Kant e l'ornitorinco
 8845228681, 9788845228681

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Umberto Eco

KANT E L’ ORNITORINCO

In questo volume Eco raccoglie una serie di saggi (inediti o ampiamente rimaneggiati e quindi collegati in forma di capitoli) scritti in questi ultimi anni, che segnano un passaggio dalla riflessione semiotica a problemi fondamentali della filosofia di ogni tempo, da Aristotele a Heidegger. Vengono così discussi i problemi dell'essere, della verità, del falso, del riferimento, della realtà, dell'oggettività della conoscenza e della congettura. Seguono alcuni saggi di carattere storico o letterario, che vertono ugualmente sul concetto di verità storica, verità come fedeltà a un testo, differenze tra verità nel mondo reale e verità nei mondi della finzione narrativa. Perché riconosciamo un gatto come tale non è problema filosofico di poco conto, almeno da Platone ai giorni nostri. Perché concordiamo nell'assegnargli il nome "gatto" sarebbe già di per sé problema altrettanto interessante, se non fosse che all'intersezione delle due domande ne sorge una terza, che caratterizza l'intero corso della filosofia moderna, e cioè quanto la nostra percezione delle cose dipenda o dalla struttura del nostro apparato cognitivo o dalla struttura del nostro apparato linguistico (o da entrambe). A questo punto i problemi della semiotica si legano

strettamente a quelli della gnoseologia o, per dirla in termini contemporanei, delle scienze cognitive. A più di vent'anni dalla pubblicazione del Trattato di semiotica generale, questi saggi riprendono una serie di temi (la semiotica percettiva, l'iconismo, il rapporto tra linguaggio, corpo ed esperienza, il riferimento) che in quel libro non avevano ricevuto sufficiente attenzione, ma di fronte ai quali quella forma di filosofia che è una semiotica generale deve pronunciarsi. Rinunciando a una trattazione sistematica, l'autore compie una serie di esplorazioni a partire dai dati del senso comune: da cui molte "storie" e apologhi, che come tanti apologhi hanno per protagonisti degli animali. Tra questi prende una posizione di rilievo l'ornitorinco, che pare fatto apposta per mettere in crisi molte teorie della conoscenza. UMBERTO ECO È nato ad Alessandria nel 1932. È ordinario di Semiotica e Presidente della Scuola Superiore di Studi Umanistici presso l’Università di Bologna. Tra i suoi libri di narrativa ricordiamo Il pendolo di Foucault (1988), L'isola del giorno prima (1994), Baudolino (2000) e La misteriosa fiamma della regina Loana (2004). Tra le sue opere di saggistica: Semiotica e filosofia del linguaggio (1984), I limiti dell'interpretazione (1990), La ricerca della lingua perfetta (1993), Sei passeggiate nei boschi narrativi (1994), Kant e l'ornitorinco (1997), Sulla letteratura (2002) e Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione (2003). Tra le sue raccolte: Diario Minimo (1963), Il secondo Diario Minimo (1990), Cinque scritti morali (1997), La Bustina di Minerva (2000). Tra le sue ultime pubblicazioni, A passo di gambero. Guerre calde e populismo mediatico (2006). Ha curato il volume illustrato Storia della Bellezza (2004).

KANT E L’ ORNITORINCO INTRODUZIONE Che cosa c’entra Kant con l’ornitorinco? Nulla. Come vedremo, date alla mano, non poteva entrarci. E questo basterebbe per giustificare il titolo e quella sua incongruenza insiemistica che suona come omaggio all’antichissima enciclopedia cinese di borgesiana memoria. Di che cosa parla questo libro? Oltre che dell’ornitorinco, di gatti, cani, topi, cavalli, ma anche di sedie, piatti, alberi, montagne e altre cose che vediamo tutti i giorni, e delle ragioni per cui distinguiamo un elefante da un armadillo (anche di quelle per cui di solito non scambiamo nostra moglie per un cappello). Si tratta di un problema filosofico formidabile che ha ossessionato il pensiero umano da Platone ai cognitivisti contemporanei e che neppure Kant (come vedremo) ha saputo non dico risolvere ma neppure porre in termini soddisfacenti. Figuriamoci io. Ecco perché i saggi di questo libro (stesi nel corso di dodici mesi, riprendendo temi che ho trattato – in parte in forma inedita – negli ultimi anni) nascono da un nucleo di preoccupazioni teoriche interconnesse e si rinviano l’un l’altro ma non sono da leggersi come “capitoli” di un’opera che abbia ambizioni sistematiche. Se i vari paragrafi sono talora puntigliosamente numerati e sottonumerati è solo per permettere rimandi rapidi da uno scritto all’altro, senza che questo artificio debba suggerire una architettonica soggiacente. Se molte sono le cose che in queste pagine dico, moltissime sono quelle che non dico, semplicemente perché non ho idee precise in proposito. Anzi, vorrei assumere come insegna la citazione di Boscoe Pertwee, un autore del XVIII secolo (a me ignoto), che ho trovato in Gregory (1981: 558): “Tempo fa ero indeciso, ma ora non ne sono più così sicuro”. Scritti dunque all’insegna dell’indecisione e di numerose perplessità, questi saggi sono nati dal sentimento di non aver onorato alcune cambiali firmate quando avevo pubblicato il Trattato di semiotica generale nel 1975 (già riprendendo e sviluppando una serie di ricerche iniziate nella seconda metà degli anni Sessanta). I conti in sospeso riguardavano il problema del riferimento, dell’iconismo, della verità, della percezione e di quella che allora chiamavo la “soglia inferiore”

della semiotica. Nel corso di questi ventidue anni molti sono stati coloro che mi hanno posto delle questioni molto pressanti, oralmente o per iscritto, e moltissimi quelli che mi domandavano se e quando avrei scritto un aggiornamento del Trattato. Questi saggi sono stati scritti anche per spiegare, forse più a me stesso che agli altri, perché non l’ho fatto. Le ragioni sono fondamentalmente due. La prima è che, se negli anni Settanta si poteva pensare di collegare le membra sparse di tante ricerche semiotiche per tentarne una summa, oggi la loro area si è talmente allargata (mescolandosi con quella delle varie scienze cognitive) che ogni nuova sistemazione risulterebbe precipitosa. Siamo di fronte a una galassia in espansione, non più a un sistema planetario di cui si possano fornire le equazioni fondamentali. Il che mi pare un segno di successo e di salute: l’interrogazione sulla semiosi è diventata centrale in moltissime discipline, anche da parte di chi non pensava, o non sapeva di, o addirittura non voleva fare semiotica. Questo era già vero ai tempi del Trattato (tanto per fare un esempio, non era stato perché avessero letto libri di semiotica che i biologi si erano messi a parlare di “codice” genetico), ma il fenomeno si è allargato, tanto da consigliare, a chi segue una strategia dell’attenzione, e per quanto selettivi siano i suoi criteri teorici, di praticare una sorta di tolleranza ecumenica, nello stesso senso in cui il missionario di ampie vedute decide che anche l’infedele, qualsiasi idolo o principio superiore adori, è naturaliter cristiano e sarà pertanto salvato. Tuttavia, per quanto tollerante delle opinioni altrui, ciascuno deve pure enunciare le proprie, almeno sulle questioni fondamentali. A integrazione e correzione del Trattato, eccomi dunque a esporre le mie idee più recenti su alcuni punti che quel libro aveva lasciato in sospeso. Infatti (e veniamo alla seconda ragione) nella prima parte del Trattato partivo da un problema: se esiste, in termini peirceani, un Oggetto Dinamico, noi lo conosciamo solo attraverso un Oggetto Immediato. Manipolando segni, noi ci riferiamo all’Oggetto Dinamico come terminus ad quem della semiosi. Nella seconda parte, quella dedicata ai modi di produzione segnica, presupponevo invece (anche se non lo esplicitavo a chiare lettere) che se parliamo (o emettiamo segni, di qualsiasi tipo essi siano) è perché Qualcosa ci spinge a parlare. Con il che si presentava il problema dell’Oggetto Dinamico come terminus a quo.

L’avere anteposto il problema dell’Oggetto Dinamico come terminus ad quem ha determinato i miei interessi successivi, il seguire la vicenda della semiosi come sequenza di interpretanti, gli interpretanti essendo un prodotto collettivo, pubblico, osservabile, che si depositano nel corso dei processi culturali, anche se non si presume una mente che li accolga, li usi, li sviluppi. E di lì è venuto quanto ho scritto sul problema del significato, del testo e dell’intertestualità, della narratività, delle vicende e dei limiti dell’interpretazione. Ma è proprio il problema dei limiti dell’interpretazione che mi ha portato a riflettere se quei limiti siano solo culturali, testuali, o non si annidino più in profondo. E questo spiega perché il primo di questi saggi tratta dell’Essere. Non si tratta di delirio di onnipotenza, bensì di dovere professionale. Come si vedrà, parlo dell’Essere solo in quanto mi pare che quello che c’è ponga dei limiti alla nostra libertà di parola. Quando si presume un soggetto che cerchi di comprendere quanto esperisce (e l’Oggetto – che è poi la Cosa in Sé – diventa il terminus a quo), allora, prima ancora che si formi la catena degli interpretanti, entra in gioco un processo di interpretazione del mondo che, specie nel caso di oggetti inediti e sconosciuti (come l’ornitorinco alla fine del Settecento), assume una forma “aurorale”, fatta di tentativi e ripulse, la quale è però già semiosi in atto, che va a mettere in questione i sistemi culturali prestabiliti. Così, ogni volta che ho pensato di riprendere in mano il Trattato, mi sono chiesto se non avrei dovuto ristrutturarlo cominciando dalla seconda parte. Le ragioni per cui me lo chiedevo dovrebbero risultare evidenti leggendo i saggi che seguono. Il fatto che essi si presentino appunto come saggi, esplorazioni vagabonde da diversi punti di vista, dice come – preso dall’impulso di operare un capovolgimento sistematico – ho avvertito che non ero capace di architettarlo (e forse nessuno può farlo da solo). Così ho deciso prudenzialmente di passare dall’architettura dei giardini al giardinaggio, e invece di disegnare Versailles mi sono limitato a dissodare alcune aiuole appena connesse da sentieri in terra battuta – e col sospetto che tutt’intorno si distenda ancora un parco romantico all’inglese. Dove ho scelto di collocare le mie aiuole? Decidendo (invece di polemizzare con mille altri) di polemizzare con me stesso, e cioè con varie cose che avevo scritto in precedenza, correggendomi quando mi pareva giusto, senza peraltro rinnegarmi in toto, perché le idee si

cambiano sempre a chiazza di leopardo, mai globalmente e da un giorno all’altro. Se dovessi sintetizzare il nucleo di problemi intorno a cui mi sono aggirato parlerei di lineamenti di una semantica cognitiva (che certamente poco ha a che vedere sia con quella vero-funzionale sia con quella struttural-lessicale, anche se da entrambe cerca di trarre temi e spunti) basata su una nozione contrattuale sia dei nostri schemi cognitivi che del significato e del riferimento-posizione coerente con i miei tentativi precedenti di elaborare una teoria del contenuto in cui si fondessero semantica e pragmatica. Nel fare questo cerco di contemperare una visione eminentemente “culturale” dei processi semiosici con il fatto che, quale che sia il peso dei nostri sistemi culturali, c’è qualcosa nel continuum dell’esperienza che pone dei limiti alle nostre interpretazioni, per cui – se non avessi timore di usare parole grosse – direi che qui la disputa tra realismo interno e realismo esterno tenderebbe a comporsi in una nozione di realismo contrattuale. Al proposito sono costretto ad aprire una parentesi. Nel 1984 ho collaborato alla raccolta Il pensiero debole, curata da Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti (Milano: Feltrinelli). Essa voleva essere, nella intenzione dei curatori, una palestra di confronto tra autori di diversa origine su quella proposta di pensiero debole il cui copyright apparteneva da tempo a Vattimo. Forse alla fine la proporzione tra “debolisti forti” (linea ermeneutica Nietzsche-Heidegger) e “debolisti deboli” (pensiero della congettura e del fallibilismo) era risultata un poco squilibrata, ma recensori attenti (come ad esempio Cesare Cases sull’Espresso del 5 febbraio 1984) si erano pure resi conto che in quel contesto io apparivo più dalla parte degli Enciclopedisti che da quella di Heidegger. Non importa: nell’ambito dei mass media quella raccolta è stata spesso intesa come un manifesto, e talora (nell’ambito di certa pamphletistica popolare) mi sono visto arruolare tra i “debolisti” tout court. Ritengo che, specialmente nel primo saggio di questo libro, siano ribadite e chiarite, anche attraverso alcuni rispettosi confronti polemici, le mie posizioni al riguardo. C’è differenza tra dire che non possiamo capire tutto (una volta per tutte) e dire che l’essere è andato in vacanza (anche se ritengo che nessun “debolista” sia mai arrivato a tanto). Ma insomma, almeno in una introduzione stampata in corsivo, occorre mettere in guardia dalle semplificazioni dei media.

Il lettore si accorgerà che, a cominciare dal secondo saggio e sempre più a mano a mano che procedo, queste mie discussioni teoriche sono intessute di “storie”. Forse qualcuno sa che, quando ho sentito l’impulso di narrare storie, l’ho soddisfatto in altra sede e quindi questa mia decisione fabulatrice non è dovuta al bisogno di realizzare una vocazione repressa (tentazione di molti pensatori contemporanei che sostituiscono la filosofia con pagine di bella letteratura, nel senso crociano del termine). Si potrebbe dire che la mia decisione ha un profondo motivo filosofico: se è finita, come dicono, l’era dei “grandi racconti”, sarà utile procedere per parabole, che fanno vedere qualcosa in modalità testuale – come avrebbe detto Lotman, e come ci invita a fare Bruner – senza volerne trarre delle grammatiche. C’è però anche una seconda ragione. Nel pormi in un atteggiamento interrogativo sul modo in cui percepiamo (ma anche nominiamo) gatti, topi o elefanti mi è parso utile non tanto analizzare in termini modellistici espressioni come c’è un gatto sul tappeto, oppure andare a vedere che cosa fanno i nostri neuroni quando vediamo un gatto sul tappeto (per non dire di che cosa fanno i neuroni del gatto quando lui vede noi seduti sul tappeto – come spiegherò, cerco di non mettere il naso nelle scatole nere, lasciando questo difficile mestiere a chi lo sa fare), bensì di rimettere in scena un personaggio sovente negletto, che è il senso comune. E per capire come funziona il senso comune non c’è niente di meglio che immaginare “storie” in cui la gente si comporta secondo il senso comune. Si scopre così che la normalità è narrativamente sorprendente. Ma forse la presenza di tanti gatti e cani e topi nel mio discorso mi ha riportato alla funzione conoscitiva dei bestiari moralizzati e delle fiabe. Nel tentare almeno di aggiornare il bestiario, ho introdotto l’ornitorinco come eroe del mio libro. Sono grato a Stephen Jay Gould e a Giorgio Celli (nonché a Gianni Piccini via Internet) per avermi simpaticamente aiutato nella mia caccia a quell’imponderabile animaletto (che peraltro, anni fa, avevo anche conosciuto di persona). Esso mi ha accompagnato passo per passo, anche là dove non lo cito, e mi sono premurato di fornirgli credenziali filosofiche trovandogli subito una parentela con l’unicorno che, come gli scapoli, non può mai essere assente da una riflessione sul linguaggio.

Debitore come sono a Borges di tanti spunti nel corso della mia precedente attività, mi consolavo del fatto che Borges avesse parlato di tutto, salvo che dell’ornitorinco, e godevo così di essermi sottratto all’angoscia dell’influenza. Mentre stavo per dare alle stampe questi saggi, Stefano Bartezzaghi mi ha segnalato che, almeno verbalmente, in un dialogo con Domenico Porzio, spiegando (forse)perché non era mai andato in Australia, Borges ha parlato dell’ornitorinco: “oltre al canguro e all’ornitorinco, che è un animale orribile, fatto con pezzi di altri animali, adesso c’è anche il cammello”.1 Del cammello mi ero già occupato, lavorando sulle classificazioni aristoteliche. In questo libro spiego perché l’ornitorinco non sia orribile, ma prodigioso e provvidenziale per mettere alla prova una teoria della conoscenza. A proposito, data la sua apparizione molto remota nello sviluppo delle specie, insinuo che non sia fatto con pezzi di altri animali, ma che siano gli altri animali che sono stati fatti con pezzi suoi. Parlo di gatti e di ornitorinchi, ma anche di Kant – altrimenti il titolo sarebbe ingiustificabile. Anzi, parlo di gatti proprio perché Kant aveva tirato in ballo i concetti empirici (e se non aveva parlato di gatti aveva però parlato di cani), e poi non sapeva più dove metterli. Sono partito da Kant per onorare un’altra cambiale firmata con me stesso, sin dagli anni universitari, in cui ho iniziato a stendere tanti piccoli appunti su quel concetto “devastante” (lo ha suggerito Peirce) che era quello di schema. Il problema dello schematismo ce lo ritroviamo tra le mani proprio oggi, nel vivo della discussione sui processi cognitivi. Ma molte di queste ricerche soffrono di insufficiente retroterra storico. Si parla per esempio di neo-costruttivismo, taluni fanno un esplicito riferimento a Kant, ma molti altri fanno del neo-kantismo senza saperlo. Ricordo sempre un libro americano, molto bello peraltro (e tacciamo perciò dell’occasionale peccatore, soffermandoci solo sul peccato), dove appariva a un certo punto una nota che diceva a un dipresso: “Pare che su questo punto abbia detto cose affini anche Kant (cfr. Brown 1988)”. Se pare che Kant abbia detto cose affini, il compito di un discorso filosofico è rivedere da dove Kant era partito, e in quali nodi problematici si era dibattuto, perché la sua vicenda può insegnare qualcosa anche a noi. Senza saperlo, potremmo essere ancora figli dei suoi errori (così come delle sue verità), e il saperlo potrebbe evitarci di

commettere errori analoghi o di credere di avere scoperto ieri ciò che lui aveva già suggerito duecento anni fa. Per dirla con una battuta, Kant non sapeva nulla dell’ornitorinco, e pazienza, ma l’ornitorinco, per risolvere la propria crisi d’identità, dovrebbe sapere qualcosa di Kant. Non tento una tavola esaustiva dei ringraziamenti perché sarebbe puro name dropping, a cominciare da Parmenide. I riferimenti bibliografici in calce a questo libro non sono una bibliografia, sono solo un gesto di accortezza legale, per non essere imputato di tacere i nomi di persone da cui ho tratto direttamente una citazione. Sono così assenti tanti nomi importanti, di autori a cui debbo molto, ma che non ho citato direttamente. Ringrazio la Italian Academy for Advanced Studies in America at Columbia University, che mi ha dato agio di dedicarmi per due mesi al primo abbozzo dei saggi 3, 4 e 5. Per il resto, su questi temi, negli ultimi anni, sono stato pungolato dalle persone che lavoravano accanto a me (e che hanno introiettato il sano principio per cui degli amici bisogna parlare fuori dai denti, perché le cineserie sono riservate solo agli avversari). I debiti in tal senso, accumulatisi nel corso di tanti confronti, sono infiniti. Si vedrà che ho citato alcune tesi di laurea e di dottorato discusse (non parlo della seduta finale, parlo delle molte discussioni in itinere) negli ultimi anni, e che hanno direttamente influenzato molti di questi saggi, ma chissà quanti nomi non ho avuto occasione di citare, tra tutti coloro con cui ho dibattuto negli ultimi anni nel corso dei workshops del Centro di Studi Semiotici e Cognitivi dell’Università di San Marino e negli innumerevoli seminari a Bologna. Non posso però tacere i vari appunti, spunti e impuntamenti dei collaboratori alla raccolta Semiotica Storia Interpretazione. Saggi intorno a Umberto Eco. Milano, Bompiani 1992.2 Infine, forse, la decisione di mettere mano a questi saggi raccogliendo e rielaborando i vari brogliacci, mi è venuta dalle discussioni, diagnosi e prognosi (ancora riservate) offertemi dai partecipanti alla Decade di Cerisy-laSalle dell’estate 1996. Sul momento sarà parso ai presenti che sopra ogni altra cosa abbia apprezzato le serate musicali allietate da generose dosi di Calvados, ma non ho perso una parola di quanto si è detto, e sono entrato in crisi più volte.3

Grazie a tutti costoro (specie i più giovani) per avermi risvegliato da alcuni miei sonni dogmatici – se non come Hume, almeno come il vecchio Lampe.

1 Domenico Porzio, “Introduzione” a J.L. Borges, Tutte le opere, vol. 2. Milano: Mondadori 1985: xv-xvi. 2 In ordine di apparizione, Giovanni Manetti, Costantino Marmo, Giulio Blasi, Roberto Pellerey, Ugo Volli, Giampaolo Proni, Patrizia Violi, Giovanna Cosenza, Alessandro Zinna, Francesco Marsciani, Marco Santambrogio, Bruno Bassi, Paolo Fabbri, Marina Mizzau, Andrea Bernardelli, Massimo Bonfantini, Isabella Pezzini, Maria Pia Pozzato, Patrizia Magli, Claudia Miranda, Sandra Cavicchioli, Roberto Grandi, Mauro Wolf, Lucrecia Escudero, Daniele Barbieri, Luca Marconi, Marco De Marinis, Omar Calabrese, Giuseppina Bonerba, Simona Bulgari. 3 In ordine alfabetico (tranne che per i due organizzatori, Jean Petitot e Paolo Fabbri), Per-Aage Brandt, Michael Caesar, Mario Fusco, Enzo Golino, Moshe Idel, Burkhart Kroeber, Alexandre Laumonier, Jacques Le Goff, Helena Lozano Miralles, Patrizia Magli, Giovanni Manetti, Gianfranco Marrone, Ulla Musarra-Schroeder, Winfried Nöth, Pierre Ouellet, Maurice Olender, Hermann Parret, Isabella Pezzini, Roberto Pellerey, Maria Pia Pozzato, Marco Santambrogio, Thomas Stauder, Emilio Tadini, Patrizia Violi, Tadaiko Wada, Alessandro Zinna, Ivailo Znepolski. Ma per parlare di contributi critici al mio lavoro sento di non dover tacere altre riflessioni, anche se non sono immediatamente connesse ai temi discussi in questo libro, e che mi sono pervenute mentre davo solo gli ultimi ritocchi. Voglio pertanto citare i collaboratori alle seguenti raccolte: Rocco Capozzi, ed., Eco. An Anthology (Bloomington: Indiana U.P 1997); Peter Bondanella, Umberto Eco. Signs for this time (Cambridge: Cambridge U.P. 1997); Norma Bouchard e Veronica Pravadelli, eds., The Politics of Culture and the Ambiguities of Interpretation: Eco’s Alternative (New York: Peter Lang Publishers, 1998); Thomas Stauder, ed., “Staunen über das Sein”. Internationale Beiträge zu Umberto Ecos ‘Insel des vorigen Tages’ (Darmstadt: Wissenschaftliche Buchgesellschaft 1997). testo1

1. SULL’ESSERE La storia delle ricerche sul significato è ricca di uomini (che sono animali razionali e mortali), di scapoli (che sono maschi adulti non sposati) e persino di tigri (anche se non si sa bene se definirle come mammiferi felini o gattoni dal manto giallo striato di nero). Rarissime (ma le poche che ci sono, sono molto importanti) le analisi di preposizioni e avverbi (quale è il significato di accanto, da o quando?); eccellenti alcune analisi di sentimenti (si pensi alla collera greimasiana), abbastanza frequenti le analisi di verbi, come andare, pulire, lodare, uccidere. Non risulta invece che alcuno studio di semantica abbia dato una analisi soddisfacente del verbo essere, che pure usiamo nel linguaggio quotidiano, in tutte le sue forme, con una certa frequenza. Del che si era accorto benissimo Pascal (Frammento 1655): “Non ci si può accingere a definire l’essere senza cadere in questo assurdo: perché non si può definire una parola senza cominciare dal termine è, sia espresso o sottinteso. Dunque per definire l’essere, bisogna dire è, e così usare il termine definito nella definizione.” Il che non è lo stesso che dire, con Gorgia, che dell’essere non si può parlare: se ne parla moltissimo, sin troppo, salvo che questa parola magica ci serve a definire quasi tutto ma non è definita da nulla. In semantica si parlerebbe di un primitivo, il più primitivo tra tutti. Quando Aristotele (Metafisica IV, 1, 1) dice che c’è una scienza che studia l’essere in quanto essere, usa il participio presente, to on. In italiano alcuni traducono l’ente, altri l’essere. Infatti questo to on può essere inteso come ciò che è, come l’essere esistente,1 e infine quello che la Scolastica chiamava l’ens, il cui plurale sono gli entia, le cose che ci sono. Ma se Aristotele avesse solo pensato alle cose del mondo reale che ci circonda, non avrebbe parlato di una scienza speciale: gli enti sono studiati, a seconda dei settori della realtà, dalla zoologia, dalla fisica, persino dalla politica. Aristotele dice to on è on, l’ente in quanto tale. Quando di un ente (sia esso pantera o piramide) si parla in quanto ente (e non in quanto pantera o piramide), ecco che il to on diventa ciò che è comune a tutti gli enti, e ciò che è comune a tutti gli enti è il fatto che siano, il fatto di essere. In questo senso, come diceva Peirce,2 l’essere (Being) è quell’aspetto astratto che appartiene a tutti gli oggetti espressi da termini concreti: esso ha una estensione illimitata e una

intensione (o comprensione) nulla. Che è come dire che si riferisce a tutto ma non ha alcun significato. Per cui appare chiaro perché quell’uso sostantivo del participio presente, normale per i greci, nel linguaggio filosofico si trasferisce a poco a poco anche all’infinito, se non in greco certamente nello esse scolastico. Peraltro l’ambiguità la si trova già in Parmenide, che parla di t’eon, ma poi afferma che esti gar einai (DK 6), ed è difficile non intendere in senso sostantivale un infinito (essere) che diventa soggetto di un è. In Aristotele l’essere come oggetto di scienza è to on, ma l’essenza è to ti en einai (Met. IV, 1028b 33.36), ciò che era l’essere, ma nel senso di ciò che l’essere è stabilmente (che sarà poi tradotto come quod quid erat esse). Tuttavia, non si può però negare che essere sia anche un verbo, che esprime non solo l’atto dell’essere qualcosa (per cui diciamo che un gatto è un felino) ma anche l’attività (per cui diciamo che è bello essere in buona salute, o essere in viaggio), a tal punto che spesso (quando si dice che si è contenti di essere al mondo) lo si usa come sinonimo di esistere, anche se l’equazione lascia spazio a molte riserve, perché originariamente ex-istere significa “uscire-da”, “manifestarsi” e quindi “venire all’essere”.3 Quindi abbiamo (i) un sostantivo, l’ente, (ii) un altro sostantivo, l’essere, e (iii) un verbo, essere. L’imbarazzo è tale che lingue diverse vi reagiscono in modo diverso. Italiano e tedesco hanno un termine per (i), ente e Seiende, ma un solo termine sia per (ii) che per (iii), essere e Sein. Si sa come su questa distinzione Heidegger fondi la differenza tra ontico e ontologico, ma come ce la caveremo con l’inglese, che ha pure due termini, salvo che to be copre solo l’accezione (iii) e Being copre sia la (i) che la (ii)? Il francese ha un solo termine, être; è vero che sin dal XVII secolo appare il neologismo filosofico étant, ma lo stesso Gilson (nella prima edizione di L’être et l’essencé) fa fatica ad accettarlo, e vi si decide solo nelle edizioni successive. Il latino scolastico aveva adottato ens per (i), ma giocava con tormentata disinvoltura su (ii), usando talora ens e talora esse.4 D’altra parte, anche a parlare solo di ente, sappiamo che vi sono enti materiali ed enti di ragione, tra cui le leggi matematiche; Peirce proponeva di restaurare il termine ens (o entity) nel suo significato originario di tutto ciò di cui si possa parlare.5 Ed ecco che l’ente viene a equivalere all’essere, in quanto totalità che comprende non solo ciò

che ci sta fisicamente intorno, ma anche ciò che gli sta sotto, o dentro, o intorno, o prima o dopo, e lo fonda o giustifica. Ma allora, se stiamo parlando di tutto ciò di cui si può parlare, occorre includervi anche il possibile. Non solo o non tanto nel senso che si è sostenuto che anche i mondi possibili esistono realmente da qualche parte (Lewis 1973) ma almeno nel senso di Wolff (Philosophia prima sive ontologia methodo scientifico pertractata, 134), per cui una ontologia riguarda l’ente quatenus ens est, indipendentemente da ogni questione di esistenza, per cui quod possibile est, ens est. E a maggior ragione apparterrebbero allora alla sfera dell’essere non solo i futuribili, ma anche gli eventi passati: ciò che è, lo è in tutte le coniugazioni e i tempi del verbo essere. A questo punto si è però inserita nell’essere la temporalità (sia del Dasein, sia delle galassie), e non è necessario essere parmenidei a ogni costo: se l’Essere (con la maiuscola) è tutto ciò di cui si può dire qualcosa, perché di esso non dovrà far parte anche il divenire? Il divenire appare come difetto in una visione dell’essere come Sfero compatto e immutabile: ma a questo punto non sappiamo ancora se l’essere non sia, non diremo volubile, ma mobile, metamorfico, metempsicotico, compulsivamente riciclante, inveterato bricoleur... In ogni caso, le lingue che parliamo sono quello che sono, e se presentano delle ambiguità, o addirittura delle confusioni nell’uso di questo primitivo (ambiguità che la riflessione filosofica non risolve), non sarà che questo imbarazzo esprime una condizione fondamentale? Per rispettare questo imbarazzo, useremo nelle pagine che seguono essere nel suo senso più vasto e impregiudicato. Ma quale senso può avere questo termine che Peirce ha dichiarato a intensione nulla? Avrà il senso suggerito dalla drammatica domanda di Leibniz: “Perché c’è qualcosa piuttosto che niente?”. Ecco che cosa intenderemo con la parola essere: Qualcosa.

1.1. La semiotica e il Qualcosa Perché la semiotica dovrebbe occuparsi di questo qualcosa? Perché uno dei suoi problemi è (anche, e certamente) dire se e come usiamo segni per riferirci a qualcosa, e su questo si è scritto molto. Ma non

credo che la semiotica possa evitare un altro problema: che cosa è quel qualcosa che ci induce a produrre segni? Ogni filosofia del linguaggio si trova di fronte non solo a un terminus ad quem ma anche a un terminus a quo. Non solo deve chiedersi “a che cosa ci riferiamo quando parliamo, e con quale attendibilità?” (problema certamente degno di nota), bensì anche: “Che cosa ci fa parlare?”. Questo, posto filogeneticamente, era in fondo il problema – che la modernità ha interdetto – delle origini del linguaggio, almeno da Epicuro in avanti. Ma se si può evitarlo filogeneticamente (adducendo la mancanza di reperti archeologici) non si può ignorarlo ontogeneticamente. La nostra stessa esperienza quotidiana ci può provvedere elementi, forse imprecisi ma in certo qual modo tangibili, per rispondere alla domanda: “ma perché mai sono stato indotto a dire qualcosa?”. La semiotica strutturale il problema non se lo è mai posto (con l’eccezione di Hjemslev, come vedremo): le varie lingue sono considerate in quanto sistemi già costituiti (e analizzabili sincronicamente) nel momento in cui gli utenti si esprimono, affermano, indicano, chiedono, comandano. Il resto pertiene alla produzione della parole, ma le motivazioni per cui si parla sono psicologiche e non linguistiche. La filosofia analitica si è appagata del proprio concetto di verità (che non riguarda come le cose stanno di fatto bensì che cosa si dovrebbe concludere se un enunciato fosse inteso come vero), ma non ha problematizzato il nostro rapporto prelinguistico con le cose. In altre parole, l’asserzione la neve è bianca è vera se la neve è bianca, ma come si avverta (e si sia sicuri) che la neve sia bianca viene demandato a una teoria della percezione, o all’ottica. Il solo che ha fatto del problema la base stessa della sua teoria, semiotica, cognitiva e metafisica al tempo stesso, è certamente stato Peirce. Un Oggetto Dinamico ci spinge a produrre un representamen, questo produce in una quasi-mente un Oggetto Immediato, a sua volta traducibile in una serie potenzialmente infinita di interpretanti e talora, attraverso l’abito elaborato nel corso del processo d’interpretazione, ritorniamo all’Oggetto Dinamico, e qualcosa ne facciamo. Certamente, dal momento in cui dobbiamo riparlare dell’Oggetto Dinamico, a cui siamo tornati, siamo di nuovo nella situazione di partenza, dobbiamo rinominarlo attraverso un altro representamen, e in un certo qual senso

l’Oggetto Dinamico rimane sempre come una Cosa in Sé, sempre presente e mai catturabile, se non per via, appunto, di semiosi. Eppure l’Oggetto Dinamico è ciò che ci spinge a produrre semiosi. Produciamo segni perché c’è qualcosa che esige di essere detto. Con espressione poco filosofica ma efficace, l’Oggetto Dinamico è Qualcosa-che-ci-prende-a-calci6 e ci dice “parla!” – o “parla di me!”, o ancora, “prendimi in considerazione!”. Tra le modalità della produzione dei segni conosciamo i segni indicali, questo o quello nel linguaggio verbale, un indice teso, una freccia nel linguaggio dei gesti o delle immagini (cfr. Eco 1975, 3.6); ma c’è un fenomeno che dobbiamo intendere come presemiotico, o protosemiotico (nel senso che costituisce il segnale che dà avvio, istituendolo, al processo semiosico) e che chiameremo indicalità o attenzionalità primaria (Peirce parlava di attenzione, come capacità di dirigere la mente verso un oggetto, fare attenzione a un elemento trascurandone un altro).7 Si ha indicalità primaria quando, nella materia spessa delle sensazioni che ci bombardano, di colpo selezioniamo qualcosa che ritagliamo su quello sfondo generale, decidendo che vogliamo parlarne (quando, in altre parole, mentre viviamo attorniati da sensazioni luminose, termiche, tattili, interocettive, una sola di queste attrae la nostra attenzione, e solo poi diremo che fa freddo, o che ci fa male al piede); si ha indicalità primaria quando attiriamo l’attenzione di qualcuno, non necessariamente per parlargli ma anche solo per mostrargli qualcosa che dovrà diventare segno, esempio, e lo tiriamo per la giacca, gli volgiamo-la-testa-verso. Nel più elementare tra i rapporti semiosici, la traduzione radicale illustrata da Quine (1960: 2), prima di sapere che nome l’indigeno assegni al coniglio che passa (o a qualsiasi cosa egli veda dove io vedo e intendo un coniglio che passa), prima che io gli chieda “che cosa è quello?” – con un dubitoso cenno interrogativo mentre, in modo forse per lui incomprensibile, punto il dito sull’evento spazio-temporale che m’interessa – per far sì che egli mi risponda con il celebre ed enigmatico gavagai, c’è un momento in cui io fisso la sua attenzione su quell’evento spazio-temporale. Emetterò un grido, lo afferrerò per le spalle, nel caso che egli sia voltato dall’altra parte, farò qualcosa perché si accorga di quello di cui io ho deciso di accorgermi. Questo fissare la mia o l’altrui attenzione su qualcosa è condizione di ogni semiosi a venire, precede persino quell’atto di attenzione (già

semiosico, già effetto di pensiero) per cui decido che qualcosa è pertinente, curioso, intrigante, e deve essere spiegato attraverso un’ipotesi. Viene prima ancora della curiosità, prima ancora della percezione dell’oggetto in quanto oggetto. È la decisione ancora cieca per cui, nel magma dell’esperienza, individuo qualcosa con cui debbo fare i conti. Che poi, una volta elaborata una teoria della conoscenza, questo qualcosa diventi Oggetto Dinamico, noumeno, materia ancora bruta di un’intuizione non ancora illuminata dal categoriale, tutto questo viene dopo. Prima c’è qualcosa, non foss’altro la mia attenzione ridestata; ma neppure, direi la mia attenzione in sonno, in agguato, in dormiveglia. Non è l’atto primario dell’attenzione che definisce il qualcosa, è il qualcosa che sveglia l’attenzione, anzi la stessa attenzione in agguato fa già parte (è testimonianza) di questo qualcosa. Ecco le ragioni per cui la semiotica non può non riflettere su questo qualcosa che (per collegarci a quanti nei secoli se ne sono crucciati) decidiamo di chiamare Essere.

1.2. Un problema innaturale È stato detto che il problema dell’essere (la risposta cioè alla domanda “che cosa è l’essere?”) è il meno naturale di tutti i problemi, quello che il senso comune non si pone mai (Aubenque 1962: 13-14). “L’essere in quanto tale è così lontano dal costituire problema, che in apparenza è come se un simile dato non ‘vi fosse’” (Heidegger 1973: 196). Al punto tale che la tradizione posteriore ad Aristotele non se lo è posto, lo ha per così dire rimosso, e forse a questo si deve il fatto ormai leggendario che il testo della Metafisica sia scomparso per riemergere solo nel I secolo a.C. D’altra parte lo stesso Aristotele, e con lui tutta la tradizione filosofica greca, non si è mai posto il problema che si sarebbe invece posto Leibniz nei suoi Principes de la nature et de la grace: “Pourquoi il y a plutôt quelque chose que rien?” – aggiungendo che in fondo il niente sarebbe più semplice e meno complicato di qualche cosa. Infatti questa domanda rappresenta anche le angosce del non filosofo che talora trova troppo difficile pensare Dio nella sua inconcepibile eternità, o peggio ancora l’eternità del mondo, mentre sarebbe molto più semplice e rassicurante se nulla fosse e mai fosse

stato, così che non vi sarebbe neppure una mente portata ad arrovellarsi sul perché vi sia del nulla piuttosto che dell’essere. Ma se si aspira al nulla è perché, in quest’atto d’aspirazione, ci si ritrova già a essere, sia pure sotto forma di difetto e caduta, come suggerisce Valéry in Ébauche d’un serpent: Soleil, soleil!... Faute éclatante! Toi qui masques la mort, Soleil... Par d’impénétrables délices, Toi le plus fier de mes complices, Et de mes pièges le plus haut, Tu gardes les coeurs de connaître Que l’univers n’est qu’un défaut Dans la pureté du Non-être. Detto per inciso, se la condizione normale fosse il nulla, e noi ne fossimo soltanto una sventurata escrescenza transitoria, cadrebbe anche l’argomento ontologico. Non varrebbe argomentare che, se è possibile pensare id cujus nihil majus cogitari possit (e cioè dotato di tutte le perfezioni), siccome a quest’essere dovrebbe competere anche quella perfezione che è l’esistenza, il fatto stesso che Dio sia pensabile dimostra che esiste. Di tutte le confutazioni dell’argomento ontologico, la più energica pare espressa dalla domanda: “chi ha mai detto che l’esistenza sia una perfezione?”. Una volta ammesso che l’assoluta purezza consista nel Non-essere, la massima perfezione di Dio consisterebbe nel non esistere. Il pensarlo (il poterlo pensare) come esistente sarebbe effetto della nostra pochezza, capace di sporcare con l’attribuzione di esistenza ciò che ha il supremo diritto e la impensabile ventura di non essere. Sarebbe stato interessante un dibattito non tra Anselmo e Gaunilone bensì tra Anselmo e Cioran. Ma anche se l’essere fosse un difetto nella purezza del nonessere, in questo difetto noi saremmo invischiati. E dunque tanto vale cercare di parlarne. Torniamo quindi alla questione fondamentale della metafisica: perché c’è qualcosa (sia esso l’essere in quanto tale, o la pluralità degli enti esperibili e pensabili, e la totalità dell’immenso difetto che ci ha sottratto alla tranquillità divina del non-essere) piuttosto che nulla? Ripeto, in Aristotele (e nella tradizione dell’aristotelismo scolastico)

questa domanda non c’è. Perché? Perché la questione era elusa dalla implicita risposta che cercheremo di dare.

1.3. Perché c’è dell’essere? Perché c’è dell’essere piuttosto che nulla? Perché sì.8 Questa è una risposta da prendere con la massima serietà, non un motto di spirito. Il fatto stesso che possiamo porci la domanda (che non potremmo porci se non ci fosse nulla, neppure noi che la poniamo) significa che la condizione di ogni domanda è che ci sia dell’essere. L’essere non è un problema di senso comune (ovvero il senso comune non se lo pone come problema) perché è la condizione stessa del senso comune. All’inizio del De Veritate (1.1) san Tommaso dice: “Illud autem quod primum intellectus concipit quasi notissimum, et in quo omnes conceptiones resolvit, est ens”. Che ci sia qualcosa è la prima cosa che il nostro intelletto concepisce, come la più nota ed evidente, e tutto il resto viene dopo. Ovvero, non potremmo pensare se non partendo dal principio (implicito) che stiamo pensando qualcosa. L’essere è l’orizzonte, o il bagno amniotico, in cui naturalmente si muove il nostro pensiero – anzi, siccome per Tommaso l’intelletto presiede alla prima apprensione delle cose, è ciò in cui si muove il nostro primo conato percettivo. Ci sarebbe dell’essere anche se ci trovassimo in una situazione berkeleyana, se noi non fossimo altro che uno schermo su cui Dio proietta un mondo che di fatto non esiste. Anche in quel caso ci sarebbe il nostro atto, sia pure fallace, di percepire ciò che non è (o che è solo in quanto viene percepito da noi), ci saremmo noi come soggetti percipienti (e, nell’ipotesi berkeleyana, un Dio che ci comunica ciò che non è). Ci sarebbe quindi abbastanza essere da soddisfare il più ansioso degli ontologi. C’è sempre qualcosa, dal momento che c’è qualcuno capace di chiedersi perché c’è essere piuttosto che nulla. Il che deve mettere subito in chiaro che il problema dell’essere non può essere ridotto a quello della realtà del mondo. Che quello che chiamiamo il Mondo esterno, o l’Universo, ci sia o non ci sia, o che sia effetto di un genio maligno, questa possibilità non tocca affatto l’evidenza primaria che sia “qualcosa” da qualche parte (non foss’altro che una res cogitans che si rende conto di cogitare).

Ma non c’è bisogno di attendere Cartesio. C’è una bella pagina di Avicenna che, dopo aver detto in molte sedi che l’ente è ciò che viene concepito per primo, che non può essere commentato che attraverso il suo nome, perché è il principio primo d’ogni altro commento, che la ragione lo conosce senza dover ricorrere a definizione, perché non ha definizione, genere e differenza, e non vi è nulla di più conosciuto di esso, ci invita a un esperimento tale da far supporre che non gli fosse estranea l’esperienza di qualche droga orientale: “Supponiamo che uno di noi sia creato di colpo, e perfetto. Ma i suoi occhi sono velati e non possono vedere le cose esterne. È stato creato planando nell’aria, anzi nel vuoto, così che non subisse l’urto della resistenza dell’aria. Le sue membra sono separate, non s’incontrano né si toccano. Egli riflette e si domanda se la sua esistenza sia provata. Senza aver nessun dubbio, affermerebbe d’esistere: malgrado ciò non provi né le sue mani né i suoi piedi, né l’intimo delle sue viscere, né un cuore, né un cervello, né alcun’altra cosa esteriore, egli affermerebbe d’esistere, senza stabilire se abbia una lunghezza, una larghezza, una profondità...” (Philippe 1975: 1-9). Quindi c’è dell’essere perché possiamo porci la domanda sull’essere, e questo essere viene prima di ogni domanda, e quindi di ogni risposta e di ogni definizione. È nota l’obiezione moderna che la metafisica occidentale – con la sua ossessione per l’essere – nasca solo all’interno di un discorso fondato sulle strutture sintattiche dell’indo-europeo, e cioè su un linguaggio che prevede, per ogni giudizio, la struttura soggetto-copula-predicato (in quanto, come si erano affannati a proporre anche i costruttori di lingue perfette del XVII secolo – anche enunciati come Dio è o il cavallo galoppa possono sempre essere risolti in Dio è esistente e il cavallo è galoppante). Ma l’esperienza dell’essere è implicita nel primo grido che il neonato emette appena uscito dal ventre materno, appunto per salutare o render conto del qualcosa che gli si presenta come orizzonte, e nel suo primo protendere le labbra verso la mammella. Lo stesso fenomeno dell’indicalità primaria ci mostra protesi verso qualcosa (ed è irrilevante che questo qualcosa ci sia davvero, o che lo poniamo col nostro protenderci; è persino irrilevante, al limite, che ci siamo noi che ci protendiamo, ci sarebbe in ogni caso un protendersi). L’essere è id quod primum intellectus concipit quasi notissimum, come se in quell’orizzonte fossimo sempre stati, e forse il feto avverte

dell’essere mentre galleggia ancora nell’utero. Oscuramente, sente l’essere “quasi notissimo” (anzi, come l’unica cosa nota). Dell’essere non occorre chiedersi perché sia, esso è una evidenza luminosa. Il che non esclude che questa luce non possa apparire accecante, tremenda, insostenibile, mortale – e pare infatti che a molti così avvenga. Porsi domande sul suo fondamento è illusione o debolezza e fa pensare a colui che, interrogato se credesse in Dio, aveva risposto “no, io credo in qualcosa di molto più grande”. L’essere, nella cui evidenza ineliminabile ci apriamo a ogni interrogazione che lo riguardi, è il Fondamento di se stesso. Porsi domande sul fondamento dell’essere è come porsi domande sul fondamento del fondamento, e poi sul fondamento del fondamento del fondamento, in una regressione infinita: quando, estenuati, ci fermiamo, siamo di nuovo e già nel fondamento stesso della nostra domanda.9 La domanda perché ci sia dell’essere piuttosto di nulla cela caso mai un’altra inquietudine, che riguarda l’esistenza di Dio. Ma prima viene l’evidenza dell’essere, poi la domanda su Dio. La domanda “chi ha fatto tutto questo, chi lo sostiene all’essere?” segue la presa d’atto dell’evidenza, notissima, che qualcosa c’è, anzi ci appare come già organizzato nella coorte degli enti. Pare innegabile che l’evidenza dell’essere l’abbiano anche gli animali, i quali non sanno affatto porsi la domanda, che ne consegue, an Deus sit. A questa Tommaso risponderà in una summa che appunto si chiama “Theologica”. Ma prima viene la discussione sul De ente et essentia.

1.4. Come si parla dell’essere L’essere è anche prima che se ne parli. Ma possiamo trasformarlo da evidenza insopprimibile in un problema (che attende risposta) solo in quanto ne parliamo. La prima apertura all’essere è una sorta di esperienza estatica, sia pure nel senso più materialistico del termine, ma sino a che rimaniamo in questa evidenza iniziale, e muta, l’essere non è un problema filosofico, così come non è problema filosofico per il pesce l’acqua che lo sostiene. Ma nel momento che dell’essere parliamo, non ne parliamo ancora in questa sua forma onniavvolgente perché, lo si è detto, quello dell’essere (la più naturale e immediata tra le esperienze) è il meno naturale di tutti i problemi, quello che il senso

comune non si pone mai: noi iniziamo a camminare a tastoni nell’essere ritagliandovi degli enti, e costruendoci a poco a poco un Mondo. Quindi, poiché il senso comune è incapace di pensare l’essere prima di averlo organizzato nel sistema, o nella serie, scoordinata, degli enti, gli enti sono il modo in cui l’essere ci viene incontro, e di lì bisogna iniziare. E veniamo allora alla questione centrale della Metafisica aristotelica. Tale questione si pone sotto forma di una constatazione da cui Aristotele non inizia, ma quasi vi arriva per passi successivi – trovandosela, per così dire, tra i piedi a mano a mano che passa dal primo al quarto libro dove, dopo aver detto che c’è una scienza che considera l’essere in quanto tale, là dove ci si attenderebbe la prima e tentativa definizione dell’oggetto di questa scienza, Aristotele ripete come unica definizione possibile ciò che nel primo libro (992b 19) era apparso solo come osservazione parentetica: l’essere si dice in molti modi (leghetai men pollachos) – secondo significati molteplici (1003a 33). Ciò che per san Tommaso l’intelletto percipit quasi notissimum, l’orizzonte del nostro pensare e parlare, per Aristotele (ma Tommaso acconsentiva) è per natura (se avesse una natura, ma sappiamo che non è né genere né specie) ambiguo, polisemico. Per alcuni autori questa affermazione consegna il problema dell’essere a un’aporia fondamentale, che la tradizione post-aristotelica ha solo cercato di ridurre, senza distruggerne il potenziale drammatico. In effetti Aristotele è il primo a tentare di ridurla a dimensioni accettabili, e lo fa giocando sull’avverbio “in molti modi”. I molti modi si ridurrebbero a quattro, e sarebbe possibile controllarli. L’essere si dice (i) come essere accidentale (è l’essere predicato dalla copula, per cui si dice che l’uomo è bianco o in piedi); (ii) come vero, per cui può essere vero o falso che quell’uomo sia bianco, o che l’uomo sia animale; (iii) come potenza e atto, per cui se non è vero che quest’uomo sano sia attualmente malato, potrebbe ammalarsi, e diremmo oggi che si può pensare a un mondo possibile in cui sia vero che quest’uomo sia malato; (iv) infine, l’essere si dice come ens per se, ovvero come sostanza. Per Aristotele la polisemia dell’essere si acquieta nella misura in cui, comunque si parli di essere, lo si dice “in riferimento a un unico principio” (1003b 5-6), e cioè alle sostanze. Le sostanze sono esseri individui ed esistenti, e di esse

abbiamo evidenza percettiva. Aristotele non ha mai dubitato che esistessero delle sostanze individue (Aristotele non ha mai dubitato della realtà del mondo quale ci appare nell’esperienza quotidiana), delle sostanze in cui e soltanto in cui le stesse forme platoniche si attualizzano, senza che possano esistere prima o dopo in qualche pallido Iperuranio, e questa sicurezza gli consente di dominare la polivocità dell’essere. “Il primo dei significati dell’essere è l’essenza la quale significa (semainei) la sostanza (ousia)” (1028a 4-6). Ma il dramma dell’essere aristotelico non sta nel pollachos, sta nel leghetai. Che lo si dica in uno o in molti modi, l’essere è qualcosa che si dice. Sarà pure l’orizzonte di ogni altra evidenza, ma diventa problema filosofico solo nel momento che se ne parla. Anzi è proprio il fatto che se ne parli che lo rende ambiguo e polivoco. Il fatto che la polivocità possa essere ridotta non toglie che ne prendiamo coscienza solo attraverso un dire. L’essere, in quanto pensabile, ci si presenta sin dall’inizio come un effetto di linguaggio. Nel momento in cui ci si para davanti, l’essere suscita interpretazione; nel momento in cui possiamo parlarne, esso è già interpretato. Non c’è altro da fare. A questo circolo non sfuggiva neppure Parmenide, che pure aveva definito gli onomata come inaffidabili. Ma gli onomata erano nomi fallaci che siamo portati, prima della riflessione filosofica, a dare a ciò che diviene: però Parmenide è il primo a esprimere in parole l’invito a riconoscere (e interpretare) i molti segni (semata) attraverso cui l’essere suscita il nostro discorso. E che l’essere sia, occorre dire, oltre che pensare (DK 6). A maggior ragione per Aristotele senza parola l’essere né è, né non è: sta lì, noi ci siamo dentro, ma non pensiamo di starvi. L’ontologia di Aristotele, lo si è detto ampiamente, ha radici verbali. Nella Metafisica ogni menzione dell’essere, ogni domanda e risposta sull’essere sta nel contesto di un verbum dicendi (sia esso leghein, semainein o altro). Quando (1005b 25-26) si legge che “è impossibile a chicchessia di credere che la stessa cosa sia e non sia”, appare il verbo ypolambanein, che è, sì, “credere”, “afferrare con la mente”, ma - visto che la mente è logos - significa anche “prendere la parola”. Si potrebbe obiettare che si dice senza contraddizione ciò che pertiene alla sostanza, e la sostanza è indipendente dal nostro dirne. Ma sino a qual punto? Come parliamo della sostanza? Come possiamo dire senza contraddizione che uomo è animale razionale, mentre dire che è

bianco o che corre ne indica solo un accidente transeunte, che quindi non può essere oggetto di scienza? Nell’atto percettivo l’intelletto attivo astrae dal sinolo (materia + forma) l’essenza, e quindi sembra che nel momento conoscitivo noi cogliamo immediatamente e senza sforzo il to ti en einai (1028b 33-36), ciò che l’essere era, e dunque è stabilmente. Ma che cosa possiamo dire dell’essenza? Possiamo soltanto darne la definizione: “La definizione nasce perché si deve significare qualcosa. La definizione è la nozione (logos) di cui il nome (onoma) è segno (semeion)”(1012a 22-24). Ahimè! Noi abbiamo l’insopprimibile evidenza dell’esistenza degli individui, ma di essi non possiamo dir nulla, se non nominandoli per la loro essenza, e cioè per genere e differenza specifica (non dunque “questo uomo”, ma “uomo”). Non appena si entra nell’universo delle essenze si entra nell’universo delle definizioni, e cioè nell’universo del linguaggio che definisce.10 Noi abbiamo pochi nomi e poche definizioni per una infinità di cose singole. Dunque il ricorso all’universale non è una forza del pensiero ma una infermità del discorso. Il dramma è che l’uomo parla sempre in generale mentre le cose sono singolari. Il linguaggio nomina appannando l’insopprimibile evidenza dell’individuale esistente. E non varrà alcun tentativo, la reflexio ad phantasmata, il deprimere il concetto a flatus vocis rispetto all’individuo come unica notizia intuitiva, l’arroccarsi sugli indicali, sui nomi propri e le designazioni rigide... Panacee. Tranne pochi casi (in cui si potrebbe anche non parlare, puntare un dito, fare un fischio, afferrare per un braccio - ma allora si è, non si discute dell’essere) si parla sempre già collocati nell’universale. E quindi l’ancoraggio delle sostanze, che dovrebbe sopperire alla polivocità dell’essere, dovuta al linguaggio che lo dice, ci riporta al linguaggio come condizione di ciò che sappiamo delle sostanze stesse. Come si è mostrato (Eco 1984, 2.4), per definire, bisogna costruire un albero dei predicabili, dei generi, delle specie e delle differenze; e Aristotele, che pur suggerirà a Porfirio tale albero, non riesce mai (nelle opere naturali in cui intende davvero definire le essenze) ad applicarlo in modo omogeneo e rigoroso (cfr. Eco 1990: 4.2.1.1.).

1.5. L’aporia dell’essere aristotelico Ma il dramma dell’essere non è che è solo effetto di linguaggio. È che neppure il linguaggio lo definisce. Non c’è definizione dell’essere. L’essere non è un genere, neppure il più generale di tutti, e quindi sfugge a ogni definizione, se per definire bisogna usare il genere, e la differenza specifica. L’essere è ciò che permette ogni definizione successiva. Ma ogni definizione è effetto di organizzazione logica e quindi semiosica del mondo.11 Ogni qual volta cercassimo di garantire questa organizzazione ricorrendo a quel parametro sicuro che è l’essere, ricadremmo nel dire, e cioè in quel linguaggio di cui cercheremmo la garanzia. Come ha osservato Aubenque, “non soltanto non si può dire nulla dell’essere, ma l’essere non ci dice niente su ciò a cui lo attribuiamo: segno non di sovrabbondanza, ma di povertà essenziale... L’essere non aggiunge nulla a ciò a cui lo si attribuisce” (1962: 232). Ed è naturale: se l’essere è l’orizzonte di partenza, dire di qualcosa “che è” non aggiunge nulla a ciò che si è già dato per evidente per il fatto stesso di nominare quel qualcosa come oggetto di discorso. L’essere fornisce supporto a ogni discorso tranne a quello che teniamo su di esso (il quale non ne dice nulla che già non sapessimo nel momento stesso in cui iniziavamo a parlarne). C’erano alcune soluzioni per sfuggire a questa aporia. Si poteva porre l’essere altrove, in una zona dove non dovesse o non potesse venire condizionato dal linguaggio. Questo tenta il neoplatonismo, sino alle sue diramazioni estreme. L’Uno, fondamento dell’essere, per sottrarsi alle nostre definizioni si colloca prima dell’essere stesso, e si fa ineffabile: “affinché l’essere sia, è necessario che l’Uno non sia essere” (Enneadi, V, 2.1). Ma per porre l’Uno fuori della presa dell’essere stesso, il linguaggio si fa teologia negativa, circoscrive l’indicibile per esclusioni, metafore, negazioni, come se la negazione non fosse essa stessa un motore della semiosi, un principio d’individuazione per opposizione. Oppure si poteva, come ha fatto la Scolastica, identificare il fondamento dell’essere con Dio quale ipsum esse. La filosofia prima come teologia colmava il vuoto della metafisica come scienza dell’essere. Ma filosoficamente questo è un escamotage: lo è per il filosofo credente, il quale deve accettare che la fede supplisca là dove la ragione non può dire nulla; lo è per il filosofo non credente, che vede la

teologia costruire il fantasma di Dio per reagire all’incapacità della filosofia a controllare ciò che, pur essendo più evidente di ogni altra cosa, per essa rimane mero fantasma. Inoltre, anche per parlare dell’ipsum esse, che pure dovrebbe essere il fondamento della nostra stessa capacità di parola, occorre elaborare un linguaggio. Poiché non potrà essere lo stesso linguaggio che nomina univocamente, e secondo le leggi dell’argomentazione, gli enti, sarà il linguaggio dell’analogia. Ma non è esatto dire che il principio di analogia ci permetta di parlare dell’essere. Non è che prima venga l’analogia e poi la possibilità di applicarla all’ens o addirittura all’ipsum esse. Si può parlare di Dio proprio perché si ammette in partenza che esista una analogia entis: dell’essere, non del linguaggio. Ma chi dice che l’essere è analogo? Il linguaggio. È un circolo. E dunque non è l’analogia che ci permette di parlare dell’essere, bensì è l’essere che, per il modo in cui è effabile, ci permette di parlare di Dio per analogia. Collocare l’essere nell’ipsum esse, che si fonda da sé e partecipa l’essere agli enti mondani, non esime la teologia dal parlarne (altrimenti è pura visione beatifica, e si sa che perfino “a l’alta fantasia qui mancò possa”). Altre soluzioni? Una, filosoficamente sublime e quasi inattaccabile: riassorbire totalmente il linguaggio nell’essere. L’essere si parla e si autodefinisce nel seno onnicomprensivo di una Sostanza dove l’ordine e la connessione delle idee sono lo stesso che l’ordine e la connessione delle cose. Non c’è più scarto tra l’essere e il suo fondamento, non c’è più separatezza tra l’essere e gli enti (i modi che ne costituiscono la polpa), non c’è più frattura tra la sostanza e la sua definizione, non c’è più alcuno iato tra pensiero e pensato. Eppure anche in una architettura tetragona e perfetta come quella di Spinoza, il linguaggio s’insinua come tarlo, e costituisce problema. Esso pare perfettamente adeguato all’oggetto, che attraverso di esso si autonomina, sino a che parla in astratto della sostanza, dei suoi attributi e dei suoi modi; ma appare debolissimo, tentativo, prospettico, contingente quando deve fare i conti, ancora una volta, con i nomi degli enti mondani, come ad esempio uomo. Infatti “coloro che hanno contemplato più spesso la postura eretta degli uomini, sotto il nome di uomo intenderanno un animale di postura eretta; coloro i quali, invece, hanno avuto l’abitudine di contemplare altro, formeranno un’immagine comune degli uomini, e cioè che l’uomo è un animale che ride, bipede, senza piume, razionale;

e così delle altre cose ciascuno formerà immagini universali, a seconda delle disposizioni del proprio corpo” (Ethica, XL, scolio 1). Non si ripropone qui la povertà del linguaggio e del pensiero, quella penuria nominum e quell’abbondanza di omonimie che assillavano i teorici degli universali, complicata dal fatto che il linguaggio è ora sottomesso alle “disposizioni del corpo”? E come potremo pienamente fidarci di questo linguaggio somatopatico, quando pretende di parlare (e ordine geometrico!) dell’essere? Rimaneva un’ultima possibilità: dopo che per secoli si era diviso l’essere dall’essenza e l’essenza dall’esistenza, rimaneva da far divorziare l’essere da se stesso.

1.6. La duplicazione dell’essere Quando Heidegger, in Che cos’è la metafisica?, si chiede “Perché c’è dell’ente piuttosto che niente?”, usa Seiende, non Sein. Per Heidegger il male della metafisica è che essa si è sempre occupata dell’ente, ma non del suo fondamento, e cioè dell’essere, e della verità dell’essere. Interrogando l’ente in quanto ente, la metafisica ha evitato di rivolgersi all’essere in quanto essere. Essa non si è mai raccolta sul proprio fondamento: ha fatto parte del suo destino che l’essere le sfuggisse. Si è riferita all’ente nella sua totalità credendo di parlare dell’essere in quanto tale, si è occupata dell’ente in quanto ente mentre l’essere si manifesta solo nel e per il Dasein. Per cui non si può parlare dell’essere se non in riferimento a noi in quanto siamo gettati nel mondo. Pensare l’essere in quanto essere (pensare alla verità dell’essere come fondamento della metafisica) significa abbandonare la metafisica. Il problema dell’essere e del suo disvelamento non è un problema della metafisica come scienza dell’ente, bensì il problema centrale dell’esistenza. Entra così in scena l’idea del Nulla, che “viene insieme” all’idea dell’ente. Nasce nel sentimento dell’angoscia. L’angoscia ci fa sentire spaesati nell’ente e “ci toglie la parola”. Senza parola non c’è più ente: nel dileguare dell’ente sorge il non-ente, e cioè il niente. L’angoscia ci rivela il niente. Ma questo niente si identifica con l’essere (Sein), come essere dell’ente, suo fondamento e verità, e in tal senso Heidegger può accogliere il detto hegeliano per cui il puro essere e il puro niente sono

lo stesso. Da questa esperienza del niente sorge il bisogno di prendersi cura dell’essere come essenza del fondamento dell’ente. Eppure, non sunt multiplicanda entia sine necessitate, specie entità così primitive come l’ente, l’essere e il nulla. È difficile separare il pensiero di Heidegger dal linguaggio in cui si esprime, e lui stesso lo sapeva: fiero com’era della natura filosofica del proprio tedesco, che cosa avrebbe pensato se fosse nato in Oklahoma, disponendo di un vaghissimo to be e di un solo Being per Seiende e Sein? Se ci fosse ancora bisogno di ripetere che l’essere ci appare solo come effetto di linguaggio, basterebbe il modo in cui queste due parole (Seiende e Sein) si ipostatizzano in due Qualcosa. Le due entità si creano perché c’è un linguaggio e si mantengono solo se non si accetta sino alla fine l’aporia dell’essere quale si disegna in Aristotele. Se l’ente heideggeriano sono le sostanze, di cui Aristotele non dubitava (né ne dubita Heidegger che, malgrado il molto nulla su cui affabula, come Aristotele e Kant non ha mai messo in questione che le cose ci siano e si offrano spontaneamente alla nostra intuizione sensibile), certo potrebbe esservi qualcosa di più vago e originario che resiste al di sotto della nostra illusione di nominarle univocamente. Ma sino a qui saremmo ancora alla diffidenza di Parmenide verso gli onomata. Basterebbe dire che il modo in cui sinora abbiamo segmentato il Qualcosa che ci attornia non ne rende affatto ragione, non rende ragione della sua insondabile ricchezza, o assoluta semplicità, o incontenibile confusione. Se l’essere si dice davvero in molti modi, il Sein sarebbe ancora la viscosa totalità degli enti, prima che essi si siano suddivisi a opera del linguaggio che li dice. Ma allora il problema del Dasein, in quanto unico tra tutti gli enti a potersi porre il problema dell’essere, sarebbe proprio questo: di accorgersi del suo rapporto circolare con la totalità degli enti che nomina - presa di coscienza sufficiente a suscitare angoscia e spaesamento, ma che in nessun modo ci farebbe uscire dal circolo in cui l’esserci si ritrova gettato. Dire che vi è qualcosa che la metafisica non ha ancora interpretato, ovvero che l’interpretazione non ha ancora segmentato, implica che quel qualcosa sia già oggetto di segmentazione, in quanto viene definito come l’insieme di ciò che non è stato ancora segmentato. Se l’esserci è l’ente che riconosce pienamente la natura semiosica del suo rapporto con gli enti, non è necessario duplicare Seiende e Sein.

Non serve dire che il discorso della metafisica ci ha costruito un mondo degli enti in cui viviamo in modo inautentico. Questo ci indurrebbe al massimo a riformulare quel discorso fallace. Ma si potrebbe farlo sempre a partire da quell’orizzonte dell’ente in cui siamo gettati. Se l’insieme degli enti non si identifica solo con l’insieme degli oggetti utilizzabili, ma coinvolge anche le idee e le emozioni, anche l’angoscia e il senso dello spaesamento sono parte costitutiva di quell’universo ontico che dovrebbero dissolvere. La coscienza dell’essere per la morte, l’angoscia, il sentimento del nulla non ci aprono a niente che non sia già l’orizzonte in cui siamo stati gettati. Gli enti che ci vengono incontro non sono soltanto oggetti “utilizzabili”: sono anche la tastiera delle passioni che ben conosciamo, perché sono il modo in cui altri ci hanno appreso a essere coinvolti nel mondo. I sentimenti che paiono aprirci al Sein fanno già parte dell’immenso territorio degli enti. Ancora, se il Nulla fosse l’epifania di una forza oscura che si oppone agli enti, in questo indicibile “buco nero” ontologico potremmo forse incontrare, viandante di un universo negativo, das Sein. Ma no, Heidegger non è così ingenuo da ipostatizzare un meccanismo del pensiero (la negazione) o il senso che la realtà vacilli, e trasformarlo nella “realtà” ontologica del Nulla. Egli sa benissimo, col saggio di Elea, che esiste infatti l’essere, ma il nulla non esiste (DK 6). Che cosa potrebbe farsene di un termine che non solo ha intensione ma anche estensione nulla? Il sentimento del nulla non sarà una semplice tonalità passionale, una depressione contingente e casuale, un umore, ma è pur sempre una “situazione affettiva fondamentale” (Heidegger 1973: 204). Non Apparizione di un altro Qualcosa, bensì passione. E allora che cos’è che lo spaesamento fa sorgere, se non la coscienza che il nostro Esserci consiste nel dover parlare (chiacchierare) dell’ente? Divorziato dall’ente di cui parliamo, l’essere si dilegua. Ma questa non è un’affermazione ontologica o metafisica, bensì un rilievo lessicale: a questa parola, das Sein, in quanto opposta a das Seiende, non corrisponde alcun significato. Entrambi i termini hanno la stessa estensione (illimitata) e la stessa intensione (nulla). “L’ente ci è noto ma l’essere? Quando tentiamo di determinare, o anche solo afferrare una nozione siffatta, non siamo colti da vertigine?” (Heidegger 1973: 195). È esattamente la stessa vertigine che ci coglie quando vogliamo dire che cosa sia l’ente in quanto ente. Termini di pari estensione ed

intensione (unica istanza di sinonimia assoluta!) Seiende e Sein indicano entrambi lo stesso Qualcosa. Il Sein appare sempre nel discorso heideggeriano come un intruso, ipostasi sostantivizzata di un uso verbale tipico del discorso comune. L’esserci si ritrova, diviene cosciente di sé in quanto assegnato all’ente, e quivi scopre la sua vera essenza (che non è quiddità, ma decisione) come essere per la morte. È una sorta di appercezione trascendentale senza “io” e senza “penso”, in cui l’esserci si scopre come pensiero, emozione, desiderio e corporalità (altrimenti non potrebbe dover morire). “Nel rapportarsi all’ente che egli non è, l’uomo si trova già davanti l’ente come ciò che lo sostiene, ciò cui si trova assegnato, ciò che, con tutta la sua cultura e la sua tecnica, egli non potrà mai, in fondo, signoreggiare” (Heidegger 1973: 196). In questo orizzonte il Dasein si riconosce come tale: “In ogni stato d’animo, per il quale ciascuno di noi ‘è’ in questa o quella disposizione, c’è manifesto il nostro esserci”. D’accordo. Ma perché allora il testo prosegue: “Noi dunque comprendiamo l’essere, e tuttavia ce ne manca il concetto” (Heidegger 1973: 196)? Perché in questo stato d’animo o disposizione si scopre il Sein? È naturale che ce ne manchi il concetto, se la sua intensione è nulla. Ma perché abbiamo bisogno di questo concetto? Come viene detto in Essere e tempo (§ 40) l’angoscia costituisce l’apertura dell’esserci al suo esistere come essere gettato per la propria fine; d’accordo, e il soggetto (grammaticale) di questo essere gettato è il Dasein. Ma allora perché subito dopo si dice che “l’essere per essa [l’angoscia] si apre all’esserci” e “ne va in pieno dell’essere dell’esserci”? L’essere dell’esserci è pura tautologia. L’esserci non può fondarsi su qualcosa, visto che è “gettato” (perché? perché sì). Da dove esce questo das Sein che si apre all’esserci, se l’esserci che si apre è un ente tra gli enti? Quando Heidegger dice che il problema della fondazione della metafisica trova la sua radice nell’interrogazione sull’essere nell’uomo, o meglio sul suo più intimo fondamento, “la comprensione dell’essere come finitezza realmente esistente” (Heidegger 1973: 198), il Sein altro non è che la comprensione esistenziale del nostro modo finito di essere assegnati all’orizzonte degli enti. Il Sein non è nulla, tranne il nostro capire che siamo enti finiti. Per cui si potrebbe dire che, al massimo, l’esperienza dell’essere dell’esserci è efficace metafora per indicare l’ambito oscuro dove si

forma una decisione etica: assumere autenticamente il nostro destino di essere per la morte, e a questo punto sacrificare in silenzio ciò che la metafisica avrebbe verbosamente detto della legione di enti su cui ha instaurato il suo illusorio dominio. Ma avviene (Evento filosoficamente influente) la Svolta. E nella Svolta questo essere così intensionalmente sfuggevole diventa un soggetto massiccio, sia pure sotto forma di borborigma oscuro che serpeggia sotto la pelle degli enti. Vuole parlare e svelarsi. Se parla, parlerà attraverso di noi, visto che, come Sein, emerge solo nel suo legame col Dasein. Occorre dunque, come si è operata la duplicazione ontico/ontologico, facendo divorziare l’essere da se stesso, far divorziare da sé anche il linguaggio. Ci sarà da un lato il linguaggio della metafisica ormai al tramonto, senescente nel suo ostinato oblio dell’essere, affannata a presentificare oggetti, e dall’altro un linguaggio capace - diremo noi - di “donner un sens plus pur aux mots de la tribù”. Tale che, anziché occultare l’essere, lo sveli. Si conferisce allora un potere immenso al linguaggio, e si sostiene che esista una forma di linguaggio così forte, così consustanziale al fondamento stesso dell’essere, che ci “mostra” l’essere (ovvero il plesso inscindibile essere-linguaggio) in modo tale da non lasciare residui - così che nel linguaggio si attui l’autodisvelamento dell’essere. Ne sarà emblema l’ultimo verso di Andenken di Hölderlin: “Ma ciò che resta, lo intuiscono i poeti”.

1.7. L’interrogazione dei poeti L’idea è antica e si presenta in tutta la sua gloria nel neoplatonismo dello pseudo-Dionigi. Dato un Uno divino, che non è corpo, né figura né forma, non ha quantità o qualità o peso, non è in un luogo, non vede, non sente, non è anima né intelligenza, né numero, ordine o grandezza, non è sostanza né eternità né tempo, non è tenebra e non è luce, non è errore e non è verità (Theologia mistica), perché nessuna definizione può circoscriverlo, non si potrà nominarlo che ossimoricamente come “caligine luminosissima”, o per altre oscure dissimiglianze, come Folgore, Gelosia, Orso o Pantera, proprio per sottolinearne l’ineffabilità (De coelesti hierarchia). Questo modo detto “simbolico” - che è poi in effetti abbondantemente metaforico - e che peserà ancora sul concetto

tomista e post-tomista di analogia, è l’esempio di come si possa parlare dell’essere solo per via poetica. Così è la più antica tradizione mistica che consegna al mondo moderno l’idea che esista da un lato un discorso capace di nominare univocamente gli enti, e dall’altro un discorso della teologia negativa, che ci permette di parlare dell’inconoscibile. Col che si apre la strada alla persuasione che dell’inconoscibile possano parlare solo i Poeti, maestri della metafora (che dice sempre altro) e dell’ossimoro (che dice sempre la compresenza dei contrari) - idea che piace non solo ai poeti e ai mistici, ma ancor più allo scienziato positivista, già pronto, per conto proprio, a razionalizzare di giorno sui limiti prudenti della conoscenza, e di notte a organizzare sedute medianiche. Questa soluzione si porrebbe in un rapporto molto complesso con le definizioni che nel corso dei secoli sono state date del discorso poetico - e artistico in genere. Ma assumiamo pure Poesia e Poeta come sineddochi per Arte e Artista. Da un lato, da Platone a Baumgarten, abbiamo una sorta di svalutazione della conoscenza artistica rispetto a quella teoretica, dall’idea di imitazione di un’imitazione a quella di una gnoseologia inferior. Con questo, avendo identificato la perfezione della conoscenza con la comprensione dell’universale, si deprimeva il discorso poetico come qualcosa a mezza strada tra la perfezione di una conoscenza generalizzante, dispiegata attraverso la scoperta di leggi, e quella di una conoscenza in gran parte individualizzante: il poeta ci comunica la sfumatura di colore di questa foglia, ma non ci dice che cosa sia il Colore. Ora, in termini storici, è proprio con l’avvento di un’era della scienza, dall’Età della Ragione Illuministica al Secolo del Positivismo, che si è aperto un processo alla conoscenza scientifica e ai suoi limiti. A mano a mano che la validità di questa conoscenza veniva posta in dubbio, e limitata a universi di discorso molto circoscritti, emergeva sempre più la possibilità di un’area di certezza che riusciva sì a sfiorare l’Universale ma attraverso una rivelazione quasi numinosa del particolare (e altro non è che la nozione moderna di epifania). Così la gnoseologia inferior diventa strumento di conoscenza privilegiato. Ma faute de mieux. Il potere rivelativo riconosciuto ai Poeti non è tanto l’effetto di una rivalutazione della Poesia quanto di una depressione della Filosofia. Non sono i Poeti a vincere, sono i Filosofi ad arrendersi.

Ora, anche ammesso che i Poeti ci parlino dell’altrimenti inconoscibile, per affidare loro il compito esclusivo di parlare dell’essere, bisogna ammettere per postulato che ci sia dell’inconoscibile. Ma questa è esattamente una delle “quattro incapacità” elencate da Peirce nel suo Some consequences of four incapacities, dove si argomenta, nell’ordine, che (1) non abbiamo potere di introspezione ma ogni conoscenza del mondo esterno deriva da ragionamenti ipotetici; (2) non abbiamo potere di intuizione, ma ogni conoscenza è determinata da conoscenze anteriori; (3) non abbiamo il potere di pensare senza segni; (4) non abbiamo alcuna concezione dell’assolutamente inconoscibile. Non è necessario consentire sulle prime tre proposizioni per accettare la quarta. L’argomento di Peirce mi pare ineccepibile: “ogni filosofia non idealistica [e in questa sede sarà opportuno non formalizzarsi su questo aggettivo, e comunque non intenderlo nei termini della tradizione filosofica tedesca] presuppone qualcosa di assolutamente inesplicabile, un fatto ultimo inanalizzabile, che risulti da mediazione ma in se stesso non sia suscettibile di mediazione. Ora, che qualcosa sia in tal modo inesplicabile può essere conosciuto solo attraverso un ragionamento per segni. Ma l’unica giustificazione di un’inferenza da segni è che la conclusione spieghi il fatto. Supporre il fatto come assolutamente inesplicabile non significa spiegarlo, e pertanto questa presupposizione non è consentita” (WR 2: 213). Con questo Peirce non vuole dire che si possa o debba escludere a priori che ci sia dell’inconoscibile; dice che per affermarlo bisogna avere tentato di conoscerlo attraverso catene di inferenze. Pertanto, se si vuole mantenere aperta l’interrogazione filosofica, non bisogna presupporre o postulare l’inconoscibile in partenza. A mo’ di conclusione (nostra), se questa presupposizione non è consentita, non bisogna delegare in partenza il potere di parlare dell’inconoscibile a chi non intende seguire la via dell’ipotesi, ma prende di filato quella della rivelazione. Che cosa ci rivelano i Poeti? Non è che essi dicano l’essere, essi cercano semplicemente di emularlo: ars imitatur naturam in sua operatione. I Poeti assumono come proprio compito la sostanziale ambiguità del linguaggio, e cercano di sfruttarla per farne uscire, più che un sovrappiù di essere, un sovrappiù di interpretazione. La sostanziale polivocità dell’essere ci impone di solito uno sforzo per dar

forma all’informe. Il poeta emula l’essere riproponendone la vischiosità, cerca di ricostituire l’informe originario, per indurci a rifare i conti con l’essere. Ma non ci dice sull’essere, proponendocene l’Ersatz; più di quanto l’essere ci dica o noi gli facciamo dire, e cioè pochissimo. Bisogna decidere che cosa dicano i Poeti quando intuiscono ciò che resta. A leggere alcune pagine di Holzwege (Heidegger 1950: 18-22, 25-30) si scorge una oscillazione tra due estetiche assai diverse. Per la prima si afferma che quando van Gogh rappresenta un paio di zoccoli “l’opera d’arte ci ha fatto conoscere che cosa le scarpe sono in verità”, e “questo ente si presenta nel non-nascondimento del suo essere”, ovvero in quella rappresentazione “l’essere dell’ente giunge alla stabilità del suo apparire”. Dunque c’è una verità, e c’è un essere (Sein) che la dice apparendo, e usando come veicolo quel Dasein che si chiamava Vincent - così come per certi eretici Cristo si sarebbe incarnato passando per la Vergine quasi per tubum, ma era il Verbo che prendeva l’iniziativa, non il suo tramite carnale e casuale. Ma emerge una seconda estetica quando si dice che un tempio greco appare - tradurremmo - come epifania della Terra, e attraverso questa esperienza quasi numinosa “l’opera mantiene aperta l’apertura del Mondo”. Qui l’opera non è tramite attraverso cui il Sein si svela, è (come si diceva) il modo con cui l’arte fa tabula rasa dei modi inautentici in cui andavamo incontro agli enti, e ci invita, ci provoca a reinterpretare il Qualcosa in cui siamo. Queste due estetiche sono inconciliabili. La prima lascia intravedere un realismo orfico (qualcosa fuori di noi ci dice come stiano veramente le cose); la seconda celebra il trionfo dell’interrogazione e dell’ermeneutica. Ma questa seconda estetica non ci dice che nel discorso dei Poeti si svela l’essere.12 Ci dice che il discorso dei Poeti non sostituisce la nostra interrogazione dell’essere, bensì la sostiene e incoraggia. Ci dice che, proprio distruggendo le nostre certezze assodate, richiamandoci a considerare le cose da un punto di vista inconsueto, invitandoci all’urto con il concreto, all’impatto di un individuale in cui si sfarina la fragile impalcatura dei nostri universali, attraverso questa continua reinvenzione del linguaggio, i Poeti ci invitano a riprendere a ogni istante il lavoro dell’interrogazione e di ricostruzione del Mondo, dell’orizzonte degli enti in cui credevamo continuamente e tranquillamente di vivere, senza ansie, senza riserve,

senza che più ci apparissero (come avrebbe detto Peirce) fatti curiosi e non riconducibili alle leggi note. In tal caso l’esperienza dell’arte non è qualcosa di radicalmente diverso dall’esperienza del parlare di Qualcosa, nella filosofia, nella scienza, nel discorso quotidiano. Ne è al tempo stesso un momento e un correttivo permanente. Come tale ci ripete che non c’è divorzio tra Seiende, e Sein. Siamo sempre lì, a parlare di Qualcosa, a chiederci come ne parliamo, e se ci possa essere un momento in cui il discorso può arrestarsi. La risposta implicita è “no”, perché nessun discorso s’arresta solo per il fatto che gli diciamo “sei bello”. Anzi, è proprio a quel punto che quel discorso ci chiede di essere ripreso nel lavoro dell’interpretazione.

1.8. Un modello di conoscenza del mondo Si riparta dall’assunzione forte che l’essere si dice in molti modi. Non in quattro, riconducibili al parametro della sostanza, non per analogia, ma in modi radicalmente diversi. L’essere è tale che di esso si possono dare diverse interpretazioni. Ma chi parla dell’essere? Noi, e spesso come se l’essere fosse al di fuori di noi. Ma evidentemente, se c’è Qualcosa, noi ne facciamo parte. Tanto è vero che aprendoci all’essere ci apriamo anche a noi stessi. Categorizziamo l’ente, e nel contempo ci realizziamo nell’Io penso. Nel dire come noi possiamo pensare l’essere si è già vittima, per ragioni linguistiche - almeno nelle lingue indoeuropee - di un dualismo pericoloso: un soggetto pensa un oggetto (come se il soggetto non fosse parte dell’oggetto di cui pensa). Ma se il rischio è implicito nella lingua, corriamolo. Poi attueremo le dovute correzioni. Facciamo dunque un esperimento mentale. Costruiamo un modello elementare che contenga un Mondo e una Mente che lo conosce e nomina. Il Mondo è un insieme composto di elementi (per comodità chiamiamoli atomi, senza alcun riferimento al senso scientifico del termine, ma piuttosto nel senso di stoicheia) strutturati secondo relazioni reciproche. Quanto alla Mente, non è necessario concepirla come umana, come cervello, come una qualsiasi res cogitans: essa è semplicemente un dispositivo atto a organizzare proposizioni che valgono come descrizioni del mondo. Questo dispositivo è dotato di

elementi (potremmo chiamarli neuroni o bytes, o stoicheia anch’essi, ma per comodità chiamiamoli simboli). Un’avvertenza, fondamentale per garantirci contro la schematicità del modello. Se il Mondo fosse un continuum e non una serie di stati discreti (e dunque segmentabile ma non segmentato), non si potrebbe parlare di stoicheia. Caso mai sarebbe la Mente che, per limitazione propria, non può pensare il continuum che segmentandolo in stoicheia onde renderlo omologo alla natura discreta del suo sistema di simboli. Diciamo allora che gli stoicheia, più che stati reali del Mondo, sono possibilità, tendenze del Mondo a essere rappresentato attraverso sequenze discrete di simboli. Ma in ogni caso si vedrà che questa rigidità del modello sarà già messa automaticamente in questione dalla seconda ipotesi. Per Mondo intendiamo l’universo, nella sua versione “massimale”: esso comprende sia quello che riteniamo essere l’universo attuale che l’infinità degli universi possibili - non sappiamo se non realizzati, o realizzati oltre l’estremo confine delle galassie a noi note, nello spazio bruniano di una infinità dei mondi, magari tutti compresenti in dimensioni diverse - l’insieme che comprende sia enti fisici che entità o leggi ideali, dal teorema di Pitagora a Odino e a Pollicino. Per quanto detto sulla precedenza dell’esperienza dell’essere sulla domanda circa la sua origine, il nostro universo può pertanto comprendere anche Dio, o qualsiasi altro principio originale. In una versione ridotta dell’esperimento, si potrebbe pensare anche al semplice universo materiale, quale lo conoscono i fisici, gli storici, gli archeologi, i paleontologi: le cose che ci sono ora, più la loro storia. Se preferiamo intendere il modello come massimale è per sfuggire all’impressione dualistica che esso può dare. Nell’esperimento, sia gli atomi che i simboli possono essere concepiti come entità ontologicamente omologhe, stoicheia fatti della stessa pasta, come se per rappresentare tre sfere, atomi del mondo, una mente fosse atta a disporre una sequenza di tre cubi, che altro non sono a loro volta che atomi dello stesso Mondo. La Mente è solo un dispositivo che (a richiesta, o per attività spontanea) assegna un simbolo a ogni atomo, così che ogni sua sequenza di simboli possa valere (non importa agli occhi di chi) come un procedimento di interpretazione del Mondo. In tal senso si supera l’obiezione che nel nostro esperimento si opponga una Mente a un

Mondo, come se una Mente, qualsiasi cosa essa sia, potesse non appartenere anch’essa al Mondo. Si può concepire un Mondo capace di interpretare se stesso, che delega una parte di sé a questo scopo, così che tra i suoi infiniti o indefiniti atomi alcuni valgano come simboli che rappresentano tutti gli altri atomi, esattamente nel senso in cui noi, esseri umani, quando parliamo di fonologia o di fonetica, deleghiamo alcuni suoni (che emettiamo come fonazioni attuate) per parlare di tutte le fonazioni attuabili. Per rendere più visibile la situazione, ed eliminare l’immagine fuorviante di una Mente che dispone di simboli che non sono atomi del mondo, possiamo pensare a una Mente che, di fronte a una serie di dieci lampadine, voglia spiegarci quali sono tutte le possibili combinazioni tra loro. Questa Mente non ha che da accendere in serie delle sequenze di lampadine, le attivazioni delle lampadine valendo come simboli di quelle combinazioni reali o possibili che le lampadine come atomi potrebbero realizzare. Il sistema sarebbe allora, come avrebbe detto Hjelmslev, monoplanare: operazioni compiute sul continuum dell’universo, attivandone digitalmente alcuni stati, sarebbero nel contempo una operazione “linguistica” che descrive possibili stati del continuum (attivare stati sarebbe lo stesso che “dire” che quegli stati sono possibili). Altrimenti detto, l’essere è qualcosa che, alla propria periferia (o al proprio centro, o qua e là tra le sue maglie), secerne una parte di sé che tende ad autointerpretarlo. Secondo nostre inveterate credenze questo è il compito o la funzione degli esseri umani, ma si tratta di presunzione. L’essere potrebbe autointerpretarsi anche in altri modi, certamente attraverso organismi animali, ma forse anche vegetali e (perché no?) minerali, nell’epifania silicea del computer.13 In un modello più complesso la Mente dovrebbe dunque essere rappresentata non come posta di fronte al Mondo, ma come contenuta nel Mondo, e avere struttura tale da poter parlare non solo del mondo (che le si oppone) ma anche di se stessa come parte del mondo, e dello stesso processo per cui essa, parte dell’interpretato, può funzionare come interprete. Pero a questo punto non avremmo più un modello, ma proprio quello che il modello cerca inabilmente di descrivere. E se avessimo questo sapere, saremmo Dio, o l’avremmo fichtianamente costruito. In ogni caso, anche se riuscissimo a elaborare tale modello, sarebbe didatticamente meno efficace di quello (ancora dualistico) che

si sta proponendo. Accettiamo dunque tutte le limitazioni, e l’apparente natura dualistica del modello, e procediamo. Prima ipotesi. Immaginiamo che il Mondo sia composto di tre atomi (1, 2, 3) e che la Mente disponga di tre simboli (A, B, C). I tre atomi mondani potrebbero comporsi in sei modi diversi, ma se ci limitassimo a considerare il Mondo nel suo stato attuale (compresa la sua storia), potremmo supporre che esso sia dotato di una struttura stabile data dalla sequenza 123. Se la conoscenza fosse speculare, e la verità adaequatio rei et intellectus, non ci sarebbe problema. La Mente assegna (non arbitrariamente) all’atomo 1 il simbolo A, all’atomo 2 il simbolo B, all’atomo 3 il simbolo C, e con la tripletta ordinata di simboli ABC rappresenta la struttura del Mondo. Si badi che in tal caso non vi sarebbe bisogno di dire che la mente “interpreta” il Mondo: essa lo rappresenterebbe specularmente. I problemi nascono se l’assegnazione dei simboli agli atomi è arbitraria: la Mente potrebbe anche assegnare, per esempio, A a 3, B a l e C a 2, e per calcolo combinatorio avrebbe sei possibilità di rappresentare fedelmente la stessa struttura 123. Sarebbe come se la Mente disponesse di sei lingue diverse per descrivere sempre lo stesso Mondo, in modo che diverse triplette di simboli enunciassero sempre la stessa proposizione. Se si ammette la possibilità della sinonimia senza residuo, le sei descrizioni sarebbero ancora sei rappresentazioni speculari. Ma già la metafora di sei diverse immagini speculari dello stesso oggetto lascia pensare che o l’oggetto o lo specchio si spostino ogni volta, fornendo sei angolature diverse. A questo punto sarebbe meglio tornare a parlare di sei interpretazioni. Seconda ipotesi. I simboli usati dalla Mente sono in numero minore degli atomi del Mondo. I simboli usati dalla Mente sono sempre tre, ma gli atomi del Mondo sono dieci (1, 2, 3,... 10). Se il Mondo si strutturasse sempre per triplette di atomi, per calcolo fattoriale esso potrebbe raggruppare i suoi dieci atomi in 720 strutture ternarie diverse. La Mente avrebbe allora sei triplette di simboli (ABC, BCA, CAB, ACB, BAC, CBA) per rendere ragione di 720 triplette di atomi. Eventi mondani diversi, da diverse prospettive, potrebbero essere interpretati dagli stessi simboli. Vale a dire che, per esempio, saremmo obbligati a usare sempre la tripletta di simboli ABC per rappresentare vuoi 123, vuoi 345, vuoi 547. Avremmo una imbarazzante sovrabbondanza di

omonimie, e ci troveremmo esattamente nella situazione descritta da Aristotele: da un lato un solo concetto astratto come “uomo” servirebbe a nominare la molteplicità degli individui, dall’altro l’essere si direbbe in molti modi perché lo stesso simbolo starebbe sia per lo è di “un uomo è un animale” (essere secondo la sostanza) che per quello di “quell’uomo è seduto” (essere secondo l’accidente). Il problema non cambierebbe - salvo complicarsi ulteriormente - se il Mondo non fosse ordinato in modo stabile, ma caotico (e fosse capriccioso, evolutivo, inteso a ristrutturarsi nel tempo). Mutando continuamente le strutture delle triplette, il linguaggio della Mente dovrebbe continuamente adeguarsi, sempre per eccesso di omonimie, alle diverse situazioni. Il che parimenti avverrebbe se il mondo fosse un continuum infinitamente segmentabile, una epifania del Frattale. La Mente, più che adeguarsi ai cambiamenti del mondo, ne cambierebbe continuamente l’immagine, via via irrigidendolo in sistemi di stoicheia diversi, a seconda di come vi proietti (quale calco o schema) le sue triplette di simboli. Ma peggio sarebbe se il Mondo fosse iperstrutturato, se cioè esso fosse organizzato secondo una struttura unica data da una particolare sequenza di dieci atomi. Per calcolo combinatorio, il Mondo potrebbe organizzarsi in 3.628.800 combinazioni o decuple diverse (non pensiamo neppure a un mondo che si riassesta per iperstrutturazioni successive, che cioè mutasse l’arrangiamento delle sequenze a ogni attimo, o ogni diecimila anni). Anche nel caso che il Mondo avesse struttura fissa (e cioè fosse organizzato in un’unica decupla) la Mente avrebbe pur sempre solo sei triplette di simboli per descriverlo. Potrebbe tentare di descriverlo solo a un pezzo alla volta, come se lo guardasse dal buco della serratura, e non avrebbe mai la possibilità di descriverlo nella sua completezza. Il che sembra molto simile a quello che ci accade e che ci è accaduto nel corso dei millenni. Terza ipotesi. La Mente ha più elementi del Mondo. La mente dispone di dieci simboli (A, B, C, D, E, F, G, H, I, L) e il Mondo di soli tre atomi (1, 2, 3). Non solo, ma la Mente può combinare questi dieci simboli in duple, triplette, quadruple, e così via. Come a dire che la struttura cerebrale avrebbe più neuroni e più possibilità di combinazione tra neuroni di quanto sia il numero degli atomi e delle loro combinazioni identificabili nel Mondo. È evidente che questa ipotesi dovrebbe essere subito abbandonata, perché contrasta con

l’assunzione iniziale che anche la Mente sia parte del Mondo. Una Mente così complessa, che fosse parte del Mondo, dovrebbe considerare anche i propri dieci simboli come stoicheia mondani. Per permettere l’ipotesi, la Mente dovrebbe uscire dal Mondo: sarebbe una sorta di divinità molto pensante che deve render ragione di un mondo poverissimo, che oltretutto non conosce, perché è stato rabberciato da un Demiurgo privo di fantasia. Però potremmo anche pensare a un Mondo che in qualche modo secerne più res cogitans che res extensa, che cioè abbia prodotto un numero assai ridotto di strutture materiali, usando pochi atomi, e ne tenga in riserva altri per usarli solo quali simboli della Mente. In ogni caso, vale la pena di intrattenere questa terza ipotesi perché serve a gettare una certa luce sulla quarta. Ne conseguirebbe che la Mente avrebbe un numero astronomico di combinazioni di simboli per rappresentare una struttura mondana 123 (o al massimo le sue sei possibili combinazioni), sempre da un punto di vista diverso. La Mente potrebbe per esempio rappresentare 123 mediante 3.628.800 decuple, ciascuna delle quali non intendesse solo rendere conto di 123 ma anche dell’ora e del giorno in cui viene rappresentato, dello stato interno della Mente stessa in quel momento, delle intenzioni e dei fini secondo cui la Mente lo rappresenta (ammesso che questa Mente così ricca avesse anche intenzioni e fini). Ci sarebbe un eccesso di pensiero rispetto alla semplicità del mondo, avremmo una abbondanza di sinonimi, oppure la riserva di rappresentazioni possibili eccederebbe il numero delle possibili strutture esistenti. E forse avviene così, visto che possiamo mentire e costruire mondi fantastici, immaginare e prevedere stati di cose alternativi. In tal caso la Mente potrebbe benissimo rappresentare anche i vari modi in cui essa è nel Mondo. Tale Mente potrebbe scrivere la Divina Commedia anche se non esistesse al Mondo la struttura infundibolare dell’Inferno, o costruire geometrie che non trovano riscontro nell’ordine materiale del Mondo. Potrebbe persino porsi il problema della definizione dell’essere, duplicare enti ed essere, formulare la domanda perché ci sia qualcosa piuttosto che nulla - visto che di questo qualcosa potrebbe parlare in molti modi - senza mai essere sicura di dirlo nel modo giusto. Quarta ipotesi. La Mente ha dieci simboli, quanti sono gli atomi del mondo, e sia Mente che Mondo possono combinare i loro elementi, come nella terza ipotesi, in duple, triplette, quadruple... decuple. La

Mente avrebbe allora un numero astronomico di enunciati a disposizione per descrivere un numero astronomico di strutture mondane, con tutte le possibilità sinonimiche che ne derivano. Non solo, ma la Mente potrebbe anche (data la abbondanza di combinazioni mondane non ancora realizzate) progettare modificazioni del Mondo, così come potrebbe essere presa continuamente di sorpresa da combinazioni mondane che non aveva ancora previsto; inoltre avrebbe molto da fare per spiegare in modi diversi come essa funziona. Ci sarebbe non un eccesso di pensiero rispetto alla semplicità del mondo, come nella terza ipotesi, bensì una sorta di sfida continua tra contendenti che si combattono ad armi potenzialmente pari, ma di fatto cambiando d’arma a ogni attacco, mettendo in imbarazzo l’avversario. La Mente affronterebbe il Mondo con un eccesso di prospettive, il Mondo eluderebbe le trappole della Mente cambiando di continuo le carte in tavola (tra cui quelle della Mente stessa). Ancora una volta, tutto questo sembra molto simile a qualcosa che ci è accaduto e che ci accade.

1.9. Di un possibile dileguamento dell’essere Abbandoniamo ora il nostro modello, poiché esso si è trasformato nel ritratto (realistico) del nostro essere gettati nell’essere, e ci ha confermato che l’essere altro non può essere che ciò che si dice in molti modi. Abbiamo compreso che, comunque stiano le cose (ma persino l’idea stessa che le cose stiano in qualche modo potrebbe essere messa in dubbio), ogni enunciato su ciò che è, e su ciò che potrebbe essere, implica una scelta, una prospettiva, un’angolatura. Ogni tentativo di dire qualcosa su ciò che è sarebbe soggetto a revisione, a nuove congetture sulla convenienza di usare l’una o l’altra immagine, o schema. Molte delle nostre pretese rappresentazioni sarebbero forse incompatibili tra loro, ma potrebbero tutte dire una loro verità. Non si direbbe che non possiamo avere alcuna conoscenza vera, caso mai si sosterrebbe che di conoscenze vere ne abbiamo in eccesso. Alcuni sono pronti a obiettare che tra dire che non vi è alcuna verità e dire che ve ne sono molte (fosse anche soltanto una semplicissima doppia verità) non ci sia alcuna differenza. Ma si potrebbe parimenti obiettare che questo eccesso di verità è transitorio, è effetto del nostro

procedere a tentoni, indica tra tentativi ed erranze un limite oltre il quale queste prospettive diverse (tutte parzialmente vere) si potrebbero un giorno comporre in sistema; e che in fondo il nostro rinnovarsi continuo della domanda sulla verità dipende proprio da questo eccesso... Può darsi che, nel nostro linguaggio, di essere ve ne sia in sovrabbondanza. Forse quando lo scienziato dice che le ipotesi vanno non verificate ma anzitutto falsificate, vuol dire che per conoscere bisogna potare l’eccesso di essere che il linguaggio può affermare. In ogni caso, sarebbe accettabilissima l’idea che le descrizioni che forniamo del mondo siano sempre prospettiche, legate al modo in cui siamo biologicamente, etnicamente, psicologicamente e culturalmente radicati nell’orizzonte dell’essere. Queste caratteristiche non impedirebbero ai nostri discorsi di adeguare il mondo, almeno da una certa prospettiva, senza che per questo ci sentiamo appagati dalla quota di adeguazione ottenuta, così da essere indotti a non ritenere mai che le nostre risposte, anche quando appaiono tutto sommato “buone”, debbano essere ritenute definitive. Ma il problema non è come venire a patti col fatto che dell’essere si possa parlare in molti modi. È che, una volta individuato il meccanismo profondo della pluralità delle risposte, si arriva alla questione finale, divenuta centrale nel mondo detto post-moderno: se infinite, o almeno astronomicamente indefinite, sono le prospettive sull’essere, significa questo che una vale l’altra, che tutte sono egualmente buone, che ogni affermazione su ciò che è dice qualcosa di vero, o che - come ha detto Feyerabend per le teorie scientifiche - anything goes? Questo vorrebbe dire che la verità finale stia oltre i limiti del modello logocentrico occidentale, sfugga ai principi d’identità, di non contraddizione e del terzo escluso, che l’essere coincida proprio col caleidoscopio di verità che formuliamo cercando di nominarlo, che non vi è significato trascendentale, che l’essere è lo stesso processo di decostruzione continua in cui parlandone lo rendiamo sempre più fluido, malleabile, sfuggevole o - come una volta ha detto Gianni Vattimo con efficace espressione piemontese - “camolato”, e cioè tarlato e friabile; oppure rizomatico, nodo di snodi ripercorribili secondo opzioni diverse all’infinito, labirinto. Ma non c’è bisogno di arrivare a Feyerabend, o alla perdita del significato trascendentale, o al pensiero debole. Ascoltiamo Nietzsche,

non ancora trentenne, in Su verità e menzogna in senso extra-morale (Nietzsche 1873: 355-372). Poiché la natura ha gettato via la chiave, l’intelletto gioca su finzioni che chiama verità, o sistema dei concetti, basato sulla legislazione del linguaggio. La prima reazione di Nietzsche è quasi, direi, humeana, la seconda più decisamente scettica (perché designiamo le cose in base a selezioni arbitrarie di proprietà?), la terza prelude all’ipotesi Sapir-Whorf (lingue diverse organizzano l’esperienza in modo diverso), la quarta kantiana (la cosa in sé è inafferrabile da chi costruisce il linguaggio): noi crediamo di parlare di (e conoscere) alberi, colori, neve e fiori, ma sono metafore che non corrispondono alle essenze originarie. Ogni parola diventa concetto sbiadendo nella sua pallida universalità le differenze tra cose fondamentalmente disuguali: così pensiamo che a fronte della molteplicità delle foglie individue esista una “foglia” primordiale “sul modello della quale sarebbero tessute, disegnate, circoscritte, colorate, increspate, dipinte - ma da mani maldestre - tutte le foglie, in modo tale che nessun esemplare risulterebbe corretto e attendibile in quanto copia fedele della forma originale” (ib.: 360). Ci costa fatica ammettere che l’uccello o l’insetto percepiscono il mondo in un modo diverso dal nostro, e non ha senso neppure dire quale delle percezioni sia la più giusta, perché occorrerebbe quel criterio di “percezione esatta” che non esiste (ib.: 365), perché “la natura non conosce invece nessuna forma e nessun concetto, e quindi neppure alcun genere, ma soltanto una x, per noi inattingibile e indefinibile” (ib.: 361). Dunque un kantismo, ma senza fondazione trascendentale e senza neppure critica del giudizio. Al massimo, dopo aver affermato che la nostra antitesi tra individuo e genere è solo effetto antropomorfico e non sgorga dall’essenza delle cose, la correzione, più scettica dello scetticismo che tenta di correggere, suona: “non osiamo dire che tale antitesi corrisponde a tale essenza. Questa sarebbe infatti un’asserzione dogmatica, e come tale altrettanto indimostrabile quanto la sua contraria” (ib.: 361). Si deve allora decidere che cosa sia la verità. E lo si dice, metaforicamente, certo, ma da parte di chi ci sta appunto dicendo che si conosce qualcosa solo per libera e inventiva metafora. La verità è appunto “un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi” elaborati poeticamente, e che poi si sono irrigiditi in sapere, “illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria”, monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione solo come metallo,

così che ci abituiamo a mentire secondo convenzione, in uno stile vincolante per tutti, ponendo il nostro agire sotto il controllo delle astrazioni, avendo sminuito le metafore in schemi e concetti.E di lì un ordine piramidale di caste e gradi, leggi e delimitazioni, interamente costruito dal linguaggio, un immenso “colombaio romano”, cimitero delle intuizioni. Che questo sia un ottimo ritratto di come l’edificio del linguaggio irreggimenti il paesaggio degli enti, o forse un essere che rifiuta a essere irrigidito in sistemi categoriali, è innegabile. Ma rimangono assenti, anche dai brani che seguono, due domande: se adeguandoci alle costrizioni di questo colombaio si riesce in qualche modo a fare i conti col mondo (che non sarebbe osservazione da nulla); e se non avvenga che ogni tanto il mondo ci costringa a ristrutturare il colombaio, o addirittura a scegliere una forma alternativa al colombaio (che è poi il problema della rivoluzione dei paradigmi conoscitivi). Nietzsche, che in fondo ci provvede l’immagine di uno dei modi di rendere conto del mondo che avevo delineato nel paragrafo precedente, non sembra chiedersi se di forme possibili del mondo ve ne siano molte. Il suo è il ritratto di un sistema olistico dove nessun nuovo giudizio fattuale può intervenire a mettere in crisi il sistema. Ovvero, a dir la verità (testuale), egli avverte l’esistenza di costrizioni naturali e conosce un modo del cambiamento. Le costrizioni gli appaiono come “forze terribili” che premono continuamente su di noi, contrapponendo alle verità “scientifiche” altre verità di natura diversa; ma evidentemente rifiuta di riconoscerle concettualizzandole a loro volta, visto che è stato per sfuggire ad esse che ci siamo costruiti, quale difesa, l’armatura concettuale. Il cambiamento è possibile, ma non come ristrutturazione, bensì come rivoluzione poetica permanente: “Se ciascuno di noi, per sé, avesse una differente sensazione, se noi stessi potessimo percepire ora come uccelli, ora come vermi, ora come piante, oppure se uno di noi vedesse il medesimo stimolo come rosso e un altro lo vedesse come azzurro, se un terzo udisse addirittura tale stimolo come suono, nessuno potrebbe allora parlare di una tale regolarità della natura” (ib.: 366-367). Bella coincidenza, queste righe vengono scritte due anni dopo che Rimbaud, nella lettera a Demeny, aveva proclamato che “le Poète se fait voyant par un long, immense et raisonné dérèglement de tous les sens”, e nello stesso periodo vedeva

“A, noir corset velu de mouches éclatantes” e “O, suprème Clairon plein des strideurs étranges”. Così infatti per Nietzsche l’arte (e con essa il mito) “confonde continuamente le rubriche e gli scomparti dei concetti, presentando nuove trasposizioni, metafore, metonimie; continuamente svela il desiderio di dare al mondo sussistente dell’uomo desto una figura così variopinta, irregolare, priva di conseguenze, incoerente, eccitante ed eternamente nuova, quale è data dal mondo del sogno” (ib.: 369). Un sogno fatto di alberi che nascondono ninfe, e di dèi in forma di toro che trascinano vergini. Ma qui manca la decisione finale. O si accetta che quello che ci attornia, e il modo in cui abbiamo cercato di ordinarlo, sia invivibile, e lo si rifiuta, scegliendo il sogno come fuga dalla realtà, e si cita Pascal, per cui basterebbe sognare davvero tutte le notti di essere re, per essere felice, ma è Nietzsche stesso ad ammettere (ib.: 370) che si tratterebbe d’inganno, anche se supremamente giocondo, e che non reca danno; e sarebbe il dominio dell’arte sulla vita. Oppure, ed è quello che la posterità nicciana ha accolto come vera lezione, l’arte può dire quello che dice perché è l’essere stesso, nella sua languida debolezza e generosità, che accetta anche questa definizione, e gode nel vedersi visto come mutevole, sognatore, estenuatamente vigoroso e vittoriosamente debole. Però, nello stesso tempo, non più come “pienezza, presenza, fondamento, ma pensato invece come frattura, assenza di fondamento, in definitiva travaglio e dolore” (Vattimo 1980: 84). L’essere allora può essere parlato solo in quanto è in declino, non s’impone ma si dilegua. Siamo allora a una “ontologia retta da categorie ‘deboli’” (Vattimo 1980: 9). L’annuncio nicciano della morte di Dio altro non sarà che l’affermazione della fine della struttura stabile dell’essere (Vattimo 1983: 21). L’essere si darà solo “come sospensione e come sottrarsi” (Vattimo 1994: 18). In altre parole: una volta accettato il principio che dell’essere si parla solo in molti modi, che cosa è che ci impedisce di credere che tutte le prospettive siano buone, e che quindi non solo l’essere ci appaia come effetto di linguaggio ma sia radicalmente e altro non sia che effetto di linguaggio, e proprio di quella forma di linguaggio che si può concedere i maggiori sregolamenti, il linguaggio del mito o della poesia? L’essere allora, oltre che “camolato”, malleabile, debole, sarebbe puro flatus vocis. A questo punto esso sarebbe davvero opera

dei Poeti, intesi come fantasticatori, mentitori, imitatori del nulla, capaci di porre irresponsabilmente una cervice equina su un corpo umano, e far d’ogni ente una Chimera. Decisione per nulla confortante, visto che, una volta regolati i conti con l’essere, ci ritroveremmo a doverli fare con il soggetto che emette questo flatus vocis (che è poi il limite di ogni idealismo magico). Non solo. Se è principio ermeneutico che non ci sono fatti ma solo interpretazioni, questo non esclude che ci si possa domandare se non ci siano per caso interpretazioni “cattive”. Perché dire che non ci sono fatti ma solo interpretazioni significa certo dire che quelli che ci appaiono come fatti sono effetto d’interpretazione, ma non che ogni interpretazione possibile produca qualcosa che, alla luce di interpretazioni successive, siamo obbligati a considerare come se fosse un fatto. Cioè dire che ogni figura vincente del poker è costruita da una scelta (magari incoraggiata dal caso) del giocatore non significa dire che ogni figura proposta dal giocatore sia vincente. Basterebbe che al mio tris d’assi l’altro opponesse una scala reale, e la mia scommessa si sarebbe dimostrata fallace. Ci sono nella nostra partita con l’essere dei momenti in cui Qualcosa risponde con una scala reale al nostro tris d’assi? Il vero problema di ogni argomentazione “decostruttiva” del concetto classico di verità non è di dimostrare che il paradigma in base al quale ragioniamo potrebbe essere fallace. Su questo pare che siano d’accordo tutti, ormai. Il mondo quale ce lo rappresentiamo è un effetto d’interpretazione. Il problema è piuttosto quali siano le garanzie che ci autorizzano a tentare un nuovo paradigma che gli altri non debbano riconoscere come delirio, pura immaginazione dell’impossibile. Quale è il criterio che ci permette di distinguere tra sogno, invenzione poetica, trip da acido lisergico (perché esistono pure persone che dopo averlo assunto si gettano dalla finestra convinti di volare, e si spiaccicano al suolo - e badiamo, contro i propri propositi e speranze), e affermazioni accettabili sulle cose del mondo fisico o storico che ci circonda? Poniamo pure, con Vattimo (1994: 100), una differenza tra epistemologia, che è “la costruzione di corpi di sapere rigorosi e la soluzione di problemi alla luce di paradigmi che dettano le regole per la verifica delle proposizioni” (e ciò sembra corrispondere al ritratto che Nietzsche dà dell’universo concettuale di una data cultura) ed ermeneutica come “l’attività che si dispiega nell’incontro con orizzonti

paradigmatici diversi, che non si lasciano valutare in base a una qualche conformità (a regole o, da ultimo, alla cosa), ma si danno come proposte ‘poetiche’ di mondi altri, di istituzione di regole nuove”. Quale regola nuova la Comunità deve preferire, e quale altra condannare come follia? Vi sono pur sempre, e sempre ancora, coloro che vogliono dimostrare che la terra è quadra, o che viviamo non all’esterno bensì all’interno della sua crosta, o che le statue piangono, o che si possono flettere forchette per televisione, o che la scimmia discende dall’uomo - e a essere flessibilmente onesti e non dogmatici bisogna pure trovare un criterio pubblico onde giudicare se le loro idee siano in qualche modo accettabili. In un dibattito svoltosi nel 1990 (ora in Eco 1992), a proposito dell’esistenza o meno di criteri d’interpretazione testuali, Richard Rorty - allargando il discorso a criteri d’interpretazione di cose che stanno nel mondo - contestava che l’uso che si fa di un cacciavite per avvitare le viti sia imposto dall’oggetto stesso, mentre l’uso che se ne fa per aprire un pacco sia imposto dalla nostra soggettività (egli stava discutendo la mia distinzione tra interpretazione e uso di un testo, cfr. Eco 1979). Nel dibattito orale Rorty alludeva anche al diritto che avremmo d’interpretare un cacciavite come qualcosa di utile per grattarci un orecchio. Questo spiega la mia risposta, che è rimasta anche nella versione a stampa del dibattito, senza che io sapessi che nell’intervento consegnato da Rorty all’editore l’allusione alla grattata d’orecchio era scomparsa. Evidentemente Rorty l’aveva intesa come semplice boutade, inserita a braccio durante l’intervento orale, e quindi mi astengo di attribuirgli questo esempio non più documentato. Ma se non lui, qualcun altro potrebbe usarlo (coi tempi che corrono) e quindi la mia contro-obiezione rimane valida. Anzi, la riconfermo alla luce di quella nozione di pertinenza, di affordances percettive di cui parlo in 3.4.7. Un cacciavite può servire anche per aprire un pacco (visto che è strumento con una punta tagliente, facilmente manovrabile per far forza contro qualcosa di resistente); ma non è consigliabile per frugarsi dentro l’orecchio, perché è appunto tagliente, e troppo lungo perché la mano possa controllarne l’azione per una operazione così delicata; per cui sarà meglio usare un bastoncino leggero che rechi in cima un batuffolo di cotone. Basta immaginare un mondo possibile in cui esistano solo una mano, un cacciavite, un orecchio (e al massimo un pacco e una vite), ed ecco

che l’argomento acquista tutta la sua valenza ontologica: c’è qualcosa nella conformazione sia del mio corpo sia del cacciavite che non mi permette di interpretare quest’ultimo a capriccio. Allora, e per uscire da questo intrico: esiste uno zoccolo duro dell’essere, tale che alcune cose che diciamo su di esso e per esso non possano e non debbano essere prese per buone (e se son dette dai Poeti siano prese per buone solo in quanto riferite a un mondo possibile ma non al mondo dei fatti reali)?

1.10. Le Resistenze dell’essere Come al solito, le metafore sono efficaci ma rischiose. Parlando di “zoccolo duro” non penso a qualcosa di solido e tangibile, come se fosse un “nocciolo” che, mordendo l’essere, potremmo un giorno mettere a nudo. Quello di cui parlo non è la Legge delle leggi. Cerchiamo piuttosto d’individuare delle linee di resistenza, magari mobili, vaganti, che producono un ingripparsi del discorso, così che pur nell’assenza di ogni regola precedente sorga, nel discorso, il fantasma, il sospetto di un anacoluto, o il blocco di un’afasia. Che l’essere ponga dei limiti al discorso mediante il quale ci stabiliamo nel suo orizzonte non è la negazione dell’attività ermeneutica: ne è piuttosto la condizione. Se assumessimo che dell’essere si può dire tutto non avrebbe più senso l’avventura della sua interrogazione continua. Basterebbe parlarne a caso. L’interrogazione continua appare ragionevole e umana proprio perché si assume che ci sia un Limite. Non si può che consentire con Heidegger: il problema dell’essere si pone solo a chi è stato gettato nell’Esserci, nel Dasein - di cui fa parte la nostra disposizione ad avvertire che qualcosa c’è, e a parlarne. E nel nostro Esserci noi abbiamo la fondamentale esperienza di un Limite che il linguaggio può dire anticipatamente (e dunque soltanto predire) in un solo modo, e oltre il quale sfuma nel silenzio: è l’esperienza della Morte. Siamo indotti a postulare che l’essere, almeno per noi, ponga dei limiti perché viviamo, oltre che nell’orizzonte degli enti, anche nell’orizzonte di quel limite che è l’essere-per-la-morte. Dell’essere, o non parliamo, folgorati dalla sua presenza, oppure, appena ne parliamo,

tra le prime affermazioni che ci abituiamo a considerare come modello di ogni premessa sicura, sta “tutti gli uomini sono mortali”. Di questo ben presto i nostri maggiori c’informano quando, pervenuti a parlare, formuliamo i primi “perché”. Siccome parliamo dell’essere sapendo che almeno un limite c’è, non possiamo che proseguire la nostra interrogazione per vedere se, per caso, ve ne siano altri ancora. Così come non ci fidiamo di chi ci ha mentito almeno una volta, non crediamo alla promessa dell’illimitato di chi ci si è presentato subito opponendoci un limite. E, come proseguiamo il discorso, altri limiti scopriamo ben presto nell’orizzonte degli enti che abbiamo nominato. Apprendiamo per esperienza che la natura sembra presentare tendenze stabili. Non è necessario pensare a leggi oscure e complesse, come quelle della gravitazione universale, ma a esperienze più semplici e immediate, come il calare e il sorgere del sole, la gravità, l’esistenza oggettiva delle specie. Gli universali saranno anche figmento e infermità del pensiero, ma una volta identificati come specie un cane e un gatto, apprendiamo subito che se uniamo un cane con un cane ne nasce un cane, ma se uniamo un cane con un gatto non ne nasce nulla - e se pur nascesse sarebbe incapace di riprodursi. Questo non significa ancora che si è data in atto una certa realtà (vorrei dire “darwiniana”) dei generi e delle specie. Vuole solo suggerire che parlare per generalia sarà pure effetto della nostra penuria nominum, ma che a inventare termini generali (la cui estensione possiamo sempre rivedere e correggere) qualcosa di resistente ci ha spinto. Non vale l’obiezione che la biotecnologia potrebbe un giorno rendere obsolete queste linee di tendenza: il fatto che per violarle occorra una tecnologia (che per definizione altera i limiti naturali), significa che i limiti naturali ci sono. Di un’altra regione dell’essere fanno parte i Mondi Possibili. Nell’orizzonte ambiguo dell’essere le cose potrebbero essere andate diversamente, e nulla esclude che vi possa essere un mondo dove non vi siano questi confini tra le specie, dove i confini siano altri o addirittura non ci siano - un mondo dove cioè non esistano generi naturali, e dove dall’incrocio di un cammello con una locomotiva possa nascere una radice quadrata. Tuttavia, se posso anche pensare un mondo possibile in cui valgano solo geometrie non-euclidee, l’unico modo che ho di pensare a una geometria non-euclidea è di fissarne le regole, e quindi i limiti.

1.11. Il senso del ‘continuum’ È possibile che esistano anche regioni dell’essere di cui non siamo in grado di parlare. Pare strano, visto che l’essere si manifesta sempre e soltanto nel linguaggio, ma diamolo per concesso - visto che nulla vieta che un giorno l’umanità possa elaborare linguaggi diversi da quelli noti. Atteniamoci però a quelle “regioni” dell’essere di cui di solito parliamo, e affrontiamo questo nostro parlare alla luce non di una metafisica, ma di una semiotica, quella di Hjelmslev. Noi usiamo segni come espressioni per esprimere un contenuto, e questo contenuto viene ritagliato e organizzato in forme diverse da culture (e lingue) diverse. Su e da che cosa viene ritagliato? Da una pasta amorfa, amorfa prima che il linguaggio vi abbia operato le sue vivisezioni, che chiameremo il continuum del contenuto, tutto l’esperibile, il dicibile, il pensabile - se volete, l’orizzonte infinito di ciò che è, è stato e sarà, sia per necessità che per contingenza. Parrebbe che, prima che una cultura non l’abbia linguisticamente organizzato in forma del contenuto, questo continuum sia tutto e nulla, e sfugga quindi a ogni determinazione. Tuttavia ha sempre imbarazzato studiosi e traduttori il fatto che Hjelmslev lo chiamasse in danese mening, che è inevitabile tradurre con “senso” (non necessariamente nel senso di “significato” ma nel senso di “direzione”, nello stesso senso in cui in una città esistono sensi permessi e sensi vietati). Che cosa significa che ci sia del senso, prima di ogni articolazione sensata operata dalla conoscenza umana? Hjelmslev lascia a un certo momento capire che dipende dal “senso” il fatto che espressioni diverse come piove, il pleut, it rains, si riferiscano tutte allo stesso fenomeno. Come a dire che nel magma del continuum ci sono delle linee di resistenza e delle possibilità di flusso, come delle nervature del legno o del marmo che rendano più agevole tagliare in una direzione piuttosto che nell’altra. È come per il bue o il vitello: in civiltà diverse viene tagliato in modi diversi, per cui il nome di certi piatti non è sempre facilmente traducibile da una lingua all’altra. Eppure sarebbe molto difficile concepire un taglio che offrisse nello stesso momento l’estremità del muso e la coda. Se il continuum ha delle linee di tendenza, per impreviste e misteriose che siano, non si può dire tutto quello che si vuole. L’essere

può non avere un senso, ma ha dei sensi; forse non dei sensi obbligati, ma certo dei sensi vietati. Ci sono delle cose che non si possono dire. Non importa che queste cose siano state dette un tempo. In seguito abbiamo per così dire “sbattuto la testa” contro qualche evidenza che ci ha convinto che non si poteva più dire quello che si era detto prima. C’è da evitare un fraintendimento. Quando si parla dell’esperienza di qualcosa che ci obbliga a riconoscere delle linee di tendenza e di resistenza, e a formulare leggi, non si pretende affatto di dire che queste leggi rappresentino adeguatamente le linee di resistenza. Come a dire che, se lungo il sentiero che percorro nel bosco, trovo un masso che mi ostruisce il cammino, certo dovrò voltare a destra o a sinistra (o decidermi a tornare indietro), ma ciò non mi rassicura affatto che la decisione presa mi aiuti a conoscere meglio il bosco. Semplicemente l’incidente interrompe un mio progetto e mi induce a escogitarne un altro. Affermare che ci siano delle linee di resistenza non significa ancora dire, con Peirce, che ci siano leggi universali operative in natura. L’ipotesi delle leggi universali (o l’ipotesi di una legge specifica) è solo uno dei modi in cui si reagisce all’insorgere di una resistenza. Ma Habermas, nel cercare il nocciolo della critica di Peirce alla cosa in sé kantiana, sottolinea che il problema peirceano non è di dire che qualcosa (nascosto dietro alle apparenze che vorrebbero rispecchiarlo) ha, come lo specchio, un lato posteriore che sfugge alla riflessione, un lato che siamo quasi sicuri, un giorno, di scoprire, purché riusciamo ad aggirare la figura che vediamo: è che la realtà impone restrizioni alla nostra conoscenza solo nel senso che rifiuta interpretazioni false (Habermas 1995: 251). Affermare che ci siano linee di resistenza vuole soltanto dire che, anche se appare come effetto di linguaggio, l’essere non lo è nel senso che il linguaggio liberamente lo costruisce. Anche chi affermasse che l’essere è puro Caos, e quindi suscettibile di ogni discorso, dovrebbe per lo meno escludere che esso sia Ordine duro. Il linguaggio non costruisce l’essere ex novo: lo interroga, trovando sempre e in qualche modo qualcosa di già dato (anche se essere già dato non significa essere già finito e completo). Anche se l’essere fosse tarlato, ci sarebbe pur sempre un tessuto la cui trama e l’ordito, confusi dagli infiniti buchi che lo hanno smangiato, in qualche modo ostinato sussistono. Questo già dato sono appunto le linee di resistenza. L’apparizione di queste Resistenze è la cosa più vicina che si possa trovare, prima di

ogni Filosofia Prima o Teologia, alla idea di Dio o di Legge. Certamente è un Dio che si presenta (se e quando si presenta) come pura Negatività, puro Limite, puro “No”, ciò di cui il linguaggio non deve o non può parlare. In tal senso è qualcosa di molto diverso dal Dio delle religioni rivelate, oppure di esso assume solo i tratti più severi, di esclusivo Signore dell’Interdizione, incapace di dire persino “crescete e moltiplicatevi”, ma soltanto inteso a ripetere “tu non mangerai di quest’albero”. D’altra parte qualcosa resiste persino al Dio delle religioni rivelate. Persino Dio prescrive dei limiti a se stesso. Ricordiamo la Quaestio Quodlibetalis in cui san Tommaso si chiede utrum Deus possit reparare virginis ruinam, e cioè se Dio possa ovviare al fatto che una vergine abbia perso la propria verginità. La risposta di Tommaso è chiara: se la domanda riguarda questioni spirituali, Dio può certamente riparare al peccato commesso e restituire alla peccatrice lo stato di grazia; se riguarda questioni fisiche, Dio può con un miracolo ricostituire l’integrità fisica della fanciulla; ma se la questione è logica e cosmologica, ebbene, neppure Dio può fare che ciò che è stato non sia stato. Lasciamo da decidere se questa necessità sia stata posta liberamente da Dio o faccia parte della stessa natura divina. In ogni caso, dal momento che c’è, anche il Dio di Tommaso ne è limitato.

1.12. Conclusioni in positivo Dopo aver detto che il nulla e la negazione sono puro effetto di linguaggio, e che l’essere si presenta sempre in positivo, si potrebbe chiedere se non sia contraddittorio parlare per esso di limiti e capacità di opporre rifiuti. Correggiamo allora un’altra metafora, che ci è apparsa così comoda per ragioni retoriche, per “mettere sotto gli occhi” ciò che si voleva suggerire. L’essere ci oppone dei “no” nello stesso modo in cui ce li oppone una tartaruga a cui chiedessimo di volare. Non è che la tartaruga avverta di non poter volare. È l’uccello che vola, a modo proprio sa di volare, e non concepisce di non poter volare. La tartaruga procede nel suo cammino terrestre, in positivo, e non conosce la condizione di non essere tartaruga. Certo, anche l’animale incontra ostacoli che sente come limite, e pare affannarsi a rimuoverli; si pensi al cane che gratta abbaiando la porta

chiusa mordendone il pomello. Ma in tali casi l’animale si sta già approssimando a una condizione simile alla nostra, manifesta desideri e propositi, ed è rispetto ad essi che il limite si pone come tale. Una porta chiusa in sé non è un “no”, anzi potrebbe essere un “sì” per chi cerca, dal dentro, riservatezza e protezione. Diventa un “no” solo per il cane che progetta di varcarne la soglia. Siamo noi, visto che la Mente può dare anche rappresentazioni immaginarie di mondi impossibili, che chiediamo alle cose di essere quello che non sono e, quando esse continuano a essere quello che sono, pensiamo che ci rispondano di no, e ci oppongano un limite. Siamo noi che pensiamo che la nostra gamba (articolandosi sul ginocchio) possa disegnare alcuni angoli, da centottanta a quarantacinque gradi, ma non possa disegnare un angolo di trecentosessanta gradi. La gamba - per quel tanto che una gamba “sa” non avverte limiti, avverte solo possibilità. La stessa morte appare come limite a noi, che capricciosamente vorremmo vivere ancora, ma per l’organismo arriva quando le cose vanno esattamente come debbono andare. L’essere non ci dice mai “no”, se non per nostra metafora. Semplicemente, di fronte a una nostra domanda esigente, non dà la risposta che avremmo desiderato. Ma il limite è nel nostro desiderio, nel nostro tendere a una libertà assoluta.14 Certo che, di fronte a queste resistenze, il linguaggio dei Poeti sembra porsi in una zona franca. Mentitori per vocazione, più che coloro che dicono come l’essere è, essi sembrano essere coloro che non solo ne celebrano la necessità, ma spesso si (e ci) concedono di negarne le resistenze - perché per essi le tartarughe possono volare, e persino possono apparire esseri che si sottraggono alla morte. Ma il loro discorso, dicendoci talora che sono possibili anche gli impossibilia, ci mette di fronte alla smoderatezza del nostro desiderio, e nel farci intravedere ciò che potrebbe esserci oltre il limite, da un lato ci consolano della nostra finitezza, dall’altro ci ricordano quanto spesso siamo una “passione inutile”. Anche quando si rifiutano di accettare le resistenze dell’essere, nel negarle ce le ricordano. Anche quando soffrono di scoprirle, ci lasciano pensare che forse le abbiamo individuate (e ipostatizzate in leggi) troppo presto - che forse potrebbero essere ancora aggirate.

In verità quello che essi ci dicono è che bisogna andare incontro all’essere con gaiezza (e può essere “gaja scienza” anche quella di Leopardi), interrogarlo, saggiarne le resistenze, coglierne le aperture, gli accenni mai troppo espliciti. Il resto è congettura.

2. KANT, PEIRCE E L’ORNITORINCO

2.1. Marco Polo e l’unicorno Spesso, di fronte al fenomeno sconosciuto, si reagisce per approssimazione: si cerca quel ritaglio di contenuto, già presente nella nostra enciclopedia, che bene o male sembra rendere ragione del fatto nuovo. Un esempio classico di questo procedimento lo troviamo in Marco Polo, che a Giava vede (lo comprendiamo noi ora) dei rinoceronti. Ma si tratta di animali che lui non ha mai visto, salvo che, per analogia con altri animali noti, ne distingue il corpo, le quattro zampe, e il corno. Siccome la sua cultura gli metteva a disposizione la nozione di unicorno, come appunto di quadrupede con un corno sul muso, egli designa quegli animali come unicorni. Poi, siccome è cronista onesto e puntiglioso, si affretta a dirci che però questi unicorni sono abbastanza strani, vorremmo dire poco specifici, dato che non sono bianchi e snelli ma hanno “pelo di bufali e piedi come leonfanti”, il corno è nero e sgraziato, la lingua spinosa, la testa simile a quella di un cinghiale: “Ella è molto laida bestia a vedere. Non è, come si dice di qua, ch’ella si lasci prendere alla pulcella, ma è il contrario” (Milione 143). Marco Polo sembra prendere una decisione: anziché risegmentare il contenuto aggiungendo un nuovo animale all’universo dei viventi, corregge la descrizione vigente degli unicorni che, se ci sono, sono dunque come egli li ha visti e non come la leggenda racconta. Modifica l’intensione lasciando impregiudicata l’estensione. O almeno così pare che intendesse fare - o che di fatto egli faccia, senza troppe preoccupazioni tassonomiche.1 Ma che cosa sarebbe successo se Polo, anziché in Cina, se pervenuto in Australia, e lungo un corso d’acqua avesse scorto un ornitorinco? L’ornitorinco è uno strano animale, che pare concepito per sfidare ogni classificazione, vuoi scientifica vuoi popolare: lungo in media una cinquantina di centimetri, due chili all’ingrosso, ha il corpo piatto coperto di pelame marrone scuro, non ha collo, e ha una coda da castoro; ha becco d’anatra, di colore bluastro di sopra e rosa o screziato di sotto, non ha padiglioni auricolari, le quattro zampe terminano con cinque dita palmate, ma con artigli; sta sott’acqua abbastanza (e vi

mangia) per considerarlo un pesce o un anfibio, la femmina depone uova, però allatta i propri piccoli, anche se non si vede alcun capezzolo (del resto, nel maschio non si vedono neppure i testicoli, che sono interni). Non stiamo chiedendo se Marco Polo avrebbe riconosciuto l’animale come un mammifero o un anfibio, ma certo avrebbe dovuto chiedersi se quello che vedeva (posto che fosse un animale e non una illusione dei sensi, o una creatura degli inferi) fosse un castoro, un’anatra, un pesce, e in ogni caso se fosse uccello, animale marino o terrestre. Un bell’impiccio, da cui non poteva trarlo la nozione d’unicorno, e al massimo avrebbe fatto ricorso all’idea di Chimera. Nello stesso impiccio si sono trovati i primi coloni australiani che hanno visto un ornitorinco: l’avevano inteso come una talpa, e infatti l’avevano chiamato watermole, però quella talpa aveva un becco, e dunque non era una talpa. Qualcosa di percepibile al di fuori dello “stampo” fornito dall’idea di talpa non adeguava lo stampo - anche se per riconoscere un becco bisogna presumere che avessero uno “stampo” per il becco.

2.2. Peirce e l’inchiostro nero Ma con l’ornitorinco avrebbe avuto problemi anche Peirce, posto che l’avesse incontrato per la prima volta, molto di più di quanti non gliene sono stati posti dal litio o dalla torta di mele. Se si può sostenere che nel riconoscimento del noto intervengono processi semiosici, perché si tratta appunto di riportare dei dati sensibili a un modello (concettuale e semantico), il problema, a lungo discusso, è quanto un processo semiosico intervenga nella comprensione del fenomeno ignoto. Un dogma, quasi, della semiotica d’ispirazione peirceana è che la semiosi s’annida nei processi percettivi, e non tanto perché si deve pur rendere conto del fatto che molta tradizione filosofica psicologica parla di “significato” percettivo ma perché il processo percettivo si presenta per Peirce come inferenza. Ancora una volta non c’è che da citare “Some consequences for four incapacities” e la sua polemica contro l’intuizionismo cartesiano: non abbiamo alcun potere né d’introspezione né d’intuizione, ma ogni conoscenza deriva

per ragionamento ipotetico dalla conoscenza di fatti esterni e da conoscenze precedenti (WR 2: 213). La proposta peirceana sembra quasi descrivere i tentativi apparentemente goffi di Marco Polo di fronte al rinoceronte, che non ha intuizione “platonica” dell’animale ignoto, né tenta di costruirne l’immagine e la nozione ex novo, ma sta facendo bricolage di nozioni precedenti, pervenendo a disegnare una nuova entità a partire da quanto già sapeva di entità già note. In fondo il riconoscimento del rinoceronte appare come una sequenza abduttiva assai più complessa di quelle canoniche: dapprima, di fronte a un risultato curioso e inspiegabile, si azzarda che potrebbe costituire il caso di una regola, che cioè l’animale sia un unicorno; poi, sulla base di successive esperienze, si procede a una riformulazione della regola (si muta la lista di proprietà che caratterizzano gli unicorni). Parlerei di un’abductio interrupta. Che cosa ha visto Marco Polo prima di dire che aveva visto degli unicorni? Ha visto qualcosa che doveva pur sempre essere un animale? Si noti che stiamo opponendo un “vedere” primario a un “dire”. Naturalmente “vedere” è figura retorica, sta per qualsiasi altra risposta tattile, termica, auditiva. Ma il problema è che, da un lato, pare che la pienezza della percezione (come assegnazione di significato all’ignoto) sia stata raggiunta partendo da un abbozzo, un diagramma scheletrico, un profilo, diciamo pure una “idea”; dall’altro, dopo aver messo in gioco l’idea dell’unicorno, Marco Polo ha dovuto ammettere che quell’unicorno non era bianco bensì nero. Questo lo ha obbligato a correggere la sua prima ipotesi. Che cosa è accaduto quando Marco Polo ha detto questo è nero? E lo ha detto prima o dopo aver ipotizzato che fosse un unicorno? E se lo ha detto prima, perché ha insistito nell’intrattenere l’ipotesi che fosse un unicorno? E quando si è reso conto che l’animale non si conciliava con la sua idea dell’unicorno, ha semplicemente ammesso che quello che vedeva non era un unicorno, o ha corretto la sua idea degli unicorni, decidendo che vi sono al mondo anche unicorni neri e sgraziati? Marco Polo non era un filosofo. Per cui torniamo a Peirce. Nel passaggio dal contatto con l’Oggetto Dinamico, attraverso il representamen, alla formazione di un Oggetto Immediato (che poi sarà il punto di partenza per la catena degli interpretanti) Peirce pone il Ground come una istanza che sembra costituire il momento iniziale del processo conoscitivo. Le prime apparizioni del Ground sono negli

scritti della giovinezza, dove l’interesse è eminentemente logico.2 Tra il concetto di sostanza (il presente in generale, soggetto privo ancora di intensione, a cui verranno poi attribuite delle proprietà, puro Qualcosa su cui si fissa la nostra attenzione, un “it” ancora indeterminato) e il concetto di essere (pura congiunzione tra soggetto e predicato) si pongono (come accidenti) il riferimento al Ground, il riferimento a un correlato e il riferimento a un interpretante. Il Ground, in quanto Qualità, è un predicato. E mentre il riferimento al correlato è dell’ordine della denotazione e dell’estensione, il riferimento al Ground è dell’ordine della comprensione e della connotazione (nel senso logico del termine): il Ground ha a che fare con qualità “interne”, proprietà dell’oggetto. In l’inchiostro è nero la qualità “nero” ovvero la nerezza, incarnata nell’inchiostro, ne viene astratta, attraverso un procedimento di astrazione, o di prescissione (prescision). Tuttavia, anche da un punto di vista logico, il Ground non è la totalità delle marche che compongono l’intensione di un termine (tale totalità può essere idealmente realizzata solo nel processo di interpretazione): nel pre-scindere si fa attenzione a un elemento, trascurandone un altro. Nel Ground l’oggetto viene visto sotto un certo rispetto, l’attenzione ne isola un carattere. In termini puramente logici, è evidente che se predico dell’inchiostro la nerezza non ne predico la liquidità. Ma se si rimanesse fermi al valore logico del Ground non se ne caverebbe gran che. E al massimo ci si ritroverebbe, tra esempi che sembrano voler confondere le idee anziché chiarirle, prigionieri del compulsivo triadismo peirceano.3 Inoltre la scelta stessa di un termine come Ground non è molto felice: esso suggerisce uno sfondo su cui si ritaglia qualcosa, mentre per Peirce sarebbe piuttosto un qualcosa che si ritaglia su uno sfondo ancora indistinto. Se ne accettiamo la traduzione italiana corrente come “base” (cfr. Peirce 1980), esso non sarebbe tanto una base dell’Oggetto Dinamico, quanto una base, un punto di partenza per la conoscenza che tentiamo di averne. E a questa lettura si dovrebbe accostarsi se lo si intende non come categoria metafisica bensì logica. Ma è davvero così? Non bisogna però sottovalutare il fatto che questi scritti giovanili si pongono esplicitamente sotto il segno di Kant. In essi Peirce vuole in fondo spiegare come i nostri concetti servano a unificare il molteplice delle impressioni sensibili. Peirce esplicita che le prime impressioni sui nostri sensi non sono rappresentazioni di certe cose ignote in se stesse,

ma sono esse stesse, le prime impressioni, qualcosa d’ignoto sino a che la mente non perviene a fasciarle di predicati. Post-kantiano come si avvia a essere, Peirce poi dirà che questo processo di concettualizzazione procede solo per inferenze ipotetiche: così avviene non solo nel processo di concettualizzazione ma persino nel riconoscimento delle sensazioni. In un certo senso (anzi in tutti) Peirce non spiega in modo soddisfacente come si passi dalla impressione al concetto, visto che come esempio per entrambi propone il lavorio ipotetico di chi riconosce, da una serie di suoni, una sonata di Beethoven e la riconosce come bella. Ma in definitiva egli distingue i due momenti: entrambi si identificano con il dare un nome a ciò che si prova, e dare un nome è sempre fare un’ipotesi (pensiamo allo sforzo ipotetico di Marco Polo); tuttavia i nomi dati per riconoscere le sensazioni (come una sensazione di rosso) sono in un certo senso casuali, non veramente motivati, servono solo per distinguere (come apponendovi un’etichetta) quella sensazione da altre: dico che sento rosso per escludere altre sensazioni cromatiche possibili, ma la sensazione è ancora soggettiva, provvisoria e contingente, e il nome le viene attribuito come un significante di cui si ignora ancora il significato. Invece con il concetto si passa al significato. Si potrebbe dire che qui Peirce ha presente la distinzione kantiana tra giudizi percettivi e giudizi d’esperienza (si veda più avanti, 2.4), anche se, come Kant, non riesce a dare una precisa definizione dei primi. Infatti la stessa nominazione della qualità “nero” non caratterizza più il momento di una impressione, altrimenti il Ground non sarebbe una categoria, e Peirce insiste che la nerezza predicata è già pura species o astrazione. Tuttavia egli intende il nome dato al Ground come un termine, non come una proposizione o come un argomento. Il termine si trova ancora al di qua di ogni asserzione di esistenza o di verità, e si riferisce, prima ancora che a un qualcosa, a un aspetto del qualcosa che ci si accinge inferenzialmente a identificare. Col che si passa dalla problematica logica a quella gnoseologica. Il Ground è Firstness non per forza di simmetria triadica, ma perché si pone come origine della comprensione concettuale. È un modo “iniziale” di considerare l’oggetto sotto un certo rispetto. Potrei considerare l’inchiostro come liquido, ma nell’esempio proposto lo considero immediatamente sotto il profilo della nerezza. Come a dire:

non so ancora che quel qualcosa davanti a me è inchiostro, ma lo colgo come qualcosa di nero, sotto il rispetto della nerezza. Se usiamo la parola “profilo” non è solo per metafora. In quanto Qualità il Ground è una Firstness e dunque una Icona ovvero una Likeness, o somiglianza. Dopo di che sembra che Peirce abbandoni l’idea del Ground per circa trent’anni, e vedremo in 2.8 come la riprende. Sta di fatto che anche trent’anni dopo ne parla ancora come di “una sorta di idea”, nel senso “platonico” in cui si dice che qualcuno afferra l’idea di un altro, nel senso in cui ricordando quel che si pensava prima si rimemora la stessa idea (CP 2.228). Nel frattempo aveva però meglio elaborato ciò che intendeva per giudizio percettivo, che nel 1903 (CP 5.54) viene definito come “un giudizio che asserisce in forma proposizionale quale sia il carattere di un percetto direttamente presente alla mente. Il percetto naturalmente non è esso stesso un giudizio, né un giudizio può assomigliare in nessun grado a un percetto. È diverso da esso quanto le parole stampate in un libro in cui si descrive una madonna di Murillo sono diverse dal quadro”. Il giudizio percettivo appare già come un’inferenza, un’ipotesi a partire da quei dati della sensazione che paiono essere i “percetti”, e appartiene già alla Thirdness, almeno come premessa di una successiva catena di interpretazioni (CP 5.116). Dove dovrebbe stare a questo punto il Ground? Dalla parte di quel percetto che non è ancora giudizio? Da un lato Peirce ci dice che il giudizio percettivo contiene o prefigura già elementi generali, che “le proposizioni universali sono deducibili dai giudizi percettivi,” che l’inferenza abduttiva sfuma nel giudizio percettivo, senza una netta linea di demarcazione fra di essi, così che, come osserva Proni (1990: 331), i principi logici vengono appresi nell’impasto stesso della conoscenza percettiva. Dall’altro, e nello stesso testo, ci dice che “i giudizi percettivi sono da considerarsi casi estremi di inferenze abduttive, dalle quali differiscono in quanto situate al di là di ogni possibile critica” (CP 5.181). Il che significa (come si vede in CP 5.116) che in quanto prime premesse di tutti i nostri ragionamenti “i giudizi percettivi non possono essere messi in questione”. Curiosa posizione. Se c’è inferenza nella percezione stessa, allora c’è fallibilismo, tanto è vero che Peirce si occupa anche delle illusioni

percettive (CP 5.183); eppure sembra che nel contempo queste inferenze percettive non siano ipotetiche bensì “apodittiche”. Bella ed esplicita affermazione di realismo, se non fosse pronunciata da chi non ha mai smesso di dire che anche la percezione è semiosi e quindi già abduzione. E infine se il giudizio percettivo non potesse essere messo in questione, avremmo un’intuizione del singolare, idea alla quale Peirce si è sempre ribellato, sino dai suoi scritti anticartesiani. E se poi ciò che non può essere messo in questione, ed è singolare, fosse il “percetto” (e il percetto fosse da identificarsi col Ground), esso non potrebbe dare corso a processi inferenziali che hanno a che vedere solo con dei termini generali (CP 5.298). Se nella percezione c’è momento astrattivo c’è interpretazione, sia pure rapida e inconscia (cfr. Proni 1990: 1.5.2.4), e se c’è interpretazione c’è “possibile critica”. Se dimenticassimo queste sottigliezze (e le inevitabili contraddizioni che si verificano in scritti di epoche diverse), potremmo tranciare in questo modo: d’accordo, si dà un impasto non chiaro in quello spazio che sta tra la Firstness (Ground o non Ground) e la Thirdness pienamente realizzata, c’è un primo momento di reazione dei sensi che è indiscutibile, nel momento in cui la qualità mi si presenta come qualità di qualcosa (Secondness) questo qualcosa diventa premessa di ogni altra inferenza nel senso che so in ogni caso c’è un Oggetto Dinamico che sta scatenando la catena delle mie risposte, a questo punto inizia il lavoro dell’interpretazione e, nel momento in cui il giudizio percettivo si assesta, e prende forma, esso si risolve nella formazione dell’Oggetto Immediato. Nell’Oggetto Immediato convergono alcuni aspetti del Ground (esso ha la natura dell’icona, della Likeness) e tutti gli aspetti del giudizio percettivo (esso si presenta come il punto di partenza di ogni interpretazione successiva). Al massimo possiamo dire che si danno anche Oggetti Immediati di qualcosa che non conosciamo per via di percezione (certamente ci devono essere due Oggetti Immediati che corrispondono ai termini presidente o Alpha Centauri). Ma questo non deve disturbarci troppo se pensiamo che una icona non è necessariamente una immagine nel senso visivo del termine, perché anche la melodia che fischietto, magari stonando, può essere una icona della Quinta di Beethoven; e perché ha natura iconica anche un grafo che pure non esibisce similarità morfologica con la situazione rappresentata.

Potremmo allora prendere fiato riconoscendo che, se rimangono oscuri la nozione di Ground e la stessa natura del giudizio percettivo, non così si può dire della nozione di Oggetto Immediato. Esso è l’oggetto come viene rappresentato (CP 8.343), nel rispetto in cui viene pensato (CP 5.286), è il type di cui l’Oggetto Dinamico che ha scatenato la sequenza di risposte era il token (Proni 1990: 265).4 Esso in qualche misura sfugge alla individualità della percezione, perché in quanto interpretabile è già pubblico, intersoggettivo: esso non ci dice tutto dell’oggetto, ma è solo nel pervenire ad esso che dell’oggetto finalmente so e posso dire qualcosa. Ora, in questo processo e nel momento del suo primo assestarsi, mi pare si presenti un problema che Peirce trovava già in Kant. Peirce sta cercando di riformulare, senza dedurla trascendentalmente, la nozione kantiana di schema. È davvero allo schematismo kantiano che Peirce sta pensando? È cercando di distinguere le categorie (ma quali, le sue o quelle di Kant?) dallo schema e queste dal molteplice dell’intuizione sensibile, che si crea un nodo apparentemente insolubile tra Ground e Oggetto Immediato? Sulla nozione kantiana di schema Peirce ritorna sempre quasi parenteticamente. In CP 2.385 dice senza esitazione che lo schema kantiano è un diagramma; ma ne parla in modo astratto in riferimento ai postulati del pensiero empirico in generale, in un quadro di logica modale. Però nel 1885 dice che la dottrina degli schemi può essere venuta in mente a Kant solo in ritardo, quando il sistema della prima Critica si era ormai disegnato: “for if the schemata had been considered early enough they would have overgrown his whole work” (WR 5: 258259). Sembra un programma di ricerca, l’individuazione di una breccia attraverso la quale si dovrebbe arrivare a un kantismo non trascendentale. Ma che cosa aveva capito Peirce dello schematismo, di cui persino Kant, come si vedrà, aveva capito qualcosa solo passo a passo?

2.3. Kant, gli alberi, le pietre e i cavalli C’è una ragione per cui Peirce, futuro teorico della semiotica, esordisce leggendo e rileggendo Kant, considerando la sua tavola dei giudizi e delle categorie come se gli fosse stata recata dal Sinai.5 È stata rimproverata a Kant una radicale disattenzione nei confronti del problema semiotico. Ma, come nota Kelemen (1991), sin dai tempi di Hamann e di Herder essa è stata attribuita al fatto che Kant considerasse come implicito un nesso strettissimo tra linguaggio e pensiero, e si è azzardata l’ipotesi che questo nesso si presenti proprio nella dottrina dello schematismo, tanto da suggerire che lo schema fosse concetto-parola (Wortbegriff). D’altra parte non si può negare che vi sia una semiotica implicita nella distinzione tra giudizi analitici e sintetici, che vi sia una esplicita discussione della teoria dei segni nell’Antropologia,6 e che sia possibile leggere in termini semiotici l’intera Logica (cfr. Apel 1972). Inoltre si è ripetutamente sottolineato il nesso tra sapere e comunicare, di cui Kant parla in numerosi passi, anche se non vi si sofferma troppo, come se considerasse ovvia la questione (Kelemen 1991: 37). Per finire, e vi ritorneremo, ci sono le pagine semiotiche della terza Critica. Basti comunque considerare, per Kant tanto quanto per Aristotele, l’origine puramente verbale del suo apparato categoriale e riprendere una felice osservazione di Heidegger (1973: 33-34): “Gli esseri dotati di capacità intuitiva devono potersi sempre accomunare nell’intuizione dell’ente. Ma l’intuizione finita, in quanto intuizione, resta sempre in primo luogo ancorata al singolare intuito di volta in volta. L’ente intuito è conosciuto solo se ciascuno può renderlo comprensibile a sé e agli altri, e giungendo per questa via a comunicarlo”. Parlare di ciò che è vuol dire rendere comunicabile ciò che ne conosciamo: ma conoscerlo, e comunicarlo, implica il ricorso al generico, che è già un effetto di semiosi, e dipende da una segmentazione del contenuto di cui il sistema kantiano delle categorie, ancorato a una venerabile tradizione filosofica, è un prodotto culturale già assestato, culturalmente radicato, e linguisticamente ancorato. Quando il molteplice dell’intuizione viene riportato all’unità del concetto, i percipienda sono ormai già percepiti come la cultura ci ha insegnato a parlarne. Però, che un fondamento semiosico sia implicato dal quadro generale della dottrina kantiana è una cosa, ma un’altra cosa è se Kant abbia mai

elaborato una teoria di come assegniamo nomi alle cose che percepiamo, siano essi alberi, cani, pietre o cavalli. Data la domanda “come assegniamo nomi alle cose?”, così come Kant aveva ricevuto la problematica di una teoria della conoscenza, le risposte erano in sintesi due. Una era quella della tradizione che chiameremo scolastica (ma che parte da Platone e da Aristotele): le cose si presentano al mondo già ontologicamente definite nella loro essenza, materia bruta informata da una forma. Non importa decidere se questa forma (universale) sia ante rem o in re: essa ci si offre, splende nella sostanza individua, viene colta dall’intelletto, viene pensata e definita (quindi nominata) come quiddità. La nostra mente non lavora, se non per quel tanto che fa l’intelletto agente il quale (dovunque esso lavori) lo fa in un battibaleno. La seconda risposta era quella dell’empirismo britannico. Le sostanze non le conosciamo, e se ci fossero non ci rivelerebbero nulla. Quello che abbiamo, per Locke, sono sensazioni, che ci propongono idee semplici, vuoi primarie vuoi secondarie, ma ancora sconnesse: una rapsodia di pesi, misure, grandezze, e poi colori, suoni, sapori, riverberi mutevoli con le ore del giorno e le condizioni del soggetto. Qui l’intelletto fa, nel senso che lavora: combina, correla, astrae, in un modo che certamente gli è spontaneo e naturale, ma solo così coordina le idee semplici in quelle idee composte a cui diamo il nome di uomo, cavallo, albero, e poi ancora, di triangolo, bellezza, causa ed effetto. Conoscere è porre nomi a queste composizioni di idee semplici. Per Hume il lavoro, per quanto riguarda il riconoscimento delle cose, è ancora più semplice (lavoriamo direttamente su impressioni di cui le idee sono immagini illanguidite): il problema nasce se mai nel porre rapporti tra idee di cose, come accade nelle affermazioni di causalità; e qui diremmo che c’è lavoro, ma compiuto dolcemente, per forza di abitudine e disposizione naturale alla credenza, anche se ci viene richiesto di considerare la contiguità, la priorità o la costanza nella successione delle nostre impressioni. Kant non pensa certo che si possa riproporre la soluzione scolastica, anzi, se c’è un aspetto veramente copernicano della sua rivoluzione sta nel fatto che egli sospende ogni giudizio sulla forma in re e assegna una funzione sintetico-produttiva, e non semplicemente astrattiva, al vecchio intelletto agente. Quanto agli empiristi inglesi, egli cerca una fondazione trascendentale di quel processo che essi in fondo

accettavano come un modo ragionevole di muoversi nel mondo, la cui legalità si affermava per il fatto stesso che, al postutto, funzionava. Ma nel fare questo Kant sposta sensibilmente il fuoco degli interessi di una teoria della conoscenza. È azzardato dire, come ha fatto Heidegger, che la Critica della ragion pura non ha nulla a che fare con una teoria della conoscenza ma è piuttosto una interrogazione dell’ontologia circa la sua intrinseca possibilità; ma è anche vero che, sempre per usare le parole di Heidegger, ha poco a che vedere con una teoria della conoscenza ontica, e cioè dell’esperienza (1973: 24). Eppure Kant credeva alla evidenza dei fenomeni, credeva che le nostre intuizioni sensibili venissero da qualche parte, si preoccupava di articolare una confutazione dell’idealismo. Ma a risvegliarlo dal suo sonno dogmatico pare sia stato Hume, problematizzando il rapporto causale tra le cose, non Locke, che pure aveva posto in tavola il problema di una attività dell’intelletto nella nominazione delle cose. Dire perché, essendo impressionato da qualcosa, decido che si tratta di un albero o una pietra era problema fondamentale per gli empiristi, ma pare che diventi problema secondario per Kant, troppo preoccupato di garantire la nostra conoscenza della meccanica celeste. È che la prima Critica non costruisce tanto una gnoseologia quanto piuttosto una epistemologia. Come ha efficacemente sintetizzato Rorty (1979), Kant non era interessato alla knowledge of ma alla knowledge that, in altre parole, non alle condizioni di conoscenza (e pertanto di nominazione) degli oggetti quanto alla possibilità di fondare la verità delle nostre proposizioni intorno a oggetti. Al punto tale che si potrebbe dire davvero che egli non era interessato al problema della conoscenza se, in termini filosofici correnti in italiano, si tende a chiamare “conoscenza” la knowledge of e “sapere” la knowledge that.7 II suo primario interesse è come siano possibili una matematica e una fisica pura o come sia possibile fare della matematica e della fisica due conoscenze teoretiche che debbono determinare a priori i loro oggetti. Il nucleo della prima Critica concerne la ricerca della garanzia di una legislazione dell’intelletto a proposito di quelle proposizioni che hanno il loro modello nelle leggi newtoniane - e che per necessità d’esempio sono talora esemplificate in proposizioni più comprensibili e venerabili come tutti i corpi sono pesanti. Kant è preoccupato di garantire la conoscenza di quelle leggi che stanno a fondamento della natura intesa come l’insieme degli oggetti dell’esperienza; che questi oggetti

dell’esperienza siano anche quelli della cui conoscenza gli empiristi tanto si occupavano, cani, cavalli, pietre, alberi o case, Kant non lo mette mai in dubbio; ma (almeno sino alla Critica del giudizio) egli appare straordinariamente disinteressato a chiarire come noi conosciamo gli oggetti dell’esperienza quotidiana, almeno quegli oggetti che oggi si sogliono chiamare natural kinds, tipi naturali, come cammello, faggio, coleottero. Di questo si rendeva conto, e con evidente disappunto, un filosofo interessato alla knowledge of come Husserl;8 ma il disappunto si converte in soddisfazione per chi invece ritiene che il problema della conoscenza (o del sapere) possa risolversi solo in termini interni al linguaggio, e cioè in termini di coerenza tra proposizioni. Rorty (1979: 33) polemizza contro l’idea che la conoscenza debba essere “specchio della natura”, e si chiede persino come fosse possibile a Kant asserire che l’intuizione ci offre il molteplice, quando questo molteplice lo si conosce solo dopo che è già stato unificato nella sintesi dell’intelletto. In tal senso Kant avrebbe fatto un passo avanti rispetto alla tradizione gnoseologica che va da Aristotele a Locke, tradizione per cui si cercava di modellare la conoscenza sulla percezione: Kant avrebbe liquidato il problema della percezione affermando che la conoscenza verte su proposizioni e non su oggetti. La soddisfazione di Rorty ha ragioni evidenti: benché egli si proponga di mettere in crisi lo stesso paradigma della filosofia analitica è da esso che prende le mosse, anche in termini di storia personale, e pertanto Kant gli si presenta come colui che per primo ha suggerito alla tradizione analitica che non occorre tanto chiedersi che cosa sia un cane ma piuttosto se la proposizione i cani sono animali sia vera o meno. Questo non elimina i problemi di Rorty, neppure se egli intendesse ridurre la conoscenza a puro problema linguistico, perché gli impedisce di affrontare il problema dei rapporti tra percezione, linguaggio e conoscenza. Cioè, se l’opposizione è (per riprendere con Rorty una opposizione di Sellars) tra “sapere come è X” e “sapere che tipo di cosa sia X”, rimarrebbe pur sempre da chiedersi se per rispondere alla seconda domanda non accorra anche aver risposto alla prima.9 Tuttavia questo elimina ancor meno i problemi di Kant, il quale sembra non soltanto disinteressato a spiegare come accade che noi comprendiamo come sia X, ma anche incapace di spiegare come noi decidiamo che tipo di cosa sia X. In altre parole è assente dalla prima

Critica non solo il problema di come si capisce che un cane è un cane, ma persino di come siamo capaci di dire che un cane è un mammifero. Né la cosa deve apparire straordinaria se si riflette alla situazione culturale in cui Kant scriveva. Egli, come esempio di conoscenza rigorosa fondabile a priori, aveva a disposizione la scienza matematica e la scienza fisica come già stabilite da secoli, sapeva benissimo come definire peso, estensione, forza, massa, triangolo o cerchio. Invece non aveva una scienza dei cani come non aveva una scienza dei faggi o dei tigli, o dei coleotteri. Non dimentichiamo che quando egli scrive la prima Critica sono passati poco più di vent’anni da che è stata pubblicata l’edizione definitiva del Systema naturae di Linneo, primo monumentale tentativo di stabilire una classificazione dei “generi naturali”. I dizionari dei secoli precedenti definivano il cane come “animal noto”, i tentativi di classificazione universale come quelli di Dalgarno o di Wilkins (XVII secolo) mettevano in opera tassonomie che oggi definiremmo approssimative.10 E si capisce perché Kant potesse definire quello di cane un concetto empirico; e dei concetti empirici, ripeterà più volte, non potremo mai conoscere tutte le note. Per questo la prima Critica si apre (Introduzione vii) con la dichiarazione che nella filosofia trascendentale non debbono apparire concetti che contengano in sé qualcosa di empirico: l’oggetto della sintesi a priori non può essere la natura delle cose, che in sé è “inesauribile”. Quindi, anche se fosse stato cosciente di ridurre la conoscenza a conoscenza di proposizioni (e quindi a conoscenza linguistica), Kant non avrebbe potuto porsi il problema, che Peirce invece si porrà, di una natura non esclusivamente linguistica bensì semiosica della conoscenza. È vero che, se non sa farlo nella prima Critica, andrà in questa direzione nella terza, ma per potersi mettere su questa strada dovrà fare i conti con le difficoltà che nella prima Critica incontra mettendo in scena la nozione di schema, di cui si dirà in 2.5. Secondo un esempio kantiano (P § 23)11 io posso passare da una successione scoordinata di fenomeni (c’è una pietra, è battuta dalla luce solare, la pietra è calda - e come vedremo questo viene esemplificato come giudizio percettivo) alla proposizione il sole riscalda la pietra. Poniamo che il sole sia A, la pietra B, l’essere caldo C, e possiamo dire che A è la causa per cui B è C.

Secondo la tavola delle categorie, degli schemi trascendentali, dei principi dell’intelletto puro12 (vedi Figura 2.1) gli assiomi dell’intuizione mi dicono che tutte le intuizioni sono quantità estensive e, attraverso lo schema del numero, applico la categoria della singolarità ad A e a B; per le anticipazioni della percezione, applicando lo schema del Grado, affermo la realtà (in senso esistenziale, Realitäf) del fenomeno datomi nell’intuizione. Per le analogie dell’esperienza vedo A e B come sostanze, permanenti nel tempo, cui ineriscono accidenti; e stabilisco che l’accidente C di B è causato da A. Infine decido che ciò che è collegato con le condizioni materiali dell’esperienza è reale (realtà in senso modale, Wirklichkeit) e, per lo schema dell’esistenza in un tempo determinato, asserisco che il fenomeno si sta effettivamente verificando. Del pari, se la proposizione fosse per legge di natura accade sempre e necessariamente che la luce del sole riscaldi (tutte) le pietre, dovrei applicare in prima istanza la categoria dell’unità e in ultima istanza quella della necessità. Dando per buona la fondazione trascendentale dei giudizi sintetici a priori (ma non è questa la materia del contendere), l’apparato teorico kantiano mi avrebbe spiegato perché posso dire con certezza che A causa necessariamente il fatto che B sia C. Ma a questo punto Kant non ha ancora detto come possa ancorare le variabili: perché percepisco A come sole e B come pietra? Come intervengono i concetti dell’intelletto puro a farmi comprendere una pietra come tale, distinta dalle altre pietre della pietraia, dalla luce solare che la riscalda, dal resto dell’universo? Quei concetti dell’intelletto puro che sono le categorie sono troppo vasti, generalissimi, per potermi consentire di riconoscere la pietra, il sole, il calore. E non basta che Kant prometta (CRP/B: 94) che una volta disegnata una lista dei concetti puri primitivi si potrebbero “facilmente” aggiungere quelli derivati e subalterni, salvo che, siccome in questa sede egli deve occuparsi non già della compiutezza del sistema ma dei suoi principi, riserverà questa integrazione per un altro lavoro; e che in ogni caso basta consultare i manuali di ontologia, subordinando così agilmente alla categoria di causalità i predicabili di forza, azione o passione, o a quella della modalità i predicabili del nascere, del perire o del mutamento. Anche in tal caso saremmo ancora a un livello di astrattezza tale da non permetterci di dire questo B è una pietra.

Figura 2.1 - GIUDIZI, CATEGORIE, SCHEMI DELL’INTELLETTO PURO E quindi la tavola delle categorie non ci permette di dire come percepiamo una pietra in quanto tale. I concetti dell’intelletto puro sono solo funzioni logiche, non concetti di oggetti (P § 39). Ma, se non sono in grado di dire non solo che questo A è il sole e questo B è una pietra, ma anche che questo B è almeno un corpo, tutte le leggi universali e necessarie che essi mi garantiscono non valgono nulla, perché potrebbero riferirsi a qualsivoglia dato dell’esperienza. Forse potrei dire che c’è un A che riscalda tutto, qualsiasi concetto empirico possa assegnare a B, ma non saprei che cosa sia questa entità che riscalda, perché non avrei assegnato alcun concetto empirico ad A. I concetti dell’intelletto puro non solo hanno bisogno dell’intuizione sensibile ma anche dei concetti di oggetti a cui applicarsi. Quelli di sole, pietra, acqua, aria (e su questo Kant è chiaro) sono concetti empirici, e in tal senso non sono molto diversi da quelli che gli empiristi chiamavano “idee”, di generi e di specie. Talora Kant parla di concetti generici, che sono concetti, ma non nel senso in cui egli chiama spesso concetti le categorie, che sono sì concetti, ma dell’intelletto puro. Le categorie - lo abbiamo visto - sono concetti astrattissimi, come unità, realtà, causalità, possibilità o necessità. Attraverso l’applicazione dei concetti puri dell’intelletto non si determina il concetto di cavallo. Il concetto di cavallo è un concetto empirico. Un concetto empirico deriva dalla sensazione, per comparazione degli oggetti dell’esperienza. Quale scienza studia la formazione dei concetti empirici? Non la logica generale che non deve indagare “la fonte dei concetti, ossia il modo in cui i concetti hanno origine, in quanto rappresentazioni...” (L I § 5); ma talora pare che non debba farlo neppure la filosofia critica: “Non esaminiamo come l’esperienza si svolga, ma cosa l’esperienza contenga. Il primo compito pertiene alla psicologia empirica” (P § 21). Il che sarebbe ammissibile se noi pervenissimo alla formulazione di concetti empirici in modi che non hanno nulla a che fare con l’attività legislatrice dell’intelletto che sottrae la materia dell’intuizione alla propria cecità. Ma allora dovremmo conoscere cavalli e case o per via di quiddità manifestata (come avveniva sulla linea aristotelico-

scolastica), oppure per un semplice lavoro di combinazione, correlazione e astrazione, come avveniva per Locke. C’è un passo della Logica che potrebbe confermarci in questa interpretazione: “per formare concetti da rappresentazioni bisogna dunque essere in grado di comparare, di riflettere e di astrarre; queste tre operazioni logiche dell’intelletto, infatti, sono le condizioni essenziali e universali per la produzione di qualunque concetto in generale. Io vedo, ad esempio, un salice e un tiglio. Confrontando questi oggetti tra loro, innanzitutto, noto che essi sono diversi l’uno dall’altro riguardo al tronco, ai rami, alle foglie, etc.; ma poi, riflettendo solo su ciò che essi hanno in comune fra loro: il tronco, i rami e le foglie stesse, e astraendo dalla loro grandezza, dalla loro figura, etc., ottengo un concetto dell’albero” (L I § 6). Siamo davvero, e ancora, a Locke? Il passo sarebbe lockiano se parole come “intelletto” mantenessero il significato tutto sommato debole di “Humane Understanding”: ciò che non poteva avvenire per il Kant maturo, che aveva già pubblicato le tre critiche. Qualsiasi lavoro faccia l’intelletto per capire che un salice e un tiglio sono un albero, esso non trova questa “arboreità” nell’intuizione sensibile. E in ogni caso Kant non ci ha detto perché avendo una data intuizione ho compreso che è l’intuizione di un tiglio. D’altra parte anche “astrarre” in Kant non significa prendere-da, fare sorgere-da (che sarebbe ancora la prospettiva scolastica), e neppure costruire-mediante (che sarebbe la posizione empirista): è puro considerare-separatamente, è condizione negativa, è suprema manovra dell’intelletto che sa che il contrario dell’astrazione sarebbe il conceptus omnimode determinatus, il concetto di un individuo, che nel suo sistema è impossibile: l’intuizione sensibile deve essere lavorata dall’intelletto e illuminata da determinazioni generali o generiche. E infatti il brano rispondeva forse a esigenze di semplificazione didattica - in un testo che raccoglie e certamente rielabora appunti presi da altri nel corso delle sue lezioni, perché è in netto contrasto con quanto viene detto due pagine prima (I, 3): “il concetto empirico deriva dai sensi per comparazione degli oggetti dell’esperienza e riceve grazie all’intelletto solo la forma dell’universalità”. “Solo”?

2.4. I giudizi percettivi Quando Kant poi si era occupato di psicologia empirica, nel decennio precedente la prima Critica (e anche qui ci si riferisce a lezioni fatte un po’ per forza e trascritte da altri),13 sapeva già che le conoscenze dei sensi non sono sufficienti, perché ci vuole l’intelletto che rifletta su quanto i sensi gli hanno proposto. Il fatto che noi crediamo di conoscere le cose in base alla sola testimonianza dei sensi dipende da un vitium subreptionis: siamo così abituati sin dall’infanzia a cogliere le cose come se esse ci apparissero già date nell’intuizione che non abbiamo mai tematizzato il ruolo svolto dall’intelletto in questo processo. Non accorgersi che l’intelletto è in azione non significa che esso non stia lavorando: e così nella Logica (Intr. I) si fa cenno a molti automatismi del genere, come quello per cui parliamo mostrando dunque di conoscere le regole del linguaggio, ma se qualcuno ci chiedesse quali sono non sapremmo dirlo, e forse non sapremmo neppure dire che ci sono. Oggi diremmo che per ottenere un concetto empirico dobbiamo essere in grado di produrre un giudizio percettivo. Ma intendiamo con percezione un atto complesso, una interpretazione dei dati sensibili in cui intervengono memoria, cultura, e che si conclude nella comprensione della natura dell’oggetto. Invece Kant parla della perceptio o Wahrnehmung solo come di una “rappresentazione con coscienza”. Tali percezioni possono distinguersi in sensazioni, che semplicemente modificano lo stato del soggetto e forme di conoscenza oggettiva. Come tali possono essere intuizioni empiriche, che attraverso la sensazione si riferiscono all’oggetto singolare, e sono ancora apparenze, prive di concetto, cieche. Oppure sono investite dal concetto, attraverso un segno distintivo comune a molte cose, una nota (CRP/B: 249). Che cosa sarà allora per Kant un giudizio percettivo (Wahrnehmungsurteil) e come si distingue da un giudizio di esperienza (Erfahrungsurteib? I giudizi percettivi sono attività logica inferiore (L I § 57) che crea il mondo soggettivo della coscienza personale, sono giudizi come quando il sole illumina una pietra essa si riscalda, possono anche essere errati e sono in ogni caso contingenti (P § 20, § 23). I giudizi d’esperienza stabiliscono invece una connessione necessaria (per esempio asseriscono appunto che il sole riscalda la pietra).14

Sembra dunque che il categoriale intervenga solo nei giudizi d’esperienza. Ma perché allora i giudizi percettivi sono “giudizi”? Il giudizio è la conoscenza non immediata ma mediata di un oggetto e in ogni giudizio si trova un concetto che vale per una pluralità di rappresentazioni (CRP/B: 85). Non si può negare che avere la rappresentazione della pietra e del suo riscaldamento rappresenti già una unificazione attuata nella molteplicità del sensibile: unificare rappresentazioni nella coscienza è già “pensare” e “giudicare” (P § 22) e i giudizi sono regole a priori (P § 23). Se non fossimo soddisfatti, “la sintesi su cui si fonda la possibilità persino della percezione è in ogni caso soggetta alle categorie” (CRP/B: 125). Non può essere che (come si dice nei Prolegomeni § 21) i principi a priori della possibilità di ogni esperienza siano proposizioni (Sätze) che subordinano ogni percezione a dei concetti dell’intelletto (Verstandesbegriffe). Un Wahrnehmungsurteil è già intessuto, penetrato di Verstandbegriffe. Non c’è nulla da fare, riconoscere una pietra come tale è già giudizio percettivo, un giudizio percettivo è un giudizio, e quindi dipende anch’esso dalla legislazione dell’intelletto. Il molteplice viene dato nell’intuizione sensibile, ma la congiunzione di un molteplice in generale non può entrare in noi che per un atto di sintesi dell’intelletto.15 Insomma, Kant postula una nozione di concetto empirico e di giudizio percettivo (problema cruciale per gli empiristi), e però non riesce a sottrarre entrambi da una palude, da un terreno fangoso tra intuizione sensibile e intervento legislatore dell’intelletto. Ma per la sua teoria critica questa terra di nessuno non può esistere. Le varie fasi della conoscenza, in Kant, potrebbero essere rappresentate da una serie di verbalizzazioni in questa sequenza: 1. Questa pietra. 2. Questa è una pietra (o Qui c’è una pietra). 3a. Questa pietra è bianca. 3b. Questa pietra è dura. 4.

Questa pietra è un minerale e un corpo. 5. Se lancio questa pietra ricadrà a terra. 6. Tutte le pietre (in quanto minerali e quindi corpi) sono pesanti. La prima Critica si occupa certamente di proposizioni come (5) e (6), è discutibile se si occupi veramente di proposizioni come (4), e lascia certamente nel vago la legittimità di proposizioni come quelle da (1) a (3b). È lecito domandarsi se (1) e (2) esprimano atti locutivi diversi. Tranne che nel linguaggio olofrastico infantile, non si riesce a concepire qualcuno che di fronte a una pietra emetta (1) - caso mai questo sintagma potrebbe occorrere solo in (3a) o (3b). Ma nessuno ha mai detto che a ogni fase della conoscenza debbano corrispondere delle verbalizzazioni, e neppure degli atti di autocoscienza. Qualcuno può camminare per una strada lungo i cui margini sono ammucchiate delle pietre, senza porvi attenzione; poi però, se gli viene chiesto che cosa c’era lungo la strada, può benissimo rispondere che c’erano solo delle pietre.16 Quindi, se la pienezza della percezione è di fatto già un giudizio percettivo – e a volerne la verbalizzazione a ogni costo si avrebbe (1), che non è una proposizione e dunque non implica giudizio – quando si giunga alla verbalizzazione si è subito a (2). Dunque, qualcuno che ha visto una pietra, interrogato su cosa abbia visto o stia vedendo, o risponderebbe (2) oppure non ci sarebbero garanzie che abbia percepito qualcosa. Quanto a (3a e 3b) il soggetto può avere tutte le possibili sensazioni di bianchezza o di durezza, ma nel momento in cui predica la bianchezza o la durezza, è già entrato nel categoriale, e la qualità che predica si applica a una sostanza, proprio per determinarla almeno sotto un certo rispetto. Può darsi che parta da qualcosa esprimibile come questa cosa bianca, o questa cosa dura, ma anche così sarebbe già entrato nel lavoro dell’ipotesi - e vale la pena osservare che questa sarebbe la situazione tipica di chi vede per la prima volta un ornitorinco, una cosa natante col becco e col pelo. Rimane da decidere che cosa avvenga quando il nostro soggetto dirà che quella pietra è un minerale e un corpo. Per Peirce saremmo già entrati nel momento dell’interpretazione, per Kant avremmo costruito un concetto generico (ma abbiamo visto che in proposito egli è molto vago). Il vero problema kantiano però concerne (1-3).

C’è una differenza tra (3a) e (3b). Per Locke, mentre la prima esprime una idea semplice secondaria (colore), la seconda esprime una idea semplice primaria. Primario e secondario sono qualifiche nell’ordine dell’oggettività, non della certezza della percezione. Un problema non irrilevante è se, vedendo una mela rossa o una pietra bianca, posso anche comprendere che la mela all’interno è bianca e succosa, e che la pietra è dura all’interno e pesante. Diremmo che la differenza sta nel fatto se l’oggetto percepito sia già effetto di una segmentazione del continuum o se sia un oggetto ignoto. Se noi vediamo una pietra “sappiamo”, nell’atto stesso di comprendere che si tratta di una pietra, come sia all’interno. Chi ha visto per la prima volta un fossile di origine corallina (in forma di pietra, ma di colore rosso), non sapeva ancora come fosse dentro. Ma anche nel caso di oggetto noto, che cosa vuol dire che “sappiamo” che la pietra, bianca all’esterno, è dura all’interno? Se qualcuno ci ponesse una domanda così irritante, risponderemmo: “Lo immagino, in genere le pietre sono così”. Pare curioso porre una immagine a fondamento di un concetto generico. Che cosa vuole dire “immaginare”? C’è differenza tra “immaginare1” nel senso di evocare una immagine (siamo alla fantasticheria, alla delineazione di mondi possibili, come quando mi raffiguro nel desiderio una pietra che vorrei trovare per spaccare una noce - e in questo processo l’esperienza dei sensi non è richiesta) e “immaginare2” nel senso che, vedendo una pietra come tale, proprio a causa e in concomitanza con le impressioni sensibili che hanno sollecitato i miei organi visivi, so (ma non vedo) che è dura. Quello che ci interessa è “immaginare” in questo secondo senso. Il primo senso, direbbe Kant, lasciamolo pure alla psicologia empirica; ma il secondo senso è cruciale in una teoria dell’intendimento, della percezione di cose, o - kantianamente - nella costruzione di concetti empirici (tra l’altro, anche l’immaginare nel primo senso, il desiderare una pietra per usarla come schiaccianoci, è possibile perché, quando immagino1 una pietra, immagino2 che sia dura). Wilfrid Sellars (1978) propone, in proposito, di usare il termine imagining per immaginare1 e imaging per immaginare2. Per ragioni che saranno chiare tra poco, propongo di tradurre imaging con “figurare” (sia nel senso di costruire una figura, di tracciare un’ossatura

strutturale, che nel senso in cui si dice, vedendo la pietra, “mi figuro” che sia dura all’interno). In quest’atto di figurarci alcune proprietà della pietra, si compie una scelta, la si figura sotto un certo rispetto: se vedendo o immaginando la pietra non intendessi schiacciare una noce bensì scacciare un animale importuno, vedrei la pietra anche nelle sue possibilità dinamiche, come oggetto che può essere proiettato e che, in quanto pesante, ha la proprietà di cadere verso il bersaglio anziché innalzarsi nell’aria. Questo figurare per comprendere e comprendere figurando è cruciale nel sistema kantiano: si dimostra essenziale sia per fondare trascendentalmente anche i concetti empirici, sia per permettere giudizi percettivi (impliciti e non verbalizzati) come questa pietra.

2.5. Lo schema Nella teoria kantiana occorre spiegare come mai le categorie che sono così astralmente astratte possano applicarsi alla concretezza dell’intuizione sensibile. Vedo il sole e la pietra e debbo poter pensare quell’astro (in un giudizio singolare) o tutte le pietre (in un giudizio universale, ancor più complesso, perché di fatto di pietre riscaldate dal sole ne ho visto una sola, o poche). Ora “le leggi particolari, dato che riguardano apparenze empiricamente determinate, non possono venire derivate completamente dalle categorie... Deve aggiungersi l’esperienza” (CRP/B: 127); ma, poiché i concetti puri dell’intelletto sono eterogenei rispetto alle intuizioni sensibili, “in ogni sussunzione di un oggetto sotto concetto” (CRP/B: 133, ma in realtà si dovrebbe dire “in ogni sussunzione della materia dell’intuizione sotto concetto, così che possa sorgere un oggetto”), è necessario un terzo elemento mediatore che, per così dire, renda l’intuizione avvolgibile dal concetto, e il concetto applicabile all’intuizione. Nasce così l’esigenza dello schema trascendentale. Lo schema trascendentale è un prodotto dell’immaginazione. Tralasciamo la discrepanza che esiste tra prima e seconda edizione della Critica della ragion pura, per cui nella prima l’Immaginazione è una delle tre facoltà dell’animo, insieme al Senso (che rappresenta empiricamente le apparenze nella percezione) e all’Appercezione, mentre nella seconda essa diviene solo una capacità dell’Intelletto, un

effetto che l’intelletto produce sulla sensibilità. Per molti interpreti, tra cui Heidegger, questa trasformazione è immensamente rilevante, al punto tale da obbligare a ritornare alla prima edizione trascurando i ripensamenti della seconda. Dal nostro punto di vista è secondaria. Ammettiamo dunque che l’immaginazione, qualsiasi tipo di facoltà o attività essa sia, provvede uno schema all’intelletto, onde poterlo applicare all’intuizione. L’immaginazione è capacità di rappresentare un oggetto anche senza la sua presenza nell’intuizione (ma in tal senso è “riproduttiva”, nel senso che noi avevamo chiamato immaginare,) oppure è synthesis speciosa, immaginazione “produttiva”, capacità di figurare. Questa sintesi speciosa è quella per cui il concetto empirico di piatto può essere pensato mediante il concetto geometrico puro di circolo, “perché la rotondità, che viene pensata nel primo, si può intuire nel secondo” (CRP/B: 134). Malgrado questo esempio, lo schema non è tuttavia una immagine; e quindi qui si fa chiaro perché ho preferito “figurare” anziché “immaginare”. Per esempio lo schema del numero non è una immagine quantitativa, come se mi immaginassi il numero 5 in forma di cinque punti posti uno dopo l’altro, così: •••••. È evidente che in tal modo non potrei mai immaginarmi il numero 1000, per non dire di cifre più alte. Lo schema del numero è “la rappresentazione di un metodo per rappresentare una immagine conformemente a un certo concetto” (CRP/B: 135), tanto che si potrebbero intendere come elementi di uno schema per la rappresentazione dei numeri i cinque assiomi di Peano: zero è un numero; il successore di ogni numero è un numero; non esistono numeri con lo stesso successore; zero non è il successore di alcun numero; ogni proprietà di cui gode lo zero, e il successore di ogni numero che gode di quella proprietà, appartiene a tutti i numeri - tal che qualsiasi serie x0, xl, x2, x3... xn, che sia infinita, non contenga ripetizioni, abbia un inizio e non contenga termini irraggiungibili partendo dal primo, in un numero finito di passaggi, sia una serie di numeri. Nella prefazione alla seconda edizione della prima Critica si cita Talete, che dalla figura di un triangolo isoscele, per arrivare a scoprire le proprietà di ogni triangolo isoscele, non segue passo per passo ciò che vede, ma deve produrre, costruire il triangolo isoscele in generale. Lo schema non è una immagine perché l’immagine è un prodotto dell’immaginazione riproduttiva, mentre lo schema di concetti sensibili

(anche di figure nello spazio) è un prodotto della capacità pura a priori d’immaginare “per così dire un monogramma” (CRP/B: 136). Caso mai si dovrebbe dire che lo schema kantiano, più che a ciò che s’intende comunemente per “immagine mentale” (che evoca l’idea di una fotografia), è simile al Bild wittgensteiniano, proposizione che ha la stessa forma del fatto che rappresenta, nello stesso senso in cui si parla di relazione “iconica” per una formula algebrica, o di “modello” in senso tecnico-scientifico. Forse per capire meglio il concetto di schema occorre rifarsi a quello che, quando dobbiamo far lavorare un computer, ci viene proposto come flow chart o diagramma di flusso. La macchina è capace di “pensare” in termini di IF... THEN GOTO, ma si tratta di un dispositivo logico troppo astratto, dato che può servirci sia per fare un calcolo che per disegnare una figura geometrica. Il diagramma di flusso ci rende evidenti i passi che la macchina deve compiere e che dobbiamo ordinarle di compiere: data una operazione, a un certo snodo del processo si produce un’alternativa possibile, data la risposta che si verifica occorre fare una scelta, data la nuova risposta occorre ritornare a uno snodo superiore del diagramma, o procedere oltre, e così via. Il diagramma ha qualcosa che può essere intuito in termini spaziali ma nel contempo è sostanzialmente basato su un decorso temporale (il flusso), proprio nel senso in cui Kant ricorda che gli schemi si basano fondamentalmente sul tempo. Questa idea di diagramma di flusso sembra spiegare abbastanza bene come Kant intende la regola schematica che presiede alla costruzione concettuale di figure geometriche; nessuna immagine di un triangolo, che trovo nell’esperienza, come ad esempio la faccia di una piramide, può mai essere adeguata al concetto di triangolo in generale, che deve valere per ogni triangolo, sia esso rettangolo, isoscele o scaleno (CRP/B: 136, 1-10). Lo schema si propone come una regola per costruire in ogni situazione una figura che abbia le proprietà generali dei triangoli (diciamo, anche senza parlare in termini matematici rigorosi, che uno dei passi che mi prescrive è che, se ho disposto sul tavolo tre stuzzicadenti, non debbo cercarne un quarto ma devo per intanto chiudere la figura con i tre stuzzicadenti a disposizione).17 Ci ricorda Kant che noi non possiamo pensare una linea senza tracciarla nel pensiero, non possiamo pensare un circolo senza descriverlo (ritengo che per descriverlo debbo avere una regola che mi

dice che tutti i punti della linea che descrive il circolo debbono essere equidistanti dal centro). Non possiamo rappresentarci le tre dimensioni dello spazio senza porre tre linee perpendicolari tra loro, non possiamo neppure rappresentarci il tempo se non tracciando una linea retta (CRP/B: 121, 20 sgg.). Si noti che a questo punto si è radicalmente modificata quella che all’inizio definivamo come la semiotica implicita di Kant, perché pensare non è solo applicare concetti puri che derivano da una verbalizzazione precedente, ma anche intrattenere rappresentazioni diagrammatiche. Nella costruzione di queste rappresentazioni diagrammatiche entra, oltre al tempo, la memoria: si dice nella prima edizione della Critica (CRP/A: 78-79) che se nel contare dimentico che le unità ora presenti ai miei sensi sono state aggiunte gradualmente, non posso conoscere la produzione di pluralità attraverso addizione successiva, e quindi non posso conoscere neppure il numero. Se col pensiero tracciassi una linea, o se volessi pensare il tempo che intercorre tra un mezzogiorno e l’altro, ma nel processo di addizione perdessi sempre le rappresentazioni precedenti (le prime parti della linea, le parti precedenti di tempo), non avrei mai una rappresentazione completa. Si veda come lavora lo schematismo, per esempio, nelle anticipazioni della percezione, principio veramente fondamentale perché implica che la realtà esperibile sia un continuum segmentabile. In che modo possiamo anticipare quello che non abbiamo ancora intuito sensibilmente? Dobbiamo lavorare come se nell’esperienza si possano introdurre dei gradi (come se si possa digitalizzare il continuo) senza che per questo la nostra digitalizzazione escluda infiniti altri gradi intermedi. Come dice Cassirer, “se ammettessimo che nell’istante a un corpo si presenta allo stato x e nell’istante b si presenti allo stato x’ senza aver percorso i valori intermedi fra questi due, allora ne concluderemmo che non si tratta più dello ‘stesso’ corpo: asseriremmo che il corpo che era allo stato x nell’istante a, è scomparso, e che nell’istante b è comparso un altro corpo allo stato x’. Ne viene che l’assunto della continuità dei mutamenti fisici non è un singolo risultato dell’osservazione ma un presupposto della conoscenza della natura in generale”, e quindi è uno di quei principi che presiedono alla costruzione degli schemi (Cassirer 1918: 215).

2.6. E il cane? Questo per quanto riguarda gli schemi dei concetti puri dell’intelletto. Ma accade che proprio nel capitolo sullo schematismo Kant introduca esempi che concernono concetti empirici. Non si tratta solo di vedere come lo schema ci permetta di omogeneizzare al molteplice dell’intuizione i concetti di unità e realtà, inerenza e sussistenza, possibilità, e via dicendo. Esiste anche lo schema del cane: “il concetto di cane indica una regola, secondo cui la mia capacità di immaginazione può tracciare universalmente la figura di un animale quadrupede, senza essere ristretta ad un’unica figura particolare, offertami dall’esperienza, oppure ad ogni immagine possibile, che io sia in grado di raffigurare in concreto” (CRP/B: 136). Non sarà un caso se proprio a seguito di questo esempio, poche righe dopo, Kant scrive la frase famosissima per cui questo schematismo del nostro intelletto, che riguarda anche la semplice forma delle apparenze, è un’arte nascosta nelle profondità dell’animo umano. È un’arte, un procedimento, un lavoro, una costruzione, ma si sa assai poco del modo in cui funziona. Perché è chiaro che quella bella analogia col diagramma di flusso, che poteva servire a capire come procede la costruzione schematica del triangolo, funziona assai meno per il cane. È certo che un computer sa costruire l’immagine di un cane, se gli si provvedono gli algoritmi adatti: ma non è che esaminando il diagramma di flusso per la costruzione del cane, chi non abbia mai visto cani ne possa avere una immagine mentale (qualsiasi cosa sia una immagine mentale). Ci troveremmo ancora di fronte a una disomogeneità tra la categoria e intuizione, e il fatto che lo schema del cane possa essere verbalizzato come “animale quadrupede” ci riporta solo all’estrema astrattezza di ogni predicazione per genere e differenza specifica, ma non ci permette di distinguere un cane da un cavallo. Deleuze (1963: 73) ricorda che “lo schema non consiste in una immagine, ma in relazioni spazio-temporali che incarnano o realizzano delle relazioni puramente concettuali”, e questo sembra esatto per quanto concerne gli schemi dei concetti dell’intelletto puro. Ma per i concetti empirici non sembra bastare, poiché Kant è il primo a dirci che per pensare al piatto debbo ricorrere all’immagine del circolo. Se pure lo schema del circolo non è una immagine ma una regola per costruire eventualmente l’immagine, purtuttavia nel concetto empirico di piatto

dovrebbe trovar posto in qualche modo la costruibilità della sua forma, e proprio in senso visivo. Si deve concludere che quando Kant pensa allo schema del cane sta pensando a qualcosa di molto affine a quello che, nell’ambito delle attuali scienze cognitive, Marr e Nishishara (1978) hanno chiamato un “3D Model”, e che rappresentano come in Figura 2.2. Nel giudizio percettivo si applica il modello 3D al molteplice dell’esperienza, e si distingue un x come uomo, e non come cane. Il che mostrerebbe come un giudizio percettivo non si risolva necessariamente in un asserto verbale. In effetti esso si basa sull’applicazione di un diagramma strutturale al molteplice delle sensazioni. Che poi occorrano altri giudizi per determinare il concetto di uomo in tutte le sue proprietà possibili (e come accade per tutti i concetti empirici il compito pare essere infinito, mai pienamente realizzato) è un’altra cosa. Con un modello 3D potrei persino confondere un uomo con un primate e viceversa - ma è esattamente quello che talora può avvenire, mentre è difficile che lo scambi con un serpente. Il fatto è che da uno schema del genere in qualche modo si parte, prima ancora di sapere o di asserire che l’uomo ha un’anima, che parla, e persino che ha il pollice contrapposto. Si potrebbe dire a questo punto che lo schema del concetto empirico viene a coincidere col concetto dell’oggetto: anzi si potrebbe dire che intorno allo schema viene a costituirsi una sorta di trinità, le cui tre “persone” sono in ultima analisi una e una sola (anche se possono venir considerate da tre punti di vista): qui si stanno identificando schema, concetto e significato. Produrre lo schema del cane significa averne almeno un primo concetto essenziale. Un modello 3D dell’uomo corrisponde a un concetto di “uomo”? Certamente non per quanto concerne la classica definizione (animale razionale mortale), ma per quanto concerne la possibilità di riconoscere un essere umano, e di potervi poi aggiungere le determinazioni che derivano da questa prima identificazione, certamente sì. E questo spiega perché Kant nella Logica (II, 103) avvertiva che la sintesi dei concetti empirici non potrà mai essere compiuta, perché nel corso dell’esperienza sarà possibile individuare altre note dell’oggetto cane o uomo. Salvo che, con espressione troppo forte, Kant diceva che dunque i concetti empirici “non possono nemmeno venire definiti”. Non possono venire definiti

una volta per tutte come i concetti matematici, ma ammettono un primo nucleo intorno al quale poi si raggrumeranno (o si ordineranno armoniosamente) le successive definizioni. Possiamo dire che questo primo nucleo concettuale è anche il significato che corrisponde al termine con cui lo esprimiamo? Kant non usa molto la parola significato (Bedeutung) ma, guarda caso, la usa proprio quando parla dello schema:18 i concetti sono del tutto impossibili, né possono avere qualsiasi significato, quando non sia dato un oggetto, o ad essi stessi, o almeno agli elementi di cui essi consistono (CP/B: 135). Kant sta suggerendo in modo meno esplicito quella coincidenza di significato linguistico e significato percettivo che sarà poi energicamente asserita da Husserl: è in una “unità d’atto” che l’oggetto rosso viene riconosciuto come rosso e denominato come rosso. “In fin dei conti denominare come rosso - nel senso della denominazione attuale, che presuppone la sottostante intuizione del denominato - e riconoscere come rosso sono espressioni di significato identico” (Ricerche Logiche vi, 7: 327). Ma se così è, non solo la nozione di concetto empirico, ma anche quella di significato di termini che rinviano a oggetti percepibili (per esempio nomi di generi naturali), apre un nuovo problema. Ed è che il primo nucleo di significato, quello che si identifica con lo schema concettuale, non può essere ridotto a mera informazione classificatoria: il cane non viene capito e identificato (e riconosciuto) perché è un animale mammifero, ma perché ha una certa forma (e per il momento lasciamo pure a questo termine tutte le sue connotazioni aristoteliche, per quanto pericolosissime in questo contesto). Lo abbiamo appena visto, al concetto di piatto deve pure corrispondere la forma della circolarità e dello schema del cane Kant ci ha detto che fa parte anche il fatto che abbia zampe e che siano quattro. Un uomo (nel senso di appartenente al genere umano) è pur sempre qualcosa che si muove secondo le articolazioni previste dal modello 3D. Da dove proviene questo schema? Se per lo schema delle figure geometriche bastava una riflessione sulla intuizione pura dello spazio, e quindi lo schema poteva essere tratto dalla costituzione stessa del nostro intelletto, non così certamente avviene per lo schema (e quindi il concetto) di cane. Altrimenti avremmo un repertorio, se non di idee innate, di schemi innati, e con lo schema della caninità quello della

cavallinità, e così via sino a esaurire l’intero ammobiliamento dell’universo: e in tal caso dovremmo avere innato anche lo schema dell’ornitorinco, anche prima di averlo mai visto, altrimenti vedendolo non potremmo pensarlo. È più che evidente che Kant non poteva aderire a un platonismo di questo tipo (ed è discutibile se vi aderisse Platone). Allora, avrebbero detto gli empiristi, lo schema lo si trae dall’esperienza, lo schema del cane altro non sarebbe che l’idea lockiana del cane. Ma questo per Kant è inaccettabile, visto che si ha esperienza proprio applicando gli schemi. Non posso astrarre lo schema del cane dai dati dell’intuizione, perché essi diventano pensabili proprio in conseguenza all’applicazione dello schema. E dunque siamo in un circolo vizioso dal quale (mi pare si possa affermare con tranquillità) la prima Critica non fa nulla per uscire. Non resterebbe che una soluzione: riflettendo sui dati dell’intuizione sensibile, comparandoli, valutandoli, per nativa e segretissima arte nascosta nelle profondità dell’animo umano (e dunque del nostro stesso apparato trascendentale), noi non astraiamo bensì costruiamo gli schemi. Che lo schema del cane ci provenga dall’educazione, e che non ci avvediamo neppure di applicarlo, poiché per vitium subreptionis siamo portati a ritenere di vedere un cane perché riceviamo delle sensazioni, di questi accidenti del modo quasi inconscio con cui mettiamo in opera l’apparato trascendentale, Kant (si è visto) ha fatto giustizia. Che lo schematismo kantiano implichi - nel senso che non può non condurre a pensarvi - un costruttivismo, non è idea originale, specie in quella sorta di ritorno a Kant che si rileva in molte scienze cognitive contemporanee. Ma quanto lo schema possa e debba essere una costruzione, non dovrebbe emergere tanto dal fatto che si applichino schemi già costruiti (come quello del cane); il vero problema è che cosa accade quando si deve costruire lo schema di un oggetto ancora ignoto?

2.7. L’ornitorinco Se si è scelto l’ornitorinco come esempio di oggetto ignoto non è per puro capriccio. L’ornitorinco viene scoperto in Australia a fine Settecento e viene dapprima nominato come watermole, duck-mole, o

duckbilled platypus. Nel 1799 ne viene esaminato in Inghilterra un esemplare impagliato e la comunità dei naturalisti non crede ai propri occhi, tanto che qualcuno insinua che si tratti dello scherzo di un taxidermista. Come si pervenga a studiarlo e definirlo, dirò in 4.5.1. Sta di fatto che quando appare l’ornitorinco in Occidente Kant aveva già scritto le sue opere (l’ultima opera pubblicata, l’Antropologia da un punto di vista pragmatico, è del 1798). Quando si inizia a discutere sull’ornitorinco Kant è già entrato nella sua fase di obnubilamento mentale; può darsi che qualcuno gliene abbia fatto cenno, ma sarebbero pur sempre state notizie imprecise. Quando si decide finalmente che l’ornitorinco è un mammifero che depone uova, Kant è morto da ottant’anni. Siamo dunque liberi di condurre il nostro esperimento mentale e decidere (noi) che cosa avrebbe fatto Kant di fronte all’ornitorinco. Si sarebbe trattato di figurarne lo schema, partendo da impressioni sensibili, ma queste impressioni sensibili non si adattavano ad alcuno schema precedente (come si poteva mettere insieme il becco e le zampe palmate con il pelo e la coda da castoro, o l’idea di castoro con quella di un animale oviparo, come si poteva vedere un uccello là dove appariva un quadrupede, e un quadrupede là dove appariva un uccello?). Kant si sarebbe trovato nella stessa situazione di Aristotele quando, tracciando ogni regola possibile per distinguere i ruminanti dagli altri animali, comunque si muovesse non riusciva mai a collocare il cammello, che sfuggiva a ogni definizione per genere e differenza, e se ne adeguava una, cacciava da quello stesso spazio definitorio il bue, che pure rumina anch’esso.19 Qualcuno sarebbe tentato di dire che per Aristotele la situazione sarebbe stata più imbarazzante ancora in quanto, poiché sarebbe stato convinto che l’ornitorinco un’essenza dovesse pure averla, indipendentemente dal nostro intelletto, tanto più doveva turbarlo l’impossibilità di trovarne una definizione. Il fatto è che anche Kant, confutatore dell’idealismo, avrebbe saputo benissimo che l’ornitorinco, se glielo offriva l’intuizione sensibile, c’era, e quindi doveva poter essere pensato; e da qualsiasi parte arrivasse la forma che gli avrebbe conferito, doveva essere possibile costruirla. A quale problema si sarebbe trovato confrontato Kant di fronte all’ornitorinco? I termini del problema gli si sono chiariti solo nella Critica del Giudizio (o della capacità o facoltà di giudicare, come ormai

si preferisce tradurre). Il giudizio è la facoltà di pensare il particolare come contenuto nel generale, e se è già dato il generale (la regola, la legge), il giudizio è determinante. Ma se è dato solo il particolare e si deve trovare il generale, il giudizio è allora riflettente. Introducendo lo schematismo nella prima versione del sistema, come aveva suggerito Peirce, Kant si trova tra le mani un concetto esplosivo che lo obbliga ad andar oltre: verso la Critica del giudizio, appunto. Ma, si può dire, una volta che dallo schema si arriva al giudizio riflettente, entra in crisi la stessa natura dei giudizi determinanti. Perché la capacità di giudizio determinante (lo si apprende finalmente a chiare lettere nel capitolo della Critica del giudizio sulla dialettica della capacità di giudizio teleologica) “non ha di per sé principi che fondino concetti di oggetti”; essa si limita a sussumere oggetti sotto leggi o concetti dati quali principi. “Così la capacità di giudizio trascendentale, che conteneva le condizioni per sussumere sotto categorie, non era per sé nomotetica, ma indicava semplicemente le condizioni dell’intuizione sensibile sotto le quali si può dare realtà (applicazione) a un concetto dato.” Quindi ogni concetto di oggetto, per essere fondato, deve essere posto dal giudizio riflettente, che “deve sussumere sotto una legge che non è ancora data” (CG § 69). La natura, a Kant, sta davanti agli occhi, e il suo nativo realismo gli impedisce di pensare che gli oggetti di natura non siano lì, funzionanti in un certo modo, dato che vanno avanti da sé, e un albero produce un altro albero - della stessa specie - e nel contempo cresce e dunque produce anche se stesso come individuo; e l’occhio di una foglia d’albero innestato nel ramo di un altro produce ancora una volta un vegetale della stessa specie; l’albero vive come un tutto a cui convergono le parti, poiché le foglie sono prodotte dall’albero, ma la defogliazione inciderebbe sulla crescita del fusto. Dunque l’albero vive e cresce seguendo una propria e organica legge interna (CG § 64). Ma quale sia questa legge non si può sapere dall’albero, dato che i fenomeni non ci dicono nulla del noumeno. Né ce lo dicono le forme a priori dell’intelletto puro, perché gli enti di natura rispondono a leggi particolari e molteplici. Eppure dovrebbero essere considerate come necessarie secondo un principio dell’unità del molteplice che peraltro ci è sconosciuto. Questi oggetti della natura sono (oltre che alle leggi generalissime che rendono pensabili i fenomeni della fisica) proprio i cani, le pietre, i

cavalli - e gli ornitorinchi. A proposito di questi oggetti dobbiamo poter dire come si organizzano in generi e specie ma - si badi - generi e specie non sono solo un nostro arbitrio classificatorio: “nella natura c’è una subordinazione di generi e specie che noi possiamo cogliere; i generi si approssimano a loro volta l’uno all’altra secondo un principio comune, affinché sia possibile un passaggio dall’uno all’altro e, con ciò, a un genere superiore” (CG Intr. V). E allora si cerca di costruire il concetto dell’albero (lo si assume) come se gli alberi fossero quali noi possiamo pensarli. Si immagina qualcosa come possibile secondo il concetto (si tenta l’accordo della forma con la possibilità della cosa stessa, anche se non ne abbiamo alcun concetto) e lo si pensa quale organismo che obbedisce a dei fini. Interpretare qualcosa come se fosse in un certo modo significa avanzare una ipotesi, perché il giudizio riflettente deve sussumere sotto una legge che non è ancora data “e dunque di fatto non è che un principio della riflessione su oggetti per i quali oggettivamente ci manca del tutto una legge o un concetto dell’oggetto che fosse sufficiente per i casi che si presentano” (CG § 69). E deve essere un tipo di ipotesi molto avventuroso, perché dal particolare (da un Risultato) occorre inferire una Regola che non si conosce ancora; e per trovare da qualche parte la Regola occorre ipotizzare che quel Risultato sia un Caso di quella Regola da costruire. Kant non si è espresso in questi termini, certo, ma lo ha fatto il kantiano Peirce: è chiaro che il giudizio riflettente altro non è che un’abduzione. In questo processo abduttivo, si è detto, i generi e le specie non sono puro arbitrio classificatorio - e se tali fossero potrebbero solo assestarsi ad abduzione avvenuta, a una fase avanzata dell’elaborazione concettuale. Alla luce della terza Critica si deve ammettere che il giudizio riflettente in quanto teleologico assegna un carattere di “animalità” (oppure di “essere vivente”) già nella costruzione schematica. Riflettiamo su quanto sarebbe accaduto a Kant se avesse visto un ornitorinco. Avrebbe avuto la intuizione di una molteplicità di tratti che lo obbligavano a costruire lo schema di un essere autonomo, non mosso da forze esterne, che esibiva una coordinazione nei propri movimenti, un rapporto organico e funzionale tra becco (che gli consente di prender cibo), zampe (che gli consentono di nuotare), testa, tronco e coda. L’animalità dell’oggetto gli si sarebbe proposta come elemento fondante dello schema percettivo, non come attribuzione

astratta successiva (che non avrebbe fatto altro che ratificare concettualmente quello che lo schema già conteneva).20 Se Kant avesse potuto osservare l’ornitorinco (morfologia, usi e costumi) come si è fatto via via nei due secoli successivi, sarebbe probabilmente arrivato alla conclusione a cui perviene Gould (1991: 277): questo animale, già apparso nel Mesozoico, prima degli altri mammiferi del Terziario, e mai più evolutosi, non rappresenta un goffo tentativo della natura per produrre qualcosa di meglio ma è un capolavoro di design, un esempio fantastico di adattamento ambientale, che ha permesso a un mammifero di sopravvivere e prosperare nei fiumi. Il suo pelame pare fatto apposta per proteggerlo dall’acqua fredda, esso sa regolare la propria temperatura corporale, tutta la sua morfologia lo rende adatto a tuffarsi nell’acqua a trovare cibo tenendo gli occhi e gli orecchi chiusi, gli arti anteriori lo rendono adatto a nuotare, i posteriori e la coda agiscono da timone, i famosi speroni posteriori lo rendono atto a competere con altri maschi nella stagione degli amori. L’ornitorinco ha insomma una originalissima struttura, perfettamente disegnata per gli scopi a cui è stata destinata. Ma probabilmente Gould non avrebbe potuto dare questa lettura “teleologica” dell’ornitorinco se Kant non ci avesse suggerito che “un prodotto organizzato della natura è quello in cui tutto è fine e, vicendevolmente, anche mezzo” (CG § 66) e che i prodotti della natura si presentino (a differenza delle macchine, mosse da una mera forza motrice, bewegende Kraff), come organismi agitati interiormente da una bildende Kraft, una capacità, una forza formante. Eppure Gould, per definire questa bildende Kraft, non ha trovato di meglio che rifarsi alla metafora del design, che è un modo di foggiare enti non naturali. Non credo che Kant avrebbe potuto dargli torto, anche se così facendo si sarebbe scoperto in felice contraddizione. È che la Capacità di Giudizio, una volta entrata in scena come riflettente e teleologica, travolge e domina l’intero universo del conoscibile, e investe ogni oggetto pensabile, anche una sedia. È vero che una sedia, come oggetto dell’arte, potrebbe essere giudicata solo come bella, puro esempio di finalità senza scopo e universalità senza concetto, fonte di piacere senza interesse, risultato di un libero gioco dell’immaginazione e dell’intelletto. Ma a questo punto ci vuole poco ad aggiungere una regola e uno scopo là dove abbiamo cercato di astrarne, e la sedia verrà vista secondo l’intenzione di chi l’ha concepita come oggetto

funzionale, finalizzata alla propria funzione, organicamente strutturata in modo che ogni sua parte sostenga il tutto. È Kant a passare abbastanza disinvoltamente da giudizi teleologici concernenti enti di natura a giudizi teleologici concernenti prodotti di artificio: “Se qualcuno percepisse, in un paese che non gli pare abitato, una figura geometrica, disegnata nella sabbia, mettiamo un esagono regolare, ecco che la sua riflessione, elaborando un concetto di tale figura, si accorgerebbe tramite la ragione, sia pur oscuramente, dell’unità del principio di generazione di questo esagono, e così, conformemente alla ragione, valuterebbe che né la sabbia, né il mare vicino, né i venti, e neanche gli animali con le loro impronte, che egli conosce, né ogni altra causa priva di ragione sono il fondamento della possibilità di tale figura: perché una coincidenza con tale concetto, che è possibile solo nella ragione, gli sembrerebbe così infinitamente contingente che tanto varrebbe che non ci fosse nessuna legge naturale al riguardo; e gli sembrerà che di conseguenza non sia nemmeno una causa nella natura (che produce effetti in modo meramente meccanico) a poter anche contenere la causalità per tale effetto, bensì che lo possa solo il concetto di tale oggetto, come concetto che solo la ragione può dare e col quale può confrontare l’oggetto, e che di conseguenza quell’oggetto possa senz’altro essere considerato come fine, ma non come fine naturale: dunque, come prodotto dell’arte (vestigium hominis video.)” (CG § 64). Kant è certamente tra coloro che hanno convinto i filosofi che è lecito costruire, senza un punto fermo, un periodo che conta nell’edizione dell’Accademia ventidue righe, ma ci ha ben raccontato come si sviluppa un’abduzione degna di Robinson Crusoe. E se qualcuno osservasse che in tal caso l’arte ha pur sempre imitato una figura regolare, che non è inventata dall’arte, ma prodotto di intuizioni matematiche pure, basterebbe un esempio che precede di poco quello citato: dove, a esempio di finalità empirica (contrapposta a quella pura del cerchio, che sembra essere concepito al fine di far risaltare tutte le dimostrazioni che se ne possono dedurre) si propone un bel giardino, e certamente un bel giardino alla francese, dove l’arte prevale sulla natura, con le sue aiuole e i suoi viali bene ordinati; e si parla di finalità, empirica, certo, e reale, in quanto sappiamo bene che il giardino è stato disposto secondo uno scopo e una funzione. Si può dire che il vedere il giardino o la sedia come organismo finalizzato richiede una ipotesi

meno avventurosa, perché già so che gli oggetti artificiali obbediscono all’intenzione dell’artefice, mentre per la natura il giudizio postula il fine (e indirettamente una formatività artefice, una sorta di natura naturans) come unica possibilità per capirla. Ma in ogni caso anche l’oggetto artificiale non può non venir investito dal giudizio riflettente. Sarebbe ottimistico dire che questa versione teleologica dello schema si dispiega con assoluta chiarezza anche nella terza Critica. Si veda per esempio il celebrato § 59 che ha fatto versare fiumi di inchiostro a chi ha cercato di ritrovare in Kant gli elementi di una filosofia del linguaggio. Anzitutto vi si delinea una differenza tra schemi, propri dei concetti puri dell’intelletto, ed esempi (Beispiele) che valgono per i concetti empirici. L’idea in sé non sarebbe priva di fascino: nello schema del cane o dell’albero entrano in gioco idee “prototipiche”, come se per l’ostensione di un cane (o dell’immagine di un singolo cane) si potessero rappresentare tutti i cani. Tuttavia rimarrebbe da decidere come questa immagine, che deve mediare tra il molteplice dell’intuizione e il concetto, non possa già essere intessuta di concetti per essere l’immagine di un cane in generale e non di quel cane. E, ancora una volta, quale “esempio” di cane medierebbe tra intuizione e concetto, visto che per i concetti empirici pare proprio che lo schema venga a coincidere proprio con la possibilità di figurare un concetto generico? Subito dopo si dice che l’esibizione sensibile di qualcosa (“ipotiposi”) può essere schematica quando a un concetto colto dall’intelletto viene data l’intuizione corrispondente (e ciò vale per lo schema del circolo, indispensabile per comprendere il concetto di “piatto”); ma è simbolica quando a un concetto che solo la Ragione può pensare, non essendoci intuizione corrispondente, ne viene provvista una per modo d’analogia: come accadrebbe quando volessi rappresentare lo stato monarchico come un corpo umano. Qui certamente Kant sta parlando non solo di simboli nel senso logicoformale (che per lui sono meri “caratterismi”) ma di fenomeni come la metafora o l’allegoria. Quindi tra schemi e simboli rimane uno iato. Se per l’ornitorinco posso ancora dire che il primo impatto è stato metaforico (“talpa acquatica”), non così si può dire del cane. C’è uno iato, che credo Kant cerchi di colmare nell’Opus Postumum. Di cui, senza penetrarne gli intricati labirinti, si può certo dire che ivi

Kant cerca ancora più di determinare le varie leggi particolari della fisica che non possono essere desunte soltanto dalle categorie. Kant, per potere fondare la fisica, deve postulare l’etere come materia che, diffusa in tutto lo spazio cosmico, si trova in tutti i corpi e li penetra. Le percezioni esterne, come materiale per un’esperienza possibile, alle quali manca soltanto la forma della loro connessione, sono l’effetto di forze agitanti (o motrici) della materia. Ora, per mediare l’applicazione di queste forze motrici ai rapporti che si presentano nell’esperienza, occorre individuare leggi empiriche. Esse non sono date a priori, necessitano di concetti costruiti da noi (selbstgemachte). Questi non sono concetti dati dalla ragione o dall’esperienza ma concetti fattizi. Sono problematici (e si ricorda che un giudizio problematico dipende dal Postulato del Pensiero Empirico in Generale per cui ciò che si accorda con le condizioni formali dell’esperienza è possibile). Tali concetti debbono essere pensati come fondamento dell’indagine naturale. Si deve dunque postulare (nel caso del concetto fattizio di etere) un tutto assoluto sussistente nella materia. Kant ripete varie volte che questo concetto non è un’ipotesi bensì un postulato della ragione, ma la sua diffidenza verso il termine ipotesi ha radici newtoniane: in effetti un concetto (costruito per così dire sul nulla) che rende possibile la totalità dell’esperienza è un’abduzione che ricorre, per spiegare alcuni Risultati, a una Regola costruita ex novo.21 Né lasciamoci distrarre dal fatto che il postulato dell’etere si sia poi dimostrato erroneo: ha funzionato abbastanza bene per lungo tempo e le abduzioni (si pensi alla teoria degli epicicli e dei deferenti) si dimostrano buone quando reggono a lungo, sino a che non entra in scena un’abduzione più adeguata, economica e potente. Come nota Vittorio Mathieu a proposito dell’ultimo Kant, “l’intelletto fa l’esperienza progettando la struttura secondo cui le forze motrici dell’oggetto possono agire”. Il giudizio riflettente più che osservare (e di lì produrre schemi) produce schemi per poter osservare, e sperimentare. E “tale dottrina va al di là di quella Critica, per la libertà che assegna alla progettazione intellettuale dell’oggetto”.22 Con questo tardo schematismo l’intelletto non costruisce la semplice determinazione di un oggetto possibile, ma fa l’oggetto, lo costruisce, e in questa attività (di per sé problematica) procede per tentativi.23

La nozione di tentativo diventa a questo punto cruciale. Se lo schema dei concetti empirici è un costrutto che cerca di rendere pensabili gli oggetti di natura, e se dei concetti empirici non si può dare sintesi mai compiuta, perché nell’esperienza si possono scoprire sempre nuove note del concetto (L I § 103), allora gli schemi stessi non potranno che essere revisibili, fallibili, destinati a evolversi nel tempo. Se i concetti puri dell’intelletto potevano costituire una sorta di repertorio intemporale, i concetti empirici non possono che diventare “storici”, o culturali che dir si voglia. Ovvero, come dice Paci (1957: 185), sono fondati non sulla necessità ma sulla possibilità, “la sintesi è impossibile senza il tempo e quindi senza lo schema, senza l’immagine che è sempre qualcosa di più della semplice proiezione, qualcosa di nuovo o, come noi diremmo, di progettante, di aperto all’avvenire, al possibile”. Kant non ha “detto” questo, ma pare difficile non dirlo se si porta alle sue ultime conseguenze la dottrina dello schematismo. In questo senso comunque lo ha certo inteso Peirce, che decisamente ha posto l’intero processo cognitivo sotto il segno dell’inferenza ipotetica, per cui le sensazioni appaiono come interpretazioni di stimoli; le percezioni come interpretazioni di sensazioni; i giudizi percettivi come interpretazioni di percezioni; le proposizioni particolari e generali come interpretazioni di giudizi percettivi; le teorie scientifiche come interpretazioni di serie di proposizioni (cfr. Bonfantini e Grazia 1976: 13). Di fronte alla infinita segmentabilità del continuum sia gli schemi percettivi che le stesse proposizioni circa le leggi di natura (come sia un rinoceronte, se il delfino sia un pesce, se sia possibile pensare l’etere cosmico) ritagliano entità o rapporti che - sia pure con diversità di grado - permangono sempre ipotetici e sottomessi alla possibilità del fallibilismo. Naturalmente a questo punto anche il trascendentalismo subirà la sua rivoluzione copernicana. La garanzia che le nostre ipotesi siano “giuste” (o almeno accettabili come tali sino a prova contraria) non sarà più cercata nell’a priori dell’intelletto puro (se anche di esso si salveranno le forme logiche più astratte) bensì nel consenso, storico, progressivo, temporale anch’esso, della Comunità.24 Di fronte al rischio del fallibilismo anche il trascendentale si storicizza, diventa un accumulo di interpretazioni accettate, e accettate dopo un processo di discussione, selezione, ripudio.25 Instabile fondazione, quella basata

sullo pseudo-trascendentale della Comunità (idea ottativa più che categoria sociologica): eppure è il Consenso della Comunità che ci fa oggi propendere per l’abduzione kepleriana piuttosto che per quella di Tycho Brahe. Naturalmente la Comunità ha provvisto quelle che si chiamano prove, ma non è l’autorevolezza della prova in se stessa quella che ci convince, o ci trattiene dal falsificarla: è piuttosto la difficoltà a mettere in questione una prova senza sconvolgere l’intero sistema, il paradigma che la sorregge. Questa de-trascendentalizzazione della conoscenza la si ritrova, per esplicita influenza peirceana, nella nozione di Dewey di “asserzione giustificata”, o come si preferisce dire oggi, di asseribilità garantita, e rimane presente nelle varie concezioni olistiche del sapere. Ma, malgrado in tal senso il concetto di verità accettabile dipenda dalla pressione strutturale di un corpo di conoscenze interdipendenti, all’interno di questo corpo emergono pur sempre dei fatti, che si presentano via via, e che appaiono come “recalcitranti all’esperienza”. Ed ecco che così riappare all’interno di un paradigma unitario e solidale quello che per Peirce era pur sempre uno dei problemi fondamentali (e dei compiti) della Comunità: come riconoscere - dopo aver lungamente e collettivamente battuto la testa su dei “no”, su resistenze e rifiuti - le linee di tendenza del continuum. Ma su questo ritornerò in 2.9.

2.8. Rilettura di Peirce Si era detto in 2.2 che probabilmente Peirce, nel cercare di districarsi tra Ground, giudizio percettivo e Oggetto Immediato, cercava di risolvere, dal punto di vista di una visione inferenziale della conoscenza, il problema dello schematismo. Non credo che, nel corso delle varie riprese del tema che percorrono l’intera sua opera, Peirce ci abbia dato una risposta unica e definitiva. Ne tentava molte. Aveva bisogno di un concetto di schema, ma non poteva trovarne le modalità già fondate e non poteva dedurle. Doveva scoprirle “in azione”, nel vivo di una attività incessante di interpretazione. Per cui non basta, credo, affidarsi alla filologia, o almeno non ho intenzione di farlo in questa sede. Tenterò piuttosto di dire come credo che vada letto (se volete, ricostruito) Peirce, ovvero di fargli dire quello che vorrei avesse detto, perché solo in tal caso riuscirei a capire che cosa volesse dire.

Fumagalli (1995: 3) pone in evidenza come a partire dal 1885 si verifichi una svolta nel pensiero peirceano. Da questi anni le categorie della “New list” giovanile non sono più dedotte da una analisi della proposizione ma riguardano tre ambiti dell’esperienza. C’è una sorta di passaggio, direi, dalla logica alla gnoseologia: il Ground, per esempio, non è più un predicato ma una sensazione. Del pari il secondo momento, quello dell’indicalità, diventa un tipo di esperienza che ha la forma dello shock, è un impatto con un individuo, con una haecceitas la quale va a “colpire” il soggetto senza essere ancora una rappresentazione. Fumagalli osserva che, se è così, abbiamo un ritorno kantiano alla immediatezza dell’intuizione, anteriore a ogni attività inferenziale. Tuttavia siccome questa intuizione, come vedremo, rimane il puro sentimento che qualcosa mi sta di fronte, sarebbe ancora priva di ogni contenuto intellettuale e pertanto (mi pare) potrebbe reggere alla polemica anticartesiana del giovane Peirce. Il Ground è una Firstness. Lo abbiamo visto, il termine può significare “sfondo” (e sarebbe interpretazione ingannevole) oppure “base” o “fondamento”. Lo è nel senso del processo conoscitivo, non metafisico, altrimenti il Ground sarebbe la sostanza, qualcosa che si candida oscuramente a diventare subjectum di predicazioni. Invece appare esso stesso come predicato possibile, più come un “è rosso” che come “questo è rosso”. Siamo ancora prima dell’incontro con qualcosa che ci resiste, stiamo per entrare nella Secondness, ma non ci siamo ancora. A un certo punto Peirce ci dice che è “pura species”, ma non credo si possa intendere il termine nel suo senso scolastico: va inteso nel suo senso corrente, come apparenza, sembianza (Fabbrichesi 1981: 471). Perché Peirce lo chiama icona, e somiglianza (likeness), e dice che ha la natura di una idea? Credo accada perché Peirce cresce nella tradizione greco-occidentale, per cui la conoscenza passa sempre attraverso una visione. Se Peirce si fosse formato nella cultura ebraica, avrebbe forse parlato di un suono, di una voce.

2.8.1. Il Ground, i ‘qualia’ e l’iconismo primario E infatti che cosa ha di visivo l’immediata sensazione di calore, che è Firstness allo stesso titolo di una sensazione di rosso? In entrambi i casi abbiamo ancora qualcosa di imprendibile, tanto che Peirce con

espressione molto “tenera” dice che l’idea del First è “so tender that you cannot touch it without spoiling it” (CP 1.358). Ma come tale il Ground va visto e dal punto di vista del realismo di Peirce e dal punto di vista della sua teoria dell’icona. Dal punto di vista del realismo peirceano, la Firstness è una presenza “such as it is”, niente altro che un carattere positivo (CP 5.44).26 È una “quality of feeling”, come un color porpora avvertito senza alcun senso d’inizio o di fine dell’esperienza, senza alcuna autocoscienza distinta dal sentimento del colore, non è un oggetto né è inizialmente inerente ad alcun oggetto riconoscibile, non ha alcuna generalità (CP 7.530). Essa è, e ci induce a passare alla Secondness, sia per renderci conto della coesistenza di più qualità, che già si oppongono mutuamente prima di opporsi a noi (7.533), sia perché a quel punto dobbiamo pur dire che qualcosa c’è. Da quel momento può già scatenarsi l’interpretazione, ma in avanti, non all’indietro. Però, apparendo, essa è ancora “mere maybe” (CP 1.304), potenzialità senza esistenza (CP 1.328), semplice possibilità (CP 8.329), in ogni caso possibilità di un processo percettivo, “not rational, yet capable of rationalisation” (CP 5.119). “Non può essere pensata in modo articolato; asseritela, e avrete già perduto la sua caratteristica innocenza; perché l’asserzione implica sempre la negazione di qualcosa d’altro... Ricordate solo che ogni descrizione di essa può essere falsa” (CP 1. 357).27 Qui Peirce non è kantiano: non si preoccupa affatto di scoprire nell’intuizione una molteplicità. Se vi è intuizione primaria, essa è assolutamente semplice. Immagino che altri attributi, dopo il primo rosso, il primo caldo, il primo senso di durezza, possano aggiungersi poi, nel processo inferenziale che ne consegue; ma l’inizio è assolutamente puntuale. Credo che, quando Peirce dice che il Ground è una qualità, voglia dire quello che la filosofia definisce ancora oggi il fenomeno dei qualia (cfr. Dennett 1991). Del drammatico problema dei qualia il Ground esibisce tutte le antinomie: come può essere pura possibilità, anteriore a qualsiasi concettualizzazione, eppure diventare predicato, un generale predicabile di molti oggetti diversi - vale a dire, come può essere una sensazione di bianco un puro album che precede persino il riconoscimento dell’oggetto a cui inerisce, e tuttavia essere non solo nominabile, ma predicabile come albedo di oggetti diversi? E, ulteriore problema per Peirce, come è possibile che tale pura qualità e possibilità

(come si era accennato in 2.2) non possa essere né criticata né messa in questione? Iniziamo dall’ultimo problema. A proposito di una qualità Peirce non sta ancora parlando di giudizio percettivo ma di un mero “tono” della coscienza, ed è questo tono quello che egli definisce come resistente a ogni possibile critica. Peirce non ci sta dicendo che una sensazione di rosso è “infallibile”, bensì che, una volta che c’è stata, anche se poi ci accorgiamo che ci eravamo sbagliati, rimane indiscutibile che ci sia stata (cfr. Proni 1992, 3.16.1). C’è un esempio in CP 5.142 dove si parla di qualcosa che in prima istanza mi era apparso come di un bianco perfetto e poi, in una serie di comparazioni successive, mi appare come bianco sporco. Peirce avrebbe potuto sviluppare l’esempio e parlarmi di una casalinga che in un primo momento percepisce il lenzuolo appena lavato come bianchissimo, ma poi, comparandolo con un altro, ammette che il secondo è più bianco del primo. Non si creda che sia casuale o malizioso il riferimento allo schema canonico per la pubblicità televisiva dei detersivi: Peirce intendeva parlare proprio di questo problema. Di fronte alla pubblicità del detersivo Peirce ci avrebbe detto che la casalinga ha inizialmente avvertito la bianchezza del primo lenzuolo (puro “tono” della coscienza); poi, una volta passata al riconoscimento dell’oggetto (Secondness) e avere iniziato una comparazione nutrita d’inferenze (Thirdness), scoprendo che la bianchezza si presenta attraverso gradi, può affermare che il secondo lenzuolo è più bianco del primo, ma al tempo stesso non può cancellare l’impressione precedente, che come pura qualità è stata: e pertanto dice “credevo (prima) che il mio lenzuolo fosse bianco, ma ora che ho visto il suo, eccetera”. Ma - e veniamo al primo problema - nel corso di questo processo la casalinga, nel comparare diverse gradazioni di quell’album che inizialmente era pura possibilità di coscienza, ovvero reagendo all’album di almeno due lenzuola diverse, è passata al predicato dell’albedo, e cioè a un generale, che si può nominare e per cui esiste un Oggetto Immediato. Potremmo dire che un conto è sentire un oggetto come rosso, senza neppure avere ancora avuto coscienza che siamo di fronte a qualcosa di esterno alla coscienza, e un conto è operare la prescissione per cui si predica di quell’oggetto la qualità di essere rosso.

Ma con ciò non si sarebbe ancora risposto a una serie di domande. Avremmo chiarito di che cosa Peirce intendeva parlare, ma non come egli spiegasse il processo di cui parlava. Come accade che una pura qualità (Firstness), che dovrebbe essere il punto di partenza immediato e irrelato di ogni successiva percezione, possa funzionare come predicato, e quindi essere già stato nominato, se la segnità si instaura solo nella Thirdness? E come accade se, ogni conoscenza essendo inferenza, si ha un punto di partenza che inferenziale non può essere, poiché si manifesta immediatamente senza neppur poter essere discusso o negato? Per esempio, il Ground non dovrebbe essere neppure una icona, se l’icona è somiglianza, perché non può avere rapporti di somiglianza con nulla, se non con se stesso. Qui Peirce oscilla tra due nozioni: per un verso, lo abbiamo visto, il Ground è una idea, un diagramma scheletrico, ma se è tale è già Oggetto Immediato, piena realizzazione della Thirdness; per un altro verso esso è una Likeness che non assomiglia a nulla. Esso soltanto mi dice che la sensazione che provo in qualche modo promana dall’Oggetto Dinamico. In tal caso dobbiamo liberare (e anche contro Peirce, ogni qual volta, mutando di termine, ci sconvolge le idee) il concetto di somiglianza da quello di comparazione. La comparazione si dà nei rapporti di similitudine, quando sulla base di una proporzione posta noi diciamo, per esempio di un grafo, che esprime certe relazioni che dobbiamo supporre nell’oggetto. La similitudine (già impastata di leggi) spiega come funzionino le ipoicone, come i diagrammi, i disegni, i quadri, le partiture musicali, le formule algebriche. Ma l’icona non viene spiegata dicendo che è una similitudine, e neppure dicendo che è una somiglianza. L’icona è il fenomeno che fonda ogni possibile giudizio di somiglianza, ma non può venirne fondato. Quindi sarebbe ingannevole pensare l’icona come una “immagine” mentale che riproduce le qualità dell’oggetto, perché in tal caso sarebbe facile astrarre da molte immagini particolari una immagine generale, così come in qualche modo da tanti uccelli o tanti alberi si astrae (comunque ciò avvenga) una idea di uccello o di albero in generale. Non voglio dire che non si debbano ammettere immagini mentali o che in certi momenti Peirce non abbia pensato all’icona in termini di immagine mentale. Dico che per concepire il concetto di iconismo

primario, quello che si instaura nel momento del Ground, bisogna abbandonare persino la nozione di immagine mentale.28 Proviamo a eliminare i fatti mentali, e di mentale facciamo piuttosto un esperimento. Mi sono appena alzato e, ancora addormentato, metto la caffettiera sul fuoco. Probabilmente ho messo il gas troppo alto, o non ho posto la caffettiera nel punto giusto, ma sta di fatto che si è scaldato troppo anche il manico, e quando prendo la caffettiera per versare il caffè mi scotto. Tralascio di citare le imprecazioni d’uso, mi proteggo le dita, e verso il caffè. Fine della storia. Ma la mattina dopo commetto lo stesso errore. Se dovessi verbalizzare la seconda esperienza, direi che ho messo la stessa caffettiera sul fuoco e che ne ho ricavato la stessa sensazione dolorosa. In effetti i due tipi di riconoscimento sono diversi. Stabilire che la caffettiera sia la stessa è effetto di un complesso sistema di inferenze (piena Thirdness): potrei avere (come ho) due caffettiere dello stesso tipo, una più nuova e l’altra più vecchia, e stabilire quale delle due abbia preso implica una serie di riconoscimenti e congetture su alcune caratteristiche morfologiche dell’oggetto, e persino il ricordo di dove l’ho riposto il giorno prima. Ma “sentire” che quello che provo oggi è lo stesso (con trascurabili variazioni d’intensità termica) che ho provato ieri, questa è un’altra faccenda. Io sono abbastanza sicuro di avere avuto la stessa impressione di scottamento, o meglio provo una sensazione termica dolorosa che in qualche modo riconosco come simile a quella del giorno prima. Non credo che per attuare questo riconoscimento occorrano molte inferenze. La soluzione più comoda sarebbe che l’esperienza precedente mi ha lasciato nei circuiti neurali una “traccia”. C’è però il rischio di considerare già questa traccia come uno schema, un prototipo della sensazione, una regola per riconoscere sensazioni simili. Accettiamo pure una idea che circola negli ambienti del neoconnessionismo, per cui non è necessario che la rete neurale si costruisca un prototipo della categoria, e non ci sia distinzione tra regola e dati (memoria dello stimolo e memoria della regola avrebbero cioè la stessa configurazione, lo stesso pattern neurale). Più modestamente ancora si può assumere che, nel momento in cui io ho provato la sensazione di dolore, si sia attivato nel mio apparato nervoso un punto che è lo stesso che si era attivato il giorno prima e che questo punto, nell’attivarsi, in qualche modo mi abbia fatto sentire, insieme

alla sensazione termica, una sensazione di “di nuovo”. Non sono sicuro che si debba neppure presupporre una memoria, se non nel senso in cui se una volta abbiamo subito un trauma in una parte del corpo, il corpo ha conservato “memoria” dell’offesa e, a un nuovo trauma, reagisce in modo diverso che se fosse colpita una parte ancora vergine. Ecco, è come se la prima volta io abbia avvertito una sensazione di “caldo1” e la seconda una sensazione di “caldo2”. Gibson (1966: 278), che pure ritiene abbastanza motivata e tutto sommato comoda l’idea che la sensazione lasci una traccia, e che l’input presente debba in qualche modo riattivare la traccia depositata dell’esperienza precedente, osserva tuttavia che una spiegazione alternativa sarebbe che il giudizio di somiglianza tra stimoli riflette un accordo del sistema percettivo alle invarianti dello stimolo informativo. Nessuna traccia, nessuno “schema” preventivo, semplicemente qualcosa che non possiamo non chiamare adeguazione. Non è che siamo ripiombati in una teoria della conoscenza (o almeno del suo vestibolo sensoriale) come adaequatio. Si tratta di semplice adeguazione tra stimolo e risposta, e pertanto non dobbiamo affrontare tutti i paradossi di una teoria dell’adeguazione a livelli cognitivi superiori, per cui se percependo un cane lo troviamo adeguato al nostro schema del cane dobbiamo chiederci su quali basi si fondi il giudizio di adeguazione, e nel cercare il modello di adeguatezza si entra nella spirale del Terzo Uomo. No, questa identità, questa corrispondenza statistica tra stimolo e risposta ci dice che la risposta è esattamente quella provocata dallo stimolo. Che cosa significa in tal caso adeguazione? Supponiamo che qualcuno riesca a registrare il processo che si svolge nel nostro sistema nervoso ogni qual volta riceviamo lo stesso stimolo, e che la registrazione abbia sempre la configurazione x. Diremmo allora che x corrisponde adeguatamente allo stimolo e ne è l’icona. Quindi diciamo che l’icona esibisce una somiglianza con lo stimolo. Questa adeguazione che abbiamo deciso di chiamare somiglianza non ha nulla (ancora) a che vedere con una “immagine” che corrisponda punto a punto alle caratteristiche dell’oggetto o del campo stimolante. Come ricorda Maturana (1970: 10) due stati di attività in una data cellula nervosa possono essere considerati come lo stesso (ovvero come equivalenti) se “appartengono alla stessa classe” e sono definiti dallo stesso pattern di attività, senza che debbano avere la

natura di una mappa con corrispondenze punto a punto. Prendiamo per esempio come buona la legge di Fechner, per cui l’intensità di una sensazione è proporzionale al logaritmo dell’eccitatore fisico. Se così fosse, e se la proporzione fosse costante, l’intensità dell’eccitazione sarebbe l’icona dell’eccitatore (nella formula S = K log R il segno di uguaglianza esprimerebbe la relazione di somiglianza iconica). Credo che l’iconismo primario, per Peirce, stia in questa corrispondenza per cui lo stimolo è adeguatamente “rappresentato” da quella sensazione, e non da un’altra. Questa adeguazione non va spiegata, va soltanto riconosciuta. Ecco come in tal senso è l’icona che diventa parametro della somiglianza e non viceversa. Se da quel momento intendiamo parlare di altre e più complesse relazioni di somiglianza, o di calcolate relazioni di similitudine, è sul modello di quella somiglianza primaria che è l’icona che stabiliamo che cosa voglia dire, evidentemente in senso meno immediato, rapido, indiscutibile, essere simile-a.29 In 6.11 vedremo che un rapporto del genere, non mediato, indiscutibile (sempre che non intervengano elementi capaci di “ingannare” i sensi), si verifica con l’immagine speculare. Ma in questa sede preferisco evitare il richiamo a un’immagine di qualsiasi natura proprio per liberare la nozione di iconismo dal suo legame storico con le immagini visive.

2.8.2. La soglia inferiore dell’iconismo primario Se è possibile definire l’iconismo primario in termini non mentali è perché all’interno del pensiero peirceano si incrociano due prospettive, diverse ma mutuamente dipendenti: quella metafisico-cosmologica e quella cognitiva. E certo che, se non la si legge in chiave semiotica, la metafisica e la cosmologia di Peirce rimangono incomprensibili; ma altrettanto si dovrebbe dire della sua semiotica rispetto alla sua cosmologia. Categorie come Firstness, Secondness, Thirdness, e lo stesso concetto di interpretazione, non definiscono solo dei modi significandi e cioè delle modalità di conoscenza del mondo: sono anche modi essendi, modi in cui il mondo si comporta, procedimenti mediante i quali il mondo, nel corso dell’evoluzione, interpreta se stesso.30 Dal punto di vista cognitivo l’icona, vista nella sua natura di pura qualità, stato di coscienza, assolutamente irrelata, è una Likeness

perché è uguale (adeguata) a ciò che ne ha stimolato la nascita (e lo è anche se non viene ancora comparata al proprio modello, anche se non è ancora vista in connessione con alcun oggetto esterno ai sensi). Dal punto di vista cosmologico l’icona è la disponibilità naturale di qualcosa a incastrarsi con qualcosa d’altro. Se Peirce fosse venuto a conoscenza della teoria del codice genetico, avrebbe certamente giudicato iconico il rapporto che permette a catene di basi azotate di produrre successioni di amminoacidi, o a triplette di DNA di essere sostituite da triplette di RNA. Sto parlando di quella che nel Trattato (0.7) avevo definito come “soglia inferiore della semiotica”, escludendola da una discussione in cui si cercava di elaborare con semiotica dei rapporti culturali, l’unica che avesse un senso se si considerava l’Oggetto Dinamico come terminus ad quem dei processi di significazione e riferimento. Ma qui si sta ora considerando l’Oggetto Dinamico come terminus a quo, e pertanto questa semiosi naturale (a parte objecti) deve essere presa in considerazione. Con tutte le cautele del caso: non sto affatto ripudiando la distinzione (che rimane basilare) tra segnale e segno, tra processi diadici di stimolo-risposta e processi triadici di interpretazione, così che solo nella piena espansione della triadicità emergono fenomeni quali significato, intenzionalità, interpretazione (comunque si voglia considerarli). Sto però ammettendo con Prodi (1977) che per comprendere i fenomeni culturali superiori, che evidentemente non nascono dal nulla, occorre assumere che esistano delle “basi materiali della significazione”, e che tali basi stanno proprio in questa disposizione all’incontro e all’interazione che possiamo vedere come la prima apparizione (non ancora cognitiva e non certo mentale) dell’iconismo primario. In tal senso la condizione elementare della semiosi sarebbe uno stato fisico per cui una struttura è disposta a interagire con un’altra (Prodi avrebbe detto: “è disposta a essere letta da”). In un dibattito svoltosi tra immunologi e semiotici, e in cui gli immunologi sostenevano che a livello cellulare avvenivano fenomeni di “comunicazione” (Sercarz et al. 1988), la posta in gioco era di decidere se alcuni fenomeni di “riconoscimento” da parte di linfociti nel sistema immunitario potevano essere trattati in termini di “segno”, “significato”, “interpretazione” (vedi peraltro lo stesso problema in Edelman 1992, III, 8). Rimango

sempre cauto nell’estendere oltre la soglia inferiore della semiosi termini che indicano fenomeni cognitivi superiori; ma è certo che bisogna postulare quello che ora sto chiamando iconismo primario per spiegare perché e come “i linfociti T hanno la capacità di distinguere i macrofagi infetti da quelli normali perché riconoscono come segni di anormalità piccoli frammenti di bacteri sulla superficie del macrofago” (Eichmann 1988: 163). Eliminiamo pure da questo contesto la parola “segni”, riconosciamo a termini come “riconoscere” un valore metaforico (rifiutando che un linfocita riconosca qualcosa come noi riconosciamo il volto dei nostri genitori), asteniamoci dal commentare il fatto che per molti immunologi il linfocita compie anche delle “scelte” rispetto a situazioni alternative: rimane il fatto che, nella situazione citata, due qualcosa s’incontrano perché sono adeguati l’uno all’altro, come la vite è adeguata alla madrevite. Commentava Prodi (1988: 55) nel corso di quello stesso dibattito: “Un enzima... seleziona il proprio substrato tra un numero di molecole insignificanti con cui può collidere: reagisce e forma un complesso solo con i propri partner molecolari. Questo substrato è un segno per l’enzima (per il suo enzima). L’enzima esplora la realtà e trova quello che corrisponde alla propria forma: è una serratura che cerca e trova la propria chiave. In termini filosofici, un enzima è un lettore che ‘categorizza’ la realtà determinando l’insieme di tutte le molecole che possono fattualmente reagire con esso... Questa semiotica (o protosemiotica) è la caratteristica base dell’intera organizzazione biologica (sintesi proteica, metabolismo, attività ormonale, trasmissione di impulsi nervosi, e così via)”. Ancora una volta, mi asterrei dall’usare termini come “segno”, ma è indubbio che di fronte a questa serratura che cerca la propria chiave siamo di fronte a una proto-semiotica, ed è a questa disposizione proto-semiotica che tenderei a dare il nome di iconismo primario naturale. Ogni volta che mi sono chiesto come avrei riorganizzato il Trattato se avessi dovuto riscriverlo ora mi dicevo che avrei iniziato dalla fine, e cioè ponendo all’inizio la parte sui modi di produzione segnica. Era un modo per decidere che sarebbe stato interessante iniziare partendo da quello che accade quando, sottomessi alla pressione dell’Oggetto Dinamico, si decide di considerarlo terminus a quo. Se dovessi iniziare dalla fine, mi troverei di fronte a quella trattazione in cui (prendendo le mosse da Volli 1972) individuavo tra le prime modalità di produzione

(e riconoscimento) segnico le congruenze, e cioè i calchi (Eco 1975, 3.6.9). In quella sede mi interessava come partendo da un calco, dove a ciascun punto nello spazio fisico dell’espressione corrisponde un punto nello spazio fisico di un impressore, “trasformando all’indietro” si potesse inferire la natura dell’impressore. Partivo dall’esempio della maschera mortuaria perché ero interessato all’oggetto come terminus ad quem di un processo già cosciente di interpretazione, di riconoscimento di un segno. Ero interessato a tal punto al rapporto di costruzione di un contenuto possibile del segno che ero disposto a considerare anche casi d’interpretazione di una maschera mortuaria che non fosse tale, ma fosse simulazione di un impressore inesistente. Ora basta riprendere l’esempio e focalizzare l’attenzione non sul momento in cui si “legge” il calco, ma su quello in cui esso si produce (e si produce da solo, senza l’azione di un essere cosciente che intende produrre un segno destinato all’interpretazione, un’espressione che poi dovrà essere correlata a un contenuto). Saremmo allora a un inizio, ancora presemiotico, dove qualcosa viene premuto su qualcosa d’altro. Solo in linea teorica, chi ritrovasse quel concavo che qualcosa di convesso aveva prodotto, potrebbe proiettare all’indietro, cercando di inferire da quello che c’è ora quello che poteva esserci stato prima, di cui quello che c’è ora può essere assunto come l’impronta, e quindi l’icona. Ma a questo punto sorgerebbe un’obiezione. Se tale dovesse essere considerato l’iconismo primario, come si potrebbe definire il momento della Firstness attraverso la metafora del calco o dell’impronta, che prevede un agente impressore, e dunque un contatto originario, un confronto, una adeguazione de facto, tra due elementi? Saremmo già per ciò stesso nella Secondness. Pensiamo al processo di trasmissione del patrimonio genetico, di cui si parlava poco fa: quivi avvengono appunto fenomeni sterici, sostituzioni a incastro, e pertanto si avrebbe un rapporto stimolo-risposta che ha già a che fare, dal punto di vista peirceano, con la Secondness. Ma Peirce sarebbe stato probabilmente il primo a essere d’accordo: egli ha ripetuto più volte che la Firstness può essere prescissa (logicamente) dalla Secondness ma non può occorrere in assenza (cfr. Ransdell 1979: 59). Quindi parlando dell’iconismo primario come calco non si sta parlando

di incastri attuati, bensì di predisposizione all’incastro, di “somiglianza” per complementarità di un elemento rispetto a un elemento a-venire. L’iconismo primario naturale sarebbe la qualità propria di impronte che non hanno ancora trovato (necessariamente) il loro impressore, ma sono pronte a “riconoscerlo”. Ma se sapessimo che quella impronta è pronta a ricevere il proprio impressore, e conoscessimo le modalità dell’impressione a venire (la legge naturale per cui solo quella vite può avvitarsi in quella madrevite) ecco che potremmo (qualora quell’impronta fosse teoricamente vista come segno), inferire dall’impronta la forma dell’impressore. Proprio nello stesso modo in cui (come diremo più avanti) nel corso del processo percettivo da quella sensazione irrelata altrove chiamata Ground si può costruire l’Oggetto Immediato di qualcosa che dovrebbe possedere, tra le altre, anche quella qualità. Può sembrare paradossale parlare dell’icona, che per Peirce è momento primo di una evidenza assoluta, come di pura disposizione-a, in qualche modo di pura assenza, immagine di qualcosa che non c’è ancora. Parrebbe che questa icona primaria sia qualcosa come un buco, una entità di cui si è recentemente discusso, dato che è qualcosa di cui abbiamo esperienza quotidiana e che tuttavia si fa fatica a definire, e che può essere riconosciuta solo come mancanza all’interno di qualcosa che invece è presente (cfr. Casati e Varzi 1994). Eppure è proprio da quel non-essere che si può inferire il formato del “tappo” che potrebbe occluderlo. Ma poiché parlando di buchi già si entra nella metafisica (e si è detto che non si può capire l’iconismo primario se non in termini inizialmente metafisici), vorrei ricordare un’altra pagina di metafisica, il testo in cui Leibniz parlava dell’uno e dello zero (De organo sive arte magna cogitandi) e individuava due concetti fondamentali: “Dio stesso, e inoltre il nulla, ossia la privazione; il che viene dimostrato da una mirabile similitudine”. La similitudine era il calcolo binario dove “con mirabile metodo si esprimono in tal modo tutti i numeri mediante l’Unità e il Niente”. È singolare che, nel discutere che cosa sia l’icona (arruolata da sempre nell’esercito dell’analogico) si debba far ricorso al testo fondativo del futuro calcolo digitale, e ritrovarsi a tradurre il concetto d’icona in termini booleani. Ma in termini di dialettica tra presenza e assenza può essere definita la possibilità di ogni fenomeno sterico, compresa la mirabile adeguazione tra un buco e il suo tappo.

Ritrovando, nel definire la meno “strutturata” tra le esperienze, la primità iconica, il principio strutturale per cui “ogni elemento vale in quanto non è l’altro che, evocando, esclude” (cfr. Eco 1968, 2ª ed.: xii). Naturalmente, una volta accettato questo presupposto, si possono affrontare quelle situazioni a metà strada tra iconismo naturale primario e sistemi cognitivi non umani, come i casi di riconoscimento e di mimetizzazione tra animali, cavallo di battaglia (e mai metafora è stata più adeguata) degli studiosi di zoosemiotica.31 Tutti questi fenomeni, che personalmente riluttavo a considerare semiosici perché mi paiono collocarsi più dalla parte della reazione diadica (stimolo-risposta) che da quella triadica (stimolo-catena delle interpretazioni-eventuale interpretante logico finale), acquistano ora tutto il loro rilievo nel momento in cui si tratta (vedendo l’Oggetto Dinamico come terminus a quo) di trovare una base (e una preistoria) a quel momento iconico iniziale del processo cognitivo di cui Peirce ci parla. Altrimenti non si potrebbe neppure spiegare in che senso questo iconismo primario si lega, per Peirce, alla datità di quel molteplice dell’intuizione kantiano che costituisce lo “zoccolo duro” del processo conoscitivo; né si spiegherebbe la ferma fiducia che spingeva Kant a ribadire la sua “confutazione dell’idealismo”.

2.8.3. Il giudizio percettivo Una volta riconosciuto l’iconismo primario, ci si deve chiedere come, per Peirce, nel passaggio dal Ground all’Oggetto Immediato, esso venga rielaborato e trasformato a livelli cognitivi superiori. Passato all’universo del simbolico, quello che era l’irrefutabile “realismo” di base viene messo in questione, ovvero, viene sottomesso all’attività dell’interpretazione. Il momento iconico stabilisce che tutto parte da una evidenza, sia pure imprecisa, di cui bisogna rendere conto; e questa evidenza è pura Qualità che in qualche modo promana dall’oggetto. Ma che promani dall’oggetto non fornisce alcuna garanzia della sua “verità”. Non è, in quanto icona, né vera né falsa: la “torcia della verità” dovrà ancora passare per molte mani. È la condizione per cui ci si pone in cammino per dire qualcosa.

Nel corso della marcia, e sin dai suoi primi istanti, anche quell’iconismo primario può essere soggetto a scrutinio, perché potrei aver ricevuto lo stimolo in condizioni tali (esterne o interne) da “ingannare” i miei terminali nervosi. Ma qui siamo già a una fase superiore dell’elaborazione, non abbiamo più un solo Ground a cui rispondere, ne abbiamo molti da far stare insieme, e dunque da interpretare l’uno alla luce dell’altro. È che questo iconismo primario, per Peirce, più che una prova realistica dell’esistenza dell’oggetto, rimane un postulato del suo fondamentale realismo. Dato che egli nega ogni potere all’intuizione e asserisce che ogni conoscenza nasce da una conoscenza precedente, neppure una sensazione irrelata, termica, tattile o visiva che sia, può essere riconosciuta se non mettendo già in gioco un processo inferenziale che, per quanto istantaneo e inconscio, ne verifica l’attendibilità. È per questo che tale punto di partenza, che precede persino quella che per Kant sarebbe stata l’intuizione del molteplice, può essere definito in termini logici e non nettamente identificato in termini gnoseologici. La certezza fornita dal Ground non è neppure la prova che qualcosa di reale ci stia di fronte (perché è ancora puro maybe) bensì ci dice a quale condizione si potrebbe accettare l’ipotesi che ci troviamo di fronte a qualcosa di reale, e che questo qualcosa sia così-e-così (cfr. Oehler 1979: 69). Infatti già nella New List si diceva che “the ground is the self abstracted from the concreteness which implies the possibility of an other” (WR 2: 55), e ciascuno traduca il pessimo inglese di Peirce come meglio gli pare, ma rifletta su questo punto. La Firstness avverte che è possibile che ci sia qualcosa. Per dire che c’è, che qualcosa mi resiste, bisogna già essere entrati nella Secondness. È nella Secondness che ci si scontra davvero con qualcosa. Infine, passando alla Thirdness, che implica generalizzazione, si adisce all’Oggetto Immediato. Ma, poiché esso mi ha aperto la strada dell’universale, non mi garantisce più che il qualcosa ci sia, o che non sia un mio costrutto.32 Eppure rimarrà nell’Oggetto Immediato (di cui Peirce a varie riprese sottolinea l’aspetto iconico) come una “memoria” di quella assicurazione fornita dall’iconismo primario - che è poi concezione ancora kantiana, salvo che con Peirce l’assicurazione, permessa da qualcosa che precede l’intuizione del molteplice, è però garantita solo dalla inferenza percettiva.

Così, in una zona vaga e paludosa tra Firstness, Secondness e Thirdness, inizia il processo percettivo. Dico processo (qualcosa in movimento) non giudizio, che suggerisce conclusione e riposo. In quanto processo, non ci si potrà più accontentare, per renderne ragione, di uno schema stimolo-risposta. Occorrerà fare entrare in gioco quei fatti mentali che avevo escluso dal tentativo di definire in qualche modo l’iconismo primario. Che poi per Peirce questi possano essere fatti “quasi-mentali”, nel senso che una teoria dell’interpretazione può essere stabilita in modo formale, senza tener conto di una mente in cui avvenga, questo è un altro discorso. A questo punto la “finzione” di qualcosa che funzioni come una mente risulta indispensabile. Infatti ciò che giustifica il processo percettivo è il fatto che, quando sarò arrivato a calmare, ad arrestare per un momento, il processo, avendo appurato che quel qualcosa che ho davanti è un un piatto caldo (o bianco, o circolare) avrò già pronunciato un giudizio percettivo. C’è una serie di testi del primo Novecento in cui Peirce ribadisce cosa intendesse per giudizio percettivo (CP 7.615-688). Il Feeling, pura Firstness, è la coscienza in un momento di assoluta e intemporale singolarità; ma già da questo primo momento si entra nella Secondness, si attribuisce la prima icona a un oggetto (o almeno a qualcosa che ci sta di fronte), e si ha la sensazione, momento intermedio tra primità e secondità, tra icona e indice. Il primo stimolo, che sto “lavorando” per integrarlo in un giudizio percettivo, è indice del fatto che c’è qualcosa da percepire. Avrò forse volto l’occhio verso qualcosa, senza che alcuna intenzione mi muovesse, e qualcosa si è imposto alla mia attenzione. Vedo una sedia gialla con un cuscino verde: si noti, sono già oltre la Primità, sto opponendo due qualità, sto passando a un momento di maggiore concretezza. Mi si delinea quello che Peirce chiama un percetto e che non è ancora una percezione compiuta. Peirce avverte che si potrebbe chiamare ciò che vedo “immagine”, ma sarebbe deviante, perché la parola mi farebbe pensare a un segno che sta per qualcosa d’altro, mentre il percetto sta per se stesso, semplicemente “batte alla porta della mia anima e sta sulla soglia” (CP 7.619). Sono “forzato” ad ammettere che qualcosa appare, ma questo qualcosa è ancora, appunto, ottusa apparenza, non rivolge alcun appello alla ragione. È pura individualità, in sé “stupida”. Solo a questo punto entra in gioco il giudizio percettivo, e siamo nella Terzità33 Quando dico quella è una sedia gialla ho già costruito

per via d’ipotesi un giudizio sul percetto presente. Questo giudizio non “rappresenta” il percetto, così come il percetto non ne era neppure la premessa, perché non era nemmeno una proposizione. Ogni affermazione sul carattere del percetto è già responsabilità del giudizio percettivo, è il giudizio che garantisce il percetto e non viceversa. Il giudizio percettivo non è una copia del percetto (al massimo, dice Peirce, ne è un sintomo, un indice); il giudizio percettivo non si muove più su quella soglia in cui primità e secondità si confondono, sta già asserendo che quello che vedo è vero. Il giudizio percettivo ha una libertà inferenziale che il percetto, stupido e inane, non ha. Ma c’è di più. È evidente che per Peirce il giudizio percettivo, nell’affermare che la sedia è gialla, preserva una traccia dell’iconicità primaria. Eppure la desingolarizza: “Il giudizio percettivo dice senza alcuna cura che quella sedia è gialla. Quale fosse la sua particolare sfumatura, tinta, purezza di giallo, esso non considera. Il percetto è invece così scrupolosamente specifico da rendere quella sedia indipendente da qualsiasi altra al mondo; o almeno farebbe così, se potesse indulgere in paragoni” (CP 7.633). È drammatico vedere come già nel giudizio percettivo l’iconismo primario (per cui il giallo era quel giallo) sfumi in una eguaglianza generica (quel giallo è come tutti gli altri gialli che ho visto). La sensazione individuale si è già trasformata in classe di sensazioni “simili” (ma la somiglianza di queste sensazioni non è più della stessa qualità della somiglianza tra stimolo e Ground). Ormai, se possiamo dire che il predicato “giallo” assomiglia alla sensazione è solo perché un nuovo giudizio predicherebbe lo stesso predicato dello stesso percetto. E qui Peirce sembra non essere particolarmente interessato a dire perché e come questo avvenga: sembra aderire alla interpretazione che ho dato del Ground in 2.8.2: due stimoli sono rispettivamente l’icona (la Likeness) l’uno dell’altro perché sono entrambi l’icona del mio pattern di risposta. E infatti Peirce dice che lo stesso percetto risveglia nella mente una “immaginazione” che coinvolge “elementi dei sensi”. Pertanto “è chiaro che il giudizio percettivo non è una copia, icona, o diagramma del percetto, per quanto rozzo” (CP 7.637). Questo è imbarazzante. Perché saremmo tentati di dire che questo giudizio percettivo così intriso di Thirdness si identifica con l’Oggetto Immediato. Eppure dell’Oggetto Immediato Peirce ha ripetutamente

sottolineato il carattere iconico. Ma certo l’iconismo dell’Oggetto Immediato non può essere quello primario del Feeling, è già dominato da calcoli di similarità, da rapporti di proporzione, è già diagrammatico o ipoiconico. Dunque quando Peirce parla di Oggetto Immediato non parla di giudizio percettivo, e quando parla di giudizio percettivo non parla di Oggetto Immediato? Ma è parimenti chiaro che il secondo non dovrebbe essere altro che il compiuto assestamento del primo. Credo si debba distinguere la funzione dell’Oggetto Immediato, e i suoi rapporti col giudizio percettivo, a seconda se viene costruito per così dire ex novo (ma non in assenza di cognizioni precedenti) di fronte a una esperienza inedita (l’ornitorinco, per esempio) o nel processo di riconoscimento di qualcosa di già noto (per esempio, il piatto). Nel primo caso l’Oggetto Immediato sarà ancora imperfetto, tentativo, in fieri, verrà a coincidere col primo e ipotetico giudizio percettivo (forse questa cosa è così e così). Nel secondo caso faccio ricorso a un Oggetto Immediato, già depositatosi nella mia memoria, come a uno schema preformato che orienta la formazione del giudizio percettivo, e ne è al tempo stesso parametro. Avere percepito il piatto allora vuol dire averlo riconosciuto come occorrenza di un tipo già noto, e a quel punto l’Oggetto Immediato svolgerebbe la stessa funzione che - nel processo cognitivo - svolge lo schema kantiano. A tal punto che in quella fase non saprò soltanto che quello che ho percepito è un piatto bianco, ma saprò anche (e prima di averlo toccato) che dovrebbe avere un certo peso, perché lo schema già formato conteneva anche quelle informazioni. Il processo percettivo era tentativo, ancora privato, mentre l’Oggetto Immediato, in quanto interpretabile (e quindi trasmissibile), si avvia a diventare pubblico. Può persino, come schema cognitivo già consegnatomi dalla comunità, intervenire non a favorire ma a bloccare il processo di percezione di qualcosa di nuovo (ed era il caso di Marco Polo col rinoceronte). E infatti, anch’esso deve essere sottoposto a scrutinio continuo, revisione, ricostruzione.34 Ecco perché si è potuto sostenere (cfr. ad esempio Eco 1979, 2.3.) che, da un certo punto di vista, Ground, Oggetto Immediato e Meaning sono la stessa cosa: dal punto di vista della conoscenza che si è transitoriamente acquetata in un primo abbozzo, gli elementi iconici di partenza, le informazioni che già possedevo, i primi tentativi

inferenziali si sono composti in un unico schema. Ma è certo che se si considera invece la scansione temporale del processo percettivo (per quanto talora quasi istantanea - ma anche per Kant la temporalità era costitutiva dello schema), Ground e Oggetto Immediato sono l’uno la stazione di partenza e il secondo la prima fermata di un viaggio che potrà continuare poi a lungo, e lungo i binari dell’interpretazione potenzialmente infinita. Solo in tal senso si può considerare il Ground, nel momento in cui viene consciamente inserito nel processo dell’interpretazione, come “filtro”, selettore da parte del segnale percettivo di quelle proprietà dell’Oggetto Dinamico destinate a essere rese pertinenti dall’Oggetto Immediato. E in tal senso il Ground non ancora interpretato rappresenta il momento pre-semiosico, pura possibilità di segmentazione che si disegna nel continuum non ancora segmentato.35 In questa fase si potrebbe anche reintrodurre nell’Oggetto Immediato le icone, come fenomeno di adeguazione visiva. In fondo diceva anche Kant che per percepire il piatto debbo fare entrare in gioco il concetto del circolo. Ma vorrei tenere questa lettura peirceana al di fuori del dibattito, vivissimo nelle scienze cognitive odierne, tra iconofili e iconofobi (Dennett 1978, 10). Si potrebbe sempre dire che quello schema che è l’Oggetto Immediato non deve essere necessariamente una “foto nella testa”, che potrebbe essere più simile alla descrizione di una scena che a una sua “raffigurazione” (cfr. per esempio Pylyshin 1973). Senza coinvolgere Peirce nel dibattito su una teoria “computazionale” della conoscenza, si potrebbe sempre dire che il circolo attraverso cui si perviene a concepire il piatto non è una forma geometrica visibile ma il precetto, la regola per disegnare il cerchio. Per quanto riguarda il cane, visto che per individuare le sue caratteristiche morfologiche (pelo, quattro zampe, forma del muso) non dispongo di concetti geometrici puri, ma piuttosto (come si è detto) di un modello 3D, è difficile pensare al suo Oggetto Immediato senza dover presumere delle immagini mentali. Non sono sicuro di come Peirce interverrebbe nei dibattiti attuali delle scienze cognitive. Anche perché ci può essere un Oggetto Immediato che corrisponde a un termine che non intende rendere conto di un oggetto percepibile, come per esempio cugino o radice quadrata. Per esempio quando Peirce concepisce un diagramma (che dice essere “pura icona”) non per oggetti ma per proposizioni - poiché come

Kant pensa a uno schema che medi anche tra categorie e dati sensibili per giudizi di esperienza che assumano forma proposizionale, e anche per proposizioni che asseriscano qualcosa su oggetti non conosciuti per via percettiva - esso assume l’aspetto di un “programma” che solo occasionalmente viene rappresentato visivamente. Penso in generale alla teoria dei grafi, e in particolare a un diagramma che appare nella Grand Logic, là dove egli si chiede come “mettere in forma” la proposizione Every mother loves some child of hers.36 Trovo sorprendenti le analogie tra questo “programma” e alcune rappresentazioni odierne dei processi conoscitivi e, anche senza seguire la lunga e minuta lettura che Peirce ne dà, mi pare sufficente riprodurlo (Figura 2.3): Peirce mette in chiaro che essendo appunto pura icona il diagramma esibisce uno stato di cose, e niente altro: esso non asserisce in modo distinto ciò che è inteso dalla proposizione, ma si limita a mostrare delle relazioni di inerenza. È uno schema, appunto, prelude a successive interpretazioni. Ma è chiaro che questo schema potrebbe essere oggi fornito a una macchina come istruzione espressa in linguaggio non visivo, e le relazioni che esso esprime sarebbero mantenute. Indipendentemente dal fatto che si presuma, come suo contenitore o produttore attivo, una mente. Questo schema, abbondantemente intessuto di elementi simbolici (e quindi concettuali) - e che non tende a dare ragione di alcuna esperienza percettiva - è l’Oggetto Immediato che presiede alla comprensione della situazione in oggetto. Ed è anche uno schema del suo significato. Dunque, da un iconismo primario, attraverso un processo percettivo già intessuto d’inferenze, si perviene a una identità (se non finale, almeno provvisoriamente stabilita) tra giudizio percettivo e Oggetto Immediato, e tra Oggetto Immediato e primo nucleo di significato associato a un representamen. E il significato completo, il “meaning” come insieme globale di marche, definizioni e interpretanti? Scompare, in un certo senso, e si può concordare con Nesher (1984) che esso non sia collocabile in alcuno degli stadi del processo conoscitivo, ma che si distribuisca a ogni fase (comprese le più avanzate, ma certamente a iniziare dalle più elementari) del processo.

In tal caso l’Oggetto Immediato è qualcosa di più dello schema kantiano: ne è meno “vuoto”, non media tra concetto e intuizione, ma è esso stesso primo nucleo concettuale e al tempo stesso (in quanto se ne ribadisce sempre la natura iconica) non mette solo in forma, non traduce, ma rielabora conservando, e in un certo senso “cattura” e “memorizza” qualcosa delle sensazioni da cui è partito. O, almeno, quando sia Oggetto Immediato che rende conto di situazioni percettive, e non di termini astratti. Diversamente dallo schema - o almeno dalla versione che ne dà la prima Critica - è tentativo, rivedibile, pronto a crescere per virtù d’interpretazione. E tuttavia rappresenta certamente il modo in cui Peirce risolve in chiave non trascendentale l’eredità dello schematismo. D’altra parte Peirce lo aveva detto: se Kant avesse dovuto trarre tutte le conseguenze dall’entrata in scena dello schema il suo sistema ne sarebbe stato sconvolto.

2.9. Le linee di tendenza È giunto il momento, nel concludere questa doppia rilettura di Kant e di Peirce, di dire in che modo e perché essa è legata alle riflessioni che ho svolto in 1.10. E lo farò continuando per ora a usare ancora il concetto di schema, che pure alla fine di questa rilettura è risultato piuttosto vago. Ma conviene lasciarlo fluttuare così, tra l’Oggetto Immediato e un “modello cognitivo” di cui cercherò di fissare meglio la fisionomia in 3.3. Per quanto gli schemi cognitivi siano costrutti, intessuti di “come se”, che per Kant partono da una materia dell’intuizione ancora cieca, e per Peirce da un primo profilarsi iconico che non ci dà ancora nessuna garanzia di “oggettività”, ci doveva essere qualcosa nell’ornitorinco che ha impedito all’esploratore di definirlo come una quaglia o un castoro. Questo non ci garantisce che sia stato giusto classificarlo tra i monotremi. Domani stesso una nuova tassonomia potrebbe radicalmente cambiare le carte in tavola. E tuttavia sin dall’inizio, per costruire uno schema dell’ornitorinco, si è cercato di rispettare le linee di tendenza esibite da quella manifestazione del continuum ancora non segmentato.

Anche ad ammettere che lo schema sia un costrutto, non si potrà mai assumere che la segmentazione di cui è effetto sia totalmente arbitraria, perché (in Kant come in Peirce) essa cerca di rendere ragione di qualcosa che è là, di forze che pure agiscono esternamente sul nostro apparato sensoriale esibendo, come minimo, delle resistenze. Ci sarebbe dunque una “verità” dello schema, anche se prospettica, anche se esso fosse un profilo, una Abschattung che ci mostra sempre qualcosa sotto un certo rispetto. Il modello 3D dell’essere umano dipende pur sempre dal fatto che non si può interpretare l’uomo come quadrupede, e per tanti snodi che il suo corpo possa mostrare, quelli in cui il braccio si articola nel gomito e la gamba nel ginocchio esibiranno sempre una pertinenza difficilmente revocabile (se ne potrà astrarre, non si potrà negarla). C’era una verità anche nello schema che figurava la balena come un pesce (ovvero con i tratti schematici propri del pesce). Era sbagliato (diciamo ora noi) dal punto di vista tassonomico, ma non lo era (e non lo è neppure per noi) dal punto di vista della costruzione di uno stereotipo. Ma in ogni caso non si sarebbe mai potuto schematizzare la balena come un uccello. Anche se lo schema fosse un costrutto in perpetuo divenire inferenziale, dovrebbe pur rendere conto dell’esperienza, e permettere di ritornare a essa agendo secondo abiti. Ciò non ci esime dal supporre che forse ci sarebbero modi migliori di organizzare l’esperienza (altrimenti non avrebbe senso il principio del fallibilismo) ma deve nel contempo garantirci che, secondo esso, in qualche modo con l’esperienza si possono fare i conti. Non si può costruire arbitrariamente lo schema di una cosa anche se di una stessa cosa sono possibili diverse rappresentazioni schematiche. Per Kant, che al sorgere del sole, che illumina la pietra, la pietra via via si riscaldi, questo me lo dice il giudizio percettivo; che dal sorgere del sole al riscaldarsi della pietra intercorra un lasso di tempo, me lo dice l’intuizione pura; che il sole sia causa del calore della pietra, me lo dice l’intero dispiegarsi dell’apparato categoriale. Tutto dipende dall’attività legislativa dell’intelletto. Ma che non accada che prima venga il calore della pietra e poi il sorgere del sole, dipende dalla materia stessa dell’intuizione sensibile. Non posso pensare il nesso causale che dal sole va alla pietra riscaldata senza le forme dell’intelletto, ma nessuna forma

dell’intelletto potrà mai permettermi di stabilire che è il riscaldamento della pietra a causare il sorgere del sole. Gli schemi potranno anche essere considerati come pochissimo naturali, nel senso che non preesistono in natura, ma ciò non toglie che siano motivati. In questo sospetto di motivazione si svelano le linee di tendenza del continuum.

3. TIPI COGNITIVI E CONTENUTO NUCLEARE

3.1. Da Kant al cognitivismo Se Kant avesse preso prima in considerazione il problema dello schematismo, diceva Peirce, il suo sistema sarebbe entrato in crisi. Come si è visto, Kant è effettivamente, e felicemente, entrato in crisi con la terza Critica. Ma potremmo dire qualcosa di più: se si riprendesse in considerazione il problema dello schematismo kantiano, molto della semantica di questo secolo, da quella vero-funzionale a quella strutturale, entrerebbe in crisi. E così è avvenuto in quell’area che si suole genericamente indicare come “studi cognitivi”. Di fatto, una traccia dello schematismo kantiano (legata a una idea costruttivistica della conoscenza) è presente in varie forme nelle scienze cognitive contemporanee, anche se talora esse ignorano questa filiazione.1 Tuttavia quando incontriamo oggi nozioni come schema, prototipo, modello, stereotipo, esse non sono certamente equiparabili a quella kantiana (per esempio non implicano il trascendentalismo), né questi termini possono essere intesi come sinonimi. Inoltre questi “schemi” cognitivi di solito intendono rendere ragione di fenomeni come percezione e riconoscimento di oggetti o situazioni, mentre si è visto che lo schematismo kantiano, nato per spiegare come siano possibili giudizi come tutti i corpi sono pesanti, risultava carente proprio quando doveva spiegare come riusciamo ad avere concetti empirici. Il cognitivismo ha riportato alla luce i concetti empirici e ha ricominciato a chiedersi quello che si chiedeva Locke (ma che in fondo si chiedeva anche Husserl),2 che cosa accade quando parliamo di cani, gatti, mele e sedie. Ma dire che il cognitivismo si interroga sui gatti e sulle sedie non vuole dire che le conclusioni a cui è arrivato (che sono molte e discordanti) siano ancora soddisfacenti. Il fantasma dello schematismo abita molte ricerche contemporanee ma il mistero di quest’arte segreta non è stato ancora svelato. Non pretendo di svelarlo io in queste poche pagine, anche perché, come vedremo, vorrei non mettere il naso nella scatola nera dei nostri processi mentali o cerebrali. Mi porrò solo qualche domanda sui

rapporti tra un possibile neo-schematismo e le nozioni semiotiche di significato, di dizionario ed enciclopedia, di interpretazione.3 Data la natura erratica che vorrei dare a queste riflessioni, non tenterò di identificare sempre posizioni, teorie, ricerche, correnti del cognitivismo contemporaneo. Scriverò piuttosto, come si vedrà, molte “storie” (esperimenti mentali in forma narrativa) che esemplificano alcuni problemi. Le mie storie riguarderanno in massima parte qualcosa di abbastanza simile a quelli che per Kant erano i concetti empirici: voglio dire che intendo parlare del modo in cui parliamo (i) di oggetti o situazioni di cui si sia avuta o si possa avere esperienza diretta (come cane, sedia, camminare, andare al ristorante, scalare una montagna); (ii) di oggetti e situazioni di cui non si è avuta esperienza, ma si potrebbe averne (come armadillo, o eseguire una operazione d’appendicite); (iii) di oggetti e situazioni di cui certamente qualcuno ha avuto esperienza, ma noi non potremo più averla, e su cui tuttavia la Comunità ci trasmette istruzioni sufficienti per parlarne come se ne avessimo avuto esperienza (come dinosauro o australopiteco). Porsi di fronte a tali fenomeni elementari da un punto di vista semiotico pone anzitutto una questione preliminare: se abbia senso parlare di semiosi percettiva.

3.2. Percezione e semiosi Il problema della semiosi percettiva era già entrato in scena in 2. Certamente chi non si muove in una prospettiva peirceana può trovare ostico (e quasi “imperialistico”) questo concetto, perché se si accetta che vi sia semiosi nella percezione stessa, diventa imbarazzante discriminare tra percezione e significazione.4 Abbiamo visto che anche per Husserl percepire qualcosa come rosso e nominare qualcosa come rosso dovrebbe essere lo stesso processo, ma questo processo potrebbe avere fasi diverse. Tra percepire un gatto come un gatto, nominarlo come gatto o indicarlo come segno ostensivo per tutti i gatti, non vi sarà un salto, uno scarto (come minimo quel passare dal terminus a quo al terminus ad quem)? Possiamo disancorare il fenomeno della semiosi dall’idea di segno? È certo che quando si dice che il fumo è segno del fuoco, quel fumo che

si scorge non è ancora un segno; anche ad accettare la prospettiva stoica, il fumo diventa segno del fuoco non nel momento in cui lo si percepisce, ma nel momento in cui si decide che sta per qualcosa d’altro, e per passare a questo momento si deve uscire dalla immediatezza della percezione e tradurre la nostra esperienza in termini proposizionali facendola diventare l’antecedente di un’inferenza semiosica: (i) c’è del fumo, (ii) se c’è del fumo, (iii) allora c’è del fuoco. Il passaggio da (ii) a (iii) è materia di inferenza espressa proposizionalmente; mentre (i) è materia di percezione. La semiosi percettiva invece non si sviluppa quando qualcosa sta per qualcosa d’altro ma quando da qualcosa si perviene per processo inferenziale a pronunciare un giudizio percettivo su quello stesso qualcosa, e non su altro.5 Tuttavia supponiamo che qualcuno, con una conoscenza quasi nulla dell’inglese, abituato tuttavia a vedere titoli, nomi o frasi inglesi su copertine di dischi, cartoline o scatolame vario, riceva un fax che, come accade sovente, esibisca righe sovrapposte o deformate, e lettere illeggibili. Supponiamo (trascrivendo come X le lettere illeggibili) che tenti di leggere Xappy neX Xear. Anche senza conoscere il significato delle parole, costui ricorda di avere visto espressioni come happy, new e year, e ipotizza che siano quelle che il fax voleva trasmettere. Avrà dunque fatto inferenze sulla sola forma grafica dei termini, su quello che c’era lì sul foglio (piano dell’espressione), e non su quello per cui le parole stavano (per cui dovrà poi ricorrere a un vocabolario). Dunque qualsiasi fenomeno, per poter essere inteso come segno di qualcosa d’altro, e da un certo punto di vista, deve essere anzitutto percepito. Il fatto che la percezione possa avere successo proprio perché si è orientati dall’ipotesi che il fenomeno possa venire inteso come segno (altrimenti non si presterebbe attenzione a un certo campo di stimoli) non elimina il problema di come lo percepiamo.6 Quando la tradizione fenomenologica parla di “significato percettivo” intende qualcosa che in termini di diritto precede la costituzione del significato come contenuto di un’espressione; eppure (vedi Trattato 3.3) se io nell’oscurità scorgo una forma animale imprecisa, al successo della percezione (al giudizio quello è un cane) presiede uno schema cognitivo, qualcosa che già conosco del cane, e che può essere legittimamente considerato come parte del contenuto che assegno di solito alla parola cane. In tal caso io avrei fatto

un’inferenza: avrei ipotizzato che la forma imprecisa che scorgevo nell’oscurità era una occorrenza del tipo cane. Nell’esempio del fax le lettere -ear stanno, nel processo inferenziale, per la y che permettono di ipotizzare. Il soggetto del nostro esempio possiede la conoscenza (puramente grafica) di almeno una parola inglese che potrebbe finire con quelle lettere e azzarda quindi che -ear sia una occorrenza (incompleta) del tipo lessicale year. Se poi avesse dell’inglese una buona conoscenza avrebbe anche il diritto di ipotizzare che la lettera mancante possa essere scelta tra b, d, g, f h, n, p, r, t, w (con ciascuna delle quali si forma una parola inglese dotata di senso), senza poter ipotizzare c, i, o, q, u. Ma se estende l’inferenza a tutto il sintagma Xappy neX Xear, si avvede che una soluzione è più probabile delle altre, perché assume che tutta la stringa altro non sia che un’occorrenza (incompleta in tre punti) del tipo happy new year (frase fatta, espressione di augurio fortemente codificata). Potremmo allora dire che anche in un processo così elementare l’occorrenza sta per il tipo a cui rinvia. Ma che cosa accade nella percezione di oggetti ignoti (vedi il caso dell’ornitorinco)? Il processo è certamente più avventuroso, quello stare-per viene contrattato attraverso processi di prova ed errore, ma il rapporto di mutuo rinvio da tipo a occorrenza si stabilisce a giudizio percettivo assestato.7 Se (come si è insistito in Eco 1984, 1) la caratteristica basilare della semiosi è l’inferenza, mentre l’equivalenza stabilita da un codice (a=b) è solo una forma sclerotizzata di semiosi, che si verifica appieno solo nelle semie sostitutive (e cioè nelle equivalenze poste tra espressione ed espressione, come avviene nel codice Morse), ecco che si può considerare l’inferenza percettiva come un processo di semiosi primaria.8 Naturalmente si potrebbe decidere che la questione è del tutto nominalistica. Se si stabilisce che si ha semiosi solo quando appaiono funzioni segniche istituzionalizzate, allora parlare di semiosi nel caso della percezione sarebbe pura metafora - e si dovrebbe dire in tal caso che la cosiddetta semiosi primaria è solo una pre-condizione della semiosi. Se con questo si possono eliminare discussioni inutili, non ho difficoltà a parlare di pre-semiosi percettiva.9 Però le cose non cambierebbero di molto perché, come vedremo nella storia che segue, il rapporto tra questa fase primaria e lo sviluppo successivo della semiosi

pienamente dispiegata non presenta fratture evidenti, ma costituisce anzi una sequenza di fasi in cui la precedente determina la successiva.

3.3. Montezuma e i cavalli I primi aztechi accorsi sulla costa hanno assistito allo sbarco dei conquistadores.10 Benché ci rimangano pochissime tracce delle loro prime reazioni, e il meglio che si sa dipenda dalle relazioni degli spagnoli e da cronache indigene scritte posteriormente, sappiamo per certo che varie cose debbono averli massimamente stupiti: le navi, le barbe terribili e maestose degli spagnoli, le armature di ferro che rendevano tremendi quegli “alieni” catafratti, dalla pelle di un bianco innaturale, gli schioppi e i cannoni; e infine, mostri mai visti, oltre ai cani rabbiosissimi, i cavalli, in terrificante simbiosi coi loro cavalieri. I cavalli debbono essere stati non meno percettivamente imbarazzanti di un ornitorinco. Dapprima (forse anche perché non distinguevano gli animali da pennacchi e armature che li ricoprivano), gli aztechi ritengono che gli invasori montino dei cervi (e si comportano dunque come Marco Polo). Orientati quindi da un sistema di conoscenze precedenti, ma cercando di coordinarlo con quanto vedevano, debbono aver ben presto elaborato un giudizio percettivo (c’è di fronte a noi un animale così e così, che sembra ma non è un cervo). Parimenti non debbono aver ritenuto che ciascuno spagnolo montasse un animale di specie diversa, anche se i cavalli portati dagli uomini di Cortés erano di vario pelame. Debbono quindi essersi fatti una certa idea di quell’animale, che dapprima si sono indicati come maçatl, che è la parola che usavano non solo per i cervi, ma in genere per ogni animale quadrupede. Più tardi, poiché per gli oggetti recati dagli invasori essi adottavano e adattavano il nome straniero, la loro lingua nahuatl ha trasformato lo spagnolo caballo in cauayo o kawayo. A un certo punto essi hanno deciso di inviare dei messi a Montezuma per annunciargli lo sbarco, e le terrificanti meraviglie a cui stavano assistendo. Del primo messaggio che inviano al loro signore abbiamo delle testimonianze posteriori: uno scriba ha rappresentato per pittogrammi le notizie, e ha spiegato che gli invasori montavano dei cervi (maçaoa, plurale di maçatl) alti come i tetti delle case.

Io non so se Montezuma, di fronte a informazioni così incredibili (uomini vestiti di ferro con armi di ferro, forse di origine divina, dotati di strumenti prodigiosi che lanciavano palle di pietra capaci di distruggere ogni cosa), abbia capito che cosa fossero quei “cervi”. Immagino che i messi (preoccupati del fatto che in quell’ambiente, se una notizia non andava a genio, si aveva l’abitudine di punirne i latori) si siano fatti coraggio e abbiano integrato il rapporto scritto non solo a parole, poiché pare che di solito Montezuma richiedesse ai suoi informatori tutte le espressioni possibili per una sola e medesima cosa. E così avranno accennato col corpo al movimento del maçatl, imitandone il nitrito, cercando di mostrare come avesse una lunga capigliatura sul collo, aggiungendo che era spaventevolissimo e feroce, capace di travolgere in uno scontro armato chi tentasse di contrastarne l’assalto. Montezuma riceve delle descrizioni, in base alle quali tenta di farsi una qualche idea di quell’animale ancora ignoto, e chissà come se lo immagina. Dipende e dall’abilità dei messaggeri e dalla sua vivacità di spirito. Ma certamente capisce che si tratta di un animale, e di un animale preoccupante. Tanto è vero che, sempre secondo una cronaca, all’inizio Montezuma non pone altre domande, ma si chiude in un preoccupante mutismo, restando a testa bassa, con aria dolente e come assorto. Infine avviene l’incontro tra Montezuma e gli spagnoli, e direi che, per quanto i messaggeri siano stati confusi nella loro descrizione, Montezuma dovrebbe avere facilmente individuato quelle cose chiamate maçaoa. Semplicemente, di fronte all’esperienza diretta del maçatl, egli avrà riaggiustato l’idea che ne aveva tentativamente concepito. Ora anch’egli, come i suoi uomini, ogni volta che avesse visto un maçatl lo avrebbe riconosciuto come tale, e ogni volta che avesse sentito parlare di maçaoa avrebbe capito di che cosa parlavano i suoi interlocutori. Poi, a mano a mano che avesse frequentato gli spagnoli, avrebbe appreso molte altre cose circa i cavalli, avrebbe iniziato a chiamarli cauayo, avrebbe imparato dove allignano, come si riproducono, di cosa si nutrono, come li si alleva e ammaestra, a quali altri usi possono essere adibiti, e a sue spese avrebbe capito ben presto di quanta utilità potessero rivelarsi in battaglia. Anzi, a dar retta alle cronache, avrà

nutrito sospetti circa l’origine divina degli invasori, perché gli avranno detto che i suoi uomini erano riusciti a uccidere due cavalli. A un certo punto il processo d’apprendimento attraverso cui Montezuma stava a mano a mano arricchendo la sua conoscenza dei cavalli si arresterà, ma non perché non potrebbe apprenderne di più, bensì perché gli verrà tolta la vita. E quindi cesso di occuparmi di lui (e dei moltissimi massacrati con lui per aver avuto la rivelazione della Cavallinità) per rilevare piuttosto che in questa storia sono in gioco molti e diversi fenomeni semiotici.

3.3.1. Tipo Cognitivo (TC) Al termine del loro primo processo percettivo gli aztechi hanno elaborato quello che chiamerò un Tipo Cognitivo (TC) del cavallo. Se essi fossero vissuti in un universo kantiano diremmo che questo TC era lo schema che permetteva loro di mediare tra il concetto e il molteplice dell’intuizione. Ma dove stava, per un azteco, il concetto di cavallo, visto che non lo possedeva prima dello sbarco degli spagnoli? Certamente, dopo aver visto alcuni cavalli, gli aztechi debbono essersene costruito uno schema morfologico non molto diverso da un modello 3D, ed è su questa base che si dovrebbe essere stabilita la costanza dei loro atti percettivi. Ma parlando di TC non intendo solo una sorta di immagine, una serie di tratti morfologici o di caratteristiche motorie (l’animale trotta, galoppa, s’impenna); essi del cavallo avevano percepito il caratteristico nitrito, forse l’odore. Inoltre all’apparizione deve essere stata subito attribuita una caratteristica di “animalità”, visto che viene usato subito il termine maçatl, e certamente una capacità d’incutere terrore, nonché la caratteristica funzionale di essere “cavalcabile”, dappoiché di solito lo si vedeva montato da esseri umani. Insomma diciamo pure che il TC del cavallo è stato subito di carattere multimediale. 3.3.1.1. Il riconoscimento delle occorrenze In base al TC così elaborato gli aztechi debbono essere stati immediatamente in grado di riconoscere come cavalli anche altri esemplari che non avevano visto in precedenza (e a prescindere da

variazioni di colore, dimensione, e punto di vista). È proprio il fenomeno del riconoscimento che ci induce a parlare di tipo, appunto, come parametro per confrontarvi occorrenze. Questo tipo non avrebbe nulla a che fare con una “essenza” di stampo aristotelico-scolastico, e non ci interessa sapere che cosa gli aztechi abbiano colto del cavallo (magari tratti del tutto superficiali, tali da non differenziarlo ancora da un mulo o da un asino). Ma è certo che parlando di tipo in tal senso si evoca il fantasma delle “idee generali” di tipo lockiano, e qualcuno potrebbe obiettare che non abbiamo bisogno di esse per spiegare il fenomeno del riconoscimento.11 Basterebbe dire che gli aztechi applicano lo stesso nome a diversi individui perché li trovano simili tra loro. Ma questa nozione di similarità tra individui non è meno imbarazzante di quella di similarità tra un’occorrenza e un tipo. Anche per esprimere il giudizio secondo cui un’occorrenza X è simile a un’occorrenza Y occorre avere elaborato criteri di similarità (due cose sono simili per certi aspetti e difformi per altri) e pertanto ecco che riaffiora il fantasma di un tipo a cui riferirsi come parametro. D’altra parte alcune teorie cognitive contemporanee ci dicono che il riconoscimento avviene sulla base di prototipi, per cui si deposita nella memoria un oggetto eletto a paradigma, e poi si riconoscono gli altri in relazione al prototipo. Ma dire che un’aquila è un uccello perché simile al prototipo del passerotto, significa aver ricavato dal passerotto alcuni tratti più pertinenti degli altri (per esempio a scapito delle dimensioni). Ed ecco che, se le cose stessero così, il nostro prototipo sarebbe diventato un tipo. Se volessimo riutilizzare qui la nozione kantiana di schema, il TC potrebbe essere, più che una sorta di immagine multimediale, una regola, un procedimento per costruire l’immagine del cavallo. In ogni caso, qualsiasi cosa sia questo TC è quel qualcosa che consente il riconoscimento. D’altra parte a questo punto, avendo postulato l’esistenza (da qualche parte) di questo tipo (schema o immagine multimediale che sia), abbiamo se non altro sbarazzato il campo di una venerabile entità, che certamente abitava ancora l’universo kantiano: se postuliamo un TC non abbiamo più bisogno di mettere in scena i concetti. Specie per i nostri aztechi il TC non media tra il concetto di cavallo (che non potevano avere da nessuna parte, a meno di non professare un platonismo molto ma molto transculturale) e il molteplice

dell’intuizione. Il TC è ciò che permette loro di unificare il molteplice dell’intuizione e se questo basta loro dovrebbe bastare anche a noi. 3.3.1.2. Nominare e riferirsi felicemente Che poi qualcuno venga a dire che il concetto di cavallo è molto più ricco di quel che sapevano gli aztechi, non prova nulla. Ci sono persone intorno a noi che non hanno del cavallo un TC più elaborato di quello degli aztechi, e ciò non gli impedisce di dire che sappiano che cosa siano i cavalli, visto che sanno riconoscerli. In questa fase della nostra storia moltissime sono le cose che gli aztechi ancora non sanno del cavallo (da dove viene, come mangia, come si riproduce, come nutre i suoi piccoli, quante razze ve ne siano al mondo, e nemmeno se sia bestia o essere razionale): ma sulla base di quel che sanno riescono non solo a riconoscerlo ma anche ad accordarsi nel dargli un nome, e così facendo si rendono conto che ciascuno di loro reagisce al nome applicandolo agli stessi animali a cui lo applicano gli altri. Il nominare è il primo atto sociale che li convince che tutti insieme riconoscono svariati individui, in momenti diversi, come occorrenze dello stesso tipo. Non era necessario nominare l’oggetto-cavallo per riconoscerlo, così come io posso avvertire un giorno una sensazione interna sgradevole, ma indefinibile, e riconoscere soltanto che è la stessa che ho provato il giorno prima. Però, già “quella cosa che sentivo ieri” è un nome per la sensazione che provo, e ancora più lo sarebbe se della sensazione, peraltro privatissima, dovessi far cenno ad altri. Il passaggio a un termine generico nasce da un’esigenza sociale, per poter disancorare il nome dallo hic et nunc della situazione, e ancorarlo appunto al tipo. Ma come facevano gli aztechi a sapere che stavano applicando il nome maçatl allo stesso TC? Un osservatore spagnolo (chiamiamolo José Gavagai) avrebbe potuto chiedersi se, quando un azteco indicava un punto generico dello spazio-tempo dicendo maçatl, intendesse con quel nome l’animale che ogni spagnolo riconosceva; oppure l’unità ancora inscindibile di cavallo-cavaliere, le bardature rutilanti dell’animale, il fatto che una cosa sconosciuta stava avanzando verso di lui, o volesse esprimere la proposizione “ecco che vengono dal mare quegli esseri divini promessi dai nostri profeti e che un giorno Gulliver chiamerà Huyhnhnm!”.

La sicurezza che tutti intrattengono un TC comune, corrispondente al nome, la si ha solo nel caso di riferimento felice (ovvero di riferimento coronato da successo). Dirò in 5 quanto sia problematica la nozione di riferimento, ma l’esperienza ci dice che ci sono casi in cui noi ci riferiamo a qualcosa e gli altri hanno mostrato di capire benissimo a che cosa volessimo riferirci: per esempio quando chiediamo a qualcuno di portarci il libro che c’è sul tavolo e questo qualcuno ci porta il libro, e non una penna. Visto che gli spagnoli si erano rapidamente alleati ad alcune popolazioni locali, se qualcuno avesse chiesto a un nativo di portargli un cavallo, e quello fosse tornato recando un cavallo (e non un canestro, un fiore, un uccello, o una porzione di cavallo), si sarebbe avuta la prova che con quel nome entrambi identificavano occorrenze dello stesso TC. Su queste basi è possibile ipotizzare l’esistenza di TC, senza essere obbligati a domandarsi che cosa e dove stiano. Se in tempi di acceso antimentalismo era persino proibito avanzare l’ipotesi dell’esistenza di qualsiasi evento mentale, in un periodo in cui fioriscono gli studi sulla cognizione è lecito domandarsi se il TC del cavallo, nella “mente” degli aztechi, era fatto di immagini mentali, diagrammi, descrizioni definite espresse proposizionalmente, o consisteva in un insieme di marche semantiche e relazioni astratte che costituiva l’alfabeto innato del loro “mentalese”, ed essi processassero stringhe di segnali discreti in puri termini booleani. Tutti problemi del massimo momento nell’ambito delle scienze cognitive ma, a mio parere, del tutto irrilevanti dal punto di vista da cui mi sto ponendo, tenendo conto soltanto dei dati di una folk psychology ovvero, per risuscitare un venerabile concetto filosofico che ritengo ancora della massima utilità, riflettendo dal punto di vista del senso comune. È in base al senso comune che si rileva l’evidenza dei due fenomeni del riconoscimento e del riferimento felice.12 3.3.1.3. TC e scatola nera Che cosa avvenga nella nostra “scatola nera” quando percepiamo qualcosa è problema che le scienze cognitive dibattono - discutendo per esempio (i) se l’ambiente ci fornisca tutta l’informazione necessaria senza intervento costruttivo da parte del nostro apparato mentale o neurale, o se invece ci sia selezione, interpretazione e riorganizzazione

del campo stimolante; (ii) se nella scatola nera ci sia qualcosa designabile come “mente” o puri processi neurali, o se si possa asserire, come avviene nel campo del neo-connessionismo, una identità tra regola e dati; (iii) dove stiano (se ci siano) i tipi o schemi cognitivi di qualsiasi genere; (iv) come si configurino mentalmente o cerebralmente. Tutti questi sono problemi di cui non intendo occuparmi. I TC possono essere nella mente, nel cervello, nel fegato, nella ghiandola pineale (se non fosse già occupata, di questi tempi, dalla melatonina); potrebbero persino appartenere a un magazzino impersonale, stipati in qualche intelletto attivo universale, da cui una divinità avara li preleva e me li presta, per occasionalismo, ogni volta che mi servono (e gli studiosi della cognizione che passano la vita a interrogare i soggetti che non sanno distinguere un bicchiere da un piatto dovranno decidere perché alcune delle loro aree cerebrali non sono più sintonizzate sulla lunghezza d’onda divina). Ma si deve partire dal principio che, se ci sono atti di riferimento felice è perché, sia nel riconoscere la seconda volta qualcosa percepito in precedenza, sia nel decidere che sia l’oggetto A che l’oggetto B possono soddisfare al requisito di essere un bicchiere, un cavallo, un edificio, o che due forme sono definibili entrambe come triangoli rettangoli, si paragonano occorrenze a un tipo (che esso sia un fenomeno psichico, un prototipo fisicamente esistente, o una di quelle entità del Terzo Mondo di cui la filosofia cerca sempre di rendere ragione, da Platone a Frege, da Peirce a Popper). Postulare i TC non ci obbliga neppure a decidere preliminarmente se essi assumano, in parte o in tutto, la configurazione di una immagine mentale, oppure se siano semplicemente computabili e processabili in termini di simboli discreti. È noto come questo dibattito tra iconofili e iconofobi sia oggi centrale per gli psicologi cognitivi. Potremmo limitarci a riassumere la polemica Kosslyn/Pylyshyn:13 da un lato forme di rappresentazione mentale di tipo iconico sembrano indispensabili a spiegare tutta una serie di processi cognitivi rispetto a cui la spiegazione proposizionale risulta insufficiente, e l’ipotesi parrebbe confermata anche da simulazioni al computer; dall’altro l’immaginazione mentale sarebbe un semplice epifenomeno, spiegabile come elaborazione di informazione accessibile solo in termini digitali.

Le immagini mentali non sarebbero quindi incorporate nel nostro hardware ma soltanto outputs secondari. Ora, si potrebbe dire che a livello neurale non esiste l’amore, e che innamorarsi è un epifenomeno basato, in profondo, su complesse interazioni fisiologiche, esprimibili un giorno attraverso un algoritmo. Ciò non toglie che l’epifenomeno “innamoramento” sia centrale per la nostra vita personale e sociale, per l’arte e la letteratura, la morale, e spesso anche la politica. Così una semiotica delle passioni non si domanda che cosà accada nel nostro hardware quando proviamo odio o paura, collera o amore (anche se certamente accade qualcosa di investigabile), bensì come accada che le riconosciamo, le esprimiamo, le interpretiamo - così che comprendiamo benissimo che cosa voglia dire che Orlando è furioso piuttosto che innamorato. L’esperienza semiosica ci dice che noi abbiamo l’impressione di intrattenere immagini mentali (anche se non esistesse una mente), e soprattutto che noi pubblicamente e intersoggettivamente interpretiamo molti termini attraverso rappresentazioni visive. Per cui anche la componente iconica della conoscenza deve essere postulata allo stesso titolo dell’esistenza di TC, per rendere ragione di quello che il senso comune ci propone. Le immagini costituiscono sistemi di istruzioni tanto quanto i dispositivi verbali, e se debbo insegnare a qualcuno come si arriva a Piazza Garibaldi posso sia diffondermi in indicazioni verbali circa le vie che deve imboccare che mostrargli una mappa (la quale non è una immagine di Piazza Garibaldi ma una procedura diagrammatica per poter reperire Piazza Garibaldi). Quale dei due procedimenti sia migliore dipende dalle capacità e dalle disposizioni dell’interlocutore.14 Rifiutare di mettere il naso nella scatola nera potrebbe essere inteso come la confessione che la filosofia (e nella fattispecie la semiotica generale come filosofia) costituisca una forma di conoscenza “inferiore” rispetto alla scienza. Ma non è così. Possiamo postulare i TC nella scatola nera proprio perché possiamo avere un controllo intersoggettivo su ciò che ne costituisce l’output Di questo output abbiamo gli strumenti per parlare - e questo è forse il contributo che la semiotica può dare alle ricerche cognitive, ovvero l’aspetto semiotico dei processi cognitivi.

3.3.2. TC verso Contenuto Nucleare (CN) Dal momento che hanno iniziato a indicarsi gli stessi animali pronunciando tutti il nome maçatl, gli aztechi, se prima potevano dubitare che il loro TC fosse privato, si sono resi conto che al contrario esso stabiliva un’area di consenso. Inizialmente l’area di consenso era soltanto postulabile per spiegare il fatto che essi s’intendevano usando la stessa parola. Ma a mano a mano debbono aver proceduto a interpretazioni collettive di quanto stavano intendendo con quella parola. Hanno associato un “contenuto” all’espressione maçatl. Queste interpretazioni erano quanto di più simile possiamo immaginare a una definizione, ma non possiamo certo pensare che i nostri aztechi si siano detti l’un l’altro che per maçatl intendevano un “mammifero perissodattilo degli equidi, erbivoro non ruminante, con il dito medio del piede molto sviluppato e ricoperto da un’unghia (zoccolo)” (definizione dall’Enciclopedia Zanichelli 1995). All’inizio questo accordo dev’essere avvenuto come scambio disordinato di esperienze (chi faceva notare che l’animale aveva capelli sul collo, chi notava che quei capelli svolazzavano al vento quando gli animali galoppavano, chi per primo aveva realizzato che la bardatura era qualcosa di estraneo al loro corpo, e così via). Insomma, gli aztechi hanno a poco a poco interpretato i tratti del loro TC, per omologarlo il più possibile. Se il loro (o i loro) TC potevano essere privati, queste interpretazioni erano pubbliche: se le avessero messe per iscritto, o in forma di pittogrammi, o se qualcuno avesse registrato su nastro quel che si dicevano, avremmo una serie controllabile di interpretanti. In effetti li abbiamo, nella misura in cui ci sono rimaste delle testimonianze indigene, e se non sappiamo con esattezza che cosa fosse passato per il capo ai primi aztechi quando hanno visto i cavalli è solo perché abbiamo ragione di sospettare che le testimonianze siano troppo tarde, interpretazioni delle interpretazioni che i conquistatori avevano dato dei loro primi comportamenti. Ma posto che questi interpretanti fossero a disposizione in modo integrale, come avviene per i rapporti degli scienziati che hanno visto per la prima volta un ornitorinco, essi non solo metterebbero in chiaro quale fosse il loro TC ma circoscriverebbero anche il significato che assegnavano all’espressione maçatl.

Chiameremo Contenuto Nucleare (CN) questo insieme di interpretanti. Preferisco parlare di Contenuto anziché di Significato Nucleare perché per antica tradizione si tende ad associare al significato un’esperienza mentale. In certe lingue la confusione è più forte che in altre, e si pensi al sostantivo inglese meaning che può voler dire “ciò che esiste nella mente” ma anche un proposito, ciò che è inteso essere, ciò che è denotato o capito, il senso, la significazione, eccetera. E non si può dimenticare che meaning può apparire anche come forma del verbo to mean, che significa sia avere in mente che intendere, esprimere, voler dire, e solo in qualche caso viene a denotare una sinonimia registrata socialmente (l’esempio del Webster è “the German word “ja” means “yes”). Tra l’altro, le stesse variazioni di senso si trovano nel tedesco meinen. Per quanto riguarda l’italiano, anche se il termine significato viene più sovente inteso come “concetto espresso da un segno”, la coppia significato e significare può venire usata per l’espressione di pensieri o sentimenti, per l’effetto emotivo che provoca una espressione, per l’importanza o il valore che qualcosa assume per noi, eccetera. Invece il termine contenuto - nel senso hjelmsleviano, come correlato di una espressione - è meno compromesso e consente di essere usato, come farò, in senso pubblico e non mentale. Una volta messo in chiaro questo, quando le esigenze di discussione con qualche teoria corrente incoraggino a farlo, userò la parola significato, ma sempre e soltanto come sinonimo di contenuto. In certi casi TC e CN possono praticamente coincidere, nel senso che il TC determina totalmente gli interpretanti espressi dal CN, e il CN permette di concepire un TC adeguato. Tuttavia voglio chiarire ancora una volta che il TC è privato mentre il CN è pubblico. Non stiamo parlando dello stesso fenomeno (che qualcuno chiamerebbe genericamente “la competenza che gli aztechi avevano circa i cavalli”): da un lato stiamo parlando di un fenomeno di semiosi percettiva (TC) e dall’altro di un fenomeno di accordo comunicativo (CN). Il TC - che non si vede e non si tocca - è soltanto postulabile in base ai fenomeni del riconoscimento, dell’identificazione e del riferimento felice; il CN invece rappresenta il modo in cui intersoggettivamente cerchiamo di chiarire quali tratti compongano un TC. Il CN, che riconosciamo sotto forma d’interpretanti, si vede e si tocca - e questa non è soltanto una

metafora, dato che tra gli interpretanti del termine cavallo stanno anche tanti cavalli scolpiti in bronzo o in pietra. Se Montezuma avesse raccolto tutti i pittogrammi disegnati dai messi, filmato i loro gesti, registrato sul nastro le loro parole e avesse rinchiuso tutte queste testimonianze materiali in uno scrigno, poi avesse messo a morte i messi e commesso suicidio, quello che rimarrebbe in quello scrigno sarebbe il contenuto dell’espressione maçatl per gli aztechi. Starebbe poi all’archeologo che ritrovasse quello scrigno riuscire a interpretare a sua volta quegli interpretanti, e solo attraverso l’interpretazione di quel contenuto l’archeologo sarebbe in grado, poi, di congetturare quale fosse stato il TC del cavallo per gli aztechi. Un TC non nasce necessariamente da un’esperienza percettiva ma può essere trasmesso culturalmente (come CN) e condurre al successo di un’esperienza percettiva a venire. È il CN di maçatl che i messaggeri comunicano a Montezuma attraverso immagini, gesti, suoni e parole. In base a queste interpretazioni Montezuma avrà cercato di farsi una “idea” dei cavalli. Questa “idea” è il nucleo del TC che egli ha costruito provvisoriamente in base al CN ricevuto sotto forma di interpretazioni.15 Il modo in cui i CN vengono espressi aiuta anche a dipanare il nodo circa la questione se abbiamo immagini mentali o meno.16 Un CN viene espresso talora a parole, talora a gesti, talora per immagini o diagrammi. In fondo il disegno del modello 3D di Marr, in quanto pubblico, è un elemento del CN che interpreta una modalità procedurale del nostro TC. Che cosa corrisponde nel nostro cervello a quella presunta immagine? Diciamo, attivazioni neuronali. Ora, anche se il pattern di queste attivazioni non corrispondesse a ciò che intuitivamente chiamiamo immagine, quei fenomeni cerebrali rappresenterebbero la causa o il corrispettivo della nostra abilità sia a concepire sia a interpretare il nostro tipo del cavallo. Postuliamo un TC come disposizione a produrre CN e trattiamo i CN come prova che ci sia da qualche parte un TC. 3.3.2.1. Istruzioni per l’identificazione Il CN del termine fornisce anche criteri o istruzioni per la identificazione di una delle occorrenze del tipo (ovvero, come si suol dire, per l’identificazione del referente).17 Uso “identificazione” invece

di “riconoscimento” perché vorrei riservare il secondo termine per fenomeni cognitivi strettamente dipendenti da un’esperienza percettiva precedente, e il primo alla capacità di identificare percettivamente qualcosa di cui non si aveva ancora avuto esperienza. Ho identificato un alligatore, la prima volta che l’ho visto lungo il Mississippi, in base alle istruzioni che mi erano state fornite in precedenza mediante parole e immagini, e cioè comunicandomi il CN della parola alligatore. Fornendo istruzioni per identificare le occorrenze del tipo, il CN orienta nella formazione di un TC tentativo. Se i messi avranno fornito buone interpretazioni a Montezuma, il suo TC tentativo sarà stato così ricco e preciso da permettere una identificazione immediata e pochi riaggiustamenti in base alla percezione diretta. Altre volte le istruzioni fornite dal CN sono insufficienti. I messi potrebbero aver insistito a tal punto sull’analogia coi cervi da indurre Montezuma a costruirsi un TC tentativo così imperfetto da non identificare facilmente i cavalli al primo incontro, e a confonderli coi buoi di una mandria al seguito delle truppe.18 3.3.2.2. Istruzioni per il reperimento C’è un’altra possibilità: che i messi non riuscissero a esprimere a Montezuma le proprietà del cavallo. In tal caso avrebbero potuto limitarsi a dirgli che erano apparsi animali strani e terribili qualche giorno prima su un punto della costa, e che se egli si fosse recato in quel tal luogo, avrebbe potuto identificare degli uomini bianchi bardati di ferro che si muovevano sedendo a gambe larghe su qualcosa; e questo qualcosa sarebbe stato ciò a cui si stavano riferendo. In tal modo avrebbero fornito a Montezuma istruzioni non per identificare ma per reperire l’oggetto. I due casi che sto per citare riguardano TC di individui, su cui dovrò tornare in 3.7.6, ma in ogni caso servono a distinguere identificazione da reperimento. Primo caso. Io mi imbatto tutte le mattine al bar in un tizio, ogni volta lo riconosco, ma non so come si chiami, e se dovessi correlare al nome generico tizio un CN sarebbe semplicemente la descrizione “colui che vedo tutte le mattine al bar”. Un giorno vedo quel tizio che compie una rapina nella banca di fronte. Interrogato dalla polizia, attraverso interpretazioni verbali aiuto il disegnatore specializzato a tracciarne un identikit abbastanza somigliante. Ho

fornito istruzioni per l’identificazione del tizio, e i poliziotti ne possono elaborare un TC (sia pure vago - tanto che rischiano di identificare per errore qualcun altro). Secondo caso. Io riconosco ogni mattina un tizio al bar, anche se non l’ho mai osservato bene, però l’ho sentito un giorno dire al telefono che si chiama Giorgio Rossi e abita in via Roma 15. Un giorno costui litiga col barista e lo uccide spaccandogli una bottiglia sulla testa, poi si dà alla fuga. La polizia m’interroga come testimone, io sono assolutamente incapace di fornire istruzioni al disegnatore dell’identikit (riesco al massimo a dire che il tizio è alto, ha una faccia comune, uno sguardo antipatico), ma posso fornire nome e indirizzo del tizio. Sulla base di un mio TC privato non so fornire istruzioni per l’identificazione; ma sulla base del CN che associavo al nome Giorgio Rossi (un essere di sesso maschile che abita in via Roma 15) sono in grado di fornire alla polizia istruzioni per il suo reperimento.

3.3.3. Contenuto Molare (CM) Quando, dopo aver visto i cavalli dal vivo, e avere parlato con gli spagnoli, Montezuma acquisisce su di essi altre informazioni, può arrivare a saperne quello che ne sapeva uno spagnolo (anche se non proprio quello che ne sa oggi uno zoologo). Avrebbe allora avuto dei cavalli una conoscenza complessa. Si noti che non sto parlando di conoscenza “enciclopedica” nel senso di una differenza tra Dizionario ed Enciclopedia (su cui tornerò in 4.1) bensì nel senso di “conoscenza allargata”, che comprende anche nozioni non indispensabili al riconoscimento percettivo (per esempio: che i cavalli si allevano in tal modo o che sono mammiferi). Parlerò, per questa competenza allargata, di Contenuto Molare (CM). Il formato del CM di Montezuma potrebbe essere diverso da quello dei suoi primi messi, o dei suoi sacerdoti, e sarebbe in continua espansione. Non sappiamo bene come avrebbe potuto evolversi - e si pensi solo al fatto che ai giorni nostri fa parte del CM di cavallo (ma non ne faceva certo parte ai tempi di Montezuma) l’informazione che questo animale prospera sul continente americano. Non lo identificherei con una conoscenza esprimibile esclusivamente in forma proposizionale, perché potrebbe comprendere immagini di cavalli di varie razze o di diversa età.

Uno zoologo possiede di cavallo un CM, e un CM ne possiede certamente un fantino, anche se le due aree di competenza non sono coestensive. È a livello del CM che avviene quella divisione del lavoro linguistico di cui parla Putnam, e che preferirei definire come divisione del lavoro culturale. A livello del CN ci dovrebbe essere consenso generalizzato, sia pure con qualche sfrangiamento e zona d’ombra (cfr. 3.5.2). E siccome è quest’area di consenso che costituisce il nucleo del presente discorso, tenderei a non prendere in considerazione il CM, che può assumere formati diversi a seconda dei soggetti, e rappresenta porzioni di competenza settoriale. Diciamo che la somma dei CM si identifica con l’Enciclopedia come idea regolativa e postulato semiotico di cui si diceva in Eco 1984, 5.2.

3.3.4. CN, CM e concetti Qualcuno, mentre leggeva la prima versione di queste pagine, mi ha domandato quale sia la differenza tra CN, CM e concetto. Non saprei rispondere alla domanda prima di aver risolto due casi: (i) qual è la differenza tra il tipo cognitivo dell’ornitorinco costruito dal suo primo scopritore e il concetto dell’ornitorinco che ovviamente esso non poteva avere in precedenza, neppure in caso di universo platonico sovrappopolato? (ii) qual è la differenza tra il concetto che del cavallo avevano i primi aztechi e quello che ne ha lo zoologo? Quanto alla prima domanda, mi pare evidente che, sino dalla idea kantiana di uno schema per i concetti empirici, era evidente che, se esistesse un concetto, dovrebbe essere mediato dallo schema, ma se si introduce lo schema non c’è più bisogno di concetto - prova ne sia la possibilità di costruire schemi per concetti che non abbiamo, come quello dell’ornitorinco. Quindi l’idea di concetto diventa un residuo imbarazzante. Quanto alla seconda domanda, se per “concetto” si intende una concezione mentale, come vuole l’etimologia, le risposte sono due: o il concetto presiede al riconoscimento percettivo, e allora s’identifica col TC e viene espresso non dalla classica definizione, ma dal CN; o è una definizione rigorosa e scientifica dell’oggetto, e allora s’identifica con un particolare CM settoriale.

Pare oltraggioso dirlo, ma dal punto di vista da cui mi pongo la parola concetto viene a significare soltanto ciò che uno ha nella testa. Per il proposito di non guardare nella scatola nera, non posso dire che cosa sia. Mi domando piuttosto se se lo chiedano coloro che nella scatola nera ci guardano. Ma questo è un altro discorso.

3.3.5. Riferimento In tutta la storia che abbiamo esaminato gli aztechi assegnano un CN all’espressione maçatl, ma quando parlano tra loro di quanto hanno visto si riferiscono a cavalli individuali. Di quel fenomeno molto complesso che è il riferimento parlerò in 5. In questa sede occorre scollare non solo il contenuto dal riferimento ma le istruzioni per l’individuazione del referente dagli atti concreti di riferimento. Qualcuno può aver ricevuto istruzioni per identificare un armadillo, eppure in tutta la sua vita non si è mai riferito a un armadillo (cioè non ha mai detto questo è un armadillo, o c’è un armadillo in cucina). Il TC provvede istruzioni per identificare il referente, e queste costituiscono indubbiamente una forma di competenza. Riferirsi a Qualcosa è invece una forma di esecuzione (performance). Essa si basa certo sulla competenza referenziale, ma come vedremo in 5 non solo su quella. Il referente della parola cavallo è qualcosa. Riferirsi ai cavalli è un atto, non una cosa. Montezuma, dopo aver ascoltato il racconto dei messi, possedeva un embrione di competenza ma se, come si è visto, si è chiuso per qualche tempo in ostinato mutismo, non ha eseguito subito alcun atto di riferimento ai cavalli. Si riferivano ai cavalli i suoi messi anche prima di fornirgli istruzioni per identificare il referente, quando gli hanno detto che intendevano parlargli di Cose che non osavano descrivere. Montezuma, uscendo dal suo silenzio, avrebbe potuto riferirsi a queste Cose ancora ignote, per esempio domandando che cosa e come fossero, prima ancora di possedere istruzioni per la loro identificazione. Avrebbe così dimostrato che si può comprendere il riferimento a enti, e ad essi ci si può riferire, anche senza possederne un TC, e neppure un CN. Montezuma capiva che i messi compivano un atto di riferimento, e tuttavia non era in grado di capire quale fosse il referente di quell’atto.

3.4. Primitivi semiosici 3.4.1. Primitivi semiosici e interpretazione Pensiamo a un essere posto in un ambiente elementare, prima ancora che esso entri in contatto con altri suoi simili. Questo essere dovrebbe acquisire, comunque decida di nominarle, alcune “nozioni” fondamentali (comunque in seguito decida di istituirle in sistema di categorie, o comunque di unità di contenuto): dovrebbe avere una nozione dell’alto e del basso (essenziale per il suo equilibrio corporale), dello star ritto o sdraiato, di alcune operazioni fisiologiche come ingurgitare o espellere, del camminare, del dormire, del vedere, dell’udire, dell’avvertire sensazioni termiche, olfattive o gustative, del provare dolore o sollievo, del battere le mani, del penetrare col dito una materia molle, del picchiare, del raccogliere, dello sfregare, del grattarsi, e così via.19 Appena entrato in contatto con altri esseri, o in genere con l’ambiente circostante, dovrebbe avere nozioni che riguardano la presenza di qualcosa che si oppone al suo corpo, l’amplesso, la lotta, il possesso o la perdita di un oggetto di desiderio, probabilmente la cessazione della vita... Comunque pervenga ad assegnare nomi a queste esperienze fondamentali, certamente esse sono originarie. Vale a dire che, nel momento in cui si “entra nel linguaggio”, ci sono alcune disposizioni al significato che sono di carattere prelinguistico, ovvero che ci sono “certe classi di significati a cui gli esseri umani sono accordati in modo innato”.20 Di tale tipo sarebbe per esempio l’attribuzione di animalità a un certo oggetto. Può darsi che poi tale attribuzione si dimostri errata, come accadrebbe per una mentalità arcaica che vedesse le nuvole come animali, ma di certo uno dei primi modi in cui si reagisce a ciò che ci viene incontro nell’ambiente è una attribuzione di animalità o di vitalità a un oggetto che ci fronteggia, e ciò non ha ancora nulla a che fare con “categorie” come Animale: l’animalità di cui sto parlando è certamente precategoriale. Dirò in 3.4.2 perché considero improprio quest’uso dei termini categoria, categoriale e pre-categoriale; in ogni caso nozioni come Animale, Minerale, Artefatto (che in molte semantiche composizionali sono considerate come primitivi semantici, probabilmente innati, non ulteriormente inanalizzabili, talora costituiti in sistemi gerarchizzati e

finiti di iponimi ed iperonimi) possono avere un senso come elementi di un CM. Se siano primitivi, inanalizzabili e gerarchizzati, e quanto se ne possa concepire un inventario finito, è stato discusso in Eco (1984, 2). Ma certamente essi non dipendono dall’esperienza percettiva bensì da una segmentazione e organizzazione del continuum del contenuto che presuppone un sistema coordinato di assunzioni. Non di tale natura sono i primitivi semiosici di cui sto parlando, che dipendono dalla percezione preclassificatoria di qualcosa come vivente e animato, o come privo di vita. Quando sentiamo sul braccio o sulla mano la presenza di un corpo estraneo, per quanto minuscolo, talora senza neppure guardare (e talora l’intervallo tra ipotesi percettiva e risposta motoria è infinitesimale), con l’altra mano o battiamo per schiacciare qualcosa, o muoviamo l’indice con un colpo del pollice per far schizzare via qualcosa. Di solito schiacciamo quando abbiamo ipotizzato (prima ancora di aver deciso, perché la nostra salvezza dipende dalla velocità del riflesso) che si tratti di una zanzara o di qualche altro insetto molesto, e facciamo schizzare via il corpo quando abbiamo deciso che si tratti di una scoria vegetale o minerale. Se si decide che dobbiamo “uccidere” è perché si è colto un tratto di “animalità” nel corpo estraneo. È un riconoscimento primario, pre-concettuale (in ogni caso prescientifico), che ha a che fare con la percezione e non con la conoscenza categoriale (caso mai la orienta, le si offre come spunto di interpretazione a livelli cognitivi superiori).

3.4.2. Chiarimenti sulle categorie La psicologia cognitiva parla sovente della nostra capacità di pensiero come fondata sulla possibilità di una organizzazione categoriale. L’idea è che il mondo di cui abbiamo esperienza è composto di una tale quantità di oggetti ed eventi che se dovessimo individuarli tutti e nominarli singolarmente saremmo sopraffatti dalla complessità dell’ambiente; per cui l’unico modo di non diventare “schiavi del particolare” sta nella nostra capacità di “categorizzare”, e cioè di rendere equivalenti cose diverse, raggruppando oggetti ed eventi in classi (per es. Bruner et al. 1956).

L’idea è in sé inoppugnabile. Anzi, non per dire a ogni costo che gli antichi avevano già pensato tutto, ma se sostituiamo a “categorizzazione” il termine “concettualizzazione” ci accorgiamo che si sta parlando ancora una volta del problema di come il linguaggio (e con esso il nostro apparato cognitivo) ci porta a parlare e a pensare per generalia, ovvero che riuniamo individui in insiemi. Raggruppare occorrenze molteplici sotto un solo tipo è il modo in cui funziona il linguaggio (affetto, come si diceva nel Medioevo, da penuria nominum). Ma un conto è dire che, di fronte a vari individui noi riusciamo a pensarli tutti come “gatto” e un conto è dire che riusciamo a pensare tutti i gatti come animali (o felini). Come si vede i due problemi sono diversi. Sapere che un gatto è un felino sembra appartenere più alla competenza registrata come CM che a quella registrata come CN, mentre la percezione quasi immediata del gatto ci è parsa fenomeno pre-categoriale. Il fatto è che nella letteratura contemporanea in argomento il termine “categoria” viene usato in modo assai diverso da quello in cui era usato sia da Aristotele che da Kant, anche se accade di vedere molti autori che quando affrontano il problema si rifanno - senza citazioni specifiche, e quasi retoricamente a legittimare le loro assunzioni all’eredità classica. Per Aristotele le categorie erano dieci, la Sostanza e i nove predicati che se ne potevano predicare, e cioè che qualcosa stava in un certo tempo, in un certo luogo, che aveva certe qualità, che pativa qualcosa o che faceva qualcosa d’altro, eccetera. Che cosa fosse un certo soggetto (un uomo, un cane, un albero) per Aristotele non era un problema. Si percepiva una sostanza e si capiva quale fosse la sua essenza (Aristotele cioè pensava che, non appena vediamo l’occorrenza di un uomo, la riconduciamo al tipo “uomo”). Nel senso aristotelico, applicare le categorie non va molto al di là del dire che si sta percependo un gatto, che è bianco, che sta correndo nel Liceo, eccetera. Dal punto di vista della psicologia cognitiva contemporanea tutto questo apparterrebbe al pre-categoriale, o metterebbe in gioco appena quelle che sono chiamate “categorie di base”, come “gatto”, più una attività non meglio definita che consisterebbe nel riconoscere a un dato oggetto delle proprietà attive o passive. Per Kant le categorie sono qualcosa di molto più astratto delle categorie aristoteliche (sono unità, pluralità, realtà, negazione, sostanza

e accidente, causalità, e così via) e abbiamo visto in 2.3 come gli risultasse difficile dire che cosa abbiano a che vedere con concetti empirici come quelli di cane, sedia, rondine o passero. Ma torniamo ad Aristotele. Che vedendo un gatto che corre nel Liceo si percepisse un gatto che corre nel Liceo era per lui un fatto naturale e spontaneo. Naturalmente poi si trattava di definire che cosa fosse la sostanza “gatto”. La definizione avvenendo per genere e differenza, la tradizione aristotelica doveva identificare i predicabili. I predicabili sono quanto di più simile ci sia alle categorie come le intendono le tassonomie moderne: sono strumenti per la definizione (gatto è animale irrazionale mortale, per la tradizione aristotelica, e ammetto che è poco, e per le tassonomie moderne è della specie Felis Catus, del genere Felis, del subordine dei Fissipedi, e via via, sino a che si arriva alla classe dei Mammiferi). Questo tipo di classificazione - e potremmo parlare di categorizzazione se intendiamo i predicabili aristotelici come subcategorie - è essenziale al riconoscimento di qualcosa? Niente affatto. Non certo per Aristotele, che ha fallito nel definire in modo soddisfacente il cammello (cfr. Eco 1983, 4.2.1.1) senza peraltro cessare di identificarlo e nominarlo in modo corretto; e nemmeno per la psicologia cognitiva, poiché nessuno ha mai negato che qualcuno sia capace di percepire e riconoscere un ornitorinco senza per questo sapere se sia Mammifero, Uccello o Anfibio. In un certo senso, in questa storia, l’imbarazzo sarebbe maggiore per Aristotele che per Kant o per i cognitivisti contemporanei. I cognitivisti se la caverebbero, al limite, assumendo che vi sia del pre-categoriale nella percezione; Kant è riuscito a spostare cani e gatti tra i concetti empirici e la loro classificazione in generi e specie nel territorio del giudizio riflettente; ma Aristotele ci dice che di fronte a una sostanza individua comprendiamo quale sia la sua essenza (uomo o gatto), avrebbe ammesso volentieri che a uno schiavo fosse possibile di riconoscere un gatto anche se non ne sapeva esprimere la definizione, eppure quando deve dire che cosa sia la sostanza non può farlo che in termini di definizione, ricorrendo al genere e alla differenza. È come se Aristotele ammettesse che in qualche modo abbiamo dei TC ma che non possiamo interpretarli che in termini di CM (poiché appartiene al CM la conoscenza delle classificazioni).

A meno che egli volesse dire esattamente quello che stiamo dicendo: che percepire (applicando categorie - le sue) è esattamente muoversi in quello che oggi si chiama pre-categoriale, e che pre-categoriali sono le attribuzioni di vita, animalità e persino razionalità. Nel senso almeno in cui ha cercato di spiegarlo Tommaso:21 noi non percepiamo affatto delle differenze come la razionalità ma le inferiamo da accidenti percepibili; per cui inferiamo che l’uomo sia razionale attraverso manifestazioni esteriori, per esempio il fatto che parli, o che sia bipede. E allora sarebbe l’immediata percezione di questi accidenti che viene a far parte dell’esperienza percettiva, e il resto sarebbe elaborazione colta. Quelle che il cognitivismo contemporaneo chiama categorie (e che per Aristotele sarebbero stati dei predicabili) sono piuttosto ciò che nelle scienze naturali sono chiamati taxa, che si incassano da specie a genere (o da ordini a classi, o da classi a regni). Quelle che il cognitivismo chiama categorie di base sono certamente dei TC, mentre quelle che esso chiama categorie superordinate (come Strumento rispetto alla categoria di base del martello) sono dei taxa, appartengono a una fase di elaborazione culturale più complessa e sono immagazzinate nel CM di alcuni parlanti particolarmente dotati (dipendono da un sistema coerente di proposizioni, ovvero da un dato paradigma culturale). Noto di sfuggita che la distinzione era già assai chiara in John Stuart Mill, mentre esaminava le varie classificazioni naturalistiche che ai suoi tempi erano ancora materia di aspro dibattito: C’è [...] una classificazione delle cose, che è inseparabile dall’atto di dare loro un nome generale. Ogni nome che connota un attributo, divide per questo semplice fatto ogni cosa in due classi, quelle che hanno l’attributo e quelle che non lo hanno... La Classificazione che dobbiamo discutere come un atto separato della mente è invece diversa. Nella prima l’arrangiamento degli oggetti in gruppi, e la loro distribuzione in compartimenti, è un mero effetto incidentale che consegue dall’uso dei nomi dati per altro proposito, come quello di esprimere semplicemente alcune delle loro qualità. Nell’altra l’arrangiamento e la distribuzione sono il proposito principale, e la nominazione è secondaria, e si conforma a questa operazione principale, piuttosto di governarla (A System of Logic, IV, vii).

Siccome non si può combattere contro le inerzie del linguaggio, mi adatterò anch’io a chiamare categorie queste voci classificatorie, ma sia chiaro che esse non contribuiscono immediatamente a dirci che cosa una cosa sia bensì come essa viene gerarchicamente ordinata in un sistema di concetti di base e concetti superordinati e subordinati.22 Un’altra osservazione è che se le categorie (nel senso moderno del termine) sono dei taxa, esse non hanno affatto a che vedere con quei primitivi elaborati o individuati dalle semantiche “a tratti” - e che per avventura hanno lo stesso nome di molte categorie o taxa, quelli che d’abitudine si registrano in maiuscoletto, come ANIMALE, UMANO, VIVENTE, ADULTO eccetera. Si può discutere se questi primitivi siano in numero finito, se funzionino per congiunzione o per intersezione, ma non sempre essi sono gerarchizzati come i taxa, anche se in alcuni autori essi si organizzano per rapporti di ipo/iperonimia (cfr. in proposito Violi 1997, 2.1 e 4.1). Anzi, sovente tali primitivi semantici sono assimilabili a quelli che ho chiamato primitivi semiosici (e che appunto alcuni definirebbero come pre-categoriali). Se sono primitivi semiosici l’avvertire che qualcosa è un corpo, che vola nel cielo, che è un animale, che pesa, ecco che caso mai i taxa nascono come elaborazioni di tali esperienze pre-categoriali - almeno nel senso che mi sono rassegnato a rispettare.

3.4.3. Primitivi semiosici e verbalizzazione Wierzbicka (1996), appoggiando le proprie ipotesi su una vasta ricognizione di lingue diverse, sostiene persuasivamente che esistano dei primes comuni a tutte le culture. Sarebbero nozioni come Io, Qualcuno, Qualcosa, Questo, l’Altro, Uno, Due, Molti, Molto, Penso, Voglio, Sento, Dico, Fare, Accadere, Buono, Cattivo, Piccolo, Grande, Quando, Prima, Dopo, Dove, Sotto, No, Qualche, Vivente, Lontano, Vicino, Se ed Allora (il mio elenco riassuntivo è incompleto). L’aspetto interessante di questa proposta è che tende a risolvere nei termini di questi primitivi ogni altra possibile definizione. Prima tuttavia di procedere a utilizzare alcuni suggerimenti di Wierzbicka, voglio mettere in chiaro che assumo questi primes con tutte le cautele del caso. Dire che queste nozioni sono originarie non

significa necessariamente ammettere (i) che esse siano primitive filogeneticamente, e quindi innate: esse possono essere primitive solo per l’individuo singolo, mentre altri individui partono da altre e diverse esperienze (per esempio, per un cieco nato il vedere non sarà un’esperienza primitiva); (ii) che siano universali (anche se non vedo alcuna ragione evidente per negarlo; ma bisogna distinguere l’ipotesi teorica della loro universalità dalla verifica empirica che esistano dei termini precisi per esse in tutte le lingue note); (iii) che per il fatto di essere primitivi non siano interpretabili. Il punto (iii) rappresenta una debolezza dell’argomentazione di Wierzbicka. Questa fallacia nasce dal fatto che sono stati tradizionalmente assunti come non interpretabili i primitivi semantici a cui accennavo nel paragrafo precedente, quei presunti tratti come UMANO O ADULTO che nelle semantiche “a tratti” dovrebbero costituire gli atomi non ulteriormente secabili del significato. Ma quelli che Wierzbicka chiama primes non sono di tale natura - anche se l’autrice tende talora a trattarli come se lo fossero. Non sono postulati di significato, sono elementi di un’esperienza primordiale. Dire che il bambino ha una esperienza primordiale del latte (per cui si presume che crescendo sappia con esattezza che cosa sia) non vuole affatto dire che il bambino, a richiesta, non possa interpretare il contenuto di latte (si veda in 3.7.2 che cosa fa un bambino richiesto di interpretare la parola acqua). Può darsi che quelle espresse dalle parole vedere e udire siano esperienze primordiali di tal fatta, ma anche un bambino è capace di interpretarle (con riferimento a organi diversi). È non ammettendo questo che Wierzbicka reagisce con enfasi all’opinione di Goodman (1951: 57) secondo la quale “non è perché un termine sia indefinibile che esso è scelto come primitivo; piuttosto, è perché un termine è stato scelto come primitivo per un sistema che esso è indefinibile... In generale, i termini adottati come primitivi in un dato sistema sono facilmente definibili in qualche altro sistema. Non vi sono primitivi assoluti”. Già Wilkins ci mostrava come sia possibile, attraverso uno schema cognitivo spaziale e non proposizionale, interpretare e definire sia l’alto che il basso, sia verso che sotto, o dentro (cfr. Eco 1993, 2.8.3).23 Messa in chiaro questa riserva, Wierzbicka parte da una critica condivisibile sia alle cosiddette definizioni di dizionario che a quelle enciclopediche. Si prenda l’esempio del topo (1996: 340 sgg.). Se la

definizione del termine topo deve permettere anche di potere identificare il referente, o comunque di rappresentarci mentalmente un topo (così come Montezuma doveva immaginare come fosse un cavallo) è evidente che una definizione strettamente dizionariale come “mammifero, muride, roditore” (che si rifà ai taxa delle classificazioni naturalistiche) non è sufficiente. Ma ecco che appare insufficiente anche la definizione proposta dall’Enciclopedia Britannica, che parte da una classificazione zoologica, specifica le aree in cui il topo prospera, si diffonde sui suoi processi riproduttivi, sulla sua vita sociale, sui suoi rapporti con l’uomo e l’ambiente domestico, e così via. Chi non abbia mai visto un topo non sarà mai capace di identificarlo in base a questa vastissima e organizzata raccolta di dati. A queste due definizioni Wierzbicka oppone la propria definizione folk, che contiene esclusivamente termini primitivi. La definizione occupa due pagine e si compone di items di questo tipo: La gente li chiama Topi - La gente crede che sono tutti dello stesso tipo - Perché vengono da creature dello stesso tipo - La gente pensa che vivono nei posti dove vive la gente - Perché vogliono mangiare le cose che la gente tiene per mangiare - La gente non vuole che essi vivano lì [...] Una persona potrebbe tenerne uno in mano - (molti non vogliono tenerli in mano). Sono grigiastri o brunastri - Si vedono facilmente (alcune creature di questo tipo sono bianche) [...] Hanno gambe corte Per questo quando si muovono non si vedono le loro gambe che muovono e sembra che il corpo intero tocchi il terreno [...] La loro testa sembra che non sia separata dal corpo - Il corpo intero sembra una cosa piccola con una lunga coda e sottile e senza peli - La fronte della testa è appuntita - E ha pochi peli duri che spuntano da entrambi i lati - Hanno due orecchie rotonde sulla sommità della testa Hanno piccoli denti affilati coi quali mordono. Questa definizione folk ricorda l’idea kantiana che lo schema per il cane debba contenere le istruzioni per immaginare la figura di un cane. Se si facesse uno di quei giochi di società in cui qualcuno descrive verbalmente un disegno, e qualcun altro deve riuscire a riprodurlo (misurando al tempo stesso le capacità verbali del primo soggetto e quelle di visualizzazione del secondo), il gioco potrebbe riuscire e

probabilmente il secondo soggetto potrebbe rispondere alla descrizionestimolo proposta da Wierzbicka disegnando una immagine come quella in Figura 3.1. Figura 3.1 Ma l’immagine è solo l’output interpretativo della definizione verbale, o ne è elemento primario e costitutivo? Altrimenti detto, fa parte del nostro CN del topo anche questo schema morfologico? Una buona enciclopedia dovrebbe inserire, nella lunga e soddisfacente definizione scientifica del topo, anche il disegno o la foto di un topo. Wierzbicka non si preoccupa di dirci se l’enciclopedia che ha consultato la contenga, né se sia eventualmente male che non la provveda. Questa disattenzione non è casuale: la spiegazione la si ha nel punto 6.13 dove si sostiene che il linguaggio non può riflettere la rappresentazione neurale del colore, perché essa è privata, mentre il linguaggio “riflette la concettualizzazione”. Ecco pertanto che, mentre si cerca di serrare da vicino la nozione di primitivi semiosici che dovrebbero precedere gli stessi processi di categorizzazione, si finisce per riconoscerli solo in quanto sono esprimibili in termini verbali (generali), così che il primitivo semiosico di “qualcosa” non a caso viene graficamente registrato come qualcosa, come se cioè fosse un primitivo semantico strettamente ancorato all’uso del linguaggio verbale.24

3.4.4. ‘Qualia’e interpretazione Se ci fossero primes non interpretabili dovremmo tornare al problema dei qualia che credevo di aver accantonato nel capitolo precedente, rifacendomi a Peirce. Poniamo il problema nella sua forma più dura e provocatoria: abbiamo TC per i qualia? Se si risponde no, allora i qualia sono “mattoni” per la costruzione dei TC, ma in tal caso non riusciamo a dire né perché li predichiamo (questa cosa è rossa o bollente) né perché di solito ci accordiamo, sia pure a prezzo di qualche negoziazione, su tali predicazioni. Peirce lo aveva detto: la prima sensazione che ho di qualcosa di bianco è pura possibilità, ma quando procedo alla comparazione di due qualità di bianco e posso iniziare una serie di inferenze, e dunque di interpretazioni; il giudizio percettivo

desingolarizza la qualità (CP 7.633). Questo passaggio alla Thirdness è già un passaggio all’universale. Si è discusso all’infinito se la mia sensazione di rosso sia uguale a quella che prova il mio interlocutore ma, salvo in caso di daltonismo, dicendo a qualcuno di andarmi a prendere la penna rossa si ha di solito un caso di riferimento felice, e non ricevo la penna nera. Siccome il riferimento felice è stato assunto come prova che esistano (nella scatola nera) dei TC, ecco che ci sono TC anche dei qualia. Ancora una volta mi limito a dire che debbono esserci, e non mi permetto di dire come siano costituiti. Ma una buona prova che ci sia un TC è che possa essere interpretato. Si possono interpretare i qualia? Si può nel senso che posso definire il rosso non solo nei termini della lunghezza d’onda corrispondente, ma che posso dire che è il colore delle ciliegie, delle giacche delle Guardie a Cavallo canadesi, di molte bandiere nazionali; che posso attraverso vari paragoni interpretare diverse qualità di rosso; che gli esperimenti sulla percezione categoriale (cfr. Petitot 1983) ci dicono che esistono “punti di catastrofe” al di qua dei quali i soggetti percepiscono il rosso e al di là del quale percepiscono un altro colore - e se pure il punto di catastrofe varia in funzione dell’esposizione allo stimolo, esso varia in modo costante per tutti i soggetti. Una sensazione di dolce o di amaro sono eventi privati, eppure gli enologi usano persuasive metafore per discernere il sapore e la consistenza dei vini, e se non sapessero riconoscere i qualia in base a TC non potrebbero neppure distinguere un Pinot da un Tocai, né saprebbero identificarne l’annata.25 Una delle prove consuete contro l’interpretabilità dei colori è che essi non possano essere interpretati per i non vedenti. Basta accordarsi su ciò che si intende per interpretazione: in termini peirceani un interpretante è ciò che mi fa sapere qualcosa di più sull’oggetto espresso dal nome, ma non necessariamente quello che mi fa sapere tutto quello che mi dicono altri interpretanti. È ovvio che un cieco dalla nascita non può avere alcuna percezione del rosso, un primitivo semiosico acquisibile solo attraverso esperienza percettiva. Tuttavia ipotizziamo (e l’esperimento non è del tutto fantascientifico, cfr. Dennett 1991, 11.4) che il cieco sia dotato di una telecamera inserita negli occhiali, capace di individuare colori e di comunicarli sotto forma di impulsi a qualche parte del corpo: davanti a un semaforo il cieco,

allenato a riconoscere impulsi diversi, saprebbe se esso sta segnando rosso o verde. Lo avremmo dotato di una protesi capace di fornirgli un’informazione che gli consentirebbe di supplire alla sensazione mancante. Non sto decidendo se egli “vedrebbe” o meno nel suo cervello qualcosa di simile al rosso, bensì che il suo cervello registrerebbe una interpretazione del rosso. Per caratterizzare una interpretazione come tale non è necessario che essa appaia come perfetta, anzi ogni interpretazione è sempre parziale. Dire al cieco che il rosso è il colore delle sostanze incandescenti rappresenta un’interpretazione imprecisa, ma non è meno soddisfacente che dire a qualcuno che l’infarto è quella cosa che forse hai quando senti forti dolori al petto e al braccio sinistro. Avvertendo dolori al petto noi abbiamo tante ragioni di dire questo forse è infarto quante ne ha il cieco nato, avvertendo una sensazione di caldo intenso, di dire questa sostanza è forse rossa. Semplicemente il cieco nato avverte il rosso come una “qualità occulta”, tanto quanto noi avvertiamo come qualità occulta qualcosa che si manifesta attraverso un sintomo.26

3.4.5. I TC e l’immagine come “schema” Se si è trovato qualcosa di interessante nella nozione kantiana di schema non è stato quando lo schema ci appariva qualcosa di estremamente astratto come “numero”, “grado” o “permanenza del molteplice”, ma proprio quando (e lì la prima Critica entrava in crisi) doveva permettere la formazione di un concetto empirico come quello di cane (e di topo). Lì abbiamo visto che si doveva in qualche modo introdurre nel processo percettivo istruzioni per produrre una figura. L’immagine del topo di Figura 3.1 non deve essere vista come l’immagine di un topo (neppure se fosse una fotografia, che non potrebbe essere che di un topo particolare). E infatti quando noi vediamo immagini del genere su un’enciclopedia non pensiamo affatto che debbano fornirci istruzioni visive per identificare un animale “esattamente” uguale a quello raffigurato. Le assumiamo anzi come immagini del topo in generale. Come si fa a partire da una “pittura” (fatalmente sempre rappresentazione di un individuo, anche quando fosse l’immagine di un triangolo, che non può non essere che l’immagine di un determinato

triangolo) e usarla come schema generale per individuare o riconoscere occorrenze di un tipo? Intendendola appunto come suggerimento schematico (2D o 3D) per costruire immagini simili malgrado vistose differenze nei particolari. Intendendole appunto come lo schema kantiano, per cui non c’è mai immagine (schematica) del cane, ma sistema d’istruzioni per costruire una immagine del cane. Il topo di Figura 3.1 non è l’immagine di un certo topo, e non rappresenta neppure la Murità. Esso è come il brogliaccio, lo schizzo che ci dice quali tratti salienti dovremmo riconoscere in qualsiasi cosa possiamo definire come topo, così come l’immagine schematica di una colonna dorica (in un manuale sugli ordini architettonici) dovrebbe indurci a riconoscere come doriche delle colonne che non sono né ioniche né corinzie, indipendentemente dai loro particolari e dalle loro dimensioni. Il fatto stesso che noi siamo portati, in termini di linguaggio ordinario, a definire “schematica” l’immagine della Figura 3.1 ci dice che essa può essere provvista come interpretante e intrattenuta mentalmente come “modello” per topi di differenti colori, dimensioni e (se fossimo capaci di discriminarli) tratti fisionomici individuali. E si badi che questo accadrebbe anche se invece del disegno schematico ci fosse sull’Enciclopedia una fotografia: partiremmo da essa operando come un processo di solarizzazione o di sgranatura del retino, che è poi una forma di deprivazione e assottigliamento dei tratti individuali, per arrivare a intrattenere una regola per la costruzione dell’immagine di qualsiasi topo. E lo stesso avverrebbe se, per vicende psicologiche che hanno a che fare coi misteri della scatola nera, alla parola topo noi reagissimo evocando l’immagine di quel topo che abbiamo visto la prima volta. La rappresentazione mentale di quell’individuo ci servirebbe da calco, modello (schema, appunto) e saremmo benissimo in grado di trasformare l’esperienza di un topo singolo in una regola generale per riconoscere o costruire topi. Noi possiamo però riconoscere o identificare non solo oggetti naturali o artificiali, ma anche di occorrenze di entità geometriche come il triangolo, e soprattutto di azioni e situazioni (da camminare ad andare al ristorante). Se per il tipo triangolo si può pensare a prototipi o a regole per la costruzione e l’identificazione della figura (non dissimilmente da ciò che può accadere per i tratti morfologici del topo o del bicchiere), e se persino nozioni come stanza o ristorante possono presupporre una struttura visiva di base, sul modello dei frames di

Minsky, riconoscere e identificare azioni come andare al ristorante, litigare, sgridare, oppure situazioni come una battaglia campale, un comizio, una messa cantata, richiedono vere e proprie sceneggiature (nel senso degli scripts proposti in Intelligenza Artificiale, o delle rappresentazioni per Casi e Attanti, o sequenze narrative più complesse come per esempio lo schema greimasiano per la collera).27 Non solo. Ritengo che facciano parte del TC coppie di opposizioni: non solo è difficile interpretare marito se non avendo la nozione di che cosa sia una moglie (ma sui tipi cognitivi per generi funzionali parleremo dopo), ma in qualche modo fa parte della nostra idea di cane il fatto che questo animale abbai o ringhi, e non miagoli o faccia le fusa (tratti sufficienti per decidere di notte, al buio, quale animale stia grattando alla porta). In tali casi possediamo indubbiamente dei TC che non prendono particolarmente o necessariamente in considerazione tratti morfologici. Parimenti possiamo avere TC che tengono conto di sequenze temporali, o relazioni logiche che, per essere esprimibili in forma diagrammatica (che assume a livello dell’espressione quello di una configurazione visiva), non riguardano per questo esperienze visive. Se c’è un elemento “forte” nella teoria peirceana dell’interpretante è che la serie delle interpretazioni di un segno può assumere anche forme “iconiche”. Ma “iconico” non significa necessariamente “visivo”. Talora il TC comprende primitivi percettivi o addirittura qualia (non facilmente interpretabili) ma di cui deve rendere ragione: del TC della puzzola - anche per chi non l’ha mai vista - dovrebbe far parte il fortissimo odore che emana, e nel suo CN dovrebbe apparire l’istruzione che la puzzola è identificabile principalmente a causa del proprio odore (se vi fosse uno schema kantiano per la puzzola, come Kant lo presupponeva per il cane, dovrebbe avere il formato di un diagramma di flusso che prevede, subito ai nodi superiori, l’istruzione di procedere a una verifica olfattiva). Siamo sicuri che il nostro TC della zanzara sia fondamentalmente composto di tratti morfologici e non (eminentemente) degli effetti urticanti che essa può avere sulla nostra epidermide? Della forma della zanzara sappiamo pochissimo (se non l’abbiamo osservata al microscopio, o vista sull’enciclopedia), ma la percepiamo anzitutto auditivamente come animale volante che si avvicina producendo un caratteristico ronzio, e pertanto la riconosciamo anche al buio - tanto è

vero che è facendo riferimento a questi tratti che noi forniremmo a qualcuno le istruzioni per l’identificazione delle zanzare. Ritengo che del TC (e del CN) del topo facciano parte anche elementi “timici” (cfr. Greimas-Courtés 1979: 396). Abbiamo già visto come sia fondamentale avvertirlo come animaletto (di solito) ripugnante. D’altra parte del TC del topo, oltre le sue caratteristiche morfologiche, fa parte anche un frame, una sequenza di azioni: salvo per chi abbia sempre e soltanto visto topi in gabbia, l’idea di topo (e la capacità di riconoscere un topo) si basa sul fatto che esso ci appare usualmente come una forma indistinta che passa velocissima da un lato all’altro di un locale, uscendo da un luogo coperto per infilarsi in un altro. Questo rende particolarmente convincente l’idea di Bruner (1986, 1990) che noi usiamo schemi narrativi per organizzare la nostra esperienza. Credo appartenga al nostro TC (e al CN) dell’albero anche la sequenza (narrativa) che esso cresce da un seme, attraversa fasi di sviluppo, si modifica attraverso le stagioni, eccetera. Un bambino apprende ben presto che le sedie non si seminano bensì si costruiscono, e che un fiore non viene costruito bensì seminato. Fa parte del nostro tipo cognitivo della tigre non solo che sia un gattone giallo dal manto striato, ma anche che se incontrassimo una tigre nella foresta essa si comporterebbe nei nostri confronti in un certo modo (cfr. in proposito anche Eco 1990, 4.3.3). Possiamo davvero dire che di espressioni come ieri e domani abbiamo solo CN esprimibili proposizionalmente e non anche una sorta di diagramma con puntatori vettoriali per cui (anche se la disposizione varia a seconda delle culture) nell’un caso ci configuriamo una sorta di immagine mentale di “puntamento all’indietro” e nel secondo di “puntamento in avanti”? Adatto liberamente un bell’esperimento mentale di Bickerton (1981). Supponiamo che mi trovi a interagire da un anno con una tribù molto ma molto primitiva, di cui conosco il linguaggio in modo assai rozzo (nomi di oggetti e azioni elementari, verbi all’infinito, nomi propri senza pronomi, eccetera). Sto accompagnando a caccia Og e Ug: essi hanno appena ferito un orso, che si è rifugiato sanguinante nella sua caverna. Ug vuole inseguire l’orso nella tana per finirlo. Ma io ricordo che qualche mese prima Ig aveva ferito un orso, lo aveva seguito baldanzoso nella tana, e l’orso aveva avuto ancora forza sufficiente per

divorarlo. Vorrei ricordare a Ug quel precedente, però per farlo dovrei poter dire che ricordo un fatto passato, e non so esprimere né tempi verbali né operatori doxastici come ricordo che. Così mi limito a dire Umberto vede orso. Ug e Og credono ovviamente che abbia avvistato un altro orso, e si spaventano. Io cerco di rassicurarli: Orso non qui. Ma i due traggono solo la conclusione che faccio scherzi di pessimo gusto nel momento meno adatto. Io insisto: Orso uccide Ig. Ma gli altri mi rispondono: No, Ig morto! Insomma, dovrei desistere, e Ug sarebbe perduto. Ricorro allora a interpretanti non linguistici. Dicendo Ig e orso mi batto con un dito sul capo, o sul cuore, o sul ventre (a seconda di dove presuma che essi collochino la memoria). Poi disegno sul terreno due figure, e le indico come Ig e orso; alle spalle di Ig disegno immagini di fasi lunari, sperando che essi capiscano che voglio dire “molte lune fa” e infine ridisegno l’orso che uccide Ig. Se provo è perché presumo che i miei interlocutori abbiano le nozioni del ricordare, e soprattutto un qualche TC (interpretabile non proposizionalmente ma diagrammaticamente) per le attività di “protenzione” verso punti temporali diversi dal presente. Parto cioè dal principio che, se sono capace di capire un enunciato in cui mi si dice che qualcosa è accaduto ieri o accadrà domani, dovrei avere un TC per queste entità temporali. Nel mio esperimento cercherei di interpretare visivamente (vettorialmente) il mio TC, e può darsi che la mia interpretazione risulti incomprensibile ai nativi. Ma la difficoltà dell’operazione non esclude che la si debba in qualche modo postulare come possibile. Possediamo certamente tipi cognitivi di sequenze sonore, se sappiamo di solito distinguere il timbro e il ritmo della suoneria del telefono da quelli del campanello di casa, il segnale militare del silenzio da quello della sveglia, e spesso le melodie di due canzoni che conosciamo bene. Se si ammette che esistano primitivi semiosici, certamente lo sono delle esperienze motorie elementari come camminare, saltare o correre. Quando saltiamo ci rendiamo conto (o potremmo rendercene conto se prestassimo attenzione a quello che stiamo facendo) se usiamo due volte il piede destro e due volte il piede sinistro oppure sempre lo stesso piede. Eppure si dà il caso che queste due ultime operazioni abbiano due termini distinti in inglese ma non in italiano, il che risulta evidente

da questa tabella proposta da Nida (1975: 75), Figura 3.2, per distinguere il contenuto di alcuni termini inglesi per attività motorie. Chiunque voglia tradurre dall’inglese all’italiano un testo che descrive queste operazioni deve interpretare i termini secondo questa tabella che - anche se espressa in termini linguistici - provvede istruzioni di tipo motorio (si potrebbe benissimo pensare alla sua traduzione in un filmato, o in una serie di diagrammi che usi segni detti impropriamente “iconici”).

3.4.6. ‘Affordances’ Del TC dovrebbero fare parte quelle condizioni per la percezione che Gibson chiama “affordances” (e che Prieto avrebbe chiamato pertinenze):29 si riconoscono le varie occorrenze del tipo “sedia” perché si tratta di oggetti che permettono di sedersi, del tipo “bottiglia” perché si tratta di oggetti che permettono di contenere e versare sostanze liquide. È istintivo riconoscere come possibile sedile un tronco d’albero e non una colonna (tranne che per uno stilita) a causa della lunghezza delle nostre gambe e del fatto che troviamo comodo sedere poggiando i piedi per terra. Per categorizzare invece un coltello, un cucchiaio e una forchetta tra le Posate, o una sedia e un armadio tra la Mobilia, si deve prescindere da queste pertinenze morfologiche e rifarsi invece a funzioni più generiche, come la manipolazione del cibo o l’allestimento di un ambiente abitabile. La nostra capacità di riconoscere affordances si stampa per così dire negli stessi usi linguistici. Violi (1991: 73) si domanda perché di fronte a un tavolo su cui è posato un vaso siamo portati a interpretare verbalmente quanto vediamo come il vaso è sul tavolo e non come il tavolo è sotto il vaso. Una volta chiarito che sia sotto che sopra sono termini omonimi che possono ricevere in contesti diversi diverse rappresentazioni semantiche (c’è un rapporto sotto/sopra che implica il contatto, e un altro che implica invece rapporti spaziali che diremo architettonici, e in tal caso un tavolo può stare sotto il portico), si noti che, anche in assenza della scena, giudicheremmo linguisticamente scorretta la seconda espressione. Violi suggerisce che “la selezione delle espressioni linguistiche pare regolata da configurazioni complesse delle relazioni intenzionali che intercorrono fra il soggetto che si muove

nello spazio e gli oggetti che lo circondano”. Ma questo equivale anche a dire che fa parte del nostro TC del vaso comune (escludiamo il tipo del vaso da giardino) anche la sequenza di azioni che esso permette, per cui un vaso è qualcosa di facilmente spostabile che viene di solito posato sopra qualcosa. Fanno invece parte del TC del tavolo non solo i suoi tratti morfologici ma anche la nozione (direi nucleare) che viene usato per metterci sopra qualcosa (mai per inserirlo sotto qualcosa).30 D’altra parte Arnheim (1969, 13) ci suggerisce che il linguaggio può bloccare il nostro riconoscimento di pertinenze: citando una osservazione di Braque, ammette che un cucchiaino da caffè acquista salienze percettive diverse a seconda che sia posto accanto a una tazzina o inserito tra la scarpa e il tallone come calzascarpe. Ma spesso è il nome con cui indichiamo l’oggetto che ne pone in luce una pertinenza a scapito di altre. In conclusione, abbiamo ancora idee imprecise sui modi svariatissimi in cui si organizzano i nostri TC - e di come si esprimano in CN. Seguirei la proposta di Johnson-Laird (1983, 7) per cui differenti tipi di rappresentazioni si offrono via via come opzioni per codificare diversi tipi d’informazione, e in genere ci muoviamo tra immagini vere e proprie, a “modelli” mentali (del genere della rappresentazione 3D di Marr) e a proposizioni vere e proprie.31 Più che parlare, come si usa in questi casi, di una “doppia codifica”, credo si debba parlare di una codifica multipla, della nostra capacità di manovrare lo stesso TC in occasioni diverse accentuando vuoi la componente iconica, vuoi quella proposizionale, vuoi quella narrativa della nostra capacità di mettere in azione, nell’ambito di una situazione complessa, contenuti nucleari e informazioni più complesse.32 Tutto questo ci induce a rivedere, vorrei dire con indulgenza, quelle rappresentazioni semantiche abbastanza irrigidite (modelli a definizione, modelli componenziali, modelli casuali, modelli a selezioni contestuali e circostanziali, vedi Trattato 2.10-2.12) che paiono messe in crisi da questa rilettura del modo complesso (certo non lineare, a rete) in cui si organizzano i nostri tipi cognitivi e di come li interpretiamo per contenuti nucleari. Quei modelli scheletrici sono naturalmente delle forme stenografiche che rendono conto dei nostri CN sotto un certo profilo, a seconda di che cosa si voglia porre in evidenza nel quadro di un determinato discorso teorico, o a seconda di come si vogliano indicare le vie seguite per una certa disambiguazione

contestuale dei termini. Con tali modelli volta per volta interpretiamo quel tanto di CN che ci serve. Essi sono interpretazioni metalinguistiche (o metasemiotiche) di interpretazioni radicate nell’esperienza percettiva.

3.5. Casi empirici e casi culturali Sino a ora mi sono occupato di TC che riguardano “generi naturali” come topi, gatti, alberi. Ma si è detto che certamente esistono TC anche per azioni quali camminare, salire, saltellare. L’espressione “generi naturali” è insufficiente: certamente esistono TC anche per generi artificiali, quali sedia, barca o casa. Diciamo allora che si sono considerati TC per tutti gli oggetti o eventi di cui si può avere conoscenza per via di esperienza percettiva. Non mi riesce di individuare un termine adatto per indicare vari oggetti di esperienza percettiva e scelgo l’espressione “casi empirici” (sul modello dei concetti empirici kantiani): nel senso che si dà il caso che io percepisca o riconosca un gatto, una sedia, il fatto che qualcuno dorme o cammina, addirittura che un certo luogo sia una chiesa piuttosto che una stazione ferroviaria. Diversi sono i “casi culturali” tra i quali porrei una serie disparata di esperienze rispetto alle quali possiamo certo discutere se si dia il caso che ciò che nomino in un certo modo è nominato in modo corretto, e se riconosco qualcosa che anche gli altri sono supposti riconoscere; e tuttavia la definizione di questi “casi”, così come le istruzioni per il loro riconoscimento, dipendono da un sistema di assunzioni culturali. Porrei tra i casi culturali i generi funzionali (come cugino, presidente, arcivescovo), una serie di entità astratte come la radice quadrata (che possono anche oggettivamente “esistere” in qualche Terzo Mondo platonico ma che certamente non sono oggetti di esperienza immediata), eventi, azioni, relazioni come contratto, inganno, enfiteusi, amicizia. Tutti questi casi hanno in comune il fatto che, per essere riconosciuti come tali, richiedono un riferimento a un quadro di regole culturali. Questa differenza potrebbe corrispondere a quella, posta da Quine, tra enunciati occasionali osservativi (come questo è un topo) ed enunciati occasionali non osservativi (come questo è uno scapolo). Si

potrebbe convenirne. Salvo che - come vedremo - questo è uno scapolo non è completamente non-osservativo. Nel caso dello scapolo, Lakoff (1987) parlerebbe di Idealized Cognitive Models (ICM): è difficile dire quando si deve applicare il termine, ma idealmente ha un senso. Lakoff ha in mente l’ultima fase del dibattito sugli scapoli, che ha una lunga storia in cui si incrociano osservazioni sensatissime e semplici battute spiritose.33 È stato detto che è dubbio se la definizione di “maschio adulto non sposato” possa circoscrivere veramente gli scapoli, perché maschi adulti e non sposati sono anche i sacerdoti cattolici, gli omosessuali, gli eunuchi, e persino Tarzan (almeno nel romanzo, dove non incontra Jane), senza che per questo li si possa definire scapoli se non per scherzo o per metafora. È stato risposto sensatamente che gli scapoli non solo sono definibili come maschi adulti non sposati, ma come maschi adulti che hanno scelto di non sposarsi (per un periodo dai confini temporali indefiniti) pur avendo la possibilità fisica o sociale di farlo; e dunque non sono tali l’eunuco (scompagnato per condanna a vita), Tarzan (impossibilitato, a termine, a trovare una compagna), il sacerdote (celibe per obbligo), l’omosessuale (non coniugato per naturale impulso ad altri connubi). In una situazione in cui gli omosessuali possano unirsi legalmente in matrimonio con esseri dello stesso sesso, sarebbe possibile distinguere omosessuali scapoli, che non vivono in coppia, da omosessuali coniugati. È evidente che, anche poste queste specificazioni, per parlare di scapoli occorrono altre negoziazioni legate alle circostanze; per esempio, un omosessuale potrebbe sposarsi con un essere d’altro sesso per convenienza sociale (per esempio se fosse principe ereditario) senza per questo cessare d’essere omosessuale, mentre un sacerdote non potrebbe unirsi in matrimonio senza essere stato restituito allo stato laicale, cessando quindi di essere sacerdote, per cui - volendo - si potrebbe dire che un omosessuale scapolo è più scapolo di un sacerdote. Siccome però un sacerdote non restituito allo stato laicale ma sospeso a divinis può contrarre matrimonio civile a Reno, un sacerdote sospeso a divinis che non si sposi è più scapolo di un omosessuale non convivente? Come si vede, le negoziazioni possono continuare all’infinito, ed ecco che oggi, essendo mutate le usanze, la parola scapolo non viene quasi più impiegata (anche perché rinvia a connotazioni particolari, di vita libera e spensierata ed evoca la nozione complementare, altrettanto desueta, della signorina nubile o addirittura

“zitella”). Pertanto gli scapoli sono entrati a far parte dell’impreciso arcipelago dei single, che comprende adulti non sposati d’ambo i sessi, omosessuali o eterosessuali, sposati divorziati, vedovi, coniugati in crisi, coniugi ancora innamoratissimi del loro partner ma obbligati a lavorare a New York mentre l’altro o l’altra hanno trovato lavoro in California. La nozione di Lakoff di ICM resta valida nel senso che una definizione idealizzata di scapolo, se non consente di dire sempre e comunque se qualcuno sia scapolo, certamente consente di dire che non lo è il padre di cinque figli felicemente coniugato (e convivente).34 Tuttavia il fatto che nozioni di questo genere richiedano negoziazioni in base a convenzioni e comportamenti legati alle culture non ci consente di escludere che gli enunciati occasionali che esse permettono non abbiano alcuna base osservativa. Si veda la differenza tra uccisione e assassinio. Che qualcuno uccida un altro è percepibile direttamente: in qualche modo possediamo un TC dell’uccisione, sotto forma di sceneggiatura abbastanza elementare, per cui riconosciamo di trovarci di fronte a un’uccisione quando qualcuno colpisce in qualche modo un altro essere vivente provocandone la morte. Credo che l’esperienza dell’uccisione sia comune a culture diverse. Diverso è il caso dell’assassinio: una uccisione può essere definita omicidio per legittima difesa o preterintenzionale o colposo, sacrificio rituale, atto bellico riconosciuto da convenzioni internazionali, oppure infine assassinio, solo in dipendenza dalle leggi e dalle consuetudini di una data cultura. Quello che imbarazza in questa differenza tra caso empirico e caso culturale è che certamente nel primo ci si basa su una testimonianza dei sensi, ma non è che nel secondo il dato di esperienza non abbia valore. Tanto per iniziare, non si può riconoscere un atto come assassinio se non si è avuta esperienza (diretta o mediata) del fatto che fosse un’uccisione. Ammessa comunque una differenza tra casi empirici e casi culturali, visto che ci sono TC per casi empirici, abbiamo anche TC anche per casi culturali? Basterebbe evitare questa imbarazzante questione dicendo che i TC riguardano oggetti di esperienza percettiva, e basta. Per altri concetti espressi da termini linguistici non esistono TC bensì solo CN. Il che equivarrebbe a dire che alcune cose ci sono note in base all’esperienza percettiva e altre le conosciamo solo attraverso definizioni,

dovutamente contrattate nell’ambito di una cultura. Col che saremmo ancora alla distinzione russelliana tra parole-oggetto e parole di dizionario (cfr. Russell 1940), salvo allargare il concetto di parolaoggetto, sino ad includere oltre ai generi naturali e ai qualia anche esperienze di altro genere. Ma, visto che si è definito come TC qualcosa che “sta nella testa”, che ci permette di riconoscere qualcosa e nominarlo come tale, anche se non è stato ancora pubblicamente interpretato in termini di CN, possiamo forse dire che quando pronunciamo la parola cugino o presidente non abbiamo nulla nella testa e tanto meno qualcosa di minimamente simile allo schema di kantiana memoria? Si badi che la domanda resta anche se si ammette che non si pensa per immagini ma solo processando simboli astratti. In questo secondo caso la domanda sarebbe semplicemente riformulabile in tal modo: possibile che quando affermiamo che qualcosa è un gatto processiamo qualcosa “nella testa”, mentre quando affermiamo che X è il cugino di Y non processiamo nulla? Quando comprendo il significato di cugino o presidente evoco in qualche modo uno schema parentale o uno schema organizzativo, un grafo peirceano. Che cosa accade quando comprendo che, in corrispondenza del termine italiano nipote, vi sono due diverse posizioni nello schema parentale, che in francese sono espresse da neveu e petit-fils? È vero che posso esprimere la differenza anche verbalmente (e siamo al CN) per cui c’è un nipote che è figlio degli zii e un nipote che è figlio del figlio/a, ma la domanda - a cui non mi sento di rispondere, in virtù del proposito di non mettere in naso nella scatola nera - è se questo CN espresso verbalmente sia tutto ciò in cui si risolve la mia conoscenza della differenza, o non costituisca piuttosto l’interpretazione verbale di una differenza colta e compresa per via diagrammatica. Un assertore della natura eminentemente visiva del pensiero come Arnheim pare rendere le armi di fronte a un esempio di Bühler: invitati a rispondere al quesito “Dovrebbe essere lecito o no sposare la sorella della propria vedova?” i soggetti asserivano di essere pervenuti a denunciarne l’insensatezza senza ausilio di immagini (1969, 6). Certamente, e specie per una persona mentalmente allenata, la risposta al quesito può avvenire per via proposizionale. Ma, nel ripetere l’esperimento, ho trovato anche qualcuno (e per quanto anormale è pur

sempre un essere umano) che è pervenuto a riconoscere la contraddittorietà del quesito immaginando una vedova che piange, con la sorella accanto, sulla tomba del proprio marito (e per intuitiva evidenza un marito nella tomba non può contrarre matrimonio). Lo stesso vale per presidente, e ancor più, quando debbo decidere se traduce l’espressione apparentemente sinonima president (in inglese). In effetti non solo (in termini costituzionali) il President americano non è la stessa cosa del Presidente italiano (i loro rapporti di potere sono espressi da due diversi organigrammi), ma anche in termini aziendali quello che noi chiamiamo Presidente di una società è in inglese piuttosto il Chairman of the Board e il President di una azienda americana è qualcosa di molto simile a un Direttore Generale. Anche in questo caso la differenza diviene evidente considerando la posizione del President in un organigramma aziendale. Naturalmente l’organigramma può essere interpretato verbalmente, dicendo che il President è colui o colei che comanda a X o a Y ma non a K (che lo comanda), ma questo equivarrebbe a dire che espressioni come sopra o sotto sono solo interpretabili verbalmente (in termini di CN), mentre sappiamo benissimo che le traduciamo mentalmente in termini di TC. E che qualcuno sia il capo di un gruppo di uomini che vediamo in azione può venir inferito da esperienza percettiva. Esiste quindi un TC per capo mentre non esiste per presidente? Molte persone sarebbero incapaci di interpretare a parole o con altri segni il CN della parola assassinio, eppure vedendo qualcuno che spacca la testa a una vecchietta per sottrarle la borsetta, dandosi poi alla fuga, riconoscerebbero di trovarsi di fronte a un caso di assassinio. Non esiste allora un TC (un frame, una sequenza narrativa) per l’assassinio? Sarebbe imbarazzante dire che per riconoscere un triangolo o un’ipotenusa, o il fatto che gli astanti sono due piuttosto di tre, ci si basa sull’esperienza percettiva (e dunque esiste un TC per questi casi empirici), mentre non è in base a un TC che si riconosce che 5677 è dispari. Individuare un numero dispari, anche altissimo, dipende da una regola, questa regola è certamente uno schema istruzionale. Se c’è un sistema di istruzioni per riconoscere un cane, perché non deve esserci per riconoscere la disparità di 5677? Ma se c’è un sistema d’istruzioni per riconoscere la disparità di 5677, perché non deve esistere un sistema d’istruzioni per riconoscere se un certo accordo è un contratto? Esiste un TC del contratto?

D’accordo che le istruzioni per riconoscere la disparità di un numero sono di genere diverso da quelle che abbiamo introiettato per riconoscere un cane. Ma nel discorso sullo schematismo che si è fatto in 2.5 si è riconosciuto che a caratterizzare lo schema come sistema d’istruzioni non è necessario che le istruzioni siano di tipo morfologico. Abbiamo già rinunciato a intendere i TC esclusivamente come immagini visive, e abbiamo deciso che possono corrispondere anche a sceneggiature o a diagrammi di flusso per riconoscere una sequenza di azioni. La qualità di scapolo non sembra riconoscibile in base all’esperienza; e quella di arbitro di calcio? Certamente essere arbitro non è appartenere a un genere naturale, tanto è vero che un cammello sarà sempre un cammello ma un arbitro sarà tale solo in certi momenti o stagioni della propria vita. Certamente quali siano le funzioni dell’arbitro viene espresso da interpretazioni verbali. Ma supponiamo di essere condotti di colpo sugli spalti di un campo sportivo mentre si svolge una partita di calcio, anche se nessuno, giocatori inclusi, indossa una maglia che ne permetta il riconoscimento percettivo. Dopo un poco sapremmo dire, inferendo dal comportamento di ciascuno, chi tra quelle ventitré persone sia l’arbitro, così come siamo capaci di riconoscere qualcuno che saltella da qualcuno che corre. Per vasta che sia la competenza richiesta per distinguere un arbitro da un portiere (peraltro non più vasta di quella richiesta per distinguere un ornitorinco da un echidna), noi introiettiamo istruzioni per riconoscere l’arbitro in azione. Alcune potrebbero essere di tipo morfologico (l’arbitro indossa abiti di un certo tipo - e per le stesse ragioni si può riconoscere in una cerimonia religiosa chi sia il vescovo), ma esse non sono strettamente necessarie. In un rito di ordinazione il vescovo e in una partita di calcio l’arbitro (anche se in borghese) sono riconoscibili da quello che fanno, non da come appaiono. Anche questo riconoscimento si basa su esperienze percettive. Tuttavia l’esperienza percettiva deve essere orientata da un insieme di istruzioni culturali: chi non sa che cosa sia una partita di calcio vede soltanto un signore che, anziché dare calci a una palla come altri ventidue signori, sta in mezzo a loro compiendo azioni incomprensibili. Ma anche chi ha visto per la prima volta un ornitorinco ha visto qualcosa d’incomprensibile: come l’incompetente di calcio vede degli uomini su un prato e non sa bene che cosa facciano, o almeno perché lo

facciano e secondo quali regole, costui ha visto un animale dotato di alcune proprietà abbastanza inedite senza capire che cosa fosse, se respirasse sopra o sott’acqua. E come a poco a poco costui ha iniziato a riconoscere altre occorrenze dell’ornitorinco, anche senza poterlo classificare in modo ragionevole, possiamo forse dire che l’incompetente calcistico, dopo essere stato esposto all’esperienza di alcune partite, riesce a inferire che si tratta di una attività probabilmente ludica, in cui i concorrenti cercano di far penetrare una palla entro una rete, mentre il ventitreesimo signore interviene a tratti a interrompere o a regolare la loro attività. E allora, se ammettiamo che sin dall’inizio lo scopritore dell’ornitorinco abbia elaborato un TC dell’animale ancora nominato provvisoriamente, perché l’incompetente calcistico non può produrre un TC (Dio sa quale, ma al postutto funzionante) per riconoscere occorrenze dell’arbitro? Pare dunque che un arbitro sia percettivamente più riconoscibile di un cugino o di uno scapolo, ed è empiricamente vero. Però anche per i generi naturali, alcuni li riconosciamo su basi morfologiche (gatto o ornitorinco), altri in base a definizioni e a lista dei loro possibili comportamenti, e si pensi alla nozione che abbiamo di certi elementi chimici o di certi minerali di cui non abbiamo mai avuto esperienza percettiva. Non per questo diciamo di avere un TC per il gatto ma non per l’uranio: come suggerisce Marconi (1997) una semplice competenza definizionale circa l’uranio ci permetterebbe di riconoscere percettivamente un campione di uranio dovendo scegliere tra esso, una farfalla e una mela. Non basta dire che riconosceremmo come uranio ciò che ha la proprietà evidente di non essere una farfalla e di non essere una mela: in effetti la semplice informazione che l’uranio si presenta in forma minerale ci dispone a riconoscere qualcosa piuttosto che qualcosa d’altro. Non credo che la differenza tra la competenza che abbiamo di un gatto si distingua da quella che abbiamo di uno scapolo, in base alla differenza che secondo Greimas-Courtés (1979: 332) intercorre tra semi-figurativi (esterocettivi, che rimandano a qualità sensibili del mondo) e semi-astratti (interocettivi, grandezze di contenuto che servono a categorizzare il mondo). I semi astratti sono del tipo “oggetto vs processo”, non “scapolo vs sposato”. Dove stanno per Greimas gli scapoli? I suoi semi astratti sono categorie generalissime e tra esse e i semi figurativi ci vorrebbe pur sempre quella mediazione che Kant

affidava agli schemi, intermediari tra l’astrattezza dell’apparato categoriale e la concretezza del molteplice dell’intuizione. Non credo neppure che valga in questo caso la differenza che Marconi (1997) pone tra competenza referenziale e competenza inferenziale. Idealmente parlando chi sa che cosa sia un pangolino ne ha competenza referenziale (possiede le istruzioni per individuarne un’occorrenza), mentre chi sa che cosa sia uno scapolo ne ha solo competenza inferenziale (sa che gli scapoli sono uomini maschi adulti non sposati). Ma supponiamo di istruire dovutamente un computer a comprendere l’italiano: la sua competenza circa la parola pangolino non sarebbe diversa da quella che ha circa la parola scapolo e sarebbe pronto in entrambi i casi a trarre inferenze del tipo “se pangolino allora animale” e “se scapolo allora non sposato”. Io potrei avere del pangolino solo competenza inferenziale e non referenziale, al punto che se ne apparisse uno sul mio tavolo di lavoro mentre scrivo non riconoscerei di che cosa si tratta. Mi si potrebbe obiettare che, in condizioni ideali, potrei ottenere tutte le istruzioni che mi permettono di riconoscere un pangolino. Dovrei escludere che, in condizioni ideali, non mi possono essere fornite tutte le istruzioni per riconoscere uno scapolo? Immaginiamo che io sia un detective, e che segua giorno per giorno, ora per ora, i comportamenti di un individuo, vedendo che a sera rincasa nel suo appartamento dove vive da solo, e che ha con persone dell’altro sesso solo contatti transitori, cambiando partner ogni giorno. Certamente potrebbe trattarsi di un falso scapolo, di un marito che vive separato, o di un adultero compulsivo. Ma allo stesso titolo, non potrei sbagliarmi a riconoscere come un pangolino un modello iperrealistico in plastica o un pangolino-robot, che si comporta in tutto e per tutto come un pangolino, arrotolandosi a palla quando è minacciato, o che esibisce alla vista e al tatto le squame e la lingua vischiosa del pangolino? Contro-obiezione: un pangolino è tale per decreto divino (o di natura), mentre uno scapolo lo è per decreto sociale o convenzione linguistica. D’accordo, basterebbe considerare una società che non riconosce l’istituto del matrimonio perché coloro che definiamo come scapoli non lo fossero più. Ma quello che è attualmente in questione non è se ci sia una differenza tra generi naturali, generi funzionali e chissà quanti altri tipi di oggetti, oppure se non esiste una differenza tra casi empirici e casi culturali (tra gatto ed enfiteusi). La questione è se si

possa parlare di TC, come sistemi di istruzioni che ci permettono di riconoscere occorrenze anche per i generi culturali.

3.5.1. La storia dell’arcangelo Gabriele La storia che segue è ispirata ai Vangeli canonici, ma se ne discosta per alcuni aspetti. Diciamo che è ispirata a un vangelo apocrifo che, in quanto apocrifo, potrei avere scritto io stesso. Il Signore decide di dare il via alla vicenda dell’Incarnazione. Ha già predisposto Maria sin dalla nascita, per immacolata concezione, a essere l’unica creatura umana adatta per questo scopo e, supponiamo, ha già provveduto o è sul punto di provvedere al miracolo del concepimento virginale. Deve però informare Maria dell’evento, e Giuseppe del compito che lo attende. Chiama dunque l’arcangelo Gabriele e gli impartisce alcune disposizioni che potremmo così riassumere: “Tu devi scendere in terra, a Nazareth, trovare una fanciulla chiamata Maria, figlia di Anna e Gioacchino, e dirle così e così. Poi devi identificare un uomo virtuoso e casto, chiamato Giuseppe, della stirpe di David, e gli dirai quello che deve fare”. Tutto assai semplice, se un angelo fosse un uomo. Ma gli angeli non parlano, perché si comprendono tra loro in modo ineffabile e quel che sanno lo vedono nella visione beatifica; d’altra parte in questa visione non apprendono tutto quello che Dio sa, altrimenti sarebbero Dio, ma solo quello che Dio concede loro di sapere, a seconda del loro rango nelle coorti angeliche. Pertanto il Signore deve mettere Gabriele in grado di compiere la sua missione trasmettendogli certe competenze: anzitutto la capacità del tutto umana di percepire e riconoscere oggetti, poi la conoscenza dell’aramaico, nonché altre nozioni culturali senza le quali, come vedremo, la missione non potrebbe andare a buon fine. Gabriele scende a Nazareth. Identificare Maria non è difficile, chiede in giro dove sia la casa di Gioacchino, entra in un colonnato esile e gentile, vede quella che senza dubbio è una giovane donna, la chiama per nome per assicurarsi di non essersi sbagliato (ed essa reagisce guardandolo trepida), e per quanto riguarda l’Annunciazione la cosa è fatta. I problemi seri incominciano ora. Come identificare Giuseppe? Si tratta di un essere di sesso maschile e Gabriele è perfettamente in grado

di discernere, dagli abiti e dai tratti del viso, un maschio da una femmina. Ma per il resto? Dopo la fortunata esperienza del saluto a Maria si mette a chiamare Giuseppe ad alta voce per il villaggio, ma mal gliene incoglie perché molti accorrono al suo appello, ed egli si rende conto che i nomi saranno forse designatori rigidi in certe circostanze (ha letto qualcosa di logica modale nella mente divina), ma lo sono pochissimo nella vita sociale, dove i Giuseppe sono più di quanto serve. Naturalmente Gabriele sa che Giuseppe deve essere un uomo virtuoso, ed è possibile che abbia ricevuto alcune istruzioni tipologiche su come si riconosce il virtuoso dal volto pacato e sereno, dal comportamento generoso verso i poveri e gli infermi, dai gesti di pietà che compie nel Tempio; ma di maschi adulti di buoni costumi a Nazareth ve ne sono più d’uno. Tra questi virtuosi deve scegliere uno scapolo, e avendo ricevuto istruzioni circa la lingua e la società ebraica dell’epoca sa che pertanto il suo candidato deve essere un maschio adulto, non sposato benché ne avesse la possibilità. Pertanto a Gabriele non viene in mente di andare a cercare un omosessuale, un eunuco o il sacerdote di qualche religione che pretende il celibato ecclesiastico. Basterebbe una visita all’ufficio anagrafe di Nazareth. Ma, ahimè, lo sappiamo tutti, Cesare Augusto bandirà il celebre censimento solo nove mesi dopo, e all’epoca i pubblici registri non esistono, o sono in indicibile disordine. Per stabilire se i vari Giuseppe su cui ha fissato l’occhio sono scapoli, Gabriele non può che inferirne la condizione da alcuni comportamenti. Potrebbe essere scapolo quel Giuseppe che vive solo nel retro del suo laboratorio di falegname (ma potrebbe anche essere vedovo). Alla fine Gabriele si ricorda che Giuseppe deve essere della stirpe di David, suppone che nel Tempio siano custoditi antichi regesti, li compulsa e poi, confrontando con altre testimonianze orali, perviene a identificare il Giuseppe che cerca. Fine della missione di Gabriele, che risale in cielo a ricevere le sentite congratulazioni dei confratelli, per il successo conseguito. Con essi Gabriele sarebbe in grado di interpretare e dunque di descrivere passo per passo i procedimenti che ha seguito per appurare che Giuseppe era scapolo; quindi fornirebbe ai confratelli un CN dell’espressione scapolo, che comprende certamente anche la regola culturale che si tratta di maschio adulto non sposato benché ne

avesse avuto la possibilità, ma al tempo stesso anche quel misto di immagini, sceneggiature che riguardano comportamenti tipici, procedure per la raccolta di dati.35 Ma ora complichiamo la nostra storia. Lucifero, per natura ribelle ai decreti divini, vuole cercare di impedire l’Incarnazione. Non può opporsi al miracolo del concepimento virginale ma può agire sugli eventi - come peraltro farà dopo, istigando Erode alla strage degli innocenti. E quindi tenta di fare fallire l’incontro tra Giuseppe e Maria in modo che, se la nascita ha da avvenire, essa appaia illegittima agli occhi della Palestina intera. E quindi incarica Belfagor (di cui è nota la natura astiosa e mendace) di precedere Gabriele a Nazareth ed eliminare con un colpo di pugnale Giuseppe. Per fortuna il Principe delle Tenebre fa le pentole ma non i coperchi. Dimentica che Belfagor - che da millenni era in missione presso le popolazioni selvagge della Terra Incognita - si era abituato ai costumi di quella gente, presso la quale la virtù si esprimeva attraverso atti di ferocia guerriera, e veniva ostentata (o millantata) attraverso tatuaggi e cicatrici che rendevano ripugnante il volto: così che il nostro povero diavolo cerca di individuare il virtuoso Giuseppe e pone invece l’occhio, per errore comprensibile, sul padre del futuro Barabba. Che cosa sia uno scapolo egli non sa, perché viene da una tribù irsuta dove i giovinetti per decreto s’accoppiano in tenera età con lubrichi vegliardi, per poi passare, subito dopo il rito d’iniziazione, a sfrenata ma legittima poligamia. Per non dire di Maria, dato che egli ignora che cosa sia per una fanciulla essere nubile e casta, dappoiché nel luogo da cui viene le donne vengono cedute ancora bambine agli uomini di un altro clan, e procreano entro il dodicesimo anno. Né sa che cosa voglia dire per uno scapolo o per una nubile vivere soli o con i genitori, dato che dalle sue parti tutti abitavano in ampie capanne che ospitavano intere famiglie - e isolati vivevano solo coloro invasati da mania divina. La società da cui Belfagor viene essendo fondata sul principio avunculare, l’arcidiavolo non sa che cosa significhi essere della stirpe di David. Per questo Belfagor non riesce a individuare Giuseppe e Maria, e la sua missione fallisce. Fallisce perché Belfagor ignorava alcune cose che Gabriele invece sapeva. Ma non ignorava tutto. Come Gabriele, Belfagor sapeva distinguere un maschio da una femmina, la notte dal giorno, l’habitat della piccola Nazareth da quello della grande Gerusalemme. Se sarà

passato davanti al laboratorio di Giuseppe avrà visto che piallava legno anziché mettere olive in un frantoio, se avrà incrociato Maria si sarà pur detto che si trattava di una giovane donna. Insomma Belfagor e Gabriele avrebbero avuto in comune tipi cognitivi riferiti a casi empirici ma non tipi cognitivi dipendenti dal sistema culturale palestinese del I secolo (agli sgoccioli) a.C. Alla luce di questa storia sarebbe facile concludere che (i) esistono casi empirici che conosciamo e riconosciamo attraverso esperienza percettiva; (ii) può accadere che, per oggetti di cui non si ha mai avuto percezione diretta, si riceva prima per interpretazione un CN e solo in base a esso ci si produca un TC, sia pure tentativo; (iii) pertanto per i casi empirici si va dal TC, fondato sull’esperienza, al CN, mentre per i casi culturali avviene l’inverso. Ma le cose non sono così facili. Abbiamo visto che per riconoscere l’azione che in inglese si chiama to hop da quella che in inglese si chiama to skip dobbiamo certo considerare dati di esperienza percettiva ma occorrono anche conoscenze che direi “coreografiche”, senza le quali è addirittura impossibile essere in grado di contare l’ordine di contatto degli arti col terreno (e sarebbe impossibile riconoscere che un certo movimento convulso di un danzatore è un perfetto entrechât). Di converso, l’essere professore è certamente un caso culturale, ma chiunque entri in una classe (tradizionale) riconosce immediatamente il docente dai discenti a causa della reciproca posizione spaziale - e meglio di quanto le persone comuni distinguano tra una donnola e una faina e persino tra una rana e un rospo. Siamo in grado di comprendere le diverse operazioni cognitive che distinguono il riconoscimento di un gatto da quello di una radice quadrata, ma tra questi due estremi si pone una varietà di “oggetti” il cui statuto cognitivo è abbastanza fluttuante. Come conclusione, azzarderei che dobbiamo riconoscere l’esistenza di TC anche per i casi culturali, e pertanto quando sarà il caso li terrò in considerazione, senza metterli in discussione e senza cercare neppure di farne una tipologia esaustiva. In realtà ciò di cui mi sto occupando in questo capitolo sono i tipi cognitivi per i casi empirici e di questo continuerò a occuparmi direttamente. Naturalmente questa decisione non elimina un altro problema: se cioè ci siano enunciati osservativi indipendenti da un sistema “corporato” di assunzioni, o se la stessa differenza tra un maschio e una

femmina non sia in qualche modo possibile solo all’interno di un sistema di “asserzioni garantite”. Ma di questo parlerò in 4.

3.5.2. TC e CN come zone di competenza comune Io ho certamente alcune nozioni circa un topo e sono in grado di riconoscere un topo nell’animaletto che attraversa improvvisamente il soggiorno della mia casa di campagna. Uno zoologo conosce sul topo molte cose che io non so, forse più di quelle registrate dall’Enciclopedia Britannica. Ma se lo zoologo è con me in quel soggiorno di campagna e se io attraggo la sua attenzione verso ciò che sto vedendo, in condizioni normali dovrebbe consentire con me che c’è un topo nell’angolo laggiù. È come se, dato il sistema di nozioni che io ho circa il topo (CM1, tra cui probabilmente anche interpretazioni personali, dovute a precedenti esperienze, o molte nozioni sui topi nella letteratura e nelle arti, che non fanno parte della competenza dello zoologo) e dato il sistema di nozioni o CM2 dello zoologo, entrambi concordiamo su un’area di conoscenze che abbiamo in comune (Figura 3.3). Quest’area di conoscenze coincide con il TC e il CN condiviso sia da me che dallo zoologo, consente a entrambi di riconoscere un topo, di fare alcune affermazioni di senso comune circa i topi, probabilmente di distinguerlo da un ratto di chiavica (benché questo sia un dato controverso), di reagire con alcuni comportamenti comuni. Il fatto che lo zoologo abbia reagito non solo con l’espressione verbale c’è un topo!, ma anche con interpretanti dinamici che io potevo prevedere e che, richiesto di disegnare quello che ha visto, possa provvedere qualcosa di molto simile alla Figura 3.1, o che ancora sia in grado di spiegare verbalmente a un bambino che cosa sono i topi usando una serie di descrizioni non dissimili da quelle proposte da Wierzbicka, tutto questo mi dice che, da qualche parte, lo zoologo debba avere una nozione non dissimile dalla mia. Prova ne sia che se sia io che lui, dovessimo costruire una trappola per topi, la faremmo più o meno delle stesse dimensioni, studieremmo la distanza tra le sbarre in modo che un topo di formato standard non ne possa uscire, ed entrambi

per attirarlo porremmo come esca del formaggio piuttosto che dell’insalata o della gomma da masticare. Nessuno dei due costruirebbe una gabbietta per grilli o una immensa gabbia dalle sbarre d’acciaio come quella in cui era rinchiuso Hannibal the Cannibal in Il silenzio degli innocenti. Nel momento in cui sia io che lo zoologo consentiamo nel riconoscere un topo, noi abbiamo entrambi riportato l’occorrenza fornitaci dal campo stimolante a uno stesso TC che anche lo zoologo sa interpretare in termini di CN. Si deve identificare questo CN con quello che viene chiamato abitualmente il significato letterale di un’espressione? Se il significato letterale è quello dizionariale, certamente no, perché abbiamo visto che del TC del topo dovrebbero far parte anche “connotazioni” timiche e schemi di azione. Se per significato letterale si intende invece quello che la maggioranza delle persone è portata ad associare alla parola topo in circostanze ordinarie, e cioè quando non siano sospettabili usi metaforici o esplicite accentuazioni affettive (come l’uso del diminutivo topolino, o quando si parla del mouse del computer), allora si può rispondere positivamente. Salvo che questo significato letterale è fatto anche di informazioni che di norma vengono riconosciute come “enciclopediche” e riguardano l’esperienza del mondo. Il che ci conforta ancora una volta sul fatto che l’opposizione canonica tra definizione a Dizionario e definizione a Enciclopedia è forse utile a certi fini teorici ma non rinvia affatto al modo in cui percepiamo e nominiamo le cose. Ho detto sinora che io e lo zoologo“possediamo” una zona di competenza comune, e ho identificato questa zona col TC e col CN che se ne elabora. Potrebbe sorgere il dubbio, visto che sia io che lo zoologo possediamo lo stesso TC, che esso ci sia dato. Sospetto legittimo,visto che pare che nasca da esperienze percettive, sia mie (che ho già visto e so riconoscere topi) che di chi me le ha trasmesse (quando mi ha insegnato a identificare topi). Ma se questa zona ci è data allora viene spontaneo chiedersi se si tratti di una entità depositata da qualche parte, come le specie o le essenze o le idee di antica memoria. Se così fosse essa sarebbe uguale per tutti (e in fondo lo stesso problema di Kant era come rendere uguale per tutti un procedimento schematico che, almeno nella terza Critica, diventava lavoro congetturale); e invece abbiamo visto come sia legata alle disposizioni, alle esperienze e al sapere del soggetto, tanto che ho

messo in dubbio se faccia parte di questa zona comune la nozione che i topi siano diversi dai ratti. Questa competenza comune viene continuamente negoziata o contrattata (lo zoologo acconsente a ignorare qualcosa che sa del topo, per accettare solo quello che ne so io, oppure contribuisce ad arricchire il mio TC del topo facendomi notare qualcosa che mi era sfuggito). E può essere negoziata perché il tipo cognitivo non è una entità (anche se pare svolgere la funzione che si assegna di solito ai concetti): è un procedimento - nel senso in cui è un procedimento lo schema kantiano.

3.6. Dal tipo all’occorrenza o viceversa? Nel riconoscere o nell’identificare qualcosa come un topo un’occorrenza viene ricondotta a un tipo. Così facendo si passa dal particolare al generale. Solo a queste condizioni posso usare il linguaggio e parlare di un topo. Si è visto che nel linguaggio della psicologia cognitiva odierna questo procedimento viene indicato (in modo storicamente discutibile) come fenomeno di categorizzazione, e mi sono rassegnato pro bono communicationis ad aderire a quest’uso. Tuttavia quando io e lo zoologo concordiamo nell’aver visto un topo ci stiamo riferendo, anche verbalmente, a quel topo. Se per comprendere quell’occorrenza particolare ho dovuto ancorarla al generale, ora àncoro di nuovo il generale al particolare. Come ha osservato, discutendone dal punto di vista psicologico, Neisser (1976: 65), in questa oscillazione da un lato generalizzo l’oggetto e dall’altro particolarizzo lo schema.36 Non so se sia confortante o disperante che, così dicendo, non si faccia altro che riproporre una disputa iniziata qualche tempo fa. Tommaso d’Aquino avrebbe detto che vedendo un topo si coglie, nel phantasma offerto dalla sensazione, una quidditas, e quindi non “quel topo” ma la “murità” (naturalmente occorrerebbe riconoscere, come lui faceva, che la sensazione ci offre subito qualcosa di già organizzato, come se una immagine retina le ci offrisse un oggetto pienamente definito che naturalmente, spontaneamente, rinvia al tipo corrispondente, senza alcuna mediazione interpretativa). Però Tommaso si avvedeva che così facendo non si spiega perché poi si possa continuare a parlare di quel topo che si sta vedendo. E allora escogitava la reflexio ad phantasmata; non al topo singolo, si badi, ma

alla sua immagine. Soluzione tutto sommato insoddisfacente, specie per un realista. Né per uscire dall’imbarazzo (per riuscire a catturare davvero il topo singolo) sono apparse definitivamente persuasive le proposte di Duns Scoto (le haecceitates in prima posizione - ma allora si deve decidere come si formi il concetto universale), o di Ockham (l’individuo singolo in prima posizione, e il concetto come puro segno che è un modo di dire che si traggono dagli individui dei TC, senza spiegare come si risolva la dialettica universale-particolare incontrando altri individui significabili con lo stesso concetto). In fondo erano tutti modi per risolvere il problema della scatola nera. A tenersene fuori, rimane solo un fatto: che qualcosa accade, parlando del topo lo generalizziamo, ma dopo aver individuato l’occorrenza come occorrenza di un tipo ci soffermiamo di nuovo sull’occorrenza: altrimenti non potremmo dire che, per esempio, quel topo ha la coda mozzata, mentre né la murità né il TC del topo ce l’hanno. Questo ripropone esattamente il problema kantiano dello schema: se il generale fosse troppo generale, riusciremmo forse a ricondurvi il molteplice dell’esperienza (che sotto sotto dovrebbe essere quel topo come Maus an sich) ma sarebbe difficile tornare dal generale al molteplice individuale; lo schema, come procedimento per immaginare il topo, media, e dunque ci deve essere una qualche corrispondenza non diremo uno-a-uno ma almeno molti-a-moltissimi tra i tratti del tipo e quelli reperibili nell’occorrenza. Vale a dire che il rapporto tra tipo e occorrenza non dovrebbe essere quello che intercorre tra il concetto di carta geografica e una qualsiasi carta geografica, ma quello che intercorre tra una carta geografica particolare e il territorio che essa intende rappresentare. Peirce avrebbe detto che nel momento della Thirdness tutto si generalizza, ma non vi è Thirdness che non sia impregnata di quell’hic et nunc che si è dato nella Firstness e nella Secondness. In tutto il corso della storia della filosofia si è detto che l’individuo è omnimode determinatus, determinato sotto tutti i rispetti, e pertanto le sue proprietà sono infinite: di questo topo che vedo ora potrei predicare il numero dei peli, la posizione in cui si trova rispetto alla Mecca, il cibo che ha mangiato ieri. Se conoscessimo sempre e soltanto individui allora ogni proposizione generale dovrebbe derivare da una conoscenza effettiva di tutti gli individui sotto tutti i rispetti. Per dire che i topi sono animali non dovrei dire soltanto che, per tutti gli x, se x è un topo allora

x è un animale, ma che davvero ho enumerato tutti gli x e ho scoperto che tutti indistintamente esibiscono una proprietà che possa essere significata dal termine animale. Oppure dovrei dire che ci sono alcuni x, quelli che ho conosciuto, che hanno la proprietà di essere animale (sospendendo il giudizio sugli x di cui non ho avuto esperienza). Mentre se c’è una funzione del TC e del CN corrispondente (per non dire del CM) è che esso deve valere anche per gli x che non ho ancora conosciuto. Evitiamo ancora una volta ogni scommessa su quanto avvenga nella scatola nera. Il senso comune ci assicura che io e lo zoologo riconosciamo un topo ma sappiamo di aver di fronte quel topo, e se per caso lo catturassimo e gli segnassimo il dorso con un pennarello, alla prossima occasione riconosceremmo che si tratta dello stesso topo - che è poi il modo in cui, in virtù di tratti caratteristici ben più complessi di un segno di pennarello, riconosciamo ogni giorno gli individui con cui abbiamo normalmente a che fare (e quando non ci riusciamo più il medico parla di morbo di Alzheimer). Riconosciamo gli individui perché li riconduciamo a un tipo ma siamo capaci di formulare tipi perché abbiamo esperienza di individui. Che noi si sia capaci di una qualche reflexio ad phantasmata (o ad res) è dato di fatto che dobbiamo assumere come materia di riflessione anche se, personalmente, non posseggo strumenti per spiegarlo e prendo come insegna la frase con cui Saul Kripke (1971) chiudeva una sua conferenza su identità e necessità: “il prossimo argomento da trattare dovrebbe essere la mia soluzione del problema della mente e del corpo, ma io non la conosco”. Però c’è qualcosa che possiamo dire, ed è che non solo abbiamo qualche esperienza di questo uomo (occorrenza) anche quando lo riconosciamo come un uomo (tipo), ma che a certi individui assegniamo un nome proprio e li riconosciamo come quei determinati individui, e non in generale. Dunque, se si assume che si riconosce in virtù di TC, dobbiamo ammettere che c’è un TC per gli uomini in genere (e potrebbe anche assumere la forma schematicissima di un modello 3D) e ci sono TC diversi per nostro padre, nostra moglie, nostro marito, i nostri figli, i nostri amici e i nostri vicini di casa. Di questo parlerò in 3.7.6 ma, prima di arrivare a questo punto, occorre avventurarsi in una zona paludosa che sta tra il generale e l’individuale.

3.7. L’arcipelago dei TC 3.7.1. Tipi ‘vs’ categorie di base Certamente è diverso riferirsi a un TC per riconoscere l’occorrenza di un genere naturale come un topo, e per riconoscere individualmente una persona. Neisser (1976: 55) ammette che i nostri schemi possano operare a diverso livello di generalità, così che siamo pronti a riconoscere “qualcosa”, “un topo”, “mio cognato Giorgio” e persino un sorriso di scherno (e non di simpatia) sul viso di Giorgio. Di quel fenomeno particolare che è la possibile esistenza di tipi individuali (e già l’ossimoro impone di approfondire la cosa), dirò in 3.7.6. Ma per ora occorre parlare della differenza tra tipi generici e tipi specifici, ovvero del fatto che siamo disposti talora a distinguere un soriano da un siamese, talora soltanto un gatto da un cane, o addirittura solo un quadrupede da un bipede. Si tratta evidentemente di postulare TC a diversi livelli di generalità, ma il problema che subito si pone è se possiamo pensare a una sorta di “albero” dei diversi TC o dobbiamo considerarli come un arcipelago non organizzato gerarchicamente.37 Il fatto su cui ormai si è discusso e si discute ampiamente è che per generi naturali e artificiali diversi noi esibiamo diverse capacità di discriminazione. Io sono personalmente capace di distinguere la gallina dal tacchino, la rondine dall’aquila, il passero dal canarino (e persino un barbagianni da una civetta), e dunque ne posseggo un TC, però non saprei distinguere tra sgriccioli, codirossi, fringuelli, ciuffolotti, capinere, allodole, cardellini, cinciallegre, silvie, storni, ghiandaie, chiurli, cutrettole. Li riconoscerei come uccelli e basta. Naturalmente un cacciatore o un bird watcher hanno una competenza diversa dalla mia, ma il problema non è questo. È che se quello della rondine è un TC, che cos’è quello dell’uccello in generale? Anche se accettiamo l’idea che conosciamo per organizzazione categoriale, questa organizzazione varia secondo le diverse aree dell’esperienza, secondo i gruppi umani e secondo gli individui. Se la nostra conoscenza fosse davvero strutturata secondo un sistema omogeneo di classi e sottoclassi, dovremmo nominare e riconoscere gli oggetti che seguono secondo il diagramma di Figura 3.4.

Quando si presuppone uno schema del genere si presuppone egualmente che le categorie di base siano quelle che sono apprese per prime e che quindi non solo hanno un ruolo cruciale nello scambio linguistico ma presiedono ai processi di identificazione o riconoscimento. Si chiede pertanto ai soggetti di enumerare dei tratti o delle proprietà o degli attributi per una serie di termini stimolo (come animale, mobilio, sedia, cane, frutti, mele e pere) e si vede che per le categorie superordinate i tratti sono in misura molto bassa, crescono sensibilmente per le categorie di base, mentre per quelle subordinate la differenza di tratti con quelle di base è minima. Per esempio si individuano due soli tratti per definire che cosa sia il vestiario (è qualcosa che ci mettiamo addosso e che ci tiene caldo), moltissimi tratti per i pantaloni (gambe, tasche, bottoni, sono fatti di tessuto, si infilano in un certo modo, eccetera), mentre per una categoria subordinata come quella dei jeans i soggetti di solito aggiungono solo il tratto caratterizzante del colore (sono sempre blu). A seconda del numero di questi tratti caratterizzanti è ovvio che si distinguono più facilmente i pantaloni da una giacca, che non due tipi di pantaloni diversi.38 Tutti gli esperimenti in merito hanno mostrato che la nostra conoscenza non si adegua a questa classificazione. La situazione può variare a seconda dei soggetti, ma ve ne sono molti che distinguono una gallina da un tacchino mentre per il chiurlo e il codirosso riconoscono solo un uccello. Rosch (1978: 169) parla di risultato imprevisto quando, ipotizzato che Albero e Mobili fossero categorie superordinate, si è visto che i soggetti distinguevano molto meglio una sedia da un tavolo che una quercia da un acero, i quali venivano genericamente riconosciuti come alberi. Il risultato non mi pare affatto imprevedibile, tenendo conto che Putnam da tempo ci ha avvertito che non distingue un olmo da un faggio (e io mi associo), mentre immagino distingua benissimo una sedia da un tavolo o una banana da una mela. Qui i problemi sono due. Tendiamo a elaborare TC in riferimento a esperienze percettive, dove la morfologia e la pertinenza rispetto alle nostre esigenze corporali contano più della funzione che diremmo estetica e sociale (e rimando per questo al paragrafo 3.4.7 sulle affordances). Per decidere che una libreria e una sedia appartengono entrambe alla categoria superordinata Mobilia occorre avere una nozione elaborata di che cosa sia una abitazione, di che cosa noi richiediamo a una abitazione standard, e di

dove si vadano a comperare gli oggetti che servono ad arredare una abitazione standard. Pertanto la categoria Mobilia richiede capacità di astrazione. Ritengo che un cane riconosca una sedia e un divano, e forse un tavolo, come oggetti su cui può andare ad accucciarsi, mentre avverte una libreria o un armadio (chiuso) semplicemente come ostacoli, tanto quanto le pareti della stanza.39 Invece la proprietà per qualcosa di essere un albero è uno di quei primitivi semiosici che distinguiamo istintivamente nell’ambiente che ci circonda, per cui discriminiamo l’albero dagli animali e da altri oggetti (e non credo che un cane si comporti diversamente, usando gli alberi in genere per i suoi bisogni corporali - salvo ripugnanze a qualche particolare stimolo olfattivo). Noi elaboriamo anzitutto un TC dell’albero (mentre la differenza tra faggio e tiglio appartiene solo a un tipo di conoscenza più elaborata) perché, se non siamo primitivi nella foresta che debbono dipendere dal riconoscimento di diverse specie di alberi, gli alberi ci appaiono come un arredo dell’ambiente che, rispetto alle nostre esigenze, svolgono tutti la stessa funzione (danno ombra, segnano i confini, si addensano in boschi o foreste, eccetera).40 Sappiamo benissimo riconoscere una banana da una mela perché la differenza conta per le nostre esigenze e per le nostre preferenze alimentari, perché dobbiamo spesso scegliere tra di esse, o perché presentano diverse condizioni di consumabilità. Quindi pare naturale che abbiamo TC distinti per banana e mela, e un TC generico per l’albero.41 Queste regole statistiche subiscono vistose eccezioni in dipendenza dell’esperienza personale. Incapace come sono di distinguere un olmo da un tiglio, io riconosco benissimo e un baniano e delle mangrovie. Le ragioni sono tre: la prima è che si tratta di alberi su cui si è nutrita la mia immaginazione infantile di lettore dei romanzi di avventure (specialmente di Salgari; almeno per quanto riguarda il baniano); la seconda, che dipende dalla prima, è che nel corso dei miei viaggi quando ho sentito dire che qualcosa era un baniano e che un ciuffo di vegetali sulle coste di un’isola o di un canale palustre erano mangrovie, mi sono affrettato a guardarli con particolare attenzione e a memorizzarne i tratti morfologici; la terza è che sia il baniano che le mangrovie hanno tratti singolarissimi e non comuni, il primo perché il tronco si dirama verso le radici in una serie di “lame” disposte stellarmente, le seconde perché non a caso sono chiamate in inglese

colloquiale anche walking trees, e cioè appaiono da lontano come insetti che camminano nell’acqua. Naturalmente, sempre a causa di accidenti biografici, riconoscerei ormai a colpo sicuro un ornitorinco, identifico un iguana e continuo ad avere idee vaghissime sull’anaconda. Questo non vuol dire che, obbligato a indicare un anaconda tra un tasso e una gazza, io non possa individuarlo proprio perché so che è un serpente, ma questa mia idea di serpente è “selvaggia” e non ha nulla a che fare con quella scientifica di rettile.

3.7.2. Storia di Pinco Sappiamo benissimo che è solo a una certa età che i bambini acquisiscono competenza classificatoria, ciò che non impedisce loro di riconoscere benissimo molti oggetti. Il dialogo che segue trascrive una registrazione magnetofonica fatta senza alcun intento scientifico nel 1968, durante una festa di bambini, e al solo scopo di farli giocare con il registratore, raccontando storie o improvvisando dialoghi. Per quanto ricordo, il soggetto di cui trascrivo le risposte, e che chiameremo Pinco, aveva tra i quattro e i cinque anni. IO - Senti, Pinco, io sono un signore che è sempre vissuto su un’isola deserta su cui non esistevano uccelli, solo cani, mucche, pesci ma non uccelli. Finalmente sto per venire qui e ti chiedo di spiegarmi cosa è un uccello per riconoscerlo se per caso ne vedo uno... PINCO - Ecco, ha un po’ di carne, ma è piccolo nel petto, e ha delle zampette piccole e la testina piccola e il petto piccolo, e ha delle ali anche piccole e un po’ di penne al petto e... e poi vola con queste penne e... [Come si vede il bambino ha una propria idea di uccello, sta probabilmente pensando ai soli uccelli che ha visto sul balcone di casa, i passeri, e questo potrà suggerire qualche idea nella discussione, che seguirà, sui prototipi; ma non pensa affatto di dire che un uccello è un bipede volante.] IO - Va bene. Ora senti. Io sono un signore che è sempre vissuto in cima a una montagna, dove mi dissetavo mangiando frutta, ma non ho mai visto l’acqua. Ora tu dovresti spiegarmi com’è l’acqua.

PINCO - Come è fatta? IO - Sì. PINCO - Io non so com’è fatta l’acqua perché non me lo hanno neanche spiegato... IO - L’hai mai vista? PINCO - Sì, quando metti le mani sotto l’acqua... IO - Ma io non so come è fatta l’acqua e come faccio a metterci le mani sotto? PINCO - Ma sotto l’acqua che bagna... metti prima le mani sotto l’acqua, poi prendi il sapone e lo metti e poi le risciacqui con l’acqua... IO - Tu mi hai detto che cosa devo fare con l’acqua ma non mi hai detto che cosa è l’acqua. Forse è quella cosa rossa che brucia e c’è nelle stufe? PINCO - Nooo! Con l’acqua si può lavare la biancheria! IO - Ah, è quella polvere bianca che si chiama Omo? PINCO - Noooo! L’acqua è... è... IO - Cosa vedo quando vedo l’acqua? Come faccio a capire che è acqua? PINCO - Ti bagni quando metti le mani sotto l’acqua! IO - Ma cosa vuol dire che bagna? Se non so cos’è l’acqua non so cosa vuol dire bagnare... PINCO - È trasparente... IO - Ah, è quella cosa che c’è sulle finestre che uno vede dall’altra parte? PINCO - Nooo! IO - Hai detto che è trasparente... PINCO - No, non è il vetro, il vetro non bagna! IO - Ma che cosa vuol dire bagnare? PINCO - Bagnare è che... eh eh eh... (INTERVENTO DI ALTRO ADULTO) - Quel signore lo dovrebbe sapere se mangia sempre la frutta su quella montagna... PINCO - È umida!! IO - Bene. È umida come la frutta? PINCO - Un pochino. IO - Un pochino. Ed è fatta come la frutta, cioè rotonda... PINCO - Nooo, l’acqua è fatta come... va in giro da tutte le parti, rotonde, quadrate, da tutte le parti... IO - Prende tutte le forme che vuole?

PINCO - Eh... IO - Allora in giro si vedono acque quadrate, acque rotonde... PINCO - No, non in giro, solo nei fiumi, nei ruscelli, nei lavandini, nelle vasche. IO - Allora è una cosa trasparente, umida, che prende la forma di tutte le cose che gli sta dentro? PINCO - Sì. IO - Quindi non è una cosa solida come il pane... PINCO - No! IO - E allora se non è solida cos’è? PINCO - Boh? IO - Tutto quello che non è solido cos’è? PINCO - È l’acqua. IO - È liquido forse? PINCO - Ecco l’acqua è un liquido trasparente che non si può bere perché quella normale ha i moscerini, i microbi che non si vedono... IO - Bravo. Un liquido trasparente. [Come si vede, Pinco sa che cosa è un liquido, e dopo molti suggerimenti arriva persino a una definizione che farebbe la gioia di un semantico a dizionario (“liquido trasparente”). Apparentemente non ci arriva da solo e la prima definizione che dà è di carattere funzionale (a che cosa l’acqua serve: non punta tanto alle caratteristiche “dizionariali” o morfologiche dell’oggetto quanto alle sue affordances). Tuttavia ricordiamo la domanda: parlava di un signore che sull’isola si dissetava con la frutta senza conoscere l’acqua. Pinco ha capito che il signore beveva succhi di frutta, e pertanto l’idea di liquidità gli appariva implicita. Egli ha tentato di individuare altre caratteristiche dell’acqua rispetto ad altri liquidi. Questo è un caso tipico in cui la formulazione della domanda può indurre a risposte che poi consideriamo devianti o insufficienti.] IO - Ma ora senti, io non ho mai visto una radio. Come faccio a riconoscerla? PINCO - [Mugolii di esitazione] IO - Fai come con l’acqua che prima mi hai finalmente detto la cosa più importante, che era un liquido trasparente. PINCO - Ma con le pile o la corrente?

IO - Ma io non so cosa è una radio e quindi non so cosa è meglio. PINCO - Eh, ha la corrente che dice tutto quello... che nelle... pile si è [parola incomprensibile]... e dice tutto quello che ci è successo... IO - E quella è una radio? PINCO - Si mette la corrente come c’è qua dentro [indica il registratore] e poi va. IO - Ma cos’è la radio, è un animale che se ci metto la corrente dentro va avanti? PINCO - No, è una scatola corrente che... IO - Una scatola corrente? PINCO - No, è che c’è dentro la corrente e le pile, con filo... che dice tutto quello che è successo. IO - Allora è come quella scatola che c’è di là che se ci metto sopra un disco dice quello che è successo? PINCO - Noo, è senza disco. IO - Ah, è una scatola con la corrente, il filo, le pile, senza disco che dice tutto quello che è successo. PINCO - Sì. [A parte il fatto che anche un adulto proverebbe difficoltà a definire scientificamente una radio, ed essendo evidente che Pinco sa benissimo riconoscere una radio, si noterà che non gli è affatto passato per la mente di distinguerla dall’acqua e dall’uccello come genere artificiale o Artefatto, neppure quando gli ho suggerito una opposizione con Animale.] IO - Adesso senti questa. Io sono un signore che è sempre vissuto... PINCO - Non sempre su un’isola deserta!! IO - No, questa volta in un ospedale dove la gente era malata e a ciascuno mancava un pezzo, a chi un braccio, a chi una gamba. Non ho mai visto un piede. Che cos’è un piede? PINCO - Ah ahh... È questo qua. IO - No, non me lo devi mostrare, mi devi spiegare com’è in modo che quando io lo vedo posso dire ah questo è un piede. PINCO - È di carne, ha delle dita, non sai come sono le dita? IO - Allora è una cosa di carne con delle dita... È questa? [mostro la mano]

PINCO - Noo. Perché il piede ha il gomito qui, e invece la mano ce l’ha qui. IO - Allora è una mano ammalata, così [imito un arto rattrappito]... PINCO - Noooo! Ha gli angoli e dita dritte e davanti è così. IO - Allora la via dove stiamo è un piede: ha gli angoli, è dritta... PINCO - No, è più piccolo, e poi ha una cosa qui. IO - Prova a dirmi dove si trova... PINCO - Si trova dove è gli uomini che camminano... Son le cose che gli uomini poggiano per terra per camminare... Quello che hanno ai fianchi che incominciano e vanno giù e alla fine della gamba - che è quella cosa lì - c’è il piede. IO - Ancora una, è di nuovo il signore che viveva nell’isola deserta. E non sa cosa è un würstel. PINCO - È rotondo. IO - Come una palla? PINCO - No, è così, ha gli angoli così, è più lungo di una palla ed è di carne. IO - Allora è una gamba... PINCO - Senza ossa, perché la gamba ce le ha le ossa. IO - Come faccio a riconoscere un würstel? Mi hai detto che è di carne... PINCO - È rotondo, è una metà della palla ma solo che agli angoli non ha niente, che dentro che... a metà... che dentro è sottile sottile e poi è di carne ed è rosa. [Con queste due ultime domande finisce la seduta perché Pinco dà segni di stanchezza. Come si vede non gli è venuto in mente di dire che un piede è un Arto e che il würstel è un Cibo. Deve essere d’accordo con Neisser (1978: 4): le categorie non possono essere un modo della percezione.]

3.7.3. Ostriche quadrupedi Dirò in 4.3 in che senso si debbano distinguere le categorie scientifiche dalle categorie “selvagge”, ma per intanto propongo di assumere che noi abbiamo, allineati e senza alcun incassamento da generale a particolare, TC per mela, banana, albero, gallina, passero e

uccello. Come è possibile avere due TC distinti per il passero e la gallina e uno solo per cinciallegre, chiurli e allodole tutti insieme? È possibilissimo tanto che avviene (e per antica definizione tutto quello che avviene è possibile). Il TC per uccelli è così “generoso” (o vago, o grezzo) da accogliere ogni animale con le ali che voli in cielo e si posi sugli alberi o sui fili della luce, tanto è vero che se scorgiamo un passero da lontano possiamo decidere, per il momento, di considerarlo come un uccello e basta. Il termine uccello ha una estensione maggiore di termini come gallina o passero, ma non direi che questo vuole dire che avvertiamo il TC dell’uccello come categoria superordinata rispetto a quello per la gallina. Quella di “animale volante nel cielo con le ali” (che è poi la nozione ingenua di uccello) è un primitivo semiosico. Per alcuni animali avvertiamo solo quella proprietà, e li riconduciamo al TC grezzo dell’uccello. Per altri, riconoscendovi alcune proprietà aggiuntive, elaboriamo un TC di grana più fine. Noi riconosciamo un TC dell’uccello in base ai tratti o alle procedure x, y, noi riconosciamo un TC del passero in base ai tratti o alle procedure x, y, z, e un TC della rondine in base alle proprietà x, y, k, e ci avvediamo che non solo ci sono tratti in comune tra passero e rondine ma anche tra un passero e altri animali che riconosciamo come uccelli. Ma questo in principio non deve aver nulla a che fare rispetto al criterio logico per cui ascriviamo il passero alla classe degli uccelli, anche se è certamente partendo da queste somiglianze che arriviamo poi a elaborare tassonomie. Noi siamo semplicemente capaci di riconoscere passeri, rondini e uccelli, e se poi qualcuno si vorrà dedicare alla osservazione degli uccelli in libertà avrà un TC anche per il chiurlo e un altro per l’allodola. I TC sono generosi e disordinati, c’è chi ha un TC per il gatto, chi ne ha sia per il soriano che per il siamese, e certamente i tratti del soriano saranno in gran parte comuni con quelli del gatto. Ma anche se pare così evidente che è su questa base che si potrà poi affermare che ogni soriano è un gatto, insisto nel ribadire che, a livello di processo percettivo, questo rimane un sospetto, una intuizione di identità di proprietà, non ancora una iscrizione a un albero categoriale. Se un TC è un procedimento per costruire le condizioni di riconoscibilità e identificazione di un oggetto, si veda la Figura 3.5 dove appaiono diversi modelli 3D.

C’è un modello 3D per il cane o il cavallo. Nulla vieta che, per esigenze più specifiche, si possa costruire un modello 3D per il labrador e per il pointer, o per il morello o il lipizzano, così come nulla vieta che Putnam e io un giorno, andando a lavorare in un vivaio, diventiamo capaci di distinguere gli olmi dai faggi. Ma in principio faggio, olmo e albero sono tutti TC da porre sullo stesso livello: e ciascuno di noi usa l’uno o l’altro a seconda dei propri rapporti con l’ambiente, ritenendosi più o meno soddisfatto. I giudizi fattuali ho visto un pointer e ho visto un cane sono egualmente utili e pertinenti a seconda delle circostanze, prima ancora che si sia deciso che la categoria del pointer è subordinata a quella del cane. Percettivamente il TC del cane è più grezzo di quello del pointer, ma in certe circostanze va benissimo, non ci obbliga a distinguere tra alani e maremmani, e non chiediamo altro. Dunque il discorso sui TC non avrebbe ancora nulla a che vedere con il discorso su un sistema tassonomico-categoriale. I TC sono solo dei mattoni da costruzione per erigere poi sistemi categoriali. Tuttavia ci sono dei controesempi possibili. Ammetto che l’esperimento che sto per citare potrebbe essere usato sia per identificare le categorie coi TC che per negare questa identificazione. Humphreys e Riddoch (1995: 34) ci parlano di un paziente affetto da lesioni cerebrali che, messo di fronte a un insetto, lo disegna non so con quanto realismo, ma certamente in modo tale che noi riconosciamo qualcosa di molto simile a un insetto (Figura 3.6). Il fatto che lo abbia disegnato ci dice che lo ha interpretato, e quindi ha provvisto indicazioni per la sua identificazione e futuro riconoscimento; in breve, se non lo aveva prima, se ne è costruito un TC. Ma rimosso l’insetto e richiestogli di disegnarlo, il soggetto lo rappresenta come una specie di uccello (Figura 3.7). Lo stesso paziente, capace di riconoscere un’ostrica come tale, quando (in assenza del modello) viene invitato a disegnarla, la rappresenta con quattro gambe. Gli autori osservano che si debbono postulare, per la memoria visiva immediata, delle conoscenze mentali depositate, la cui degenerazione compromette la ricostruzione dell’oggetto ricordato. Il caso si potrebbe interpretare in termini di disturbo di una competenza categoriale? Di fatto il paziente non ha disegnato in luogo dell’insetto una sedia e in luogo dell’ostrica una matita. Nella sua memoria è rimasto un tratto di “animalità”, e dunque potrebbe essere risalito

dall’insetto o dall’ostrica alla categoria superordinata degli animali, di lì ridiscendendo verso gli uccelli e qualche altra bestia imprecisata. Ma se consideriamo la percezione dell’animalità come esperienza precategoriale, ecco allora che il paziente, conservando di quanto ha visto un solo e vago attributo, sarebbe andato a pescare un qualsiasi TC che lo contenesse, e slittando da un TC all’altro, come facendo il surf in un arcipelago di TC anziché salire da specie a genere. Non sto sostenendo che a costituire un TC non intervengano conoscenze o sospetti categoriali precedenti - e il caso di Marco Polo citato in 2.1 ce lo conferma. Sto solo ipotizzando che i TC (i) possano costituirsi indipendentemente da una competenza categoriale organizzata e (ii) possano essere attivati anche indipendentemente e addirittura in conflitto con tale competenza (come si vedrà rifacendo la storia dell’ornitorinco in 4.5).

3.7.4. TC e prototipi 3.7.4.1. Stereotipi e prototipi Possiamo identificare i TC con quelli che Putnam (1975: 295) chiama stereotipi? Se consideriamo la rappresentazione putnamiana del contenuto del termine acqua Marche sintattiche Marche semantiche Stereotipo Estensione Nome Concreto Genere naturale Liquido Incolore Trasparente Insapore H2O

potremmo dire che del TC fanno parte sia le marche semantiche che le informazioni stereotipiche (mentre naturalmente la proprietà di essere H2O fa parte del CM). In ogni caso il TC ha dello stereotipo la natura folk, e la disinvolta commistione tra elementi dizionariali ed enciclopedici. Quello che però è forse più interessante mettere in chiaro è che gli stereotipi non sono quelli che la letteratura cognitivista ha chiamato prototipi. Uno dei modi in cui si intende correntemente il prototipo è che esso sia un membro di una categoria, che diventa come un modello per riconoscere altri membri che condividono con esso alcune proprietà ritenute salienti. In tal senso, quando è invitato a definire un uccello, Pinco ha in mente il prototipo del passero, per la semplice ragione che è l’uccello che gli è più familiare. Gli esperimenti condotti sull’identificazione di prototipi, se presi alla lettera, lasciano pensare che di solito ciascuno di noi si comporti sovente così. Altri inclinano a considerarlo piuttosto uno schema, un fascio di tratti, e in tal senso sarebbe più affine allo stereotipo. In tal senso quando pensiamo a un cane (a meno che ne abbiamo uno con cui conviviamo giornalmente) non pensiamo a un dalmata piuttosto che a un labrador, bensì a un tipo bastardo. Quando pensiamo a un uccello ci figuriamo un bipede alato di dimensioni medie (diciamo tra un passero e un piccione) e raramente (se non veniamo dritti dalle Mille e una notte) ci figuriamo qualcosa come l’Uccello Roq. Questa forma bastarda varia a seconda delle culture (immagino che un abitante delle isole del Pacifico possa avere dell’uccello un TC che accentua la vivacità del piumaggio più di quanto non accada a noi), ma è proprio nella negoziazione di uno spazio d’accordo comune che i TC s’imbastardiscono felicemente.42 Pensiamo a un animale come il dinosauro, che non conosciamo per esperienza diretta ma attraverso veri prototipi offertici dall’Enciclopedia. Persino in tal caso ritengo che il TC più diffuso sia un incrocio di dinosauro, brontosauro, tyrannosaurus rex e vari altri grandi rettili estinti: se si potesse proiettare una media delle immagini mentali che ciascuno intrattiene in proposito si avrebbe un animale di genere disneyano, piuttosto che qualcosa che si vede ricostruito al museo di storia naturale.43 Una terza versione vorrebbe i prototipi come qualcosa di più astratto, un insieme di requisiti esprimibili proposizionalmente, necessari per

predicare l’appartenenza a una categoria; e qui si ripropone l’ambiguità del termine “categoria”, poiché in quest’ultimo caso si sta già pensando in termini di classificazione. 3.7.4.2. Alcuni equivoci sui prototipi I prototipi hanno goduto e godono ancora di vasta popolarità nella letteratura psicologica, ma la loro storia è abbastanza complessa, anche perché chi vi ha lavorato più diffusamente, Eleanor Rosch, ha cambiato successivamente idea sulla loro natura. Chi ha ricostruito la vicenda con maggior precisione è forse Lakoff (1987) e mi attengo alla sua sintesi. La storia dei prototipi nasce da una serie di questioni, da Wittgenstein a Rosch, che riguardano le somiglianze di famiglia, la centralità (l’idea che alcuni membri di una categoria ne siano migliori esempi di altri), la gradienza nell’appartenenza (la gallina viene vista da molti come meno uccello del passero), l’economia linguistica (il fatto che il linguaggio usi parole più brevi e più memorizzabili per cose che appaiono come un tutto organico piuttosto che come un insieme o una classe di oggetti morfologicamente diversi). Ma questo, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, testimonia che ci siano categorie di base le quali dipendono dalla percezione delle forme, dai nostri atti motori, dalla facilità di memorizzazione, che al loro livello i parlanti nominino le cose più rapidamente, che manifestino “an integrity of their own”, che siano “human-sized” (Lakoff 1987: 519). Però questo non dimostra che esse assumano la forma di prototipi. Dire che le parole cat, Katz o chien sono più comode e meglio memorizzabili che le parole Felide o Mammifero certamente conferma che nell’esperienza quotidiana identifichiamo più facilmente qualcosa come gatto che come mammifero, ma non ci dice se ci sia e quale sia un prototipo del gatto. Caso mai il problema della prototipicità riguarda fenomeni come quello dell’estensibilità dei limiti categoriali (extendable boundaries) per cui si discute se certi poliedri irregolari molto complessi siano poliedri, mentre non vi sono dubbi per i poliedri regolari più noti, o se i numeri transfiniti siano numeri o no, mentre nessuno dubita che 2 o 100.000.000 siano un numero. Ma l’esistenza delle categorie di base si inferisce da comportamenti linguistici quotidiani spontanei, mentre un esperimento come quello sui poliedri o sui numeri richiede che un intervistatore chieda a un soggetto

di rispondere a una questione che già mette in gioco classificazioni complesse. Il problema dunque è: l’esistenza di prototipi si inferisce da comportamenti quotidiani (non solo linguistici, ma comportamentali, come il riconoscimento felice) o da risposte verbali a domande sofisticate? Venendo a Eleanor Rosch, in una prima fase dei suoi esperimenti (tra gli anni Sessanta e i Settanta) i prototipi sono materia di salienza percettiva. In una seconda fase (prima metà degli anni Settanta) gli effetti prototipici ottenibili per esperimento provvederebbero una caratterizzazione della struttura interna della categoria (da cui la persuasione che costituiscano rappresentazioni mentali). In una terza fase (tardi anni Settanta) gli effetti prototipici sottodeterminerebbero le rappresentazioni mentali ma non ci sarebbe corrispondenza uno a uno tra effetti prototipici e rappresentazioni mentali. Essi non rispecchierebbero la struttura categoriale. Pertanto noi conosceremmo giudizi di prototipicalità ma essi non ci dicono nulla dei nostri processi cognitivi e gli effetti prototipici sarebbero superficiali.44 Infatti Rosch (1978: 174 sgg.) chiarisce che il prototipo non è né il membro di una categoria né una precisa struttura mentale, quanto piuttosto il risultato di un esperimento che mira a raccogliere e quantificare giudizi sul grado di prototipicità. Che cosa significa grado di prototipicità? Si avrebbe una identificazione di prototipicità quando al membro di una categoria viene assegnato il maggior numero di attributi che esso ha in comune con gli altri membri della categoria. Ora, i soggetti che hanno attribuito ai veicoli in genere le due sole proprietà di muoversi e trasportare persone, tendono a identificare un’automobile come il prototipo del veicolo (con circa 25 tratti caratteristici) e a porre a livelli inferiori la bicicletta o la barca, classificando agli ultimi posti l’aerostato e all’ultimo l’ascensore. L’ascensore si vede attribuite solo due proprietà (di muoversi e di trasportar persone).45 Se fosse così, dovrebbe essere proprio l’ascensore a rappresentare il prototipo dei Veicoli, visto che presenta proprio le proprietà comuni a qualsiasi veicolo e che quindi permetterebbe di ascrivere ai veicoli anche le specie e le occorrenze più diverse. In qualsiasi ordinamento categoriale, il genere superordinato deve avere meno tratti della specie subordinata, e la specie meno delle occorrenze individuali che permette di riconoscere. Se il TC per il cane fornisse istruzioni per “costruire” un pechinese e null’altro, sarebbe

difficilmente applicabile a un maremmano. Se un prototipo (là dove si è già assestato un sistema classificatorio) e un TC avessero qualcosa in comune, è che entrambi dovrebbero avere una estensione massima e una intensione minima. Invece il prototipo ha estensione minima e intensione massima. Mi pare che la nozione di prototipo abbia un valore per chiarire quali siano i “bordi” di una categoria di base: se si è deciso che i tratti salienti della categoria superordinata degli uccelli sono becco, piume, ali, due zampe e capacità di volare, è naturale che ci sia imbarazzo a definire pienamente uccello la gallina, che non vola ma al massimo starnazza (eppure non la si esclude, perché si ammette che anche gli altri uccelli non cessino di essere uccelli anche quando non volano). Più discutibile mi pare l’identificazione del prototipo in positivo perché credo che dipenda da esperienze ambientali e che i giudizi di prototipicità abbiano più valore per una ricerca di antropologia culturale che per determinare meccanismi cognitivi in generale.46 3.7.4.3. I misteriosi Drybal In qualsiasi esperimento sulla classificazione è sempre lo sperimentatore che propone una suddivisione in classi ispirata a un certo modello culturale, tendendo non solo a obliterare le forme di classificazione “selvaggia” ma anche a presupporre una classificazione là dove probabilmente ci sono solo accidenti morfologici privi di controparte semantica. Un caso curioso del genere lo si ha in Lakoff (1987, 6) dove ci si riferisce (in base ad altre ricerche) al linguaggio Drybal (Australia), in cui ogni termine deve essere preceduto da una di queste parole: Bayi: per uomini, canguri, pipistrelli, molti serpenti, molti pesci, alcuni uccelli, molti insetti, la luna, le tempeste, gli arcobaleni, il boomerang, alcune lance, eccetera. Balan: per donne, cani, ornitorinco, echidna, alcuni serpenti, alcuni pesci, molti uccelli, scorpioni, grilli, ogni cosa connessa con fuoco e acqua, sole e stelle, scudi, alcune lance, alcuni alberi, eccetera. Balam: per tutti i frutti mangiabili e le piante su cui crescono, tuberi, miele, sigarette, vino, dolci, eccetera.

Bala: per parti del corpo, carne, api, vento, alcune lance, molti alberi, erba, fango, rumori e linguaggio, eccetera. Lakoff si stupisce che tali “categorizzazioni” vengano usate dai nativi automaticamente e senza quasi averne coscienza, e cerca ragioni semantiche e simboliche per giustificarle. Trova per esempio che gli uccelli sarebbero classificati con le donne perché sono ritenuti spiriti di donne morte, ma non riesce ad appurare perché l’ornitorinco stia con le femmine, il fuoco, e le cose pericolose - come si vede non è solo per me che quell’animale è fonte di continue preoccupazioni. Rileva però che per i parlanti delle ultime generazioni, che hanno perso quasi del tutto la lingua dei padri, rimangono solo Bayi per maschi e animati non umani, Balan per femmine umane e Bala per tutto il resto, e ragionevolmente collega il fenomeno all’influenza del sistema pronominale inglese (He-She-It). Giusta osservazione, che tuttavia incoraggerebbe ad andare oltre - voglio dire, oltre l’inglese. Supponiamo infatti che in una penisola mediterranea viva una singolare popolazione i cui nativi hanno la curiosa abitudine di premettere a ogni nome due parole, IL (con la variante LO) e LA, con i seguenti effetti “categoriali”: IL si applica a uomini, canguri, pipistrelli, molti serpenti (boa, pitone, cobra), molti pesci (branzino, luccio, pesce spada, squalo), molti insetti (calabrone, maggiolino), sole, temporale, arcobaleno, boomerang, fucile, mitra, ornitorinco, rinoceronte. LA si applica a donna, tigre, alcuni serpenti (vipera, biscia), alcuni pesci (orata, trota), molti uccelli (rondine, cinciallegra), insetti (vespa, mosca), acqua, luna, stella, corazza, pistola, lancia, alcuni alberi (quercia, palma), giraffa, puzzola, eccetera. Come noi ben sappiamo, il genere grammaticale non ha nulla a che fare non solo con il genere sessuale, ma neppure con alcuna classificazione che ponga concettualmente la sentinella dalla stessa parte della locomotiva e della luna, e il sole dalla parte del guardiano e del vagone. Potremmo infine supporre persino che a nord di quella penisola, oltre un arco montagnoso, viva un’altra popolazione (assai barbara) che premette a ogni termine, come i giovani Drybal, tre

diverse parole, DER, DIE e DAS (forse per pidginizzazione, sotto l’influenza del sistema pronominale inglese), ma che anche in questo caso il fatto che il sole sia die come la donna, la luna der come il leopardo e la tigre, e l’ornitorinco, l’orecchio e l’oro siano tutti das, non ha alcun rilievo categoriale. Non mi sento affatto di dire che nella lingua Drybal avvenga qualcosa di simile a quello che avviene in italiano, tedesco, francese e tante altre lingue. Avanzo solo il sospetto che sovente fenomeni grammaticali vengano discussi come fenomeni di classificazione - il che getta un sospetto su tante indagini in cui si presuppongono classificazioni familiari allo sperimentatore ma che i soggetti non compartecipano, oppure lo sperimentatore si affanna invano a dedurre classificazioni là dove i soggetti non classificano per nulla e seguono solo automatismi grammaticali.47

3.7.5. Altri tipi Mi sono proposto di limitarmi a quei soli casi in cui sono in questione oggetti o eventi di esperienza percettiva attuata o possibile, piuttosto che approfondire che cosa accada quando parliamo di Banca d’Italia, governo, sistema maggioritario, enfiteusi, fato, avversità, metonimia, precisione, istinto, e così via. Ma sino a che scala possiamo parlare di oggetti di percezione possibile? È percepibile la penisola italiana? Oggi sì, tanto quanto la luna, e senza bisogno di guardarla dalla luna, basta fotografarla da un satellite. E prima che ci fossero i satelliti, si aveva un TC dello Stivale? Certamente, come sapeva ogni scolaro italiano, così come ogni scolaro francese aveva un TC dell’Esagono. Eppure allora nessuno aveva percepito questi territori. Però, per successive approssimazioni, mappando quasi a scala uno a uno le coste, se ne era ottenuta una immagine (certamente variabile nel tempo a seconda delle proiezioni, o dell’imperfezione dei rilievi, come avveniva nelle carte antiche) che trasmetteva il CN delle espressioni geografiche Italia e Francia. Ci sono TC di personaggi storici? Per alcuni, su cui esiste una iconografia ricchissima e popolarissima (come Garibaldi), certamente sì. C’è il TC per Ruggero Bacone? Ne dubito, c’è solo un CN, peraltro noto a non tutti (“filosofo medievale”) e un CM a disposizione degli

esperti. Credo che, oltre un certo limite, nascano situazioni molto aggrovigliate. Certamente non abbiamo un TC per certe sostanze chimiche ma lo abbiamo per altre come l’acido cloridrico, almeno quanto l’abbiamo per la puzzola (cfr. Neubauer e Petöfi 1981); e però un chimico potrebbe averne una competenza più elaborata. Non abbiamo un tipo cognitivo del diabete (diverso è dire che il medico ha un tipo cognitivo dei sintomi del diabete) ma abbiamo l’impressione di identificare a colpo d’occhio chi ha il raffreddore, tanto che del raffreddato si può dare rappresentazione caricaturale o mimica. Quanto sia ancora poco recensito l’arcipelago dei TC ce lo dice un’esperienza tra le più consuete.

3.7.6. Se una notte d’inverno un guidatore Sto guidando di notte su una strada di campagna, coperta per giunta da uno strato sottile di ghiaccio. A un certo punto vedo di fronte a me, lontano, due fonti di luce bianca che aumentano gradatamente di ampiezza. Prima viene la Firstness: due luci bianche. Poi, per iniziare a comparare una sequenza di stimoli distribuiti temporalmente (luce in tempo2 più grande che luce in tempo1) devo già aver dato inizio a una inferenza percettiva. A questo punto entrano in gioco quelli che Neisser (1976, 4) chiama “schemata”, e che sarebbero forme di aspettativa e anticipazione, che orientano la selezione di elementi del campo stimolante (senza con questo escludere che il campo stimolante mi offra delle salienze, delle direzioni preferenziali). Non credo potrei attivare un sistema di aspettative se non possedessi già il TC “automobile”, più la sceneggiatura “automobile di notte”. Il fatto che vedo due luci bianche e non due luci rosse mi dice che l’automobile non mi sta precedendo ma mi viene incontro. Se fossi una lepre rimarrei abbagliato senza poter interpretare un fenomeno così singolare, e finirei sotto la macchina. Per dominare la situazione debbo capire subito che non sono due occhi luminosi che mi vengono incontro, ma un corpo che possiede certe proprietà morfologiche, anche se esse non sono nel mio campo stimolante. Benché le luci che vedo siano quelle luci (una occorrenza concreta) nel momento in cui passo al giudizio percettivo sono già entrato nell’universale: quella che vedo è una macchina, e mi interessa poco la marca, o chi la stia guidando.

Questo risponde in qualche modo a Gibson e alla sua teoria “ecologica”, fondamentalmente realistica e non costruttivistica della percezione. Si potrebbe consentire con lui quando afferma che “la funzione del cervello non è di decodificare segnali, né di interpretare messaggi o accettare immagini... La funzione del cervello non è neppure quella di organizzare l’input sensoriale o di processare dati... I sistemi percettivi, inclusi i centri nervosi a vari livelli sino al cervello, sono modi di cercare ed estrarre informazione circa l’ambiente da un campo fluttuante di energia ambientale” (1966: 5). Ammettiamo pure che sia lo stesso campo stimolante a offrirmi delle salienze, che sia qualcosa che è là a fornirmi l’informazione sufficiente a percepire due sorgenti luminose rotonde, a distinguerne i “bordi” che le separano dall’ambiente circostante. Immagino che anche la lepre veda qualcosa di simile, e che i suoi recettori reagiscano preferenzialmente alla sorgente di luce che non all’oscurità circostante. Ma solo chiamando, come fa Gibson, “percezione” questa prima fase del processo, si ha ragione di dire che essa è determinata da salienze proposte dal campo stimolante. Però, se voglio rimanere fedele alle mie premesse terminologiche, il giudizio percettivo è qualcosa di molto più complesso. Quello che mi differenzia dalla lepre è che io passo da quegli stimoli, per quanto determinati dall’oggetto, al giudizio percettivo quella è una macchina, applicando un TC e quindi integrando quello che mi stimola ora con quello che sapevo già. Solo quando ho formulato il giudizio percettivo sono in grado di procedere a una serie di ulteriori inferenze: anzitutto riconduco il tipo all’occorrenza, la posizione dei fari mi dice se l’automobile si mantiene correttamente alla propria destra o se si avvicina pericolosamente al centro della strada, se procede ad alta o bassa velocità; a seconda se ho iniziato a vedere lontano due luminosità appena percettibili, o se l’apparizione delle luci è stata preceduta da un diffuso chiarore, comprendo se in fondo ci sia una curva o una cunetta. Il sapere che la strada è ghiacciata mi induce inoltre a seguire altre regole (apprese) di prudenza. Citando di nuovo Neisser (1976: 65) in questa oscillazione da un lato generalizzo l’occorrenza e dall’altro particolarizzo lo schema. Se così avviene non ho neppure bisogno di pensare, con Kant, che da un lato ci sia il molteplice della sensazione, dall’altro l’apparato astratto delle categorie che attende di essere applicato e, come elemento mediatore, lo schema. Lo schema sarebbe un dispositivo, un sistema

d’istruzioni così flessibile da mediare, per così dire, continuamente se stesso, arricchirsi e correggersi anche in base all’esperienza specifica che sto facendo, intessuto come è sia di primitivi semiosici (un oggetto, una luminosità) che di elementi categoriali (una macchina, un veicolo, un oggetto mobile). Nel valutare l’intera situazione entrano in gioco anche quelle che Neisser chiama “mappe cognitive”: applico alla situazione quello che so circa le caratteristiche di default di una strada di campagna (e ghiacciata per giunta), e di quella su cui procedo sto valutando l’ampiezza, per esempio, altrimenti non potrei stabilire se la macchina laggiù si mantiene correttamente sul proprio lato o rischia di venirmi addosso. Dal modo in cui reagisce la mia macchina a piccoli ed esplorativi colpi di freno, valuto se il manto stradale sopporterebbe una frenata più improvvisa e decisa (e in tal caso non sto percependo con gli occhi, ma con i piedi e con le natiche, interpretando una quantità di stimoli che mi provengono propriocettivamente). Insomma, nel corso di questa esperienza metto in opera TC diversi, di oggetti, di situazioni, competenze specifiche che apparterrebbero piuttosto al CM, schemi di rapporti da causa a effetto, inferenze di vario genere e complessità. Quello che vedo è solo una parte di quello che capisco, e di quello che capisco fa parte anche un sistema di regole stradali, di abiti acquisiti, di leggi, di una casistica appresa, per cui so già che in passato la negligenza di quelle regole ha prodotto un incidente mortale... Che in ogni caso la maggior parte di queste competenze sia pubblica è appurato intersoggettivamente dal fatto che, se io ero distratto o assonnato, qualcuno di fianco a me sarebbe stato in grado di avvertirmi che ci stava venendo incontro una macchina, e di consigliarmi di sterzare più a destra (si noti che quel qualcuno è pervenuto al mio stesso giudizio percettivo anche se riceveva gli stimoli secondo una parallasse diversa). Forse, nel corso di questo processo, ho valutato solo epifenomeni. Ma se non prendessi sul serio questi epifenomeni sarei una lepre condannata a morte.

3.7.7. Tipi fisionomici per individui Ma riprendiamo il censimento dei vari TC del nostro arcipelago ancora abbondantemente inesplorato. Un TC può anche riguardare individui. Jackendoff (1987: 198-199) suggerisce che, pur ricorrendo allo stesso modello 3D sia per il riconoscimento di individui che di generi, si abbiano due processi distinti. Nel caso in cui categorizzo Giorgio come essere umano maschio, decido che l’occorrenzai è un esempio del tipok. Nel caso in cui riconosco Giorgio come Giorgio decido che un’occorrenzai è identica all’occorrenzaj. Altri direbbero che nel primo caso riconosco Giorgio come simile ad altre persone, nel secondo come la stessa persona. Potremmo dire che negli individui coincidono tipo e occorrenza. Ma non avviene così nei processi di riconoscimento, perché l’occorrenzai (l’individuo che vedo in questo istante) è veramente un’occorrenza mentre l’occorrenzaj è pur sempre prelevata dalla memoria, sia essa un’immagine mentale o qualsiasi altra forma di registrazione, e pertanto è anch’essa un TC, che dovremmo definire come “tipo individuale” ma che, poiché il termine sfiora l’ossimoro, indicherò come tipo fisionomico. Se non postuliamo tipi fisionomici rimane inspiegabile come siamo capaci di riconoscere sempre la stessa persona nel corso del tempo. Anno dopo anno le persone mutano, il volto s’affila o s’ingrassa, appaiono rughe, i capelli incanutiscono, le spalle s’incurvano, l’andatura perde di elasticità. È prodigioso che in circostanze normali siamo capaci di riconoscere qualcuno dopo moltissimi anni che l’abbiamo perduto di vista. A tal punto che se all’inizio non lo riconosciamo, basta poi un tono di voce, uno sguardo, per spingerci all’agnizione, accompagnata dal canonico “come sei cambiato!”. Questo significa che del soggetto noi ci eravamo costruiti un tipo fisionomico che dell’originale conserva solo alcuni tratti salienti, che talora riguardano più un modo di muovere gli occhi che non la forma del naso o la quantità e lunghezza dei capelli. Memorizziamo una sorta di Gestalt del volto (o della postura corporale, talora dell’andatura) che resiste anche alla mutazione di ogni singola proprietà. Quanto il tipo fisionomico sia schematico lo sanno gli innamorati, che soffrono di due incidenti apparentemente opposti. Da un lato hanno sempre l’impressione di scorgere da lontano la persona amata, salvo poi convincersi che si erano sbagliati: vale a dire che il desiderio li portava

ad applicare il tipo fisionomico con generosità, cercando di renderlo applicabile a molte occorrenze concrete. Dall’altro, quando la persona amata è assente, cercano disperatamente di ricostruirne le fattezze nella memoria, rimanendo continuamente delusi per il fatto che non provano la stessa intensa sensazione di quando la vedevano direttamente. In questo caso si accorgono di come il tipo fisionomico serva per il riconoscimento di occorrenze ma non per sostituire la percezione diretta dell’occorrenza (fanno eccezione soggetti dotati di immaginazione eidetica, come molti artisti capaci di tracciare un ritratto affidandosi alla sola memoria). Ovvero si accorgono della notevole differenza tra “recognition” e “recall” (cfr. Evans 1982, 8). I tipi fisionomici per individui hanno però una caratteristica che li distingue da TC generici i quali, per quanto possano essere privati, di solito possono essere resi pubblici sotto forma di CN interpretato. Si può certo dare il caso di qualcuno che riconosce facilmente i topi ma non è in grado o non ha mai avuto occasione di esprimere i tratti morfologici per cui li riconosce e pertanto non abbiamo la garanzia che dei topi possegga un tipo simile a quello degli altri (per ragioni idiosincratiche potrebbe riconoscerli solo per il loro rapido movimento senza avere alcuna nozione della loro forma). Quando parlassimo con costui di topi esso li definirebbe al massimo come “roditori sgradevoli che allignano nelle case”, e siccome questa nozione fa parte del CN comune, noi ne trarremmo la conclusione errata che il TC di costui è del formato del nostro, e del nostro condivide la conoscenza di tutti i tratti morfologici che fanno parte della zona di conoscenza comune. Ma le circostanze della vita associata rendono molto improbabile un caso del genere, e se oggigiorno questo potrebbe accadere con i topi (che tantissime persone hanno poche occasioni di vedere) raramente potrebbe accadere con una mucca e rarissimamente con una sedia. Non così accade dei tipi fisionomici di individui. Si badi che il fenomeno si verifica non solo per individui umani ma a maggior ragione per animali, vegetali e artefatti individuali. Chiunque concorda nel dire come siano un cane, una bicicletta, una pipa, ma è estremamente difficile spiegare a qualcuno come individuare il cane Tom, la mia bicicletta e la mia pipa. Per animali e oggetti prevalgano di solito i tratti generici, e tra una grande quantità di auto della stessa marca al parcheggio talora esitiamo a riconoscere la nostra (se non reca

segni di riconoscimento). Ma il problema acquista un rilievo diverso a proposito di individui umani. Riconoscerei Gianni tra un milione di individui, e così pure accadrebbe a Marco, eppure le ragioni per cui lo riconosco io possono essere enormemente diverse da quelle per cui lo riconosce Marco. Marco e io potremmo passare la vita a riferirci a Gianni, a riconoscerlo entrambi quando lo incontriamo senza avere mai avuto occasione di rendere pubblici i tratti attraverso cui lo identifichiamo. Potremmo accorgerci del divario tra i nostri TC solo il giorno in cui entrambi dovessimo collaborare al suo identikit: solo allora potrei scoprire che Marco non solo non ha mai prestato attenzione alla forma del naso di Gianni ma neppure sa se abbia capelli folti o mostri segni di calvizie, e magari lo considera esile mentre io lo vedo robusto. Se poi qualcuno ci chiedesse chi è Gianni, ci accorgeremmo che, nell’interpretare il contenuto del nome, non solo le nostre interpretazioni non coinciderebbero, ma i confini tra CN e CM sarebbero assai imprecisi. Magari entrambi potremmo dire che è un essere umano, di sesso maschile, professore della materia tale all’università tale, ma per me sarebbe il fratello di Luigi e l’autore di un libro celeberrimo sull’aspettualità nella lingua nahuatl (che era poi quella di Montezuma), mentre Marco mostrerebbe di ignorare questi particolari; eppure uno solo di questi particolari potrebbe servire a un terzo interlocutore ad associare al nome di Gianni numerosissime altre proprietà, e addirittura spingerlo a riesumare dalla propria memoria dati utili alla sua identificazione. Dal canto proprio Marco potrebbe essere l’unico a conoscere di Gianni la proprietà di essere il mostro di Scandicci, e nessuno oserà affermare che si tratti di proprietà insignificante - anche se mi pare faccia parte del CM e non del CN. Diciamo allora che si verificano con gli individui tre fenomeni: (i) la frequente idiosincraticità dei TC grazie ai quali sono peraltro riconosciuti, (ii) la difficoltà a interpretare questi TC pubblicamente, e quindi a fornire istruzioni per l’identificazione, (iii) l’elasticità delle proprietà esprimibili in termini di CN. Credo che questa sia una delle ragioni che più facilmente inducono molti teorici a ritenere che i nomi propri d’individui non abbiano contenuto, ma designino direttamente il loro portatore. Si tratta evidentemente di un partito preso, perché la nostra vita è spesa in gran parte nel definire (ad altri) i vari individui che nominiamo correlando al loro nome una serie talora vastissima di

proprietà, espresse attraverso descrizioni verbali e rappresentazioni visive; ma è certo che esse esprimono tratti che in certe situazioni e per qualcuno sono salienti, ma non sono tali sempre e per tutti, e possono esistere divari sensibili tra una interpretazione e l’altra.48 Nel 1970 mi sono fatto crescere la barba. Venti anni dopo me la sono tagliata per qualche mese, e ho rilevato che c’erano amici che mi incontravano e a prima vista non mi riconoscevano; altri invece stabilivano subito un’interazione normale, come se non si avvedessero del cambiamento.49 Ho poi capito che i soggetti della prima categoria mi avevano conosciuto solo negli ultimi vent’anni, e quindi già con la barba; mentre quelli della seconda categoria mi avevano conosciuto prima che mi facessi crescere la barba. Ciascuno di noi si costruisce un tipo fisionomico delle persone che incontra (quasi sempre basato sulla prima impressione o, in casi eccezionali, sul momento in cui l’impressione è stata più vivida) e su quello si appoggia per tutto il resto della propria vita - in un certo senso adattando via via le fattezze della persona che rivede al tipo iniziale, più che correggere il tipo a ogni nuovo incontro.50 Questo mi induce a pensare che, così come le caricature mettono in luce dei tratti che sono realmente individuabili nel volto caricaturato, e come lo studio della stupidità serve sovente a comprendere meglio il fenomeno dell’intelligenza, così molti comportamenti morbosi non facciano altro che mettere in luce delle tendenze “normali” che di solito sono controllate da e riassorbite in modelli di comportamento più complessi. Sto pensando agli studi sulla prosopagnosia e in particolare alla bella analisi di Sacks (1985) sull’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. Visto che neppure Sacks sa che cosa sia accaduto realmente nella scatola nera del signor P., possiamo accontentarci di prendere in considerazione le sue interpretazioni verbali. Dunque, P. non riconosce visi, ma del resto non è solo affetto da prosopagnosia bensì da agnosia generalizzata, e non riconosce paesaggi, oggetti o figure: focalizza la propria attenzione su dei tratti particolari senza riuscire a comporli in una immagine globale. Descrive minutamente una rosa ma non la individua come tale sino a che non ne ha sentito l’odore, fornisce una descrizione minutissima di un guanto, ma lo riconosce solo quando se lo infila... Sacks dice (con riferimento a Kant) che era incapace di giudizio, ma direi che non possedeva schemi

(e in effetti Sacks in nota bibliografica ammette che P. doveva avere un deficit di “tipo Marr”, che non disponeva di un primal sketch per gli oggetti). Tuttavia c’è qualcosa che, nel modo in cui P. faticosamente riconosceva le persone, ci sembra molto vicino al modo in cui le riconosciamo noi - salvo che il comportamento di P. è una caricatura del nostro. P. coglie anzitutto dei dettagli, riconosce la foto di Einstein solo a causa dei capelli e dei baffi, suo fratello Paul a causa dei grossi denti. E così faceva un altro paziente che Sacks cita nel poscritto: non riconosceva la moglie e i figli ma riconosceva alcuni amici per delle caratteristiche rilevanti, un tic, un neo, l’estrema magrezza. Mi pare che nell’elaborare tipi di individui noi procediamo di solito così. Certamente noi abbiamo l’abilità di costruire schemi, primal sketches, sappiamo astrarre da infiniti particolari, teniamo a freno la nostra tendenza a soffermarci su ogni minimo dettaglio individuale: tuttavia accettiamo uno squilibrio regolato, catturiamo di preferenza aspetti salienti, e quelli riteniamo con maggior cura nella nostra memoria. Per questo il mio tipo individuale di Gianni è diverso da quello di Marco, perché entrambi siamo (in misura assai controllata) dei signor P. È alla fin dei conti la continua interazione sociale che ci costringe a non esserlo del tutto, dove si vede che per essere definiti normali basta (nel bene come nel male) attenersi alle norme che la comunità stabilisce - ed eventualmente corregge - passo per passo.

3.7.8. TC per individui formali Gianni è un individuo, unico e irripetibile, ma sia io che Marco possiamo riconoscerlo per motivi diversi. Ora chiediamoci se dei Promessi sposi e della Quinta di Beethoven esiste un TC. Io direi di sì, perché ad apertura di libro (o almeno ad apertura del primo capitolo) o a inizio composizione chiunque conosca bene queste due opere le riconosce. Ma che cosa sono queste opere dell’ingegno (uso questa espressione per opere letterarie, pittoriche, architettoniche, musicali, ma anche per saggi filosofici e scientifici)? Rivediamo quanto detto in Eco (1975, 3.4.6-8). Gianni è un individuo. Il fonema che pronuncio è una replica del fonema tipo (ci sono variazioni di pronuncia, ma vengono conservati i tratti pertinenti stabiliti dal tipo). Una qualsiasi edizione dei

Promessi sposi è un doppio di tutti gli altri libri con lo stesso titolo stampati dallo stesso editore (nel senso che ogni copia ha, almeno a livello molare, tutte le proprietà di qualsiasi altra copia). Ma è al tempo stesso la clonazione di un archetipo “letterario”: il tipo editoriale riguarda la sostanza dell’espressione (carta, caratteri, rilegatura), mentre l’archetipo letterario riguarda la forma dell’espressione. In tal caso la mia copia dei Promessi sposi (problemi cartacei e tipografici esclusi) è una clonazione dello stesso archetipo letterario di cui è clonazione anche la prima copia dell’edizione detta Quarantana. Se dal punto di vista antiquariale (in cui si pertinentizza la sostanza dell’espressione, il supporto cartaceo) è più preziosa una copia della Quarantana, dal punto di vista linguistico e letterario (forma dell’espressione) la mia copia possiede tutte le proprietà pertinenti dell’archetipo uscito dalla mano dell’autore (tanto che un attore potrebbe declamarne dei brani leggendo indifferentemente dall’una o dall’altra edizione, producendo la stessa sostanza dell’espressione sonora, e creando gli stessi effetti estetici). L’archetipo dei Promessi sposi non è un tipo generico, una forma di Legisegno nel senso peirceano: ha l’aria di essere più individuale di Gianni, perché Gianni sarebbe sempre lui anche se perdesse i denti, i capelli, le braccia, mentre I promessi sposi, se se ne cambiano l’inizio o la fine, o se ne sostituiscono parole qua e là, diventa un’altra cosa, un falso, un plagio parziale. I promessi sposi è altrettanto individuale della Gioconda? Sappiamo (Goodman 1968: 99) che c’è una differenza tra arti autografiche, non suscettibili di notazione e quindi non replicabili (la Gioconda) e arti allografiche, replicabili - alcune secondo criteri rigorosi, come un libro, e altre secondo flessibilità interpretativa, come la musica. Ma se un giorno fosse possibile replicare in ogni sfumatura di colore, ogni tratto di pennello, ogni particolare della tela della Gioconda, la differenza tra originale e copia avrebbe solo valore antiquariale (così come in bibliofilia tra due copie della stessa edizione vale di più quella autografata dall’autore) ma non valore semiotico. Insomma, ci piaccia o no, I promessi sposi è un individuo, anche se ha proprietà di essere riproducibile (ma in modo tale che ogni suo doppio ha le stesse squisitissime caratteristiche individuali dell’archetipo).51 Per questo di esso posso possedere un tipo fisionomico non generico. Non sapendo come chiamare questo strano

tipo di individui che sono le opere dell’ingegno, e tenendo conto che la loro individualità riguarda solo la forma dell’espressione e del contenuto, non la sostanza, azzardo il termine di individui formali. Una volta su questa strada si potrebbero individuare altri interessanti individui formali, ma per il momento mi limito ad applicare la definizione alle opere dell’ingegno, che sono oggetto di percezione diretta. Potrebbe naturalmente accadermi di aprire un libro che pure ho già letto, e non riconoscerlo dalle prime pagine, ma d’altra parte se vedo di sfuggita, da lontano, di schiena, Gianni tra la folla, potrei avere le stesse perplessità. Però è di queste perplessità che vale la pena di parlare, perché potrebbero mettere in crisi le nostre idee su riconoscimento e identificazione. Siccome il gioco sui Promessi sposi o sulla Quinta sembra troppo facile, tentiamo un esperimento mentale che coinvolga un individuo formale più problematico.

3.7.9. Riconoscere SV2 Tutti gli strumenti elettrici di casa sono fuori uso per un black out, meno la radio con lettore di Cd incorporato, che va a batteria. Nel buio più assoluto non mi rimane che ascoltare la mia composizione preferita, la Seconda suite per violoncello solo di Bach nella trascrizione per flauto dolce contralto (che d’ora in avanti chiamerò SV2). Siccome è buio pesto e non posso leggere i titoli dei dischi, non resta che provarli tutti. Per rendere la storia più complicata, siccome ho un piede ingessato ed è presente il mio amico Roberto, amante come me di SV2, lo prego di andare a tastoni dove sono radio e Cd e fare il lavoro in vece mia. Sto pertanto dicendogli: per favore, va’ a cercarmi la SV2; tanto quanto come se gli dicessi di andare ad accogliere il nostro comune amico Giovanni Sebastiano alla stazione. Ho messo in atto un’operazione di riferimento che presume, da parte di Roberto, la capacità di individuare il referente, o il designato del mio atto linguistico.52 Per quanto riguarda un brano musicale, la nozione di individualità sembra compromessa dal fatto che di una stessa composizione posso avere diverse esecuzioni fatte da diversi interpreti. Però in tal caso (e per chi è sensibile a queste differenze) l’individuo non sarebbe SV2

bensì quella cosa che si chiama SV2/Brüggen in quanto distinta dalla SV2/Rampal. In questo nostro esperimento mentale ci comporteremo come se di SV2 esistesse una e una sola esecuzione, riprodotta su migliaia di dischi. In tal caso riconoscere SV2 sarà, come riconoscere, sfogliando vari libri, I promessi sposi. Tra l’altro, per la maggior parte degli ascoltatori avviene proprio così, ed essi riconoscono sempre SV2 in diverse esecuzioni, malgrado le differenze d’interpretazione. Quali sono le istruzioni che Roberto possiede per identificare l’individuo e quanto coincidono con quelle di cui dispongo io? Wittgenstein (Tractatus, 4.014) dice che “il disco fonografico, il pensiero musicale, la notazione musicale, le onde sonore, tutti stanno l’uno all’altro in quella interna relazione di raffigurazione che sussiste tra linguaggio e mondo. A essi tutti è comune la struttura logica”. Lasciamo da parte l’assunzione forte della teoria wittgensteiniana dell’Abbildung, che vorrebbe le proposizioni linguistiche come icone dello stato di cose a cui si riferiscono (il secondo Wittgenstein a questo proposito sarà molto più prudente). Considerando soltanto l’esempio musicale, mi pare chiaro che qui siamo di fronte a due fenomeni diversi.53 Da un lato abbiamo la relazione iconica tra onde sonore e solchi nel vinile del disco o sequenze di segnali discreti nel Cd. Siamo certamente di fronte a relazioni di calco, a un iconismo primario come quello di cui si è parlato in 2.8, una relazione che si stabilirebbe anche in assenza di qualsiasi mente che la interpreti, e che continua a sussistere sia che le onde sonore siano state registrate in modo analogico, sia che siano state tradotte in modo digitale. Diverso è il rapporto tra il fenomeno fisico e, da un lato, la sua trascrizione sul pentagramma e, dall’altro, “il pensiero musicale”. La trascrizione sul pentagramma rappresenta certamente un modo (altamente convenzionale) di rendere pubblicamente accessibile l’idea musicale. Che la procedura sia convenzionale (altamente codificata) non elimina il fatto che la sequenza delle note scritte sia motivata dalla sequenza dei suoni immaginati o provati sullo strumento dall’autore. Siamo di fronte a uno dei casi che nel Trattato definivo di ratio difficilis, in cui la forma dell’espressione è motivata dalla forma del contenuto. Ma il problema sorge quando si vuole definire la forma del contenuto, che sembra corrispondere a quella che Wittgenstein

chiamava il pensiero musicale, che è quell’ideale di “buona forma” a cui l’esecutore sta cercando di conferire sostanza mentre interpreta le note sul pentagramma. Che cosa si intende per idea o pensiero musicale? Qualunque cosa s’intenda, è certamente quella individualità formale che debbo individuare per riconoscere SV2 come tale. Ma è anche quella sequenza di note che Bach ha immaginato, un Oggetto Dinamico che non sappiamo più da che parte stia (ontologicamente parlando) almeno tanto quanto non sappiamo dove stia il Triangolo Rettangolo? Si dovrebbe dire che l’Oggetto Immediato dovrebbe essere il tipo fisionomico di questo Oggetto Dinamico, altrimenti come potremmo clonarlo in modo intersoggettivamente accettabile, e riconoscere ciascuna delle sue clonazioni? Tuttavia nel mio esperimento mentale la faccenda si complica perché Bach ha concepito la suite per violoncello (non per flauto), e quindi la sua prima idea musicale comprendeva anche dei tratti timbrici che nella trascrizione sono stati cambiati. Ma non è un caso se ho scelto una situazione così maledettamente complessa. È che qualcuno che abbia frequentato SV2 solo nella trascrizione per flauto, quando l’ascolta per la prima volta eseguita dal violoncello, ha un momento di perplessità, ma di solito alla fine riconosce con sorpresa che si tratta della stessa composizione. D’altra parte noi riconosciamo una data canzone sia che sia suonata sulla chitarra che al piano, e quindi vale la pena di attenerci a un tipo fisionomico così schematico da lasciar cadere il parametro timbrico, che pure non è cosa da poco.54 È chiaro che, se la relazione tra le onde sonore e i solchi del disco è un caso di iconismo primario - e se la relazione tra l’esecuzione di Brüggen e le note della partitura si sostanzia già di molteplici inferenze interpretative, scelte, accentuazioni di pertinenze - con il tipo fisionomico siamo ormai giunti a un processo estremamente complesso di cui pare assai difficile rendere conto. Che cosa è l’idea musicale che intrattengo? Deve adeguare quella di Brüggen? Certamente no. Il mio tipo fisionomico potrebbe essere diverso da quello di Roberto. Leggendo la partitura io so suonare sul flauto dolce SV2, e se provo a memoria vado avanti per un minuto o due, poi mi fermo e non ricordo più come debbo procedere, mentre Roberto, che pure sa suonacchiare il flauto dolce, ha ascoltato molte volte il brano, e lo sa riconoscere, se provasse a suonarlo non ce la farebbe.

Dunque Brüggen, io e Roberto sappiamo riconoscere SV2 ma ci riferiamo a (o mettiamo in gioco) tre tipi fisionomici diversi (o almeno di diversa complessità e finezza o definizione). Si può parlare di tre “immagini acustiche” che ai fini del semplice riconoscimento si equivalgono? Ma che cosa è una immagine acustica? Non basta dire che riconosco Giovanni Sebastiano in base a tratti visivi e SV2 in base a tratti acustici. Il fatto è che i tratti fisionomici di Giovanni Sebastiano mi si presentano tutti insieme (anche se talora la loro ispezione può prendere del tempo) mentre i tratti acustici della composizione musicale mi si presentano distribuiti nel tempo. Ma il nostro problema, nella stanza al buio, non è di riconoscere SV2 dopo avere ascoltato tutto il disco. Sarebbe come poter riconoscere Giovanni Sebastiano solo dopo averlo lungamente fatto muovere avanti e indietro, sorridere, parlare e dopo averlo interrogato poliziescamente sul suo passato (cosa che avviene solo in circostanze eccezionali). Roberto, per soddisfare la mia richiesta, deve riconoscere SV2 in tempo abbastanza breve (magari in base a pochi prelevamenti casuali), e tra l’altro, questo è un problema a cui ci troviamo confrontati sovente, quando apriamo la radio e ascoltiamo un brano che certamente conosciamo ma che non individuiamo al primo colpo. Se Roberto ci mette tutta la durata della composizione per cercare di riconoscere SV2, ha già perduto in partenza, mi porti pure il Clavicembalo ben temperato, e mi accontenterò perché sono di gusti facili. Possiamo dire che lo schema fisionomico di SV2 non è diverso da quello della Gioconda? Non direi. Se so riconoscere la Gioconda è perché l’ho vista prima, se l’ho vista saprei interpretarla verbalmente (una donna sorridente, a mezzo busto, sullo sfondo di un paesaggio...) e addirittura anche sapendo disegnare malissimo saprei farne uno schizzo, assai rozzo ma sufficiente a permettere a qualcuno di distinguerla dalla Venere di Botticelli. Ma posso saper riconoscere SV2 anche senza saperne accennare neppure le primissime note. E non si dica che questo è dovuto solo a inabilità mia o di Roberto. Tutti, se conosciamo la Traviata, sappiamo benissimo accennare a “Sempre libera degg’io” o a “Libiam nei lieti calici”. Ma possiamo amare follemente il Don Giovanni e sfido tuttavia qualcuno che non sia un professionista a canterellare “Non si pasce di cibo mortale”. Eppure non appena lo udiamo, sappiamo subito che sta parlando il Commendatore.

Saremmo tentati di dire che si riconosce uno “stile”. Ma, a parte la difficoltà che si prova a definire che cosa sia uno schema stilistico (un musicologo sa dirci benissimo quali caratteristiche noi cogliamo nell’individuare qualcosa come Bach e non come Beethoven, ma il guaio è che noi, nell’individuarlo, non sappiamo che cosa individuiamo), il nostro problema è come si distingue la seconda suite senza confonderla con la prima. Qui credo che anche il musicologo, così bravo nell’analizzare le soluzioni melodiche, ritmiche e armoniche proprie dello stile di Bach, non sappia fare altro che rinviarci al pentagramma: SV2 è quell’individuo musicale composto di queste e queste altre note, e se le note sono diverse si tratta di un’altra composizione. Quello che Roberto dovrebbe istintivamente disporsi a cercare dopo che gli ho menzionato SV2, è qualcosa di cui non ha un tipo cognitivo molto complesso (come quello di Brüggen) ma un tipo fisionomico parziale, come uno spunto che lo incoraggia circa la possibilità, se necessario, di eseguire una combinazione più complessa di “patternrecognition skills” (Ellis 1995: 87), e che curiosamente può implicare anche la capacità di riconoscere tratti acustici di cui non era cosciente nel momento in cui associava un tipo parziale al nome. Ellis (1995: 95 sgg.) suggerisce che noi abbiamo memorizzato un semplice pattern melodico-ritmico, per esempio le prime cinque note. Direi peraltro che ci sono composizioni che riconosciamo non all’inizio, ma a un certo punto, e dunque queste cinque (o venti) note cruciali potrebbero stare dappertutto, a seconda del tipo fisionomico di ciascuno. In ogni caso si tratterebbe sempre di un caso di risposta troncata: quelle poche note mi rendono “confidente” del fatto che se volessi potrei richiamare alla memoria il resto della sequenza musicale, anche se non è vero.55 Ma che cosa accade a chi è stonato? Badiamo: non sto parlando di uno stonato a dimensioni cliniche, basta pensare a quegli stonati “moderati” che sanno riconoscere una musica ma quando tentano di canterellarla gli astanti li invitano a smettere. Uno stonato di tal fatta avrebbe in mente (o in qualsiasi apparato di registrazione mnemonica che ne faccia le veci), in qualche modo misterioso, le prime cinque o venti note, anche se non sarebbe in grado di riprodurle (né a voce né con un’ocarina). Il caso non sarebbe troppo dissimile da quello dell’innamorato che cerca in ogni momento di evocare l’immagine

della persona amata, non è mai soddisfatto di quello che evoca, sarebbe assolutamente incapace di farne un ritratto e tuttavia appena l’incontra la riconosce. Di fronte all’ingordigia del proprio desiderio, tutti gli innamorati sono immaginativamente stonati. Lo stonato possiede uno schema di riconoscimento minimo, più pallido di quello che permetterebbe a moltissimi di disegnare silhouette di un topo, o il profilo della penisola italiana, e tuttavia quando viene sottoposto allo stimolo, riconosce la configurazione. Lo stonato non ha idea di che cosa sia un intervallo di quinta, né saprebbe riprodurlo a voce, ma potrebbe riconoscerlo (anche senza saperlo nominare) come configurazione nota quando l’ascolta. Così riconosciamo SV2 da alcuni tratti, talora melodici, talora ritmici, talora timbrici, e in base a un tipo fisionomico “troncato”, in cui magari si sono pertinentizzati tratti del tutto assenti dal tipo fisionomico altrui. Mentre un insieme di conoscenze enciclopediche ricchissime (come il sapere che SV2 è una composizione strutturata così e così, scritta da Bach nel giorno tale, eccetera) possono essere nulle per il riconoscimento, tipi troncati e sovente del tutto idiosincratici possono bastare. Il fatto che sovente procediamo per tipi cognitivi troncati rinvia alla massima pragmatica di Peirce: “Per stabilire il significato di un concetto intellettuale si dovrebbe considerare quali conseguenze pratiche dovrebbero concepibilmente risultare necessariamente dalla verità di quel concetto; e la somma di queste conseguenze costituirà l’intero significato di quel concetto” (CP 5.9). Infatti per sapere se consentire col giudizio percettivo altrui questa è una esecuzione di SV2 o per verificare il mio (pronunciato azzardosamente dopo non molte note del Preludio) dovrei conoscere tutte le sue remote conseguenze illative: compreso il fatto che il brano dovrà continuare in un certo modo, riconoscibile quando ascolto le note. Ma è anche possibile che di SV2 abbia sempre ascoltato solo l’Allemanda e la Corrente e che quindi non sappia affatto (che non sappia mai) come sia la Giga finale. Semplicemente nel riconoscere azzardiamo che con ogni probabilità la fine sarà come deve essere. Manovriamo insomma degli schemi fisionomici vaghi ma ottativi. In questi casi l’unica garanzia è il consenso della Comunità - e tanto peggio se nel mio esperimento mentale la Comunità era ridotta soltanto a due individui. Per il resto provvederà poi la serie degli interpretanti:

quando tornerà la luce potremo leggere entrambi sulla copertina del Cd il titolo del brano e solo allora la Comunità, per intepretanti pubblicamente registrati nell’enciclopedia, ci dirà che non avevamo sbagliato.

3.7.10. Alcuni problemi aperti Abbiamo ammesso che, per quanto troncato, posseggo un tipo cognitivo di SV2. È identico al contenuto nucleare? Non direi perché, per rozzo che sia il contenuto nucleare, dovrebbe poter essere interpretato, mentre abbiamo appurato che qualcuno può riconoscere SV2 senza poterne accennare neppure una nota o scriverne le prime battute sul pentagramma. Quindi l’unica interpretazione che costui potrebbe fornire del nome SV2 sarebbe “composizione scritta da Johann Sebastian Bach inizialmente per violoncello, il giorno tale e tale...”, e saremmo di fronte a una interpretazione verbale. Oppure si potrebbe mostrare la partitura corrispondente, e saremmo di fronte alla interpretazione per ostensione dell’interpretazione grafica di un evento sonoro. Quindi i TC troncati hanno la caratteristica di essere del tutto scollati dal contenuto, nucleare o meno che esso sia.56 Ci sono altri “oggetti” di conoscenza per i quali si verifica lo stesso fenomeno di scollamento? Un caso molto affine a quello di SV2 riguarda TC di luoghi, privati, sufficienti al riconoscimento soggettivo, difficilmente interpretabili pubblicamente, totalmente scollati dal CN. Se mi trasportassero bendato nella mia città natale, e poi mi lasciassero all’angolo di una strada, riconoscerei subito - o abbastanza presto - dove mi trovo. Lo stesso potrei dire se mi lasciassero a Milano, Bologna, Parigi, New York, Chicago, San Francisco, Londra, Gerusalemme, Rio de Janeiro, città che riconoscerei se non altro dalla skyline (cfr. Lynch 1966). Questa mia conoscenza, eminentemente visiva, rimane privata, perché difficilmente potrei dare a qualcuno la descrizione della mia città che gli permetta di riconoscerla in circostanze analoghe. Che direi? Che è una città con vie di solito parallele, un campanile molto alto a forma di matita, un fiume che la separa da una Cittadella? Troppo poco, la descrizione non basterebbe a identificare il luogo. Questi TC privati sono talora vividissimi, possiamo raccontare a noi stessi com’è la nostra

città, senza poterlo raccontare ad altri. Sembra che le esperienze visive siano più verbalizzabili di quelle musicali, ma ecco che io (se non Roberto) potrei pur sempre interpretare SV2 fischiettando le prime note, ma non saprei interpretare a qualcun altro la forma (per me inconfondibile) di via Dante ad Alessandria (potrebbero farlo, ma lavorando molto, un architetto, un pittore, un fotografo, ma allora non parleremmo più di TC bensì di CM). Inoltre il mio tipo cognitivo non avrebbe nulla a che fare con il CN che faccio corrispondere al nome della città (e che si ridurrebbe a “Alessandria è una città del Piemonte”). Anche nei casi in cui fa parte del CN qualche particolare curioso, come il fatto che a Roma ci sono le rovine di un grande anfiteatro o che New York è un città con molti grattacieli, l’informazione non permetterebbe di distinguere Roma da Nîmes, o New York da Chicago - né mi permetterebbe di riconoscere che sono a Roma se fossi depositato in una strada intorno a Piazza Navona (ciò che invece posso fare benissimo). Si potrebbe continuare in questa tipologia di casi dubbi. Io riconosco benissimo Sharon Stone quando la vedo in un film, ma sono incapace di spiegare ad altri come riconoscerla (salvo dire che è bionda e affascinante, ma è poco), e associo tuttavia al suo nome un CN (essere umano di sesso femminile, attrice americana, ha recitato in Basic Instinct). Io sull’autostrada distinguo benissimo una Lancia da una Volvo, ho un CN associato a entrambi i nomi, ma non so spiegare a qualcuno come distinguerle, se non in modo vago. È evidente che nel nostro modo di avvicinarci agli oggetti del mondo (e di parlarne agli altri) non tutto è limpido, non tutto va sempre liscio. Quando non va del tutto, non c’è problema, semplicemente c’è qualcuno che non sa qualcosa, così come non si sanno i significati di molte parole o non si sanno riconoscere oggetti inediti. Il problema nasce quando non dovrebbe andare, eppure in qualche modo va, come nel caso del riconoscimento di SV2. Credo ci si debba attenere a una visione abbastanza liberale: per molte delle nostre esperienze cognitive, TC e CN coincidono, e per altre no. Non credo che questa ammissione sia una resa. È solo un contributo filosofico a una discussione in atto. Accontentiamoci per ora dei casi chiari (il topo, la sedia), e iscriviamo i casi ambigui alla lista dei fenomeni di cui sappiamo ancora pochissimo.

3.7.11. Dal TC pubblico a quello dell’artista Un TC è sempre un fatto privato, ma diventa pubblico quando viene interpretato come CN, mentre un CN pubblico può provvedere istruzioni per la formazione dei TC. Quindi in un certo senso, benché i TC siano privati, essi sono continuamente sottoposti a un controllo pubblico, e la Comunità ci educa passo per passo ad adeguare i nostri a quelli altrui. Accade con il controllo dei TC quel che accade con enunciati d’occasione avventati. Se io dico che sta piovendo quando la mia epidermide è colpita da impercettibili particelle di umidità, ma non sta in effetti cadendo acqua dal cielo, gli altri si affretteranno a dirmi che quello che avverto è brina e non pioggia, e mi istruiranno su come distinguere la pioggia dalla brina, e come applicare correttamente i due termini quando verbalizzo il mio giudizio percettivo. I TC diventano pubblici perché nel corso dell’educazione essi ci vengono insegnati, rivisti, corretti, arricchiti secondo lo stato dell’arte sancito dalla Comunità. Perché il cane ci viene già presentato facendoci notare che ha quattro zampe, e non due come la gallina, e siamo incoraggiati a pertinentizzare la sua natura amichevole, siamo invitati a non averne timore, ad accarezzarlo, e siamo avvertiti che guaisce quando gli pestiamo la coda. Perché siamo ben presto avvertiti che il sole è in realtà più grande di quanto lo vediamo, e di quanto immagineremmo che fosse. Si è detto che i tipi fisionomici degli individui possono essere molto privati. Eppure nell’interazione comunicativa anche i tipi fisionomici vengono, per così dire, messi in comune attraverso catene di interpretazioni: è possibile che Marco e io abbiamo un diverso TC di Gianni, ma di solito con altri amici ci scambiamo descrizioni di Gianni, facciamo osservazioni sul suo modo di ridere, diciamo che è più robusto di Roberto, ne vediamo delle fotografie che giudichiamo più o meno somiglianti... Insomma, si stabiliscono (almeno per la cerchia delle nostre conoscenze private o per molti personaggi pubblici) delle sorte di convenzioni iconografiche, e quanto esse contino per i personaggi pubblici ce lo dice il fatto che li riconosciamo anche in caricatura (la caricatura essendo l’arte di accentuare, o addirittura di scoprire, i tratti tipici più salienti di un volto). Tipi molto privati potrebbero appartenere agli artisti. Un pittore ha una percezione della differenza tra colori molto più affinata di quella

della persona comune, e certamente Michelangelo aveva del corpo umano un tipo cognitivo molto più complesso di un modello 3D. Ma questo non implica affatto che il suo tipo fosse destinato a rimanere privato e idiolettale. Al contrario, un modello 3D è evidentemente il tipo elementare su cui in genere si concorda nel percepire un corpo umano, ma la continua interpretazione degli anatomisti, dei pittori, degli scultori o dei fotografi, serve a modificarlo e ad arricchirlo. Solo per alcuni, ovviamente: si ha una divisione del lavoro cognitivo come se ne ha del lavoro linguistico e come ci sono codici elaborati e codici ristretti, nello stesso senso in cui un chimico ha dell’acqua una nozione più ricca di quella delle persone comuni. Come nella comunicazione linguistica si fanno sempre transazioni tra competenze più o meno ristrette o allargate, così accade anche nel “commercio” dei TC. Per questo si dice che gli artisti arricchiscono la nostra capacità di percepire l’ambiente. Un artista (e questo si intendeva con il concetto di straniamento proposto dai formalisti russi) tenta continuamente di ricorreggere i TC di corso corrente, come se percepisse ogni cosa come un oggetto sino ad allora ignoto. Cézanne o Renoir ci hanno addestrato a guardare in modo diverso, in certe circostanze di particolare felicità e freschezza percettiva, fogliame e frutti, o la carnagione di una fanciulla. Ci sono delle linee di resistenza nel campo stimolante che si oppongono all’invenzione artistica incontrollata (o impongono all’artista di raffigurare non oggetti del nostro mondo ma di un mondo possibile). Per questo non sempre la proposta dell’artista viene completamente assorbita dalla Comunità. È difficile che arriviamo a concepire un TC del corpo femminile ispirato alla Mariée mise à nu di Duchamp; e tuttavia il lavoro degli artisti cerca sempre di mettere in questione i nostri schemi percettivi, se non altro invitandoci a riconoscere che in certe circostanze le cose potrebbero anche apparirci in modo diverso, o che esistono possibilità di schematizzazione alternativa, che rendono pertinenti in modo provocatoriamente abnorme alcuni tratti dell’oggetto (la scheletrica longilineità dei corpi, per Giacometti, le tendenze incontrollabili della carne e del muscolo, per Botero). Ricordo una serata in cui facevamo giochi di società, tra cui una variante delle “belle statuine”, dove alcuni soggetti dovevano lasciare indovinare a quale opera d’arte si riferiva la loro rappresentazione mimica. A un certo punto alcune ragazze si sono presentate (in un

gruppo ben composto) disarticolando le membra, e deformando i tratti del viso. Quasi tutti hanno riconosciuto il rinvio alle Demoiselles d’Avignon. Se il corpo umano può interpretare la rappresentazione provvistane da Picasso, questa rappresentazione coglieva dunque certe possibilità del corpo umano. kant e l ornitorinco

4. L’ORNITORINCO TRA DIZIONARIO ED ENCICLOPEDIA

4.1. Montagne e MONTAGNE Come al solito, immaginiamoci una situazione. A Sandra, che sta per iniziare un viaggio in macchina in Australia da nord a sud, dico che non può tralasciare di visitare, al centro del continente, Ayers Rock, una delle innumerevoli ottave meraviglie del mondo. Le dico che se, sul percorso Darwin-Adelaide, passa per Alice Springs e riesce a fare quella che nel gergo delle agenzie turistiche si chiama una “bretella”, deve girare a sud-ovest e procedere per il deserto, sino a che vedrà una montagna, evidentissima perché sorge al centro della pianura, come la cattedrale di Chartres al centro della Beauce: e quella sarà Ayers Rock, configurazione orografica favolosa, che cambia di colore a seconda delle ore del giorno e appare meravigliosa al tramonto. Io le sto dando istruzioni non solo per il reperimento, ma anche per l’identificazione di Ayers Rock, e tuttavia provo un certo disagio, come se la ingannassi. E quindi le dico che non le ho mentito dicendole che (ia) Ayers Rock è una montagna ma non le dico il falso se al tempo stesso affermo che (iia) Ayers Rock non è una montagna. Sandra ovviamente reagisce ricordandomi che, secondo ogni buona creanza vero-funzionale, se (ia) è vero allora (iia) deve essere falso, e viceversa. Allora le ribadisco la differenza tra CN e CM (in questa storia Sandra ha già letto questo libro, meno questo paragrafo), e le spiego che Ayers Rock esibisce tutte le caratteristiche che attribuiamo alle montagne, e se ci fosse richiesto di dividere gli oggetti che conosciamo tra montagne e non-montagne, certamente metteremmo Ayers Rock nella prima categoria; è vero che siamo abituati a riconoscere le montagne come qualcosa che sale a grande altezza dopo essere stato preceduto da un lento declivio collinare, sempre più impervio, mentre Ayers Rock si staglia isolata e a strapiombo in mezzo alla pianura, ma il fatto che si tratti di una montagna curiosa e atipica non ci dovrebbe preoccupare più del fatto che lo struzzo, in quanto uccello, sia egualmente curioso e atipico, senza per questo cessare di essere percepito come un uccello. Tuttavia, dal punto di vista scientifico, Ayers Rock non è una montagna, è una pietra: è un solo sasso, ovvero un monolito infitto nel terreno come se un gigante lo avesse scagliato dal cielo. Ayers Rock è

una montagna dal punto di vista del TC, ma non lo è dal punto di vista del CM, ovvero di una competenza petrologica o litologica che dir si voglia. Sandra capisce benissimo perché non le ho detto di procedere a sudovest sino a che non avesse visto una pietra - perché in tal caso essa sarebbe andata avanti puntando lo sguardo a terra, per identificare pietre standard, senza guardare in alto. Però mi direbbe che, visto che sono in vena di proporle paradossi logici, farei meglio a riscrivere (ia) e (iia) in questo modo: (ib) Ayers Rock è una montagna e (iib) Ayers Rock non è una MONTAGNA. Così sarebbe chiaro che (ib) asserisce che Ayers Rock ha le proprietà percettive di una montagna e (iib) asserirebbe che essa non è MONTAGNA in un sistema categoriale. Naturalmente Sandra sottolineerebbe vocalmente, con tratti sovrasegmentali, l’uso del maiuscoletto, proprio per mostrare che i termini in tale carattere stanno per quelle che in semantica composizionale sono chiamate proprietà dizionariali, che per alcuni sono dei primitivi semantici, e che in ogni caso implicano un’organizzazione categoriale, nel senso in cui si è detto nel capitolo precedente. Salvo che a quel punto mi farebbe notare un curioso paradosso. I sostenitori di una rappresentazione a dizionario sostengono che essa tiene conto di relazioni che sono interne al linguaggio, prescindendo da elementi di conoscenza del mondo, mentre una conoscenza in formato di enciclopedia presupporrebbe conoscenze extralinguistiche. I sostenitori di una rappresentazione a dizionario, per poter spiegare in modo rigoroso il funzionamento del linguaggio, ritengono che si debba ricorrere a un pacchetto di categorie semantiche organizzate gerarchicamente (come OGGETTO, ANIMALE vs VEGETALE, MAMMIFERO vs RETTILE) tal che - anche senza saper nulla circa il mondo - si possan fare diverse inferenze, del tipo se mammifero allora animale, se questo è un mammifero allora non è un rettile, è impossibile che qualcosa sia al tempo stesso un rettile e non sia un animale, se questo è un rettile allora non è un vegetale, e tanti altri piacevoli apoftegmi che, a detta degli esperti, noi pronunceremmo abitualmente quando per esempio ci rendiamo conto di aver preso in mano una vipera mentre andavamo per asparagi. La conoscenza enciclopedica sarebbe invece di natura scoordinata, dal formato incontrollabile, e praticamente del contenuto enciclopedico

di cane dovrebbe far parte tutto quello che si sa e si potrebbe sapere sui cani, persino il particolare per cui una cagnetta di nome Best è posseduta da mia sorella - insomma un sapere incontrollabile persino da Funes el Memorioso. Naturalmente non è proprio così, perché si possono considerare come conoscenze enciclopediche solo quelle che la Comunità ha in qualche modo registrato pubblicamente (e inoltre si ritiene che la competenza enciclopedica sia compartecipata per settori, secondo una sorta di divisione del lavoro lingistico, o attivata in modi e formati diversi a seconda dei contesti); ma è certo che, circa gli oggetti e gli eventi di questo mondo, per non dire di altri, di fatti se ne possono conoscere sempre di nuovi, e quindi non ha torto chi trova il formato enciclopedico difficile da maneggiare. Si è tuttavia verificato il curioso accidente per cui, dato che i repertori che registrano in modo succinto le proprietà dei termini si chiamano “dizionari”, mentre quelli che indulgono in descrizioni complesse si chiamano “enciclopedie”, si considera la competenza dizionariale come quella indispensabile all’uso della lingua da parte di ciascuno. L’episodio di Ayers Rock ci direbbe invece che, per riconoscere quell’oggetto, e per poterne parlare tutti i giorni, conta moltissimo la caratteristica percettiva (non linguistica) di apparire come una montagna (in base a molteplici proprietà fattuali), mentre il fatto che non sia una MONTAGNA bensì una PIETRA è un dato riservato solo a una élite che compartecipa un sapere enciclopedicamente vastissimo. Pertanto Sandra mi farebbe notare che dunque la gente, quando parla come mangia, va a enciclopedia, mentre solo i dotti ricorrono al dizionario. E non avrebbe affatto torto. L’intera faccenda sarebbe confermabile anche in termini storici. Se andiamo a vedere nelle enciclopedie ellenistiche e medievali, troviamo solo descrizioni enciclopediche che ci dicono o come qualcosa appare (per Alessandro Neckham il coccodrillo era un serpens aquaticus bubalis infestus, magnae quantitatis) o come qualcosa può essere trovato (istruzioni per catturare un basilisco). In genere si ha un accumulo di tratti enciclopedici per di più aneddotici, come accade nel Bestiario di Cambridge: “Il gatto è detto musio perché tradizionalmente nemico dei topi. Il più comune catus gli deriva dall’abitudine di capturare... perché capta, cioè vede. È infatti dotato di vista così acuta da poter penetrare le tenebre della notte con occhi scintillanti”.1 Quando si arriva a dizionari come quello della Crusca del 1612 ecco la

definizione di gatta (ammirevole la decisione politically correct di mettere il lemma al femminile, malgrado poi si usi il pronome egli): “Animal noto, il quale si tien nelle case, per la particolar nimicizia ch’egli ha co’ topi, acciocché gli uccida”. Punto e basta. Come si vede, non esistevano un tempo definizioni dizionariali (tranne che per il tradizionale “animale mortale razionale”) e i primi tentativi in proposito li troviamo nei dizionari delle lingue perfette, come nello Essay toward a Real Character di John Wilkins (1668) che tenta di definire l’intero ammobiliamento dell’universo per genere e differenza specifica, basandosi sui primi tentativi di tassonomia scientifica. Ma, dopo avere elaborato una tavola di 40 Generi maggiori, suddivisi da 251 Differenze peculiari per derivarne 2030 specie, Wilkins (se prendiamo ad esempio la classificazione delle “bestie vivipare dotate di zampa”), riesce a distinguere la volpe dal cane ma non il cane dal lupo (cfr. Eco 1993: 259, fig. 12.2). E se poi si vuole sapere che cosa sia un cane e che cosa faccia, bisogna andare a controllare le Differenze, le quali non si presentano come primitivi dizionariali, ma sono vere e proprie descrizioni enciclopediche di proprietà empiriche (per esempio, i rapaci hanno usualmente sei incisivi aguzzi e due lunghe zanne, i dog-kind hanno la testa oblunga e per questo si distinguono dai cat-kind che ce l’hanno rotonda, e il cane si differenzia dal lupo perché è domestico-docile mentre il lupo è ostile alle pecore). Lo schema dizionariale è uno strumento di classificazione, non uno strumento di definizione; è come il metodo biblioteconomico Dewey, che ci permette di individuare un libro dato tra le migliaia di scaffali di una biblioteca, e di inferirne l’argomento (se si conosce il codice) ma non il contenuto specifico.2 Visto quindi che le tassonomie scientifiche si profilano in modo rozzo nel XVII secolo e si stabiliscono in modo organico solo a partire dal XVIII secolo, si arriverebbe alla conclusione paradossale che prima di allora (in assenza di strutture dizionariali), dall’apparizione dell’Homo Sapiens sino almeno al XVII secolo, non esistendo competenza dizionariale, nessuno riusciva a usare decentemente la propria lingua (Aristotele e Platone o Descartes e Pascal parlavano, ma non si capivano) e nessuno riusciva a tradurre da una lingua all’altra. Poiché l’esperienza storica contraddice questa inferenza, si deve concludere che, se l’assenza di una competenza in forma di dizionario non ha impedito all’umanità di parlare e capire per millenni, essa è, se

non irrilevante, certamente non decisiva ai fini della competenza linguistica. Basterebbe forse affermare che il CN è composto in massima parte di tratti di carattere enciclopedico, spesso disorganizzati, mentre forme di competenza dizionariale strutturata appaiono solo in rappresentazioni di CM. Ma la cosa non è così semplice. Forse bocceremmo a un esame di zoologia gli autori dei bestiari medievali, ma non si può negare che a modo proprio cercassero di costituire delle categorie quando definivano il coccodrillo (in termini di CN) come un serpente acquatico, evidentemente sottintendendo che questa categoria si opponeva a quella dei serpenti terrestri. Inoltre, se esistono dei primitivi semiosici, delle distinzioni precategoriali come quella di “animale” (nel senso di essere animato), nel decidere di percepire una zanzara come un animale la si colloca (in qualche modo confuso) in un ordine categoriale, così come si mettono insieme un pollastro e un fungo mangereccio tra le “cose commestibili”, opponendole a un rinoceronte e a un fungo velenoso (cose pericolose).

4.2. ‘Files’ e ‘directories’ Cerchiamo allora di paragonare i nostri processi conoscitivi, dalle prime percezioni alla costituzione di un qualsiasi sapere, non necessariamente scientifico, alla organizzazione del nostro computer. Noi percepiamo le cose come insiemi di proprietà (un cane è un animale peloso, a quattro zampe, con la lingua fuori, che abbaia, eccetera). Ci costruiamo, per riconoscere o identificare le cose, dei files (privati o pubblici: un file può essere farina del nostro sacco, o esserci comunicato dalla Comunità). A mano a mano che il file si definisce, giudicando su similarità o differenze, si decide di inserirlo (o la Comunità ce lo presenta come già inserito) in un dato directory. Talora, per esigenze di consultazione, si richiama sullo schermo l’albero dei directories e, se si ha una vaga idea di come lo si è organizzato, sappiamo che in un dato directory dovrebbero trovarsi i files di un certo tipo. Procedendo nel lavoro di raccolta dei dati, si può decidere di spostare un file da un directory all’altro. Ma se il lavoro si complica, occorre suddividere certi directories in subdirectories, e a un certo

punto si può decidere di ristrutturare l’intero albero dei directories. Una tassonomia scientifica altro non è che un albero di directories e subdirectories, e nel passaggio tra le tassonomie del XVII secolo a quelle del XIX secolo si è semplicemente (semplicemente?) ristrutturato, e più di una volta, l’albero dei directories. Questo esempio computeristico contiene però una insidia. In un computer i files sono pieni (nel senso che sono delle raccolte d’informazioni) mentre i directories sono vuoti - ovvero possono essere raccolte di files, ma, se mancano i files, non contengono altre informazioni. Quando invece in una tassonomia scientifica (come già si era detto in Eco 1984: 2.3) si inseriscono, poniamo, i CANIDI tra i MAMMIFERI, dicendo che cane e lupo sono mammiferi non si vuole solo dire che sono ospitati nel directory che si chiama mammiferi: lo scienziato sa che i MAMMIFERI, in generale (siano essi CANIDI o FELIDI), sono caratterizzati da modalità riproduttive comuni. Questo vale a dire che il tassonomo non può aprire un directory intitolato, poniamo, ai CRYPTOTHERIA, riservandoci di metterci dentro, quando capiterà il caso, dei files qualsiasi: deve avere deciso quali siano le caratteristiche (magari novissime) dei CRYPTOTHERIA, in modo da giustificare, in base alla presenza di queste caratteristiche in un dato animale, l’inserzione del file che lo riguarda in quel directory. Questo fa sì che il tassonomo, quando dice che un certo animale è un MAMMIFERO, sa quali caratteristiche generali possegga, anche se non sa ancora se abbia una forma più simile al bue o al delfino. Pertanto dovremmo pensare che ogni directory contenga una “etichetta” con una serie di informazioni sui caratteri comuni degli oggetti descritti nei files. Basta pensare, come già accade per certi ambienti operativi per i files, ovvero che sia possibile registrare il nome di un directory non come semplice sigla, ma come testo; in tal caso il directory MAMMIFERI apparirebbe registrato come MAMMIFERI (POSSEGGONO LE TALI E TALI PROPRIETÀ RIPRODUTTIVE). In effetti termini tassonomici come mammiferi, OVIPARI, FISSIPEDI O UNGULATI esprimono moltissime proprietà. Nel sistema linneano nomi come Poa bulbata contengono tutte le informazioni che Pitton de Tournefort era ancora costretto a elencare come “Gramen Xerampelinum, miliacea, praetenui, ramosaque, sparsa canicula, sive xerampelinum congener, arvense, aestivum, gravem minutissimo semine” (cfr. Rossi 1997: 274).

Tale condizione non è affatto indispensabile per una semantica a dizionario: infatti, posto che, poniamo, la specie dei PRISSIDI sia posta nel subdirectory della famiglia dei PROSIDI, e i PROSIDI appartengano all’ordine dei PROCEIDI, non è necessario sapere che proprietà abbiano un proceide o un proside per poter trarre inferenze (verissime) del tipo se questo è un prisside allora è certamente un proside, e non è possibile che qualcosa sia un prisside e non sia un proceide. Sfortunatamente questo, se è il modo in cui si ragiona quando si fanno esercizi di logica (attività raccomandabile), e il modo in cui risponde a un esame di zoologia chi si sia preparato mnemonicamente senza capire di che cosa sta parlando (atteggiamento criticabile), non è il modo in cui ragioniamo per capire e le parole che usiamo e i concetti che vi corrispondono, tal che sarebbe non inverosimile che qualcuno, udendo dire che tutti i prissidi sono prosidi, richieda un supplemento d’istruttoria. Ma se pure la dialettica tra directory e files può essere assimilata a quella tra Dizionario ed Enciclopedia, o tra conoscenza categoriale e conoscenza per proprietà, questa divisione non è omologa a quella tra CN e CM. Infatti noi organizziamo directories anche a livello dei CN (ponendo i gatti tra gli animali e le pietre tra le cose inanimate), salvo che i criteri di organizzazione sono meno rigorosi, per cui va bene, o almeno ci è andato bene per gran tempo, porre il file sulle balene nel directory dei pesci, e quando riconosciamo che Ayers Rock ha molte proprietà delle montagne, senza rendercene conto lo poniamo nel disordinato directory degli oggetti montuosi, senza sottilizzare troppo. Quindi intendo per competenza dizionariale qualcosa che si limita a registrare (sia in termini di CN che di CM), per una certa entità, l’appartenza a un certo nodo di un albero dei directories. La competenza enciclopedica s’identifica invece sia con la conoscenza dei nomi dei directories e dei files che con la conoscenza del loro contenuto. La totalità dei files e dei directories (quelli attualmente registrati e persino quelli cancellati e riassestati o riscritti nel corso del tempo) rappresenta quella che in varie occasioni ho chiamato Enciclopedia come idea regolativa - Biblioteca delle Biblioteche, postulato di una globalità del sapere irrealizzabile da alcun parlante singolo, tesoro in gran parte inesplorato della Comunità, in perpetuo accrescimento.

4.3. La categorizzazione selvaggia È a livello del CN che si organizzano e riassestano di continuo categorie “selvagge”, che nascono in gran parte dal riconoscimento di tratti pre-categoriali costanti. Per esempio in Occidente il pollo entra a far parte degli animali commestibili mentre ne rimane escluso il cane, il quale però vi rientra a pieno diritto in regioni asiatiche dove lo si tiene a girare intorno alla casa come da noi un tacchino o un maiale, sapendo che a un certo momento si dovrà mangiarlo.3 È invece nei settori specializzati del CM che le negoziazioni si fanno più puntigliose. Si pensi alle nozioni di minerale, di vegetale, o di insetto. Molti parlanti, che sarebbero esitanti a riconoscere se un certo animale (per esempio la focena) sia un mammifero, ammetterebbero tranquillamente che la mosca o la pulce sono insetti. Si potrebbe dire che si tratta di una categoria zoologica, inizialmente propria di un CM, che nel corso del tempo è stata catturata, per così dire, dal CN? Non direi: questo accadrebbe se ci avvedessimo che la competenza comune ha accettato tranquillamente l’idea che le mucche siano mammiferi (nozione che si trasmette per apprendimento scolastico), ma è certo che la gente riconosceva insetti prima che le tassonomie decidessero di chiamare così una classe di ARTROPODI. Il termine MAMMIFERI, coniato nel 1791, era stato preceduto, nel Systema Naturae di Linneo (1758), da MAMMALIA (per la prima volta esteso anche ai CETACEI), e dipende da un criterio funzionale che tiene conto del sistema riproduttivo. Non è così con insetto, che esisteva in latino come insectus (calco dal greco entoma zoa) e significava animale “tagliato”: si tratta della interpretazione di un tratto morfologico che tiene conto della forma tipica di questi animaletti (della sensazione istintiva che quei corpi potrebbero essere tagliati e divisi là dove si congiungono a collo di bottiglia o per anelli).4 La categoria “selvaggia” degli insetti ha ancora tale forza che noi comunemente chiamiamo insetti molti animali che gli zoologi non riconoscono come tali, quali per esempio i ragni (che sono ARTROPODI ma non INSETTI bensì ARACNIDI). Così che a livello di CN troveremmo per lo meno bizzarro disconoscere che un ragno sia un insetto, mentre a livello di CM il ragno non è un INSETTO.

Quindi “insetto” o è un primitivo semiosico, di carattere precategoriale, che la lingua comune ha regalato ai naturalisti (mentre quella di mammifero è una categoria che eventualmente i naturalisti hanno regalato alla lingua comune), o è in ogni caso una categoria selvaggia. Nel categorizzare selvaggiamente raggruppiamo gli oggetti per quello che ci servono, per il loro rapporto con la nostra sopravvivenza, per analogie formali, eccetera. La nostra indifferenza nel ritenere un animale come mammifero è dovuta al fatto che la categoria scientifica di MAMMIFERO si estende a coprire animali non solo molto diversi da vedere, ma anche da trattare (alla fin fine, ci sono mammiferi che noi mangiamo e mammiferi che mangiano noi), mentre gli insetti ci appaiono più o meno morfologicamente simili, e tutti ugualmente fastidiosi. Queste categorie selvagge riassumono di solito per il parlante, quasi stenograficamente, una gran quantità di tratti e contengono implicitamente anche istruzioni per l’identificazione o il reperimento. Quando Marconi (1997: 64-65) suggerisce che, anche se non sappiamo come sia e come appaia l’uranio, se però ci dicono che è un minerale, sapremmo probabilmente identificarlo quando ci venisse mostrato insieme a un frutto e a un animale, entrambi sconosciuti, sta riferendosi alla categoria selvaggia dei minerali, non ai MINERALI. Infatti, se a qualcuno privo di conoscenze scientifiche dicessimo di identificare un ARTROPODO tra un ragno, un millepiedi e una protesi ortopedica, non saprebbe che cosa fare. Quando invece si sa (approssimativamente) che l’uranio è un minerale, andiamo a cercare nel directory selvaggio dei minerali, come quando ci si dice che Ayers Rock è una montagna andiamo a cercare nel directory selvaggio delle montagne (e se ci avessero detto che era una pietra, saremmo andati a cercare in un directory dove non avremmo trovato buone istruzioni per l’identificazione). Ora, se consideriamo la competenza categoriale (o dizionariale) riferendoci al suo modello scientifico, ci è stato detto che una delle sue caratteristiche è che essa si compone di tratti non cancellabili: se sappiamo che una focena è un CETACEO, un CETACEO è un MAMMIFERO, e un MAMMIFERO è un ANIMALE, non si può dire di qualcosa che sia una focena e non sia un ANIMALE, e se (tanto per non attenerci sempre agli esempi canonici) in un certo pianeta le focene fossero dei robot, il fatto che non siano ANIMALI ci impedirà di

ritenerle focene: e saranno delle focene-giocattolo, delle pseudo-focene, delle focene virtuali, ma non focene. Invece una competenza folk ci dice che una focena è simile a un delfino, ha un muso arrotondato, una pinna dorsale triangolare (e via dicendo su habitat, abitudini, intelligenza o commestibilità delle focene), ma qualsiasi tratto potrebbe essere in linea di diritto cancellabile, perché il tipo cognitivo non organizza i tratti gerarchicamente, e neppure ne fissa in modo stretto il numero o la precedenza: possiamo riconoscere focene prognate e camuse, o malformate, con pinna dorsale seghettata, focene che uscirebbero sconfitte in un concorso di bellezza per focene, ma che non per questo sono meno focene delle loro congeneri. I tratti di una tassonomia scientifica sono incancellabili perché sono organizzati per incassamento da iperonimi a iponimi: se un ragno è un ARACNIDE non può non essere un ARTROPODE, pena il collasso dell’intero sistema categoriale; ma proprio perché un ragno è un ARACNIDE non può essere al tempo stesso un INSETTO. Anche a livello di CN il nostro sapere si organizza in files e directories, salvo che l’organizzazione non è gerarchica. Rivediamo alcuni tratti della definizione del topo esaminata in 3.4.3. La gente crede che sono tutti dello stesso tipo La gente pensa che vivono nei posti dove vive la gente Una persona potrebbe tenerne uno in mano - (molti non vogliono tenerli in mano) Il che vuole dire che il file del topo può essere collocato sia nel directory “animali che vivono in casa” (dove già è collocato il file dei gatti) che in quello “animali ripugnanti”, non solo insieme alle mosche e agli scarafaggi (che anch’essi stanno in casa) ma anche con i bruchi e i serpenti. Lo stesso file, a seconda delle occasioni, può essere collocato in più directories contemporaneamente, e prelevato dall’uno o dall’altro a seconda dei contesti. E infatti, come ben sappiamo, il pensiero selvaggio procede per bricolage, che è una forma di assestamento che non contempla l’organizzazione gerarchica.5 Ma se così avviene il file non implicita necessariamente il directory, come nelle tassonomie scientifiche, ovvero è facilissimo negare l’implicitazione quando non faccia comodo: chi alleva graziosissimi topolini bianchi non li colloca tra gli animali ripugnanti. Il coniglio in

Australia è considerato animale dannoso, in certi mercati cinesi si espongono in gabbia, come cibo prelibato, certe “cose” che noi percepiamo come rattacci e che se apparissero nei nostri solai susciterebbero orrore. D’altra parte, da millenni i polli stavano tra gli animali da cortile, mentre (se non già per noi almeno per i nostri discendenti) in quel directory starà solo una specie particolare di polli, detti ruspanti, mentre tutti gli altri saranno classificati tra gli animali da allevamento industriale. A livello di CM un pollo è un UCCELLO e non può non esserlo, mentre a livello di CN un pollo (uccello sino a un certo punto, e certo meno dell’aquila) può o non può essere classificato tra gli animali da cortile.

4.4. Le proprietà non cancellabili La natura selvaggia delle categorizzazioni non scientifiche impedisce dunque che ci siano dei tratti incancellabili? Non sembra, poiché è stato giustamente osservato (Violi 1997, 2.2.2.3) che alcuni tratti appaiono più resistenti di altri, e che questi tratti incancellabili non sono solo etichette categoriali come ANIMALE o OGGETTO FISICO. Nella vita della semiosi ci accorgiamo che siamo restii a cancellare anche alcune proprietà “fattuali” che ci paiono più salienti e caratterizzanti di altre. Moltissimi accetterebbero l’idea che una focena non sia un MAMMIFERO (abbiamo visto che non è un tratto che appartenga al TC della focena, e per secoli si è creduto che fosse un pesce), ma (per poco che uno sappia delle focene) difficilmente accetterebbero l’idea che le focene abbiano la proprietà di vivere sugli alberi. Come spiegare che certe negazioni appaiano più resistenti di altre? Violi (1997, 7.2) distingue tra proprietà essenziali e tipiche: è essenziale che il gatto sia animale, è tipico che miagoli, e la seconda proprietà può essere cancellata mentre la prima no. Ma se così fosse saremmo alla vecchia differenza tra proprietà dizionariali e proprietà enciclopediche. Invece Violi (1997, 7.3.1.3) considera incancellabili anche proprietà funzionali (strettamente connesse al TC in virtù di una affordance tipica dell’oggetto), per cui è difficile dire di qualcosa che sia una scatola negando che possa contenere oggetti (e se non potesse sarebbe una finta scatola).6 Esaminiamo i seguenti enunciati:

(1) I topi non sono MAMMIFERI. Si tratta di un asserto semiotico sulle convenzioni dizionariali esistenti all’interno di un linguaggio dato, o meglio ancora una asserzione sul paradigma tassonomico vigente. All’interno del paradigma l’asserzione è certamente falsa, ma molti sarebbero in grado di riconoscere e nominare un topo senza sapere che (1) è falsa. Potrebbe darsi che (1) debba essere intesa come “asserisco in base a nuove prove fattuali sul loro processo riproduttivo che i topi non possono più essere ascritti ai MAMMIFERI”. Come si vedrà in 4.5 asserzioni del genere hanno circolato per ottant’anni a proposito dell’ornitorinco. In tal senso la prova della loro verità era in prima istanza a carico dei ricercatori che controllavano empiricamente la fisiologia e l’anatomia dell’animale. Ma naturalmente basterebbe cambiare il criterio tassonomico per asserire che l’ornitorinco non è un MAMMIFERO. In ogni caso l’asserzione (1) non si riferisce né al TC né al CN di topo, non fa parte di quella zona di competenza comune di cui ho detto in 3.5.2. Caso mai fa parte del CM: decidano gli zoologi che cosa è più o meno cancellabile per loro. (2) I topi non hanno la coda. Se l’asserzione fosse intesa come retta da un quantificatore universale e riferentesi a tutti i topi esistenti, basterebbe provvedere almeno un topo con la coda per falsificarla. Credo però che difficilmente nella vita quotidiana si facciano asserzioni del genere, che presupporrebbero da parte del parlante l’ispezione previa di tutti i topi (miliardi) uno per uno. Questo enunciato andrebbe semplicemente trascritto come “la proprietà di avere la coda non fa parte del TC del topo né del CN di topo”. Abbiamo visto che i CN sono pubblicamente controllabili, e direi che si può facilmente contestare l’asserzione (2). Quelle cose che noi riconosciamo come topi hanno la coda (in genere), ce l’ha lo stereotipo del topo e ce l’ha il suo prototipo, se esiste da qualche parte. Pare difficile che qualcuno emetta (2) ma è stato possibile, come vedremo, che qualcuno dicesse che l’ornitorinco femmina non ha mammelle (era un caso in cui il TC era in processo di assestamento). Allora, la proprietà di aver la coda è cancellabile o no? Credo che la questione sia malposta: quando si interpreta un TC in principio tutte le proprietà hanno lo stesso valore, anche perché dobbiamo ancora sapere in che misura il tipo sia davvero compartecipato integralmente da tutti i parlanti. La prova del nove la si ha quando si riconosce un’occorrenza. Per cui passiamo al prossimo esempio.

(3) Questo è un topo ma non ha la coda. È possibile trovare un topolino morto e riconoscerlo malgrado la sua mutilazione. Il nostro TC del topo contempla anche la caratteristica coda, eppure questa è una proprietà cancellabile. (4) Questo è un topo ma non è un animale. Qui dobbiamo rifarci a quanto già detto: l’attribuzione di animalità non ha nulla a che fare con l’ascrizione a una categoria, si tratta di un primitivo percettivo, di una esperienza pre-categoriale. Se questo non è un animale non può essere un topo (sarà il solito topo-robot che in molte pagine di filosofia del linguaggio viene cacciato da gatti-robot). Quella di essere un animale è una proprietà non cancellabile. (5) Questo è un topo ma ha la forma sinuosamente cilindrica, affusolata alle estremità, di un’anguilla. Ammesso che qualcuno, senza dover dare un esame di filosofia del linguaggio, sia così sciocco da enunciare seriamente (5), difficilmente acconsentiremmo. Fa parte delle condizioni irrinunciabili (non cancellabili) per riconoscere un topo come tale la sua forma pressoché ovale che si affusola leggermente verso il muso. L’importanza di questa Gestalt è tale che poi possiamo transigere sulla coda, e persino sulla presenza delle zampe. La Gestalt del topo, una volta percepita, ci permette di dedurre le zampe e la coda (se topo allora coda).7 La presenza sul terreno di quattro zampette o di una coda ci permettono invece solo di abdurre il topo che non c’è. In questo caso ci comportiamo come il paleontologo che da una mandibola ricostruisce un cranio, ma perché sta rifacendosi a un TC, sia pure ipotetico, di quell’essere preistorico. Vale a dire che, se fa parte del TC un modello 3D, esso svolge un ruolo così importante per riconoscimento e identificazione che non può essere cancellato. (6) Questo è un topo ma è lungo ottanta metri e pesa otto quintali. Nessuno esclude che, pasticciando con l’ingegneria genetica, questo asserto possa apparire un giorno pronunciabile. Direi che però in tal caso parleremmo dell’apparizione di una nuova specie (li chiameremo topi2 in opposizione ai normali topi1). Basti pensare al tono diverso con cui sarebbe pronunciato l’asserto c’è un topo in cucina a seconda se ci si riferisse a un topo1 o a un topo2. Questo significa che del TC del topo fanno parte dimensioni standard che, per quanto negoziabili, non possono superare una certa soglia. Rimane celebre una domanda di Searle (1979) perché quando si entra in un ristorante chiedendo un hamburger non ci si attende che il cameriere serva un hamburger lungo

un miglio e racchiuso in un cubo di plastica. È curioso che non molto dopo la formulazione di questo esempio una catena di ristoranti americana avesse elaborato un manuale per i propri cuochi in cui si specificavano dimensioni, peso, grado di cottura, quantità di condimento richiesti per un hamburger standard; e non per rispondere a Searle, ma perché è economicamente e industrialmente importante rendere pubblico il concetto standard di hamburger. Naturalmente quella della catena di ristoranti non era soltanto l’elaborazione di un TC bensì di un CM del termine hamburger: ma nel tempo stesso si fissavano le condizioni nucleari perché qualcuno potesse intrattenere in modo intersoggettivamente accettabile e condividibile il tipo dell’hamburger, se non quanto a specificazioni di peso e cottura, almeno per quanto riguarda le sue dimensioni e la sua consistenza approssimativa. Ecco dunque che una proprietà come la dimensione standard appare, se non incancellabile, almeno difficilmente cancellabile. Certo è meno imbarazzante dire che c’è un topo di otto quintali che dire che c’è un topo che non è un animale, ma se per giustificare la prima affermazione bisogna ammettere che si tratti di un topo finto, per giustificare la seconda occorre come minimo postulare un mondo possibile del tutto improbabile, per cui questo topo, se non sarà finto, sarà almeno finzionale o fittizio. (7) Questo è un elefante ma non ha la proboscide. Qui bisogna distinguere tra la proposizione questo è un elefante ma non ha più la proboscide (simile al caso del topo senza coda) e l’asserzione che un dato animale sia un elefante e tuttavia non abbia la proboscide ma il muso fatto in altro modo (poniamo, come il canguro o come l’albatro). Credo che ciascuno reagirebbe sostenendo che in tal caso non si tratta più di un elefante ma di qualche altro animale. Si può immaginare che esistano razze di topi senza coda, ma l’idea di una razza di elefanti senza proboscide non ci convince. Questo caso è infatti simile a (5). La proboscide fa parte della Gestalt caratteristica dell’elefante (più delle zanne, non chiedetemi perché ma provate a disegnare un elefante con la sua bella proboscide e senza zanne, e in genere gli altri dovrebbero riconoscerlo; se invece disegnate una bestia con le zanne ma con il muso rotondo della focena, nessuno dirà che avete disegnato un elefante). Al massimo possiamo dire che la presenza della proboscide non basta a riconoscere un elefante, perché potrebbe appartenere anche

al mammuth, ma certamente la sua assenza elimina l’elefante. È una proprietà non cancellabile. Questo esempio suggerisce che le proprietà cancellabili siano condizioni sufficienti per il riconoscimento (come lo sfregamento del fiammifero per la combustione) mentre le proprietà non cancellabili vengono riconosciute come condizioni necessarie (nel senso in cui non si ha combustione in assenza di ossigeno). La differenza è che in fisica o in chimica si può appurare sperimentalmente quali condizioni siano veramente necessarie, mentre nel nostro caso la necessità di queste condizioni dipende da tanti fattori e percettivi e culturali. Pare intuitivo che un animale progettato da natura senza proboscide non sia più quello che abbiamo deciso di chiamare elefante. E se natura avesse progettato un rinoceronte senza corno? Io credo che dovremmo assegnarlo a un’altra specie e chiamarlo in altro modo, se non altro perché ce lo imporrebbe l’etimologia. Eppure ho il sospetto che saremmo più indulgenti e flessibili sulla faccenda del rinoceronte che su quella dell’elefante. Tanto è vero che mentre il rinoceronte indiano (Rhinoceros unicornis, probabilmente quello che aveva visto Marco Polo) ha un solo corno, il rinoceronte africano (Diceros bicornis, appunto) ne ha due; ma ecco che Longhi dipinge un giorno un rinoceronte, noi tutti lo riconosciamo come tale, eppure è senza corno. Il riconoscimento di una proprietà come non-cancellabile dipende dalla storia delle nostre esperienze percettive. Le strisce della zebra ci paiono proprietà non cancellabili, ma basterebbe che si fossero sviluppate nel corso dell’evoluzione razze di cavalli e di asini con il manto striato, e le strisce diventerebbero cancellabilissime, perché avremmo spostato la nostra attenzione su qualche altro tratto caratterizzante. E forse accadrebbe lo stesso in un universo in cui tutti i quadrupedi avessero la proboscide. Diventerebbero allora non cancellabili - forse - le zanne. Tutta una iconografia romanzesca e cinematografica ci aveva convinto che una proprietà non cancellabile per riconoscere un indiano fossero le penne: ed ecco che arriva il John Ford di Stagecoach che ha il coraggio iconografico di fare apparire all’improvviso, al sommo di un’altura, Geronimo e i suoi, senza penne, e tutta la sala freme in spasmodica attesa dell’assalto alla diligenza, avendo riconosciuto benissimo i pellerossa (in un film in bianco e nero). Potremmo dire che Ford ha probabilmente individuato altri tratti non cancellabili che

determinavano nel profondo il nostro TC, le guance segnate, la grinta impassibile, lo sguardo, chissà.8 Però è riuscito a convincerci costruendo un contesto (una rete di richiami intertestuali e un sistema d’attese, tale da rendere alcuni tratti fisionomici, e la posizione sulle alture, e la presenza di un certo tipo di armi e di abiti) più rilevante della presenza delle penne. Che sia il contesto a stabilire quali siano le proprietà rilevanti, lo si era detto in Eco (1979 e 1994). Consento quindi con Violi (1997 9.2.1 e 10.3.3) quando infine assegna ai contesti la funzione di selezionare le proprietà incancellabili. Le proprietà essenziali diventano dunque quelle che non bisogna disconoscere se, in un certo contesto, si vuole mantenere aperto il discorso, e che possono essere negate solo a prezzo di ripattuire il significato dei termini che stiamo usando. Talora il contesto può essere comune a un’epoca e a una cultura, ed è solo in tali casi che appaiono incancellabili le proprietà dizionariali, che rinviano al modo in cui quella cultura ha classificato gli oggetti che conosce. Ma anche in tali casi le cose procedono in modo sovente complesso, e con molti colpi di scena. Il che ci viene riconfermato da quella che il lettore probabilmente attendeva da tempo, e cioè la vera storia dell’ornitorinco.

4.5. La vera storia dell’ornitorinco9 4.5.1. ‘Watermole’ o ‘duckbilled platypus’ Nel 1798 un naturalista chiamato Dobson invia al British Museum la pelle impagliata di un animaletto che i coloni australiani usavano chiamare watermole, o duckbilled platypus. Da una notizia riportata da Collins nel 1802,10 un animale simile era stato trovato nel novembre 1797 sulle rive di un lago vicino a Hawkesbury: era grande come una talpa, con occhi piccoli, le zampe anteriori presentavano quattro artigli ed erano unite da una membrana, più grande di quella che univa gli artigli delle zampe posteriori. Aveva la coda, il becco di un’anatra, nuotava con le zampe, che usava anche per scavarsi la tana. Era certamente di carattere anfibio. Il testo di Collins unisce un disegno, molto impreciso: l’animale sembra piuttosto una foca, un balenottero, o un delfino, come se, sapendo che nuotava, gli si fosse applicato a prima

vista il TC generico di un animale marino. O forse la fonte è un’altra. Come racconta Gould (1991: 19) nel 1793 il capitano Bligh (proprio quello del Bounty) nel corso di un viaggio in Australia aveva scoperto (e mangiato arrosto, con gusto) un echidna. Ora sappiamo che l’echidna è fratello germano dell’ornitorinco, con cui condivide il privilegio di essere un MONOTREMA. Bligh lo disegna, con molta cura, il disegno verrà pubblicato nel 1802, e assomiglia moltissimo all’ornitorinco di Collins. Se Collins avesse visto il disegno di Bligh non so, ma se non l’avesse visto tanto meglio: se ne concluderebbe che entrambi i disegnatori hanno colto, in due animali diversi, dei tratti generici comuni, a scapito dei tratti specifici (l’ornitorinco di Collins non ha un becco attendibile e sembra adatto a mangiare formiche come l’echidna). Torniamo all’ornitorinco impagliato, che arriva a Londra e viene descritto nel 1799 da George Shaw come Platypus anatinus.11 Shaw (che tra l’altro può esaminare solo la pelle e non gli organi interni) dà vari segni di stupore e perplessità: l’animale gli fa pensare subito al becco di un’anatra innestato (engrafted) sulla testa di un quadrupede. Il termine non è scelto a caso. La pelle arrivava dopo una navigazione nell’Oceano Indiano e si conoscevano all’epoca dei diabolici taxidermisti cinesi abilissimi nell’innestare, per esempio, una coda di pesce in corpi di scimmia, per creare dei mostri sirenoidi. Shaw ha quindi qualche ragione per dubitare di primo acchito che si tratti di un “preparato ingannevole fatto con mezzi artificiali”, ma poi ammette di non essere riuscito a identificare alcun segno di frode. Però la sua reazione è interessante: l’animale è ignoto, non ha mezzi per riconoscerlo, e preferirebbe pensare che non esiste. Ma poiché è uomo di scienza, va avanti. E subito dall’inizio oscilla tra Dizionario ed Enciclopedia. Per capire quello che sta vedendo, cerca subito come trovargli una classificazione: il platipo gli pare rappresentare un nuovo e singolare genus che, nell’organizzazione linneana dei QUADRUPEDI, dovrebbe essere posto nell’ordine dei BRUTA, e dovrebbe stare accanto all’ordine dei MYRMECOPHAGA. Ma subito dopo passa dalle categorie alle proprietà, e descrive forma del corpo, pelliccia, coda, becco, sperone, colore, grandezza (13 pollici), zampe, mandibola, narici; non trova denti, nota che la lingua manca nel suo esemplare, vede qualcosa che gli sembrano occhi, ma troppo piccoli e coperti di pelo perché possano consentire una buona visione, ragione per cui

pensa che siano come quelli della talpa. Dice che dovrebbe essere adatto alla vita acquatica e avanza l’ipotesi che si nutra di animali e piante d’acqua. Cita Buffon: ogni cosa che è possibile per la Natura produrre, è stato di fatto prodotto. Shaw riprende la descrizione nel 180012 rinnovando dubbi ed esitazioni, non osando ammettere l’animale tra i QUADRUPEDI. Dice di aver notizia di altri due esemplari mandati dal governatore del New Holland, Hunter, a Joseph Banks, i quali dovrebbero aver dissipato ogni sospetto d’inganno. Questi esemplari (e pare che Hunter ne avesse inviato un altro alla Literary and Philosophical Society di Newcastle) sono descritti più tardi da Bewick in un Addendum alla quarta edizione della sua General History of Quadrupeds come un animale sui generis con triplice natura, di un pesce, di un uccello e di un quadrupede... Bewick afferma che non si dovrebbe tentare di collocarlo secondo i modi di classificazione vigenti, ma accontentarsi di dare la descrizione di quei curiosi animali così come ci sono stati forniti. Benché poi segua una immagine col titolo “Un animale anfibio”, vediamo che Bewick si rifiuta di classificarlo come PESCE, UCCELLO O QUADRUPEDE ma individua tratti morfologici di pesce, uccello e quadrupede. Finalmente arrivano degli esemplari completi di organi interni, sotto spirito. Ma ancora nel 1800 il tedesco Blumenbach ne riceve uno ancora impagliato (ne avrà due sotto spirito solo l’anno dopo) e lo nomina Ornythorhynchus paradoxus. La scelta dell’aggettivo è curiosa, non corrisponde agli usi tassonomici, e ci dice che Blumenbach cerca di categorizzare qualcosa come incategorizzabile. Dopo di lui prevarrà il nome di Ornythorhynchus anatinus (e si noti che il nome è dizionariale, ma dipende da una descrizione enciclopedica, poiché significa “dal muso di uccello simile a un’anatra”). Nel 1802 gli esemplari sotto spirito (maschio e femmina) visti anche da Blumenbach sono descritti da Home, che racconta anche che l’animale non nuota in superficie ma viene a galla per respirare, come la testuggine. Siccome ha di fronte un quadrupede peloso, Home pensa subito a un MAMMIFERO. Ma un MAMMIFERO deve avere ghiandole mammarie con capezzoli. Ora non solo l’ornitorinco femmina non presenta queste proprietà, ma l’ovidotto invece di formare un utero si apre in una cloaca come negli UCCELLI e nei RETTILI, e questa cloaca serve da canale urinario, da retto e per i fini riproduttivi. Home è un anatomista, non un tassonomo, e quindi non si preoccupa

troppo di classificare, limitandosi a descrivere ciò che vede. Però l’analogia con gli organi riproduttivi di UCCELLI e RETTILI non può non farlo pensare che l’ornitorinco sia un OVIPARO, o forse soltanto oviparo (come ora sappiamo, esso è oviparo, ma non è un OVIPARO) e decide che potrebbe essere ovi-viviparo: le uova si formano nel corpo materno ma poi si dissolvono. Su questa ipotesi Home sarà seguito dall’anatomista Richard Owen, ma nel 1819 propenderà per la viviparità (e in genere questa ipotesi si presenta ogni qual volta si riflette sul paradosso di un animale con pelame che nasce da un uovo). Home trova anche che l’ornitorinco assomiglia all’echidna, già descritto da Shaw nel 1792. Ma due animali simili dovrebbero rimandare a un genere comune, e azzarda che possa essere quello dell’Ornythorinchus Hystrix. Per il resto si diffonde sullo sperone sulle zampe posteriori del maschio, sul becco liscio e il resto coperto di peli, sulla lingua rugosa che tiene luogo di denti, sul pene appropriato per il passaggio del seme, dall’orifizio esterno suddiviso in diverse aperture, così da distribuire il seme su una superficie ampia, eccetera. Alla fine parla di una “tribù” certamente affine agli UCCELLI e agli ANFIBI, avanzando, prima di Darwin, un’idea molto vicina a quella di rapporto evoluzionistico.

4.5.2. Mammelle senza capezzoli Proto-evoluzionista, ecco che nel 1803 Étienne Geoffroy de SaintHilaire crea la categoria dei MONOTREMI (e anche qui il termine esprime una proprietà: “con un solo orifizio”). Non sa ancora dove collocarli, però assume che siano ovipari. Nel 1809 Lamarck crea una nuova classe, i PROTOTHERIA, decidendo che non sono MAMMIFERI perché non hanno ghiandole mammarie e sono probabilmente ovipari, non sono UCCELLI perché non hanno ali, e non sono RETTILI perché posseggono un cuore con quattro cavità.13 Se una classe definisse una essenza, avremmo due bei casi di nominalismo puro. Ma a questo punto il bisogno di categorizzare sfrena la fantasia degli uomini di scienza: nel 1811 Illiger parla di REPTANTIA, intermedi tra RETTILI e MAMMIFERI, nel 1812 Blainville parla di MAMMIFERI dell’ordine degli ORNITHODELPHIA.

È chiaro che è a seconda delle proprietà che l’animale può essere assegnato all’una o all’altra classe, e qualcuno aveva anche già osservato che un neonato col becco non può succhiare latte, e dunque bisognava scordarsi dei MAMMIFERI. Ma il fatto è che anche una ipotesi sulla classe spinge a cercare o a trascurare alcune proprietà, o addirittura a disconoscerle. Si veda la faccenda delle ghiandole mammarie, che vengono scoperte nel 1824 dall’anatomista tedesco Meckel. Sono molto grandi, praticamente coprono tutto il corpo dagli arti anteriori ai posteriori, ma sono visibili solo nel periodo dell’allattamento perché dopo si riducono, e ciò spiega perché non erano ancora state individuate. Un animale con le mammelle è un MAMMIFERO? Sì, se avesse anche i capezzoli, ma l’ornitorinco femmina non li ha, per non parlare del maschio. Ha invece sulla superficie delle ghiandole come dei pori, come se fossero ghiandole sudorifere da cui secerne latte. Oggi sappiamo che è così e che il neonato assume il latte leccando, ma SaintHilaire non aveva tutti i torti nel rifiutare di riconoscere in quegli organi delle mammelle, anche perché era fermamente convinto che i MONOTREMI fossero OVIPARI e quindi non potessero essere MAMMIFERI. Quindi considerava le ghiandole viste da Meckel come qualcosa di simile alle ghiandole laterali del toporagno, che secernono una sostanza per attrarre il compagno nella stagione degli amori. Forse erano ghiandole che secernono un profumo, oppure una sostanza che rende la pelliccia impermeabile all’acqua, oppure come le cosiddette ghiandole mammarie delle focene e delle balene, che non secernono latte ma muco (ma appena è stata avanzata questa ipotesi si scopre una focena in stagione di allattamento, e si vede che secerne latte). Meckel estrae una sostanza simile a latte dalle ghiandole, e Saint-Hilaire dice che non è latte, bensì muco che si raggruma nell’acqua e serve da cibo ai piccoli. Ma Owen, sostenitore dell’ipotesi ovi-vivipara, sospende quella secrezione nell’alcool e ottiene qualcosa che sembra latte, e non muco. Saint-Hilaire non demorde. L’apparato riproduttivo è quello di un animale OVIPARO, un animale OVIPARO non può che produrre un uovo, un animale nato da un uovo non viene allattato. Nel 1829, visto che i MONOTREMI non possono essere MAMMIFERI, non sono UCCELLI perché non hanno né ali né penne, non sono RETTILI perché sono a sangue caldo, coi polmoni avvolti da una pleura e divisi

dall’addome da un diaframma, non possono essere neppure PESCI, Saint-Hilaire decide che bisogna inventare per loro una quinta classe di VERTEBRATI (si noti che all’epoca gli ANFIBI non costituivano ancora classe a sé ed erano classificati normalmente tra i rettili). Nel far questo Saint-Hilaire si appella a un principio che mi pare molto importante. Le tassonomie, dice, non sono solo modi di ordinare, sono guide all’azione. Se si pongono i MONOTREMI tra i MAMMIFERI, si considera risolta la questione, mentre se li si pone a parte, si è costretti ad andare a cercare nuove proprietà. In un certo senso Saint-Hilaire propone di creare un genus “aperto”, per non irreggimentare malamente l’oggetto ignoto, un tipo che deve valere come stimolo alla congettura. E pertanto rimane ostinatamente in attesa di quelle uova non ancora scoperte ma che un giorno o l’altro dovranno venire fuori.

4.5.3. Alla ricerca dell’uovo perduto Come ormai sappiamo, Saint-Hilaire perde la battaglia delle mammelle (e quindi l’ornitorinco sarà un MAMMIFERO, anche se sta quasi scomodo in compagnia del solo echidna nello strapuntino laterale dei MONOTREMI) ma vince la battaglia delle uova. Alle uova accenna sin dal 1817 John Jameson scrivendone da Sydney. Il dato non è sicuro ma nel 1824 Saint-Hilaire lo prende come assodato. Non è facile vedere un ornitorinco mentre depone uova (si suppone lo faccia con qualche riservatezza, nelle profondità di una tana inaccessibile a un esploratore umano) e allora ci si affida a chi ne dovrebbe sapere di più, al nativo. Patrick Hill scrive nel 1822: “Cookoogong, un indigeno, capo della tribù dei Boorah-Boorah, dice che essi sanno benissimo che questo animale depone due uova, del formato, colore e forma di quelle di una gallina”. Sappiamo ora che le uova sono piccolissime, un terzo di pollice: o Cookoogong si sbaglia sulla dimensione, o si esprime male in inglese, o Hill non capisce la sua lingua. Né è escluso che il capo aborigeno addirittura menta, per far piacere all’esploratore. Nel 1829, Saint-Hilaire riceve altre notizie: qualcuno ha visto le uova, depositate in un buco nella sabbia, questa volta del formato di quelle di un volatile, o di un serpente o di una lucertola. Inoltre viene

inviato un disegno, e dunque gli informatori dovrebbero davvero averle viste. Sfortunatamente si pensa oggi che fossero probabilmente uova di una tartaruga, la Chelodina Longicollis. D’altra parte Saint-Hilaire ritiene che uova di quel formato non possano passare attraverso l’anello pelvico di un platipo femmina - e quindi ha ragione per errore, dato che non tiene conto che erano state trovate nella sabbia, probabilmente a una fase avanzata di sviluppo. Nel 1831 il tenente Maule ha aperto delle tane e ha trovato gusci d’uova. Gli avversari della oviparità dicono che sono escrementi, ricoperti da sali urinari come avviene per gli uccelli, visto che sia l’urina che le feci sono espulse dallo stesso orifizio. Nel 1834 il dottor George Bennett, pro-viviparo, riesce a indurre in contraddizione gli informatori indigeni che parlano di uova: disegna un uovo ovale e quelli gli dicono che è un uovo di Mullagong, poi ne disegna uno rotondo, e quelli ripetono che è un cabango (uovo) di Mullagong. Poi però dicono che il piccolo “tumble down” e cioè ruzzola giù. Non si ruzzola da un uovo, ma dal ventre materno. Bennett ammette che gli indigeni non sanno esprimersi bene in inglese, chissà che cosa gli ha chiesto e che cosa hanno capito, chissà com’erano i suoi ovali e i suoi cerchi, altro che gavagai... Nel 1865, Richard Owen (partito anti-uova) riceve una lettera di tal Nicholson spedita nel settembre 1864, che dice come dieci mesi prima fosse stata catturata una femmina e data al Gold-receiver del distretto. Costui l’aveva messa in gabbia, e il mattino dopo aveva trovato due uova, questa volta della misura di quelle di una cornacchia, soffici e senza guscio calcareo. Nicholson dice di averle viste, ma che due giorni dopo qualcuno le aveva gettate via e aveva ucciso l’animale (trovandogli nel ventre molte di quelle che i suoi informatori chiamavano “uova” - ma forse erano ovuli). Una lettera successiva del Goldreceiver sembra confermare il fatto. Owen pubblica le due lettere ma si chiede che cosa contenessero le due supposte uova. Se si fossero aperte e si fosse visto un embrione o almeno un tuorlo, se si fossero messe in una bottiglia d’alcool... Ma ahimè! non se ne sa nulla. Forse erano solo effetto di un aborto dovuto allo spavento. Burrell (1927: 44) deve dar ragione a Owen, che si comporta da scienziato prudente; inoltre osserva che le uova non potrebbero avere avuto il formato di quelle di qualsiasi volatile definibile come una cornacchia, e avanza il

sospetto che si fosse trattato dello scherzo di un mattacchione che aveva introdotto nella gabbia uova d’uccello. Il dibattito continua nella gazzette scientifiche per gli anni a venire, e sarà solo nel 1884 (circa ottantasei anni dopo la scoperta dell’animale) che W. H. Caldwell, che era andato a far ricerche sul posto, manderà un celebre telegramma all’università di Sydney: “Monotremes oviparous, ovum meroblastic” (dove la seconda informazione stabilisce che la modalità di scissione delle cellule dell’embrione è quella tipica di rettili e uccellli). Fine della controversia. I MONOTREMI sono MAMMIFERI e ovipari.

4.6. Contrattazioni 4.6.1. Ottant’anni di negoziazioni Qual è la morale della storia? In prima istanza potremmo dire che si tratta di uno splendido esempio di come enunciati osservativi possono essere emessi solo alla luce di un quadro concettuale o di una teoria che dia loro un senso, ovvero che il primo tentativo di capire quello che si vede è di inquadrare l’esperienza in un sistema categoriale precedente (come nel caso di Marco Polo e dei rinoceronti). Ma allo stesso tempo si dovrebbe dire che, come nel caso di Marco Polo, le osservazioni mettono in crisi il quadro categoriale, e allora si cerca di riadattare il quadro. E così si procede in parallelo, riaggiustando il quadro categoriale a seconda di nuovi enunciati osservativi e riconoscendo come veri enunciati osservativi a seconda del quadro categoriale assunto. A mano a mano che si categorizza, si attende di individuare nuove proprietà (certamente in forma di disordinata enciclopedia); a mano a mano che si trovano proprietà si tenta un riassestamento dell’impianto categoriale. Ma ogni ipotesi sul quadro categoriale da assumere influenza il modo di fare e di riconoscere come validi gli enunciati osservativi (per cui chi vuole l’ornitorinco mammifero non cerca le uova o rifiuta di riconoscerle quando entrano in scena, mentre chi vuole l’ornitorinco oviparo cerca di disconoscere e le mammelle e il latte). Questa è la dialettica e della cognizione e della conoscenza, ovvero e della conoscenza e del sapere.

Ma basta questa conclusione? In effetti qualcuno alla fine ha dimostrato che c’erano e le mammelle e le uova. Potremmo dire che nell’un caso o nell’altro ha vinto una teoria, obbligando i cercatori sul campo a cercare qualcosa che la teoria voleva che ci fosse, e che se avesse prevalso una consorteria accademica sull’altra (perché tale è anche il meccanismo del confronto tra teorie) forse non si sarebbero mai viste o le mammelle o le uova. Ma sta di fatto che alla fin fine si sono viste e mammelle e uova, così che oggi appare difficile negare che l’ornitorinco allatti i piccoli e cionondimeno deponga uova. La storia dell’ornitorinco starebbe allora a dimostrare che in ultima istanza i fatti vincono sulle teorie (e che come voleva Peirce la Torcia della Verità in ogni caso va avanti, di mano in mano, nonostante le difficoltà). Ma, a quanto si legge nella letteratura in argomento, non si è ancora terminato di scoprire molte e insospettate proprietà dell’ornitorinco, e si potrebbe dire che questo avviene perché la teoria vincente lo ha voluto tra i mammiferi. Peirce ci tranquillizzerebbe: basta attendere, e alla fine la Comunità troverà un punto di consenso. Però ricordiamo la decisione di Shaw, 1799: forse si potrebbe tentare di collocare subito l’animale ignoto in qualche classe, ma per il momento descriviamo quanto si vede. E quello che i naturalisti hanno saputo sull’ornitorinco, prima ancora di decidere a quale classe ascriverlo e, notiamo, a mano a mano che ne disputavano, era che era una cosa strana, certamente un animale, che poteva essere riconosciuto secondo alcune istruzioni per la sua identificazione (becco, coda di castoro, zampe palmate, eccetera). I naturalisti, per più di ottant’anni, non sono stati d’accordo su nulla, salvo sul fatto che parlavano di quella bestia fatta così e così, di cui via via si riconoscevano gli esemplari. Quella bestia poteva essere o non essere un MAMMIFERO, un UCCELLO, un RETTILE, senza che peraltro cessasse di essere quella dannatissima bestia che, come aveva osservato Lesson nel 1839, si poneva di traverso sul sentiero del metodo tassonomico per provarne la fallacia. La storia dell’ornitorinco è la storia di una lunga negoziazione, e in tal senso è esemplare. Ma c’era una base della negoziazione, ed era che l’ornitorinco appariva simile a un castoro, a un’anatra, a una talpa, ma non a un gatto, a un elefante, o a uno struzzo. Se bisogna arrendersi all’evidenza che si sia una componente iconica della percezione, la storia dell’ornitorinco ce lo dice. Chiunque lo vedesse, o ne vedesse un

disegno, o un esemplare impagliato o sotto spirito, si rifaceva a un TC comune. Ci son stati ottant’anni e passa di negoziazione, ma i negoziati si aggiravano sempre intorno a resistenze e linee di tendenza del continuum, e alla presenza di queste resistenze era dovuta la decisione, certamente contrattuale, di riconoscere che certi tratti non erano negabili. All’inizio, e per qualche decennio, dell’ornitorinco si era disposti a cancellare tutto, che fosse MAMMIFERO o OVIPARO, che avesse o non avesse mammelle, ma non certo la proprietà di essere quell’animale fatto così e così che qualcuno aveva scoperto in Australia. E tutti sapevano, mentre litigavano, di stare attenendosi allo stesso TC. Variavano le proposte sul CM, ma rimaneva alla base della contrattazione un CN. Che quel becco fosse incancellabile (anche e soprattutto perché non avrebbe dovuto esserci), è rivelato dai nomi con cui l’animale è stato indicato, sia dal linguaggio comune che da quello scientifico, nel corso della disputa, e sin dagli inizi: Duckbilled Platypus, Schnabeltier, Ornitorinco.

4.6.2. Hjelmslev ‘vs’ Peirce Ho a lungo temuto che l’approccio semiotico del Trattato soffrisse di sincretismo. Cosa voleva dire cercare, come ho fatto, di mettere insieme la prospettiva strutturalistica di Hjelmslev e la semiotica cognitivointerpretativa di Peirce? Il primo ci mostra come la nostra competenza semantica (e dunque concettuale) sia di tipo categoriale, basata su una segmentazione del continuum in virtù della quale la forma del contenuto si presenta strutturata in forma di opposizioni e differenze. Si distingue una pecora da un cavallo per la presenza o l’assenza di alcune marche dizionariali, come OVINO ed EQUINO, e si lascia comprendere che questa organizzazione del contenuto imponga una visione del mondo. Ma tale organizzazione del contenuto o assume queste marche come primitivi non ulteriormente interpretabili (e allora non ci dice quali sono le proprietà di un equino o di un ovino), o esige che anche queste componenti siano a loro volta interpretate. Ahimè!, quando si entra nella fase dell’interpretazione, la rigida organizzazione strutturale si

dissolve nel reticolo delle proprietà enciclopediche, disposte lungo il filo potenziailmente infinito della semiosi illimitata. Come è possibile che le due prospettive possano coesistere? Il risultato delle riflessioni che precedono è che esse debbono coesistere, perché a volerne scegliere una sola non si rende ragione del nostro modo di conoscere e di esprimere quello che conosciamo. È indispensabile farle coesistere sul piano teorico perché, sul piano delle nostre esperienze cognitive effettivamente procediamo in modo da dare - se l’espressione non vorrà sembrare troppo riduttiva - un colpo al cerchio e un colpo alla botte. L’instabile equilibrio di questa coesistenza non è (teoricamente) sincretico perché è su questo equilibrio felicemente instabile che procede la nostra conoscenza. Ed ecco che pertanto il momento categoriale e quello osservativo non si oppongono come modi inconciliabili di conoscenza, e neppure vengono giustapposti per sincretismo: sono due modi complementari di considerare la nostra competenza proprio perché, almeno nel momento “aurorale” della conoscenza (quando l’Oggetto Dinamico è terminus a quo), si implicano a vicenda. Considero ora una possibile obiezione. Perché intendere i taxa come prodotti culturali (visto che in fondo tendono a riassumere classi di enunciati osservativi: i MAMMIFERI sono nominati come tali perché di fatto allattano i loro piccoli), definiti all’interno di un sistema del contenuto, e vedere invece come dati osservativi la presenza o l’assenza di mammelle e il deporre uova? Come se il riconoscere qualcosa come un uovo, piuttosto che come un ovulo, o il decidere se qualcosa sia latte oppure muco non dipendessero anch’essi da un sistema strutturato di concetti, solo all’interno del quale qualcosa è o non è uovo? Non si è data infatti nell’ambito della semantica strutturale l’analisi oppositiva di proprietà, quali duro/soffice, per distinguere una sedia da una poltrona? È che il costituire un sistema di taxa si basa proprio sulla capacità astrattiva di raggruppare il più possibile secondo classificazioni molto comprensive (e proprio per questo risulta difficile a livello di esperienza folk decidere che una giraffa e una balena siano ambedue mammiferi), mentre nessuna semantica strutturale è mai riuscita a costituire un sistema di opposizioni totale, che dia ragione di tutta la nostra conoscenza e di tutti gli usi del linguaggio, al cui interno trovino un posto preciso l’uovo e la colonna vertebrale, il profumo di violetta e l’arrampicarsi. Al contrario, ci si è sempre limitati a titolo

esemplificativo a campi assai ristretti, quali appunto quello dei mobili per sedersi, o le relazioni parentali. Questo non esclude che si possa costruire un giorno (in teoria) il sistema globale del contenuto (o che esso non esista nella mente divina), ma ci dice solo che (proprio perché come diceva Kant i concetti empirici non possono mai esaurire tutte le loro determinazioni) noi non possiamo che procedere per assestamenti provvisori e correzioni successive. Persino l’enunciato osservativo questo è un uovo dipende da convenzioni culturali ma, se pure uovo e mammifero sono entrambi concetti che nascono da una segmentazione culturale del contenuto, e se pure lo stesso concetto di mammifero tiene conto di dati di esperienza, è diversa la prossimità tra la costruzione del concetto e l’esperienza percettiva (e su questo si basa la differenza tra CN e CM). Quando si dice che per decidere se un animale è o meno un MAMMIFERO si deve fare ricorso a un sistema di convenzioni culturali (o, come si è visto, ricostruirlo), mentre per decidere se qualcosa è un uovo intuitivamente ci si affida alla percezione e alla conoscenza elementare del linguaggio che si sta usando, si dice qualcosa che va al di là della ovvietà intuitiva. Certamente se qualcuno non è stato allenato ad applicare la parola uovo a un certo TC (che già considera la forma, la presenza di tuorlo e albume, la presupposizione che da quell’oggetto, se covato al tempo giusto, potrebbe o avrebbe potuto nascere un essere vivente), non ci sarà accordo sul riconoscimento di un uovo. Quindi anche il consenso percettivo nasce sempre da un previo accordo culturale, per vago e folk che sia.14 E questo conferma ciò che cercavo di dire poco sopra, che nel processo della conoscenza il momento strutturale e il momento interpretativo si alternano e si completano passo per passo l’un l’altro. Tuttavia non si può negare che nel definire come tale un uovo prevalga la testimonianza dei sensi, mentre per definire come tale un mammifero prevalga la conoscenza delle classificazioni e il nostro accordo su un dato sistema tassonomico. Quando poi si decide di raffinare i giudizi percettivi, e ci si scontra sulla decisione se qualcosa sia muco o latte, bisognerà trattare anche l’esperienza percettiva in termini culturali e decidere in base a quali criteri e classificazioni chimiche si distingue il latte dal muco. Ma ancora una volta, abbiamo la testimonianza di una oscillazione e complementarità costante dei nostri due modi di comprendere il mondo.

A un momento dato anche il TC comune che avrebbe permesso a SaintHilaire di riconoscere per latte qualcosa ha dovuto cedere il posto a un CM già intessuto di opposizioni strutturate, in base al quale è stato giocoforza dare ragione a Meckel e a Owen.

4.6.3. Dove sta il ‘continuum’ amorfo? Tutto questo ci riporta alla opposizione tra la pressione sistematica, o olistica, di un sistema di proposizioni, e la possibilità di enunciati osservativi dipendenti dall’esperienza percettiva. Postulare una semiosi percettiva dovrebbe riproporre la frattura tra coloro che ritengono che noi mettiamo in forma un continuum amorfo, e che questa forma sia un costrutto culturale, e coloro che ritengono invece che quello che noi conosciamo dell’ambiente sia determinato da caratteristiche dell’ambiente stesso, da cui preleviamo l’informazione saliente che esso ci offre sponte propria. Pare ovvio che persino un enunciato osservativo come sta piovendo non possa essere compreso, e giudicato come vero o falso, se non all’interno di un sistema di convenzioni linguistiche in base alle quali distinguiamo il significato di pioggia da quello di brina o di rugiada, e che dunque il concetto di “pioggia” dipenda non solo da alcune convenzioni lessicali ma da un sistema coerente di proposizioni circa i fenomeni atmosferici. Per riprendere una formula che Putnam attribuisce a West Churchman il quale l’attribuiva ad A.E. Singer jr, che a sua volta la intendeva come un efficace riassunto del pensiero di James (Putnam 1992: 20), “la conoscenza dei fatti presuppone la conoscenza delle teorie, la conoscenza delle teorie presuppone la conoscenza dei fatti”. Però il significato di pioggia non dipende dalla nozione chimica di acqua, altrimenti gli indotti non potrebbero asserire che sta piovendo, e ciascuno di noi lo asserirebbe falsamente in caso di “piogge acide” in cui Dio solo sa che cosa ormai stia cadendo dal cielo. Del pari, per osservare che fa sole, o che fa luna piena, certamente occorre condividere una sorta di segmentazione, sia pure ingenua, del continuum astronomico, ma non è indispensabile conoscere la differenza astrofisica tra stella e pianeta. Una segmentazione ingenua del continuum può sopravvivere anche all’interno di un sistema di nozioni interconnesse che in effetti la nega:

per questo noi asseriamo tranquillamente che si è levato il sole, quando alla luce del sistema di nozioni su cui si basa il nostro stesso sapere dovremmo sapere che il sole non si muove. Cerchiamo di immaginarci una disputa ideale tra Galileo, uno dei suoi avversari tolemaici, un terzaforzista come Tycho Brahe, Keplero e Newton. Credo che non occorra una grande fantasia per immaginare che tutti gli interlocutori concordassero sul fatto che in quel momento si vedevano il sole o la luna nel cielo, che entrambi apparivano di forma circolare e non quadrata, e che illuminassero su Arcetri qualcosa che tutti riconoscevano come alberi. E tuttavia all’interno di diversi sistemi di proposizioni, movimento, distanze, funzioni del sole e della luna, nozioni come massa, epiciclo e deferente, gravità o gravitazione, non solo assumevano valore diverso, ma addirittura potevano essere riconosciuti o negati. Però, anche se intrattenevano ciascuno un quadro di riferimento concettuale diverso, tutti percepivano nello stesso modo alcuni oggetti e fenomeni. Per Galileo il movimento del sole era apparente e per il suo avversario reale. Ma questa differenza era rilevante rispetto a un sistema coerente di proposizioni circa l’universo, non rispetto all’enunciato osservativo su cui entrambi concordavano. È diverso dire se tutti percepiamo una eclisse lunare o dire quale sia il movimento dei corpi celesti che produce la percezione dell’eclisse. Il primo problema concerne il modo in cui si forma un giudizio percettivo (che per quanto dipendente dalla struttura del nostro apparato cognitivo deve pur sempre rendere ragione del molteplice della sensazione), mentre il secondo riguarda un sistema di proposizioni (per Kant un sistema di giudizi di esperienza), che certamente risente di rapporti strutturali interni. Quando si parla di olismo si intende la solidarietà di un sistema di proposizioni; quando invece si parla di percezione, anche se si può avanzare l’ipotesi che essa sia influenzata da un sistema di proposizioni che creano una serie di aspettative, si parla di enunciati osservativi che debbono in qualche modo rendere conto di quanto l’ambiente immediatamente ci propone. So benissimo che sostenere che esistano enunciati osservativi indipendenti da un sistema generale di proposizioni è stato additato da Davidson come il terzo dogma dell’empirismo; ma non si può rinunciare all’evidenza del fatto che è più facile negoziare (in tempo brevissimo) il nostro assenso all’enunciato sta’ attento che c’è uno

scalino che quello all’enunciazione della seconda legge della termodinamica. E la differenza è che nel caso del primo enunciato io controllo immediatamente su basi percettive (quello di scalino è un “concetto empirico”). Così nella storia raccontata in 3.5.1 Gabriele e Belfagor potevano avere nozioni assai diverse circa la virtù, ma entrambi erano in grado di distinguere la differenza sessuale tra Giuseppe e Maria. Dunque, anche se si ammette che ogni sistema culturale e ogni sistema linguistico su cui esso si appoggia segmentano il continuum dell’esperienza in modo proprio (Davidson parlerebbe di “schema concettuale”), ciò non toglie che il continuum organizzato da sistemi di proposizioni ci si offra già secondo linee di resistenza che provvedono delle direttive per una percezione intersoggettivamente omogenea, anche tra soggetti che si rifanno a diversi sistemi di proposizioni. La segmentazione del continuum attuata da un sistema di proposizioni e di categorie, in qualche modo tiene conto del fatto che quel continuum non è più del tutto amorfo, ovvero, se è proposizionalmente amorfo non è però del tutto percettivamente caotico, perché in esso sono già stati ritagliati degli oggetti interpretati e costituiti come tali a livello percettivo: come se il continuum nel quale un sistema di proposizioni ritaglia le proprie configurazioni fosse già stato dissodato da una semiosi “selvaggia” e non ancora sistematica. Prima di decidere che il sole è un astro, o un pianeta, o un corpo immateriale, che gira intorno alla terra o sta al centro dell’orbita del nostro pianeta, c’è stata la percezione di un corpo luminoso di forma circolare che si muove nel cielo, e questo oggetto è stato famigliare anche al nostro progenitore che forse non aveva ancora elaborato neppure un nome per designarlo.15

4.6.4. Vanville Tutto questo impone qualche riflessione sul concetto di verità. C’è differenza tra dire che è vero che qualcosa è un uovo e che è vero che qualcosa è un mammifero? O tra dire che è vero che qualcosa è una montagna e dire che è vero che qualcosa è una MONTAGNA? Se non esistesse l’oscillazione continua di cui ho detto, tra organizzazione strutturale e interpretazioni in termini di esperienza, la risposta sarebbe

facile: dire che qualcosa è un MAMMIFERO o una MONTAGNA può essere vero solo all’interno di un linguaggio L mentre dire che qualcosa è un uovo o una montagna è vero in termini di esperienza. Eppure abbiamo visto che anche per riconoscere un uovo non ci si può sottrarre ai vincoli posti da un linguaggio L, lo stesso in virtù del quale si è deciso che gli UCCELLI sono tali in quanto depongono uova (ma non tutti gli animali che depongono uova sono UCCELLI). C’è una definizione di verità che appare nel Dictionnaire di GreimasCourtés (1979) e che sembra fatta apposta per irritare chiunque aderisca a una semantica vero-funzionale, per non dire di ogni sostenitore di una teoria corrispondentista della verità: La verità designa il termine complesso che sussume i termini essere e apparire situati sull’asse dei contrari all’interno del quadrato semiotico delle modalità veridittive. Non sarà inutile sottolineare che il ‘vero’ è situato all’interno del discorso, perché è frutto di una operazione di veridizione; ciò che esclude ogni relazione (o ogni omologazione) con un referente esterno. Forse il Dictionnaire trova il modo più complicato di dire una cosa non certo semplice ma non detta per la prima volta: e cioè che il concetto di verità va visto entro il contesto di un sistema del contenuto, che sono “vere” le proposizioni che il destinatario già ritiene come garantite all’interno del proprio modello di cultura, e che l’interesse dall’analisi si sposta dalla verifica protocollare di ciò che può essere asserito come vero (posizione del neopositivismo logico, e del primo Wittgenstein) alle strategie di enunciazione per cui all’interno di un discorso qualcosa appare accettabile come vero (veridizione). Questa posizione era meno scandalosa e meno impermeabile ai discorsi (apparentemente opposti) che fa la filosofia analitica. La posizione greimasiana si basa su una versione hjelmsleviana del paradigma strutturalista, e la versione hjelmsleviana anticipava (e quando non ha anticipato ha accompagnato in parallelo - e le date parlano chiaro)16 lo sviluppo di quella critica interna al neopositivismo logico e alla filosofia analitica che va sotto il nome di olismo, la messa in crisi della differenza tra analitico e sintetico, il principio di asseribilità garantita, il realismo interno, la individuazione di paradigmi scientifici come strutture incommensurabili o comunque non facilmente

traducibili l’una nell’altra. Ha, più che anticipato, in parte, e anche se non direttamente, influenzato la critica alla conoscenza come Specchio della Natura, e l’idea di Rorty (1979) che ogni rappresentazione sia una mediazione, e che dobbiamo lasciar cadere la nozione di corrispondenza e vedere gli enunciati connessi con altri enunciati piuttosto che con il mondo. L’unica differenza è che nella prospettiva detta olistica si tende in ogni caso a definire in che senso qualcosa si possa assumere come vero, sia pure in termini di “asseribilità garantita”, mentre nel quadro semiostrutturalista, di cui Greimas rappresenta forse l’ala più radicale, si era interessati a capire come i nostri discorsi fanno credere qualcosa come limiti di questa impostazione sono dati tuttavia dal fatto che, per poter dire se e come qualcuno accetta qualcosa come vero, e per fargli credere che sia vero, bisogna pure assumere che esista un concetto ingenuo di verità, quello stesso che ci autorizza a dire che è empiricamente vero - nel contesto in cui viene pronunciato l’enunciato oggi piove. Non mi risulta che all’interno del paradigma strutturalista questo criterio esista. Il guaio è che non esiste nemmeno all’interno del paradigma verofunzionalista. In ogni caso non è provvisto dal criterio tarskiano di verità. Esso riguarda il modo in cui definire le condizioni di verità di una proposizione, ma non il modo di stabilire se la proposizione è vera. E dire che capire il significato di un enunciato vuole dire conoscere le sue condizioni di verità (e cioè capire a quali condizioni esso sarebbe vero), non equivale a provare se l’enunciato sia o meno vero. D’accordo che il paradigma non è affatto così omogeneo come si ritiene di solito, e qualcuno tende anche a interpretare il criterio tarskiano secondo una gnoseologia corrispondentista. Ma, comunque Tarski la pensasse,17 è difficile leggere in senso corrispondentista la celebre definizione (i) “la neve è bianca” è vero se e solo se (ii) la neve è bianca. Noi siamo in grado di dire quale tipo di entità logica e linguistica sia (i) - è un enunciato in un linguaggio oggetto L, che veicola una proposizione - ma non abbiamo ancora alcuna idea di che cosa sia (ii).

Se fosse uno stato d’affari (o una esperienza percettiva) saremmo molto imbarazzati: uno stato d’affari è uno stato d’affari e un’esperienza percettiva è un’esperienza percettiva, non un enunciato. Caso mai un enunciato viene prodotto per esprimere uno stato d’affari o un’esperienza percettiva. Ma se quello che appare in (ii) è un enunciato circa uno stato d’affari o un’esperienza percettiva, non può essere un enunciato espresso in L, dato che della proposizione espressa dall’enunciato (i) deve garantire la verità. Sarà dunque un enunciato espresso in un metalinguaggio L2. Ma allora la formula tarskiana dovrebbe essere tradotta come (i) La proposizione “la neve è bianca”, veicolata dall’enunciato (in L) la neve è bianca è vera se e solo se (ii) è vera la proposizione “la neve è bianca”, veicolata dall’enunciato (in L2) la neve è bianca. È evidente come questa soluzione sia destinata a produrre un sorite di infiniti enunciati, ciascuno espresso in un nuovo metalinguaggio.18 A meno d’intendere la definizione in senso strettamente comportamentistico: la neve è bianca se di fronte allo stimolo neve ciascuno dei parlanti reagisce dicendo che è bianca. A parte il fatto che ci troveremmo immersi sino al collo nelle difficoltà della traduzione radicale, non credo che sia a questo che Tarski pensava, né se ci avesse pur pensato questo sarebbe un modo per decidere se un enunciato è vero, perché semplicemente ci direbbe che tutti i parlanti commettono lo stesso errore percettivo, così come il fatto che per migliaia d’anni tutti i parlanti abbiano detto che il sole alla sera cade nel mare non è una prova che la proposizione fosse vera. Sembra più persuasivo ammettere che, nella formula tarskiana, (ii) sta convenzionalmente per l’assegnazione di un valore di verità a (i). Lo stato d’affari tarskiano non è un qualcosa controllando il quale riconosciamo come vera la proposizione che lo esprime, bensì al contrario è ciò a cui corrisponde una proposizione vera, oppure ogni cosa che sia espressa da una proposizione vera (cfr. McCawley 1981: 161), vale a dire il suo valore di verità. In questo senso la nozione tarskiana non ci dice se sia più vero dire che un gatto è un gatto che non dire che un gatto è un mammifero.

Col che siamo da capo alla questione se ci siano criteri di verità per gli enunciati occasionali osservativi che siano diversi da quelli per gli enunciati non osservativi. Siccome tali questioni sono state esemplarmente dibattute nel Quine di “Two dogmas of empiricism”, riprendo una storia che avevo proposto nel 1990 nel corso di un convegno dedicato appunto a Quine.19 Preciso, perché altrimenti non si potrebbero comprendere i nomi delle strade e delle località che uso (tutti riferiti a celebri esempi tratti dalle opere di Quine), né il nome di Vanville attribuito alla città (Van è l’appellativo confidenziale con cui gli amici si rivolgono a Willard Van Orman Quine), né l’accenno a una casa di mattoni in Elm Street, tipico esempio di enunciato osservativo usato in Quine 1951. Ecco in Figura 4.1 la mappa di Vanville, una piccola città che si è sviluppata a nord del Gavagai River, sin dal tempo dei primi pionieri, fatta interamente di case di legno, compresa la chiesa presbiteriana, eccetto il Civic Center, dove all’inizio del secolo sono sorti tre edifici in muratura con colonne di ghisa. Nella mappa si vede anche una casa di mattoni in Elm Street, ma questa viene edificata solo nel 1951, e ne parleremo più avanti. Come si vede Tegucigalpa Street, Pegasus Street, e Giorgione Street sono perpendicolari a Elm, Orman e Willard Street come del resto al Riverside Drive. Una sorta di Broadway, chiamata Tully Road, ci dice che Vanville non è necessariamente un castrum romano, ma che il suo sviluppo è stato ispirato a un certo qual empirismo anglosassone. Ci sono Midtown Square e Uptown Square, e tra Midtown Square ed Elm ci sono alcune colline non ancora edificate. All’incrocio tra Pegasus e Willard, ecco i tre edifici in muratura: la First Vanville City Bank, l’Hotel Delmonico, e il Municipio. I cittadini di Vanville lo chiamano Pegwill Center, il che significa “il centro che sta all’intersezione di Pegasus e Willard” (che non è molto diverso dal chiamare ornitorinco un essere che ha il becco da uccello). La mappa è una interpretazione dell’espressione Vanville, ma solo sotto un certo profilo: non dice nulla circa la forma delle sue case o la bellezza del fiume. Siccome i cittadini sanno bene come muoversi nella città, possiamo assumere che ciascuno abbia una certa conoscenza della disposizione dei luoghi e che pertanto quel diagramma che è la mappa faccia parte del loro TC e del CN pubblicamente condiviso.20

Supponiamo ora che un turista arrivi a Vanville e chieda dov’è il Pegwill Center. A seconda della direzione da cui entra in città riceverebbe istruzioni di questo genere: Figura 4.1. (Vanille 1951) 1. Il Pegwill Center è il luogo dove sorgono tre grandi edifici che si raggiungono partendo dall’incrocio tra Tegucigalpa ed Elm, andando verso est attraverso Elm e girando, all’incrocio tra Pegasus ed Elm, verso sud lungo Pegasus sino all’intersezione tra Pegasus e Willard. 2. Il Pegwill Center è il luogo dove sorgono tre grandi edifici che si raggiungono partendo dall’incrocio tra Tully e Willard, andando verso est lungo Willard, sino all’intersezione tra Pegasus e Willard. 3. Il Pegwill Center è il luogo dove sorgono tre grandi edifici che si raggiungono percorrendo Giorgione da nord a sud, arrestandosi all’incrocio tra Giorgione e Orman, girando a ovest lungo Orman, voltando a nord all’incrocio tra Orman e Tegucigalpa ed proseguendo lungo Tegucigalpa sino all’incrocio tra Tegucigalpa e Elm, poi voltando a est lungo Elm, all’incrocio tra Elm e Tully girando verso sud-ovest lungo Tully, attraversando il Riverside e prendendo il Rabbit Bridge, tuffandosi nel Gavagai River e nuotando verso est sino all’incrocio tra Riverside e Giorgione, prendendo poi Giorgione in direzione nord, fermandosi all’incrocio tra Giorgione e Willard e andando infine verso ovest lungo Willard sino all’intersezione tra Pegasus e Willard. (1), (2) e (3) sono altrettante interpretazioni del termine Pegwill Center. In quanto tali costituiscono parte del CN di Pegwill Center; ovvero sono istruzioni per il suo reperimento (e tutto sommato anche per l’identificazione, poiché non ci sono altri grandi edifici in città). A prima vista l’istruzione (3) pare bizzarra, ma non lo sarebbe se fosse data a qualcuno che vuole raggiungere il Pegwill Center dopo aver realizzato una conoscenza sufficiente di Vanville. Visto che una caratteristica delle interpretazioni è che mediante esse si conosce sempre qualcosa di più dell’Oggetto Immediato interpretato, l’interpretazione (3) permette di conoscere qualcosa di più sul Pegwill Center nei suoi rapporti con il resto della città. In quanto enunciati, (1), (2) e (3) sono tutti e tre veri, almeno nel quadro della mappa (e della struttura della città). Nel nostro caso (in cui

stiamo semplicemente immaginando Vanville e la sua mappa) è chiaro che essi sono veri solo all’interno di un sistema di assunzioni (l’unica esperienza che abbiamo è quella della mappa, ma la mappa disegna un mondo possibile, non prova uno stato del mondo reale). Se tuttavia Vanville esistesse davvero e un vero turista trovasse il Pegwill Center seguendo queste istruzioni, enuncerebbe veritieramente ho raggiunto il Pegwill Center seguendo il percorso descritto dall’istruzione x. Un bel giorno, però, verso il 1951, qualcuno costruisce una casa in mattoni su Elm Street, proprio all’incrocio con Pegasus. Chi passi di là ha diritto di enunciare che c’è una casa di mattoni su Elm Street. Questo sarebbe un enunciato osservativo, che nasce da un’esperienza percettiva (e viene caso mai adottato come vero da altri dando fiducia a una testimonianza attendibile). Come tale questo enunciato non mette in crisi tutte le altre asserzioni che si potevano prima fare circa Vanville, e tanto per cominciare non rende meno vere le definizioni (l)(3). Ma non possiamo dire che sia indipendente dalla situazione generale di Vanville. Se qualcuno caratterizzasse quella casa come la casa in mattoni di Elm Street; occorrerebbe come minimo che essa fosse l’unica di Elm Street. In una città piena di case in mattoni dire che in Elm c’è una casa in mattoni sarebbe ancora un enunciato osservativo vero, ma non una descrizione in grado di provvedere istruzioni sufficienti per l’identificazione del referente. Supponendo però che quella di Elm Street sia l’unica casa in mattoni di Vanville, non appena la sua esistenza venisse registrata dai cittadini, si arricchirebbero le interpretazioni possibili dello stesso Pegwill Center. Senza scomodare Ockham (Quodl. Septem, 8), che diceva che non si può alzare un dito senza creare una infinità di nuove entità, perché con questo movimento ogni relazione di posizione tra il dito e tutti gli enti dell’universo sarebbe mutata, non si può negare che una delle nuove possibili interpretazioni di Pegwill Center diventa “quel gruppo di edifici che si trova a sud della casa di mattoni in Elm Street” oppure “quel gruppo di edifici che può essere raggiunto partendo dalla casa di mattoni in Elm Street e percorrendo Pegasus verso sud”. Che cosa accadrebbe se in Vanville fosse costruita una seconda casa in mattoni? Che se i cittadini si erano abituati a chiamare quella di Elm la casa in mattoni, con l’apparizione della seconda casa dovrebbe cambiare il nome della prima. E dovrebbe cambiare una delle

definizioni di Elm Street, se fosse stata definita da qualcuno quella via in cui c’è l’unica casa in mattoni della città. Quanti nuovi fatti, con gli enunciati osservativi che comportano, sono necessari per cambiare radicalmente un sistema di definizioni interconnesse? La domanda ricorda il paradosso del cumulo. Ma tra un cumulo e un solo grano di sabbia ci sono vari gradi intermedi, e togliendo molti grani di sabbia a un cumulo è legittimo almeno asserire che a un momento t il cumulo è più piccolo di quanto fosse al momento tr Facciamo dunque un salto dal 1951 ai giorni nostri e vediamo in Figura 4.2 come, attraverso una serie di trasformazioni, è diventata Vanville 1997. Intorno alla famosa casa di mattoni sono a poco a poco sorti dei grattacieli, e si è creato il nuovo centro civico (in cui sono stati spostati la banca, il Municipio, il Museo, ed è sorto un nuovo Hilton Hotel). A causa dell’espansione della città verso nord, il vecchio Uptown Square è diventato Midtown Square. È curioso che, essendo ora alla intersezione tra Pegasus ed Elm, il nuovo City Center sia ancora chiamato Pegwill: ci sono fenomeni inerziali nel linguaggio (nello stesso senso noi oggi chiamiamo ancora atomo qualcosa che si è dimostrato divisibile). Midtown è ora occupata dal lago artificale Barbarelli, per la delizia degli abitanti ricchi dei nuovi Gaurisander Heights (una serie di villette residenziali sorte sulle colline di un tempo). Tully Road si ferma al lago e riprende come Cicero Road. Il vecchio City Center ospita ora le Paradox Arcades: negozi e luoghi di divertimento. Nuove case di mattoni costruite lungo il Riverside Drive costituiscono il Venus Village, che per un poco è stato un centro dove si riunivano gli artisti in alcuni baretti caratteristici, ma a lungo andare si è trasformato in un quartiere di porno shops e teatri di strip-tease. È ora pericoloso passeggiare di notte per Dowtown Vanville Ovviamente le precedenti interpretazioni del Pegwill Center non funzionano più. La (2) definisce ora le Paradox Arcades, la (1) e la (3) non significano più nulla. Le due Vanville sembrano costituire due sistemi mutuamente incommensurabili, proprio come si dice delle lingue quando se ne mette in questione la mutua traducibilità. Come si traducono gli enunciati pronunciati su Vanville 1953 per renderli comprensibili (e veri) per quanto riguarda Vanville 1997? In principio non si traducono. Siamo di

fronte a due sistemi dove gli stessi nomi si riferiscono a strade diverse (nel senso che in Vanville 1997 Tully Road significa qualcosa di differente da quello che significava in Vanville 1951). Una serie di fatti singoli e di enunciati osservativi che li esprimevano hanno via via generato un nuovo sistema, il sistema-Vanville 1997, incommensurabile rispetto al sistema-Vanville 1951. Non si può più neppure considerare come egualmente vero l’enunciato c’è una casa di mattoni in Elm Street, perché caso mai c’è una casa di mattoni in East Elm. Inoltre quella casa non si trova più vicino a Uptown Square bensì a Midtown Square, non è a nord del Pegwill Center, ma nel Pegwill Center, eccetera eccetera. Eppure, pur essendo mutato l’intero sistema che definiva quella casa di mattoni, quella casa di mattoni è ancora lì, chiunque può vederla e chiunque l’abbia vista nel 1951 la riconosce nel 1997 come la stessa casa. Curiosa situazione, ma non molto dissimile da quella in cui avevo posto Galileo e Tycho Brahe, intesi a guardare lo stesso sole, a riconoscere che stavano vedendo la stessa cosa, e tuttavia obbligati, nei termini del CM che attribuivano al termine sole, a definirlo in modo diverso nel quadro di un diverso sistema di assunzioni. Tuttavia, pur riconoscendo la casa di mattoni come la stessa, i cittadini la percepiscono davvero nello stesso modo? Oggi a New York, schiacciate tra i grattacieli della Fifth Avenue, chiese neogotiche che all’inizio apparivano come troneggianti con le loro guglie elevate al cielo ci appaiono minuscole, quasi miniaturizzate. Del pari, quella bella e maestosa casa, così imponente quando era stata costruita, come apparirà ora, tra i grattacieli del nuovo centro che le sono sorti intorno? Ed ecco come da un lato l’oggetto non cambia, e viene sempre percepito come tale, e dall’altro, in virtù del sistema urbanistico in cui si inserisce, è visto in modo diverso.21 Il principio viene ripreso anche in Quine (1995: 43 sgg.): gli enunciati osservativi, per quanto dipendenti da stimoli percettivi, “cambiano e si sviluppano con il crescere della conoscenza scientifica”. Il parametro di un enunciato osservativo è dato, oltre che dall’esperienza, dalla “comunità linguistica pertinente”. È una “pressione pubblica” che obbliga il soggetto a correggere l’enunciato osservativo ecco un pesce di fronte a una balena.

Proviamo a riformulare la questione nei termini di Putnam (1987: 33): “Ci sono fatti esterni, e noi possiamo dire che cosa sono. Quello che non possiamo dire - perché è privo di senso - è che i fatti sono indipendenti da ogni scelta concettuali. Siano tre punti spazio-temporali x1, x2 e x3; quanti “oggetti” vi sono? In un universo carnapiano gli oggetti sarebbero tre (xl, x2 e x3); in un universo secondo i logici polacchi sarebbero sette (xl, x2, x3, xl+x2, xl+x3, x2+x3, xl+x2+x3). Il numero di oggetti individuabili muta secondo il quadro concettuale. E tuttavia (sottolineo) riconosciamo come stimolo di partenza tre punti spazio-temporali, e se non ci fosse quell’accordo sullo stimolo iniziale non si potrebbe neppure iniziare il dibattito sugli oggetti identificabili. Non solo, ma i due universi non sarebbero comparabili. Che due sistemi siano incommensurabili strutturalmente non vuol dire che le loro due strutture non possano essere comparate, e le due piante di Vanville su cui si è giocato sinora lo dimostrano. Siamo in grado di comprendere i due sistemi, e siamo in grado di comprendere che cosa significhi che in entrambe le città ci sia una stessa casa di mattoni. Su queste basi possiamo certo capire che le istruzioni (1)-(3) che valevano per Vanville 1953 non valgono più per Vanville 1997. E tuttavia verificando sulla prima pianta che cosa significava l’espressione Tully Road siamo in grado di stabilire che a quel contenuto, nella seconda pianta, corrispondono due entità urbanistiche diverse, nominabili come Tully Road e Cicero Road. Questo ci permette di dire che, se avessimo trovato una mappa del tesoro risalente a Vanville 1951, che avesse detto che - partendo dall’incrocio tra Elm e Giorgione, voltando a sud-ovest lungo Tully Road, tre metri prima dell’angolo con Midtown Square, a destra - era seppellita una cassa di dobloni spagnoli, lo stesso enunciato, per Vanville 1997, andrebbe tradotto come: “partendo dall’incrocio tra East Elm e Giorgione, voltando a sud-ovest lungo Cicero, tre metri prima dell’angolo con l’area dove sta il Lago Barbarelli, a destra, è seppellita una cassa di dobloni spagnoli”. L’aspetto interessante della faccenda è che, contrattando i criteri di riferimento e i criteri di traduzione tra due sistemi considerati incommensurabili, potremmo davvero trovare quei dobloni. Uno dei problemi più divertenti che si trovano nelle vecchie (e talora nelle nuove) traduzioni italiane di romanzi polizieschi americani è che sovente il detective sale su un taxi e dice “portami nella città bassa”.

Talora chiede di essere portato nella “città alta”. Il lettore italiano immagina che ogni città americana sia come Bergamo (alta e bassa) o come Torino, Firenze, Budapest, Tiblisi, una zona in pianura e, al di là del fiume, la parte collinare. Ovviamente non è così. Nel testo inglese il detective chiede di essere portato downtown (o uptown). Ma mettiamoci nei panni del traduttore, che sovente non ha mai messo piede negli Stati Uniti. Come deve tradurre questi termini? Se anche chiedesse spiegazioni a un nativo, questi gli risponderebbe che “uptown” e “downtown” sono concetti che cambiano da città a città: talora significano il centro degli affari, talora il quartiere del vizio e dunque la parte più vecchia della città, talora la zona lungo il fiume, a seconda di come si è sviluppata la città (e addirittura a New York sono concetti a volte assoluti - per cui certamente Wall Street sta downtown e a volte relativi, per cui prendendo un taxi a Central Park e volendo andare al Village, gli si dice di andare downtown, mentre se il taxi lo si prendesse a Wall Street gli si direbbe di andare uptown). Soluzioni? Non c’è regola, occorrerebbe sapere in che città si svolge la vicenda, guardare la pianta (e consultare una buona guida), capire che cosa il detective sta andando a fare (visitare una casa da gioco, un hotel con cinque stelle, un baretto malfamato, cercare una nave), e volta per volta fargli dire al tassista di portarlo in centro, nel quartiere degli affari, nella città vecchia, al porto, o dove diavolo intenda effettivamente andare. Il referente di downtown va contrattato, nella misura in cui è contrattabile il significato, a seconda della città (del sistema). Anche la possibilità che un enunciato osservativo risulti vero è materia di contratto. Eppure ciò non toglie che l’enunciato osservativo si basi sull’evidenza percettiva, sul fatto che quella casa di mattoni è pure stata costruita, che in qualche modo è percepita anche da un cane che ignora il sistema urbanistico di Vanville. Si può evitare di rilevarne la presenza, ma non si può negare che ci sia. Nel momento in cui se ne rileva la presenza, occorre però nominarla e definirla, e questo non può essere fatto se non nel contesto della città come sistema.

4.7. Contratto e significato Tutto questo presuppone, mi pare ormai evidente, una nozione contrattuale sia dei TC che dei CN e dei CM. Mi sono occupato altrove (Eco 1993) dei vari tentativi compiuti nel corso dei secoli per costruire (o ritrovare) una Lingua Perfetta. La maggior parte di questi tentativi si basava sul fatto che si possa individuare una serie di nozioni primitive, comuni a tutta la specie, articolando le quali in una grammatica elementare si potesse costruire una metalingua in cui le nozioni e le proposizioni espresse da qualsiasi altra lingua naturale fossero interamente traducibili, sempre e comunque, e in modo privo di quell’ambiguità propria delle nostre lingue materne. Perché, visto che ho parlato di primitivi semiosici, e di TC legati all’esperienza percettiva, su queste basi non si potrebbe costruire tale lingua perfetta, che potrebbe addirittura oggi assumere le forme di un mentalese che spieghi e il modo in cui funziona la mente umana e quello in cui potrebbe umanamente funzionare una mente al silicio? Perché, credo, una cosa è procedere nel corso della nostra esperienza elaborando TC e CN, e un’altra dire che queste entità (postulabili e postulande) siano davvero universali e metastoriche quanto al loro formato. Non si può costruire una Lingua Perfetta perché essa escluderebbe quel momento contrattuale che rende efficaci le nostre lingue. Tutti si trovano più o meno d’accordo nel riconoscere un topo, ma non solo la competenza dello zoologo è diversa dalla mia, è che lo zoologo deve continuamente controllare se il suo CN ha lo stesso formato del mio. Che il topo sia veicolo di infezioni fa parte del CN di topo? Dipende dalle civiltà, dalle circostanze, e naturalmente dall’età. Ancora nel XVII secolo non si collegavano i topi alle pestilenze, ma oggi sì, e in caso di pestilenza ormai chiunque, prima ancora di percepire il topo come quadrupede, lo percepirebbe come minaccioso. TC e CN sono sempre contrattabili, sono delle specie di nozioni chewing-gum che assumono configurazioni variabili a seconda delle circostanze e delle culture. Le cose sono lì, con la loro presenza invadente, non credo che ci sia una cultura che possa indurre a percepire i cani come bipedi o come piumati, e questo è un vincolo fortissimo. Ma per il resto i significati si sfilacciano, si dissociano, si riorganizzano. Anche a proposito delle proprietà dette “disposizionali”

abbiamo serie ragioni di dubitare se la proposizione lo zucchero è solubile (in qualsiasi lingua sia espressa) sia la stessa quando viene espressa in America Latina (in riferimento allo zucchero bruno di canna) o in Europa (in riferimento allo zucchero bianco di barbabietola). Questa “solubilità” prende tempi diversi. La stessa contrattabilità, come ci ha mostrato la storia dell’ornitorinco, regola la costruzione dei paradigmi scientifici, anche se in tal caso la ristrutturazione dei directories prende più tempo, e viene negoziata in base a criteri rigorosi e non selvaggi.

4.7.1. Significato dei termini e senso dei testi Alcuni hanno concluso che, se il significato è contrattabile, esso non sia più di alcuna utilità per spiegare il modo in cui ci capiamo. Ci sono due modi per evitare di parlare di significato. Il primo modo consiste nell’affermare (come fa per esempio Marconi 1997: 4) che del significato non si può parlare perché è una entità che non si sa dove stia, mentre si può parlare di competenze lessicali, le quali sono “famiglie di abilità”. Ma in tal caso, mi pare, per stabilire che queste competenze lessicali ci sono, non si può che ricorrere a una prova comportamentale: che i parlanti condividano le stesse competenze sarebbe dimostrato dal fatto che essi s’intendono nel parlare di qualcosa, traendo le stesse inferenze dalle stesse premesse, o nel riferirsi a qualcosa, attuando quelli che ho chiamato atti di riferimento felice. Ora, in che cosa si differenzia questa prova dell’esistenza di competenze comuni, da quella che intendo come prova per interpretanza dell’esistenza pubblica di un contenuto (o significato), che a sua volta prova l’esistenza privata di tipi cognitivi? Ricordiamo che per Peirce anche un certo comportamento in atto può essere visto come un interpretante dinamico (il fatto che al comando attenti! tutti i soldati si mettano in una determinata posizione, è un possibile interpretante del comando verbale). Dunque parlare di significati come contenuto non porta ad alcuna ipostatizzazione di entità imprendibili, più almeno di quanto non accada coi concetti di competenza o di abilità lessicali. Il secondo modo consiste nel dire che la comprensione del linguaggio avviene semplicemente attribuendo all’interlocutore delle credenze che possono coincidere o meno con le nostre. Ho però

l’impressione che l’introduzione della credenza non elimini il fantasma del significato (e del TC che esprime) almeno nel senso di contenuto come l’ho inteso sin qui. Per riprendere un esempio di Davidson (1984: 279), se passa una barca attrezzata a ketch e qualcuno accanto a me dice guarda che bello quello yawl!, io assumo (i) o che egli abbia percepito come me l’alberatura della barca e abbia soltanto errato nell’usare il termine linguistico a causa di un semplice lapsus; (ii) o che egli non conosca il contenuto della parola yawl; (iii) o che abbia commesso un errore percettivo. Ma in tutti questi casi debbo postulare che egli conosca tipi di barche tanto come me e che associ a questi tipi un termine che ne esprime il CN, altrimenti non potrei nemmeno supporre che egli (i) abbia semplicemente fatto confusione nell’usare delle parole, (ii) confonda i significati delle parole, (iii) sbagli nell’associare una data occorrenza a una idea di barca che sta concependo da qualche parte (e cioè prenda lucciole per lanterne). Senza l’assunzione che i due interlocutori debbano in qualche modo condividere un sistema, per quanto asistematico, di directories e di files, l’interazione non è possibile. Posso essere mosso da un principio di carità così generoso da attribuire all’altro una organizzazione dei directories diversa dalla mia, e cercare di adeguarmici. Se questo significa paragonare “credenze”, va bene. Ma allora si tratta di pura questione terminologica. L’albero dei directories e quello che dovrebbe essere registrato nei files viene postulato come quella organizzazione del contenuto, per quanto idiosincratica, che altri chiamano “significato”. Ritengo che in queste discussioni rimanga assente una distinzione che molte teorie semiotiche hanno fatto da gran tempo, anche se ammetto che sia difficile mettersi d’accordo sul senso da assegnare ai termini. La nozione di significato è interna a un sistema semiotico: si deve ammettere che in un dato sistema semiotico esista un significato assegnato a un termine. La nozione di senso è invece interna agli enunciati o meglio ai testi. Credo che nessuno rifiuti di ammettere che esiste un significato abbastanza stabile della parola cane (al punto che si può persino - estremo atto d’imprudenza semiotica - assumere che essa sia sinonima di dog, di chien, e di perro e di Hund) e che tuttavia la stessa parola possa assumere sensi diversi all’interno di diversi enunciati (si pensi ai casi di metafora).22

Raccomando di non pensare a un parallelismo totale con la differenza posta da Frege tra Sinn e Bedeutung. In ogni caso mi pare evidente che il dizionario possa assegnare un significato al termine X e che tuttavia lo stesso termine all’interno di diversi enunciati possa assumere sensi diversi (se non altro nel senso più banale del termine, per cui l’espressione questo pontefice è corrotto, pronunciata da un anticlericale rispetto ad Alessandro VI, possa avere un senso diverso da quella pronunciata rispetto a Giovanni XXIII da un prelato tradizionalista). Ora è evidente che per determinare il senso di un enunciato occorre fare ricorso più volte al principio di carità. Ma la stessa regola non vale per quanto riguarda il significato di un termine. Dire che capirsi sia effetto di infinite negoziazioni (e di atti di carità per poter comprendere le credenze altrui, o il formato della loro competenza) riguarda la comprensione di enunciati ovvero di testi.23 Ma non vuol dire che si possa eliminare la nozione di significato, dissolvendo la vecchia e venerabile semantica nella sintassi, da un lato, e nella pragmatica dall’altro. Dire che il significato viene contrattato non vuol dire che il contratto nasce dal nulla. Anzi, anche dal punto di vista giuridico, sono possibili contratti proprio perché pre-esistono regole contrattuali. La vendita è un contratto: se A vende una casa a B, dopo il contratto la casa verrà definita come proprietà di B, e non sarebbe mai stata tale se non ci fosse stato il contratto di vendita; ma perché il contratto potesse essere fatto, occorreva pure che A e B concordassero sul CN di vendita. A e B possono persino contrattare sul contenuto di casa (B potrebbe dire ad A che quello che sta tentando di vendergli non è una casa, ma un cascinale, una catapecchia, una stalla, un grattacielo, una capanna su palafitte, un rudere inadatto all’abitazione). Ma anche in tal caso partirebbero da una nozione comune di artefatto destinato originariamente al riparo di esseri viventi o di cose, e se non sono in grado di avere una nozione regolata che permetta loro come minimo di distinguere ciò che potrebbe essere definito come casa da ciò che potrebbe essere definito come albero, non riuscirebbero neppure a iniziare la contrattazione.24 Definire il significato del termine vendita è diverso che dire in che senso io debba interpretare l’espressione ti sei venduto ai nemici. È diverso dire che non si possono definire regole precise per disambiguare un enunciato (perché tutto dipende dalle credenze di

ciascuno), e dire che i significati dei termini di un linguaggio dato, che in qualche misura debbono essere pubblici, sono pur sempre contrattabili, e non solo nel passaggio da lingua a lingua, ma all’interno della stessa lingua, secondo pertinenze diverse. I significati (in quanto contenuti) possono sempre essere individuati, anche se fluttuano, si raggrumano, per alcuni parlanti si raggrinziscono quasi sino a impedire loro di parlare in modo appropriato o di riconoscere qualcosa. Ma non vedo alcuna ragione per cui una visione contrattuale del senso degli enunciati debba escludere che da un lato ci siano linee di tendenza che vincolano i nostri tipi cognitivi, e dall’altro convenzioni linguistiche che registrano questi vincoli e forniscono la base per interpretazioni - e contrattazioni - successive.25 È certo che se io, seduto in macchina vicino al guidatore, lo sollecito dicendogli passa, il semaforo è blu, il guidatore capisce al volo che volevo dire verde (o pensa che sia daltonico, o mi attribuisce un lapsus). Forse questo accade perché il significato delle parole non conta e quello mi capisce solo perché mi attribuisce una credenza simile alla sua? E cosa sarebbe accaduto se io avessi detto in quel momento passa, perché 7 è un numero primo? Avrebbe pensato che, essendo come lui, non potevo che riferirmi al verde del semaforo? O la forza delle parole, indipendente dalla situazione, non lo avrebbe obbligato a cercar di capire quello che intendevo comunicargli, forse per implicatura, perché certamente ho fatto una osservazione di carattere matematico e non viario?

4.7.2. Il significato e il testo Ho detto che certe sorprese di fronte alla flessibilità dei nostri strumenti semiotici nascono dal fatto che, in quasi tutti i discorsi circa l’inafferrabilità del significato, si confonde significato dei termini e senso dell’enunciato. Ma il problema non sta solo qui. È che si confonde tra enunciati elementari e testi. Nell’esempio del semaforo, il dialogo non può arrestarsi a quel punto. Il guidatore deve chiedermi un supplemento d’informazione, io debbo dirgli che cosa intendevo con quell’allusione matematica. La semiotica testuale ha riconosciuto da tempo che si possono riconoscere sistemi di convenzioni a livello grammaticale e tuttavia ammettere che

a livello testuale avvengono contrattazioni. È il testo che contratta le regole. Alla fine, scrivere un libro intitolato Orgoglio e pregiudizio vuole anche dire che, alla fine del romanzo, la nostra idea di quei due sentimenti, o comportamenti sociali, ne dovrà uscire modificata. Però a patto che sin dall’inizio avessimo una nozione vaga di che cosa significano quelle due parole. A livello degli improbabilissimi enunciati isolati (e pronunciati solo nei laboratori linguistici) non c’è contrattazione, ci sono solo soggetti autistici che si scambiano frammenti del proprio idioletto privatissimo, asserendo che si può non essere sposato senza essere scapolo, che gli elefanti possono avere o non avere proboscidi. Ma per contrattare con i miei pazienti lettori che sia possibile dire veritieramente nello stesso tempo che Ayers Rock è una montagna e che Ayers Rock non è una MONTAGNA, mi ci è voluta una lunga argomentazione in forma testuale, e non potevo affidarmi alla buona volontà dell’interlocutrice, né soltanto alla sua auspicabile carità nei miei confronti. Viene qui a proposito una riflessione su quei nanetti blu inventati da Peyo, che originalmente si chiamano Schtroumpf, e in italiano Puffi.26 La caratteristica del linguaggio Schtroumpf è che in esso, ogni volta che è possibile, nomi propri e comuni, verbi e avverbi vengono sostituiti da coniugazioni e declinazioni della parola schtroumpf. Per esempio, in una delle storie uno Schtroumpf decide di conquistare il potere e inizia una campagna elettorale, e il suo discorso suona così: Demain, vous schtroumpferez aux urnes pour schtroumpfer ce-lui qui sera votre schtroumpf! Et à qui allez-vous schtroumpfer votre voix? À un quelconque Schtroumpf qui ne schtroumpfe pas plus loin que le bout de son schtroumpf? Non! Il vous faut un Schtroumpf fort sur qui vous puissiez schtroumpfer! Et je suis ce Schtroumpf! Certains - que je ne schtroumpferai pas ici - schtroumpferont que je ne schtroumpfe que les honneurs! Ce n’est pas schtroumpf!... C’est votre schtroumpf à tous que je veux et je me schtroumpferai jusqu’à la schtroumpf s’il faut pour que la schtroumpf règne dans nos schtroumpfs! Et ce que je schtroumpfe, je schtroumpferai, voilà ma devise! C’est pourquoi tous ensemble, la schtroumpf dans la schtroumpf, vous voterez pour moi! Vive le pays Schtroumpf!27

Lo Schtroumpf sembra mancare di tutti i requisiti necessari a una lingua funzionante. Ovvero, è una lingua sfornita di sinonimi e piena di omonimi, più di quanto una lingua normale possa sopportare. Eppure non solo gli Schtroumpf si capiscono benissimo, ma ciò che conta è che li capisce il lettore. Questo sembrerebbe far propendere per una posizione davidsoniana. Gli Schtroumpf non parlano nel vuoto (non pronunciano frasi al di fuori di una situazione qualsiasi), bensì si muovono nel contesto di una storia a fumetti, e dunque in un contesto multimediale in cui noi non solo leggiamo (o udiamo) quello che essi dicono ma vediamo anche che cosa fanno. Che è poi la situazione in cui noi interpretiamo di solito le parole degli altri - ed è perché parliamo in una situazione che siamo in grado di applicare i deittici, come questo o quello. Pertanto si potrebbe dire che, udendo quella raffica di omonimi in una data situazione, noi attribuiamo al parlante le stesse credenze che nutriremmo nella stessa situazione, e per principio di carità gli prestiamo quei termini che esso non ha pronunciato ma che avrebbe o dovrebbe aver pronunciato. Oppure si potrebbe dire (wittgensteinianamente) che nella lingua Schtroumpf il vero significato del termine è il suo uso (mi riferisco ovviamente non allo Schtroumpfus Schtroumpfico-Schtroumpficus quanto alle Schtroumpfische Unterschtroumpfungen). Ma qui sorgono due obiezioni. La prima è che noi “prestiamo” o attribuiamo al parlante i termini che non ha pronunciato proprio perché questi termini (con il loro significato convenzionale) preesistono nel nostro lessico. Tanto per dirne una, se il lettore ha capito il mio gioco Schtroumpf su Wittgenstein, è perché aveva già udito menzionare i titoli originali. Possiamo contrattare e negoziare solo perché esiste già un sistema semiotico (intertestuale) predefinito, in cui le varie espressioni hanno un contenuto. In secondo luogo, il discorso elettorale citato sopra non fa riferimento alla situazione percepibile (a quanto il disegno mostra). Fa riferimento alla sceneggiatura “discorso politico” e alla sua retorica. Rinvia a una grande quantità di enunciati che abbiamo udito in situazione analoga e pertanto rinvia all’universo della intertestualità. Un’espressione come un quelconque Schtroumpf qui ne schtroumpfe pas plus loin que le bout de son schtroumpf è comprensibile perché si conosce la frase fatta non saper guardare più in là del proprio naso. Un enunciato come je me schtroumpferai jusqu à la schtroumpf è

decodificabile perché abbiamo udito infinite volte dire io mi batterò sino alla morte, e lo abbiamo udito dire nell’ambito della retorica del discorso deliberativo. La schtroumpf dans la schtroumpf lo si capisce perché abbiamo udito dire infinite volte la mano nella mano. Questo significa che la lingua Schtroumpf risponde alle regole di una linguistica del testo, dove il senso dipende dall’individuazione del topic testuale. È vero che (cfr. Eco 1979) ogni testo è una macchina pigra che richiede una attiva cooperazione interpretativa da parte del suo destinatario, e questo sembrano invitarci a fare i testi in Schtroumpf: ma la nostra collaborazione è possibile perché ci richiamiamo all’universo dell’intertestualità e possiamo comprendere lo Schtroumpf perché ogni parlante usa il termine schtroumpf e i suoi derivati solo e sempre in quei contesti in cui una frase del genere è già stata pronunciata. La lingua Schtroumpf è una lingua parassitaria perché, per quanto sostantivi, verbi e avverbi vengano sostituiti con l’omonimo tuttofare, essa non sarebbe compresa se non fosse sostenuta dalla sintassi (e da vari contributi lessicali) della lingua base (sia essa il francese originale o quella delle sue traduzioni). Ora, in una delle storie entra in scena il nemico degli Schtroumpf, lo stregone Gargamella. Costui parla lo stesso francese su cui si basano gli Schtroumpf, ma in modo normale. Gargamella si trasforma per arti magiche in Schtroumpf e si reca nel villaggio dei suoi piccoli nemici. Ma deve limitarsi a strisciare lungo i muri senza rispondere a quanto gli viene chiesto perché (ci viene detto) egli non conosce lo Schtroumpf. Come è possibile, se abbiamo visto che la lingua base è uguale alla sua, e potrebbe interpretare quanto gli Schtroumpf dicono se solo applicasse il principio di carità? In fondo la regola base dello Schtroumpf è: “sostituisci ogni termine della lingua comune con schtroumpf ogni qual volta puoi farlo senza eccessiva ambiguità”. Ma il problema di Gargamella è evidentemente che trova ambiguo, ovvero incomprensibile, ogni contesto, per la semplice ragione che non ha informazione intertestuale. Facciamo l’ipotesi che un parlante italiano di media cultura oda un poeta Schtroumpf recitare Nello schtroumpf dello schtroumpf di nostra schtroumpf. Certamente coglierebbe il rinvio dantesco. Può darsi che coglierebbe anche il rinvio shakespeariano udendo To schtroumpf or not to schtroumpf. Ma rimarrebbe perplesso udendo Schtroumpf is the schtroumpfest schtroumpf perché non avrebbe mai pre-udito l’eliotiano

April is the cruellest month. Si troverebbe nella situazione di Gargamella.28 Ogni applicazione del principio di carità a ciò che qualcuno sta per dire si basa non solo su un minimo di informazione lessicale ma soprattutto su una vasta informazione circa il già detto.

5. NOTE SUL RIFERIMENTO COME CONTRATTO

Dopo aver parlato sul significato come contratto nasce la tentazione di vedere se la nozione di contratto/negoziazione non si applichi anche al fenomeno del riferimento, in che misura si possa concepire in termini contrattuali anche il riferimento. Non è per accidente che i paragrafi di questo saggio non sono numerati (e tanto meno sottonumerati): è proprio per escludere ogni minimo sospetto che il mio discorso aspiri a una qualche sistematicità. La questione del riferimento, in tutte le sue diramazioni, è tale da far tremare le vene e i polsi. In questa sede mi limito solo a una serie di osservazioni problematiche, che mettono in luce alcune ragioni per cui è conveniente pensare a una natura contrattuale delle operazioni di riferimento – o almeno a una loro forte componente negoziale. In Eco (1975: 219) accettavo la proposta di Strawson (1950) per cui menzionare o riferirsi non è qualcosa che un’espressione fa, ma è qualcosa che qualcuno fa usando un’espressione. Strawson diceva poi che “dare il significato di un’espressione... è dare direttive generali per usarla nel riferirsi a (o menzionare) particolari oggetti o persone” e che “dare il significato di un enunciato è dare direttive generali per usarlo nel fare asserzioni vere o false”. Continuo a ritenere questa impostazione soddisfacente e a ritenere il riferimento un atto linguistico. Questo non toglie che sia molto imbarazzante dire che tipo di atto linguistico sia e quali siano le sue condizioni di felicità. Tra il significato delle espressioni, che provvede anche istruzioni per l’identificazione o il reperimento del referente, e il significato dell’enunciato, che dovrebbe riguardare anche il suo valore di verità, rimane vuoto proprio lo spazio del riferimento.

Possiamo riferirci a tutti i gatti? Anzitutto, perché ci si possa intendere nel corso di queste parzialissime note, debbo chiarire in che senso userò il termine riferimento. Intendo escludere un uso “allargato” del termine,1 e mi pare opportuno (anche alla luce dei saggi precedenti) limitare la nozione di

riferimento ai casi che forse più propriamente si potrebbero dire di designazione, e cioè agli enunciati che menzionano individui particolari, gruppi di individui, fatti o sequenze di fatti specifici, in tempi e luoghi specifici. Userò d’ora in avanti la nozione generica di “individuo” anche per segmenti spazio-temporali individuabili, come il 25 aprile 1945, e mi attengo all’aurea decisione per cui nominantur singularia sed universalia significantur. Rimando all’Appendice I per la torturatissima storia di termini come denotatio e designatio, che hanno assunto sensi diversi nel corso dei secoli, ma mi pare si possa accettare l’uso ormai invalso per cui i termini generali “denotano” proprietà di classi o generi, mentre i termini singolari o le espressioni che circoscrivono porzioni precise dello spazio-tempo “designano” individui (cfr. per esempio Quine 1995: 32-33). Pertanto ritengo che si compiano atti di riferimento usando enunciati designativi come guarda quell’ornitorinco, vammi a prendere l’ornitorinco impagliato che ho lasciato sul tavolo, l’ornitorinco dello zoo di Sydney è morto, mentre ritengo che enunciati quali per esempio gli ornitorinchi sono mammiferi o gli ornitorinchi depongono uova non si riferiscano a individui bensì asseriscano alcune proprietà che vengono attribuite a generi, specie o classi di individui. Per rifarmi all’esempio computeristico di cui in 4.2, in tal caso io non sto parlando tanto di ornitorinchi quanto del modo il cui è organizzato il nostro albero dei directories (o quello degli zoologi). Non ci si riferisce ad alcun individuo o gruppo di individui, ma si sta riasserendo una regola culturale, si sta facendo un asserto semiotico e non fattuale,2 si sta ribadendo il modo in cui la nostra cultura ha definito un concetto. Definire un concetto vuole dire elaborare una unità di contenuto, che corrisponde appunto al significato, o a parte del significato, del termine corrispondente. Dire che “ci si riferisce” a significati è perlomeno un modo bizzarro di usare la parola riferimento. Se invece dico che Caldwell nel 1884 ha visto un ornitorinco mentre deponeva uova mi riferisco a un individuo x (Caldwell), che in un tempo y (1884) ha esaminato un ornitorinco individuale (quale io non lo so, ma lui sì, e certamente era quell’ornitorinco lì e non un altro, e immagino fosse femmina) scoprendo che deponeva oggetti ovoidali s1 s2..sn (io non so quanti, ma certamente lui lo sapeva, ed è a quegli oggetti che l’asserto si riferisce e non ad altri).

Se per alcuni autori si hanno casi di riferimento a essenze, che chiamerò quiddità, io qui vorrei solo occuparmi di designazione di haecceitates. Naturalmente intendo quidditas nel suo senso scolastico, come l’essenza stessa vista in quanto conoscibile e definibile. Per citare Tommaso d’Aquino, il quale peraltro riferisce solo le parole di Averroè (De ente et essentia III) “Socrates nihil aliud est quam animalitas et rationalitas, quae sunt quidditas ejus”. In questo contesto sto insistendo sul fatto che si può designare Socrate ma non si può designare la sua quiddità, e pongo in dubbio che sia lecito dire che ci si riferisce alla quiddità di Socrate. Mettendo in gioco il concetto di haecceitas (scotista e non tomista) metto naturalmente in dubbio che Socrate sia nihil aliud che la sua quiddità. E infatti anche Tommaso sapeva bene che per parlare di Socrate come individuo occorreva ricorrere a un principium individuationis, che era la materia signata quantitate. Siccome in questa sede non sto facendo né storia della filosofia medievale né professione di neotomismo o neoscotismo, userò liberamente la nozione di haecceitas come caratteristica irripetibile degli individui (dipenda essa dalla materia signata quantitate o da qualsiasi altro principio d’individuazione - come per esempio un patrimonio genetico, o una serie di determinazioni anagrafiche). Assumo la nozione d’individuo nel suo senso più intuitivo, come la usiamo nel linguaggio comune. Noi di solito riteniamo non solo che ci siano oggetti irripetibili di cui non è pensabile alcuna replica o doppio (come mia figlia o la città di Grenoble) ma che persino per gruppi di oggetti di cui ciascuno è il doppio dell’altro (come per esempio i fogli di una risma di carta) è sempre possibile scegliere uno di questi fogli e decidere che, pur avendo tutte le proprietà degli altri, è tuttavia quel foglio, anche se la sola marca d’individualità che posso riconoscergli è che si tratta del foglio che ho in mano in quel momento. Ma quel foglio è talmente individuale che, se lo brucio, ho bruciato quello e non un altro. In tale senso mi pare che la nozione medievale di materia signata quantitate non sia diversa dalla idea dal principio d’individuazione enunciato per esempio da Kripke (1972: 109): “se un oggetto materiale trae origine da un certo pezzo di materia, allora esso non avrebbe potuto avere origine da nessun’altra materia”. Questa idea che un individuo abbia una haecceitas non ha nulla ancora a che vedere con quella che l’uomo o l’acqua (in generale) abbiano una essenza, anche se i due

problemi, nelle attuali teorie causali del riferimento, appaiono sovente in compagnia. Questa caso mai è una buona ragione per distinguere tra designazione (di individui) e denotazione (di generi). Ho però precisato che intendo usare riferimento non solo per la designazione di individui (nel senso più lato del termine per cui anche il 25 aprile 1945 è un segmento spazio-temporale individuabile e l’assassinio di Giulio Cesare è un fatto individualmente puntuale) ma anche per gruppi d’individui. Per “gruppi di individui a cui ci può riferire” (comprendendo anche segmenti spazio-temporali generici, come gli anni Trenta) si deve intendere un insieme di individui tale che o è stato numerato, o è stato numerabile, o potrebbe essere un giorno numerabile (così che ogni singolo individuo potrebbe essere individuato). Riferimenti al primo caduto della seconda guerra mondiale, o ai primi uomini installatisi in Australia sono certamente assai vaghi: e tuttavia si presume, nell’usarli, che sia teoricamente possibile un giorno (o che sarebbe stato possibile in passato) appurare di quali individui si trattasse, se non altro per il fatto che essi sono certamente esistiti. Decidere se un enunciato designa individui o classi dipende non dalla sua forma grammaticale (basandosi sulla quale si possono costruire infiniti e spericolati esempi e controesempi, senza mai venirne definitivamente a capo) ma dall’intenzione dei mittenti e dalle presupposizioni dei destinatari. Pertanto è necessario un primo contratto per decidere se l’enunciato ha funzione referenziale o meno. Talora la discriminazione è molto facile: questo bastone è lungo un metro designa certamente un certo bastone individuale, mentre un metro equivale a 3,2802 piedi esprime una legge, o una convenzione. Ma in altri casi si richiede una decisione più ponderata. Se Erode, prima della nascita di Gesù, avesse detto a Erodiade che odiava tutti i bambini, probabilmente essa avrebbe consentito sul fatto che Erode non si stava riferendo a dei bambini particolari ma stava esprimendo la sua insofferenza per i bambini in generale. Quando però Erode ordina ai suoi scherani di uccidere tutti i bambini di Galilea, col suo ordine intende designare tutti i bambini nati entro l’anno in un luogo preciso, uno per uno (tra l’altro, erano identificabili proprio grazie al censimento che era stato appena fatto).3 C’è però un punto che occorre mettere in chiaro, anche se dovrebbe essere chiaro dai tempi di Platone e Aristotele. I termini isolati non

asseriscono nulla (hanno al massimo un significato): il vero e il falso si dicono solo nell’enunciato, o nella proposizione corrispondente. Ora non è che riferirsi sia la stessa cosa che dire il vero o il falso (vedremo che si possono compiere atti di riferimento anche senza aver deciso se ciò a cui ci si riferisce sia il caso o meno), ma certamente, se ci si riferisce sempre e solo a individui, ci si riferisce a stati di un mondo (qualsiasi). E per fare questo occorre articolare un enunciato. Se dico gatto non mi riferisco a nulla. Mi riferisco sempre e solo a un gatto o ad alcuni gatti localizzati o localizzabili nel tempo e nello spazio. Invece quando si dice che si si può riferire a generalia si suggerisce che il riferimento sia qualcosa che si fa coi termini isolati. Accade spesso di sentire persone rispettabilissime affermare che la parola gatto si riferisce ai gatti, o all’essenza dei gatti. Questo mi pare un modo ingannevole di porre il problema, per le ragioni già dette sopra, e me ne asterrò. La parola gatto significa o denota, se si vuole, l’essenza del gatto (o il CN, o il CM corrispondente) sempre e comunque, fuori di ogni contesto, e pertanto il suo potere significante o denotativo appartiene al tipo lessicale. La stessa parola designa invece un dato gatto solo nel contesto di un enunciato espresso, dove appaiano specificazioni di luogo e di tempo, e pertanto la funzione di designazione è assolta dall’occorrenza. L’enunciato tipo i gatti sono mammiferi esprime un pensiero, in qualsiasi contesto appaia, anche se viene trovato in una bottiglia (e tra l’altro si può decidere in ogni caso se sia vero o falso), mentre l’enunciato c’è un gatto in cucina si riferisce a un X localizzato spazio-temporalmente e, trovato scritto sul messaggio in una bottiglia, perde ogni efficacia referenziale. Anche se si può sospettare che fosse un atto di riferimento, non si può più provare se, nel luogo e nel momento in cui è stato emesso, fosse vero o falso (cfr. Ducrot 1995: 303-305). Chiarite le condizioni alle quali si può seguire il discorso che segue, si prosegua.

Riferirsi ai cavalli Se riandiamo alla storia di Montezuma che ho raccontato in 3.3 si vede che (i) i suoi messi gli trasmettono per interpretanti il CN del

cavallo; (ii) essi si stanno evidentemente riferendo a qualcosa che avevano visto nel corso dello sbarco degli spagnoli; (iii) Montezuma capisce che si stanno riferendo a qualcosa, ancora prima di avere capito di che cosa si tratti; (iv) in base alla loro interpretazione Montezuma si costruisce un TC del cavallo grazie al quale, presumibilmente, sarà in grado di riconoscere il referente quando vi si imbatterà; (v) a quanto pare Montezuma dopo aver ricevuto il messaggio è rimasto a lungo in silenzio e possiamo pensare che non si sia mai riferito ai cavalli sino al momento in cui non ne ha riconosciuto; (vi) Montezuma avrebbe potuto, al momento opportuno, riconoscere il misterioso maçatl di cui gli avevano parlato i messi, eppure, continuando a rimuginare tra sé e sé, avrebbe potuto asternersi dal parlarne e quindi di riferirsi ai cavalli. Tutto questo vale se qualcuno per “riferirsi a un cavallo o ai cavalli” non intenda “intenzionare il noema cavallo”. Ma allora staremmo giocando sui termini ancora una volta, e il riferimento è problema già abbastanza complesso per complicarlo col problema dell’intenzionalità. Come vedremo basta porsi il problema dell’intenzione del parlante. Dunque possiamo associare un CN a un termine, questo CN (a cui dovrebbe corrispondere un TC) contiene istruzioni per il riconoscimento del referente, ma le istruzioni per il riconoscimento del referente e il riconoscimento stesso non hanno immediatamente nulla a che vedere con l’atto di riferirsi a qualcosa. Adesso complichiamo la nostra storia. Gli spagnoli arrivano al palazzo di Montezuma, costui crede di riconoscere un maçatl nella corte del palazzo, e corre affannato dai suoi cortigiani (tra cui i suoi messi) affermando che nella corte c’è un maçatl. In quel caso egli si sarebbe certamente riferito a un cavallo e così avrebbero inteso i suoi messi, dato che erano proprio loro che gli avevano comunicato il significato della parola. Ma uno dei messi potrebbe avere avuto un dubbio: era certo che Montezuma usasse davvero la parola maçatl nel senso in cui la usavano loro? Il problema non era da poco: se Montezuma aveva ragione, e nella corte era davvero apparso un cavallo, questo significava che gli spagnoli erano già arrivati nella capitale. E se, ascoltando la loro descrizione, Montezuma avesse capito male, e ora ritenesse di avere visto un cavallo mentre di fatto aveva visto qualcosa d’altro? Benché ci siano persone anche rispettabili che sostengono che la parola cavallo si riferisce sempre e comunque ai

cavalli (alla cavallinità) indipendentemente dalle intenzioni o dalla competenza lessicale del parlante, mi pare che i messi non avrebbero potuto accontentarsi di questa bella sicurezza, perché il loro problema era di sapere che cosa aveva visto Montezuma, e a che cosa si stesse riferendo, sia pure sbagliando il nome. I messi avevano il problema che hanno molti studiosi contemporanei, quello del modo in cui si possa “fissare il riferimento”. Ma il loro problema non era come identificare il referente della parola maçatl, sul CN della quale si erano già messi d’accordo. Essi sarebbero stati quasi d’accordo con chi definisce l’estensione di un termine come l’insieme di tutte le cose per cui il termine è vero (salvo che avrebbero opportunamente corretto, sapendo di parlare ancora di termini e non di enunciati, “l’insieme delle cose a cui il termine si può correttamente applicare volendo poi enunciare proposizioni vere”). Essi dovevano però decidere se Montezuma applicasse il termine correttamente (e il criterio di correttezza era quello che essi - i Nomoteti - avevano fissato il giorno dello sbarco spagnolo), e solo dopo aver preso questa decisione avrebbero potuto fissare il riferimento inteso da Montezuma con l’enunciato c’è un maçatl nella corte del palazzo. Si noti che parlando Montezuma aveva presumibilmente l’intenzione di usare la parola maçatl nello stesso senso in cui l’usavano i suoi messi, ma questo ci conforta pochissimo, e confortava pochissimo loro. Essi potevano, per principio di carità, assumere che Montezuma la usasse nello stesso loro senso, ma non ne erano sicuri. I messi erano sicuri che Montezuma si stesse riferendo a qualcosa e che quello che stava mettendo in atto fosse un atto di riferimento, ma non erano sicuri che esso “puntasse” al referente che loro intendevano. Che fare? Non c’era che una soluzione: interrogare Montezuma, per sapere se con la parola maçatl intendesse riferirsi ad animali fatti così e così. Naturalmente anche questo non sarebbe bastato, e la sicurezza la si sarebbe raggiunta solo quando Montezuma avesse indicato loro un certo animale pronunciando il termine appropriato, ma sino a quel momento occorreva mettere in pubblico il più possibile, stimolando interpretazioni di Montezuma, il CN di maçatl. Ne sarà seguita quindi una lunga contrattazione, alla fine della quale ambo le parti avevano tra le mani una sequenza di parole, gesti, disegni messi in pubblico, una sorta di verbale, di dichiarazione notarile. Solo attraverso quel contratto espresso i messi sarebbero stati

ragionevolmente sicuri che Montezuma si stava riferendo alla stessa cosa a cui intendevano riferirsi loro quando dicevano maçatl Fissare il riferimento dell’enunciato voleva dire ancora una volta (come per l’interpretazione del TC attraverso un CN) esplicitare una catena d’interpretanti intersoggettivamente controllabili. A questo punto i messi sarebbero stati sicuri che Montezuma si stava riferendo a qualcosa, che il qualcosa a cui si stava riferendo era qualcosa che essi erano pronti a riconoscere come un cavallo, eppure non sarebbero stati ancora sicuri che il cavallo in cortile ci fosse davvero. Il che ci dice che riferirsi-a, avere l’intenzione (riferendosi) di usare il linguaggio come lo usano gli interlocutori, e possedere le stesse istruzioni per riconoscere il referente, non ha ancora nulla a che vedere col fatto che l’atto linguistico del riferimento esprima una proposizione vera. Credo che queste differenze vadano tenute presenti quando si ammette che la semiotica d’ispirazione strutturalista sia stata disinteressata al riferimento. Non credo che nessuno abbia mai negato che usiamo il linguaggio per compiere atti di riferimento; forse non si era detto con sufficiente energia che fa parte del significato di un termine anche una serie di istruzioni per identificare il referente di questo termine (quando esso venga usato in un enunciato con funzioni referenziali),4 ma non si è mai neppure negato che nel significato di gatto dovrebbe esserci qualcosa (fosse pure “animale felino quadrupede miagolante”) che ci possa permettere di distinguere all’occorrenza un gatto da un tappeto. Piuttosto, dato che il problema delle semiotiche d’ispirazione strutturalista era come definire il funzionamento dei sistemi di segni (o dei testi) in se stessi, e indipendentemente dal mondo a cui potevano riferirsi, l’accento era posto eminentemente sul rapporto tra significante e significato, o tra espressione e contenuto.5 Che poi un qualsiasi sistema di segni potesse essere usato per riferirsi a oggetti e stati del mondo, nessuno lo metteva certamente in dubbio ma, in parole assai semplici, si riteneva che per poter usare la parola gatto onde riferirsi a un gatto occorreva prima che i parlanti concordassero sul significato “gatto”.6 Che era poi un modo di riprendere, in altro contesto, l’affermazione del secondo Wittgenstein (1953, § 40) per cui non si deve confondere il significato di un nome col portatore di un nome: “Se il signor N.N. muore si dice che è morto il portatore del nome, non il

significato del nome. E sarebbe insensato parlare in questo modo, perché se il nome cessasse di avere un significato, non avrebbe senso il dire ‘il signor N.N. è morto’”. Le semiotiche di ispirazione strutturalista partivano dal principio che gli atti di riferimento sono possibili solo in quanto si conosce il significato dei termini usati per riferirsi - idea sostenuta anche all’interno del paradigma analitico, vedi per esempio Frege; ma a differenza di Frege non ritenevano interessante approfondire il fenomeno del riferimento, considerandolo un accidente extralinguistico. Il mio sospetto è che il problema sia rimasto oscuro anche per le semantiche vero-funzionali, e per ovvie ragioni: il problema del riferimento non può essere risolto in termini formali perché ha a che fare con le intenzioni di chi parla ed è pertanto un fenomeno pragmatico. Come tale è sfuggito sia alla presa delle semiotiche strutturalistiche che delle semantiche modellistiche. La provocazione che dobbiamo alla teoria della designazione rigida (anche se, come vedremo, non la ritengo persuasiva)7 è quella di averci indotto a pensare che ci possono essere atti di riferimento che, almeno a prima vista, non presuppongono la comprensione del significato dei termini usati per riferirsi.

La vera storia del sarchiapone Per chi non lo sapesse la scenetta del Sarchiapone, celebre negli annali del teatro di rivista italiano degli anni Cinquanta, si svolgeva in uno scompartimento ferroviario tra Walter Chiari e Carlo Campanini. Ai fini dell’analisi che intendo darne ritengo utile riassumerla in sei fasi. FASE 1. Chiari entra e saluta Campanini e gli altri viaggiatori. Campanini a un certo punto si alza e tocca sopra la reticella una cesta coperta da un panno, e si ritrae come se fosse stato morso. Invita gli altri a non fare rumore per non disturbare il sarchiapone, notoriamente irritabilissimo. Chiari, vanesio e millantatore, non vuole dare a vedere che ignora che cosa sia un sarchiapone, e inizia a parlarne con disinvoltura ostentando di aver avuto a che fare coi sarchiaponi sin dalla giovinezza.

FASE 2. Ignaro di che cosa sia il sarchiapone, Chiari va per tentativi. Per esempio, appreso da Campanini che il suo è un sarchiapone americano, asserisce di aver visto solo sarchiaponi asiatici. Questo gli permette di azzardare l’enunciazione di proprietà che, a detta di Campanini, il sarchiapone americano non ha, ma ben presto si rende conto di alcune difficoltà. Per esempio accenna anche con la mimica al tipico “muso” del sarchiapone e Campanini lo guarda con aria interrogativa chiedendogli in che senso voglia dire che il sarchiapone ha un muso; Chiari corregge il tiro, affermando che si era espresso impropriamente, per metafora, per alludere al becco; ma non appena sta terminando di pronunciare la parola becco coglie un’aria di stupore sul volto di Campanini e si affretta a emendarsi parlando di naso. FASE 3. Da questo punto in avanti si ha un crescendo di variazioni a ritmo sempre più accelerato, nel corso delle quali Chiari s’incaponisce ed eccita sempre più. Sconfitto anche sul naso, sorvola e accenna agli occhi, poi subito parla di un unico occhio, battuto sull’occhio tenta di accennare alle orecchie, messo di fronte all’affermazione recisa che un sarchiapone non ha orecchie parla subito di pinne, poi ripiega sul mento, sul pelo, sulla lanugine, sulle penne, tenta una esplorazione sul modo in cui l’animale cammina per riprendersi immediatamente dicendo che voleva intendere il suo tipico saltellìo, si azzarda sulle zampe, si emenda progressivamente sul loro numero, prova a menzionare le ali (di fronte allo sguardo sbigottito di Campanini cerca di spiegare che voleva dire che i sarchiaponi sono “leali”), prova con le squame, accenna senza successo al colore (giallo? azzurro? rosso?), sempre più usa mezze parole, sillabe interrogative per spiare la reazione (fatalmente negativa) di Campanini.8 FASE 4, o climax della scenetta. Chiari, esasperato, esplode in una tremenda e liberatoria invettiva nei confronti di quella bestia “schifosa”, di quell’animale impossibile, che non ha gnigno, non ha becco, non ha zampe, zoccoli, artigli, dita, piedi, unghie, penne, squame, corna, peli, coda, denti, occhi, criniera, bargigli, occhi, cresta, lingua - e che cosa mai possa essere rinuncia ormai a capire. FASE 5. Chiari ingiunge a Campanini di mostrare il sarchiapone, gli altri viaggiatori si allontanano terrorizzati, non appena Campanini accenna ad aprire la cesta anche Chiari si spaventa, e finalmente Campanini gli rivela serafico che il sarchiapone non esiste, gli mostra

che la cesta è vuota, e gli confida che usa sovente quel trucco per allontanare gli importuni e restare solo nello scompartimento. FASE 6. Segue una “coda” in cui Chiari (riacquistata la sua sfacciataggine) vuole ora far credere di aver subito intuito che si trattava di uno scherzo.

Ci sono scatole chiuse? La storia del sarchiapone mi pare esemplare. Nella Fase 1 abbiamo due interlocutori il primo dei quali pone nel discorso un termine, e l’altro (attenendosi alle massime conversazionali) presuppone - sino a prova contraria - l’esistenza dell’oggetto corrispondente.9 Visto che all’inizio Chiari non sa quali proprietà abbia un sarchiapone, salvo quella di essere presumibilmente un animale, tratta il termine corrispondente a scatola chiusa. Voglio chiarire che cosa intendo per scatola chiusa. Essa non ha nulla a che fare con quella “scatola nera” in cui ho ripetutamente asserito di non intendere ficcare il naso. Se vogliamo, intendiamo una scatola chiusa come una scatola bianca: una scatola nera è qualcosa che per definizione non si può aprire, mentre una scatola bianca, anche se chiusa, potrebbe in seguito essere aperta. Una scatola chiusa è quella che ci viene offerta avvolta da un bel nastro, durante le feste natalizie o il giorno del nostro compleanno: prima ancora di averla aperta intuiamo che contiene un regalo e iniziamo a ringraziare l’offerente. Gli diamo fiducia, presumiamo che non sia così ineducatamente burlone da esporci alla sorpresa di trovare poi la scatola vuota. Del pari, comperare qualcosa a scatola chiusa significa dar credito al venditore, presupporre che dentro la scatola ci sarà effettivamente quanto garantisce. Nell’interazione comunicativa quotidiana accettiamo moltissimi riferimenti a scatola chiusa: se qualcuno ci dice che deve assentarsi urgentemente perché il signor Todi è ammalato, accettiamo che esista da qualche parte un signor Todi, anche se prima non ne sapevamo nulla. Se invece l’interlocutore dice che per ottenere il nostro rimborso viaggio a un congresso tenuto a Vipiteno dobbiamo rivolgerci a Todi, ci affrettiamo a chiedergli preoccupati se con quel nome intenda riferirsi alla nota città o a un impiegato amministrativo del comune di Vipiteno, e vogliamo subito sapere come identificarlo o reperirlo. Ma questo è un

caso estremo. Di solito, salvo casi di sfiducia preventiva, diamo per buono che, se il parlante pone nel discorso qualcosa o qualcuno, esso esista da qualche parte. Collaboriamo all’atto di riferimento anche senza sapere nulla del referente, anche ignorando il significato del termine che il parlante usa. In 3.7.1 ho raccontato di come, pur essendo incapace anch’io di distinguere un olmo da un faggio, riconosco bene le mangrovie (che ho un giorno identificato per averne letto in tanti libri di viaggi) e il baniano, su cui mi avevano fornito tante istruzioni i libri di Salgari. Ero convinto di non sapere nulla circa i paletuvieri (di cui parimenti i libri di Salgari mi parlavano moltissimo) sino a che un giorno non ho scoperto su una enciclopedia che i paletuvieri sono le mangrovie. Ora potrei rileggere Salgari immaginandomi le mangrovie ogni volta che nomina i paletuvieri. Ma che cosa ho fatto per anni e anni, sin dall’infanzia, leggendo dei paletuvieri senza sapere che cosa fossero? Dal contesto avevo arguito che si trattava di vegetali, qualcosa di simile ad alberi o arbusti, ma questa era l’unica proprietà che riuscivo ad associare al nome. Purtuttavia ho potuto leggere facendo finta di sapere che cosa fossero. Integravo con la fantasia quel poco che avevo potuto intravedere dalla scatola semiaperta, ma di fatto stavo prendendo qualcosa a scatola chiusa. Sapevo che Salgari si stava riferendo a qualcosa, e mantenevo aperta l’interazione comunicativa, per poter comprendere il resto della storia, assumendo (sulla fiducia) che esistessero da qualche parte dei paletuvieri e che essi fossero dei vegetali. L’accettazione a scatola chiusa potrebbe essere intesa come un caso di designazione rigida. Secondo la teoria della designazione rigida, in un controfattuale che sottrae ad Aristotele ogni proprietà nota noi dovremmo disporci a considerarlo in ogni caso come colui che è stato battezzato come tale in un momento determinato, e nel farlo accettiamo a scatola chiusa che una sorta di legame ininterrotto connetta il proferimento attuale del nome all’individuo così battezzato. Tuttavia nella teoria della designazione rigida c’è una ambiguità (forse non la sola). Da un lato dovremmo assumere che - attraverso una catena ininterrotta che lega l’oggetto, il quale riceve il nome all’atto del suo battesimo, al nome usato da chi vi si riferisce - sia l’oggetto a causare l’appropriatezza del riferimento (Kripke 1972: 89). Dall’altro si sostiene che il ricevente del nome deve avere l’intenzione di usarlo con

lo stesso riferimento di colui dal quale lo ha appreso (Kripke 1972: 94). Non si tratta della stessa faccenda. Visto che il sarchiapone non esiste, non vi è oggetto che possa avere causato l’uso del nome. Tuttavia è certo che Chiari accetta di usare il nome sarchiapone nello stesso modo in cui presume che lo usi Campanini. A scatola chiusa. Se catena causale c’è stata, essa non va dunque dall’oggetto all’uso del nome, bensì dalla decisione (di Campanini) di usare il nome alla decisione di Chiari di usarlo come Campanini lo usa. Non si tratta di una causalità “oggetto ? nome”, bensì di causalità “uso1 del nome ? uso2 del nome”. Non ho nessuna intenzione di risolvere questo problema dal punto di vista di una teoria causale del riferimento, visto che non la condivido. Potremmo dire che, nel caso che il sarchiapone esista e abbia una essenza, si ha designazione “rigida”, mentre nel caso in cui sia immaginato da chi battezza con quel nome il figmento della sua immaginazione, si ha designazione “molle”. Però non so affatto che cosa significhino sia designazione rigida che designazione molle perché questa differenza ha forse rilievo ontologico ma non semiosico: l’atto di riferimento messo in opera da Campanini e accettato da Chiari funzionerebbe nello stesso modo in entrambi i casi. Il problema mi pare piuttosto un altro. Ed è che la metafora della scatola chiusa è imprecisa. Le scatole chiuse (a voler filare la metafora) ci dicono sempre qualcosa di quello che c’è dentro, perché inevitabilmente portano un’etichetta. Se io uso un nome proprio come Gedeone dichiaro automaticamente che il portatore del nome è un essere umano di sesso maschile, se uso Dorotea dichiaro che è di sesso femminile, se metto in scena nel discorso mio fratello Giacomo, Giacomo è già un essere umano di sesso maschile che ha la proprietà di essere mio fratello, Salgari aveva etichettato i paletuvieri come vegetali e - per finire - se nomino Giuseppe Rossi ci sono forti possibilità che il designato sia un maschio italiano, se nomino Jean Dupont ci sono forti possibilità che sia francese, se nomino Paolo Sisto Leone Pio Odescalchi Rospigliosi Colonna ci sono forti possibilità che appartenga alla nobiltà romana, a parte il fatto che (almeno originariamente) se qualcuno si chiamava di cognome Fabbri era descritto come il figlio del fabbro, e se si chiamava Muller apparteneva alla famiglia dei mugnai. Troppo poco per identificare tali Pietro Fabbri o Franz Muller, ma

abbastanza per dire che anche i nomi propri non sono del tutto vuoti di contenuto. Si noti inoltre che se i nomi propri non avessero un contenuto (ma solo un designato) non potrebbe esistere l’antonomasia vossianica, che non è quella in cui un termine generale si applica per eccellenza a un individuo (l’Imperatore per Napoleone, The Voice per Frank Sinatra), bensì quella in cui un nome di individuo viene usato, per eccellenza, come somma di proprietà (costui è un Pico della Mirandola, o un Ercole, o un Giuda, costei è una Messalina, o una Venere). Inizialmente la storia del sarchiapone pare quella di un incauto acquisto a scatola chiusa, ma in verità Campanini, dicendo che non bisogna disturbare il sarchiapone perché è irritabile, pone già un’etichetta sulla scatola (o sulla cesta): il sarchiapone è un essere vivente. Di lì Chiari procede, e intende subito usare il termine come un “gancio per appendervi descrizioni”. I tentativi di Chiari in Fase 3 mirano ad appurare quali siano le proprietà dell’animale, e quindi a ottenere istruzioni per l’identificazione e il riconoscimento del referente. Si noti che in questa scenetta viene anche esemplificata la differenza tra parlare-di e riferirsi-a. Campanini si sta riferendo a un sarchiapone individuale (nella cesta). Chiari accetta il riferimento e a quel sarchiapone si riferisce. Ma, per stabilire come sia, tenta un ricorso all’universale, o agli oggetti generali: asserisce di aver conosciuto altri sarchiaponi e - nel tentare di definirne le proprietà - sta parlando dei sarchiaponi in generale, ovvero, sta cercando di ottenere informazioni per costituire almeno tentativamente il CN di sarchiapone e formarsene il TC, ovvero ottenere una possibilità di cognizione del sarchiaponetipo. Per fare ciò si riferisce sempre all’animale nella cesta come a una occorrenza che dovrebbe esibire tutte le proprietà del tipo. Non si contratta il riferimento senza mettere in scena contenuti. Il dialogo che si svolge in Fase 3 può essere inteso come un processo di “svuotamento successivo” di ogni possibile proprietà in modo che quel gancio per appendere descrizioni rimanga nudo. Visto che Campanini nega ogni possibile proprietà del sarchiapone, a Chiari non resta - apparentemente - che accettare il nome in modo rigido. E così sembra fare, quando in Fase 4 insulta la bestia misteriosa, imputandole di non corrispondere a nessuna descrizione possibile. Ma egli non cessa di riferirsi a quell’essere maledetto come a una “bestia”.

Quando Campanini, in Fase 5, rivela che il sarchiapone non esiste, Chiari si avvede che sino ad allora ha parlato di un individuo inesistente, ovvero di un parto della fantasia di Campanini, un individuo fittizio che esisteva solo nel mondo possibile della fabulazione altrui. Ma anche dopo che l’inganno viene svelato, ecco che Chiari (in Fase 6) continua a riferirsi al sarchiapone. Salvo che non vi si riferisce più come a un elemento dell’ammobiliamento del mondo reale ma come a un elemento del mondo possibile inventato da Campanini. Potremmo discutere se nelle Fasi 1-5 Chiari parlasse di un sarchiapone1 che riteneva esistente, e in Fase 6 non si stia riferendo a un sarchiapone2 che ormai sa esistere solo in un mondo fittizio. Ma in effetti si sta sempre riferendo al sarchiapone di cui Campanini stava parlando, salvo che prima gli attribuiva la proprietà di esistere nel mondo reale e ora gli attribuisce la proprietà di non esistere.10 I due si sono messi benissimo d’accordo e sanno di che cosa stanno parlando. La morale della storia è che (i) riferirsi è una azione che i parlanti compiono in base a una negoziazione; (ii) l’atto di riferimento compiuto usando un termine potrebbe in linea di principio non aver nulla a che vedere con la conoscenza del significato del termine e neppure con l’esistenza o meno del referente - col quale non intrattiene alcun rapporto causale; (iii) tuttavia non c’è designazione definibile come rigida che non si appoggi su una descrizione (“etichetta”) di partenza, sia pure molto generica; (iv) pertanto anche i casi apparenti di designazione assolutamente rigida costituiscono degli avviamenti del contratto referenziale, il momento aurorale del rapporto, mai il momento finale. Si potrebbe obiettare che siamo in presenza di una scenetta comica. Accadrebbe lo stesso se il dialogo si svolgesse tra due scienziati, uno dei quali iniziasse a parlare di una sostanza X, che ha scoperto, e si mettesse in chiaro alla fine che quella sostanza non esiste o non ha alcuna delle proprietà che lo scopritore le attribuiva? In una situazione simile uno scienziato si comporterebbe diversamente dal punto di vista morale e scientifico, squalificando pubblicamente chi gli aveva mentito, ma dal punto di vista semiosico le cose non andrebbero diversamente. In un successivo congresso scientifico lo scienziato continuerebbe a citare la sostanza X come esempio di sostanza immaginaria, soggetto di una truffa scientifica (o di un grossolano errore), ma continuerebbe a riferirsi ad essa come a quella di cui aveva parlato quando, prima di

iniziare i dovuti controlli, aveva assunto come esistente a scatola chiusa.11 So benissimo che esiste un’altra interpretazione, se non della storia del sarchiapone, almeno di quella della sostanza X. Alcuni direbbero che, dal momento che la sostanza non esiste, l’espressione sostanza X non ha referente, e non l’aveva neppure quando all’inizio lo scienziato riteneva, a scatola chiusa, che lo avesse. Ma dire che una espressione non può applicarsi ad alcun referente non vuole dire che non si possa usare per un atto di riferimento, ed è su questo punto che voglio insistere. In questa oscillazione tra possibile referente del termine e uso del termine in atti di riferimento si cela una ambiguità che ha generato molte discussioni sull’ontologia del riferimento.

La Mente Divina come ‘e-mail’ Per ontologie del riferimento intendo anzitutto la posizione filosofica secondo cui gli individui (Paolo, Napoleone, Praga o il Po) possono essere designati rigidamente, nel senso che, qualsiasi sia la descrizione che assegniamo a un nome, esso si riferisce in ogni caso a qualcosa o a qualcuno che è stato così battezzato in un momento dato dello spaziotempo, e che - per quante proprietà gli vengano disconosciute - rimarrà sempre quel qualcuno o qualcosa (un principium individuationis basato su una materia signata quantitate). Però la teoria del riferimento ontologico è stata estesa anche alle quidditates (le essenze, o gli oggetti generali) le quali, quand’anche non le conoscessimo, sarebbero delle costanze di natura che hanno una loro oggettività al di fuori sia dei nostri atti mentali sia del modo in cui la cultura li riconosce e li organizza. L’ampliamento dell’ipotesi non è ingiustificato: se si assume che un nome di persona possa collegarsi direttamente a una haecceitas (anche preterita, e dunque immateriale), perché un nome generico non potrebbe collegarsi direttamente a una quidditas? È più immateriale la Cavallinità o la haecceitas di Assurbanipal, di cui ritengo non abbiamo più neppure un pugno di polvere? In entrambi i casi, come vedremo non si potrebbe evitare di assumere che il collegamento sia dato da quelli che Putnam (1981: 59) chiama noetic rays (e che naturalmente sono solo una finzione teorica).

Da questo punto di vista, per una teoria ontologica del riferimento, il termine acqua si riferirebbe ad H2O in qualsiasi mondo possibile così come il nome Napoleone si riferirebbe sempre e rigidamente a quell’unicum che nella storia dell’universo si è verificato, geneticamente, fisiologicamente e biograficamente, una volta sola (e tale resterebbe anche se in un mondo futuro governato da femministe radicali Napoleone fosse ricordato soltanto come l’individuo dotato dell’unica proprietà di essere stato il marito di Giuseppina). Questa sarebbe una ontologia “forte” per cui il riferimento all’acqua sembrerebbe prescindere da ogni conoscenza o intenzione o credenza del parlante. Però questa prospettiva da un lato non esclude la domanda su che cosa sia il riferimento, e dall’altra non elimina la nozione di “cognizione”: semplicemente sposta entrambe dalla psicologia alla teologia. Che cosa vuol dire che la parola acqua si riferisce sempre e comunque a H2O al di là di ogni intenzione dei parlanti? Dovremmo dire che cosa sia quella sorta di fil di ferro ontologico che àncora quella parola a quell’essenza - e a filare la metafora dovremmo pensare all’essenza come a qualcosa di molto irsuto da cui promanano molti fili di ferro, che la legano ad acqua, a water, ad agua, a eau, a Wasser, a voda, a shui e persino al termine (ancora inesistente) che sarà foggiato nel 4025 dai visitatori Saturniani per indicare quel liquido trasparente, a loro ignoto, che troveranno sul nostro pianeta. Una ontologia forte, per escludere le intenzioni dei parlanti, ma fondare in qualche modo il legame referenziale, dovrebbe presupporre una Mente Divina, o Infinita che dir si voglia. Dando per scontato che il mondo esista indipendentemente dalla conoscenza che ne abbiamo, e che esista come popolazione di essenze reciprocamente regolate da leggi, solo una Mente che lo conosce esattamente come è (e come lo ha fatto), e che accetta indulgentemente che anche in lingue diverse ci si possa riferire alla stessa essenza, può “fissare” il riferimento in modo stabile. Per riprendere il noto esempio di Putnam (1975, XII), se esistesse su una Terra Gemella qualcosa che assomiglia in tutto e per tutto all’acqua di questo pianeta, avesse lo stesso aspetto, sapore ed effetti biochimici, e tuttavia non fosse H2O ma XYZ, per dire che chiunque (su entrambi i pianeti) parlasse di acqua si riferirebbe a H2O ma non a XYZ, bisogna assumere che una qualche Mente Infinita la pensi proprio in questo modo, perché solo il suo pensiero garantirebbe il collegamento tra nomi

ed essenze. Ma è proprio Putnam (1981, III), nell’opporre un realismo interno alla prospettiva esternalista, a dire che quest’ultima, per essere sostenibile, presupporrebbe appunto un Occhio di Dio. Postulare una Mente Divina pone però un interessante problema in termini di intenzionalità. Dobbiamo ammettere che la Mente Divina “sappia” che ogni emissione del termine acqua si riferisce all’essenza dell’acqua, e quale sia il rapporto intenzionale che lega la Mente Divina al contenuto del suo “sapere” sfugge alla nostra capacità di comprensione (e infatti postuliamo che così avvenga, e non diciamo come avviene). Ma che cosa garantisce che ogni nostro proferimento del termine acqua adegui l’intenzionalità della Mente Divina? Evidentemente nulla, se non la nostra buona intenzione che quando parliamo di acqua intendiamo fare, per così dire, la volontà di Dio e intendiamo (volontaristicamente) adeguarci alla intenzione della Mente Divina. Si badi che dico “all’intenzione” e non “all’intenzionalità” di una Mente Divina. Chiedersi che cosa sia l’intenzionalità di una Mente Divina va al di là dei limiti di queste modeste riflessioni - e anche di riflessioni ben più orgogliose. Il problema è che è anche difficile decidere che cosa voglia dire adeguarsi all’intenzione della Mente Divina. Ammetto che esiste ormai un fenomeno che potrebbe valere come modello di Mente Divina, e di designazione assolutamente rigida. È il fenomeno dell’indirizzo e-mail. Al “nome” costituito da questo indirizzo (poniamo: [email protected]) corrisponde certamente una e una sola entità (non è detto che sia un individuo fisico, potrebbe essere un’azienda, ma quella sola e non un’altra). Noi possiamo non sapere affatto quali proprietà abbia il destinatario (Adam potrebbe non essere stato il primo uomo, potrebbe non aver mangiato dell’albero del bene e del male, potrebbe non essere stato il marito di Eva eccetera), ma sappiamo che quel nome (indirizzo) punta (per una catena di fenomeni elettronici che non è il caso di analizzare in dettaglio, ma della cui efficienza siamo quotidianamente testimoni) a una entità individuale distinguibile da ogni altra, indipendentemente dalle nostre credenze, opinioni, conoscenze lessicali, e dalla conoscenza che abbiamo circa il modo in cui vi “punta”. Potremmo nel corso del tempo associare molte proprietà a quel nome, ma non è necessario che lo facciamo: sappiamo che se lo scriviamo sul nostro programma di e-mail raggiungeremo

quell’indirizzo e non un altro.12 E sappiamo che tutto dipende da una cerimonia battesimale, e che la potenza referenziale dell’indirizzo che usiamo è dovuta causalmente a quel battesimo. Ma un fenomeno del genere (così assolutamente “puro” e indiscutibile, indipendente dalle intenzioni e dalle competenze di ogni corrispondente) si verifica solo con la e-mail. Che il sistema di e-mail sia un modello della Mente Divina può apparire sia confortante che blasfemo, ma è certo che è il solo caso in cui noi usiamo di una designazione assolutamente rigida secondo il modello, se non di una Mente, almeno di una Rete Divina.

Dalla Mente Divina alla Intenzione della Comunità Come si esce da una ontologia forte, garantendo al tempo stesso una qualche oggettività del riferimento? Escogitando una ontologia indebolita della Mente della Comunità (i cui rappresentanti privilegiati sono, a seconda dei settori, gli Esperti). In tal senso riferirsi correttamente all’acqua significa riferirsi ad essa nel modo in cui vi si rivolge la comunità degli esperti - i quali oggi concordano sul fatto che sia H2O e domani potrebbero, prendendo atto del fallibilismo della conoscenza, decidere per un’altra definizione. Ma questo non risolve affatto il problema che ci poneva l’ipotesi della Mente Divina: che cosa ci garantisce che quando usiamo la parola acqua in una operazione di riferimento la usiamo così come fa la Mente della Comunità? Semplicemente la nostra decisione (volontaristica) che quando usiamo quella parola intendiamo usarla nello stesso senso in cui la usano gli esperti. Ora, faceva qualcosa di diverso Chiari nella scenetta del sarchiapone, decidendo di usare la parola sarchiapone nello stesso modo in cui la usava Campanini? Semplicemente Chiari assumeva che Campanini fosse un Esperto. C’è una differenza ontologica tra l’opinione di Campanini e quella di Einstein? C’è solo la nostra persuasione che, statisticamente parlando, le enciclopedie a noi note registrino Einstein come esperto qualificato mentre non menzionano Campanini (e ammetto che ci siano buone ragioni per questa preferenza). Questo vuole dire che noi, parlando, abbiamo una idea, talora vaga e talora

precisa, su alcune materie intorno a cui circola il consenso della Comunità. Ma se per termini di generi detti naturali (come acqua o oro) si presume che ci sia l’esperto come Interlocutore Privilegiato (interprete autorizzato della Comunità), questo non accade per mio cugino, Arturo, il gatto di Mafalda o il primo ominide arrivato in Australia. Qui la possibilità di contratto rimane amplissima, perché la parola di Campanini vale quella di Einstein. Per esempio, di fronte all’enunciato Napoleone è nato a Modena, avendo io la convinzione che il mio Napoleone sia nato ad Ajaccio, non accetto affatto di usare il nome secondo le intenzioni della Comunità perché, almeno per principio di carità, subito sospetto che il parlante intenda riferirsi a un altro Napoleone. Quindi mi ingegno a controllare l’appropriatezza del riferimento, cercando di indurre il mio interlocutore a interpretare il CN che fa corrispondere al nome Napoleone, per scoprire eventualmente che il suo Napoleone è nato in questo secolo, è un venditore di automobili usate, e quindi mi trovo di fronte a un banale caso di omonimia. Oppure mi rendo conto che l’interlocutore intende riferirsi al mio stesso Napoleone, e pertanto intende emettere un enunciato storiografico che sfida le nozioni enciclopediche vigenti (e quindi la Mente della Comunità). Nel qual caso provvederò a richiedergli prove convincenti del suo enunciato. Ma infine, proviamo a prendere sul serio la decisione di usare un termine secondo l’intenzione e l’accordo degli Esperti o della Comunità. Supponiamo che, di fronte alla minaccia di estinzione degli elefanti africani, la E.C.O. (Elephant Control Organization) si renda conto che: (i) nella zona dello Kwambia esistono tremila elefanti, più di quello che l’equilibrio ecologico possa sopportare (gli elefanti rovinano i raccolti e quindi la popolazione è portata a massacrarli, mentre se fossero in numero minore potrebbe tollerarli); (ii) nella zona del Bwana gli elefanti, massacrati da cacciatori di avorio, sono in procinto di estinguersi; sono state emanate leggi severe che potrebbero garantirne la loro sopravvivenza, ma i capi in circolazione sono troppo pochi per garantire la continuità della specie; (iii) si tratta di catturare mille elefanti nello Kwambia e trasferirli nel Bwana; (iv) la confederazione degli Stati africani e World Wildlife Fund hanno approvato l’operazione e ne hanno incaricato i funzionari della E.C.O.

Nel corso di questi preliminari ci si è riferiti allo Kwambia e al Bwana, e si suppone che vi sia un accordo circa il referente di questi nomi di territorio. Ora si stanno designando tutti i tremila elefanti dello Kwambia, uno per uno, asserendo che, di questi, mille dovranno essere trasferiti nel Bwana. Non si sa ancora quali siano questi mille capi ma, così come si può designare un bambino che sta per nascere, è possibile designare quei mille elefanti che, il giorno che fossero trasferiti nel Bwana, sarebbero esattamente quelli e non altri individui. Il problema è che i funzionari della E.C.O. conoscano esattamente il significato del termine elefante e non trasferiscano per errore rinoceronti o ippopotami. Non basta dire che i funzionari della E.C.O. hanno l’intenzione di usare il termine elefante per riferirsi allo stesso genere di individui a cui si riferiscono gli Esperti. Questa intesa, basata sulla loro buona volontà, vale soltanto per avviare il discorso. Gli Esperti vogliono essere sicuri che non vi siano malintesi possibili. Pertanto comunicano ai funzionari incaricati che essi intendono per elefante un animale che, secondo la scienza ufficiale, abbia le proprietà XYZ, e forniscono anche istruzioni per riconoscere animali dotati di tali proprietà. Se i funzionari incaricati consentono e dichiarano di voler catturare e trasferire mille esemplari di animali XYZ, l’operazione può partire. A questo punto è irrilevante affermare che i funzionari della E.C.O. abbiano avuto la buona intenzione di usare il termine secondo l’intenzione degli Esperti. Di fatto, tra loro e gli Esperti si è posta la benefica intercapedine di una serie di interpretanti (descrizioni, foto, disegni) ed è su quello che avviene l’accordo. Se per caso nel Kwambia esistessero anche rarissimi elefanti bianchi, i contraenti debbono mettersi d’accordo se con il termine elefante comprendono o escludono gli elefanti bianchi, dato che da questo accordo dipende la correttezza dell’intervento ecologico. Ancora una volta, la designazione rigida ha avuto funzione introduttiva, per avviare il contratto, ma non è in essa che il contratto si conclude.

‘Qui pro quo’ e negoziazioni Supponiamo che qualcuno ci dic che il 25 settembre 1555 è stato firmato un trattato di pace ad Augsburg e noi non sappiamo che si tratta della città che chiamiamo Augusta. Puntiamo su una scatola ancora chiusa, che non è quella in cui abitualmente collochiamo la città di Augusta. Può darci che la cosa ci interessi così poco che lasciamo cadere ogni contrattazione; può darsi che chiediamo altre precisazioni, ponendo domande su quella strana città, incuriositi dal fatto che vi è stata firmata una pace nello stesso giorno in cui veniva firmata ad Augusta; e può darsi infine che, per principio di carità, ipotizziamo subito che il parlante con il nome Augsburg intendesse riferirsi alla stessa città che noi chiamiamo Augusta. Ma in ogni caso si vedrebbe quanto le nostre conoscenze enciclopediche, e quindi un nostro sapere circa il contenuto, condizionino e dirigano le nostre contrattazioni per il successo del riferimento. Questo consente di risolvere anche l’apparente paradosso (elaboro con qualche licenza da Kripke 1979) di quel tal Pierre che aveva sempre sentito parlare in Francia di Londres e si era fatta l’idea che fosse una bellissima città, per cui aveva scritto nel suo diario che Londres est une ville merveilleuse; e poi gli era capitato di andare per caso in Gran Bretagna, di apprendere l’inglese per esposizione diretta, di visitare una città che gli abitanti chiamavano London, di averla trovata insopportabile, e di avere scritto nel solito diario (malauguratamente anche bilingue) che London is an ugly city. Da cui i patemi del suo traduttore italiano che dovrebbe fargli affermare (contraddittoriamente) che Londra è bella e bruttissima al tempo stesso - per non dire dei logici che non saprebbero come cavarsela di fronte a due affermazioni così sfacciatamente contraddittorie, eccetera. Col che si fa torto ai traduttori, ai logici e alle persone normali. In questa storia, uno dei due casi: o Pierre, dopo aver visitato London, si accorge, in base a qualche descrizione che aveva ricevuto quando gli si era parlato di Londres (città inglese, attraversata da un fiume, con una Torre) che per errore aveva creduto che esistessero due città che invece sono una sola, o Pierre è un imbecille, ha accettato il primo riferimento a Londres a scatola chiusa, senza sapere niente altro oltre al fatto che era una città, e non ha mai capito che i nomi Londres e London si riferiscono allo stesso oggetto. Nel primo caso, diamo tempo a Pierre di

conversare con altre persone e correggere le sue credenze, e magari di dire che in un primo tempo riteneva (in base a voci incontrollate) che Londra fosse bella, e poi ha scoperto che era brutta. Oppure Pierre permane nella sua confusione cognitiva e semantica e - a parte il fatto che a questo punto ci si chiede perché si debbano tradurre i diari di un imbecille - il traduttore dovrebbe inserire delle note, per chiarire che si tratta di un interessante documento semiotico e psichiatrico, perché Pierre è uno di coloro che scambiano la propria moglie per un cappello, o parlano di Napoleone Bonaparte (come primo console e sconfitto di Waterloo) con l’intenzione di riferirsi a se stessi. Ma tutto questo interessa la psichiatria, non la semantica. Si noti che equivoci del genere sono molto più comuni di quanto lasci credere l’esempio appena esaminato, scelto col gusto dell’improbabile. Un collezionista di libri antichi può trovare segnalata su un catalogo la prima edizione 1662 della Physica Curiosa di Gaspar Schott come pubblicata a Würzburg. Poi in un altro catalogo trova che la prima edizione è stata pubblicata nello stesso anno a Herbipolis. Pertanto segna nel suo diario che esistono due edizioni della stessa opera nello stesso anno, in due città diverse - fenomeno non insolito in quell’epoca. Ma un semplice supplemento d’istruttoria gli permetterebbe di verificare che Würzburg, ridente cittadina bavarese, ha tra le sue proprietà enciclopediche anche quella di essere stata designata in passato come Herbipolis (e tra l’altro il nome tedesco traduce letteralmente il nome latino). Fine della tragedia. Bastava domandare. La gente, quando ascolta atti di riferimento, di solito fa un sacco di domande. Se quel collezionista non ha saputo domandare (o consultare dei lessici molto precisi in tale materia) diventa semplicemente soggetto per un’aneddotica divertente, come quello studente che (pare sia vero) in una sua tesi aveva menzionato il “noto” dibattito tra Voltaire e Arouet. In complesso, mi pare che queste modalità contrattuali, surrogate da operazioni cognitive, rappresentino una pittura più fedele di quello che effettivamente facciamo quando ci riferiamo a qualcosa, che non la pittura suggerita dalle teorie ontologiche del riferimento. Con tutto ciò non intendo affatto ritenere insulsi né la questione del riferimento ontologico né i tesori di sottigliezza che sono stati spesi e vengono continuamente spesi per dirimerla. E non tanto perché la questione sia di particolare importanza nell’universo dei discorsi scientifici, dove se

due astronomi parlano della nebulosa G14 debbono essere sicuri di cosa stanno menzionando: anche il riferimento alla nebulosa Gl4 è materia di contrattazione, certamente di più di quanto non accada con i nostri atti di riferimento quotidiani (in cui molte volte “si lascia perdere”), e certamente secondo criteri ben più rigorosi. Il problema è piuttosto che per poterci riferire contrattualmente e pragmaticamente noi abbiamo bisogno dell’idea regolativa del riferimento ontologico.

Lo strano caso del dottor Jekyll e dei fratelli Hyde A Londra esistono due fratelli, John e Bob Hyde, gemelli monozigotici, uguali in tutto per tutto. I due (non chiedetemi perché, ma evidentemente a loro così piace) decidono di dar vita a un solo personaggio pubblico, il dottor Jekyll, e vi si preparano sin dalla più tenera infanzia. Fanno insieme gli studi di medicina, iniziano il praticantato, diventano un medico (il dottor Jekyll) di grande reputazione, che viene nominato direttore della Clinica Universitaria. Sin dai primissimi tempi i due fratelli osservano una regola: impersonano Jekyll a giorni alterni. Quando John è Jekyll, Bob rimane chiuso in casa a mangiare cibo in scatola e a guardare la televisione, e viceversa per il giorno seguente. Alla sera, chi rientra dal servizio racconta all’altro ogni minimo particolare della giornata, così che l’altro il giorno seguente può prendere il suo posto, e nessuno si accorge della sostituzione. Un giorno John, mentre è di servizio, inizia una relazione amorosa con la dottoressa Mary. Naturalmente il giorno dopo Bob porta avanti il rapporto, e così la storia procede, con grande soddisfazione dei tre protagonisti, John e Bob innamorati della stessa donna, Mary convinta di amare un solo uomo. Ora se Mary dice alla cara amica Ann, alla quale non nasconde nulla, ieri sera sono stata con Jekyll, e ammettendo che la sera prima fosse di servizio Bob, a chi si sta riferendo Mary? Per una teoria ontologica del riferimento si potrebbe dire che, anche se Mary crede che Bob si chiami Jekyll, siccome si riferisce alla persona che ha frequentato la sera prima (battezzata al momento della nascita come Bob Hyde) si sta riferendo a Bob. Ma quando il giorno dopo Mary, dopo aver trascorso un’altra serata di passione con John, ripete ad Ann che anche la sera prima è

stata con Jekyll, a chi si sta riferendo? Benché essa creda che John Hyde si chiami Jekyll, dal punto di vista di una Mente Infinita essa si sta riferendo a John. Essa dunque a giorni alterni si riferisce a persone diverse, attraverso io stesso nome errato, ma non lo sa. È chiaro che questo doppio riferimento, dal punto di vista pragmatico, è per noi (come per lei) della minima importanza. Probabilmente un contabile celeste, che dovesse tener conto dell’esattezza di tutti gli atti di riferimento pronunciati sulla terra, avrebbe registrato che il 5 dicembre Jekyll era Bob, e il 6 dicembre era John. John e Bob potrebbero volersi porre dal punto di vista di una Mente Infinita, perché potrebbe essere molto importante per loro sapere se, nelle sue confidenze con Ann, Mary giudicasse una serata più soddisfacente della precedente. Ma John e Bob sono appunto personaggi eccezionali, che in questa mia storia svolgono la funzione di deus ex machina, e quindi non terremo conto della loro contabilità referenziale (tra l’altro, immagino che anche loro abbiano perso il conto). La contabilità che ci interessa è quella di Mary e di tutti coloro che a Londra conoscono il dottor Jekyll (e ignorano l’esistenza degli Hyde Brothers). Per tutti costoro ogni riferimento al dottor Jekyll è il riferimento non a una essenza, ma a un attore della commedia sociale, e in tal senso chiunque conosce uno e uno solo dottor Jekyll. Di esso hanno un TC, di esso sanno elencare alcune proprietà, di esso parlano e di nessun altro. Chiunque sia stato curato dal dottor Jekyll, abbia firmato con lui un contratto, abbia ricevuto da lui un assegno solvibile, abbia detto a qualcuno di cercargli il dottor Jekyll (e il suo desiderio sia stato soddisfatto), dica di aver parlato col dottor Jekyll e intenda essere creduto, si comporta come se esistesse uno e uno solo dottor Jekyll. Da un punto di vista ontologico potremmo dire che il dottor Jekyll non esiste, che è solo un figmento sociale, un aggregato di proprietà legali. Ma questo figmento sociale è sufficiente a rendere socialmente vera o falsa ogni proposizione concernente il dottor Jekyll. Un giorno John, mentre è di servizio, inciampa sulle scale e si rompe una caviglia. Viene portato subito dall’ortopedico dell’ospedale, il dottor Holmes, che gli fa una radiografia, lo ingessa e lo rimanda a casa in taxi e con due splendide grucce in alluminio. I due fratelli, astutissimi, capiscono che non basta che anche Bob si ingessi il piede: il dottor Holmes potrebbe voler sostituire l’ingessatura, e si accorgerebbe

dell’inganno. Eroicamente Bob, dopo aver accuratamente studiato la radiografia del fratello (non dimentichiamo che sono entrambi medici), con un preciso colpo di martello si frattura anch’egli la caviglia, s’ingessa, e si presenta il mattino dopo all’ospedale. La cosa potrebbe funzionare, ma Holmes è molto meticoloso. Al momento dell’incidente aveva voluto fare anche alcuni esami del sangue di Jekyll-John; e qualche giorno dopo, preoccupato per un eccesso di trigliceridi, ripete gli esami, ma questa volta su Bob. E osserva che i valori dei due esami non coincidono. Non potendo sospettare (ancora) di un inganno pensa a un errore e ne parla ingenuamente a Bob. Alla sera i due fratelli si consultano, osservano con cura i risultati degli esami, e uno dei due decide di seguire una dieta rigorosa per portare il suo tasso di trigliceridi al livello dell’altro. Fanno il possibile, ma non tanto da ingannare l’occhio acuto del dottor Holmes, che - ripetuti ancora una volta gli esami, e per ben due volte, e per beffa del destino sia su John che su Bob - continua a vedere delle contraddizioni. Holmes incomincia a sospettare la verità. I due fratelli iniziano una gara mortale col loro nemico. In modi vari cercano di fare in modo che la frattura si ricomponga nello stesso periodo, continuano una dieta controllatissima, ma ogni volta qualche particolare infinitesimale insospettisce ancora più il dottor Holmes. Holmes inietta a uno dei due un allergene che produce risultati entro venti ore, e per due giorni, e si accorge che avendo iniettato la sostanza a Jekyll il martedì alle 17, il mercoledì alla stessa ora non si sono ancora avuti risultati, i quali però appaiono il giovedì. Holmes ha buoni indizi per congetturare che i personaggi siano due, ma non ha prove da esibire pubblicamente in modo convincente. Un modo di terminare la storia potrebbe essere che il dottor Holmes riesce a provare l’inganno. Da quel momento (non considerando tutti gli incidenti giuridici, sentimentali o sociali che ne conseguirebbero) il corpo sociale dovrebbe decidere che il nome Jekyll è un omonimo che indica due persone diverse. Tra l’altro, per poter essere riconosciuti, i due fratelli, anche se fossero condannati al carcere, sarebbero tenuti, per decreto del giudice, a recare al bavero una targhetta con la loro composizione del sangue e altri rilievi medico-biologici. L’altra soluzione (più appassionante) è che il dottor Holmes non riesca a raggiungere la certezza assoluta né a esibire alcuna prova decisiva dell’inganno, perché i due fratelli sono più furbi di lui. La vicenda

continuerebbe allora all’infinito, in una sorta di caccia in cui la preda sfugge sempre al cacciatore ma il cacciatore non demorde (buon soggetto per un serial del tipo Juve vs Fantomas). Ma in questo caso ciò che ci interessa è: perché il cacciatore non demorde? Perché Holmes, benché come tutti sia uso a modalità di riferimento pragmatico, ha una sua ostinata idea del riferimento ontologico. Egli crede che, se Jekyll esiste, ci sia un’essenza, una haecceitas “Jekyll” che rappresenterebbe il parametro di un riferimento ontologicamente vero. Oppure crede che, se al posto di Jekyll esistessero due persone diverse, come sospetta, dovrebbe a un certo momento identificare due haecceitates diverse. Badiamo che Holmes non sa quale sia il principium individuationis di cui va in caccia: potrebbe essere una particolare composizione del sangue, una variazione minima in due elettrocardiogrammi, qualcosa che può venire rivelato da una ecografia o da una esplorazione intestinale, la scoperta di due diversi programmi genetici, una auspicabile radiografia dell’anima... Holmes le tenta tutte, sarà sempre sconfitto, ma non smetterà di cercare perché postula l’essenza, ovvero la Cosa in Sé, che non è l’Inconoscibile, ma il postulato stesso della ricerca infinita.13 Questa persuasione che possa esistere un punto di vista ontologico si può riportare all’idea peirceana dell’interpretante logico finale, il momento del tutto ideale in cui la conoscenza si potrebbe comporre nella totalità del pensabile. Si tratta di un concetto regolativo, che non blocca il progresso della semiosi, ma per così dire non lo scoraggia, e lascia intendere che il processo dell’interpretazione, anche se infinito, tende a qualcosa. Holmes pensa come Peirce che, andando avanti a cercare, si faccia avanzare la Torcia della Verità, e che “in the long run” la Comunità potrebbe acconsentire su un’asserzione finale indiscutibile. Sa che questo “long run” potrebbe durare millenni, ma Holmes ha una mente filosofica e scientifica e presume che altri dopo di lui potranno pervenire alla verità, magari esaminando centinaia di anni dopo degli ambigui reperti osteologici. Holmes non pretende di sapere: pretende di continuare a cercare. Holmes potrebbe persino essere un relativista, che ritiene che del mondo così com’è si possono dare infinite descrizioni, e tuttavia è un realista (nel senso di Searle 1995: 155) per cui fare professione di realismo non significa asserire che si possa sapere come le cose stanno, e nemmeno che di esse si possa dire qualcosa di definitivamente “vero”, ma significa solo assumere che c’è un modo in

cui esse stanno, e che questo modo non dipende da noi, né dal fatto che un giorno possiamo conoscerlo.14 Holmes ha trovato negli archivi dell’ospedale una foto del dottor Jekyll. Egli, ormai convinto dell’esistenza dei due fratelli Hyde (anche se magari non li chiama così) sa con assoluta certezza che, se la foto è un’istantanea scattata nel giorno tale all’ora tale, non può che essere causalmente legata a uno solo dei due fratelli (della cui esistenza, direbbe Peirce, è indice), e questa è per lui (come d’altra parte per noi) una certezza irrefutabile. Però questo non gli serve a nulla, non è neppure la prova che la sua ipotesi sia giusta, caso mai è la certezza che la sua ipotesi sia giusta che lo spinge a ritenere che la foto sia causalmente legata a uno solo dei due individui che a giorni alterni impersona Jekyll. Per chiunque altro la foto è causalmente legata al dottor Jekyll, quello socialmente riconosciuto come tale, e la credenza sociale prevale sul dato ontologico occulto, presunto, creduto, ma non accessibile. Qual è la morale della nostra storia? Che nella vita quotidiana noi abbiamo sempre a che fare con atti di riferimento pragmatico, e guai se ci ponessimo troppi problemi, ma che per garantire lo sviluppo della conoscenza possiamo agitare il fantasma del riferimento ontologico come postulato che permette una ricerca in progresso.

Se sia Jones a essere pazzo Torniamo alla contrattazione. Mi scuso per riprendere un esempio troppo sfruttato, ma dopo l’impudenza con cui sono tornato a riflettere sugli scapoli non mi vergogno più di nulla. Torniamo al celeberrimo esempio usato da Donnellan (1966) per distinguere tra uso referenziale e uso attributivo di un enunciato.15 Dato l’enunciato l’assassino di Smith è pazzo nel caso di uso referenziale si intende con quella descrizione indicare una persona precisa, nota sia al parlante che all’ascoltatore, mentre nel secondo (valutando l’efferatezza del delitto) si intende dire che chiunque abbia la proprietà di essere stato l’assassino di Smith ha anche la proprietà di essere un pazzo. Purtroppo la faccenda non è così semplice, ed ecco un elenco (incompleto) delle varie situazioni in cui l’enunciato potrebbe essere proferito:

(i) Il parlante intende riferirsi a Jones, che è stato sorpreso mentre uccideva Smith con una sega elettrica. (ii) Il parlante intende riferirsi a chiunque abbia assassinato Smith con una sega elettrica. (iii) Il parlante intende (ii), però non sa che Smith in verità non è morto (è stato salvato in extremis dal dottor Jekyll). In effetti non dovrebbe esserci un referente dell’espressione l’assassino di Smith, ma per principio di carità si pensa che il parlante intenda riferirsi al mancato assassino (che non cesserebbe di essere pazzo, anche se per soprammercato inabile). (iv) Il parlante intende (ii), ma probabilmente è pazzo il parlante, perché nessuno ha mai attentato alla vita di Smith. Gli ascoltatori comprendono che il parlante sta allucinatoriamente riferendosi a un individuo o a una situazione del mondo possibile delle sue credenze. (v) Il parlante crede (erroneamente) che Smith sia stato assassinato, che l’assassino sia Jones, e che tutti lo sappiano. Se gli ascoltatori non sanno che il parlante intrattiene queste strane credenze, siamo nella situazione (iv). Se poi il parlante esplicita le sue credenze, gli ascoltatori sapranno che egli si stava riferendo a Jones. Si tratterà ora di decidere se il parlante riteneva Jones pazzo in quanto assassino di Smith o per altre ragioni (per cui continuerà a ritenerlo pazzo, anche se non ha assassinato Smith). (vi) Smith è stato realmente assassinato, e il parlante crede che l’assassino sia Jones (mentre è noto a tutti che è Donnellan). Gli interlocutori non conoscono le credenze del parlante e credono che egli intenda dire che Donnellan è pazzo (il che è evidentemente falso, perché Donnellan ha assassinato Smith per ragioni scientifiche, onde poter lavorare sulla differenza tra uso attributivo e uso referenziale). Immagino che, se la conversazione prosegue per un poco, l’equivoco si possa chiarire ma - come in (v) - occorrerà condurre un supplemento d’istruttoria per stabilire se il parlante insiste nel riferirsi a Jones, pur innocente, come a un pazzo. (vii) Smith è stato realmente assassinato, e il parlante crede che l’assassino sia Jones (mentre è noto a tutti che è Donnellan). Ma gli ascoltatori sanno che il parlante è prevenuto nei confronti di Jones, e ha ripetutamente affermato di considerarlo l’assassino di Smith, e quindi capiscono che il parlante intende riferirsi a Jones.

(viii) Sta terminando il processo per l’assassinio di Smith, e Donnellan sul banco degli imputati ascolta la sentenza che lo definisce ufficialmente come colpevole. Il parlante (uno psichiatra) è appena entrato nell’aula e crede di ravvisare in Donnellan un certo Jones che egli aveva conosciuto in manicomio. Egli pertanto sta riferendosi a Jones e non a Donnellan. Naturalmente gli ascoltatori ritengono che stia riferendosi a Donnellan. Immagino che però gli chiedano ragioni per il suo giudizio, e forse nel corso della conversazione l’equivoco referenziale si potrebbe chiarire. Ecco un insieme di casi in cui il riferimento viene contrattato, e in cui non si può parlare di un riferimento indipendente dalle intenzioni e conoscenze del parlante, che punti a una haecceitas di cui il parlante non sa nulla.

Che cosa vuole Nancy? Ma la stessa distinzione tra uso referenziale e attributivo lascia scoperti molti casi di confine. Vediamo un altro esempio celebre, riadattato per l’occasione.16 Poniamo che io dica: Nancy vuole sposare un filosofo analitico. Di questo enunciato si possono dare due interpretazioni semantiche (1)-(2), possibili anche quando l’enunciato venga pronunciato fuori contesto, e almeno tre interpretazioni pragmatiche (3)-(5), che dipendono da alcune inferenze sulle intenzioni del parlante. Le interpretazioni (3)-(5) possono essere tentate solo dopo che si è preso una decisione tra (1) o (2): 1. Nancy vuole sposare un determinato individuo X, che è filosofo analitico. 2. Nancy vuole sposare chiunque, purché sia un filosofo analitico. 3. Nancy vuole sposare un determinato individuo, filosofo analitico: lei sa chi è, ma il parlante no, perché Nancy non gliene ha detto il nome. 4. Nancy vuole sposare un determinato individuo X, filosofo analitico: ha anche detto al parlante come si chiama e glielo ha

presentato, ma il parlante per riservatezza non ritiene opportuno scendere in particolari. 5. Nancy si è incapricciata di un tale e vuole sposarlo, ha detto al parlante chi è; si dà il caso che il parlante sapesse che è un filosofo analitico. È irrilevante a questo punto decidere se Nancy lo sa, se lo ignora, se il parlante glielo abbia detto. Il fatto è che il parlante ritiene che, siccome Nancy si sta laureando su Derrida, i due non potranno mai intendersi e quel matrimonio è destinato al fallimento. Esprime agli interlocutori (che conoscono benissimo le idee di Nancy) la sua perplessità. Le interpretazioni (3)-(5) dipendono dall’interpretazione (1) e cioè dalla decisione, che si è presa, di considerare l’enunciato come referenziale. È presumibile che gli ascoltatori chiedano maggiori informazioni su questo X, e in tal caso il parlante o dovrà confessare di non conoscerlo (caso 3, sia lui che gli ascoltatori debbono accettare il riferimento a scatola chiusa), o motivare la sua reticenza (caso 4, scatola chiusa solo per gli ascoltatori), o fornire indicazioni per la sua identificazione o per il suo reperimento (apre la scatola). Oppure gli ascoltatori sono disinteressati all’identità del parlante (il pettegolezzo è saporoso solo perché X è filosofo analitico) e la storia finisce lì. Ci resta da considerare l’interpretazione (2) che a prima vista parrebbe instanziare un uso attributivo dell’enunciato. Ma anzitutto occorre rilevare che anche nell’uso attributivo (alla Donnellan) si istanzia un caso di riferimento. Infatti era pur vero che il parlante definiva pazzo chiunque avesse ucciso Smith, ma in effetti il parlante supponeva che ci fosse stato un individuo preciso (benché ancora ignoto) ad aver ucciso Smith, e a quell’individuo si riferiva, sia pure a scatola chiusa. Parlare dell’assassino di Smith era come parlare del primo caduto della seconda guerra mondiale. Pazzo quell’X ignoto che aveva ucciso Smith, sfortunato quell’X preciso caduto prima di ogni altro: ma pazzia e sfortuna sono predicati di un X che, se pure ancora socialmente o storicamente o giuridicamente indefinibile, è ontologicamente definito. Ma qui non si sta parlando di chiunque Nancy abbia sposato (nel qual caso costui, anche ignoto, sarebbe pur sempre una e una sola persona). E neppure si sta parlando di una entità futuribile, e cioè di chiunque Nancy sposerà - nel qual caso sarebbe come se una donna

incinta parlasse della creatura che dovrà nascerle tra pochi mesi, e qualunque cosa essa sia essa sarà certamente il/la figlio/a nato/a dal suo ventre in un momento abbastanza circoscrivibile e con un dato patrimonio genetico (naturalmente potrebbe non nascere e proprio per questo è un futuribile). Qui si parla di chi Nancy vorrebbe sposare, se dovesse seguire i suoi gusti. L’entità di cui si parla, oltre che futuribile, è ottativa. L’individuo che si dice Nancy voglia sposare non solo non è ancora definito, ma potrebbe persino non entrare mai in scena (e Nancy rimarrebbe nubile). Nel caso essa fosse disposta a sposare chiunque avesse la proprietà di essere un filosofo analitico, essa sarebbe innamorata di una proprietà, come se volesse sposare chiunque abbia i baffi. Può darsi che nel corso delle sue più forsennate fantasie erotiche Nancy abbia assegnato un volto a questo x impreciso, magari immaginandolo coi tratti di Robert De Niro, ma non si è mai detto che Nancy voglia sposare chiunque assomigli a Robert De Niro. Nancy è disposta a transigere sul volto, sulla statura, sull’età, purché il suo x sia un filosofo analitico, e quindi le andrebbero indifferentemente bene Kripke o Putnam, ma non certo Robert De Niro. Dunque Nancy (o chi parla delle sue intenzioni) non si sta riferendo a un individuo, ma a una classe di individui possibili, e pertanto non sta compiendo un atto di riferimento. Lo x di Nancy è un oggetto generale come i gatti in generale. E siccome non ritengo opportuno parlare di riferimento per oggetti generali, l’enunciato dovrebbe essere tradotto come Nancy ha la proprietà di apprezzare i filosofi analitici (in genere) e di desiderarli come eventuali mariti, oppure i filosofi analitici, tra le loro molte proprietà, hanno anche quella di risultare desiderabili per Nancy. Questo, anche se sarebbe pur sempre un riferimento a Nancy, non sarebbe un riferimento ad alcun filosofo analitico preciso. Si consideri inoltre che non è affatto detto che Nancy voglia proprio sposare chiunque sia filosofo analitico. Si potrebbe voler dire che Nancy intende sposarsi, non ha ancora deciso chi, vuole certamente che il prescelto sia filosofo analitico, ma non intende unire la sua vita a qualsiasi filosofo analitico, ma solo a filosofi analitici che le vadano a genio. Se un sensale di matrimoni le proponesse Marco Santambrogio (che ha la duplice proprietà di essere filosofo analitico e uomo di notevole prestanza) Nancy potrebbe nicchiare, per esempio perché non apprezza la sua vis polemica.

Prima di dire che Nancy ha un carattere difficile, riconosciamo quanto sia difficile contrattare il riferimento, perché in quest’ultimo caso si trattava persino di contrattare, preventivamente, se eravamo di fronte a un riferimento oppure no. Chi è d’altra parte Nancy? Si presume che i parlanti non siano sciocchi: se in quell’ambiente si conoscessero molte persone con lo stesso nome, essi farebbero bene a chiedere specificazioni. A meno che non ritengano saggio lasciare che l’interlocutore, forse alticcio, si parli addosso, quella scatola chiusa dovrebbe essere subito aperta.17 Tuttavia c’è qualcuno che ha assunto il nome Nancy in modo molto rigido, e siamo noi, io che scrivo e voi che leggete queste pagine. Noi non sappiamo chi sia Nancy (salvo che è una ragazza e che ha un debole per i filosofi analitici - caso di scatola chiusa etichettata). Ma tutto sommato non ci importa affatto di saperne di più. Ci è bastato assumere che è la ragazza di cui stava parlando quel tale dell’esempio, e se qualcuno avrà la bontà di discutere con altri di questo libro, Nancy sarà la ragazza su cui io ho compiuto questo esercizio sul riferimento come contratto. Nessuno potrà negare che per alcune pagine ci siamo riferiti proprio a lei.18

Chi è morto il 5 maggio? Una parentesi imbarazzante. Secondo alcuni le descrizioni non servono a fissare il riferimento. Abbiamo visto che non c’è riferimento che non si sostanzi di qualche descrizione. Ma ci sono casi in cui pare che il riferimento sia fissato solo attraverso descrizioni, prescindendo dal nome. Manzoni scrive un’ode intitolata “5 maggio” che, secondo quello che abbiamo imparato a scuola, è dedicata alla morte di Napoleone. Tuttavia, se andate a rileggervela, vedrete che il nome di Napoleone non vi è mai menzionato. Dovendo riassumere brutalmente l’ode in termini di macroproposizioni (e senza rispetto per il suo valore artistico) diremmo che il parlante ci sta dicendo: 1. La persona di cui parlo (esprimendo i miei sentimenti verso di essa) non è più.

2. Questa persona è stata caratterizzata da una serie di proprietà: assurse a grandi fastigi, cadde, risorse; compì imprese memorabili dall’arco alpino alle coste africane, dalla penisola iberica ai confini tra Francia e Germania; non si sa se la sua fu vera gloria ma certamente Iddio lo intese come rappresentante eccelso della specie umana; egli provò la vittoria, il potere e l’esilio (e per ben due volte esperimentò sia il trionfo che la sconfitta); può essere considerato l’arbitro tra due secoli; a lungo aveva divisato di scrivere le sue memorie e ricordava gli eventi del suo passato; eccetera. Chi non sappia che l’ode era stata scritta nel 1821 e che quindi la data 5 maggio era implicitamente riferita a un giorno preciso di quell’anno, e chi non sappia che Napoleone morì in quella data (diventata enciclopedicamente, per antonomasia o metonimia, la data della sua morte), per identificare la persona designata non avrebbe altre istruzioni che le vaghe descrizioni offerte da Manzoni. Non ho voglia di tentare una ispezione nella storia universale, ma sono abbastanza convinto che troveremmo un altro personaggio storico a cui queste descrizioni potrebbero benissimo applicarsi. Con un poco di buona volontà, e intendendo alcune espressioni come metafore e iperboli, qualcuno potrebbe applicarla a Nixon o a Fausto Coppi. Questo è un caso molto difficile per molte teorie del riferimento, perché noi sappiamo che quel testo si riferisce a Napoleone solo in base a molte contrattazioni (e convenzioni) circostanziali e intertestuali. Senza queste negoziazioni, il testo sarebbe referenzialmente oscurissimo. Ma complichiamo le cose. Supponiamo che Manzoni (il quale per fortuna non era un burlone di tal fatta) avesse scritto un’ode molto simile alla scenetta del sarchiapone, dicendo a un dipresso: “Celebro la morte di un Grande. Di costui solo vi dico che non assurse a grandi fastigi, non cadde, non risorse, non fu due volte nella polvere e due volte sugli altar, non compì imprese dall’Alpi alle Piramidi e dal Manzanarre al Reno, non fu affatto l’arbitro tra due secoli e, anzi, a pensarci bene, non è neppure morto”. Come potremmo intendere il suo riferimento a costui (a cui egli stava evidentemente continuando a riferirsi)? Gli firmeremmo una cambiale in bianco, attendendo che ci dica qualcosa di più su questo Tale. Rimarremo incerti se egli intendesse parlare di Giulio Cesare, di Enrico

IV, del suo vicino di casa o di altro individuo da scegliere tra i miliardi che hanno popolato il pianeta. La firma di questa cambiale in bianco sarebbe una forma di accettazione di una designazione davvero “molle”. Si ammetterebbe, per mantenere in vita l’interazione, che egli sta parlando di qualcuno che è apparso da qualche parte, è stato concepito con un certo programma genetico, probabilmente battezzato in qualche modo dai suoi genitori o da chi l’ha visto la prima volta, ma non si saprebbe (per il momento) chi era. Tuttavia la designazione non sarebbe totalmente molle: le descrizioni forniteci ci porterebbero a escludere almeno Napoleone. Ho forse ipotizzato una interazione comunicativa impossibile? Ma no, cose del genere ci accadono spesso: come quando qualcuno ci dice: ho conosciuto una ragazza fantastica ieri seva in discoteca, che neppure ti immagini che tipo sia! E noi che facciamo? Aspettiamo il resto del racconto. Ma sappiamo che ci si sta riferendo a una donna e non a un uomo.

Oggetti impossibili Secondo una delle sue possibili interpretazioni l’enunciato su Nancy pone in gioco dei futuribili ottativi. Enunciati come avremo un figlio e lo chiameremo Luigi, oppure sono certa di trovare a Hong-Kong l’uomo della mia vita sono casi di riferimento a futuribili ottativi. Anche attendo che mi portino le mie brioches: nel momento in cui le si è ordinate si voleva qualsiasi cosa purché fossero delle brioches, ma quando si parla di quelle che a un momento dato saranno arrivate esse saranno indubbiamente le brioches individualissime possedute dal parlante. Essendo futuribili e ottativi, questi individui potrebbero poi anche non essere: ma si possono attuare riferimenti a possibilia. Si possono attuare riferimenti a impossibilia o comunque a oggetti inconcepibili? Vorrei trascurare il solito circolo quadrato, che mi pare un oggetto generale come l’unicorno (e al massimo è un individuo formale, vedi 3.7.7). Ma se dico nel 2005 si individuerà il più alto numero primo, non solo mi riferisco a un futuribile ottativo ma anche a qualcosa di inconcepibile.

Tutti gli oggetti impossibili sono inconcepibili, ma non tutti gli oggetti inconcepibili sono impossibili. Per esempio un universo illimitato supera le nostre capacità di immaginazione ma in linea di principio non è impossibile. Diventare figlio del proprio figlio sembra invece, oltre che inconcepibile, impossibile (almeno sino a che vivremo in un universo con catene causali aperte e non a loop). Quello che però caratterizza sia gli inconcepibili impossibili che i possibili inconcepibili è l’impossibilità di costruircene un TC e un CN (ritengo che per i possibili inconcepibili sia possibile costituire un CM, ma non so bene di quale natura). Siccome si è detto che è possibile riferirsi (a scatola ermeticamente chiusa) anche a oggetti di cui non si conosce il CN, e che quindi non sapremmo individuare, riconoscere, reperire e neppure interpretare, pare evidente che ci si possa riferire anche a oggetti inconcepibili. Il fatto che molti romanzi o film di fantascienza parlino di personaggi che viaggiano all’indietro nel tempo e incontrano se stessi da piccoli, o diventano padri di se stessi - e che siamo in grado di seguire queste storie (sia pure con un certo senso di vertigine) - prova che si possono nominare oggetti inconcepibili e pertanto (poiché il riferimento è un uso che si fa del linguaggio) riferirsi a essi.19 In Eco (1990, 3.5.6) si è mostrato che non solo possiamo nominare questi oggetti ma, per illusione cognitiva, possiamo avere l’impressione di concepirli. Come esistono ambiguità percettive esistono ambiguità cognitive e ambiguità referenziali. Noi abbiamo l’impressione non solo di poterci riferire a questi oggetti ma di dischiudere per così dire la scatola che li contiene in quanto se li esaminiamo in toto non riusciamo a concepirli, ma se li esaminiamo un pezzo alla volta abbiamo l’impressione che essi possano avere una forma, anche se non siamo capaci di descriverla. D’altra parte, se ci danno i pezzi riconoscibili per montare una bicicletta, salvo che ce li diano traendoli da biciclette di marche diverse, così che alla fine non riusciamo a metterli insieme, non per questo abbiamo fallito nel riconoscere in quei pezzi una bicicletta smontata (futuribile e ottativa). Un esempio visivo di un mondo possibile impossibile è il famoso disegno di Figura 5.1, un archetipo di molti impossibilia visivi. Figura 5.1

A una prima occhiata questa figura sembra rappresentare un oggetto “possibile” ma, se seguiamo le sue linee secondo il loro corso orientato spazialmente, ci rendiamo conto che un oggetto simile non può esistere (almeno nell’universo in cui viviamo). Tuttavia, e io lo sto facendo in questo momento (non solo verbalmente ma anche visivamente), posso riferirmi a quella figura (che tra l’altro si trova in molti libri di psicologia).Non solo, ma posso fornire, o a una persona o a un computer, istruzioni per costruirla. L’obiezione che così facendo ci si riferisce all’espressione (il significante grafico), ma non all’oggetto, non tiene. Come ho già detto in Eco (1994: 100) la difficoltà non consiste nel concepire questa figura in quanto espressione grafica, tanto è vero che possiamo tranquillamente disegnarla, e quindi non è geometricamente impossibile, almeno in termini di geometria piana. La difficoltà nasce quando non possiamo evitare di vedere la figura come espressione bidimensionale di un oggetto tridimensionale. Basterebbe che noi non intendessimo le sfumature come un segno grafico che sta per le ombre di un oggetto tridimensionale, e la figura sarebbe percepibile senza sforzo. Ma non ce la facciamo a evitare l’effetto ipoiconico (si veda in 6.7 la discussione sugli “stimoli surrogati”). Ed è certamente alla figura “interpretata” che ci stiamo riferendo. Una persuasiva spiegazione dell’illusione cognitiva viene fornita da Merrell (1981: 181), che ripropone l’immagine segmentata come appare in Figura 5.2. Figura 5.2 Se osserviamo isolatamente o la zona A o la zona B della figura ciascuna di esse ci presenta un oggetto tridimensionalmente possibile. Semplicemente nella zona A vediamo dei cilindri e nella zona B dei parallelepipedi. La zona A«B può essere vista alternativamente o come parte di A o come parte di B (messa a fuoco isolatamente, ci mostra solo delle parallele). La difficoltà nasce solo quando si cerca di concepire l’oggetto come un tutto. Parimenti in Eco (1990, 3.5.6) avevo mostrato che anche una situazione inconcepibile come quella di un X1 che incontra se stesso più giovane (come X2) può essere sostenuta (per illusione cognitiva) se si assegna coerentemente il punto di vista sempre alla stessa entità (o sempre a X1 o sempre a X2). D’altra parte vedremo in 6.10 che possiamo benissimo ipotizzare di avere un terzo occhio sul dito indice, col quale guardar la nostra nuca o penetrare con la vista in

cavità inaccessibili ai nostri occhi normali. L’inconcepibilità nasce quando cerchiamo di immaginare che cosa succederebbe quando puntassimo il terzo occhio verso il nostro viso. Vedremmo il dito indice con gli occhi della testa, o gli occhi della testa con l’occhio sul dito indice? Di nuovo, o andiamo per zone di focalizzazione (immaginiamo di chiudere alternativamente o gli occhi del capo o quello del dito), oppure cadiamo nella più completa confusione immaginativa. Ritengo pertanto che quando ci riferiamo a entità inconcepibili ci comportiamo come se, di fronte a una scatola chiusa, sollevassimo alternativamente - e per pochi millimetri - l’uno o l’altro lato del coperchio. A ogni prova vedremmo qualcosa di concepibile, faremmo fatica a mettere insieme i vari punti di vista, e concederemmo che nella scatola c’è qualcosa le cui proprietà ci risultano oscure o incoerenti. Ma non per questo cesseremmo di riferirci a questo qualcosa.

L’identità del Vasa Sul riferimento pragmatico come fenomeno di contrattazione vale il venerabile esempio della nave di Teseo, che mette in gioco il problema dell’identità e di ogni possibilità di designazione rigida. Il problema è noto ed è stato variamente trattato, da Hobbes ai giorni nostri, ma per comodità, visto che della nave di Teseo sappiamo pochissimo, parliamo di un’altra nave, il Vasa. Dunque, nel 1628 a Stoccolma (e più precisamente nei cantieri di Skeppengården) si decide di costruire una formidabile nave da guerra che avrebbe dovuto essere il vascello reale della flotta svedese: uno scafo costruito con migliaia di querce, 64 cannoni di grosso calibro, alberi di più di trenta metri, svariate centinaia di sculture dipinte e dorate. Il 16 agosto, una domenica mattina, la nave viene varata, tra un tripudio di folla. Ma, come racconta una lettera del Consiglio di Stato al Re, “una volta uscita nel golfo all’altezza di Tegelviken la nave prese un poco più di vento e iniziò a piegarsi sottovento, per poi raddrizzarsi ancora un poco; arrivata però all’altezza di Beckholmen si piegò completamente su un lato, l’acqua entrò attraverso i portelli dei cannoni, e la nave si inabissò lentamente con tutto il suo arredo di vele e di bandiere”.

Tristissima vicenda. Non chiediamoci perché il Vasa sia affondato, né seguiamo i numerosi tentativi che da quel giorno sono stati compiuti per riportarlo a galla. Fatto sta che ci si è finalmente riusciti e il Vasa è commoventemente visibile nell’omonimo museo di Stoccolma (dai cui cataloghi ho tratto tutte le veridiche informazioni che ho provvisto). Inoltre l’ho veduto, certo è un poco rovinato, manca di alcune parti, ma so che quello che ho visto è proprio il Vasa colato a picco quella mattina del 1628. Ora immaginiamo che il Vasa non sia affondato il giorno del suo varo, ma abbia felicemente navigato per molti mari. Come accade alle navi, specie dopo avere affrontato maremoti e tempeste, nel corso del tempo varie sue parti saranno state sostituite, una volta una parte del fasciame, una volta una parte dell’alberatura, una volta alcuni infissi, spesso i cannoni, sino al momento in cui il Vasa che fosse ora esposto nel Museo Vasa di Stoccolma non avesse più alcun elemento del Vasa originale. Diremmo che si tratta dello stesso Vasa, ovvero designeremmo rigidamente come Vasa quello che non possiede più alcuna parte materiale dell’oggetto che era stato battezzato come tale? Uno dei criteri per dare una risposta positiva, è che siano state osservate tre condizioni: la sostituzione delle varie parti deve essere avvenuta per gradi e non di un solo colpo, in modo che non si sia interrotta la catena delle esperienze percettive, e le parti sostituite debbono essere morfologicamente uguali a quelle eliminate. Quindi riterremo il Vasa di oggi identico al Vasa di allora perché considereremo come parametri decisivi la (i) continuità graduale, (ii) il riconoscimento legale ininterrotto e (iii) la forma.21 La continuità graduale e il riconoscimento legale sono le sole condizioni per cui qualcuno riconosce in me lo stesso individuo nato nel 1932. Se si stesse a sottilizzare sulle cellule, Dio sa che cosa è cambiato da allora a oggi. Ma i cambiamenti sono stati graduali e inoltre l’anagrafe mi ha definito sempre come lo stesso individuo (a sei, dieci, venti e sessant’anni). Sarei perplesso a dire quale sia la mia forma (chi non mi ha seguito anno per anno ha difficoltà a riconoscermi in una foto degli anni Cinquanta), ma con il Vasa si va più tranquilli, come si andava tranquilli per la seconda suite per violoncello solo di Bach (vedi 3.7.7) che riconosciamo come la stessa anche se suonata da interpreti diversi su violoncelli diversi e persino se trascritta per flauto dolce.

Dunque il Vasa di oggi sarebbe lo stesso Vasa di ieri non solo perché è stato ininterrottamente nominato così nel corso di quattro secoli, ma perché - qualsiasi alterazione abbia subito in termini di materiali mantiene la stessa forma del Vasa originale. Ma per chi sarebbe lo stesso? Certamente per uno storico della marina, che volesse esaminarlo per sapere come erano fatti i vascelli del XVII secolo. Sarebbe lo stesso per un congresso di fisica dei materiali, interessato a sapere come legno e metallo hanno reagito al corso del tempo, e all’inclemenza degli elementi? Del Vasa attuale costoro non saprebbero cosa farsene, e asserirebbero che non si tratta del Vasa originale. Elenco (senza pretese di costituire una tipologia esaustiva) una serie di casi in cui l’attribuzione di identità (o autenticità) dipende da parametri diversi, volta per volta contrattabili o contrattati. (1) L’abbazia di Saint Guinness è stata costruita nel XII secolo. Rigorosissimi abati l’hanno restaurata giorno per giorno, sostituendo le pietre e gli infissi a seconda che cedessero all’usura del tempo, così che l’abbazia come la vediamo oggi, dal punto di vista dei materiali, non ha più nulla a che vedere con quella originaria, ma dal punto di vista del disegno architettonico è la stessa. Se noi privilegiamo il criterio della identità della forma su quello della identità dei materiali e introduciamo inoltre il criterio della “omolocalità” (l’abbazia di oggi sorge esattamente nello stesso luogo dell’abbazia originale), dal punto di vista turistico (e in una certa misura della storia dell’arte) siamo portati a dire che si tratta della stessa abbazia. (2) Dell’abbazia di Saint-Pouilly Fouissé, mai restaurata, è rimasto solo un muro laterale e un rudere di transetto. Perché la consideriamo originale? Non basta dire che non consideriamo originale l’abbazia bensì un suo rudere. Nei pressi di Parigi i turisti vanno a visitare la celebre abbazia di Port Royal, eppure l’abbazia non c’è più, non c’è più nulla, neppure un rudere: è rimasto solo il luogo. Si tratta del luogo dove originalmente sorgeva una cosa che è scomparsa. Cosa c’è di originale a Port Royal? (3) William Randolph Hearst, nel suo sogno di costruire una residenza perfetta, identifica in Europa l’abbazia di Cognac, rimasta intatta dal tempo della sua costruzione, l’acquista, la fa smontare numerando ogni pietra e la fa ricostruire a San Simeon in California. Si tratta della stessa abbazia? Per lui certamente sì, per alcuni surcigliosi

critici o archeologi europei, no. Essi non privilegiano l’identità dei materiali e della forma, ma l’omolocalità. Debbono pertanto dire che Port Royal (che non c’è più) è più originale di Cognac (che in fondo c’è, anche se nel posto sbagliato)? (4) Gli edifici della Valle dei Re in Egitto rischiano di essere sommersi da un nuovo progetto idrico. L’Unesco fa smontare pietra per pietra quegli edifici, e li ricostruisce in un’altra valle. Si tratta degli stessi edifici? L’Unesco assume che sì, conta la forma e l’identità dei materiali, ma coloro che contestano l’autenticità della ricostruzione di Hearst dovrebbero rispondere negativamente. Perché i casi (3) e (4) dovrebbero essere diversi? Perché consideriamo che l’Unesco abbia il diritto morale e scientifico di fare quello che Hearst ha fatto per arbitrio e interesse personale? (5) Il Partenone di Nashville (Tennessee) è stato costruito rispettando scrupolosamente la struttura formale del Partenone originale, tanto che una diceria (non so quanto vera) sostiene che dopo l’ultima guerra, per restaurare parti del Partenone di Atene, gli esperti sono andati a documentarsi sul Partenone di Nashville. Inoltre il Partenone di Nashville è a colori, come doveva essere l’edificio originale. Eppure nessuno oserebbe considerarlo originale, malgrado la forma sia la stessa, semplicemente perché le pietre non sono le stesse, perché non sorge nello stesso luogo (tra l’altro, sorge in pianura e non su di un’acropoli) e soprattutto perché l’altro c’è ancora. (6) La Polonia (come entità politica) è stata una delle nazioni più tormentate di tutti i secoli: basta guardare un atlante storico per vedere come i suoi confini si siano allargati o ristretti secondo le epoche, e a un certo punto sia praticamente scomparsa dalla carta geografica. A che cosa si riferisce il nome Polonia? Dipende dal contesto storico in cui lo si usa. È vero o falso l’enunciato Byalistok appartiene alla Polonia? Dipende dalla data in cui viene pronunciato.22

Sull’altra gamba di Ahab Alla luce di una teoria contrattuale del riferimento credo si possa anche risolvere l’annoso problema del riferimento a personaggi fittizi, come Sherlock Holmes o Pinocchio. Se si sostiene una versione ontologica forte del riferimento (riferimento agli occhi di una mente

divina) allora possono sorgere sui personaggi fittizi tutte le discussioni che hanno popolato decine e centinaia di volumi.23 Se si accetta una versione ontologica debole (realismo interno, riferimento agli occhi della Comunità), il discorso appare meno drammatico, perché ci riferiremmo ad Amleto ogni volta che assumessimo che si tratta del personaggio descritto nel mondo possibile di Shakespeare e a cui tutte le enciclopedie riconoscono alcune proprietà e non altre, tanto quanto le enciclopedie concordano nel dire che l’acqua sia H2O. Il problema interessante non è se i personaggi fittizi esistono nello stesso modo dei personaggi reali: il tal caso la risposta è “no”, neppure se si accettasse il realismo di Lewis (1973: 85) per cui i mondi possibili sono altrettanto reali di quello in cui viviamo giornalmente. Il problema interessante è perché possiamo riferirci ad essi nello stesso modo in cui ci riferiamo ai personaggi reali, e ci capiamo benissimo sia quando diciamo che Napoleone era il marito di Giuseppina che quando diciamo che Ulisse era il marito di Penelope. Questo avviene perché le enciclopedie concordano nell’assegnare a Giuseppina la proprietà di aver sposato in seconde nozze Napoleone e a Penelope quella di avere avuto Ulisse come marito. Si è detto che i mondi narrativi sono sempre piccoli mondi, perché non costituiscono uno stato di cose massimale e completo (cfr. Pavel 1986; Dolezel 1989: 233 sgg.; Eco 1990, 3.5). In questo senso i mondi narrativi sono parassitari perché, se le proprietà alternative non vengono specificate, diamo per scontate le proprietà che valgono nel mondo reale. In Moby Dick non si dice espressamente che tutti i marinai del Pequod avevano due gambe, ma il lettore dovrebbe ritenerlo come implicito dal momento che i marinai sono esseri umani. Caso mai il racconto si premura di dirci che Ahab invece di gambe ne aveva solo una - tra l’altro, per quel che ricordo, non dice quale, e ci lascia liberi di immaginarlo, perché tale specificazione non è rilevante ai fini del racconto. Una volta però accettato l’impegno che si assume nel leggere un racconto, si è non solo autorizzati ma anche invitati - se si desidera - a trarre inferenze sia in base alle vicende raccontate che a quelle presupposte. In linea di principio potremmo fare lo stesso sia con un enunciato che si riferisce a fatti realmente avvenuti sia con un enunciato romanzesco. Dato Giulio Cesare è stato assassinato in Senato, a Roma, alle idi di marzo del 44 a.C., possiamo inferirne in quale anno ab urbe

condita si sia verificato l’evento (ma c’è da decidere se ci si riferisce alla datazione di Catone il Vecchio o a quella di Varrone); dato d’Artagnan è arrivato nella città di Meung, su di un ronzino giallo di almeno quattordici anni d’età, il primo lunedi del mese d’aprile 1625, consultando un calendario universale si potrebbe concluderne che il primo lunedì di quell’aprile era il giorno 7. Tuttavia se è di qualche interesse sapere in quale anno ab urbe condita sia morto Cesare, non è narrativamente interessante sapere che D’Artagnan era arrivato a Meung il 7 aprile. È interessante stabilire che Amleto era scapolo, perché l’osservazione ha qualche rilievo per la comprensione della sua psicologia e della sua vicenda con Ofelia. Ma alla fine del capitolo 35 di Le rouge et le noir Stendhal, raccontando di come Julien Sorel tenta di uccidere Madame de Rênal, conclude “il tira sur elle un coup de pistolet et la manqua; il tira un second coup, elle tomba”. Ha senso chiedersi dove sia finita la prima palla? Come già si affermava in Eco (1979) i personaggi romanzeschi esibiscono diversi tipi di proprietà. (a) Abbiamo anzitutto quelle proprietà che non sono esplicitate dal testo ma che debbono essere presupposte nel senso che non possono essere negate: di un personaggio possono non essere descritti i capelli ma non per questo il lettore assume che esso sia calvo. Quanto tali proprietà non possano essere negate lo si vede nei processi di traduzione intersemiotica: se nella trasposizione filmica Julien Sorel andasse a compiere il suo tentato omicidio senza scarpe (non nominate nel romanzo) la cosa apparirebbe curiosa. (b) Ci sono poi quelle proprietà che chiamavo S-necessarie, come la proprietà di intrattenere, all’interno del mondo possibile narrativo, relazioni reciprocamente definitorie con altri personaggi. Nel mondo narrativo di Madame Bovary non c’è altro modo di identificare Emma se non come la moglie di Charles, che a sua volta è stato identificato come il ragazzo visto dal narratore all’inizio del romanzo; qualsiasi altro mondo narrativo in cui Madame Bovary fosse la moglie di Monsieur Homais sarebbe un altro mondo, ammobiliato con individui diversi (ovvero non parleremmo più del romanzo di Flaubert ma di una sua parodia o rifacimento). (c) Sono avvertite come particolarmente evidenti le proprietà attribuite esplicitamente ai personaggi nel corso del racconto, come l’aver fatto queste o queste altre cose, l’essere maschi o femmine,

giovani o vecchi. Esse non hanno tutte lo stesso valore narrativo: alcune sono particolarmente rilevanti ai fini della storia (per esempio il fatto che Julien ha sparato su Madame de Rênal), altre meno (il fatto che abbia sparato durante l’elevazione mentre la signora abbassava la testa, e che abbia tirato due colpi invece di uno solo). Possiamo fare una distinzione tra proprietà essenziali e proprietà accidentali. (d) Ci sono infine le proprietà che il lettore inferisce dal racconto, e che talora sono cruciali ai fini dell’interpretazione. Per inferirle si trasformano talora delle proprietà accidentali in essenziali: per esempio il fatto che Julien sbagli il primo colpo può permettere di inferire che in quel momento era particolarmente emozionato (infatti poche righe sopra si dice che il braccio gli tremava) e questo cambierebbe la natura del suo gesto, non più dovuto a fredda determinazione ma a disordinato impeto passionale. Per rimanere a Stendhal, la critica dibatte se in Armance Octave de Malivert fosse davvero impotente, là dove il testo non lo dice a chiare lettere.24 In genere, tuttavia, quando ci riferiamo a personaggi fittizi, lo facciamo in base alle proprietà più comunemente registrate dalle enciclopedie, e le enciclopedie registrano di preferenza le proprietà di tipo (b) e (c), perché sono quelle che i testi esplicitano e non quelle che essi presuppongono o inducono a congetturare. Parlare di proprietà esplicitate significa pensare a un testo romanzesco come a una partitura: come questa prescrive l’altezza, la durata e sovente il timbro dei suoni, così un racconto stabilisce le S-proprietà e le proprietà essenziali dei personaggi. Il fatto che un racconto preveda anche proprietà accidentali (in gran parte cancellabili senza smarrire l’identità del personaggio) potrebbe essere simile al fatto che per l’identificazione di una composizione musicale non è strettamente essenziale che siano rispettate, poniamo, certe differenze tra “forte” e “fortissimo”, e una certa melodia viene riconosciuta anche se non viene eseguita, come prescritto dalla partitura, “con brio”. Richiamo l’analogia con la partitura musicale perché intendo rinviare alla discussione (svolta in 3.7.7) sugli individui formali. Già in quella sede si consideravano individui formali sia una composizione musicale che un quadro o un romanzo. Ora intendo suggerire che a un personaggio fittizio (nella misura in cui è intersoggettivamente ed enciclopedicamente identificabile attraverso le proprietà S-necessarie ed essenziali che un testo gli ha attribuito) ci si può riferire tanto quanto

ci si riferisce alla Seconda suite per violoncello solo di Bach. Abbiamo detto che (al di là delle difficoltà pratiche e teoriche che pone il suo riconoscimento in base a poche note) chiunque parli di SV2 intende riferirsi a quell’individuo formale che, nell’impossibilità di appurare quale fosse l’idea musicale che si era delineata nella testa di Bach quando l’aveva composta, è rappresentato dalla sua partitura o da una sua esecuzione ritenuta corretta e fedele. In tal senso un personaggio fittizio è un individuo formale a cui ci si può correttamente riferire purché gli si attribuiscano tutte le proprietà testualmente esplicitate dal testo originale, e si può su tali basi stabilire che chi asserisca che Amleto ha sposato Ofelia o che Sherlock Holmes era tedesco afferma il falso (o si riferisce a qualche altro individuo che porta accidentalmente lo stesso nome). Quanto ho detto si adatta però a personaggi fittizi in quanto raccontati da un’opera specifica, che ne costituisce la partitura. Che dire a proposito di personaggi mitici o leggendari che migrano attraverso opere diverse compiendo talora azioni diverse, o semplicemente sopravvivono nell’immaginario mitico senza essere ancorati ad alcuna opera specifica? Un esempio tipico è dato da Cappuccetto Rosso, dove le variazioni tra tradizione popolare e versioni letterarie sono numerosissime e coinvolgono anche particolari marginali (cfr. Pisanty 1993, 4). Atteniamoci solo a una differenza fondamentale tra la versione di Perrault e quella dei Grimm: nella prima la storia finisce quando il lupo, dopo aver divorato la nonna, divora anche la bambina, e la vicenda si conclude con un avvertimento moralistico alle fanciulle avventate e imprudenti; nella seconda invece entra in scena il cacciatore che apre la pancia della belva e fa uscire sia la bambina che la nonna. A chi ci riferiamo quando parliamo di Cappuccetto Rosso? A una bambina che muore o a una bambina che riemerge dal ventre del lupo? Direi che si danno due casi. Se qualcuno parla della risurrezione di Cappuccetto Rosso (riferimento alla partitura-Grimm) e l’interlocutore ha invece in mente la partitura-Perrault, sarà l’interlocutore a sollecitare un supplemento d’indagine; si inizierà una negoziazione sino a che si sia raggiunto l’accordo sulla partitura di riferimento. Oppure gli interlocutori hanno in mente la partitura “popolare”, quella che alla fine si è dimostrata più forte, che è meno complessa di quella delle varie versioni scritte, e che circola in una data cultura come fabula essenziale, ai minimi termini. Questa fabula è sostanzialmente quella dei Grimm e

a questa partitura popolare di solito facciamo riferimento (quindi la bambina va nel bosco, incontra il lupo, il lupo divora la nonna, ne assume le sembianze, divora la bambina, il cacciatore libera entrambe), mentre vengono lasciati cadere particolari rilevanti per le versioni colte (per esempio se la bambina si spogli ed entri nel letto con la presunta nonna), o più marginali (per esempio se la bambina porti alla nonna focaccia e vino o focaccia e burro). Su questa base popolare ci riferiamo quindi a Cappuccetto Rosso in modo contrattualmente definito indipendentemente dal particolare che essa porti alla nonna del vino o del burro. Parimenti accade che certi personaggi di romanzo, divenuti famosi, entrino a far parte - come si suol dire - dell’immaginario collettivo, e in termini di fabula essenziale diventino noti anche a chi non ha mai letto l’opera in cui appaiono per la prima volta. Tipico mi pare il caso dei Tre Moschettieri. Solo a chi ha letto il libro di Dumas è noto che il ronzino su cui appare d’Artagnan nel primo capitolo de I tre moschettieri è un ronzino bearnese donatogli dal padre. Per lo più invece ci si riferisce ai tre moschettieri in termini di fabula essenziale (essi sono spavaldi, duellano con le guardie di Richelieu, compiono imprese mirabolanti per ricuperare i diamanti della Regina, eccetera). In questa fabula ai minimi termini di solito non si distingue molto tra le azioni che essi compiono in I tre moschettieri e quelle che continuano a compiere in Vent’anni dopo (mentre direi che la fabula popolare ignora quanto accade nel meno famoso Visconte di Bragelonne - prova ne sia che la serie infinita delle riduzioni cinematografiche lo ignora). Ed è in questo senso che noi riconosciamo d’Artagnan o Porthos anche in rifacimenti cinematografici dove accadono cose che non accadono nei romanzi dumasiani, e non ne siamo sconvolti come se qualcuno ci dicesse che Madame Bovary ha divorziato serenamente da Charles vivendo felice e contenta. In tutti questi casi si tratta di contrattare la partitura di riferimento (opera, specifica o fabula depositata nell’immaginario collettivo) e, dopo, il riferimento avviene senza ambiguità. Tanto che, in caso di trivia games, si possono ascoltare contestazioni del genere: “Ma bada che la figlia di Milady di cui parli appare nel film! In Vent’anni dopo è un figlio!”. In definitiva, in tali casi, si contratta il mondo possibile di cui si parla. E se non sempre ci si mette d’accordo, questo dipende dal

numero di mondi possibili in gioco, non dal fatto che, in un mondo possibile contrattato con precisione, sia impossibile fissare il riferimento.25

‘Ich liebe Dich’ Chi sostiene che un pronome di prima persona singolare si identifica con colui che sta parlando - senza la mediazione di un accordo sul proprio contenuto - dovrebbe spiegare che cosa accade quando uno straniero, di cui non si conosce la lingua, dice Ich liebe Dich. L’obiezione che questo non sia un caso di riferimento mancato, ma semplicemente di incompetenza linguistica, è autofaga: infatti sto appunto dicendo che per comprendere il riferimento debbo non solo conoscere il significato di un verbo come liebe, ma anche quello dei due pronomi - altrimenti quella dichiarazione d’amore si risolverà in un atto di riferimento infelice (e mai aggettivo è stato più letteralmente appropriato). Avevamo iniziato dando per implicito e quasi ovvio che, per poter usare i termini in atti di riferimento, occorreva prima conoscere il loro significato. Ci si è accorti proseguendo che, almeno in parte, si possono intendere atti di riferimento anche senza conoscere il significato del termine. Poi si è dovuto concludere che non ci sono scatole chiuse senza almeno una etichetta, che il significato rientra da tutte le parti, e che alla fin fine per poter realizzare un riferimento coronato da successo occorre, prima di tutto, mettersi d’accordo sul significato dei termini, e solo a quel punto si può proseguire a contrattare circa l’individuo a cui ci si intende riferire. Terminiamo con alcune osservazioni circa l’importanza di un CN, e di una successiva negoziazione, anche per quei termini che paiono, per così dire, acquistare vita, prendere senso solo quando sono direttamente attaccati a un individuo - e che scollandosene sembrano volteggiare nella bruma del non senso. Sono sempre imbarazzato dal fatto che qualcuno ritiene che i termini indicali (quelli di solito accompagnati da un gesto, come questo o quello), i deittici (relativi nel contesto al parlante e alla sua posizione spazio-temporale, come ieri, in questo momento, tra poco, non lontano da qui), per non dire dei pronomi personali, designino direttamente

senza alcuna mediazione di un loro possibile significato. Ho cercato di mostrare in Eco (1975, 2.11.5) come anche questi tipi di segni, per poter essere applicati in atti di riferimento, debbano essere compresi nel loro significato, ma trovo sempre qualcuno che lo nega per il semplice fatto che le istruzioni per comprendere come si può usare gatto per riferirsi ai gatti sono diverse dalle istruzioni per comprendere come si può usare io o questo per riferirsi o a chi emette l’enunciato o alla cosa che si sta indicando col dito. È certamente vero che quello che ho chiamato il CN di un termine può proporre istruzioni assai diverse per identificare il referente di gatto e di cugino. Ma dire che le istruzioni assumano formati diversi non significa dire che non ci siano.26 Si veda in Bertuccelli Papi (1993: 197) l’esempio di questi due enunciati: (i) Alice è partita ieri e Silvia tre giorni fa, e (ii) Alice è partita ieri e Silvia due giorni prima. Supponendo che le due frasi vengano prommciate di sabato, in entrambi i casi Alice dovrebbe essere partita venerdì e Silvia mercoledì. Ma in (i) l’espressione fa rinvia al giorno dell’enunciazione (sabato) mentre in (ii) l’avverbio prima è ancorato al punto di riferimento temporale contenuto nell’enunciato stesso (ieri). Se sostituissimo fa a prima in (ii) la data della partenza di Silvia verrebbe spostata al giovedì. L’autrice suggerisce che fa sia quindi “intrinsecamente deittica” mentre prima cambia di valore a seconda del punto di riferimento temporale col quale lo si pone in relazione. In ogni caso si vede che l’uso delle due espressioni per designare un giorno preciso dipende da regole di linguistica testuale molto complesse, e non vedo perché questo insieme di regole non possa essere inteso come il contenuto delle rispettive espressioni - se per CN non s’intende una semplice definizione ma anche - o talora soltanto – un complesso insieme di istruzioni per identificare il referente.27 È stato detto che “Io denota chi emette l’enunciato” è una istruzione insufficiente per identificare il referente, dato che esso muta secondo il contesto e la circostanza, e pertanto non rappresenta il contenuto del pronome Io. Ancora una volta si stanno confondendo istruzioni per l’identificazione del referente e modo di fissare il riferimento. L’istruzione per identificare il referente di Io è altrettanto generica di quella per identificare il referente di interlocutore (termine che identifica persone diverse a seconda della situazione di scambio linguistico), di assassino (dato che l’assassino di Cesare e l’assassino di Kennedy si riferiscono a due persone diverse) o addirittura di gatto

(visto che le istruzioni per identificare gatti non sono certo sufficienti a fissare il riferimento di il gatto che ho regalato ieri a Luigi). Dare istruzioni per identificare, in molteplici circostanze, il possibile referente di un termine generico non è lo stesso che decidere, per negoziazione pragmatica, come fissare il riferimento quando ci si riferisce a individui. Putnam (1981, 2) ammette che un pronome come Io non ha una estensione ma una funzione di estensione che determinerebbe l’estensione secondo il contesto. Sarei d’accordo di considerare questa funzione di estensione come parte del CN del pronome, e potremmo ammettere che si tratta di una istruzione per identificare il referente in un atto di riferimento. Putnam dice anche che non vorrebbe identificare questa funzione di estensione (che sarebbe carnapianamente una intensione) con il significato. Ma qui semplicemente (e rinvio alla discussione in 3.3.2 sulle difficoltà che talora può provocare il termine di “significato”) si vuole da un lato dire che questa regola è una funzione astratta, e dall’altro che essa non esaurisce tutto quello che intendiamo per significato di una espressione, nel senso che sia cubo che poliedro regolare con sei facce quadrate - dice Putnam - hanno la stessa intensione e la stessa estensione in ogni mondo possibile, ma conservano una differenza di significato. Infatti fa parte del CN di un pronome una istruzione per identificare il referente (come abilità ad applicare in concreto una funzione di estensione) e tuttavia il contenuto non si esaurisce in essa. Faccio una serie di esempi, che tra l’altro mi pare portino acqua al mio mulino contrattuale. Poniamo che qualcuno dica mi spiace, stasera noi non possiamo venire. Se il contenuto di Noi si identificasse del tutto con una istruzione per identificare il referente, ci troveremmo di fronte a un bel problema, perché essa ci imporrebbe di individuare una comunità di autori del proferimento e invece possiamo identificare solo un singolo individuo. Però possediamo anche una regola pragmatica per cui qualcuno può parlare a nome del gruppo di cui è, diciamo, il portavoce. Ed ecco che andremo a cercare nel contesto dialogico se precedentemente era stato nominato un gruppo, troveremo che il parlante era stato invitato a cena con la propria famiglia, e sapremo che il pronome plurale si riferisce ai membri di quella famiglia.

Ma ci sono anche regole semantico-pragmatiche. Per esempio la regola del plurale majestatis. In tali casi sappiamo che un singolo ha il diritto costituzionale di usare la prima persona plurale in luogo della prima persona singolare del pronome personale. Anche a saper questo, intervengono ulteriori elementi di contrattazione. Se un monarca dice oggi noi ci sentiamo stanchi, sappiamo subito che sta usando il plurale majestatis in senso etichettale, che pertanto il Noi si riferisce a lui individualmente e che l’enunciato intende esprimere un suo stato interno. Se invece lo stesso monarca dice noi vi insigniamo del Toson d’Oro o noi dichiariamo oggi guerra alla Ruritania, egli sta esprimendo quella che, se sino a quel momento non era la volontà generale, lo diventa dal momento che l’enunciato viene espresso. Quindi in qualche modo quel Noi si riferisce (volenti o nolenti) anche ai sudditi che ascoltano. A seconda del contesto i destinatari fissano in modo diverso il riferimento del pronome. Adesso poniamo che uno scienziato scriva: noi non possiamo ragionevolmente ammettere che il buco nell’ozono abbia decisive influenze sul clima del pianeta. A chi si riferisce quel Noi? Non ai membri della sua famiglia, non ai sudditi che egli non ha. Però un vocabolario ideale dovrebbe provvedere circa il significato di Noi anche la selezione contestuale “si può intendere come plurale auctoritatis, grazie al quale un parlante singolo si presenta come interprete della comunità scientifica, della retta ragione o del senso comune”. A questo punto possiamo identificare il referente in vari modi: (i) c’è una prima lettura che definirei di “carità retorica”, per cui riconosciamo l’uso linguistico come puro vezzo stilistico, e riferiamo Noi allo scrivente (traduciamo Noi come Io, come se lo scrivente si fosse espresso in un’altra lingua); (ii) c’è una lettura “di fiducia”, e riferiamo il pronome alla comunità scientifica (quello che lo scrivente ci sta dicendo è oro colato); (iii) c’è una lettura “di persuasione”, per cui ci sentiamo coinvolti e riteniamo che di fatto noi, noi che leggiamo, siamo tenuti a essere i soggetti che la pensano in tal modo. C’è infine una lettura in termini di semiotica testuale (non a disposizione di qualsiasi destinatario), che ci porta a riflettere su ciò che lo scrivente - nell’usare il plurale auctoritatis - voleva far credere di sé: egli non solo ha fatto una affermazione esplicita su un fenomeno fisico ma si è presentato implicitamente come soggetto che ha il diritto di parlare anche a nostro nome, o a nome di una superiore autorità

conoscitiva. Ammetto che questa lettura non dovrebbe avere nulla a che fare col fenomeno del riferimento: ci stiamo sempre riferendo all’autore dello scritto, anche se lo vediamo ora in una luce psicologica diversa. Eppure non si può negare che una prevenzione nei confronti dello scrivente (egli vuole persuaderci arrogandosi una autorità alla quale non ha diritto) può determinare il modo in cui interpretiamo referenzialmente quel Noi. Possiamo decidere che non intendeva usare un vezzo stilistico per dire Io, egli voleva certamente che noi intendessimo che egli intendeva riferirsi alla comunità scientifica. Questa decisione inciderebbe sul giudizio aletico circa la proposizione che ha espresso. Posto che noi siamo convinti che il buco dell’ozono di fatto influirà sul clima del pianeta, e che ogni scienziato attendibile lo ha affermato, se costui voleva dire Io ha detto qualcosa di falso circa un fatto fisico; se intendeva dire Noi ha detto qualcosa di falso circa le opinioni già espresse dalla comunità scientifica - o addirittura ha inteso ingannarci due volte. Qualunque lettura si dia, non solo cambia il senso dell’enunciato ma anche il contenuto lessicale di quel Noi, il quale dunque non si riduce alla istruzione per identificare il referente. Senza una prima tentativa applicazione dell’istruzione non si sarebbe potuto decidere che occorreva interpretare il pronome come plurale auctoritatis; ma senza la conoscenza di quell’aspetto del contenuto non si sarebbe neppure potuto applicare l’istruzione, in nessuno dei sensi considerati sopra. D’altra parte si veda l’uso della seconda persona plurale di pronomi o aggettivi possessivi per rivolgersi a singoli (voi, vous, vostro, vôtre, votre) o della terza persona singolare come formula di cortesia (lei, Sie, usted). In tali casi occorre sapere che pronome o aggettivo hanno anche questi tra i loro sensi possibili, altrimenti fallisce il riferimento. C’è una storiella che racconta del signor Verdi che prega il suo dipendente Rossi di seguire discretamente un altro dipendente, Bianchi, che tutti i giorni alle quattro abbandona il lavoro e si assenta per due ore. Rossi investiga e poi fa il suo rapporto a Verdi: “Alle quattro Bianchi esce, passa a comperare una bottiglia di champagne e poi va a casa sua dove si intrattiene con sua moglie”. Verdi si domanda stupito perché Bianchi faccia nelle ore di lavoro qualcosa che potrebbe fare tranquillamente alla sera, Rossi insiste calcando con intenzione sulle due occorrenze di sua, come se lo pronunciasse con l’iniziale maiuscola, Verdi continua a non capire, e finalmente Rossi si decide: “Scusi, posso darle del tu?”.

Questa storiella è intraducibile, per esempio, in francese e in inglese. In lingue diverse il rapporto che lega apparentemente in modo immediato un possessivo con il proprio referente è mediato invece da complesse istruzioni a livello del suo contenuto lessicale, delle sue selezioni contestuali e circostanziali (che comprendono anche usi di cortesia, di deferenza ecc.). In effetti sua/o e her/his non sono sinonimi, come non lo sono vostro/a e your. Dire di due termini che sono o non sono sinonimi non significa dire che non hanno lo stesso referente ma che hanno significato (sia pure parzialmente) diverso.28 Chi non ama parlare di significato o contenuto potrà dire che si tratta di interpretare rettamente le credenze (o le intenzioni) del parlante e la situazione; e infatti chi capisce al volo la storiella del signor Rossi (ed è capace persino di anticiparne la fine), inferisce che siano in gioco due sceneggiature diverse, e che Verdi ne immagini una (innocente) mentre Rossi ne sta evocando un’altra, ben più preoccupante e maliziosa. Ma, proprio per poter arguire che l’uso dei possessivi mette in gioco due sceneggiature mutuamente esclusive, si devono conoscere i vari sensi che una lingua assegna a quei termini in contesti diversi.29 testo6

6. ICONISMO E IPOICONE

Può anche darsi che la Luna non esista, così come il resto dell’universo. Che sia una immagine proiettata nella nostra mente da una divinità berkeleyana. Ma, anche se così fosse, essa conterebbe qualcosa per noi, e per i cani che abbaiano la notte (il dio berkeleyano pensa anche a loro). Pertanto possediamo un tipo cognitivo della Luna, e deve essere molto complesso. Infatti la riconosciamo in cielo sia che appaia intera, sia che ne scorga solo una falce, sia che si mostri rossa o gialla come una polenta, e persino quando è offuscata da nubi e la indoviniamo dal suo chiarore diffuso; sappiamo di doverla cercare nel cielo in posizioni che variano nel corso del mese e della stessa notte; fa parte del nostro tipo cognitivo della Luna (e del corrispondente contenuto nucleare) anche l’informazione che essa stia in cielo, ed è questo che ci permette di capire che la Luna nel pozzo è solo una riflessione. Che sia anche sferica e che, pur vedendone solo una faccia, essa abbia anche un’altra parte che non vediamo e che non abbiamo mai visto, fa parte di un contenuto molare più elaborato, e storicamente variabile: per esempio, sia Epicuro che Lucrezio erano convinti che la Luna (come del resto il Sole) fosse grande esattamente (o quasi) come ci appare. Ma insomma, vorrei mettere in chiaro che io credo all’esistenza della Luna, almeno nella misura in cui credo all’esistenza di tutto il resto, il mio corpo compreso. Metto questo punto in chiaro perché una volta sono stato accusato di non crederci. È accaduto nel corso di quello che è stato definito come “il dibattito sull’iconismo”.

6.1. Il dibattito sull’iconismo “Nel loro ostinato idealismo, essi [i “semiolinguisti”] contestano tutto ciò che, in un modo o nell’altro, può costringerli ad ammettere che la realtà - in questo caso la luna - esiste.” Così nel 1974 Tomás Maldonado, parlando di quanto avevo scritto sui segni detti iconici, richiamandomi al dovere galileiano di guardare nel cannocchiale, e accendendo la fase finale del dibattito sull’iconismo svoltosi negli anni

Sessanta e Settanta.1 A questa accusa di idealismo - a quell’epoca assai temibile - rispondevo (Eco 1975b) con un saggio dal titolo “Chi ha paura del cannocchiale?”, altrettanto polemico. Saggio che non ho mai più ripubblicato perché mi stavo rendendo conto che il dibattito aveva assunto, in pubblico, toni accesi che non aveva affatto in privato. Quasi vent’anni dopo, Maldonado avrebbe ripubblicato il suo saggio, ma eliminando le pagine che mi riguardavano perché, affermava, alcune delle mie critiche alla sua critica “hanno contribuito - lo ammetto volentieri - a modificare in parte i presupposti della mia analisi” (1992: 59n). A questo esempio di onestà intellettuale vorrei ispirarmi ora, nel rivedere parte delle mie impostazioni di allora. Il dibattito nasceva nel momento sbagliato, perché, mentre Maldonado pubblicava il suo saggio, era già in stampa (ma lui non poteva averlo visto) il mio Trattato, con un capitolo sui modi di produzione segnica che gli avrebbe forse provato che si era d’accordo su molti più punti di quanto non sembrasse. In ogni caso è singolare che, dopo quell’esplosione polemica, la discussione generale si sia bloccata, come se fosse arrivata a un punto morto. Si è dovuto attendere, direi, un decennio: e poi è riesplosa a opera di altri che hanno ripreso a considerare l’intera faccenda.2 L’andamento del dibattito tra iconisti e iconoclasti3 sembra dunque legato a scadenze decennali: il sintomo non è da sottovalutare, nel senso che forse tutto va riconsiderato facendo entrare in scena ogni tanto lo Zeitgeist. Il Groupe µ osserva (1992: 125) che nello stesso 1968 appaiono due opere in cui si discutono le immagini, Languages of art di Nelson Goodman e la mia Struttura assente, e che questi due libri, scritti contemporaneamente da autori appartenenti a due diversissime aree culturali, contengono esempi e osservazioni molto simili. Come se, a confutazione di ogni idealismo, nel momento in cui persone lontane si mettevano a “guardare le figure”, avvertissero qualche reazione comune. Rileggendo la discussione del 1974-75 si vede chiaramente come vi si agitassero tre problemi: (i) la natura iconica della percezione, (ii) la natura fondamentalmente iconica della conoscenza in generale, e (iii) la natura dei segni cosiddetti iconici, in altri termini di quelli che Peirce chiamava (e che da ora in avanti chiameremo esclusivamente così) le ipoicone. Nella mia risposta a Maldonado sembra che io dia per scontato, senza discuterlo, il punto (i), non mi comprometta sul punto

(ii) e mi diffonda sul punto (iii). Io avevo il torto di separare i tre problemi, ma forse Maldonado aveva il torto di tenerli legati in modo troppo stretto. Dalla persuasione circa la natura motivata della percezione Maldonado faceva discendere (sulla base del primo Wittgenstein) una definizione della conoscenza in termini di Abbildungstheorie, e di conseguenza il valore conoscitivo dei segni ipoiconici; dalla persuasione circa la natura altamente convenzionale e culturale delle ipoicone io facevo sorgere dubbi circa la motivazione nei processi conoscitivi. A ripensarci sembrava una riedizione del Cratilo, ma a fumetti: è per legge o per natura che l’immagine di Topolino rimanda a un topo? Dei punti (i) e (ii) ho appena discusso in 2.8. Credo che sul punto (i) nessuno avesse dubbi in proposito neppure negli anni Settanta, sia che aderisse a una gnoseologia del riflesso speculare che a una gnoseologia costruttivista. Tuttavia bisogna ammettere che, per discutere il problema delle ipoicone, relegavo il problema dell’iconismo percettivo in una zona di scarsa pertinenza semiotica.4 D’altro canto molti filoiconisti (non solo Maldonado) hanno identificato l’iconismo della percezione con l’iconismo dei segni detti iconici, attribuendo al secondo la virtù del primo. Infine nell’ambito del dibattito, per una serie di ragioni che vedremo, si era stati portati a identificare sia le icone che le ipoicone con entità visive, vuoi immagini mentali vuoi quei segni che (per non usare un termine dai significati troppo vasti come “immagine”) chiameremo pitture. E questo ancora una volta ha in parte deviato la discussione, mentre doveva essere chiaro a tutti che sia il concetto di icona che quello di ipoicona riguardano anche esperienze non-visive.5

6.2. Non era una discussione tra dissennati Ora cerchiamo di considerare con calma la cosa. C’erano da un lato persone che ponevano in questione la vaghezza di un concetto come quello di “somiglianza” e che volevano dimostrare come le impressioni di somiglianza provocate dalle ipoicone fossero effetto di regole per la produzione di similarità (si veda Volli 1972). È possibile che queste persone negassero che gran parte della nostra vita quotidiana si regge su rapporti che, in mancanza di termini migliori, sono di somiglianza, che

è per ragioni di somiglianza che riconosciamo le persone, che è sulla base di somiglianza tra occorrenze che siamo in grado di usare termini generali, che la stessa costanza della percezione è assicurata dal riconoscimento di forme, che è per ragioni formali che distinguiamo un quadrato da un triangolo? E anche passando alle ipoicone, è possibile che queste persone negassero l’evidenza, e cioè che una fotografia di Penn o di Avedon rassomiglia alla persona ritratta più che non una figura di Giacometti, e che anche una persona di cultura non occidentale, condotta davanti ai Bronzi di Riace, dovrebbe riconoscere che si tratta di corpi umani?6 Evidentemente no, ed è quasi patetico vedere come, nella seconda fase della discussione (dico dagli anni Ottanta a oggi), molti illustri iconoclasti si siano affrettati a fare professioni di fede nella natura iconica della percezione - come imputati in un processo di marca staliniana o maccartista, obbligati anzitutto a ribadire la loro fedeltà al sistema - e si veda per esempio Gombrich 1982. D’altro canto, è possibile che esistessero persone così profondamente convinte della motivazione iconica della percezione che nel contempo negassero che nella produzione e nel riconoscimento delle ipoicone entrano in gioco convenzioni grafiche, regole proporzionali, tecniche di proiezione? Pare improbabile. Quello non era un dibattito tra dissennati.7

6.3. Le ragioni degli anni Sessanta Come ricorda anche Sonesson in molti dei suoi scritti, nell’ambito semiotico tutto era nato quando Barthes (1964), nel famoso saggio sulla pasta Panzani, aveva affermato che quello visivo era un linguaggio senza codice. Il che era un modo di suggerire che la semiotica prende le immagini così come sono e ci appaiono, e cerca caso mai le regole retoriche della loro concatenazione, o di definire i loro rapporti con l’informazione verbale che supplisce alla loro vaghezza e polivocità, contribuendo a fissarne il senso. Nello stesso numero di Communications 4 Metz dava l’avvio a quella che stava per diventare la semiotica del cinema. E anch’egli assumeva l’immagine cinematografica come una immagine senza codice, puro analogon, riservando lo studio semiotico (o come in

Communications si diceva, semiologico) alla grande sintagmatica del film. Questo avveniva in un momento in cui l’indagine semiotica si stava proponendo come clavis universalis capace di ricondurre a convenzioni culturali analizzabili ogni fenomeno di comunicazione; nel momento in cui si assumeva come programma il principio saussuriano che la semiotica deve studiare “la vita dei segni nel quadro della vita sociale”; nel momento in cui il semio-strutturalismo decideva di non applicarsi tanto allo studio di espressioni, linguistiche o no, da laboratorio, del tipo Giovanni mangia le mele o l’attuale re di Francia è calvo, ma a testi complessi (prima ancora che si parlasse di semiotica testuale). Questi testi erano prelevati in gran parte dal mondo delle comunicazioni di massa (annunci pubblicitari, fotografie, immagini o trasmissioni televisive), e anche quando non si trattava di comunicazioni di massa erano pur sempre testi narrativi, argomentazioni persuasive, strategie di enunciazione e punti di vista. La nuova disciplina non era tanto interessata alla buona formazione di un enunciato (studio che delegava alla linguistica) o al rapporto tra enunciato e fatto (che veniva purtroppo lasciato in ombra), ma alle strategie enunciative come modi di “far apparire vero” qualcosa. E quindi non interessava tanto che cosa accade quando qualcuno dice oggi piove e piove davvero (o meno), ma in che modo parlando si induce qualcuno a credere che oggi piova, e all’impatto sociale e culturale di quella disposizione a credere. Di conseguenza, di fronte a un annuncio pubblicitario che rappresentava un bicchiere di birra gelato, il problema non era tanto quello di spiegare se e perché l’immagine adeguasse l’oggetto (e però vedremo dopo che il problema non era eluso) ma quale universo di assunzioni culturali quell’immagine chiamasse in gioco e come volesse ribadirlo o modificarlo.8 Un invito a considerare il fenomeno dell’iconismo avrebbe dovuto venire dall’incontro con Peirce - e va detto che il massimo impulso a una rilettura di Peirce come semiotico è venuta proprio dall’interno del paradigma semio-strutturalista.9 Ma certamente di Peirce si è privilegiato più l’aspetto della semiosi illimitata, della crescita delle interpretazioni all’interno della Comunità culturale (aspetto certamente fondamentale e irrinunciabile), che non il momento più propriamente cognitivo dell’impatto con l’Oggetto Dinamico.

Queste sono state le ragioni della polemica contro l’iconismo detto ingenuo, basato su una nozione intuitiva di somiglianza. La polemica non era tanto nei confronti di Peirce quanto di chi aveva tranquillamente confusso l’iconismo (come momento percettivo) con le ipoicone. Se per icona si intendeva un “segno iconico” (e dunque per Peirce una ipoicona, di cui egli non ha mai negato la componente “simbolica” ovvero ampiamente convenzionale), dire che aveva le proprietà dell’oggetto rappresentato appariva come un modo di mettere i segni in un rapporto diretto (e ingenuo) con gli oggetti a cui si riferivano, perdendo di vista le mediazioni culturali a cui erano sottoposti (in poche parole, trattando come Firstness fenomeni di Thirdness). Credo (e rinvio a 2.8) di aver fatto ammenda di quelle semplificazioni di allora, ma bisogna anche capire i motivi per cui si reagiva come allora si era reagito. Il presupposto quasi indiscusso che le ipoicone rinviassero per nativa somiglianza al loro oggetto, senza la mediazione di un contenuto, era un modo per reintrodurre nelle semiotiche visive quel filo diretto tra segno e referente che, con brutalità forse chirurgica, era stato espunto dalle semiotiche del linguaggio verbale.10 Non si trattava di negare che esistessero segni in qualche modo motivati da qualcosa (e a questo sarebbe poi stata dedicata l’intera sezione del Trattato in cui si parla di ratio difficilis), ma di distinguere con cura tra motivazione, naturalità, analogia, non-codifica, codifica “molle”, indicibilità. Questo tentativo ha preso alcune strade, e alcune di esse erano dei vicoli chiusi, altre portavano da qualche parte.

6.4. Strade senza uscita Come esempio di vicolo assolutamente chiuso citerei il tentativo di esaminare non solo le ipoicone ma anche sistemi semiotici come l’architettura usando categorie linguistiche, ad esempio quelle di unità distintiva minimale, di doppia articolazione, di paradigma e sintagma, eccetera. Il tentativo non poteva portare troppo lontano, ma anche qui esistevano delle ragioni storiche. Si pensi al dibattito con Pasolini (1967a) quando egli sosteneva che il cinema è basato su un “linguaggio della realtà”, linguaggio nativo dell’azione umana, per cui i segni elementari del linguaggio cinematografico sarebbero gli oggetti reali

riprodotti sullo schermo. Benché poi Pasolini abbia ammorbidito il radicalismo di quelle sue prime affermazioni in un saggio che andrebbe rimeditato oggi in chiave peirceana (1967b), la reazione era dovuta al fatto che ai semiologi “duri” interessava invece - come si diceva allora demitizzare o demistificare ogni produzione di illusione realistica, e mostrare invece, del cinema, tutto quello che era artificio, montaggio, messa in scena.a Ed ecco perché si era arrivati a individuare a tutti i costi anche nel film delle entità “linguistiche” analizzabili, e citerò le mie pagine (1968: B4, 1.5-1.9) sulla triplice articolazione nel cinema, pagine purtroppo ancora tradotte e ripubblicate in varie antologie, ma che consiglio a tutti di non rileggere se non a scopo documentario. Come esempio di strada che portava certamente da qualche parte, ma non nella direzione intesa, citerei il tentativo di ridurre l’analogico al digitale, cioè di mostrare che anche quei segni ipoiconici che apparivano visivamente analoghi al loro oggetto erano in verità scomponibili in unità digitalizzate, e quindi traducibili in (e producibili mediante) algoritmi. Sono fiero di avere posto questo problema che, se negli anni Sessanta poteva apparire come un tecnicismo irrilevante, oggi, alla luce delle teorie computazionali dell’immagine, è della massima importanza. Ma all’epoca l’osservazione aveva invece solo valore retorico, perché suggeriva che si poteva ridurre l’aura di indicibilità che attorniava le ipoicone. Dal punto di vista semiotico non risolveva nulla, perché asserire la traducibilità digitale dell’immagine sul piano dell’espressione non elimina la questione di come a livello cognitivo si verifichi un effetto di somiglianza.

6.5. Somiglianza e similarità Più produttiva si è dimostrata invece l’altra strada. Siccome la nozione di somiglianza appariva vaga e in ogni caso circolare (è iconico ciò che assomiglia-a, ed è somigliante ciò che è iconico), andava dissolta in un reticolo di procedure per produrre similarità.12 Che cosa fossero delle regole di similarità ce lo dicevano le geometrie proiettive, la teoria peirceana dei grafi, lo stesso concetto elementare di proporzione. Questo non eliminava però il problema dell’iconismo percettivo, e di come un elemento di iconismo primario “somiglianza”, nel senso della Likeness peirceana, base stessa della

costanza percettiva - possa sopravvivere anche nella percezione delle ipoicone (basate su criteri di similarità). May e Stjernfelt (1996: 195), riprendendo Palmer (1978) propongono l’esempio in Figura 6.1: Figura 6.1 Si dia un mondo rappresentato solo dagli oggetti a-d (non è necessario stabilire se si tratti di un universo di oggetti reali o di un universo del contenuto, abitato da entità astratte). Si considerino A1, A2 e A3 come tre diverse rappresentazioni “iconiche” di questo mondo (per inciso, si tratterebbe a pieno titolo di tre interpretazioni del mondo come quelle discusse da me in 1.8). Ciascuna di queste tre rappresentazioni adotta un singolo criterio per stabilire la similarità: il criterio f (applicato in A1) pertinentizza solo i rapporti di altezza delle quattro figure del mondo, esprimendo la proprietà di essere “più alto di”, ed ecco la ragione per cui d viene rappresentato in d’ da una verticale, astraendo dalla indubbia proprietà di larghezza o orizzontalità che d esibisce in rapporto alle altre tre figure. Il criterio g (in A2) pertinentizza ancora rapporti di altezza, ma rappresentando la proprietà di essere “più corto di” (per cui nasce un visibile rapporto di simmetria inversa tra A1 e A2). Il criterio h (in A3) è più complesso: pertinentizza le ampiezze d’area, ma esprime la proprietà “più largo di” attraverso i meccanismi di mappaggio adottati in A2. In altri termini, quanto un oggetto è più largo, tanto più corta è la linea verticale che lo rappresenta. Le tre rappresentazioni sono certamente motivate dalla natura degli oggetti (la lunghezza delle linee non può essere scelta arbitrariamente) e quindi stabiliscono certamente un rapporto ipoiconico tra rappresentazione e rappresentato. Ma questo rapporto, che è definito come omomorfico e preserva nella rappresentazione alcune proprietà strutturali del rappresentato, non è isomorfico, in quanto la rappresentazione non ha la stessa forma del rappresentato. Ecco un buon esempio di similarità, motivata eppure istituita secondo regole. Una certa “somiglianza” tra ciascuna rappresentazione e il rappresentato viene preservata anche cambiando le regole di similarità. Per inciso, questo procedimento corrisponde a quello che nel Trattato ho definito procedimento per ratio difficilis (si proiettano sull’espressione punti di uno spazio virtuale del contenuto) e corrisponde a quello che nella posterità hjelmsleviana (e massimamente

nell’ambiente greimasiano) è stato chiamato il semisimbolico: dove si hanno sistemi significanti che sono caratterizzati non per la conformità tra il piano dell’espressione e quello del contenuto (come avviene nel disegno di una scacchiera a un dato momento del gioco, o per un ritratto) ma per correlazione di due categorie rilevanti di piani diversi (Greimas e Courtés 1979). Detto in termini più comprensibili, e rifacendosi a Jakobson (1970), i gesti motori per il sì e per il no non sono motivati da un oggetto (quale?) a cui “assomiglierebbero”, ma in ogni caso correlano secondo un rapporto non arbitrario una configurazione motorio-spaziale (il movimento del capo) con una coppia categoriale (affermazione e negazione) - e anche quando in alcune culture sembrano convenzionalmente diversi dai nostri, intrattengono tuttavia un rapporto di motivazione con il contenuto che esprimono. E tuttavia la comprensione di queste tre rappresentazioni si basa sulla percezione della diversa lunghezza delle linee (per non dire del diverso formato dei rettangoli): ora, questa proprietà di essere più lungo o più corto non è istituita dalla regola di similarità, ma ne è il presupposto basato sul naturale iconismo della percezione. Quando percepisco una palla come tale reagisco a una struttura circolare. Non mi sento di dire quanta iniziativa mia contribuisca a farmela percepire anche come sferica, e certamente è in base a un tipo cognitivo preformato che saprò anche che dovrebbe essere di gomma, resiliente, e quindi capace sia di rotolare che di rimbalzare a seconda di come la muova o la lanci. Per sapere che l’affermazione questa è una palla (che corona il giudizio percettivo) è vera, dovrei afferrarla e lanciarla (vale in proposito la massima pragmatica). Ma certamente quello che ha dato inizio al giudizio percettivo è il fenomeno dell’iconismo primario in base al quale ho colto subito una somiglianza con altri oggetti dello stesso genere di cui avevo già avuto esperienza (o di cui mi è stato trasmesso in modo molto preciso un tipo cognitivo). Ai nostri lontani antenati, che vedevano la Luna senza essere forniti di tipi cognitivi elaborati, la Luna non sarà subito apparsa come sferica, ma certamente (se era piena) come tonda. Questa iconicità primaria è un parametro che non può essere definito: è, per ripetere una domanda wittgensteiniana (1953 § 50), come se ci si chiedesse quanto è lungo il metro campione conservato a Parigi. È ovviamente lungo un metro esatto, dato che rappresenta il parametro in

base al quale stabiliamo le lunghezze secondo il sistema metrico decimale. Naturalmente per il metro campione si può sfuggire a questa autopredicazione facendo ricorso a un altro parametro, e cioè misurandolo in piedi e pollici. Ma non esiste la possibilità di passare a un altro sistema di misurazione qualitativa per le icone primarie ovvero esiste, ma non a livello percettivo, come quando interpretiamo i colori secondo lunghezze d’onda. A livello percettivo non si può predicare di una Likeness null’altro che non sia il riconoscimento che è quella Likeness. Si potrà sostenere poi che ci siamo sbagliati, si potrà modificare l’impatto percettivo di un colore accostandolo a un altro, ma in quel caso semplicemente avremmo scelto una Likeness in luogo di un’altra. Non si può pertanto usare questa esperienza nativa di somiglianza per giudicare delle similarità, e non si possono usare regole di similarità per definire la somiglianza iconica primaria.13 Ma occorre tornare alla disputa antica, e al perché si cercava di spostare totalmente la somiglianza sulla similarità. Ecco perché si erano privilegiate le tecniche iconografiche per cui (per ricorrere al classico esempio di Gombrich 1956) il rinoceronte di Dürer esibiva scaglie in forza di un tipo culturale, e si è ampiamente trascurato il fatto che esso ci appare anche oggi come un quasi-rinoceronte, e difficilmente lo scambieremmo con un coccodrillo.

6.6. Contorni Un esempio di enfasi iconoclastica è stata la polemica sui contorni. Cito sempre me stesso perché non è bene rimproverare ad altri degli errori o delle imprudenze, nel caso li abbiano compiuti in nostra compagnia. Nella Struttura assente sostenevo che non possiamo dire che le ipoicone abbiano le proprietà dell’oggetto rappresentato, perché se disegno su un foglio il profilo di un cavallo, l’unica proprietà che il cavallo disegnato esibisce (la linea nera continua del contorno) è l’unica proprietà che il cavallo vero non ha. Quindi non avrei riprodotto neppure le condizioni della percezione. Il problema dei contorni verrà ripreso da Hochberg (1972), Kennedy (1974) e Gombrich in fase di critica del suo convenzionalismo originario (1982). Se si era soliti sostenere che non ci sono linee in natura e che perciò i contorni sono un artificio dell’uomo, osservava

Gombrich, gli psicologi tendono ora a negare che la loro comprensione debba venire imparata al pari di qualsiasi altro codice. I contorni sono un “surrogato” percettivo e valgono come “indicatori di discontinuità”. Infatti “i contorni possono servire come anticipazione dell’effetto di parallasse del movimento, perché gli oggetti alla nostra portata si staccheranno sempre dal loro sfondo, ma manterranno una coerenza intrinseca per quanto leggermente muoviamo la testa” (1982: 233). Vale a dire che se, guardando un cavallo che sta sullo sfondo di un paesaggio, muovo la testa o mi sposto, vedo altri aspetti del paesaggio che prima non vedevo, mentre il cavallo resta sempre lo stesso: e quindi il contorno disegnato rende ragione di questo “confine” percettivo.14 Già nel Trattato (3.5.2), avvalendomi di alcune osservazioni fattemi da Kalkhofen 1972, riprendevo il tema dei contorni (questa volta di una mano). Ancora una volta si negava che la mano possedesse la proprietà di avere una linea nera di contorno ma si riconosceva che, se la mano viene posta su una superficie chiara, il contrasto tra i limiti del corpo che assorbe più luce e quello che la riflette può generare l’impressione di una linea continua. Stavo riprendendo l’idea di stimoli surrogati già avanzata, come vedremo, nella Struttura assente.15 Ma prima di passare agli stimoli surrogati vale la pena di riflettere ancora un poco che cosa significhi affermare che i contorni sono dati in natura. Si pensi alla versione “ecologica” della psicologia di Gibson per cui l’oggetto pare esibire dei tratti privilegiati che sono quelli che direttamente eccitano le nostre cellule nervose, per cui quello che cogliamo dell’oggetto è esattamente quanto l’oggetto preferenzialmente ci offre. A questo proposito, Gregory (1981: 376) osserva polemicamente che asserire che tutta l’informazione necessaria per percepire l’ambiente, senza l’intervento di alcun meccanismo interpretativo, ci perviene sotto forma di stimoli luminosi già obiettivamente organizzati, significherebbe tornare alle teorie della percezione precedenti le osservazioni di Alhazen e Alkindi sui raggi luminosi, ovvero alla nozione di “simulacri” provenienti dall’oggetto. Staremmo ancora aderendo a una idea medievale dell’intelletto come quella istanza che coglie dell’oggetto proprio quello che nell’oggetto conta di più, il suo scheletro essenziale, la sua quiddità. Tuttavia, se pure l’argomento di Gregory è seducente, non per questo è probante.

Infatti nulla vieta (in principio) di pensare che avevano ragione gli antichi e che ad essi Gibson giustamente ritorna. Credo ci sia una differenza tra dire che i contorni sono già offerti dal campo stimolante e dire che il campo stimolante offre l’oggetto in modo definitivo, impacchettato per determinarne la nostra percezione compiuta, che semplicemente riconosce e accetta quello che le è stato offerto attraverso i sensi. Questa differenza riguarda il momento che per Peirce era quello della icona primaria, o di ciò che chiamava il percetto, e il giudizio percettivo compiuto. Hubel e Wiesel (1959) e Hubel (1982) ci dicono che nel percepire uno stimolo le nostre cellule nervose rispondono a una orientazione ottimale che esiste già nello stimolo. Hubel e Wiesel, inseriti dei microelettrodi di tungsteno nel cervello di un gatto, hanno potuto appurare quali cellule reagissero a quale stimolo, e hanno provato che l’animale, di fronte a una macchia che si muoveva su uno schermo, reagiva più a una direzione del movimento che all’altra. Non solo, ma a un certo punto, mentre si inseriva un vetrino nell’oftalmoscopio, il gatto ha reagito con una sorta di subitanea esplosione cellulare: si è appurato che la reazione non aveva a che fare con le immagini sul vetrino ma con il fatto che il vetrino entrando aveva impresso sulla retina l’ombra del proprio bordo, e ciò era esattamente “quello che la cellula voleva”. Ora, questi dati ci dicono come si ricevono le sensazioni ma è dubbio se possano dirci come agisca la percezione. Essi ci dicono che i gatti (i quali non possono essere stati corrotti dall’idealismo iconoclastico) non ricevono un ammasso scoordinato di sensazioni, ma sono portati a focalizzare certi tratti del campo stimolante a scapito di altri. Questo è però dovuto al modo in cui è fatto l’oggetto o al modo in cui è fatto il gatto? Gli psicologi stanno molto attenti a trarre conclusioni da queste esperienze. Possiamo tranquillamente accettare che quando un gatto vede un tavolo sia più colpito dall’incidenza luminosa sui bordi che da altri aspetti della superficie, e che lo stesso avvenga per noi: ma di qui a dire che lo stesso processo si prolunga (in noi e nel gatto), e sempre per iniziativa dell’oggetto, sino al livello superiore della percezione, e poi della categorizzazione, ce ne vuole. Infatti Hubel sostiene, è vero, che le nostre cellule corticali rispondono poveramente alla luce diffusa per cui, quando guardo un uovo su un fondo scuro, le cellule interessate alla zona centrale dell’uovo non vengono sollecitate, mentre reagiscono quelle sollecitate

dai bordi dell’uovo; però subito dopo conclude: “come l’informazione da questo insieme di cellule sia coordinata (assembled) a stadi successivi nel percorso che porta alla costruzione di ciò che chiamiamo i percetti di linee o di curve (se mai accade qualcosa del genere) è ancora un totale mistero” (Hubel 1982: 519). Giustamente, da dati sulle modalità della sensazione non vengono tratte conclusioni a livello di una teoria della percezione, e lo sperimentatore non si azzarda ad affermare che pertanto la conoscenza sia pura adeguazione e non anche costruzione e “assemblaggio”. Johnson-Laird, riferendosi tra l’altro anche alle ricerche di Hubel e Wiesel, ricorda che “cercare di capire la visione studiando solo le cellule nervose, come ha rilevato Marr, è lo stesso che cercare di capire il volo degli uccelli studiando solo le penne” (1988: 72). Tutte queste ricerche non dicono nulla sulla differenza tra che cosa è calcolato, come il nostro sistema percettivo sviluppa tale computo, e come lo hardware cerebrale funzioni in questo processo computazionale. Indipendentemente dal meccanismo per cui la nostra retina riceve stimoli dall’ambiente, il problema di come il nostro meccanismo mentale elabori questi inputs rinvia a un nostro sistema di aspettative. “Indipendentemente da quanta informazione ci sia nella luce che colpisce la retina, deve esserci un meccanismo mentale per identificare le identità degli oggetti di una scena, e quelle tra le loro proprietà che la visione rende esplicite. Senza tale meccanismo le immagini retinali non sarebbero più utili di quelle prodotte da una camera televisiva e, contrariamente all’opinione ingenua, esse non vedono nulla. [...] Questi processi debbono basarsi su alcune nostre assunzioni circa il mondo” (ib.: 61). Inoltre sostenere che ci sono nel processo che va dalla sensazione alla percezione patterns privilegiati e invarianti ai quali il cervello (umano e animale) risponde in modo costante, e persino assumere in pieno una teoria ecologica della percezione (nella sua forma più brutale: vediamo quello che c’è, e basta), non ci dice ancora nulla sulle modalità ipoiconiche con le quali rappresentiamo artificialmente quegli stessi oggetti di percezione. Il vero nodo dell’equivoco sta ancora una volta nel passaggio immediato dall’iconismo primario della percezione (e cioè dall’evidenza che esistono percettivamente rapporti di somiglianza) a una teoria della similarità istituita, ovvero della creazione dell’effetto di

somiglianza. Chi abbia mai visitato una fabbrica di profumi si sarà trovato di fronte a una curiosa esperienza olfattiva. Tutti (a livello di esperienza percettiva) riconosciamo benissimo la differenza tra l’odore di una viola e quello della lavanda. Ma quando si vogliono produrre industrialmente essenze di viola o di lavanda (che debbono produrre la stessa sensazione, sia pure un poco enfatizzata, stimolata da questi vegetali) si mescolano sostanze tali che il visitatore della fabbrica è assalito da una raffica di afrori e maleodoranze insopportabili. Questo significa che per produrre l’impressione del profumo di viola o di lavanda occorre mescolare sostanze chimiche sgradevolissime all’olfatto (anche se il risultato sarà gradevole). Non so se la natura proceda così, ma quello che appare evidente è che un conto è ricevere la sensazione (iconismo fondamentale) di un profumo di viola, e un conto è produrre la stessa impressione. Questa seconda attività richiede la messa in opera di alcune tecniche, onde produrre stimoli surrogati. Si pensi per esempio alle due figure schematiche (in qualche prospettiva) di un cilindro e di un cubo.16 Un iconista ingenuo ci direbbe che esse rappresentano un cilindro e un cubo esattamente come sono; un sostenitore del valore conoscitivo dell’iconismo direbbe (e non possiamo che consentire) che in circostanze normali e a parità di eredità culturale esse consentirebbero a un soggetto di identificare un cilindro e un cubo e di distinguerli tra loro; i sostenitori della naturalità dei contorni (tra i quali ho deciso di arruolarmi) direbbero che le linee dei due disegni circoscrivono esattamente i contorni mediante i quali l’oggetto ci si presenta. La rappresentazione è però “buona” da un certo punto di vista, e tale è la funzione di ogni rappresentazione prospettica, qualunque sia la regola proiettiva seguita. La prospettiva è un fenomeno in cui entrano in gioco e l’oggetto e la posizione dell’osservatore, e tale posizione ha un ruolo anche nell’osservazione dell’oggetto tridimensionale. Pertanto l’ipoicona trascrive in qualche modo queste condizioni di osservazione. Ma ora si rifletta sul fatto che le linee rette che circoscrivono i contorni del cilindro non hanno la stessa funzione semiosica di quelle che circoscrivono le superfici del cubo. Le linee parallele che circoscrivono il contorno del cilindro sono stimoli surrogati che rappresentano il modo in cui, da qualsiasi parte lo guardassimo, vedremmo il cilindro stagliarsi sul proprio sfondo (il numero di queste linee, se facessimo ruotare il cilindro, sarebbe infinito, e Zenone ammetterebbe che non

cesseremmo mai di vedere infiniti contorni del cilindro). Le linee del cubo invece rappresentano non solo i contorni dell’oggetto visto da quel punto di vista, ma al tempo stesso gli spigoli del solido, che rimarrebbero tali, sia pure in diverso rapporto prospettico, da qualsiasi punto di vista guardassimo o rappresentassimo il cubo. Siamo in entrambi i casi in presenza di stimoli surrogati, ma nei due casi questi stimoli “surrogano” fenomeni diversi, che dipendono in parte dalla forma dell’oggetto e in parte dal modo in cui decidiamo di guardarlo.

6.7. Stimoli surrogati Non è vero che nell’enfasi iconoclastica si fossero considerati solo contorni di cavallo o rinoceronti fantasiosi, senza porre il problema della immediata impressione di somiglianza provata di fronte a una immagine realistica o iperrealistica. Nella Struttura assente (1968: 110 sgg.) esaminavo un annuncio pubblicitario in cui si vedeva un bicchiere di birra spumeggiante, che evocava un senso di grande frescura perché sul vetro si scorgeva una patina di vapore diaccio. Era evidente che nell’immagine non c’erano né vetro né birra né patina gelata: pertanto si suggeriva che l’immagine riproducesse alcune delle condizioni della percezione dell’oggetto: là dove percependo l’oggetto sarei stato colpito dall’incidenza di raggi luminosi su una superficie, nell’immagine c’erano contrasti cromatici che producevano lo stesso effetto, o un effetto soddisfacentemente equivalente. Dunque, anche se mi rendo conto che quello che vedo non è un bicchiere ma l’immagine di un bicchiere (ma ci sono casi di trompel’oeil dove non mi accorgo che l’immagine è un’immagine) le inferenze percettive che metto in gioco per percepire qualcosa (e certamente sulla base di tipi cognitivi precedenti) sono le stesse che metterei in gioco per percepire l’oggetto reale. Dal modo più o meno soddisfacente con cui questi stimoli surrogati surrogano gli stimoli effettivi, intenderò l’immagine come una buona approssimazione oppure come un miracolo di realismo. Ora questa idea degli stimoli surrogati è stata sostenuta a più riprese da vari psicologi. Per esempio Gibson (1971, 1978) ha parlato in questi casi di “percezione indiretta” o “percezione di seconda mano”. Hochberg (1972: 58) dice a varie riprese che la scena rappresentata da

un quadro è un surrogato perché agisce sull’occhio dell’osservatore in modo “simile” a quello in cui agisce la scena stessa; che un contorno è “uno stimolo che è in qualche modo equivalente ai tratti in base a cui il sistema visivo normalmente codifica le immagini degli oggetti nel campo visivo” (1972: 82); che quando un margine tra due superfici appare nel campo visivo è per lo più accompagnato da una differenza di luminosità, e quindi un contorno fornirebbe un indice di profondità in quanto ci fa percepire (in modo vicario) lo stesso margine dove si verifica la differenza luminosa (1972: 84). Gli studi di Marr e Nishishara (per es. 1978a: 6) sulla simulazione computerizzata dei processi percettivi ci dicono che una scena e un disegno della scena appaiono simili perché “i simboli dell’artista corrispondono in un certo modo ai simboli naturali computati a partire dall’immagine durante il corso normale della sua interpretazione”.17 Però è evidente la vaghezza di tutte queste definizioni (in cui compaiono sempre espressioni come “in un certo modo”). Più che spiegare come funzionino gli stimoli surrogati, esse prendono atto del fatto che ci sono e che funzionano. Abbiamo a che fare con stimoli surrogati in tutti quei casi in cui scattano gli stessi recettori che scatterebbero in presenza dello stimolo reale, così come accade agli uccelli che rispondono alla simulazione dei fischietti da richiamo o così come un rumorista radiofonico o cinematografico ci fornisce (usando strani strumenti) le stesse sensazioni acustiche che proveremmo udendo il galoppo di un cavallo o il ruggito di un’automobile da corsa. La sua meccanica degli stimoli surrogati rimane oscura, anche perché in queste “surrogazioni” si va da un massimo di alta fedeltà, come vedremo, a un semplice invito a comportarsi come se si ricevesse lo stimolo che non c’è. Il fatto che - anche se non sappiamo esattamente come funzionano ci siano stimoli surrogati, viene esemplificato splendidamente dalle pagine che Diderot scrive su Chardin (Salon de 1763): “L’artista ha posto su una tavola un vaso di vecchia porcellana di Cina, due biscotti, un boccale pieno di olive, una corbeille di frutta, due bicchieri pieni a metà di vino, una arancia amara e un pâté. Per guardare i quadri degli altri sembra che io abbia bisogno di farmi degli occhi; per vedere quelli di Chardin, non ho che da conservare gli occhi che la natura mi ha dato, e servirmene bene... È che questo vaso di porcellana è porcellana; che queste olive sono realmente separate dall’occhio dall’acqua nella quale

galleggiano; è che non c’è che da prendere quei biscotti e mangiarli; non c’è che da aprire questa arancia e spremerla, questo bicchiere di vino e berlo, questi frutti e sbucciarli, questo pâté e immergervi il coltello... O Chardin, non è del bianco, del rosso, del nero che tu stendi sulla tua tavolozza; è la sostanza stessa degli oggetti, sono l’aria e la luce che tu cogli con la punta del tuo pennello e poni sulla tela”. A prima vista l’elogio di Diderot esprime il giubilo di uno spettatore che, ritenendo che ci possa essere pittura assolutamente realistica, si trova davanti a un capolavoro del realismo, in cui non esiste alcuno scarto tra stimolo che possa provenire dall’oggetto reale e stimolo “surrogato”. Ma Diderot non è così ingenuo. Passato il primo effetto, ben sapendo che quello che vede non sono frutti e biscotti reali, sembra avvicinarsi al quadro, scoprendosi presbite: “Non si riesce a capire questa magia. Sono strati spessi di colore, applicati gli uni sugli altri, il cui effetto traspira dal profondo alla superficie. Altre volte si direbbe che è un vapore che è stato soffiato sulla tela; altre volte ancora, che vi sia stata sparsa una schiuma leggera... Avvicinatevi, tutto si confonde, si appiattisce e scompare. Allontanatevi di nuovo, tutto si ricrea e si riproduce”. Ecco il punto. Gli stimoli provocati dagli oggetti veri, con variazioni trascurabili dal punto di vista del riconoscimento percettivo, agiscono a distanze diverse. Gli stimoli surrogati, esaminati troppo da vicino, rivelano la loro natura illusoria, la loro sostanza dell’espressione che non è quella degli oggetti che suggeriscono, e per ottenere il loro effetto iconico richiedono una distanza calcolata. Che è poi il principio del trompe-l’oeil, epifania dello stimolo surrogato. La magia di Chardin è dovuta al fatto che gli stimoli che egli provvede allo spettatore non sono quelli che sarebbero provvisti dall’oggetto. Diderot confessa di non capire come il pittore riesca nel suo intento, ma deve ammettere che ci riesce. A modo proprio, mentre celebra i miracoli dell’iconismo, Diderot afferma la natura non naturale delle ipoicone. Vorrei elaborare una riflessione di Merleau-Ponty a proposito di un dado (1945: 2, III). Il dado è là, visibile sotto diversi profili. Può darsi che quelli accanto a me non lo vedano, e pertanto esso fa parte della mia storia personale. A mano a mano che lo guardo, esso perde la sua materialità, si riduce a struttura visiva, forma e colore, ombra e luci. Mi accorgo che non tutti gli aspetti del dado possono cadere nel mio campo percettivo, la cosa-in-sé non può essere vista che dal mio personale

punto di vista. Io non colgo la cosa ma la mia esperienza orientata della cosa, il mio modo di vivere la cosa (il resto, diremmo, è inferenza, ipotesi su come potrebbe essere la cosa se la vedessero anche gli altri). Io percepisco il dado con il mio corpo, compreso il punto di vista con cui lo guardo. Se il mio corpo (e il mio punto di vista) si spostassero, percepirei altro. A causa di una lunga esperienza percettiva io so tutto questo. Ma di fronte allo stimolo surrogato (la rappresentazione di un dado, spostando il mio punto di vista sul quale, non potrei percepire altro che stia eventualmente dietro il dado) io ho già accettato che qualcuno abbia visto per me. Pertanto una buona regola per distinguere tra stimoli naturali e stimoli surrogati mi sembra la seguente: se sposto il mio punto di vista vedo qualche cosa di nuovo? Se la risposta è negativa, lo stimolo è surrogato. Lo stimolo surrogato cerca di impormi la sensazione che avrei se mi ponessi dal punto di vista del Surrogatore. C’è davanti a me il profilo di una casa (e abbiamo visto che i contorni sono fondati in natura); se mi sposto, vedo l’albero dietro alla casa? Se non lo vedo, lo stimolo è surrogato. Solo usurpando il punto di vista di chi ha visto prima di me, posso definire se uno stimolo sia surrogato o no. Lo stimolo surrogato mi impedisce di vedere (o sentire) dal punto di vista della mia soggettività, intesa come la mia corporalità; delle cose mi dà un solo profilo, non la molteplicità dei profili che la percezione attuale mi offrirebbe. Per decidere se uno stimolo sia surrogato o meno basta spostare la testa.

6.8. Riprendiamo il discorso La rassegna delle ragioni storiche del dibattito sull’iconismo ha forse già suggerito alcune delle ragioni per cui ora esso può venire ripreso sine ira et studio. L’idea di una semiotica che doveva studiare il funzionamento dei segni nella vita culturale e sociale non richiede più un’energia polemica da padri apologisti: è un dato acquisito. Si sono sviluppati studi semiotici a livello sub-culturale (dalla zoosemiotica ai problemi della comunicazione cellulare a cui ho accennato in 2.8.2) dove concetti come quello di iconismo primario ritornano in scena senza poter essere disciolti in un brodo di stipulazioni culturali. C’è stata da parte di molti una graduale conversione dal paradigma semio-

strutturalista a quello peirceano (al massimo col tentativo di fondere gli aspetti più interessanti di entrambi). La fiducia in ciò che l’interpretazione pone e costruisce rispetto a qualsiasi dato ha condotto (certamente nel campo dei testi, con Derrida, ma anche nei confronti del mondo, almeno con l’ultimo Rorty) all’affermazione giubilatoria della deriva decostruttiva. Per chi riteneva che occorresse in qualche modo disciplinarla occorreva porsi il problema dei limiti dell’interpretazione. Ho usato proprio questa espressione per Eco 1990, a proposito dell’interpretazione testuale, ma già in tale sede il saggio su deriva e semiosi illimitata poneva il problema dei limiti dell’interpretazione del mondo; e, per quanto riguarda il mondo, l’ho fatto più decisamente in 1.8-11. Per cui ora si può riprendere anche il discorso delle ipoicone. Così facendo non credo di cedere alla tentazione di avere anch’io la mia Kehre. Credo solo, più modestamente, di stare portando in primo piano ciò che prima, senza negarlo, avevo lasciato sullo sfondo, ma in modo che entrambe le “figure” rimangano leggibili.

6.9. Vedere e disegnare Saturno La discussione con Maldonado era nata da una sua obiezione in favore dell’iconismo: che l’immagine della Luna che Galileo vedeva sul suo cannocchiale era una icona e come tale dotata di una nativa somiglianza con la Luna stessa. Io obiettavo che l’immagine sull’oculare del cannocchiale in ogni caso non era una icona - almeno nel senso di un segno iconico. Il segno iconico, o ipoicona della Luna, emergeva quando, dopo aver guardato nel cannocchiale, Galileo disegnava la Luna. E siccome Galileo sapeva già molto della Luna, per averla osservata come tutti a occhio nudo mi rifacevo a una situazione più “aurorale”, più inedita, quella di Galileo che per la prima volta col suo cannocchiale guardava Saturno e poi, come si può vedere per esempio sul Sidereus Nuncius, ne faceva dei disegni. Abbiamo in tal caso quattro elementi in gioco: (i) Saturno come cosa in sé, come Oggetto Dinamico (quand’anche non fosse un oggetto sarebbe un insieme di stimoli); (ii) gli stimoli luminosi che Galileo riceve quando pone l’occhio all’oculare (e lasciamo all’ottica di studiare che cosa succede nel tragitto tra raggi emanati dal pianeta,

oculare concavo, e obiettivo biconvesso); (iii) il tipo concettuale che Galileo ri-costruisce di Saturno, l’Oggetto Immediato (che in qualche modo sarà diverso da quello che ne aveva quando lo scorgeva faticosamente a occhio nudo); (iv) il disegno (ipoicona) che Galileo fa di Saturno. Apparentemente i quattro stadi si pongono in questa successione: Saturno in sé ? Saturno sulla lente ? Tipo cognitivo ? Disegno e così farei io oggi se volessi disegnare quello che vedo nel cannocchiale. Ma Galileo guardava per la prima volta. E guardando scorge qualcosa di mai visto. Ci sono varie lettere in cui Galileo comunica via via le proprie scoperte, e si vede la fatica che egli fa (mentre guarda) a vedere. Per esempio in tre lettere (a Benedetto Castelli, 1610, a Belisario Giunti, 1610, e a Giuliano de’ Medici, 1610) dice di aver visto non una stella sola, ma tre congiunte insieme in linea retta parallela all’equinoziale, e rappresenta quel che ha visto così (Figura 6.2): Figura 6.2 Ma in altre lettere (per esempio a Giuliano de’ Medici, 1610, e a Marco Velseri, 1612) ammette che per “imperfezione dello strumento o dell’occhio del riguardante”, Saturno potrebbe apparire anche così (“in forma di un’oliva”, Figura 6.3): Figura 6.3 Dove è chiaro che, siccome è certamente inatteso che un pianeta sia circondato da un anello (il che tra l’altro contrasta con ogni nozione che al tempo si avesse su di un corpo celeste), Galileo sta cercando di capire che cosa veda, ovvero sta faticosamente costruendosi un tipo cognitivo (nuovo) di Saturno. Guarda e riguarda (per esempio in una lettera a Federigo Borromeo del 1616), Galileo ha ormai deciso che non si tratta più di due piccoli corpi rotondi, ma di corpi maggiori “et di figura non più rotonda, ma come vede nella figura appresso, cioè due mezze ellissi con due triangoletti oscurissimi nel mezzo di dette figure, et contigui al globo di mezzo di Saturno”. Per il che Galileo perviene a questa terza rappresentazione (Figura 6.4):

Figura 6.4 A guardare il disegno noi riconosciamo Saturno e i suoi anelli, ma semplicemente perché ne abbiamo già visto altre rappresentazioni elaborate, di cui questo schizzo anticipa pochi tratti pertinenti (un globo e una ellisse che lo contorna - e sta a noi vedere una prospettiva in uno schizzo che fa pochissimo per suggerirla). Si noti che questa prospettiva Galileo non la vedeva, altrimenti non avrebbe parlato di due mezze ellissi ma di una fascia ellittica.18 Galileo vedeva ancora una specie di Mickey Mouse, un volto con due grandi padiglioni auricolari. Ma non si può negare che questo terzo disegno sia più simile alle immagini successive, anche fotografiche, di Saturno nel momento della sua massima inclinazione; in ogni caso corrisponde sul piano morfologico al tipo cognitivo che una persona di media cultura possiede in proposito. Si noti che (per la coincidenza affermata tra tipo cognitivo e contenuto nucleare o Oggetto Immediato) una persona senza particolari talenti grafici, richiesta di rappresentare Saturno, farebbe oggi un disegno abbastanza simile a quello di Galileo, probabilmente completando le due ellissi nella parte inferiore in modo che l’anello paia passare davanti al globo. Di fronte agli sforzi galileiani si è indotti a pensare che non è che la costruzione del tipo cognitivo preceda il disegno; caso mai la segue: Saturno in sé ? Saturno sulla lente ? Disegno ? Tipo cognitivo È solo cercando di fissare sulla carta i tratti essenziali di ciò che sta ricevendo (in questo stadio, grumi di primità, sequenza scoordinata di stimoli) che Galileo perviene a poco a poco a “vedere”, a percepire Saturno e a costruirsene un primo e ipotetico tipo cognitivo. Che è poi ciò che cercavo di dire nel Trattato a proposito delle invenzioni radicali.19 Con tutto ciò non si è ancora detto che cosa sia il secondo elemento della catena, Saturno sulla lente. Dal punto di vista semiotico parrebbe un fenomeno trascurabile: il cannocchiale costituisce un canale attraverso cui arrivavano a Galileo una serie di stimoli, come li avrebbe ricevuti se, a bordo di una navicella spaziale, si fosse avvicinato sufficientemente a Saturno.

Ma è proprio questo “come se” che richiede di aggiungere qualche riflessione (e come si vedrà mai metafora è stata tanto letterale). E non tanto per capire meglio la percezione quanto per riproporre ancora una volta il fenomeno delle ipoicone.

6.10. Protesi Abitualmente chiamiamo protesi un apparecchio che sostituisce un organo mancante (per esempio una dentiera), ma in senso lato è protesi ogni apparecchio che estende il raggio di azione di un organo. Se si domanda a qualcuno dove vorrebbe avere, se potesse, un terzo occhio, di solito si ricevono risposte poco economiche: qualcuno lo vorrebbe sulla nuca, altri sulla schiena, non calcolando che anche in tal caso si potrebbe certo vedere alle nostre spalle, ma non in altri infiniti posti dove sovente desidereremmo poter guardare, sul sommo del capo, dentro le orecchie, oltre una porta, in un buco dove ci è caduta la chiave. La risposta corretta, nel senso che è la più ragionevole, sarebbe: sulla punta del dito indice. È ovvio che in tal modo potremmo estendere il raggio della nostra visione al massimo, nei limiti del nostro raggio d’azione corporale.20 Ecco, se avessimo un occhio artificiale manovrabile come il nostro dito indice, avremmo una eccellente protesi estensiva, con funzione anche intrusiva (nel senso che non andrebbe solo a vedere là dove l’occhio potrebbe guardare se volgessimo la testa o se ci spostassimo, ma anche là dove l’occhio non può penetrare). Quindi, le protesi sostitutive fanno ciò che il corpo faceva ma non fa più per accidente, e tali sono un arto artificiale, un bastone, gli occhiali, un pace-maker o un cornetto acustico. Invece le protesi estensive prolungano l’azione naturale del corpo: tali sono i megafoni, i trampoli, le lenti di ingrandimento, ma anche certi oggetti che non consideriamo abitualmente estensioni del nostro corpo, come le bacchette cinesi o le pinze (che estendono l’azione delle nostre dita), le scarpe (che potenziano azione e resistenza del piede), gli abiti in genere (che potenziano l’azione protettiva della pelle e dei peli), scodelle e cucchiai che sostituiscono e migliorano l’azione della mano che cerca di raccogliere e portare alla bocca un liquido. Si potrebbe considerare protesi estensiva anche la leva, che in linea di principio fa meglio quello che fa il braccio; ma lo fa a tal punto, e

con tali risultati, che probabilmente inaugura una terza categoria, quella delle protesi magnificative. Esse fanno qualcosa che con il nostro corpo abbiamo forse sognato di fare, ma senza mai riuscirci: come il telescopio, il microscopio, ma anche i vasi e le bottiglie, le ceste e le sacche, il fuso, e certamente la slitta e la ruota. Sia le protesi estensive che quelle magnificative, possono specificarsi anche come intrusive. Tra le estensivo-intrusive citeremo il periscopio o certi strumenti medici che permettono di esplorare cavità immediatamente accessibili come l’orecchio o la gola, tra le magnificativo-intrusive i dispositivi ecografici, i sistemi di rilevamento di raggi gamma in medicina nucleare, o certe sonde che esplorano l’intero meandro intestinale proiettando su uno schermo quanto “vedono”.21 Questo tentativo di classificazione mi serviva solo per parlare di quel tipo speciale e originario di protesi che è lo specchio.

6.11. Ancora sugli specchi Che cosa è uno specchio, nel senso corrente del termine? È una superficie regolare piana o curva capace di riflettere la radiazione luminosa incidente. Uno specchio piano fornisce una immagine virtuale, diritta, ribaltata (o simmetrica), speculare (di uguale grandezza dell’oggetto riflesso), priva di cosiddette aberrazioni cromatiche. Uno specchio convesso fornisce immagini virtuali, diritte, ribaltate e rimpicciolite. Uno specchio concavo è una superficie tale che (a) quando l’oggetto sta tra il fuoco e lo spettatore, fornisce immagini virtuali, diritte, ribaltate, ingrandite; (b) quando l’oggetto varia di posizione, dall’infinito alla coincidenza col punto focale, fornisce immagini reali, capovolte, ingrandite o rimpicciolite a seconda dei casi, in punti diversi dello spazio, che possono essere osservate dall’occhio umano e raccolte da uno schermo. Specchi paraboloidi, elissoidici, sferici o cilindrici, non sono di uso comune, e riguardano caso mai usi di specchi deformanti e di teatri catottrici.23 In Eco (1985) trovavo curiosa, e quasi davvero “idealistica”, l’idea assodata negli studi di ottica, che l’immagine speculare sarebbe ribaltata, ovvero a “simmetria inversa”. L’opinione ingenua che lo specchio ponga la destra al posto della sinistra e viceversa è così

radicata che qualcuno si è stupito che gli specchi scambino la destra con la sinistra ma non l’alto con il basso. Ora si ragioni un momento: se davanti allo specchio ho l’impressione che scambi la destra con la sinistra, perché nell’immagine sembra che io porti l’orologio alla destra, per la stessa ragione se guardo uno specchio sul soffitto dovrei pensare che scambia l’alto con il basso, perché in basso vedo la mia testa e in alto i miei piedi. Ma il punto è che neppure gli specchi verticali ribaltano o invertono. Se schematizziamo il fenomeno speculare ci accorgiamo che in esso non avvengono fenomeni tipo camera oscura (Figura 6.5): nella riflessione speculare non si incrocia nessun raggio (Fig. 6.6). Figura 6.5 e 6.6 Lo specchio riflette la nostra destra esattamente dov’è la destra e così fa con la sinistra. Siamo noi che ci immedesimiamo con colui che vediamo dentro lo specchio, o che pensiamo sia un altro che ci sta di fronte, e ci stupiamo che porti l’orologio al polso destro (o impugni una spada con la sinistra). Ma noi non siamo quella persona virtuale che sta dentro lo specchio. Basta non “entrare” nello specchio e non si soffre di questa illusione. Tanto è vero che tutti riusciamo, alla mattina in bagno, a usare lo specchio per pettinarci senza comportarci come degli spastici. Sappiamo come usare lo specchio e sappiamo che la ciocca di capelli sul nostro orecchio destro sta alla nostra destra (anche se per la persona nello specchio, se ci fosse, starebbe a sinistra). Sul piano percettivo e motorio interpretiamo correttamente l’immagine speculare per quel che è, ma sul piano della riflessione concettuale non riusciamo ancora del tutto a separare il fenomeno fisico dalle illusioni che esso incoraggia, in una sorta di divario tra percezione e giudizio. Usiamo l’immagine speculare in modo giusto ma ne parliamo in modo sbagliato (mentre per il rapporto terra-Sole parliamo in modo astronomicamente giusto anche se lo percepiamo in modo sbagliato, come se il Sole si muovesse). Questo è certamente un punto assai curioso: che gli specchi invertano la sinistra con la destra è opinione antichissima, da Lucrezio a Kant, e viene sostenuto ancora oggi.24 Se così fosse dovremmo riflettere sul fatto che, quando qualcuno sta dietro di me, la sua destra è alla mia destra e la sua sinistra alla mia sinistra; ma se si gira e si mette di fronte a me, la sua destra sta dove io ho la sinistra e viceversa (e porta l’orologio dalla parte opposta alla mia). Per cui si dovrebbe concludere

che sono le persone che si ribaltano, non le immagini speculari, e questa ancestrale abitudine a veder le persone ribaltarsi è quella che ci invita a vedere come ribaltate le immagini speculari (se le consideriamo come una persona). Questo per dire che gli specchi ci fanno perdere la testa. Ma se la teniamo sulle spalle, dobbiamo concluderne che nello specchio non si dà ribaltamento, bensì assoluta congruenza, come quando premo la carta assorbente su un foglio. Che poi io non riesca a leggere ciò che è rimasto impresso sulla carta assorbente, tutto ciò ha a che fare con le mie abitudini di lettura, non con la specularità (Leonardo che aveva altre abitudini di scrittura e di lettura non avrebbe avuto questo problema). Però potrei leggere ciò che è rimasto impresso sulla carta assorbente usando uno specchio, e cioè ricorrendo all’immagine speculare di un’immagine speculare. Lo stesso mi accade se sto davanti allo specchio tenendo in mano la copertina di un libro; nello specchio non riesco a leggere il titolo; però se ho due specchi ad angolo, come accade sovente in bagno, posso vedere riflessa in uno dei due specchi (più facilmente nell’uno che nell’altro, a seconda dell’angolatura) una terza immagine in cui le lettere della copertina appaiono come quando guardo direttamente il libro (e tra l’altro lì mi vedo davvero con l’orologio al polso sinistro). Questa terza immagine, essa sì è una immagine ribaltata dell’immagine speculare (che di per sé non ribaltava nulla). Noi usiamo bene gli specchi perché abbiamo introiettato regole di interazione catottrica. Li usiamo bene quando sappiamo che abbiamo di fronte uno specchio. Quando non lo sappiamo, possono darsi malintesi o inganni. Ma, quando lo sappiamo, noi partiamo sempre dal principio che lo specchio dica la verità. Esso non “traduce”, non interpreta, registra ciò che lo colpisce così come lo colpisce. Così ci si fida degli specchi così come ci si fida, in condizioni normali, dei propri organi percettivi. Ci fidiamo degli specchi come ci fidiamo degli occhiali e dei cannocchiali, perché come occhiali e cannocchiali gli specchi sono protesi. Gli specchi sono certamente protesi estensive e intrusive per eccellenza, nel senso che per esempio ci permettono di guardarci là dove l’occhio non può arrivare: ci permettono di guardare il nostro volto, e i nostri stessi occhi, ci permettono di vedere cosa accade dietro alle nostre spalle. Partendo da questo principio, si possono poi ottenere

con gli specchi effetti intrusivi assai sofisticati: si pensi appunto agli specchi angolati da toeletta che ci permettono di vederci di profilo, o agli specchi da barbiere en abîme. Alcuni specchi sono anche protesi magnificative, perché riproducono il nostro volto ingrandito, altri sono protesi deformanti; con complessi teatri di specchi si possono creare illusioni, sino ad arrivare al conturbante teatro catottrico di La signora di Shanghai di Orson Welles. Con serie di specchi disposti ad angoli acconci si può estendere il nostro potere d’intrusività (posso costruire sistemi di specchi che mi permettono di veder quello che accade nella stanza accanto anche se il mio occhio non guarda la porta), si possono usare gli specchi come canali per trasportare ovvero proiettare stimoli luminosi (si pensi a vari possibili sistemi di segnaletica di cui la gibigianna è l’antenato)... Ma di tutto questo si è detto in Eco 1985. Qui c’interessano per il momento solo gli specchi semplici, quelli di tutti i giorni, e di questi intendo parlare come fenomeno pre-semiosico. Certo che se “interpreto” la mia immagine nello specchio e ne traggo conclusioni sul mio invecchiamento (o sulla mia immarcescibile venustà) sono già a una fase più complessa di semiosi. E così si può dire nel caso di quello “stadio dello specchio” in cui Lacan vedeva il momento d’instaurazione del simbolico. Ma che il bambino debba imparare a usare lo specchio non significa (come è parso a qualcuno) che lo specchio non sia un’esperienza primaria, il bambino deve imparare tutto, anche a usare gli occhi e le mani, diamogli tempo. Salvo che la magia degli specchi è tale che riesce difficile a molti accettare l’esperienza banalissima che mi ostino a proporre: io intendo parlare dell’immagine speculare come la si usa tutti i giorni in bagno, io che mi guardo nello specchio per aggiustarmi la cravatta, e in questa fase non c’è più assunzione giubilatoria e non c’è ancora interpretazione, se non quella percettiva che si instaurerebbe anche quando guardassi qualcuno di fronte a me. Lo specchio normale è una protesi che non inganna. Tutte le altre protesi, in quanto frappongono qualcosa tra l’organo di cui estendono o magnificano i poteri e ciò che “toccano”, possono indurci a inganni percettivi: camminando con le scarpe si valutano male le proprietà del terreno, gli abiti ci informano male sulla temperatura esterna, con le pinze si può credere di avere afferrato qualcosa che invece ci sfugge. Invece con lo specchio siamo sicuri che esso ci mostra le cose come

stanno, anche quando ci guardiamo allo specchio e non vorremmo essere come ci vediamo. Naturalmente si escludono i casi di specchi appannati, di inganno dovuto a errore nostro (come quando crediamo di vedere qualcuno che ci viene incontro, e invece è la nostra immagine riflessa), di equivoco per cui crediamo specchio una cornice vuota dietro la quale sta un altro che imita i nostri movimenti (come accade in un film dei Marx Brothers). Ma in circostanze normali noi usiamo gli specchi con la sicurezza che essi non mentano. Lo facciamo perché abbiamo imparato che la protesi speculare fornisce all’occhio gli stessi stimoli che esso riceverebbe se fosse di fronte a noi (magari sulla punta del dito indice che tendiamo verso il nostro volto). In questo senso siamo sicuri che lo specchio ci fornisce il doppio assoluto del campo stimolante. Se un segno iconico (nel senso di ipoicona) fosse davvero una immagine che ha tutte le proprietà (almeno visive) dell’oggetto rappresentato, l’immagine speculare sarebbe segno iconico per eccellenza, ovvero sarebbe la sola icona esterna alla nostra mente di cui abbiamo veramente esperienza. Ma questa icona allo stato puro non sta che per se stessa. Tuttavia non è neppure una Firstness nel senso peirceano, perché mentre vediamo siamo coscienti di essere di fronte a un fatto: caso mai è una Firstness già legata a una Secondness, in quanto pone in rapporto necessario e diretto lo specchiante con lo specchiato. Però non è ancora un segno. Questo naturalmente se assumiamo che per definire un segno come tale ci si deve attenere ai seguenti criteri: (i) Il segno è qualcosa che sta per qualcosa d’altro in sua assenza. Invece l’immagine speculare sta in presenza dell’oggetto che riflette. (ii) Il segno è materialmente distinto dalla cosa di cui è segno, altrimenti si potrebbe dire che io sono segno di me stesso. Invece l’immagine speculare è, lo si è visto, un doppio assoluto degli stessi stimoli che il nostro occhio riceverebbe se fosse di fronte all’oggetto. (iii) Nel segno il piano dell’espressione si distingue per sostanza e forma, e la stessa forma potrebbe essere trasposta in altra sostanza. Invece con lo specchio trasferisco al massimo (ribaltandola) la stessa sostanza luminosa su una superficie speculare contrapposta. (iv) Perché ci sia segno occorre che sia costituibile un’occorrenza segnica in rapporto a un tipo. Invece nell’immagine speculare coesistono tipo e occorrenza.

(v) Il segno può essere usato per mentire o per affermare (erroneamente anche se in buona fede) ciò che non è il caso. Invece l’immagine speculare non mente mai. Il segno può essere usato per mentire perché posso produrre il segno anche se l’oggetto non esiste (posso nominare chimere e raffigurare unicorni), mentre l’immagine speculare si produce solo di fronte all’oggetto. L’immagine speculare non ha valore indicale. Non è indice del fatto che siamo davanti allo specchio, perché non ne avremmo bisogno (caso mai potrebbe essere sintomo l’assenza dell’immagine dello specchiante, ma solo per l’uomo invisibile o per i vampiri); non è indice del fatto che abbiamo, per esempio, una macchia sul naso: in quanto lo specchio è protesi, noi vediamo la macchia come la vedremmo se l’avessimo per esempio sulla mano. L’immagine speculare non è neppure una impronta (se non nel senso in cui la sensazione è per metafora “impronta” del sentito): le impronte sono tali, e ci dicono qualcosa, quando sussistono come tracce materiali in assenza dell’impressore, e solo allora diventano fenomeno semiosico. Per il mio inseguitore la traccia che i miei piedi lasciano sul terreno è impronta, ma non per me, che non mi occupo del fatto che i miei piedi, a mano a mano che si posano a terra, imprimano qualcosa a meno che (supponendo di essere ubriaco) non mi volga indietro per controllare attraverso le mie impronte se ho camminato in linea retta. Se avessi degli occhi sulla pianta dei piedi vedrei le mie impronte via via che le imprimo, e potrei interpretarle per trarne inferenze sulla forma dei miei piedi. Ma con lo specchio non accade neppure questo: basta che esponga la pianta del piede verso la superficie riflettente, e la vedo come è, senza bisogno di inferire nulla. Sonesson (1989: 63, rifacendosi a Maldonado 1974: 228 sgg.) ha suggerito che l’immagine speculare possa essere una “hard icon”, come lo sono le impressioni di una lastra a raggi X, il segno lasciato da una mano sulla parete di una caverna preistorica. Ma queste sono appunto impronte (cfr. Trattato 3.6.2), in cui la sostanza dell’espressione (pietra, sabbia, pellicola) non ha nulla a che fare con la materia di cui è costituito l’oggetto, e in cui si risale da pochi tratti (profili, in genere) a una ricostruzione inferenziale del possibile oggetto impressore. Inoltre naturalmente queste impronte sussistono anche dopo che l’oggetto le ha impresse, e pertanto possono essere anche falsificate, ciò che non accade con l’immagine speculare.

Infine l’impronta è segno in quanto è fondamentalmente un’espressione che rinvia a un contenuto, e il contenuto è sempre generale. Quando Robinson vede l’impronta sulla sabbia non dice di qui è passato Venerdì, bensì di qui è passata una creatura umana. Anche un cacciatore che insegua quel dato cervo, o un pedinatore che segua a poca distanza le orme lasciate sul terreno dal signor X, inizialmente vedono le impronte di un cervo e di una persona (ovvero di una scarpa), e solo per inferenza si convincono che si tratta di quel cervo o di quella persona X.25 Naturalmente si potrebbe obiettare che gli oggetti vengono usati come segni ostensivi (mostro un cane mastino o un telefono per dire che i cani mastini o i telefoni sono cose fatte così o così, cfr. Trattato 3.6.3). Nei processi di ostensione si sceglie un oggetto come esempio che rinvia a tutti gli oggetti della sua categoria, ma si usa un oggetto come segno ostensivo proprio perché è anzitutto un oggetto. Io posso guardarmi nello specchio per dire a me stesso che gli esseri umani sono in genere come me, ma allo stesso titolo potrei guardare il mio telefono sul tavolo per dirmi che tutti i telefoni sono in generale così. E quindi l’immagine speculare è ancora una volta una protesi che permette a me o ad altri di vedere un oggetto che può essere eletto a segno ostensivo.26 Quindi l’immagine che vediamo nello specchio non è un segno come non lo è l’immagine ingrandita che ci viene mostrata dal cannocchiale, o quella mostrataci dal periscopio.27 Caso mai è dalla fascinazione che l’umanità ha provato, dal tempo di Narciso, nei confronti degli specchi, che nasce il sogno di un segno che abbia le stesse proprietà dell’immagine speculare. L’esperienza speculare può spiegare la nascita di una nozione come quella (semiotica) di segno iconico (come ipoicona), ma non ne viene spiegata. Ma allora, se ci mettiamo su questa strada, è dal fascino immemoriale degli specchi che nasce l’idea di una conoscenza che sia adeguazione completa (appunto “speculare”) tra cosa e intelletto. Da essa nasce l’idea degli indici: essa dice “questo” e “qui” e punta a me che mi guardo nel momento in cui mi guardo. Da essa nasce l’idea di un segno che, privo di significato, rinvii direttamente al suo referente: l’immagine speculare è veramente l’esempio di un “nome proprio assoluto”, la sua è davvero la più rigida tra le designazioni rigide,

resiste a ogni controfattuale, non posso sospettare che, anche se avesse perso ogni sua proprietà, quello che vedo nello specchio non sarebbe più quello che vedo nello specchio. Ma queste sono metafore - che dette dai poeti possono diventare sublimi. Il carattere proprio dell’immagine speculare è che è soltanto l’immagine speculare, è un primum, e almeno nel nostro universo non esiste nulla a cui possa essere assimilata.28

6.12. Catene di specchi e televisione Supponiamo ora che lungo una distanza di alcuni chilometri, da un punto A dove esiste un oggetto o si svolge un evento, a un punto B dove esiste l’osservatore, si ponga una serie continua di specchi opportunamente angolati in modo che per un gioco di riflessioni a catena l’osservatore in B veda, in tempo reale (come si suol dire) quello che c’è o si svolge in A. L’unico problema è se vogliamo che l’osservatore riceva una immagine speculare, o l’immagine che vedrebbe se fosse in A a osservare l’evento. Nel primo caso il numero di specchi deve essere dispari, nel secondo pari. Siccome presumiamo che l’osservatore voglia vedere ciò che c’è in A come se ne fosse testimone diretto, si usino specchi in numero pari. In tal caso il risultato finale non sarà quello che produce uno specchio semplice ma quello che abbiamo con l’immagine prodotta da specchi angolati. Se l’osservatore sapesse che quanto vede gli è trasmesso da una catena di specchi angolati, in numero pari, sarebbe convinto di vedere che cosa effettivamente accade in A - e avrebbe ragione. Ora immaginiamo che l’osservatore sappia che i segnali luminosi che lo specchio riflette possono essere in qualche modo “smaterializzati” (ovvero tradotti o trascritti in impulsi di qualche altra natura) e poi ricomposti a destinazione. Lo spettatore si comporterebbe di fronte all’immagine finale come se fosse una immagine speculare - anche accettando che nel processo di codifica e decodifica si perda qualcosa nella definizione dell’immagine (si comporterà con l’immagine ricevuta come si comporta davanti a uno specchio un poco appannato, o quando vede qualcosa in una stanza in penombra, integrando gli stimoli con quello che già sa o con qualche inferenza).

Questo è ciò che accade con l’immagine televisiva. La televisione ci appare come uno specchio elettronico che ci mostra a distanza quello che avviene in un punto che il nostro occhio non potrebbe altrimenti raggiungere. Come il telescopio o il microscopio, essa è l’esempio eccellente di una protesi magnificativa (oltretutto ampiamente intrusiva quando necessario). Naturalmente bisogna pensare a una televisione allo stato puro, rappresentata da un apparato a circuito chiuso, con telecamera immobile che riprende tutto quello che avviene in un dato luogo. Altrimenti la televisione, come il cinema e lo stesso teatro, è qualcosa che mostra una messa in scena precedente (Bettetini 1975), e in cui intervengono artifici d’illuminazione, giochi di campi e controcampi, montaggio, effetti Kulešov, eccetera, e con ciò entreremmo nell’universo della significazione o della comunicazione. Ma se consideriamo una televisione allo stato puro, siamo di fronte a una protesi, per quanto “appannante”, non a un fenomeno di significazione. Determinati stimoli percettivi, per quanto indeboliti, opportunamente tradotti in segnali elettronici, pervengono (decodificati da una macchina) agli organi percettivi del destinatario. Tutto quello che il destinatario potrà fare di quegli stimoli (rifiutarli, interpretarli, o che altro) è lo stesso di quanto accadrebbe se il destinatario vedesse direttamente quello che accade. Per porre in modo più deciso questa equivalenza tra tv e specchio, immaginiamo che la telecamera a circuito chiuso sia nell’ambiente in cui viviamo, e che trasmetta quanto riprende su di un video posto nello stesso ambiente. Avremmo delle esperienze di tipo speculare, nel senso che potremmo vederci di fronte o di spalle (come accade con specchi contrapposti), e vedremmo sullo schermo quello che stiamo facendo in quel momento. Quale sarebbe la differenza? Che non avremmo l’esperienza che ci consente uno specchio semplice ma vedremmo una terza immagine prodotta da due specchi angolati e quindi dovremmo fare attenzione quando usiamo l’immagine sullo schermo per pettinarci, raderci, truccarci. È una situazione d’imbarazzo che prova chi, intervistato in uno studio televisivo, si vede nello stesso momento su uno schermo che ha di fronte. Se però l’apparato a circuito chiuso mi provvedesse una immagine (questa volta sì) ribaltata, allora potrei usare lo schermo come un normale specchio da toeletta.

Lascio agli studiosi della visione stabilire quanto l’immagine televisiva sia otticamente diversa da quella speculare, e possa mettere in gioco diversi processi cerebrali. Qui m’interessa il suo ruolo pragmatico, il modo in cui viene ricevuta, il valore di verità che le viene riconosciuto. Certamente, anche dal punto di vista della ricezione cosciente, ci sono differenze tra l’immagine speculare e quella televisiva: le immagini televisive (i) sono ribaltate, (ii) sono a ridotta definizione, (iii) sono di solito di dimensioni inferiori a quelle dell’oggetto o scena, e (iv) non possiamo guardare di sguincio dentro lo schermo come facciamo con lo specchio, per scorgere quello che esso non ci stava mostrando. Pertanto useremo per esse il termine di immagini para-speculari. Però supponiamo che la televisione sia perfezionata a un punto tale che l’immagine sia tridimensionale e ampia abbastanza da corrispondere all’ampiezza del mio campo visivo, addirittura che si arrivi (come suggerisce Ransdell 1979: 58) a eliminare lo schermo e si disponga di qualche apparato che trasmette direttamente gli stimoli al mio nervo ottico: in tal caso ci troveremmo davvero nella stessa circostanza di chi guarda attraverso un cannocchiale o davanti a uno specchio, e cadrebbe la maggior parte delle differenze tra quello che Ransdell chiama un “self-representing iconic sign” (come accade nella percezione di oggetti o nelle immagini speculari) e un “otherrepresenting iconic sign”, come accadrebbe con fotografie o ipoicone in genere. Il fatto è che non ci sono limiti teorici all’alta definizione. È possibile ormai seguire su di uno schermo ciò che vede una sonda intestinale con telecamera incorporata mentre viaggia nelle nostre proprie viscere (esperienza ormai accessibile a chiunque, e che tuttavia siamo i primi esseri della nostra specie a poter fare): si vedrà che la sonda è una protesi magnificativa per eccellenza che ci permette di vedere con una evidenza e precisione certamente maggiore di quella che avremmo se avessimo la ventura di passeggiare all’interno del nostro corpo; non solo ma, a mano a mano che la sonda si sposta, vediamo anche di sguincio, come ci accadrebbe se spostassimo il capo per guardare oltre i margini fisici dello specchio.29 Comunque la tecnica di definizione delle immagini si sviluppi, quand’anche un giorno si potessero avere esperienze sessuali o gastronomiche virtuali (che coinvolgano per esempio anche sensazioni

termiche e tattili, gusto e odorato), tutto questo non cambierebbe la definizione di tali stimoli come stimoli ricevuti attraverso una protesi e quindi, dal punto di vista semiotico, rilevanti tanto quanto la percezione normale dell’oggetto reale. Se poi questi stimoli virtuali ci provvedessero qualcosa di meno definito dello stimolo reale (e credo proprio che sia la situazione attuale della realtà virtuale, a cui debbo sopperire con un surplus d’interpretazione, per quanto inconscia) allora si passerebbe alla rubrica degli stimoli surrogati, di cui sarà questione tra poco. In questo senso la televisione è un fenomeno ben diverso dal cinema o dalla fotografia, anche se occasionalmente per televisione possono essere trasmesse immagini filmate o fotografie, così come è un fenomeno diverso dal teatro, anche se occasionalmente la televisione può trasmettere spettacoli realizzati su un palcoscenico (offrendone l’immagine para-speculare). Noi possiamo prestare fede a immagini cinematografiche e fotografiche in quanto indici che qualcosa, che era là, ha impressionato una pellicola; e anche se sappiamo o sospettiamo che siano immagini di una messa in scena pro-fotografica o pro-filmica, le riteniamo in ogni caso indici del fatto che quella messa in scena c’è stata. Tuttavia sappiamo anche che esse sono e sono sempre state passibili di elaborazione, filtraggio, fotomontaggio; siamo consci che, dal momento dell’impressione a quello in cui le immagini ci pervengono, è passato del tempo; consideriamo la foto e la pellicola come oggetti materiali che non s’identificano con l’oggetto rappresentato, e dunque sappiamo che l’oggetto che abbiamo sottomano sta per qualcosa d’altro. Per questo non abbiamo difficoltà a trattare immagini fotografiche e cinematografiche come segni. Non così accade con l’immagine televisiva, rispetto a cui la materialità dello schermo svolge la stessa funzione di canale che svolge la lastra di cristallo che ci fa da specchio. Nella situazione ideale di ripresa diretta in circuito chiuso l’immagine è fenomeno para-speculare che ci dà esattamente quello che avviene nel momento in cui avviene (anche se quello che avviene è una messa in scena) e si dissolve nel momento stesso in cui l’evento si estingue. Qualcuno si sottrae alla presa dello specchio, e scompare; qualcuno si sottrae all’occhio della telecamera, e scompare. Quindi, e sempre da un punto di vista teorico, quanto appare sullo schermo televisivo non è segno di alcunché: è immagine para-

speculare, che viene intesa dall’osservatore con la fiducia che si dà all’immagine speculare. Il concetto fondamentale di tv che la maggior parte del pubblico ha introiettato è quello della ripresa in diretta e a circuito chiuso (altrimenti il concetto di televisione non sarebbe “pensabile”, in quanto opposto a quello di cinematografo o di teatro). E questo spiega l’atteggiamento di fiducia con cui ci si avvicina alla tv, di fronte alla quale non pare strettamente necessaria la sospensione dell’incredulità. Di qui la tendenza a fruire di gran parte dei programmi come se fossero in diretta e a circuito chiuso, vale a dire sottovalutando le strategie interpretative dovute a posizioni e movimenti di camera e messa in scena protelevisiva. In breve: prendiamo l’immagine televisiva come prendiamo quella del cannocchiale, per cui pensiamo che nella Luna, nell’istante in cui guardiamo, ci siano davvero quelle macchie. Noi, anche le persone più credule, diffidiamo dei segni (pensiamo sempre che se qualcuno dice che piove forse non piova davvero) ma non diffidiamo (quasi mai) delle nostre percezioni. Non diffidiamo della tv perché sappiamo che, come ogni protesi estensiva e intrusiva, in prima istanza non ci provvede segni ma solo stimoli percettivi. Facciamo ora un altro esperimento. Mediante un qualsiasi procedimento (tecnico o magico) “congeliamo” una immagine paraspeculare. Possiamo congelarla del tutto, stampandola su carta, o congelare su pellicola una sequenza di azioni che poi potranno essere riproiettate in modo che vediamo di nuovo gli oggetti muoversi nel tempo. Avremmo “inventato” e la fotografia e il cinema. Cioè, anche se storicamente hanno preceduto quelle televisive, le immagini fotografiche e cinematografiche dal punto di vista teorico ne rappresentano una deprivazione, come a dire che erano invenzioni maldestre, tentativi di raggiungere un optimum tecnicamente ancora impossibile. Ed ecco come la riflessione sugli specchi ci conduce a ripensare lo statuto semiotico di fotografia e cinema (e persino di certe tecniche pittoriche iperrealistiche che cercano di riprodurre l’effetto di una fotografia). Siamo così portati a ridefinire le ipoicone.

6.13. Ripensare le pitture Per quanto congelate su un materiale autonomo (e senza considerare le varie possibilità di truccaggio e messa in scena) le rappresentazioni fotografiche ci provvedono dei surrogati di stimoli percettivi. Sono i soli casi di tale procedimento? No, certo. Siamo arrivati a foto e cine deducendoli, per così dire, dagli specchi, ma un sogno speculare esiste in ogni rappresentazione iperrealistica. Il massimo assoluto dell’identificazione tra stimoli rappresentativi e stimoli reali lo si ha a teatro, in cui persone umane reali debbono essere percepite come tali, salvo la convenzione finzionale aggiunta, per cui debbono essere intese come Amleto o la signora Ponza. L’esempio teatrale è interessante: per poter accettare (sospendendo l’incredulità) che quella che agisce sul palcoscenico sia Ofelia, si deve anzitutto percepirla come un essere umano di sesso femminile. Di lì l’imbarazzo, o la provocazione, se un regista d’avanguardia decidesse di fare interpretare Ofelia da un uomo, o da uno scimpanzè. Pertanto il teatro è l’esempio limite di un fenomeno semiosico in cui, prima ancora di poter comprendere il significato di quanto avviene, e interpretare gesti, parole ed eventi, occorre anzitutto mettere in opera i meccanismi normali di percezione degli oggetti reali. Sarà poi in base a interpretazioni e aspettative che, percependo un corpo umano, noi facciamo intervenire nel processo semiosico tutto quanto sappiamo sul corpo umano e tutto quanto ci attendiamo da esso: di lì lo stupore (piacevole o irritante, secondo le nostre disposizioni) se, per avventura, nella finzione teatrale il corpo umano per opera di qualche macchina nascosta si solleva nell’aria o come nelle esibizioni di Totò compie movimenti da marionetta. A un primo livello di surrogazione parziale degli stimoli troviamo le statue dei musei delle cere, dove i volti sono realizzati come fossero maschere mortuarie, congruenze perfette, ma gli abiti dei personaggi, e gli oggetti che li attorniano (tavoli, sedie, calamai) sono oggetti veri, e talora sono veri i capelli. Sono ipoicone in cui troviamo una equilibrata commistione di stimoli surrogati ad altissima definizione (ma pur sempre vicari e indiretti) e di oggetti reali offerti direttamente alla percezione, come in teatro. Questo significa che quello dello stimolo surrogato o vicario è concetto assai sfumato, che può andare da un minimo (in cui ottiene un

effetto vagamente pari a quello dello stimolo reale) a un massimo di identificazione con lo stimolo reale. Il che induce a pensare che di fronte a stimoli surrogati valga una sorta di principio di carità. Il fatto che possano reagire a stimoli surrogati anche gli animali dovrebbe farci propendere per la possibilità di un principio di carità “naturale”. Non credo di stare introducendo una nuova categoria: in fondo un principio di carità è all’opera anche nei processi percettivi normali, quando in circostanze di difficile discernimento degli stimoli si propende per l’interpretazione più ovvia - regola che viene violata da coloro che vedono dischi volanti dove gli altri interpreterebbero una macchia luminosa che si muove nel cielo come un aereo in fase di atterraggio.30 Senza quindi togliere nulla al momento attivo nella percezione e interpretazione di ipoicone, si deve dunque ammettere che ci sono fenomeni semiosici in cui, anche se sappiamo che si tratta di un segno, prima di percepirlo come segno di qualcosa d’altro, occorre anzitutto percepirlo come insieme di stimoli che crea l’effetto di essere di fronte all’oggetto. Ovvero, occorre accettare l’idea che esista una base percettiva anche nella interpretazione delle ipoicone (Sonesson 1989: 327) o che l’immagine visiva sia anzitutto qualcosa che si offre alla percezione (Saint-Martin 1987). Se ripartiamo dal modello della statua di cera, e riconosciamo che una buona fotografia pone lo stesso problema, anche se gli stimoli che essa mette in gioco sono “più” surrogati e vicari, si deve ammettere che sono stati in gran parte frustrati i tentativi di analizzare i segni detti iconici in termini morfologici e grammaticali, come se avessero le articolazioni tipiche di altri sistemi segnici, partendo dal principio che una foto, per esempio, può essere scomposta negli elementi minimi del retino che la compone. Questi elementi minimi diventano entità grammaticali quando sono intenzionalmente magnificati come tali, quando cioè il retino non tende a scomparire per ottenere l’effetto di un surrogato percettivo, ma viene ingrandito, posto in evidenza, ai fini di costruire (non foss’altro che nei termini di interpretazione estetica di un objet trouvé) simmetrie e opposizioni astratte. In tal caso si stanno solo differenziando, in una pittura, gli elementi figurativi da quelli plastici. Mentre una ipoicona rinvia (in qualsiasi modo rinvii, e qualsiasi sia la forma dell’espressione) a un contenuto (sia esso elemento del mondo naturale o del mondo culturale, come nel caso della figura di unicorno), nella percezione degli elementi plastici si

è essenzialmente interessati alla forma dell’espressione e ai rapporti che essi intrattengono tra loro. Quindi un ingrandimento di una foto che ne magnifichi il retino sarebbe un modo di pertinentizzare elementi plastici della forma dell’espressione, quasi sempre a scapito degli elementi figurativi.31 Come si era già detto, sino a che l’immagine è ancora percepibile, il fatto che ne sia stata resa evidente la natura digitale non costituisce argomento contro il suo iconismo. È come se sullo schermo televisivo andassimo a individuare, da vicino, le linee che traccia il pennello elettronico. Sarebbe un interessante esperimento plastico, ma di solito quelle linee valgono come se su uno specchio fossero state inserite a intervalli regolari delle strisce opache: se non sono troppe, così da rendere impossibile il riconoscimento dell’immagine (così come se sullo schermo televisivo non sono poche), noi trattiamo la superficie dello specchio come se fosse appannata o maculata (a definizione ridotta, come se l’acqua dello stagno di Narciso si fosse intorbidita, ma non troppo) e facciamo del nostro meglio per integrare gli stimoli e percepire una immagine soddisfacente. Eppure la prova del retino non è inutile. È che, lavorando su retini ingranditi, si misura la soglia oltre la quale l’immagine non è più percepibile e appare una costruzione puramente plastica. Quello che importa (cfr. Maldonado 1974, tav. 182) è l’ultimo stadio di rarefazione a cui la figura viene ancora percepita: esso rappresenta il minimo di definizione necessario perché qualsiasi stimolo possa funzionare come stimolo surrogato (e non valga invece come pura sollecitazione plastica). Questa soglia naturalmente varia a seconda di quanto l’oggetto rappresentato sia già noto e, per quanto il retino sia sgranato, i volti di Napoleone o di Marilyn Monroe saranno sempre più riconoscibili di quelli di persona sconosciuta: quanto più bassa sarà la definizione e quanto più ignoto l’oggetto, tanto maggiore sarà il processo inferenziale richiesto. Ma credo si possa dire che oltre questa soglia si esca dalla zona degli stimoli surrogati per entrare in quella dei segni. C’è un brano di Ockham che mi ha sempre lasciato perplesso e turbato, in cui il filosofo afferma non solo che di fronte alla statua di Ercole, se non comparo la statua all’originale non posso dire se gli assomiglia (che sarebbe osservazione di puro buon senso), ma anche che la statua non mi permette di sapere come sia Ercole se prima non ho conosciuto Ercole (se cioè non ne posseggo già una notizia mentale).

Eppure, come insegnano le polizie di tutto il mondo, in base a una foto formato tessera si può (o si tenta di) individuare la persona ricercata. Una possibile interpretazione di questa curiosa opinione è che Ockham avesse dimestichezza con la statuaria medievale romanica e gotica dei secoli precedenti, dove si rappresentavano dei tipi umani, attraverso schemi iconografici molto regolati, piuttosto che degli individui, come avveniva per la statuaria romana e come sarebbe avvenuto poi con i secoli successivi. Quindi egli voleva dirci che, in condizione di bassa definizione, l’ipoicona ci permette di percepire tratti generici ma non individuali. Pensiamo a una normale fotografia da passaporto, di quelle fatte in fretta e malamente nelle cabine automatiche. Sarebbe assai difficile a un poliziotto, sulla base di quel documento, identificare nella folla la persona giusta, senza incorrere in clamorosi equivoci; e così avviene anche con gli identikit, sulla base dei quali molti di noi potrebbero essere ritenuti autori di crimini orrendi, perché spesso l’identikit non assomiglia al ricercato ma molti di noi assomigliano all’identikit. La foto formato tessera è vaga perché fatta in cattive condizioni di posa e di luce. L’identikit è vago perché rappresenta l’interpretazione data da un disegnatore a espressioni verbali attraverso le quali un testimone cerca di ricostruire schematicamente i tratti di un individuo visto sovente per pochi istanti. In entrambi i casi le ipoicone rinviano a tratti generici e non individuali. Ciò non toglie che, di fronte a entrambi, ciascuno sia in grado di riconoscere questi tratti generici (è un maschio, ha i baffi, ha l’attaccatura dei capelli bassa, oppure è una donna, certamente non una bambina, bionda, labbra pronunciate). Tutto il resto è inferenza per passare dal generico all’individuale. Ma quel poco di generico che si coglie, dipende dal fatto che il poverissimo ritratto ci ha poverissimamente provvisto dei surrogati di stimoli percettivi, altrimenti la mia foto sulla patente non sarebbe distinguibile da quella di un pinguino.

6.14. Riconoscimenti Immaginiamo che in una famiglia la madre tenga sopra la sua scrivania un mazzo di schedine rettangolari in cartone, di vari colori. La madre le usa per annotazioni di diversa natura: usa schede rosse per le

spese di cucina, blu per viaggi e vacanze, verdi per abbigliamento, gialle per le spese mediche, bianche per i suoi appunti di lavoro, celesti per annotarvi i brani che la colpiscono maggiormente quando legge un libro, eccetera. Poi le raccoglie via via nel cassetto della scrivania, divise per colore, così che volta per volta sa dove andare a cercare una certa informazione. Per essa quei rettangoli sono segni: non nel senso che sono supporto per i segni grafici che vi ha tracciato, ma nel senso che, anche quando stanno sopra la scrivania, a seconda del colore già la rinviano all’argomento a cui sono destinati; sono espressioni di un elementare sistema semiotico, all’interno del quale ogni colore è correlato a un contenuto. Il bambino però cerca sempre di impadronirsene per giocare, diciamo per costruirsi castelli di carte; naturalmente ne distingue benissimo e la forma e i diversi colori, ma per lui non sono espressioni, sono oggetti e basta. Diremo che il tipo cognitivo che permette alla madre di individuare le schedine è più ricco di quello del bambino; la madre potrebbe persino provare un senso di inquietudine quando mette mano a una scheda gialla, vergine o sovrascritta che sia, perché questo significa che bisogna occuparsi di problemi di salute; il bambino potrebbe essere indifferente al colore e maggiormente interessato alla consistenza delle schede (oppure no, predilige i castelli di carte rossi). Ma se la mamma dice al bambino di andare a prenderle sulla scrivania una scheda rossa, e l’atto di riferimento è coronato da successo, questo vuol dire che il processo percettivo basilare per cui le schede sono riconosciute è uguale per entrambi. Prima dei livelli superiori di semiosi a cui le schede diventano espressioni, c’è un livello di semiosi percettiva stabile per tutti gli attori di questa piccola commedia domestica. Possiamo ora considerare modi di riconoscimento che riguardino tratti pertinenti non visivi, come i fenomeni sonori. Il fenomeno del riconoscimento sta anche alla base di una attività semiosica fondamentale, quale per esempio il linguaggio verbale.32 Come suggerisce Gibson (1968: 92-93), i fonemi sono “stimoli potenziali come i suoni naturali”, ma ciò che li caratterizza è che per l’ascoltatore essi (oltre che come puri stimoli) debbono essere interpretati anche come risposte (per Gibson, nel senso che sono stati prodotti intenzionalmente da qualcuno ai fini di far riconoscere quel determinato fonema). Per dirla alla Peirce, per riconoscere un suono

della lingua come tale occorre già essere entrati nella Thirdness. Se odo un rumore per strada posso anche decidere di non interpretarlo, di considerarlo parte del rumore di fondo. Posso farlo anche coi fonemi, quando distrattamente sento qualcuno che parla intorno a me ma sono disinteressato a quel che dice, e quindi colgo l’insieme come brusio o chiacchiericcio. Però, se qualcuno mi parla, debbo decidere e che parla e che cosa dice. Ora, certamente riconoscere un fonema significa identificarlo come occorrenza di un tipo. Questo riconoscimento potrebbe essere fondato su un fenomeno di semiosi primaria, quello della “percezione categoriale” (cfr. Petitot 1983, 1985a, 1985b). Ma quello che qui m’interessa è anzitutto che, al di là di una esperienza di laboratorio, per percepire nella confusione dell’ambiente sonoro un fonema come tale, debbo prendere la decisione interpretativa che si tratti di un fonema, non di una interiezione, di un gemito, di un suono emesso casualmente. Si tratta di partire da una sostanza sonora per percepirla come forma dell’espressione. Il fenomeno può essere rapido, inconscio, ma ciò non toglie che sia interpretativo. Inoltre, noi possiamo categorizzare una fonazione o una stringa di fonazioni come dei fonemi e tuttavia non avere ancora appurato a quale sistema fonologico appartengano. Si pensi a quando si partecipa a un convegno internazionale: siamo avvicinati da qualcuno che inizia a parlare, emette uno o alcuni suoni introduttivi, e noi dobbiamo decidere in quale lingua stia parlando. Se dice [ma] potremmo trovarci di fronte a una avversativa in italiano, o a un possessivo in francese. Naturalmente la gente parla di filato e, prima ancora di avere preso una decisione interpretativa sul primo fonema che qualcuno ha emesso, siamo già nel contesto della catena parlata: siamo così orientati dall’accento, da un significato che attribuiamo tentativamente alle fonazioni, certo. Ma quello che va sottolineato è che si tratta appunto di interpretazione, attraverso cui si decide sia circa una identità materiale dello stimolo che circa una sua identità funzionale.33 C’è quindi processo percettivo sia nel riconoscimento dell’immagine di un cane che nel riconoscimento della parola cane malamente scarabocchiata su un foglio. Tuttavia non mi pare che si possa dire che è la stessa cosa percepire la foto di un cane come ipoicona di un cane, e di conseguenza percepire il cane come occorrenza di un tipo percettivo, e d’altro lato percepire

uno scarabocchio sul muro come occorrenza della parola cane. In caso di trompe-l’oeil io potrei anche credere di percepire direttamente un cane reale senza accorgermi che si tratta di un’ipoicona; nel caso della parola scritta io posso percepirla come tale solo dopo che ho deciso che si tratta di un segno.34

6.15. Modalità Alfa e Beta: un punto di catastrofe? Cerchiamo ora di riprendere il discorso dopo aver fissato alcuni punti fermi. Si danno processi semiosici di base nella percezione. Si percepisce perché ci costruiamo tipi cognitivi, certamente intessuti di cultura e convenzione, ma che tuttavia dipendono in gran parte da determinazioni del campo stimolante. Per intendere un segno come tale dobbiamo prima attivare processi percettivi, e cioè dobbiamo percepire sostanze come forme dell’espressione. Però ci sono segni il cui piano dell’espressione, per essere riconosciuto come tale, deve essere percepito (sia pure in virtù di stimoli surrogati) per semiosi di base; talché lo percepiremmo come tale anche se non decidessimo che siamo di fronte all’espressione di una funzione segnica. Parlerò in tal caso di modalità Alfa.35 Ci sono invece casi in cui per percepire una sostanza come forma debbo anzitutto presumere che si tratti dell’espressione di una funzione segnica, prodotta intenzionalmente al fine di comunicare. Parlerò in tal caso di modalità Beta. È per modalità Alfa che si percepisce un quadro (o una foto, o una immagine filmica, si veda la reazione dei primi spettatori dei Lumières alla proiezione dell’arrivo di un treno in stazione) come se fosse la “scena” stessa. Solo a una seconda riflessione si stabilisce di trovarsi di fronte a una funzione segnica. È per modalità Beta che si riconosce la parola casa come tale senza confonderla con cassa: in tal caso prevale l’ipotesi che debba trattarsi di una espressione linguistica, e che tale espressione linguistica debba trovarsi in un contesto sensato, ragione per cui, dovendo decidere se il parlante ha detto la casa in cui abito è a cento metri o la cassa in cui abito è a cento metri si propende (in condizioni normali) per la prima interpretazione. Definiamo come modalità Alfa quella per cui, prima ancora di decidere che ci si trova davanti all’espressione di una funzione segnica,

si percepisce per stimoli surrogati quell’oggetto o quella scena che poi eleggeremo a piano dell’espressione di una funzione segnica. Definiamo come modalità Beta quella per cui, onde percepire il piano dell’espressione di funzioni segniche, occorre anzitutto ipotizzare che di espressioni si tratti, e l’ipotesi che esse siano tali ne orienta la percezione. La distinzione Alfa/Beta non corrisponde a quella tra segni motivati e convenzionali. Il quadrante di un orologio è una espressione motivata dal movimento planetario, o da quanto ne sappiamo (siamo davanti a un caso di ratio difficilis) e tuttavia si deve anzitutto percepire quel quadrante come segno (modalità Beta) prima di poterlo leggere come segno motivato (per cui alla posizione x delle lancette corrisponde motivatamente la posizione y del sole nel cielo, o viceversa). Per modalità Alfa percepirei solo uria forma circolare su cui si muovono due aste, e come tale lo vedrebbe anche il primitivo che non sa a che cosa serva un orologio. È ovvio che in qualsiasi circostanza dobbiamo pi;ima percepire la sostanza dell’espressione, ma nella modalità Alfa si percepisce una sostanza come forma, prima ancora che questa forma sia riconosciuta come forma di un’espressione. Si riconosce solo, come direbbe Greimas, una “figura del mondo”. Invece in modalità Beta per individuare la forma occorre interpretarla come forma di un’espressione. Ci sono confini precisi tra le due modalità? In casi esemplari direi di sì, tal che si può fissare un punto di catastrofe al quale si passa dell’una all’altra. Consideriamo l’esempio di un rebus classico - ed enigmisticamente molto bello (Figura 6.7). Figura 6.7 Trattandosi di un rebus, dove contano molto le espressioni alfabetiche, il solutore inizia in modalità Beta e assume che i segni stiano per delle C. A questo punto non trova alcuna traccia per una soluzione. L’arguzia consiste nel passare in modalità Alfa e interpretare quei segni sul foglio come figure geometriche, e cioè come semicerchi. Dopodiché si deve ripassare in modalità Beta: quelle figure geometriche sono probabilmente un messaggio metalinguistico che concerne proprio il passaggio da Alfa a Beta (anche se l’autore del rebus non pensava in questi termini). Sono semicerchi, come li si

percepisce in Alfa, e non delle lettere C, come si percepivano in Beta: “semicerchi, non C, sono”. E infatti la soluzione è: se mi cerchi non ci sono. Quanto sia però sfumata la frontiera tra le due modalità ce lo dicono i due disegni di Figura 6.8 (Gentner e Markman 1995). Figura 6.8 Il primo impatto è percettivo. Di fronte allo stimolo surrogato che mi offre due strutture fondamentalmente parallelepipede sovrastanti due strutture circolari, io percepisco “veicolo terrestre” in genere. Certo, anche in questa fase, se non ho mai avuto esperienza di un veicolo, mi sarà difficile identificarlo come tale. Montezuma, che non conosceva veicoli a ruota, avrebbe forse “visto” in questi disegni qualcosa d’altro, per esempio due occhi sotto un elmo di forma strana. Ma avrebbe pur sempre interpretato stimoli surrogati alla luce di un proprio tipo cognitivo. Quando passo dalla percezione di un veicolo alla interpretazione dei vari veicoli in giuoco come automobile, motoscafo e camioncino di soccorso, intervengono già molte conoscenze enciclopediche. Sono già entrato nella Thirdness. Una volta percepito “veicolo” debbo passare dal riconoscimento del percetto (dovuto a stimoli surrogati) alla interpretazione di una scena. La riconosco allora come rappresentazione ipoiconica di una scena reale, e inizio a usare l’immagine come espressione che mi rinvia a un contenuto. Solo a quel punto posso elaborare macroproposizioni che verbalizzano le due scene: noterò tra di esse una simmetria inversa (nel primo disegno l’auto è trainata dal camioncino, nel secondo è l’auto che traina il motoscafo) e, se sono fornito di una sceneggiatura “Week-end sfortunato”, posso anche rimettere in ordine la sequenza ponendo il secondo disegno in prima posizione. Ma quello che interessa in questa sede è che solo dopo aver interpretato le due scene come ipoicone posso intendere il circolo che appare in entrambe le immagini come un sole (altrimenti potrebbe essere stato qualsiasi altro oggetto circolare, o un circolo, nel senso geometrico del termine) e soprattutto solo allora posso intendere i due scarabocchi della seconda immagine come uccelli (fuori contesto avrei potuto intenderli come colline o come una maldestra trascrizione del numero 33). Questo esempio mi pare molto utile per mostrare le

oscillazioni che continuamente intervengono, nella nostra interpretazione di ipoicone, tra modalità Alfa e modalità Beta. Quel sole e quegli uccelli non erano percepibili come i veicoli. Ho dovuto prima decidere che erano due segni che stavano per qualcosa, e solo dopo ho cercato di intenderli come se fossero stimoli surrogati (pochissimo definiti). In un certo senso, per interpretare quei segni come segni di stimoli surrogati, ho dovuto fare appello al principio di carità.

6.16. Dalla somiglianza percettiva alle similarità concettuali Mi pare chiaro che parlare di modalità Alfa e Beta non significa ritornare alla teoria delle “scale d’iconicità”. Quelle stabilivano dei gradi di astrazione, mentre qui si sta parlando di un punto di catastrofe. Le classiche scale d’iconicità possono al massimo stabilire la differenza tra una foto di automobile e il disegno schematico dell’automobile, e discriminano tra diversi livelli di definizione degli stimoli surrogati. Ma le risposte possibili rispetto ai due disegni esaminati vanno al di là delle scale d’iconicità e mettono in gioco rapporti categoriali. Eppure parliamo di similarità o di analogia anche rispetto a questi ultimi, così come siamo portati a dire che il motoscafo è simile all’automobile, dal punto di vista della funzione veicolare. Siamo entrati in un territorio che pare totalmente proposizionale e categoriale, che è quello della cosiddetta similarità metaforica, per cui si può chiamare il cammello “la nave del deserto” (al di là di ogni possibile similarità morfologica, e sulla base di una pura analogia funzionale). Esaminiamo una serie di asserzioni (che mi sono ispirate da Cacciari 1995): (i) Ma quello mi sembra Stefano... (ii) Questi fiori sembrano veri (iii) Mi sembra che suonino alla porta (iv) Quel ritratto mi assomiglia (v) Assomiglia tutto a suo padre (vi) Il coniglio di Wittgenstein sembra un’anatra (o viceversa) (vii) Quella nuvola sembra un cammello (viii) Questa musica sembra Mozart

(ix) Quando sorride sembra un gatto (x) Mi sembra ammalato (xi) Mi sembra arrabbiato... (xii) Un cammello è come un taxi (xiii) Le conferenze sono come i sonniferi (xiv) I sonniferi sono come le conferenze Certamente (i)-(iv) sono basati sull’iconismo primario. Del riconoscimento dei volti si è detto, e c’è chi persuasivamente sostiene che si tratta di capacità innata, presente anche negli animali. I fiori finti, come le statue di cera, sono un esempio di stimoli surrogati ad altissima definizione. Quanto all’impressione di udire il campanello è come l’impressione di percepire un certo fonema. In presenza di stimoli imprecisi, si rapporta l’occorrenza a un tipo; ma avremmo potuto decidere che si trattava del telefono o - come accade sovente - del suono di un campanello (stimolo surrogato ad altissima definizione) dentro la scena televisiva a cui stiamo assistendo. Infine, dell’impressione di somiglianza di quelle ipoicone che sono le fotografie o le pitture iperrealistiche (iv) abbiamo già parlato. Un enunciato come (v) ha a che fare con l’iconismo primario (e con il riconoscimento di volti) ma a un livello più astratto. Qui non stiamo riconoscendo un volto, stiamo selezionando alcuni tratti comuni a due volti, lasciando in ombra il resto. Sappiamo benissimo che, da un certo punto di vista, una persona può assomigliare sia al padre che alla madre, e talora l’impressione è del tutto soggettiva, e ottativa (estrema risorsa dei mariti traditi). Gli enunciati (vi) e (vii) hanno a che fare coi fenomeni di ambiguità percettiva delle ipoicone. A mano a mano che il disegno si fa più astratto entriamo nella zona dei droodles (come in Figura 6.9) in cui l’aggancio iconico è minimo, e il resto è sistema di attese, e suggerimento proposizionale (chiave d’interpretazione). Gli enunciati (viii) e (ix) pongono seri problemi. Una musica può sembrare Mozart per ragioni timbriche, melodiche, armoniche, ritmiche ed è difficile dire su quali basi (da quale punto di vista) si pronuncia il giudizio di similarità. Prudenzialmente considererei il giudizio di somiglianza con Mozart come quello di somiglianza di un figlio con suo padre. In La pelle di Malaparte c’è una bella pagina in cui si racconta come certi ufficiali inglesi ascoltando il Concerto di Varsavia

di Addinsel dicono che sembra Chopin, mentre l’autore manifesta delle perplessità d’ordine estetico. Direi che Malaparte si comporta come un marito tradito ma consapevole, che rifiuta le attribuzioni di somiglianza tra lui e il suo presunto figlio (ovvero disconosce Addinsel come figlio di Chopin). Per ragioni ancora misteriose ascriverei alla stessa categoria l’enunciato sul gatto. Le ragioni per cui il sorriso di qualcuno mi ricorda quello di un gatto potrebbero essere le stesse (coeteris paribus) per cui Addinsel può sembrare Chopin, e in gran parte dipendono da cosa io pensi che siano sia Chopin che un gatto. Dire che qualcuno mi sembra ammalato ha probabilmente valore semplicemente retorico. In effetti si usa per metafora il termine “sembrare” per esprimere una inferenza sintomatica, ma un clinico avveduto potrebbe dire che riconosce immediatamente da certi tratti fisionomici colui che è affetto da una certa malattia. In tal senso dire di qualcuno che mi sembra ammalato sarebbe come dire che mi sembra arrabbiato. Riguarderebbe una capacità (non intendo affermare se innata o basata su competenze culturalizzate) per cui si riconoscono le passioni dall’espressione del viso. In materia la letteratura è assai vasta e ritengo la questione ancora controversa. Certamente dal punto di vista della polemica degli anni Sessanta gli iconoclasti avevano buon gioco a riconoscere il fatto evidente che un asiatico esprime i propri sentimenti in modo diverso da un europeo, ma è giocoforza ammettere che un sorriso (qualsiasi sentimento esso esprima, imbarazzo o allegrezza) viene percepito in base a tratti fisionomici iconicamente universali. Difficile affermare che (xii)-(xiv) siano basati su similarità morfologiche. Siamo completamente a livello categoriale. La similarità è istituita dal punto di vista di certe proprietà che proposizionalmente si attribuiscono agli oggetti in gioco. A tal punto, che, contrariamente all’opinione corrente (cfr. Kubovy 1995 e Tversky 1977), mi pare che si possa dire con eguale efficacia sia che le conferenze sono come i sonniferi, sia che i sonniferi sono come le conferenze. È vero che nel primo caso il tratto saliente del predicato (i sonniferi inducono al sonno) è un tratto periferico del soggetto - mentre nel secondo caso parrebbe che nessun tratto saliente del predicato sia un tratto periferico del soggetto - ma, dopo anni di frequentazione di convegni e congressi, ritengo tratto saliente delle conferenze la loro soporiferità e, se dicessi a un collega che i sonniferi sono come le conferenze, la mia metafora

sarebbe compresa. Il che conferma che a questi livelli concettuali la similarità è solo questione di stipulazione culturale. Qual è la soglia che separa questi livelli di cosiddetta “similarità”? Credo si possa tracciare una linea di discrimine tra i casi (i)-(xi) e i casi (xii)-(xiv). Nei primi undici casi il giudizio di somiglianza viene pronunciato su basi percettive. Negli altri tre casi mettiamo in opera livelli di interpretazione successivi, conoscenze più ampie, ed è per questo che l’analogia può essere istituita su basi puramente proposizionali: posso dire che un cammello sembra un taxi o una nave del deserto anche se per caso non avessi mai visto un cammello e ne avessi conoscenza puramente culturale (mi è stato per esempio descritto come un animale che viene usato come mezzo di trasporto nel deserto). Potrei dire che l’uranio è come la dinamite anche se non ho mai avuto conoscenza percettiva di un campione di uranio, e so soltanto che è un elemento che viene usato per far esplodere una bomba atomica. Eppure anche a questi livelli proposizionali permane, sia pure pallidissima, un’ombra di iconismo primario (nello stesso modo in cui tenderei a dire che anche ai livelli in cui appare più evidente la presenza dell’iconismo primario intervengono elementi di culturalità): come a dire dunque che per soggetti diversi la soglia tra le modalità Alfa e Beta si sposta secondo criteri che non possono essere stabiliti a priori ma dipendono dalle circostanze. Nell’espressione il cane morde il gatto si riconoscono cane e gatto come parole della lingua italiana per modalità Beta, ma si riconosce quello che è stato chiamato fenomeno di iconismo sintattico per modalità Alfa: nell’ambito della sintassi italiana il fatto che la sequenza sia “A + verbo + B” ci dice - per percezione di vettorialità - che è A a compiere l’azione e B a subirla. Un interessante esempio di similarità al limite del categoriale è fornito da Hofstadter (1979: 168-170) a proposito di due melodie diverse, che egli chiama BACH e CAGE, avvalendosi del fatto che le note musicali si indicano anche con lettere alfabetiche. Le due melodie sono diverse ma hanno uno “scheletro” uguale dal punto di vista dei rapporti intervallari. La prima, dalla nota iniziale, scende di un semitono, poi risale di tre semitoni e infine scende ancora di un semitono (-1, +3, -1). La seconda scende di tre semitoni, sale di dieci e scende ancora di tre (-3, +10, -3). Si può pertanto ottenere CAGE

partendo da BACH moltiplicando ciascun intervallo per 3? e arrotondando al numero più piccolo. Ho provato a eseguire le due melodie e non direi che un orecchio normale percepisce alcuna somiglianza. Hofstadter ha indubbiamente costituito un criterio di similarità a livello concettuale. Tuttavia, per quanto siamo lontanissimi da qualcosa che può essere “percepito”, l’iconismo della percezione è implicito nel fatto che per poter essere istituita la similarità deve essere presupposta la percezione dei rapporti intervallari, o almeno delle singole note (e almeno a questo riguardo Peirce direbbe che ci troviamo di fronte a icone pure).36 Ancora Hofstadter (1979: 723) elenca una serie di oggetti bizzarri che tuttavia ci appaiono simili sotto un certo profilo, ovvero che presentano uno “scheletro concettuale” comune: un cambio a una sola marcia, un concerto per pianoforte per due mani sinistre, una fuga a una sola voce, l’applauso con una sola mano, lo spareggio di una sola squadra. In tutti questi casi avremmo “una cosa plurale resa singolare e ripluralizzata in modo erroneo”. Io direi: “abbiamo un contesto che esige due attanti, ne isoliamo uno solo e lo rimettiamo nel contesto originario a svolgere le funzioni di entrambi gli attanti”. Qui credo si possa dire che non sussista alcun elemento di iconismo percettivo. La regola può essere espressa in termini puramente proposizionali, l’aria di famiglia che si coglie tra questi oggetti bizzarri nasce da riflessione e interpretazione, non è data immediatamente. Applichiamo la regola, e troveremo subito un esempio che Hofstadter non ha fatto, ma che potrebbe avere fatto: troviamo una attività a due attanti, per esempio lo schiocco di due dita, isoliamo un solo attante, il pollice, rimettiamolo nel contesto originale a svolgere la funzione di entrambi gli attanti, e abbiamo lo schiocco fatto da un pollice. Naturalmente si potrà sempre dire che ciascuna di queste “scene” potrebbe essere mentalmente visualizzata (sia pure provando l’impressione che si prova di fronte alle figure “impossibili”). Ma direi che questo è un effetto interpretativo conseguente e non necessario. Non credo che nessuno possa visualizzare un bicifalo e un pentacalido (perché sono due oggetti che mi sono inventato ora) ma credo che sia possibile identificare uno scheletro concettuale in comune tra un bicifalo monocifalo e un pentacalide a due calidi.

6.17. Il messicano in bicicletta Lungo la scala che gradatamente mi conduce da un massimo di modalità Alfa al massimo della modalità Beta si passa da un massimo di stimoli surrogati ad altissima definizione (la statua di cera) a un massimo di astrazione dove gli stimoli (anche se ancora visivi) non hanno più efficacia pitturale ma solo valore plastico. Guardiamo la Figura 6.9, che riproduce un notissimo “scherzo” visivo chiamato droodle. Figura 6.9 Come alcuni sanno e altri no, la soluzione è “messicano in bicicletta visto dall’alto”, e una volta trovata la chiave, con un certo quale sforzo di buona volontà, possiamo individuare il sombrero e la parte esterna delle due ruote. Ma con altrettanta buona volontà potremmo anche vedere un guerriero greco accovacciato dietro lo scudo mentre tiene una pertica in resta, oppure un battello a ruota del Mississippi, o Cyrano e Pinocchio, spalla a spalla, sotto un ombrellone. Ecco perché, nel corso della polemica sull’iconismo, si assumeva il principio (giustissimo e irrinunciabile) che dal punto di vista e nel contesto appropriato tutto può assomigliare a tutto, sino all’altrettanto famosissimo riquadro nero che va letto “gatto scuro in una notte senza luce”. Quello che la percezione mi dà, nel caso del droodle, è assai poco per prendere una decisione interpretativa. Certamente percepisco due cerchi concentrici e due semi-ellissi fortemente appiattite. Ammettiamo pure che siamo istintivamente portati a individuare una sola ellissi appiattita, parzialmente occultata dal cerchio maggiore; tutta una tradizione psicologica è là a confermarcelo, anche se non ce ne accorgessimo da soli, e questa è pur sempre una buona prova dell’inferenzialità della percezione. Ma per decidere che quelle forme rappresentano un dato oggetto o una scena, debbo possedere o indovinare la chiave (in questo caso, malauguratamente verbale). Dopo, posso adattare ciò che percepisco a ciò che so. Ecco, tra gli anni Sessanta e Settanta la polemica metteva a fuoco un uso disinvolto della nozione di “somiglianza” (che esimeva molti dallo stabilire regole di “similarità”) e quindi si discuteva più su quei cosiddetti segni iconici che avevano caratteristiche “simboliche” (nel

senso della Thirdness) come il droodle del messicano, che sulle fotografie o le rappresentazioni iperrealistiche. Questo spiega anche perché il discorso sull’iconismo individuava i punti deboli dell’avversario nell’iconografia e nella diagrammatica in genere. Si insisteva sulla modalità Beta (e benissimo si è fatto), ma si lasciava in ombra la modalità Alfa. Nell’enfasi della polemica, mai del tutto sopita, si è trascurato, e forse si trascura ancora, di individuare volta per volta (a seconda degli individui, delle culture, delle circostanze, dei contesti), la soglia tra le due modalità, e di riconoscerne la natura fuzzy?7

6.18. Gruppo di famiglia in un inferno Per terminare, vediamo il rebus di Figura 6.10. Figura 6.10 Il rebus è un soggetto interessante perché nella sua soluzione interagiscono in modo molto aggrovigliato sia la modalità Alfa che la modalità Beta. Un rebus è una ipoicona che rappresenta una scena visiva in cui certi soggetti, cose o persone dovrebbero (per stimoli surrogati) essere riconosciuti per quel che appaiono e per le azioni che compiono. Alcuni di questi soggetti (che chiameremo iconologemi) sono marcati da una etichetta alfabetica, così che dalla catena “definizione verbale degli iconologemi + suono o nome alfabetico delle etichette (una L può suonare o come l o come elle)” ne derivi una frase, tale che le lettere alfabetiche che la compongono, riunite in modo diverso, diano origine a una nuova frase con parole di un numero di lettere corrispondente alle indicazioni numeriche poste tra parentesi sopra l’immagine.38 Nel rebus in esame quello che il destinatario anzitutto percepisce (per stimoli surrogati, e dunque per modalità Alfa) è una scena: un signore sta offrendo una lampada a petrolio a un altro, due donne che stanno facendo la maglia, due altre persone di sesso maschile sono a letto, l’una sveglia e l’altra addormentata. Per modalità Alfa si può persino riconoscere che la donna grassa è irritata per il fatto che la donna magra fa un golfino di giuste proporzioni (e ne è lieta), mentre il suo è rachitico.

Le lettere alfabetiche invece vanno riconosciute per modalità Beta. Ed è per modalità Beta che debbo assumere i vari elementi della scena come messaggi che l’autore mi invia. Cioè l’autore vuole che io, dopo aver percepito la scena, la intenda come ipoicona, rappresentazione di oggetti e azioni che devo in qualche modo pertinentizzare per assegnare loro una definizione o una descrizione verbale. Certamente “VO lume dà”, per cui si presenta alla mente del solutore come ipotesi proposizionalmente credibile “volume d’affari”. Ora, certamente la donna magra “fa I” ma non “fa RI”. Come uscirne? La soluzione è assai ingegnosa: non bisogna pensare all’azione individuale ma all’azione tipo, e cioè al fatto di fare qualcosa meglio di qualcun altro. Per cui: “Far I AS sa”. Ma che lo sappia fare lo si deve congetturare dal fatto che l’altra donna, che pure non è etichettata, manifesta invidia; e a questa conclusione arrivo non solo se non percepisco la scena come scena, ma anche se la intendo come testo ipoiconico, attraverso il quale l’autore mi suggerisce possibilità interpretative. Una volta che ho la sequenza “volume d’affari assa...”, mi è facile congetturare che la prossima parola dovrebbe essere “assai”, e che (tra le possibilità di lettura offertemi dalla scena di destra) potrei azzardare “IMO desto”. Infatti la soluzione è: Volume d’affari assai modesto. Ma anche tornando alla scena (percepita per modalità Alfa), una volta che l’ho riconosciuta come ipoicona (e lo sarebbe anche se fosse una scena teatrale o cinematografica) posso proseguire per modalità Beta a congetturare che cosa il disegnatore avrebbe potuto volermi dire (ma sia chiaro che, nel caso di un rebus, sto sovrainterpretando, dando l’avvio a una giocosa deriva ermeneutica). F regala lumi, di per sé azione priva di ogni interesse, ma lo fa per sfuggire alla situazione insostenibile che si sta verificando in quella infelice famiglia, in cui la donna grassa, la moglie o la sorella di F, vive in continua tensione (vedetene le gambe nevroticamente mal poste), per invidia verso AS, così mingherlina, miopemente perfetta, le gambe compostamente incrociate, soddisfatta (ma lo rivela solo con un infinitesimo sorriso), ahi quanto forse perversa. E si capisce perché con una tensione famigliare che si taglia col coltello, IMO non riesca prender sonno, o si svegli di colpo in preda agli incubi. Forse IMO è il figlio della donna grassa non etichettata (nessuno la prende sul serio) e soffre per la presenza distruttiva di AS, che coi suoi golfini perfetti (e

inutili) distrugge l’armonia della famiglia. E F, vile e sornione, che regala lampade a petrolio, pur di non vedere quanto gli accade intorno... E chi è l’innocente che dorme e non si rende conto di nulla? E quel signore che accetta il dono, o il prestito, come se da qualche parte mancasse la luce, eppure la luce c’è se le due tricoteuses continuano la loro sfida infernale, si vede bene quel che c’è da vedere in quel piccolo inferno di famiglia, e quindi il lume antico è puro gioco antiquariale, serve a non vedere... Ma poi, che cos’è questo gioco antiquariale, come può permettersi F di donare lampade antiche (oppure di comperarle dall’altro) quando la situazione economica di quella famiglia non è delle più rosee, dato che almeno due dei suoi membri sono costretti a dormire in salotto? Nel fare tutte queste inferenze narrative siamo passati da quanto gli stimoli surrogati mi suggerivano (modalità Alfa) all’interpretazione di quanto il testo può dire, anche indipendentemente dalle intenzioni del suo autore, e proprio perché lo assumo come fatto comunicativo (modalità Beta). Ma siamo sicuri di poter fissare esattamente il punto in cui si passa da una modalità all’altra? Credo sia dovuto a questa incertezza il fatto che i rebus, ultima frontiera del surrealismo, sembrano presentarci sempre situazioni stranite, altamente oniriche. Perché dopo aver percepito, per stimoli surrogati, cose, cerchiamo una coerenza narrativa nel loro assemblaggio, usciamo dalla naturalità della percezione, entriamo nella sofisticazione dell’intertestualità e non ricordiamo altre cose bensì altre storie. Così che gli unici a non essere desti siamo noi, che sogniamo a occhi aperti, e in questo vagabondaggio onirico non sappiamo mai dove sia il punto di catastrofe per cui si passa da Alfa a Beta, in una allucinata oscillazione che lascia capire perché sia tanto difficile definire il fenomeno dell’ipoiconismo.

APPENDICE 1 SULLA DENOTAZIONE 1

Semiologi, linguisti e filosofi del linguaggio incontrano di frequente il termine denotazione. La denotazione (insieme alla sua controparte, la connotazione) viene alternativamente considerata come una proprietà o una funzione di (i) singoli termini, (ii) proposizioni dichiarative, (iii) frasi nominali e descrizioni definite. In ognuno di questi casi si deve decidere se la denotazione abbia a che fare con il significato, con il referente o con il riferimento. Con denotazione si intende ciò che è significato dal termine o la cosa nominata e, nel caso delle proposizioni, ciò che è il caso? Quando la denotazione rientra in una prospettiva estensionale, la connotazione diventa l’equivalente dell’intensione, vale a dire del significato in quanto opposto al riferimento. Se, al contrario, la denotazione rientra in una prospettiva intensionale, la connotazione diventa allora una specie di significato aggiunto e ulteriore dipendente dal primo. Queste discrepanze tra differenti paradigmi linguistici o filosofici sono tali che Geach (1962: 65) ha suggerito che il termine denotazione dovrebbe essere “eliminato dal novero della corrente moneta filosofica” perché non fa altro che produrre “una triste storia piena di confusione”. Nella linguistica strutturale la denotazione ha a che fare col significato. È il caso di Hjelmslev (1943), dove la differenza tra una semiotica denotativa e una connotativa sta nel fatto che la prima è una semiotica il cui piano dell’espressione non è una semiotica, mentre la seconda è una semiotica il cui piano dell’espressione è una semiotica. Ma la relazione denotativa riguarda la correlazione tra la forma dell’espressione e la forma del contenuto, e un’espressione non può denotare una sostanza del contenuto. Anche Barthes (1964) elabora la sua posizione a partire dai suggerimenti di Hjelmslev, giungendo a sviluppare un approccio al problema della denotazione del tutto intensionale, in cui tra un significante e un significato di primo grado (o di grado zero) vi è sempre una relazione denotativa. Nel campo dell’analisi componenziale, il termine denotazione è stato utilizzato per indicare la relazione di senso espressa da un termine

lessicale - come nel caso del termine zio che esprime la relazione “fratello del padre o della madre” (si veda ad esempio Leech 1974: 238). Le cose cambiano nel quadro della filosofia analitica dove, una volta assunta la distinzione fregeana tra Sinn e Bedeutung, la denotazione si sposta dal senso al riferimento. È vero che, come tutti sanno, il termine Bedeutung è stato forse infelicemente usato da Frege, dal momento che nel lessico filosofico tedesco generalmente sta per “significato”, mentre per “riferimento”, “denotazione” o “designazione” si usa di solito Bezeichnung. Si veda ad esempio Husserl (1970), dove è scritto che un segno significa (bedeutet) un significato e designa (bezeichnet) una cosa. Ma anche chi tenta di ovviare alle ambiguità prodotte da un termine come Bedeutung lo traduce con referente o con denotazione(Dummett 1973: 5). In “On denoting” di Russell (1905) la denotazione si differenzia dal significato, e questa direzione viene seguita da tutta la tradizione filosofica anglosassone (si veda ad esempio Ogden e Richards 1923). Morris (1946) sostiene che quando nell’esperimento di Pavlov un cane reagisce a un campanello, il cibo è il denotatum dal campanello, mentre la condizione di essere edibile è il significatum del campanello. Se si segue questa accezione, un’espressione denota sia gli individui, sia la classe di individui di cui è il nome, mentre connota le proprietà in base alle quali tali individui sono riconosciuti come membri della classe in questione. In tale senso Carnap (1955) sostituisce la coppia denotazione/connotazione con la coppia estensione/intensione. Lyons (1977, I, 7) ha proposto di utilizzare denotazione in modo neutrale tra estensione e intensione: così che sia lecito dire che cane denota la classe dei cani (o forse qualche tipico membro, o esemplare, della classe), mentre canino denota la proprietà riconoscendo la quale risulta corretto applicare l’espressione. Tuttavia la proposta rappresenta un palliativo, dal momento che non elimina la polisemia del termine. Ma la situazione è ancora più complicata. Persino nei casi in cui è possibile stabilire che la denotazione sta per l’estensione, una espressione può denotare (i) una classe di individui, (ii) un individuo effettivamente esistente, (iii) ogni membro di una classe di individui, (iv) il valore di verità contenuto in una proposizione assertiva (cosicché in ognuno di questi campi il denotatum di una proposizione è ciò che è il caso, o il fatto che p sia il caso).

Per quanto mi risulti, il termine denotazione è stato usato per la prima volta con esplicito senso estensionale da John Stuart Mill (1843, I, 2, 5): “la parola bianco denota tutte le cose bianche, come la neve, la carta, la spuma del mare eccetera, e implica, o, per usare il linguaggio degli scolastici, connota, l’attributo della bianchezza”. Probabilmente Peirce fu il primo a rendersi conto che vi era qualcosa che non andava in questa soluzione. Egli ha senza dubbio usato denotazione sempre in senso estensionale. Per esempio egli parla del “riferimento diretto di un simbolo al suo oggetto o denotazione” (CP 1.559); della replica di un Sinsegno Indicale Rematico in quanto influenzata “dal cammello reale che essa denota” (2.261); di un segno che deve denotare una entità individuale, e deve significare un carattere (2.293); di un termine generale che “denota qualsiasi cosa possegga il carattere che significa” (2.434); della funzione denotativa o indicativa di ogni asserzione (5.429); di segni che sono designativi, denotativi o indicativi quando, come i pronomi dimostrativi, o come un dito indice, “dirigono brutalmente i globi oculari della mente dell’interprete verso l’oggetto in questione” (8.350). Ma non riteneva storicamente appropriato opporre alla denotazione la connotazione. Per quanto riguardava la connotazione, secondo Peirce (e giustamente), Mill non seguiva, come invece sosteneva di fare, l’uso tradizionale della scolastica. Gli scolastici (per lo meno fino al XIV secolo) non utilizzavano connotazione in opposizione a denotazione, bensì in quanto forma aggiuntiva di significazione: “È stata senza dubbio opinione dei migliori studiosi di logica XIV, XV e XVI secolo che la connotazione fosse usata, in quelle epoche, esclusivamente per il riferimento a un secondo significato, cioè (quasi) per il riferimento di un termine relativo (quale padre, più brillante, ecc.) al correlato dell’oggetto che denota primariamente... Il Signor Mill ha tuttavia ritenuto di essere autorizzato a negarlo solamente sulla base della sua autorità, senza la citazione di un solo passaggio da un qualsiasi autore del tempo” (CP 2.393). In CP 2.431, e più avanti, si fa notare come nel Medioevo l’opposizione più comune fosse quella tra significare e nominare. Quindi si rileva come Mill impieghi al posto del termine significa quello di connota, usando perciò denotare per designare, nominare o far riferimento. Inoltre Peirce ricorda il passo di Giovanni di Salisbury (Metalogicus II, 20), secondo cui nominantur singularia sed universalia

significantur; concludendo che sfortunatamente il significato preciso della parola significare al tempo di Giovanni di Salisbury non fu mai veramente osservato, né prima né dopo di lui, e al contrario scivolò progressivamente verso quello di denotare (CP 2.434). In questa discussione Peirce da un lato comprende lucidamente che a un certo punto significare migra parzialmente da un paradigma intensionale a uno estensionale, ma non è in grado di riconoscere che nei secoli successivi il termine conserva per lo più un senso intensionale. Dall’altro accetta quella di denotazione come categoria estensionale (e discute l’opera di Mill solo rispetto alla questione della connotazione), senza riconoscere esplicitamente che è denotare il quale, inizialmente utilizzato a metà tra estensione e intensione, alla fine (con Mill) subentra come categoria estensionale.

Aristotele Fino da Platone, ma sicuramente in modo più esplicito a partire da Aristotele, è stato evidente che enunciando una parola (o producendo altri tipi di segni) si intende o si significa un pensiero o una passione dell’anima, e si nomina o ci si riferisce a una cosa, nello stesso modo in cui, enunciando una proposizione, si può esprimere o significare un pensiero complesso oppure affermare che uno stato di cose extralinguistico è il caso. Nel famoso passaggio l6a (e sgg.) di De Interpretatione, Aristotele delinea un triangolo semiotico in modo implicito ma evidente, in cui le parole sono su un lato legate ai concetti (o alle passioni dell’anima) e sull’altro alle cose. Aristotele dice che le parole sono “simboli” delle passioni, dove per simbolo intende un artificio convenzionale e arbitrario. Come vedremo in seguito, è vero però che egli sostiene anche che le parole possono essere considerate come sintomi (semeia) delle passioni, ma lo dice nel senso che ogni emissione verbale può innanzitutto essere sintomo del fatto che l’emittente ha qualcosa in mente. Le passioni dell’anima sono invece sembianze o icone delle cose. Ma per la teoria aristotelica le cose si conoscono attraverso le passioni dell’anima, senza che vi sia una connessione diretta tra simboli e cose. Per indicare questa relazione simbolica Aristotele non impiega la parola semainein (che potrebbe quasi essere tradotta con significare),

ma in molte altre circostanze usa questo verbo per indicare la relazione tra parole e concetti. Aristotele sostiene (come anche Platone) che i termini isolati non asseriscono nulla circa ciò che è il caso, semplicemente significano un pensiero. Gli enunciati o le espressioni complesse invece significano chiaramente un pensiero, ma solo un tipo particolare di enunciati (un enunciato affermativo o una proposizione) asserisce uno stato di cose vero o falso. Aristotele non dice che le affermazioni significano ciò che è vero o falso, ma piuttosto che dicono (il verbo è legein) che una data cosa A appartiene (il verbo è yparkein) a una data cosa B. A partire dalle origini ci si confronta così con tre interrogativi che verranno ampiamente dibattuti nel corso di tutto il Medioevo: (i) se i segni in primo luogo significhino i concetti (e solo attraverso la mediazione dei concetti possano far riferimento alle cose), o se possano invece significare, designare o denotare le cose; (ii) quale sia la differenza tra far riferimento a una classe di individui o far riferimento a un individuo concreto; (iii) quale sia la differenza tra la correlazione segni-concetti-cose individuali, e la correlazione tra enunciaticontenuto proposizionale-stato di cose extralinguistico. Il punto (i) è stato dibattuto molto presto (per lo meno dai tempi di Anselmo d’Aosta) sotto la forma dell’opposizione tra significare e nominare o appellare; il punto (ii) è stato probabilmente posto per la prima volta da Pietro Ispano attraverso la distinzione tra suppositio naturalis e suppositio accidentalis, il punto (iii) è stato affrontato in vari modi a partire da Boezio in avanti ma, mentre tra i commentatori di Aristotele il dibattito sulla relazione di significazione procedeva indipendentemente da quello sulle asserzioni vere o false, per molti grammatici e per i teorici della suppositio i due temi interferivano ampiamente, fino al momento in cui, con Bacone e Ockham, divennero totalmente interscambiabili. Il destino di termini quali denotatio e designatio è invece collegato alla storia dell’opposizione significatio/nominatio. Sembra che per lungo tempo (per lo meno fino al XIV secolo) questi termini venissero impiegati a volte in senso intensionale, a volte in senso estensionale. Si trattava di termini presenti nel lessico latino a partire dal periodo classico, tutti con accezioni molteplici. Diciamo che significavano, tra le molte accezioni, “stare come segno di qualcosa” - senza che fosse rilevante se quel qualcosa era un concetto o una cosa. Nel caso di

designatio l’etimologia si mostra da sé, nel caso invece di denotatio bisogna tener presente che il termine nota indicava un segno, un token, un simbolo, qualcosa che rimandava a qualcosa d’altro (si veda anche Lyons 1968: 9). Secondo Maierù (1972: 394) il symbolon di Aristotele veniva infatti generalmente tradotto con nota: “nota vero est quae rem quamquam designat. Quo fit ut omne nomen nota sit” (Boezio, In Top. Cic., PL 64, 1111b). È importante dunque (i) accertare che cosa è accaduto al termine significatio; (ii) quando denotatio (insieme a designatio) compare connesso a significatio, e quando invece in opposizione a quest’ultimo. Per quanto riguarda denotatio interessa registrarne l’occorrenza in una delle tre seguenti accezioni: (i) senso intensionale forte (la denotazione è in relazione con il significato); (ii) senso estensionale forte (la denotazione è in relazione alle cose o allo stato di cose); (iii) senso debole (la denotazione rimane sospesa tra intensione ed estensione, con buone ragioni per propendere verso l’intensione). Vedremo come, per lo meno fino al XIV secolo, sarà il senso debole a predominare.

Boezio Nella tradizione medievale, a partire da Agostino fino al XIII secolo, la possibilità di far riferimento alle cose è sempre mediata dal significato. La significatio è il potere che una parola ha di suscitare un pensiero nella mente dell’ascoltatore e, attraverso essa, di conseguenza, si può realizzare un atto di riferimento alle cose. Per Agostino “signum est enim res praeter speciem, quam ingerit sensibus, aliud aliquid ex se faciens in cogitationem venire” (De doctrina christiana II, 1, 1), e la significazione è l’azione che compie un segno sulla mente. Boezio è l’erede di una tradizione classica che ha già introdotto il termine propositio per indicare le espressioni complesse che asseriscono la verità o la falsità di qualcosa. È ancora impossibile stabilire se per proposizione si intenda l’espressione o il contenuto corrispondente, ma è chiaro invece che la verità e la falsità sono connesse alle proposizioni e non ai termini isolati. Boezio afferma che i termini isolati significano il concetto corrispondente o l’universale, e considera significare - come pure, anche se più raramente, designare -

in senso intensionale. Le parole sono degli strumenti convenzionali che servono a rendere manifesti i pensieri (sensa o sententias) (in De int. I). Le parole non designano res subiectae ma passiones animae. Della cosa designata ai massimo si può dire che è sottesa al proprio concetto (significationi supposita o suppositum, si veda De Rijk 1967: 180181).2

L’‘appellatio’ di Anselmo Una distinzione più netta tra significato e riferimento è quella posta da Anselmo d’Aosta nel De Grammatico, attraverso la teoria dell’appellatio. Elaborando la teoria aristotelica dei paronimi, Anselmo avanza l’idea che quando chiamiamo una data persona come grammatico, stiamo usando questa parola paronimicamente. La parola significa sempre la qualità dell’essere un grammatico, ma viene impiegata per riferirsi a un uomo specifico. Per indicare il riferimento Anselmo impiega così il termine appellatio, e per indicare il significato usa significatio: “satis mihi probasti grammaticum non significare hominem... Ante dicebas grammaticum significare hominem scientem grammaticam... (sed)... sufficienter probatum est grammaticum non esse appellativum grammaticae sed hominis, nec esse significativum hominis sed grammaticae” (4.30 sgg.). Una distinzione di questo tipo tra significare e nominare è quella seguita anche da Abelardo.

Abelardo Sovente si è sottolineato che nell’opera di Abelardo non è possibile riscontrare una terminologia logica fissata una volta per tutte, dal momento che egli spesso usa gli stessi termini in senso ambiguo. Ciononostante, Abelardo è il primo autore in cui la distinzione tra aspetti intensionali ed estensionali della semantica è accuratamente posta (in sostanza, anche se non sempre dal punto di vista terminologico). È vero che egli parla indifferentemente di significatio de rebus e di significatio de intettectibus, ma è altrettanto vero che egli ritiene che il senso principale di significatio sia intensionale, seguendo

la tradizione di pensiero agostiniana, secondo cui significare vuol dire constituere o generare un concetto mentale. In Ingredientibus (ed. Geyer: 307) Abelardo afferma chiaramente che il piano dell’intelletto è la mediazione necessaria tra le cose e i concetti. Come dice Beonio-Brocchieri (1969: 37) la significatio intellectuum non è solo una significatio privilegiata, ma è la sola legittima funzione semantica di un nome, l’unica che un dialettico deve tener presente nell’esame del discorso. Se prendiamo in considerazione i diversi contesti in cui termini come significare, designare, denotare, nominare, appellare vengono confrontati l’uno con l’altro, possiamo sostenere che Abelardo utilizza significare per riferirsi all’intellectus generato nella mente dell’ascoltatore, nominare per indicare invece la funzione referenziale, e - per lo meno in alcune pagine della Dialectica, ma con una chiarezza indubitabile - designare e denotare per indicare la relazione tra una parola e la sua definizione o sententia (essendo la sententia il significato “enciclopedico” del termine la cui definizione rappresenta una particolare selezione dizionariale atta a disambiguare il significato del termine stesso).3 Ex hominis enim vocabulo tantum animal rationale mortale concipimus, non etiam Socratem intelligimus. Sed fortasse ex adiunctione signi quod est omnis, cum scilicet dicitur omnis homo, Socratem quoque in homine intelligimus secundum vocabuli nominationem, non secundum vocis intelligentiam. Neque enim homo in se proprietatem Socratis tenet, sed simplicem animalis rationalis mortalis naturam ex ipso concipimus; non itaque homo proprie Socratem demonstrat, sed nominat (Dialectica V, I, 6). Abelardo impiega dunque denotare con un senso intensionale forte. De Rijk (1970: liv) afferma che per Abelardo la designazione è la relazione semantica tra un termine e l’oggetto extra-linguistico (senso estensionale forte), e Nuchelmans (1973: 140) mette sullo stesso piano denotare e nominare. Vi sono in effetti molti passi in cui si incontra designare con un senso estensionale forte, che sembrerebbero dunque confortare questa lettura. Si veda ad esempio nella Dialectica (I, III, 2, 1), in cui Abelardo discute con coloro che sostengono che i termini sincategorematici non danno luogo a concetti, bensì sono solo

applicabili ad alcune res subiectae. In questo passaggio Abelardo parla dunque di una possibile designazione delle cose, e in particolare sembra utilizzare designare per indicare il primo atto di imposizione di un nome alle cose (come una sorta di battesimo in cui vi è un rigido legame di designazione tra chi nomina e la cosa nominata): si veda ad esempio nella Dialectica (I, III, 1, 3): “ad res designandas imposite”. Ma è anche vero che in altri passaggi (ad esempio Dialectica I, III, 3, 1) designare e denotare non sembrano avere lo stesso significato, mentre in certi casi (come Dialectica I, II, 3, 9 e I, III, 3, 1) designare suggerisce un’interpretazione intensionale. Ho già sottolineato come non solo la terminologia di Abelardo sia spesso contraddittoria, ma anche come designare e denotare fino a quel momento avessero uno status decisamente poco definito. Però vi sono due contesti (Dialectica I, III, 1, 1) dove la designazione è la relazione tra un nome e la definizione corrispondente, e dove la denotazione viene legata esplicitamente al senso (o sententia) di un’espressione. Opponendosi a coloro che sostenevano che le cose a cui è stata imposta la vox sono direttamente significate dalla vox stessa, Abelardo qui sottolinea che i nomi significano “ea sola quae in voce denotantur atque in sententia ipsius tenentur”, e quindi aggiunge: “manifestum est eos (= Garmundus) velle vocabula non omnia illa significare quae nominant, sed ea tantum quae definite designant, ut animal substantiam animatam sensibilem aut ut album albedinem, quae semper in ipsis denotantur”. Vale a dire che le parole non significano tutte le cose che sono in grado di nominare, ma solo ciò che designano attraverso una definizione, così come animale significa una sostanza animata sensibile, e questo è esattamente ciò che è denotato dalla (o nella) parola. È evidente come sia la designazione sia la denotazione mantengano decisamente un senso intensionale forte, e come vengano ricondotte alla relazione tra un’espressione e il suo contenuto definitorio corrispondente. La significazione non ha nulla a che vedere con il dare un nome alle cose, in quanto la prima continua a rimanere valida nominatis rebus destructis, in modo tale da rendere possibile la comprensione del significato di nulla rosa est (Ingredientibus, ed. Geyer: 309). Un altro aspetto importante della tipologia di Abelardo è quello che distingue tra due precise accezioni della significazione che ancora oggi

generano molte perplessità. Spade (1988: 188 sgg.) ha evidenziato che per gli scolastici la significatio non è il significato: “un termine significa ciò che riesce a far venire in mente a qualcuno” (e questo senza dubbio è il senso inteso da Agostino), così che in tal modo, “a differenza del significato, la significazione è una specie della relazione causale”. Il significato (che sia un correlato mentale, un contenuto semantico, un’intensione, o qualsiasi forma di entità noematica, ideale o culturale) nel Medioevo, così come nell’intera tradizione aristotelica, non viene dunque rappresentato dal termine significatio, ma da sententia o da definitio. È vero che nella tradizione medievale si può incontrare sia significare come “constituere intellectus”, sia come “significare speciem” (che sembra più vicino a una nozione non causale di significazione), ma questa distinzione sembra chiarirsi solo con Abelardo: una parola significat causalmente qualcosa per la mente, mentre la stessa parola viene correlata attraverso la designazione e/o la denotazione a un significato, vale a dire, a una sententia o a una definizione. Per sintetizzare la discussione fin qui esposta, possiamo dire che ciò che Abelardo teorizzava non era un triangolo semiotico, ma una sorta di tridente secondo cui una vox (i) significat intellectus, (ii) designat vel denotat sententiam vel definitionem, e (iii) nominat vel appellat res.

Tommaso d’Aquino Questo stesso orientamento è seguito da Tommaso d’Aquino, che rimane del tutto fedele alle posizioni di Aristotele. Nel commento a De Interpretatione, dopo aver distinto la prima operatio intellectus (percezione o simplex apprehensio) dalla seconda (“scilicet de enunciatione affirmativa et negativa”), egli definisce l’interpretatio come “vox significativa quae per se aliud significat, sive complexa sive incomplexa” (Proemium 3). Ma immediatamente dopo corregge la sua prospettiva, dicendo che i sostantivi e i verbi sono “principi” dell’interpretazione, decidendo di chiamare interpretazione esclusivamente l’oratio, cioè tutta la proposizione “in qua verum et falsum inveniuntur”.

A questo punto egli impiega dunque significare per i sostantivi e i verbi (I, ii, 14), e per quelle voci che significano naturalmente, come il lamento degli infermi e i suoni emessi dagli animali: “Non enim potest esse quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo significandi apparet: significat enim hoc nome homo naturam humanam in abstractione a singolaribus. Unde non potest esse quod significet immediate hominem singularem... Ideo necesse fuit Aristoteli dicere quod voces significant intellectus conceptiones immediate et eis mediantibus res” (I, ii, 15). In seguito afferma che il nome significa la sua definizione (I, ii, 20). È vero che Tommaso, anche quando parla di composizione e di divisione, e cioè di affermazione e di negazione, dice che la prima significat... coniunctionem e la seconda significat... rerum separationem (I, iii, 26), ma è evidente che anche in questo punto (in cui il linguaggio fa riferimento a ciò che è o non è il caso), quel che è significato è un’operazione dell’intelletto. È solo l’intelletto, le cui operazioni sono significate, che può essere definito vero o falso rispetto allo stato di cose effettivo: “intellectus dicitur verum secundum quod conformato rei” (I, iii, 28). Un’espressione non può essere né vera né falsa, è solo il segno che significat un’operazione vera o falsa dell’intelletto: “unde haec vox, homo est asinus, est vere vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa (I, iii, 31)... Nomina significant aliquid, scilicet quosdam conceptus simplices, licet rerum compositarum” (I, iii, 34). La significazione è così lontana dal riferimento che, quando in una proposizione si usa un verbo (per esempio in quest’uomo è bianco), questo verbo non significa uno stato di cose: al massimo è il segno (nel senso di sintomo) che qualcosa è il predicato di qualcos’altro e, infine, che in qualche modo viene indicato uno stato di cose (I, v, 60): “(Aristoteles) dixerat quod verbum non significat si est res vel non est... quia nullum verbum est significativum esse rei vel non esse” (I, v, 69). Il verbo est significa la compositio. “Oratio vero significat intellectum compositum” (I, vi, 75). Il termine denotare, considerato in tutte le sue forme, nel lessico tomistico ricorre invece 105 volte (a cui si aggiungono due casi di denotatio), ma sembra che Tommaso non l’abbia mai usato in senso estensionale forte, vale a dire che non ha mai utilizzato questo termine

per dire che una data proposizione denota uno stato di cose, o che un termine denota una cosa. La preposizione per “denotat causam instrumentalem” (IV Sent. 1.1.4). “Locutus est denotat eumdem esse actorem veteris et novi testamenti” (Super I ad Hebraeos 1.1; dove non ritengo che denotat debba essere inteso nel senso di “sta estensionalmente per”, ma piuttosto nel senso di “mostra”, “suggerisce”, “ci significa che”). Altrove Tommaso afferma che “praedicatio per causam potest... exponi per propositionem denotantem habitudinem causae” (I Sent. 30. 1.1). Oppure “Dicitur Christus sine additione, ad denotandum quod oleo invisibili unctus est” (Super Ev. Matthaei 1.4). In tutti questi casi e in quelli simili il termine denotatio è sempre usato nel senso più debole. A volte è impiegato in quanto “significa metaforicamente o simbolicamente che...”. Si veda ad esempio il commento In Job 10, dove si afferma che il leone sta per Giobbe (“in denotatione Job rugitus leonis”). L’unico passo ambiguo che ho incontrato è quello della III Sent. 7.3.2 dove si dice “Similiter est falsa: Filius Dei est praedestinatus, cum non ponatur aliquid respectu cujus possit antecessio denotari”. Ma alla luce di queste affermazioni si può sostenere che ciò che in questo caso Tommaso discute è l’operazione mentale che porta alla comprensione di una sequenza temporale.

La nascita dell’idea di supposizione Appare dunque evidente che autori quali Boezio, Abelardo o Tommaso d’Aquino, legati più al problema della significazione che a quello della nominazione, erano più che altro interessati agli aspetti psicologici e ontologici del linguaggio. Oggi diremmo che la loro semantica era orientata verso un approccio cognitivo. È però interessante sottolineare come alcuni studiosi contemporanei, interessati alla riscoperta delle prime elaborazioni medievali di una moderna semantica vero-condizionale, ritengano l’intera questione della significazione un problema molto imbarazzante, che altera la purezza dell’approccio estensionale, così come è stato apparentemente stabilito una volta per tutte dalla teoria della supposizione.4 Nella sua formulazione più matura, la supposizione è il ruolo che un termine, una volta inserito in una proposizione, assume in modo da

riferirsi al contesto extralinguistico. Ma il percorso che separa le prime vaghe nozioni di suppositum dalle teorie più elaborate, come quella di Ockham, è lungo e tortuoso, e la sua storia è raccontata in De Rijk 1967 e 1982. Sarebbe interessante seguire passo per passo il sorgere di un’idea differente della relazione tra un termine e la cosa a cui si riferisce, in cui la nozione di significazione (come la relazione tra parole e concetti, o specie, o universali, o definizioni) diviene sempre meno importante. Si veda, ad esempio, in De Rijk (1982: 161 sgg.) come i seguaci di Prisciano parlassero dei nomi come significanti una sostanza insieme a una qualità, dove la seconda rappresentava senza dubbio la natura universale della cosa, e la prima invece la cosa individuale: “troviamo così già a partire dal XII secolo supponere come equivalente di significare substantiam, e cioè significare la cosa individuale” (ib.: 164). È però anche vero che autori come Guglielmo di Conches insistono che i nomi non significano né la sostanza e la qualità, né l’esistenza effettiva, ma solo la natura universale (ib.: 168), e che durante tutto il XII secolo viene ancora mantenuta la distinzione tra significazione (di concetti e specie) e nominazione (denotazione di cose individuali concrete - si veda ad esempio l’Ars Meliduna). Allo stesso tempo, è comunque evidente come nel campo della logica e della grammatica l’approccio cognitivo venga superato da quello estensionale, e come “in fasi successive si sia posto al centro dell’interesse generale il significato effettivo di un termine, e dunque il riferimento e la denotazione siano divenuti ben più importanti della nozione troppo astratta di significazione. Ciò che in primo luogo un termine significa è l’oggetto concreto a cui può essere correttamente applicato” (De Rijk 1982: 167). Ciononostante, questa nuova prospettiva non viene frequentemente espressa attraverso termini quali denotatio, che continuano a indicare un dominio di senso piuttosto indeterminato.5 Pietro Ispano utilizza ad esempio denotari per lo meno in un passo (Tractatus VII, 68), dove afferma che nell’espressione “sedentem possibile est ambulare” ciò che è denotato non è la concomitanza tra sedersi e camminare, bensì quella tra essere seduti e aver la possibilità (potentia) di camminare. Ancora una volta è difficile stabilire se denotare abbia una funzione intensionale o estensionale. Inoltre Pietro considera significare in un senso molto ampio, dal momento che (Tractatus VI, 2) “significatio

termini, prout hic sumitur, est rei per vocem secundum placitum representatio”, e non è possibile determinare se questa res vada considerata come un individuale o un universale (De Rijk 1982: 169). D’altro canto Pietro introduce una vera e propria teoria estensionale solo elaborando una nozione di suppositio in quanto distinta dalla significazione (si veda anche Ponzio, 1983, 134-135, con un riferimento interessante a Peirce, CP 5.320): “Suppositio vero est acceptio termini substantivi pro aliquo. Differunt autem suppositio et significatio, quia significatio est per impositionem vocis ad rem significandam, suppositio vero est acceptio ipsius termini iam significantis rem pro aliquo... Quare significatio prior est suppositione” (Tractatus VI, 3). Nella teoria di Pietro vi è però una differenza tra stare estensionalmente per una classe, e stare estensionalmente per un individuo. Nel primo caso ci troviamo di fronte a una supposizione naturale, nel secondo a una supposizione accidentale (ib. 4). Seguendo questa stessa prospettiva, Pietro distingue tra suppositio e appellatio: “differt autem appellatio a suppositione et a significatione, quia appellatio est tantum de re existente, sed significatio et suppositio tam de re existente quam non existente” (ib. X, 1). De Rijk afferma (1982: 169) che “la supposizione naturale di Pietro è l’esatta controparte denotativa della significazione”. Certo si può sostenere che homo significa una determinata natura universale, e supponit tutti i (possibili) uomini esistenti o la classe degli uomini. Pietro però non dice che homo significa tutti gli uomini esistenti o che li denota, sebbene l’intera questione non cambi sostanzialmente. Non possiamo dunque che constatare come, fino a questo stadio della riflessione, il paesaggio terminologico che ci troviamo di fronte risulti piuttosto confuso, considerato che ciascuno dei tecnicismi che abbiamo trattato sino a ora ricopre per lo meno due domini differenti (a eccezione di denotazione e designazione che risultano ancora più indeterminati), come illustra lo schema seguente: L’intera questione si trasforma anche dal punto di vista terminologico con Guglielmo di Sherwood che “a differenza di Pietro e della maggioranza dei logici del XIII secolo... identifica il carattere significativo di un termine con il suo riferirsi esclusivamente alle cose effettivamente esistenti” (De Rijk 1982: 170-171).

Questa sarà la posizione di Ruggero Bacone, per il quale la significazione diviene denotativa nel moderno senso estensionale del termine - sebbene egli non usi mai un termine quale denotatio.

Bacone In De signis (ed. Fredborg et al. 1978, d’ora in avanti DS, e fondamentalmente confermata da altre opere del medesimo autore, quale Compendium studii teologiae) Bacone stabilisce una classificazione dei segni piuttosto complessa, che presenta diversi elementi di interesse semiotico. Questa classificazione è stata già discussa in Eco et al. (1989), dove si è dimostrato che Bacone utilizza significare, significatio e significatum in un senso radicalmente differente da quello tradizionale. In DS II, 2 egli afferma che “signum autem est illud quod oblatum sensui vel intellectui aliquid designat ipsi intellectui”. Una definizione di questo tipo potrebbe sembrare simile a quella di Agostino - a patto che si prenda il designat baconiano al posto del faciens in cogitationem venire agostiniano. Impiegando questa espressione Bacone è molto lontano dall’uso moderno, ma è coerente con la tradizione che lo precede in cui, come abbiamo constatato, designare significa qualcosa che ha a che vedere con il significato e non con il riferimento. Si può però osservare che per Agostino il segno produce qualcosa nella mente, mentre per Bacone un segno mostra qualcosa (probabilmente fuori della mente) alla mente.6 E infatti è senz’altro così: per Bacone i segni non si riferiscono al loro referente attraverso la mediazione di una specie mentale, bensì vengono direttamente indicati, o sono posti, per riferirsi immediatamente a un oggetto. Non fa alcuna differenza se questo oggetto sia un individuo (una cosa concreta) o una specie, un sentimento o una passione dell’anima. Ciò che conta è che tra un segno e l’oggetto che si trova a dover nominare, non vi è alcuna mediazione mentale. In altre parole, vedremo che Bacone usa significare in senso esclusivamente estensionale. Va però ricordato che Bacone distingue i segni naturali (sintomi fisici e icone) dai segni ordinata ab anima et ex intentione animae, vale a dire i segni emessi da un essere umano per un qualche proposito. Tra i

signa ordinata ab anima vi sono le parole e altri segni visivi di tipo convenzionale, quali il circulus vini che le taverne usano come emblema, e persino le merci esposte nelle vetrine, in quanto esse vogliono dire che altri membri della classe a cui appartengono sono in vendita all’interno del negozio. In tutti questi casi Bacone parla di impositio, e cioè di un atto convenzionale attraverso cui una data entità si trova a dover nominare qualcosa d’altro. È chiaro che per Bacone la convenzione non coincide con l’arbitrarietà: le merci esposte in una vetrina sono scelte convenzionalmente ma non arbitrariamente (agiscono come una sorta di metonimia, il membro per la classe). Anche il circulus vini è designato come segno in modo convenzionale ma non arbitrario, dal momento che in effetti indica i cerchi che tengono insieme le botti, e agisce così sineddoticamente e metonimicamente al tempo stesso, rappresentando una parte della botte che contiene il vino pronto per essere venduto. Ma in DS la maggior parte degli esempi sono tratti dal linguaggio orale, e perciò, se si vuole seguire la linea di pensiero di Bacone, è meglio non discostarsi da quello che è probabilmente l’esempio principale di un sistema di segni convenzionali e arbitrari. Bacone non è però così ingenuo da affermare che le parole significano esclusivamente le cose individuali e concrete. Egli afferma che esse nominano gli oggetti, ma tali oggetti possono anche avere uno spazio mentale. I segni possono infatti nominare anche delle non-entità, “non entia sicut infinitum, vacuum et chimaera, ipsum nichil sive pure non ens” (DS II, 2, 19; ma si veda anche II, 3, 27 e V, 162). Questo vuol dire che, anche quando le parole significano le specie, ciò accade perché esse indicano estensionalmente una classe di oggetti mentali. La relazione è sempre estensionale, e la correttezza del riferimento è garantita solo dalla presenza effettiva dell’oggetto significato. Una parola significa veramente se, e solo se, l’oggetto che significa è il caso. È vero che Bacone dice (DS I, 1) “non enim sequitur: ‘signum in actu est, ergo res significata est’, quia non entia possunt significari per voces sicut et entia”, ma questa posizione non può essere riportata a quella in cui Abelardo sostiene che anche un’espressione come nulla rosa est significa qualcosa. Nel caso di Abelardo, rosa significava in quanto il nome significava il concetto della cosa, anche se la cosa non esisteva o aveva cessato di esistere. La posizione di Bacone è differente: per quest’autore, quando

si dice c’è una rosa (quando una rosa esiste), il significato della parola è dato dalla rosa effettiva, concreta. Se si compie la medesima affermazione quando non esiste alcuna rosa, allora la parola rosa non si riferisce alla rosa effettiva, ma all’immagine della rosa supposta che l’enunciatore ha in mente. Vi sono due diversi referenti, ed infatti lo stesso suono rosa è un’occorrenza di due differenti tipi lessicali. Questo passaggio è così importante che va ripercorso attentamente. Bacone afferma che “vox significativa ad placitum potest imponi... omnibus rebus extra animam et in anima”, e ammette che si possono nominare per convenzione sia entità mentali sia non-enti, ma insiste sul fatto che non si può significare attraverso la stessa vox sia l’oggetto singolo che la specie. Se per nominare una specie (o qualsiasi altra affezione intellettuale) si intende usare la stessa parola già utilizzata per nominare la cosa corrispondente, si deve dar luogo a una seconda imposizione: “sed sic duplex impositio et duplex significatio, et aequivocatio, et haec omnia fieri possunt, quia voces sunt ad placitum nostrum imponendas” (DS, V, 162). Bacone intende così chiarire che quando si dice homo currit non si usa la parola homo nello stesso senso dell’espressione homo est animal. Nel primo caso il referente è un individuo, nel secondo è una specie. Vi sono quindi due modalità ambigue di impiegare la stessa espressione. Quando un avventore vede il cerchio che in una taverna pubblicizza il vino, se c’è del vino, il cerchio allora significa il vino effettivo. Se non c’è del vino, e l’avventore viene tratto in inganno da un segno che si riferisce a qualcosa che non è il caso, allora il referente del segno è l’idea o l’immagine del vino che ha preso (erroneamente) forma nella mente dell’avventore. Per coloro che sanno che non c’è vino, il cerchio ha perso la sua significatività, nello stesso senso in cui, quando impieghiamo le medesime parole per riferirci a cose passate o future, non le impieghiamo nello stesso senso di quando indichiamo delle cose effettive e presenti. Quando parliamo di Socrate, riferendoci quindi a qualcuno che è morto, ed esprimiamo le nostre opinioni su di lui, in realtà stiamo utilizzando l’espressione Socrate in senso nuovo. La parola “recipit aliam significationem per transsumptionem”, ed è usata in modo ambiguo rispetto al senso che aveva quando Socrate era vivo (DS IV, 2,147). “Corupta re cui facta est impositio, non remanebit vox significativa” (DS IV, R, 147). Il termine linguistico rimane, ma (come

dice Bacone all’inizio di DS 1,1) rimane solo come sostanza privata della ratio o di quella correlazione semantica che fa, di un’occorrenza materiale, una parola. Allo stesso modo, quando muore un figlio ciò che rimane del padre è la substantia, ma non la relatio paternitatis (DS I, 1, 38). Quando parliamo di cose singole “certum est inquirenti quod facta impositione soli rei extra animam, impossibile est (quod) vox significet spe ciem rei tamquam signum datum ab anima et significativum ad placitum, quia vox significativa ad placitum non significat nisi per impositionem et institutione”, mentre la relazione tra la specie mentale e la cosa (come sapeva anche la tradizione aristotelica) è psicologica e non direttamente semiotica. Bacone non nega che le specie possano essere segni delle cose, ma lo sono in modo iconico: sono segni naturali, e non segni ordinata ab anima. In questo modo “concessum est vocem soli rei imponi et non speciei” (DS V, 163). Come abbiamo già evidenziato, quando si decide di usare lo stesso termine per nominare le specie, ci troviamo di fronte a una seconda impositio. Bacone scardina dunque in modo definitivo il triangolo semiotico formulato a partire da Platone, secondo cui la relazione tra parole e referenti è mediata dall’idea, dal concetto o dalla definizione. A questo punto il lato sinistro del triangolo (e cioè la relazione tra parole e significati) si riduce a un fenomeno esclusivamente sintomatico. In altra sede (cfr. Eco et al. 1989) abbiamo già discusso di come Bacone non si fidasse della traduzione di Boezio di De interpretatione l6a, dove sia symbolon sia semeion venivano tradotti con nota. Bacone consulta il testo originale e comprende che le parole sono prima di tutto in relazione esclusivamente sintomatica con le passioni dell’anima. In questo modo egli interpreta (DS V, 166) il passo di Aristotele secondo la propria ottica: le parole sono sostanzialmente in relazione sintomatica con le specie, e al massimo possono significare le specie stesse solo in modo vicario (secunda impositio), mentre l’unica vera relazione di significazione è quella tra le parole e i referenti. Egli tralascia il fatto che per Aristotele le parole erano, per così dire, sintomi delle specie rispetto a una sequenza temporale, ma che in ogni caso significavano le specie, a tal punto che possiamo comprendere le cose nominate esclusivamente attraverso la mediazione delle specie già conosciute.

Per Aristotele, e in generale per la tradizione medievale che ha preceduto Bacone, l’estensione era una funzione dell’intensione, e per accertare se qualcosa è il caso si doveva innanzitutto comprendere il significato della frase enunciata. Per Bacone invece il solo significato della frase enunciata è il fatto che il referente è il caso. Ciò che maggiormente interessa Bacone è l’aspetto estensionale dell’intera questione, e questo è il motivo per cui nel suo trattato la relazione tra le parole e ciò che è il caso assume una collocazione centrale, mentre la relazione tra le parole e il loro significato diviene al massimo una sottospecie della relazione referenziale. Si può così comprendere perché nel quadro della sua terminologia significatio sia sottoposto a una trasformazione radicale del senso che fino ad allora aveva mantenuto. Prima di Bacone nominantur singularia sed universalia significantur; con e dopo Bacone significantur singularia, o per lo meno significantur res (sebbene una res possa essere anche una classe, un sentimento, una specie).

Duns Scoto e i Modisti Duns Scoto e i Modisti rappresentano invece una sorta di frangia decisamente ambigua tra la posizione estensionale e quella intensionale, che probabilmente necessiterebbe di ricerche ulteriori. Nei Modisti incontriamo una dialettica tormentata tra modi significandi e modi essendi. Lambertini (in Eco et al. 1989) ha dimostrato come questo punto sia piuttosto ambiguo non solo nei testi originali, ma anche nel quadro delle interpretazioni contemporanee. Anche nelle opere di Duns Scoto si incontrano affermazioni contrastanti. A sostegno della prospettiva estensionale si veda: “verbum autem exterius est signum rei et non intellectionis” (Ordinatio I, 27, 1). A sostegno di quella intensionale si veda invece: “significare est alicuius intellectum constituere” (Quaestiones in Perihermeneias II, 541a). Ma vi sono passi che sembrano sostenere anche un’interpretazione di compromesso, quale il seguente: “facta transmutatione in re, secundum quod existit non fit transmutatione in significatione vocis, cuius causa ponitur, quia res non significatur ut existit sed ut intelligitur per ipsam speciem intelligibilem. Concedendum quod destructo signato destruitur signum, sed licet res

destruitur ut existit non tamen res ut intelligatur nec ut est signata destruitur” (Quaest in periherm. III, 545 sgg.). Vi sono così autori che collocano Scoto tra gli estensionalisti (si veda Nuchelmans 1973: 196, per cui secondo Duns Scoto il suono significa una cosa e non un concetto - con riferimento al commento sulle Sentenze, Opus Oxoniense I, 27, 3, 19), altri, come Heidegger (1916, nella prima parte più affidabile del testo, dedicata al vero Scoto e non a Tommaso da Erfurt), per il quale Scoto è molto vicino a una prospettiva fenomenologica del significato come oggetto mentale.7

Ockham Si è molto discusso sul fatto che la teoria estensionalista di Ockham sia o non sia davvero così esplicita e diretta come a prima vista sembrerebbe. Se infatti consideriamo le quattro accezioni di significare proposte da Ockham (Summa I, 33), solo la prima presenta un chiaro senso estensionale. Solo in questa prima accezione i termini in effetti perdono la loro capacità di significare quando l’oggetto per cui stanno non esiste. Ciononostante, non si può essere del tutto sicuri che Ockham abbia impiegato significare e denotari (sempre in forma passiva) esclusivamente in senso estensionale (si veda per significare Boehner 1958, per denotari Marmo 1984), ma senza dubbio in molti passi egli ha usato i due termini con questa accezione. Ciò che accade con Ockham - e che era accaduto con Bacone - è il rovesciamento definitivo del triangolo semiotico. Le parole non sono prima di tutto connesse ai concetti e quindi, grazie alla mediazione intellettuale, alle cose: esse sono imposte direttamente sulle cose e sugli stati di cose; allo stesso modo, anche i concetti si riferiscono direttamente alle cose. Giunti a questo stadio, il triangolo semiotico assume così la forma seguente: vi è una relazione diretta tra concetti e cose, dal momento che i concetti sono i segni naturali che significano le cose, e vi è una relazione diretta tra le parole e quelle cose a cui impongono un nome, mentre la relazione tra parole e concetti è del tutto negletta (cfr. Tabarroni in Eco et al. 1989; cfr. anche Boehner 1958: 221). Ockham conosce l’affermazione di Boezio secondo cui le voci significano i concetti, ma sostiene che ciò deve essere inteso nel senso

che “voces sunt signa secundario significantia illa quae per passiones animae primario importantur”, dove è chiaro che illa sono le cose, non i concetti. Le parole significano le medesime cose significate dai concetti, ma non significano i concetti (Summa logicae I, 1). C’è poi un testo piuttosto sconcertante in cui Ockham dice che la specie può esser solo un segno che ci permette di ricordare qualcosa che abbiamo già conosciuto come entità individuale (Quaest. in II Sent. Reportatio, 1213; si veda anche Tabarroni in Eco et al. 1989): “Item repraesentatum debet esse prius cognitum; aliter repraesentans nunquam duceret in cognitionem repraesentati tamquam in simile. Exemplum: statua Herculis nunquam duceret me in cognitionem Herculis nisi prius vidissem Herculem; nec aliter possem scire utrum statua sit sibi similis aut non. Sed secundum ponentes speciem, species est aliquid praevium omni actui intelligendi objectum, igitur non potest poni propter repraesentationem objecti”. Questo testo assume come questione su cui vi è accordo generale il fatto che non siamo in grado, a partire da un’icona, di immaginare qualcosa che fino a quel momento ci era sconosciuto. Ciò sembrerebbe contraddire la nostra esperienza, dal momento che le persone usano dipinti o disegni per raffigurarsi le caratteristiche di persone, animali o cose precedentemente sconosciute. Questa posizione potrebbe essere interpretata in termini di storia culturale come esempio di relativismo estetico: sebbene sia vissuto nel XIV secolo, Ockham conosceva soprattutto l’iconografia romanica o del primo gotico, in cui le statue non riproducevano gli individui in modo realistico, ma rappresentavano tipi universali. Di fronte al portale di Moissac o di Chartres è sicuramente possibile riconoscere il Santo, il Profeta, l’Essere Umano, ma non certo l’individuo X o Y. Ockham non era mai entrato in contatto con il realismo delle sculture latine e con la ritrattistica dei secoli successivi. Ma vi è comunque una spiegazione epistemologica a giustificazione di un’affermazione così imbarazzante. Se l’unico segno delle cose individuali è il concetto, e l’espressione materiale (che sia una parola o un’immagine) è solo un sintomo dell’immagine interna, allora senza una notitia intuitiva preliminare di un oggetto, l’espressione materiale non può significare alcunché. Le parole o le immagini né creano, né fanno nascere qualcosa nella mente del destinatario (come poteva accadere nella semiotica agostiniana), se in quella mente non esiste già

l’unico segno possibile della realtà esperita, vale a dire, il segno mentale. Senza tale segno, l’espressione esterna finisce per essere il sintomo di un pensiero vuoto. La sovversione del triangolo semiotico, che per Bacone era stata l’approdo finale di un dibattito maturato a lungo, per Ockham è un punto di partenza imprescindibile. Vi sono dimostrazioni persuasive del fatto che Ockham abbia usato significare anche in senso intensionale (Boehner 1958 e Marmo 1984, con una discussione di tutti quei casi in cui le proposizioni mantengono comunque il loro significato indipendentemente dal fatto che siano vere o false). Ma in questa sede non ho intenzione di discutere la semiotica di Ockham, bensì la sua terminologia semiotica. È evidente che egli ha utilizzato supponere in senso estensionale, dal momento che vi è suppositio “quando terminus stat in propositione pro aliquo” (Summa I, 62). È però altrettanto evidente che Ockham in più occasioni mette sullo stesso piano significare (nella prima accezione del termine) e supponere: “aliquid significare, vel supponere vel stare pro aliquo” (ib.: I, 4). (Si veda anche Pinborg 1972: 5.) Ma è nel contesto della discussione sulle proposizioni e le supposizioni che Ockham impiega l’espressione denotari. Si consideri ad esempio: “terminus supponit pro illo, de quo vel de pronomine demonstrare ipsum, per propositionem denotatur praedicatum praedicari, si suppones sit subjectum” (ib.: I, 72). Se il termine è il soggetto di una proposizione, allora la cosa di cui il termine mantiene la suppositio è quella di cui la proposizione denota che il predicato viene predicato. In homo est albus entrambi i termini suppongono la stessa cosa, e dall’intera proposizione viene denotato che è il caso che la stessa cosa è sia uomo, sia bianco: “denotatur in tali propositione, quod illud, pro quo subiectum supponit, sit illud, pro quo praedicatum supponi” (Exp. in Porph. I, 72). Attraverso la proposizione un significatum è denotato e questo significatum è uno stato di cose: “veritas et falsitas sunt quaedam praedicabilia de propositione importantia, quod est ita vel non est ita a parte significati, sicut denotatur per propositionem, quae est signum” (Expositio in Periherm., proem.). Allo stesso modo, denotari viene impiegato per indicare ciò di cui si dimostra l’esistenza attraverso la conclusione di un sillogismo: “propter quam ita est a parte rei sicut denotatur esse per conclusionem demonstrationis” (Summa III, ii, 23; si veda anche Moody 1935: 6, 3). “Sicut per istam Homo est animal

denotatur quod Sortes vere est animal. Per istam autem homo est nomen denotatur quod haec vox homo est nomen... Similiter per istam album est animal, denotatur quod illa res, quae est alba, sit animal, ita quod haec sit vera: Hoc est animal, demonstrando illam rem, quae est alba et propter hoc pro illa re subjectum supponit... Nam per istam: Sortes est albus denotatur, quod Sortes est illa res, quae habet albedinem, et ideo praedicatum supponit pro ista re, quae habet albedinem... Et ideo si in ista Hic est angelus, subjectum et praedicatum supponunt pro eodem, propositio est vera. Et ideo non denotatur, quod hic habeat angelitatem... sed denotatur, quod hic si vere angelus... Similiter etiam per tales propositiones: Sortes est homo, Sortes est animal... denotatur quod Sortes vere est homo et vere est animal... Denotatur quod est aliqua res, pro qua stat vel supponit hoc praedicatum homo et hoc praedicatum animal” (Summa, II, 2).8 L’uso ripetuto della forma passiva suggerisce che una proposizione non denota uno stato di cose: piuttosto che attraverso una proposizione uno stato di cose è denotato. È così discutibile se la denotatio sia una relazione tra una proposizione e ciò che è il caso, o tra una proposizione è ciò che si comprende essere il caso (si veda Marmo 1984). Attraverso una proposizione qualcosa è denotato, anche se questo qualcosa non suppone nulla (Summa I, 72). In ogni modo, considerando che (i) la supposizione è una categoria estensionale e che la parola denotazione compare così spesso congiunta alla menzione della supposizione, e che (ii) probabilmente la proposizione non denota necessariamente il suo valore di verità, ma per lo meno denota a qualcuno che qualcosa è o non è il caso,9 si è portati a supporre che l’esempio di Ockham abbia incoraggiato alcuni a usare il termine denotatio in contesti estensionali. Grazie allo spostamento radicale compiuto da significare tra Bacone e Ockham, a questo punto il termine denotare è pronto per essere considerato estensionalmente. È curioso rilevare che, se consideriamo Bacone e Ockham, tale rivoluzione terminologica abbia investito in primo luogo il termine significatio (coinvolgendo denotatio quasi esclusivamente di riflesso). Ma fin dai tempi di Boezio il termine significatio era così legato al significato che, per così dire, riuscì a difendersi più coraggiosamente dagli attacchi mossi dalla prospettiva estensionalista, a tal punto che nei secoli seguenti si incontrerà significatio nuovamente impiegato in senso intensionale (si veda ad

esempio Locke). La semantica vero-condizionale ha invece avuto più successo nell’appropriarsi del termine dallo status sematico più ambiguo, e cioè denotatio. La tradizione cognitivista al contrario non ha seguito questa direzione, e ha utilizzato il termine denotazione in relazione al significato.10 Ciononostante, dopo Mill troviamo denotazione sempre più spesso impiegato per indicare l’estensione.

Hobbes e Mill Esiste qualche ragione per credere che Mill abbia mutuato da Ockham l’idea di impiegare denotatio come termine tecnico? Vi sono effettivamente diverse ragioni per pensare che Mill abbia elaborato System of Logic facendo riferimento alla tradizione occamista: (i) Sebbene abbia prestato un’attenzione notevole agli aspetti intensionali del linguaggio, Mill ha sviluppato una teoria della denotazione dei termini compiendo un’affermazione simile a quella espressa dalla teoria della supposizione di Ockham. Si veda ad esempio: “di un nome si può solo dire che sta per le, o è un nome delle, cose di cui può essere predicato” (1843 II, v). (ii) Mill mutua dagli scolastici (come dice egli stesso in II, v) il termine connotazione e, per distinguere tra termini connotativi e nonconnotativi, afferma che i secondi si definiscono termini “assoluti”. Gargani (1971: 95) riconduce questa terminologia alla distinzione occamistica tra termini connotativi e termini assoluti. (iii) Mill impiega significare seguendo la tradizione occamista, per lo meno rispetto al primo senso assegnatogli dal filosofo. “Un termine non connotativo è un termine che significa soltanto un soggetto o soltanto un attributo. Un termine connotativo è un termine che denota un soggetto o implica un attributo” (II, v). Dal momento che la funzione denotativa (nella prospettiva di Mill) è in primo luogo esercitata dai termini non-connotativi, risulta evidente che Mill fa equivalere significare a denotare. Si veda anche: “il nome... significa i soggetti direttamente, gli attributi indirettamente; esso denota i soggetti e implica, o comporta, o, come vedremo più avanti, connota gli attributi... I soli nomi di oggetti che non connotano nulla sono i nomi propri; e

questi, rigorosamente parlando, non hanno alcuna significazione” (ib. v). (iv) È probabile che Mill accetti denotare in quanto termine più tecnico e meno pregiudiziale di significare, a causa della sua opposizione etimologica con connotare. Ciononostante, abbiamo sostenuto che Ockham al massimo ha influenzato, ma non ha affatto incoraggiato l’uso estensionale di denotare. Nella storia dell’evoluzione naturale di questo termine, dove si può allora andare a cercare l’anello mancante? Probabilmente dovremmo rivolgerci al De corpore I di Hobbes, meglio conosciuto come Computatio sive logica. È generalmente riconosciuto che Hobbes abbia subito l’influenza determinante di Ockham, così come Mill quella di Hobbes. Mill apre infatti la sua discussione dei nomi propri con un esame ravvicinato delle opinioni di Hobbes. Però Hobbes segue effettivamente Ockham per quanto concerne le teorie degli universali e delle proposizioni, ma contemporaneamente sviluppa una differente teoria della significazione. Per Hobbes vi è infatti una distinzione netta tra significare (e cioè esprimere le opinioni del parlante nel corso di un atto di comunicazione), e nominare (nel senso classico di appellare o supponere - si veda Hungerland e Vick 1981). Mill comprende che per Hobbes i nomi sono innanzitutto nomi delle idee che abbiamo riguardo le cose, ma al tempo stesso trova in Hobbes la prova del fatto che “i nomi debbono sempre essere pronunciati... come i nomi delle cose in se stesse” (1843: II, i) e che “tutti i nomi sono nomi di qualcosa, reale o immaginaria... Un nome generale viene comunemente definito come un nome che può essere veritieramente affermato, nello stesso senso, di ciascuno di un indefinito numero di cose.” (ib.: II, iii). In questi passi Mill è vicino a Hobbes, con la differenza marginale che egli chiama generali quei nomi che Hobbes chiama invece universali. Ma Mill usa significare - come abbiamo constatato - non nel senso di Hobbes, bensì in quello di Ockham e, al posto della nozione di significare utilizzata da Hobbes, preferisce impiegare connotare. Essendo fortemente interessato alla connotazione, e senza rendersi conto che la sua idea di connotazione non è così lontana dalla significazione di Hobbes, Mill ritiene che Hobbes privilegi la nominazione (la denotazione di Mill), rispetto alla significazione (la

connotazione di Mill). Egli afferma che Hobbes, come in generale i nominalisti, “poneva poca o nessuna attenzione alla connotazione delle parole, e ne cercava il significato esclusivamente in ciò che esse denotano” (ib.: v). Questa lettura decisamente curiosa di Hobbes, quasi si trattasse di Bertrand Russell, è dovuta al fatto che Mill interpreta Hobbes come se fosse un seguace ortodosso di Ockham. Ma se Mill considera Hobbes un occamista, per quale ragione gli attribuisce l’idea che i nomi denotino? Mill sostiene che Hobbes impiega nominare invece di denotare (ib., v), ma doveva essersi reso conto che Hobbes (in De corpore I) utilizzava denotare in almeno quattro casi - cinque nella traduzione inglese che Mill probabilmente ha letto, dal momento che cita l’opera di Hobbes come Computation or logic. Per quanto riguarda la differenza tra nomi astratti e nomi concreti, Hobbes dice che “abstractum est quod in re supposita existentem nominis concreti causam denotat, ut esse corpus, esse mobile... et similia... Nomina autem abstracta causam nominis concreti denotant, non ipsam rem” (De corpore I, iii, 3). Va sottolineato che per Hobbes i nomi astratti denotano effettivamente una causa, ma questa causa non è un’entità: è il criterio che sorregge l’uso di un’espressione (si veda Gargani 1971: 86; Hungerland e Vick 1881: 21). Mill riformula così il testo di Hobbes: un nome concreto è un nome che sta per una cosa; un nome astratto è un nome che sta per un attributo di una cosa (1843: II, v) - dove stare per è lo stare pro aliquo di Ockham. Egli aggiunge inoltre che il suo uso di parole come concreto e astratto è da intendersi nel senso che vi hanno attribuito gli Scolastici. Probabilmente Mill estrapola dal passo di Hobbes che se i nomi astratti non denotano una cosa, questo è invece certamente il caso dei nomi concreti. Per Hobbes infatti “concretum est quod rei alicujus quae existere supponitur nomen est, ideoque quandoque suppositum, quandoque subjectum, graece ypokeimenon appellatur”, e due righe sopra scrive che nella proposizione corpus est mobile “quandoque rem ipsam cogitamus utroque nomine designatam” (De corpore, I, iii, 3). Designare appare così in un contesto in cui da una parte è unito al concetto di supposizione, e dall’altra a quello di denotazione. Dal momento che i nomi concreti possono essere propri sia delle cose singole, sia degli insiemi di individui, si può dire che, se esiste un concetto di denotazione maturato da Hobbes, esso è ancora a metà

strada tra la suppositio naturalis e la suppositio accidentalis di Pietro Ispano. Per questa ragione si è sottolineato (Hungerland e Vick 1981: 51 sgg.) che sicuramente denotare non aveva per Hobbes lo stesso senso che ha oggi acquisito nella filosofia del linguaggio contemporanea, in quanto non si applicava solo ai nomi propri logici, ma anche ai nomi delle classi e persino alle entità inesistenti. Ma Mill accetta proprio tale prospettiva, e per questo motivo può aver inteso denotare di Hobbes in modo estensionale. In De corpore (I, ii, 7) Hobbes afferma che “homo quemlibet e multis hominibus, philosophus quemlibet e multis philosophis denotat propter omnium similitudinem”. La denotazione concerne così nuovamente qualsiasi individuo che è parte di una moltitudine di individui singoli, fintantoché homo e philosophicus sono nomi concreti di una classe. In De corpore I, vi, 112, dice inoltre che le parole sono utili alle dimostrazioni condotte attraverso i sillogismi, in quanto grazie ad esse “unumquodque universale singularium rerum conceptus denotat infinitarum”. Le parole denotano le concezioni, ma solo quelle delle cose singole. Mill traduce questa posizione in senso chiaramente estensionale. Un nome generale viene comunemente definito come un nome che può essere veritieramente affermato, nello stesso senso, di ciascuno di un indefinito numero di cose. In De corpore (II, ii, 12) è scritto infine che il nome parabola può denotare sia un’allegoria, sia una figura geometrica, e non è chiaro se Hobbes qui intenda significat o nominat. Per concludere: (i) Hobbes usa almeno tre volte denotare in maniera da incoraggiare un’interpretazione estensionale, e in contesti che richiamano l’uso occamistico di significare e supponere. (ii) Sebbene Hobbes non impieghi denotare come termine tecnico, lo utilizza comunque regolarmente e in modo da precludere una sua interpretazione come sinonimo di significare, come hanno sottolineato in maniera più che persuasiva Hungerland e Vick (1981, 153). (iii) È verosimile che Hobbes abbia intrapreso questa direzione influenzato dall’alternativa ambigua fornita da denotari, incontrata sia in Ockham, sia in alcuni logici della tradizione nominalista. (iv) Mill non pone attenzione alla teoria della significazione di Hobbes, e legge Computatio sive logica come se appartenesse ad una linea di pensiero del tutto ispirata a Ockham.

(v) È verosimile che Mill, sotto l’influenza dell’uso di denotare proprio di Hobbes, abbia deciso di opporre la denotazione (invece della nominazione) alla connotazione. Queste ovviamente sono solo delle ipotesi. Raccontare l’intera storia di ciò che è veramente successo tra Ockham e Hobbes, e tra Hobbes e Mill, è qualcosa che va oltre le possibilità di una ricerca individuale. La mia speranza è che questo saggio incoraggi ulteriori ricerche sull’argomento, in grado di accertare se per caso tra Ockham e Mill vi siano stati altri latori della torcia della denotatio.

Conclusioni Nella storia di questi termini filosofici, c’è ovviamente in gioco qualcosa che mantiene una rilevanza semiotica e filosofica sostanziale. Maloney (1983: 145) ha osservato come vi sia una contraddizione curiosa, o per lo meno uno scarto tra l’epistemologia di Bacone e la sua semantica. Dal punto di vista della conoscenza, siamo in grado di conoscere una cosa attraverso la sua specie, e non siamo in grado di nominare una cosa se non la conosciamo; pertanto, quando emettiamo una vox significativa è perché abbiamo qualcosa in mente. Ma da un punto di vista semiotico accade il contrario, o per lo meno qualcosa di sostanzialmente differente: applichiamo direttamente la parola alla cosa, senza che vi sia alcuna mediazione dell’immagine mentale, del concetto, o della specie. Questo è il paradosso di ogni semantica interessata alla relazione tra un enunciato e le sue condizioni di verità. Certo che una semantica vero-funzionale non è interessata a provare che l’enunciato è vero ma a sapere che cosa accadrebbe se fosse vero. Tuttavia, a partire da Bacone arrivando fino a Tarski, più che considerare che cosa vuole dire “sapere che cosa accadrebbe se l’enunciato fosse vero” e domandarsi come accada che lo si sappia (problema che mette in gioco questioni cognitive) si finisce per puntare l’attenzione sulla relazione diretta tra l’enunciato e uno stato del mondo. Se al contrario ci si concentrasse su questo “sapere”, si dovrebbe dire attraverso quali operazioni mentali, o grazie a quali strutture semantiche, si è in grado di comprendere che cosa accadrebbe se p fosse il caso. Si dovrebbe così cercare la differenza tra sapere o credere che p è il caso e il fatto che p è il caso.

Ma se si studia esclusivamente la relazione formale tra le proposizioni e ciò che si assume (per il gusto della formalizzazione semantica) essere il caso, come e perché si “sappia” è dato come implicito (o, come si dice, “intuitivo”). La storia delle vicissitudini della denotazione (così come il fatto che il suo status rimanga ancora ambiguo), è così il sintomo della dialettica senza fine tra un approccio cognitivo e uno vero-condizionale.

APPENDICE 2 CROCE, L’INTUIZIONE E IL GUAZZABUGLIO

Con una densa nota di Giuseppe Galasso che ne fa la cronistoria e ne registra la immediata fortuna, Adelphi ripropone quest’opera1 che, pubblicata da Sandron nel 1902 (quando l’autore aveva trentaquattro anni), come il punto d’arrivo di un lavoro iniziato nel novembre 1898, veniva ristampata sempre da Sandron nel 1904 e, passata a Laterza nel 1908, arrivava alla nona edizione - ultima vivente l’autore - nel 1950. Per ben tre riedizioni l’autore aveva scritto tre nuove prefazioni (datate novembre 1907, settembre 1921 e gennaio 1941) che chiarivano come egli avesse via via apportato alcune correzioni (per la cui importanza si veda il recente Michele Maggi, La filosofia di Benedetto Croce, Firenze, Ponte alle Grazie, 1989), onde renderla più coerente con lo sviluppo del suo pensiero successivo (la Logica, la Filosofia della pratica, la Teoria e storia della storiografia, e naturalmente Breviario di estetica, Aesthetica in Nuce, Problemi di estetica, Nuovi saggi di estetica, La poesia.). Poiché l’autore non ha più variato l’edizione 1941 si deve presumere che la sentisse ancora attuale a metà secolo. Rileggendola oggi, vi troviamo sia alcune idee che sono entrate ormai nella coscienza comune, sia il regesto di numerose battaglie perdute in partenza. Tra quest’ultime non potrò affrontare l’insostenibile equazione tra estetica e linguistica generale, paradosso di tale portata da richiedere una trattazione a sé. Rinvio, e il fatto che sia datata 1965 non la rende meno attuale, all’ampia disamina critica di Tullio De Mauro nel quarto capitolo di Introduzione alla semantica (Bari, Laterza). Ciò che mi pare più urgente è prendere in esame la teoria crociana dell’intuizione, non solo perché su di essa il libro si apre ma perché con essa Croce pone in fondo la prima premessa del suo intero sistema. 1. Recita l’incipit dell’opera che la conoscenza ha due forme: o è conoscenza intuitiva o conoscenza logica; conoscere significa produrre o immagini o concetti. Ma, dopo aver passato in rassegna alcune vaghezze tradizionali sulla nozione di intuizione, Croce l’affronta in proprio non per via di definizione, bensì di esempio: è intuizione il

risultato di un’opera d’arte (p. 5). Il procedimento sarebbe scorretto se Croce intendesse dimostrare che cosa sia l’arte partendo da una nozione di intuizione; in effetti egli intende dimostrare che cosa sia un’intuizione partendo dall’esperienza che abbiamo dell’arte. Anche in questo caso, saremmo soltanto passati dall’esempio all’antonomasia, se non fosse che l’antonomasia cela di fatto una assoluta identità. Per Croce non è intuizione la pura sensazione (che pura non è, bensì materia informe, passività), neppure quando venga vista, kantianamente, come formata e organizzata nello spazio e nel tempo (noi abbiamo intuizione senza spazio e tempo, come quando reagiamo con un lamento immediato a un dolore, o a una pulsione sentimentale). Parrebbe tuttavia, all’inizio, che sia intuizione il risultato della percezione. È vero che l’intuizione crociana ha ambito più vasto, perché si hanno anche intuizioni di stati di cose “controfattuali” diremmo oggi - mentre il successo percettivo si gioca sull’adeguazione tra rappresentazione e realtà; ma l’autore suggerisce che potrebbe essere intuizione ciò che chiamiamo rappresentazione o immagine, specie se consideriamo che il fenomeno intuitivo si applica anche al non verbale e al non necessariamente verbalizzabile, come accade quando intuiamo una forma triangolare. Tuttavia l’intuitività della percezione entra subito in crisi quando Croce introduce (p.12) la categoria gemella che domina la sua estetica, e afferma che ogni vera intuizione e rappresentazione è anche, inscindibilmente, espressione, perché “lo spirito non intuisce se non facendo, formando, esprimendo”. Anche intuire una figura geometrica significa dunque averne l’immagine così chiara da poterla immediatamente tracciare su carta o lavagna. A questo punto Croce non ha ancora escluso le percezioni dal novero delle intuizioni, ma ci induce a sospettare che, se intuizioni sono, esse siano imperfettissime. Il pescatore incolto, che magari non sa neppure usare il sestante, è capacissimo di riapprodare anche durante una tempesta, perché “riconosce” ogni profilo costiero, ogni anfratto. E così avviene perché lavora su un patrimonio di percezioni, presenti e passate. Ma se gli si chiedesse di disegnare quei profili, non saprebbe farlo. Gli antropologi ci hanno fornito esempi di indigeni che conoscono ogni ansa del fiume su cui navigano ogni giorno, ma messi di fronte alla carta si trovano sperduti. D’altra parte è esperienza comune agli amanti quella di non riuscire a rappresentarsi, in assenza, i

tratti del volto della persona amata, peraltro “percepita” con pienezza di amorosi sensi quando era presente; e si corrucciano per questa forma di impotenza espressiva, mentre è pur sempre vividissimo il sentimento che accompagna questa rievocazione imperfetta (e ovviamente fulmineo il riconoscimento della persona cara non appena appare, anche a grande distanza, quasi se ne conoscessero a memoria le movenze più impercettibili). Se percepire e rappresentarsi fosse l’intuire che fa tutt’uno con l’esprimere in modo pieno, che cosa accadrebbe quando, conosciuta una persona a vent’anni, giovane, riccioluta e sbarbata, la rivedo a quaranta, calva o canuta, e con una barba grigia? La pienezza dell’intuizione d’oggi non essendo commensurabile alla pienezza dell’intuizione di ieri, non dovrei riconoscere alcunché. Eppure accade che dica “come sei cambiato, non sembri più tu!”. Il che significa che conoscere una persona significa pertinentizzarne alcuni tratti, come uno schema riassuntivo (non necessariamente morfologico, perché posso aver pertinentizzato un lampo dello sguardo, una piega all’angolo delle labbra) e custodire nella memoria un “tipo”, a cui confronto ogni “occorrenza” della persona, ogni qual volta la vedo. Il tipo della persona amata entra in crisi proprio perché cerco di stiparvi infiniti tratti pertinenti, voglio memorizzare troppo per ingordigia passionale. E Croce è il primo ad avvertire che “anche del nostro più intimo amico... non possediamo intuitivamente se non qualche tratto appena della fisionomia” (p. 15). Di fronte a questi problemi Croce decide (pp. 13-14) che “il mondo che intuiamo ordinariamente è poca cosa, si traduce in piccole espressioni, le quali si fanno via via maggiori e più ampie solo con la crescente concentrazione spirituale in alcuni particolari momenti. Sono... i giudizi che esprimiamo tacitamente: ‘ecco un uomo, ecco un cavallo, questo pesa, questo è aspro, questo mi piace, ecc. ecc.’, ed è un barbaglio di luce e di colori, che pittoricamente non potrebbe avere altra sincera e propria espressione se non in un guazzabuglio, e dal quale appena si sollevano pochi tratti distintivi particolari. Ciò, e non altro, possediamo nella nostra vita ordinaria, ed è base della nostra azione ordinaria”. “Guazzabuglio” mi pare termine molto efficace per indicare quel che avviene nella vita ordinaria, e me ne approprio. Che cosa si solleva al di sopra di questo guazzabuglio quotidiano? L’intuizione-espressione di

Raffaello che vede, fa e rifà sulla tela la Fornarina. L’intuizioneespressione è solo quella dell’arte, e dell’arte “buona”, perché Croce è disposto ad ascrivere alla pratica del guazzabuglio anche le incompiute espressioni di Manzoni, Proust, Mallarmé, e molti altri. Quindi la prima forma dello spirito, quella su cui debbono innestarsi e la luce del concetto, e l’azione etica, e l’economica, è quella della grande arte. Il resto, il nostro percepire il mondo, muoverci tra gli altri e nella natura, è territorio di guazzabuglio. 2. A questo punto ci attenderemmo che Croce definisca l’arte, ossia il momento in cui si dà intuizione-espressione allo stato puro. E in effetti nella “Conclusione” (p. 176) egli scrive: “avendo definito la natura della conoscenza intuitiva o espressiva ch’è l’atto estetico o artistico...”. Purtroppo questa affermazione è falsa: non appare in nessuna pagina dell’Estetica una definizione dell’arte che non sia quella di intuizione, e non appare nessuna definizione di intuizione che non rimandi alla definizione dell’arte. La ragione pare essere che “i limiti delle espressioni-intuizioni, che si dicono arte, verso quelle che volgarmente si dicono non arte, sono empirici: è impossibile definirli”. Croce prende per così dire l’esperienza dell’arte (il sicuro fulmineo riconoscimento di ciò che è arte) come un primitivo da cui si parte per conferire all’intuizione tutte le caratteristiche (indefinite) dell’arte. Né la questione cambia quando si passerà a formule come “intuizione lirica” (Breviario 1), poiché si scopre che “lirica” non è differenza specifica, ma sinonimo di “intuizione”. Per un devoto del Circolo, la circolarità dimostrativa è perfetta: la sola intuizione è quella artistica e l’arte è intuizione. Questo circolo definitorio ha forse deresponsabilizzato i primi lettori, assicurandoli che l’arte è esattamente quello che essi sentono come arte, mentre il resto sono arzigogoli da professori, di cui la seconda parte del libro, dedicata alla storia dell’estetica, fa giustizia sommaria. Se il giudizio pare duro, si vedano folgoranti tautologie come “ci sembra lecito e opportuno definire la bellezza espressione riuscita, o meglio, espressione senz’altro, perché l’espressione, quando non è riuscita, non è espressione” (p. 101); oppure vaghezze che non verrebbero perdonate a un esordiente, come quando a p. 90 l’autore, per distinguere le espressioni riuscite da quelle “sbagliate”, confronta due coppie di quadri, dei quali non ci vien detto nulla tranne che l’uno è

“privo d’ispirazione” e l’altro “bene ispirato”, l’uno “fortemente sentito” e l’altro “freddamente allegorico”, dove nessuno sa che cosa sia un quadro fortemente sentito. Non si può evitare di pensare che molti lettori di Croce siano stati estasiati di sentir eleggere a categorie critiche le deboli interiezioni che essi usavano nei circoli culturali dell’Italietta postumbertina. La fantomatica natura della forma estetica priva Croce di una duttile teoria del giudizio e dell’interpretazione. E feconda l’idea esposta nel quarto capitolo, che giudicare esteticamente sia mettersi dal punto di vista dell’artista e rifarne il processo “con l’aiuto del segno fisico da lui prodotto”. Genio e gusto sono dunque sostanzialmente identici. Ma che essi siano della stessa natura non significa necessariamente che ogni giudizio di gusto adegui l’opera nello stesso modo e secondo la stessa prospettiva. Croce non ignora il fenomeno empirico della varietà dei giudizi, dovuto al mutare delle condizioni culturali e della stessa natura fisica dell’opera. Ma ritiene che sempre, con un accurato sforzo filologico, si possano reintegrare le condizioni originarie e rifare il processo nell’unico modo giusto possibile. O c’è piena riproduzione di tutto quanto l’autore ha intuito, o il processo si blocca. Tertium non datur. Non avendo elaborato una teoria delle condizioni per cui una forma è tale, Croce non poteva essere attraversato dal sospetto che una forma potesse offrirsi a una pluralità di interpretazioni ciascuna delle quali la coglie intera da un punto di vista determinato (come avverrà nell’estetica di Pareyson). Persino le riflessioni del 1917 sul carattere di cosmicità dell’arte postulano l’opera riuscita come un Aleph borgesiano da cui si vede tutto il cosmo: ma tutto, o nulla. La teoria crociana della forma ignora la complicano cusaniana, come la ignora la sua storia dell’estetica. 3. Un pari disagio si ha quando Croce annuncia la spiegazione di che cosa sia, rispetto alla forma intuitiva, la conoscenza per concetti. Il suo modello di conoscenza pura è quello del lucido e compiuto concetto logico; per quello che pertiene alla conoscenza diretta ai fini pratici noi non abbiamo che i famigerati pseudo-concetti. Ma se si va a vedere bene che cosa siano gli pseudo-concetti per Croce ci si accorge che sono qualcosa di ben più importante di quanto non lo siano diventati per tanti crociani, i quali hanno semplicemente ritenuto che essi fossero elucubrazioni meccaniche di cui il filosofo farebbe bene a non

impicciarsi. Croce in linea di principio se ne impiccia, perché gli pseudo-concetti delle scienze sono fondamentali per dirigere la nostra azione pratica. Ci si rende conto, e con soddisfazione, che gli pseudoconcetti appartengono anch’essi al mondo del “guazzabuglio” dove si formano le nostre percezioni, e come queste procedono per tipizzazioni, profili incompleti della realtà, e sono pronti a essere gettati a mare così come ciascuno di noi fa della propria percezione di ieri (“confesso che quell’armadio mi pareva più grande di quel che è”). Il mondo del guazzabuglio è il territorio in cui viviamo, quello in cui procediamo per assaggi, prove ed errori, congetture, e vedendo un’ombra nel buio azzardiamo che sia un cane, e scoprendo che Marte passa per due punti che non possono appartenere a un cerchio, azzardiamo, come fece Keplero, che forse le orbite dei pianeti siano ellittiche. Croce comprende questo mondo con grande concretezza e senso del flusso della vita, e lo descrive con vivacità: ma dopo averlo individuato se ne disinteressa, come se la filosofia non dovesse compromettersi con la condizione umana tal quale è, ma occuparsi di un dover essere che si realizza in forme talmente pure da sfuggire a ogni tentativo di definirle. Eppure Croce chiede alla filosofia di provocare nel lettore l’esclamazione “questo sentivo anch’io!”, e “nessuna maggior soddisfazione pel filosofo che ritrovare i suoi filosofemi nei detti del buon senso” (Cultura e vita morale, 3ª ed., Bari, Laterza, 1955, p. 211). Sembra quasi che Croce sia tentato di vellicare il cattivo buon senso, quando spiega cosa sia l’intuizione pura parlando di un quadro “fortemente sentito”, e se ne distolga annoiato quando il buon senso si riconosce nella quotidianità del guazzabuglio. L’inseguimento della conoscenza concettuale pura provoca non pochi imbarazzi. Nel capitolo terzo si cerca di definirla come conoscenza di relazioni di cose, “mentre le cose sono intuizioni”, e le intuizioni sono “questo fiume, questo lago, questo rigagnolo” (e il concetto è “l’acqua”). Ma abbiamo appreso che questo lago è vera intuizione solo quando è dipinto da un grande pittore, mentre il lago che intuisco io è schema, abbozzo, etichetta. Se la conoscenza concettuale consiste nel porre relazioni tra abbozzi, siamo agli pseudo-concetti. E se è porre relazioni tra intuizioni piene, il puro concetto di acqua può nascere solo come relazione tra le varie intuizioni dell’acqua avute da Dante, Leonardo, Canaletto. A questo si potrebbe arrivare se, identificando fasi spirituali e fasi storiche, si prendesse in senso

cronologico la proposta vichiana di una lingua poetica come idioma originale dell’umanità: “senonché un periodo della storia dell’umanità tutto poetico, privo di astrazioni e ragionamenti, non è mai esistito, anzi non si può nemmeno concepire” (p. 293). Né Vico vi pensava, se non per metafora, visto che concepisce sì una lingua geroglifica più fantastica di quella simbolica e di quella “pistolare”, ma “come dallo stesso tempo cominciarono gli dèi, gli eroi e gli uomini (perch’eran pur uomini quelli che fantasticaron gli dèi...), così nello stesso tempo cominciarono tali tre lingue” (Scienza Nuova Seconda, 2.2.4). Con ben maggiore senso della concretezza e minor ossessione di distinzioni Croce, nella Logica del 1909, porrà come strettamente complementare al giudizio definitorio (che in questa Estetica appare ancora come unica manifestazione del pensiero logico, p. 55) il giudizio individuale “o percettivo”. Entrambi si presuppongono a vicenda, e dunque la percezione risulta intrisa di concetto: “percepire vale apprendere un dato fatto come avente tale o talaltra natura, e perciò vale pensarlo e giudicarlo. Neanche la più lieve impressione, il più piccolo fatto è da noi percepito se non in quanto pensato” (Logica, p. 109). Ma di converso anche ogni definizione universale apparirà come risposta a una domanda concreta, storicamente situata, a partire da “una oscurità che cerca luce” a tal punto che “la natura della domanda colora di sé la risposta”. Come sottrarre allora la stessa forma logica al generoso e vitale territorio del guazzabglio e all’alea della congettura? Ancora una volta Croce avverte il fascino del guazzabuglio, ma non si chiede per esempio quali siano le probabilità che hanno una percezione o una definizione di essere, se non vere, almeno accettabili anche se sin dall’Estetica riservava questa preoccupazione alla storia che, come conoscenza di un individuale non irreale, non fantastico, deve far uso di congetture, verisimiglianze, probabilità (p. 37). 4. Corrivo a transare sul guazzabuglio per quanto riguarda il conoscere per concetti, il Croce dell’Estetica pare deciso a non cedere sull’intuizione, che non si nutre mai di apporti concettuali, e al massimo li usa come soggetto di espressione artistica - ma in tal caso quelli “furono già concetti, ma sono diventati, ora, semplicemente, elementi d’intuizione” (p. 5). Questo spiega perché l’Estetica conduce una battaglia contro le precettistiche, senz’altro per necessità polemica rispetto alla tradizione

con cui si confrontava, ma alla fin fine gettando via il bambino con l’acqua sporca. Nel combattere i precetti, siano essi regole retoriche, classificazioni di genere letterario o una fenomenologia degli “stili”, Croce dimentica che, nel guazzabuglio della congetturalità, noi facciamo ampio uso di formule come “piglio militaresco” o “colorito malaticcio”, senza che queste formule esauriscano o riducano la percezione che abbiamo di un individuo nella sua irreducibile peculiarità. Dire “ho conosciuto ieri il nuovo viceparroco, mi aspettavo un tipo da seminarista e invece ha l’aspetto di un tennista” non vuol dire ingabbiare una nuova esperienza entro le maglie di un prototipo, anzi, vuol dire usare i prototipi per far risaltare la novità. Nello stesso modo parlar di romanzo storico o di metafora definisce nel primo caso lo sfondo d’attese (magari felicemente disattese) col quale avvicino un’opera, e nel secondo l’ennesima e originalissima variazione di uno schema tropico che s’incarna in modo diverso nel corso dei secoli. È certo “che ogni vera opera d’arte ha violato un genere prestabilito” (p. 48), ma il fatto stesso che Croce se ne renda conto ci dice quanto l’annuncio, il sospetto, l’attesa del genere abbia influenzato la sua sorpresa e il suo giudizio di gusto, e non si coglierebbe né ironia né riso ariostesco se il Furioso non avesse giocato proprio di contropiede sul genere cavalleresco. “Quanto male abbiano prodotto le distinzioni retoriche” (p. 89) lo sappiamo tutti, e forse nel 1902 si doveva ancora combattere la mala retorica insegnata in qualche seminario vescovile. Ma quanto male abbia fatto Croce a diffonderne il disprezzo (con un’abilità retorica e semplificazioni polemiche che hanno sedotto i suoi lettori) non si è forse ancora realizzato abbastanza. Si veda a p. 88 l’argomento contro la definizione della metafora come di un’altra parola messa in luogo della parola propria. Certo, la definizione è insufficiente, ma Croce non è affatto preoccupato del problema, che affanna ancor oggi menti non meschine, di dire cioè che cosa veramente accada non solo al linguaggio ma alle stesse strutture cognitive quando si usa un tropo. Semplicemente commenta: “perché darsi quest’incomodo, perché sostituire alla parola propria l’impropria e prendere la via più lunga e peggiore, quando è nota la più corta e migliore? Forse perché, come si suol dire volgarmente, la parola propria, in certi casi, non è tanto espressiva quanto la pretesa parola impropria o metafora? Ma se così è, la metafora è appunto, in quel caso, la parola ‘propria’; e quella che si

suol chiamare ‘propria’, se fosse adoperata in quel caso, sarebbe poco espressiva e perciò improprissima”. Ma “simili osservazioni di elementare buon senso” sono appunto elementari, e anziché rispondere alla domanda, la ripresentano come risposta. Comprendiamo tutti che quando Dante scrive conobbi il tremolar de la marina certamente usa l’espressione più felice, ma il problema è di spiegare che cosa ha fatto sobbalzare e il testo, e l’intero patrimonio di una lingua, quando la nuova espressione si è imposta come “proprissima” al posto di un’altra di cui peraltro non si cancella il senso. Questo almeno ci si attenderebbe da una estetica che si vuole, per sovrammercato, anche linguistica generale. Va detto a difesa di Croce che ogni sua estremizzazione polemica è poi sempre contemperata da molto buon senso. Ed ecco che, condannati i generi, ne ammette volentieri l’utilità pratica. Se simili “raggruppamenti” rimangono buoni come criterio per classificare i libri in biblioteca, saranno buoni anche per andarli a cercare e per leggerli in una certa disposizione d’animo; la stessa che permetterà a Croce di definire “tragico” nel Tasso “l’impeto e la gioia vitale che a un tratto si rovesciano nel dolore e nella morte o si redimono”. E d’altra parte i generi cacciati per la porta rientrano per la finestra quando Croce dovrà spiegare perché può avere esiti estetici un’opera architettonica, alla quale non si possono negare finalità pratiche: semplicemente l’artista farà “entrare come materia nella sua intuizione ed estrinsecazione estetica la destinazione appunto dell’oggetto che serve a uno scopo pratico. Egli non dovrà aggiunger nulla all’oggetto per renderlo strumento d’intuizioni estetiche: sarà tale se sarà perfettamente adatto al suo scopo pratico” (p. 129). Ottimamente detto: ma perché non applicarlo anche a chi si accinga a produrre un poema cavalleresco, una marina o un madrigale? Quanto alla retorica, Croce è il primo a vedere nelle sue classificazioni un modo d’individuare un’“aria di famiglia” (oh la bella espressione pre-wittgensteiniana!), somiglianze, appunto, che rivelano parentele d’anima tra artisti. Ed è fissando queste somiglianze di procedimento che si può conferire un minimo di legittimità alle traduzioni, “non in quanto riproduzioni (che sarebbe vano tentare) delle medesime espressioni originali, ma in quanto produzioni di espressioni somiglianti, o più o meno prossime a quelle” (pp. 93-94).

5. Più imbarazzante è invece il discorso che Croce inizia nel capitolo sesto dell’Estetica, dedicato all’attività teoretica e alla pratica, dove si enuncia l’incredibile proposizione che l’intuizione-espressione dell’arte si esaurisce nell’elaborazione interna, mentre la sua estrinsecazione tecnico-materiale, nel marmo, sulla tela, in suoni vocali emessi, è del tutto accessoria e inessenziale, soltanto finalizzata alla “conservazione e la riproduzione” dell’originario lampo interiore (p. 123). Ma come? Forse che non sta parlando lo stesso autore che cento pagine prima aveva detto che “si ode spesso taluni asserire di avere in mente molti e importanti pensieri, ma di non riuscire a esprimerli”, mentre “se li avessero davvero, li avrebbero coniati in tante belle parole sonanti” (p. 13)? Certo, Croce può dirci che il concretare in suoni quei pensieri è solo una necessità empirica, una trovata stenografica, diciamo a futura memoria, per avvertire lui, o altro giudice, che quei pensieri c’erano davvero. Ma che dire del gran tenore che una sera, avuta la perfetta intuizione interna di uno splendido acuto, è stato fischiato dal loggione solo perché, a fini d’archivio, ha cercato di estrinsecarla, e le corde vocali l’hanno tradito? Che ha l’abito dell’arte e man che trema? Questo è vecchiume medievale. Il fatto è che quello che Croce dice non corrisponde a quello che sappiamo della pratica di altri artisti, che hanno fatto schizzi su schizzi alla ricerca della immagine definitiva, o si sono affannati con squadra e compasso per realizzare un punto di fuga perfetto. Ma su questo punto Croce ha purtroppo adamantine certezze, che paiono nascere da scarsissima dimestichezza con le arti, e non solo nel senso di non averne mai praticata una lui, ma anche nel senso che deve essere sempre stato disinteressato a quel che gli artisti facevano. Croce ritiene superficiale l’osservazione che “l’artista crea le sue espressioni dipingendo o scolpendo, scrivendo o componendo”, perché l’artista “in realtà, non dà mai pennellata senza prima averla vista con la fantasia” (p. 130). Ma se la parola “realtà” ha un senso nel sistema crociano, in realtà tutti gli artisti non si stancano di raccontarci di quanto la consistenza del materiale abbia eccitato la loro fantasia, e come talora il poeta solo rileggendo ad alta voce i suoi abbozzi trova nella risposta aurale l’indizio che lo porta a mutare il ritmo e ricercare la parola giusta. Ma Croce (in La poesia) afferma che i poeti tanto aborrono l’estrinsecazione empirica delle loro intuizioni interne che non recitano volentieri i loro versi, il che mi pare statisticamente falso.

Nel Breviario si dimostra l’inessenzialità della tecnica citando il caso di pittori grandissimi che usano colori che si alterano, ma in tal modo si confondono tecnica artistica e scienza dei materiali. Nell’Estetica c’è una bella pagina (p. 150) che descrive il travaglio di un poeta che “cerca l’espressione di un’impressione che sente e presente” e tenta parole e frasi, ma poche pagine prima (p. 130) si era detto che l’artista, la cui espressione è ancora informe, dà la pennellata non per estrinsecare ma per avere “un punto d’appoggio”, un “mezzo pedagogico”. Quello che Croce chiama punto d’appoggio è come il guazzabuglio della nostra percezione quotidiana: è tutto. Ma ecco che quello che il buon senso riconosce come tutto, per la filosofia diventa nulla, col piccolo inconveniente che il tutto residuo si fa impalpabile. Credo si possa tranquillamente ammettere che in queste pagine Benedetto Croce afferma l’esatto contrario del vero, se il vero è ciò su cui il buon senso concorda alla luce di mille esperienze registrate e confesse. Non conosco abbastanza la sua opera omnia per sapere se egli avesse mai meditato il sonetto in cui Michelangelo ci ricorda che non ha l’ottimo artista alcun concetto /che un marmo solo in sé non circoscriva / col suo soverchio, e solo à quell’artista / la mano che ubbidisce all’intelletto. Se l’aveva letto, l’aveva scordato, e per partito preso. Perché qui Michelangelo ci dice che l’artista trova la sua intuizione espressione dialogando con la materia, le sue venature, le sue linee di tendenza, le sue possibilità. Anzi, Michelangelo fa di più, per amor d’iperbole: la statua è già nel marmo e l’artista non fa altro che togliere il di più che la nasconde. Ma ecco che Croce, quasi a polemizzare con Michelangelo, ci parla a p. 127 del “pezzo di marmo contenente il ‘Mosè’” e del “pezzo di legno colorato contenente la ‘Trasfigurazione’” (corsivi miei). La citazione non lascia adito a dubbi: quelle che noi riteniamo opere d’arte (sulla cui rovina, restauro, falsificazione o furto ci travagliamo) sono il mero contenitore delle sole, uniche, vere (e ormai inattingibili) opere che consistevano nelle intuizioni del tutto interiori dei loro autori. Altrove, parlando di come il giudizio di gusto rifà la genesi dell’intuizione originaria, Croce accennerà a questi reperti fisici come a semplice “segno”, strumento quasi didattico per permettere il processo di ricostruzione. Non avvertendo che, per un filosofo che disconosce l’esistenza sociale dei sistemi di segni, con le loro leggi e le loro unità definibili, e vede in ogni atto espressivo un unicum in cui la lingua

rinasce quasi per la prima volta, l’essere segno non dovrebbe essere cosa da poco, e il rapporto tra il segno e l’intuizione si dovrebbe intendere come meno accidentale ed esteriore. Croce ci dice che quel pezzo di marmo e quel pezzo di legno sono detti belli solo per metafora. Poi si rende conto che è davvero per metafora che chiamiamo bella la partitura che “contiene” il Don Giovanni, e riconosce che la prima metafora è più immediata della seconda. Ma per un autore che si è rifiutato di definire la metafora, la soluzione lascia a desiderare. Che cosa cela questa differenza di immediatezza metaforica? E che cosa è il Don Giovanni contenuto nella partitura? Un fatto sonoro (e dunque fisicamente estrinsecato ed estrinsecabile) o l’intuizione originaria che Mozart poteva anche rifiutarsi di eseguire? E perché lo si esegue ancora oggi, anziché limitarsi a evocarlo leggendo la partitura, così come Croce ritiene si debban leggere i drammi, invece di vederli estrinsecati sul palcoscenico? Pare evidente che qui Croce (trascinato dal suo disinteresse per tutto ciò che è “natura”, e dominato per ragioni di educazione umanistica dal modello verbocentrico per cui la bellezza viene sempre definita in riferimento alla poesia verbale) articola un complesso paralogismo di cui sarà utile seguire le fasi. (1) Anzitutto egli si rende conto che esistono espressioni volatili (nel senso in cui verba volant, e non si congelano a mezz’aria come piaceva a Rabelais) ed espressioni permanenti, come appunto le statue o i disegni. La differenza è così evidente che l’umanità ha elaborato dei mezzi per rendere permanenti le prime, dalla scrittura ai nastri magnetici, questi davvero supporti fisici per la registrazione di precedenti espressioni sonore. (2) Da questa giusta osservazione empirica trae la conclusione errata che le espressioni volatili non siano un fatto materiale, come se la scrittura o i nastri magnetici non registrassero suoni. L’esperienza verbale deve averlo fatto pensare a poeti che cantano tra sé e sé i loro versi, pensando al suono che essi potrebbero dare. Ma lo fanno perché hanno avuto esperienza dei suoni che potevano emettere, tanto che uno psicologo sperimentale (assai inviso a Croce) potrebbe provare che quando pensiamo a un acuto di Pavarotti i nostri organi fonatori, sia pure in misura impercettibile, mimano l’estrinsecazione a cui pensiamo. Se intuiamo, intuiamo estrinsecazioni, se pensiamo non pensiamo fuori

dal corpo ma attraverso il corpo. E Croce lo sa così bene da aver dedicato una pagina assai bella al fenomeno della sinestesia, dove ci dice che le parole non evocano solo pensieri ma anche sensazioni auditive, tattili o termiche. Se Dante fosse nato sordomuto non avrebbe potuto “intuire” la Commedia, e se Michelangelo fosse nato cieco non avrebbe potuto “intuire” il Mosè. (3) Ingannato dall’esperienza (empirica) dei discorsi puramente pensati (ma di cui abbiamo piena certezza solo quando siano stati “coniati in tante belle parole sonanti” - e si noti quanto è propria la metafora fisica del conio), Croce assolutizza questa possibilità e la estende anche alle arti della permanenza. Certo, è possibile immaginare uno scultore che, lontano dal laboratorio, vagheggia sin nei minimi particolari la statua che potrebbe produrre scalpellando. Ma può farlo perché ha già sudato sul marmo, perché ha scalpellato a bottega, può farlo nel senso in cui ciascuno può intuire che se inghiotte di colpo un pezzo di ghiaccio sentirà un dolore in mezzo alla fronte, perché ci si ricorda benissimo di averlo già avvertito in circostanze analoghe. Senza il ricordo delle nostre esperienze naturali precedenti non si intuisce nulla, e chi non ha mai odorato una verbena non può intuire un profumo di verbena, così come il cieco nato non potrà mai intuire che cosa sia un dolce colore d’oriental zaffiro. Rispetto a questi paradossi si comprende come le generazioni postcrociane siano state affascinate dalle teorie alternative, dico il richiamo di Pareyson alla funzione fondamentale della materia nella genesi dell’opera, di Anceschi alle poetiche, di Dorfles e Formaggio alle tecniche artistiche, di Morpurgo Tagliabue ai vetusti concetti di stile e di apparato retorico, di Galvano Della Volpe al momento “razionale” del procedere artistico; per non dire della lettura liberatoria di Arte come esperienza di Dewey, in cui si vedeva rivalutata la pienezza della naturalità fisica. Si trattava di ricollocare la filosofia delle “quattro parole” (secondo l’accusa gentiliana) in quel flusso della vita a cui al postutto Croce era così attento. Si trattava di rendere giustizia allo stesso Croce in cui è sempre stato costante “come uno iato, un dissidio segreto fra una ricchissima analisi di settori vastissimi dell’esperienza e della cultura umana, e il ‘sistema’... Là solidali con la discussione precisa di fatti di cultura, e di esperienza, si precisano ‘concetti’, se si vuole estremamente ‘impuri’ ma preziosi per intendere, ossia per connettere e chiarire, l’atteggiarsi molteplice dell’opera e della vicenda

umana. Qui si giustappongono poche idee astrattissime, il cui snodarsi medesimo è affermato piuttosto che dimostrato” (Eugenio Garin, Storia della filosofia italiana, Torino, Einaudi, 1966, II: 1315). 6. Ma forse è proprio la persistenza irrisolta di questo iato a spiegare l’influenza che l’opera di Croce ha avuto: dove il lettore coglieva le poche idee astrattissime, ma ne era attratto perché le intendeva come conclusione logica dell’analisi concreta, ammirevole per buon senso, limpidità e penetrazione. Il lettore ritrovava sia la propria imbarazzante esperienza del guazzabuglio, sia la propria nostalgia per una idea incontaminata del bello, del buono, del vero e dell’utile stesso - che tutte le metafisiche tanto aborrite da Croce avevano definito nella loro natura iperurania, spirituale, non compromessa con quella corporalità che è mero involucro, spoglia mortale, prigione dell’anima. E vedeva in Croce sia la conferma dell’inevitabile che la promessa del desiderabile, cogliendo come mediazione sistematica quello che era invece contraddizione irrisolta. Bene andava a questi lettori che gli si dicesse che, in fondo, arte era ciò che essi speravano che fosse, e non-arte ciò che essi - turbati e disturbati - si vedevano d’attorno. Che cosa fossero le forme pure non sapevano, ma capivano benissimo un giudizio di gusto come quello su Proust: “si sente che ciò che domina nell’anima dell’autore è l’erotismo sensuale e alquanto perverso, erotismo che è già tutto diffuso nella bramosia di rivivere le sensazioni di un tempo lontano. Ma questo stato d’animo non si chiarifica in motivo lirico e forma poetica, come invece accade, nelle sue cose buone, al meno complicato ma più geniale Maupassant” (Postille a La poesia). Croce dice dei Promessi sposi che “i critici si ostinano ancora ad analizzarlo e a discuterlo come un romanzo d’ispirazione e di fattura poetica” mentre “è da cima a fondo un romanzo d’esortazione morale, misurato e guidato con fermo occhio” (La poesia, vii). E - mi si scusi la malizia del raffronto, ma esistono pure delle somiglianze tra testi - quando nel 1937, un anno dopo La poesia, qualcuno dovrà giustificare una sua filistea parodia manzoniana, dopo aver espresso molte lodi per la buona fattura dei Promessi sposi (“ah, che L’uomo d’ingegno!”), addurrà come alibi per il sacrilegio: “La verità è questa: che nel Manzoni manca il poeta... V’è dunque un episodio, un carattere, un personaggio, che si siano impressi nel mio spirito con quella evidenza sempre più pura e sempre più luccicante che contrassegna le immortali creazioni dell’arte? Ebbene, se

voglio essere sincero, debbo rispondere di no” (Guido Da Verona, I promessi sposi di Alessandro Manzoni e Guido Da Verona, Milano, Unitas, 1937, pp. viii-xiii). Viene da pensare non che Croce abbia formato un pubblico di crociani, ma che un pubblico già costituito, con i propri miti e le proprie vaghezze incrollabili sul bello e sul buono, lo abbia spinto a diventarne l’interprete. A questo pubblico (e anche per nostra fortuna) Croce è stato poi obbligato (in La poesia) ad aprire una terra di nessuno, e di tutti, dove guazzabuglio e purezza potessero convivere riconciliati: la letteratura. Qui Croce può collocare i prodotti di intrattenimento che in fondo ama, come quelli di Dumas e di Poe, e gli artisti che non ama, da Orazio a Manzoni. La letteratura non è forma spirituale, è parte della civiltà e della buona educazione, è regno della prosa e del civile conversare. Ed è la regione dove Croce scrive. Perché il lettore di Croce non avverte contraddizione irrisolta, e vede saldatura sistematica dove c’è sconnessione? Perché Croce è scrittore travolgente. Il ritmo, il dosaggio di sarcasmo e riconciliata riflessione, la perfezione tornita del periodo, rendono persuasiva qualunque cosa egli pensi e dica. Quando l’ha detta, l’ha detta talmente bene che, essendo così bella, è impossibile che non sia anche vera. Croce, grande maestro di oratoria e di stile, riesce a convincere dell’esistenza della Poesia (quale lui scarnificata e angelicata l’intende) attraverso un corposo, cortese, armonioso esempio di Letteratura.

NOTE AI CAPITOLI

1. SULL’ESSERE 1 Imbarazzato, Seneca (Ad Lucilium, 58, 5-6) tradurrà questo on come quod est 2 “Nominalismi vs Realism”, 1868 (WR 2: 145). Ma, per esempio, su posizioni analoghe anche Hartmann (Zur Grundlagung der Ontologie, Berlin, 1935): la formula aristotelica, in quanto parte dagli enti concreti ma vuole considerare ciò che è comune a tutti, esprime l’essere, e cioè ciò per cui l’ente è un ente. 3 Gilson 1984. Almeno nel linguaggio scolastico “l’esistenza è la condizione di ciò il cui essere si sviluppa a partire da una origine... Si è detto con ragione che se Dio è, non esiste”. Questo testo gilsoniano è ricco di riflessioni di lessicografia filosofica, che liberamente utilizzo anche nei paragrafi che seguono. 4 Su queste oscillazioni cfr. M.-D. Philippe 1975. Per esempio nel De ente et essentia abbiamo il quod quid erat esse, l’asse actu simpliciter, l’esse quid come esse substantiale, l’esse tantum divino, l’esse receptum per modum actus, l’esse come effetto della forma nella materia, l’esse in hoc intellectu, l’esse intelligibile in actu, l’esse abstractum, l’esse universale, l’esse commune... La permanenza di queste ambiguità la si ritrova discussa anche in Heidegger 1973, iv B. 5 “One, Two, and Three”, 1967, WR 2: 103. 6 Spero che un giorno questa espressione venga tradotta in tedesco; così, almeno in Italia, sarà presa filosoficamente sul serio. 7 “On a new list of categories”, 1867 (WR 2). 8 “Della realtà come pura realtà non si può dire né che è perché poteva essere, né che è perché non poteva non essere: ma unicamente che è perché è. Essa è del tutto gratuita e infondata: interamente appesa alla libertà, che non è un fondamento, ma un abisso, ossia un fondamento che si nega sempre come fondamento” (Pareyson 1989: 12). 9 In Che cos’è la metafisica? Heidegger ci ricorda che è diverso cogliere la totalità dell’ente in sé e il sentirsi in mezzo all’ente nella sua totalità. La prima cosa è impossibile, la seconda ci accade costantemente. E come prova di questo accadere cita gli stati di noia

(che si applicano all’ente nella sua totalità), ma anche la gioia che si prova in presenza dell’essere amato. 10 II problema è: traggo la definizione dall’evidenza che mi dà la sensazione (e la susseguente astrazione dal fantasma) o è la preconoscenza della definizione che mi permette di astrarre l’essenza? Se l’intelletto attivo non è un repositorio di forme precedenti ma il puro meccanismo che mi permette di individuare forme in atto nel sinolo, che cosa è questa facoltà? Facile cadere nell’eresia araba e dire che è unico per tutti; anche in tal caso dire che sia unico non vuol dire che sia immutabile e universale; potrebbe essere un intelletto attivo culturale, potrebbe essere la facoltà di individuare e ritagliare le forme del contenuto. Nel qual caso il codice, fornito dalla segmentazione operata dall’intelletto attivo, determinerebbe la natura e l’esattezza del riferimento! In Poetica 1456b 7 (nota Aubenque) si dice: “Cosa avrebbe da fare il discorso se le cose apparissero già da sole e non avessero bisogno del discorso?”. Aubenque (1962: 116) cita una pagina degli Elenchi. Poiché non si possono portare nella discussione le cose stesse, ma dobbiamo servirci dei loro nomi come di simboli, noi supponiamo che ciò che avviene nei nomi avvenga anche nelle cose, come nel caso dei sassolini che si usano per contare. Ma tra nomi e cose non vi è completa rassomiglianza, i nomi sono in numero limitato, e così la pluralità delle definizioni, mentre le cose sono infinite in numero (e infiniti sono i loro accidenti). 11 Peirce (CP 2.37) lamenta che Andronico abbia posto le Categorie all’inizio dell’Organon, perché non si tratta di un libro di logica bensì di metafisica, in cui si elencano gli ingredienti della realtà. Forse anche Peirce è influenzato da centenarie letture neoplatoniche delle Categorie, ma subito dopo rileva che in quel trattato la metafisica è basata su categorie linguistiche. Altrove ripeterà che la prima cosa che colpisce il lettore delle Categorie è l’incapacità aristotelica di tracciare “ogni distinzione tra grammatica e metafisica, tra modi di significare e modi di essere” (CP 3.384). 12 Infatti Gianni Vattimo ribadisce che c’è una destra e una sinistra heideggeriana (nel senso in cui c’era una destra e una sinistra hegeliana). Per la destra si persegue un ritorno all’essere nella forma di una lettura apofatica, negativa e mistica; per la sinistra si tratta invece di dare una interpretazione quasi “storicistica” dell’indebolimento dell’essere, e quindi ritrovare la storia di un “lungo addio”, senza mai

tentare di rifarlo presente, “nemmeno come termine che sta sempre al di là di ogni formulazione” (1994: 18). 13 Per un esperimento mentale in questa direzione si veda il mio “Charles Sanders Personal. Modelli di interpretazione artificiale”, in Eco et al. 1986 (ora in Eco 1990). 14 Così come nutriamo l’aspirazione all’immortalità, e il desiderio di volare, aspiriamo sempre alla promessa che esista da qualche parte una zona di libertà assoluta. Ma è proprio la libertà che pone il Limite. Luigi Pareyson, negli ultimi anni della sua vita, parlava di una Ontologia della Libertà. Spostando l’accento sull’atto libero con cui ci si avvicina all’essere per parlarne, riconosceva che la vera lotta si stabilisce tra la libertà e il nulla. Pareyson ricuciva - ci pare - quella divaricazione che Heidegger aveva posto tra l’ente e l’essere. L’essere è ancora quello di Aristotele, di cui si parla in molti modi, e parlandone disegniamo di continuo i confini di ciò che è. Ma la lotta col nulla, e la vittoria sul nulla - il cui trionfo muto consisterebbe nella fine della parola - consiste nell’atto di coraggio attraverso il quale interroghiamo l’orizzonte in cui viviamo. Se vi è angoscia, è perché di fronte alla polivocità dell’essere avvertiamo l’angoscia della nostra libertà. Parlando, rischiamo di affermare come verità quello che altri domani chiameranno errore, di imporre o suggerire come il meglio quello che poi si rivelerà essere il male. Il limite nasce proprio da una condizione di assoluta libertà, e questo limite finisce per imporsi persino al più libero degli esseri, e cioè Dio. Nella prospettiva di Pareyson (che era credente e cristiano) neppure la fede nel Dio delle religioni rivelate sottrae da questo rischio dell’errore e del male, e dalla vertigine che la libertà prova di fronte all’essere: perché Dio vi appare come il primo e supremo atto di libertà, ma in questo suo rischio originario Dio avrebbe accettato di contenere in sé l’ombra del male. Ci sia consentito di spogliare questa affermazione dalle sue connotazioni gnostiche. Il problema è che non è vero che se Dio non ci fosse allora tutto sarebbe possibile. Ancora prima di Dio, l’essere ci viene incontro con dei “no”, che altro nbn sono che l’affermazione che alcune cose, noi, non possiamo dirle. Noi avvertiamo come Resistenza questo avviso profondo e nascosto che espone a rischio continuo (compreso il rischio del male) ogni nostra ricerca di verità e ogni nostra affermazione di libertà.

2. KANT, PEIRCE E L’ORNITORINCO 1 Talora Polo arricchisce l’universo zoologico, e per esperienza esperita (o per ricostruzione di racconti fedeli) vi aggiunge una sorta di gatta (nella versione toscana, o di gazzella nell’originale francese) che da una “postema” sotto l’ombelico sercerne il “moscado”, dal profumo squisito. Oggi sappiamo che l’animale c’è, e lo abbiamo individuato come Moscus Moschiferus: e se non è una gazzella poco ci manca perché è una specie di cervo, che nel derma della parte addominale, sul davanti dell’apertura prepuziale, secerne un muschio dal profumo penetrante. 2 Vedi la Lowell Lecture IX, 1865 (WR 1: 471-487), “On a method of searching for the categories”, 1886 (WR 1: 515-528) e “On a new list of categories”, 1867 (WR 2: 49-58). 3 Quanto ai peccati di triadismo compulsivo, Peirce ce ne offre un buon esempio nella undicesima Lowell Lecture, dove si azzarda a paragonare la prima triade con la Santissima Trinità, e il Ground viene assimilato allo Spirito Santo. Il che ci autorizzerebbe a non prendere sul serio l’intera faccenda, se non fosse che in tanta vaghezza si annida la ricerca di qualcosa di molto importante. 4 È vero che si addensano sovente intorno all’Oggetto Immediato ombre ambigue, come quando si dice che è un’icona anch’esso (CP 4.447), che è una idea come il Ground ed è una qualità di sensazione individuata a livello percettivo (8.183), che è un percetto (4.539), mentre altrove lo si identificava col significato (2.293). Ma queste oscillazioni sono indice se mai del fatto che nella formazione dell’Oggetto Immediato vanno a confluire tutti i momenti preliminari di un processo che in esso si assesta. 5 Cfr. Detached ideas on vitally important topics, 1898 (CP 4. 1-5). Anche se in CP 7.540 Peirce si sbaglia sulla data di morte di Kant, ponendola nel 1799. 6 In Antropologia (I, 38-39) si vede come anche nei corsi dell’età tarda Kant delineasse (almeno come servizio didattico) un sommario di teoria del segno - non originale, debitore delle dottrine tradizionali, da Sesto Empirico a Locke e forse a Lambert, ma che dimostra un interesse rispettoso per la tematica semiotica. Interessi semiotici sono presenti anche in alcuni scritti precritici come “La forma e i principi del mondo sensibile ed intellegibile” § 10. Per Kant e la semiotica vedi Garroni (1972 e 1977), Albrecht (1975, IV) e nonché Kelemen (1991).

7 Cfr. nota 12 alla Introduzione di Diego Marconi e Gianni Vattimo per l’edizione italiana di Rorty 1979. 8 “Certo, nel pensiero di Kant, le funzioni categoriali logiche svolgono un ruolo molto notevole: ma egli non perviene all’estensione fondamentale dei concetti di percezione e di intuizione al campo categoriale... Per questo egli non distingue neppure tra i concetti in quanto significati generali delle parole ed i concetti in quanto specie della rappresentazione generale diretta ed infine in quanto oggetti generali, cioè come correlati intenzionali delle rappresentazioni generali. Kant scivola sin dall’inizio sul terreno di una teoria metafisica della conoscenza perché si accinge al ‘salvataggio’ critico della matematica, della scienza della natura e della metafisica, prima ancora di avere sottoposto la conoscenza come tale, la sfera complessiva degli atti in cui si compie l’oggettivazione prelogica e il pensiero logico, ad una critica e ad una chiarificazione analitica essenziale, e prima di aver ricondottto i concetti logici primitivi e le leggi alla loro origine fenomenologica” (Ricerche Logiche VI, § 66). 9 Cfr. le obiezioni di Marconi-Vattimo nella introduzione a Rorty 1979: xix. 10 Debbo questa riflessione a Ugo Volli (comunicazione personale). Per le tassonomie nei tentativi di lingue universali cfr. Eco, 1994. Si veda anche in questo libro 3.4.2 e 4.2. 11 Per le opere kantiane uso le seguenti sigle: Critica della ragion pura, (CRP/A e CRP/B a seconda se si tratti della prima o seconda edizione); Critica del giudizio (CG); Prolegomena (P); Logica (L). Vengono usate le traduzioni citate in bibliografia. Per CRP, benché mi rifaccia alla traduzione Colli, i rinvii sono alle pagine dell’edizione dell’Accademia. 12 Benché per questi Grundsätze sia preferibile la traduzione Colli (“Proposizioni fondamentali dell’intelletto puro”), preferisco attenermi alla denominazione più tradizionale per il semplice fatto che userò sovente proposizione come contenuto di un enunciato, e si incorrerebbe in qualche confusione. 13 Lezioni di psicologia. Bari: Laterza 1986: 60. 14 Nei Prolegomeni (§ 18) si parla anche di una sorta di genere sovraordinato di giudizi empirici (empirische Urteile), che hanno fondamento nella percezione dei sensi, e rispetto cui i giudizi d’esperienza aggiungono i concetti che hanno origine nell’intelletto

puro. Non mi pare chiaro come questi giudizi empirici si differenzino dai giudizi percettivi, ma credo che (salvo voler fare della filologia kantiana) in questa sede si possa restringere il confronto ai giudizi percettivi e ai giudizi d’esperienza. 15 CRP/B: 107. Dunque, a proposito della differenza tra giudizio percettivo e giudizio di esperienza “la questione non è affatto risolta” (Martinetti 1946: 65). Se ne avvedeva anche Cassirer (1918), che però vi accenna solo nella nota 20 del capitolo III, 2: “va rilevato che una simile esposizione della conoscenza empirica... non è tanto la descrizione di un effettivo dato-di-fatto, quanto piuttosto la costruzione di un caso limite... In sé, per Kant, non si dà alcun ‘giudizio singolo’ che già non rivendichi qualche forma di ‘universalità’; non esiste proposizione ‘empirica’ che non includa in sé qualche asserto ‘a priori’: poiché già la forma stessa del giudizio contiene questa rivendicazione di ‘oggettiva validità universale’”. Perché un’affermazione di tanto momento solo in nota? Perché Cassirer sa di estrapolare secondo buon senso e coerenza sistematica quello che Kant avrebbe dovuto dire a chiare lettere, escludendo ogni altra formulazione ambigua. Ciò che invece non ha fatto. 16 In questa sede lasciamo impregiudicato se ha percepito le pietre, ma ha per così dire rimosso il percetto, o se percepisce solo nel momento in cui risponde, interpretando ricordi di sensazioni visive ancora sconnesse. 17 Marconi 1997 mi è pervenuto quando avevo ormai terminato questo saggio, ma mi pare che le pagine che egli dedica allo schematismo kantiano (146 sgg.) ne sottilineino efficacemente la natura procedurale. 18 Vedi in proposito Garroni (1968: 123; 1986, III, 2, 2) Ma anche De Mauro (1965, II, 4), che pure lamentava il silenzio di Kant sul linguaggio, vedeva bene che il problema si delineava (irrisolto) proprio nel plesso che lega lo schema al significato. 19 Sull’imbarazzante storia dei ruminanti si vedano gli Analitici secondi (II, 98, 15 sgg.) e Parti degli animali (642b - 644a 10 e 663b sgg.); nonché il mio “Corna, zoccoli, scarpe: tre tipi di abduzione”, ora in Eco 1990: 227-233. 20 D’altra parte poniamoci pure dal punto di vista di un Adamo ipotetico che veda per la prima volta un gatto senza aver mai visto altri animali. Per questo Adamo il gatto sarà schematizzato come “cosa che

si muove”, e per il momento questa sua qualità lo renderà simile all’acqua e alle nuvole. Ma è immaginabile che ben presto Adamo porrà il gatto insieme a cani e galline, tra i corpi mobili che reagiscono imprevedibilmente a una sua sollecitazione e abbastanza prevedibilmente a un suo richiamo, distinguendolo dall’acqua e dalle nuvole, che paiono muoversi, sì, ma insensibili alla sua presenza. Qualcuno parlerebbe qui di una forma di pre-categoriale percettivo che precede la categorizzazione concettuale, per cui l’animalità che si percepisce nel vedere il cane o il gatto non ha ancora nulla a che fare con il genere ANIMALE su cui la semantica si intrattiene almeno sin dai tempi dell’Albero di Porfirio. Tuttavia non intendo per ora introdurre questa nozione di “pre-categoriale” perché, come vedremo in 3.4.2, a proposito dei processi detti di “categorizzazione”, questo modo di esprimersi implica una nozione di categoria che non è quella kantiana. 21 Si tratta di quella che in “Corna, zoccoli, scarpe” (cfr. ora Eco 1990) definivo come abduzione creativa. Vedi in proposito Bonfantini e Proni 1980. 22 Opus Postumum: 231, nota 1. Sempre Mathieu, nella Introduzione, osserva che “anche tenendo ferma la struttura necessaria delle categorie si può egualmente prendere in considerazione un’attività spontanea ulteriore, che l’intelletto realizzi a partire dalle categorie, ma senza rimanere fermo ad esse... costruendo non semplicemente ciò che da esse derivi, ma tutto ciò che si riesca comunque a pensare e senza cadere in contraddizione” (p. 21). Forse per arrivare a questi ardimenti Kant aveva avuto bisogno di passare attraverso la riflessione estetica della terza Critica; solo allora “nasce un nuovo schematismo - lo schematismo libero, senza concetti, dell’immaginazione - come capacità originaria di organizzazione delle percezioni” (cfr. Garroni 1986: 226). 23 V. Mathieu, Introduzione a Opus Postumum. 41-42. L’aspetto più interessante di questa vicenda è che, quanto più Kant assegna potere costruttivo all’intelletto, tanto più lo fa perché sembra persuaso che il continuum esibisca (come dicevamo nel primo saggio di questo libro) delle linee di tendenza; tanto più, cioè, egli vuole rendere ragione del fatto che (per esprimerci con una formula peirceana) ci siano leggi generali operative in natura, e naturalmente, quindi, ci sia una realtà oggettiva delle specie. Sarebbe poi interessante mostrare che Peirce

tanto più si avvicina a questa concezione realista, quanto più si allontana dal primo Kant. Cfr. in proposito Hookway 1988: 103-112. 24 Cfr. Apel 1995. Il soggetto trascendentale della conoscenza diventa la comunità che quasi “evoluzionisticamente” si approssima a ciò che potrebbe diventare conoscibile “in the long run”, attraverso processi di prova ed errore. Cfr. anche Apel 1975. Questo induce a rileggere la polemica anticartesiana e il rifiuto dell’ammissione di dati inconoscibili, che potrebbe definirsi anche come una cauta e preventiva presa di distanza dall’idea kantiana di cosa in sé. L’Oggetto Dinamico parte come cosa in sé ma nel processo dell’interpretazione viene sempre più - anche se solo potenzialmente - adeguato. 25 In questo senso va letto il ricupero kantiano da parte di Popper (1969). “Quando Kant affermò: ‘il nostro intelletto non trae le proprie leggi dalla natura, ma le impone ad essa’, era nel giusto. Ma si sbagliava nel ritenere che dette leggi fossero necessariamente vere, o che noi riuscissimo senz’altro ad imporle alla natura. La natura, assai spesso, si oppone molto efficacemente, costringendoci ad abbandonare le nostre leggi in quanto confutate; ma, finché viviamo, possiamo riprovarci ancora” (I, 1, v). Pertanto Popper riformula: “L’intelletto non trae le proprie leggi dalla natura ma cerca di imporre ad essa - con variabile possibilità di successo – le leggi che liberamente inventa” (I, 8). 26 “È il baluginare dell’attimo, inafferrabile, eterno” (Fabbrichesi 1981: 483). 27 O ancora: “Per feeling intendo quel tipo di coscienza che non implica alcuna analisi, comparazione, o qualsiasi altro processo, né consiste in tutto o in parte di qualche atto per cui un fenomeno di coscienza si distingue da un altro, qualcosa che ha la propria qualità positiva che consiste in null’altro, e che è in se stessa tutto quello che è” (CP 1.306). 28 Habermas (1995) sottolinea la critica dello psicologismo che Peirce inizia sino dalle Harvard Lectures. Lo stesso processo di interpretazione è “anonimizzato”, “depersonalizzato”: la mente può essere vista come relazione tra segni. Questo porta Habermas a vedere in Peirce un disinteresse per il processo di comunicazione come evento intersoggettivo, il che consente a Oehler (in Ketner 1995) di rispondergli sottolineando al contrario i momenti in cui Peirce si dimostra sensibile alla comunicazione tra soggetti. Ma si sa, a Peirce si

può fare dire tutto, a seconda di come lo si rivolti. Sta il fatto che mi pare possibile spiegare il processo di iconismo primario senza far ricorso a eventi o rappresentazioni mentali, senza tradire lo spirito di Peirce. 29 Si noti che a questa fase non si può neppure affermare che la sensazione presenti qualche somiglianza con qualcosa che era nell’oggetto o nel campo stimolante (nel caso di una sensazione di rosso sappiamo benissimo che nell’oggetto non c’è il rosso, c’è al massimo un pigmento, o un fenomeno luminoso, a cui noi rispondiamo con la sensazione di rosso). Potremmo persino avere due soggetti, uno daltonico (che scambia il rosso col verde) e l’altro no, così che la sensazione nel primo soggetto sia diversa da quella nel secondo, ma per entrambi rimanga una risposta costante allo stimolo, ed entrambi siano stati educati a rispondere rosso a quello stimolo. Quello che si vuole dire è che ci sarebbe sempre, per ciascuno, un rapporto costante tra stimolo e sensazione (e che per un accidente culturale i due possono interagire tranquillamente chiamando entrambi, e sempre, rosso il fuoco e verdi i prati). 30 Cfr. Mameli (1997, 4): “dato che Peirce pensa e mostra che l’intelligibilità non è una caratteristica accidentale dell’universo, che essa non è un semplice epifenomeno di come le cose sono, ma è una caratteristica che ‘forma’ l’universo, ne segue che una teoria dell’intelligibilità è anche una teoria metafisica sulla struttura dell’universo”. 31 In proposito rinvio a Sebeok 1972, 1976, 1978, 1979, 1991, 1994. 32 In tal senso Ransdell (1979: 61) può sostenere che date le due possibili teorie della conoscenza (la conoscenza è rappresentazione dell’oggetto, e la conoscenza è percezione immediata di ciò che l’oggetto è in sé), la proposta peirceana si presenta come una sintesi dinamica tra le due posizioni. 33 Fumagalli (1995: 167) rileva che “la teoria del giudizio percettivo è uno degli ultimi tasselli della filosofia peirceana a vedere la luce”, e ne sottolinea tutta la novità. Tra l’altro mette in chiaro che il percetto di Peirce non è un sense datum, un quale, ma “è già il frutto di una elaborazione cognitiva non cosciente, che sintetizza i dati in una forma strutturata”, ovvero “un costrutto risultante da operazioni psicologiche su dati dei puri sensi, sugli stimoli nervosi” (1995: 169).

34 Uno dei tentativi più fruttuosi di interpretare il passaggio tra processo e giudizio percettivo mi pare quello di Innis (1994, 2), dove si tracciano persuasivi paralleli tra Peirce, Dewey, Bühler, Merleau-Ponty, Polany. 35 Per questi suggerimenti debbo essere grato a Perri 1996 (I.II.3) e a Nesher 1984. 36 Ms 410, riportato in Roberts (1973: 23-24). In CP 2.277 Peirce mette in chiaro che, data la categoria delle icone, quelle che comprendono semplici qualità sono immagini, quelle che rappresentano relazioni diadiche sono diagrammi, quelle che rappresentano un parallelismo tra i caratteri di due oggetti sono metafore (e mi pare che il termine venga usato nel senso lato di “similitudine concettuale”). 37 Su un concetto di motivazione dei segni, che non esclude la loro convenzionalità, e la compresenza di rappresentazioni alternative entrambe motivate, si veda il Trattato 3.5.

3. TIPI COGNITIVI E CONTENUTO NUCLEARE 1 Talora la filiazione è esplicitamente, se pur rapidamente, citata (cfr. tra i tanti Johnson 1989: 116), talora criticamente discussa (cfr. Marconi 1997: 145-148 - ma non a caso si tratta di un autore, malgrado tutto, “continentale”). 2 “Certo, nel pensiero di Kant, le funzioni categoriali logiche svolgono un ruolo molto notevole: ma egli non perviene all’estensione fondamentale dei concetti di percezione e di intuizione al campo categoriale... Per questo egli non distingue neppure tra i concetti in quanto significati generali delle parole ed i concetti in quanto specie della rappresentazione generale diretta ed infine in quanto oggetti generali cioè come correlati intenzionali delle rappresentazioni generali.” (Ricerche Logiche VI, § 66). 3 Molte di queste domande non mi sarebbero sorte se non avessi letto in fase manoscritta Violi (1997) e - nella fase ormai finale di questo mio lavoro - Marconi (1997), ai quali rinvierò sovente. L’accordo con Violi è pressoché totale; riguardo a Marconi sottolineerò quando se ne dia il caso alcuni punti in cui mi pare che il nostro approccio sia diverso. 4 Nel Trattato (1975: 247) avevo affermato che la semiosi percettiva è un postulato della semiotica. In quel libro, e nella fase a cui era giunta

la discussione semiotica a quel punto, pareva importante sottolineare la natura sociale e culturale dei sistemi di segni. Lo sforzo di trovare una definizione del contenuto in termini di interpretanti, tutti pubblicamente esibiti dal repertorio “pubblico” dell’enciclopedia, mirava a sottrarre il problema del significato alle secche del mentalismo, o almeno di un ricorso al soggetto che in quegli anni veniva identificato (a mio parere in modo rischioso), nelle profondità dall’inconscio. Il Trattato si chiudeva appunto sull’osservazione che il problema del soggetto era senza dubbio importante, ma per il momento doveva rimanere escluso da una semiotica come logica della cultura. Di questa esclusione sono sempre rimasto imbarazzato, e ne facevo ammenda nell’introdurre l’edizione francese della parte del Trattato dedicata alla produzione segnica: “Correggerei oggi l’affermazione secondo la quale la nostra capacità di riconoscere un oggetto come token, o occorrenza di un tipo generale, sia un postulato della semiotica. Se vi è semiosi sino nei processi percettivi, la mia capacità di considerare il foglio di carta su cui scrivo come il doppio di altri fogli di carta, e di riconoscere una parola pronunciata come la replica di un tipo lessicale, o di identificare nel Jean Dupont che vedo oggi lo stesso Jean Dupont che ho conosciuto un anno fa, sono processi in cui la semiosi interviene a livello elementare. E dunque la possibilità di riconoscere il rapporto tra token e type non può essere definita come un postulato se non nel quadro del presente discorso sulla produzione dei segni, nello stesso senso in cui per spiegare come utilizzare uno strumento nautico che serve per rilevare la latitudine, si dà come dimostrato che la Terra giri intorno al sole - mentre questo ‘postulato’ ridiventa una ipotesi scientifica da provare o falsificare nel quadro di un discorso astronomico” (La production des signes. Paris, Livre de Poche, 1992). Ma il punto è che, anche nel Trattato, l’accento era messo sulla vita sociale dei segni, non su problemi di gnoseologia, altrimenti esso non sarebbe iniziato con un capitolo che parlava di una Logica della Cultura (e non della natura). Tuttavia la mia esclusione non era così radicale come sembrava, e sono grato a Innis (1994, 1) di avere messo in rilievo tutti i punti del Trattato in cui (pur “postulandola” soltanto) ribadisco che la semiosi percettiva è un problema semiotico centrale, e che è indispensabile pensare a una definizione semiotica dei percetti (per es. 3.3.3). Non potevo essere indifferente al problema, visto che nei miei scritti pre-semiotici come Opera aperta mi ero vastamente ispirato alla fenomenologia, da Husserl

a Merleau-Ponty, e alla psicologia della percezione, dai transazionalisti a Piaget. Ma evidentemente quel “postulare” invece di affrontare (che voleva essere una semplice limitazione del mio campo di indagine in quel momento) presupponeva e produceva una ambiguità di fondo: in effetti non si decideva se il lavoro inferenziale richiesto per capire qualcosa fosse l’oggetto di una psicologia della percezione e della cognizione, e quindi un problema vestibolare ma non centrale per la semiotica, o se al contrario intelligenza e significazione non fossero un unico processo, e quindi un solo soggetto d’indagine, come voleva la tradizione fenomenologica a cui mi collegavo. Una delle ragioni di quella ambiguità è stata spiegata nelle pagine precedenti: il Trattato era strutturato in modo tale da focalizzare anzitutto l’Oggetto Dinamico, come terminus ad quem della semiosi (e pertanto si apriva con una teoria dei sistemi segnici in quanto già socialmente costituiti). Per porre in primo luogo il problema della semiosi percettiva occorreva considerare, come faccio in questo libro, l’Oggetto Dinamico come terminus a quo, e dunque come quello che sta prima della semiosi e da cui si parte per elaborare giudizi percettivi. 5 È vero che si possono considerare (secondo la Teoria Empirica della Visione di cui ci parla Helmholtz) le sensazioni come “segni” di oggetti o di stati esterni, da cui per inferenza (inconscia) partiamo per attivare un processo interpretativo (dobbiamo apprendere a “leggere” questi segni). Tuttavia mentre una parola o una immagine, o un sintomo, ci rinviano a qualche cosa che non è là mentre percepiamo il segno, i segni di Helmholtz ci rinviano a qualche cosa che è lì, al campo stimolante dal quale preleviamo o riceviamo questi segnistimoli, e al termine dell’inferenza percettiva queste cose che erano lì ci rendono comprensibile quello che era già lì. 6 Questa sarà la differenza tra modalità Alfa e Beta di cui discuto in 6.15. 7 Potrei dire che in questo caso si attua quel processo (descritto da Pareyson 1954) per cui l’artista, partendo da uno spunto ancora informe offertogli dalla materia su cui lavora, ne trae come il suggerimento, per intravedere quella forma che poi, a opera finita, darà senso al tutto, ma che all’inizio del processo non c’è ancora, ed è solo annunciata dallo spunto. 8 Rinvio a Ouellet (1992) per uno dei tentativi più interessanti di fondere la problematica husserliana con quella semiotica, ridiscutendo i

rapporti tra conoscenza sensibile e conoscenza proposizionale, percezione e significato, e l’opposizione tra una semiotica del mondo naturale e una semiotica della lingua naturale (in Greimas e Courtés 1979: 233-234). Sui problemi della semiosi primaria si veda pure Petitot 1995. 9 Già in 2.8.2 ammettevo la possibilità di riconoscere come presemiosici (e tuttavia alla radice della semiosi) fenomeni organici come il “riconoscimento” sterico. 10 Pur trattandosi di un esperimento mentale ho cercato di non discostarmi da quanto si conosce in merito e anzi di avvalermene. Per ogni informazione filologica sono grato ad Alfredo Tenoch Cid Jurado che. ha scritto, a mio stretto uso e consumo, un saggio tuttora inedito, “Un cervo chiamato cavallo”. Cfr. anche la riflessione sugli aspetti semiotici della conquista fatta da Todorov (1982, II). 11 Sulla discussione del dibattito Locke-Berkeley vedi Santambrogio (1992,1). 12 I casi di riferimento felice mettono in crisi le teorie per cui non vi sarebbe “significato trascendentale”. Può darsi che sia difficile, e talora impossibile, definire il significato trascendentale di un testo, o di un sistema articolato e complesso di proposizioni, e che a questo punto entri in scena una deriva interpretativa. Ma se quando dico a qualcuno hanno suonato alla porta, per favore vai ad aprire, costui o costei (se collaborativi) vadano ad aprire la porta e non la finestra significa che a livello di esperienza quotidiana noi tendiamo ad assegnare non solo un significato letterale agli enunciati, ma anche ad associare in modo costante certi nomi a certi oggetti. 13 Dato che non ritengo di dover entrare nei termini del dibattito, rinvio per una cronaca fondamentalmente fedele a Gardner (1985, 11), e per una serie di proposte ragionevoli a Johnson Laird (1983, 7). Sulle immagini vedi anche Varela 1992 e Dennett, 1978. 14 Neisser (1976) postulerebbe anche in caso di istruzioni verbali l’attivazione di “mappe cognitive”, della stessa natura degli schemata, che orienterebbero la percezione. 15 Anche il riferimento felice, in quanto comportamento che interpreta il segno, è una forma d’interpretante. Sul referente come interpretante implicito cfr. Ponzio 1990, 1.2. 16 Su questa dibattuta questione Goodman (1990) suggerisce di provare a tradurre il sostantivo con un verbo: come se, invece di

interrogarci sul concetto di “responsabilità”, ci chiedessimo che cosa vuole dire “essere o sentirsi responsabili di qualcosa”. 17 Marconi (1995, 1997) parla di una doppia competenza lessicale: quella inferenziale e quella referenziale. Mi pare che quest’ultimo tipo di competenza debba scindersi nei tre fenomeni diversi delle istruzioni per il riconoscimento, per l’identificazione, per il reperimento, e naturalmente non si debba identificare con l’esecuzione di atti di riferimento (come vedremo in 5). 18 Tempo fa mi ero stupito perché a Parigi molti tassisti orientali mostravano di conoscere assai male la città, mentre si presume che un tassista, per ottenere la licenza, debba dimostrare di possedere una competenza notevole circa la mappa locale. Interrogato una volta uno di costoro, evidentemente in vena di sincerità, esso ha risposto: “Ma quando uno di noi si presenta coi documenti all’esame, lei è capace di dire se la foto sul documento è davvero la sua?”. Dunque, speculando sul fatto proverbiale che tutti gli orientali per gli occidentali si assomigliano, e viceversa, un solo candidato competente si presentava più volte all’esame esibendo i documenti d’identità dei propri connazionali incompetenti. Il documento d’identificazione forniva il CN connesso al nome proprio (con tutta la precisione richiesta), ma la situazione interculturale faceva sì che le istruzioni per l’identificazione fossero molto deboli per gli esaminatori, inducendoli a intrattenere un TC cognitivo generico e non individuale. 19 Sugli stessi principi ho tentato di basare un’etica elementare (cfr. “Quando entra in scena l’altro nasce l’etica”, in Martini, F.M., e Eco, U., In cosa crede chi non crede? Roma: Atlantide 1996; ora anche nel mio Cinque scritti morali. Milano: Bompiani 1997). 20 Bruner (1990: 72). Ma si veda anche Piaget 1955, II, vi. Il bambino a vari stadi del suo sviluppo applica inizialmente l’idea di vita a tutto ciò che si muove e poi gradatamente solo agli animali e alle piante, ma questa idea di vita precede ogni apprendimento categoriale. Quando il bambino percepisce il sole come qualcosa di vivo sta attuando una suddivisione del continuum che è ancora precategoriale. Cfr. anche Maldonado (1974: 273). 21 Per una serie di testi tomisti in proposito (De ente et essentia vi; Summa Theologiae I, 29 2 ad 3; I, 77, 1 ad 7; I, 79, 8 co.; Contra Gentiles III, 46) vedi la trattazione in Eco 1984, 4.4.

22 Per una visione delle classificazioni molto più aderente ai nostri effettivi usi linguistici vedi Rastier (1994: 161 sgg.). 23 Ritenendo che il concetto espresso dal pronome Io sia uno dei suoi “primes” - e mi pare ragionevole ammettere che il senso della propria soggettività in quanto opposta al resto del mondo sia tale, ma si vede come sia tale solo a un certo stadio dell’ontogenesi - Wierzbicka (1996: 37) ritiene che questa idea, in quanto universale, comune a tutte le culture, non possa essere interpretata. Pertanto, di fronte alla proposta che Io possa essere interpretato come “il pronome si riferisce a, o denota in generale, il soggetto dell’atto di enunciazione”, escogita come prova negativa il fatto che, a questo punto, l’enunciato io non sono d’accordo con quello che sta parlando dovrebbe essere tradotto come “quello che sta parlando non è d’accordo con quello che sta parlando”. Il risultato sarebbe ovviamente assurdo, ma esso prevede un parlante fondamentalmente stupido. In effetti l’enunciato va interpretato come “il soggetto di questo atto d’enunciazione non è d’accordo con il soggetto dell’atto di enunciazione a cui si sta riferendo”. 24 Gli imbarazzi legati a questa identificazione tra significato e proposizione o marca espressa verbalmente si ritrovano anche quando si tratta di interpretare non oggetti visibili, né vere o presunte immagini mentali, ma anche ipoicone, e cioè quadri e disegni. Si veda per esempio Languages of art di Nelson Goodman (1968). Il libro mette a frutto l’esperienza di un filosofo del linguaggio per cercare di legittimare l’esistenza di linguaggi visivi, e tenta di costruire categorie semiotiche adeguate, come accade con le pagine sui “campioni” e le “esemplificazioni”, o sulla differenza tra arti autografiche e arti allografiche. Eppure Goodman rimane legato a una idea proposizionale (e verbale) della denotazione. Quando si domanda se un quadro di tonalità grigia che rappresenta un paesaggio, e che certamente denota un paesaggio, denoti la proprietà della grigiezza o sia denotato dal predicato “grigio”, se un oggetto rosso esemplifichi la proprietà della rossezza o se esemplifichi il predicato “rosso” (nel qual caso sorge il problema se esemplifichi il predicato “rouge” per un francese), o se esemplifichi il denotato di quello stesso predicato, Goodman cerca soltanto di rendere un fenomeno di comunicazione visiva catturabile in termini linguistici, ma non dice nulla sulla funzione significante che (poniamo) nel corso di un film un oggetto rosso acquista per chi ha assistito qualche istante prima in una scena sanguinosa. Egli conduce

sottili distinzioni tra una man-picture e la picture of a man, e si pone molteplici problemi circa le modalità denotative di un quadro che rappresenti insieme il Duca e la Duchessa di Wellington. Esso allo stesso tempo denoterebbe la coppia, parzialmente denoterebbe il Duca, sarebbe nel suo insieme una two-person-picture e in parte una manpicture, ma non rappresenterebbe il Duca come due persone, e così via. Sono questioni che possono sorgere solo se si intende il quadro come l’equivalente di una serie di enunciati. Ma chi guarda il ritratto (se non nel caso estremo in cui esso venga usato a fini storico-documentari o segnaletici) non traduce la propria esperienza in questi termini. Si veda piuttosto come Calabrese (1981) individua significanti plastici di significati eminentemente visivi. Le categorie messe in gioco, al di là della problematica della rassomiglianza, sono per esempio opposizioni concernenti il taglio dell’inquadratura, la posizione delle mani, rapporto tra figura e spazio-sfondo, direzione dello sguardo, e di conseguenza il rapporto tra un ritratto che mostra di sapere di essere guardato dallo spettatore e un altro in cui il personaggio guarda qualcosa ma non guarda lo spettatore, e così via. Un ritratto non mi dice solo che sto vedendo una man-picture, e neppure che quello che vedo è il Duca di Wellington (tra parentesi, questo mi è detto dalla targhetta sulla cornice, non dall’immagine): ma anche se quell’uomo è simpatico, in buona salute, triste, inquietante. Dire verbalmente che il sorriso della Gioconda è “ambiguo” o “perturbante” è una povera interpretazione di quello che l’immagine mi comunica. Però potrei individuare (modificando l’immagine leonardesca su un computer) quali sono i tratti minimi che rendono quel sorriso perturbante, alterando i quali il sorriso diventerebbe un ghigno, o una smorfia inespressiva. Questi tratti eminentemente visivi sono cruciali anche per interpretare il ritratto come riferimento a una persona o a uno stato di cose. 25 I nuovi approcci cognitivi hanno certamente ricuperato questo spazio pre o extra-linguistico, anche se appaiono talora riluttanti a considerarlo come uno spazio semiosico. Si veda per esempio la posizione di Jackendoff. L’assunzione è che il pensiero sia una funzione mentale indipendente dal linguaggio e che gli inputs per i processi cerebrali non pervengono solo per via auditiva ma anche per altri canali, visivi, termici, tattili, propriocettivi. Vale la pena di osservare che per ciascuno di questi canali varie semiotiche specifiche hanno studiato processi semiosici che si sviluppano appunto a questi

livelli. Ma il problema di una semiosi percettiva non è se una immagine o una sequenza musicale possano essere analizzate in termini “grammaticali”, problema proprio di una semiotica specifica. È se il tipo cognitivo ospiti anche informazioni provenienti da questi canali. Jackendoff sembra aver ammesso il ruolo di informazioni visive, e per esempio sottolinea che la rappresentazione di una parola nella memoria a lungo termine non richiede solo una tripla parziale di strutture fonologiche, sintattiche e concettuali, ma può anche contenere una parziale struttura 3D, ovvero che “conoscere il significato di una parola che denota un oggetto fisico implica in parte sapere come appare questo oggetto” (1987, 10.4). Lo stesso avverrebbe anche per proposizioni che esprimono scene o situazioni complesse. Per esempio in Jackendoff (1983, 9) la disambiguazione di un’espressione come the mouse went under the table richiederebbe la visualizzazione di due situazioni, una in cui qualcosa va a collocarsi sotto il tavolo, l’altra in cui qualcosa passa sotto il tavolo. Però non mi pare si sia spinto a discutere altri canali sensoriali, forse per la difficoltà di verbalizzare tali esperienze. 26 Che poi, come osserva anche Violi (1997, 1.3.4) le qualità visive siano più facilmente interpretabili di quelle olfattive e tattili dipende dalla nostra struttura fisiologica e dalla nostra storia evolutiva: anche i medievali sapevano che esistono sensi maxime cognoscitivi, quali la vista e l’udito. Noi riusciamo a ricordare e a interpretare meglio le sensazioni che saremmo in grado di riprodurre: possiamo riprodurre con un disegno, anche inabile, ciò che abbiamo visto, e possiamo riprodurre un suono o una melodia che abbiamo ascoltato; non possiamo riprodurre, né produrre (volontariamente) un odore e un sapore (tranne casi particolari come i profumieri e i cuochi: ma non lo fanno con il proprio corpo, bensì mescolando sostanze). Questa incapacità a fare col corpo si risolve in una incapacità (o minore capacità) a interpretare e persino a ricordare (noi ricordiamo una melodia e sappiamo riprodurla, non ricordiamo con la stessa vivacità il profumo della viola, che evochiamo piuttosto associandolo all’immagine del fiore o a una situazione in cui lo abbiamo percepito). A parte sta il caso del tatto: noi riusciamo a riprodurre sul corpo altrui o nostro, e mediante il nostro corpo, molte sensazioni tattili (non tutte, non per esempio quella del velluto). Questa natura mista del tatto spiega perché possa essere usato talora come medium conoscitivo, per esempio nell’alfabeto Braille, per non dire di molti casi di

sollecitazione intenzionale di affetti o sensazioni sgradevoli, in rapporti erotici o conflittuali. Non mi pronuncio sul rapporto tra ricezione e produzione per animali che hanno altre risorse sensoriali. 27 Per i frames vedi Minsky 1985. Per gli scripts vedi Schank e Abelson 1977. Per una rappresentazione 3D di comportamenti e azioni corporali cfr. Marr e Vaina 1982. Per la collera vedi Greimas 1983. 28 Oppure usando modelli 3D come quelli di Marr e Vaina 1982. Supponiamo che ci sia un essere (per esempio uno di quei severi studiosi di cui si dice che studiavano da ordinario sin da piccoli, e che quindi non hanno mai giocato) a cui si spieghi nel corso di un dibattito sulla traduzione come si fa a salterellare nel senso di to skip. Siccome in quella sede sarebbe poco dignitoso spiegarglielo per ostensione, fidando nella sua abilità a comprendere e formulare proposizioni, gli si tradurrebbe a parole le istruzioni contenute nella tabella di Nida. Ed ecco che costui sarebbe in grado di tornare nel proprio giardino e avere, per la prima volta, l’esperienza primaria corrispondente. 29 Gibson 1966: 285; Prieto 1975. Cfr. anche Johnson-Laird (1983: 120): un artefatto è visto come membro di una categoria non tanto per motivi morfologici ma perché appare come appropriato per una certa funzione. Vedi anche Vaina 1983: 19 sgg. 30 Sul rapporto tra tipi cognitivi e reazioni corporali e motorie si veda Violi (1997, 5.2.4): “Se in una prospettiva whorfiana eravamo abituati a pensare alla lingua come cerniera tra pensiero e culture, ora il sistema linguistico assume una funzione di mediazione anche fra corpo e pensiero”. 31 Parlare solo di “figure nella mente” postulerebbe il tradizionale homunculus che le percepisce, e la conseguente regressione di omuncoli all’infinito, e si veda in proposito anche Edelman (1992: 7980). Però si potrebbe dire che la rappresentazione 3D non fa parte della rappresentazione semantica ma, piuttosto, serve per accedere alla rappresentazione (Caramazza et al. 1990). Cfr. in proposito anche Job 1995. Per il problema che segue, della doppia codifica cfr. per esempio Benelli 1995. 32 Di solito al mattino ci si ricorda in modo abbastanza vivido che cosa si è fatto o visto o detto alla sera prima di andare a letto (e non solo in termini visivi, ma anche auditivi, per esempio). Però quando ci si risveglia dopo una abbondante libagione serale, si ricorda che si è detto o fatto qualcosa (e si è in grado di esprimerlo a se stessi o ad altri

in termini verbali) ma non si riesce a ricostruire “iconicamente” che cosa è accaduto. Diciamo che si è creata una soglia per cui si ricorda in termini iconici quanto è accaduto dalle nove a mezzanotte (prima che si fosse superata la dose sopportabile di alcool), mentre per quello che è accaduto dopo si è conservata solo una memoria “proposizionale” (da cui la situazione sfruttata in tanti film comici, del personaggio che si ricorda di aver detto o fatto la sera prima una cosa orribile, e sa benissimo, ma non riesce più a ricostruire la scena). 33 Cfr. Fillmore 1982, Lakoff 1987, Wierzbicka 1996, Violi 1997 2.2.2.1 e 3 4.3.1. 34 Questa discussione sugli scapoli esemplifica assai bene la differenza tra una semantica formale e una semantica cognitiva. Fa pensare al noto problema per cui, se il barbiere del villaggio è colui che rade tutti gli uomini che non si radono da sé, chi rade il barbiere del villaggio? In termini cognitivi (e una volta ho posto il quesito a due bambini) le risposte sono molteplici e tutte ragionevoli: il barbiere è una donna, il barbiere non si rade mai e ha una barba lunghissima, il barbiere è un orango ammaestrato, il barbiere è un robot, barbiere è un ragazzo imberbe, il barbiere non si rade bensì si brucia la barba (per cui è detto il Fantasma dell’Opera), e via di seguito. Ma sul piano logico, perché il quesito abbia un senso, bisogna immaginare un universo composto di soli maschi che per definizione si radono. 35 D’altra parte, e abbandonando per un istante la fanta-mistica: c’è un convegno di astronomi che discutono sulla stella N4, scomparsa da un milione di anni, la cui luce viene rilevata solo da complesse apparecchiature; gli astronomi sanno benissimo come individuarla e associano al suo nome un CM fatto di informazioni assai sofisticate; tuttavia, mentre ne parlano, ciascuno ha di N4 un TC che comprende le procedure che essi seguono per identificarla e i segnali (di qualunque genere essi siano) che ricevono quando la mettono a fuoco. 36 Neisser (1987: 9) parla di schemi cognitivi ma chiarisce che essi non sono né categorie né modelli; di fatto appaiono come sistemi di attesa, fondati su esperienze precedenti, che orientano la costruzione del giudizio percettivo. Però ammette: “Non posso dire che cosa siano: non sapremo come caratterizzare i prerequisiti strutturali della percezione sino a che non saremo capaci di descrivere l’informazione che il percipiente preleva. Ci sono poche ragioni per credere che queste strutture preliminari abbiano molto in comune coi modelli cognitivi dai

quali dipende la categorizzazione; e c’è ogni ragione di credere che siano squisitamente accordate alle proprietà ecologiche rilevanti del mondo reale”. 37 In quello che segue terrò nota di Rosch 1978, Rosch & Mervis 1975, Rosch et al. 1976, Neisser 1987, Lakoff 1987, Reed 1988, Violi 1997. 38 Si potrebbe obiettare che questi test siano viziati dal fatto che il soggetto deve rispondere verbalmente: scommetto che percettivamente ed emozionalmente chiunque distingue un paio di pantaloni da smoking da un paio di hot pants rosa con la stessa immediatezza con cui distingue i pantaloni da una giacca. Ma ho certamente scelto un esempio malizioso, perché è evidente che distinguiamo una banana da una mela meglio di quanto distinguiamo una mela renetta da una mela carla. 39 “Poiché la semantica di una lingua non è scindibile da una semantica del mondo naturale, gli schemi che usiamo per la comprensione del linguaggio non sono diversi da quelli che usiamo per la comprensione del mondo. Se l’esperienza del mondo non è riducibile a inventari limitati e preformati, così non lo è il senso linguistico” (Violi 1997, 11.1). 40 Violi (1997, 5.2.2) rileva: “Pensiamo ai manufatti: una sedia, un letto, una camicia sono tutti oggetti la cui funzione è definibile da un atto intenzionale sulla cui base si svilupperà un programma motorio definito e comune a tutti gli oggetti di quel tipo. Tutte le sedie sono oggetti su cui mi siedo seguendo le stesse sequenze di azioni, tutti i bicchieri sono oggetti da cui bevo nello stesso modo, eccetera. Quando passo da questo livello al sovraordinato, la categoria dei mobili per esempio, non posso più identificare un unico programma motorio, perché mobile non dà luogo a una sola interazione comune, ma a vari e diversi tipi di azioni”. Questa insistenza sul ruolo della corporalità nel determinare e il significato e le categorizzazioni, ci riporta al tema delle affordances, e costituisce uno dei punti di svolta del cognitivismo contemporaneo rispetto alla semantica tradizionale. 41 Reed (1988: 197) si domanda perché, elaborata una categoria degli abiti, sia più difficile riconoscere come abito una cravatta a farfalla che non una camicia. Dipende dal fatto che si siano definiti gli abiti come qualcosa che ci si mette addosso per avere caldo, e in tal caso una cravatta a farfalla non sarebbe neppure un abito. Ma il test

otterrebbe risultati diversi se invece che la categoria degli abiti si proponesse al soggetto la categoria dei capi di abbigliamento. Temo però che in tal caso la categoria più che funzionale sarebbe di tipo commerciale, ed ecco che in tal caso il farfallino starebbe benissimo accanto a camicie e a cinture perché si acquista negli stessi negozi, o lo si conserva coi pantaloni e i fazzoletti in guardaroba o camera da letto piuttosto che in libreria o in cucina. A un certo livello di abilità categoriale si possono mettere insieme una bicicletta e un’automobile tra i Veicoli, ma se la categoria è quella degli oggetti da regalo per il compleanno, la bicicletta va ad associarsi all’orologio e alla sciarpa e l’automobile rischia di rimanere esclusa dal gruppo. 42 Ritengo che quelli che chiamo tipi bastardi corrispondano a quello che Violi (1997, 9-1) chiama “valore medio”. 43 Qualcuno suggerisce che se ci si chiede di disegnare un triangolo di solito disegniamo un triangolo equilatero. Non intendo discutere se la cosa sia dovuta a memorie scolastiche o al fatto che sia in natura che in cultura le forme triangolari che vediamo (come montagne o piramidi egizie) siano più facilmente riconducibili al modello dell’equilatero che a quello del triangolo rettangolo (anche se in genere le montagne sono piuttosto scalene). Quello che rende questi esperimenti poco rilevanti per un discorso sui tipi cognitivi come prototipi è la loro valenza statistica. Supponiamo che il 99% della popolazione mondiale disegni un triangolo come equilatero. Rimarrebbe un 1%, praticamente pari all’intera popolazione italiana, che si comporterebbe diversamente. Ora si chieda a un rappresentante del 99% e a un rappresentante dell’1% di decidere se qualcosa è triangolare piuttosto che quadrato o circolare: immagino che vi sarebbe consenso. Questo ci direbbe che non è necessario che il TC di triangolo si identifichi col prototipo statisticamente più diffuso. 44 Lakoff (1987: 49) distingue tra categorie come kinds ed effetti di classificazione, ma non distingue tra kinds e categorie. A p. 54 chiama categoria quella di causa nel senso che c’è un prototipo del come e perché una cosa debba essere considerata come causa (un agente fa qualcosa, un paziente la subisce, la loro interazione costituisce un evento singolo, parte di quello che l’agente fa cambia lo stato del paziente, c’è un trasferimento di energia tra agente e paziente, eccetera - tutti tratti che mi sembrano riguardare soltanto la causalità umana). Quindi nel caso della causa Lakoff parla di categoria in senso kantiano;

tuttavia la lista dei frames o casi grammaticali forniti per definire la causa fanno pensare (in termini kantiani) non alla categoria ma allo schema. Ancora una volta appare una ambiguità che avrebbe potuto essere ridotta considerando con maggior cura la storia del concetto di categoria. 45 Trovo strano che soggetti normali non l’abbiano anche definito come qualcosa a forma di scatola, difficile da aprire quando è in marcia o quando si arresta tra un piano e l’altro, visto che sono proprio queste due proprietà che spiegano l’istintiva claustrofobia che questo mezzo di trasporto ispira a molti. Forse l’intero campione era composto di soli agorafobici. 46 Nota Lakoff (1978: 66): “Gli effetti prototipici sono reali ma superficiali. Nascono da una varietà di fonti. È importante non confondere effetti prototipici con la struttura della categoria così come è data dai modelli cognitivi”. Si veda la benemerita confusione che Lakoff crea circa le opinioni comuni sul contenuto e gli usi possibili di madre (e le sue pagine appaiono particolarmente profetiche, o come minimo brillantemente pionieristiche, di fronte ai dibattiti attuali sulla clonazione e sull’inseminazione artificiale). 47 Rinvio a Violi (1997, 6.13.2) sulla differenza tra prototipicalità categoriale e tipicalità del significato. 48 La situazione non sarebbe diversa da quella immaginata da Locke per le sensazioni (Saggio II, xxxii, 15): “Né le nostre idee semplici potrebbero in alcun modo essere accusate di falsità se, per la diversa struttura dei nostri organi, fosse stabilito che lo stesso oggetto debba produrre idee diverse nello spirito di diversi uomini al medesimo tempo: ad es., se l’idea di una violetta prodotta nello spirito di un uomo dai suoi occhi fosse la stessa che produce nello spirito di un altro uomo un fiorrancio, e viceversa. Poiché, questo non potendosi mai venire a sapere [...] non verrebbero mai in alcun modo confuse nei nomi le idee così ottenute, e non vi sarebbe alcuna falsità né nelle une né nelle altre. Poiché tutte le cose aventi la struttura di una violetta producendo costantemente l’idea che egli chiama blu, e quelle aventi la struttura del fiorrancio producendo costantemente l’idea che egli con altrettanta costanza ha chiamato giallo, quali che siano nella sua mente quelle apparenze medesime, egli potrebbe distinguere le cose per i suoi usi con altrettanta regolarità mediante quelle apparenze, e intendere e significare le distinzioni contrassegnate dai nomi di blu e di giallo,

come se le apparenze o le idee della sua mente, ricevute da quei due fiori, fossero esattamente come le idee che sono nello spirito degli altri”. Riformulato da Wittgenstein il problema suona come: “Supponiamo che ciascuno abbia una scatola in cui c’è qualcosa che noi chiamiamo ‘coleottero’. Nessuno può guardare nella scatola dell’altro; e ognuno dice di sapere che cos’è un coleottero soltanto guardando il suo coleottero. - Ma potrebbe darsi che ciascuno abbia nella sua scatola una cosa diversa. Si potrebbe addirittura immaginare che questa cosa mutasse continuamente” (Ricerche filosofiche I, 293). 49 Solo Maria Corti mi ha guardato con sorpresa dicendomi: “ah, sei tu, ma che cosa hai fatto, hai cambiato pettinatura?” (Storico.) 50 Una variazione di questa esperienza è avvenuta al mio dipartimento universitario. Sono entrato (inopinatamente glabro) nell’ufficio di una collega che ha parlato con me alcuni minuti senza mostrare alcuna sorpresa. Solo dopo che io ero uscito uno studente presente le ha domandato se ero davvero io e, di fronte al suo stupore per quella domanda, ha sottolineato il fatto che non avevo la barba. A quel punto la mia collega ha realizzato. La spiegazione è che mi conosceva da moltissimi anni, e cioè da quando non avevo ancora la barba. Ma nello stesso pomeriggio la collega è passata davanti al mio ufficio, e attraverso la porta aperta ha intravisto, seduto al mio tavolo, un personaggio che non avrebbe dovuto essere in quel posto. Ha avuto un istante di perplessità, poi si è ovviamente ricordata che ero io senza barba. Essa mi conosceva ante-barba, ma in quell’ufficio (ci eravamo trasferiti in quel luogo da pochi anni) mi aveva sempre visto post-barba. Sembrerebbe dunque che essa usasse nei miei confronti due tipi fisionomici diversi, diciamo uno privato e l’altro professionale. Un’altra esperienza che dovrebbe essere comune a persone che hanno escursioni sensibili di peso in seguito a diete periodiche, è d’incontrare altri che si affrettano a dire quanto le abbiano trovate più magre o più grasse del solito; l’affermazione non coincide mai con lo stato del soggetto, vale a dire che il soggetto si sente definito come ingrassato quando ha perso almeno otto chili, e dimagrito quando li ha riacquistati. Il che vuol dire che chi emette il giudizio compara la persona al tipo che se ne è costruito tempo prima e che questo era basato sulla situazione del soggetto al primo o al più significativo incontro. Nei rapporti sociali si è più grassi o più magri non in relazione al responso della bilancia, ma in relazione ai tipi fisionomici altrui.

51 Si noti tra l’altro che, se fossero possibili tecniche di clonazione totale, in cui il clonato non solo avesse lo stesso corpo ma anche gli stessi pensieri, le stesse memorie e lo stesso patrimonio genetico dell’archetipo, allora anche gli individui come Gianni diverrebbero replicabili come un romanzo o una composizione musicale: esisterebbe una “partitura” per produrre Gianni a volontà. 52 Ovviamente si deve considerare il caso in cui io e il mio interlocutore abbiamo una buona familiarità con SV2. Altrimenti tutti abbiamo esperienze d’incertezza, c’è chi per esempio è capace di riconoscere L’Appassionata (o Michelle) alle prime note ma non Gli addii (o Sergeant Pepper) - ma questo è lo stesso che dire che riconosciamo Giovanni Sebastiano perché lavora tutti i giorni con noi e abbiamo invece difficoltà a riconoscere Ludwig ogni volta che lo incontriamo dopo dieci anni. 53 Vedi in proposito alcuni interessanti accenni di Merrell (1981: 165 sgg.). 54 Se il parametro timbrico conta così poco, potremmo dire che la Quinta di Beethoven suonata al mandolino è sempre la stessa composizione? Intuitivamente no - al massimo riconosceremmo la linea melodica. Perché ci accontentiamo invece della trascrizione di SV2? Evidentemente perché la seconda è una composizione per strumento solista, mentre la prima è un’opera sinfonica, e nella esecuzione al mandolino non si passa solo da un timbro all’altro, ma si perde la complessità timbrica essenziale all’opera. Però la risposta non è del tutto soddisfacente. Quali riduzioni d’organico orchestrale siamo disposti a sopportare per dire che quella esecuzione è pur sempre della Quinta? SV2 trascritta per ocarina sarebbe ancora SV2 come lo rimane trascritta per flauto? Se fischietto l’inizio di SV2 sto “eseguendo” SV2 o ne provvedo solo una sorta di parafrasi, come se dicessi che I promessi sposi è la storia di due fidanzati? Oppure fischiettando offro solo un supporto mnemonico per evocare il tipo, come quando dico che I promessi sposi è quel libro che inizia con “Quel ramo del lago di Como”? E che cosa accade con I promessi sposi tradotto in francese? È come SV2 trascritto per flauto? Rinvio ad altra data la risposta a queste e ad altre domande, di grande momento per una teoria della traduzione detta intersemiotica (per cui rinvio a Nergaard 1995), ma meno essenziali per il problema che sto discutendo qui.

55 Credo che questo si avvicini al secondo dei due casi considerati da Marconi (1997: 3): competenza inferenziale intatta e cattiva competenza referenziale contro buona competenza referenziale e cattiva competenza inferenziale. 56 Brüggen sarebbe capace di identificare il suo TC con il suo CM, ma in tal caso saremmo di fronte alla stessa competenza che lo zoologo ha del topo, e abbiamo visto che ci interessa solo la competenza che anche noi abbiamo in comune con lo zoologo.

4. L’ORNITORINCO TRA DIZIONARIO ED ENCICLOPEDIA 1 Diego Marconi (1986, Appendice) ha esaminato una serie di dizionari, bilingui e monolingui, dal Medioevo al XVIII secolo, e ha trovato che le definizioni (o glosse) appaiono (quando appaiono e non si tratta di semplici repertori di parole permesse): (i) come sinonimo in altra lingua; (ii) come istruzione per l’identificazione o produzione del referente (vedi ad esempio Sesto Pompeo Festo, II secolo, De verborum significatu, per cui la murie, salamoia, si ottiene tritando il sale grosso in un mortaio e raccogliendolo in un vaso di creta, eccetera; (iii) come puri lemmari di parole difficili ricondotte a traduzioni in parole semplici (ma il problema della competenza dizionariale è quello della definizione delle parole semplici!); (iv) per sinonimi (adulterate = to counterfeit or to corrupt); (v) usando il latino come lingua franca (ambiguo = “anceps, obscurus”). 2 Gli inconvenienti del metodo di Wilkins (1668) sono già quelli che avevo rilevato nella definizione di bachelor in Katz e Fodor (si veda Eco, 1975, 2.10). 3 Anche quando gli psicologi cognitivi parlano di attività categoriale si riferiscono in gran parte a una prima capacità di sussumere l’esperienza sotto classificazioni che possiamo definire selvagge. Per es. Bruner et al. (1956: 1) parlano di classi di “situazioni pericolose” in cui si è naturalmente portati a inserire un allarme aereo, un pitone disturbato mentre ci si arrampica su un albero, il rimprovero di un superiore. 4 Per queste informazioni cfr. Alan Rey, ed., Le Rohert. Dictionnaire Historique de la Langue Française. Paris: 1992. 5 Ovvero, si procede come molti di noi organizzano la propria biblioteca. Se la Estetica di Croce dieci anni fa stava nella divisione

detta “Estetica”, nel momento in cui si inizia una ricerca gnoseologica, il libro può spostarsi (sino alla fine della ricerca) nella sezione “Conoscenza”. Il criterio è personale, ma cionondimeno pertinente, una volta fissate le regole di reperimento. 6 A questa categoria di proprietà cancellabili a livello di CN non appartengono solo quelle di carattere tassonomico. Marconi (1997: 43) fa l’esempio di due asserzioni che, secondo la sua prospettiva, sarebbero entrambe necessarie ma non costitutive della competenza comune, per quanto la prima sia universale e la seconda particolare: (i) l’oro ha il numero atomico 79, (ii) 37 è il tredicesimo numero primo. L’enunciato (i) non riflette certamente la competenza comune, e accetterei di considerarlo “necessario”, e cioè non cancellabile, all’interno del discorso scientifico. Potrebbe non esserlo domani, quando si scopra che il paradigma odierno non rende conto in modo adeguato della differenza tra gli elementi. Un orefice distingue l’oro dal similoro in base a suoi criteri che definirei empirici (non mi interessa quali), e per il resto la gente comune ha dell’oro un TC abbastanza vago, ciò che permette a truffatori e falsari di fare facilmente passare per oro ciò che non è tale. Quanto a (i) potrebbe essere più “cogente” di (ii) se si accettasse la distinzione kantiana tra giudizi analitici e giudizi sintetici a priori. In effetti Kant avrebbe detto che le nostre conoscenze circa il numero dipendono dallo schematismo trascendentale, mentre quello dell’oro è un concetto empirico (in effetti Kant presumeva di sapere come si possa generare il numero 37 ma non come si potesse determinare che cosa sia l’oro). C’è tra i due enunciati una differenza che non mi pare catturata completamente dall’opposizione universale e necessario vs particolare e necessario. Certamente (ii) non appartiene al CN: ci basta sapere che 37 è un numero minore di 38 e maggiore di 36, e come possa generarlo. Se ci dicessero di andare a comperare tante noccioline quante sono numerabili in base al tredicesimo numero primo, credo torneremmo a mani vuote. Queste osservazioni ci consentono di dire che negare che i topi siano MAMMIFERI, che l’oro abbia quel numero atomico e che 37 sia il tredicesimo numero primo, dal punto di vista del CN sono tutte e tre affermazioni irrilevanti, proprio perché sono importanti (e non cancellabili) solo ai fini di una conoscenza settoriale più elaborata. 7 Che cosa percepiamo quando vediamo qualcuno che indossa la camicia sotto la giacca? Non vediamo ma sappiamo che la camicia

avvolge anche la schiena. Lo sappiamo perché abbiamo un TC della camicia fondato su esperienze percettive (e produttive). Rimarrebbe opzionale se abbia un colletto e come, se abbia maniche lunghe o corte, ma se ha polsini allora ha maniche lunghe. Ora, in Totò e la dolce vita la moglie, avarissima, impone al marito di indossare una camicia fatta di solo colletto, sparato e polsini. Il resto sarà coperto dalla giacca e non c’è bisogno di sprecare tessuto inutile. Totò ragionevolmente obietta che, se per caso gli venisse un malore in tram e gli levassero la giacca, tutti si accorgerebbero del vergognoso inganno: egli sta dicendo in effetti che in tal caso gli astanti si accorgerebbero di avere integrato stimoli incompleti con un TC forte, arrivando così a pronunciare un giudizio percettivo errato. A quel punto gli astanti deciderebbero che quella che avevano percepito come una camicia era invece una finta camicia. Ma la moglie (escludendo la possibilità di questo incidente) specula sulla propria fiducia incoercibile nell’esistenza di TC che comprendono tratti incancellabili. 8 D’altra parte Walt Disney è riuscito a farci riconoscere come topo un animale con la coda e le orecchie del topo, ma bipede e con un torso antropomorfo. È legittimo chiederci se lo avremmo riconosciuto subito come topo se non ci fosse stato presentato subito come Mickey Mouse. In tal caso diremo che il nome, suggerendoci un CN, ci ha orientati ad applicare con indulgenza il TC (e la convenzione iconografica ha fatto il resto). 9 La storia è così stupefacente, ancora per molti versi controversa (alcune testimonianze o articoli scientifici dell’epoca sono di difficile reperimento, come ammettono gli storici), e la bibliografia così complessa che io mi atterrò a quanto ho appreso da Burrell (1927) e Gould (1991), rimandando ad essi per riferimenti bibliografici più completi. Quando gli stessi riferimenti di Burrell sono incompleti, registro tra parentesi “cit. Burrell”. Avverto inoltre che su Internet ho trovato 3000 indirizzi riguardanti l’ornitorinco, alcuni dei quali del tutto accidentali (persone o istituzioni che hanno deciso di intitolare all’ornitorinco club, librerie et similia), ma altri degni di interesse, e che vanno da centri universitari a chi ritiene l’ornitorinco la migliore dimostrazione dell’esistenza di Dio, a gruppi fondamentalisti che, appurata l’anzianità dell’ornitorinco rispetto ad altri mammiferi, s’interrogano come questo animaletto abbia potuto migrare dal Monte Ararat, alla fine del Diluvio, sino alle lande australiane.

10 Account of the english colony in the New South Wales, 1802: 62 (cit. Burrell). 11 The Naturalist Miscellany, Plate 385, 386 (cit. Burrell). 12 General Zoology, vol. I (cit. Burrell). 13 Per Home cfr. “A description of the anatomy of the Ornithorhynchus paradoxus, Philosophical Transactions of the Royal Society, part 1, n. 4, pp. 67-84. Per Geoffroy de Saint-Hilaire vedi “Extraits des observations anatomiques de M. Home, sur l’échidné”, Bulletin des Sciences par la Société Philomatique, 1803; “Sur les appareils sexuels et urinaires de l’Ornithorynque”, Mémoires du Muséum d’Histoire Naturelle, 1827. Per Lamarck, Philosophie zoologique, Paris, 1809. 14 A meno che non si manifesti attraverso il linguaggio bensì attraverso il comportamento. Ponete dieci uomini a marciare nel deserto e, dopo giorni di sete, fate loro incontrare tre palme e una pozza d’acqua: tutti e dieci si butteranno verso l’acqua e non verso le palme. Hanno riconosciuto l’acqua? Il problema è mal posto, hanno certamente riconosciuto qualcosa che tutti desideravano in egual misura, ma potremo dire che l’hanno riconosciuta come acqua solo dopo averli portati a interpretare verbalmente il loro comportamento, o solo dopo che due di noi ci fossimo accordati a interpretarlo in tal modo - ed ecco che saremmo ritornati al punto di partenza. 15 L’analisi di Hjelmslev (1943), per cui lo spazio semantico ricoperto dal termine francese bois non coincide con quello coperto dalla parola italiana legno, ci dice certamente che la categoria “bois” può abbracciare per un parlante francese sia del legno da riscaldamento che del legno da costruzione (che per un inglese sarebbe soltanto timher) e un insieme di alberi che noi chiameremmo bosco. Questa segmentazione del continuum può corrispondere a quello che Davidson, negandolo, chiama schema concettuale. Ma è certo che un francese ha un TC per il legno e un altro per il bosco, anche se la sua lingua lo obbliga a usare un termine omonimo. Nello stesso modo in cui noi italiani distinguiamo benissimo il figlio di nostra figlia dal figlio di nostro fratello, anche se abbiamo (diversamente dai francesi) il solo termine omonimo nipote per indicare entrambi. 16 I Prolegomena di Hjelmslev sono del 1943. “Two dogmas of empiricism” di Quine è del 1951. The Structure of Scientific Revolutions di Kuhn è del 1962. Che poi i due filoni abbiano proceduto

in modo indipendente è un’altra faccenda. Hjelmslev conosceva Carnap, da rapporti personali posso testimoniare che Kuhn non conosceva Hjelmslev ma si era ripromesso di vedere la tradizione strutturalista prima di scrivere le cose che non ha potuto terminare prima della morte, ignoro quanto Quine conosca della tradizione strutturalista. 17 In ogni caso ecco come la pensava in “The Semantic Conception of Truth and the Foundations of Semantics” (Philosophy and Phenomenological Research 1944): “Noi possiamo accettare la concezione semantica della verità senza rinunciare a un atteggiamento gnoseologico qualsiasi; possiamo rimanere realisti ingenui, realisti critici o idealisti, empiristi o metafisici - o qualunque cosa fossimo prima. La concezione semantica è completamente neutrale nei confronti di tutte queste questioni”. Cfr. Bonfantini 1976, III, 5 ed Eco 1997. 18 Se assumiamo l’esempio tarskiano in modo ingenuo ci troviamo nella stessa situazione degli editori di Saussure che hanno rappresentato il rapporto tra significante e significato così con un ovale diviso in due, dove nella parte inferiore sta la parola arbre e nella parte superiore il disegnino di un albero. Ora, il significante arbre è certamente una parola, ma il disegno dell’albero non vuole e non può essere un significato o una immagine mentale (perché è se mai un altro significante, non verbale, che interpreta la parola sottostante). Visto che il disegno elaborato dagli editori di Saussure non voleva avere alcuna ambizione formale, ma solo una funzione mnemonica, possiamo disinteressarcene. Ma con Tarski il problema è più serio. 19 II convegno, dal titolo “W.V.O. Quine’s Contributions to Philosophy”, ha avuto luogo presso l’International Center of Semiotic and Cognitive Studies dell’Università di San Marino nel maggio 1990. Gli atti del convegno sono ora in Leonardi, P., e Santambrogio, M., eds., 1995. 20 Parlo della mappa, non della “fisionomia” dei luoghi: per questo problema valgono le osservazioni fatte in 3.7.9. 21 Vorrei rimandare a una vecchia ricerca sul latrato del cane (che appare ora in Eco e Marmo 1989). La ricerca era nata (in sede di seminario sulla semiotica medievale) avvedendoci che diversi autori dell’epoca, nel parlare di varie forme espressive da opporre al linguaggio umano articolato, citavano sempre il latratus canis (insieme al gemito degli infermi o al canto del gallo). Siccome si trattava di

classificazioni molto complesse, si era cercato di tracciare per ciascun autore una sorta di albero tassonomico, e nel farlo ci si era resi conto che il latrato canino, il gemito degli infermi e il canto del gallo occupavano, a seconda degli autori, un nodo diverso dell’albero (e talora apparivano come esempi dello stesso comportamento semiosico, talora come casi diversi). I medievali avevano l’abitudine (non so quanto deprecabile, ma certamente opposta a quella dei moderni) di dire cose nuove facendo finta di ripetere quanto altri avevano detto prima di loro, per cui è sempre difficile comprendere quando assumessero posizioni contrarie alla tradizione precedente. Quell’esperimento ci aveva mostrato con chiarezza che discussioni apparentemente analoghe sui fenomeni comunicativi celavano profonde differenze sistematiche. In breve, e senza addentrarci nel merito, per un pensatore il latrato del cane era una cosa e per un altro un’altra. Lo stesso comportamento, alla luce del sistema, assumeva significati diversi. Eppure si trattava dello stesso fenomeno che ciascun autore percepiva come gli altri (si trattava dell’esperienza comune del sentire abbaiare dei cani). Ancora una volta si trattava di enunciati osservativi analoghi (c’è un cane che abbaia) o addirittura di enunciati semiotici tutto sommato omologhi (i cani sono animali che abbaiano), per cui, anche a distanza di qualche secolo, tutti davano l’impressione di avere lo stesso CN di cane. Eppure, alla luce del quadro di assunzioni di ciascuno, e quindi nel quadro di diversi CM, quel cane che latrava rappresentava un fenomeno diverso. Il latrato del cane era come la casa di mattoni in Vanville. 22 Cfr. in proposito Picardi nella Introduzione a Davidson 1984 (ed. it.) e Picardi 1992. Picardi (1992: 253) si domanda quale sia il rapporto tra le teorie di cui un interprete deve disporre per capire una lingua e le teorie che egli deve costruire di volta in volta per ogni singolo interlocutore a ciascuno stadio della conversazione. Non mi pare che Davidson faccia alcunché per sciogliere questo nodo e proprio perché gli manca, forse per ragioni linguistiche, una differenza tra langue e parole, ovvero tra significato dei termini di una lingua e senso degli enunciati. 23 Vedi in proposito le osservazioni di Alac 1997. 24 Rinvio in proposito all’analisi fatta da Zijno 1996 sulle posizioni di Davidson e di Sperber-Wilson. È chiaro che nessuno di questi autori sostiene che non esistano alcune convenzioni linguistiche, e che infine

seguiamo tutti determinate regolarità, sia per presupporre credenze nell’interlocutore, che per contrattare pertinenze ed elaborare inferenze sulla situazione comunicativa. Tuttavia si pone l’accento sul lavoro per “minimizzare il disaccordo”, lasciando capire che, avendo una buona teoria sul parlante, si possa fare a meno di una teoria sulla lingua. Eppure quando si dice che “comunicare significa tentare di modificare l’ambiente cognitivo di un altro individuo” (Zijno 1996, 2.1.2) e che “un ambiente cognitivo per un individuo è l’insieme dei fatti che gli sono manifesti” (Sperber e Wilson 1986: 65) questo ambiente cognitivo viene ad assomigliare molto a quello che chiamo TC, e per presupporlo nel parlante debbo averne anch’io una rappresentazione in forma di CN. L’inferenza, il contratto, riguardano lo sforzo di rendere pubblicamente compatibili i nostri ambienti cognitivi. È il caso del mio esempio di Ayers Rock. È chiaro che se qualcuno mi dice che Ayers Rock è un animale, ne inferisco che il suo ambiente cognitivo è non solo abbastanza dissimile dal mio ma anche da quello pubblicamente concordato. Minimizzare il disaccordo vuole dire condurre l’altro ad accettare almeno in parte un CN passabilmente accettabile dalla Comunità. Al massimo posso estendere il principio di carità oltre i confini normali, se parlo con un primitivo che vede davvero Ayers Rock come un animale. Ma accetto di adattare il mio ambiente cognitivo al suo solo ai fini di una interazione comunicativa, che ritengo opportuno salvare a tutti i costi. Dopo, continuo a pensare che quella montagna non sia un animale. Per dirla bruscamente, il principio popolare per cui ai pazzi si dà sempre ragione non significa che la Comunità accetti il loro punto di vista. Che poi la Comunità si sia sbagliata, e avesse ragione quello che ritenevamo un pazzo, è un’altra faccenda: la storia c’insegna che spesso così è avvenuto, e la Comunità ci ha messo un poco di tempo a modificare quello che, per regola sociale, tutti ritenevano giusto. In definitiva, la contrattazione non istituisce un ambiente cognitivo, tiene conto di ambienti cognitivi precedenti, li corregge, cerca di omogeneizzarli. 25 Dire che si contratta di volta in volta non vuole dire che non si sedimentino via via convenzioni più forti e più stabili. Cfr. Dummett 1986: 447-458. Una bella visione negoziale del significato si trova in Bruner, uno dei cui meriti è di aver posto il problema del Meaning al centro delle Scienze Cognitive. Non solo egli afferma che la cultura rende i significati pubblici e compartecipabili (e non gli è estranea

l’idea peirceana della pubblicità degli interpretanti) ma altresì sostiene che, per quanto ambigui e polisemici siano i nostri discorsi, noi siamo sempre capaci di rendere pubblico il loro significato negoziandolo (1990: 13). 26 Sugli Schtroumpf riflette anche Marconi 1997: 123 e n., citando il mio articolo “Schtroumpf und Drang”, in Alfabeta, 5 settembre 1979 (ora in Sette anni di desiderio. Milano: Bompiani, 1983: 265-271). 27 Cito nell’originale perché, come avevo osservato nel mio articolo, la traduzione italiana usa un numero di puffi inferiore al numero di schtroumpf del testo in francese. 28 Come è l’universo cognitivo degli Schtroumpf? Visto che chiamano indifferentemente schtroumpf la casa, il gatto, il topo e gli scapoli, questo forse significa che non posseggono questi concetti e non sanno distinguere un gatto da uno scapolo? Oppure hanno un sistema dell’espressione (un lessico, in particolare) abbastanza povero, ma un sistema del contenuto almeno tanto vasto e articolato quanto le esperienze consentite dal loro ambiente? O ancora, siccome la lingua Schtroumpf consente di dire tanto la quinta schtroumpfa di Beethoven quanto la schtroumpfa sinfonia di Beethoven e la quinta sinfonia di Schtroumpf (ma mai la schtroumpfa schtroumpfa di Schtroumpf!), forse hanno un lessico tanto ricco quanto il nostro e ricorrono all’omonimo tuttofare per ragioni di pigrizia, di afasia, per vezzo o per segretezza? Ma l’usare una sola parola per tante cose non li indurrà a vedere le cose, tutte, unite da una strana parentela? Se sono Schtroumpf un uovo, un badile, un fungo, non vivranno in un mondo dove i legami tra badile, uovo e fungo sono molto più sfumati che non nel mondo nostro e di Gargamella? E se fosse così, questo conferirebbe agli Schtroumpf un contatto più profondo e ricco con la totalità delle cose, o li renderebbe inabili ad analizzare in modo corretto la realtà, recintandoli nell’universo impreciso del loro pidgin? Sono tutte questioni che non mi sento di risolvere in questa sede, ma che elenco per dire che le storie di Peyo, anche se sono state concepite per bambini, pongono alcuni problemi semiotici agli adulti.

5. NOTE SUL RIFERIMENTO COME CONTRATTO 1 Per esempio quello usato in Santambrogio (1992), che si occupa del riferimento a “oggetti generali”. Santambrogio intende studiare

come si possano trattare in termini di quantificazione gli enunciati circa gli oggetti generali, e in una semantica vero-funzionale il problema presenta qualche interesse, ma ritengo che in tal caso riferirsi a qualcosa diventi sinonimo di parlare di qualcosa. Ogni volta che parliamo, parliamo di qualcosa, ma in tal caso non vedo quale fenomeno specifico sia significato dal termine riferimento. 2 Sulla differenza tra asserti semiotici e fattuali vedi Trattato, 3.2. Se poi dicessi che tutti gli ornitorinchi depongono uova, e se pure lo quantificassi come ho fatto per la proprietà della mammiferità, certamente non mi starei riferendo a tutti gli ornitorinchi esistenti ed esistiti, perché non si può escludere che ci siano ornitorinchi sterili. Semplicemente, ancora una volta starei dicendo che, a qualunque animale si voglia applicare il termine ornitorinco, si deve trattare di un animale che ha la proprietà di deporre uova. Si potrebbe discutere se la mammiferità sia una proprietà diversa dall’allattare i piccoli: a prima vista sembrerebbe così, perché che gli ornitorinchi allattino i piccoli è stato ormai provato da diversi enunciati osservativi, mentre che siano mammiferi dipende da convenzione tassonomica; ma poiché la tassonomia registra come mammiferi gli animali a cui viene attribuita la proprietà di allattare i propri nati, e numerosi enunciati osservativi ci dicono che gli ornitorinchi allattano i piccoli, possiamo considerare i due enunciati come equivalenti dal nostro punto di vista. Chi li emette non si riferisce a nulla bensì contribuisce a riconfermare l’accordo sociale circa il CM da assegnare al termine corrispondente, ovvero circa il formato del sistema categoriale assunto all’interno di un dato schema concettuale. 3 La funzione referenziale non è necessariamente espressa dalla forma grammaticale. Prendiamo un enunciato come Napoleone è morto il 5 maggio. L’enunciato deve venire inteso come referenziale se è emesso nello stesso mese da un corriere che da Sant’Elena raggiunge Londra; uno studioso che dicesse, in base a nuovi documenti che ha appena scoperto, che Napoleone non è morto il 5 maggio, certamente si riferirebbe ancora a Napoleone come individuo, e se dicesse che in tutti i manuali di storia che ho consultato si provvede una informazione errata su Napoleone certamente si riferirebbe a tutti i singoli manuali di storia che ha consultato. Ma se uno studente rispondendo a una interrogazione di storia dicesse Napoleone è morto il 5 maggio, metterei in dubbio che si tratti ancora di un enunciato con funzione

referenziale. L’alunno, disinteressatissimo a Napoleone e alla sua vita, per compiacere il professore sta soltanto citando un dato di enciclopedia. Egli sta cioè cercando di dimostrare che conosce la convenzione culturale per cui alla nozione di Napoleone si associa la proprietà di essere morto il 5 maggio 1821, tanto quanto rispondesse al professore di chimica che l’acqua è H2O (dove con molta evidenza non si starebbe riferendo all’acqua ma a ciò, che ne dicono i manuali vigenti). Tanto è vero che se lo studente dicesse che Napoleone è morto il 18 giugno 1815, il professore gli direbbe che ricorda male quello che dicono i manuali, dato che quella è registrata come la data della battaglia di Waterloo. Se però il professore osservasse con sarcasmo guarda che a quella data Napoleone era vivo e vegeto, in tal caso intenderebbe riferirsi a Napoleone come individuo. Sono d’accordo che si potrebbe contestare questo mio esempio, e sarei anzi lieto se qualcuno lo facesse, perché mi conforterebbe nell’idea che, decidere se un enunciato abbia o meno funzione referenziale, è materia di contrattazione. 4 II perché non fosse stato detto o ammesso lo spiega egregiamente Ducrot. Per Saussure e per la posterità saussuriana i significati erano puramente differenziali e non erano definiti per il loro contenuto. Nel significato di un segno si registravano solo i tratti distintivi che lo distinguevano rispetto agli altri segni di una lingua, e non una descrizione dei suoi possibili referenti: “per riprendere l’esempio aristotelico, il significato di homme non comporta il tratto ‘implume’, perché si dà il fatto che la classificazione naturale incorporata al francese non opponga homme e oiseau all’interno di una categoria bipede, bensì homme e animal all’interno di una categoria être animé” (1995: 303). 5 Devo ammettere di avere dato origine, in opere precedenti, all’equivoco che la semiotica non dovesse essere interessata ai processi di riferimento, da un lato, e che si potessero trattare in modo unitario sia il problema dell’identificazione del referente che il problema degli atti di riferimento. Dalla Struttura assente a Le forme del contenuto, da Segno al Trattato mi sono ingegnato di trovare titoli e formule che non lasciavano adito a dubbi, come “l’equivoco del referente” e “la fallacia referenziale”. Ma la polemica era dovuta al fatto che in quelle opere si voleva sottolineare come la cultura costituisse un sistema del contenuto, e come i discorsi producono un effetto di verità, così che appariva meno

importante stabilire a quale individuo o stato d’affari ci si riferisse dicendo che Dione corre. Naturalmente nessuno pensava che non si usi il linguaggio per riferirsi a qualcosa. Il problema era di vedere il riferimento come funzione del significato e non viceversa. Tuttavia l’enfasi “antireferenzialista” era evidente. Nelle Forme del contenuto (Eco 1971) si faceva una distinzione tra giudizi semiotici e giudizi fattuali, ma si diceva che neppure i giudizi fattuali reintroducono il referente nell’universo semiotico: “un giudizio fattuale ha rilievo semiotico solo se è assunto come vero, indipendentemente dalla sua verifica e dal fatto che sia una menzogna” (p. 90). Il che era giustissimo, se si voleva richiamare a una considerazione dei segni come fenomeni culturali, ma non teneva abbastanza in considerazione il fatto che, prima che un giudizio fattuale venga assunto come garantito dalla Comunità, bisogna pure che esso sia stato pronunciato in certe circostanze e abbia ottenuto un assenso intersoggettivo. Però una intera sezione di Segno (Eco 1973) è dedicata alle discussioni storiche sui rapporti tra segno, pensiero e realtà. La seconda parte del Trattato parla di che cosa accade quando esprimiamo giudizi indicali e di come, nel riferirsi a oggetti, si confrontano dei dati percettivi con dei dati culturali; mentre i capitoli sui modi di produzione segnica vertono in grandissima parte sul lavoro che si compie nell’interpretare sintomi, impronte, indizi, vettori toposensitivi onde apprendere qualcosa su ciò che è il caso, e come si costruiscono o si assumono come segni esempi, campioni, proiezioni, per riferirsi, indicare, designare, raffigurare oggetti del mondo. Infine, l’essermi tanto occupato di abduzione, e non solo a proposito di leggi generali, ma anche a proposito di fatti - come accade nelle inchieste di Sherlock Holmes (Eco e Sebeok 1983) significa che ero interessato ai meccanismi mentali mediante i quali si perviene a dire qualcosa di vero o almeno di verosimile in riferimento a individui ed eventi specifici. Sono grato ad Augusto Ponzio (1993: 89) per avere osservato che nel Trattato passavo da una semiotica apparentemente “antireferenziale” a una semiotica “non immediatamente referenziale”. Vale a dire, se prima sembrava che affermassi che la semiotica non ha nulla a che vedere coi nostri rapporti con la realtà, nella seconda fase dicevo che non è possibile spiegare come noi ci riferiamo alla realtà se prima non si stabilisce come diamo significato ai termini che usiamo.

6 Riassumo un argomento di Bonomi (1994, 4). Nel 1934 Carlo Emilio Gadda pubblica un articolo, “Mattinata ai macelli”. Si trattava della descrizione del macello di Milano, ma se l’articolo (rimasto inedito) non avesse mai menzionato la città di Milano e un ricercatore ne avesse trovato una copia manoscritta tra le carte inedite di Gadda, avrebbe potuto intenderlo come un esempio di finzione narrativa. Se più tardi poi scopre che il testo era un articolo giornalistico, che andava giudicato per la sua veridicità, pur cambiando opinione sulla natura di quel testo, il ricercatore non avrebbe bisogno di rileggerlo. Il mondo descritto, gli individui che lo abitano, le loro proprietà, sarebbero sempre gli stessi e semplicemente il ricercatore ora “proietterebbe” quella rappresentazione sulla realtà. Dunque “perché il contenuto di un resoconto che descrive un certo stato di cose sia afferrato, non è necessario che a quel contenuto siano applicabili le categorie del vero e del falso”. 7 Per le mie obiezioni alla designazione rigida rinvio a Eco 1984, 2.6. 8 In modo a-tecnico Campanini procede come il computer pseudointelligente del progetto Eliza. In questo esperimento il computer, che ovviamente non capisce che cosa stia dicendo l’interlocutore umano, è istruito a cogliere un soggetto nell’enunciato dell’interlocutore e a costruirvi intorno una domanda che sembra intelligente: se l’interlocutore ha detto che aveva problemi col padre il computer chiede “mi parli un poco di suo padre”. Nella scenetta del sarchiapone Campanini si limita a cogliere il nome della proprietà ipotizzata da Chiari e dice in sostanza: “ma la proprietà che lei ha nominato non appartiene al sarchiapone”. 9 Su questo tipo di presupposizioni esistenziali vedi Eco e Violi 1987 ed Eco 1990, 4.4. 10 Su questo punto si potrebbe riaprire la vecchia controversia medievale se l’esistenza sia un accidente dell’essenza (attributivamente, Avicenna) o un suo atto (Tommaso). Ma certamente occorre distinguere tra uso predicativo ed uso esistenziale dell’esistenza (vedi per una limpida sintesi Piattelli Palmarini 1995, 11). Questo permette di chiarire un punto discusso in 2.8.3 riferendomi all’interpretazione di Fumagalli (1995) secondo cui le tre categorie peirceane della Firstness, Secondness e Thirdness, se nel primo Peirce erano elementi della proposizione, nel secondo sono momenti dell’esperienza. Come

momento dell’esperienza l’esistenza non è un predicato, è lo scontro contro qualcosa che sta contro, di fronte a me, anteriore a ogni elaborazione concettuale - ed è praticamente quel sentimento immediato dell’essere di cui parlavo in 1.3. È una esistenza prepredicativa. Ma quando invece affermo che Parigi ha la proprietà di esistere in questo mondo mentre le Città Invisibili di Calvino non ce l’hanno, sono passato all’esistenza come predicato. 11 Si veda per i paradossi della designazione rigida in contesti scientifici, Dalla Chiara e Toraldo di Francia 1985. 12 Mi fa notare Alessandro Zijno che anche in tal caso la scatola chiusa avrebbe pur sempre un’etichetta minima (quell’it., o fr., quel “domain” che appare alla fine dell’indirizzo, e che mi permette di risalire se non altro alla zona del battesimo). Non sempre il “domain” si riferisce a un paese, e io posso risiedere in Italia e avere l’indirizzo [email protected]. 13 Si potrebbe dire che nessuno è veramente interessato alla soluzione. Ma se dalla relazione Jekyll-Mary fosse nato un figlio, Charles, che all’età di vent’anni scopre che i Jekyll erano due, Charles potrebbe essere seriamente interessato a sapere chi fosse il proprio padre carnale. Visto che, a causa dei rapporti sessuali quotidiani tra Jekyll e Mary, sarebbe ormai impossibile determinare in quale giorno Charles fosse stato concepito, ecco il caso di qualcuno che saprebbe di certo che il proprio padre è certamente uno dei due fratelli Hyde, e cercherà sempre un modo per sapere quale dei due egli fosse. 14 Holmes pensa come Putnam (1992) che la Cosa in sé non sia tanto un inconoscibile per definizione quanto un limite ideale della conoscenza. Pertanto consento anche con Føllesdal (1997: 453): la rigidità della designazione è una idea regolativa, nel senso kantiano del termine, una nozione normativa. 15 Tra gli infiniti contributi alla discussione sull’assassino di Smith cito solo tre testi che ho tenuto presenti durante la stesura di questo paragrafo: Bonomi (1975: 4), Santambrogio (1992) e soprattutto Berselli (1995: 1.3). 16 In origine Nancy voleva sposare un norvegese. A mia scienza l’esempio appare in McCawley 1971, ma forse circolava già. Interessanti suggerimenti sul caso di Nancy mi sono venuti (in forma manoscritta) da Franz Guenthner negli anni Settanta durante un dibattito al Centro di Semiotica di Urbino.

17 Sono sempre irritato quando ricevo una cartolina, poniamo, da Bali con “Cari saluti. Giovanni”. Quale Giovanni? È possibile che quel Giovanni non sappia che ci sono al mondo tante altre persone con il suo stesso nome, e che di queste ne conosco almeno una ventina? Possibile che ritenga di essere il solo Giovanni che conosco? Sto citando un caso che è molto comune. Questo significa che le persone pensano al loro nome in termini di designazione rigida. Ma che le persone commettano questo errore (o incorrano in questa debolezza) non è una ragione per cui lo debbano fare anche i filosofi. 18 Come si è detto alla nota 16, ho preso l’esempio di Nancy da McCawley. Si tratta della stessa Nancy? È vero che la sua voleva sposare un norvegese e la mia un filosofo analitico, ma la stessa Nancy potrebbe essere assai volubile. Oppure potrebbe nutrire la strana credenza che tutti i filosofi analitici siano norvegesi. Quando parleremo della mia Nancy parleremo anche di quella di McCawley? Come si vede, contrattare il riferimento è operazione molto complessa. 19 I mondi inconcepibili (in narrativa e nelle arti figurative) sono un esempio di impossibilia, cioè mondi che il lettore è portato a concepire soltanto quanto basta per capire che è impossibile concepirli. Dolezel (1989: 238 sgg.) parla a questo proposito di “self-voiding texts” e di “self-disclosing meta-fiction”. In questi casi, da un lato, le entità possibili sembrano essere portate all’esistenza narrativa, dato che vengono applicati dei procedimenti convenzionali di convalida; dall’altro, lo statuto di questa esistenza è reso incerto perché le fondamenta stesse del meccanismo di convalida sono minate. Questi mondi narrativi impossibili includono contraddizioni interne. Dolezel fa l’esempio di La maison de rendez-vous di Robbe-Grillet, in cui uno stesso evento è introdotto in diverse versioni conflittuali, uno stesso luogo è e non è l’ambientazione del romanzo, gli eventi sono ordinati in sequenze temporali contraddittorie, una stessa entità narrativa si ripresenta in diversi modi esistenziali. 20 Non basta obiettare che qui non si tratta di riferimento bensì di rappresentazione. A parte il fatto che ciò verrebbe a contraddire l’opinione abbastanza assestata che con l’immagine di qualcosa possiamo riferirci a qualcosa (si pensi a una foto d’attualità che costituisce notizia a tutti gli effetti), i paradossi dell’inconcepibilità artatamente esclusi dalla fenomenologia del riferimento -

riemergerebbero nella fenomenologia della rappresentazione e non ci avremmo guadagnato niente. 21 Per una buona silloge delle varie discussioni cfr. Salmon (1981, Appendix 1). 22 D’altra parte lo stesso argomento potrebbe essere usato anche per paesi dalla storia più stabile, Francia compresa, e non è facile dire a che cosa si riferisse l’espressione Stati Uniti d’America se non ci si chiede se sia stata pronunciata prima o dopo l’acquisizione della Louisiana o dell’Alaska. 23 La più recente è quella di Santambrogio 1992 per cui i personaggi di finzione sarebbero simili agli “oggetti generali”. 24 Se le proprietà di tipo (d) possono apparire di scarso rilievo per una definizione enciclopedica del personaggio fittizio, si veda questa notizia curiosa che ho trovato sulla Repubblica del primo settembre 1985 (siccome la notizia appariva in versione di poco diversa nel Corriere della Sera dello stesso giorno, si può supporre che provenisse da un testo di agenzia): “Era la vendetta di una donna gelosa e non il messaggio in codice di una spia il falso necrologio pubblicato nei giorni scorsi dal Times di Londra. Lo rivela il giornale The Sun. Il necrologio annunciava l’improvvisa morte in Cornovaglia di Mark, Timoth e James, ‘figli prediletti’ di una contessa tedesca. Rita Colman, un magistrato londinese, ha confessato di avere fatto pubblicare il testo su richiesta della contessa Margarete von Hessen, madre dei tre ragazzi. Il giornale ha ora scoperto che l’attuale marito di Rita Colman ha divorziato dalla contessa van Hessen cinque anni fa, ed è il padre di Mark, Timoth e James. Itre ragazzi sono vivi e vegeti e uno di loro, Mark, sta appunto trascorrendo le vacanze in Cornovaglia, dove è stato rintracciato dal Sun. ‘Chi ha fatto questo scherzo macabro è la stessa persona che ha cercato di infangare il nome di mia madre due anni fa’, ha commentato il giovane. Nel 1983 un giornale inglese aveva diffuso una falsa notizia secondo cui un prelato della chiesa anglicana, Robert Parker, stava per abbandonare il lavoro e la moglie per andare a vivere con la contessa von Hessen. Da ieri Rita Colman non è reperibile a Londra: è partita con il marito in vacanza nel Devon”. Si noti che questo testo nomina con precisione gli attori della vicenda, li lega mutuamente attraverso relazioni S-necessarie, attribuisce loro sia proprietà “anagrafiche” sia azioni abbastanza precise. Tuttavia se ritenessimo che si tratta di un racconto cadremmo in preda a molte

perplessità. Certamente esiste una Rita Colman che ha confessato di aver fatto pubblicare la notizia p che è falsa, ma perché l’ha fatta pubblicare? Su richiesta della contessa von Hessen, ex moglie di suo marito, si dice. Ma siccome la contessa sa che i tre ragazzi sono vivi, perché ha indotto la Colman a pubblicare la notizia? Per terrorizzare l’ex marito? E perché la Colman ha accettato, visto che quell’ex marito è ora il suo, e che evidentemente lo vuole in buono stato di spirito per trascorrere con lui le vacanze nel Devon? Per compiacere la contessa? Ma perché, se, secondo la insinuazione di uno dei figli, la Colman non prova alcuna tenerezza verso la contessa e aveva anzi già diffuso la falsa notizia dei suoi amori con un prelato anglicano, per infangare la sua reputazione? Se questa notizia fosse un racconto non riusciremmo a parafrasarlo in modo sensato, proprio perché ci confonde le idee circa le proprietà di tipo (d). Oppure lo prenderemmo come l’inizio di una vicenda, i cui misteri dovranno essere chiariti in seguito. Naturalmente il testo è confusivo anche come notizia di cronaca, ma a questo punto basta pensare che il redattore di agenzia fosse un pasticcione o che i giornali italiani abbiano malamente tradotto un testo inglese, e la cosa finisce lì. 25 Semprini (1997) dedica un paragrafo alle condizioni di riconoscimento di personaggi leggendari della storia del fumetto, e mostra come siano identificabili per il nome, per tratti fisionomici marcati, per abbigliamento inconfondibile, per stato civile, per una serie di competenze specifiche e vari altri dettagli (frasi tipiche, rumori che accompagnano in modo costante alcuni gesti canonici, eccetera). Ci sono molte persone reali per le quali possediamo tante istruzioni di riconoscimento? 26 Un termine indicale o deittico ha un significato indipendentemente dal contesto e dalla circostanza. E però è nel vivo della circostanza che deve essere negoziato il modo con cui lo si usa per riferirsi. Ducrot (1995: 309) fa un esempio che ci ricorda le incertezze dell’esploratore di Quine di fronte al gavagai dell’indigeno. “Questo o quello, anche tenendo conto del gesto di designazione, non sono sufficienti a delimitare un oggetto. Come sapere che quello che mi si mostra sulla tavola è il libro nella sua totalità, o la sua copertina, o il suo colore, o il contrasto tra il suo colore e quello della tavola, o l’impressione particolare che mi fa in questo momento. Un sostantivo,

eventualmente implicito, è necessario per compiere l’atto di riferimento.” 27 Si veda in Eco (1979, 13) l’analisi dei due usi contestuali di invece. 28 Per avere un deittico il cui contenuto si identifichi assolutamente con il proprio riferimento (vale a dire, con ciò che viene usato per menzionare) dovremmo pensare al più elementare dei movimenti indicali, e cioè a un dito puntato accompagnato magari da un’espressione verbale come quello o guarda! Eppure anche in tal caso occorre conoscere prima il significato del gesto deittico. Ci sono civiltà in cui l’indicazione avviene puntando non un dito ma la lingua (Sherzer 1974), mentre in altre civiltà puntare la lingua significa beffa, ma non indicazione. 29 Hanno un contenuto anche i connettivi e gli operatori logici e questo appare chiaro quando qualcuno (digiuno di logica) in Internet usa un motore di ricerca e gli si spiega in che senso debbono essere intesi operatori come AND e OR. Che le istruzioni siano fornite non in forma di definizione, ma come sequenza di operazioni è irrilevante. Anche per definire il senso del verbo saltellare, lo si è visto in 3.4.6, si ricorre a una sorta di sceneggiatura che mostra delle sequenze di azioni.

6. ICONISMO E IPOICONE 1 Per una rassegna del dibattito vedi Calabrese 1985, Fabbrichesi 1983, Bettetini 1996 (1.3 e II. 1.1). 2 Fabbrichesi (1983) avanza l’ipotesi che quel dibattito non sia morto di morte naturale, perché la semiotica si rifiutava di riflettere “filosoficamente” sul concetto di somiglianza, e questa somiglianza da spiegare non era la corrispondenza tra due oggetti (diciamo un disegno e il suo originale), ma la Firstness peirceana, come differenza interna’, “che non distingue oggetti concreti, ma ne prepara l’individuazione e la costituzione” (1983: 109). Credo che il richiamo fosse giusto e ho tentato di rispondere all’appello nel cap. 2 di questo libro. Fabbrichesi osservava che il tema era destinato a riapparire nella semiotica della testualità, nella discussione sulle metafore, sui processi abduttivi, sulle cooperazioni interpretative, sul riconoscimento di frames - ed è l’elenco di tutto ciò di cui mi sono occupato dopo l’arresto “innaturale” del dibattito sull’iconismo. Si vede che era necessario, almeno per me,

prima di tornare alle icone, compiere quel viaggio di formazione. A pensarci bene, vent’anni sono lo stretto necessario perché un viaggio iniziatico non si riduca a una vacanza prepagata in volo charter. Senza pretendere di citare tutti coloro a cui debbo numerosi ripensamenti sul problema dell’iconismo, menzionerò solo alcuni che, intervenendo direttamente sui miei scritti in materia, mi hanno a volte confortato e più spesso messo in crisi. In ordine sparso, e rinviando per i particolari ai Riferimenti Bibliografici: Tomás Maldonado, Giorgio Prodi, Massimo Bonfantini, Rossella Fabbrichesi, Antonio Perri, Peter Gerlach, le discussioni con Alessandro Zinna sul semisimbolico, Omar Calabrese, Thomas Sebeok, Giampaolo Proni, Fernande Saint-Martin, Göran Sonesson, il Groupe µ, Francisca Pérez Carreño, Søren Kiørup, Martin Krampen, Floyd Merrel, Robert Innis, Ivo Osolsobe con cui ho avuto un vivace dibattito sull’ostensione, Winfried Nöth per le polemiche sulla soglia inferiore della semiotica alla decade di Cérisy 1996, vari autori che hanno contribuito a Bouissac et al. eds., 1986 (in particolare Alan Rey, Michael Herzfeld e Monica Rector) nonché Pierre Fresnault Deruelle e Michel Costantini per il lavoro continuo di aggiornamento bibliografico sull’immagine che vanno conducendo con Eidos. Bulletin international de sémiotique de l’image. 3 Questa distinzione non è omologa a quella, per usare le parole di Dennet (1978, III, 10) tra iconofili e iconofobi nell’ambito delle scienze cognitive. Direi che avendo distinto (i) valore iconico della conoscenza e (ii) natura delle ipoicone, l’opposizione di Dennett è interna al punto (i). In ogni caso, secondo i vari regesti già citati, tra gli iconoclasti vengono di solito citati Goodman, Gombrich, gran parte dei greimasiani, il Gruppo di Liegi e persino psicologi come Gregory, mentre tra gli iconici si potrebbero ricordare il primo Barthes e il primo Metz, Gibson, il primo Wittgenstein, Maldonado. 4 Di questo giustamente mi rimprovera Fabbrichesi Leo (1983: 3), anche se forse sottovaluta come il problema riemergesse nel Trattato a proposito delle “invenzioni”, e non tiene conto (per la data a cui pubblica) del modo in cui avrei cercato in parte di riproporlo nel saggio sugli specchi del 1985. 5 Di essermi soffermato solo sull’iconismo visivo mi rimprovera per esempio Sonesson: ma io, proprio in quegli anni, pubblicavo in VS due saggi di Osmond Smith (1972, 1973) sull’iconismo musicale, e citavo per esempio esperienze di iconismo sintattico. Però è anche vero che in

almeno due occasioni ho scritto che parlare di iconismo per i grafi esistenziali di Peirce era pura metafora, perché non riproducono relazioni morfologiche e spaziali. Segno che in quel clima culturale, a pronunciare la parola “icona” si era ormai naturalmente ancorati all’universo pitturale. 6 Il dibattito in proposito è amplissimo. Da un lato ci sono esperimenti che mostrano come anche gli animali riconoscano le immagini (a partire dalla leggenda di Zeusi); dagli altri rapporti etnografici che ci mostrano un “primitivo” (in ogni caso qualcuno che ha vissuto senza essere esposto o a immagini fotografiche o addirittura a pratiche raffigurative), che si gira in mano la foto di una persona nota manifestando perplessità, sgomento, o addirittura assoluto disinteresse. Si tratta quasi sempre di esperimenti non sufficientemente rodati: in certi casi ciò che colpisce il primitivo è l’offerta di un pezzo di carta, oggetto per lui ignoto, mentre se l’immagine viene stampata su stoffa le si avvicina con maggior confidenza; in altri casi la responsabilità è della cattiva qualità dell’immagine; in altri il fatto che il primitivo rimanga perplesso non significa che non abbia riconosciuto il soggetto rappresentato, ma semplicemente che non si rende conto come mai i tratti di una persona nota possano apparire come d’incanto su un pezzo di carta; in altri ancora si tratta evidentemente di domande formulate in modo errato, che rimandano agli equivoci della traduzione radicale di Quine. 7 Altrimenti lo stesso Maldonado, nel richiamarmi alla considerazione dei rapporti motivati tra icona e realtà non avrebbe tanto insistito sulla “ottimizzazione” della similarità, ovvero sullo studio di tecniche che permettessero e che permettano in futuro di “trovare, sul piano tecnico, il migliore adeguamento possibile tra le richieste convenzionali che provengono dall’osservatore e quelle non convenzionali che scaturiscono dall’oggetto osservato” (1974: 291). 8 Questo spiega perché Metz (1968b: 115n) era subito pronto ad accettare le mie critiche circa una idea di ipoicona come analogon, e di rivederne le componenti culturali. 9 Sulla fecondità dell’innesto la letteratura è vasta, ma mi piace citare il contributo più recente: Jean Fisette 1995. 10 Va detto che l’operazione più che di chirurgia è stata di medicina preventiva, perché è stata condotta con sensibile anticipo rispetto all’apparizione di una teoria della designazione rigida.

11 Vedi per una contemperazione delle posizioni Bettetini 1971 e 1975. 12 Qualcuno oggi proporrebbe di definire la somiglianza come una relazione diadica di qualcosa con se stesso, mentre la similarità sarebbe una relazione comunque triadica (cfr. Goodman 1970): A è simile a B dal punto di vista C, e forse la similarità è quello che è stato definito un “multi-place predicate” (cfr. Medin e Goldstone 1995). Tuttavia si veda in 3.7.7 la discussione sulla differenza tra riconoscere un individuo come lo stesso individuo e riconoscerlo come simile ad altri della sua specie. Dato che il riconoscimento di categorie di base (come un cane o una sedia) è radicato nel processo percettivo, non dovremmo parlare anche in questi casi di somiglianza e non di similarità istituita? 13 II problema ricorda quello delle “forme campione” nel Cratilo, cfr. Dionigi 1994: 123 sgg. 14 “Il mutamento improvviso d’intensità nell’immagine rivela linee di contorno e quindi le forme degli oggetti nel mondo visivo” (Vaina 1983: 11). 15 Eppure ancora una volta prevaleva la necessità di collegare l’ipoicona immediatamente a un significato, a tipo cognitivo, e pertanto sostenevo che dall’esperienza ipoiconica si risaliva immediatamente alla “rappresentazione astratta della mano”. In altre parole, il problema era quello dell’Oggetto Dinamico (individuale) come terminus ad quem (ideale) di un processo conoscitivo di cui si poteva solo controllare l’Oggetto Immediato (generale). E quindi si rischiava sempre di non prendere in considerazione l’oggetto come terminus a quo, e cioè il fatto che per costituire qualsiasi rappresentazione astratta della mano si era pur sempre partiti (noi o chi ce ne aveva trasmesso il tipo) da una esperienza percettiva. 16 Devo queste osservazioni a Paolo Fabbri che peraltro si riferiva ad alcune discussioni con Ruggero Pierantoni. Fabbri suggerisce che pertanto una semiotica della percezione dovrebbe ricuperare il concetto di “enunciazione”, che implica il punto di vista del soggetto. Trovo il suggerimento fecondo di sviluppi e mi pare di avervi accennato in questi saggi. Fabbri consiglia di rendere centrale il concetto di enunciazione per tutti i paragrafi che seguono, come quello sulle protesi e quello sugli specchi e le impronte. Ritengo che la presenza del soggetto col suo punto di vista sia centrale - anche se non espressa in

termini di “enunciazione” - nelle altre parti di questo capitolo, e in particolare in quello sugli specchi. 17 Si veda per esempio Gombrich (1982: 333): “La fotografia non è arbitraria, perché una graduale transizione dall’oscurità alla luce, rilevabile nel soggetto, resterà tale, seppure entro dimensioni ridotte, nella sua immagine fotografica”. Nel Trattato avevo cercato di evitare di mettere l’occhio nella scatola nera, e avevo tradotto la nozione di stimolo surrogato traducendola (in termini di tipologia della produzione segnica) in quella di stimoli programmati. 18 Non la vedeva benché vivesse in una cultura dominata ormai dalla teoria pittorica della prospettiva. Curioso fenomeno che sembra contrastare con due posizioni opposte, che i rapporti prospettici ci siano dati dall’oggetto e che siano imposti come schema interpretativo di origini culturali. Diciamo allora che, comunque vadano le cose, l’oggetto non gli forniva tracce sufficienti per cogliere la prospettiva, e la cultura non gli aveva ancora fornito schemi sufficienti per vederla. 19 Salvo che là il tipo contemplava quattro passaggi: (i) stimoli (quello che ora sto chiamando la Luna in sé); (i) trasformazione (il lavoro svolto disegnando); (iii) modello percettivo; (iv) modello semantico. Alla luce di quanto qui si è detto in questo libro, il tipo cognitivo verrebbe ora a svolgere la duplice funzione dei due “modelli”, percettivo e semantico. Ovvero, se si deve considerare uno stadio più sofisticato (ma al tempo stesso più povero del tipo cognitivo e dei suoi arricchimenti dovuti a interpretazione enciclopedica), quello che allora chiamavo il modello semantico equivarrebbe a una rappresentazione molto astratta, o visivamente molto stilizzata, o puramente verbale-categoriale, del tipo “pianeta del sistema solare circondato da anelli gassosi”. Chiarito questo punto, mi pare che tuttavia in quella sede delineasse un caso simile a quello di Galileo, dove chi disegna “praticamente ‘scavalca’ il modello percettivo e ‘scava’ direttamente nel continuum informe [dell’espressione], configurando il percetto nello stesso momento in cui lo trasforma in espressione” (Eco 1975: 3.6.8). Il fatto che in quelle pagine poi gli esempi di invenzione radicale fossero quasi tutti di carattere artistico non doveva far pensare che si avessero invenzioni radicali solo nel campo dell’arte: e l’esempio di Galileo mi pare ora probante. Si riveda del Trattato la figura 44. di p. 318, dove (mi pare) si cerca già di mostrare come avrebbe potuto procedere l’esploratore che ha incontrato

per la prima volta l’ornitorinco, se avesse avuto qualche talento grafico. Incapace di comprendere che cosa avesse davanti, e di coordinare dati che nessuna categoria o nozione di genere esistente riusciva a controllare, dovrebbe aver cominciato a proiettare su un foglio i tratti che tentativamente individuava, cosi che solo a disegno terminato l’ornitorinco gli fosse apparso come un organismo dotato, almeno morfologicamente, di una certa legalità. Che se poi l’esploratore, contro ogni verosimiglianza cronologica, fosse stato Leonardo, ecco che potremmo intravedere un nesso tra Estetica come gnoseologia inferior ed Estetica come teoria dell’arte. 20 Valentina Pisanty (perplessa comunicazione personale) mi ha domandato che cosa vedrei se puntassi il dito indice verso i miei occhi (quelli del capo). Pare difficile intrattenere le due immagini contemporaneamente, forse bisognerebbe chiudere i due occhi normali quando si usa il terzo, ma non so se basterebbe. La conclusione più ragionevole è che l’innovazione imporrebbe di ridisegnare il nostro cervello. Forse è a causa di questa difficoltà che non si sono mai sperimentati impianti di un terzo occhio sulla punta dell’indice. Ma il problema non è di mia competenza. 21 Riserverei invece il termine di strumento per quegli artifici come coltello, forbice, selce scheggiata, martello, i quali non solo fanno quello che il corpo non potrebbe mai fare ma, rispetto alle protesi che semplicemente ci aiutano a interagire meglio con quello che c’è, producono qualcosa che prima non c’era. Essi triturano, suddividono, modificano le forme. Un miglioramento degli strumenti sono le macchine. Esse fanno, ma senza più bisogno di essere guidate dall’organo di cui magnificano le possibilità. Una volta avviate vanno da sole. Ma si potrebbe discutere se macchine locomotrici come la bicicletta e persino l’automobile, che richiedono ancora una collaborazione diretta (unita a sforzo) della mano e del piede, non siano al tempo stesso anche protesi magnificative (al massimo); e in tal caso un aereo dei primordi sarebbe macchina e protesi magnificativa al tempo stesso, mentre un jumbo jet è pura macchina, quanto il telaio meccanico. Ma protesi sostitutive, estensive e magnificative, strumenti e macchine sono tipi astratti a cui i vari oggetti possono essere variamente riportati a seconda dell’uso che se ne fa e del loro livello di sofisticazione.

22 Negli anni Ottanta avevo scritto un saggio sugli specchi (ora in Eco 1985). Esso sviluppava qualche osservazione del Trattato, ma si muoveva nella direzione di una revisione profonda del concetto di icona e ipoicona. Per questo ne riprendo qui gli aspetti fondamentali. 23 Che cosa significa “virtuale”, che sembra opporsi a “reale”? Maltese (1976) “becca” una mia espressione (1975: 256) dove dico che una immagine virtuale non è una espressione materiale (per dire ovviamente che non è un disegno o un quadro, e che scompare quando lo specchiato si allontana) e mi accusa di antimaterialismo idealista ma pazienza, questa era la retorica dell’epoca. La distinzione tra immagini reali e virtuali non è mia, è dell’ottica, che chiama reali le ombre cinesi o le immagini cinematografiche, e persino le immagini degli specchi concavi, che possono essere raccolte da uno schermo, e virtuali le immagini speculari (cfr. per es. Gibson 1966: 227). L’immagine virtuale dello specchio è detta tale perché lo spettatore la percepisce come se fosse dentro lo specchio, mentre lo specchio non ha un “dentro”. 24 Stupisce trovare uno studioso che con l’occhio ha notevolissima dimestichezza (Gregory 1986) che continua a meravigliarsi per questo fenomeno (e sul fatto che invece gli specchi non invertano l’alto con il basso). Gregory si rende conto che deve trattarsi di un fatto cognitivo (noi ci immaginiamo, come dicevo, dentro lo specchio) ma non pare soddisfatto dalla risposta, ritenendo che se così fosse dovremmo avere una “straordinaria” abilità mentale, come se non ne avessimo altre che paiono ancora più straordinarie. Gregory cita anche Gardner (1964), che ha fatto anche lui l’ovvia osservazione che lo specchio non inverte un bel nulla. Ma neppure questo lo appaga, e aggiunge un’altra ragione di stupefazione: che gli specchi invertono anche la profondità, e cioè che se noi ci allontaniamo da essi, diciamo, verso nord, l’immagine si allontana da noi verso sud, e si rimpicciolisce (e, dico io, ci mancherebbe anche che ci corresse incontro); e che però non invertono il concavo con il convesso. Basta considerare lo specchio una protesi, o un occhio sul dito indice, ed ecco che mi fa vedere quello che vedrei se qualcuno fosse di fronte a me: se quel qualcuno si allontana la sua immagine si rimpicciolisce, ma se ha la pancia prominente essa rimane tale e la sua bocca dello stomaco non si contrae verso l’interno. 25 Anche se il pedinatore avesse fatto una tacca di riconoscimento sulle scarpe del signor X avrebbe solo un indizio molto forte che quelle

scarpe siano del signor X. In effetti percepirebbe solo l’impronta di scarpe (in generale) che esibiscono delle tacche (in generale) simili a quelle che lui ha fatto su una suola particolare. 26 Dal punto di vista pratico è abbastanza eccezionale che io mostri a qualcuno la mia giacca riflessa nello specchio per dirgli che con la parola giacca intendo una cosa fatta così e così, ma ammettiamo pure che per effetto di specchi intrusivamente contrapposti la giacca che indico sia nell’altra stanza e il mio interlocutore possa vederla solo nello specchio: la protesi speculare gli consente di percepire un oggetto che, in seconda istanza, verrà eletto come segno ostensivo. 27 Bacchini (1995) ha scritto un ingegnoso saggio in cui, partendo dai miei testi, intende dimostrare che l’immagine speculare è segno. Dopo quanto ho ripetuto sino a ora dovrebbe essere chiaro che si possono sostenere varie tesi a patto di non voler accettare la mia premessa: io sto parlando dell’esperienza di una persona che si guarda nello specchio sapendo di trovarsi di fronte a uno specchio. Bacchini ritiene questa premessa “ideologica” e la ritiene a “un livello troppo basso” (egli preferisce complesse messe in scena speculari come quella di Orson Welles). Ma per me questo livello basso è fondamentale e se questa premessa è ideologica lo è come qualsiasi altra premessa. Una volta superato questo livello basso, tutti gli esempi portati da Bacchini riguardano casi di menzogna, errore, trucco, teatri catottrici, che avevo già considerato in Eco 1985. Bacchini dice che bisogna fare una pragmatica dello specchio (e consento, se non altro perché tale era infatti il titolo di un paragrafo del mio saggio) e che bisogna tenere conto di varie “modalità epistemiche”. D’accordo, e credo che questo discorso si saldi alla citata proposta di Fabbri, per cui una teoria dell’enunciazione diventa centrale anche nella semiotica del visivo, e della percezione in generale. Tuttavia in questo discorso tengo conto di una sola modalità epistemica (quella di chi sta coscientemente di fronte a uno specchio) e non mi interessano le altre. Credo sia lecito fare delle scelte e scegliere casi ovvi per mostrare che non lo sono. Trascuro poi il discorso sulle impronte, che ho ripreso in queste pagine. Bacchini dice che l’impronta è separata temporalmente dall’impressore, ma non spazialmente, perché è “contigua” all’impressore, a cui corrisponde punto a punto. Qui mi pare si confondano compresenza temporale, contiguità spaziale e rapporto di congruenza (puramente formale, e che

sussiste anche per la maschera mortuaria di una persona scomparsa da tempo). 28 “Probabilmente non riusciremo mai a sapere qual è stato l’itinerario filogenetico che ci ha consentito di passare dalla percezione dell’immagine rispecchiata allo sviluppo di tecnologie finalizzate alla produzione artificiale di immagini” (Maldonado 1992: 40). 29 Non posso che consentire con Maldonado (1992: 59 sgg.): una nuova tipologia di costrutti iconici, sino alla realtà virtuale - e dunque costrutti iconici non statici ma dinamici e interattivi - pone problemi nuovi che richiedono un nuovo strumentario concettuale. Salvo che la crescita di questi strumenti si pone oggi a un impreciso incrocio tra le varie scienze cognitive. Credo che una semiotica generale debba rendere conto del fatto che questi fenomeni ci sono (e ci interrogano), non di come funzionino cognitivamente. 30 Un argomento a favore del potere degli stimoli surrogati potrebbe essere che in genere si provano reazioni sessuali (genuine) di fronte a immagini di corpi umani, come accade con foto di attori, o di modelle/modelli per riviste pornografiche. Non vale obiettare che spesso accade, a chi ha subito il fascino di quelle immagini, di incontrare poi l’originale di persona, rendendosi conto che era assai meno seducente: semplicemente la foto era stata preceduta da una messa in scena (trucco, angolature e giochi di luce sapienti) o era stata addirittura sapientemente ritoccata. Questa sarebbe semplicemente la prova che le ipoicone possono indurci, per stimoli surrogati, a percepire qualcosa che non esiste in natura. Non vale neppure obiettare che, nel corso dei secoli, varie persone si siano eccitate sessualmente guardando immagini che noi non consideriamo affatto realistiche, come quelle di veneri africane, o esili xilografie che rappresentavano Eva in qualche Biblia Pauperum. Sarebbe facile dire che in tali processi di eccitazione l’immagine ha un ruolo secondario, mentre quello primario è svolto dalla fantasia, e dalla forza del desiderio. Se così esclusivamente fosse, non si spiegherebbe tuttavia perché l’ipoicona sia stata sempre usata come stimolo erotico - o perché, pur essendo fortissimo il desiderio, a qualcuno non potrebbe bastare l’immagine di un triangolo rettangolo. Quindi, per bassa che sia la definizione degli stimoli surrogati, in età o culture diverse le ipoicone hanno provvisto eccitazione erotica. Questo ci induce a pensare che la nozione di “vicarietà” di uno stimolo non

possa essere fissata in base a criteri rigorosi, ma dipenda dalla cultura e dalla disposizione dei soggetti. 31 È irrilevante dal punto di vista del discorso presente che questi procedimenti possano riguardare quei processi di pertinentizzazione ulteriore della sostanza del contenuto su cui si basano molte operazioni artistiche (di cui nel Trattato, 3.7.3). 32 Visto che su quello che segue dice alcune cose condivisibili Sonesson (1989), vorrei precisare che proprio di questo problema mi ero occupato nella relazione al convegno annuale dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici a Vicenza 1987 (Eco 1987). 33 Cfr. Simone 1995. Sul riconoscimento dei fonemi cfr. anche Innis (1994: 5) che riprende e sviluppa le idee di Bühler (“Phonetik und Phonologie”, 1931): identificare un suono come forma (Klanggestalt) e riconoscere un oggetto (Dinggestalt) sarebbero lo stesso tipo di apprendimento. Rifacendomi alla tipologia dei tipi di abduzione (Eco 1983 e Bonfantini 1980, 1983, 1987) potrei dire che il riconoscimento fonematico rappresenta una abduzione di primo tipo, dove la regola è già nota, e si tratta appunto di riconoscere l’occorrenza – il risultato come un caso di quella regola. Ma il fatto che l’abduzione sia quasi automatica non esclude che sia abduzione, ipotesi. 34 I crittografi asseriscono che ogni messaggio in cifra può essere decifrato, basta che si sappia che è un messaggio. 35 Quello che questa sorta di segni iconici ha in comune [...] è che il loro uso come segni iconici presuppone che essi siano stati immediatamente percepiti in se stessi come oggetti dei sensi, a pieno diritto, prima del loro uso in quanto rappresentativi di qualcosa d’altro” (Ransdell 1979: 58). Dopo quasi quarant’anni di discussioni occorre allora ridare ragione a Barthes (1964a) quando a proposito della fotografia (non delle pitture) parlava di messaggio senza codice. Egli non d’altro parlava che di quella che ora sto chiamando modalità Alfa. In tal senso egli diceva che l’immagine semplicemente denotava. Il passaggio alla modalità Beta stava per lui nel momento della connotazione, quando l’immagine viene vista come testo, e interpretata (al di là di quella che può essere interpretazione percettiva). 36 Oltre questa soglia si passa alla similarità concettuale. Si può stabilire un rapporto di similarità percettiva tra un uomo e una donna, ma la similarità tra marito e moglie, o tra consuoceri, è puramente concettuale.

37 Dice a un certo punto Peirce: “Le icone sono così completamente dei sostituti dei loro oggetti che è difficile distinguerle da essi... Così contemplando un quadro, c’è un momento in cui perdiamo coscienza del fatto che non sia la cosa stessa, la distinzione tra copia e oggetto reale scompare, e per il momento è puro sogno - non è un’esistenza particolare e tuttavia non è un qualcosa di generale. A quel momento contempliamo un’icona” (CP 3.362). Vogliamo concedere al nostro grande e venerato maestro di avere usato a un certo punto soltanto una metafora? 38 La regola non è così semplice perché v’è una notevole latitudine sia nell’interpretare verbalmente le immagini sia nel collegarle alle etichette. C’è anzitutto una prima regola semio-sintattica per cui, dati S come soggetto visivo ed E come etichetta, per comporre con essi un sintagma entrambi possono essere nominati o de dicto o de re. Vale a dire che la lettera alfabetica G può essere inserita nella frase o come gramma (G) o come suono della lettera (GI). Ma ciò che più importa per la semantica del rebus è che de dicto o de re possono essere nominate le immagini, nel senso che l’oggetto o deve venir riconosciuto e definito o nominato verbalmente, oppure entra in gioco solo come qualcosa che porta come nome proprio la propria etichetta. La prima regola sintattica è che la sequenza va letta linearmente da sinistra a destra. La seconda (o regola di buona formazione dei sintagmi minimali) è che l’etichetta può seguire o precedere la definizione del soggetto. La terza è che, quando il soggetto va interpretato nei termini di un’azione, si possono indifferentemente adottare sei diverse strutture sintattiche, ovvero (dato S = soggetto, V = Verbo, O = Complemento Oggetto) SVO, SOV, VSO, VOS, OVS, OSV. Quanto alle regole semantiche per nominare i Soggetti si debbono pertinentizzare le loro proprietà. Il fatto che i Soggetti siano uomini e donne può contare oppure no. Parimenti possono essere individuate pertinenze individuali (quel personaggio è riconoscibile come Ercole o Napoleone), pertinenze iconografiche (quella tale persona è un re o una dama), pertinenze diegetiche (quella tale persona sta uccidendo qualcuno, o celebrando le proprie nozze). Siccome i Soggetti, o per necessità o per iniziativa ingegnosa del disegnatore, sono inseriti in scene quanto mai surreali, talora debbono essere pertinentizzati anche Soggetti non etichettati.

APPENDICE 1 - SULLA DENOTAZIONE 1 Questa è la traduzione (parzialmente aggiornata, per omogeneizzarla con gli altri scritti di questo libro) di “Denotation”, apparso in Eco e Marmo 1989: 43- 80. Ringrazio Maria Teresa Beonio Brocchieri Fumagalli, Andrea Tabarroni, Roberto Lambertini e Costantino Marmo per aver discusso con me questo scritto, fornendomi suggerimenti preziosi. 2 Nel Periherm. II (ed. Meiser: 20-27), discutendo se le parole si riferiscano direttamente ai concetti o invece alle cose, per entrambi i casi Boezio utilizza l’espressione designare. A proposito del medesimo contesto, dice “vox vero conceptiones animi intellectusque significat” e “voces vero quae intellectus designant”. Parlando di litterae, voces, intellectus, res, egli sostiene che “litterae verba nominaque significant” e che “haec vero (nomina) principaliter quidem intellectus secundo vero loco res quoque designant. Intellectus vero ipsi nihil aliud nisi rerum significativi sunt”. In Categ. Arist. (PL 64, 159), dice che “prima igitur illa fuit nominum positio per quam vel intellectui subiecta vel sensibus designaret”. Mi sembra che designare e significare qui vengano considerati più o meno equivalenti. Ma il punto fondamentale è che innanzitutto le parole significano i concetti e quindi, solo in conseguenza, possono far immediatamente riferimento alle cose. Sull’intera questione cfr. De Rijk 1967, II, I: 178 sgg. Nuchelmans (1973: 134) fa notare come, sebbene “sembri che Boezio utilizzi anche significare, insieme a designare, denuntiare, demonstrare, enuntiare, dicere con un’espressione-oggetto, per indicare ciò che è vero o falso, quando poi impiega i medesimi termini con una persona in qualità di soggetto, egli intende dire che qualcuno in quel modo rende manifesta l’opinione che qualcosa è o non è il caso: “la definizione di una enuntiatio o propositio come enunciato che significa qualcosa di vero o di falso, riflette il fatto che, secondo il punto di vista di Aristotele, è il pensiero o la credenza che qualcosa è il caso a essere vero o falso nel senso stretto del termine. Se allora guardiamo a come Boezio presenta tale questione, la verità e la falsità non sono nelle cose, ma nei pensieri e nelle opinioni, e solo in un secondo tempo (post haec) nelle parole e negli enunciati. (Cfr. Nuchelmans 1973: 134, con riferimenti a In Categ. Arist. e In Periherm) 3 Nella Dialectica (V, II, De Definitionibus, ed. De Rijk: 594) è evidente che un nome è determinativum di tutte le possibili differenze

di qualcosa, ed è proprio sentendo pronunciare un nome che siamo in grado di capirle (intelligere) tutte; la sententia comprende al suo interno tutte queste differenze, mentre la definitio ne pone alcune, e cioè quelle che servono a determinare il senso di un nome all’interno di una proposizione, eliminando tutte le ambiguità: “Sic enim plures aliae sint ipsius differentiae constitutivae quae omnes in nomine corporis intelligi dicantur, non totam corporis sententiam haec definitio tenet, sicut enim nec hominis definitio animal rationale et morale vel animal gressibile bipes. Sicut enim hominis nomen omnium differentiarum suarum determinativum sit, omnes in ipso oportet intelligi; non tamen omnes in definitione ipsius poni convenit propter vitium superfluae locutionis... Cum autem et bipes et gressibilis et perceptibilis disciplinae ac multae quoque formae fortasse aliae hominis sint differentiae, quae omnes in nomine hominis determinari dicantur... apparet hominis sententiam in definitionem ipsius totam non claudi sed secundum quamdam partem constitutionis suae ipsius definiri. Sufficiunt itaque ad definiendum quae non sufficiunt ad constituendum”. 4 De Rijk (1967: 206) ad esempio sostiene che in Abelardo “sembra prevalere un punto di vista che non si sostiene sulla logica” e che il termine impositio “nella maggior parte dei casi sta per prima inventio” e “raramente lo si incontra con il senso di denotare una qualche imposizione effettiva in questa o quella proposizione emessa da un qualche parlante effettivo. Quando persino le voces vengono separate dalle res, la loro connessione con l’intelletto conduce l’autore nel dominio della psicologia, o lo confina in quello dell’ontologia, dal momento che l’intellectus, a sua volta, lo si fa riferire alla realtà. Anche la teoria della predicazione sembra estremamente influenzata dalla prevalenza di prospettive che non appartengono alla logica”. De Rijk (1982: 173) suggerisce che i logici medievali “avrebbero raggiunto risultati migliori se avessero abbandonato del tutto la nozione stessa di significazione”. Ciò vuol dire chiedere ai filosofi medievali (che non erano dei logici puri nel senso moderno del termine) di aver scritto quello che non potevano o non volevano scrivere. 5 Nel Commentario su Prisciano a Vienna (cfr. De Rijk 1967: 245) un nome “significat proprie vel appellative vel denotando de qua manerie rerum sit aliquid” cosicché denotare sembra ancora collegato alla significazione della natura universale.

6 “Oblatum sensui vel intellectui” significa che, per quanto riguarda le qualità sensibili dei segni, Bacone assume una posizione meno radicale di quella di Agostino. Egli ammette ripetutamente che ci possono essere anche dei segni intellettuali, nel senso che anche i concetti possono essere considerati come segni delle cose percepite. 7 Vi sono altri ancora che confessano invece le loro perplessità. Boehner (1958: 219) dice che “Scoto aveva già rotto con questa interpretazione del testo aristotelico, sostenendo che, generalmente parlando, il significato delle parole non è il concetto ma la cosa”. Ciononostante, nella nota 29 aggiunge: “Sotto la nostra direzione è stata scritta una tesi (di Fr. John B. Vogel, O.F.M.) sul problema della significazione diretta delle cose secondo Scoto; l’autore ha rilevato uno scarto considerevole tra il trattamento di questo problema nell’Oxoniense e nelle Quaestiones in Perihermeneias opus primum and secundum”. (Per un’interpretazione intensionalista si veda Marmo in Eco et al. 1989.) 8 Esiste almeno un esempio di denotare in forma attiva, citato da Maierù (1972: 98) e tratto dalla Elementarium logicae, in cui Ockham distingue tra due sensi di appellare. Il primo è quello di Anselmo, mentre riguardo al secondo Ockham scrive: “aliter accipitur appellare prò termino exigere vel denotare seipsum debere suam propriam formam”. Sembrerebbe che qui denotare stia per “reggere” (o richiedere) o “postulare”’ un coriferimento all’interno del quadro del contesto linguistico. 9 Per un uso simile di denotari si veda Quaestiones in libro sphysicorum 3 (a cura di Corvino, Rivista critica di storia della filosofia, X, 3-4, maggio-agosto 1955). 10 Maierù cita Pietro da Mantova: “Verba significantia actum mentis ut scio, cognosco, intelligo etc. denotant cognitionem rerum significatarum a terminis sequentibus ipsa verba per conceptum”. Subito dopo questa frase, Pietro fornisce un esempio: “Unde ista propositio tu cognoscis Socratem significat quod tu cognoscis Socratem per hunc conceptum ‘Socratem’ in recto vel obliquo” (Logica 19vb20ra). È chiaro che denotare e significare sono più o meno equivalenti, e che entrambi vengono impiegati per parlare di atteggiamenti proposizionali - un tema intensionale per eccellenza.

APPENDICE 2 - CROCE, L’INTUIZIONE E IL GUAZZABUGLIO 1 Questo articolo era stato scritto per La Rivista dei Libri (17.1991) come recensione alla riedizione Adelphi dell’Estetica crociana. L’ho inserito in questa raccolta perché anticipa alcune delle considerazioni su intuizione, concetto e schema trattate in 2, e mostra come gli imbarazzi kantiani sullo schema, e la resistenza a fondare il giudizio percettivo su oggetti di natura, abbiano influito sul pensiero idealistico successivo. riferimentio

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