’opera di fan che si reinventano creatori per contribuire a sviluppare le gesta dei propri eroi preferiti –, ma dall’altro lato restano pur sempre unitari e coerenti nel loro insieme7. Pensiamo infine a un altro tipo di epica, non più dell’eroe o degli eroi, ma piuttosto di soggetti più o meno “comuni” che affrontano piccole e grandi esperienze all’insegna di un’epica del quotidiano. È il caso per esempio delle sfide sportive, al centro non solo di match reali ma anche di ampie narrazioni cinematografiche e televisive. Ma è anche il caso dei meccanismi di prova che costruiscono la struttura narrativa dei reality show televisivi, con la forte ritualizzazione drammaturgica del ruolo delle giurie di esperti, veri e propri consessi divini incaricati di commentare e valutare le prestazioni dei soggetti. È il caso del tono epico che assumono in alcune commedie romantiche le azioni, i comportamenti, ma anche i dubbi, i drammi le inquietudini di tutti i giorni; anche molte serie televisive insistono sulla grandezza epica della quotidianità: per esempio molte serie medicali e ospedaliere (per il confronto costante dei personaggi con i grandi temi della vita e della morte), appaiono ascrivibili a que7

H. Jenkins, Cultura convergente (2006), Apogeo, Milano 2007.

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sta configurazione. Ed è infine il caso di tutti quei racconti in cui l’eroe cessa di un essere singolo per divenire un soggetto collettivo, un intero gruppo sociale: da Wikipedia ai progetti di ricerca scientifica “distribuiti”, dai siti di discussione e condivisione di risorse a prodotti audiovisivi collettivi quali One day on Hearth (un film collaborativo, realizzato con il contributo di migliaia di film makers sotto la supervisione produttiva di Ridley Scott – ancora lui! – la cui prima edizione è stata realizzata il 10 ottobre 2010). Ora, questo massiccio ritorno delle forme narrative epiche all’interno della condizione postmediale contiene un evidente paradosso. L’epica è il genere della totalità conchiusa, mentre il presente sembra aver portato alle estreme conseguenze la polifonia, la frammentazione e l’incompiutezza proprie del romanzo (Lukács e Bachtin). L’epica è il genere della condivisione comunitaria orale, della relazione fisica tra narratore e pubblico, della trasmissione di una saggezza sedimentata collettivamente; è il genere che presuppone un territorio fisico comune che divenga nel tempo e nella memoria luogo di affetti e di saperi (Benjamin); la condizione postmediale sembra al contrario estremizzare la modalità comunicativa individualizzata propria del romanzo: essa sottrae ancor di più il fruitore da una presenza e compresenza fisica con la comunità di altri fruitori e produttori. Eppure. Eppure l’epica è ancora qui a rivendicare i propri diritti e la propria funzione all’interno della postmedialità. Come interpretare allora tale presenza insistente? A mio avviso occorre pensare che la condizione postmediale ha bisogno dell’epica proprio a causa della polverizzazione che ne caratterizza le dinamiche. Se i dispositivi mediali sono ora dispersi nel sociale, indistinguibili l’uno dall’altro e altrettanto indistinguibili da tutti gli altri dispositivi sociali, occorre allora una meta-pratica di costruzione o di ricostruzione di mondi unitari e coerenti che permetta di ricostituire un senso unitario alla miriade di micropratiche mediali e non mediali della vita di tutti i giorni. Letta da questo punto di vista, allora, l’epica non è solo un genere narrativo ricorrente nell’universo postmediale: essa costituisce anche e prima ancora una logica profonda che opera al suo interno. La proliferazione di mondi epici autoconclusi, to-

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talizzanti e coerenti nonostante (e anzi proprio in ragione de) la loro proliferazione su piattaforme e canali differenti, rimanda a un carattere complessivo della condizione postmediale: il suo essere attraversato da grandi racconti trasversali, linee di forza che ne mettono in scena le dinamiche profonde e donano un senso alla altrimenti incontrollata e insensata proliferazione di pratiche e di dispositivi. Le tendenze dell’epos postmediale sono insomma le linee di forza che tengono insieme un universo che altrimenti potrebbe sgretolarsi in ogni momento – l’universo di senso friabile in cui viviamo. L’universo che abbiamo ereditato dalla condizione mediale e dal suo scenario: la modernità; l’universo che stiamo oggi superando all’interno della condizione postmediale e sullo sfondo di un nuovo scenario in formazione che definiremo nelle conclusioni di questo volumetto la amodernità. In ogni caso, è per questa ragione che, nel nostro sforzo di comprendere cosa sia la condizione postmediale, ho scelto di seguire in questo libro le tre tendenze dell’epos che mi sembrano oggi dominanti. A cominciare dall’epos della naturalizzazione, già introdotto con la mia lettura di Avatar, e su cui ora dobbiamo ritornare.

4. Breve storia dell’artificiale Possiamo tornare dunque ad Avatar, e all’epos della naturalizzazione dell’esperienza ipertecnologizzata e ipersocializzata che esso esprime. Come il lettore ricorderà abbiamo lasciato in sospeso il paradosso implicato da una simile narrazione: come è possibile che una condizione esperienziale completamente innervata dalla tecnologia appaia al tempo stesso come antitecnologica e come “naturale”? Per rispondere a questa domanda dobbiamo ripercorrere brevemente la storia dei media tratteggiata nel capitolo precedente, rileggendola da un punto di vista più generale: quello della relazione esperienziale dei soggetti sociali con l’artificiale. Abbiamo detto che i media nascono all’interno della cosiddetta “seconda rivoluzione industriale”, un’epoca caratterizzata da profonde trasformazioni tecnologiche e sociali. Ci inte-

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ressa qui focalizzare alcuni importanti processi che riguardano le forme dell’esperienza. Le nuove macchine della modernità entrano ora in vario modo nella sfera esperienziale dei soggetti sociali: gli ambienti urbani e metropolitani vedono l’interazione delle folle con impianti di luce elettrica, tram, automobili; gli spostamenti tra le città avvengono con quella prodigiosa e potente incarnazione dell’energia moderna che è il treno; la Prima guerra mondiale rappresenterà il primo violento impatto con le armi a lunga gittata. I nuovi apparati tecnologici finiscono dunque per ristrutturare le condizioni e le forme dell’esperienza, e in particolare le categorie dello spazio e del tempo: l’esperienza si fa rapida, veloce, sfuggente e al tempo stesso frammentata, discontinua, spiazzante e shockante. La principale conseguenza di una simile trasformazione è la costituzione di una netta opposizione tra le due categorie del naturale e dell’artificiale. L’esperienza degli apparati tecnologici di nuova generazione sembra sottrarre il soggetto al proprio ambito di appartenenza originario per costringerlo a relazionarsi con dispositivi che sono in linea di massima estranei alla sua natura: il mondo dell’uomo e degli altri organismi viventi con le sue logiche, i suoi ritmi, i suoi limiti, viene bruscamente costretto a convivere con il mondo delle macchine e con le sue incommensurabili dimensioni, la sua incomparabile potenza, le sue incontrollabili esplosioni. Il naturale entra, insomma, in una forzata relazione con l’artificiale. Le soluzioni di questa relazione possono essere differenti: in alcuni casi la natura e i suoi paesaggi vengono invasi inaspettatamente dalla presenza delle macchine, per esempio del treno (è il plot letterario studiato fin dagli anni Sessanta da Leo Marx8); in altri casi l’intera percezione del paesaggio naturale appare improntata da una attitudine allo sfruttamento delle sue risorse energetiche (è la posizione che si ritroverà in Heidegger, già richiamata sopra, ma che è comune a molti altri interventi e fabulazioni, ad esempio L’isola misteriosa di Jules Verne del 1874); in altri casi ancora è lo stesso ambiente urbano ad apparire come una giungla o coL. Marx, La macchina nel giardino. Tecnologia e ideale pastorale in America (1964), Edizioni del Lavoro, Roma, 1987. 8

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munque un habitat naturale, che esso ha ormai interamente sostituito (come in alcune pagine di Victor Hugo, Edgar Allan Poe o Charles Baudelaire analizzate da Walter Benjamin negli anni Trenta). In ogni caso, queste e tutte le altre possibili soluzioni si basano su un assunto di fondo inscalfibile: naturale e artificiale rappresentano due condizioni e situazioni esperienziali opposte e incommensurabili. Il passaggio dalla fase dei media meccanici a quella dei media elettronici (fase che, lo ricordiamo, occupa la parte centrale del Novecento) modifica la coloritura emotiva delle varie forme di esperienza dell’artificiale, ma non tocca la sua fondamentale opposizione al naturale. Uno sguardo alle pubblicità del primo e soprattutto del secondo dopoguerra permette di cogliere un fenomeno chiave: oggetti artificiali, prodotti in serie per un pubblico di consumatori di massa, irrompono nelle vite quotidiane, penetrano negli spazi e nei tempi in cui si svolge la vita di ogni giorno, entrano in profonda simbiosi con i ritmi, gli ambienti, gli usi e i riti che costituiscono il tessuto dell’esperienza. Elettrodomestici, cibi preconfezionati e surgelati, vestiti, profumi, nuovi materiali di costruzione come la plastica, nuovi farmaci (come gli anticoncezionali o gli antidepressivi) sono i protagonisti di questa ridefinizione del paesaggio esperienziale. Insomma: l’artificiale entra sempre di più nella sfera privata, e raggiunge in alcuni casi una relazione personale e intima con i singoli soggetti. Il risultato è ambiguo. Da un lato proprio la pubblicità esprime al meglio il versante euforico di questa massiccia artificializzazione dell’esperienza, al tempo stesso personale e collettiva, intima e sociale. Dall’altro lato i numerosi racconti distopici che nascono in questo periodo esprimono l’aspetto disforico, inquieto e talvolta angosciato, della perdita di autenticità e di radicamento del soggetto: per non citare ancora Orwell, mi limito a richiamare i racconti e i romanzi di Philip K. Dick, comparsi tra gli anni Cinquanta e Settanta, i cui personaggi scoprono gradualmente che la normalità un po’ banale in cui si credono inseriti è in realtà frutto di complessi processi di simulazione, e dunque il risultato di un artificio controllato.

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Tra la seconda metà dell’Ottocento e la fine del Novecento, l’esperienza sociale viene dunque investita da una opposizione tra il naturale e l’artificiale, che determina in particolare le relazioni con gli oggetti e i dispositivi tecnologici. Ora, è importante osservare che i media nel loro sviluppo prima meccanico poi elettronico non sono affatto estranei a questi processi, ma ne costituiscono al contrario una componente essenziale, ancorché ben delimitata e definita. In primo luogo, infatti, i media implicano essi stessi la presenza di apparecchi tecnologici (macchine di proiezione, radio, grammofoni, televisori; e ancora: apparecchi di ripresa, reti di trasmissione, e così via); essi riproducono dunque quella relazione esperienziale tra i soggetti e gli apparati tecnologici che abbiamo visto caratterizzare questo ampio periodo: in tal modo, i media riattivano il confronto tra le condizioni e le possibilità naturali del soggetto e l’artificialità dei dispositivi che ne ospitano la presenza vivente. Tuttavia, in secondo luogo, i media offrono una simile esperienza dell’artificiale all’interno di situazioni ristrette e controllate (la sala cinematografica, il salotto di casa…): per questa ragione, i dispositivi mediali sono sia il luogo di una estetizzazione di questa esperienza (per esempio alcune forme del montaggio cinematografico riproducono gli shock percettivi tipici dell’esperienza urbana), sia il luogo di un addestramento delle capacità percettive dello spettatore a una convivenza con l’artificiale (proseguendo con il nostro esempio: le forme della continuità narrativa permettono di “suturare” i salti del montaggio insegnando allo spettatore a leggere le immagini come porzioni di un mondo coerente). Insomma: i media tra la fine dell’Ottocento e la fine del Novecento hanno costituito delle interfacce esperienziali tra gli apparati artificiali della tecnologia e la naturalità del soggetto umano. Estendendo quanto ha mostrato molto bene Francesco Casetti per il cinema, i media hanno costituito lo spazio di negoziazione della relazione tra il naturale e l’artificiale9. Questa particolare posizione dei media spiega due elementi. In primo luogo il fatto che le narrazioni mediali hanF. Casetti, L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, Bompiani, Milano 2005. 9

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no assunto spesso un andamento mitografico: al centro delle narrazioni c’è il conflitto tra due opposti e le forme della loro possibile o impossibile conciliazione – la civiltà e la wilderness (il western), gli istinti e le norme sociali (il melodramma), la legge e la violenza (il noir), e così via. In secondo luogo, il fatto che i media abbiano costituito lo spazio di negoziazione tra naturalità e artificialità spiega perché tutte le grandi teorie che indagano il sociale in questo periodo (psicologia sociale e teoria degli effetti, sociologia e filosofia dell’industria e dell’immaginario culturale, semiotica) nel momento in cui sottolineano la costituzione artificiale del soggetto sociale, fanno comunque esplicito o implicito riferimento ai media, al loro funzionamento e ai loro prodotti. La situazione fin qui descritta ci permette di comprendere la portata delle trasformazioni che hanno accompagnato e che si sono intrecciate all’avvento della terza fase della storia dei media, quella che corrisponde alla loro sparizione – e che secondo alcuni osservatori si collega al passaggio dalla seconda a una «terza rivoluzione industriale»10. La condizione postmediale corrisponde, infatti, a una profonda mutazione antropologica complessiva: a partire dagli ultimi decenni del Novecento, la tecnologia abbandona lo spiegamento di una potenza percepibile all’interno degli spazi sociali, e tende anzi a minimizzare quando non addirittura a nascondere i propri apparati. Eppure, la tecnologia entra in questo periodo in forma capillare nel tessuto delle azioni e delle esperienze degli individui e dei gruppi: essa costituisce tecno-ambienti ibridi e complessi, inventa forme visibili e invisibili di interazione con i soggetti, si installa, come dicevamo sopra, all’interno delle strutture anatomiche e biologiche dei viventi. Questa disseminazione polverizzante della tecnologia nelle vite e nell’esperienza dei soggetti possiede un effetto determinante: essa implica la vaporizzazione dell’opposizione tra naturale e artificiale quale strumento culturale pertinente nell’interpretazione dell’esperienza. Certo, noi continuiamo 10 J. Rifkin, La terza rivoluzione industriale. Come il «potere laterale» sta trasformando l’energia, l’economia e il mondo (2011), Mondadori, Milano 2011.

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a opporre per convenzione o per pigrizia natura e artificio, bíos e téchne, ma si tratta di una convenzione priva di convinzione, il reperto di una precedente era archeologica della cultura e dell’esperienza. Ecco dunque spiegato l’apparente paradosso espresso da Avatar: se la “vecchia” tecnologia di cui sono portatori gli umani si oppone alla natura, la “nuova” (e vincente) tecnologia dei Na’vi è essa stessa una delle forme della natura e della vita, in quanto l’opposizione tra naturale e artificiale ha cessato di funzionare. Ma è anche importante sottolineare un’altra trasformazione strettamente collegata: i media adesso non costituiscono più una provincia delimitata e definita della tecnologia, e neppure il luogo privilegiato per una negoziazione tra naturale e artificiale. I media si sono completamente riversati e fusi all’interno dei differenti e sempre più coesi apparati tecnologici, tanto che la questione del dove si fermi la tecnologia in generale e inizi una tecnologia mediale non possiede ormai alcun senso. Qualunque aspetto della tecnologia contemporanea – dallo sfruttamento energetico al controllo e alla sorveglianza, dal commercio ai trasporti – possiede oggi alcuni aspetti e alcune funzioni precedentemente riservate ai media, ovvero forme di cattura, memorizzazione, manipolazione, trasmissione, esibizione e ricezione di informazioni. Ecco perché le forme narrative della condizione postmediale non sono più mitologiche, ma epiche; ed ecco perché non si può neppure dire che siano i media a farle circolare, quando è l’intero sistema tecnologico a parlarsi e a raccontarsi attraverso le varie forme e tendenze dell’epos che stiamo indagando.

5. Quello che vuole la tecnologia Nel suo libro Quello che vuole la tecnologia, Kevin Kelly, un giornalista e intellettuale fondatore tra l’altro della influente rivista «Wired», racconta la storia del proprio rapporto con la tecnologia11. Cresciuto nella periferia del New Jersey negli anK. Kelly, Quello che vuole la tecnologia (2010), Codice, Torino 2011. 11

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ni Cinquanta e Sessanta, Kelly osserva con inquietudine il sopravanzare del ruolo e del potere della tecnologia. Televisori, automobili… creano reti di oggetti e prodotti che costituiscono parte integrante della vita quotidiana: La tecnologia televisiva ha la notevole capacità di chiamare a raduno le persone in determinati momenti, e poi incantarle per ore. Le sue pubblicità dicono loro di acquistare sempre più prodotti tecnologici; e loro ubbidiscono. Notavo che anche altre tecnologie impositive, come l’automobile, sembravano in grado di indurre la gente all’asservimento, spingendo all’acquisto di ulteriori tecnologie (autostrade, cinema drive in, fast food). […] Da ragazzino facevo fatica a sentire la mia stessa voce, mi pareva che le voci autentiche dei miei amici fossero soffocate dal frastuono di una tecnologia che comunicava con se stessa12.

Da ragazzo Kelly tende a fuggire alla tecnologia, alle sue reti e al suo potere: viaggia molto, soprattutto in Asia e in Paesi poco tecnologizzati, adotta uno stile di vita estremamente spartano, per un periodo vive in una comunità religiosa Amish, di stampo agricolo, che rifiuta il progresso tecnologico. Dopo essere tornato in America (ed essersi stabilito in una casa di legno costruita con le proprie mani), negli anni Ottanta Kelly inizia a vendere prodotti per corrispondenza e quasi per caso si trova inserito in una delle prime reti telematiche, costruita dal New Jersey Institute of Technology. E il suo atteggiamento rispetto alla tecnologia inizia a cambiare: Con mia immensa sorpresa mi resi conto che queste reti informatiche ad alta tecnologia non soffocavano la mente di quei primi utilizzatori (che eravamo noi); al contrario, la elevavano. C’era qualcosa di inaspettatamente biologico in quegli ecosistemi fatti di persone e di cavi. Dal nulla più totale stavamo facendo crescere una comunità virtuale. Quando poi arrivò internet, alcuni anni dopo, mi sembrò quasi una cosa amish. Quando capii cosa avrebbero potuto fare dei computer collegati in rete (ispirare nuove idee, moltiplicare le possibilità e via di-

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Ibi, p. 4.

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L’epos della naturalizzazione cendo), mi resi conto che anche le altre tecnologie, come l’automobile, la motosega, la biochimica e, perché no, anche la televisione, facevano lo stesso, solo in maniera leggermente diversa. Questo significò per me guardare alla tecnologia sotto una luce molto diversa13.

Due tratti della tecnologia, vista sotto questo nuovo punto di vista, colpiscono Kelly: per un verso essa si sviluppa esattamente come gli organismi biologici, per un altro verso essa mira (soprattutto in questo momento) alla smaterializzazione; la conclusione di Kelly è radicale: Comunque si voglia definire la vita la sua essenza non risiede in forme materiali come il DNA, tessuti o carne, ma nell’intangibile organizzazione dell’energia e delle informazioni contenute in quelle forme materiali. E dato che la tecnologia era stata liberata dal suo contenitore fatto di atomi, potevano vedere che, al suo centro, anch’essa era costituita da idee e informazioni. Sia la vita sia la tecnologia sembravano dunque essere basate su flussi immateriali di informazioni14.

L’essenza della tecnologia, che Kelly chiama Technium, è un’entità semi- o para- vivente, un sistema ad elevata complessità in grado di auto-organizzarsi e dotato almeno in parte di volontà propria. La domanda posta fin dal titolo del volume non potrà avere allora che una sola risposta: «la tecnologia vuole ciò che la vita vuole»15.

Ibi, pp. 5-6. Ibi, p. 12. 15 Ibi, p. 278. 13 14

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1. One day… Sulle note di una musica suonata dolcemente alla chitarra, un personaggio si stiracchia al tavolo di lavoro, si versa un caffè, consuma un’abbondante colazione. Non vediamo tuttavia mai in volto chi sta compiendo tali azioni, perché questo soggetto siamo “noi”: le azioni sono infatti mostrate in prima persona all’interno di una ininterrotta e dinamica inquadratura in soggettiva. Inoltre, sopra le immagini di questo risveglio mattutino, appaiono una serie di informazioni visualizzate in icone trasparenti: l’ora, la temperatura, l’impegno di un incontro fissato per il pomeriggio. Il protagonista (cioè questo strano “noi”, dal momento che permane per tutta la durata del video il regime di inquadratura soggettiva) esce a passeggio per la città: la metropolitana è chiusa, ma le indicazioni in sovrimpressione gli indicano una via alternativa per raggiungere la sua meta del mattino: una libreria in cui acquistare un manuale per imparare a suonare l’ukulele in una sola giornata. Lungo tutto il tragitto il personaggio-noi interagisce verbalmente con il dispositivo che produce le icone in sovrimpressione: per esempio inquadra il manifesto di un concerto e ordina di acquistare i biglietti per prendervi parte; fotografa un angolo suggestivo e lo condivide in rete con le proprie “cerchie”; nell’incontrare l’amico con il quale aveva appuntamento si premura di chiedere conferma al web della qualità del baracchino presso cui i due consumano un caffè. Alla fine della giornata il personaggio si affretta a salire le scale di un palazzo e a raggiungere il tetto mentre riceve, sempre in sovrimpressione, la vi-

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deochiamata di una ragazza. «Do you want to see something cool?» le chiede e, alla sua risposta positiva, inquadra un bellissimo skyline urbano al tramonto mentre le suona con un ukulele, come una serenata, le note che avevamo già ascoltato all’inizio del video. Una dissolvenza in bianco lascia spazio a un indirizzo web: g.co/projectglass, e quindi al logo Google. Il video virale One day, lanciato su Youtube il 4 aprile 2012, ha avuto immediatamente una ampia circolazione, e ha conosciuto un numero enorme di rimandi, citazioni, commenti, ma anche parodie e rifacimenti spesso ironici o sarcastici. In ogni caso, esso ha raggiunto in pieno il suo scopo: lanciare il progetto “Google Glass”, un paio di occhiali che permette al tempo stesso di interagire con una “realtà aumentata”, e di condividere “in diretta” la propria esperienza con altre persone. Come affermano gli sviluppatori in un post del 29 giugno 2012 inserito nel gruppo +Google dedicato al progetto, «Glass helps you share your life as you’re living it; from life’s big moments to everyday experiences». Ciò che mi sembra interessante in questo video virale non sono i Google Glass in sé (il progetto è stato peraltro sospeso da Google dopo alcuni maldestri tentativi di lancio), ma il modo in cui il video ne parla, o per meglio dire la retorica di cui li ammanta. I Google Glass – questo è il messaggio neppure tanto implicito – sono uno strumento per mettere in scena “in diretta” la propria esperienza; o per meglio dire: per vivere la propria esperienza mentre la si inscena; o ancora meglio: i Google Glass permettono di rappresentare e di rappresentarsi momento per momento la propria esperienza in quanto vissuta in prima persona.

2. First person shot E qui devo confessare una piccola imprecisione. Ho parlato sopra di “soggettiva” cinematografica per definire il tipo di inquadratura che occupa tutto il video; tuttavia il termine non è corretto, e usandolo ho operato un’estensione indebita. La mia scorrettezza riguarda due aspetti. In primo luogo

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la soggettiva cinematografica è una figura puntuale retta da una grammatica specifica: la camera ci mostra un soggetto che guarda fuori campo (per esempio Jeff, il fotografo immobilizzato per la rottura della gamba di fronte a La finestra sul cortile, un notissimo film di Hitchcock del 1954) e quindi una immagine generalmente fissa o dotata di movimenti controllati, che corrisponde al punto di vista di tale personaggio (per esempio una immagine del dirimpettaio che litiga con la moglie – ciò che fa successivamente nascere in Jeff, e in noi, il sospetto di un possibile omicidio). Le inquadrature di One day, al contrario, non ci mostrano mai il personaggio che compie le varie azioni, ma sempre e solo quanto egli sta guardando e ascoltando. Inoltre questo punto di vista non è statico ma dinamico e relazionale: percorre strade e ambienti, incontra altri soggetti, si muove in ambienti complessi e ne cattura immagini e suoni. La seconda ragione del mio uso impreciso del termine “soggettiva” riguarda il fatto che la soggettiva cinematografica non tematizza la presenza di un dispositivo di registrazione del campo del visibile e dell’udibile – processo il cui risultato è appunto quanto ci viene mostrato. Al contrario, in One day il dispositivo dei Google Glass, per quanto non direttamente visibile, è costantemente operante, e costituisce una sorta di interfaccia percepibile tra lo sguardo del personaggio e quello di noi spettatori. Dal momento inoltre che, come ho detto, questo sguardo è mobile e prensile e rimanda quindi all’attività di un corpo esperiente, ecco che assistiamo a una sua intima connessione con il dispositivo di ripresa: corpo, sguardo e dispositivo sono un tutt’uno, nel momento in cui i primi due “indossano” il terzo – e non a caso i Google Glass sono una wereable technology, un dispositivo da indossare. Devo dunque rinunciare al termine di “soggettiva” per parlare del tipo di inquadratura di One day; ma con quale parola posso sostituire il termine classico per indicare lo sguardo in prima persona? Mi viene in soccorso un termine usato nel mondo dei videogiochi. È innegabile una forte somiglianza tra il tipo di inquadratura usata in One day e quelle dei videogiochi “in prima persona”: in questi casi il personaggio centrale che noi guidiamo deve esplorare un ambiente spesso labirinti-

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co e pieno di insidie nascoste: vediamo quanto egli vede e sentiamo quanto egli sente mano a mano che avanza, si guarda intorno, coglie un riflesso sospetto e spara a un potenziale nemico; ma non lo vediamo mai in faccia – così come non vediamo mai la nostra faccia nella vita ordinaria (a meno di non trovarci davanti a uno specchio, il che talvolta accade anche nei videogiochi). Questo tipo di soluzione espressiva non viene etichettata facendo ricorso al termine classico di “soggettiva” (subjective shot o point-of-view shot), ma riceve piuttosto il nome di first person shot. Chiameremo dunque first person shot il tipo di inquadratura che abbiamo visto operante in One day. Possiamo dire dunque che il first person shot viene caratterizzato da due aspetti: il costituire la trascrizione immediata di una esperienza soggettiva di prensione incorporata del mondo, e l’implicare una relazione di simbiosi e ibridazione tra un soggetto umano e una macchina da ripresa. Ora, se assumiamo questa definizione di base, possiamo renderci conto di due fatti. In primo luogo il first person shot non è una “anti-soggettiva”, ma piuttosto una “iper-soggettiva”: esso realizza l’utopia di una soggettiva infinita e in grado di trascrivere perfettamente l’esperienza personale del mondo e del racconto, che il regime classico e moderno del racconto audiovisivo avevano inseguito, a tratti preconizzato, ma mai realizzato perfettamente per vincoli tanto tecnologici quanto culturali1. In secondo luogo, tornando al presente, basta guardarsi un attimo intorno per accorgersi che il first person shot non è limitato ai videogiochi o ai video virali, ma è onnipresente nel mondo che ci circonda: dai film horror che pretendono di essere stati girati con una videocamera a mano ai video di sor-

Mi riferisco ai casi – tutti non a caso circoscritti e marginali per quanto rivelatori – di cosiddetta “camera io”, in cui macchine da presa leggere simulano in maniera più o meno riuscita la soggettiva di un personaggio che non vediamo in volto: la prima parte di The Passage (La fuga, D. Daves, usa 1947), l’intero Una donna nel lago (The Lady in the Lake, Robert Montgomery, usa 1947) o anche lo sperimentale Film (Samuel Beckett, Alan Schneider, Usa, 1966). 1

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veglianza montati sui taxi, dalle riprese fatte con piccole telecamere ad altissima definizione solidali con il corpo di un paracadutista che si getta da una montagna, ai video che illustrano sul web la spaziosità e la luminosità di un appartamento da acquistare percorrendone stanze e corridoi, gli esempi si moltiplicano. In tutti questi casi ritroviamo, infatti, esattamente le logiche che abbiamo visto operare in One day: la presenza di uno sguardo incorporato, dinamico e relazionale; una intima sinergia tra questo corpo-sguardo e un dispositivo di ripresa; l’idea conclusiva che stiamo assistendo allo svolgersi di una esperienza viva e “on line”. In questo capitolo vorrei sostenere che ci sono due ragioni per cui il first person shot, con la sua estrema diffusione nel panorama contemporaneo, riveste un particolare interesse. La prima è che esso costituisce una figura espressiva radicalmente postmediale, in quanto deriva non dagli sviluppi di un medium specifico (neppure da quelli del solo videogioco), quanto piuttosto dalla interazione di dispositivi, piattaforme e canali differenti, sia ascrivibili all’area dei media sia non strettamente ascrivibili a tale area. La seconda ragione di interesse risiede nel fatto che il first person shot esprime al meglio il secondo sistema epico che attraversa e innerva la condizione postmediale: l’epos della soggetivizzazione dell’esperienza. Ma, come avviene anche nei videogiochi in prima persona, facciamo un passo per volta.

3. Piccola archeologia del first person shot Il first person shot deriva da sei grandi innovazioni tecnologiche e linguistiche che, a partire dall’inizio degli anni Ottanta fino a oggi, hanno investito il panorama della comunicazione e più ampiamente una serie complessa di pratiche sociali. La prima innovazione tecnologica consiste nell’avvento della steadicam, una macchina di ripresa cinematografica fissata al corpo dell’operatore che, grazie a un sistema di ammortizzatori e giroscopi, garantisce una ripresa fluida e stabile nonostante una inedita agilità dei movimenti di camera. La steadicam fu inventata dall’operatore americano Garrett

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Brown e introdotta sul mercato nel 1975. Il primo film in cui venne usata la steadicam fu Bound for Glory (Questa terra è la mia terra, A. Ashby, USA, 1976), ma fu soprattutto a partire dagli anni Ottanta che le sue potenzialità espressive furono sfruttate al massimo grazie a film quali The Shining (Shining, S. Kubrick, USA-Regno Unito 1980), Strange Days (Id., K. Bigelow, USA, 1995), La mort en direct (La morte in diretta, B. Tavernier, Fr.-Ger.-Regno Unito, 1980), Snake Eyes (Omicidio in diretta, B. De Palma, USA, 1998), Russkij Kov eg (L’arca russa, A. Sokurov, Russia-Ger., 2002), Elephant (Id., G. Van Sant, USA, 2003). Il mercato delle nuove serie televisive a partire dagli anni Novanta ha fatto inoltre un uso intensivo della steadicam, che si è rivelato il mezzo ideale per percorrere con fluidità gli spazi spesso ristretti delle location più usate (stazioni di polizia, corridoi ospedalieri…). Una seconda innovazione tecnologica è l’avvento delle videocamere digitali portatili all’inizio degli anni Novanta: per un verso le camere hanno acquisito una qualità sempre più vicina a quella cinematografica; per altro verso la loro leggerezza ha rilanciato i procedimenti espressivi legati alla camera a mano, propri del cinema militante, del combat film o del film antropologico. Tali procedimenti sono stati e sono intensivamente sfruttati nell’informazione televisiva e nei video documentari, ma sono anche divenuti immediatamente patrimonio del mockumentary (film di fiction che si presentano come falsi documentari) per giungere infine alla fiction tout court. In tal modo le stesse forme espressive (camera traballante, riprese sfuggenti e “sporche”, sovra e sottoesposizioni causate dai meccanismi automatici di apertura del diaframma…) si ritrovano in prodotti molto differenti: documentari e film di denuncia (come quelli di Michael Moore), serie televisive2, film d’azione e bellici3, film horror che fin2 Per esempio Homicide, creata da Paul Attanasio, dal 1993 al 1999; Riget di Lars von Trier del 1994-1995, The Shield, creata da Shawn Ryan dal 2002. 3 Anche in questo caso a puro titolo di esempio e indicando i film che mi sembrano maggiormente esemplari: Saving the Private Ryan (Salvate il soldato Ryan, S. Spielberg, USA 1998), Black Hawk

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gono di essere l’assemblaggio di riprese effettuate da troupe televisive o da amatori i cui materiali sono sopravvissuti allo stesso operatore4, reality show televisivi, molti video prodotti per la diffusione via web. Una terza serie di innovazioni tecnologiche è legata alla possibilità di miniaturizzare le videocamere digitali, il che ha permesso introduzione di helmet cameras (inventata nel 1987 da Mark Schulze, un direttore della fotografia di San Diego per riprese di gare di motociclette), combat cameras (fissate sulle armi di combattimento per documentare azioni belliche dei vari corpi speciali), microcamere ad altissima definizione come la GoPro Hero, microcamere montate su droni che permettono inquadrature dall’alto, videocamere integrate al telefonino, e così via. I video ottenuti mediante questo tipo di microcamere sono oggi diffusi soprattutto mediante il web: dai video di reali combattimenti militari ottenuti con helmet cam o combat cam e divulgati dagli stessi corpi dell’esercito o dai singoli soldati, alle loro parodie o rifacimenti casalinghi; da quelli che narrano incidenti motociclistici o automobilistici ai video che documentano imprese di sport estremi dal punto di vista dello stesso protagonista; fino agli eventi ripresi “in diretta” con il telefonino – il cui ruolo sociale e politico è emerso recentemente in molti casi, dalle riprese di terremoti e maremoti a quelle di rivolte politiche e delle loro repressioni. Un settore specifico legato allo sviluppo del video digitale è stato quello dei video di sorveglianza e di controllo, che consideriamo la quarta delle innovazioni tecnologiche alla base dello sviluppo del first person shot. Dalla fine degli anni Novanta la tecnologia digitale fa segnare un balzo in avanti Down (Id., R. Scott, USA, 2001), The Hurt Locker (Id., K. Bigelow, USA, 2008). 4 Tra questi: The Blair Witch Proiect (Daniel Myrick e Eduardo Sánchez, USA, 1999), Rec (Jaume Balagueró e Paco Plaza, Spagna, 2007) e Rec II (2009), Diary of the Dead (Le cronache dei morti viventi, George A. Romero, USA, 2007), Paranormal activity (Oren Peli, USA, 2007) e Paranormal activity II (Id, USA, 2010), Cloverfield (Matt Reeves, 2008).

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al mercato delle CCTV (Close Circuit Televisions), grazie a tre fattori: sensori più sensibili, multiplex di camere controllabili simultaneamente e un deciso abbassamento dei prezzi. Questa nuova generazione di videocamere (le cosiddette pinhole video cameras, miniature still cameras, spy cameras…) si è facilmente adattata alle reti di comunicazione digitali, rendendo quindi possibile la videosorveglianza di ambienti pubblici e privati anche a distanza. I tragici eventi dell’11 settembre 2001 hanno contribuito a un massiccio incremento dei controlli video delle aree pubbliche o semipubbliche; tuttavia le pratiche e i dispositivi della sorveglianza hanno una portata ben più vasta: si pensi solo alle videocamere montate sulle automobili per il controllo di manovre o la documentazione di incidenti in caso di contenzioso; oppure all’uso di microcamere e capsule endoscopiche per esami medici o l’esecuzione di operazioni chirurgiche; o ancora all’uso di videocamere montate sui droni incaricati di operazioni di sorveglianza e individuazione di gruppi terroristici o di altri tipi di nemici, ed eventualmente al controllo dell’esecuzione di bombardamenti mirati. Inoltre, le pratiche di videosorveglianza hanno contribuito allo sviluppo di sistemi di visione aumentata (enhanced vision) che grazie all’uso di infrarossi o di radiazioni termiche consentono la visione in condizioni di visibilità scarse o nulle: si pensi ai video di sorveglianza notturni caratterizzata da una dominante verde, oppure ai moderni sistemi di controllo degli aerei in fase di decollo e atterraggio, che forniscono al pilota una visione assistita mediante l’integrazione di video a infrarossi e segnali radar. La quinta innovazione tecnologica alla base del first person shot è la cosiddetta realtà virtuale. Le prime ricerche relative alla realtà virtuale si collocano anch’esse nei primi anni Ottanta: per tutto il decennio la realtà virtuale sembrò la grande e decisiva innovazione digitale, alimentò appassionati dibattiti teorici e lanciò una nuova ondata di fantascienza, il cosiddetto cyberpunk 5. Nel corso degli anni Novanta e nel

Il testo fondativo del cyberpunk è Neuromante (Neuromancer, William Gibson, 1984). Sul versante cinematografico ricordiamo so5

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primo decennio del nuovo millennio l’avvento del World Wide Web oscurò la visibilità della realtà virtuale, anche se le ricerche nel settore continuarono. Infine, a partire dal 2014, si è assistito al ritorno sul mercato si apparecchi di realtà virtuale di nuova generazione, molto più veloci di quelli precedenti: esemplari gli Oculus Rift, un paio di occhiali che (al contrario dei Google Glass) oscurano completamente la scena visibile reale e la sostituiscono con quella virtuale generata dai software in tempo reale in interazione con il corpo del fruitore e i suoi movimenti. Il rilancio della realtà virtuale ha trovato immediate applicazioni in ambiti differenti, dai videogiochi ai social media; inoltre essi sono stati adottati dall’esercito americano per la simulazione di azioni belliche sia per scopi di addestramento che per la terapia di disturbi post traumatici da stress di guerra6. La sesta e ultima innovazione è data dallo sviluppo di videogiochi giocabili in prima persona con sufficiente rapidità, fluidità e realismo. Come abbiamo accennato all’inizio del capitolo, nell’universo videoludico il termine first person shot si riferisce alla possibilità che il giocatore effettui le azioni a lui consentite adottando la posizione percettiva visiva e sonora di un personaggio interno al mondo diegetico, di cui in genere non si vede il corpo intero e che viene comunemente chiamato “avatar”. I tre generi che usano normalmente ed estesamente tale figura espressiva sono gli shooters veri e propri (giochi di prontezza basati sullo sparare e colpire gli avversari), i vehicle (flight, drive, tank, racing) simulators, e al-

lamente Tron (Steven Lisberger, USA, 1982), Brainstorm (Douglas Trumbull, USA, 1983), Total Recall (Paul Verhoven, USA, 1990, e Len Wiseman, USA, 2012), The Lawnmower Man (Brett Leonard, Regno Unito-USA-Giappone, 1992), Disclosure (Barry Levinson, USA, 1994), Strange Days (Kathryn Bigelow, USA, 1995), Johnny Mnemonic (Robert Longo, USA, 1995), EXistenZ (David Cronemberg, Canada-Regno Unito, 1999), Tron: Legacy (Joseph Kosinski, USA, 2010). 6 L’artista tedesco Harun Farocki ha documentato alcuni di tali usi in Serious games, una serie di installazioni e film saggio del 2009-2010.

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cuni graphic adventure games. Le radici di questi generi si collocano negli anni Settanta con giochi quali Maze War (1973) e Spasim (1974); tuttavia essi esplodono negli anni Novanta con il grande successo di shooters quali Wolfenstein 3D (1992, Id software e Apogee Software) e soprattutto con il suo diretto successore (degli stessi produttori) Doom; a partire dall’enorme successo di quest’ultimo, nascono numerosi epigoni: Duke Nukem 3D (1996), Quake (1996) (sempre degli stessi produttori), Half Life (1998) della Valve. Sempre negli anni Novanta si assiste a un altro fenomeno: la nascita del first-person adventure game, in cui il punto di vista in prima persona viene adottato per point-and-click graphic adventure games, in particolare nella serie Myst (Cyan - Broderbund Software, 1993, cui seguono Riven e Myst III: Exile). A partire dalla fine degli anni Novanta i videogiochi in prima persona vedono due linee di evoluzione congiunte: per un verso divengono sempre più realistici, per altro verso il narrative design di tipo shooters si contamina con quelli adventure e con i drive simulators: derivano da tale contaminazione prodotti di nuova generazione: i war games ambientati in scenari di guerra storici, come Medal of Honor di Dreamworks Electronic Arts (dal 1999) e Call of Duty di Activision - Infinity Ward (dal 2003); quelli più concentrati su scenari contemporanei come Call of Duty 4: Modern warfare, del 2007, ambientato in Iraq, Crysis sempre del 2007, o Medal of Honor 2010 ambientato in Afghanistan; o infine i driving/racing simulators, della fortunata serie Grand Theft Auto (Dave Jones e Zachary Clarke, dal 1997).

4. Una figura postmediale Possiamo riassumere quanto detto fin qui sostenendo che il first person shot, in quanto trascrizione immediata di una esperienza soggettiva derivante dalla intima cooperazione di un corpo e di una macchina, nasce dalla sovrapposizione di tre logiche di sviluppo dei dispositivi di ripresa: la loro dinamizzazione, la loro miniaturizzazione e portabilità, e infine la loro virtualizzazione. Tuttavia questa affermazione è ancora

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parziale perché spiega da dove deriva il first person shot, ma non come esso è stato prodotto. Per comprendere questo secondo punto dobbiamo tenere ben presenti due elementi. In primo luogo, se ripercorriamo velocemente il paragrafo precedente, ci accorgiamo che all’interno delle filiere esposte assistiamo a quella progressiva de-individuazione tanto dei singoli dispositivi mediali tradizionali quanto dei dispositivi mediali rispetto a quelli non mediali, che sappiamo oramai essere la cifra caratteristica della condizione presente: apparati di ripresa, formati e piattaforme di distribuzione, dispositivi di fruizione coinvolti sono allo stesso modo cinematografici, televisivi, videoartistici, medici, legali, polizieschi, militari, e l’elenco potrebbe continuare a lungo. In secondo luogo, questi differenti apparati, formati, piattaforme e dispositivi non si limitano a coesistere in un clima di reciproca estraneità: al contrario, essi interagiscono strettamente e costantemente tra loro. Ecco per esempio che soluzioni tecniche dei simulatori di volo per la guida di veicoli militari, studiate per usi videoludici, vengono implementate per l’addestramento di piloti di linea o di soldati da inviare in missioni di guerra. Ecco che l’uso della steadicam in alcuni film tende a mimare e riprodurre il first person shot dei videogiochi7; i quali videogiochi a loro volta riprendono e riproducono le riprese in prima persona che documentano reali operazioni di guerra in tempo reale. Ecco che i dispositivi di videosorveglianza e videocontrollo sono riutilizzati in ambito estetico, all’interno di installazioni video artistiche; nell’informazione e nella docufiction televisiva, soprattutto quella di ambientazione criminale; nei reality show televisivi che prevedono l’osservazione continuata di gruppi di persone in ambienti chiusi mediante videocamere nascoste; in alcune sequenze cinematografiche o di interi film8. E l’elenco di questa fitta serie di 7 Penso per esempio a Strange Days (Kathryn Bigelow, USA, 1995) o a Elephant (Gus van Sant, USA, 2003). 8 Cfr. a puro titolo di esempio Raising Cain (B. de Palma, USA, 1992); Enemy of the State (T. Scott, USA 1992); Caché (M. Haneke, Francia/Austria/Germania/Italia, 2005). Il film che forse meglio di tutti pone tutta la gamma possibile di rielaborazioni di materiali ex-

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scambi, rifacimenti, ibridazioni tra media differenti e apparati non mediali potrebbe continuare all’infinito. Giunti a questo punto, possiamo comprendere in che modo nasce e si diffonde il first person shot: esso non deriva dagli sviluppi di un unico mezzo, e neppure da un semplice accostamento o sovrapposizione delle soluzioni stilistiche che derivano dalle sei aree di innovazione tecnologica che abbiamo evidenziato. Il first person shot emerge piuttosto dalla complessa e caotica serie di scambi, citazioni e rimodulazioni che coinvolge praticamente ogni istituzione e apparato sociale, sia mediale che non mediale. Esso è dunque un prodotto tipico della condizione postmediale e al tempo stesso, con la sua presenza e la sua diffusione, ne testimonia il grado ormai avanzato di sviluppo e di assestamento.

5. Un epos del divenire Sappiamo ora da dove proviene il first person shot e come esso si è gradualmente costituito; ci manca tuttavia la domanda forse più importante: perché il tipo di inquadratura in grado di esprimere in forma diretta una esperienza soggettiva, dinamica e relazionale del mondo ha conosciuto un successo così ampio e trasversale nel panorama postmediale? Potremmo certamente sostenere che gli sviluppi tecnologici che ho descritto sopra hanno portato automaticamente nella loro sinergia alla diffusione del first person shot; tuttavia, una simile posizione verrebbe facilmente accusata di “determinismo tecnologico”: la ricerca ha dimostrato in più occasioni che gli sviluppi strettamente tecnici non bastano a spiegare il destino dei diversi tipi di apparati (mediali o meno), in quanto essi devono fare i conti con i numerosi differenti fattori sociali, culturali e semiotici che circondano e condizionano l’esperienza dei mezzi tecnologici. tramediali è Redacted (B. de Palma, USA, 2007), il racconto di uno stupro effettuato dai militari americani in Iraq narrato attraverso spezzoni di videodiari, riprese con helmet cam, video di sorveglianza… il tutto ricostruito dal regista in stile assolutamente realistico.

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Si apre così la strada per l’ipotesi che intendo proporre: il first person shot ha potuto diffondersi in modo così ampio in quanto esso esprime e incarna il secondo grande epos tipico della condizione postmediale: la soggettivazione dell’esperienza. Le linee portanti di tale epos sono facilmente riassumibili. Anzitutto, esso pone al centro dell’attenzione una idea di esperienza in quanto esperienza vissuta, sperimentata “on line”, e consistente in un atto di appropriazione percettiva compiuto dall’organismo di un soggetto nei confronti di una porzione dinamica di mondo. In secondo luogo, l’epos della soggettivazione racconta che il soggetto nell’atto di fare esperienza costituisce se stesso in modo dinamico e interattivo. Infine, questa costituzione del sé implica una relazione strettissima (“chiasmatica”, direbbero i filosofi fenomenologi) tra il fare esperienza e il rappresentarla a se stesso e ad altri – sia nel senso che l’esperienza che il soggetto viene facendo è immediatamente rappresentabile, sia nel senso che ogni rappresentazione di una esperienza soggettiva è a sua volta sperimentabile. In questo felice scambio di prima e terza persona il soggetto si percepisce, si racconta, si costruisce. Anche in questo caso, come abbiamo già fatto nel capitolo precedente per la naturalizzazione dell’artificiale tecnologico, possiamo cogliere bene gli aspetti peculiari dell’epos della soggettivazione proprio della condizione postmediale mediante un confronto con le concezioni “mitologiche” della condizione mediale. L’epoca caratterizzata da una presenza forte e definita dei media in seno alla società, era accompagnata dall’ossessione di una definizione del soggetto “dall’esterno” e da parte di forze non controllabili: dall’“ideologia” alla “cultura” o all’“inconscio”, ritorna in molte e differenti forme l’idea che il soggetto non si appartiene in pieno, in quanto non si autodefinisce ma viene definito. Gli stessi media appaiono nelle teorie e nel comune sentire dell’epoca come potenti mezzi capaci al tempo stesso tanto di plasmare conoscenze, convinzioni, gusti, comportamenti e identità, quanto di far avvertire come “propri” tali aspetti da parte dei soggetti. Il cinema, in particolare, viene raffigurato come un dispositivo in grado di riprodurre e riattivare i processi di co-

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stituzione del sé: le immagini che passano sullo schermo, infatti, nel momento in cui catturano lo spettatore, gli assegnano uno specifico punto di vista – quello di un soggetto osservatore estraneo al mondo finzionale ma da cui tutto lo svolgersi della visione dipende in ogni momento –; come il sognatore che si percepisce sognare, o come il bambino che scopre se stesso guardando il proprio riflesso nello specchio, lo spettatore scopre se stesso nell’illusione di una certa posizione. Ecco dunque riassunti gli elementi fondamentali di questa concezione di soggetto e di costituzione del sé: si tratta di un soggetto costituito dall’esterno, statico, disincarnato, la cui costituzione avviene mediante l’individuazione di una posizione e di un ruolo – processo che la macchina del cinema può riprodurre e che anzi è forse nata esattamente per riprodurre. Radicalmente differente l’idea di soggetto e di costituzione del sé che si è fatta strada negli ultimi venti anni circa. Sintomatico sotto questo aspetto il progressivo dominio culturale assunto dalle neuroscienze di matrice fenomenologica rispetto agli approcci psicanalitici, ma anche rispetto ai modelli cognitivi classici. Le scienze neurocognitive contemporanee, infatti, concepiscono il soggetto come una entità che emerge dal vortice di esperienze, percezioni, azioni, emozioni, rappresentazioni e autorappresentazioni in cui è costituzionalmente “gettato”; tanto la unicità e la centralità del sé quanto il senso di appartenenza della propria esperienza non sono un dato originario, ma derivano dalla necessità di gestire in maniera ottimale le relazioni reciprocamente attive tra l’individuo e l’ambiente. In particolare, le attività percettive non sarebbero in alcun modo concepibili nei termini di una osservazione dall’esterno di una scena, ma dovrebbero essere pensate in quanto intimamente legate alla progettazione, esecuzione e monitoraggio di azioni, e dunque in quanto forme di relazione interne al mondo percepito. È dunque evidente il passaggio da una concezione “posizionale” stabile a una concezione “relazionale” dinamica dei processi di costituzione del soggetto. Potremmo dire (parafrasando un autore anglosassone9) che il soggetto così delineato risponde a un modello 5EAR: si tratta di

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un soggetto embodied (incorporato), embedded (inserito in forma viva in una nicchia ambientale), enacted (impegnato in un’attività di rappresentazione e autorappresentazione coinvolgente), extended (pronto a proiettarsi nelle rappresentazioni dell’esperienza di altri), emerging (emergente dall’intera rete “caotica” di queste esperienze), affective (non solo cognitivo ma anche affettivo) e relational (impegnato in una serie di interazioni sia con gli oggetti che con i soggetti del mondo). Potremmo dire a questo punto che il first person shot traduce in forma sensibile questa concezione del soggetto e della sua costituzione, e considerare chiusa la questione; si tratterebbe però di una posizione riduttiva, che non tiene conto del ruolo giocato in questo contesto dall’evento su cui questo libro insiste: la scomparsa dei media. Se, infatti, i media non esistono più e se non esiste nessuna differenza di massima tra situazioni mediali e non mediali, ecco allora che tra le rappresentazioni dell’esperienza dei soggetti agite direttamente, quelle agite attraverso protesi e mediazioni tecnologiche, quelle proprie e quelle altrui non esiste una differenza sostanziale, in quanto tutte implicano l’ingresso in un regime di simulazione incorporata e di riattivazione di una esperienza vivente. In altri termini se da un lato al soggetto posizionale, disincarnato e stabile dell’era mediale subentra nell’era postmediale un soggetto incarnato, relazionale e dinamico, è pur vero dall’altro lato che a una possibile riproduzione dei processi di costituzione del sé agita attraverso la macchina del cinema, subentra una simulazione-riattivazione di tale processo che può essere indifferentemente mediale o non mediale, diretto o riprodotto, biologico o tecnologico.

J. Protevi, Political Affect: Connecting the Social and the Somatic, University of Minnesota Press, Minneapolis 2009, p. 4. 9

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1. Casa di bambola È l’ultimo capitolo di questo libro, e vorrei proporre una offerta speciale: due storie introduttive al prezzo di una. Cominciamo dalla prima. Nel febbraio del 2000 la Electronic Arts, il principale editore al mondo di videogiochi, lanciava un nuovo prodotto costruito dalla software house Maxis: The Sims. Il videogioco nasceva a partire da un precedente successo della stessa software house, ma anche dopo profonde e laceranti discussioni interne. Il prodotto che aveva dato notorietà e denaro alla Maxis era SimCity, lanciato nel 1989 e oggetto di un gran numero di espansioni, aggiornamenti e prosecuzioni che arrivano fino ai nostri giorni. SimCity nasceva da una semplice ma geniale intuizione del fondatore della Maxis, il progettatore Will Wright: spostare nel campo del videogioco i software di simulazione di sistemi complessi (o “sistemi ad agente multiplo”), che venivano e vengono usati per riprodurre, analizzare e predire i comportamenti di reti di soggetti sociali, economici, biologici… Nel caso di SimCity, il giocatore riveste il ruolo di sindaco di una città: il suo compito consiste nell’amministrarla e farla crescere, confrontandosi con piccoli e grandi problemi – dai limiti di budget alla possibilità di catastrofi naturali; ogni scelta del giocatore interagisce con tutta la rete delle variabili determinando nuovi stati, processi e possibili situazioni narrative in uno sviluppo che è, di fatto, non predicibile a priori e completamente differente per ciascun giocatore e ciascun partita.

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Anche l’intuizione che regge The Sims è semplice e geniale: spostare lo stesso meccanismo alla gestione della vita quotidiana, e applicarlo alla rete di scelte, attività e relazioni che caratterizzano e costituiscono il vivere comune di ciascuno di noi. In questo caso non si tratta neppure più di avere un obiettivo specifico, come quello di amministrare una città: ogni giocatore indossa i panni di un Sim, un soggetto agente all’interno del mondo virtuale, e decide quali obiettivi darsi (oltre a quelli della normale sopravvivenza), quale carriera professionale intraprendere, quali relazioni allacciare, se e come metter su famiglia, come mantenere e implementare tali attività. In pratica, si tratta di un “simulatore di vita quotidiana” o (nelle parole del suo creatore) di un “simulatore di relazioni”. Ma può anche essere inteso come una “casa per bambole virtuale”, e qui cominciarono gli scontri tra Wright e i suoi finanziatori: le case per bambole sono roba da ragazze, e le ragazze non amano i videogiochi. Non fu facile per Wright convincerli che avevano torto, ma ci riuscì; e ne fu ampiamente ricompensato. The Sims divenne un fenomeno di massa coinvolgendo immense comunità di players. Nel 2002, con i suoi circa 11 milioni e mezzo di copie, fu consacrato il videogioco più venduto della storia (anche grazie al coinvolgimento di un nuovo pubblico femminile). Iniziò quindi la consueta sequela di espansioni e prosecuzioni per differenti piattaforme che arriva a tutt’oggi fino a The Sims 4, uscito nelle sue varie edizioni tra settembre 2014 e febbraio 2015. Cosa distingue The Sims da qualunque altro videogioco? Anzitutto come ho accennato sopra il giocatore non possiede specifiche missioni da compiere, obiettivi da raggiungere, indizi da scoprire, dotazioni di armi…. Ci possiamo muovere nel mondo di The Sims come un bambino nel recinto di sabbia di un parco pubblico (e in effetti la modalità di gioco di base è chiamata proprio sandbox), facendo quello che ci viene in mente di fare, oppure intraprendendo compiti più complessi (decido di accettare un lavoro, incremento il tempo dedicato alle letture per aggiornarmi e fare carriera, stringo una relazione stabile e costruisco una famiglia, faccio un figlio…). Posso anche scegliere di cambiare il personaggio da controllare (sono comunque in grado di controllare un solo Sim alla volta); o addirittura posso scegliere di lasciar vivere i Sim senza intervenire, ce-

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dendo al sistema stesso la propria autoamministrazione, e comportandomi come se guardassi i pesci in un acquario – anche se non si tratta di una una buona idea nei termini di una felice sopravvivenza dei personaggi, che sono soggetti anche a fallimenti, retrocessioni di carriera, abbandoni familiari e perfino alla morte. Insomma: giocare ai Sims vuol dire calarsi completamente e quietamente in un mondo fatto essenzialmente di relazioni, con la possibilità di orientarle e di subirle al tempo stesso. Ma la modalità live è solo una delle possibili forme di gioco. Ugualmente importante è la modalità build che mi permette di costruire i vari “pezzi” che compongono il mondo dei Sims: mobili, elettrodomestici, componenti delle abitazioni e così via. A sua volta tale modalità rimanda immediatamente a una terza modalità di gioco che definisco social: una ennesima intuizione di Bill Wright e dei suoi collaboratori della Maxis è stata infatti quella di rendere pubblicamente disponibili i codici software necessari per la costruzione di singoli elementi del mondo Sims da parte degli stessi giocatori; ne è derivata una intensa attività creativa da parte degli utilizzatori e un ancor più inteso stabilirsi di relazioni di scambio, implementazione collaborativa, consigli reciproci… tra gli utenti del gioco. Queste e altre iniziative hanno alimentato la costruzione di vaste comunità di giocatori che si tengono in relazione grazie all’uso dei vari social media propri del web 3.01.

1 Una seconda modalità che ha incentivato la costruzione di relazioni social tra i giocatori è stato l’uso dell’“album di famiglia”. Nato originariamente (nelle intenzioni dei creatori) per documentare mediante fotografie dello schermo alcuni momenti della vita dei Sims, la funzione è stata successivamente usata dai giocatori per costruire veri e propri “fotoromanzi virtuali” che inventano storie tra Sims, o che riproducono in forma Sims serie televisive o film famosi, eventualmente reinventandone gli andamenti narrativi. Lo scambio di tali album ha costituito un forte motore di socializzazione in rete. Meno fortunata invece l’operazione Sims on line, un tentativo di MMOG (Massively Multiplayer Online Game, gioco on line capace di coinvolgere contemporaneamente migliaia di giocatori) basato su The Sims, che dopo un brevissimo periodo di vita nel 2002è stato definitivamente chiuso nel 2007.

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2. L’isola misteriosa Passiamo al bonus track della seconda storia. 22 settembre 2004: il volo 815 della Oceanic Airlines si schianta su un’isola tropicale apparentemente deserta. I sopravvissuti al terribile impatto sono 48 (altri ne verranno scoperti in seguito): tra di essi un giovane chirurgo (il primo a risvegliarsi sulla spiaggia), una ragazza che fugge da un passato ambiguo, una rock star, un ex militare iracheno, e molti altri. La comunità deve iniziare a organizzarsi, a dividersi i compiti, a individuare meccanismi di governo, e soprattutto deve iniziare a sviluppare meccanismi di condivisione e di fiducia reciproci – cosa non facile stante anche il terribile passato di ciascuno di essi, che riaffiora in una insistente serie di flashbacks. D’altra parte lo scenario della tragedia, l’isola dello schianto, si rivela ben presto un ambiente inquietante: un orso polare appare inspiegabilmente; nella giungla si aggira un mostro invisibile composto solo di fumo scuro; cavi elettrici e botole di metallo segnalano la presenza di una civiltà nascosta. Poco a poco, i superstiti scoprono che l’isola non è affatto disabitata: gli “altri” costituiscono una comunità speculare e ostile, nata in parte da una serie di misteriosi esperimenti tentati anni addietro sull’isola all’interno del progetto DHARMA (acronimo di Department of Heuristics And Research on Material Applications). 22 settembre 2004: la serie televisiva Lost fa la sua apparizione sugli schermi della rete americana ABC (di proprietà della Disney). Le premesse della serie non sono delle migliori: il dirigente della rete che aveva avuto l’idea dello show, Lloyd Brown, viene di lì a poco silurato; il principale creativo, J.J.Abrams, deve presto lasciare la scriptroom perché chiamato a girare Mission Impossible III; i responsabili della programmazione si chiedono chi sarà la successiva vittima del forte investimento con il quale la serie televisiva è stata lanciata. Ma non ci saranno altre vittime (per lo meno tra i realizzatori): sotto la guida di due nuovi creatori, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, Lost diviene un successo planetario, vince un Golden Globe e tre Emmy Awards (gli Oscar della televisione), prosegue per sei stagioni di circa 16 episodi cia-

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scuna (dal 2004 al 2010), e cambia di fatto il modo di progettare e di guardare una serie televisiva. Le ragioni del successo di Lost sono state analizzate da vari punti di vista; personalmente ritengo che esse vadano cercate in due aspetti. In primo luogo la serie è il lungo racconto di come una comunità si ricostruisce, delle difficoltà apparentemente insormontabili che essa incontra in tal senso, del peso incombente del passato su tale ricostruzione, e dei differenti modelli che essa può e deve adottare in questo difficile processo. Ho accennato all’alterità e alla specularità tra il gruppo dei superstiti del volo 815 e la comunità de “gli altri”: ebbene, tale relazione riguarda anzitutto il modello sociale che le due comunità, entrambe nate da un evento fondatore traumatico, scelgono di incarnare. Mentre i superstiti cercano dei modelli collaborativi e “dal basso” (il personaggio del chirurgo, che sembrerebbe destinato a divenire il leader del gruppo, finisce in realtà in un limbo amletico e non assurgerà mai a tale ruolo), “gli altri” hanno costruito una microsocietà gerarchizzata e militarizzata (il loro leader è Benjamin Linus, figlio di uno dei padri fondatori del progetto DHARMA), basata su meccanismi di imprigionamento e di sorveglianza (ritornano più volte telecamere nascoste, schermi da cui osservare il comportamento di vittime e prigionieri…). Non è difficile riconoscere immediatamente dietro un simile plot un sentire comune molto forte dopo il trauma dell’11 settembre 2001: la società emersa dalle macerie di Ground Zero (o dallo spettacolo di quelle macerie e di quelle morti, che è lo stesso) è una società impegnata a ricostruirsi, a chiedersi quali sono i fondamenti dei legami che la costituiscono, e quali modelli societari è necessario e opportuno adottare. Non a caso il contrasto tra i superstiti e “gli altri” richiama su alcuni punti il dibattito politico americano di quegli anni, animato dal contrasto tra una filosofia comunitarian che sottomette le esigenze dell’individuo a quelle del controllo e della sicurezza sociali, e quella libertarian, attenta a preservare i principi di autonomia e liberta di scelta dei soggetti sociali, il loro diritto alla privacy come pure alle libere forme di associazionismo. L’importanza di tale aspetto è peraltro evidente nella conclusione della lunga serie (attenzione: questo paragrafo contie-

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ne spoilers!). Per tutta la sesta e ultima stagione assistiamo allo sviluppo di due “realtà parallele” (i creatori definirono flashsides i passaggi dall’isola all’altro livello di realtà, ultima risorsa narrativa avendo essi già usato ampiamente dapprima flashbacks verso il passato, poi flashforwards verso il futuro): da un lato vediamo lo svolgimento degli eventi sull’isola, con il progressivo emergere di un complesso sistema mitologico legato a eventi arcaici e alla presenza di una sorgente di potentissima energia magnetica che rende così particolare il luogo; dall’altro lato assistiamo allo sviluppo di una realtà alternativa in cui tutti i personaggi della serie gradualmente si incontrano e si riuniscono in un ambiente urbano; inizialmente essi non hanno alcuna memoria degli eventi svoltisi sull’Isola, ma a partire dal loro incontrarsi cominciano a ricordare quanto accaduto. L’ultima puntata riserva una sorpresa: la realtà alternativa è in realtà un limbo in cui i personaggi morti attendono di trapassare oltre la morte. Ciò che permette tale trapasso altro non è che il completo riunirsi e pacificarsi dei personaggi in un’unica grande comunità che comprende sia i superstiti che “gli altri” – fine ultimo degli eventi svoltisi all’interno di tale livello di realtà: quando tale riunificazione avviene (con la morte finale sull’isola di Jack, il chirurgo che per primo si era risvegliato nell’incipit della prima puntata), essi possono finalmente ritrovarsi in una chiesa per essere avvolti tutti insieme da una luce abbagliante. D’altra parte, c’è un altro tipo di comunità cui si deve il successo di Lost. Nel 2006, nell’intervallo tra la seconda e la terza stagione, Lindelof e Cuse decisero di sollecitare l’attesa degli spettatori lanciando un videogioco on line, tecnicamente un “Alternative Reality Game”, dal titolo The Lost Experience. Il gioco forniva una serie di indizi per comprendere più a fondo il progetto DHARMA e le sue implicazioni, ed era decisamente complesso; nelle intenzioni degli autori la serie infinita di password da scovare, frammenti di codice HTML da assemblare, immagini da analizzare millimetricamente e così via avrebbe tenuto impegnati gli spettatori per qualche settimana. Invece il gioco fu risolto in poche ore: gli spettatori si collegarono, infatti, in rete e mediante rapidi meccanismi di passaparola via web costruirono una cooperazione crowdsourcing di enorme potenza.

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L’episodio è rivelatore della seconda grande ragione di successo di Lost: se lo show si regge su una complicatissima rete di indizi, allusioni, rimandi che possono connettere anche episodi di stagioni diverse, gli spettatori hanno risposto sfruttando al massimo la rete per chiedersi chiarimenti reciproci, avanzare ipotesi, sviluppare teorie, spesso procedendo le intenzioni degli stessi creatori. Io stesso per controllare la correttezza di alcuni riferimenti, ho ampiamente consultato Lostpedia, una completissima e accuratissima enciclopedia sull’universo di Lost costruita dal basso, sul modello di Wikipedia (http://lostpedia.wikia.com/wiki/Main_Page). Tali reti di scambi erano resi ancor più facili dalla diffusione delle stagioni di Lost in cofanetti di DVD che permettevano il cosiddetto binge watching, le maratone di visione compulsiva e ripetuta di intere stagioni. A loro volta i creatori della serie rilanciarono la posta rendendo ancora più complessa la struttura “a livelli” del plot (ormai sempre più simile a un videogioco), costruendo altri due Alternative Reality Games e un videogioco, rilasciando brevissimi episodi da fruire sul telefonino, inserendo nel cofanetto DVD dell’ultima serie una breve post-conclusione (The new man in charge), e così via: tutte iniziative che moltiplicano le informazioni permettendo così livelli sempre più completi di interpretazione.

3. Esseri socievoli Cosa hanno in comune The Sims e Lost – a parte il collocarsi entrambi nei primi anni del XXI secolo? Il lettore che ha avuto la pazienza di seguire l’esposizione delle due storie non faticherà a trovare la risposta: entrambi i prodotti raccontano un’unica storia, quella della costruzione dal nulla di una rete di legami relazionali che gradualmente costituiscono una società; ed entrambi innescano un meccanismo speculare tra un simile racconto e il costituirsi “effettivo” di legami sociali tra gli spettatori della serie o i giocatori del franchise. Insomma: The Sims e Lost raccontano entrambi la storia epica del costituirsi di una società, e al tempo stesso producono effettivamente quello che raccontano. Essi sono dunque due

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esempi ideali per avvicinarci al terzo grande epos che attraversa e irriga di senso la condizione postmediale: l’epos della socializzazione. Per cogliere la portata dell’epos della socializzazione dobbiamo tornare al passaggio dalla condizione mediale a quella postmediale, e considerare questa volta il fenomeno dal punto di vista delle relazioni tra i media e la società. All’interno della condizione mediale (che come ormai sappiamo occupa il periodo che va dalla fine dell’Ottocento alla fine del Novecento circa) la società esisteva prima e indipendentemente dai media. La sua base costitutiva era, infatti, un territorio, uno spazio fisico di convivenza la cui condivisione assicurava l’appartenenza a una comunità di razza, valori, cultura, affetti, memorie e istituzioni di diritto e di potere. Come dice la piccola Dorothy ne Il mago di Oz (il libro di Frank Baum è del 1900, il film di Victor Flaming del 1934), «There’s no place like home»: la casa in quanto concreto spazio abitabile e di vita, costituisce al tempo stesso il nucleo, la metafora e il modello di una costruzione via via allargata della relazione sociale. In questo contesto i media vengono percepiti come potenti strumenti di influenza, capaci di interagire con le reti di comunicazione interpersonale e di plasmare in tal modo opinioni e mentalità dei soggetti sociali: non a caso gli studi mediologici (che nascono alla fine degli anni Venti) indagano principalmente gli effetti dei media sulla società, sia che essi emergano nelle opinioni e nei comportamenti sociali (studi sociologici e psico-sociali), sia che si esprimano nelle trasformazioni culturali, ideologiche e linguistiche dei gruppi sociali nazionali (studi culturologici e semiotici). Ovviamente la rete di fenomeni in tal modo rappresentata è molto ampia, così come sono differenti i giudizi e le valutazioni. In alcuni casi i media sono visti come strumenti di stabilizzazione di comportamenti, identità e culture: per esempio un genere come il melodramma è stato letto come un forte stabilizzatore e codificatore dei ruoli sociali femminili, soprattutto quelli ”sacrificali”; nel western possiamo vedere posti e risolti gli interrogativi circa le origini della società americana e dei suoi assetti; la fantascienza degli anni Cinquanta spesso traduce in forme narrative le tensioni e le paure latenti della

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Guerra fredda, e così via. In altri casi i media sono stati percepiti come strumenti di trasformazione sociale: per esempio essi avrebbero contribuito trasformare le società del secondo dopoguerra fornendo soprattutto ai giovani nuovi modelli di abbigliamento, comportamento, orientamento dei valori. In entrambi i casi, gli studiosi si sono chiesti quanto tali effetti fossero consapevoli e quindi gestibili da parte dei soggetti sociali: quanto in altri termini i media fossero “persuasori occulti” (per riprendere una fortunatissima espressione di Vance Packard2) e quanto invece costituissero uno spazio pubblico di confronto e argomentazione. L’assunto implicito di tutti questi ruoli che sono stati via via assegnati ai media (arma di persuasione di massa, strumento di diffusione di galatei socialmente riconosciuti, manipolatori ideologici, strumenti di narrazione mitologica…), rimane in ogni caso il dualismo tra apparati mediali da un alto, apparati e istituzioni sociali dall’altro. Ora, è appunto tale dualismo che svanisce all’interno della nuova condizione postmediale. La cosiddetta “società delle reti” (secondo l’espressione del sociologo catalano Manuel Castells) sovrappone e sostituisce, infatti, ai territori fisici un nuovo tipo di spazio sociale in cui svolgere la propria vita, le proprie relazioni e le proprie azioni – un luogo i cui parametri sono del tutto differenti rispetto a quelli del territorio3. Abbiamo già visto alcuni esempi di questa nuova condizione spazio-temporale, per esempio nei territori virtuali in cui si svolgono i giochi di ruolo on line, ma si tratta solo della punta di un iceberg: pensiamo solamente allo svolgersi 24 ore su 24 dei flussi finanziari da un angolo all’altro del pianeta; oppure alle numerose comunità che attraverso la rete organizzano efficaci pressioni civili contro Stati o aziende; o ancora ai meccanismi di scrittura dei codici software – per cui un programma-

V. Packard, I persuasori occulti (1957), Einaudi, Torino 1958. Manuel Castells ha dedicato alla società delle reti una corposa trilogia pubblicata tra il 1996 e il 1998; una sintesi è in M. Castells, Comunicazione e Potere, Egea, Milano 2009. 2 3

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tore che svolge il proprio lavoro durante il giorno la sera cede la staffetta a un collega dell’altro emisfero che durante la notte porta avanti il lavoro e al mattino passa nuovamente il testimone – e i casi potrebbero continuare a lungo. Sarebbe facile e suggestivo argomentare che la società delle reti sta sostituendo le forme territoriali di socialità, così come la globalizzazione sta sostituendo le comunità sociali su base nazionale; ma in realtà nessuno dei due assunti è vero. Ciò cui realmente assistiamo è una combinazione di termini che segue la logica del bricolage – ovvero dell’assemblaggio di materiali eterogenei al fine di ottenere soluzioni impreviste ma efficaci per la soluzione di specifici problemi: pensiamo ad esempio come alcune azioni politiche recenti (dalle primavere arabe all’occupazione di Wall Street, dalle campagne elettorali o pubblicitarie fino alle strategie politiche e comunicative dell’isis) incrocino l’occupazione o la conquista di spazi fisici e territoriali da un lato con una intensa e capillare azione all’interno delle società delle reti (che implicano talvolta la stessa costruzione di reti). All’interno di questo panorama non ha più senso parlare di un confronto tra i media da un lato e la società dall’altro: le reti di comunicazione non sono più, infatti, apparati “altri” rispetto alla società, ma al contrario essi sono i nuovi dispositivi di costituzione della società. Non esiste più in altri termini una società costituita su base territoriale (con le sue relazioni, le sue memorie, la sua cultura, i suoi valori e le sue istituzioni) con cui le reti si confronterebbero: esistono al contrario differenti luoghi-matrice di costruzione del sociale, e questi possono essere indifferentemente territoriali, di rete, o (come spesso accade) un mix di entrambi. Questa svolta possiede molte e complesse conseguenze; su alcune di esse tornerò nelle conclusioni: mi preme qui sottolinearne almeno una. La costruzione del legame sociale all’interno dei territori fisici è fondata e radicata su una serie di elementi che costituiscono strumenti fondamentali perché essa abbia luogo: per esempio oggetti memoriali (album di famiglia “autentici”, e non virtuali come quelli dei Sims; odori e atmosfere di luoghi della casa, del quartiere e della città, irriproducibili in un videogioco come Simcity, e così via), o ele-

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menti che rimandano a ruoli istituzionali (le divise, la struttura di spazi formali quali scuole o tribunali, e così via). Le relazioni on line (penso soprattutto a quelle dei social media) avvengono al contrario all’interno di spazi grafici uniformi e anonimi. Questo non impedisce a chi vi partecipa di coinvolgersi intensamente, di sentirsi parte di una comunità che “abita” uno stesso luogo, di essere disponibile a concedere e ottenere fiducia, di condividere pensieri, storie ed emozioni personali, di contribuire alla costruzione di imprese comuni e condivise – insomma, di allacciare e mantenere relazioni sociali. Tuttavia, l’assenza di forti sostegni e indicatori contestuali fa sì che il legame sociale si alimenti principalmente della propria rappresentazione: al contrario di quanto avviene negli spazi fisici, infatti, il legame on line genera una traccia, che si sedimenta in una timeline costantemente osservabile. Possiamo riprendere a questo proposito una distinzione introdotta fin dagli anni Dieci del Novecento dal sociologo e filosofo tedesco Georg Simmel. Questi distingue tra il processo di instaurazione e mantenimento dei legami sociali, solitamente legato a scopi specifici, che chiama “associazione” (Vergesellschaftung); e l’esperienza della pura relazione sociale sciolta da finalità strumentali che chiama “socievolezza” (Geselligkeit), e che si esprime in particolari occasioni quali il gioco, il flirt, la conversazione4. I social media mettono in evidenza soprattutto il secondo aspetto evidenziato da Simmel: il puro sentire di stare insieme, di operare insieme, di condividere e di stringere legami fiduciari risultano particolarmente evidenti, anche nei momenti di conflitto e di rottura dei legami stessi (per esempio nel caso delle azioni dei “troll” che agiscono comportamenti offensivi nei confronti di qualcuno dei membri delle comunità on line). Eccoci dunque ricondotti all’epos della socializzazione. In una condizione postmediale di legami sociali fluidi, veloci, legati al loro svolgimento presente; legami che non possono

G. Simmel, La socievolezza (1911), a cura di G. Turnaturi, Armando, Roma 1997. 4

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spesso contare su un territorio fisico e uno spazio visibile di memorie e di vincoli istituzionali su cui radicarsi; in un simile contesto la rappresentazione del farsi del legame stesso costituisce una componente non accessoria, ma sostanziale del suo effettivo verificarsi e del suo svilupparsi. Il “sentire” il legame sociale nel suo farsi e disfarsi, tipico della socievolezza simmeliana, è appunto il nocciolo dell’epos della socializzazione. Non stupisce quindi che racconti di socializzazione siano onnipresenti all’interno del panorama sociale e comunicativo postmediale: dai reality televisivi fondati sulla improvvisata coesistenza di comunità di soggetti a film che celebrano il costituirsi e ricostituirsi di squadre di eroi e supereroi, dai giochi on line a quelli off line, dalle tecniche di marketing tribale ed esperienziale che intendono costruire comunità di consumatori e brand ambassadors fino alla costruzione di comunità basate su valori comuni proprie della comunicazione politica contemporanea, vediamo crescere ogni giorno sotto i nostri occhi decine e decine di microsocietà. Esse sono spesso impossibilitate o non interessate a comunicare reciprocamente, ma rimangono comunque unite da una comune tensione e da un lavorio condiviso: la costruzione costante, momento per momento, del sociale.

4. La condizione post-scolastica Nel 2009 la McArthur Foundation, una prestigiosa istituzione americana, commissionava allo studioso Henry Jenkins una ricerca sulle trasformazioni che i digital media stavano portando al sistema educativo e soprattutto al tipo di competenze richieste ai cittadini di domani. Le conclusioni di Jenkins sono molto nette: i nuovi media stanno sviluppando una “cultura della partecipazione” che richiede nuove competenze; esse sono in particolare la capacità di affrontare i contesti di vita in chiave sperimentale e creativa come forme di problem-solving (Play), anche adottando identità alternative (Performance), e soprattutto costruendo modelli dinamici alternativi e interattivi di mondo (Simulation); l’abilità di appropriarsi di oggetti mediali e fonti informative in

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modo critico (Judgement) navigando su differenti piattaforme (Transmedia navigation) per farli propri e rimodellarli (Appropriation) e disseminare quindi il risultato del proprio lavoro (Networking); la capacità di agire contemporaneamente differenti compiti (Multitasking), di interagire con oggetti tecnologici delegando ad essi parte della elaborazione cognitiva (Distributed cognition); la capacità di lavorare con altri soggetti in forme cooperative (Collective intelligence), individuando e rispettando le differenti prospettive e norme (Negotiation)5. Non è difficile osservare come Jenkins riesca qui a riflettere e sintetizzare una serie di convinzioni che derivano direttamente dall’epos della socializzazione e riguardano direttamente la questione della formazione dei soggetti sociali. Ne sottolineo in particolare due, strettamente collegate tra loro. Anzitutto, la coltivazione delle competenze viene prima di (e può sostituire) quella delle conoscenze nei processi formativi: il soggetto sociale non è tanto un soggetto che sa qualcosa, quanto piuttosto un soggetto che sa operare qualcosa. Come ribadito da molti autorevoli commentatori (per esempio da Edgar Morin), la formazione che una società fornisce ai suoi membri più (ma anche meno) giovani dovrebbe essere una formazione alla vita, non al sapere6. Aveva dunque ragione Rousseau, ma attenzione: questo neo-rousseauvianesimo non trova più davanti a sé la natura dell’Emilio, ma, come abbiamo visto, degli aggregati indiscernibili di territoriale e di virtuale, di naturale e di artificiale. In secondo luogo, la convinzione neppure tanto implicita di Jenkins è che tale formazione non possa essere acquisita al

H. Jenkins et al., Confronting the Challenges of Participatory Culture. Media Education for the 21st Century, Report for the John D. and Catherine T. MacArthur Foundation, The MIT Press, Cambridge (Massachusetts) - London 2009, p. XIV. 6 Il sociologo francese negli ultimi anni ha dedicato al problema tre volumetti, l’ultimo dei quali, riassuntivo e di rilancio, è E. Morin, Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione (2014), Cortina, Milano 2015. 5

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di fuori della società delle reti ma solamente al suo interno; e che essa non richieda l’intervento di particolari istituzioni, ma nasca al contrario da una pratica prolungata all’interno delle reti stesse – tanto che al limite e con un gioco di rovesciamenti radicale, dovrebbero essere le stesse istituzioni formative a prendere esempio dalle dinamiche spontanee della rete. Un simile assunto trova uno spazio di manovra ideale proprio nei videogiochi da cui sono partito all’inizio del capitolo, i quali costituirebbero dei potenti luoghi di addestramento per i soggetti sociali. Per esempio James Paul Gee, un linguista convertito allo studio dei videogiochi, sostiene che questi ultimi introducono nuova modalità di apprendimento basate su meccanismi di problem solving situato che, se ben progettati, si rivelano estremamente più efficaci del tradizionale apprendimento teorico “scolastico”7. Un esempio chiave è offerto proprio da The Sims, con il suo approccio “montessoriano” alla soluzione dei problemi, e in genere dai giochi di simulazione (nel 2013 La Maxis ha prodotto una versione educational di SimCity distribuita gratuitamente alle scuole americane). Ancora più radicalmente secondo Jane McGonigal, una famosa game designer, i videogiochi sono in grado di coinvolgere il giocatore in una realtà più avvolgente e appagante di quella “vera”. Una simile immersività e un tale rifiuto o sostituzione della realtà non devono assolutamente essere visti, secondo l’autrice, come un fenomeno negativo di “escapismo”, ma al contrario in quanto occasione per riscoprire una relazione ricca, impegnata e complessivamente positiva con il mondo che ci circonda8. Non a caso si parla oggi con sempre maggior insistenza di gamification, ovvero della estensione di alcuni meccanismi tipici del videogioco (punteggi, livelli da superare, notifiche di obbiettivi raggiunti…) ad ambiti della vita reale, e soprattutto all’apprendimento, al fine di facilitare i meccanismi di impegno e i risultati conseguenti. J.P. Gee, Come un videogioco. Insegnare e apprendere nella scuola digitale (2007), Cortina, Milano 2013. 8 J. McGonigall, La realtà in gioco. Perché i videogiochi ci rendono migliori e come possono cambiare il mondo (2011), Apogeo, Milano 2011. 7

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Insomma: l’epos della socializzazione implica una seria crisi delle istituzioni preposte alla formazione all’interno della condizione post-mediale, a partire per un verso dal prevalere di competenze operazionali rispetto alle differenti forme di sapere, e per un altro verso da un generalizzato processo di de-istituzionalizzazione e disintermediazione. Dai tutorial di autoapprendimento diffusi sul web ai corsi scolastici di vario livello fruibili on line, dai gruppi amicali che si premurano di trasmettere tutto il set di conoscenze necessario per un fluido utilizzo degli strumenti tecnologici ai forum e alle enciclopedia prodotte dal basso che permettono di chiarire ogni possibile dubbio su qualunque argomento, l’istituzione scolastica è oggi completamente scavalcata e delegittimata dalle nuove economie del sapere e della conoscenza.

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1. I due volti dell’epos Il lettore che mi ha seguito fino a questo punto lo avrà ormai compreso: la condizione postmediale non è una fantomatica epoca neo-medioevale di estinzione dei media. Al contrario: essa nasce da un accumulo quantitativo dei media, il cui risultato ultimo è stato un salto qualitativo: a partire dagli ultimi due decenni del diciannovesimo secolo e in un processo tuttora in corso, i media in quanto dispositivi riconoscibili all’interno dell’esperienza sociale sono stati via via de-individuati, fino a sparire all’interno di una rete di apparati, di processi e di pratiche quotidiani che rendono impossibile isolare le componenti mediali da quelle non mediali. Abbiamo visto come l’avvento di una simile condizione postmediale sia stato e sia accompagnato da tre grandi racconti epici, la cui analisi ha costituito l’ossatura di questo libretto. Il primo dei tre grandi epos postmediali è quello della naturalizzazione della tecnologia: esso racconta l’avvento di una nuova generazione di apparati tecnologici non più opposti come nel passato alla naturalità dei soggetti che li adoperano e del mondo che li circonda, ma al contrario capaci di generare un meta-mondo natural-culturale; la stessa storia dell’evoluzione umana va dunque ritracciata come epos di una interazione ininterrotta tra téchne e bíos, che ha portato allo sviluppo simultaneo di corpi e strumenti. Il secondo epos consiste nella soggettivazione dell’esperienza e narra l’intero campo dell’esistenza in quanto rappresentazione al tempo stesso soggettiva, soggettivizzante e condivisibile: quanto vivo e sento momento per momento è “mio” e mi costituisce in

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quanto soggetto ma, al tempo stesso, è una rappresentazione che posso condividere con altri nello stesso istante in cui la vivo io – allo stesso modo in cui posso io stesso ri-vivere in un regime di simulazione incorporata le esperienze altrui. Abbiamo definito il terzo epos la socializzazione del legame relazionale: la condizione postmediale è attraversata e vitalizzata in questo caso dalla narrazione del farsi e disfarsi di reti, gruppi, comunità sociali, incessantemente impegnati a costruire, verificare, distruggere, ricostruire legami di fiducia e di condivisione reciproche – e, al tempo stesso incessantemente impegnati a sentirsi vivere tali legami e tali eventi mediante una serie articolata di autorappresentazioni riflessive. Giunto a questo punto, non posso negare la natura ambigua dei tre epos che ho descritto: di essi possono essere date, infatti, due letture distinte. La prima è decisamente critica: i tre “epos” costituiscono secondo questa prospettiva altrettanti dispositivi di occultamento di alcune logiche di gestione che, proprio grazie a tale invisibilità, possono funzionare indisturbate all’interno di una società tecno-nichilista come quella del tardo capitalismo in cui viviamo. Possiamo dettagliare meglio questo assunto rianalizzando ciascuno dei tre epos. In questa chiave, l’epos della naturalizzazione della tecnologia è particolarmente funzionale a occultare una logica di mercato che promuove un iperconsumo mediale, giunto a un livello di perfezione tale da non rendere neppure percepibile l’atto del consumo. Gli atti di pagamento tendono a smaterializzarsi all’interno del mondo natural-tecnologico grazie a gadget che permettono un pagamento invisibile (carte di credito dotate di sensori, pagamento attraverso telefonini, orologi o altre tecnologie indossabili…); non solo: la logica che distingue tra contenuti paid (acquistati da imprese o consumatori) owned (prodotti da essi) o earned (conquistati “gratuitamente”: per esempio dai consumatori mediante la concessione dei propri dati personali) segnala come il pagamento di beni e servizi avvenga oggi in termini immateriali, mediante flussi di informazioni su se stessi, i propri gusti, i propri comportamenti in rete. La più grande banca dati al mondo sui consumi e sui gusti in fatto di fiction cinematografica e televisiva è attualmente Netflix, la piattaforma di distribu-

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zione on line di contenuti capace di monitorare non solo quali sono i film e le serie più scaricate, ma altresì quali singole scene sono riviste, quali saltate, e così via. Si tratta di un patrimonio di big data di enorme valore, che la società non concede neppure agli stessi produttori dei film e delle serie televisive che essa rende disponibili. Allo stesso modo, l’epos della soggettivazione dell’esperienza permette di occultare una logica di controllo che si esprime attraverso le numerose e diversificate pratiche di sorveglianza in cui siamo immersi. È appena il caso di ricordare le forme molteplici e capillari che la sorveglianza ha assunto nel mondo contemporaneo, dalla presenza insistita di videocamere negli spazi pubblici e semipubblici alla tracciabilità di molti nostri comportamenti (per esempio i pagamenti, ma si pensi a come i telefonini costituiscano dispositivi di geo-localizzazione che permettono potenzialmente a chiunque di sapere momento per momento dove ci troviamo), dalla possibilità di scandagliare il traffico dati vocale, scritto e iconico che produciamo nelle reti di cui ci serviamo, mediante software istruiti per analizzare enormi quantità di dati (il caso delle intercettazioni che ha scosso la politica internazionale negli ultimi anni), fino alla natura pubblica dei nostri profili e delle nostre attività sul web. Abbiamo già detto peraltro della stretta contaminazione tra pratiche comunicative e pratiche di sorveglianza. Quel che l’epos della soggettivazione effettua è tuttavia un passo ulteriore: esso non solo nasconde questa complessa rete di tracce e di controlli, ma rende gli stessi soggetti agenti di una sorveglianza crowdsourcing condivisa e generalizzata, pratica agita ludicamente e gioiosamente, mediante una sottomissione pagante e appagante ai sistemi di controllo. Infine, l’epos della socializzazione della relazione intersoggettiva è specificatamente orientato a occultare una logica di potere. Essenziali a questo proposito le osservazioni del già citato Castells, che individua all’interno della società in rete globale quattro gradi forme di potere: the networking power (il potere esercitato da chi detiene la capacità di usare le reti nei confronti di chi non ha tale potere); il network power (il potere di coordinare attori differenti che usano le reti); il networked power (la capacità/possibilità di usare in rete rapporti

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istituzionali precostituiti di potere, ovvero di trasferire in rete relazioni di potere precostituite al di fuori delle reti) e soprattutto il network-making power, il potere di creare reti, o ex novo o riconnettendo reti preesistenti. Quest’ultima forma è considerata da Castells la più cruciale1. Deriva dal discorso di Castells una conseguenza a mio avviso della massima importanza: se la costituzione del potere si lega alla appropriazione di neo-territori; e se l’attività di network-making è determinante nella costituzione e appropriazione di territori e di autorità, ne deriva che la costituzione e la preservazione delle differenti forme di socialità (o per meglio dire di socievolezza, in base a quanto detto sopra) diviene oggi un fondamentale strumento di potere. Questa dinamica non va vista tuttavia soltanto come una nuova assunzione del potere da parte delle istituzioni verticali basate su territorialità fisicamente delimitate (come gli Stati nazionali), o da parte delle nuove istituzioni economico-finanziarie basate su forme territoriali virtualizzate o semivirtualizzate: piuttosto, si tratta di una dinamica fluida di competizione tra poteri e contropoteri: anche molti gruppi di opinione, ONG, organizzazioni di protesta o terroristiche adoperano la costruzione e la gestione di esperienze di socialità al fine di incrementare il proprio potere.

2. La decompressione dello spazio e del tempo È possibile tuttavia considerare i tre grandi racconti epici propri della condizione postmediale anche da un altro punto di vista. Come abbiamo accennato inizialmente nell’introdurre le tre grandi forme epiche della postmedialità, esse si oppongono tanto alle forme propriamente romanzesche quanto a quelle mitologiche. Rispetto alle prime, l’epos ambisce, infatti, a un respiro totalizzante e fondativo, fa riferimento a uno sfondo universalmente condiviso di saperi e di valori, si pone come spazio e strumento di trasmissione sociale e culturale di una “saggezza” diffusa. Rispetto alle forme

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M. Castells, Comunicazione e potere, cit.

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del mito, d’altro canto, l’epos costituisce un meccanismo di fondazione narrativa del senso di tipo non polemico: se il mito nasce (secondo la ben nota definizione strutturalista) per risolvere un problema etico o scientifico attraverso un racconto, l’epos nasce a partire da una soluzione già individuata e attuata delle tensioni di fondo che animano una società, e nasce anzi proprio per narrare l’evento di tale soluzione. I tre epos che attraversano la condizione postmediale servono dunque non a occultare logiche di mercato, di potere e di controllo, quanto a donare un senso unitario e di ampio respiro in termini narrativi a una nuova condizione esperienziale quale la condizione postmediale. E ancora (ciò che è più importante): essi esprimono l’esigenza di caratterizzare la condizione postmediale come il momento di uscita dalla lunga età della modernità. La condizione mediale ha, infatti, coinciso con quella fase dell’esperienza del soggetto occidentale definito da molti studiosi “modernità”. Nonostante le molteplici e talvolta disallineate definizioni, ci sembra di poter sposare la tesi dell’antropologo David Harvey che individua alcuni tratti salienti e strettamente collegati della condizione moderna: il senso dominante di frammentazione, di effimero e di caos che si ritrova fin dalle parole di Baudelaire alla metà dell’Ottocento sono dovute a una compressione dello spazio e del tempo tipica del capitalismo occidentale della seconda rivoluzione industriale2. Una conseguenza rilevante di questo approccio consiste nella possibilità di leggere la cosiddetta “postmodernità” che si fa strada a partire dagli anni Settanta del Novecento, non come un fenomeno di rottura rispetto al moderno, ma come un suo estremo ma organico sviluppo: una sorta di auto-rinnegamento del moderno (in linea peraltro con una costante tendenza a superare la tradizione del moderno, secondo il critico letterario Antoine Compagnon3), dovuto D. Harvey, La crisi della modernità (1990), Il Saggiatore, Milano 2010; rimando al volume di Harvey anche per l’ampia bibliografia sull’argomento. 3 A. Compagnon, I cinque paradossi della modernità (1990), il Mulino, Bologna 1993. 2

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secondo Harvey al passaggio dalla struttura economica fordista a quella di un “accumulo flessibile” – e quindi dal dominio dell’economia a quello della finanza. Il postmoderno si configura quindi non come un superamento o un rifiuto del moderno, ma piuttosto come una estrema espressione dei suoi caratteri di frammentazione e di effimero. Ben diversa la condizione che vediamo gradualmente emergere a partire dal nuovo millennio. La fusione dei media all’interno degli apparati sociali e tecnologici appare il segnale particolare di un più ampio fenomeno di superamento di una condizione esperienziale caratterizzata da una estetica dell’effimero e del frammentario: la moltiplicazione di spazi e di luoghi dell’esperienza ha raggiunto un livello tale da essere considerata oramai una situazione di vita ordinaria; proprio da qui allora è possibile far partire un movimento di ricostituzione di nuove forme di totalità capaci di mettere da parte le grandi divisioni che avevano caratterizzato il moderno e avevano reso alla lunga incontrollabile e invivibile l’esperienza che i soggetti facevano al suo interno. I tre epos che ho descritto rappresentano dunque il ritorno di altrettanti “grandi racconti” – quelli che il postmoderno aveva liquidato, secondo la nota tesi di Jean-François Lyotard4 –, volti questa volta a celebrare il superamento di fratture e distinzioni. L’epos della naturalizzazione della tecnologia canta dunque la nuova condizione di sintesi di natura e cultura; l’epos della soggettivazione dell’esperienza celebra la fine della frattura tra i soggetti e della loro riduzione a oggetti; infine l’epos della socializzazione esprime il superamento della distinzione tra individualità del soggetto e convenzioni del suo contesto sociale. Insomma, la presenza insistente dei tre epos della naturalizzazione, della soggettivazione e della socializzazione esprime congiuntamente e insieme realizza una decompressione dello spazio e del tempo e la costruzione di uno scenario globale relativamente unitario e organico: in una parola, i tre

4 J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere (1979), Feltrinelli, Milano 1981.

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epos dicono di una uscita dalla modernità. Abbiamo fin qui parlato di “condizione postmediale”, in quanto l’aspetto più evidente del vivere contemporaneo è la fine della relazione con i dispositivi mediali che aveva caratterizzato la modernità; tuttavia, a partire da queste ultime considerazioni, possiamo definire la condizione postmediale come la prima condizione amoderna.

3. Vivere la condizione amoderna Ho definito “distinte” le due analisi dei tre epos propri della postmedialità che ho disegnato nei precedenti paragrafi; aggiungo ora che esse non mi sembrano opposte e neppure inconciliabili. Non si tratta in realtà né di optare per l’una o l’altra prospettiva, né di tentare una sintesi tra le due, quanto piuttosto di tenerle presenti entrambe contemporaneamente, in una reciproca trasparenza, al fine di tentare una lettura strategica dei fenomeni in atto. Vorrei dare solamente un esempio di tale lettura ritornando sulla crisi delle istituzioni educative e formative cui accennavo alla fine del precedente capitolo. L’epos della socializzazione tende, come abbiamo visto, a privare di ruolo e legittimità le istituzioni formative tradizionali: queste appaiono, infatti, per un verso inadeguate nel trasmettere quei saperi operazionali essenziali per muoversi nell’universo postmediale, e per altro verso incapaci di assumere il ruolo paritetico tra i partner dello scambio educativo proprio delle relazioni in rete. A prima vista insegnanti ed educatori non hanno molta scelta: essi possono o arroccarsi nella difesa dei propri saperi, dei propri metodi e dei propri ruoli, oppure all’opposto cedere e uniformarsi al nuovo panorama, sposando i metodi paritari propri della rete e puntando nel proprio insegnamento a promuovere l’acquisizione di tutte quelle competenze operazionali così utili nell’universo delle reti. Una lettura strategica tuttavia non si ferma qui: essa sovrappone “in trasparenza” alle istanze dell’epos della socializzazione un distacco critico che ne ridiscuta alcuni assunti senza abbandonare le potenzialità positive di cui esso è por-

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tatore. Se si adotta questa prospettiva, affiorano immediatamente alcune domande fin qui rimosse: quanto è fondata la pretesa di spingere in secondo piano i contenuti del sapere rispetto al preteso dominio delle competenze operazionali? E quanto è fondata la pretesa complementare di un’auto-implementazione di competenze da parte della rete paritaria dei soggetti? Non occorrerà pensare che l’acquisizione di alcune forme di sapere complesso, come pure quella di alcune competenze ad esse legate, non possono essere “automaticamente” acquisite in rete? Per esempio, non dovremo pensare che la capacità di seguire forme discorsive complesse (un romanzo, un poema, ma anche una equazione, la scrittura di un programma di software, una sinfonia…) chiede livelli di attenzione continuata e la costruzione di insiemi di saperi articolati che l’autoapprendimento consente solo in condizioni eccezionali? E in questi casi, non occorre ricostituire delle forme gerarchizzate di trasmissione della conoscenza, e dunque relazioni di ascolto e di accoglienza di saperi, ma anche di imitazione di comportamenti cognitivi e affettivi, che superano il principio della orizzontalità paritetica della relazione? In altri termini: non occorre riscoprire e ripensare piuttosto che dismettere un ruolo e una identità istituzionali delle strutture formative in questo nuovo contesto? Naturalmente queste domande si prestano a loro volta a una contestazione: c’è davvero bisogno oggi della comprensione di quelle che ho chiamato “forme discorsive complesse”, e delle competenze e conoscenze che sostengano tale comprensione? Non sarà più opportuno espungere semplicemente dal novero delle esperienze reputate “canoniche”, ovvero facenti parte del canone fondativo della nostra cultura, tutte le forme discorsive troppo complesse – siano esse letterarie, musicali, scientifiche o matematiche? In fondo a cosa servono se non a perpetuare il potere delle caste sacerdotali del sapere? La controdeduzione a questo argomento è molto netta: la pratica di una comprensione attiva, personale e critica delle forme discorsive complesse è a mio avviso il fondamento della innovazione. L’innovazione, in altri termini, non si basa semplicemente sul padroneggiare quelle che ho chiamato le competenze operazionali (comprese quelle apparentemente

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più “creative”): essa si radica piuttosto nella capacità di appropriarsi criticamente di forme discorsive complesse. E su questo punto si gioca una posta essenziale: che tipo di innovazione pensiamo possibile e necessaria all’interno della condizione postmediale? Riteniamo tale condizione un mondo dinamico e dinamizzabile ma sostanzialmente immutabile, sancito dagli epos che lo attraversano; o intendiamo pensarlo e progettarlo come un mondo “omeodinamico”: abbastanza stabile da rendersi disponibile alla trasformazione; abbastanza topologizzato da rendersi aperto all’utopia; abbastanza reale da disporci al sogno? Dunque: la lettura strategica non intende affatto decostruire i tre epos; al contrario, nell’interrogarne criticamente tutti gli aspetti essa intende salvarli da se stessi e dalle proprie pretese.

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Strumenti e riferimenti

In questo libro ho scelto di ridurre al minimo i riferimenti bibliografici in modo da rendere il discorso il più fluido possibile senza costringermi (e costringere il lettore!) a un sistematico confronto con la letteratura esistente sui vari argomenti che ho toccato. Tuttavia comprendo che qualcuno potrebbe sentirsi defraudato della possibilità di riprendere e approfondire un argomento di proprio interesse; ho quindi pensato di fornire in questo capitolo finale alcune indicazioni bibliografiche essenziali e aggiornate. Ma c’è di più. Questo volumetto costituisce il punto di confluenza di una serie di riflessioni che ho sviluppato negli ultimi dieci anni circa in un gran numero di convegni, lezioni, articoli. Nel rielaborare questi scritti ho dovuto eliminare molti riferimenti e approfondimenti, necessari per un pubblico accademico ma ingombranti per un pubblico più ampio. Il far riferimento a tali scritti avrà quindi una duplice finalità: dichiarare le fonti di alcune sezioni di questo volume, e rimandare a sedi in cui lettore potrà trovare citazioni bibliografiche più ampie e complete.

1. Introduzione. 1984 L’espressione “condizione (o era) postmediale” ha una duplice origine. Da un lato essa deriva dal saggio della studiosa di arte e studi visuali R. Krauss, L’arte nell’era postmediale. Marcel Broodthaers, ad esempio (2000), Postmedia Books, Milano 2005. La discussione della Krauss è interna al dibattito proprio della teoria dell’arte e degli studi visuali circa la specificità mediale e la sua relazione con la definizione dello statuto delle differenti arti. Lungo questa direzione hanno lavorato tra gli altri P. Weibel (ed.), Postmedia Condition, catalogo, Centro Cultural Con-

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Strumenti e riferimenti de Duque, Madrid 2006; D. Quaranta, Media, New Media, Postmedia, Postmedia Books, Milano 2010; M. de Rosa, Cinema e postmedia. I territori del filmico nel contemporaneo, Postmedia Books, Milano 2013. Nell’ambito della filosofia politica dei media, aveva parlato di “ère post-media” anche il filosofo francese Felix Guattari in una serie di brevi interventi prodotti a partire dalla metà degli anni Ottanta; Guattari guardava positivamente alla fine del ruolo egemonico dei mass media a favore di nuovi laboratori di pensiero e di azione sviluppati dalle minoranze sociali e politiche: cfr. in particolare F. Guattari, L’impasse post-moderne in «La Quinzaine littéraire», 456, Février 1986, pp. 20-21; Vers une ère post-média (1990), in «Chimères», 28 (1996), pp. 5-6. Le intuizioni di Guattari sono state riprese e sviluppate da vari studiosi in ambito propriamente mediale: si vedano in particolare M. Fuller, Media Ecologies. Materialist Energies in Art and Technoculture, MIT Press, Cambridge (MA) 2005; C. Appritch - J. Berry Slater - A. Iles - O. Lerone Schulz (eds.), Provocative Alloys: a Post-Media Anthology, Post-Media Lab & Mute Books, Lünenburg 2013; A. Pethö (ed.), Film in the Post Media Age, Cambridge Scholar, Newcastle upon Tyne 2012; C. Appritch, PostMedia, in Critical Keywords for the Digital Humanities, http://cdckeywords.leuphana.com/post_media.

2. Nascita, ascesa e declino di un impero La storia dei media (compreso il passaggio alle fasi più recenti) ha costituito oggetto di un numero di lavori sterminato. Mi limito a ricordare F. Colombo - R. Eugeni (eds.), Il prodotto culturale. Teorie, tecniche di analisi, case histories, Carocci, Roma 2001; A. Briggs - P. Burke, Storia sociale dei media. Da Gutenberg a Internet (2000), il Mulino, Bologna 2002; G. Boccia Artieri, I media-mondo. Forme e linguaggi dell’esperienza contemporanea, Meltemi, Roma 2004; L. Gorman - D. McLean, Media e società nel mondo moderno. Una introduzione storica (2003), il Mulino, Bologna 2005; P. Ortoleva, Il secolo dei media, Il Saggiatore, Milano 2009. Il rapporto tra i media e l’ambiente urbano viene accuratamente ricostruito da V. Trione, Effetto città. Arte, cinema, modernità, Bompiani, Milano 2014. Un’opera ambiziosa intenzio-

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Strumenti e riferimenti nata a raccogliere in un panorama unitario tutti gli strumenti dell’industria culturale (e che si ferma in effetti alle soglie della postmedialità) è D. Sassoon, La cultura degli europei. Dal 1800 a oggi (2006), Rizzoli, Milano 2008. Tra le opere più influenti sui media digitali, ricordo: L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media (2001), Olivares, Milano 2002; J.D. Bolter - R. Grusin, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi (1999), Guerini e associati, Milano 2003; H. Jenkins, Cultura convergente (2006), Apogeo, Milano 2007; L.A. Lievrouw - S. Livingstone (eds.), Capire i new media. Culture, comunicazione, innovazione tecnologica e istituzioni sociali (2006), edizione italiana a cura di G. Boccia Artieri, L. Paccagnella, F. Pasquali, Hoepli, Milano 2008; P. Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Laterza, Roma-Bari 2010. Il dibattito sui dispositivi mediali (in particolare sul cinema) e la loro de-individuazione è in questo momento molto vivace. Mi limito a rinviare a F. Casetti, La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene, Bompiani, Milano 2015. Sulla gamification e i processi connessi, cito e utilizzo nel volume P. Ortoleva, Dal sesso al gioco. Un’ossessione per il XXI secolo?, Espress, Torino 2012 (la citazione da G.H. Mead è a p. 119). Un inquadramento completo del fenomeno in M. Salvador, Tra gioco e non gioco, Mimesis, Milano 2015. Per un approccio differente ma complementare si veda E. Menduni, Entertainment, il Mulino, Bologna 2013.

3. L’epos della naturalizzazione Ho affrontato il tema dell’epos della naturalizzazione nel mio Il fascino di Pandora. Appunti su media, tecnologia e rappresentazione, in S. Biancu - A. Cascetta - S. Marassi (eds.), L’uomo e la rappresentazione. Fondazioni antropologiche della rappresentazione mediale e dal vivo, Vita e Pensiero, Milano 2012, pp. 131-139. La questione della negoziazione dei rapporti tra la sfera naturale e quella culturale – artificiale – tecnologica è oggi al centro di numerosissimi dibattiti; mi limito a richiamare in ambito antropologico B. Latour, Non siamo mai stati moderni (1991), Eleuthèra, Milano 2009 e P. Descola, Par-delà nature et culture, Gallimard, Paris 2005; in quello estetico P. Montani,

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Strumenti e riferimenti Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, Carocci, Roma 2007; in quello semiotico Gianfranco Marrone, Addio alla natura, Einaudi, Torino 2011. Circa le questioni relative alle forme epiche e alla loro presenza nel mondo contemporaneo, rimando (anche per la necessaria bibliografia) al mio Il destino dell’epos. Racconto e forme epiche nell’era della narrazione transmediale, in F. Zecca (ed.), Il cinema della convergenza. Industria, racconto, pubblico, Mimesis, Milano 2012, pp. 151-164.

4. L’epos della soggettivazione Sui Google Glass ho scritto in L’autobiografia automatica. Google Glass e condivisione dell’esperienza soggettiva, in A. Cati G. Franchin (eds.), L’impulso autoetnografico. Radicamento e riflessività nell’era intermediale, numero monografico di «Comunicazioni Sociali», 3 (2012), pp. 417-425. Sullo stesso oggetto (da un punto di vista differente ma del tutto complementare) vedi anche P. Montani, Tecnologie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva, Cortina, Milano 2014, in particolare pp. 65-96. Sul first person shot rimando ai miei Prima persona. Le trasformazioni dell’inquadratura soggettiva tra cinema, media e videogioco, in E. Mandelli - V. Re (eds.), Fate il vostro gioco. Cinema e videogame nella rete: pratiche di contaminazione, Terraferma, Crocetta del Montello (TV) 2011, pp. 16-25, successivamente sviluppato in Le plan à la première personne. Technologie et subjectivité dans le paysage postcinematographique, in A. Gaidreault - M. Lefebvre (eds.), Techniques et technologies di cinéma. Modalités, usages et pratiques des dispositifs cinématographiques à travers l’histoire, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2015, pp. 195-208. Sulle concezioni neuro-fenomenologiche contemporanee e le loro applicazioni al cinema si vedano almeno S. Gallagher - D. Zahavi, La mente fenomenologica (2008), Cortina, Milano 2009; T. Elsaesser - M. Hagener, Teoria del cinema. Un’introduzione (2007), Einaudi, Torino 2009; R. Eugeni - A. D’Aloia (eds.), Neurofilmology. Film Studies and the Challenge of Neuroscience, numero spciale di «Cinéma & Cie», 22-23 (2014).

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Strumenti e riferimenti

5. L’epos della socializzazione Di The Sims mi sono occupato in A. Bellavita - R. Eugeni, Mondi negoziabili. Il reworking del racconto nell’era del design narrativo dinamico, in N. Dusi - L. Spaziante (eds.), Remix-Remake, pratiche di replicabilità, Meltemi, Roma 2006, pp. 157173. Altri lavori importanti su The Sims sono: M. Bittanti - M. Flanagan, The Sims. Similitudini simboli e simulacri, Unicopli, Milano 2003 e J.P. Gee - E.R. Hayes, Women and Gamig. The Sims and 21st Century Learning, Palgrave-MacMillan, Houndmills - New York 2010. Su Lost esiste una bibliografia ampia, si veda almeno A. Sepinwall, «Vuoi sapere un segreto?». La tempesta perfetta di Lost, in Id., Telerivoluzione (2012), Rizzoli, Milano 2014, pp. 207-250. Ho già toccato la questione dell’epos della socializzazione in alcuni articoli, in particolare Feeling Together: Cinema and Practices of Sociability in the Post Media Condition, in Á. Pethö (ed.), Film in the Post-Media Age, cit., pp. 293-308. Sul videogioco e i dibattiti che vi si accompagnano ho lavorato in L’immagine giocata. Il dibattito sul videogame e la questione del visuale, in Visuale, numero monografico di «Fata Morgana», 8 (2009), pp. 159-172; Il gioco delle tracce. Inscrizione e trascrizione dell’esperienza nei media contemporanei, in F. Casetti (ed.), Lasciare tracce, essere tracciati, numero monografico di «Comunicazioni Sociali», 1 (2010), pp. 106-115; R. Eugeni - M. Locatelli, Gaming. Profilo di un’esperienza mediale tra ludologia e filmologia, in P. Coppock - F. Giordano - M. Rosi (eds.), Filming the Game / Playing the Film. L’immagine video ludica: narrazione e crossmedialità, in «Bianco e Nero», 564 (2010), pp. 7- 83. Si veda anche, per orientarsi nella bibliografia in materia, M. Salvador, Il videogioco, La Scuola, Brescia 2013. Circa i social media segnalo solo (per la bibliografia aggiornata e per una sintonia di posizioni che emergerà ancora meglio nelle conclusioni) F. Colombo, Il potere socievole. Storia e critica dei social media, Bruno Mondadori, Milano 2013. Sulla questione della scuola e delle sue funzioni nella condizione postmediale rimando ai miei due lavori La sfida educativa nella condizione postmediale in Aa.Vv., Educare nell’era digitale, LII Convegno di Scholè, La Scuola, Brescia 2014, pp. 43-57; Scrivere e apprendere nella condizione postmediale, in C. Laneve (ed.), La scrittura nell’era digitale, numero monografico di

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Strumenti e riferimenti «Quaderni di didattica della scrittura», 21-22 (2014), pp. 5567. Tra i testi rilevanti in questo settore segnalo A. Fabris, Etica delle nuove tecnologie, La Scuola, Brescia 2012; G. Reale, Salvare la scuola nell’era digitale, La Scuola, Brescia 2013; P.C. Rivoltella, Le virtù del digitale. Per un’etica dei media, Morcelliana, Brescia 2015.

6. Conclusioni. La condizione amoderna Ho iniziato ad abbozzare una riflessione sulla a-modernità in Stanley Kubrick, nuova edizione aggiornata, Mursia, Milano 2014, e in Per una biopolitica a-moderna. Il pensiero del potere in Stanley Kubrick – e oltre, in A. Falzone - S. Nucera - F. Parisi (eds.), Le ragioni della natura. La sfida naturalistica delle scienze della vita, Corisco, Roma-Messina 2014, pp. 299-308. Tra le varie letture critiche del presente segnalo in particolare F. Colombo, Il potere socievole, cit.; M. Magatti - C. Giaccardi, Generativi di tutto il mondo, unitevi! Manifesto per la società dei liberi, Feltrinelli, Milano 2014; S. Petrosino, Il magnifico segno. Comunicazione, esperienza, narrazione, San Paolo, Milano 2015.

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Sommario

Ringraziamenti

5

Introduzione

7

1. 22/01/1984, 7 - 2. La fine dei media, 8 - 3. La condizione postmediale, 9

Ruggero Eugeni La condizione postmediale Nascita, ascesa e declino dell’impero

13

1. L’insetto e l’hacker, 13 - 2. La fase di insorgenza: i media meccanici (1850-1914), 15 - 3. La fase di consolidamento: i media elettronici (1915-1980), 18 - 4. La fase di vaporizzazione: i media digitali (1984 - oggi), 21 - 5. This is the end, my only friend, 26 - 6. Gamification, 28

L’epos della naturalizzazione

32

1. Pandora, 32 - 2. Tecnologie e trasfigurazioni, 36 - 3. Epos, 36 - 4. Breve storia dell’artificiale, 41 - 5. Quello che vuole la tecnologia, 46

L’epos della soggettivazione

49

1. One day…, 49 - 2. First person shot, 50 - 3. Piccola archeologia del first person shot, 53 - 4. Una figura postmediale, 58 - 5. Un epos del divenire, 60

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Sommario

L’epos della socializzazione

64

1. Casa di bambola, 64 - 2. L’isola misteriosa, 67 - 3. Esseri socievoli, 70 - 4. La condizione post-scolastica, 75

Conclusioni: la condizione amoderna

79

1. I due volti dell’epos, 79 - 2. La decompressione dello spazio e del tempo, 82 - 3. Vivere la condizione amoderna, 85

Strumenti e riferimenti

88