Giudizio e sillogismo in Kant e in Hegel

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LUIGI SCARAVELLI

GIUDIZIO E SILLOGISMO IN KANT E IN HEGEL

opuscoli filosofici

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OPUSCOLI FILOSOFICI a cura di Antimo Negri

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LUIGI

SCARAVELLI

GIUDIZIO E SILLOGISMO IN KANT E IN HEGEL

a cura ài Mario Corsi

CADMO EDITORE

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1976 Cadmo editore s.r.l. largo dell'Olgiata, 15 - 00123 Roma

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PREMESSA Questo saggio di Luigi Scaravelli, il primo fra i lavori inediti che viene pubblicato, era stato intitolato dall'autore « II "sillogismo" di Hegel », titolo già frutto di un ripensamento, poiché il dattiloscritto porta anche un altro titolo in seguito cancellato, « Identità di giudizio e sillogismo ». A me è parso però più rispondente all'argomento trattato il titolo che vi ho premesso. Vero è che si tratta di un abbozzo di lavoro, e può darsi che l'autore avesse in mente uno sviluppo che in seguito non ha realizzato, e con questa prospettiva ambedue i titoli hanno un senso. Non vi è infatti alcun dubbio che il problema affrontato nel saggio è proprio quello del modo in cui il rapporto giudiziosillogismo giunge a risolversi nel sillogismo hegeliano, e cioè nell'impianto dialettico. Larga parte del saggio però, ed è la parte più articolata e compiuta, è dedicata all'antefatto, cioè a Kant, mentre gli accenni a Hegel sono brevi e scarni, e inoltre la parte conclusiva del saggio, in cui l'autore si occupa più estesamente di Hegel, è meno elaborata delle precedenti. Tutto ciò spiega perché ho preferito modificare il titolo. Una prima difficoltà offerta dal saggio è quella della sua datazione. Gli abbozzi di lavori, gli appunti, le postille ai testi lasciati da Scaravelli non sono datati. Per diversi di essi è possibile stabilire una cronologia in quanto si presentano chiaramente come lavori preparatori dei saggi pubblicati o ultimati; per gli altri si può procedere solo per ipotesi suffragate dal contenuto del saggio. Quello in questione è probabilmente anteriore alla Critica del capire (1942). Il particolare problema in esame può, naturalmente, indurre in errore, nel senso che il modo in cui Scaravelli considera il rapporto giudizio-sillogismo in Kant e in Hegel, può averlo portato a disattendere conclusioni già tratte nella sua Critica. Mi riferisco in particolare all'ultima parte del saggio, in cui l'autore mostra, sia pure succintamente, come Hegel risolva tale rapporto, una soluzione che nella Critica è

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VI

Mario Corsi

oggetto di più approfondita indagine. Ma si tratta, ripeto, solo di un'ipotesi che può essere infondata, data la particolarità della ricerca e l'incompiutezza del lavoro. E' certo invece che questo scritto è anteriore ai suoi saggi kantiani. L'analisi della tematica kantiana contiene già spunti che i lavori successivi svilupperanno. Il problema del rapporto fra le tre Critiche, che in questo scritto è centrale, sarà presente a Scaravelli specialmente nel saggio sulla Critica del Giudizio (Osservazioni sulla Critica del Giudizio, 1955), il problema del grado, accennato in una nota, sarà motivo fondamentale del suo studio ristampato col titolo Kant e la fisica moderna, e via enumerando. Al di là però della sua collocazione cronologica, occorre rilevare l'importanza di questo lavoro. Esso, anche se non finito, da bene l'idea del livello delle indagini di Scaravelli. La tematica è quella sua classica: il pensiero di Kant nel suo svolgimento, e, come punto di conclusione, Hegel. Ma è soprattutto importante sottolinearne la particolare angolatura. Partendo da La falsa sottigliezza, Scaravelli mette in rilievo come il punto centrale del lavoro di Kant consista nel distinguere e tener separata, la funzione dell'intelletto da quella della ragione, giudizio da sillogismo. Un motivo che, già accennato nella Critica del capire, e ripreso negli scritti successivi, qui è analizzato con nitidezza esemplare. La validità di questo esame in tutta la sua estensione potrà essere agevolmente attestato dal lettore e dallo studioso. Vorrei però richiamare pochi punti esemplificativi del metodo di lavoro di Scaravelli e destinati ad essere sviluppati nei suoi scritti maggiori. Il Kant de La falsa sottigliezza distingue concetto distinto da concetto completo, giudizio da sillogismo, il primo legato all'intelletto, il secondo alla ragione, ma, contemporaneamente, nega che ci sia differenza fra le funzioni che li reggono, intelletto e ragione, in quanto ambedue non sono che facoltà di giudicare. Di questa complessa problematica Scaravelli individua molteplici aspetti, colti attraverso lo sviluppo del pensiero kantiano. Due di essi rendono bene l'idea della capacità di penetrazione critica dello studioso. Il primo riguarda il modo in cui Kant intende la natura del "concetto", un modo che ha rilievo non tanto per il periodo in cui è espresso, ma per la sua permanenza nella problematica filosofica successiva. Scaravelli individua cioè

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Premessa

VII

in uno scritto (La falsa sottigliezza) una formulazione concettuale che ha importanza non in sé, ma per il modo in cui permana nel pensiero di Kant. Ne La falsa sottigliezza Kant intende il concetto distinto come concetto chiaro, secondo la linea cartesiano-leibniziana, mentre il giudizio è inteso come « l'atto per cui il concetto si realizza », senza peraltro che tale atto si identifichi col concetto stesso. Questa non identità è al centro della attenzione di Scar-avelli: in nitida sintesi, che suppone un particolare dominio della tematica kantiana, egli fa vedere come quella non identità abbia precise conseguenze nella speculazione del filosofo, dando luogo nella Critica a una separazione fra la funzione sintetico-produttiva del giudizio e l'esistenza oscura preesistente ad esso, cosa in sé e sensazione. Quel concetto irrisolto nel giudizio diviene cioè un limite esistenziale, destinato a rimanere motivo rilevante nella meditazione di Kant. Tale esame, suffragato dai testi, rende bene la capacità di Scaravelli di cogliere in un motivo, che poteva sembrare secondario, le conseguenze più lontane che ne contraddistinguono la centralità tematica in un pensiero filosofico. Il secondo punto cui mi riferivo avvalora ancora l'acutezza di un'interpretazione e la bontà di un metodo. Esaminando il rapporto giudizio-sillogismo ne La falsa sottigliezza, Scaravelli osserva subito come questo rapporto sia motivo rilevante per lo sviluppo della speculazione kantiana. Finché Kant non riesce a chiarire la differenza che sussiste fra le funzioni che reggono giudizio e sillogismo, intelletto e ragione, l'impianto della Critica non può nascere. Tuttavia, operata questa distinzione, il filosofo si troverà di fronte quel problema dell'unità del conoscere che lo travaglierà nella tarda maturità. E sarà travaglio destinato a non raggiungere i frutti ricercati, poiché la ragione non riesce a giustificare il suo fondamento trascendentale; è non analitica, non intuitiva, ma non va al di là di questo, sì che la volontà, la teleologia e il giudizio di gusto non sono riducibili a quell'assoluto organico che Kant sottolinea esser lo scopo ultimo della filosofia. Si tratta di un problema che Scaravelli avrà presente nelle indagini kantiane, anche se lo affronterà, in special modo, nel saggio sulla Critica del Giudizio, con diversa prospettiva. Proprio questo anzi da rilievo a notazioni come quella citata del presente scritto. Consentono infatti di stabilire diversità di scansioni nella continuità dell'interesse di Scaravelli per la tematica kantiana.

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Vili

Mario Corsi

Vorrei infine citare un'osservazione, sempre a titolo esemplificativo della ricchezza di questa analisi, apparentemente incidentale, che merita di essere approfondita nel contesto di tutto il lavoro di Scaravelli. Il "sentiero" aperto da Kant, la "via regia", non ha permesso di soddisfare quella "curiosità" che sempre ha animato l'uomo, e cioè la realizzazione della conoscenza metafisica. Sarà Hegel a procedere su questa strada, ma la sua "via regia" non sarà quella di Kant, poiché egli abbandonerà « la via della sintesi a priori » che Kant percorre fino in fondo. E' un'osservazione fatta in nota, quasi in un inciso. Così formulata può destare qualche perplessità, ma se ne intende la complessità ove si abbia presente l'analisi dell'impianto logico kantiano e di quello dialettico hegeliano fatta da Scaravelli nella Critica del capire. Insieme a questo scritto pubblico una breve analisi di Scaravelli su un problema della Critica del Giudizio (Tentativo di dedurre dal concetto di finalità formale la facoltà di produrre l'opera d'arte (cioè a dire il genio) ). La sua datazione è facile, poiché si tratta della tematica da lui affrontata nelle Osservazioni sulla Critica del Giudizio pubblicate nel 1955, e risale quindi all'ultimo periodo della sua attività *. MARIO CORSI Roma, febbraio 1976

* Insieme a questi due inediti di Scaravelli ristampo quattro sue recensioni pubblicate in « La nostra Scuola ». Si tratta dei suoi primi scritti a stampa che non ho raccolto nelle Opere da me curate e pubblicate nel 1968 (L. Scaravelli, Opere, a cura di Mario Corsi, 2 voli., Firenze 1968) perché ne ignoravo l'esistenza. L'autore non me ne aveva mai parlato. Tali recensioni sono state segnalate da Franco Ottonello in un suo saggio su Le aporie dell'identità in Luigi Scaravelli, in « Giornale di Metafisica », n. 4, 1971 e n. 1, 1972. Due di queste recensioni attestano un interesse che fu primario nella formazione di Scaravelli, quello per la musica, una l'interesse per la problematica religiosa, e quella dal titolo L'idealismo attuale valutato dalla Neoscolastica il primo impegno di Scaravelli di carattere propriamente filosofia). In appendice a questo volume ristampo infine un mio ricordo di Scaravelli pubblicato su « Belfagor », fase. I, 1958, e pubblico alcune lettere di Scaravelli indirizzate a me.

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GIUDIZIO E SILLOGISMO IN KANT E IN HEGEL Kant considera la distinzione fra idee della ragione e concetti dell'intelletto come una delle più importanti scoperte della Critica della ragion pura: « La distinzione delle idee, cioè dei concetti puri della ragione, dalle categorie o concetti puri dell'intelletto, in quanto conoscenze di t u t t ' a l t r a s p e c i e , o r i g i n e ed u s o , è una parte così importante per la fondazione di una scienza che contenga il sistema di tutte queste conoscenze a priori, che s e n z a u n a t a l e s e p a r a z i o n e una metafisica è assolutamente impossibile o tuttal più è un tentativo, irregolare e acciabattato, di mettere insieme un castello di carte, senza conoscere i materiali dei quali ci si occupa e la loro sufficienza per questo o quello scopo. Se la critica della ragion pura non avesse fatto altro che questo, cioè p o r r e per la p r i m a volta d i n a n z i agli o c c h i q u e s t a d i s t i n z i o n e , avrebbe già con ciò apportato a chiarimento del nostro concetto di metafisica e della nostra condotta nella indagine nel campo metafisico, ben più che tutti gli sterili sforzi che, per risolvere i problemi trascendenti della ragion pura, si sono sempre finora intrapresi, senza mai supporre che ci si trovasse in t u t t ' a l t r o c a m p o che quello dell'intelletto, sforzi nei quali si affilavano insieme concetti dell'intelletto e della ragione proprio come se fossero della stessa specie » '. E nel § 43 dei Prolegomeni, poi, da in poche righe il s u b s t r a t o logico di questa distinzione, dicendo: « Avendo io trovata l'origine delle categorie nelle quattro funzioni logiche di tutti i giudizi intellettivi, era naturalissimo che io cercassi l'origine delle idee nelle tre funzioni dei sillogismi; poiché, una volta dati tali concetti razionali puri (idee 1 Prolegomeni ad ogni futura metafìsica, trad. Carabellese, Bari 1925, $ 41, p. 132. [Gli spaziati sono quasi sempre di Scaravelli. Sono segnalati con dei puntini due casi in cui il testo era incompleto].

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Luigi Scaravelli

trascendentali), essi non potrebbero, se non si vogliono ritenere innati, trovarsi altrove che nella stessa operazione della ragione, operazione, che, in quanto riguarda semplicemente la forma, costituisce il carattere logico dei sillogismi, ma in quanto presenta, a priori, determinati riguardo all'una e all'altra forma, i giudizi intellettivi, costituisce i concetti trascendentali della ragion pura » 2 . Alla radicale distinzione fra giudizio e sillogismo è dunque affidata la altrettanto radicale distinzione fra intelletto coi suoi concetti e ragione con le sue idee: funzione dell'intelletto è giudicare, funzione della ragione sillogizzare. Se si pensa quanto lungo, lento e faticoso lavoro sia costato a Kant questa distinzione operata dentro una facoltà che per tanti anni è stata da lui stesso ritenuta facoltà semplice ed indecomponibile, se si pensa anzi che questa fondamentale e radicale distinzione fa tutt'uno con la elaborazione della teoria della sintesi a priori e con la concezione critica del mondo come esperienza, non ci può meravigliare l'enfasi con cui Kant la sottolinea nel su citato § 41 dei Prolegomeni. Nel 1762 Kant, infatti, scriveva: « ...un concetto d i s t i n t o è possibile solo per mezzo di un g i u d i z i o , un concetto c o m p l e t o , invece, unicamente per mezzo di un s i l l o g i s m o . Infatti per un concetto distinto si esige ch'io riconosca chiaramente qualche cosa come nota di una cosa; e questo è un giudizio. Per avere un concetto distinto del corpo, io mi rappresento chiaramente l'impenetrabilità quale nota di esso. Ma questa rappresentazione non è altro che il pensiero: un c o r p o è i m p e n e t r a b i l e . A questo proposito è da osservare che questo giudizio non è il concetto distinto stesso, ma l'atto per cui il concetto si realizza; poiché la rappresentazione che della cosa stessa sorge da quest'atto è distinta. E' facile mostrare come un concetto completo sia possibile soltanto mediante un sillogismo; basta rivedere il paragrafo I di questa trattazione3. Si potrebbe perciò chiamare concetto di2 3

Prolegomeni cit. p. 134. Nel § 1 si è detto solo che il sillogismo connette fra loro note o concetti remoti. Si sottintende, dunque, che sia in grado di raccogliere e connettere tutte le note che si possono trovare, e formar così concetti completi.

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Giudizio e sillogismo

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stinto anche quello che è chiaro mediante un giudizio, completo invece quello che è distinto mediante un sillogismo. Se la completezza è del primo grado, il sillogismo è semplice, se è del secondo o terzo, essa è possibile soltanto mediante una serie di conclusioni a catena che l'intelletto abbrevia secondo il modo di un sorite. Risulta evidente da ciò anche un errore essenziale della logica come viene comunemente trattata, e cioè che si tratta dei concetti distinti e completi prima che dei giudizi e sillogismi, sebbene i primi siano possibili solo mediante questi secondi. « ...quanto è manifesto che per il concetto completo non occorre una facoltà dell'anima diversa da quella che occorre per il concetto distinto (in quanto quella stessa capacità che riconosce qualcosa immediatamente come nota in una cosa (Dìnge), viene usata per rappresentare in questa nota un'altra nota, e dunque per pensare la cosa (Sache) mediante una nota remota), altrettanto facilmente si vede che intelletto e ragione, cioè il potere di conoscere distintamente e quello di far sillogismi, non sono capacità originarie differenti. Ambedue consistono nel potere di giudicare; e quando si giudica in modo mediato si sillogizza »4. Quanto si sia qui lontani dalla posizione della 4 Kant's Werke, Vorkritische Schriften II, Berlin 1905, pp. 58, 59, § 6. Oltre al richiamo ai concetti chiari e concetti distinti cartesiano-leibniziani, è evidente, per il lettore che sa già da ora cosa è successo poi, nella Critica, dei concetti davvero completi, che racchiudono cioè l'incondizionato, l'importanza della denominazione di completo usata qui da Kant per quel concetto che implica un sillogismo. Per quanto questa denominazione, come la connessione tra giudizio e concetto distinto da un lato, e sillogismo e concetto completo dall'altro, non sia originale di Kant, pure il modo con cui è presentata in questo brano mentre testimonia quanto Kant fosse saldamente radicato nel terreno razionalista, lascia intravedere il punto in cui avverrà la divaricazione critica. E questo punto si intravede anche in un'altra asserzione kantiana contenuta in questo brano: « Risulta evidente da ciò anche un errore essenziale della logica come viene comunemente trattata, e cioè che si tratta dei concetti distinti e completi prima che dei giudizi e sillogismi, sebbene i primi siano possibili solo mediante questi secondi ». Questo giudizio visto come possibilità, per non dire genesi, del concetto, è già sulla via del giudizio sintetico. E se si avvicina questa kantiana r i f o r m a « della logica come viene comunemente trattata » (per usare le parole di Kant) con quanto Kant ha detto poche righe prima di queste parole, cioè: « questo giudizio non è il concetto distinto stesso, ma l'atto per cui il concetto si realizza », si vede meglio e che l'atto giudicante r e a l i z z a il concetto, il che verrà sviluppato dal Kant critico, e che il concetto non è

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Critica, si vede dal modo con cui la distin2Ìone che Kant fa vien subito da Kant abolita. Se, infatti, la facoltà di riconoscere in A qualcosa come nota o attributo e la facoltà di riconoscere in quest'attributo un identico alla sua realizzazione; è cioè fuori dalla presa del giudizio, cosa che appartiene, con la tradizione, al Kant precritico e permane anche in tutto il Kant critico. Quest'ultima posizione richiede l'intuizione intellettuale; e quando il Kant critico nega quest'intuizione, e sostiene che il giudizio « è l'atto per cui il concetto si realizza », cioè sostiene la produttività o forza generativa del giudicare, dovrebbe non mantenere più al concetto una sua qualsiasi realtà a sé. Cosa che invece fa. Giacché per quanto il lavorio critico scardini la cerniera che connette in uno queste due affermazioni: un'esistenza (non chiara) prima del giudizio chiarificatore, un'esistenza realizzata (nella sua chiarezza) dal giudizio, si sa bene che la prima posizione non scompare del tutto, ma lascia la cosa in sé da un lato, e la sensazione dall'altro; cioè dei quid n e c e s s a r i a m e n t e o s c u r i , perché son p r i m a del giudizio che rende c h i a r o ciò che realizza. Poiché una sezione della Critica della ragion pura, non poco tormentata dagli interpreti (vedi ad es. il De Vleeschauer che le dedica 18 pagine nel secondo voi. della sua Déduction transcendantale dans l'oeuvre de Kant), riceve molta luce se la si avvicina a quanto Kant ha detto sul concetto e sul giudizio nel paragrafo ora citato (avvicinamento che non so se sia stato fatto), mi permetto aggiungere le seguenti osservazioni. Si tratta della pagina che ha per titolo « Dell'uso logico dell'intelletto in generale » e che forma, da sola, tutta la prima sezione dell'Analitica dei concetti, nella quale si prepara e si inizia la deduzione metafisica. Come nel paragrafo su citato Kant mostra che il giudizio sta a fondamento della realizzazione del concetto, cosi in questa pagina della Critica, in cui parla del concetto, della funzione dell'unità e del giudizio, Kant, f a c e n d o l e v a s u l l a f u n z i o n e d e l l ' u n i t à , mostra come il concetto presupponga il giudizio. « I concetti, vi è infatti detto, riposano su funzioni. Io intendo per funzione l'unità dell'atto che ordina diverse rappresentazioni sotto una rappresentazione comune. I concetti dunque si fondano sulla spontaneità del pensiero ». I concetti cioè riposano e si fondano sulla spontaneità del pensiero, sull'unità dell'atto del pensiero in quanto quest'atto porta ad unità il molteplice. E Kant può perciò dire, poco più in là, che il concetto « è concetto solo a patto che siano sotto di esso raccolte altre rappresentazioni », ossia solo a patto che contenga l'unità di un molteplice. L'unità e spontaneità di quest'atto, poi, vien da Kant identificata senz'altro col giudizio: « tutti i giudizi sono funzioni dell'unità tra le nostre rappresentazioni... Ma noi possiamo ricondurre a giudizi tutti gli atti dell'intelletto, in modo che l'intelletto, in generale, può esser rappresentato come la facoltà di giudicare ». Il concetto, dunque presuppone, come nel '62, l'atto di unificazione, cioè presuppone il giudizio. Ma come nel '62 questo giudizio, cioè l'atto che realizza il concetto, « non è lo stesso concetto », così qui Kant continua: « i concetti si riferiscono, come predicati possibili, a qualche rappresentazione di un oggetto ancora indeterminato. Così il concetto di corpo significa qualche

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Giudizio e sillogismo

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altro attributo, sono non due ma una e identica facoltà, è chiaro che la differenza fra giudizio immediato e giudizio mediato (sillogismo) è solo verbale. Si ha sempre una catena di giudizi, e solo una catena di giudizi, mai un vero sillogismo. Incosa, p. es., un metallo, che può esser conosciuto mediante quel concetto... ». Esso è, insotnma, il predicato di un giudizio possibile, p. es. ogni metallo è un corpo. « Affermazione nella quale vengono in luce due cose: 1) se il concetto è concetto solo a patto di essere « predicato di un giudizio possibile », si rafforza la concezione del concetto come risultato dell'atto che in lui raccoglie un molteplice, giacché solo in virtù di questo molteplice in lui unificato, cioè in virtù del giudizio, il concetto può esser definito come predicato di un giudizio; 2) ma essendo visto come predicato d'un giudizio, il concetto è insieme concepito come tale che non ha nel giudizio la sua essenza; questa è presupposta come ciò che nel giudizio si realizza; ma non coincide né si identifica nel giudizio. Che è, ripeto, la concezione del '62 nella quale il giudizio è sì l'atto per cui si realizza il concetto, « ma non è il concetto stesso ». La duplice caratteristica del concetto, di stare a base del giudizio, e di esser tale in funzione del giudizio, fa tutt'uno con la duplice caratteristica dell'atto dell'unità: ora funzione unificante sotto concetti, ora funzione formante il concetto. E conscguentemente il giudizio, ora è sintesi vista come semplice sussunzione, ora è unità vista come atto che, nella copula, da l'esistenza (che è la teoria del giudizio nel § 19 della seconda edizione della Critica). I tre elementi di questa pagina, ricondotti alla impostazione logica che Kant aveva nel '62 ed alla riforma della logica di cui allora parlava, mostrano, mi pare con chiarezza, i significati in loro racchiusi. Se ora, andando avanti nella Critica, passiamo dalla deduzione metafisica alla deduzione trascendentale, e arriviamo al centro più vivo di essa, ci accorgiamo che vi si riproducono le stesse due posizioni. Da un lato il concetto puro, la stessa appercezione originaria ha la sua base nella unità sintetica, ed è conoscibile ed intellegibile solo in funzione d'un atto sintetico, che è quindi logicamente anteriore; il che corrisponde al giudizio che realizza il concetto nel '62; ossia, come Kant dice qui (§ 16): « L'unità sintetica del molteplice delle intuizioni, in quanto data a priori, è la base della identità della appercezione stessa, che precede a priori ogni mio pensiero determinato ». Infatti « questa identità comune della appercezione del molteplice dato nell'intuizione, contiene una sintesi delle rappresentazioni, ed è possibile solo per la coscienza di questa sintesi... Solo in quanto possono legare in una coscienza una molteplicità di rappresentazioni date, è possibile che io mi rappresenti l ' i d e n t i t à d e l l a c o s c i e n z a in queste rappresentazioni stesse; cioè l ' u n i t à a n a l i t i c a della appercezione è possibile solo a patto che si presupponga una unità sintetica ». Dall'altro, troviamo, nello stesso § 16, che questa « identità dell'appercezione », questa « identità della coscienza » cioè « questo principio della necessaria unità dell'appercezione, è in verità esso stesso una proposizione identica, e perciò analitica ». Cioè: l'atto sintetico non fonda questa identità analitica dell'appercezione; ed essa, sebbene si realizzi nel giudizio sintetico, che ne è la ratto cognoscendi, non si identifica

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Luigi Scaravelli

fatti: che A venga concepito mediante un attributo 'prossimo', e che A venga concepito mediante un attributo « remoto », queste due proposizioni, pur chiamando la prima immediata e la seconda mediata, sono non due ma una e identica concezione; giacché, finché si ammette che l'indagine dell'attributo remoto possa o trovare in lui ulteriori e più remoti attributi o (il che è lo stesso) sottoporre lui a più remoti attributi, siamo sempre davanti alla struttura del giudizio. Il fatto che questo tipo di procedimento prenda la forma di un sillogismo o meglio di un polisillogismo, non significa nulla, perché la forma, in questo caso, è solo grafica. Un polisillogismo, infatti, si può, com'è noto, scindere in vari modi, sì che uno qualunque dei suoi giudizi può a piacere funzionare da premessa maggiore, da minore o da conclusione; e con ciò mostra di non esser altro che una catena di giudizi. Si avrebbe vero sillogismo solo se il concetto che fa da base alla premessa maggiore non potesse venir mai mediato. Ma, per concepirlo, si dovrebbe allora ammettere una facoltà distinta da quella, sempre mediatrice, del giudicare. Kant invece radica giudizio e sillogismo nella medesima facoltà di giudicare, perché, vedendo il sillogismo solo come giudicare in modo mediato, concepisce poi questo come tale che dato qualunque concetto, sia possibile mediarlo. Sicché la differenza fra « giudicare in modo mediato » ( = sillogizzare, ragionare) e giudicare « in modo immediato », scrutata nel suo fondo, viene i n q u e s t o c a s o , a risultare verbale: e verbale risulta la differenza fra concetto « distinto » e concetto « completo ». Come appunto Kant sostiene quando afferma che intelletto e ragione (e perciò giudizio e sillogismo) « non sono capacità originarie differenti, (ma) consistono entrambi nella facoltà di giudicare ». in lui, né ha in lui la sua rado estendi. Il che ricalca il concetto che non è il giudizio stesso. Il rapporto tra questa identità analitica e l'unità sintetica non è un rapporto a tipo « sintesi » kantiana e tanto meno a tipo « dialettica » hegeliana. E per quanto strettissimo, abbiamo sempre un ondeggiare fra un'appercezione originaria che sta a base e solo si dischiude nel giudizio sintetico, ed un giudizio sintetico che è tutto quanto ciò che v'ha di reale nell'appercezione. Ma i due non arrivano mai alla perfetta coincidenza. E nella Critica si ritrova così, su un piano più alto, la posizione che Kant aveva quasi venti anni prima.

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Giudizio e sillogismo

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Tutto il leibnismo razionalkzato da Wolff preme e si condensa in questa facoltà di giudicare, vista sempre e ovunque come identica. E tutta la critica kantiana, che si articola nelle tre Critiche, preme e si appunta su questa facoltà per farne la analisi e mostrare come essa non sia un'unica e identica facoltà. La storia di quest'analisi coincide con la genesi delle tre critiche. Ma quanto al particolare problema della distinzione del giudizio dal sillogismo, che, come abbiamo visto, Kant pone quale substrato logico della distinzione fra concetti ed idee, poco o punto si può ricavare di nuovo o di interessante dal materiale-lettere, Lòse Blàtter, compreso il Duisburgeshen Nachlass del '75, che pure è tanto importante per la storia della gestazione della prima critica. Quella distinzione non è mai esaminata direttamente; sicché l'asserzione di Kant ha tutta l'aria di una connessione operata a cose fatte, quando cioè Kant aveva già elaborata per altre vie quella distinzione fra concetti e idee di cui con tanta forza parla nel § 41 dei Prolegomeni, e di cui sostiene, nella conclusione della seconda parte, che « questa c o s ì n e c e s s a r i a s e p a . r a z i o n e pur non si è fatta mai in alcun sistema di metafisica, dove quelle idee della ragione concorrono senza distinzione insieme ai concetti dell'intelletto, quasi appartenessero, come sorelle, ad una stessa famiglia » 5 , mentre invece « s o n o di t u t t ' a l t r a n a t u r a e di t u t t ' a l t r a origine». Scoperta la n a t u r a dell'intelletto come diversa da quella della ragione, e in queste diverse nature hanno appunto la loro diversa o r i g i n e i concetti e le idee, isolato e scisso dal problema dell'esperienza effettuale, il problema della « totalità », la cui radice affonda in altro « luogo » razionale che non quello ove sorge il mondo della conoscenza effettiva, Kant che ha sempre visto nel primo il dispiegarsi, il concretarsi, del giudizio, che ha, anzi, elaborato come un solo ed unico problema la teoria della possibilità del giudizio concreto e quella della possibilità dell'esperienza, Kant si rammenta che il sillogismo ha in sé un'esigenza ed una funzione che supera la semplice catena dei giudizi: dare la totalità. 5

Prolegomeni cit. § 39, p. 129.

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Luigi Scaravelli

Nel cenno indiretto contenuto nel § I dello scritto sopra citato del '62, poter il sillogismo connettere tutte quante le note remote e formar così concetti completi, sono impliciti i due problemi che costituiscono tutto il tesoro racchiuso nel sillogismo: esser certi che queste note siano proprio tutto; problema che Kant poteva considerare come « di contenuto »; e come mai il sillogismo possa de lure richiedere questa totalità: problema « di forza ». E poiché della totalità del contenuto non si può parlare in sede critica, già Cartesio, nella prima pagina della risposta ad Arnaud, distingueva il concetto veramente adeguato o completo quale è quello che solo Dio può avere, dal concetto completo come lo ha la mente umana ben lontana dalla coscienza della totalità delle note propria della mente divina6, non resta che il problema della forma, della struttura del sillogismo da prendere in considerazione. E questa forma non si ha nel sorite (nella catena, cioè, dei condizionati, che darebbero sì la molteplicità delle note, ma quanto al contenuto), si ha, invece, nell'interno della struttura del sillogismo, dalla parte della condizione: dalla parte della premessa maggiore che con l'arresto, de ture, del ragionamento impedisce che la connessione delle note sia senza capo. E questa è la forza del sillogismo. 6 II concetto pienamente « adeguato » di una cosa, cioè la conoscenza di tutte le note di questa cosa, è conoscenza a noi impossibile senza la rivelazione divina, che per avere la coscienza di questa completezza si richiede una potenza superiore all'umana « non v'è che Dio che s a p p i a d'avere la conoscenza intera e perfetta di tutte le cose Ma, sebbene un intelletto creato abbia forse conoscenze intere e perfette di vane cose, ciò nonostante mai può sapere di averle, se Dio non glielo rivela particolarmente . giacché per sapere che ha una conoscenza tale, o che Dio non ha messo m questa cosa nulla di più di ciò che ne conosce, occorrerebbe che uguagliasse, nella potenza del conoscere, la potenza infinita di Dio », scrive Cartesio nella prima pagina della risposta ad Arnaud La completezza, invece, raggiungibile dall'intelletto umano, è d'altra natura« quando ho detto che bisognava concepire pienamente una cosa, non era mia intenzione dire che la nostra concezione doveva essere intera e perfetta, ma solo che doveva esser sufficientemente distinta per saper che quella cosa era completa »; e chiariva subito che per « completa » intendeva solo « una sostanza rivestita di forme o attributi, sufficienti per farmi conoscere che è una sostanza » La coscienza della completezza quanto alle note di una cosa « data » ( = quanto al contenuto) esce dal piano della razionalità intellettiva Cfr R Descartes, Discorso sul metodo e Meditazioni ftlosoftche, trad A Tilgher, Voi. I, pp 298-99, Bari, 1928.

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Giudizio e sillogismo

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Se si guarda ora a che condizione è possibile che la catena dei giudizi (dalla parte delle condizioni) si arresti, cioè trovi un concetto tale che non ne sia possibile (de ture) uno superiore, si vede che nel punto di contatto fra un concetto che fa da attributo, o da nota, o da predicato, e il concetto che è da intendere come rigorosamente u l t i m o , non si ha dinanzi a noi, in questo punto di contatto, la struttura del giudizio, ma qualcosa di nuovo: e questo nuovo è richiesto come quell'z» più che è necessario a che il concetto ultimo sia appunto ultimo. Ora, poiché questo in più non può esser dato o colto dalla intuizione intellettuale o sovr'intellettuale, che Kant non ammette l'esistenza di una facoltà di questo genere, quest'in più, che appartiene alla costituzione stessa della ragione, come testimonia Pinsopprimibile esigenza dell'incondizionato, richiede nella ragione, come sua struttura intrinseca, una nuova facoltà che come non è intuitiva così non può essere neppure giudicativa. E se si considera come essenza intima, come struttura propria del sillogismo, non il fatto di presentare una concatenazione di giudizi, ma quello di presentare nella premessa maggiore un concetto come tale che comprenda in sé gli altri, e perciò, formalmente e de iure, come primo rispetto ad essi; se, dico, si isola questa caratteristica, e la si considera come l'intima natura del sillogismo, si potrà vedere come sia stato possibile trovare il s u b s t r a t o l o g i c o di quella facoltà non giudicativa né intuitiva nella forma del sillogismo. Il sillogismo viene così ad avere una funzione tato coelo diversa da quella del giudizio; e dall'uno all'altro, per quanto si gradui con lentezza leibniziana la loro distanza, non vi è passaggio più di quanto vi possa mai essere da A = A ad A = B. L'uno sarà o esprimerà una facoltà, e l'altro un'altra; e ciò che l'uno elabora sarà per sempre distinto da ciò che elabora l'altro. Il concetto « distinto » realizzato dal giudizio, per riprendere le parole di Kant, sarà il chiaro mondo matematico dei fenomeni; ed il concetto « completo », che il sillogismo è chiamato a realizzare, sarà il radicalmente separato mondo delle idee della anima, della totalità cosmica e di Dio. Guai a chi voglia tornare a confondere sillogismi con giudizi, e tornare con ciò all'erroneo modo di ragionare di un Leibnitz e di un Wolff, proclama la Critica a gran voce e da tutte

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Luigi Scaravelli

le sue pagine. Si tornerebbe a non saper rendere ragione della distinzione fra Dio e natura, a far vacillare il rigore delle matematiche, a scaLzare la base della morale... nulla rimarrebbe più distinto, nulla rimarrebbe più in piedi. Ed Hegel si è addossato P« immane compito » di far rimanere tutto in piedi e di unificare giudizio e sillogismo. « Da un pezzo il sillogizzare è stato attribuito alla ragione, osserva Hegel nella Scienza detta Logica; d'altro lato però si parla della ragione in sé e per sé, di principi e leggi razionali, in modo tale che non si vede chiaro come siano connesse fra loro quella ragione che sillogizza, e questa ragione che è fonte di legge e di altre verità eterne e pensieri assoluti. Se quella dev'essere soltanto la ragione formale, e questa invece deve generare il contenuto, allora all'ultima, secondo questa distinzione, non dovrebbe appunto poter mancare la forma della ragione, cioè il sillogismo. Ciò non di meno codeste due vengon tenute separate in modo tale, senza che a proposito dell'una si faccia menzione dell'altra, che la ragione dei pensieri assoluti par come si vergognasse della ragione del sillogismo... Manifestando però, come si è ora appunto notato, la ragione logica, se viene riguardata come ragione formale, si deve essenzialmente poter riscontrare anche in quella ragione che ha da fare con un contenuto; anzi nessun contenuto può esser razionale altro che per la forma razionale » 7 . Il sillogismo di cui qui si tesse l'elogio, il sillogismo che non può mancare alla ragione fonte di legge e di pensieri assoluti, come non è quello formale, così non si può dire che sia il sillogismo che si chiude nelle cinquanta pagine che a lui vengono dedicate nel 3° volume della Scienza della Logica: sillogismo che sbocca nell'oggetto sì, ma nell'oggetto soltanto in quanto è meccanismo. E' invece il sillogismo che ha raggiunto la massima profondità, quello finale àfXCEnciclopedia, quando lo spirito, percorsa tutta quanta la via della propria genesi e della propria eterna essenza, si attua, si produce e gode se stesso come spirito assoluto: e questo movimento, « che è l'attività 7

La Scienza della Logica, trad. Moni, Voi. Ili, Bari 1925, p. 128.

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Giudizio e sillogismo

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del conoscere », si articola nel giro dei tre sillogismi del Logo, Natura e Spirito, e si raccoglie in uno: che « questi tre sillogismi... costituiscono l'unico sillogismo della mediazione dello spirito con se stesso » 8 . « In questa forma della verità, la verità è l'oggetto della filosofia » 9 . Ed il sillogismo che sbocca nella verità, e non nel meccanismo, è il vero sillogismo. « II sillogismo è la ragione d'essere essenziale di ogni verità; e la definizione dell'assoluto è ora questa: che l'assoluto è il sillogismo, o, esprimendo tale determinazione in una proposizione: ogni cosa è un sillogismo ». Si può dunque concludere: « II reale è uno, ma è anche il dirompersi dei momenti del concetto; e il sillogismo è il circolo della mediazione dei suoi momenti, attraverso i quali si pone come uno » 10 . « Enciclopedia, trad. Croce, Bari 1907, S 571. Enciclopedia cit. Entrambe queste citazioni Enciclopedia cit. § 181. Sebbene sia inutile aggiungere altri passi a chiarimento di quanto sopra, riporto i seguenti solo allo scopo di mostrare una particolare continuità nel pensiero hegeliano. Il famoso: « Non solo il sillogismo è razionale, ma ogni razionale è un sillogismo » (Scienza della logica cit., Voi. Ili, p. 128), conforme al « ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è razionale » della filosofia del diritto, è conforme anche alla definizione del « concetto » data al principio della logica soggettiva. La sostanza con cui termina la sfera dell'essenza, si è transustanziata in soggetto, in concetto. « La propria, necessaria progressiva determinazione della sostanza è il p o r s i dì quello che è in sé e per sé. Ora, il concetto è quell'assoluta unità dell'essere e della riflessione, che l'essere in sé e per sé è solo per ciò ch'esso è insieme riflessione, ovvero esser posto, e che l'esser posto è l'essere in sé e per sé » (id. p. 10). Si ha cioè un essere la cui natura è d'esser tutto riflessione, tutto aereato a chiara razionalità, ed una comprensione, una chiara razionalità che è pienamente reale, effettivamente esistente. Il concetto è dunque la realtà del proprio essere, il fatto della propria razionalità. Ora queste tre proposizioni hegeliane, tre aspetti su piani diversi d'uno stesso principio, son contenute in nuce in una definizione di uno scritto se non proprio giovanile, quasi giovanile, del 1801: « La pura ragione ed il suo fatto sono una sola cosa, e la sua attività è pura rappresentazione di sé stessa » (Differenz des Fichte 'scben una Schelling' schen Systems der Philosophie, Jena, 1801, in Samtliche Werke, Bd. I, Leipzig 1928, p. 34). E se si ricorda che rappresentazione è sinonimo di manifestazione, in che cosa questa definizione differisce da quella che si legge nell'ultimo paragrafo dell'Enciclopedia (aggiunto nel 1830 alla terza edizione) in cui si conclude il processo dell'assoluto : « L ' a u t o g i u d i z i o dell'idea nelle due apparenze determina queste come le s u e manifestazioni (manifestazioni della ragione che sa se stessa); e si riunisce in essa in modo che è la natura della cosa, il concetto, ciò che si muove e svolge, e questo è altresì l'attività del conoscere ». 9 10

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Luigi Scaravelli

Questo sillogismo, che Hegel qui, direi, canta, « circulata melodia », nella quale ciascuno dei tre termini è volta a volta individuale, particolare ed universale, questo sillogismo è quello cui Hegel sopra si riferisce quando ne lamenta la mancanza nella ragione. Sicché il problema è più complesso di quanto pare; perché sebbene la ragione fonte di leggi e di pensieri assoluti che par che si vergogni del sillogismo (dimenticando che se un contenuto, qualunque esso sia, è razionale, lo è per il sillogismo) sia la ragione della « vecchia metafisica » n, pure l'accusa non si limita a lei, ma si estende a qualunque concezione della ragione che non concepisca la ragione, la sua essenza e la sua operazione, come sillogismo, come sillogismo perfetto e compiutamente operante. Ora, la mancanza di questa compiutezza sillogistica, e per di più la mancanza della attribuzione della forma del sillogismo ad un aspetto fondamentale della ragione, la ragione nel suo uso pratico, è caratteristica della concezione che della ragione ha elaborato Kant, le cui critiche pur « dettero il tracollo alla metafisica precedente » n . Sicché l'accusa di negare, irrazionalmente, la forma razionale alla ragione, coinvolge la stessa concezione kantiana della ragione. Nella Critica della ragion pura Kant, com'è noto, divide la ragione in « facoltà logica » e « facoltà trascendentale »; ed accettata per la prima la definizione tradizionale dell'« uso semplicemente formale » della ragione come « inferire mediatamente », cioè come sillogismo, pone a base della seconda, cioè « dell'uso reale » della ragione come facoltà « che produce da sé concetti », lo stesso sillogismo, concepito però come funzione trascendentale, il cui terminus maior sia l'incondizionatou. 11 12 13

Enciclopedia, cit., § 27. Scienza della Logica, cit., voi. I, p. 217. Nella Introduzione alla Dialettica trascendentale Kant elabora per la ragione e le sue idee una dottrina in perfetto pendant con la deduzione metafisica dell'intelletto e dei suoi concetti o categorie. Come ha distinto un uso formale dell'intelletto da uno reale (che si riferisce a oggetti), così distingue gli stessi due usi nella ragione. E come accetta per l'intelletto nel suo uso formale la tavola dei giudizi formali, così accetta per la ragione nel suo uso formale la definizione tradizionale di facoltà di inferire mediatamente, cioè di far sillogismi. Poi, come mostra la coincidenza anzi l'identità fra l'atto del giudizio (in quanto forma) e la categoria, il che costituisce la deduzione metafisica, così mostra l'identità fra l'atto sillogistico (in quanto forma) e

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Giudizio e sillogismo

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l'idea. Si viene così a provare che tanto le categorie quanto le idee sono funzioni che appartengono alla spontaneità dello spirito, e che sono schiettamente attive. Ma, mentre il valore e la funzione "reale", cioè oggettiva, delle categorie (il loro riferirsi ad oggetti), vien provato nella deduzione trascendentale, per le idee, invece, questa funzione reale od oggettiva non può venir provata; anzi si prova che esse, non avendo presente ciò che sarebbe indispensabile al loro riferimento oggettivo, non possono avere funzione oggettiva. Sicché qui deve mancare la deduzione trascendentale. La deduzione metafisica però era già stata sufficiente, con l'identificazione della operazione della ragione con la « forma » del sillogismo che ha per terminus maior l'incondizionato, a definire le idee come funzioni e non come quid innati. Ora l'identificazione fra intelletto e facoltà trascendentale del giudizio è riuscita, nella 2" ed. della Crìtica della ragion pura, perfettamente chiara, ed è interessante vedere le fasi che Kant ha laboriosamente percorso per trovare questa identificazione senza residui, dal Duisburgschen Nachlass (1775), alla la ed. della Critica, ai Prolegomeni, alla famosa nota dei Principi metafisici della fisica, e finalmente, dopo dodici anni di cammino, alla 2° ed. della Critica; non altrettanto chiaro è riuscito il rapporto fra ragione e sillogismo (visto anch'esso, s'intende, come funzione trascendentale). La importantissima teoria definita nella Introduzione alla dialettica, riassunta nella affermazione del § 43 dei Prolegomeni circa le idee o concetti razionali puri, i quali « non potrebbero, se n o n si v o g l i o n o r i t e n e r e i n n a t i , trovarsi altrove che nella s t e s s a o p e r a z i o n e d e l l a r a g i o n e , operazione che, in quanto riguarda semplicemente la forma, c o s t i t u i s c e il c a r a t t e r e l o g i c o d e i s i l l o g i s m i » (Prolegomeni cit., p. 134. Spaziato mio), mostra nitidamente l'identità fra idee e funzione sillogistica; ma non quella fra ragione e funzione sillogistica pur intendendo per ragione solo quella speculativa, cioè quella di cui Kant, nei primi righi della sua Dialettica scrive: « ogni nostra conoscenza sorge dai sensi indi va all'intelletto, e finisce nella ragione, al di sopra della quale non c'è nulla di più alto per e l a b o r a r e la m a t e r i a delle i n t u i z i o n i e s o t t o p o r la a l l a p i ù a l t a u n i t à d e l p e n s i e r o » . Una analisi molto minuta di queste pagine della Introduzione alla Dialettica, fa vedere che qui Kant piuttosto che compiere un esame diretto ed autonomo della possibilità conoscitiva della ragione, lavora ben spesso per semplice analogia con quanto ha fatto nel campo dello intelletto. E siccome nella 2" ed. della Critica ha lasciato senza rielaborazione quello che aveva scritto nella prima e siccome nella prima la identificazione rigorosa fra intelletto e funzione trascendentale del giudizio non era ancora avvenuta, così qui, nella Dialettica, non si ha la piena identificazione fra ragione e sillogismo. Il residuo che sfugge, che sta più in alto della funzione sillogistica, non rivela, è vero, una ragione concepita sostanzialisticamente; ma neppure lascia vedere con chiarezza che cosi non possa essere. Più in là vedremo quali conseguenze porti con sé l'aver lasciato « l a p i ù a l t a u n i t à d e l p e n s i e r o » « a l di s o p r a d e l l a q u a l e non c'è n u l l a di più a l t o per e l a b o r a r e la m a t e r i a d e l l e i n t u i z i o n i » in questo stato non perfettamente nitido. Per questa medesimezza della ragione nei suoi due aspetti, speculativo e pratico, vedi al principio della Delucidazione critica dell'Analitica della ragion pura pratica: « ora la ragion pratica ha per base la stessa facoltà conoscitiva che ha la ragione speculativa, in quanto Puna e l'altra

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Luigi Scaravelli

La natura e l'operazione della ragione, dunque, in quanto ha uso reale, cioè in quanto « contiene l'origine di certi consono r a g i o n p u r a » . Quanto al rapporto fra ragion pratica e sillogismo, rimasto estrinseco perché limitato alla esposizione sistematica, vedi due pagine più in là: «Siccome è la r a g i o n p u r a che qui viene considerata nel suo uso pratico, e quindi movendo da principi a priori e non da motivi determinanti empirici, così la divisione dell'analitica della ragion pura pratica dovrà riuscir simile a quella di un sillogismo, cioè procedendo dall'universale nella m a g g i o r e (dal principio morale), mediante una sussunzione sotto di esso di azioni possibili (come buone o cattive) fatta nella m i n o r e , alla conclusione, cioè alla determinazione soggettiva della volontà (ad un interesse per il bene praticamente possibile e la massima fondata su quell'interesse). Questi confronti faranno piacere a chi si è potuto convincere delle proposizioni presentate nell'analitica; poiché essi cagionano giustamente la speranza, che forse si possa arrivare sino alla cognizione dell'unità dell'intera facoltà della ragion pura (tanto della teoretica come della pratica) e che si possa derivar tutto da un solo principio; che è il bisogno irresistibile della ragione umana, la quale trova piena soddisfazione soltanto in una unità completamente sistematica delle sue conoscenze ». Le ultime parole mostrano e che l'unità dei due aspetti defla pura ragione non è identità analitica della ragione; e che non si va oltre la semplice speranza di una futura conoscenza di questa u n i t à d e l l ' i n t e r a f a c o l t à d e l l a r a g i o n e , da cui si possa derivar tutto come da un unico principio. Constatata la mancanza della conoscenza di questa unità della ragione e constatata la mancanza di questo principio unico da cui poter tutto derivare, si sarebbe costretti a malignamente concludere che Kant era privo dell'essenziale per scriver quella Critica della ragion pura che invece ha scritto. Nella prefazione alla 2' ed. (p. 33) leggiamo infatti che la « natura di una ragion pura speculativa possiede una vera struttura organica, nella quale tutto è organo, cioè il tutto è per ciascun membro e ciascun membro pel tutto »; e la compiutezza di questo organismo e la sua unità vien garantita dall'unità del principio che lo regge, come è detto fin dalla prefazione alla prima edizione (p. 12): «la metafisica, secondo i concetti che qui ne daremo [...] altro non è che l'inventario di tutto ciò che possediamo per mezzo della ragion pura, sistematicamente ordinato. Nulla qui può sfuggirci, perché ciò che la ragione trae interamente da sé stessa, non può rimaner celato, ma per opera della stessa ragione viene alla luce, appena scoperto il principio generale che la governa ». Saremmo dunque costretti a dire addio all'unità dell'organismo, a dire addio all'organismo, se questo "principio generale" che governa la ragione venisse a mancare. Ma, ora, è appunto questo principio generale ciò che Kant dichiara di non possedere. Né si potrebbe obbiettare che la Critica della ragion pura costituendo non l'intera scienza ma solo una parte di essa, solo un organo dell'intero organismo, non ha necessità di un principio generale, ma che a lei basta un suo particolare principio; giacché questa suddivisione del tutto negli organi che lo formano e questa assegnazione dei singoli principi che li reggono, non può avvenire che seguendo il filo dell'organismo intero; e questo filo non può partire che dal principio generale che tutto governa. Mancando questo, ogni suddivisione non è che taglio arbitrario, non è che taglio antiorganico.

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Giudizio e sillogismo

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cetti e di certi principii che non ricava né dai sensi né dall'intelletto » M, è il sillogismo. Ma quando si guarda cosa avviene nell'uso puro pratico della ragione, ove la ragione mette effettivamente in valore i principi che ha in sé, ci si accorge che non si parla più del sillogismo come intima costituzione di questa ragione, quasi non fosse la stessa di quella che aveva a che fare col sillogismo K. E nella stessa condizione si trovano le attività da Kant indagate nella Critica del giudizio: l'attività ideologica, come principio della vita organica, e l'attività del gusto, come genesi del mondo dell'arte. Queste attività, sebbene non siano oggettive dell'oggettività propria del mondo delle scienze fisico-matematiche, neppur vengono da Kant abbandonate al libito soggettivo delle inclinazioni o alla empirica soggettività del piacere e del dolore; ma vengono anzi proprio da Kant innalzate tutt'e due a valore « universale », e con ciò poste, tutt'e due, sotto la « forma » della ragione. Eppure, nonostante il loro essere universali e nonostante il loro star sotto la forma della ragione, non hanno, neanche esse, nulla a che vedere col sillogismo, che pur è, per Kant, la stessa forma della ragione. Né va dimenticato che il sillogismo della stessa ragion speculativa, privo com'è di uno dei termini necessari a che sia sillogismo, non funziona affatto. Ma un sillogismo che non funziona non è sillogismo. Ora, proprio Kant che ha identificato la natura e l'essenza della Ragione con la forma e la funzione del sillogismo, proprio Kant ci da una ragione che è sillogismo in sede speculativa, cioè là dove non funziona; e nel mondo morale, nel campo del giudizio di gusto e della teleologia, cioè là dove funziona, non è sillogismo. Sicché quello che Hegel rimprovera a Kant, e che pone come centro dei centri delle molte obbiezioni e critiche che ad ogni pie sospinto gli è venuto facendo, è la concezione stessa della Ragione nella sua intima natura ed essenza. Una Ragione che non coincida con il sillogismo, che non coincida cioè con la sua s t e s s a f o r m a e funzione, non si sa che cosa possa mai essere. 14 15

Critica della ragion pura cit., p. 289. Vedi nota 13.

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Luigi Scar-avelli

Kant aveva visto e che l'intelletto è sintetico, e che la ragione è non analitica. Questa non-analiticità della ragione è garanzia teoretica della possibilità che le idee pur non essendo principi costitutivi, non siano per questo un nulla, ma abbiano una loro distinta realtà. Ed è, sempre in sede strettamente speculativa, garanzia teoretica della possibilità di facoltà non costrette a rientrare in quella sintesi dell'intelletto che è stata determinata e com'è stata determinata nell'ambito gnoseologico. Ora, come aveva vista questa non-analiticità della ragione, non analiticità con la quale viene abbandonata la via wolffianometafisica, Kant aveva visto anche come fosse n e c e s s a r i o a questa ragione non analitica passare per l'intelletto; aveva vista cioè la necessità, per questa ragione, della sua connessione a priori con l'intelletto. Non-analiticità della ragione, infatti, significa, non-intuitività. Ed una ragione che abbia una effettiva funzione, ma questa non sia la intuitiva, sarebbe agli occhi di Kant semplice impulso biologico o patologico, se essa non si rappresentasse per concetti il principio da porre a base della propria attività. Ed appunto per questo nelle due ultime critiche si riferisce sempre, com'è noto, alle categorie messe in luce dalla prima. Ma se l'intelletto può appagare la propria struttura sintetica mediante la sua connessione a priori con le forme della sensibilità, la ragione non può appagare la propria natura, cioè dare concretezza alla propria non analiticità, né mediante quelle stesse forme, né mediante... E c'è di più: tanto la volontà i n p r e s e n z a della legge quanto la teleologia e il giudizio di gusto, non potrebbero conservare la propria natura, non solo se si chiudessero nel mondo fisico-matematico della prima critica, ma perfino se passassero per la stessa via che l'intelletto segue nella deduzione trascendentale per sintetizzare le forme della sensibilità. Che la categoria di causa fra omogenei, quella di reciprocità pure fra omogenei, quella di quantità ovunque essa compaia, e quella della qualità vista come intensità della presenza d'una sensazione passiva (per tacere dello schematismo), sono tutti ostacoli radicali, ostacoli fondamentali, alla esplicazione della ragione nel suo uso non speculativo; anzi sono determinazioni che non si convengono alla pura ragione nella sua purezza incondizionata.

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Giudizio e sillogismo

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Kant si è dunque trovato davanti alla necessità di riprendere in esame la struttura dell'intelletto, come egli stesso ci dice nella Prefazione alla Critica della ragion pratica: « i concetti e i principii della ragion pura speculativa, che pur hanno già sostenuto la loro critica speciale, qui sono di nuovo sottoposti ad esame. Il che non conviene al processo sistematico, in cui viene stabilita una scienza (dove cose giudicate definitivamente possono essere giustamente citate, ma non di nuovo discusse); ma qui era lecito, anzi necessario; perché la ragione vien considerata nel passaggio a un uso di quei concetti affatto diverso da quello che là essa ne faceva. Ma un tale passaggio rende necessario un confronto dell'uso antico col nuovo, per distinguere bene la via nuova dalla precedente, e nello stesso tempo far notare la connessione che hanno fra di loro ». E quello che qui dice rispetto a quest'opera, deve esser esteso anche alla Critica del giudizio, ove i concetti dell'intelletto hanno un compito ed un significato non identico a quello che hanno nell'uso pratico e nell'uso speculativo ló. Se si va ora a cercare, nelle due ultime critiche, il nuovo esame promesso da Kant « per distinguer bene la via nuova dalla precedente » (quella appunto per la quale non si può più passare), si trova che questo esame è ben lontato dall'estendersi alla costituzione dell'intelletto, ed alla struttura di tutte le categorie. Anzi, non solo non si parla di una nuova costituzione dell'intelletto, di una sua nuova struttura o di una sua nuova

M Uno dei risultati positivi della prima Critica, quello secondo cui vede come il mondo fisico-matematico né ha sua sede nella ragione (e per questo non la appaga) né è s u l l a v i a per la quale la ragione possa mai venir appagata, è stato indebolito da Kant stesso, quando si è accanito a cercare il passaggio dalla metafisica alla fisica; ossia a costruire un completo "sistema" razionale servendosi della sensibilità e delle categorie della ragion pura, dando fuori, nell'Opus Postumum, qualcosa come una filosofia della natura, nella quale, partendo dalle cause generatrici delle sensazioni, salendo alle leggi scientifiche del loro ordinarsi in cosmo fisico, e arrivando all'unità assoluta dell'autocoscienza, possa la pura ragione speculativa trovar soddisfazione alla propria universalità. Ed è stato poi in gran parte perduto dallo Schelling àe&'Algemeine Deduktion des dynamiscben Processes oder der Kategorien der Physik, per non dire da tutto il primo Schelling, con la sua dialettica quantitativa. Non escluderei lo stesso Hegel per quel tanto che ha creduto necessario far transitare attraverso la quantità il « pulsare » cosmico dell'idea.

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Luigi Seat•avelli

funzione, ma quanto alle categorie ci si limita a parlare solo di quella di causa. Ed anche rispetto a questa, più che un vero esame critico si ha solo una ripetizione ampliata di ciò che a proposito della suddivisione delle antinomie in matematiche e dinamiche, era stato già detto, nella Critica della ragion pura, circa la distinzione tra causalità che si attua fra omogenei e causalità che si attua fra non-omogenei. E cioè che: « Nella connessione da causa ed effetto può certo trovarsi anche omogeneità, ma non è necessaria; poiché il concetto di causalità... non la richiede » ". Ma questa affermazione non è stata mai giustificata da Kant in sede critica. E siccome questa giustificazione è, invece, indispensabile, perché, se pur si può concedere che il concetto di causa non richieda, c o m e c o n c e t t o , la omogeneità fra gli elementi che sintetizza, non si può affatto concedere, senza un preliminare esame critico intorno alla sua possibilità, che non la richieda c o m e f u n z i o n e connettente un A con un B non omogenei (esame critico che avrebbe dovuto mettere in luce la radicalmente nuova conformazione di questa funzione), noi, dinanzi a questa categoria messa da Kant tanto a base della azione morale quanto a garanzia della possibilità del giudizio teleologia), siamo costretti a usare le sue stesse parole circa la necessità e insieme l'incomprensibilità della libertà; giacché la categoria della causalità, così intesa, altro non è che quel concetto 18: « del quale si deve notare con meraviglia, che tanti ancora si vantino di poterlo comprendere benissimo e di poterne spiegare la possibilità, perché la considerano semplicemente sotto l'aspetto psicologico; laddove, se prima l'avessero esaminato accuratamente sotto l'aspetto trascendentale, avrebbero conosciuto tanto la sua n e c e s s i t à a s s o l u t a come concetto problematico nell'uso completo della ragione speculativa, quanto anche la sua totale i n c o m p r e n s i b i l i t à . Se poi fossero andati all'uso pratico con esso, 17 Prolegomeni cit. § 53, p. 152. Nel suo commento a questo § (p. 152 nota) il Carabellese giustamente sottolinea che questa affermazione « è tanto grave quanto gratuita ». 18 Vedi Critica della ragion pratica, trad. Capra, Bari 1942, p. 123: « Io comprendo subito, che siccome non posso pensar niente senza categoria, anche nell'idea razionale della libertà, di cui mi occupo, dev'essere anzitutto ricercata la categoria, la quale qui è la categoria della c a u salità».

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Giudizio e sillogismo

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avrebbero dovuto venire da sé proprio alla stessa determinazione di quest'uso riguardo ai suoi principii, nella quale consentono così mal volentieri. Il concetto della libertà è l'inciampo di tutti gli empiristi, ma anche la chiave dei principi pratici supremi per i moralisti critici, che per mezzo di esso comprendono di dover necessariamente procedere in modo r a z i o n a l e » 1 9 . Ora, anche se noi arriviamo solamente a comprendere questa incomprensibilità della causalità fra non omogenei (spinta a causalità per libertà)20, questo solo fatto, benché non sia molto, pure è più che sufficiente a farci vedere con chiarezza come sarebbe stato necessario riprendere in esame l'intelletto, questa « unità per sé stante, sufficiente a se stessa, e non suscettibile di aumento per aggiunte dall'esterno »21. Intelletto che, come non è stato ripreso in esame nella seconda Critica, così non è stato ripreso in esame nella Critica del giudizio, ove pur si riprendono tutti i titoli delle categorie, facendone un uso per così dire analogico, ma lasciandole sostanzialmente, cioè per quanto concerne la connessione con l'intelletto, immutate. E come non si ha il nuovo esame dell'intelletto, bisogna poi aggiungere che non si ha neppure, né nella Critica detta ragion pratica, né in quella del Giudizio, alcun nuovo esame della sensibilità, terzo termine del sillogismo. Ma tanto nell'una quanto nell'altra, sia la sensibilità empirica che quella a priori, cioè tanto tutto quello che è « patologico » quanto tutto quello che nel sentire (nel più largo senso della parola) può esservi di a priori, rimane lo stesso di quello che faceva da sfondo sottinteso nella prima critica22. Ve sì qualcosa di nuovo, l'ac19 20

Critica della ragion pratica, cit., p. 6. E' da notare die per quanto la carenza d'analisi della causalità fra eterogenei non abbia fatto ricadere questo concetto nella impostazione metafisica, pure ha fatto sì che quegli eterogenei che quel concetto è stato chiamato a connettere, sian rimasti eterogenei: e la moralità è rimasto un dover essere. 21 Critica della ragion pura, cit., p. 105. 22 Mi pare opportuno accennare, come esempio di questo, ad un punto che coinvolge anche la mancanza di un nuovo esame di una categoria: quella compresa sotto il titolo della qualità, la categoria della realtà. Nella teleologia si ha che tutto il molteplice sensibile che in organica unità si compone, ha, oltre alla sua connessione con questa unità ideologica che lo incurva e lo fa sfericamente gravitare intorno a sé,

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Luigi Scaravelli

cenno ad un sentire come gusto, che è un sentire a priori, nella terza critica; ma questo germe, pur tanto fecondo, è rimasto allo stato di germe, e non si è sviluppato fino ad una apriorità con valore e funzione realmente oggettiva. Per questa carenza di indagine critica tanto delle funzioni dell'intelletto, quanto della natura della forma e del contenuto sensibile, Kant non ha trovato gli elementi a priori necessari a che la sua non-analitica ragione raggiunga la c o n c r e t a o g g e t t i v i t à . La mera f e n o m e n i c i t à del mondo della ragion pura, in un campo, il d o v e r e s s e r e , in un altro, e la s o g g e t t i v i t à del giudizio di gusto e della teleologia in un terzo, ne sono le conseguenze. Testimoniano del fatto che la ragione, sebbene uscita con la propria non-analiticità dal wolfiano involucro metafisico, non ha trovato ancora ciò che le è indispensabile a soddisfare questa sua natura non analitica, e a raggiungere così la pienezza e la circolarità del sillogismo. La distinzione kantiana fra giudizio e sillogismo non è distinzione m e t a f i s i c a fra due funzioni ed operazioni; è invece distinzione t r a s c e n d e n t a l e . In base ad una distinzione metafisica si avrebbero, come risultato, due distinte realtà. In base alla distinzione trascendentale si hanno invece due anche quella configurazione e connessione che spetta alla sensazione in virtù dell'analisi fatta nella prima Critica, Questa sensazione cioè può esistere solo in virtù di una funzione che garantisce la sua presenza ed il grado di intensità di questa presenza, legando all'intelletto una modificazione che rimanda per il suo esser presente alla « affezione » metafisica. Che è la categoria di realtà com'era vista nella Critica della ragion pura. Ora questo sta a base del fatto che l'organismo fa capo per la sua organicità teleologica, all'unità di questa teleologia, ma per i singoli elementi di cui è contesto deve far capo alla teoria antiteleologica della Critica della ragion pura, che è quella che garantisce la presenza degli elementi sensibili di cui si compone l'organismo. Andando avanti poi si vede la stessa cosa circa un'altra categoria, quella di causa. Ogni sensazione infatti può venir connessa con altre sensazioni solo in virtù della causalità fra omogenei, e solo nello spazio che è ciò che le da l'oggettività. Sicché ogni punto di quel corpo che pur è organismo, non è che soggettivamente unificato nell'unità dell'organismo, giacché oggettivamente è un punto concepibile connesso agli altri punti solo in virtù di leggi meccaniche. E' dunque la carenza di critica tanto della sensazione e del sentire, quanto della categoria della realtà e della categoria della causalità (che sono rimaste così com'erano viste nella prima Critica), ciò che fa sfuggire al soggettivo giudizio ideologico, la realtà oggettiva.

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Giudizio e sillogismo

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elementi l'uno dei quali, la totalità che sta al di là del mondo fisico-matematico e del mondo organico, la cosa in sé, il noumeno, l'assoluto, tutto ciò insomma che è oggetto di sillogismo, si presenta come ciò di cui non si può vedere in alcun modo la conformazione interna. Ed oscilla perciò fra esser solo un « problema », e esser un universale « oggetto », non conosciuto. La ragione di questo è riposta nella natura interna di quelle due distinte operazioni: mentre del giudizio si possiedono infatti tutti gli elementi ed i vari modi, nelle tre Critiche, del suo funzionamento, del sillogismo né si hanno presenti tutti gli elementi a che sia effettivamente sillogismo, né si scorge nitidamente il modo del suo sia pur eventuale possibile operare. Questo sillogismo è v e r o sillogismo, e non una semplice catena di giudizi, solo se è sillogismo dell'incondizionato ed il sillogismo dell'incondizionato non è un sillogismo analitico, come appunto dice Kant: « trovare per la conoscenza condizionata dell'intelletto quell'incondizionato con cui è compiuta l'unità di esso intelletto... (è) un principio della ragion pura evidentemente sintetico; perocché il condizionato si riferisce a n a l i t i c a m e n t e a q u a l c h e c o n d i z i o n e , m a non a l l ' i n c o n d i z i o n a t o » 2 3 ; cioè: connettere un quid condizionato con l'incondizionato è connettere dei non-omogenei, e perciò la loro connessione non è analitica. Ora, si vede bene che questo sillogismo non può e non deve esplicare la propria funzione ricalcando il tipo del giudizio mediato, giacché questo non esce mai dal mondo sempre condizionato dei fenomeni; ma non si vede affatto come sia costituita questa sua « possibile » funzione fuori di quel mondo, là dove appunto ha o deve avere la sua sede speciale. Che per un sillogismo di questo genere, se non ci si trasforma fra le mani in giudizio, non basta né la concezione del sillogismo formale, né quella del sillogismo trascendentale. E oltre queste due concezioni, non se ne vedono altre. La stessa supposta attività o funzione sillogistica che si esplica nelle due attività studiate nella Critica del Giudizio non riesce a diventare « o g g e t t i v a » proprio perché... non è sillogismo. L'unità dell'organismo che in quest'opera si tiene 23

Critica della ragion pura, cit., p. 295. Le sottolineature sono mie.

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Luigi Scaravelli

a produrre, guardata bene, è , infatti, unità prodotta da un giudizio non quella di un sillogismoM. Il sillogismo vi rimane presente, ma esterno, vi rimane tutto intorno; e questa presenza fa sì che quei prodotti non siano, né possano mai essere la realtà assolutas. Ma di questa realtà assoluta manca il sillogismo effettuale che ne dia la chiara e distinta conformazione interna. Ci ritroviamo dunque in una difficoltà ben più grave di quella già grave in cui ci si trovava a proposito del concetto di causa per libertà, quando questo concetto cioè agiva come sintesi di non-omogenei. Ci troviamo davanti ad un sillogismo che è sempre sul punto di operare, e con ciò di rivelarci il segreto della sua costituzione e della sua « forma » effettiva, ma che non opera mai di fatto, e così riassorbe in sé e fa scomparire le sue articolazioni ed i suoi termini, prima ancora che si siano visti ed articolati. Per indicare l'essenza della ragione kantiana ho adoprato sempre l'espressione: « non analitica ». Non ho detto « sintetica », perché la ragione non solo non produce sintesi effettive, ma se anche per ipotesi fosse, sia pure nella sola sede teoretica, non regolativa ma costitutiva, la sua operazione non potrebbe esser identica a quella dell'intelletto. Non ho neppure potuto usare altra espressione, perché se la ragione non si identifica col sillogismo, per quel tanto che non si identifica, la sua essenza e la sua funzione rimangono opache; e se invece vi si identifica senza residuo, neanche in questo caso si vede con chiarezza quale sia, o almeno quale potrebbe essere la sua operazione, dato appunto che l'operazione di questo speciale sillogismo si sottrae a qualsiasi indagine critica. E se sopra si è richiamata l'attenzione sul fatto che la mancata identificazione fra la ragione e la funzione trascendentale 24 Naturalmente non dando l'appellativo di sillogismo ovunque compaiono tre termini; che in questo caso anche il famoso g i u d i z i o sintetico a priori sarebbe sillogismo, dato che l'operazione avviene partendo dall'intelletto (terminus maior) passando attraverso il m e d i o dell'immaginazione trascendentale (ossia tutto lo schematismo) per sboccare nel terzo termine (terminus minar), la sensibilità. Come questa sintesi non ha la intima « forma » di un sillogismo, così non l'hanno le operazioni delle due attività della Critica del giudizio. s Ricorda il motto goethiano della terza parte di Dichtung und Warheil: « è stato disposto che gli alberi non raggiungano il cielo! ».

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Giudizio e sillogismo

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del sillogismo, pur non facendo ricadere la ragione in una concezione sostanzialistica, non elimina la possibilità di seguitare a concepire l'intimo nucleo in modo sostanzialistico (giacché di una ragione non identica alla propria operazione, contro l'hegeliano « la pura ragione ed il suo fatto sono una sola cosa », non si può affermare, ma neppure negare che sia sostanza) qui bisogna aggiungere che non basta l'ipotesi della mancata revisione della Dialettica trascendentale nell'epoca della seconda edizione della Critica, per spiegare questa posizione kantiana rimasta poco limpida. E' necessario forse vedere qui la presenza di una difficoltà profonda, di cui Kant sente la gravita, la presenza di un problema complesso, che però non viene isolato né formulato mai esplicitamente. Kant sente cioè che non si può identificare senz'altro il sillogismo con la ragione; perché la funzione sillogistica se pur si ammette che sia adatta ad esprimere la costituzione di un « uso speciale » della ragione, non è però adatta ad esprimere intera la costituzione più intima, l'essenza essenziale di q u e l l a p u r a r a g i o n e di cui aveva scritto: certi confronti fra ragion pura e ragion pratica fanno piacere « poiché cagionano giustamente la speranza che forse si possa arrivare sino alla cognizione dell'unità dell'intera facoltà della ragion pura (tanto della teoretica quanto della pratica) e che si possa derivar tutto da un solo principio » M . Ora, è questa « unità della intera facoltà della ragione », che Kant ha presente; e questa unità vede bene che non coincide col sillogismo trascendentale. Sicché e l'uno e l'altra rimangono privi di quella nitida trasparenza che è indispensabile a scorgerne la costituzione ed il funzionamento. Vien qui alla sua ultima conclusione l'analisi, cominciata nel 1770, forse un po' prima, di quella « facoltà di giudicare » che Kant vedeva, nel '62, sempre e ovunque come identica; e che mentre gli faceva ritenere come fondamentalmente identico il giudìzio col sillogismo, così gli impediva di giustificare in sede teoretica la possibile differenza di diverse attività o usi della stessa ragione. Il distacco del sillogismo dal giudizio, la separazione della ragione dall'intelletto, va di pari passo con la sem26

Nel già citato passo della Delucidazione critica della Critica della ragion pratica.

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Luigi Scaravelli

pre più netta separazione fra di loro della attività speculativa, di quella pratica, di quella del gusto e di quella teleologica. Ma l'unità profonda « dell'intera facoltà della ragion pura », di cui si ha la speranza, dice Kant, di arrivare un giorno alla piena cognizione, sì che « si possa derivar tutto da un solo principio », unità che, su un piano più alto, anzi sul piano più alto che sia dato concepire, rammenta l'unità particolare dei « due tronchi dell'umana ragione (cioè senso e intelletto) che rampollano forse da una radice comune ma a noi sconosciuta », questa più alta e più profonda unità, dalla quale sorgono, come da unica radice, i tronchi delle varie attività, si cela ai nostri occhi al di là della stessa incomprensibile struttura del sillogismo trascendentale. E se si scorgono questi tronchi, i separati giudizi in cui quelle attività sono concrete, non si vede il sillogismo in cui si dovrebbe articolare la loro comune radice, e tanto meno si vede questa radice se il sillogismo trascendentale non è funzione adatta ad esprimerla. Che quest'unità dell'intera ragione non sia analitica, abbiamo sopra visto. Ma abbiamo anche visto come il sillogismo non sia adatto a render concreta questa sua non analiticità; e se non si ottiene questa concretezza, la non analiticità rischia sempre di ricadere nell'identità. Questo pericolo mi pare costituisca il motivo del ben severo giudizio dato da Hegel nel paragrafo 61 della Enciclopedia, sulla natura della ragione di Kant, accusata di esser mera analiticità, mera identità formale: A = A. « Nella filosofia critica, il pensiero è concepito come soggettivo, e suo u l t i m o invincibile carattere è l ' u n i v e r s a l i t à a s t r a t t a , l'identità formale... In questa somma determinazione del pensiero, che sarebbe la ragione, le categorie non hanno luogo ». L'imprendibile, l'invincibile acropoli della ragione, basa questa sua invincibilità sulla mancanza di ogni e qualsiasi comunicazione con l'esterno, sulla mancanza di ogni e qualsiasi connessione nello interno stesso, di ogni e qualsiasi articolazione in cui, cioè, la ragione articolando se stessa potrebbe esser colta e disarticolata. La non analiticità, non essendo sufficiente a dare in nessun modo l'oggettività, risultava agli occhi di Hegel inesistente; e quella ragione gli appariva come pura analiticità.

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Giudizio e sillogismo

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E giacché la via del sillogismo trascendentale non è adatta per raggiungere l'intima conformazione di questa ragione, sì che se ne scorga in concreto la non analiticità, bisogna mettersi ora a cercare quale mai questa via possa essere. Col richiamo di quelle conoscenze che hanno trovato « la via sicura della scienza », e con l'accenno al fatto che la metafisica non ha ancora trovato la sua, Kant apre la prefazione alla seconda edizione della Critica della Ragion purar>. E chiude la sua opera presentando modestamente tutta l'elaborazione della Critica come il « sentiero » per arrivare alla soluzione di quei problemi metafisici pei quali si sono mostrate insufficienti tanto la via dogmatica quanto la via scettica. « Soltanto la v i a c r i t i c a è ancora aperta. Se il lettore ha avuto la compiacenza e la pazienza di percorrerla in mia compagnia, egli ormai può giudicare, ove a lui piacesse di contribuirvi per la sua parte, se per fare di questo sentiero una via regia28, non possa, quello che molti secoli non poterono fare, ottenersi al cadere del pre27 « Se l'elaborazione delle conoscenze che appartengono al dominio della ragione segua oppur no la via sicura di una scienza, si può giudicare subito dal risultato [...]. Che la l o g i c a abbia seguito questo sicuro cammino fin dai tempi più antichi, si rivela dal fatto che, a cominciare da Aristotele, non ha dovuto fare nessun passo indietro ecc. ecc. ». « La m a t e m a t i c a dai tempi più remoti a cui giunge la storia della ragione umana, è entrata, col meraviglioso popolo dei Greci, sulla via sicura della scienza. Soltanto non bisogna credere che le sia riuscito cosi facile come alla logica, dove la ragione ha da fare solo con se stessa, per trovare, o meglio aprire a se medesima, la via regia ». « La f i s i c a giunse ben più lentamente a trovare la via maestra della scienza», che ha dovuto aspettare Galileo, Torricelli, Sthal ed il cambiamento radicale del metodo da essi operato: solo così ha potuto esser posta sulla via sicura della scienza, laddove da tanti secoli non era stata altro che un semplice brancolar/lento ». « Alla m e t a f i s i c a , conoscenza speculativa razionale, affatto isolata, che si eleva assolutamente al di sopra degli insegnamenti dell'esperienza, e mediante semplici concetti (non, come la matematica, per l'applicazione di questi all'intuizione), nella quale dunque la ragione dev'essere scolara di sé stessa, non è sinora toccata la fortuna di potersi avviare per la via sicura della scienza; sebbene essa sia più antica di tutte le altre scienze, e soprawiverebbe, anche quando le altre dovessero tutte quante essere inghiottite nel vortice di una barbarie che tutto devastasse » (Critica, cit., pp. 15-19). 28 In questa differenza fra « sentiero » e « via regia », oltre alla modestia è, credo, da vedere il significato di prolegomeni che in questa opera Kant da a tutta la Critica rispetto ad un futuro « sistema » che aveva in animo di scrivere. Nel « tentativo di cambiare il procedimento fin qui seguito in metafisica (avverte infatti Kant) [...] consiste il com-

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sente: condurre l'umana ragione alla piena soddisfazione rispetto a ciò che in ogni tempo, ma finora indarno, ha occupato la sua curiosità » K . Che sono le ultime parole dell'ultima pagina della Critica. Anche Hegel, verso la fine della Introduzione alla Scienza della Logica, parla della via, della vera ed unica via che la filosofia deve seguire per esser scienza: il metodo dialettico. « Per questa via il sistema dei concetti, in generale, deve costruire se stesso, completarsi per un andamento irresistibile (« per esatte deduzioni », dirà a pag. 59, ben più esatte e ben più rigorose che non quelle della geometria) pure, senz'accogliere nulla dal di fuori ». « Come potrei io presumere, continua Hegel, che il metodo, che ho seguito in questo sistema della logica, o anzi, il metodo che questo sistema in se stesso segue, non resti ancora suscettibile di molti perfezionamenti, di molti rifornimenti per ciò che riguarda i particolari? So, anche, però, ch'esso è l'unico vero. Questo risulta già di per sé da ciò che un tal metodo non è nulla di diverso dal suo oggetto e contenuto; poiché è il contenuto in sé, la d i a l e t t i c a c h e il c o n t e n u t o ha in sé s t e s s o , quella che lo muove. E' chiaro che nessuna esposizione può valere come scientifica, la quale non segua l'andamento di questo metodo e non si uniformi al suo semplice ritmo, poiché è l'andamento della cosa stessa » 30 . « Ora io dico che solo su questa via che costruisce se stessa può la filosofia essere una scienza oggettiva, dimostrata » 31 . Questo metodo, quest'andamento irresistibile della cosa stessa, trasforma, agli occhi di Hegel, in « via regia » del filosofare quella via, diventata ora semplice, sebbene indispensabile, avviamento, che Kant aveva scoperta. pito di questa critica della ragion pura speculativa. Essa è un trattato del metodo, e non un sistema della scienza stessa; ma essa ne traccia tutto il contorno, sia riguardo ai suoi limiti, sia riguardo alla sua completa struttura interna » (Critica, cit., p. 24). 29 Critica, cit., p. 641. Questa "curiosità" che qui suona un po' debole, è quella « infaticabile tendenza », che « la natura ha messo nell'umana ragione », a risolvere il problema metafisico « come se fosse per lei il problema più grave di tutti», di cui Kant parla a p. 20, ed in cui pone il 30 motivo generatore della ricerca metafisica. Scienza della Logica cit. I, p. 38. 31 Scienza della Logica cit. I. p. 5.

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« Rammento che la ragione per cui in quest'opera mi richiamo spesso alla filosofia kantiana (cosa che a molti potrebbe sembrar superflua) è che cotesta filosofia (si considerino poi come si vuole, sia altrove, sia anche in quest'opera, la sua particolar determina2Ìone e le parti speciali del suo svolgimento) forma la base e il punto di partenza della nuova filosofia germanica, un merito, questo, non sminuito da ciò che in essa si può trovar da ridire » H . Ora, questa base e questo punto di partenza non sta nell'Io, come da qualcuno si ritiene, ma come fanto le critiche che Hegel muove a Fichte proprio per esser partito di lì, quanto l'andamento effettivo della dialettica hegeliana, non solo non confermano, ma anzi vengono esplicitamente a negare. Non è l'Io, la filosofia dell'Io, la via che Hegel segue. « Questa filosofia cominciò a far sì che la ragione esponesse le sue determinazioni traendole da se stessa. Ma la soggettività del suo punto d'appoggio impedì a codesto tentativo di giungere a termine. Tal punto d'appoggio, e con esso anche quel cominciamento o il compiuto finimento della scienza pura, furono poi abbandonati »3. La base, invece, il punto di partenza sta nel punto da cui sorgono le antinomie. « Sono esse, soprattutto, che dettero il tracollo alla metafisica precedente, e che posson riguardarsi come un fondamentale passaggio alla filosofia moderna, in quanto in particolare contribuirono ad indurre il convincimento della nullità delle categorie della finità dal lato del contenuto, che è una via migliore che non quella formale di un idealismo soggettivo, secondo cui il difetto di quelle categorie dovrebbe consister soltanto nell'esser soggettivo, e non in quello, ch'esse sono in se stesse. Se non che, con tutto il suo gran merito, cotesta esposizione delle antinomie è però molto imperfetta, essendo da un lato impacciata e contorta in se stessa, dall'altro poi falsa, in certo modo, nel suo resultato, il qual presuppone che il conoscere non possieda altre forme del pensiero, eccetto che categorie finite. Sotto ambedue i rapporti queste antinomie meritano una critica più accurata, che non solo chiarirà meglio la lor posizione e il lor metodo, ma sbarazzerà anche il punto 32 Scienza della Logica cit., p. 47, nota. " Scienza della Logica cit. I, p. 29.

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Luigi Scaravelli

capitale, intorno a cui si aggira la questione, dalla forma inutile nella quale si trova cacciato. Noto in primo luogo che Kant volle dare un'apparenza di completo all'insieme delle sue quattro antinomie cosmologiche, mediante il principio di partizione, che prese a prestito dal suo schema delle categorie. Ma una considerazione più profonda della natura antinomica, o per meglio dire, dialettica, della ragione mostra in generale ogni concetto come una unità di momenti opposti, ai quali pertanto si potrebbe dar forma di affermazioni antinomiche. Il divenire, l'esserci ecc., ed ogni altro concetto potrebbe così fornire la sua particolare antinomia. Si potrebbe dunque stabilire altrettante antinomie, quanti si danno concetti... Oltracciò Kant ha colto l'antinomia non nei concetti stessi, ma nella forma già concreta di determinazioni cosmologiche. Per aver pura l'antinomia, e trattarla nel suo semplice concetto, le determinazioni del pensiero non dovevano esser prese nella loro applicazione e miste colle rappresentazioni del mondo, dello spazio, del tempo, della materia ecc., ma, lasciando da parte questa materia concreta che non ha costì nessuna virtù né potere, dovevano esser considerate puramente per sé, in quanto sole costituiscono l'essenza e il fondamento delle antinomie » M . Bisogna dunque riconoscere, prima, « che non v'ha nulla, nulla né in ciclo né nella natura né nello spirito né dovunque si voglia », che non contenga l'antinomicità3S; e poi, fatto questo, saper cogliere ed esaminare l'antinomia nella sua purezza, cioè nel suo « concetto »; solo così si potrà vedere la sua essenza, quell'essenza che forma il « f o n d a m e n t a l e p a s s a g g i o alla f i l o s o f i a m o d e r n a » . 34 35

Scienza della Logica cit. I, pp. 217-18. Scienza della Logica cit., I, p. 55. Vedi anche Enciclopedia cit. § 48: « II punto principale da osservare è, che non solo nei quattro oggetti particolari presi dalla cosmologia si trova l'antinomia, ma piuttosto in t u t t i gli oggetti di tutti i generi, in t u t t e le rappresentazioni, i concetti e le idee. Saper questo, e conoscer questa proprietà degli oggetti, appartiene all'essenziale della considerazione filosofica: questa proprietà costituisce ciò che più oltre si determina come il momento d i a l e t t i c o della logica ». « La dialettica forma, dunque, l'anima motrice del progresso scientifico; ed è il principio solo per cui la c o n n e s s i o ne i m m a n e n t e e la n e c e s s i t à entrano nel contenuto della scienza: in essa soprattutto è la vera, e non estrinseca, elevazione sul finito» (Enciclopedia cit. § 81).

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Giudizio e sillogismo

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« L a d i a l e t t i c a , che venne trattata come una parte separata della logica e che, quanto al suo scopo e al suo punto di vista, rimase, si può dire, interamente disconosciuta, acquista con ciò una ben altra dignità. Anche la dialettica platonica persino nel Parmenide (e altrove ancor più direttamente), in parte ha unicamente per intento di risolvere e confutare di per sé delle afferma2Ìoni limitate, in parte poi ha per risultato in generale il nulla... Kant pose la dialettica più in alto, ed è questo uno dei suoi maggiori meriti. Egli le tolse quell'apparenza di capriccio, che ha secondo l'ordinario modo di rappresentarsela, e la mostrò come un'opera necessaria della ragione... Le esposizioni dialettiche di Kant nelle antinomie della ragion pura non meritano per vero dire gran lode, a considerarle in particolare, come più ampiamente si farà nel seguito di quest'opera; ma l'idea generale, che Kant pose per base e fece valere, è la oggettività dell'apparenza, e la n e c e s s i t à d e l l a c o n t r a d d i z i o n e a p p a r t e n e n t e a l l a n a t u r a delle determinazioni del pensiero. Ciò accade, per vero dire, dapprincipio in quanto queste determinazioni vengono applicate dalla ragione alle cose in sé; ma, appunto, quello, ch'esse sono nella ragione e riguardo a ciò che è in sé, è la loro natura. C o l t o n e l s u o l a t o p o s i t i v o , questo risultato non è se non l'interna n e g a t i v i t à di quelle determinazioni, l'anima loro moventesi di per sé, il principio, in genere, di ogni vitalità naturale e spirituale. Ma in quanto ci si ferma al lato astratto-negativo della dialettica, il resultato è semplicemente la nota affermazione che la ragione è incapace di conoscer l'infinito; resultato singolare, questo, poiché l'infinito è il razionale, di dir che la ragione non è capace di conoscere il razionale. In questo elemento dialettico, come si prende qui, epperciò nel comprender l'opposto nella sua unità, ossia il positivo nel negativo, consiste lo s p e c u l a t i v o . E' il lato più importante, ma più difficile per il pensiero non ancora esercitato, non ancora libero »*. La dialettica kantiana, dunque, in quanto contraddizione che appartiene essenzialmente alle determinazioni del pensiero, è 36

Scienza della Logica cit. voi. I, pp. 39-40.

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Luigi S'caravelli

« un'opera necessaria della ragione ». Questa necessità è il fulcro su cui fa leva la logica hegeliana. Ma Kant non aveva visto il problema nella sua purezza, nel suo « concetto », cioè nella sua universalità; e perciò la soluzione che aveva dato delle antinomie era stata una soluzione solamente soggettiva. « La critica delle forme dell'intelletto portò al risultato accennato, che queste forme non abbiano alcuna applicazione alle cose in sé. Ciò non può avere altro senso se non che tali forme sono in sé stesse un che di non vero. Ma in quanto le si lasciano come valevoli per la ragione soggettiva e per l'esperienza, la critica non ha operato nessun cangiamento in loro stesse, ma le lascia per il soggetto tali quali prima valevano per l'oggetto. Ora se sono insufficienti per la cosa in sé, tanto meno l'intelletto, cui hanno da appartenere, dovrebbe accomodarvisi e contentarsene. Se non possono essere determinazioni della cosa in sé, meno che mai possono essere determinazioni dello intelletto, cui per lo meno si dovrebbe accordar dignità di cosa in sé... Quella critica ha quindi semplicemente rimosse le forme del pensare oggettivo della cosa, lasciandole però nel soggetto, così come le aveva trovate. Essa non ha cioè considerate queste forme in sé e per sé, secondo il loro contenuto particolare, ma le ha addirittura prese lemmaticamente dalla logica soggettiva; cosicché non si trattò di dedurle in sé stesse, né di dedurle come forme logiche soggettive, e meno che mai di considerarle dialetticamente » 31 . Occorre, perciò, vedere il problema in tutta la sua universalità, e far sì che la soggettiva soluzione kantiana diventi oggetti va. « La vera soluzione delle antinomie può consistere solo in ciò, che due determinazioni in quanto siano opposte e necessarie a un solo e medesimo concetto, non possono valere nella loro unilateralità, ciascuna per sé, ma hanno la lor verità soltanto nel loro esser tolte, nell'unità del loro concetto » x. In questa via che la speculazione deve necessariamente percorrere, « il necessario contrasto delle determinazioni dell'in37

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Scienza della Logica cit. voi. I., pp. 28-29.

Scienza della Logica cit. I, p. 218.

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Giudizio e sillogismo

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telletto con se stesso », « su cui riposa l'elevamento della ragione nel più alto spirito della nuova filosofia », il punto cui è arrivato Kant è dunque il seguente: « La vecchia metafisica... metteva per base che quello, che per mezzo del pensiero si conoscesse delle cose e nelle cose, fosse il solo veramente vero che le cose racchiudessero. Il vero, per quella metafisica, non eran quindi le cose nella loro immediatezza, ma soltanto le cose elevate nella forma del pensiero, le cose come pensate. Quella metafisica riteneva perciò che il pensiero e le determinazioni del pensiero non fossero un che di estraneo agli oggetti, ma anzi fossero la loro essenza, ossia che le cose e il pensar le cose (a quel modo che anche la nostra lingua esprime un'affinità fra questi due termini) coincidessero in sé e per sé, che il pensiero nelle sue determinazioni immanenti, e la vera natura delle cose, fossero un solo e medesimo contenuto. Ma l'intelletto r i f l e t t e n t e s'impadronì della filosofia. Occorre sapere esattamente che cosa vuoi dire questa espressione, che altrimenti si adopera in vari significati come termine di battaglia. Per intelletto riflettente o riflessivo è da intendere in generale l'intelletto astraente e con ciò separante, che persiste nelle sue separazioni. Volto contro la ragione, cotesto intelletto si conduce quale ordinario intelletto umano o senso comune, e fa valere la sua veduta che la verità riposi sulla realtà sensibile, che i pensieri sian s o l t a n t o pensieri, nel senso che solo la percezione sensibile dia loro sostanza e realtà, e che la ragione, in quanto resta in sé e per sé, non dia fuori che sogni. Ora in questa rinuncia della ragione a se stessa il concetto della verità va perduto, la ragione vien ristretta a conoscer soltanto una verità soggettiva, soltanto l'apparenza, soltanto qualcosa cui la natura dell'oggetto stesso non corrisponda. Il sapere è tornato ad esser l'opinione. Tuttavia questa piega, che prende il conoscere, e che appare quale una perdita e quale un regresso, ha per base un profondo motivo, quel motivo su cui riposa in generale l'elevamento della ragione nel più alto spirito della nuova filosofia. Vale a dire che il motivo di quella rappresentazione, divenuto ormai universale, è da ricercare in ciò che venne scorto il n e c e s s a r i o c o n t r a s t o delle determinazioni dell'intelletto con se stes-

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Luigi Scaravelli

so. L'accennata riflessione consiste nel s o r p a s s a r e il concreto immediato, e nel d e t e r m i n a r l o e d i v i d e r lo. Ma la riflessione deve a n c h e s o r p a s s a r e queste sue determinazioni d i v i s i v e , e m e t t e r l e anzitutto in r e l a z i o n e fra loro. Ora in questo punto del metterle in relazione vien fuori il loro contrasto. Cotesto riferire della riflessione appartiene in sé alla ragione; il sollevarsi sopra a quelle determinazioni che va fino alla visione del loro contrasto è il gran passo negativo verso il vero concetto della ragione. Ma quella visione cade, in quanto non sia condotta a termine, nell'errore per cui si crede esser la ragione, quella che viene a contraddire a se stessa. Essa non si accorge che la contraddizione è appunto il sollevarsi della ragione sopra le limitazioni dell'intelletto, e il risolver queste. Invece di muover di qui l'ultimo passo in alto, la conoscenza delle insoddisfacenti determinazioni intellettuali è fuggita indietro all'esistenza sensibile, persuasa di possedere in questa la stabilità e la concordia. In quanto poi, dall'altro lato, questa conoscenza si conosce come conoscenza solo dell'apparente, vien bensì concesso ch'essa non soddisfi, ma in pari tempo si suppone che, pur non potendosi conoscere le cose in sé, si raggiunga però una conoscenza esatta dentro la sfera dell'apparenza, quasi che qui fosse soltanto diversa la specie degli oggetti, e l'una specie, cioè le cose in sé, non cadesse nella conoscenza, ma vi cadesse però l'altra, cioè le apparenze o fenomeni. Che è come se si attribuisse a un uomo un intendimento esatto, aggiungendo però ch'egli non sia però capace d'intender nulla di vero, ma solo d'intendere il non vero. Quanto sarebbe questo un proposito insulso, altrettanto è insulsa una conoscenza vera, che non conosca l'oggetto quale è in sé » ì 9 . 19 Scienza della Logica, I, pp. 26-28. Si vengono così ad avere tre periodi successivi: 1) La «vecchia metafisica», secondo la quale «le cose », in re, coincidono con il pensarle. E giacché questa operazione è elucidazione dei predicati o delle note già contenute nelle cose, quella coincidenza è analitica. 2) La filosofia critica, secondo la quale la ragione in presenza delle cose in sé è necessariamente dialettica. Il procedimento sintetico, infatti, nato proprio per rispondere al problema della lettera a Hertz del 21 febbrio 1772: « S u q u a l e b a s e si f o n d a il rapporto fra ciò che in noi si chiama rappresentazione e l'oggetto », mentre da la garanzia critica della reale coincidenza fra il conoscere e le cose sensibili e mentre impedisce al conoscere la coincidenza sia analitica

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Giudizio e sillogismo

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Occorre dunque non fuggire indietro all'esistenza sensibile, una volta che si è arrivati alla contraddizione; ma « muover di qui l'ultimo passo in alto »; rendersi cioè ben conto che « la contraddizione è appunto il sollevarsi della ragione sopra le limitazioni dell'intelletto, ed il r i s o l v e r q u e s t a » . Se la visione del contrasto è «il g r a n p a s s o negativo, compiuto da Kant, verso il vero concetto della ragione », passo o condizione sine qua non del cammino di questa ragione, risolvere poi il contrasto è il passo positivo: è la ragione stessa. Questa, dunque, è la « via regia » che Hegel costruisce e percorre *.

che sintetica con le cose stesse, enuclea insieme il carattere fondamentalmente antinomico della ragione in presenza di queste cose. 3) La filosofia speculativa, secondo la quale questo carattere antinomico è il carattere in cui le cose ed il pensare le cose coincidono. Che entrambi hanno, come intima costituzione, struttura antinomica. Questo procedimento conoscitivo non è né analitico, come nel primo periodo, né sintetico, come nel secondo, ma dialettico. E' da notare che sebbene Hegel censuri tanto il giudizio sintetico quanto il « contrasto della ragione » allo stato « negativo » e « soggettivo » in cui lo ha lasciato Kant, valorizza poi esplicitamente solo la concezione antinomica che la filosofia critica ha dato alla luce; mentre questa concezione antinomica è potuta venire in luce solo perché la conoscenza è stata concepita come giudizio sintetico. 40 Ricordando le parole finali della Critica («il lettore [...] può giudicare [...] se per fare di questo sentiero una via regia, non possa, quello che molti secoli non poterono fare, ottenersi al cadere del presente ») si può dire che il sentiero di Kant è stato, sì, trasformato in via regia (e se non proprio al cadere del secolo, certo poco dopo), ma abbandonando la via della sintesi a priori, per la quale Kant invece continuava a camminare con i suoi Primi principi della scienza della natura e tutti i suoi Passaggi dalla metafisica alla fisica, che erano per lui, sulla tanto cercata via regia; anzi, forse, addirittura la costituivano.

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TENTATIVO DI DEDURRE DAL CONCETTO DI «FINALITÀ' FORMALE» LA FACOLTÀ' DI PRODURRE L'OPERA D'ARTE (CIOÈ' A DIRE IL GENIO) Questo tentativo consiste nel mostrare come la facoltà che Kant chiama genio e che pone a fondamento della produzione dell'opera d'arte (parag. 46) sia implicitamente contenuta nella definizione dell'oggetto artistico come quello la cui unità presenta solo la f o r m a d e l l a f i n a l i t à senza un fine o scopo ($ 11). * * * Nel parag. 11 e seguenti della Critica del Giudizio Kant mostra che un oggetto non può essere considerato « bello » nei casi che elenco come segue: 1) Un oggetto nel quale il molteplice è unificato mediante il concetto di uno scopo (per es. un palazzo nel quale lo scopo della abitazione sia il principio che ha presieduto alla forma della unificazione, cioè alla forma che hanno assunto le parti di cui è costituito). In questo caso l'oggetto è u t i l e , ed il giudizio che se ne da è pratico, oppure intellettivo. 2) Un oggetto che è stato prodotto dalla volontà in base ad un principio a priori della ragione. In questo caso l'oggetto o meglio l'azione è detta b u o n a . 3) Un oggetto che pur non avendo un fine o scopo determinato è stato prodotto da una regola o da un concetto determinato. (Questo terzo caso lo prendo dai §§ 62 e 63, e riguarda in particolare le figure geometriche, le quali, pur non avendo un fine o scopo, son tuttavia costruite in base a un concetto, e perciò non sono belle; p. es.: il cerchio è una figura nella quale il molteplice dei punti che formano la circonferenza stessa è connesso in unità in base al concetto della equidistanza di essi da un punto dato). L'oggetto bello non ha dunque un concetto a suo fondamento genetico, né a scopo della sua produzione (il che è poi la stessa cosa). L'oggetto bello è dunque solo termalmente finale, cioè il suo molteplice è ordinato secondo la forma della finalità senza né

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Luigi Scaravelli

scopo né concetto. Data questa « finalità formale » come definizione dell'oggetto bello, io mi pongo il seguente: PROBLEMA Dato un oggetto costituito unicamente dalla finalità formale trovare i caratteri o la natura della facoltà che lo può produrre. DIMOSTRAZIONE Dato che l'intelletto scientifico quando produce le sue figure gecmetriche o i suoi oggetti empirici (pendoli, automobili, carriole) costruisce in base ad un concetto; dato che l'attività pratica o volontà quando opera moralmente agisce in base alla forma razionale (cioè un concetto) di una legge; dato che la volontà quando agisce per produrre un piacere o la felicità agisce determinata da uno scopo particolare che è il fine che presiede alla determinazione dell'azione; ne segue che la facoltà che produce un oggetto la cui finalità sia solamente formale non può essere né l'intelletto (esaminato in Critica della ragion pura) né la volontà (esaminata in Critica della ragion pratica); non resta che ammettere una facoltà ad hoc, che non sia né intelletto né volontà: questa facoltà è il genio. C.D.D. Nota 1 — Si potrebbe dire che questa facoltà invece di essere il genio sia la demenza. Ma poiché l'oggetto bello ha una f o r m a f i n a l e , cioè a dire poiché il polteplice si trova in esso collegato in un modo particolare e ben determinato, è estremamente improbabile (questa espressione è una mia parafrasi di quanto Kant stesso dice della improbabilità — ma non assurdità — che cause meccaniche come il vento, il mare, ecc. possano produrre sulla spiaggia il disegno di un esagono regolare) che questo collegamento, cioè questo ordine formale sia opera di un demente. Nota 2 — L'elenco dei caratteri o elementi confluenti a formare il genio, cioè a dire: immaginazione (per il molteplice), l'intelletto nel suo aspetto preconcettuale (per la regolarità, surrogato dell'unità a tipo matematico), il Geist (per vivificare il loro rapporto), ecc. — è un elenco ottenuto per via p u r a m e n te a n a l i t i c a , analizzando cioè il concetto di finalità formale; esso mette in luce ciò che costituisce questo concetto, e ne è solo l'esplicazione o illustrazione. L'unità di questi elementi considerata non come statica, ma come facoltà produttiva si chiama G E N I O .

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APPENDICE I CAMILLO ARTOM, Tre saggi di teorica musicale. Torino, Bocca, 1921 (16° pp. VII-101). L'Artom ha raccolto in questo volumetto tre scritti di teorica musicale nei quali ha modificato ed ampliato saggi già pubblicati nella Rivista Musicale Italiana alcuni anni or sono. I problemi che l'A. esamina sono assai interessanti, ma egli non li ha sempre trattati con sufficiente ampiezza e profondità di vedute. Con troppa superficialità è, ad esempio, presentata, nel primo saggio, la nuova forma di consonanza e dissonanza che l'A. pone come intermedia tra l'armonia e la melodia, partecipando di alcuni caratteri dell'una e dell'altra, e la cui validità non risulta rigorosamente fondata, basata implicitamente com'fc sulla distinzione tra armonia e melodia: distinzione tutt'altro che esatta. Nella concezione di questa forma intermedia è tuttavia latente l'idea dell'« azione coordinatrice dello spirito nel paragonare i suoni » la quale fa sì che nel secondo saggio l'A. penetri più addentro nel problema della tonalità, sebbene ne rimangano non sufficientemente esaminati vari aspetti, e permangano ben chiarite le distinzioni poste nel primo scritto. Ma poiché la natura di questa rivista non ci permette di entrare in analisi particolari, ci limiteremo a dire che ciò che costituisce il pregio principale di questo volumetto è lo sforzo dell'A. di muoversi nel campo teorico non più rimanendo nell'ambito della matematica e dell'acustica — come ha fatto pur troppo la maggior parte di coloro che si son occupati di questi problemi — ma rivolgendo invece l'attenzione all'attività stessa dello spirito, dando per tal modo un certo risalto al lato estetico. Di questo migliore metodo di esaminare gli elementi musicali, si ha la riprova nel bisogno che l'A. ha avuto di completare il suo studio con un esame storico della solmisazione, di cui ha giustamente ampliato il significato fino a darle il valore di sistema tonale. [Da: « La Nostra Scuola », 1921, n. 15-16]

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Appendice I

G. BILANCIONI, La sordità di Beethoven. A. F. Formiggini, Roma, 1921, pp. XXVII-342. Il Bilancioni si propone in questo volume una meditazione sulla sordità di Beethoven sotto il « duplice aspetto della fisiopatologia e della genesi della produzione artistica ». Questo doppio problema divide idealmente il lavoro in due parti; nella prima l'A. raccoglie con reverente amore molte notizie ed interessanti particolari sulla vita di Beethoven per stabilire la diagnosi della sua sordità, e, dopo aver ampiamente spiegate le varie funzioni dell'orecchio in modo che credo intellegibile anche ai profani di fisiologia, cerca di farci intendere quali e quante sofferenze dovesse sopportare il Beethoven. Nella seconda parte noi seguiamo l'A. per una assai lunga esposizione di vaghe ideologie musicali, in parte derivate dalle vedute estetiche del Torrefranca e dalle debolissime e assai dubbie idee filosofiche di Wagner (specialmente dal suo volumetto su Beethoven); ma aspettiamo invano che venga esaminato, o almeno tentato di esaminare, il secondo problema, come è promesso nel titolo del capitolo VI: « Importanza della sordità nella produzione artistica di Beethoven ». E' da notare anzi che più il B. si avvicina allo spirito dell'arte beethoveniana, nell'esaminare le singole opere, meno si occupa del suo problema, finché questo scompare del tutto. Né poteva accadergli diversamente, perché nello svolgimento dell'arte beethoveniana, quale appare dalle composizioni del Beethoven, non c'è posto per alcun elemento osservabile con il criterio di cui il B. si deve servire in quanto otologo e fisiologo. Che il B. avrebbe prima dovuto dimostrare, contro tutti i risultati dell'estetica moderna, che tra fisiologia e arte, organo dell'udito e musica, astrazione medico-scientifica e concretezza dello spirito beethoveniano, corre effettivamente una relazione di dipendenza causale. Hic Rkodus. Come risponderebbe il B. a chi gli osservasse che proprio i capolavori musicali d'un sordo quale il Beethoven dimostrano chiaramente che l'udito, nel senso estetico della parola, non ha nulla da fare con l'udito nel senso fisiologico, talché si può mancare del secondo ed essere potentissimamente forniti del primo?

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Appendice I

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Giunge perciò del tutto inaspettata l'osservazione (pag. 220) « la sostanza invece dell'evoluzione beethoveniana, e ciò certamente come conseguenza delle sue condizioni fisiche, credo debba rilevarsi nella qualità dei temi », nella quale la validità, di quell'inciso, nonostante il « certamente », è nulla; che il B. non tenta neppure un rigo di prova; e l'esempio dell'op. 53 è giusto solo in quanto mostra l'accorciarsi dei temi ed il loro tendere a diventar tonali, ma non può provare niente di più. Il tendere a concepire il tema nella sua elementarità musicale come blocco sonoro è proprio qualità delle menti profonde di forze meditativa, e lo possono attestare non solo alcune delle prime composizioni del Beethoven non ancora colpito dai sintomi della sordità, ma non pochi esempi nella storia della musica, anche anteriore al Beethoven. [Da: «La Nostra Scuola», 1922, n. 1-2]

EMILIO CHIOCCHETTI, La filosofia di Giovanni Gentile, Milano Soc. Ed. « Vita e pensiero », 1922, in-8° pp. XVI-478. Qualunque via è buona per penetrare in un sistema e per intenderlo; cominciare da un punto o da un altro non ha che un valore pratico, d'utilità o di comodità espositiva; e per arrivare alla comprensione piena del pensiero gentiliano nella sua totalità, il Chiocchetti ha scelto ottimamente la via che in modo più semplice e chiaro possa condurre il lettore nel cuore del sistema. Accennato, nelle prime pagine, alla rinascita dell'idealismo per merito dello Spaventa, ed ai passi che ha fatto in Italia, da allora la dottrina hegeliana rimessa a nuovo, ed a « come s'imponga quindi da parte nostra (dei neoscolastici) il dovere di affrontarla e di opporle filosoficamente i nostri princìpi » (p. XI) — senza però voler « fare una filosofia con argomenti di Fede o in funzione della Fede », né di trattare questioni teologiche, ma mantenendo quella separazione delle rispettive competenze che esse esigono (p. XII) (proposito al quale io pure mi atterrò) — apre il volume con due capitoli che si potrebbero

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Appendice I

considerare come di introduzione alla piena intelligenza del sistema gentiliano, nei quali segue il filo di quel rapido cenno di storia della filosofia che il Gentile stesso ha tratteggiato nel metodo dell'immanenza, per mostrare come, nel corso della storia, si sia andato a mano a mano trasformando il concetto di metodo da processo soggettivo per attingere il vero che presuppone un certo attributo oggettivo della realtà, a processo spirituale o attività che pone essa stessa la realtà come sua intima natura. Qui, come in tutto il volume, l'Autore accompagna la esposizione della teoria gentiliana con numerosi cenni critici, riserve, opposizioni, per mostrare come, secondo lui, debbano intendersi i vari problemi che il Gentile imposta e risolve sia rispetto a questioni di storia della filosofia che di teoretica. E se credo inutile il riassumere, sia pur brevemente, questa ampia introduzione che, come ho detto, segue all'incirca il filo dello scritto gentiliano sopra citato, perché suppongo che sia ben noto; ed inutile pure il seguire poi passo passo la ricostruzione che l'Autore fa di tutto il sistema sforzandosi di compierla dall'interno e valendosi, per mantenersi più aderente a questo, di numerose citazioni scelte e connesse con acume e chiarezza, stimo invece utile accennare ad alcune delle obbiezioni che in principio e nel corso del volume il Chiocchetti viene via via facendo. Alla critica e conseguente svalutazione che il Gentile fa della concezione platonica che lascia traccia di sé in tutta la storia della filosofia e su cui perciò insiste più a lungo, il Chiocchetti oppone che non vede come mai la dialettica soggettiva, o della mente umana che viene indefinitamente realizzando la unità dialettica, con l'indagine sempre più larga dei rapporti delle idee, sia priva di qualsiasi valore pel solo fatto che la consistenza e l'oggettività dei nostri concetti hanno il loro fondamento nel mondo delle idee indipendenti da noi. Infatti osserva che, come a conoscere un sonetto del Petrarca o il sistema del Gentile — per servirmi dell'esempio che adopera — è necessario ricreare in noi quel tumulto d'affetti o quelle correnti di pensiero che si manifestarono nei versi o negli scritti, ricreare che è valido benché il fondamento ultimo della conoscenza sia ad esso presupposto; così l'attività dello spirito umano che, spiegando il suo potere conoscitivo, ritrae in sé faticosamente aspetti

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sempre più vasti della realtà concreta; che non fa, ma scopre, e ricrea conoscendo, quella realtà che Dio, conoscendo ha creata, non si può dire che sia un lavoro sterile e vano, che sia proprio un nulla. « Se il pensiero pensato fosse già pensato da me, già ricostruito, più o meno perfettamente in me, certamente il soggetto, ripensandolo, non produrrebbe nulla di nuovo, rifarebbe già vie fatte e la sua attività sarebbe una vanissima ripetizione. Ma questo nella vita dello spirito non ha luogo mai. Ripensare quello che non fu ancora pensato è attività nuova, posizione di nuovi concetti e di nuova realtà concettuale che prima, così com'è ora, cioè nei concetti che ora la pensano o l'hanno pensata, non c'era; mi pare evidente » (p. 10). Anche a me: ma se prima non c'era vuoi dire che è proprio un creare e non un ricreare, se si bada bene al valore del pensare che è tutto appunto e solamente reattività nuova, nell'atto cioè e non in una realtà esterna che si riveli attraverso il materiale bruto fornito dai sensi, che vada magari trasformato in sistematico corpo di conoscenze. E non so come allora, tenendo ferma questa asserzione, il concetto implicito in essa possa concordare con la concezione sopra tratteggiata. Le difficoltà di questo duplice atteggiamento che esigono una soluzione, spingono ripetutamente il Chiocchetti a tornare sull'argomento, e nello stesso primo capitolo, ma solo in modo generale, e poi più ampiamente nel terzo, ove sostiene che per unificare il molteplice dell'esperienza in generale, non sia « necessario disturbare il preteso io trascendentale » perché a far ciò in noi « ci son dei fatti psichici di una intimità peculiare diretta ed immediata » (pp. 93-4); ma in che consista questa p e c u l i a r e i n t i m i t à non chiarisce. Vi torna su nel capitolo successivo ove si avvicina di più al problema della molteplicità, che pretende risolvere nell'unità con un principio dell'unità da trovarsi nella realtà stessa, scrivendo: « noi ammettiamo cioè, nei corpi dei princìpi unificatori dei corpi o delle qualità sensibili, dei princìpi corporei che siano la forma di essi... » (p. 159); ma ciò non spiega nulla di più; che ammettere non è dimostrare la possibilità né dell'esistenza di tali princìpi unificatori, né la loro conoscibilità, e questo sarebbe stato appunto quanto occorreva mostrare. Finché, per il bisogno di una coerenza più salda, stringe, poche pagine più avanti, ancor più da presso la difficoltà e risale più consciamente

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alla radice del suo concetto: ammesso che « la realtà sia razionale, che sia un pensiero concreto e lo svolgersi del piano di una ragione unica creatrice e produttrice di nuove esistenze » (p. 162), nega che questa realtà sia lo svolgersi precisamente di quella ragione comune a tutti che gli idealisti chiamano Io trascendentale, perché non riconosce immanente in noi come ragione della esistenza dell'io empirico un Io universale, non essendo esso fra le attestazioni immediate o riflesse della coscienza. « Certo — prosegue — alla base dell'Io empirico c'è una forza metempirica come centro ultimo di riferimento di tutto ciò che in noi accade; l'anima, la forza sostanziale originaria, dalla quale tutte le forze empiriche provengono e alla quale tutte si riducono... C'è in noi la ragione universale, chi lo nega? ma essa vive ed è attiva soltanto nell'unità sintetica con delle particolarità spirituali o materiali, che insieme con essa costituiscono il nostro Io concreto, empirico e metempirico insieme, unità di trascendentale e di esperimentale di soggetto e oggetto, centro di riferimento, ripeto, e fonte originaria incomunicabile di tutta la nostra attività, sempre tesa ad accogliere in sé tutto l'universale e tutto il particolare, gli individui e le loro relazioni, l'esistenza e la ragione dell'esistenza; accoglierlo in sé e trasformarlo nella unità vivente, o nell'unità sintetica, calda, personale, che essa è, per intima e originaria costituzione » (pp. 163-4, la sottolineatura è mia). Qui si arresta; e invano si cercherebbe un approfondimento maggiore dell'argomento: purtroppo egli non sviluppa questo germe di pensiero, appena abbozzato, che meritava certamente una riflessione più ampia, perché in esso è implicita la posizione che il Chiocchetti mantiene in tutto l'esame che fa dell'idealismo attuale, e dal valore di esso dipende il valore di tutte le obbiezioni che muove, e spesso di tutto il modo con cui concepisce l'atto puro. Che la realtà sia conoscibile e razionale l'ammette e perché « è dottrina tradizionale comune a tutta la filosofia degna di questo nome » (p. 262) e perché « Dio crea una realtà razionale » (p. 175); che come risposta è moltissimo, ma come soluzione troppo poco. — Che, poi, la conoscenza consista nel trasformare il dato in atto (formula su cui insiste perché gli sembra riassumere ben appunto il carattere del processo conoscitivo che è precisamente « graduale spiritualizzazione del dato » (p. 166) non è spiegazione sufficiente, né

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il Chiocchetti dice come ciò sia possibile; ma si comprende che la sua validità poggia tutta su quel concetto dell'Io empirico e metempirico insieme che ha prima esposto: si è reso, però, conto il Chiocchetti delle difficoltà implicite in esso? con quell'insieme vuoi forse intendere una giusta posizione di due realtà già concrete? e allora la loro unione che valore avrebbe? e se la loro unione crea invece un valore nuovo reale che valore è questo? come da esso si guarderà alle due realtà precedenti? cosa diventano esse? e in questo caso il nuovo valore in che differirebbe dalla sintesi a priori idealisticamente intesa, tale cioè che non presuppone i suoi termini? Domande che il Chiocchetti non pensa a porsi, mentre sarebbero state indispensabili per raggiungere un saldo punto di vista coerentemente sviluppato, atto ad abbracciare e valutare l'ampio sistema gentiliano. Per questo, nella esposizione che ho chiamata introduttiva, gran parte delle obbiezioni alla svalutazione gentiliana dell'attività umana se considerata quale ricreazione d'una realtà precedentemente formata, sono rese deboli: per questa ambiguità d'atteggiamento iniziale per cui l'Autore oscilla tra una posizione psicologistica e particolaristica di cui l'esempio (comprendere il sonetto del Petrarca ed il sistema del Gentile) che cita e da cui inizia la critica è prova lampante, (posizione che permane nel rielaborare la concezione platonica e aristotelica e poi in tutto il volume); ed una posizione su cui non riesce a fissare a lungo l'attenzione, e che piuttosto è solo un barlume fugace; in cui scorge che il valore del ripensare sta proprio nell' a t t o del conoscere, nella sua novità che crea una realtà che prima non c'era (p. 10 già citata); ripensare quindi che è puro pensare. Ciò nonostante il Chiocchetti ha ben visto uno dei punti fondamentali dell'idealismo: l'identità fra filosofia e storia; e non solo dedica alla spiegazione di questo problema un intero ed ampio capitolo, il quinto. Nel quale oppone alla concezione gentiliana due difficoltà, una su quel che si intende per passato e l'altra sul valore dei documenti nella ricostruzione storica cui fra poco accennerò. Ma lo esamina un po' da per tutto, e specialmente nella prima parte nella quale seguendo il sorgere dell'attualismo nel corso della filosofia, attraverso i pensatori fondamentali, e mostrando il significato che al loro pensiero

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da l'idealismo, mette sempre gran cura nell'opporre quello che a lui sembra il vero, rivalutando quegli elementi che la filosofia idealista trascura o svaluta e tratteggiando brevemente i sistemi di quei pensatori dei quali gli preme riassumere tutti gli elementi per salvaguardarne il contenuto completo, perché ogni filosofo va preso « nella sua integrità, nei suoi elementi essenziali » (p. 82). Come ha fatto per Piatone e per Aristotile così fa per Cartesio, per Kant e per Hegel: per Cartesio osservando che l'attività pensante « implica o contiene il soggetto » ma non lo pone: « l'unità di essere e pensare è una generazione; è, non si fa » (p. 30). — Per Kant, riassumendo le idee in proposito del Chiappelli nei seguenti punti: « 1° immanenza e trascendenza si presentano come due aspetti di un unico processo, in cui l'oggetto condiziona il soggetto, e questo trasforma quello in una creazione nuova ed originale. 2° II soggetto conoscitivo, quale fu proposto da Kant, si deve considerare, non parte della universa realtà, bensì presupposto di ogni realtà conoscibile, principio a cui essa tutta deve riferirsi. L'oggetto della conoscenza è una cosa nostra, e in questo senso è immanente nel soggetto, che è il soggetto che lo costruisce; perché l'oggetto è il risultato o il prodotto di un'opera di selezione, o, come diceva la logica antica, di astrazione, ma anche di sintesi ». 3° Ma questa sintesi « trova in una parte del suo contenuto i segni di una attinenza sua con un termine diverso da sé »; 4° ciò non fa però tornare al vecchio postulato del noumeno inconoscibile, dice, con il Chiappelli, il Chiocchetti, il quale aggiunge che Kant stesso ammette come probabile; 5° « che ciò che sta a fondamento della materia della nostra conoscenza può essere la stessa cosa di ciò che determina le forme sotto cui noi ordiniamo la materia stessa », cioè « il noumeno sarebbe la realtà profonda come realtà di ciò che è soggettivo e di ciò che è oggettivo nella conoscenza, e il dualismo importerebbe, non separazione ma distinzione reale nell'unità, cioè in una stessa razionalità ». 6° La innovazione kantiana « consiste nell'aver dimostrato che la vera conoscenza è sintetica, cioè è creatrice; e che perciò l'oggetto non è qualcosa di stabile e di dato bensì un eterno processo; è inoltre riconosciuto che « la vera conoscenza è creatrice. Ma l'analisi critica del processo conoscitivo esclude che

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tutto il contenuto di esso si risolva nel soggetto » (pp. 74 e segg.). — Per Hegel, cui ha dedicato già molte pagine del suo saggio su Croce, messosi insieme con lo Spaventa all'esame delle prime categorie della logica ond'è costituito il concetto del divenire che è il carattere della dialettica, e mostratane con molta chiarezza l'implicita difficoltà ed il modo con cui per primo lo Spaventa e poi sulla sua stessa via il Gentile l'hanno superata, riafferma che nel sistema hegeliano rimangono tali tracce di platonismo, con la distinzione tra fenomenologia e logica, e l'antecedenza del logo e della natura allo spirito (i primi due sillogismi cioè con cui si chiude l'Enciclopedia), da giustificare pienamente una concezione teistica « perché Hegel concepisce lo Spirito, nel suo più alto fastigio, fuori e sopra la dialettica del soggetto » (p. 81). Sembra perciò al Chiocchetti di poter negare la continuità storica tra la dottrina hegeliana e l'hegelismo italiano, pur ammettendo che lo sviluppo che del filosofo di Stoccarda fanno gli idealisti sia legittimo, perché « si trovano di fatto in Hegel dei princìpi che, presi da soli, portano allo Spaventa ed al Gentile » (p. 82); ma ad essi oppone altri filosofi, pure della sinistra, americani ed inglesi i quali nella interpretazione hegeliana finiscono nel platonismo. Questi brevi ma importanti tratteggiamenti storici il Chiocchetti li ha svolti per salvaguardare, come ho già detto, il contenuto completo d'ogni sistema « nella sua integrità ». Ma qui a dire il vero il problema è un altro, perché se è chiaro che a fare l'esposizione completa del pensiero d'un filosofo per averne quella conoscenza storica che individua ogni singolo pensatore con tutte le sue caratteristiche, è indispensabile non solo dare la totalità del sistema e metterne in luce le eventuali contraddizioni, lacune, deficienze, ma anche scendere a particolari biografici o accidentali come p. es. trovare in difficoltà editoriali la ragione della incompiutezza d'un'opera; se è necessario questo, è anche chiaro che ben altro è il procedimento quando si tratti poi di intendere e valutare a fondo quel pensiero, di penetrare nella sua essenza. E giacché si tratta non di vedere quali idee coesistano in un pensatore e fermarsi 11, di assicurarsi se vi possano coesistere e come, è impossibile far ciò senza mettersi in esso, e svolgere quel germe di vita che c'è implicito

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sviluppandone tutti i princìpi che, pensandoli e vagliandoli, non rimangono su uno stesso piano, ma, mostrando la loro coerenza o incompatibilità, fanno sorgere quello che più ricco degli altri è capace di risolvere in sé la molteplicità dei problemi, e che vive per propria attività eliminando gli altri elementi, cui era congiunto. Congiunto, accostato, ma non coerentemente unito: che se fosse stato ad essi organicamente fuso, se essi cioè fossero nati dallo stesso concetto che esso realizza, non scomparirebbero, ma anzi si potenzierebbero con il suo sviluppo, perché questo è concepibilità, e la giustapposizione di due concetti non è concepibile. Essenzialità non è totalità; e nel caso nostro appunto il problema non consiste affatto nel vedere la totalità statica di un sistema filosofia), ma nel viverne la sua coerente intelligibilità come realizzazione di quel principio che lo ha fatto sorgere: eliminandone, col mostrarne la diversità d'origine e con lo spiegarle, quelle parti che in esso non hanno la loro radice. Perciò in Cartesio, non ci si può contentare di ripetere che l'attività pensante contiene il soggetto ma non lo pone, ma bisogna andare avanti e rendersi conto di come sia possibile che essere e pensare siano due dati immediati, e come riesca il pensiero a c o n s t a t a r e l'essere implicito in sé stesso. — In Kant, non ci si può arrestare ad additare la compresenza di motivi disparati senza darsi pensiero di risolvere le difficoltà che queste incoerenze rivelano. E, guardando bene, quel riassunto secondo cui andrebbe — dice il Chiocchetti — interpretato Kant, non è concepibile, per molte incoerenze e contradizioni che vi si annidano: per citarne qualcuna; come accordare tra loro la concezione del soggetto come attività realmente creatrice quale è in questa proposizione: « il soggetto conoscitivo, quale fu proposto da Kant si deve considerare non parte dell'universa realtà bensì p r e s u p p o s t o di ogni realtà conoscibile, principio a cui essa tutta deve riferirsi. L'oggetto defla conoscenza è una cosa nostra e in questo senso è immanente nel soggetto, che è il soggetto che lo costruisce », con l'altra in cui si dice che: « la sintesi elettiva in che consiste la funzione vera del pensiero, sintesi che raccoglie e stringe il molteplice in unità, e l'unità riferisce al molteplice (totalità dell'esperienza), trova i n u n a p a r t e d e l s u o c o n t e n u t o i segni di una attinenza sua

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con un termine diverso da sé; e il contenuto dell'esperienza non si risolve tutto nella stessa funzione o processo del pensiero in atto... ». Se la sintesi trova nel suo contenuto qualcosa che essa presuppone, il soggetto non è più il presupposto di ogni realtà conoscibile come sopra è detto; e la sintesi è a p o s t e r i o r i ossia non è sintesi: e se non è sintesi, conoscere, come farà mai ad accorgersi che nel suo contenuto vi sono i segni di un'attinenza sua con un termine diverso da sé? Concepire l'oggetto non come qualcosa di stabile, ma come eterno processo, come fa il Chiocchetti, è già un passo avanti: ma non basta ancora a riconoscere l'innovazione della filosofia critica perché a render possibile la sua essenza che consiste « nell'aver dimostrato che la vera conoscenza è sintetica, cioè è creatrice » (p. 76) non è sufficiente che l'oggetto sia « in continuo divenire in funzione dello stesso conoscere » se esso poi non è proprio il divenire del conoscere, creato dallo stesso conoscere. Se no che creazione è? non verrebbe la conoscenza ad essere una semplice addizione di elementi già tutti formati: « Noi stessi siamo artefici della conoscenza in se stessa, ma essere artefici non è essere creatori. C'è e ci deve essere congruenza della razionalità nostra colla realtà — continua il Chiocchetti — ma congruenza non è identità »; distinzioni queste che andrebbero dimostrate, e che non sono. « Ecco, conclude l'Autore, la via maestra dello sviluppo del criticismo vero e genuino quale lo volle Kant e quale è contenuto nelle tre Critiche da considerarsi come un tutt'uno; come un'unica critica. E che si debba tener conto di tutte e tre le critiche per intendere tutta l'originalità di Kant e il suo significato nella storia della filosofia moderna, afferma, lo capisce anche il Gentile; quantunque poi, non abbia davanti agli occhi, esponendo il kantismo, che la prima critica, come esclusivamente dottrina della conoscenza fenomenica; il resto di essa è un caput mortuum, un detrito del sistema nel suo sviluppo » (p. 78). Dove sono da notare due cose, una generale e l'altra particolare, ma molto importanti; ossia in primo luogo che la via, piena com'è, di difficoltà e di contradizioni insolubili, col dimostrarsi impotente a rendersi ragione di esse e superarle in un concetto che le risolva, piuttosto che maestra è da ritenersi vicolo cieco; in secondo luogo che considerare per lo sviluppo del sistema gentiliano importante solo la prima critica kantiana,

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e un detrito, un caput mortuum le altre due, è un errore in cui si incorre facilmente e che rivela una deficente penetrazione critica; perché è chiarissimo dal significato che il Gentile attribuisce al conoscere, e dal valore che in tutto il suo sistema questo mantiene; che egli rivendica ad esso, e fonde in lui, a ciò sia valido e realmente creatore, quella l i b e r t à che è la scoperta della seconda critica kantiana che viene così ad esser valomzata in ciò che v'è di realmente nuovo; è questo ciò che da il vero e completo carattere della conoscenza quale è per il Gentile, e senza di questo essa sarebbe mero intellettualismo. In Hegel poi non si tratta di additare quanto posto vi sia tra gli schemi della sua impalcatura per la trascendenza, e constatare che fenomenologia e logica non coincidono, ma di intendere se ciò sia compatibile con l'intima vita del suo pensiero e se per concepirlo a pieno (per valorizzare cioè anche il terzo sillogismo) si possa ancora conservare l'impalcatura che vi è sorta intorno, e che invece — ad un lungo e diligente esame — si è rivelata soprastruttura, non nata e cresciuta cioè da quel concetto della realtà come pensare che è il fondamento della filosofia hegeliana. Quella continuità quindi che al Chiocchetti non pare di scorgere tra la filosofia dell'attualismo e quella del movimento idealista tedesco, non c'è certo se egli cerca scorgerla in quella molteplicità di elementi che d'ogni pensatore ha cura di mantenere, ma non è lì che va cercata. E qui è opportuno esporre le difficoltà che nel cap. V l'Autore muove alla concezione gentiliana della storia, l'una su ciò che debba intendersi per passato, l'altra sul valore dei documenti nella ricostruzione storica, perché esse, oltre che dal significato che il Chiocchetti da alla attività conoscitiva, sorgono appunto anche dal modo con cui intende la continuità ideale che costituisce lo sviluppo della storia. Mostrato come per l'idealismo lo spirito crei se stesso ponendosi in nuove forme di realtà in una eterna realizzazione che è autocoscienza o storia, e che essa si identifica con l'atto storiografico, per cui il passato è tutt'uno col presente nella sua intima sostanza, obbietta: « che il presente non sia diviso dal passato lo ammettiamo anche noi con Aristotile, che considerava il tempo come quantità continua; quello che non possiamo ammettere è che il passato sia tutt'uno

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col presente o una semplice proiezione dell'atto presente. Se non c'è nello spirito una qualche compresenza del prima o del poi non ci può essere la variazione e l'avvertimento della variazione, perché è reso impossibile ogni rapporto con uno stato posteriore. Il principio dell'accadere è il tempo, come durata e come successione, cioè come compresenza di due stati diversi di ciò che accade, compresenza di due stati come due, non come uno. E diversamente compresenti: l'uno vivo nella sua piena attualità, vivo nel centro del fuoco della coscienza, l'altro degradante in vivezza, e fuori di quell'attualità che è il nostro ora, cioè il vissuto pienamente per la prima volta dalla nostra anima, e che anche se ravvivato con più intensità di quella per cui era vivo la prima volta che si inserì nella nostra vita, non potrà più mai apparirci come presente; presente alla maniera di quel presente che lo richiama e lo ravviva. C?è dunque un tempo psichico reale che si impone al nostro pensiero, che il nostro pensiero non crea, ma constata, che non è una proiezione dell'atto pensante, ma una realtà come rapporto di successione e di continuità di tutti gli atti e di tutti i fatti. Prima e poi e divenire sono legati cosi strettamente l'uno all'altro che non sono concepibili, nonché separati, neanche distinti » (pp. 182-3). E se si dice che l'essenza del divenire è continuità dell'autodifferenziamento del soggetto come sviluppo non della successione temporale, ma razionale risponde: « io non comprendo un divenire che non sia quello della successione temporale, che sia un eterno presente. Non comprendo un divenire che divenga fuori della determinazione del tempo, del prima e del poi, poiché faccio mia la definizione aristotelico-scolastica del tempo: Mensura motus secundum prius et posterius ». Quest'ultima esigenza — definizione a parte— l'idealismo soddisfa pienamente: nessuno infatti ha mai pensato a sostenere che il divenire divenga fuori delle determinazioni del tempo, né che queste possono esistere per proprio conto fuori del divenire. Concedendo l'attività spirituale come spazializzatrice, lo spazio (e il tempo) è congiunto ad essa dal legame più saldo che si possa coerentemente concepire: la dipendenza da creato a creatore; ed in essa: sì che, come chiede il Chiocchetti, prima, poi, e divenire sono legati così strettamente l'uno all'altro, da non esser concepibili, non-

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50 che separati, neanche distinti, perché ne costituiscono la caratteristica fondamentale. Ma questa è un'esigenza secondaria rispetto al problema principale, che è nell'obbiezione che ho riportata, e dipendente dalla soluzione di esso; cioè, per usare gli stessi termini nei quali fu enunciato, che esiste un tempo psichico reale che il nostro pensiero non crea, ma constata, e che si impone ad esso come una realtà che è rapporto di successione e di continuità di tutti gli atti e di tutti i fatti. Come? L'Autore ammette che il presente non sia diviso dal passato, e riconosce che per avere la variazione e l'avvertimento di essa occorra « una qualche compresenza del prima e del poi » e che questa compresenza di due stati, come due non come uno, sia nel tempo come durata e come successione. E in che modo è possibile questa compresenza nel principio dell'accadere, il tempo? Non è detto; e di che natura è questa successione che lega in modo organico dentro di sé elementi precedenti e successivi (p. 184)? Non è analizzata; e come la si può concepire? Non si sa; ed il chiamarla storia non dice nulla di più. Però il Chiocchetti entra per un momento un po' più addentro nella difficoltà guardando il significato del divenire: « il divenire non è la durata omogenea dell'accadere, di un accadere pure omogeneo, e quindi, non vero accadere ma puro essere, sibbene rapporto fra accadimenti qualitativamente diversi, compresenti nella coscienza, più o meno vicini al centro di essa, ma tutti legati alla successione, cioè a un prima e a un poi perciò stesso concretamente diversi, pur nell'unità dello stesso divenire, dello stesso flusso solo astrattamente uniforme e omogeneo » (p. 183). Dove è ben visto e ben detto il divenire esser rapporto fra accadimenti qualitativamente diversi compresenti nella coscienza; ma non mantenuto il concetto che questa compresenza qualitativa esige, che essa per esser tale non può corrispondere al p r i m a e p o i cronologico, ma dev'esser, come più in là dice il Chiocchetti stesso, una unità organica come simultaneità di successivi, ossia proprio compresenza della storia all'atto spirituale. Perso il concetto della compresenza qualitativa, razionale, in cui si distingue la coscienza, e che è vero divenire; risorge la differenza quantitativa, come appare in quel « più o meno vicini al centro della coscienza », in quel « legame a un prima e a un poi »; ed il

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51 divenire finisce per trasformarsi appunto in quel rapporto di successivi omogenei che non è vero accadere, ma puro essere. La identità tra storia ed atto storiografico non può non riuscire impensabile da questa posizione che ha già depotenziato l'atto opponendogli un tempo psichico reale che gli si impone: atto che può considerarsi attività psichica, ma di quella psicologia più o meno sperimentale che tanto chiaramente il Chiocchetti riconoscerà impotente non che a cogliere ad avvicinarsi alla comprensione della realtà spirituale. La seconda difficoltà, sebbene rispetto alla prima sia di minore importanza e si risolva con essa, merita d'esser chiarita perché è l'espressione più semplice d'una obbiezione che si ripete nel corso del volume; che cioè lo spirito non sia incondizionato. E questa obbiezione si può presentare così: « i documenti, o quelli strumenti che, quando lo storico fa la storia, chiama documenti, sono o non sono qualche cosa di assolutamente necessario perché lo spirito riviva il passato? Non sono il presupposto indispensabile della ricreazione storica?... Sono «cose esterne» all'atto del pensiero che le trasforma nella sua storia; sono i segni del passato, frammenti della vita vissuta, materializzati finché si vuole, ma reali, oggetti di ricerca e di studio, anteriori alla storia degli storiografi, o allo spirito che, ora, fa la storia » (pp. 191-2); limitano, in una parola, la libertà dello spirito. In altro luogo questa limitazione sarà vista nella necessità che il soggetto ha di porsi, mostrando con ciò di non esser vera assolutezza; ed in altro scorgendo l'oggetto come condizionante il soggetto. Certamente alla determinata storia degli storiografi, i documenti sono anteriori: ma in questa determinazione e distinzione l'atto spirituale è esaurito, e se ne indica, a processo compiuto, i termini fissati. Termini esterni all'atto del pensiero, che non solo sono impensabili finché esterni, ma anche impensabili pure come esterni; ed il trasformarli in interni non è possibile se non nel caso che siano già interni, perché salto non è concepibile. Il considerare poi i documenti del passato come esterni alla vita spirituale passata da cui sono sorti — la lettera senza lo spirito — è cosa impossibile dopo aver compresa anche la sola estetica crociana nel valore che essa ha, non nel campo partico-

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52 lare della critica d'arte, ma in quello generale della storia; perché non solo essi si rivelano e sono quei determinati documenti quali mano a mano li fa essere la intelligenza che di loro acquistiamo, ma staccati dallo spirito non sono neppur formule o etichette vuote, ma aggruppamene incoerenti di segni privi di significato alcuno, tali quali non poterono mai nascere; mentre invece nel loro vivo sorgere — quando sorsero — sono lo spirito stesso che li crea realizzandosi, e solo così possono essere intesi; per questa via occorre metterci per rintracciarli, cioè nell'interno dell'attività spirituale stessa, che nel processo onde pone a sé il proprio essere non incontra che sé. Ma questa è una via che è vita, attività creatrice del proprio presente nel suo valore totale, in cui cioè si foggia tutta la spiritualità e su cui si costruisce istante per istante, per così dire, come suo ritmo interno, la realtà effettivamente valida della vita intera perché l'essenza, la positività, dei così detti atti del passato, è quella d'esser creati e continuati a creare come realtà in cui si media l'atto del pensare. Via che è vita, e vita ardua, in cui non rimane più traccia d'un conoscere intellettualistico, quantitativo: il bisogno del quale spinge a volte, purtroppo, il Chiocchetti, come altri che non hanno ancora compreso questa natura del pensare, a ripetere la facile domanda d'un conoscere particolare, che presuppone già delimitato e l'oggetto ed il soggetto. « Perché non posso sapere quello che pensa il mio amico,... perché non posso vedere i processi di coscienza di tutti gli Io empirici,... perché non so quello che ora pensa Gentile, quello che pensano tutti gli uomini? » (p. 197) si chiede; costruendo con l'atto di interrogare stesso in cui è implicita un'intera posizione spirituale, tutto un mondo di schemi e di astrazioni quale realizzazione appunto di quella posizione, e domandando poi la c o n o s c e n z a di quanto ha già costituito astratto, cioè inconoscibile; dimenticando così il significato genuino del conoscere che non è mera informazione, ma r e a l e c r e a z i o n e di v a l o r e . Al concetto di valore il Chiocchetti dedica tutto il settimo capitolo e poi, Dell'esaminare altri problemi, gran parte del nono, e preliminarmente lo imposta così: «Noi valutiamo, cioè di un oggetto qualsiasi affermiamo la sua importanza in rapporto a noi o a qualche altro soggetto:... il valore è quindi sempre

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53 relativo a un soggetto al quale « importi » e presuppone un tendere un considerare del soggetto, un suo volere:... — Perciò la radice d'ogni valore è l'attività pratica, la volontà o la nolontà del soggetto: » (pp. 274-5) nel quale si presuppone, oltre al tendere, il soggetto, l'oggetto ed il modo di tendervi: soppressa come fa l'attualismo la concretezza distinta dell'attività pratica, e risolta la molteplicità degli individui nell'unità spirituale, sembra al Chiocchetti annullato ogni valore e ogni disvalore, negata perciò la possibilità della dialettica (p. 607), la libertà dell'atto il cui sviluppo diventa mera necessità naturale, negato l'atto puro stesso che vien ad uguagliarsi al fatto del positivismo (p. 414). La difficoltà della determinazione molteplice dell'unità dell'atto è una difficoltà che non solo non si può nascondere nell'idealismo attuale, ma che anzi è secondo me uno dei punti della concezione gentiliana più delicati, perché, come verde germoglio, più ricchi di possibilità di sviluppo; ma anche di eventuali fraintendimenti. E la difficoltà fu subito ben vista dal Croce che sospettò sotto la strabiliante ricchezza di categorie che l'idealismo attuale offre, invece che determinazioni di categorie, mentali e spirituali, una copia dei singoli fatti e atti del pensiero. E sembra che in questa via si sia messo, almeno per qualche tempo il De Ruggiero nei suoi articoli sull'arte, con la ricerca di pensare un'opera nella sua effettiva singolarità non d ' a r t e , ma di p e r s o n a l i t à umana da valorizzarsi nella sua complessità, ottenendo invece l'ineffabile individuo astratto, come osserva acutamente il Croce. Ma questo non consente però di arrestarsi a vagliare i termini del problema presi nella loro schematicità, che così si finisce col perder del tutto il concetto dell'attualità spirituale e le obbiezioni che le si muovono non colpiscono che il presunto atto puro; e se sono giuste contro di esso, non hanno valore contro il vero. Infatti sostenere che se il vero si converte col fatto, anzi peggio, col fare, e vi si risolve senza residuo identificandovisi, qualunque fare è vero: rubare e compiere opere di misericordia; che se il diritto è il voluto ogni voluto si trasforma in diritto (pp. 430-1), espressioni in cui si può riassumere la ragione delle molte obbiezioni che all'idealismo attuale si vengono facendo, è sostenere come proprio di esso ciò appunto contro cui ha sempre combattuto; che un fatto cioè, sia, in quanto fatto, realmente atto spirituale, che il singolo empiricamente inteso

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54 abbia valore alcuno, che l'accaduto in quanto mero accaduto abbia significato nel pensiero. Rubare, compiere opera di misericordia sono distinzioni empiriche e i termini di esse non reali, e perciò privi di quella validità atta a costituire davvero la vita; come sono espressione d'una esigenza empirica e psicologistica che ricompare assai spesso nel volume, il concepire bene e male la tesi e l'antitesi necessari c o n c r e t a m e n t e per la sintesi, così che essendo entrambe ugualmente valide né potendo dare perciò la preferenza all'una o all'altra, il delinquente valga il santo, la scuola positivistica l'idealistica (obbiezione fondamentale che il Chiocchetti muove alla pedagogia gentiliana), ed essendo entrambe indispensabili e da mantenersi col ferro e col fuoco; la vita diventi pugna omnium cantra omnes. Si viene qui a fissare i termini nella loro schematicità e si perde ogni concetto di attività spirituale che più non si può riconquistare per questa via: come è accaduto pel problema del valore impostato su i presupposti che ho sopracitati, di attività pratica e di termine cui tendere. Esigenza psicologistica, noto di sfuggita, che l'idealismo potrebbe non essere alieno dal soddisfare in parte, notando come nel compiere quelle distinzioni empiriche per cui gli individui si differenziano fra loro, l'atto, è chiaro, rimane esterno ad essi e diventa proprio quel t e r m i n e al q u a l e tendono gli individui particolari e che costituisce la norma cui si devono ispirare. Lo scambio del valore dello schema tesi antitesi nella sua astrattezza quale è in Gentile, con quello hegeliano, ha fatto cercare al Chiocchetti invano la d i s t i n z i o n e c o n c r e t a fra arte e religione, mentre avendo egli stesso riconosciuto che soggettività ed oggettività per Gentile sono termini irreali se presi isolatamente, doveva accorgersi che il trovare nel sistema un criterio di reale distinzione sarebbe stato segno di massima incoerenza. E questa stessa forse è la causa d'un'altra inesattezza d'intelligenza d'un particolare problema pedagogico: l'educazione fisica, che Gentile, chiama la parte f o n d a m e n t a l e della educazione spirituale; che se questa, dice il Chiocchetti, è arte religione e filosofia, parrebbe che la realtà si scindesse in esse (spirito) e fondamento (corpo natura): ma — aggiunge — non perdendo di vista che tutto ciò che è natura è autooggettivazione dello spirito, cioè scienza e religione, l'educazione fisica

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55 rientrerebbe nella educazione scientifico-religiosa. « Ma siccome questa viene dialetticamente dopo l'educazione estetica, non si capisce piuttosto come l'educazione fisica possa essere il fondamento d'ogni educazione » (p. 363). Richiesta, questa davvero d'una ipostatizzazione delle forme dello spirito che farebbe dubitare « della solidità di tutto il sopramondo della concezione gentiliana » volendo trovare o qua o là, secondo bisogni sistematici, determinate discipline o concetti. Mentre l'educazione fisica non ha dialetticamente il numero , ed è il fondamento della educazione perché è interna ad ogni e qualsiasi problema educativo: e se si vogliono considerare isolatamente le varie educazioni, risorgerà in ognuna di esse il problema dell'educazione fisica: così per es.: nell'arte, il cantante od il pianista troveranno impliciti nel loro problema educativo gli elementi fisici — la così detta impostazione della voce o della mano — da assimilare e trasvalutare in fattore spirituale. Mi piace chiudere queste osservazioni riportando le ultime pagine del volume del Chiocchetti nelle quali sono accettati i concetti fondamentali dell'idealismo italiano, riassunti ed esposti in un modo così chiaro e vivo che meglio non si potrebbe desiderare. E se non temessi di render troppo lunga questa già lunga recensione, vorrei trascrivere tutta la bella conclusione con cui l'Autore chiude il libro: mi contenterò perciò di qualche brano. Il Chiocchetti richiama l'attenzione degli amici neoscolastici sul sistema del Gentile, avvertendo che da esso scaturiscono delle verità che occorre imparare: « da Benedetto Croce e da Giovanni Gentile tutti abbiamo imparato e dobbiamo imparare due cose: — prima, che all'approfondimento della nostra riflessione spirituale, allo scopo di coglierne il ritmo e le leggi, giovano più lo studio dell'arte e della letteratura e l'interesse vivo alla storia che non le scienze cosiddette di esperienza, non esclusa la così detta psicologia sperimentale. Lo spirito è qualità non quantità; le scienze sperimentali per sé stesse non possono coglierne nessunissimo aspetto, nessunissima attività, perché sono e vogliono essere scienze della quantità. La seconda cosa che da essi dobbiamo imparare è ancora più importante, dal punto di vista del successo della nostra attività di pensatori cattolici nel mondo attuale. A conquistare gli uomini a una corrente di idee è necessario poggiare quella corrente

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56 sopra una vasta base di cultura, che abbracci tutti i problemi spirituali e tutte le risposte che, dai diversi punti di vista, a quei problemi vengono dati, e si mostri di possedere risposte proprie, nuove o nuovamente formate, in funzione degli atteggiamenti sempre nuovi che lo spirito cercante assume nel suo divenire e in armonia con tutta la cultura degna di questo nome... Da Giovanni Gentile abbiamo imparato e dobbiamo imparare il senso storico, la visione storica dei problemi: le diverse posizioni che i problemi hanno assunto e vanno assumendo nello svolgimento dello spirito, sempre diversamente atteggiato, sia che affacci dubbi o proponga soluzioni... E ancora abbiamo imparato e dobbiamo imparare a sapere e vedere e interpretare la storia del pensiero in funzione dei nostri concetti, del nostro sistema di concetti, cioè della filosofia, che, se è davvero filosofia perenne, pensiero concreto dell'umanità, o coscienza e autocoscienza di essa, deve essersi formata attraverso tutte le fasi dello sviluppo spirituale umano, nel quale, perciò, noi possiamo trovare la graduale formazione e mostrare che il passato sgorga nel nostro presente, è, finalisticamente, nel suo crescente sviluppo, il nostro presente, che è l'unico presente di pensiero, e quindi di vita che abbia valore » (pp. 471-5). Ossia riassumendo nello stesso ordine: — la filosofia è intesa come filosofia dello spirito; — è negato alle scienze il valore di concretezza; — l'attività spirituale è concepita come totalità sempre nuova; — la storia è risolta nella filosofia, nel nostro presente che è l'unico presente di pensiero; cioè di vita, che abbia valore. Che il Chiocchetti sia riuscito sempre nel volume a mantenere la posizione che questi concetti esigono, non potrei dire, ed ho già qua e là rilevati atteggiamenti psicologistici che non sono conciliabili con la filosofia come filosofia dello spirito, e spesso proprio quando parla dell'atto puro. Col non vedere come esso possa esser divenire, non riuscendo a concepire un divenire senza pensare ad un qualche cosa che diviene (p. 115), non solo l'atto, ma anche la posizione di chi lo valuta, perde le caratteristiche della spiritualità: ed allora sorgono le vane domande del perché l'atto non si esaurisca in un p r i m o porsi e continui a porsi, o l'errata interpretazione del realizzarsi concepito come p r o i e -

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57 z i o n e , termine spesso usato e sempre nel significato svalutativo di illusoria ed inconsistente apparenza. Pur nonostante è da apprezzare il nobile sforzo dell'Autore che ha tentato di dare una complessa ricostruzione del ricchissimo pensiero gentiliano; ricostruzione che è il primo tentativo serio che si sia pubblicato. Ma prima di terminare mi sia concesso un avvertimento dedicato sopratutto ai compagni di fede e di filosofia del Chiochetti. Il lavoro cui si è sobbarcato il Chiocchetti non dispensa altri che voglia davvero intendere il Gentile dallo studiarne gli scritti; perché un'esposizione d'un pensatore, se ci risparmia la fatica di ricostruirlo da noi, ci toglie però quel lavoro che è desiderio di comprensione e di vita per affannarsi con il filosofo studiato a vivere e render ricco di vita un concetto, lavoro angoscioso e sereno che è l'anima del filosofare; e nella veduta panoramica e sistematica in cui già è collocato ogni problema, la ricerca filosofica vien meno, ed il miglior s'invola. [Da: «La Nostra Scuola», 1923, n. 3-4]

VITTORIO MACCHIORO, L'Evangelio, Firenze, Vallecchi, 1922, pp. 127. Dopo gli interessanti e vivi studi sull'orfismo che il Macchierò ci ha dato nei due volumi editi dal Laterza, Zagreus ed Eradito, opere condotte con acume penetrante e con solida preparazione, egli raccoglie e pubblica adesso alcune conferenze e qualche articolo sui problemi religiosi, proponendosi in modo speciale se non di risolvere, almeno di far sorgere nell'animo del lettore un duplice quesito: « 1° quale processo concreto può metterci in grado di realizzare quella che certamente è l'essenza della fede cristiana, cioè, la fede in Gesù Cristo; 2° quale valore attuale può avere questa fede per la nostra odierna società » (p. 7). Egli esamina per prima cosa una difficoltà che si presenta a chi si accosti ai Vangeli per leggervi, nel modo più adatto a che essi parlino quanto più è possibile liberamente e completamente senza che la loro voce urti contro apriorismi e preconcetti che la falserebbero. Per leggere un'opera qualsiasi, o di

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poesia o di storia, è necessario esser disposti ad accettare e ad amare quel che essa vuole o spera o pensa di poter dare, occorre vivere in comunione con l'autore, e far sì che la sua anima diventi anima nostra. E' così che noi — continua il Macchierò — dobbiamo avvicinarci ai Vangeli e non presupponendo come si fa dai più che essi debbano esser letti in modo diverso dagli altri libri; i credenti con la fede che siano un testo circonfuso di vera gloria da difendere, i miscredenti con una certa diffidenza per la falsa gloria di cui è rivestito e che conviene distruggere. Ed accostandoci ad esso scorgiamo per prima cosa che i Vangeli non sono opera storica, come comunemente si ritiene; non v'è in essi, cioè, la volontà specifica di presentarci una serie determinata di fatti: poiché manca in essi ogni intento critico di accertarsi della verità di quel che narrano; infatti ci sono tra i quattro Evangeli delle contradizioni tali, che né dovevano sfuggire ai primi cristiani, né era difficile loro — là dove non intaccavano la sostanza della dottrina — fare scomparire, se li avessero tenuti in conto di opera storica, e, come tale, l'avessero voluta tramandare; inoltre non fu tentato di inserirvi qualcosa di quelle tradizioni orali che ancora al tempo di Papia correvano per le bocche e che sembra dovesse esser caro conservare. Questa prima asserzione meritava una più ampia dimostrazione e una più ricca abbondanza di esempi e di argomenti, che al Macchierò non devono mancare certamente, a meglio convalidare questo elemento del carattere dei Vangeli che è importantissimo per la tesi che l'autore sostiene. Troviamo poi che l'Evangelio non ha l'intento di darci l'annunzio di una nuova morale, che ai discepoli ed agli ascoltatori la dottrina di Gesù non doveva sembrar nascere da una concezione così radicalmente diversa da quella dei tempi e dell'ambiente in cui visse il Maestro da apparire degna d'un annunzio: lo prova il fatto che numerose sentenze di Gesù furono attribuite a maestri giudaici e raccolti nel Talmud, e che altre avevano una eco, un accordo etico fondamentale colla coscienza giudaica; infatti « all'ebreo che pregava: « venga a loro ed a voi pace grande, grazia, pietà e misericordia e lunga vita e alimenti e redenzione dal Padre loro che è nei Cicli e nella terra » « il Padre nostro » non poteva suonar tanto nuovo quanto a noi pare »•

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e tra dire « tutte le cose che voi volete che gli uomini vi facciano fatele anche voi a loro » e « non fare agli altri ciò che spiace a te » come diceva Hillel (p. 21) v'è, sotto la differenza, un nucleo etico comune. Inoltre se troviamo che Matteo espone in modo organico la dottrina di Gesù nel brano del Sermone sul Monte, vediamo poi che Luca, il quale attinse alla stessa fonte, ai Longhia, non mantiene affatto lo stesso ordine, ma lo altera, lo scompone, elimina parte dell'insegnamento del Maestro perdendo così ogni organicità; segno evidente che « la esposizione della dottrina di Gesù non aveva per Luca quell'importanza che noi le attribuiremmo. I Vangeli non rispondono dunque ad una vera e propria volontà etica; il loro annunzio non riguarda la morale » (p. 22). Confrontato poi con il Pentateuco, con l'Avesta e con i discorsi del Budda essi comincian a farci scorgere il loro lato positivo. Mentre nei primi c'è o una ricchezza di elementi storici o un valore grande della legge, o una esposizione continua del pensiero e del sistema, sì che la figura di Mosè, Zoroastro, di Gotamo sembrano assenti, o passano in seconda linea, nel Vangelo non troviamo quasi alcun dato storico, non esposta una dottrina, ma fatto centro dell'annunzio la persona stessa che annunzia, l'Annunziatore, che si pone come base su cui deve poggiare la vita, si identifica con la conoscenza, perché chi vede Lui ed ha fede in Lui vede il Padre. « In origine quest'annunzio era quello del Regno che Cristo annunzio e predicò, e ordinò ai discepoli di annunziare. Era un annunzio che Cristo dava per incarico di Dio e perciò era anche detto l'evangelio di Dio. Ma dopo la morte di Gesù l'annunzio venne a identificarsi con colui che lo aveva dato e col quale doveva attuarsi; l'annunzio che Cristo aveva recato diventò l'annunzio di Cristo, pur restando l'annunzio di Dio, e diventando l'annunzio » senz'altro. Così per la primitiva fede cristiana Cristo diventò Egli medesimo l'obbietto di questo divino annunzio che Egli aveva recato, diventò anzi l'unico annunzio, l'unica buona novella che il mondo potesse aspettare » (p. 27). Ecco perché i Vangeli pur essendo quattro formano un unico evangelio, ecco perché il bisogno dell'organicità non fu affatto sentito dai primi scrittori, e perché l'esigenza storica non fu neppure sospettata: perché il centro animatore era la figura, la

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60 persona di Cristo — vivente — che da l'unità intima, spirituale al « quadrimorfo annunzio » (come lo chiama Ireneo). Anche su questo punto non sarebbe stata superflua una più estesa esposizione e dimostrazione, che non avrebbe tolto al volumetto il suo carattere di lettura o conferenza nella forma, ma che, lo si intuisce, cela un lavorìo grande che si viene maturando nell'animo del Macchierò. Prosegue mostrando come questa persona sia il Messia non degli Ebrei, che da questo punto di vista la vita di Cristo appare come la storia di un insuccesso, ma del mondo intero, incarnando il mito del Messia e facendolo realtà storica, aprendo la serie di infiniti pseudo messia, manifestando nella sua vita la forte coscienza della propria messianità spirituale dalla quale nacque nei discepoli, che in Lui videro Dio, quel sentimento che fece sorgere la Cristologia e si riversò nei Vangeli come teofania del Figliuolo dell'Uomo, come esperienza del Cristo non il Gesù nazionale della storia, « ma il Messia universale dello spirito » (p. 53). Nel secondo capitolo il Macchierò tratteggia l'antitesi tra paganesimo e cristianesimo: l'essenza del primo è pessimismo, vanità completa dell'attività umana perché ad essa preesiste la realtà tutta già formata ed alla quale uomini e dèi sono fatalmente sottoposti; pessimismo profondo che cerca distrarsi nel sorriso apparentemente sereno dell'arte, la quale cela lo sgomento e la disperazione, serenità che illude e fa concepire l'Ellade come la fanciullezza gaia del genere umano. Al contrario il Cristianesimo iniziò l'ottimismo — nonostante l'apparenza opposta secondo il giudizio corrente derivato dalla tradizione umanistica — perché l'attività umana non è più sterile fatica che non produrrà niente, ma è l'unica attività che realmente abbia valore, è l'unica che crei quel regno dello spirito che Gesù ha annunziato agli Paganesimo e cristianesimo appaiono non solo due momenti antitetici susseguentisi nella storia e immanenti nello spirito; sono come il contrasto fra la lettera e lo spirito, tra il fatto e il fare, tra il corpo e l'anima, ma nel senso che il secondo pur opponendosi al primo lo trasforma e ne conserva quanto v'è di vivo: il nuovo spirito si crea una nuova lettera, la nuova anima si plasma un nuovo corpo in un'eterna attività che è fede, ossia criterio della verità (p. 84) che dobbiamo instaurare per avere la consapevolezza del nostro destino.

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Analoga antitesi al Macchierò sembra quella tra spirito cattolico e protestante, che esamina nella terza parte: statico, dogmatico, cristallizzato il primo, dinamico, critico fluente il secondo; per cui cattolicesimo e protestantesimo si pongono come due opposte posizioni della coscienza cristiana — l'autorità e la libertà — venendo a formare i due poli entro ai quali la coscienza religiosa oscilla perpetuamente. E' da notare però che a momenti il Macchierò tende un po' troppo a schematizzare ed a considerare come reali le posizioni astrattamente prese ed ipostatizzate, così che finisce ad esempio per considerare l'arte « esteriorità » rappresentando essa la grandezza del cattolicesimo e la filosofia « interiorità », essendo essa la grandezza del protestantesimo: « non vi è fatto o problema che non possa esser veduto e giudicato cattolicamente o protestantemente, cioè esteriormente o intcriormente, esteticamente o spiritualmente » (p. 103); nelle quali opposizioni si scorge che il desiderio di veder chiare le antitesi le ha vuotate di valore. Pure il nostro si accorge che cattolicesimo, anche preso isolatamente, non è un termine astratto e cristallizzato: infatti « se esaminiamo la coscienza cattolica noi troveremo in essa un consapevole o inconsapevole perpetuo conato verso la libertà. Tra cattolicesimo e coscienza cattolica vi è sempre un barlume spesso inavvertito di antitesi; l'accordo avviene sempre con qualche sacrificio, o col sacrificio totale della coscienza. La quiete cattolica è sempre il resultato di un dramma... E così si genera una singolare forma di coscienza che perpetuamente ondeggia tra la fede e lo scetticismo, tra l'ossequio e la critica, tra la ortodossia e l'eterodossia. La colossale coerenza collettiva della chiesa romana, a una analisi, si rivela composta di un infinito numero di incoerenze individuali » (p. 107-8) dramma che l'individuo soffre perché la collettività si salvi e nel quale il Macchioro scorge il segno « d'una divina tragicità, e quasi la persuasione che un'idea che discende da Dio deve nel suo cammino mietere molte vittime umane ». Al che sarebbe da osservare che il dramma è risolto in vita, in quell'ottimismo che è l'essenza del cristianesimo, e che la vittima umana che l'idea di Dio miete è piuttosto il grano che si raccoglie con gioia purificato dalla pula dell'individualità particolare.

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62 La coscienza religiosa lievita nell'interno della chiesa, che è il suo corpo, e quando questo si irrigidisce lo rompe, nascono eresie e riforme, e si hanno nuove chiese e nuovi dommatismi. Il travaglio spirituale dei giorni nostri che tenta di annullare vecchie formule che duemila anni di storia hanno accumulate, non può comporsi nel protestantismo ch'è, dogmatico anch'esso, e che, risalendo nel Vangelo, s'è fermato a Paolo. Deve tornare più indietro, « occorre un ritorno integrale a Gesù » (p. 125) e da una nuova e più profonda concezione spirituale foggiare una nuova chiesa. Queste ultime pagine sono, come dianzi ho accennato, l'indice di una ricerca intima dell'autore, non ancora risolta con chiarezza, ma vissuta sinceramente e fortemente. E come egli vede bene che se la storia di per sé è statica, rigida e pura astrazione, la libertà e spiritualità non ne sono invero l'annullamento, ma sua vivificazione dall'interno; così non potrà credere, come mostra di fare, che la nuova chiesa « potrà risultare sincretisticamente dalle chiese storiche », perché questo metodo sarebbe di una meccanicità ed antispiritualità evidentissime. Né al Macchierò sfuggirà che nel ritorno a Gesù, i Vangeli non possono esser presi come fondamento — far questo sarebbe usare un metodo storicistico positivista, quale si annida nell'atteggiamento protestante — perché egli stesso ha scorto in essi non la base della figura di Gesù e della predicazione dei discepoli, ma un modo di fissare e di ricordare ciò che oralmente veniva insegnato. « I vangeli furono scritti dunque — dice giustamente il Macchierò — quando una società di credenti già esisteva, non per diffonder la fede, ma per confermarla: non per divulgarla, ma per corroborarla. Né si può dire che fossero proprio i vangeli come tali, cioè la lettura o la spiegazione di essi, a diffondere il cristianesimo; ma sì piuttosto l'apostolato personale. Non era il libro che destava la fede, ma la fede che divulgava il libro » (p. 30). Il libro, cioè, aveva valore in quanto si appoggiava sull'apostolato che presupponeva e si può credere ad esso, se si crede alla chiesa che lo rende valido e che non poggia la propria validità — tranne che in Dio — su niente altro che su se stessa. [Da: «La Nostra Scuola», 1923, n. 5-6]

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LUIGI SCARAVELLI (1893-1957) Incontrai per la prima volta Luigi Scaravelli in un novembre del 1942. Insegnava come incaricato presso l'Università di Pisa e teneva un corso su la Critica della Ragion pratica. Ero allora studente del primo anno di filosofia e girando per le aule dove si tenevano le lezioni, scontento e perplesso su quel che sentivo, entrai per caso in una piccola aula al piano terreno della Sapienza dove attorno a un tavolo rotondo sedevano cinque o sei studenti e un insegnante, ancor giovane, che colpiva per lo sguardo penetrante e un po' ironico. Ricordo che mi incoraggiò a sedermi e riprese a parlare con accento marcatamente toscano. Fu una lezione affatto diversa da ogni altra che avessi sentito. Né era questione di indirizzo o di tendenza, ma di modo particolare di intendere e far intendere un testo filosofico. Sembrava che il testo, scomposto e ricomposto da Scaravelli, svelasse, come sottoposto a un cifrario segreto, un pensiero ascoso. O, ancor meglio, si faceva armonica costruzione logica ed ogni termine, ogni inciso, acquistavano una loro funzione. Da allora sono passati quindici anni e quello strano insegnante mi divenne maestro negli studi e poi amico affezionato. Oggi che lo ricordo mi vengono a mente le molte volte in cui scherzosamente mi avvertiva che è pericoloso avere un maestro poiché prima o poi bisogna commemorarlo. Gentiluomo fiorentino, Luigi Scaravelli non aveva niente dell'insegnante di professione. La routine gli era estranea, né seppe mai piegarcisi. Aveva della sua origine aristocratica l'educazione e il tratto, sì che i rapporti con lui si ponevano sempre su un piano di libera comunicazione, ed era naturalmente portato a mondanizzare ogni problema di cultura rendendolo in una vivace conversazione in forma precisa e piacevole. Somigliava in questo a un gentiluomo del Settecento, curioso di scienza ed arte. E tale abito gli si era ancor più affinato in lunghi anni di permanenza in paesi d'Europa e in America, che lo avevano reso esperto di varie culture e conoscitore di costumi e di usi. Questo, amava ricordare, gli era servito a dare una dimensione esatta alla cultura del suo paese e ad approfondire i problemi che veniva studiando.

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Mario Corsi

oltre che a sentire per diretto contatto quelle atmosfere ambientali che letterati e scrittori delle diverse letterature nazionali avevano ricostruito nelle opere. Uomo di finezza e di gusto ricordava con qualche nostalgia, negli anni della maturità, le immagini della società europea conosciuta al tempo della giovinezza. Pure pochi sanno che quest'uomo di formazione cosmopolita che si trovava a suo agio a Parigi, come a Londra o a Colonia, partecipò alla prima guerra mondiale combattendo con grande valore e ne rimase seriamente provato nel fisico. Scaravelli, tanto era schivo di riferimenti a suoi gesti od azioni, si sarebbe vergognato di parlarne con estranei. Lo sapevano pochi e vecchi amici che lo avevano conosciuto nei primi anni del dopoguerra studente in medicina ancor debole e di salute instabile. Scaravelli giunse fino alla laurea in medicina e si rivolse agli studi di filosofia per il puro bisogno di intendere. Un compagno, studente di filosofia, gli aveva fornito alcuni libri che egli aveva preso svogliatamente fra mano. Ne ritrasse un effetto curioso. In quei libri ciò che aveva rilievo era la struttura stessa del pensiero, non un oggetto o materia determinata. Così passò ad esaminare questa struttura del pensiero nelle diverse formulazioni storiche che la filosofia ne aveva dato. Fece gli studi regolari di Filosofia e si laureò a Pisa con Armando Carlini. Insegnò poi per poco tempo in scuole secondarie, e fra l'altro anche a Cagliari, dove insieme ad altri colleghi fu ospite di un convento. Ricordava Scaravelli che quei buoni frati vollero onorare gli ospiti leggendo, all'ora del refettorio, un classico della storia della Chiesa, il Pastor. Ma fu lettura breve poiché la ricchezza di informazione sulla vita dei Papi e l'indipendenza di giudizio dello storico tedesco rallegravano bensì gli ospiti ma lasciavano sgomenti e affatto edificati i frati. In seguito si dedicò soltanto agli studi e per óltre un decennio venne approfondendo la conoscenza dei classici della filosofia e affinando quel suo metodo di indagine logica di cui dovea dar prova negli studi su Kant e su Cartesio. E in quegli anni preparò il libro che rimane la sua opera fondamentale, la Critica del Capire (Firenze, Sansoni, 1942). E' un'opera che rispecchia per intero l'ingegno di Scaravelli, un'opera che non concede niente al lettore e che infatti pochi hanno letto. La intitolò « Critica » nel senso kantiano di indagine di una funzione imperfetta, e suo oggetto erano non le strutture logiche ma il modo di affrontare l'esame di queste strutture, il capire. E il « capire » a sua volta veniva a strettamente congiungersi con quelle strutture logiche stesse,

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Scaravelli

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l'identità e l'opposizione dialettica, tanto che a fondamento del capire si poneva lo stesso problema che esse proponevano, la libertà. Alla fine della sua opera Scaravelli osservava: « ...se i princìpi della comprensione sono quelli già acquisiti, dinanzi ad una nuova parola questi princìpi impediranno che essa abbia un nuovo significato: e la parola sarà una vecchia parola. Per capire è necessario compiere quella purificazione dei propri concetti e princìpi che Kant richiede da chi si avvicina al suo pensiero; purificazione della quale già parlava il forestiero d'Elea, e che se proprio non è, com'egli dice a Teeteto, la più dolce, è certo indispensabile a far sì che possiamo produrre in noi quella intima disposizione che ci metta in grado di non essere costretti a vedere dappertutto solo ciò che già conoscevano; che solo a questa condizione saremo in grado di capire il nuovo significato di ogni nuova parola ». La « purificazione dei propri concetti e princìpi » consisteva proprio nel rendere la mente idonea a una comprensione di un pensiero che non fosse un atto di ripetizione o l'osservare una tradizione, ma un atto di libero ripensamento. Il che era poi possibile proprio perché del pensiero umano si esaminavano gli interni confini esemplati nelle strutture logiche senza ricercare o proporre soluzioni estrinseche. Il pensiero, analiticamente ridotto ai suoi limiti, è già esso la « nuova parola », parla da sé. Tale la posizione del « capire » cui Scaravelli tenne fede per tutta la vita. E non a caso infatti nell'ultimo suo lavoro pubblicato (Osservazione sulla « Critica del Giudizio », Scuola Normale Superiore, Pisa, 1955) al termine della Prefazione scriveva: « E siccome ciò che a me, qui, interessa non è tanto il risultato della trasformazione, quanto il luogo teoretico, il punto critico in cui si coglie sul vivo l'acume e il rigore speculativo che viene operando questa trasformazione, è su questo punto critico che si concentrano queste mie osservazioni ». Questo cogliere « U punto critico » dell'opera era appunto il capire fatto metodo, l'aver appreso ad intendere e a comunicare il nuovo significato di una nuova parola. E questo Luigi Scaravelli ha fatto in modo esemplare in numerose ricerche che abbracciano il pensiero antico e moderno. Di tanto lavoro, condotto con lo scrupolo di chi non era mai disposto ad accettare un punto o un pensiero già detto, rimangono solo poche opere pubblicate. Ma chi con lui studiò ha ben presente la ricchezza di notazioni, il sottile e penetrante e minuto esame dei testi di Piatone e ài Cartesio, di Leibnitz, di Kant, di Hegel, di Gentile, del Croce compiuto da Scaravelli. E senza alcun dubbio la maggior parte

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Mario Corsi

della sua opera si condensò proprio nel suo insegnamento. Era un maestro nato. I suoi studenti di Pisa e di Roma (fu per due anni incaricato anche presso l'Università di Roma alla morte di Carabellese) ne han conservato impressione duratura. La sua lezione, mai divulgativa, era di un nitore e di una chiarezza da indurre anche il più pigro studente a riflettere sul problema in esame. E nell'insegnamento si realizzava quella sua disposizione alla comunicazione, al discutere e dibattere che costituiva come la sua vera natura. Era in questo instancabile. Dall'approfondimento di un pensiero traeva energie sempre nuove. In fondo questo era per lui parte integrante dello studio: il lavorare per capire. Raggiunto lo scopo il resto non aveva rilievo. Così il suo ritegno a pubblicare fu il ritegno di chi avvertiva al fondo della carta stampata l'ombra della vanità. Aperto all'intendimento dei più vari aspetti del pensiero umano, sapeva subito cogliere la presenza in un'opera di un vigore speculativo. Fu tra i primi a segnalare in Italia il pensiero di Heidegger (scrisse sul filosofo tedesco un articolo), e negli studi successivi alla Critica del Capire approfondì quei problemi di logica il cui studio lo aveva portato alla posizione del capire. Così venne riesaminando aspetti del pensiero kantiano nel Saggio sulla categoria kantiana della realtà (Firenze, Le Monnier, 1947), in un corso di lezioni tenute a Roma su l'Analitica dei Concetti, in un articolo sul problema degli incongruenti e nelle Osservazioni sulla Critica del Giudizio, e si soffermò sulla prima meditazione di Cartesio in un saggio praticamente inedito. Questi i lavori pubblicati o pronti per la stampa. Parte assai piccola di quella mole di materiale fatta di appunti, di annotazioni e sparse osservazioni ch'egli ha lasciato e che è sperabile possa essere utilizzata quando si provvederà alla ristampa dei suoi scritti. Ma su tutto è senza dubbio una lezione di grande serietà e se si vuole di moralità che questo studioso libero e antiaccademico ci ha lasciato. I valori della cultura nascono là dove trovano fertile terreno indipendentemente dalle pratiche funzioni che si esercitano. E quel che conta è contribuire a rafforzare quei valori senza concedere all'occasione e ai tempi. Agli studenti che gli esprimevano l'intendimento di fare un lavoro di tesi in un tempo ristretto egli ricordava, parafrasando le parole di Platone: « Per la filosofia occorre molto tempo ». Si tratta cioè di sentirla come un impegno di vita. MARIO CORSI

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APPENDICE II

LETTERE DI LUIGI SCARAVELLI Conservo di Luigi Scaravelli poche lettere, e questo perché per più anni continui furono i nostri incontri, il che rendeva superfluo il rapporto epistolare. E quasi me ne rammarico. Scaravelli aveva un gusto autentico per la corrispondenza epistolare; rispondeva subito, in maniera esauriente, sollecitava a sua volta risposte, e nelle lettere trasferiva la vivacità della sua comunicazione orale. Da queste lettere o brani di lettere credo che possa ricavarsi la caratteristica della sua conversazione, se non della sua lezione. Gli argomenti filosofici cui si fa cenno in questa corrispondenza sono (come chiarisco in nota alle lettere) o quelli di cui io mi occupavo fin dal periodo dei miei studi universitari o quelli che Scaravelli veniva, in quegli anni, affrontando. Il modo in cui egli li presenta, la lucidità sintetica dell'espressione, il dubbio problematico, la levità ironica mi sembra che rendano a vivo il suo gusto critico e la sua sensibilità. Fra poco saranno trascorsi vent'anni dalla sua morte, e nel pubblicare queste lettere ho voluto offrire agli studiosi alcuni documenti, pochi purtroppo, che meglio aiutino ad intendete la sua personalità, vincendo anche il ritegno che mi deriva dal ricordo del suo temperamento schivo e della sua riservatezza. MARIO CORSI Roma, febbraio 1976 Luglio 1948 Caro Corsi, quantunque il 29 io conti essere a Pisa, e poterti parlare a voce, voglio subito dirti che quel capovolgimento, specie di piccola rivoluzione copernicana, a pag. 11, 12, 13 del manoscritto che mi hai dato, mi sembra giusto !. 1

Si riferisce al mio lavoro su le origini del pensiero di Benedetto Croce cui allora attendevo. Cfr. M. Corsi, Le origini del pensiero di Benedetto Croce, Firenze, 1951, Napoli, 1974.

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Mario Corsi

Ma per quanto giusto, anzi appunto perché giusto andrebbe elaborato o almeno presentato un po' meglio (specialmente per quanto dici nella seconda metà di pag. 12). Per es. al rigo 16 quel « in rapporto alla struttura del soggetto o della realtà » detto così ex abrupto stona e per di più non convince. Ed invece sotto sotto è esatto. Ma questa esattezza va messa in luce prima, e non nella pagina successiva. * * * Quando Croce dice che il critico, nel giudicare un'opera, non la commisura al "concetto" filosofico ma al proprio ideale artistico, non si può vedere in questo una distinzione fra (falso) giudizio che è invece una semplice classificazione (giacché il predicato è dato) sul tipo dei giudizi artistici fatti tenendo per canone valutativo (= predicato) le opere greche o quelle del rinascimento, e giudizio autentico in cui il predicato non è un dato schema o modello (ed anche un « concetto filosofico » se è tenuto mentalmente presente come un termine di paragone diventa né più e né meno che un semplice « modello »), ma la stessa attività critica (quello che poi diventerà l'attività distinguente, cioè la filosofia sul serio, ossia storiografia)? Quello che nell'individuo si deve chiamare sensibilità, gusto, livello etico, livello culturale (non la cultura che uno volontariamente e intenzionalmente maneggia e sbandiera, ma quella che forma il suo fondo ed il suo essere), e che è ciò da cui parte il giudiao (artistico), è in concreto esattamente quella attività critico-storica che si chiama « forma dello spirito » (o forse meglio l'attività distinguente stessa, in cui, secondo me, consiste la nuova logica del Croce). Arrivederci a presto e care cose tuo Luigi Scaravelli Villa il Leccio Caldine (Firenze) 9 Agosto 1948 Caro Corsi le ultime pagine del tuo lavoro (che ti restituisco insieme alle precedenti), mi son sembrate buone. Anche la questione del linguaggio mi sembra che vada bene. Quantunque il mio giudizio su questo punto non possa avere un gran valore, perché è un problema che non ho ben guardato. Sicché dico che mi pare che vada bene, perché calza con l'insieme, e perché così come

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Appendice II

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tu la esponi da un senso più che accettabile; anzi convincente '. Un po' di riposo, come mi scrivi, ti farà bene oltre che per non collaborare con la canicola allo spappolamento della sostanza grigia, anche a dare un minimo di prospettiva al capitolo che stai scrivendo. Sicché fallo un po' lungo questo riposo; tanto più che l'argomento dev'essere quanto mai complicato, visto che comunque lo si rigiri il marxismo è un vero mare in burrasca. A proposito, ho letto l'articolo di Montale di cui mi hai parlato. Divertente, sebbene un po' pesante. Montale è poco adatto a scriver cose a sfondo politico, sia che le tratti in maniera seria, sia che le tratti in maniera umoristica o semi-umoristica... Quanto a quello che mi scrivi circa la mia lettera, non rammento bene ciò che ho detto. Ma siccome quello che dici te mi pare giustissimo, vuoi dire che se non l'avevo detto anch'io, o che dormicchiavo mentre scrivevo, o che ho scritto in maniera poco chiara. La modestia mi fa pendere per la prima interpretazione, il buon senso per la seconda. Ma comunque sia, la frase che tu scrivi « il concetto da ridarsi alla stregua dei canoni dei trattatisti », si presta ad equivoci. Non rammento bene, ripeto, cosa avevo scritto, ma all'ingrosso credo che si tratti di questo: se si prende quello che si suoi chiamare un concetto e lo si fa fare da predicato in un giudizio, si ottiene una « classificazione » bella e buona, e non un giudizio vero e proprio (nonostante il nome). Né questo atto è un giudizio storico, né quel concetto era un vero concetto. Per es., se un tizio sentenzia che l'Orlando è poesia perché è intuizione, questa sua sentenza è una semplice classificazione. E questo perché questo tizio acciuffa e maneggia le forme crociane bell'e fatte. E quando il predicato è qualcosa di fatto (o sfatto), la sua unione con un soggetto si chiama classificazione. Gli imitatori, si sa, non sono, in quanto imitatori, né critici, né storici, né filosofi. Ed il perché di questo, sta appunto nel fatto che adoperare le categorie di un altro messere è opera pratica. Tu continui, nel punto che ho interrotto: « se tale è nel fatto, tale non è nel pensiero del Croce » ecc. ecc. E la cosa è talmente evidente, che appunto questa evidenza è ciò che mi 1

Si tratta sempre di aspetti del mio studio su Croce.

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Mario Corsi

ha fatto pensare che devo essermi espresso molto male se non avevo detto anch'io proprio così. ...Auguri prima di tutto di buon riposo, e poi, con comodo, di buon lavoro. Luigi Scaravelli Forte dei Marmi 17 Agosto 1952 Caro Mario è un pezzo che non ho più tue notizie. Come va? Sei poi stato a Vienna? Ed ora ti tratterrai a Pisa, oppure girerai ancora per il mondo? Mi sapresti per caso dire dove si trova questa osservazione di Hume che ti trascrivo? Non che mi interessi molto saperlo, ma se tu la trovi senza fatica mi faresti piacere. Si tratta di una frase kantiana che si trova alla fine del paragrafo 80 della Critica del Giudizio: « Hume, a quelli che per tutti questi fini naturali (che stanno a fondamento d'un essere organizzato) trovano necessario ammettere un principio teleologia) del giudizio, vale a dire un intelletto architettonico, obbietta che con eguai diritto si potrebbe domandare loro com'è possibile un intelletto di questo genere; vale a dire, come si possono trovare riunite cosi opportunamente in un essere le diverse facoltà e proprietà che costituiscono la possibilità di un intelletto che possiede anche la potenza di eseguire ciò che concepisce ». In altre parole Hume dice: voialtri teleologi per spiegare come mai una grande molteplicità di elementi disparati si siano dati appuntamento tutti quanti nella unità filo d'erba (o qualunque altro essere organizzato) ricorrete ad un Essere Supremo nel quale si sono date appuntamento una molteplicità di facoltà differenti (come per esempio l'intelletto, la volontà, ecc.), le quali, per di più, vi si unificano in maniera miracolosa. Ma se non riuscite a spiegare il primo appuntamento che ricorrendo a questo secondo, come mi spiegate questo secondo appuntamento il quale per di più è una unità assoluta? La risposta di Kant è debole. Noi staremo qui al Forte con ogni probabilità tutto settembre. Se tu ti sentissi di venire a fare una gita dalla mattina alla sera mi faresti piacere. Fammelo sapere, che ti indicherei il modo migliore per incontrarci.

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Ricordami cordialmente alla tua Signora e abbiti un caro abbraccio Luigi Scaravelli Forte dei Marmi 8 Agosto 1953 Caro Mario [...] Quanto a quello che mi scrivi, che a voce si discorre meglio, hai perfettamente ragione. Infatti accenni a un dissenso: ma dato che la netta distinzione e opposizione fra rex extensa e res cogitans vien sostenuta da Cartesio, dato che l'incomprensibilità della res extensa vien sostenuta da tutti i critici, e che il fatto che fra la sua idea e la sua realtà non ci sia saldatura autogena (come nell'argomento ontologico) ma occorra lo « stagno » Dio è cosa affermata nella VI Meditazione, e dato inoltre che la sostanza vien ritenuta zeppa da Locke a Gentile, non mi è chiaro in cosa possa mai consistere un dissenso. Ne parleremo dunque a voce fra due o tre settimane... * * * Se gradisci un bel rompicapo cartesiano, eccotelo: Cartesio suda quattro camice nella 6a Meditazione a mostrare che lo spazio ha realtà; ne suda poi a dozzine a sostenere che io sono un impasto di pensiero ed estensione (si può dire anzi che non ne voglia sudar punte dichiarando che l'impasto è un'idea innata e semplicissima); o come mai, invece, non dedica neppure mezzo rigo a sostenere un impasto ancor più difficile a capire del consueto impasto pensiero-estensione. Parlo dell'impasto che si trova quasi al principio della 4° Meditazione. Dopo aver detto che io ho oltre l'idea di Dio anche l'idea del Nulla, passa di schianto, senza neppur un cenno di dimostrazione a sostegno di questo passaggio, a dichiarare ch'io sono a mezza strada fra Dio e il Nulla e che partecipo del Nulla. Cioè il nulla vien trasformato da idea in sostanza della mia sostanza. O che se io ho Videa della Chimera sono mezza chimera o partecipo della chimera?1 Come va questa faccenda? 2. Care cose Luigi Scaravelli 1 Questo è Spinoza!: la totalità dei modi è identica adunila della sostanza. 2 Scaravelli aveva pubblicato nel 1951 (senza peraltro diffondere la pubblicazione) il saggio su La prima meditazione di Cartesio (ora in L. Scaravelli, Opere, voi. I, Firenze 1968). La sua attenzione era però rivolta ad un'analisi di tutte le Meditazioni di Cartesio.

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Mario Corsi Forte dei Marmi 30 Agosto 1953

Giro Mario ... Per finire quello che ti dicevo al telefono l'altra sera, hai visto che la XII "Regola" non è affatto una regola? E' addirittura un sistema, in nuce, ma completo. L'enumerazioni, p. es., delle facoltà conoscitrici è uguale a quella data, tanti e tanti anni dopo, nelle risposte alle 6° obbiezioni. Non avendo il testo al Leccio, non ho potuto fare il raffronto (né l'ho qui); ma mi sembra che valga la pena tu guardi e veda se il secondo... elemento, l'immaginazione, è trattato in modo identico o no. Mentre per il senso e l'intelletto sono quasi sicuro che non ci sia differenza, per l'immaginazione mi pare di sì, sebbene non debba esser gran che. Il volume del Leblond che mi è arrivato, sulla logica ed il metodo in Aristotele, è molto interessante e ricco di spunti. Cari saluti Luigi Scaravelli Forte dei Marmi Agosto 1953 Caro Mario ha proprio ragione Croce quando sostiene che nei libri di filosofia v'è un lampo filosofia) e tutto il resto retorica. Son vari giorni che rigiro nella scatola cranica un'osservazioncella d'un paio di righe per cavarne fuori la migliore maniera di metterla in valore: miglior maniera = retorica. L'osservazioncella eccola qua: a coloro che strombazzano tanto il « giudizio riflettente » kantiano, vorrei citare il brano della Prima Introduzione, soppresso nella definitiva. N. B. la Prima Introduzione fu scritta dopo l'Analitica del Bello; ergo è tutt'altro che roba... giovanile e tirata giù in fretta, nel quale Kant, dopo aver fatto la famosa distinzione fra giudizio determinante e giudizio riflettente, inizia l'esposizione del giudizio riflettente dicendo che la riflessione l'hanno anche gli animali. * * * Mi sto scervellando sul 3° momento della Analitica del bello. E' un insieme di paragrafi più che doppio di quelli degli altri tre Momenti; e mentre gli altri sono molto omogenei, questi del terzo momento sono molto eterogenei. * * * Spero che la Nuova Italia arrivi a buttar fuori il primo vo-

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lume della Fenomenologia in tempo. Ricordati di parlarne. Vorrei, nell'ipotetico corso, far vedere come le sue tre parti corrispondano a una critica sottintesa delle tre parti della Critica della Ragion Pura; cioè: un esame della sensibilità (nel quale si sostiene, contro Kant, la non particolarità, non soggettività, non apriorità ecc. del sentire); un esame dell'intelletto (nel quale si sostiene, idem, la precarietà delle leggi formali della natura, la loro non fondamentalità ecc.)- Insemina, ci si serve di quella impalcatura per sfottere tutto. (E poi, S. Agostino permettendolo, si rimane sotto sotto fottuti proprio da quella impalcatura (la quale ha generato tanto il problema del « cominciamento » quanto quello dello sviluppo, superamento, e sinonimi). * * * Al Forte la cultura filosofica è così progredita che starnarli al caffè, il cameriere cui chiedevo se il caffè ben schiumoso che mi portava era fatto bene, mi ha amabilmente risposto (è un cameriere che è stato a lungo a Parigi, legge romanzi gialli francesi, e possiede bottiglie di cognac Napoléon autentico) « neanche Kant l'avrebbe fatto meglio ». E cosi posso morir tranquillo. La mia vita è stata bene spesa. * * * Per tornare a Kant: senti un po' come definisce nel par. 10 della Critica del Giudizio il piacere: invece di dire: è quello stato del soggetto che si vuoi mantenere; o magari è la coscienza d'uno stato che il soggetto tende a mantenere, Kant scrive: che il piacere, in generale, è « la coscienza della causalità che ha una rappresentazione rispetto allo stato del soggetto, e che ha per scopo di conservarlo in questo stato ». Cioè introduce, oltre allo stato del soggetto, una rappresentazione, ed in questa infilza la causalità; sicché, per provar piacere, bisognerebbe aver coscienza della rappresentazione, della a lei interna virtù causale, della efficacia di questa causa sul soggetto ecc. ecc. Per te che maneggi gli istintivi (inglesi) dev'essere una delizia questo arzigogolo kantiano1. La definizione è riportata spesso e sempre nello stesso modo (p. es. par. 12 « La coscienza della finalità puramente formale [...] suscitata da una rappresentazione [...] è il piacere stesso, perché essa implica una causa de1 Mi occupavo allora del pensiero di David Hutne, e su questo pensatore pubblicavo in quell'anno il breve saggio Natura e società in David Hume (Firenze 1953).

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Mario Corsi

terminante l'attività del soggetto [...] e quindi una causalità interna (che è finale) rispetto ecc. ecc. »). Rammento che una diecina d'anni fa, forse 11 o 12, quando feci il corso sulla Fondazione della Metafisica dei costumi fui colpito dalla complicazione con cui Kant definiva il piacere; e feci un eenco completo, in quell'opera, di tutte le definizioni (e simili) che ne dava. Tutte corrispondono fra loro, e, se ben ricordo, corrispondono a questa della Critica del Giudizio. ... Con cari saluti Luigi Scaravelli Forte dei Marmi 2 Settembre 1953 A mo' di Post Scriptum all'espresso di stamani. A proposito dello spazio, vorrei consigliarti di leggere, ma la fretta di cui mi parli mi rende perplesso e titubante..., l'articolo del Laporte « La conoscenza della estensione in Descartes » che può riuscirti di aiuto a corroborare un punto, analogo, del tuo scritto '. L'articolo del Laporte, ricorderai, è nella Revue Philosophique del Maggio-Agosto 1937. Il titolo è misleading (come dicono i commentatori inglesi di Kant), perché non tratta del modo di conoscere lo spazio in rerum natura, e nemmeno (se ben ricordo) se l'idea di spazio somigli allo spazio esistente o come possa farcelo conoscere; ma discute un altro problema (e qui l'analogia con alcune righe, importanti, del tuo scritto): come può sorgere in noi, dal nostro fondo, un'idea (l'estensione) di questo genere. La conclusione è ovvia (e non nuova, v. Gilson), ma sostenuta con polso ben fermo. Un essere dotato soltanto di intelletto non ha idea di spazio (gli angeli perciò, a imitazione di non pochi studenti, non sanno nulla di geometria), e neppure ne sa nulla un essere dotato di puro e solo pensiero. Solo l'uomo mistione di pensiero ed estensione può cavare dalla sua costituzione originaria quella idea. L'accenno, sebbene in nota, che fa il Laporte, dinanzi ad uno spazio valido solo per l'uomo (cioè confezionato), allo spazio forma della sensibilità m'è sembrato sfocato. Cari saluti Luigi Scaravelli

1

Si riferisce a un mio scritto su Cartesio non pubblicato.

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Forte dei Marmi (senza data) Caro Mario il tuo lavoro mi va. Mi sembra buono. Avrebbe bisogno d'un po' di stagionatura e poi d'esser limato e sagomato *. Ma tu mi scrivi che hai furia; e tra « furia » e « filosofia » c'è una contradizione tale che neppure il Dio di Cartesio, che pur è maestro nell'unificare contradittori, sarebbe capace di farli star insieme. In questo io sono d'accordo con quanto è detto nel Teeteto. Ti spedisco il manoscritto per raccomandata, con l'aggiunta di alcune osservazioni in fogli a parte. (Ho sottolineato nel testo qualche termine: parole che al mio orecchio ormai « vecchio » sembran stonate. Ma son sciocchezze). Data la contradizione accennata or ora e la sua insolubilità è inutile che ti dica in che e dove e perché e come le tue argomentazioni andrebbero elaborate meglio. Elaborazione che avrebbe anche il vantaggio di mantenersi dentro l'atmosfera cartesiana, cosa che qua e là vien meno. Sarebbe bene cercare un titolo che non prometta monti, qualcosa come l'opera del Laporte, e partorisca caprioli e gazzelle. E tu giustamente accenni a pubblicarla sotto forma di nota. Buon Hume. E molti cari saluti. tuo Luigi Scaravelli Roma (senza data) Caro Mario siccome Hegel si ferma subito, fin dai primi capoversi della Prefazione (alla Fenomenologia), su quella « posizione » che è la « seconda », e siccome sviluppa il lato positivo che contiene, sarebbe opportuno che tu, se puoi o se vuoi, restringessi per ora, la prima posizione a poche parole, e dedicassi tutt'e due le lezioni alla seconda, avvertendo i ragazzi che la prima e la terza la farai dopo, dato appunto che la Prefazione insiste particolarmente (per non dire unicamente) su l'equivalente di questa seconda posizione1. Se dai un'occhiata, infatti, alle pagine 90 e seg. del Verdone2, 1 2 2

Si tratta sempre del mio lavoro su Cartesio non pubblicato. Ero allora assistente di Luigi Scaravelli presso l'Università di Pisa. Scaravelli chiamava Verdone (per il colore verde della copertina) il volume di Enrico De Negri, I princìpi di Hegel edito da La Nuova Italia.

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ma anche a varie righe importantissime sparse nelle pagine precedenti, non finirai mai di vedere le mille trasformazioni cui va incontro l'Io kantiano e i suoi surrogati (la forma, il divenire, la pura negatività e simili). In fondo P80%, e forse più, della Prefazione è il salvataggio dell'apporto delle tre critiche viste in blocco come quelle che hanno messo sulla scena del mondo « la riflessione » (o « la forma »), ma che la hanno lasciata separata dalla « cosa stessa », invece di accorgersi che la « riflessione » fa tutt'uno con questa diabolica « cosa stessa », pur mantenendo, anzi appunto in quanto maniene la propria struttura di « forma » o di « riflessione formale ». Ma la mantiene solo se è connessa con « l'altro »; diversamente la « riflessione » si assottiglia nella astrattezza del vuoto Io, che è, orresco referens, puro vuoto « divenire in generale » (asserzione di Hegel stesso). Care cose Luigi Scaravelli Forte dei Marmi 21 10 1954 Caro Mario i futuri cronisti che stenderanno la mia biografia segneranno la notte dal 20 al 21 Ottobre come importante. Infatti, questa notte stavo rimuginando quel brano della lettera del 1772 scritta da Kant a Marcus Herz che da tutti i critici vien ritenuta la prima pietra della Critica della Ragion Pura. Il brano dice: « Quale è il fondamento su cui si basa la relazione tra ciò che noi chiamiamo rappresentazione (e che è in noi) e l'oggetto? ». Di questa rappresentazione Kant esamina nella Critica della Ragion Pura il rapporto che si instaura tra lei e l'oggetto. (Questa terminologia seguita a permanere, anzi è abbondantissima, anche nella terza Critica). Quanto all'altro punto, cioè al rapporto fra la rappresentazione e noi che ce la stiamo rappresentando, Kant in questa lettera (come del resto in tutta la prima Critica), se la cava dicendo che è una questione empirica; infatti è evidente che: « se la rappresentazione contiene solo il modo con cui il soggetto è affetto dall'oggetto, si capisce facilmente come questa rappresentazione possa esser conforme all'oggetto; essa vi è conforme come un effetto è conforme alla sua causa » (sempre nella stessa lettera a M. Herz). Perciò si considera dispensato (dopo quanto ha stabilito nella Dissertai io) da un ulteriore esame.

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Ebbene: secondo me, la Critica del Giudizio è proprio l'esame di questo rapporto tra rappresentazione e soggetto. (Cioè di quella metà del problema che ai tempi della lettera a Herz credeva già risolto e che per questa ragione non aveva preso in considerazione; mentre si era affaticato a risolvere l'altra metà: quella che va dalla rappresentazione all'oggetto) e precisamente come nella prima Critica Kant ha trovato princìpi a priori che rendono possibile il passaggio dalla rappresentazione all'oggetto (oppure la saldatura « rappresentazione-oggetto »), così nella terza Kant trova i princìpi a priori che rendono possibile quella « apprensione » ' della « rappresentazione » stessa, che i vari empiristi e Kant stesso riteneva questione priva d'importanza, perché di ordine meramente psicologico2. * * * Questa mattina ho ricevuto una seconda lettera di [...]. Senza volerlo mi costringe a diventare kirkegaardiano; ma, purtroppo, senza il famoso vino della Mosella ed i famosi beccaccini che l'angosciato pre-esistenzialista si portava con sé nei bei boschi della Danimarca e in quelli vicini al corso del Reno, quando andava, su carrozze tirate da pariglie di cavalli ornate di ricche sonagliere in argento, a fare quei pasti luculliani coi quali gettava le fondamenta (Grundlegungen) per edificarvi su sistemi di angoscia, buoni ad acchiappare i gonzi. Cari saluti Luigi Scaravelli Firenze 29 Ottobre 1956 Caro Mario pochi minuti fa ho ricevuto la tua lettera. Te ne ringrazio subito. [...]. Non ti scrivo a lungo: ti accenno solo che poco dopo la tua partenza sono andato a tener compagnia a... che beveva l'acqua di Montecatini. Ci siamo stati una settimana. Io, sembrava, andavo migliorando. Invece no. E al mio ritorno a Firenze mi sono fatto visitare. Dopo lunghe indagini ed esami della colesterina nel sangue... hanno sentenziato che sto male 1 «Apprensione (apprehensio) » sono termini usati diecine di volte da Kant nella Critica del Giudizio. 2 Scaravelli stava lavorando in questo periodo sulla Critica del Giudizio. L'anno successivo pubblicherà il saggio Osservazioni sulla Critica del Giudizio in cui vengono elaborati i motivi presentati in queste lettere. Cfr. Luigi Scaravelli, Opere, voi. II, Firenze 1968, 1973.

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Mario Corsi

(quasi non lo sapessi e non lo « sentissi » io stesso con evidenza perfino eccessiva), e che la pressione è alta, ma di tipo oscillante; cioè dovuta in parte al fegato (il tasso della colesterina è alto), e in parte al sistema nervoso. Per il fegato le cure ci sono, ma poco efficaci; per il sistema nervoso non ci sono. Che quelle che hanno tentato nel caso mio han fatto peggio, molto peggio. Sicché, ora come ora, sto piuttosto male, e prevedo che come Arangio Ruiz ' finirò per dover stare a letto per quegli schifosissimi anni che mi rimarranno da vivere. A meno che il sistema nervoso (nervoso com'è) non faccio un balzo tale da rimettermi in palla... Come vedi, dunque, sommando tutto, le mie condizioni sono nefaste. Un caro abbraccio; e goditi quel po' che c'è da godere fino a che sei giovane e non hai « concrezioni psichiche ». Luigi Scaravelli

1 Vladimiro Arangio Ruiz docente presso l'Università di Firenze e amico di Luigi Scaravelli.

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I N D I C E

Premessa di Mario Corsi

V

Giudizio e sillogismo in Kant e in Hegel

1

Tentativo di dedurre dal concetto di « finalità formale » la facoltà di produrre l'opera d'arte (cioè a dire il genio) . . .

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Appendice I

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Luigi Scaravelli di Mario Corsi

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Appendice II

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Tipografia SM • Roma

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Luigi Scaravelli, Giudizio e sillogismo in Kant e in Hegel, a cura di Mario Corsi, Cadmo editore, Roma 1976, pp. 88. Questo saggio di Luigi Scaravelli, il primo fra i lavori inediti che viene pubblicato, era stato intitolato dall'autore « II "sillogismo" di Hegel », titolo già frutto di un ripensamento, poiché il dattiloscritto porta anche un altro titolo in seguito cancellato, « Identità di giudizio e sillogismo ». Al curatore è parso però più rispondente all'argomento trattato il titolo che vi ha premesso. Vero è che si tratta di un abbozzo di lavoro, e può darsi che l'autore avesse in mente uno sviluppo che in seguito non ha realizzato, e con questa prospettiva ambedue i titoli hanno un senso. Non vi è infatti alcun dubbio che il problema affrontato nel saggio è proprio quello del modo in cui il rapporto giudiziosillogismo giunge a risolversi nel sillogismo hegeliano, e cioè nell'impianto dialettico. Larga parte del saggio però, ed è la parte più articolata e compiuta, è dedicata all'antefatto, cioè a Kant, mentre gli accenni a Hegel sono brevi e scarni, e inoltre la parte conclusiva del saggio, in cui l'autore si occupa più estesamente di Hegel, è meno elaborata delle precedenti. Tutto ciò spiega perché si è preferito modificare il titolo.

OPUSCOLI FILOSOFICI a cura di Antimo Negri. Anche sul terreno della cultura filosofica — intesa naturalmente In una sua articolazione organicamente interdiscìplinare in forza della quale la parte e II tutto si richiamino vicendevolmente —, vale talvolta, oggi, l'alessandrino « grosso libro, cattivo libro > In un'epoca in cui la lettura non coincide con l'« otium » o il tempo libero, occorre l'agilità della puntualizzazione problematica, la sveltezza non disattenta dello svolgimento tematico, la rapidità dell'argomentazione circostanziata Di qui II carattere dei contributi destinati a realizzare questa collana: saggi, opuscoli, testi essenziali, che mirano a collocare criticamente il filosofare contemporaneo avvertito in tutta la ricchezza della sua efficacia e nel suo libero, autonomo costituirsi giorno per giorno

Ut. 3.000

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