Iulius Paulus: Ad edictum libri IV-XVI 889132535X, 9788891325358, 9788891325372

The volume brings together the new results from the research on Paul's libri ad edictum. Books fourth to sixteenth

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Iulius Paulus: Ad edictum libri IV-XVI
 889132535X, 9788891325358, 9788891325372

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Scriptores ivris Romani direzione di Aldo Schiavone

13

IVLIVS PAVLVS AD EDICTVM LIBRI IV-XVI G. Luchetti M. Beggiato, S. Di Maria, F. Mattioli, I. Pontoriero, E. Pezzato

«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER

ERMA»

Scriptores ivris Romani, 13

Scriptores ivris Romani

direzione di Aldo Schiavone

Volumi pubblicati: 1. Quintus Mucius Scaevola. Opera Jean-Louis Ferrary, Aldo Schiavone, Emanuele Stolfi (2018) 2. Iulius Paulus. Ad edictum libri I-III Giovanni Luchetti, Antonio L. de Petris, Fabiana Mattioli, Ivano Pontoriero (2018) 3. Antiquissima iuris sapientia. Saec. VI-III a.C. Anna Bottiglieri, Annamaria Manzo, Fara Nasti, Gloria Viarengo. Praefatores Valerio Marotta, Emanuele Stolfi (2019) 4. Aelius Marcianus. Institutionum libri I-V Domenico Dursi (2019) 5. Callistratus. Opera Salvatore Puliatti (2020) 6. Iulius Paulus. Decretorum libri tres. Imperialium sententiarum in cognitionibus prolatarum libri sex Massimo Brutti (2020) 7. Aemilius Macer. De officio praesidis. Ad legem XX hereditatium. De re militari. De appellationibus Sergio Alessandrì (2020) 8. Cnaeus Domitius Ulpianus. Institutiones. De censibus Jean-Louis Ferrary, Valerio Marotta, Aldo Schiavone (2021) 9. Herennius Modestinus. Libri VI excusationum Alberto Maffi, Bernard H. Stolte, Gloria Viarengo (2021) 10. Papirius Iustus. Libri XX de constitutionibus Orazio Licandro, Nicola Palazzolo (2021) 11. Q. Cervidius Scaevola. Quaestionum libri XX Alessia Spina (2021) 12. Iulius Paulus. Ad Neratium libri IV Gianni Santucci, Paolo Ferretti, Marina Frunzio, Alvise Schiavon (2021) 13. Iulius Paulus. Ad edictum libri IV-XVI Giovanni Luchetti, Martina Beggiato, Sabrina Di Maria, Fabiana Mattioli, Elena Pezzato, Ivano Pontoriero (2022)

Scriptores ivris Romani direzione di Aldo Schiavone 13

IVLIVS PAVLVS AD EDICTVM LIBRI IV-XVI

Giovanni Luchetti Martina Beggiato, Sabrina Di Maria, Fabiana Mattioli, Elena Pezzato, Ivano Pontoriero

«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER Roma - Bristol

European Research Council Advanced Grant 2014 / 670436

Scriptores iuris Romani Principal Investigator Aldo Schiavone, Sapienza - Università di Roma Host Institution Sapienza - Università di Roma, Dipartimento di Scienze giuridiche Senior Staff / Comitato editoriale Oliviero Diliberto, Sapienza - Università di Roma Andrea Di Porto, Sapienza - Università di Roma Valerio Marotta, Università di Pavia Fara Nasti, Università della Calabria Emanuele Stolfi, Università di Siena Direzione della collana Aldo Schiavone Coordinamento editoriale e della redazione Fara Nasti Redazione del volume Martina Beggiato, Sergio Castagnetti, Elena Pezzato Volume sottoposto a doppia peer review © Copyright «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER® 2022 Via Marianna Dionigi 57 00193, Roma - Italy www.lerma.it

70 Enterprise Drive, Suite 2 Bristol, Ct 06010 - USA [email protected]

Sistemi di garanzia della qualità UNI EN ISO 9001:2015 Sistemi di gestione ambientale ISO 14001:2015

Scriptores iuris Romani.13. -1(2022) Roma: «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER, 2022. -v.; 24 cm. ISBN CARTACEO: 978-88-913-2535-8 ISBN DIGITALE: 978-88-913-2537-2 ISSN: 2612-503X CDD 349.37 1. Diritto romano

INDICE

VI IX

Attribuzioni Premessa

I AD EDICTUM LIBRI IV-XVI FRAGMENTA

2

II

COMMENTO AI TESTI Prospetto palingenetico riassuntivo LIBRO IV LIBRO V LIBRO VI LIBRO VII LIBRO VIII LIBRO IX LIBRO X LIBRO XI LIBRO XII LIBRO XIII LIBRO XIV LIBRO XV LIBRO XVI

89 97 110 119 129 132 148 176 182 223 245 268 272 276

APPARATI E INDICI Bibliografia Abbreviazioni Giuristi citati Fonti antiche

281 335 337 339

ATTRIBUZIONI

Giovanni Luchetti, oltre che della premessa, è autore del commento al libro quattordicesimo dell’ad edictum. È di Sabrina Di Maria il commento ai libri dal quarto al settimo. Fabiana Mattioli è autrice del commento ai libri dall’ottavo al decimo. È di Ivano Pontoriero il commento ai libri undicesimo e dodicesimo e la redazione del prospetto palingenetico riassuntivo. Elena Pezzato è autrice del commento al libro tredicesimo. Martina Beggiato si è occupata del commento ai libri quindicesimo e sedicesimo. I singoli autori hanno altresì approntato l’apparato critico che accompagna i fragmenta del cui commento si sono occupati e la relativa traduzione. La responsabilità delle scelte di carattere palingenetico effettuate in questo volume deve essere riconosciuta, per le rispettive parti, agli autori del commento.

VII

PREMESSA

Si pubblica in questo volume una seconda sezione dei libri ad edictum di Paolo. L’indagine riguarda i libri dal quarto al sedicesimo, così concludendo l’analisi della trattazione paolina della prima parte dell’editto che, come è noto, terminava, secondo la ricostruzione leneliana, con l’esame del titolo quibus causis praeiudicium fieri non oportet (E. XIII)1. Si tratta di una parte dell’editto strettamente connessa con il processo formulare e più specificamente riguardante la fase in iure, dopoché, nei titoli iniziali (dal I al IV), si erano affrontati i temi della giurisdizione in generale (e, in particolare, di quella municipale), nonché, in una logica ancora tutta preliminare rispetto all’avvio del processo, l’editio actionis e i patti, questi ultimi evidentemente funzionali a superare, in una logica transattiva, il contrasto tra le parti prima di sottoporre la controversia al magistrato attraverso il ricorso all’in ius vocatio. Con lo svolgersi della prima fase del processo sono da ricollegare i titoli dal V all’VIII, dove, nell’ultimo, la stessa trattazione della negotiorum gestio, almeno nel suo nucleo originario, risultava funzionale alla difesa di coloro che, in quanto absentes, potessero altrimenti risultare indefensi. In questo contesto si pone anche la trattazione dei titoli immediatamente successivi, quello de calumniatoribus (E. IX), che intende impedire comportamenti volti a intraprendere la via giudiziaria illegittimamente e in forma abusiva e quello dedicato alle restitutiones in integrum (E. X), con cui si intendevano invece rimuovere, in ragione dell’equità, gli effetti di atti da considerarsi altrimenti stricto iure vincolanti. Nella logica di evitare il processo si muove altresì il titolo edittale de receptis (E. XI) in cui il ricorso al compromissum e la designazione di

1 Cfr. Lenel 1927, in specie 33 s., che sottolinea a questo proposito l’esistenza di una cesura fra il titolo quibus causis praeiudicium fieri non oportet (E. XIII) e quello successivo de iudiciis (E. XIV), con cui iniziava la trattazione degli strumenti di tutela ordinaria. Diversamente Krüger 1905, 898, che piuttosto include nel titolo de iudiciis già la trattazione dei praeiudicia, facendo terminare la prima pars edicti con la trattazione delle satisdationes e quindi con il quattordicesimo dei libri ad edictum di Paolo. L’ipotesi prospettata da Krüger è astrattamente plausibile perché in effetti la trattazione dei praeiudicia si pone come spartiacque fra la prima e la seconda parte della trattazione edittale e quindi può ragionevolmente collocarsi anche all’inizio della pars de iudiciis. Un argomento contrario, probabilmente decisivo, sta tuttavia nella ripartizione della materia nei libri ad edictum di Ulpiano, in cui l’assegnazione della trattazione dei praeiudicia alla pars de iudiciis spezzerebbe, del tutto inopportunamente, la continuità del quattordicesimo libro.

IX

Giovanni Luchetti un arbitro si collocano nella logica di favorire una soluzione stragiudiziale della lite, mentre le clausole relative al receptum nautarum e al receptum argentariorum risultano invece ricondotte al titolo, in una sorta di associazione di idee, per il semplice fatto che il verbo recipere anche in esse evidenzia comunque l’assunzione di un obbligo. Chiudono questa prima parte il titolo de satisdando (E. XII), che riguarda i provvedimenti di garanzia volti ad assicurare l’efficacia pratica del iudicium e appunto il già ricordato titolo quibus causis praeiudicium fieri non oportet (E. XIII), destinato invece a definire la corretta sequenza dei giudizi. Si tratta di una parte in cui la trattazione paolina doveva risultare leggermente più ampia di quella ulpianea in cui l’esame della prima pars edicti doveva arrestarsi invece al quattordicesimo libro2. Di questa leggera prevalenza quantitativa non vi è tuttavia particolare riscontro nei materiali superstiti delle due opere, considerato che, per quanto riguarda i commentari edittali, i compilatori, come ben sappiamo, utilizzarono come prevalente testo di riferimento i libri ad edictum di Ulpiano3. Rispetto a questo schema i libri qui considerati non fanno eccezione e anzi sono assai numerosi i casi in cui i compilatori innestano sul testo del commentario ulpianeo frammenti tratti dal commentario di Paolo spesso (anche se non sempre) brevissimi, limitati talvolta a pochissime parole, circostanza che rende, almeno a tratti, la ricostruzione contenutistica e palingenetica dell’opera paolina fortemente debitrice del corrispondente testo del giurista di Tiro4. Pur con questo limite l’indagine qui condotta ha permesso di ripensare almeno alcune delle ipotesi ricostruttive formulate da Lenel. Gli scostamenti rispetto alla Palingenesia sono peraltro

2 Sul piano quantitativo, la rilevata differenza tra l’estensione della trattazione dei due grandi commentari di epoca severiana è resa evidente dalla successione delle materie affrontate nel quattordicesimo libro ad edictum di Ulpiano. Salvo l’inizio del titolo de receptis, già collocato nel tredicesimo libro, nel quattordicesimo libro doveva figurare, oltre che gran parte della trattazione dei recepta, anche quella dei titoli de satisdando (E. XII) e quibus causis praeiudicium fieri non oportet (E. XIII). Quest’ultima, in Paolo, doveva invece da sola occupare i libri quindicesimo e sedicesimo. 3 Un uso equilibrato fra le due opere si riscontra con riferimento a questa prima parte dei libri ad edictum solo nel titolo 2.14 del Digesto, da cui sono tratti numerosi frammenti paolini del terzo libro, fra cui il testo assai ampio di D. 2.14.27 (F. 51), cfr. Pontoriero 2018, 183 ss. In ogni caso sono davvero pochi i frammenti dei libri ad edictum di Paolo di estensione particolarmente rilevante nella parte iniziale. A questo proposito un’altra significativa eccezione è costituita dal testo amplissimo di Paul. 13 ad ed., D. 4.8.32 (F. 192), su cui v. infra 255 ss. Peraltro anche quando, come in D. 2.8, per limitarmi a indicare un altro titolo del Digesto in cui sono inseriti vari frammenti riconducibili alla prima parte della trattazione edittale di Paolo (cfr. Paul. 4 ad ed., D. 2.8.4 [F. 60]; Paul. 6 ad ed., D. 2.8.16 [F. 74]; Paul. 12 ad ed., D. 2.8.6 [F. 171]; Paul. 14 ad ed., D. 2.8.8 [F. 199]), i frammenti di quest’ultimo risultano relativamente numerosi, essi comunque hanno una funzione essenzialmente integrativa e di complemento rispetto a quelli tratti dal commentario ulpianeo. 4 Si tratta di un fenomeno che, per quanto già riscontrabile nel caso di frammenti tratti dai libri precedenti (cfr. Paul. 3 ad ed., D. 2.13.5 [F. 36] e Paul. 3 ad ed., D. 2.14.11 [F. 46]), risulta ripetersi con insistenza nei libri dal quinto al tredicesimo, con punte di particolare frequenza nell’ottavo, nell’undicesimo e nel tredicesimo: cfr. Paul. 5 ad ed., D. 3.2.5 [F. 65] e D. 3.1.4 [F. 70]; Paul. 6 ad ed., D. 3.3.6 [F. 73]; Paul. 8 ad ed., D. 3.3.4 [F. 90], D. 3.2.16 [F. 98], D. 3.3.11 [F. 99], D. 3.3.36 [F. 101], D. 3.3.20 [F. 103], D. 3.3.24 [F.105] e D. 3.3.26 [F. 106]; Paul. 9 ad ed., D. 3.3.45 [F. 112], D. 3.4.4 [F. 114], D. 3.4.6pr.-2 [F. 115] e D. 3.5.6(7) [F. 117]; Paul. 11 ad ed., D. 4.2.15 [F. 133], D. 4.7.5 [F. 135], D. 4.3.2 [F. 137], D. 4.3.4 [F. 138], D. 4.3.10 [F. 139], D. 37.15.6 [F. 140], D. 4.3.12 [F. 141], D. 4.3.22 [F. 146] e D. 4.4.10 [F. 151]; Paul. 12 ad ed., D. 27.6.8 [F. 166] e D. 4.6.6 [F. 167]; Paul. 13 ad ed., D. 4.8.10 [F. 183], D. 4.8.16 [F. 184], D. 4.8.22 [F. 186], D. 4.8.24 [F. 188], D. 4.8.26 [F. 189] e D. 4.8.12 [F. 192]. Sono innesti al commento all’editto provinciale di Gaio, invece, oltre a Paul. 3 ad ed., D. 2.14.19 [F. 50], Paul. 8 ad ed., D. 3.3.22 [F. 104], Paul. 11 ad ed., D. 4.3.27 [F. 149] e D. 4.5.9 [F. 160]. Diversamente Paul. 4 ad ed., D. 2.6.3 [F. 59] segue un frammento del primo dei libri ad edictum monitorium di Callistrato.

X

Premessa nel complesso molto più limitati di quelli riscontrati nei primi tre libri e sono essenzialmente concentrati nel sesto, settimo e nono libro. Più in dettaglio, quanto ai primi due, si è tentato di dare una collocazione più precisa ai frammenti conservati in Paul. 6 ad ed., D. 50.17.102.2-4 e D. 26.8.17 [F. 80-83], che qui si ritengono posti a commento della clausola de eo, per quem factum erit, quo minus quis vadimonium sistat (E. 23), nonché a quelli inseriti in Paul. 7 ad ed., D. 48.6.9, D. 50.16.14 e D. 4.1.5 [F. 84-87], per i quali si ipotizza che la clausola commentata fosse quibus ex causis vadimonia recuperatoribus suppositis fiant (E. 24). Per quanto riguarda invece il nono libro si è ritenuto, per non amplificare la discontinuità fra le varie parti di Paul. 9 ad ed., D. 3.3.43 e D. 3.4.6 [rispettivamente F. 110-111 e F. 115-116] e per tentare di superare sotto questo profilo un evidente difetto della ricostruzione leneliana, di poter modificare l’ordine edittale anteponendo la trattazione dell’editto de defendendo eo, cuius nomine quis aget, et de satisdando (che diventa E. 31) a quella dell’editto quibus municipum nomine agere liceat (che, posposto, risulta essere E. 32) nel cui commento è stato altresì anteposto, rispetto agli altri, il testo di D. 50.16.18 [F. 113]5. Anche a una analisi più approfondita si confermano alcune delle caratteristiche dell’opera paolina che abbiamo già avuto occasione di evidenziare. Nel complesso dei primi sedici libri i giuristi più diffusamente citati risultano Labeone, Giuliano e Pomponio, le cui opere (mi riferisco ovviamente ai commentari ad edictum di Labeone e Pomponio e ai digesta giulianei) erano evidentemente più di tutte tenute in considerazione dal giurista severiano, quasi costantemente aperte sul suo “tavolo di lavoro”6. Un ruolo importante è altresì riconosciuto a Sabino e, comprensibilmente, a Pedio, la cui opinione è peraltro non sempre condivisa7, così

5 Sempre nel nono libro si è ritenuto di poter assegnare al commento edittale il testo di D. 3.5.18(19).1-5 [F. 121], che nell’inscriptio è invece attribuito al secondo dei libri ad Neratium. Nell’undicesimo libro, nell’ambito del commento alla clausola de dolo malo (E. 40), si è ritenuto di poter altresì anteporre D. 6.1.7 [F. 148] a D. 4.3.27 e 29 [rispettivamente F. 149 e F. 150]. Nel tredicesimo libro, infine, una modifica minore riguarda lo spostamento, di D. 50.17.121 [F. 187], anteposto, nell’ambito del commento all’editto qui arbitrium receperint, ut sententiam dicant (E. 48), rispetto a quanto ipotizzato da Lenel che lo poneva piuttosto in coda al commento della stessa clausola edittale. Per entrambe le proposte palingenetiche v. già Krüger 1905, 898. 6 Quanto alle citazioni di Labeone, oltre a quelle già presenti in Paul. 2 ad ed., D. 2.1.6 [F. 27] e D. 50.16.5 [F. 22]; Paul. 3 ad ed., D. 2.14.2 [F. 42], D. 2.14.25.1 [F. 50] e D. 2.14.27pr. [F. 51], v. Paul. 4 ad ed., D. 2.4.11 [F. 57]; Paul. 7 ad ed., D. 50.16.14pr. [F. 85]; Paul. 9 ad ed., D. 3.3.43.6 [F. 111]; Paul. 2 ad Nerat., ma 9 ad ed., D. 3.5.18(19).2 [F. 121]; Paul. 11 ad ed., D. 4.3.20 [F. 145]; Paul. 12 ad ed., D. 4.6.13 [F. 168], D. 4.6.22 [F. 172], D. 41.3.8pr. [F. 173] e D. 27.6.2 [F. 163]; Paul. 13 ad ed., D. 4.8.19pr. [F. 185]. Per quelle di Pomponio, oltre alle tre già presenti nel terzo libro (D. 2.1.9 [F. 29], D. 2.13.9 [F. 37], D. 2.14.17.5 [F. 50]), cfr. Paul. 4 ad ed., D. 2.7.4 [F. 62]; Paul. 6 ad ed., D. 2.9.2.1 [F. 77]; Paul. 9 ad ed., D. 3.5.14(15) [F. 119] e D. 17.1.40 [F. 123]; Paul. 11 ad ed., D. 4.2.21.2 [F. 134] e D. 4.4.14 [F. 152]; Paul. 12 ad ed., D. 6.1.8 [F. 177]; Paul. 16 ad ed., D. 50.17.124.1 [F. 202]. Infine per i riferimenti a Giuliano, oltre ai sette già presenti nei primi tre libri (Paul. 1 ad ed., D. 2.4.19 [F. 6] e D. 50.8.9(7) [F. 9]; Paul. 3 ad ed., D. 2.14.4.2 [F. 43], D. 2.14.15 [F. 48], D. 2.14.17.4 [F. 50], D. 2.14.21.2 [F. 50] e D. 2.14.25.2 [F. 50]), v. Paul. 6 ad ed., D. 2.9.2.1 [F. 77]; Paul. 9 ad ed., D. 3.3.45.2 [F. 112] e D. 3.5.12(13) [F. 118]; Paul. 11 ad ed., D. 4.3.20 [F. 145] e D. 4.5.7.2 [F. 158]; Paul. 12 ad ed., D. 41.3.8pr. [F. 173] e D. 27.6.6 [F. 165], Paul. 13 ad ed., D. 4.8.19pr. [F. 185], D. 4.8.32.6 [F. 192] e D. 4.8.32.16 [F. 192]. 7 Per Masurio Sabino, già citato in Paul. 2 ad ed., D. 18.5.6 [F. 25] e in Paul. 3 ad ed., D. 2.14.17.5 [F. 50], cfr. Paul. 6 ad ed., D. 2.10.2 [F. 79]; Paul. 7 ad ed., D. 50.16.14pr. [F. 85]; Paul. 9 ad ed., D. 3.3.45pr. [F. 112]; Paul. 2 ad Nerat., ma 9 ad ed., D. 3.5.18(19).1 [F. 121]; Paul. 11 ad ed., D. 4.3.29 [F. 150]; Paul. 12 ad ed., D. 27.6.8 [F. 166]; Paul. 13 ad ed., D. 4.8.19.2 [F. 185]. Quanto a Sesto Pedio v. invece Paul. 11 ad ed., D. 6.1.7 [F. 148]; Paul. 12 ad ed., D. 41.3.8.1 [F. 173]; Paul. 13 ad ed., D. 4.8.32.16 e 20 [F. 192]; Paul. 14 ad ed., D. 2.8.8pr. [F. 199]. Peraltro va segnalato che l’atteggiamento nei confronti di Pedio appare, sia in Paul. 13 ad ed., D. 4.8.32.20 [F. 192] che in Paul. 14 ad ed., D. 2.8.8pr. [F. 199], di critica, severa nel primo caso (cfr., per gli aspetti stilistici e temperamentali di Paolo, Luchetti 2018, 39 e nt. 6), più velata e apparentemente sotterranea nel secondo.

XI

Giovanni Luchetti come sono piuttosto numerose le citazioni dei giuristi del I secolo d.C. (o al più dell’inizio del II secolo) e non mancano riferimenti alla giurisprudenza tardorepubblicana8. Poco presenti, con l’ovvia e già menzionata eccezione di Giuliano e di Pomponio, sono invece i giuristi del II secolo d.C., fatte salve tre citazioni di Nerazio, due di Vindio e una di Marcello, oltre che tre delle quattro citazioni di Cervidio Scevola riscontrabili nei libri ad edictum paolini9, circostanza quest’ultima che potrebbe costituire un indizio di una relativa maggiore utilizzazione dei lavori del maestro di Paolo nella prima parte dell’opera, il che potrebbe deporre – ma si tratta però di congettura fondata su argomenti da considerarsi statisticamente non significativi – per una maggiore influenza dell’opera di Scevola nella prima parte del commentario edittale. Si conferma inoltre l’idea che la stessa utilizzazione delle opinioni giurisprudenziali sia, almeno in prevalenza, strettamente funzionale a sostenere, in chiave argomentativa e rafforzativa, il pensiero esposto dal giurista, in un rapporto che si vuole dimostrare di continuità con il passato e in cui solo a tratti emergono, in chiave dialettica, aspetti di ius controversum10. Infine, la gran parte delle citazioni, tranne sei, contengono esclusivamente il nome del giurista senza riferimento all’opera, caratteristica questa diffusa in tutto il commentario paolino con frequenza che, rispetto ai primi libri, si accentua progressivamente in modo significativo nel prosieguo dell’opera11.

8 Quanto ai giuristi del I secolo d.C., cfr. le citazioni di Cassio (oltre a Paul. 1 ad ed., D. 44.7.35 [F. 2], v. Paul. 13 ad ed., D. 4.8.19.2 [F. 185]), di Proculo (oltre a Paul. 1 ad ed., D. 50.16.4 [F. 11]; Paul. 3 ad ed., D. 2.14.21.2 [F. 50] e D. 2.14.27pr. [F. 51], v. Paul. 9 ad ed., D. 3.5.17[18] [F. 120]), di Atilicino (oltre a Paul. 3 ad ed., D. 2.14.27pr. [F. 51], v. Paul. 9 ad ed., D. 3.3.43.5 [F. 111]), di Pegaso (Paul. 9 ad ed., D. 3.5.17(18) [F. 120]) e, più tardi, di Viviano (Paul. 13 ad ed., D. 4.9.4.2 [F. 196]) e di Ottaveno (oltre a Paul. 3 ad ed., D. 2.1.9 [F. 29], v. Paul. 6 ad ed., D. 6.1.6 [F. 76]; Paul. 13 ad ed., D. 4.8.32.8 [F. 192]). Quanto ai giuristi repubblicani, sono citati Ofilio (Paul. 4 ad ed., D. 47.10.23 [F. 53]; Paul. 6 ad ed., D. 2.10.2 [F. 79]), Servio e Alfeno (entrambi in Paul. 9 ad ed., D. 3.5.20[21]pr. [F. 122]) e altresì Trebazio (Paul. 11 ad ed., D. 4.3.18.3 e 4 [F. 144]), la cui opinione, nel primo dei due testi, nel contesto di una digressione relativa alla sussidiarietà dell’actio doli, viene peraltro severamente criticata. 9 Per le citazioni di Nerazio, di cui una era già inserita nel terzo libro (v. Paul. 3 ad ed., D. 2.14.27pr. [F. 51]), cfr. Paul. 9 ad ed., D. 3.5.17(18) [F. 120] e Paul. 12 ad ed., D. 41.3.8pr. [F. 173]. Quelle di Vindio sono entrambe in Paul. 6 ad ed., D. 2.9.2.1 [F. 77]. Quella di Marcello è in Paul. 11 ad ed., D. 4.4.23 [F. 153]. Le tre citazioni di Cervidio Scevola sono la prima già in Paul. 3 ad ed., D. 2.14.27.2 [F. 51], le altre due in Paul. 2 ad Nerat., ma 9 ad ed., D. 3.5.18(19).1 [F. 121] e in Paul. 11 ad ed., D. 4.4.24.2 [F. 154]. La quarta citazione è inserita molto più avanti nel cinquantottesimo libro in un frammento conservato in D. 42.5.6.2. 10 In questo senso v. i testi già ricordati di Paul. 11 ad ed., D. 4.3.18.3 [F. 144], Paul. 13 ad ed., D. 4.8.32.20 [F. 192] e Paul. 14 ad ed., D. 2.8.8pr. [F. 199], laddove, in maniera più o meno netta, si criticano le opinioni di Trebazio e di Pedio. Un altro caso interessante è quello di Paul. 12 ad ed., D. 41.3.8 [F. 173] in cui si dà conto in modo articolato dell’elaborazione giurisprudenziale, richiamando il punto di vista di Labeone, Nerazio, Giuliano e Pedio. In Paul. 12 ad ed., D. 4.6.13 [F. 168], alla citazione adesiva della rigorosa interpretazione offerta da Labeone, segue invece l’enunciazione del punto di vista di Paolo, con impostazione fortemente personalistica. Ancora in Paul. 12 ad ed., D. 6.1.8 [F. 177], si richiama in modo circostanziato un’opinione espressa da Pomponio nel trentaseiesimo libro del suo commento, alla quale segue una precisazione paolina. Un caso qui da segnalare è anche quello di Paul. 9 ad ed., D. 3.5.17(18) [F. 120] in cui viene riportata un’opinione condivisa da Proculo, Pegaso e Nerazio, da cui il giurista severiano prende però le distanze alla luce di Paul. 2 ad Nerat., D. 3.5.18(19)pr. Un confronto di opinioni che riguardava Labeone e Sabino è infine in Paul. 9 ad ed., D. 3.3.43.6 [F. 111] e D. 3.3.45 [F. 112]. 11 I testi sono quelli di Paul. 3 ad ed., D. 2.1.9 [F. 29] (Pomponius libro decimo notat); Paul. 9 ad ed., D. 3.5.14(15) [F. 119] (Pomponius libro vicensimo sexto... ait) e D. 3.5.20(21)pr. [F. 122] (ut est relatum apud Alfenum libro trigensimo nono digestorum); Paul. 12 ad ed., D. 6.1.8 [F. 177] (Pomponius libro trigensimo sexto probat); Paul. 13 ad ed., D. 4.8.19pr. [F. 185] (Iulianus scribit libro quarto digestorum) e di Paul. 16 ad ed., D. 50.17.124.1 [F. 202] (Pomponius libro primo epistularum scribit). I casi in cui Paolo menziona nei libri ad edictum l’opera del giurista citato sono anche nei libri

XII

Premessa Il dialogo con l’attività normativa del princeps è invece assai limitato. I riferimenti sono appena tre. Più precisamente si tratta di Paul. 8 ad ed., D. 3.2.10 (Solet a principe impetrari…) [F. 97], di Paul. 11 ad ed., D. 4.4.10 (nisi ex magna causa hoc a principe fuerit consecutus) [F. 151] e di Paul. 11 ad ed., D. 50.16.21 (Princeps ‘bona’ concedendo…) [F. 159], mentre l’unico richiamo specifico a una costituzione imperiale è a una subscriptio citata in Paul. 13 ad ed., D. 4.8.32.14 (…imperator Antoninus subscripsit…) [F. 192], la cui attribuzione a Caracalla, in questa ricerca ammessa con cautela, rimane peraltro non indiscussa12. Altrettanto limitata è la citazione di senatoconsulti che si riduce all’unico caso presente in Paul. 8 ad ed., D. 3.3.42.3 [F. 94] con riferimento al Senatoconsulto Trebelliano. Da tutto quanto fin qui osservato pare potersi considerare confermata l’idea che Paolo si muova, nel suo commentario edittale, in una logica in cui poco emergono le innovazioni normative dovute al principe o all’attività del senato e in cui si esprime invece, nel solco della tradizione, il confronto con il sapere dei giuristi che lo avevano preceduto. Peraltro la giurisprudenza del passato, che è essenzialmente quella del primo Principato inevitabilmente “aggiornata” alla luce dei libri ad edictum di Pomponio e dei digesta giulianei, fatte salve alcune eccezioni che riguardano la giurisprudenza della tarda Repubblica e quella più recente, ha sì lo scopo di ricordare l’importanza di un’esperienza antica e plurisecolare, ma rimane, nella confermata autonomia di approccio di Paolo, essenzialmente funzionale a rafforzare il convincimento del lettore riguardo alla bontà delle soluzioni prospettate di volta in volta dal giurista. g.l. Bologna, novembre 2021

successivi pochi e comunque concentrati nella prima metà dell’opera: cfr. Paul. 17 ad ed., D. 42.1.36 (Pomponius libro trigensimo septimo ad edictum scribit); Paul. 21 ad ed., D. 6.1.21 (Pomponius libro trigensimo nono ad edictum scribit e Pomponius libro trigensimo quarto variarum lectionum probat); Paul. 28 ad ed., D. 12.1.6 (Pedius libro primo de stipulationibus... ait); Paul. 29 ad ed., D. 13.7.16.1 (Marcellus libro sexto digestorum scribit); Paul. 32 ad ed., D. 17.2.65.5 (Labeo autem posteriorum libris scripsit); Paul. 33 ad ed., D. 18.6.8pr. (Pomponius libro nono probat); Paul. 38 ad ed., D. 26.1.1.3 (plerique et Pomponius libro sexagesimo nono ad edictum probant); Paul. 40 ad ed., D. 38.1.18 (Sabinus ad edictum praetoris urbani libro quinto scribit); Paul. 41 ad ed., D. 37.1.6.2 (Pedius libro vicesimo quinto ad edictum scribit) e D. 37.6.2.5 (Gaius Cassius libro septimo iuris civilis... putat). 12 Quanto all’attribuzione della subscriptio menzionata in Paul. 13 ad ed., D. 4.8.32.14 [F. 192] a Caracalla, cfr. Arcaria 2000, 256 nt. 206 e de Petris 2018, 31. Secondo Pergami 2007, 136 nt. 3 (= 2011, 391 nt. 3), il riferimento al nome dell’imperatore riguarderebbe invece Antonino Pio. Sul punto cfr. anche infra 261, n. 741.

XIII

I AD EDICTUM LIBRI IV-XVI

FRAGMENTA* AD EDICTUM LIBRI LXXX (AD EDICTUM PRAETORIS LIBRI LXXVIII.

AD EDICTUM AEDILIUM CURULIUM LIBRI II)

Liber IV

[De in ius vocando (E. V)]

52. D. 2.4.1 (Lenel 129) In ius vocare est iuris experiundi causa vocare.

* Per le espunzioni, nel corpo del testo, sono stati usati i simboli [ ], per le integrazioni i simboli < >. L’apparato critico dà conto dei casi in cui il testo adottato da Mommsen nell’editio maior, che qui si segue, tenendo in considerazione la retractatio di Krüger, differisce da quello della littera Florentina. Si sono poi tenute presenti le proposte formulate da Lenel nella Palingenesia iuris civilis e le annotazioni contenute nella dodicesima edizione stereotipa del Digesto (Krüger 1911). Nei pochissimi casi in cui sono state accolte ulteriori ipotesi di alterazioni testuali tardoantiche e giustinianee, sono stati indicati i riferimenti storiografici. Per le abbreviazioni e i segni diacritici, cfr. Mommsen 1870.I, LXXXXIV ss.

2

FRAMMENTI OTTANTA LIBRI SULL’EDITTO (SETTANTOTTO LIBRI SULL’EDITTO DEL PRETORE. DUE LIBRI SULL’EDITTO DEGLI EDILI CURULI)

Libro IV

[Sulla chiamata in giudizio (E. V)]

52. D. 2.4.1 (Lenel 129) Chiamare in giudizio è chiamare per far valere un diritto.

3

Sabrina Di Maria [In ius vocati ut eant aut vindicem dent (E. 11)]

53. D. 47.10.23 (Lenel 130) Qui in domum alienam invito domino introiret, quamvis in ius vocat, actionem iniuriarum in eum competere Ofilius ait. vocati F

54. D. 2.4.5 (Lenel 131) quia semper certa est, etiam si vulgo conceperit: pater vero is est, quem nuptiae demonstrant.

55. D. 2.4.7 (Lenel 132) Patris adoptivi parentes impune vocabit, quoniam hi eius parentes non sunt, cum his tantum cognatus fiat, quibus et adgnatus. 56. D. 2.4.9 (Lenel 133) Is quoque, qui ex causa fideicommissi manumittit, non debet in ius vocari, quamvis ut manumittat, in ius vocetur. in add. F3

57. D. 2.4.11* (Lenel 134a) Quamvis non adiciat praetor causa cognita se poenale iudicium daturum, tamen Labeo ait moderandam iurisdictionem: veluti si paeniteat libertum et actionem remittat: vel si patronus vocatus non venerit: aut si non invitus vocatus sit, licet edicti verba non patiantur. *

libro quinto F1

58. D. 50.17.108 (Lenel 134b) Fere in omnibus poenalibus iudiciis et aetati et imprudentiae succurritur.

4

Fragmenta [Che coloro che siano stati chiamati in giudizio si presentino o diano un garante (E. 11)]

53. D. 47.10.23 (Lenel 130) Ofilio afferma che spetti l’azione di ingiurie contro colui il quale, anche se per chiamare in giudizio, si sia introdotto nella casa di un altro contro la volontà del padrone.

54. D. 2.4.5 (Lenel 131) perché è sempre certa, anche se abbia concepito dandosi a tutti; il padre invece è quello che indicano le nozze. 55. D. 2.4.7 (Lenel 132) Chiamerà in giudizio impunemente gli ascendenti del padre adottivo, perché costoro non sono suoi ascendenti, diventando solo cognato di coloro per i quali diventa anche agnato. 56. D. 2.4.9 (Lenel 133) Colui il quale manomette a causa di un fedecommesso, non deve essere chiamato in giudizio, anche se venga chiamato affinché manometta.

57. D. 2.4.11 (Lenel 134a) Sebbene il pretore non aggiunga che concederà l’azione penale previa cognizione della causa, tuttavia Labeone afferma che la giurisdizione debba essere moderata: come se il liberto si penta e rimetta l’azione, o se il patrono chiamato in giudizio non sia comparso, oppure se non sia stato chiamato in giudizio contro la sua volontà, sebbene le parole dell’editto non lo ammettano. 58. D. 50.17.108 (Lenel 134b) All’incirca in tutte le azioni penali si viene in soccorso sia dell’età sia dell’imprudenza.

5

Sabrina Di Maria 59. D. 2.6.3 (Lenel 135) quoniam pro locuplete accipitur [fideiussor] in necessariis personis. quivis ins. Mommsen – vindex qualiscumque Paulum scripsisse putat Lenel: < > Krüger, qui putat vindex fuisse

60. D. 2.8.4 (Lenel 136) Si decesserit qui [fideiussorem dederit iudicio sistendi causa] , non debebit praetor iubere exhibere eum. quod si ignorans iusserit exhiberi vel post decretum eius ante diem exhibitionis decesserit, deneganda erit actio. si autem post diem exhibitionis decesserit aut amiserit civitatem, utiliter agi potest. Fideiuss. ded. iud. sist. causa] vindicem dederit Paulum scripsisse putat Lenel: < > Krüger – exhiberi Haloander

[Ne quis eum qui in ius vocabitur vi eximat (E. 12)]

61. D. 2.7.2 (Lenel 137) Nam cum uterque contra edictum faciat, et libertus qui patronum vocat, et is qui patronum vi eximat: deteriore tamen loco libertus est, qui in simili delicto petitoris partes sustinet. (1) Eadem aequitas est in eo, qui alio quam quo debuerat in ius vocabatur: sed et fortius dicendum est non videri vi eximi eum, cui sit ius ibi non conveniri.

62. D. 2.7.4 (Lenel 138) Sed eximendi verbum generale est, ut Pomponius ait. eripere enim est de manibus auferre per raptum: eximere quoquo modo auferre. ut puta si quis non rapuerit quem, sed moram fecerit quo minus in ius veniret, ut actionis dies exiret vel res tempore amitteretur: videbitur exemisse, quamvis corpus non exemerit. sed et si eo loco retinuerit, non abduxit, his verbis tenetur. (1) Item si quis eum, qui per calumniam vocabatur, exemerit: constat eum hoc edicto teneri. (2) Praetor ait ‘neve faciat dolo malo, quo magis eximeretur’: nam potest sine dolo malo id fieri, veluti cum iusta causa est exemptionis.

6

Fragmenta 59. D. 2.6.3 (Lenel 135) poiché nei confronti delle persone legate da stretti vincoli il fideiussore è accettato come se fosse facoltoso.

60. D. 2.8.4 (Lenel 136) Se sia deceduto colui il quale abbia dato un fideiussore per la comparizione in giudizio, il pretore non dovrà ordinare la comparizione. Se, non essendone a conoscenza, abbia ordinato che comparisse, o, dopo l’emanazione del suo decreto, quello sia deceduto prima del giorno della comparizione, l’azione dovrà essere negata. Se poi sia deceduto oppure abbia perso la cittadinanza dopo il giorno della comparizione, è possibile agire in via utile.

[Che nessuno sottragga con violenza chi sarà chiamato in giudizio (E. 12)]

61. D. 2.7.2 (Lenel 137) Infatti, pur operando entrambi in contrasto con l’editto, sia il liberto che chiama il patrono, sia chi sottrae con violenza il patrono, tuttavia il liberto, che, trovandosi anch’egli a commettere un delitto, assume il ruolo di attore, si trova in una condizione deteriore. (1) La stessa equità si applica nei confronti di colui il quale veniva chiamato in giudizio in un luogo diverso da quello in cui avrebbe dovuto essere chiamato, ma anche, a maggior ragione, deve essere affermato che non si considera che venga sottratto con violenza colui il quale abbia il diritto di non essere lì convenuto. 62. D. 2.7.4 (Lenel 138) Ma, come afferma Pomponio, sottrarre è un termine generale. Strappare infatti significa portar via dalle mani attraverso uno strappo. Sottrarre significa portar via in qualsiasi modo. Come, per esempio, se qualcuno non abbia rapito un altro, ma ne abbia provocato il ritardo in modo che non comparisse in giudizio, affinché spirasse il termine per l’esercizio dell’azione o si perdesse la lite per il decorso del tempo; si considererà posto in essere un sottrarre, sebbene non vi sia stata una sottrazione corporale. Ma anche se lo abbia trattenuto in qualche luogo, senza condurlo via, è tenuto in forza di queste parole dell’editto. (1) Parimenti se qualcuno abbia sottratto colui il quale veniva chiamato in giudizio con calunnia, è certo che sia tenuto in forza di questo editto. (2) Il pretore afferma ‘nè con dolo faccia in modo che venga sottratto’: infatti ciò può essere fatto senza dolo, come per esempio quando vi sia una giusta causa di sottrarsi alla comparizione. 7

Sabrina Di Maria

Liber V

[De postulando (E. VI.14-16)] [Qui pro aliis ne postulent (E. 15)]

63. D. 50.17.109 (Lenel 145) Nullum crimen patitur is, qui non prohibet, cum prohibere potest.

[Qui nisi pro certis personis ne postulent (E. 16)]

64. D. 3.2.14 (Lenel 139) Servus, cuius nomine noxale iudicium dominus acceperit, deinde eundem liberum et heredem instituerit, ex eodem iudicio damnatus non est famosus, quia non suo nomine condemnatur: quippe cum initio lis in eum contestata non sit.

65. D. 3.2.5 (Lenel 140) quoniam intellegitur confiteri crimen qui paciscitur. 66. D. 3.2.7 (Lenel 141) In actionibus, quae ex contractu proficiscuntur, licet famosae sint et damnati notantur, attamen pactus non notatur, merito: quoniam ex his causis non tam turpis est pactio quam ex superioribus. profiscincuntur F – et damnati notantur, attamen] Iust. (Ferrini) – ex om. F

67. D. 3.2.9 (Lenel 142) Uxores viri lugere non compelluntur. (1) Sponsi nullus luctus est. compellentur F

8

Fragmenta

Libro V

[Sulla proposizione della domanda giudiziale (E. VI.14-16)] [Che non propongano domanda giudiziale in favore di altri (E. 15)]

63. D. 50.17.109 (Lenel 145) Non commette un crimine colui il quale non lo impedisce, quando può impedirlo.

[Che non propongano domanda giudiziale se non in favore di determinate persone (E. 16)]

64. D. 3.2.14 (Lenel 139) Lo schiavo, in nome del quale il padrone abbia accettato un giudizio nossale, e poi lo abbia manomesso ed istituito erede, condannato in quello stesso giudizio non è macchiato da infamia, poiché non è stato condannato in suo nome: perché la lite non è stata contestata fin dall’inizio nei suoi confronti. 65. D. 3.2.5 (Lenel 140) perché chi patteggia è considerato confessare il crimine. 66. D. 3.2.7 (Lenel 141) Nelle azioni derivanti da un contratto, sebbene siano infamanti e i condannati siano colpiti con nota di infamia, chi ha patteggiato invece a ragione non è colpito da nota di infamia: poiché in queste cause il patteggiamento non è così turpe come in quelle precedenti. 67. D. 3.2.9 (Lenel 142) I mariti non sono costretti a portare il lutto per le mogli. (1) Non vi è lutto per chi ha effettuato la promessa di matrimonio.

9

Sabrina Di Maria 68. D. 3.2.12 (Lenel 143) Qui iussu patris duxit, quamvis liberatus potestate patria eam retinuit, non notatur.

69. D. 23.1.13 (Lenel 144) Filio familias dissentiente sponsalia nomine eius fieri non possunt. familiae F1

70. D. 3.1.4 (Lenel 146) item quibus propter infirmitatem curatorem praetor dare solet.

10

Fragmenta 68. D. 3.2.12 (Lenel 143) Chi l’ha presa in matrimonio per ordine del padre, nonostante l’abbia trattenuta in matrimonio dopo essere stato liberato dalla patria potestà, non è colpito da nota di infamia. 69. D. 23.1.13 (Lenel 144) Essendo dissenziente il figlio di famiglia, non possono essere formulate promesse di matrimonio in suo nome.

70. D. 3.1.4 (Lenel 146) parimenti a coloro i quali il pretore è solito dare un curatore in ragione dell’infermità.

11

Sabrina Di Maria

Liber VI

[De vadimoniis (E. VII.17-24), 1] [Qui satisdare cogantur vel iurato promittant vel suae promissioni committantur (E. 18)]

71. D. 50.17.110pr. (Lenel 147) In eo, quod plus sit, semper inest et minus. 72. D. 50.17.110.1 (Lenel 148) Nemo alienae rei expromissor idoneus videtur, nisi si cum satisdatione. si del. edd.

73. D. 3.3.6 (Lenel 149) et qui in foro et qui in urbe et in continentibus aedificiis: 74. D. 2.8.16 (Lenel 150) Qui iurato promisit [iudicio sisti] non videtur peierasse, si ex concessa causa hoc deseruerit. iudicio sisti] vadimonium Paul. (Lenel): < > Krüger

75. D. 12.2.15 (Lenel 151) Ad personas egregias eosque qui valetudine impediuntur domum mitti oportet ad iurandum.

12

Fragmenta

Libro VI

[Sui vadimoni (E. VII.17-24), 1] [Coloro che siano costretti a dare garanti o promettano con giuramento o siano rimessi alla loro promessa (E. 18)]

71. D. 50.17.110pr. (Lenel 147) Nel più è sempre contenuto anche il meno. 72. D. 50.17.110.1 (Lenel 148) Nessuno appare idoneo ad accollarsi il debito di un altro, se non dietro garanzia.

73. D. 3.3.6 (Lenel 149) È considerato presente sia colui che è nel foro sia colui che è in città sia colui che si trova negli edifici adiacenti alle mura della città: 74. D. 2.8.16 (Lenel 150) Non si considera spergiuro chi promise con giuramento di presentarsi in giudizio, se venne poi meno alla promessa per una causa consentita.

75. D. 12.2.15 (Lenel 151) Per il giuramento, bisogna che le persone del rango degli egregi e quelle impedite per ragioni di salute siano escusse a casa.

13

Sabrina Di Maria [De vadimonio concipiendo (E. 20)]

76. D. 6.1.6 (Lenel 152) Si in rem aliquis agat, debet designare rem, et utrum totam an partem et quotam petat: appellatio enim rei non genus, sed speciem significat. Octavenus ita definit, quod infectae quidem materiae pondus, signatae vero numerum, factae autem speciem dici oportet: sed et mensura dicenda erit, cum res mensura continebitur. et si vestimenta nostra esse vel dari oportere nobis petamus, utrum numerum eorum dicere debebimus an et colorem? et magis est ut utrumque: nam illud inhumanum est cogi nos dicere, trita sint an nova. quamvis et in vasis occurrat difficultas, utrum lancem dumtaxat dici oporteat an etiam, quadrata vel rutunda, vel pura an caelata sint, quae ipsa in petitionibus quoque adicere difficile est. nec ita coartanda res est: licet in petendo homine nomen eius dici debeat et utrum puer an adulescens sit, utique si plures sint: sed si nomen eius ignorem, demonstratione eius utendum erit: veluti ‘qui ex illa hereditate est’, ‘qui ex illa natus est’. item fundum petiturus nomen eius et quo loci sit dicere debebit. nam illud ... an nova] Iust. (H. Krüger) – sit Mommsen

[Si ex noxali causa agatur, quemadmodum caveatur (E. 21)]

77. D. 2.9.2 (Lenel 153) Sed alio iure utimur. nam ex praecedentibus causis non liberatur noxae deditus: perinde enim noxa caput sequitur, ac si venisset. (1) Si absens sit servus, pro quo noxalis actio alicui competit: si quidem dominus non negat in sua potestate esse, compellendum putat Vindius vel [iudicio eum sisti] promittere vel iudicium accipere, aut, si nolit defendere, cauturum, cum primum potuerit, se exhibiturum: sin vero falso neget in sua potestate esse, suscepturum iudicium sine noxae deditione. idque Iulianus scribit et si dolo fecerit, quominus in eius esset potestate. sed si servus praesens est, dominus abest nec quisquam servum defendit, ducendus erit iussu praetoris: sed causa cognita domino postea dabitur defensio, ut Pomponius et Vindius scribunt, ne ei absentia sua noceat: ergo et actori actio restituenda est, perempta eo quod ductus servus in bonis eius esse coepit. pro quo ... competit] Iust. (Lenel) cf. Krüger – iudicio eum sisti] vadimonium Paul. (Lenel): < > Krüger

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Fragmenta [Su come deve essere redatto il vadimonio (E. 20)]

76. D. 6.1.6 (Lenel 152) Se qualcuno esperisce l’azione reale, deve indicare la cosa e se chiede giudizialmente l’intero, o una parte e quanta; infatti, la denominazione ‘cosa’ qui non significa il genere, ma la cosa specifica. Ottaveno così precisa: si devono indicare con il peso le materie informi, con il numero quelle già misurate e contrassegnate, con la forma quelle lavorate; ma si dovrà indicare anche la misura, se la cosa viene in considerazione per la sua misura. Se chiediamo come nostre delle vesti, o pretendiamo ci debbano essere date, dovremo forse, di esse, indicare solo il numero o anche il colore? È preferibile che si indichino entrambi. Invece sarebbe sconveniente costringerci a dire se quelle vesti siano logore o nuove. Anche per il vasellame, si incontrano difficoltà, quante ne vuoi, se debba esser detto solo ‘piatto’, o anche se sia quadrato, o rotondo o liscio o intagliato; cose queste che, nelle domande, è difficile aggiungere. Né in questa materia si deve essere eccessivamente rigorosi: così, nella rivendicazione di un servo, certamente si deve dire il suo nome, e se sia un fanciullo o un adolescente, se sono in più di uno; ma se io ignoro il suo nome, per lui si dovrà usare un’indicazione: ad esempio, ‘quello che appartiene a tale eredità’, ‘colui che è nato da quella ’. Parimenti, colui che vorrà chiedere giudizialmente un fondo, dovrà indicare il nome di esso, e in quale località si trovi.

[In che modo sia prestata la stipulazione di garanzia se si agisca per causa nossale (E. 21)]

77. D. 2.9.2 (Lenel 153) Ma facciamo uso di un diverso diritto: infatti chi è stato oggetto di dazione nossale non viene liberato da precedenti cause , in quanto il fatto delittuoso segue il suo autore, così come se questo fosse stato venduto. (1) Ove sia assente il servo per il quale a taluno compete l’azione nossale, se il padrone non nega che si trova in sua potestà, Vindio reputa che egli deve essere costretto a promettere che il servo compaia in giudizio o ad accettare egli stesso il giudizio, ovvero, se non vuole assumerne la difesa, che dovrà garantire mediante stipulazione di presentarlo appena gli sarà possibile; se invece falsamente neghi che si trovi in sua potestà, dovrà sostenere il giudizio senza possibilità di dazione nossale. E questo Giuliano scrive anche per il caso che abbia operato con dolo affinché non fosse in sua potestà. Ma se il servo è presente, mentre assente è il padrone, e nessuno assume la difesa del servo, sarà da condurre via su ordine del pretore: successivamente però, previa cognizione della causa, si darà al padrone possibilità di assumerne la difesa, come scrivono Pomponio e Vindio, perché non gli nuoccia la sua assenza: conseguentemente va anche restituita all’attore l’azione, estintasi per il fatto che il servo condotto via era stato da lui acquisito come suo bene tutelato dal pretore. 15

Sabrina Di Maria 78. D. 9.4.12 (Lenel 154) Si bona fide possessor eum servum, quem bona fide possidebat, dimiserit, ne agi cum eo ex noxali causa possit, obligari eum actione, quae datur adversus eos, qui servum in potestate habeant aut dolo fecerint, quo minus haberent, quia per hoc adhuc possidere videntur.

79. D. 2.10.2 (Lenel 155) Si actoris servus domino sciente et cum possit non prohibente dolo fecerit, quo minus [in iudicio] sistam, Ofilius dandam mihi exceptionem adversus dominum ait, ne ex dolo servi dominus lucretur. si vero sine voluntate domini servus hoc fecerit, Sabinus noxale iudicium dandum ait nec factum servi domino obesse debere nisi hactenus, ut ipso careat: quando ipse nihil deliquit. vadimonium Paul. (Lenel): < > Krüger

[De eo, per quem factum erit, quo minus quis vadimonium sistat (E. 23)]

80. D. 50.17.110.2 (Lenel 156) Pupillus pati posse non intellegitur. 81. D. 50.17.110.3 (Lenel 158) Ubi verba coniuncta non sunt, sufficit alterutrum esse factum. 82. D. 50.17.110.4 (Lenel 158) Mulieribus tunc succurrendum est, cum defendantur, non ut facilius calumnientur. 83. D. 26.8.17 (Lenel 157) Si tutor pupillo nolit auctor fieri, non debet eum praetor cogere, primum quia iniquum est, etiamsi non expedit pupillo, auctoritatem eum praestare, deinde etsi expedit, tutelae iudicio pupillus hanc iacturam consequitur.

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Fragmenta 78. D. 9.4.12 (Lenel 154) Se il possessore di buona fede abbia allontanato il servo, affinché non si possa intentare contro di lui una causa nossale, è obbligato in base all’azione che è data contro coloro i quali abbiano in potestà un servo o che con dolo fecero in modo di non averlo, poiché a causa di ciò si considerano possederlo ancora. 79. D. 2.10.2 (Lenel 155) Se un servo dell’attore, essendone il padrone a conoscenza e non avendolo vietato pur potendo, abbia operato con dolo perché io non compaia in giudizio, Ofilio afferma che contro il padrone debba essermi accordata eccezione, affinché il padrone non tragga lucro dal dolo del servo. Qualora, invece, il servo abbia agito senza la volontà del padrone, Sabino afferma che debba essere data azione nossale e che l’operato del servo non debba nuocere al padrone se non solo fino al punto che, non avendo commesso alcun delitto, egli si privi del servo stesso.

[Su colui a causa del quale sia avvenuto che qualcuno non presti il vadimonio (E. 23)]

80. D. 50.17.110.2 (Lenel 156) Un pupillo non è considerato in grado di patire. 81. D. 50.17.110.3 (Lenel 158) Quando le parole non sono congiunte, basta che si faccia l’una o l’altra cosa. 82. D. 50.17.110.4 (Lenel 158) Si deve andare in soccorso delle donne, quando si tratta di difenderle, non vincolarle. 83. D. 26.8.17 (Lenel 157) Se il tutore non voglia interporre l’autorizzazione per il pupillo, il pretore non deve costringerlo: in primo luogo, perché è iniquo che egli interponga l’autorizzazione, sebbene non convenga al pupillo; in secondo luogo, perché, anche se convenga, il pupillo consegue di questo danno mediante l’azione di tutela.

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Sabrina Di Maria

Liber VII

[De vadimoniis (E. VII.17-24), 2] [Quibus ex causis vadimonia recuperatoribus suppositis fiant (E. 24)]

84. D. 48.6.9 (Lenel 160) Armatos non utique eos intellegere debemus, qui tela habuerunt, sed etiam quid aliud nocere potest. quid aliud F1: eos qui aliud quod F2: quidquid aliud Mommsen

85. D. 50.16.14pr. (Lenel 159) Labeo et Sabinus existimant, si vestimentum scissum reddatur vel res corrupta reddita sit, veluti scyphi collisi aut tabula rasa pictura, videri rem ‘abesse’, quoniam earum rerum pretium non in substantia, sed in arte sit positum. item si dominus rem, quae furto sibi aberat, ignorans emerit, recte dicitur res abesse, etiamsi postea id ita esse scierit, quia videtur res ei abesse, cui pretium abest.

86. D. 50.16.14.1 (Lenel 161a) ‘Rem amisisse’ videtur, qui adversus nullum eius persequendae actionem habet.

87. D. 4.1.5 (Lenel 161b) Nemo videtur re exclusus, quem praetor in integrum se restituturum polliceatur. re S cum B: e F

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Fragmenta

Libro VII

[Sui vadimoni (E. VII.17-24), 2] [Per quelle cause per le quali siano prestati i vadimoni con l’aggiunta di un collegio di giudici recuperatori (E. 24)]

84. D. 48.6.9 (Lenel 160) Dobbiamo considerare armati non solo coloro che hanno armi, ma tutti coloro che abbiano qualcosa di idoneo a nuocere.

85. D. 50.16.14pr. (Lenel 159) Labeone e Sabino pensano che se viene restituito un vestimento strappato o una cosa rotta, come sarebbe una tazza rotta o una tavola con della pittura cancellata, si reputa mancare la cosa perché il prezzo di tali cose non consiste nella materia, ma nel lavoro. Così pure se il proprietario comprò la cosa che gli era stata rubata senza sapere che fosse la sua, si dirà con ragione che la cosa manca, anche se dopo avesse appreso ciò, perché si reputa che la cosa manchi a colui al quale manca il prezzo della stessa. 86. D. 50.16.14.1 (Lenel 161a) Si reputa poi che abbia perso la cosa colui che non ha azione per perseguirla nei confronti di chi che sia. 87. D. 4.1.5 (Lenel 161b) Non si ritiene escluso dalla cosa, colui a favore del quale il pretore prometta di accordare il provvedimento di reintegrazione.

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Fabiana Mattioli

Liber VIII

[De cognitoribus, de procuratoribus et defensoribus (E. VIII.1)] [De cognitoribus]

88. Vat. 319 (Lenel 162) Etiam Graecis verbis cognitorem dari posse inter omnes constat. P inscr. Vat.

89. D. 3.3.2 (Lenel 163) dummodo certus sit qui datus intellegetur et is ratum habuerit. (1) Furiosus non est habendus absentis loco, quia in eo animus deest, ut ratum habere non possit. is S: is si F

90. D. 3.3.4 (Lenel 164) et in perpetuum. 91. D. 3.3.32 (Lenel 165) Pluribus [procuratoribus] in solidum simul datis occupantis melior condicio erit, ut posterior non sit in eo quod prior petit [procurator] . procuratoribus] cognitoribus Lenel – procurator] cognitor Lenel

92. D. 47.23.5 (Lenel 166a) Qui populari actione convenietur, ad defendendum [procuratorem] dare potest: is autem, qui eam movet, [procuratorem] dare non potest. defendum F – procuratorem] cognitorem Lenel – procuratorem] cognitorem Lenel

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Fragmenta

Libro VIII

[Sui cognitori, sui procuratori e sui difensori (E. VIII.1)] [Sui cognitori]

88. Vat. 319 (Lenel 162) Consta che il cognitore possa essere nominato tra tutti anche con parole greche.

89. D. 3.3.2 (Lenel 163) purché sia certo colui che si sia inteso nominare e costui abbia ratificato. (1) Il pazzo non deve essere considerato come un assente, perché gli manca la capacità di intendere, cosicché non può ratificare.

90. D. 3.3.4 (Lenel 164) e senza alcun termine. 91. D. 3.3.32 (Lenel 165) Essendo stati nominati contemporaneamente più cognitori in solido, sarà migliore la condizione dell’occupante, affinché non ve ne sia uno successivo rispetto a ciò che un cognitore chiede per primo.

92. D. 47.23.5 (Lenel 166a) Chi sia convenuto in giudizio con un’azione popolare può nominare un cognitore per difendersi, mentre chi la esercita un cognitore non può nominarlo.

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Fabiana Mattioli 93. D. 47.23.1 (Lenel 166b) Eam popularem actionem dicimus, quae suum ius populi tuetur. suum] sua vi? Mommsen

94. D. 3.3.42 (Lenel 167) Licet in popularibus actionibus [procurator] dari non possit, tamen dictum est merito eum qui de via publica agit et privato damno ex prohibitione adficitur, quasi privatae actionis dare posse [procuratorem] . multo magis dabit ad sepulchri violati actionem is ad quem ea res pertinet. (1) Ad actionem iniuriarum ex lege Cornelia [procurator] dari potest: nam etsi pro publica utilitate exercetur, privata tamen est. (2) Ea obligatio, quae inter dominum et [procuratorem] consistere solet, mandati actionem parit. aliquando tamen non contrahitur obligatio mandati: sicut evenit, cum in rem suam [procuratorem] praestamus eoque nomine iudicatum solvi promittimus: nam si ex ea promissione aliquid praestiterimus, non mandati, sed ex vendito (si hereditatem vendidimus), vel ex pristina causa mandati agere debemus: ut fit cum fideiussor reum [procuratorem] dedit. (3) Is cui hereditas ex Trebelliano senatus consulto restituta est heredem iure dabit [procuratorem] . (4) Sed et dominum pignoris creditor recte dabit [procuratorem] ad Servianam. (5) Porro si uni ex reis credendi constitutum sit isque alium in constitutam pecuniam det, non negabimus posse dare. sed et ex duobus reis promittendi alter alterum ad defendendum [procuratorem] dabit. (6) Si plures heredes sint et familiae erciscundae aut communi dividundo agatur, pluribus eundem [procuratorem] non est permittendum dare, quoniam res expediri non potest circa adiudicationes et condemnationes: plane permittendum dare, si uni coheredi plures heredes existant. (7) Reo latitante post litem contestatam ita demum [fideiussores] eum defendere videbuntur, si vel unus ex his eum pro solido defendat, vel omnes vel qui ex his unum dederint in quem iudicium transferetur. procurator] cognitor Lenel – possitamen F – probitione F – procuratorem] cognitorem Lenel – procurator] cognitor Lenel – procuratorem] cognitorem Lenel – procuratorem] cognitorem Lenel – procuratorem] cognitorem Lenel – procuratorem] cognitorem Lenel – procuratorem] cognitorem Lenel – procuratorem] cognitorem Lenel – procuratorem] cognitorem Lenel – fideiussores] sponsores Lenel: < > Krüger – vel qui] vel quidam dett. – transferretur? Mommsen

95. D. 46.3.86 (Lenel 168) Hoc iure utimur, ut [litis procuratori] non recte solvatur: nam et absurdum est, cui iudicati actio non datur, ei ante rem iudicatam solvi posse. [si tamen ad hoc datus sit, ut et solvi possit, solvendo eo liberabitur.] litis procuratori] cognitori Lenel: < > Krüger (Eisele) – si tamen... liberabitur Iust.? (Lenel): < > Krüger – possit] F1: ei possit F2 – ei liberabimur? Mommsen

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Fragmenta 93. D. 47.23.1 (Lenel 166b) Definiamo popolare quell’azione che protegge un diritto proprio del popolo.

94. D. 3.3.42 (Lenel 167) Sebbene nelle azioni popolari non possa essere nominato un cognitore, tuttavia si è detto a ragione che colui che agisce per una via pubblica e subisce un danno privato in forza della proibizione possa nominare un cognitore come per un’azione privata. A maggior ragione lo nominerà per l’azione di sepolcro violato colui cui tale questione concerne. (1) Un cognitore può essere nominato per l’azione di ingiurie sulla base della legge Cornelia: infatti, anche se la si esercita per pubblica utilità, si tratta di un’azione privata. (2) L’obbligazione, che suole venire in essere tra il titolare e il cognitore, genera l’azione di mandato. Talvolta tuttavia non si contrae l’obbligazione di mandato, come accade quando siamo garanti per un cognitore nominato nel suo interesse e a tale titolo promettiamo l’adempimento del giudicato; infatti, se avremo prestato qualcosa sulla base di quella promessa, dobbiamo agire non con l’azione di mandato, ma in base alla vendita (se abbiamo venduto un’eredità) o in base alla causa originaria del mandato, come accade quando il fideiussore ha nominato come cognitore il debitore principale. (3) Colui al quale è stata restituita l’eredità in base al Senatoconsulto Trebelliano nominerà, secondo diritto, l’erede come cognitore. (4) Ma anche il creditore nominerà correttamente come cognitore per l’azione Serviana il proprietario del pegno. (5) Inoltre, se si sia pattuito attraverso un costituto di pagare a una determinata scadenza a uno tra i creditori e costui abbia nominato un altro in relazione a tale azione, non negheremo che possa nominarlo. Ma anche tra due promittenti l’uno potrà nominare l’altro come cognitore per la difesa. (6) Se vi siano più eredi e si agisca per la divisione dell’eredità o della comunione, non deve essere permesso a più persone di nominare lo stesso cognitore, dal momento che la questione non può trovare soluzione in relazione alle aggiudicazioni e alle condanne: chiaramente si deve permettere di nominarlo se vi siano più eredi di un coerede. (7) Essendo il debitore irreperibile dopo la contestazione della lite, allora solo i garanti potranno difenderlo, se o uno di loro lo difenda per l’intero o lo difendano tutti o lo difenda quello solo tra di loro che abbiano nominato affinché nei suoi confronti venisse trasferito il giudizio. 95. D. 46.3.86 (Lenel 168) Ci serviamo di questo diritto, che non si paghi correttamente al cognitore: infatti è anche assurdo che si possa pagare prima del giudicato a chi non è data l’azione di giudicato. [Se tuttavia è stato nominato per questo, affinché gli si possa pagare, sarà liberato attraverso il pagamento.]

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Fabiana Mattioli 96. D. 50.17.112 (Lenel 169) Nihil interest, ipso iure quis actionem non habeat an per exceptionem infirmetur.

[Qui ne dent cognitorem (E. 25)]

97. D. 3.2.10 (Lenel 170) Solet a principe impetrari, ut intra [legitimum tempus] mulieri nubere liceat. (1) Quae virum eluget, intra id tempus sponsam fuisse non nocet. legitimum tempus] legitimum qpus F: decem menses Lenel, cf. C. 5.9.2: < > Krüger

98. D. 3.2.16 (Lenel 171) cum non praegnas esset vel ex alio concepisset:

[De cognitore ad litem suscipiendam dato (E. 27)]

99. D. 3.3.11 (Lenel 172) si tamen dominus cogi possit. 100. D. 3.3.14 (Lenel 173) Si post datum [procuratorem] capitales inimicitiae intercesserunt, non cogendum accipere iudicium nec stipulationem ob rem non defensam committi, quoniam nova causa sit. procuratorem] cognitorem Lenel: inter dominum et procuratorem add. Mommsen

101. D. 3.3.36 (Lenel 174) vel in operis novi nuntiatione. sed et si servum ex causa noxali patiatur duci, defendere videtur: ita tamen, ut in his omnibus ratam rem dominum habiturum caveat.

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Fragmenta 96. D. 50.17.112 (Lenel 169) Non rileva se qualcuno non abbia ipso iure un’azione o venga respinto attraverso un’eccezione.

[Coloro che non diano un cognitore (E. 25)]

97. D. 3.2.10 (Lenel 170) Si suole ottenere dal principe che alla donna sia lecito sposarsi prima dieci mesi. (1) A colei che porta il lutto per il marito non nuoce aver fatto la promessa di matrimonio entro quel periodo di tempo.

98. D. 3.2.16 (Lenel 171) non essendo incinta, o avendo concepito da un altro.

[Del cognitore nominato per assumere il giudizio (E. 27)]

99. D. 3.3.11 (Lenel 172) se tuttavia il titolare possa essere costretto. 100. D. 3.3.14 (Lenel 173) Se, dopo la nomina del cognitore, siano intervenute inimicizie capitali tra lui e il titolare, non dovrà essere costretto ad accettare il giudizio né diventerà efficace la stipulazione per la mancata difesa dal momento che vi è una causa sopravvenuta.

101. D. 3.3.36 (Lenel 174) oppure in una denuncia di nuova opera. Ma si considera che assuma la difesa anche se permetta che uno schiavo venga condotto via in forza di una causa nossale, purché in tutte queste ipotesi presti cauzione che il titolare ratificherà l’esito della lite. 25

Fabiana Mattioli [De cognitore abdicando vel mutando (E. 28)]

102. D. 3.3.16 (Lenel 175) Ante litem contestatam libera potestas est vel mutandi [procuratoris] vel ipsi domino iudicium accipiendi. procuratoris] cognitoris Lenel – domino vel ipsi? Mommsen

103. D. 3.3.20 (Lenel 176a) vel iudicio publico privatove vel valetudine vel maiore re sua distringatur

104. D. 3.3.22* (Lenel 176b) aut adfinitate aliqua adversario iungatur, vel heres ei existat, *

libro octavo] libro octavo nono F

105. D. 3.3.24 (Lenel 176c) mutari debebit vel ipso [procuratore] postulante. procuratore] cognitore Lenel

106. D. 3.3.26 (Lenel 177) nisi dominus ei solvere paratus sit. nisi dominus S: in causae (ex l. seq.) F

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Fragmenta [Sulla rimozione o sulla sostituzione del cognitore (E. 28)]

102. D. 3.3.16 (Lenel 175) Prima della contestazione della lite è libera la facoltà o di cambiare il cognitore o che il titolare accetti il giudizio personalmente.

103. D. 3.3.20 (Lenel 176a) o sia impegnato per un giudizio pubblico o privato o per motivi di salute o per un suo più importante affare 104. D. 3.3.22 (Lenel 176b) oppure sia legato all’avversario da qualche relazione di affinità o divenga suo erede

105. D. 3.3.24 (Lenel 176c) dovrà essere sostituito, anche su richiesta dello stesso cognitore.

106. D. 3.3.26 (Lenel 177) a meno che il titolare non sia pronto a pagarlo.

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Fabiana Mattioli

Liber IX

[De cognitoribus, de procuratoribus et defensoribus (E. VIII.2)] [De procuratoribus et defensoribus]

107. D. 46.3.51 (Lenel 178) Dispensatori, qui ignorante debitore remotus est ab actu, recte solvitur: ex voluntate enim domini ei solvitur, quam si nescit mutatam, qui solvit liberatur.

[Quibus alieno nomine agere liceat (E. 29)]

108. D. 26.7.24 (Lenel 179) Decreto praetoris actor constitui periculo tutoris solet, quotiensque aut diffusa negotia sint aut dignitas vel aetas aut valetudo tutoris id postulet: si tamen nondum fari pupillus potest, ut procuratorem facere possit, aut absens sit, tunc actor necessario constituendus est. (1) Si duobus simul tutela gerenda permissa est vel a parente vel a contutoribus vel a magistratibus, benigne accipiendum est etiam uni agere permissum, quia duo simul agere non possunt. procuratorem] cognitorem Lenel: < > Krüger (Hruza) – tunc actor... est Iust. (Solazzi)

[Quibus alieno nomine, item per alios agere non liceat (E. 30)]

109. D. 3.3.41 (Lenel 180) Feminas pro parentibus agere interdum permittetur causa cognita, si forte parentes morbus aut aetas impediat, nec quemquam qui agat habeant. porte F

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Fragmenta

Libro IX

[Sui cognitori, sui procuratori e sui difensori (E. VIII.1)] [Sui procuratori e sui difensori]

107. D. 46.3.51 (Lenel 178) A chi sia delegato a ricevere i pagamenti, rimosso dall’incarico senza che il debitore ne abbia avuto conoscenza, si paga correttamente: infatti si paga a lui per volontà del titolare grazie alla quale, se chi paga non sappia sia mutata, viene liberato.

[A chi sia lecito agire in nome altrui (E. 29)]

108. D. 26.7.24 (Lenel 179) Con decreto del pretore si suole costituire un attore a rischio del tutore tutte le volte in cui o siano estese le attività negoziali o lo richieda la dignità o l’età o le condizioni di salute del tutore: se tuttavia il pupillo non sia ancora in grado parlare per poter nominare un procuratore, o sia assente, allora deve essere necessariamente costituito un attore. (1) Se a due congiuntamente è stato permesso di gestire la tutela o dal genitore o da contutori o da magistrati, deve benevolmente ritenersi che sia permesso agire anche ad uno solo, perché due non possono agire simultaneamente.

[A chi non sia lecito agire per altri o mediante altri (E. 30)]

109. D. 3.3.41 (Lenel 180) Talvolta, previo svolgimento di un’istruttoria, si permetterà che le donne agiscano per i genitori, se per caso la malattia o l’età glielo impediscano e non abbiano qualcuno che agisca.

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Fabiana Mattioli 110. D. 3.3.43pr.-1 (Lenel 181) Mutus et surdus per eum modum qui procedere potest procuratorem dare non prohibentur [: forsitan et ipsi dantur non quidem ad agendum, sed ad administrandum]. (1) Cum quaeretur, an alicui procuratorem habere liceat, inspiciendum erit, an non prohibeatur procuratorem dare, quia hoc edictum prohibitorium est. prohibetur F – forsitan... administrandum Iust. (Faber): < > Krüger – queratur FbS

[De defendendo eo, cuius nomine quis aget, et de satisdando (E. 31)]

111. D. 3.3.43.2-6 (Lenel 185a) In popularibus actionibus, ubi quis quasi unus ex populo agit, defensionem ut procurator praestare cogendus non est. (3) Is, qui curatorem alicui praesenti petat, non aliter audietur nisi adulto consentiente: quod si absenti, ratam rem eum habiturum necesse habet dare. (4) Poena non defendentis procuratoris haec est, ut denegetur ei actio. (5) Si procurator agat et praesens sit absentis servus, Atilicinus ait servo cavendum, non procuratori. (6) Qui non cogitur defendere absentem, tamen si iudicatum solvi satisdedit defendendi absentis gratia, cogendum [procuratorem] iudicium accipere, ne decipiatur is qui satis accepit: nam eos, qui non coguntur rem defendere, post satisdationem cogi. Labeo causa cognita temperandum, et si captio actoris sit propter temporis tractum, iudicium eum accipere cogendum: quod si aut adfinitas dirempta sit aut inimicitiae intercesserint aut bona absentis possideri coeperint habet] satis ins. Haloander – Qui non cogitur] Cognitorem ins. Lenel – procuratorem del. Mommsen: sicut procuratorem Paul.? an procuratorem del.? Lenel – sit] si F

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Fragmenta 110. D. 3.3.43pr.-1 (Lenel 181) Al muto e al sordo non è proibito nominare un procuratore nel modo in cui possono farlo [: forse anche essi stessi possono essere nominati, non però per agire, ma per amministrare]. (1) Qualora venga chiesto se a qualcuno sia lecito avere un procuratore, si dovrà considerare se non gli sia proibito nominarlo, poiché questo editto è proibitorio.

[Sulla difesa di colui in nome del quale qualcuno agisca e della garanzia da prestare (E. 31)]

111. D. 3.3.43.2-6 (Lenel 185a) Nelle azioni popolari, dove qualcuno agisce come uno del popolo, non deve essere costretto ad assumere la difesa in qualità di procuratore. (3) Colui che chieda un curatore per qualcuno presente, non altrimenti sarà ascoltato che qualora l’adulto sia consenziente; che se per un assente, deve necessariamente prestare cauzione che quello ratificherà. (4) La pena per un procuratore che non assuma la difesa è questa, che gli viene negata l’azione. (5) Se il procuratore agisca e sia presente lo schiavo dell’assente, Atilicino afferma che la cauzione debba essere prestata allo schiavo, non al procuratore. (6) Chi non è costretto a difendere un assente, tuttavia, se per difendere l’assente ha offerto dei garanti per l’adempimento del giudicato, va costretto ad accettare il giudizio, affinché non venga tratto in inganno colui il quale ha ricevuto i garanti: infatti coloro i quali non sono costretti a difendere l’affare, dopo aver prestato i garanti, vengono costretti. Labeone afferma che, previo svolgimento di un’istruttoria, debba essere introdotto un temperamento e che, se per il decorso del tempo vi sia un pregiudizio per l’attore, debba essere costretto ad accettare il giudizio; se invece o sia venuta meno l’affinità o siano intervenute inimicizie o i beni dell’assente abbiano iniziato a essere posseduti

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Fabiana Mattioli 112. D. 3.3.45 (Lenel 185b) non cogendum. Sabinus autem nullas praetoris partes esse ad compellendum defendere, sed ex stipulatu ob rem non defensam agi posse: at si iustas causas habeat, cur iudicium accipere nolit, [fideiussores] non teneri, quia vir bonus arbitraturus non fuerit, ut qui iustam excusationem adferret, defendere cogeretur. sed et si satis non dedit, sed repromittenti ei creditum est, idem statuendum est. (1) Qui ita de publico agunt, ut et privatum commodum defendant, causa cognita permittuntur procuratorem dare, et postea alius agens exceptione repelletur. (2) Si procuratori opus novum nuntiatum sit isque interdicto utatur ‘ne ei vis fiat aedificanti’, defensoris partes eum sustinere nec compelli cavere ratam rem dominum habiturum Iulianus ait, et si satisdederit, non animadverto, inquit Iulianus, quo casu stipulatio committatur. at] sic S cum B: ac F – fideiussores] sponsores Lenel: < > Krüger – ei vis] sic SB: eius F

[Quibus municipum nomine agere liceat (E. 32)]

113. D. 50.16.18 (Lenel 184) ‘Munus’ tribus modis dicitur: uno donum, et inde munera dici dari mittive: altero onus, quod cum remittatur, vacationem militiae munerisque praestat inde immunitatem appellari. tertio officium, unde munera militaria et quosdam milites munificos vocari: igitur municipes dici, quod munera civilia capiant. dicitur] dici (Grotius) – mitti vel F2 – praestat del. Mommsen – munificos] munifices (Budaeus)

114. D. 3.4.4 (Lenel 182) Plane ut duae partes decurionum adfuerint, is quoque quem decernent numerari potest.

115. D. 3.4.6pr.-2 (Lenel 183) item eorum, qui in eiusdem potestate sunt: quasi decurio enim hoc dedit, non quasi domestica persona. quod et in honorum petitione erit servandum, nisi lex municipii vel perpetua consuetudo prohibeat. (1) Si decuriones decreverunt actionem per eum movendam quem duumviri elegerint, is videtur ab ordine electus et ideo experiri potest: parvi enim refert, ipse ordo elegerit an is cui ordo negotium dedit. sed si ita decreverint, ut quaecumque incidisset controversia, eius petendae negotium Titius haberet, ipso iure id decretum nullius momenti esse, quia non possit videri de ea re, quae adhuc in controversia 32

Fragmenta 112. D. 3.3.45 (Lenel 185b) non dovrà essere costretto. Sabino poi afferma che non rientri tra le funzioni del pretore costringerlo a difendere, ma che si possa agire in forza della stipulazione per la mancata difesa; ma, se abbia giustificati motivi per non voler accettare il giudizio, i garanti non siano tenuti, perché un uomo onesto non avrebbe ritenuto che fosse costretto a difendere chi avesse addotto una fondata giustificazione. Ma lo stesso deve essere stabilito anche se non diede dei garanti, ma si sia fatto affidamento sulla sua promessa. (1) A coloro che agiscono per un pubblico interesse, in modo tale da difendere anche un vantaggio privato, viene permesso, previo svolgimento di un’istruttoria, di dare un procuratore e, agendo un altro successivamente, sarà respinto con un’eccezione. (2) Se al procuratore sia stata fatta denuncia di nuova opera e costui si sia avvalso dell’interdetto ‘che non venga fatta violenza a chi costruisce’, Giuliano afferma che egli sostiene il ruolo di difensore e che non sia tenuto a prestare garanzia che il titolare ratificherà, e se abbia dato dei garanti ‒ disse Giuliano ‒ non vedo in quale caso la stipulazione possa trovare applicazione.

[A chi sia lecito agire in nome dei membri di una comunità cittadina (E. 32)]

113. D. 50.16.18 (Lenel 184) munus si impiega in tre differenti accezioni: nella prima come dono e da ciò si dice che vengono dati o inviati munera; nella seconda come onere, che, quando venga rimesso, comporta l’esonero dall’esercito e dai munera e da ciò si dice immunità; nella terza come ufficio, da cui i munera militari e alcuni militari vengono chiamati munifices: dunque si chiamano municipes, perché assumono i munera civili.

114. D. 3.4.4 (Lenel 182) Per stabilire se siano stati presenti due terzi dei decurioni può certamente essere conteggiato anche colui che eleggeranno. 115. D. 3.4.6pr.-2 (Lenel 183) parimenti di coloro che sono in potestà dello stesso : infatti lo ha dato in qualità di decurione, non come persona di casa. La qual cosa dovrà essere osservata anche nella richiesta di cariche pubbliche, a meno che non lo proibisca la legge municipale o un’ininterrotta consuetudine. (1) Se i decurioni hanno decretato che un’azione debba essere promossa da colui che sia stato scelto dai duumviri, costui si considera scelto dal consiglio e perciò può esperirla: importa poco infatti che lo abbia scelto lo stesso consiglio o colui al 33

Fabiana Mattioli non sit, decreto datam persecutionem. sed hodie haec omnia per syndicos solent secundum locorum consuetudinem explicari. (2) Quid si actor datus postea decreto decurionum prohibitus sit, an exceptio ei noceat? et puto sic hoc accipiendum, ut ei permissa videatur, cui et permissa durat. petendae] controversia eis, petendi Mommsen – sed hodie... explicari Iust. (Faber): < > Krüger

[Quod cuiuscumque universitatis nomine vel contra eam agatur (E. 34)]

116. D. 3.4.6.3 (Lenel 186) Actor universitatis si agat, compellitur etiam defendere, non autem compellitur cavere de rato. sed interdum si de decreto dubitetur, puto interponendam et de rato cautionem. actor itaque iste [procuratoris] partibus fungitur et iudicati actio ei ex edicto non datur nisi in rem suam datus sit. [et] constitui ei potest. ex isdem causis mutandi actoris potestas erit, ex quibus etiam [procuratoris] . actor etiam filius familias dari potest. procuratoris] cognitoris Lenel: < > Krüger – et] nec? Lenel – procuratoris] cognitoris Lenel: < > Krüger

[De negotiis gestis (E. 35)]

117. D. 3.5.6(7) (Lenel 187) quia tantundem in bonae fidei iudiciis officium iudicis valet, quantum in stipulatione nominatim eius rei facta interrogatio. 118. D. 3.5.12(13) (Lenel 188) Debitor meus, qui mihi quinquaginta debebat, decessit: huius hereditatis curationem suscepi et impendi decem: deinde redacta ex venditione rei hereditariae centum in arca reposui: haec sine culpa mea perierunt. quaesitum est, an ab herede, qui quandoque extitisset, vel creditam pecuniam quinquaginta petere possim vel decem quae impendi. Iulianus scribit in eo verti quaestionem, ut animadvertamus, an iustam causam habuerim seponendorum centum: nam si debuerim et mihi et ceteris hereditariis 34

Fragmenta quale il consiglio conferì l’incarico. Ma se avessero decretato così, che qualunque controversia fosse insorta, Tizio avesse l’incarico di agire, tale decreto sarebbe ipso iure privo di valore, non potendosi ritenere affidata con decreto la facoltà di agire in ordine a una questione, che non sia ancora oggetto di controversia. Ma oggi tutte queste cose sono solite essere compiute dai sindaci secondo la consuetudine dei luoghi. (2) Cosa accade nel caso in cui all’attore nominato venga poi rimosso con decreto dei decurioni, forse che gli nuocerà un’eccezione? E reputo che ciò debba essere inteso così, che gli sia permesso di agire solo nei limiti in cui il permesso perduri.

[Come si agisca in nome di una qualche collettività o contro di essa (E. 34)]

116. D. 3.4.6.3 (Lenel 186) Se l’attore di una collettività agisca, viene costretto anche ad assumere la difesa, ma non è costretto a prestare cauzione per la ratifica. Talvolta, però, se vi siano dubbi sul decreto, ritengo che debba essere prestata anche la cauzione per la ratifica. Pertanto questo attore funge da cognitore e sulla base dell’editto non gli viene data l’azione da giudicato, a meno che non sia stato nominato nel suo interesse. Né si può concludere con lui un costituto. Vi sarà la possibilità di sostituire l’attore in forza delle medesime cause per le quali è possibile sostituire il cognitore. Può essere nominato attore anche un figlio in potestà.

[Sulla gestione d’affari (E. 35)]

117. D. 3.5.6(7) (Lenel 187) poiché, nei giudizi di buona fede, l’ufficio del giudice vale tanto quanto la domanda di ciò che è formulato espressamente nella stipulazione. 118. D. 3.5.12(13) (Lenel 188) È deceduto un mio debitore, che mi doveva cinquanta, ho intrapreso la cura della sua eredità e ho speso dieci, poi ho riposto in uno scrigno il ricavato di cento dalla vendita di un bene ereditario. Questi cento sono andati perduti senza mia colpa. Si è posto il quesito se dall’erede, chi e quando qualcuno lo fosse divenuto, io possa pretendere la somma di cinquanta a mio credito o la somma di dieci che ho speso. Giuliano scrive che il problema consiste nel valutare 35

Fabiana Mattioli creditoribus solvere, periculum non solum sexaginta, sed et reliquorum quadraginta me praestaturum, decem tamen quae impenderim retenturum, id est sola nonaginta restituenda. si vero iusta causa fuerit, propter quam integra centum custodirentur, veluti si periculum erat, ne praedia in publicum committerentur, ne poena traiecticiae pecuniae augeretur aut ex compromisso committeretur: non solum decem, quae in hereditaria negotia impenderim, sed etiam quinquaginta quae mihi debita sunt ab herede me consequi posse. quadraginta] milium ins. F1: del. F2 – retenturum] sic F3S: petentorum F1, petenturum F2 – periculum non solum quinquaginta, sed et reliquorum quadraginta me praestaturum, decem tamen, quae impenderim retenturum (deletis sequentibus id est sola nonaginta restituenda) Koehler – id est… restituenda gl. (Lenel) – ne poena... aut] idem BΣ: ne fenus tr. pec. aug. aut poena Mommsen

119. D. 3.5.14(15) (Lenel 189) Pomponius libro vicensimo sexto in negotiis gestis initio cuiusque [temporis] condicionem spectandam ait. quid enim, inquit, si pupilli negotia coeperim gerere et inter moras pubes factus sit? vel servi aut filii familias et interea liber aut pater familias effectus sit? hoc et ego verius esse didici, nisi si ab initio quasi unum negotium gesturus accessero, deinde alio animo ad alterum accessero eo tempore, quo iam pubes vel liber vel pater familias effectus est: hic enim quasi plura negotia gesta sunt et pro qualitate personarum et actio formatur et condemnatio moderatur. negotiis gestis initio] negotiorum gestorum iudicio scr.? Lenel – temporis] idem B: temporis del. Mommsen

120. D. 3.5.17(18) (Lenel 190) Proculus et Pegasus bonam fidem eum, qui in servitute gerere coepit, praestare debere aiunt: ideoque quantum, si alius eius negotia gessisset, servare potuisset, tantum eum, qui a semet ipso non exegerit, negotiorum gestorum actione praestaturum, si aliquid habuit in peculio, cuius retentione id servari potest. idem Neratius. Proculus et] sic S cum BΣ: proculset F2, proculire (emend. in proculsae) F1 – potest] potuit? Mommsen

121. D. 3.5.18(19).1-5* (Lenel 1032) Scaevola noster ait putare se, quod Sabinus scribit debere a capite rationem reddend[u]m sic intellegi, ut appareat, quid reliquum fuerit tunc, cum primum liber esse coeperit, non ut dolum aut culpam in servitute admissam in obligationem revocet: itaque si inveniatur vel malo more pecunia in servitute erogata, liberabitur. (2) Si libero homini, qui bona fide mihi serviebat, mandem, ut aliquid agat, non fore cum eo mandati actionem Labeo ait, quia non libera voluntate exsequitur rem sibi mandatam, sed quasi ex necessitate servili: erit igitur negotiorum gestorum actio, quia et gerendi negotii mei habuerit affectionem et is fuit, quem obligare possem. (3) Cum me absente negotia mea gereres, imprudens rem meam emisti et ignorans usucepisti: mihi negotiorum gestorum ut restituas obligatus non es. sed si, antequam usucapias, cognoscas rem meam esse, subicere debes aliquem, qui a te petat 36

Fragmenta se io abbia avuto una giusta causa per mettere da parte i cento: infatti, nell’ipotesi in cui io avessi dovuto pagare sia me stesso sia gli altri creditori ereditari, io sopporterò il rischio non solo di sessanta, ma anche dei rimanenti quaranta, tuttavia potrò trattenere i dieci che ho speso, dovranno cioè essere restituiti solo novanta. Se al contrario vi sarà stata una giusta causa in forza della quale fossero custoditi integralmente i cento, come ad esempio se c’era il rischio che dei terreni dovessero essere restituiti allo Stato o che aumentasse la penale del denaro destinato ad un’operazione trasmarina o fosse applicata quella prevista in forza di un compromesso, posso conseguire dall’erede non solo i dieci, che ho speso nei negozi ereditari, ma anche i cinquanta che mi sono dovuti.

119. D. 3.5.14(15) (Lenel 189) Pomponio nel ventiseiesimo libro afferma che nella gestione d’affari debba essere considerata la condizione personale di ciascuno al momento iniziale. Cosa accade infatti, disse, se io abbia intrapreso la gestione degli affari di un pupillo e nelle more sia diventato pubere? Oppure di quelli di un servo o di un figlio in potestà e nel frattempo sia diventato libero o padre di famiglia? Anch’io ho imparato che questo è più corretto, a meno che inizialmente io non mi sia intromesso come per gestire un solo affare, poi, con un’altra intenzione, non mi sia intromesso in un altro, in un momento in cui sia già diventato pubere o libero o padre di famiglia: in questo caso infatti è come se fossero stati gestiti una pluralità di affari e l’azione viene modellata e la condanna viene commisurata anche in ragione della qualità delle persone. 120. D. 3.5.17(18) (Lenel 190) Proculo e Pegaso affermano che colui che, mentre era servo, ha cominciato la gestione, deve risponderne secondo buona fede; e perciò chi non abbia riscosso da se stesso, tanto dovrà prestare in forza dell’azione di gestione d’affari, quanto avrebbe potuto ricevere un altro che avesse assunto la gestione d’affari di quello , se pure nel suo peculio ebbe qualcosa attraverso la cui ritenzione ciò avrebbe potuto essere riscosso. Lo stesso Nerazio. 121. D. 3.5.18(19).1-5 (Lenel 1032) Il nostro Scevola afferma di ritenere che ciò che Sabino scrive, che si deve rendere il conto dall’inizio, sia interpretato così che risulti cosa sia rimasto allorquando cominciò ad essere libero, non perché possa essere obbligato a rispondere per il dolo o per la colpa commessi in servitù; e così sarà liberato anche se si venga a conoscenza che durante la servitù abbia erogato del denaro comportandosi male. (2) Se io dia mandato di fare qualcosa a un uomo libero che si considera in buona fede mio schiavo, Labeone afferma che non si darà contro di lui l’azione di mandato, perché esegue l’incarico affidatogli non per libera volontà, ma come è necessario per chi sia schiavo; si darà dunque l’azione di gestione di affari, poiché aveva avuto l’intenzione di gestire un mio negozio e si trovava in una condizione tale che io 37

Fabiana Mattioli meo nomine, ut et mihi rem et tibi stipulationem evictionis committat: nec videris dolum malum facere in hac subiectione: ideo enim hoc facere debes, ne actione negotiorum gestorum tenearis. (4) Non tantum sortem, verum etiam usuras ex pecunia aliena perceptas negotiorum gestorum iudicio praestabimus, vel etiam quas percipere potuimus. contra quoque usuras, quas praestavimus vel quas ex nostra pecunia percipere potuimus quam in aliena negotia impendimus, servabimus negotiorum gestorum iudicio. (5) Dum apud hostes esset Titius, negotia eius administravi, postea reversus est: negotiorum gestorum mihi actio competit, etiamsi eo tempore quo gerebantur dominum non habuerunt. Idem (scil. Paulus) libro secundo ad Neratium – §§ 1-5 videntur ex Pauli l. IX ad edictum excerpta esse (Cuiacius), idem aestimavit Lenel I, 1141, adn. 1 – debere quod Sabinus scribit Mommsen – reddendum] reddendam F3S – tunc Fa: tuncum Fb – usucepisti] sic F1S: suscepisti F2 – rem] recipiat ins. Mommsen – committat] sic dett.: commitit F1Pa, committet F2 – quas S: om. F *

122. D. 3.5.20(21) (Lenel 191) Nam et Servius respondit, ut est relatum apud Alfenum libro trigensimo nono digestorum: cum a Lusitanis tres capti essent et unus ea condicione missus, uti pecuniam pro tribus adferret, et nisi redisset, ut duo pro eo quoque pecuniam darent, isque reverti noluisset et ob hanc causam illi pro tertio quoque pecuniam solvissent: Servius respondit aequum esse praetorem in eum reddere iudicium. (1) Qui negotia hereditaria gerit, quodammodo sibi hereditatem seque ei obligat: ideoque nihil refert an etiam pupillus heres existat, quia id aes alienum cum ceteris hereditariis oneribus ad eum transit. (2) Si vivo Titio negotia eius administrare coepi, intermittere mortuo eo non debeo: nova tamen inchoare necesse mihi non est, vetera explicare ac conservare necessarium est. ut accidit, cum alter ex sociis mortuus est: nam quaecumque prioris negotii explicandi causa geruntur, nihilum refert, quo tempore consummentur, sed quo tempore inchoarentur. (3) Mandatu tuo negotia mea Lucius Titius gessit: quod is non recte gessit, tu mihi actione negotiorum gestorum teneris non in hoc tantum, ut actiones tuas praestes, sed etiam quod imprudenter eum elegeris, ut quidquid detrimenti neglegentia eius fecit, tu mihi praestes. redisset] sic dett. cum B: redidisset FS – quod] quando? Mommsen – praestes] praetes F

123. D. 17.1.40 (Lenel 192) Si pro te praesente et vetante fideiusserim, nec mandati actio nec negotiorum gestorum est: sed quidam utilem putant dari oportere: quibus non consentio, secundum quod et Pomponio videtur.

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Fragmenta potessi obbligarlo. (3) Se, amministrando i miei affari mentre io ero assente, hai comprato una cosa mia senza saperlo e, continuando a ignorarlo, la hai usucapita, non sei obbligato a restituirmela in base alla gestione di affari. Ma se, prima di usucapire, vieni a conoscenza che la cosa è mia, devi farti sostituire da qualcuno che la rivendichi da te in mio nome, in modo tale che assicuri la cosa a me e renda efficace per te la stipulazione per l’evizione; né risulta che tu agisca con dolo per questa sostituzione, infatti perciò devi farlo, per non essere tenuto con l’azione di gestione di affari. (4) Nel giudizio di gestione di affari presteremo non solo il capitale, ma anche gli interessi riscossi dal denaro altrui o anche quelli che avremmo potuto percepire. Viceversa nel giudizio di gestione di affari conseguiremo anche gli interessi che prestammo o che avremmo potuto percepire dal nostro denaro speso nel gestire gli affari altrui. (5) Mentre Tizio si trovava in mano ai nemici, ne amministrai gli affari, poi fece ritorno: mi compete l’azione di gestione di affari, anche se, nel periodo in cui questi venivano gestiti, erano privi di un referente. 122. D. 3.5.20(21) (Lenel 191) Infatti anche Servio rispose, come è riferito da Alfeno nel trentanovesimo libro dei digesti: essendo stati catturati tre dai lusitani e uno mandato indietro a condizione che portasse del denaro per tutti e tre e che, se non fosse ritornato, gli altri due avrebbero dato il denaro anche per lui, egli si rifiutò di ritornare e per tale motivo quelli pagarono il denaro anche per il terzo. Servio rispose che fosse equo che il pretore concedesse un’azione contro di lui. (1) Colui che gestisce gli affari ereditari in qualche modo obbliga l’eredità verso di sé e se stesso nei confronti di quella: e perciò non rileva se anche divenga erede un pupillo, poiché quei debiti si trasferiscono a lui insieme agli altri oneri ereditari. (2) Se mentre Tizio era vivo iniziai a gestire i suoi affari, una volta che quello sia morto non devo smettere; tuttavia non è necessario che ne intraprenda di nuovi, è necessario portare a termine e salvaguardare i vecchi. Come accade quando è morto uno di due soci: infatti qualsiasi attività venga gestita per sbrigare un precedente affare, non importa affatto in quale momento venga portata a compimento, ma in quale momento venga intrapresa. (3) Su tuo mandato Lucio Tizio ha gestito i miei affari: dal momento che costui non ha gestito correttamente, tu sei tenuto nei miei confronti con l’azione di gestione d’affari, non solo per garantirmi le tue azioni , ma anche perché lo hai scelto imprudentemente, in modo tale da rispondere nei mei confronti per ogni danno che la sua negligenza ha cagionato. 123. D. 17.1.40 (Lenel 192) Se io abbia prestato per te una fideiussione in tua presenza e nonostante il tuo divieto non c’è né l’azione di mandato né di gestione d’affari; ma taluni reputano che debba essere concessa un’azione utile: con costoro io non sono d’accordo secondo quanto ritiene anche Pomponio.

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Fabiana Mattioli 124. D. 35.2.41 (Lenel 193) Dolo carere non videtur, si iam mota quis controversia hereditatis legata sine cautionibus det.

125. D. 50.17.114 (Lenel 194) In obscuris inspici solere, quod verisimilius est aut quod plerumque fieri solet.

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Fragmenta 124. D. 35.2.41 (Lenel 193) Non si considera privo di dolo chi, essendo già sorta una controversia sull’eredità, dia i legati senza esigere cauzioni. 125. D. 50.17.114 (Lenel 194) Nelle cose oscure si è soliti considerare ciò che è più verosimile o ciò che è solito accadere il più delle volte.

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Fabiana Mattioli

Liber X

[De calumniatoribus (E. IX.36-38)] 126a. D. 3.6.2 = 126b. D. 50.17.115pr. (Lenel 195a) Quin etiam si quis obligatione liberatus sit, potest videri cepisse: idemque si gratuita pecunia utenda data sit, aut minoris locata venditave res sit. nec refert, ipse pecuniam acceperit an alii dari iusserit vel acceptum suo nomine ratum habuerit. acceptim F

127. D. 50.17.115.1 (Lenel 195b) Non potest videri accepisse, qui stipulatus potest exceptione summoveri.

128. D. 3.6.7pr.-1 (Lenel 196) Si quis ab alio acceperit pecuniam ne mihi negotium faciat, si quidem mandatu meo datum est, vel a procuratore meo omnium rerum, vel ab eo qui negotium meum gerere volebat et ratum habui: ego dedisse intellegor. si autem non mandatu meo alius licet misericordiae causa dederit ne fiat neque ratum habui, tunc et ipsum repetere et me in quadruplum agere posse. (1) Si ut filio familias negotium fieret acceptum est, et patri actio danda est. item si filius familias pecuniam acceperit, ut faceret negotium vel non faceret, in ipsum iudicium dabitur: et si alius non meo mandatu ei dederit ne fiat, tunc etiam ipsum repetere et me in quadruplum agere posse. meo omnium] meomnium F – negotium S: decogitium F – et] etiam F2

129. D. 3.6.7.2 (Lenel 196) Cum publicanus mancipia retineret dataque ei pecunia esset quae non deberetur, et ipse ex hac parte edicti in factum actione tenetur.

130. D. 37.15.8 (Lenel 197) Heres liberti omnia iura integra extranei hominis adversus patronum defuncti habet.

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Fragmenta

Libro X

[Sui calunniatori (E. IX.36-38)] 126a. D. 3.6.2 = 126b. D. 50.17.115pr. (Lenel 195a) Certamente anche se qualcuno sia stato liberato da un’obbligazione, si può considerare che abbia ricevuto: e lo stesso se sia stato dato del denaro gratuitamente affinché se ne servisse, oppure se una cosa sia stata concessa in locazione o venduta per un corrispettivo più basso. Né importa che abbia ricevuto il denaro egli stesso o abbia ordinato che fosse dato a un altro oppure abbia ratificato quanto ricevuto a suo nome. 127. D. 50.17.115.1 (Lenel 195b) Non si può considerare che abbia ricevuto chi, dopo essersi fatto promettere attraverso una stipulazione, può essere respinto con un’eccezione. 128. D. 3.6.7pr.-1 (Lenel 196) Se qualcuno abbia ricevuto da un altro del denaro per non muovermi un’accusa, se certamente è stato dato su mio mandato, o dal mio procuratore di tutti i beni, o da chi voleva gestire un mio affare ed io abbia ratificato, si considera che l’abbia dato io. Se poi lo abbia dato un altro non su mio mandato, magari per misericordia, affinché l’accusa non venisse mossa e io non abbia ratificato, allora anche quello potrà ripetere e io agire nel quadruplo. (1) Se sia stato ricevuto per muovere un’accusa nei confronti di un figlio in potestà, l’azione dovrà essere concessa anche al padre. Ugualmente, se un figlio in potestà abbia ricevuto il denaro per muovere un’accusa o non muoverla, sarà data l’azione nei confronti dello stesso ; anche se un altro, non su mio mandato, gli abbia dato affinché non muovesse un’accusa, allora anche quello potrà ripetere e io potrò agire nel quadruplo. 129. D. 3.6.7.2 (Lenel 196) Avendo un pubblicano trattenuto degli schiavi ed essendogli stato dato del denaro che non era dovuto, anch’egli sarà tenuto sulla base di questa parte dell’editto attraverso un’azione modellata sul fatto. 130. D. 37.15.8 (Lenel 197) L’erede del liberto conserva integri nei confronti del patrono del defunto tutti i diritti di un uomo estraneo. 43

Ivano Pontoriero

Liber XI

[De in integrum restitutionibus (E. X)] [Quod metus causa gestum erit (E. 39)]

131. D. 4.2.4 (Lenel 198) Ego puto etiam servitutis timorem similiumque admittendum. 132. D. 4.2.8 (Lenel 199) Isti quidem et in legem Iuliam incidunt, quod pro conperto stupro acceperunt. praetor tamen etiam ut restituant intervenire debet: nam et gestum est malo more, et praetor non respicit, an adulter sit qui dedit, sed hoc solum, quod hic accepit metu mortis illato. (1) Si is accipiat pecuniam, qui instrumenta status mei interversurus est nisi dem, non dubitatur quin maximo metu compellat, utique si iam in servitutem petor et illis instrumentis perditis liber pronuntiari non possum. (2) Quod si dederit ne stuprum patiatur vir seu mulier, hoc edictum locum habet, cum viris bonis iste metus maior quam mortis esse debet. (3) Haec, quae diximus ad edictum pertinere, nihil interest in se quis veritus sit an in liberis suis, cum pro affectu parentes magis in liberis terreantur. co⊢n⊣perto F3 – accepit] accipit F1L1 – si i‘a’s F – nisi ‘i’dem F – pati⊢a⊣tur F3 – vir sed mulier F1: vir seu mulier glossa (Lenel): < > Krüger – hoc] ‘sed’ hoc F – ista F1

133. D. 4.2.15 (Lenel 200) Aut in id dabitur adversus ceteros actio, quod minus ab illo exactum sit. aut] quod aut FaePa: aquos ut L: Iust. (Lenel)

134. D. 4.2.21 (Lenel 201) Si mulier contra patronum suum ingrata facta sciens se ingratam, cum de suo statu periclitabatur, aliquid patrono dederit vel promiserit, ne in servitutem redigatur: cessat edictum, quia hunc sibi metum ipsa infert. (1) Quod metus causa gestum erit, nullo tempore praetor ratum habebit. (2) Qui possessionem non sui fundi tradidit, non quanti fundus, sed quanti possessio est, eius quadruplum vel simplum cum fructibus consequetur: aestimatur enim quod restitui oportet, id est quod abest: abest autem nuda possessio cum suis fructibus. Quod et Pomponius. (3) Si dos metu promissa sit, non puto nasci obligationem, quia est verissimum nec talem promissionem dotis ullam esse. (4) Si metu coactus sim 44

Fragmenta

Libro XI

[Sulle reintegrazioni (E. X)] [Ciò che sarà fatto a causa di timore (E. 39)]

131. D. 4.2.4 (Lenel 198) Io reputo che si debba ammettere anche il timore della servitù e di cose simili. 132. D. 4.2.8 (Lenel 199) Costoro certamente incorrono anche nella legge Giulia, perché hanno ricevuto per lo stupro di cui sono venuti a conoscenza. Il pretore tuttavia deve intervenire anche affinché restituiscano: infatti, da un lato, è stato fatto secondo un cattivo costume, dall’altro, il pretore non considera se chi ha dato sia un adultero, ma ciò solo, che questo ha ricevuto dopo aver incusso il timore della morte. (1) Se riceva denaro chi è in procinto di sottrarre, ove io non glielo dia, i documenti concernenti il mio stato, non si dubita che costringa con il timore più grande, soprattutto se sono già rivendicato in servitù e perduti quei documenti non posso ottenere una pronuncia che mi dichiari libero. (2) In relazione all’ipotesi in cui un uomo, o una donna, abbia dato per non patire uno stupro ha luogo questo editto, giacché per gli uomini onesti questo timore deve essere maggiore di quello della morte. (3) Non importa se qualcuno abbia temuto queste cose, che abbiamo detto concernere l’editto, per sé o per i suoi figli, dal momento che, in ragione dell’affetto, i genitori sono più atterriti per i figli. 133. D. 4.2.15 (Lenel 200) Oppure l’azione sarà concessa nei confronti dei rimanenti, in relazione a quanto sia stato conseguito in meno da quello.

134. D. 4.2.21 (Lenel 201) Se una donna, resasi ingrata nei confronti del suo patrono e sapendosi ingrata, mentre si trovava in pericolo in relazione al suo stato, abbia dato o abbia promesso qualcosa al patrono, affinché non venisse ridotta in servitù: l’editto non trova applicazione, perché lei stessa si incute questo timore. (1) Il pretore in nessun tempo considererà valido ciò che è stato fatto a causa di timore. (2) Chi ha trasferito il possesso di un fondo non suo, conseguirà insieme ai frutti il quadruplo o il semplice valore non del fondo, ma del possesso: si stima infatti ciò che è necessario restituire, vale a dire ciò che manca: manca d’altra parte il nudo possesso con i 45

Ivano Pontoriero ab emptione locatione discedere, videndum est, an nihil sit acti et antiqua obligatio remaneat, an hoc simile sit acceptilationi, quia nulla ex bonae fidei obligatione possimus niti, cum finita sit dum amittitur: et magis est ut similis species acceptilationis sit, et ideo praetoria actio nascitur. (5) Si metu coactus adii hereditatem, puto me heredem effici, quia quamvis si liberum esset noluissem, tamen coactus volui: sed per praetorem restituendus sum, ut abstinendi mihi potestas tribuatur. (6) Si coactus hereditatem repudiem, duplici via praetor mihi succurrit aut utiles actiones quasi heredi dando aut actionem metus causa praestando, ut quam viam ego elegerim, haec mihi pateat. i‘n’psa F – quod abest: abest autem] Mommsen: quod abest autem FPaLa – promisa F – quia est verissimum nec talem promis⊢s⊣ionem dotis ullam esse Fb: Iust. (Eisele): < > Krüger – ‘di’simile F – ex bonae fidei] post haec contractu ins. notat Krüger – possumus F3PLU – acceptilationis] F3PbLUa: acceptilatione F1Pa – succurit F

135. D. 4.7.5 (Lenel 202a) vel similem 136. D. 50.17.117 (Lenel 202b) Praetor bonorum possessorem heredis loco in omni causa habet.

[De dolo malo (E. 40)]

137. D. 4.3.2 (Lenel 203) vel ab eo res servari poterit, 138. D. 4.3.4 (Lenel 203) sit actio vel si ab alio res mihi servari potest. 139. D. 4.3.10 (Lenel 204) id est usque ad duos [aureos], aureos Iust. (Lenel): < > Krüger

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Fragmenta suoi frutti. La qual cosa anche Pomponio. (3) Se la dote è stata promessa con stipulazione per timore, non reputo che nasca un’obbligazione, perché è verissimo che una tale promessa di dote è nulla. (4) Se per timore sono stato costretto a recedere da una compera o da una locazione, bisogna vedere, se non vi sia nulla di fatto e rimanga l’antica obbligazione, oppure se questo sia simile all’accettilazione, poiché non possiamo fare leva su nessuna obbligazione di buona fede, estinguendosi quest’ultima mentre vi si rinuncia: ed è preferibile ritenere che sia una fattispecie simile all’accettilazione, e perciò nasce l’azione pretoria. (5) Se, costretto per timore, ho adito un’eredità, ritengo di essere diventato erede perché, sebbene, se fossi stato libero, non lo avrei voluto, tuttavia, sia pur costretto, l’ho voluto; ma devo essere reintegrato dal pretore, in modo tale che mi venga attribuita la facoltà di astenermi. (6) Se io costretto rinunci a un’eredità, il pretore viene in mio aiuto attraverso due vie, o concedendo azioni utili come se fossi un erede, oppure assicurandomi l’azione a causa di timore, in modo tale che mi sia accessibile la strada che io abbia scelto. 135. D. 4.7.5 (Lenel 202a) o una persona simile 136. D. 50.17.117 (Lenel 202b) Il pretore in ogni circostanza considera il possessore dei beni in luogo dell’erede.

[Sul dolo (E. 40)]

137. D. 4.3.2 (Lenel 203) oppure la situazione avrebbe potuto da lui essere salvaguardata, 138. D. 4.3.4 (Lenel 203) vi sia un’azione oppure se la situazione possa essere per me salvaguardata da un altro. 139. D. 4.3.10 (Lenel 204) cioè fino a due aurei,

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Ivano Pontoriero 140. D. 37.15.6 (Lenel 205) nec servi corrupti agetur, 141. D. 4.3.12 (Lenel 206) ne ex dolo suo lucrentur. 142. D. 4.3.14 (Lenel 207) Quid enim, si impetraverit a [procuratore] petitoris, ut ab eo absolveretur, vel si de tutore mentitus pecuniam accepit, vel alia similia admisit, quae non magnam machinationem exigunt? procuratore Iust. (Lenel): < > Krüger

143. D. 4.3.16 (Lenel 208) Item exigit praetor, ut comprehendatur, quid dolo malo factum sit: scire enim debet actor, in qua re circumscriptus sit, nec in tanto crimine vagari. sc⊢i⊣re Fb

144. D. 4.3.18 (Lenel 209) Arbitrio iudicis in hac quoque actione restitutio comprehenditur: et nisi fiat restitutio, sequitur condemnatio quanti ea res est. ideo autem et hic et in metus causa actione certa quantitas non adicitur, ut possit per contumaciam suam tanti reus condemnari, quanti actor in litem iuraverit: sed officio iudicis debet in utraque actione taxatione iusiurandum refrenari. (1) Non tamen semper in hoc iudicio arbitrio iudicis dandum est: quid enim si manifestum sit restitui non posse (veluti si servus dolo malo traditus defunctus sit) ideoque protinus condemnari debeat in id quod intersit actoris? (2) Si dominus proprietatis insulam, cuius usus fructus legatus erat, incenderit, non est de dolo actio, quoniam aliae ex hoc oriuntur actiones. (3) De eo qui sciens commodasset pondera, ut venditor emptori merces adpenderet, Trebatius de dolo dabat actionem. atquin si maiora pondera commodavit, id quod amplius mercis datum est repeti condictione potest, si minora, ut reliqua merx detur ex empto agi potest: nisi si ea condicione merx venit, ut illis ponderibus traderetur, cum ille decipiendi causa adfirmasset se aequa pondera habere. (4) Dolo cuius effectum est, ut lis temporibus legitimis transactis pereat: Trebatius ait de dolo dandum iudicium, non ut arbitrio iudicis res restituatur, sed ut tantum actor consequatur, quanti eius interfuerit id non esse factum, ne aliter observantibus lex circumscribatur. (5) Si servum, quem tu mihi promiseras, alius occiderit, de dolo malo actionem in eum dandam plerique recte putant, quia tu a me liberatus sis: ideoque legis Aquiliae actio tibi denegabitur. in⊣ hac Fb – tam⊢en⊣ F2 – arbitrio F: arbitrium? Mommsen ex codd. PbLb – restitu‘t’i‘o’ F: res restitui P – actoris si dom. Fb – quoniam aliae ex hoc oriuntur actione⊢s⊣ F2: Iust.? (Wlassak) – pondera] iniqua ins. Mommsen



⊢ ⊣

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Fragmenta 140. D. 37.15.6 (Lenel 205) e neppure si agirà per la corruzione del servo, 141. D. 4.3.12 (Lenel 206) in modo che non lucrino del proprio dolo. 142. D. 4.3.14 (Lenel 207) Cosa fare, infatti, se abbia con preghiere ottenuto dal procuratore dell’attore di essere nei suoi confronti assolto, oppure se dopo aver mentito in relazione al tutore, ha ricevuto denaro, oppure ha commesso altre cose simili, che non richiedono una grande macchinazione?

143. D. 4.3.16 (Lenel 208) Parimenti il pretore esige che venga indicato cosa sia stato fatto con dolo: l’attore deve infatti sapere, in che cosa sia stato raggirato, e non essere vago in un’accusa tanto grave.

144. D. 4.3.18 (Lenel 209) Anche in questa azione è ricompresa la restituzione, secondo la valutazione del giudice: e se non si effettua la restituzione, segue la condanna per il valore della controversia. Per questo motivo, poi, sia qui sia nell’azione a causa di timore non si aggiunge una quantità certa, in modo tale che il convenuto possa essere condannato a causa della sua contumacia a tanto quanto l’attore avrà giurato sulla lite; ma, attraverso l’ufficio del giudice, nell’una e nell’altra azione il giuramento deve essere contenuto attraverso l’indicazione di un limite massimo (1) Non sempre tuttavia in questo giudizio si deve dare secondo la valutazione del giudice: che cosa accade, infatti, se sia manifesto che non si possa restituire (come, per esempio, se il servo consegnato per dolo sia morto) e perciò si debba immediatamente condannare nella misura dell’interesse dell’attore? (2) Se il nudo proprietario abbia incendiato il casamento, il cui usufrutto era stato disposto per legato, non vi è l’azione di dolo, perché da ciò traggono origine altre azioni. (3) Trebazio concedeva l’azione di dolo in relazione a chi consapevolmente avesse dato in comodato dei pesi , affinché il venditore pesasse le merci al compratore. Eppure, se ha dato in comodato dei pesi maggiorati, si può ripetere con l’azione di ripetizione per intimazione la merce che è stata data in più, se ridotti, si può agire in forza della compera affinché venga data la merce rimanente: a meno che la merce non sia stata venduta con questa condizione, che fosse consegnata ricorrendo a quei pesi, avendo quello affermato di avere dei pesi esatti allo scopo di ingannare. (4) Per dolo di qualcuno è stato fatto in modo che la lite perisse per il decorso dei termini previsti dalla legge: 49

Ivano Pontoriero – maiura Fae – repeti‘t’ F – condicione‘m’ merx F – s⊢e⊣ aequa F2 – ponder⊢a⊣ F3 – temporibus legitimis] < > Krüger – ne aliter observantibus lex circumscribatur Iust. (Tuor) – de dolo malo actionem] mihi ins. Mommsen – re⊢c⊣te Fb

145. D. 4.3.20 (Lenel 210) Servus tuus cum tibi deberet nec solvendo esset, hortatu tuo pecuniam mutuam a me accepit et tibi solvit: Labeo ait de dolo malo actionem in te dandam, quia nec de peculio utilis sit, cum in peculio nihil sit, nec in rem domini versum videatur, cum ob debitum dominus acceperit. (1) Si persuaseris mihi nullam societatem tibi fuisse cum eo, cui heres sum, et ob id iudicio absolvi te passus sim: dandam mihi de dolo actionem Iulianus scribit. debere⊢t⊣ F2 – eo] co Fae – absolv⊢i⊣te Fb

146. D. 4.3.22 (Lenel 211) Nam sufficit periurii poena. 147. D. 4.3.25 (Lenel 212) Cum a te pecuniam peterem eoque nomine iudicium acceptum est, falso mihi persuasisti, tamquam eam pecuniam servo meo aut procuratori solvisses, eoque modo consecutus es, ut consentiente me absolveris: quaerentibus nobis, an in te doli iudicium dari debeat, placuit de dolo actionem non dari, quia alio modo mihi succurri potest: nam ex integro agere possum et si obiciatur exceptio rei iudicatae, replicatione iure uti potero. paterem F – es] est F

148. D. 6.1.7 (Lenel 214) Si is, qui optulit se fundi vindicationi, damnatus est, nihilo minus a possessore recte petitur, sicut Pedius ait. 149. D. 4.3.27 (Lenel 213a) dolove malo eius factum est, quo minus pervenerit.

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Fragmenta Trebazio afferma che debba essere concessa l’azione di dolo, non per ottenere la restituzione della cosa secondo la valutazione del giudice, ma affinché l’attore consegua tanto quanto sarà stato il suo interesse a che ciò non venisse fatto, in modo tale che, regolandosi diversamente, la legge non venga elusa. (5) Se un altro abbia ucciso il servo, che tu mi avevi promesso, i più reputano correttamente che debba essere concessa contro di lui l’azione di dolo, perché tu saresti stato liberato nei miei confronti: e perciò ti sarà denegata l’azione della legge Aquilia. 145. D. 4.3.20 (Lenel 210) Essendo il tuo servo tuo debitore e non essendo egli solvibile, su tua esortazione ha da me ricevuto denaro a mutuo e ti ha pagato: Labeone afferma che debba essere concessa l’azione di dolo nei tuoi confronti, perché non è utile l’azione nei limiti del peculio, non essendoci nulla nel peculio, né si considera riversato nel patrimonio del padrone, dal momento che il padrone ha ricevuto per il debito. (1) Se tu mi abbia persuaso di non avere avuto alcuna società con quello di cui sono erede, e per questo motivo io abbia permesso che tu venissi assolto in giudizio: Giuliano scrive che debba essermi concessa l’azione di dolo. 146. D. 4.3.22 (Lenel 211) Infatti è sufficiente la pena per lo spergiuro. 147. D. 4.3.25 (Lenel 212) Dato che ti chiedevo del denaro e a tale titolo è stato accettato il giudizio, mi hai falsamente persuaso che tu avessi pagato questo denaro al mio schiavo o al procuratore, e in questo modo hai ottenuto con il mio consenso di essere assolto: ponendoci noi la questione se dovesse essere concesso nei tuoi confronti un giudizio di dolo, parve bene che l’azione di dolo non venisse concessa, perché si può venire in mio aiuto in un altro modo: infatti posso agire di nuovo e, se venga opposta l’eccezione di cosa giudicata, potrò servirmi secondo il diritto di una replica. 148. D. 6.1.7 (Lenel 214) Se chi si è offerto per la rivendica di un fondo è stato condannato, nondimeno si chiede correttamente al possessore, come afferma Pedio. 149. D. 4.3.27 (Lenel 213a) o, per suo dolo, è stato fatto in modo che non gli pervenisse.

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Ivano Pontoriero 150. D. 4.3.29 (Lenel 213b) Sabinus putat calculi ratione potius quam maleficii heredem conveniri, denique famosum non fieri: ideoque in perpetuum teneri oportere.

[De minoribus viginti quinque annis (E. 41)]

151. D. 4.4.10 (Lenel 215) nisi ex magna causa hoc a principe fuerit consecutus. 152. D. 4.4.14 (Lenel 216) Plane quamdiu is qui a minore rem accepit aut heres eius idoneus sit, nihil novi constituendum est in eum, qui rem bona fide emerit, idque et Pomponius scribit. minore rem] fPVLbU: minorem F: minore La

153. D. 4.4.23 (Lenel 217a) Cum mandato patris filius familias res administraret, non habet beneficium restitutionis: nam et si alius ei mandasset, non succurreretur, cum eo modo maiori potius consuleretur, cuius damno res sit cessura. sed si eventu damnum minor passurus sit, quia quod praestiterit servare ab eo cuius negotia gessit non potest, quia is non erit solvendo, sine dubio praetor interveniet. si autem ipse dominus minor sit, procurator vero maioris aetatis, non potest facile dominus audiri, nisi si mandatu eius gestum erit nec a procuratore servari res possit. ergo et si [procuratorio] nomine minor circumscriptus sit, imputari debet hoc domino, qui tali commisit sua negotia. idque et Marcello placet. mandato F1PLU: mandatu F2 – si autem ipse dominus minor sit, procurator vero maioris aetatis (veru maioris Fae) … possit Iust.? (Gradenwitz, Lenel) – possit ergo et si procuratorio] ‘pos’possit ‘etsi procuratore observari res possit’ ergo et si procuratorio (cognitorio Lenel) F: possit ergo et si a procuratorio Pa

154. D. 4.4.24 pr.-5 (Lenel 217b + 218) Quod si minor sua sponte negotiis maioris intervenerit, restituendus erit, ne maiori damnum accidat. quod si hoc facere recusaverit, tunc si conventus fuerit negotiorum gestorum, adversus hanc actionem non restituitur: sed compellendus est sic ei cedere auxilio in integrum restitutionis, ut procuratorem eum in rem suam faciat, ut possit per hunc modum damnum sibi propter minorem contingens resarcire. (1) Non semper autem ea, quae cum minoribus geruntur, rescindenda sunt, sed ad bonum et aequum redigenda sunt, ne magno incommodo huius aetatis homines adficiantur nemine cum his contrahente 52

Fragmenta 150. D. 4.3.29 (Lenel 213b) Sabino reputa che l’erede venga convenuto in ragione del calcolo, piuttosto che del maleficio, e così che non divenga infame: e perciò è necessario che sia tenuto in perpetuo.

[Sui minori di venticinque anni (E. 41)]

151. D. 4.4.10 (Lenel 215) a meno che non abbia ottenuto questo dal principe per un grave motivo. 152. D. 4.4.14 (Lenel 216) Chiaramente per tutto il tempo in cui chi ha ricevuto una cosa da un minore oppure il suo erede siano solvibili, non deve essere stabilito nei confronti di chi abbia acquistato in buona fede nulla di nuovo, e ciò scrive anche Pomponio.

153. D. 4.4.23 (Lenel 217a) Amministrando i beni su mandato del padre il figlio in potestà, non ha il beneficio della reintegrazione: infatti anche se un altro gli avesse conferito il mandato, non gli si verrebbe in aiuto, dal momento che in tal modo si provvederebbe piuttosto in favore del maggiore, a danno del quale la cosa dovrebbe ricadere. Ma se per l’accaduto il minore stia per patire un danno, perché non può recuperare ciò che ha pagato da quello i cui affari ha gestito, non essendo questi solvibile, senza dubbio il pretore interverrà. Se poi sia minore lo stesso interessato, ma il procuratore di età maggiore, non si può facilmente dare ascolto all’interessato, tranne se sarà stato gestito su suo mandato e la cosa non possa essere recuperata dal procuratore. Dunque anche se il minore sia stato circonvenuto in qualità di procuratore, ciò deve essere imputato all’interessato, che affidò i suoi affari ad una tale persona. E ciò sembra bene anche a Marcello. 154. D. 4.4.24 pr.-5 (Lenel 217 + 218) Se poi il minore sia intervenuto spontaneamente negli affari di un maggiore, dovrà essere reintegrato, affinché al maggiore non derivi un danno. Se poi abbia rifiutato di fare questo, e se sia stato allora convenuto con l’azione di gestione d’affari, rispetto a questa azione non viene reintegrato: ma deve essere costretto a cedergli il rimedio della reintegrazione, in modo tale da renderlo procuratore nel proprio interesse, affinché possa in tal modo risarcire il danno a lui occorso a causa del minore. (1) Non sempre poi quegli affari, che sono gestiti con i mi53

Ivano Pontoriero et quodammodo commercio eis interdicetur. itaque nisi aut manifesta circumscriptio sit aut tam neglegenter in ea causa versati sunt, praetor interponere se non debet. (2) Scaevola noster aiebat, si quis iuvenili levitate ductus omiserit vel repudiaverit hereditatem vel bonorum possessionem, si quidem omnia in integro sint, omnimodo audiendus est: si vero iam distracta hereditate et negotiis finitis ad paratam pecuniam laboribus substituti veniat, repellendus est: multoque parcius ex hac causa heredem minoris restituendum esse. (3) Si servus vel filius familias minorem circumscripserit, pater dominusve quod ad eum pervenerit restituere iubendus est, quod non pervenerit ex peculio eorum praestare: si ex neutro satisfiet et dolus servi intervenerit, aut verberibus castigandus aut noxae dedendus erit. sed et si filius familias hoc fecit, ob dolum suum condemnabitur. (4) Restitutio autem ita facienda est, ut unusquisque integrum ius suum recipiat. itaque si in vendendo fundo circumscriptus restituetur, iubeat praetor emptorem fundum cum fructibus reddere et pretium recipere, nisi si tunc dederit, cum eum perditurum non ignoraret: sicuti facit in ea pecunia, quae ei consumpturo creditur, sed parcius in venditione, quia aes alienum ei solvitur, quod facere necesse est, credere autem non est necesse. nam et si origo contractus ita constitit, ut infirmanda sit, si tamen necesse fuit pretium solvi, non omnimodo emptor damno adficiendus est. (5) Ex hoc edicto nulla propria actio vel cautio proficiscitur: totum enim hoc pendet ex praetoris cognitione. sua sponte] sua poste F1 (em. m. 3) – accidit F1: accedat U – facerecusaverit F (suppl. f) – auxilio FemPaLaUa: auxilioum Fae: auxilium PbLbUb – bonum‘a’ et F – aut tam] autam F (suppl. m. 3): ὅτε … ῥᾳθυμία αὐτῶν μεγάλη Β: fortasse scr. aut admodum Mommsen – ne⊢g⊣legenter F2 – vel repudiaverit hereditatem vel] Iust. (Gradenwitz) – laboribu⊢s⊣ substitu⊢t⊣i F2 – pater] patea F1 – restituere (restitere altero loco) i. e. q. n. pervenerit bis Fae: om. PaV – berberibus F1 – noxat F1 – condemnabitur] noxae dedetur? Lenel – integrum] F2Pb: in integrum F1PaLU: ἡ ἀποκατάστασις ἑκάστῳ περιποιεῖ τὸ ἴδιον δίκαιον B – restituetur] FbPU: restitueretur FaL – tunc] tuno F1 – ei] si F1 – cred‘r’e‘d’re F

155. D. 4.4.26 (Lenel 219) Quod si de speciali mandatu dubitetur, cum restitutio postuletur, interposita stipulatione ratam rem dominum habiturum rei potest mederi. (1) Quod si is, qui circumscripsisse dicitur, absit, defensor eius satis iudicatum solvi dare debebit. postuletur] FemPa: postuleretur Fae: postularetur VLU – ratam om. Fa – po⊢te⊣st F3

[De capite minutis (E. 42)]

156. D. 4.5.3 (Lenel 220) Liberos qui adrogatum parentem sequuntur placet minui caput, cum in aliena potestate sint et cum familiam mutaverint. (1) Emancipato filio et ceteris personis capitis minutio manifesto accidit, cum 54

Fragmenta nori, devono essere rescissi, ma vanno ricondotti al buono e all’equo, affinché gli uomini di questa età non siano colpiti da grave pregiudizio, non contraendo nessuno con loro e in certo qual modo non venga loro interdetto il commercio. E così, a meno che la circonvenzione non sia manifesta o non si siano comportati in quella vicenda in modo particolarmente negligente, il pretore non deve interporsi. (2) Il nostro Scevola affermava: se qualcuno, spinto dalla leggerezza giovanile, abbia omesso il compimento degli atti necessari o rifiutato un’eredità o il possesso dei beni, se certamente tutte le cose si trovino nel pristino stato, deve essere in ogni modo ascoltato: ma se, essendo già venduta l’eredità e portati a termine i negozi, egli miri al denaro approntato grazie alle fatiche del sostituto, deve essere respinto; e in forza di tale causa l’erede del minore dovrà essere reintegrato in modo molto più parco. (3) Se un servo o un figlio in potestà abbiano raggirato un minore, si deve ordinare al padre o al padrone di restituire ciò che sarà a lui pervenuto e di prestare dal loro peculio ciò che non sarà pervenuto; se non sarà soddisfatto da nessuna delle due cose e sia intervenuto dolo da parte del servo, dovrà essere punito con la fustigazione o dato a nossa. Ma anche se lo ha commesso un figlio in potestà, sarà condannato per il suo dolo. (4) La reintegrazione poi deve essere fatta in modo tale che ciascuno recuperi integro il suo diritto. E così se venga reintegrato chi è stato raggirato nella vendita di un fondo, il pretore ordini al compratore di restituire il fondo con i frutti e di ricevere indietro il prezzo, a meno che allora non lo abbia pagato nonostante non ignorasse che quello lo avrebbe dissipato: come fa con riferimento a quel denaro che viene dato in prestito a quello che è in procinto di consumarlo, ma in modo più parco con riferimento alla vendita, perché gli viene pagato un debito, il che è necessario fare, mentre non è necessario dare in prestito. Infatti anche se l’origine del contratto ha un fondamento tale da dover essere infirmata, se tuttavia è stato necessario che il prezzo venisse pagato, il compratore non in ogni caso deve subire il danno. (5) Da questo editto non deriva nessuna particolare azione o cauzione: tutto questo infatti dipende dalla cognizione del pretore. 155. D. 4.4.26 (Lenel 219) Se poi, quando venga chiesta la reintegrazione, si dubiti in relazione a un mandato speciale, si può porre rimedio alla situazione attraverso l’interposizione della stipulazione che l’interessato ratificherà quanto compiuto. (1) Se poi sia assente colui il quale si dice che abbia circonvenuto, il suo difensore dovrà prestare stipulazione di garanzia che il giudicato sarà adempiuto.

[Su quelli che hanno subito un mutamento di stato (E. 42)]

156. D. 4.5.3 (Lenel 220) Pare bene che i figli che seguono l’ascendente arrogato subiscano un mutamento di stato, trovandosi in potestà di un altro e avendo cambiato famiglia. (1) Manifestamente si verifica 55

Ivano Pontoriero emancipari nemo possit nisi in imaginariam servilem causam deductus: aliter atque cum servus manumittitur, quia servile caput nullum ius habet ideoque nec minui potest: m⊣inui F3– etmancipato F (em. f) – ideo⊢q.⊣ F2



157. D. 4.5.5 (Lenel 221) Amissione civitatis fit capitis minutio, ut in aqua et igni interdictione. (1) Qui deficiunt, capite minuuntur (deficere autem dicuntur, qui ab his, quorum sub imperio sunt, desistunt et in hostium numerum se conferunt): sed et hi, quos senatus hostes iudicavit vel lege lata: utique usque eo, ut civitatem amittant. (2) Nunc respiciendum, quae capitis deminutione pereant: et primo de ea capitis deminutione, quae salva civitate accidit, per quam publica iura non interverti constat: nam manere magistratum vel senatorem vel iudicem certum est. qui] que F1 – res‘ci’piciendum F: rescipiendum P

158. D. 4.5.7 (Lenel 222a) Tutelas etiam non amittit capitis minutio exceptis his, quae in iure alieno personis positis deferuntur. igitur testamento dati vel ex lege vel ex senatus consulto erunt nihilo minus tutores: sed legitimae tutelae ex duodecim tabulis intervertuntur eadem ratione, qua et hereditates exinde legitimae, quia adgnatis deferuntur, qui desinunt esse familia mutati. ex novis autem legibus et hereditates et tutelae plerumque sic deferuntur, ut personae naturaliter designentur: ut ecce deferunt hereditatem senatus consulta matri et filio. (1) Iniuriarum et actionum ex delicto venientium obligationes cum capite ambulant. (2) Si libertate adempta capitis deminutio subsecuta sit, nulli restitutioni adversus servum locus est, quia nec praetoria iurisdictione ita servus obligatur, ut cum eo actio sit: sed utilis actio adversus dominum danda est, ut Iulianus scribit, et nisi in solidum defendatur, permittendum mihi est in bona quae habuit mitti. (3) Item cum civitas amissa est, nulla restitutionis aequitas est adversus eum, qui amissis bonis et civitate relicta nudus exulat. quae ... positis] quae iure agnationis proximis potissimum (Cuiacius) – nihil⊢o⊣minus F2 – tutelae om. F1 – duodecem Fae – interverturtur Fae – ex novis … deferunt (defer⊢un⊣t F2) hereditatem senatus consulta matri et filio] Iust. aut certe pro et hereditates et tutelae leg. hereditates (Lenel) – ⊢ca⊣pite F2 – subsecuta‘s’ sit F – bonis e‘s’t F – exulat] exulta Fae

159. D. 50.16.21 (Lenel 222b) Princeps ‘bona’ concedendo videtur etiam obligationes concedere. concedend‘a’o Fb

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Fragmenta un mutamento di stato quando vengono emancipati il figlio e le rimanenti persone, non potendo nessuno essere emancipato senza essere ridotto in una fittizia condizione servile; diversamente da quando si manomette un servo, perché la persona in condizione servile non ha alcun diritto e perciò non può neppure subire un mutamento di stato: 157. D. 4.5.5 (Lenel 221) Con la perdita della cittadinanza si verifica un mutamento di stato, come nel caso dell’interdizione dall’acqua e dal fuoco. (1) Coloro i quali defezionano, subiscono un mutamento di stato (si dicono poi defezionare coloro i quali abbandonano quelli sotto il cui comando si trovano e si portano nel novero dei nemici); ma anche quelli che il senato o una legge approvata hanno giudicato come nemici: al punto da perdere la cittadinanza. (2) Adesso bisogna prendere in considerazione quali cose vengano meno con il mutamento di stato; e in primo luogo a proposito di quel mutamento di stato, che si verifica conservando la cittadinanza, per mezzo del quale consta che non vengano tolti i diritti pubblicistici: infatti è certo che permanga magistrato o senatore o giudice. 158. D. 4.5.7 (Lenel 222a) Il mutamento di stato non fa perdere neppure le tutele, eccetto quelle che sono conferite a persone sottoposte al diritto altrui. Quindi quelli dati per testamento, per legge o per senatoconsulto saranno nondimeno tutori: ma le tutele legittime derivanti delle dodici tavole sono revocate per la stessa ragione, per cui lo sono anche le eredità legittime derivanti dalle stesse, perché sono conferite agli agnati che smettono di essere tali dopo aver subito un cambiamento in relazione alla famiglia. Poi in forza di nuove leggi sia le eredità sia le tutele il più delle volte sono conferite così, in modo tale che le persone vengano designate sulla base di vincoli naturali: come, ecco, i senatoconsulti conferiscono l’eredità alla madre e al figlio. (1) Le obbligazioni per le ingiurie e per le azioni che scaturiscono da un delitto transitano con la persona. (2) Se il mutamento di stato sia conseguenza della perdita della libertà, non ha luogo alcuna reintegrazione nei confronti del servo, perché neppure in forza della giurisdizione pretoria il servo si obbliga in modo tale che vi sia un’azione nei suoi confronti; ma deve essere concessa un’azione utile nei confronti del padrone, come scrive Giuliano, e a meno che non sia difeso per l’intero, mi deve essere permessa l’immissione nel possesso dei beni che ha avuto. (3) Parimenti quando viene persa la cittadinanza, non vi è alcuna equa rientegrazione nei confronti di chi, persi i beni e lasciata la cittadinanza va in esilio privo di ogni cosa. 159. D. 50.16.21 (Lenel 222b) Si considera che il principe concedendo ‘i beni’ conceda anche le obbligazioni.

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Ivano Pontoriero 160. D. 4.5.9 (Lenel 223) ut quandoque emancipata agat. 161. D. 41.1.42 (Lenel 224) Substitutio, quae nondum competit, extra bona nostra est. 162. D. 44.7.40 (Lenel 225) Hereditariarum actionum loco habentur et legata, quamvis ab herede coeperint. coeperint Fa

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Fragmenta 160. D. 4.5.9 (Lenel 223) In modo tale che la figlia, una volta emancipata, possa agire. 161. D. 41.1.42 (Lenel 224) La sostituzione, che ancora non compete, è al di fuori dei nostri beni. 162. D. 44.7.40 (Lenel 225) Sono considerati in luogo di azioni ereditarie anche i legati, sebbene abbiano avuto inizio dall’erede.

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Ivano Pontoriero

Liber XII

[Quod eo auctore qui tutor non fuerit (gestum [?]) esse dicatur (E. 43)]

163. D. 27.6.2 (Lenel 236a) ‘Si id’, inquit, ‘actor ignoraverit’. Labeo: et si dictum sit ei et bona fide non crediderit.

164. D. 27.6.4 (Lenel 236b) Minori viginti quinque annis succurretur, etiamsi scierit. 165. D. 27.6.6 (Lenel 236c) Pupilli scientia computanda non est, tutoris eius computanda est: utique etsi pupillo cautum sit, melius dicitur rem suam restitui pupillo quam incertum cautionis eventum eum spectare: quod et Iulianus, si alias circumventus sit pupillus, respondit. utique] si pupillo cautum est: sed ins. Mo.

166. D. 27.6.8 (Lenel 237) et ideo si nihil aut non totum servatum sit, in reliquos non denegandam in id quod deest Sabinus scribit. denegandam: fuerit dandam (Krüger)

[Ex quibus causis maiores viginti quinque annis in integrum restituuntur (E. 44)]

167. D. 4.6.6 (Lenel 226) ut sunt magistratus. u⊢t⊣ sunt Fb

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Fragmenta

Libro XII

[Ciò che si dica essere stato (fatto [?]) con l’autorizzazione di chi non sia stato tutore (E. 43)]

163. D. 27.6.2 (Lenel 236a) ‘Se ciò’, dice, ‘l’attore abbia ignorato’. Labeone: anche se gli sia stato detto e in buona fede non lo abbia creduto. 164. D. 27.6.4 (Lenel 236b) Si presterà soccorso al minore di venticinque anni, anche se abbia saputo. 165. D. 27.6.6 (Lenel 236c) Non si deve tenere conto della conoscenza del pupillo, si deve tenere conto di quella del suo tutore: in ogni caso anche se sia stata prestata stipulazione di garanzia a favore del pupillo, si dice meglio che al pupillo sia restituita la propria cosa, piuttosto che egli aspetti l’incerto esito della stipulazione di garanzia; la qual cosa rispose anche Giuliano, se il pupillo sia stato altrimenti circonvenuto. 166. D. 27.6.8 (Lenel 237) E perciò se non sia stato conseguito nulla o non tutto, Sabino scrive che nei confronti dei rimanenti non si deve denegare l’azione per ciò che manca.

[Per quali cause i maggiori di venticinque anni vengono reintegrati (E. 44)]

167. D. 4.6.6 (Lenel 226) come i magistrati.

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Ivano Pontoriero 168. D. 4.6.13 (Lenel 227) Recte Labeo ait eum non contineri, qui liber et heres institutus sit, antequam sit heres, quia nec bona habeat et praetor de liberis hominibus loquatur. (1) Puto tamen filius familias in castrensi peculio pertinere ad hoc edictum. e‘s’t heres F2 – tamen] etiam Mommsen (cf. Krüger).

169. D. 4.6.16 (Lenel 228) Non enim neglegentibus subvenitur, sed necessitate rerum impeditis. totumque istud arbitrio praetoris temperabitur, id est ut ita demum restituat, si non neglegentia, sed temporis angustia non potuerunt litem contestari.

170. D. 4.6.18 (Lenel 229) Sciendum est, quod in his casibus restitutionis auxilium maioribus damus in quibus rei dumtaxat persequendae gratia queruntur, non cum et lucri faciendi ex alterius poena vel damno auxilium sibi impertiri desiderant. Sciendum est quod (!) in his casibus] Tribonianus indicatur scribendi genere (Lenel)

171. D. 2.8.6 (Lenel 230) Quotiens vitiose cautum vel satisdatum est, non videtur cautum.

172. D. 4.6.22 (Lenel 231) Ergo sciendum est non aliter hoc edictum locum habere, quam si amici eius interrogati fuerint, an defendant, aut si nemo sit, qui interrogari potest. ita enim absens defendi non videtur, si actor ultro interpellat nec quisquam defensioni se offerat: eaque testatione complecti oportet. (1) Sicut igitur damno eos adfici non vult, ita lucrum facere non patitur. (2) Quod edictum etiam ad furiosos et infantes et civitates pertinere Labeo ait. vide‘re’tur Fb – eos om. Fa

173. D. 41.3.8 (Lenel 232) Labeo Neratius responderunt ea, quae servi peculiariter nancti sunt, usucapi posse, quia haec etiam ignorantes domini usucapiunt: idem Iulianus scribit. (1) Sed eum, qui suo nomine nihil usucapere potest, ne per servum quidem posse Pedius scribit. usucapi] ab infante quoque et fuorioso ante usucapi suppl. Mo. (cf. D. 41.2.1.5)

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Fragmenta 168. D. 4.6.13 (Lenel 227) Correttamente Labeone afferma che non è ricompreso chi sia stato liberato e istituito erede, prima che sia erede, perché non ha beni e il pretore parla di uomini liberi. (1) Reputo tuttavia che questo editto riguardi il figlio in potestà per quanto concerne il peculio castrense.

169. D. 4.6.16 (Lenel 228) Non si viene infatti in aiuto delle persone negligenti, ma di quanti, per uno stato di necessità, hanno subito un impedimento. E tutto ciò sarà temperato dalla valutazione del pretore, vale a dire in modo che reintegri solamente se, non per negligenza, ma per la ristrettezza del tempo, non hanno potuto procedere alla contestazione della lite. 170. D. 4.6.18 (Lenel 229) Bisogna sapere che diamo ai maggiori l’ausilio della reintegrazione nei casi in cui lo chiedono con finalità meramente reipersecutoria, non quando desiderano che l’ausilio venga loro concesso anche per conseguire un lucro dalla pena o dal danno di un altro.

171. D. 2.8.6 (Lenel 230) Tutte le volte in cui è stata prestata una cauzione o una satisdazione viziata, non si ritiene che si sia garantito. 172. D. 4.6.22 (Lenel 231) Bisogna dunque sapere che questo editto ha luogo non altrimenti che se sia stato chiesto agli amici di colui che è assente se lo difendano, o se non vi sia nessuno a cui possa essere chiesto. Così infatti l’assente si considera non difeso, se l’attore lo richieda di propria iniziativa e nessuno si offra per la difesa: ed è necessario che queste cose vengano ricomprese in un’attestazione. (1) Come dunque non vuole che patiscano un danno, così non permette che ottengano un lucro. (2) Labeone afferma che questo editto concerne anche i furiosi, gli infanti e le città.

173. D. 41.3.8 (Lenel 232) Labeone e Nerazio risposero che si potessero usucapire le cose che i servi hanno ottenuto attraverso il peculio, perché i padroni usucapiscono queste cose anche senza esserne a conoscenza: lo stesso scrive Giuliano. (1) Ma Pedio scrive che chi non può usucapire nulla in suo nome, non possa certamente farlo neppure attraverso un servo. 63

Ivano Pontoriero 174. D. 4.6.24 (Lenel 233) Sed et ad eos pertinet, qui conventi frustrantur et qualibet tergiversatione et sollertia efficiunt, ne cum ipsis agi possit.

175. D. 4.6.27 (Lenel 234) Et sive quid amiserit vel lucratus non sit, restitutio facienda est, etiamsi non ex bonis quid amissum sit. lucratis F1

176. D. 4.6.30 (Lenel 235) Cum miles qui usucapiebat decesserit et heres impleverit usucapionem, aequum est rescindi quod postea usucaptum est, ut eadem in heredibus, qui in usucapionem succedunt, servanda sint: quia possessio defuncti quasi iniuncta descendit ad heredem et plerumque nondum hereditate adita completur. (1) Si is, qui rei publicae causa afuit, usucepit et post usucapionem alienaverit rem, restitutio facienda erit et licet sine dolo afuerit et usuceperit, lucro eius occurri oportet. item ex reliquis omnibus causis restitutio facienda erit, veluti si adversus eum pronuntiatum sit. servand⊢da⊣ Fb – quasiuncta F1

[De lite restituenda (E. 45)]

177. D. 6.1.8 (Lenel 238) Pomponius libro trigensimo sexto probat, si ex aequis partibus fundum mihi tecum communem tu et Lucius Titius possideatis, non ab utrisque quadrantes petere me debere, sed a Titio, qui non sit dominus, totum semissem. aliter atque si certis regionibus possideatis eum fundum: nam tunc sine dubio et a te et a Titio partes fundi petere me debere: quotiens enim certa loca possidebuntur, necessario in his aliquam partem meam esse: et ideo te quoque a Titio quadrantem petere debere. quae distinctio neque in re mobili neque in hereditatis petitione locum habet: nunquam enim pro diviso possideri potest. petitioni F (em. f)

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Fragmenta 174. D. 4.6.24 (Lenel 233) Ma concerne anche coloro i quali, dopo essere stati convenuti, tengono condotte dilatorie e attraverso qualsivoglia tergiversazione e astuzia fanno in modo che non si possa agire contro di loro. 175. D. 4.6.27 (Lenel 234) La reintegrazione va fatta sia che abbia perso qualcosa, sia che non abbia guadagnato, anche se non sia andato perduto nessuno dei suoi beni.

176. D. 4.6.30 (Lenel 235) Essendo deceduto il militare che usucapiva e avendo l’erede completato l’usucapione, è equo che venga rescisso ciò che è stato usucapito dopo, in modo tale che le stesse cose vengano osservate con riferimento agli eredi che succedono nell’usucapione: perché il possesso del defunto si trasmette all’erede come se fosse unito al suo e il più delle volte si completa quando l’eredità non è stata ancora adita. (1) Se ha usucapito chi è stato assente per un interesse pubblico e dopo l’usucapione abbia alienato la cosa, dovrà farsi la reintegrazione e, sebbene sia stato assente senza dolo e abbia usucapito, è necessario che si ponga rimedio al suo lucro. Parimenti dovrà farsi la reintegrazione sulla base di tutte le rimanenti cause, come per esempio se sia stata emanata una pronuncia contro di lui.

[Sulla reintegrazione che deve essere fatta in relazione alla lite (E. 45)]

177. D. 6.1.8 (Lenel 238) Pomponio nel trentaseiesimo libro approva che, se tu e Lucio Tizio possediate il fondo in comunione tra me e te in parti uguali, io non debba chiedere la quarta parte all’uno e all’altro, ma l’intera metà a Tizio, che non è proprietario. Diversamente, invece, se possediate questo fondo in appezzamenti determinati: allora, infatti, senza dubbio io devo chiedere le parti del fondo sia a te sia a Tizio: quante volte infatti saranno posseduti dei luoghi determinati, necessariamente in questi qualche parte è mia: e perciò anche tu devi chiedere a Tizio la quarta parte. Tale distinzione non ha luogo né in relazione a una cosa mobile, né in relazione alla petizione di eredità: giammai infatti si può possedere per parti individuate.

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Ivano Pontoriero [De alienatione iudicii mutandi causa facta (E. 46)]

178. D. 4.7.8 (Lenel 239a) Ex hoc edicto tenetur et qui rem exhibet, si arbitratu iudicis pristinam iudicii causam non restituit. (1) Ait praetor: ‘quaeve alienatio iudicii mutandi causa facta erit’: id est si futuri iudicii causa, non eius quod iam sit. (2) Alienare intellegitur etiam qui alienam rem vendidit. (3) Sed heredem instituendo vel legando si quis alienet, huic edicto locus non erit. (4) Si quis alienaverit, deinde receperit, non tenebitur hoc edicto. (5) Qui venditori suo redhibet, non videtur iudicii mutandi causa abalienare, id est si] id est sisi F – i⊢udicii⊣ causa F2 – si ‘qi’quis F

179? D. 4.7.10* (Lenel 239b) Nam et si obligatus solvero quod a me petere velles, huic edicto locus non erit. (1) Si tutor pupilli vel adgnatus furiosi alienaverint, utilis actio competit, quia consilium huius fraudis inire non possunt. *

Ulpianus inscr. F

[De restitutione heredum (E. 47 [?])]

180. D. 50.17.120 (Lenel 240) Nemo plus commodi heredi suo relinquit, quam ipse habuit.

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Fragmenta [Sull’alienazione posta in essere allo scopo di mutare il giudizio (E. 46)]

178. D. 4.7.8 (Lenel 239a) In base a questo editto è tenuto anche chi esibisce la cosa, se, secondo la valutazione del giudice, non ripristina le originarie condizioni del giudizio. (1) Afferma il pretore: ‘o un’alienazione che sarà fatta allo scopo di mutare un giudizio’: vale a dire in vista di un futuro giudizio, non di quello già instaurato. (2) Si considera alienare anche chi ha venduto la cosa altrui. (3) Ma se qualcuno alieni istituendo un erede o disponendo un legato, non vi sarà luogo per questo editto. (4) Se qualcuno abbia alienato, poi abbia recuperato, non sarà tenuto in base a questo editto. (5) Chi restituisce al suo venditore, non si considera alienare allo scopo di mutare il giudizio, 179? D. 4.7.10 (Lenel 239b) Infatti anche se obbligato io avrò pagato ciò che tu vorresti chiedermi, non vi sarà luogo per questo editto. (1) Se il tutore di un pupillo o l’agnato di un furioso abbiano alienato, compete un’azione utile, perché essi non possono assumere la decisione di questa frode.

[Sulla reintegrazione degli eredi (E. 47 [?])]

180. D. 50.17.120 (Lenel 240) Nessuno lascia al suo erede un vantaggio maggiore di quello che egli stesso ha avuto.

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Elena Pezzato

Liber XIII

[De receptis (E. XI)] [Qui arbitrio receperint, ut sententiam dicant (E. 48)]

181. D. 4.8.4 (Lenel 241) Nam magistratus superiore aut pari imperio nullo modo possunt cogi: nec interest ante an in ipso magistratu arbitrium susceperint. inferiores possunt cogi. in om. F

182. D. 4.8.8 (Lenel 242) Sed si ita compromissum sit, ut vel alterutrius sententia valeat, Titium cogendum.

183. D. 4.8.10 (Lenel 243) vel alium arbitrum. 184. D. 4.8.16 (Lenel 244) et si qua alia incommoditas ei post arbiterium susceptum incidat. sed in causa valetudinis similibusve causa cognita differre cogitur. (1) Arbiter iudicii sui nomine, quod publicum aut privatum habet, excusatus esse debet a compromisso, utique si dies compromissi proferri non potest: quod si potest, quare non cogat eum, cum potest, proferre? quod sine ulla distinctione ipsius interdum futurum est. si tamen uterque velit eum sententiam dicere, an, quamvis cautum non sit de die proferenda, non alias impetret, quia iudicium habet, ne cogatur, quam si consentiat denuo in se compromitti? haec scilicet si dies exitura est. distinctione] districtione dett.: distractione Pa

185. D. 4.8.19 (Lenel 245) Qualem autem sententiam dicat arbiter, ad praetorem non pertinere Labeo ait, dummodo dicat quod ipsi videtur. et ideo si sic fuit in arbitrum compromissum, ut certam sententiam dicat, nullum esse arbitrium, nec cogendum sententiam dicere Iulianus scribit libro quarto digestorum. (1) Dicere autem sententiam existimamus eum, qui ea mente quid pronuntiat, ut secundum id discedere eos a tota con68

Fragmenta

Libro XIII

[Sulle assunzioni (di un impegno) (E. XI)] [Coloro che abbiano assunto l’ufficio di arbitro affinché pronuncino sentenza (E. 48)]

181. D. 4.8.4 (Lenel 241) I magistrati di superiore o pari grado, infatti, non possono essere in alcun modo costretti: e non rileva se hanno assunto l’ufficio di arbitro prima o durante la stessa magistratura. Coloro che sono inferiori possono essere costretti.

182. D. 4.8.8 (Lenel 242) Ma qualora il compromesso preveda che valga la decisione dell’uno o dell’altro, Tizio dovrà essere costretto. 183. D. 4.8.10 (Lenel 243) o a un altro arbitro. 184. D. 4.8.16 (Lenel 244) e se gli capiti qualche altro inconveniente dopo aver assunto l’ufficio di arbitro. Ma in caso di malattia o simili dopo la cognizione della causa è obbligato a rinviare. (1) Qualora l’arbitro abbia un giudizio a proprio nome, pubblico o privato, deve essere esonerato dal compromesso, perlomeno se il giorno del compromesso non può essere posticipato: se può esserlo, per quale motivo non lo costringe a posticipare, dato che potrebbe? Ciò talvolta accadrà senza alcuna differenza per lo stesso. Se tuttavia entrambi vogliono che egli pronunci sentenza, benché non si sia disposto circa il rinvio del giorno, forse non otterrà di non essere costretto poiché ha un giudizio, qualora acconsenta di essere nuovamente coinvolto in un compromesso? Cose che si intendono se il termine sta per spiare. 185. D. 4.8.19 (Lenel 245) Afferma inoltre Labeone che non riguarda il pretore quale sentenza pronunci l’arbitro, purché dica ciò che a lui pare. Così che, se il compromesso sia che l’arbitro pronunci una certa sentenza, l’arbitrato è nullo, e Giuliano nel quarto libro dei digesti scrive che non può essere costretto alla pronuncia. (1) Riteniamo tuttavia che pronunci sentenza colui che dia una 69

Elena Pezzato troversia velit. sed si de pluribus rebus sit arbiterium receptum, nisi omnes controversias finierit, non videtur dicta sententia, sed adhuc erit a praetore cogendus. (2) Unde videndum erit, an mutare sententiam possit. et alias quidem est agitatum, si arbiter iussit dari, mox vetuit, utrum eo quod iussit an eo quod vetuit stari debeat. et Sabinus quidem putavit posse. Cassius sententiam magistri sui bene excusat et ait Sabinum non de ea sensisse sententia, quae arbitrium finiat, sed de praeparatione causae: ut puta si iussit litigatores calendis adesse, mox idibus iubeat: nam mutare eum diem posse. ceterum si condemnavit vel absolvit, dum arbiter esse desierit, mutare sententiam non posse, desierit, mutare] se ins. F

186. D. 4.8.22 (Lenel 246) utique nisi eius interfuerit tunc solvi. 187. D. 50.17.121 (Lenel 254) Qui non facit quod facere debet, videtur facere adversus ea, quia non facit: et qui facit quod facere non debet, non videtur facere id quod facere iussus est. quia non facit] requiritur quae non facere iussus est (Mommsen)

188. D. 4.8.24 (Lenel 247) Sed si postea ille paratus sit accipere, non impune me non daturum: non enim ante feceram.

189. D. 4.8.26 (Lenel 248) ne in potestate sit fideiussorum postea se non obligantium, ut poena committatur. idemque et si decesserint. 190. D. 4.8.28 (Lenel 249) Non autem interest, certa an incerta summa compromissa sit, ut puta ‘quanti ea res erit’.

191. D. 4.8.30 (Lenel 250) Si quis rem, de qua compromissum sit, in iudicium deducat, quidam dicunt praetorem non intervenire ad cogendum arbitrum sententiam dicere, quia iam poena non potest esse, atque si solutum est com70

Fragmenta pronuncia con l’intento che le parti, sulla base di questa, esauriscano l’intera controversia. Ma qualora l’arbitrato sia stato assunto circa più questioni, non si considera pronunciata la sentenza qualora tutte le controversie non siano state poste a termine, fino al quale momento dovrà essere costretto dal pretore. (2) Quindi sarà da valutare se egli possa mutare la sentenza. E un tempo si è certamente discusso se, qualora l’arbitro ordinò che venisse dato e subito dopo vietò, ci si debba attenere a ciò che ordinò o a ciò che vietò. E Sabino senza dubbio ritenne che egli possa. Cassio ben giustifica l’opinione del suo maestro e dice che Sabino non si esprimeva sulla sentenza che concludeva l’arbitrato, bensì su quella circa l’istruttoria della causa: così, ad esempio, nel caso in cui avesse ordinato ai litiganti di presentarsi alle calende e subito dopo ordini alle idi; egli, infatti, può cambiare giorno. Del resto, se condannò o assolse, quindi abbia cessato di essere arbitro, non può mutare sentenza. 186. D. 4.8.22 (Lenel 246) perlomeno qualora non fosse nel suo interesse adempiere allora. 187. D. 50.17.121 (Lenel 254) Colui che non fa ciò che deve fare, si ritiene fare il contrario di quelle cose che gli è stato ordinato di non fare: e chi fa ciò che non deve fare, non è ritenuto fare ciò che è stato ordinato di fare.

188. D. 4.8.24 (Lenel 247) Ma se poi egli sia pronto accettare, io non ometterò di dare senza incorrere nella penale: prima, infatti, non l’ho fatto. 189. D. 4.8.26 (Lenel 248) affinché non sia nella facoltà dei fideiussori, che poi non si obbligano, che la penale divenga efficace. Parimenti anche qualora muoiano. 190. D. 4.8.28 (Lenel 249) Non interessa a ogni modo se la somma nel compromesso è certa o incerta, come ad esempio “quanto sarà il valore della controversia”. 191. D. 4.8.30 (Lenel 250) Se qualcuno porti in giudizio una controversia su cui è stato fatto un compromesso, alcuni dicono che il pretore non interviene a obbligare l’arbitro a pronunciare una sentenza, poiché 71

Elena Pezzato promissum. sed si hoc optinuerit, futurum est, ut in potestate eius, quem paenitet compromississe, sit compromissum eludere. ergo adversus eum poena committenda est lite apud iudicem suo ordine peragenda.

192. D. 4.8.32pr.-3 + D. 4.8.12 + D. 4.8.32.3-21 (Lenel 251) Non distinguemus in compromissis, minor an maior sit poena quam res de qua agitur. (1) Non cogetur arbiter sententiam dicere, si poena commissa sit. (2) Si mulier alieno nomine compromittat, non erit pecunia compromissa propter intercessionem. (3) Summa rei est, ut praetor se non interponat, sive initio nullum sit compromissum: sive sit, sed pendeat, an ex eo poena exigi potest:

D. 4.8.12 (Lenel 251b) Quo casu ad praetorem pertinebit in eo forsitan solo, ut si possit dies compromissi proferri, proferatur. D. 4.8.32.3-21 (Lenel 251c) sive postea deficiat poena compromisso soluto die morte acceptilatione iudicio pacto. (4) Sacerdotio obveniente videbimus an cogatur arbiter sententiam dicere: id enim non tantum honori personarum, sed et maiestati dei indulgetur, cuius sacris vacare sacerdotes oportet. ceterum si postea suscepit, iste quoque omnimodo sententiam ferre debet. (5). Item non est cogendus, si de negotio transactum est, vel homo mortuus est de quo erat compromissum: nisi si posteriore casu aliquid litigantium intersit. (6) Iulianus indistincte scribit: si per errorem de famoso delicto ad arbitrum itum est, vel de ea re, de qua publicum iudicium sit constitutum, veluti de adulteriis sicariis et similibus, vetare debet praetor sententiam dicere nec dare dictae exsecutionem. (7) De liberali causa compromisso facto recte non compelletur arbiter sententiam dicere, [quia favor libertatis est, ut maiores iudices habere debeat]. eadem dicenda sunt, sive de ingenuitate sive de libertinitate quaestio sit et si ex fideicommissi causa libertas deberi dicatur. idem dicendum est in populari actione. (8) Si servus compromiserit, non cogendum dicere sententiam arbitrum, nec si dixerit, poenae exsecutionem dandam de peculio putat Octavenus. sed an, si liber cum eo compromiserit, exsecutio adversus liberum detur, videamus: sed magis est, ut non detur. (9) Item si quis Romae compromiserit, mox Romam in legationem venerit: non est cogendus arbiter sententiam dicere, non magis quam cogeretur, si litem ante contestatus esset, nunc eam exercere: nec interest, tunc quoque in legatione fuerit an non. sed si nunc in legatione compromittat, puto cogendum arbitrum sententiam dicere, quia et si iudicium sponte accepisset, cogeretur peragere. sunt tamen qui de isto non recte dubitant: qui utique nullo modo dubitabunt, si de ea re in legatione compromisit, quam in legatione contraxit: quia et iudicium eo nomine accipere cogeretur. illud in prima specie potest dispici, an, si ante compromisit legatus, cogendus sit arbiter sententiam dicere, si ipse legatus postulet: quod prima ratione poterit videri iniquum, ut in ipsius potestate sit. sed hoc tale erit, quale si actionem velit dictare, quod facere ei licet. sed compromissum istud comparabimus ordinariae actioni, ut non alias audiatur desiderans, ut arbiter sententiam dicat, quam si se defendat. (10) Si is faciat controversiam hereditatis, qui cum defuncto compromiserat, futurum est praeiudicium hereditati, si arbiter sententiam dicat: ergo interea inhibendus est arbiter. (11) Dies compromissi proferri potest, non cum ex conventione, sed cum iussu arbitri eam proferri necesse est, ne poena committatur. (12) Si arbiter sese celare temptaverit, praetor eum investigare debet, et si diu non 72

Fragmenta la penale non può più esserci e anche il compromesso è stato sciolto. Ma se questo prevalesse, accadrebbe che sarebbe nella facoltà di colui che non vuole il compromesso sciogliere lo stesso. Pertanto, per lui deve diventare efficace la penale mentre la lite prosegue presso il giudice con il suo rito. 192. D. 4.8.32pr.-3 + D. 4.8.12 + D. 4.8.32.3-21 (Lenel 251) Non distingueremo nei compromessi se la penale è minore o maggiore della controversia per la quale si agisce. (1) L’arbitro non sarà obbligato a pronunciare una sentenza, se la penale è divenuta efficace. (2) Se una donna conclude un compromesso a nome di altri, il denaro non sarà stato oggetto del compromesso a causa dell’intercessione. (3) È di somma importanza che il pretore non si interponga, sia che il compromesso sia nullo sin dall’inizio: o che sia , ma penda la possibilità di esigere la penalità in base a questo: D. 4.8.12 (Lenel 251b) in questo caso forse sarà compito del pretore soltanto prorogare, se è possibile prorogare il giorno del compromesso D. 4.8.32.3-21 (Lenel 251c) o che poi venga meno la penale, sciolto il compromesso a causa di termine, morte, accettilazione, giudizio o patto. (4) Vedremo se l’arbitro è obbligato a pronunciare sentenza se sopravviene il sacerdozio: si ha riguardo, infatti, non solo all’onore delle persone, ma anche alla maestà di dio, per il cui culto è necessario che i sacerdoti siano privi di impegni. Se, del resto, ha assunto il compito in seguito, anch’egli deve comunque pronunciare la sentenza. (5) Così non può essere obbligato se si è fatta una transazione sulla controversia o se è morto lo schiavo sul quale si era fatto il compromesso: in questo ultimo caso, se i litiganti non vi hanno un qualche interesse. (6) Giuliano scrive senza distinzioni: se per errore si è andati da un arbitro in merito a un delitto infamante, o per una vicenda per la quale si costituisce un pubblico giudizio, come per gli adulteri, i sicari e simili, il pretore deve vietare di pronunciare una sentenza e non dare esecuzione a quella pronuncia. (7) Se è stato fatto un compromesso su una causa di libertà, giustamente l’arbitro non è obbligato a pronunciare sentenza [perché il favore per la libertà è tale da dover avere giudici maggiori]. Queste stesse cose devono essere dette se la questione riguarda sia lo stato di ingenuo che di liberto e se è detto in base a un fedecommesso che è dovuta la libertà. Lo stesso bisogna dire per un’azione popolare. (8) Qualora un servo abbia concluso un compromesso, Ottaveno ritiene che l’arbitro non debba essere costretto a pronunciare sentenza e, qualora la pronunci, non debba essere data esecuzione alla penale sul peculio. Ma vediamo se, qualora un uomo libero abbia fatto un compromesso con lui, sia data esecuzione contro l’uomo libero: è meglio che non lo sia. (9) Ugualmente se qualcuno ha fatto un compromesso a Roma, e poi sia venuto a Roma in ambasceria: l’arbitro non deve essere costretto a pronunciare sentenza, non più di quanto verrebbe costretto, se qualcuno prima avesse istaurato un giudizio e ora volesse farlo svolgere: e non rileva, se anche allora egli sia stato in ambasceria o meno. Ma se ora durante un’ambasceria conclude un compromesso, ritengo che l’arbitro debba essere costretto a pronunciare sentenza, poiché anche se accettasse di sua volontà il giudizio, sarebbe costretto a portarlo a termine. Vi sono, tuttavia, alcuni che di ciò a torto dubitano: costoro in alcun modo dubiteranno se di quella faccenda, contratta in ambasciata, ha compromesso nell’am73

Elena Pezzato paruerit, multa adversus eum dicenda est. (13) Cum in plures compromissum est ea condicione, ut quilibet vel unus dixisset sententiam, eo staretur, absentibus ceteris nihilo minus qui praesens est cogetur: at si ea condicione, ut omnes dicant, vel quod de maioris partis sententia placuerit, non debet singulos separatim cogere, quia singulorum sententia ad poenam non facit. (14) Cum quidam arbiter ex aliis causis inimicus manifeste apparuisset, testationibus etiam conventus, ne sententiam diceret, nihilo minus nullo cogente dicere perseverasset, libello cuiusdam id querentis imperator Antoninus subscribsit posse eum uti doli mali exceptione. et idem, cum a iudice consuleretur, apud quem poena petebatur, rescripsit, etiamsi appellari non potest, doli mali exceptionem in poenae petitione obstaturam. [per hanc ergo exceptionem quaedam appellandi species est, cum liceat retractare de sententia arbitri]. (15) De officio arbitri tractantibus sciendum est omnem tractatum ex ipso compromisso sumendum: nec enim aliud illi licebit, quam quod ibi ut efficere possit cautum est: non ergo quod libet statuere arbiter poterit nec in qua re libet nisi de qua re compromissum est et quatenus compromissum est. (16) Quaesitum est de sententia dicenda, et dictum non quamlibet, licet de quibusdam variatum sit. et puto vere non committi, si dicat ad iudicem de hoc eundum vel in se vel in alium compromittendum. nam et Iulianus impune non pareri, si iubeat ad alium arbitrum ire, ne finis non sit: [quod si hoc modo dixerit, ut arbitrio Publii Maevii fundus traderetur aut satisdatio detur, parendum esse sententiae]. idem Pedius probat: ne propagentur arbitria, aut in alios interdum inimicos agentium transferantur, sua sententia finem controversiae eum imponere oportet: non autem finiri controversiam, cum aut differatur arbitrium aut in alium transferatur: partemque sententiae esse, quemadmodum satisdetur, quibus fideiussoribus, idque delegari non posse, [nisi ad hoc compromissum sit, ut arbiter statueret, cuius arbitratu satisdaretur]. (17) Item si iubeat sibi alium coniungi, cum id in compromisso non sit, non dicit sententiam: nam sententia esse debet de re compromissa, de hoc autem compromissum non est. (18) Si domini, qui invicem stipulati sint, procuratores suos agere apud arbitrum velint, potest iubere ipsos etiam adesse: (19) sed si et heredis in compromissis mentio fit, potest iubere etiam heredem eorum adesse. (20) Arbitri officio continetur et quemadmodum detur vacua possessio. an et satis ratam rem habiturum? Sextus Pedius putat, quod nullam rationem habet: nam si ratum non habeat dominus, committetur stipulatio. (21) Arbiter nihil extra compromissum facere potest et ideo necessarium est adici de die compromissi proferenda: ceterum impune iubenti non parebitur. deficiat] defecerit cum B scr. (Krüger) – perrorem F – de ea re] re om. F – quia ... debeat] Iust. (Albertario) – servum F – poena F – quis F2 – tament F – ordinariae actioni] sic S: ordinariactioni F2, ordinariactione F1 – cum del. Haloander – ne] ut Mommsen – temptaverat F – condicione, ut] si ins. dett. – diceret] et ins. Mommsen – per hanc ... arbitri] glossa (Faber): < > Krüger – rego F – retrare F – et puto vere (uare F1)] valere: et puto Mommsen – vel in se vel in alium] sic dett. cum B: vel se vel alium se vel in alium F – quod si hoc modo ... sententiae] Iust. (Gradenwitz): < > Krüger – ho F – controversia F – oportere Haloander – nisi ... satisdaretur] Iust. (Gradenwitz): < > Krüger – per ins. edd. – heredi F – an et satis] et quemadmodum tradatur vacua possessio: an et satis ut detur Degenkolb

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Fragmenta basciata: poiché sarebbe a questo titolo costretto ad accettare anche un giudizio. Nella prima fattispecie può essere esaminato, invece, se avendo antecedentemente il membro dell’ambasceria concluso un compromesso, l’arbitro debba essere costretto a pronunciare sentenza, qualora lo richieda lo stesso membro dell’ambasceria: cosa che può apparire secondo un primo ragionamento iniqua, che sia rimesso alla potestà di quello. Ma ciò sarebbe identico qualora egli volesse intraprendere un’azione, cosa che gli è permessa. Ma confronteremo tale compromesso con l’azione ordinaria, così che chi desidera che l’arbitro pronunci sentenza sia udito solo se si difende. (10) Qualora uno, che aveva concluso un compromesso con uno defunto, istauri un giudizio sull’eredità e qualora l’arbitro pronunci la sentenza, potrebbe sorgere un accertamento pregiudiziale rispetto all’eredità: perciò nel frattempo all’arbitro è fatto divieto . (11) Il termine del compromesso può essere prorogato, è necessario che possa esserlo non in base a un accordo, ma per ordine dell’arbitro, affinché non venga inflitta la penale. (12) Qualora l’arbitro abbia tentato di nascondersi, il pretore lo deve cercare, e se non sarà comparso per lungo tempo, deve essergli irrogata una multa. (13) Qualora sia stato concluso un compromesso con più (arbitri) alla condizione di attenersi alla sentenza pronunciata da chiunque o da uno, pur essendo gli altri assenti, non di meno chi è presente è costretto: invece, se (è stato concluso un compromesso) alla condizione che tutti si pronuncino o che la sentenza vada bene alla maggior parte, (il pretore) non deve costringere i singoli, perché la sentenza dei singoli non conduce alla penale. (14) Poiché un arbitro era apparso manifestamente ostile a una parte per altre ragioni, pur essendo stato richiesto alla presenza di testimoni di non pronunciare sentenza, e non di meno, pur non costringendolo nessuno, perseverò nel pronunciare, l’imperatore Antonino scrisse in calce alla domanda di uno che di ciò si lamentava che egli poteva utilizzare l’eccezione di dolo. Ed egli, consultato dal giudice presso il quale era richiesta la penale, decise con rescritto che, anche se non è possibile appellare, l’eccezione di dolo sarebbe stata di ostacolo alla richiesta della pena. [Dunque per mezzo di questa eccezione si ha una certa qual specie di appello, essendo permesso trattare nuovamente della sentenza dell’arbitro]. (15) Trattando dell’ufficio dell’arbitro deve sapersi che ogni cosa trattata deve essere desunta dallo stesso compromesso: a lui, infatti, non è concesso altro rispetto a ciò che lì è stato previsto che egli possa fare: quindi l’arbitro non potrà statuire ciò che gli pare né su ciò che gli pare, se non ciò su cui si è fatto il compromesso e nella misura in cui si è compromesso. (16) È stata posta una questione sulla sentenza che deve essere pronunciata, e benché su alcuni punti non si sia concordi, si è detto che non qualsiasi (pronuncia) sia (una sentenza). E ritengo giustamente che (la penale) non sia resa esecutiva, se dica che si debba andare dal giudice per questa stessa (controversia) o si debba fare un compromesso con sé o un altro. Anche Giuliano, infatti, ritiene che si disobbedisca senza (incorrere nella) penale, se ordina di andare da un altro giudice, cosicché non vi sia una fine: [se avrà detto in questo modo, che secondo l’arbitrio di Publio Mevio il fondo venga consegnato o che sia fornita la dazione dei garanti, deve obbedirsi alla sentenza]. Ugualmente approva Pedio: affinché non si moltiplichino gli arbitrati, o vengano talora trasferiti ad altri nemici delle parti, occorre che con la sua sentenza egli ponga fine alla controversia: ma non è finita la controversia, quando o sia differito l’arbitrato o questo sia trasferito ad un altro (arbitro): ed è parte della sentenza in che modo si diano dei garanti, con quali fideiussori, e questo non può essere delegato [se non vi è un apposito compromesso, in modo che l’arbitro stabilisca in base all’arbitrato di un altro come si diano dei garanti]. (17) Così se ordina che un altro sia a lui affiancato, non essendo ciò nel compromesso, non pronuncia sentenza: la sentenza, infatti, 75

Elena Pezzato

193. D. 4.8.34 (Lenel 252) Si duo rei sunt [aut] credendi [aut debendi] et unus compromiserit isque vetitus sit petere [aut ne ab eo petatur]: videndum est, an si alius petat [vel ab alio petatur], poena committatur: idem in duobus argentariis quorum nomina simul eunt. et fortasse poterimus ita fideiussoribus coniungere, si socii sunt: alias nec a te petitur, nec ego peto, nec meo nomine petitur, licet a te petatur. (1) Semel commissa poena solvi compromissum rectius puto dici nec amplius posse committi, nisi id actum sit ut in singulas causas totiens committatur. aut] Iust. (Gradenwitz): < > Krüger – redendi F – aut debendi] Iust. (Gradenwitz): < > Krüger – aut ne ab eo petatur] Iust. (Gradenwitz): < > Krüger – vel ab alio petatur] Iust. (Gradenwitz): < > Krüger – et fortasse ... sunt] < > Krüger – nec ego peto] licet ego petam Haloander – in om. F

194. D. 36.1.37(36) (Lenel 253) Cum hereditas ex fideicommissi causa restituta est, si ante cum herede compromissum est, puto fideicommissarium cavere debere heredi, sicut cum heres multa antequam restitueret administravit. nam quod dicitur retinere eum oportere, non est perpetuum. quid enim si nihil est, quod retineat? veluti cum omnia in nominibus sunt aut in corporibus quae non possideat? nempe enim is cui restituta est omnia persequitur et tamen heres iudiciis quibus conventus est aut stipulationibus quibus necesse habuit promittere, obstrictus manebit. ergo non alias cogetur restituere quam ei caveatur. multa] nonnulla (Mommsen) – omnibus F – qui F – omittere ins. F

195. C. 2.55(56).5.3(1) (Lenel 255) Licet non ignoramus Iulii Pauli opinionem et aliorum prudentium certorum, qui tetigerunt quidem huiusmodi quaestionem, quam in praesenti adgredimur, non autem perfectissime peregerunt, sed usque ad quasdam temporales actiones standum esse existimaverunt, plenius tamen et generaliter definimus conventum in scriptis apud compromissum iudicem factum ita temporis interruptionem inducere, quasi in ordinario iudicio lis fuisset inchoata. certorum RaMb, ceterorum Ma, et ceterorum C

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Fragmenta deve riguardare la cosa oggetto del compromesso, mentre di ciò non è stato compromesso. (18) Se le parti, che reciprocamente hanno fatto le stipulazioni, vogliono che siano i loro procuratori ad agire presso l’arbitro, può ordinare anche a loro stessi di comparire: (19) ma se vi è menzione anche dell’erede nel compromesso, può ordinare di comparire anche al loro erede. (20) Nell’ufficio dell’arbitro rientra anche in che modo venga dato il possesso pieno. Anche se si avrà sufficiente ratifica della cosa? Sesto Pedio lo ritiene, cosa che non ha alcun senso: se infatti il rappresentato non ratifica, sarà resa efficace la stipulazione. (21) L’arbitro non può fare nulla che sia fuori dal compromesso e così è necessario che si aggiunga che si possa prolungare il termine del compromesso: diversamente si disobbedirà al suo ordine senza penale. 193. D. 4.8.34 (Lenel 252) Se due parti in causa sono creditori [o debitori] e uno abbia fatto un compromesso e a questo sia stato vietato di chiedere [o che gli sia chiesto]: deve vedersi, qualora uno chieda [o gli sia chiesto dall’altro], se la penale è efficace: così anche per i due banchieri i cui crediti vanno assieme. E forse potremo così aggiungere per i fideiussori, se sono soci: altrimenti non ti viene chiesto, né io chiedo, né è chiesto a mio nome, è possibile che ti sia chiesto. (1) Una volta divenuta efficace la penale, reputo più corretto dire che il compromesso è sciolto e non possa più essere resa esecutiva, a meno che non si sia compiuto ciò, che sia efficace in ogni singola causa ogni volta.

194. D. 36.1.37(36) (Lenel 253) Quando l’eredità viene restituita per causa di un fedecommesso, se prima è stato fatto un compromesso con l’erede, ritengo che il fedecommissario debba fornire garanzia all’erede, così come quando l’erede amministrò molte cose prima che le avesse restituite. Il fatto che, infatti, si dice che è opportuno che lui trattenga, non vale sempre. Che , infatti, se non c’è nulla da trattenere? Come quando tutto consiste in titoli di credito o in beni materiali che non possieda? Evidentemente, infatti, colui al quale ogni cosa è stata restituita persegue, e tuttavia l’erede rimarrà costretto nei giudizi nei quali è stato convenuto o nelle stipulazioni in cui dovette necessariamente promettere. Quindi non sarà costretto a restituire se non ciò che gli sia garantito. 195. C. 2.55(56).5.3(1) (Lenel 255) È opportuno che non ignoriamo l’opinione di Giulio Paolo e di altri giureconsulti, che toccarono certamente la questione di tal natura…, non la svilupparono tuttavia in maniera completa, ma arrivarono a considerare che alcune azioni dovessero essere temporali,… definiamo generalmente, che l’accordo scritto fatto presso il giudice compromesso introduce un’interruzione del tempo, come se la lite fosse stata iniziata presso un giudizio ordinario. 77

Elena Pezzato [Nautae caupones stabularii ut recepta restituant (E. 49)]

196. D. 4.9.4 (Lenel 256) … Sed et ipsi nautae furti actio competit, cuius sit periculo, nisi si ipse subripiat et postea ab eo subripiatur, aut alio subripiente ipse nauta solvendo non sit. (1) Si nauta nautae, stabularius stabularii, caupo cauponis receperit, aeque tenebitur. (2) Vivianus dixit etiam ad eas res hoc edictum pertinere, quae post impositas merces in navem locatasque inferentur, etsi earum vectura non debetur, ut vestimentorum, penoris cottidiani, quia haec ipsa ceterarum rerum locationi accedunt. cuius] cum eius (Mommsen) – res ins. dett.

197. D. 19.2.42 (Lenel 257) Si locatum tibi servum subripias, utrumque iudicium adversus te est exercendum, locati actionis et furti.

[Argentariae mensae exercitores quod pro alio solui receperint ut solvant (E. 50)]

198. D. 13.5.12 (Lenel 258) Sed et si decem debeantur et decem et Stichum [constituat] , potest dici decem tantummodo nomine teneri. Iust. (Lenel): < > Krüger

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Fragmenta [Armatori tavernieri stallieri affinché restituiscano le cose ricevute (E. 49)]

196. D. 4.9.4 (Lenel 256) Ma l’azione di furto compete anche allo stesso armatore, del quale è il pericolo, a meno che egli stesso la sottragga e poi venga a lui sottratta, o sottraendola un altro lo stesso armatore non sia solvente. (1) Se avrà ricevuto delle cose un armatore per un armatore, uno stalliere per uno stalliere, un taverniere per un taverniere, ugualmente sarà tenuto. (2) Viviano ha detto che questo editto riguarda anche quelle cose che sono portate dopo che le merci sono state caricate nella nave e collocate, anche se di queste non è dovuto il nolo, come dei vestiti e del vitto quotidiano, perché queste stesse cose accedono alla locazione delle altre cose. 197. D. 19.2.42 (Lenel 257) Qualora tu sottragga il servo a te locato, contro di te sono azionabili entrambi i giudizi, [l’azione] di locazione e di furto.

[Coloro che esercitano il banco di argentario affinché paghino ciò che abbiano accettato di pagare per un altro (E. 50)]

198. D. 13.5.12 (Lenel 258) Ma anche se siano dovuti dieci e assuma dieci e Stico, si può dire che è tenuto a dare comunque dieci in base al debito.

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Giovanni Luchetti

Liber XIV

[De satisdando (E. XII.51)]

199. D. 2.8.8 (Lenel 259) De die ponenda in stipulatione solet inter litigatores convenire. si non conveniat, Pedius putat in potestate stipulatoris esse: moderato spatio de hoc a iudice statuendo. (1) Qui mulierem adhibet ad satisdandum, non videtur cavere: sed nec miles nec minor viginti quinque annis probandi sunt: nisi hae personae in rem suam fideiubeant , ut pro suo procuratore. quidam etiam, si a marito fundus dotalis petatur, in rem suam fideiussuram mulierem. (2) Si servus inveniatur, qui antequam iudicium accipiatur fideiussit iudicatum solvi: succurrendum est actori, ut ex integro caveatur. [minori quoque viginti quinque annis succurrendum est, fortasse et mulieri propter imperitiam.] (3) Si fideiussor iudicatum solvi stipulatori heres extiterit aut stipulator fideiussori , ex integro cavendum erit. (4) Tutor et curator, ut rem salvam fore pupillo caveant, mittendi sunt in municipium, quia necessaria est satisdatio: item de re restituenda domino proprietatis, cuius usus fructus datus est: item legatarius, ut caveat evicta hereditate legata reddi, et quod amplius per legem Falcidiam ceperit: heres quoque ut legatorum satisdet audiendus est, ut in municipium mittatur. plane si misso iam legatario in possessionem, cum per heredem staret quominus caveret, heres postulet uti de possessione decedat paratumque se dicat in municipio cavere: impetrare non debebit. diversum, si sine culpa aut dolo heredis missus sit in possessionem. (5) Iubetur iurare de calumnia, ne quis vexandi magis adversarii causa, forsitan cum Romae possit satisdare, in municipium evocet: sed quibusdam hoc iusiurandum de calumnia remittitur, velut parentibus et patronis. sic autem iurare debet qui in municipium remittitur ‘Romae se satisdare non posse et ibi posse, quo postulat remitti, idque se non calumniae causa facere’: nam sic non est compellendus iurare ‘alibi se quam eo loco satisdare non posse’, quia si Romae non potest, pluribus autem locis possit, cogitur peierare. (6) Hoc autem tunc impetrabitur, cum iusta causa esse videbitur. quid enim si, cum erat in municipio, noluit cavere? hoc casu non debet impetrare, cum per eum steterit, quominus ibi, ubi ire desiderat, satisdaret. stipulatoris esse moderato spatio: de hoc a iudice statuendum Mommsen – moderato... statuendo Iust. (Cuiacius): < > Krüger – fideiubeant] spondeant Lenel: < > Krüger – fideiussuram] sponsuram Lenel: < > Krüger – fideiussit] spopondit Lenel: < > Krüger – ex integro caveatur] ex causa aut similia hic male omissa sunt Mommsen – minori... imperitiam gl.? (Voci) – fideiussor] sponsor Lenel: < > Krüger – fideiussori] sponsori Lenel: < > Krüger – in municipium] sic secundum B: municipio FS – proprietatis] proprietates F2 – cuius] cui dett.

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Fragmenta

Libro XIV

[Sulla dazione dei garanti (E. XII.51)]

199. D. 2.8.8 (Lenel 259) Tra le parti si è soliti accordarsi riguardo al termine da inserire nella stipulazione. Se non ci sia accordo, Pedio reputa che sia facoltà dello stipulante determinarlo, con riferimento ad un moderato spazio di tempo su cui deve statuire il giudice. (1) Non si considera presti garanzia chi adibisce una donna come garante, ma neppure un militare né un minore di venticinque anni vanno accettati, a meno che queste persone non garantiscano nel proprio interesse, come a favore del loro procuratore; alcuni ritengono che una donna presterà garanzia nel proprio interesse anche se al marito venga richiesto in giudizio il fondo dotale. (2) Se si scopra che era un servo colui che prima dell’accettazione del giudizio garantì l’adempimento del giudicato, si deve venire in aiuto all’attore affinché gli si presti di nuovo garanzia. [Anche al minore di venticinque anni si deve venire in aiuto per l’imperizia e forse anche alla donna.] (3) Se il garante dell’adempimento del giudicato sia divenuto erede dello stipulante, ovvero lo stipulante del garante, si dovrà di nuovo prestare garanzia. (4) Il tutore e il curatore, affinché prestino garanzia al pupillo a salvaguardia dell’integrità del suo patrimonio, devono essere fatti andare al municipio, perché si tratta di una dazione di garanti necessaria; parimenti per garantire al nudo proprietario la restituzione della cosa sulla quale è stato costituito l’usufrutto; parimenti il legatario, affinché, nel caso di evizione dell’eredità, garantisca la restituzione dei legati e di ciò che abbia ricevuto in più rispetto a quanto previsto dalla legge Falcidia. Anche l’erede deve essere assecondato se richieda che gli sia permesso di recarsi al municipio per dare i garanti per l’adempimento dei legati. Ovviamente non dovrà ottenerlo se, già immesso il legatario nel possesso dipendendo dall’erede che non sia stata prestata garanzia, chieda che si ritiri dal possesso e si dica pronto a prestare garanzia nel municipio. Diversamente avviene se il sia stato immesso nel possesso senza colpa o dolo dell’erede. (5) Il giuramento di non agire calunniosamente viene ordinato affinché nessuno, al fine di vessare maggiormente l’avversario, lo inviti a comparire nel municipio, pur essendo eventualmente possibile dare dei garanti a Roma; ma il giuramento di non agire calunniosamente ad alcuni viene rimesso, come agli ascendenti e ai patroni. In questo modo poi deve giurare chi viene rinviato al municipio: ‘che egli non può dare dei garanti a Roma, mentre può darli lì ove chiede di essere rinviato e che non fa ciò a scopo di calunnia’; infatti così non può essere costretto a giurare: ‘che egli non può dare dei garanti in altro luogo salvo che in quello’, perché se non può a Roma, ma possa in più luoghi, è costretto a giurare il falso. (6) Ciò però si potrà ottenere allorché sarà risultata esserci una giusta causa. Cosa avviene infatti se, quando si trovava nel municipio, non ha voluto prestare garanzia? In questo caso non deve ottenere quanto chiede, essendo dipeso da lui che non siano stati dati dei garanti lì ove chiede di andare. 81

Martina Beggiato

Liber XV

[Quibus causis praeiudicium fieri non oportet (E. XIII.52)]

200. D. 48.1.2 (Lenel 260) Publicorum iudiciorum quaedam capitalia sunt, quaedam non capitalia. capitalia sunt, ex quibus poena mors aut exilium est, hoc est aquae et ignis interdictio: per has enim poenas eximitur caput de civitate. nam cetera non exilia, sed relegationes proprie dicuntur: tunc enim civitas retinetur. non capitalia sunt, ex quibus pecuniaria aut in corpus aliqua coercitio poena est. ex quibus poena est pecuniaria aut in corpus aliqua coercitio? Mommsen

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Fragmenta

Libro XV

[Per quali cause non è opportuno che vi sia un giudizio preliminare (E. XIII.52)]

200. D. 48.1.2 (Lenel 260) Dei giudizi pubblici alcuni sono capitali, e altri non lo sono. Sono capitali quelli in cui la pena è la morte o l’esilio, cioè l’interdizione dall’acqua e dal fuoco: in forza di esse, infatti, un soggetto viene espunto dal novero dei cittadini. Di conseguenza, le altre non sono qualificabili in termini di esilio, ma si dicono propriamente relegazione: in tal caso la cittadinanza si conserva. Non capitali sono quelli, per cui la pena è pecuniaria o consiste in qualche coercizione corporale.

83

Martina Beggiato

Liber XVI

[De inofficioso testamento]

201. D. 5.3.8 (Lenel 261) Legitimam hereditatem vindicare non prohibetur is qui, cum ignorabat vires testamenti, iudicium defuncti secutus est. v⊢i⊢res Fb

202. D. 50.17.124 (Lenel 262) Ubi non voce, sed praesentia opus est, mutus, si intellectum habet, potest videri respondere. idem in surdo: hic quidem et respondere potest. (1) Furiosus absentis loco est et ita Pomponius libro primo epistularum scribit.

84

Fragmenta

Libro XVI

[Sul testamento contrario ai doveri verso i congiunti]

201. D. 5.3.8 (Lenel 261) Non è proibito rivendicare l’eredità legittima da parte di chi, ignorando la validità di un testamento, abbia dato seguito alla volontà del defunto. 202. D. 50.17.124 (Lenel 262) Quando è necessaria la presenza di una persona e non la sua voce, il muto, se dotato di intelletto, si ritiene possa rispondere. Parimenti per il sordo: anche questi certamente può rispondere. Il furioso è in luogo dell’assente, come Pomponio scrive nel libro primo delle epistole.

85

II COMMENTO AI TESTI

PROSPETTO PALINGENETICO RIASSUNTIVO

Per agevolare la consultazione, si forniscono i prospetti riassuntivi delle proposte palingenetiche relative ai libri dal IV al XVI dell’ad edictum paolino: Lenel 1889.I-II

Krüger 1905

Luchetti et alii 2022

E. 13 De in ius vocando

E. V De in ius vocando

E. V De in ius vocando

— E. 11 In ius vocati ut eant aut vindicem dent fr. 129 (D. 2.4.1) fr. 130 (D. 47.10.23) fr. 131 (D. 2.4.5) fr. 132 (D. 2.4.7) fr. 133 (D. 2.4.9) fr. 134 (D. 2.4.11 + D. 50.17.108) fr. 135 (D. 2.6.3) fr. 136 (D. 2.8.4) E. 12 Ne quis eum qui in ius vocabitur vi eximat fr. 137 (D. 2.7.2) fr. 138 (D. 2.7.4)

E. 14 In ius vocati ut eant D. 2.4.1 D. 47.10.23 D. 2.4.5 D. 2.4.7 D. 2.4.9 D. 2.4.11 D. 50.17.108 D. 2.6.3 D. 2.8.4

E. 11 In ius vocati ut eant aut vindicem dent F. 52 (D. 2.4.1) F. 53 (D. 47.10.23) F. 54 (D. 2.4.5) F. 55 (D. 2.4.7) F. 56 (D. 2.4.9) F. 57 (D. 2.4.11) F. 58 (D. 50.17.108) F. 59 (D. 2.6.3) F. 60 (D. 2.8.4)

E. 15 Ne quis eum qui in ius vocabitur vi eximat D. 2.7.2 D. 2.7.4

E. 12 Ne quis eum qui in ius vocabitur vi eximat F. 61 (D. 2.7.2) F. 62 (D. 2.7.4)

E. 16 (?) — E. VI De postulando

E. 17 De postulando

E. 14-16 fr. 139 (D. 3.2.14) fr. 140 (D. 3.2.5) fr. 141 (D. 3.2.7) fr. 142 (D. 3.2.9) fr. 143 (D. 3.2.12) fr. 144 (D. 23.1.13) fr. 145 (D. 50.17.109) fr. 146 (D. 3.1.4)

E. VI De postulando E. 15 Qui pro aliis ne postulent

D. 50.17.109 D. 3.2.5 D. 3.2.7 D. 3.2.9 D. 3.2.12 D. 23.1.13 D. 3.2.14 D. 3.1.4

F. 63 (D. 50.17.109) E. 16 Qui nisi pro certis personis ne postulent F. 64 (D. 3.2.14) F. 65 (D. 3.2.5) F. 66 (D. 3.2.7) F. 67 (D. 3.2.9) F. 68 (D. 3.2.12) F. 69 (D. 23.1.13) F. 70 (D. 3.1.4)

89

Ivano Pontoriero Lenel 1889.I-II E. VII De vadimoniis

Krüger 1905

Luchetti et alii 2022

E. 18 De vadimoniis

E. 17-24, 1

fr. 147 (D. 50.17.110pr.) fr. 148 (D. 50.17.110.1) fr. 149 (D. 3.3.6) fr. 150 (D. 2.8.16) fr. 151 (D. 12.2.15) fr. 152 (D. 6.1.6) fr. 153 (D. 2.9.2) fr. 154 (D. 9.4.12) fr. 155 (D. 2.10.2) fr. 156 (D. 50.17.110.2) ? ? fr. 157 (D. 26.8.17) fr. 158 (D. 50.17.110.3-4)

E. VII De vadimoniis E. 18 Qui satisdare cogantur vel iurato promittant vel suae promissioni commitantur

D. 50.17.110pr.-1 D. 3.3.6 D. 2.8.16 D. 12.2.15 D. 6.1.6 D. 2.9.2 D. 9.4.12 D. 2.10.2 D. 50.17.110.2-4 D. 26.8.17 (?) D. 48.6.9 D. 50.16.14 D. 4.1.5 (?)

F. 71 (D. 50.17.110pr.) F. 72 (D. 50.17.110.1) F. 73 (D. 3.3.6) F. 74 (D. 2.8.16) F. 75 (D. 12.2.15) E. 20 De vadimonio concipiendo F. 76 (D. 6.1.6) E. 21 Si ex noxali causa agatur, quemadmodum caveatur F. 77 (D. 2.9.2) F. 78 (D. 9.4.12) F. 79 (D. 2.10.2) E. 23 De eo, per quem factum erit, quo minus quis vadimonium sistat F. 80 (D. 50.17.110.2) F. 81 (D. 50.17.110.3) F. 82 (D. 50.17.110.4) F. 83 (D. 26.8.17)

E. 17-24, 2

E. 24 Quibus ex causis vadimonia recuperatoribus suppositis fiant

fr. 159 (D. 50.16.14pr.) fr. 160 (D. 48.6.9) fr. 161 (D. 50.16.14.1 + D. 4.1.5)

F. 84 (D. 48.6.9) F. 85 (D. 50.16.14pr.) F. 86 (D. 50.16.14.1) F. 87 (D. 4.1.5)

90

Prospetto palingenetico riassuntivo Lenel 1889.I-II E. VIII De cognitoribus

Krüger 1905

Luchetti et alii 2022

E. 19 E. VIII.1 De cognitoribus et procuratoribus et De cognitoribus, de procuratoribus et defensoribus defensoribus De cognitoribus — E. 20 De cognitoribus

fr. 162 (Vat. 319) fr. 163 (D. 3.3.2) fr. 164 (D. 3.3.4) fr. 165 (D. 3.3.32) fr. 166 (D. 47.23.5 + D. 47.23.1) fr. 167 (D. 3.3.42) fr. 168 (D. 46.3.86) fr. 169 (D. 50.17.112)

D. 3.2.10 D. 3.2.16 D. 3.3.2 D. 3.3.4 D. 3.3.32 D. 47.23.1 D. 47.23.5 D. 3.3.42 D. 46.3.86 D. 3.3.11 E. 25 D. 3.3.14 Qui ne dent cognitorem D. 3.3.36 fr. 170 (D. 3.2.10) D. 3.3.16 fr. 171 (D. 3.2.16) D. 3.3.20 D. 3.3.22 E. 27 Ut cognitor iudicium accipere cogatur D. 3.3.24 D. 3.3.26 fr. 172 (D. 3.3.11) D. 50.17.122 (?) fr. 173 (D. 3.3.14) fr. 174 (D. 3.3.36)

F. 99 (D. 3.3.11) F. 100 (D. 3.3.14) F. 101 (D. 3.3.36)

E. 28 De cognitore abdicando vel mutando

E. 28 De cognitore abdicando vel mutando

fr. 175 (D. 3.3.16) fr. 176 (D. 3.3.20 + D. 3.3.22 + D. 3.3.24) fr. 177 (D. 3.3.26)

F. 102 (D. 3.3.16) F. 103 (D. 3.3.20) F. 104 (D. 3.3.22) F. 105 (D. 3.3.24) F. 106 (D. 3.3.26) E. VIII.2 De cognitoribus, de procuratoribus et defensoribus De procuratoribus et defensoribus

E. VIII De procuratoribus et defensoribus

fr. 178 (D. 46.3.51) E. 29 Ut alieno nomine sine mandatu agere non liceat fr. 179 (D. 26.7.24)

F. 88 (Vat. 319) F. 89 (D. 3.3.2) F. 90 (D. 3.3.4) F. 91 (D. 3.3.32) F. 92 (D. 47.23.5) F. 93 (D. 47.23.1) F. 94 (D. 3.3.42) F. 95 (D. 46.3.86) F. 96 (D. 50.17.112) E. 25 Qui ne dent cognitorem F. 97 (D. 3.2.10) F. 98 (D. 3.2.16) E. 27 De cognitore ad litem suscipiendam dato

E. 21 De procuratoribus et defensoribus

D. 46.3.51 D. 26.7.24 D. 3.3.41 D. 3.3.43 D. 3.3.45

F. 107 (D. 46.3.51) E. 29 Quibus alieno nomine agere liceat F. 108 (D. 26.7.24)

E. 30 Quibus alieno nomine, item per alios agere non liceat

E. 30 Quibus alieno nomine, item per alios agere non liceat

fr. 180 (D. 3.3.41) fr. 181 (D. 3.3.43pr.-1)

F. 109 (D. 3.3.41) F. 110 (D. 3.3.43pr.-1)

91

Ivano Pontoriero Lenel 1889.I-II E. 31 Quibus municipum nomine agere liceat fr. 182 (D. 3.4.4) fr. 183 (D. 3.4.6pr.-2) fr. 184 (D. 50.16.18) E. 32 De defendendo eo, cuius nomine quis aget, et de satisdando fr. 185 (D. 3.3.43.2-6 + D. 3.3.45)

E. 34 Quod cuiuscumque universitatis nomine vel contra eam agatur fr. 186 (D. 3.4.6.3) E. 35 De negotiis gestis fr. 187 (D. 3.5.6[7]) fr. 188 (D. 3.5.12[13]) fr. 189 (D. 3.5.14[15]) fr. 190 (D. 3.5.17[18]) fr. 191 (D. 3.5.20[21]) fr. 192 (D. 17.1.40) fr. 193 (D. 35.2.41) fr. 194 (D. 50.17.114)

E. IX De calumniatoribus

Krüger 1905

Luchetti et alii 2022

E. 22 Si municipum nomine agatur D. 3.4.4 D. 3.4.6pr.-2

E. 31 De defendendo eo, cuius nomine quis aget, et de satisdando F. 111 (D. 3.3.43.2-6) F. 112 (D. 3.3.45)

E. 23 Si contra municipes agatur D. 50.16.18

E. 32 Quibus municipum nomine agere liceat F. 113 (D. 50.16.18) F. 114 (D. 3.4.4) F. 115 (D. 3.4.6pr.-2)

E. 24 Quod cuiuscumque universitatis nomine D. 3.4.6.3

E. 34 Quod cuiuscumque universitatis nomine vel contra eam agatur F. 116 (D. 3.4.6.3)

E. 25 De negotiis gestis D. 3.5.6(7) D. 17.1.40 D. 3.5.12(13) D. 3.5.14(15) D. 3.5.17(18) D. 3.5.18(19).1-5 D. 3.5.20(21) D. 35.2.41 D. 50.17.114 (?)

E. 26 De calumniatoribus

E. 35 De negotiis gestis F. 117 (D. 3.5.6[7]) F. 118 (D. 3.5.12[13]) F. 119 (D. 3.5.14[15]) F. 120 (D. 3.5.17[18]) F. 121 (D. 3.5.18[19].1-5) F. 122 (D. 3.5.20[21]) F. 123 (D. 17.1.40) F. 124 (D. 35.2.41) F. 125 (D. 50.17.114)

E. IX De calumniatoribus

E. 36-38 fr. 195 (D. 3.6.2 = D. 50.17.115pr. D. 3.6.2 = D. 50.17.115 + D. 50.17.115.1) D. 3.6.7 fr. 196 (D. 3.6.7) D. 35.15.8 (?) fr. 197 (D. 37.15.8)

E. X De in integrum restitutionibus

E. 27 De in integrum restitutionibus —

92

F. 126a (D. 3.6.2) = F. 126b (D. 50.17.115pr.) F. 127 (D. 50.17.115.1) F. 128 (D. 3.6.7pr.-1) F. 129 (D. 3.6.7.2) F. 130 (D. 37.15.8) E. X De in integrum restitutionibus

Prospetto palingenetico riassuntivo Lenel 1889.I-II E. 39 Quod metus causa gestum erit fr. 198 (D. 4.2.4) fr. 199 (D. 4.2.8) fr. 200 (D. 4.2.15) fr. 201 (D. 4.2.21) fr. 202 (D. 4.7.5 + D. 50.17.117)

Krüger 1905 E. 28 Quod metus causa D. 4.2.4 D. 4.2.8 D. 4.2.15 D. 4.2.21 D. 4.7.5 D. 50.17.117

E. 40 De dolo malo fr. 203 (D. 4.3.2 + D. 4.3.4) fr. 204 (D. 4.3.10) fr. 205 (D. 37.15.6) fr. 206 (D. 4.3.12) fr. 207 (D. 4.3.14) fr. 208 (D. 4.3.16) fr. 209 (D. 4.3.18) fr. 210 (D. 4.3.20) fr. 211 (D. 4.3.22) fr. 212 (D. 4.3.25) fr. 213 (D. 4.3.27 + D. 4.3.29) fr. 214 (D. 6.1.7)

E. 41 De minoribus viginti quinque annis fr. 215 (D. 4.4.10) fr. 216 (D. 4.4.14) fr. 217 (D. 4.4.23 + D. 4.4.24pr.) fr. 218 (D. 4.4.24.1-5) fr. 219 (D. 4.4.26) E. 42 De capite minutis fr. 220 (D. 4.5.3) fr. 221 (D. 4.5.5) fr. 222 (D. 4.5.7 + D. 50.16.21) fr. 223 (D. 4.5.9) fr. 224 (D. 41.1.42) fr. 225 (D. 44.7.40)

Luchetti et alii 2022 E. 39 Quod metus causa gestum erit F. 131 (D. 4.2.4) F. 132 (D. 4.2.8) F. 133 (D. 4.2.15) F. 134 (D. 4.2.21) F. 135 (D. 4.7.5) F. 136 (D. 50.17.117)

E. 29 De dolo malo D. 4.3.2 D. 4.3.4 D. 4.3.10 D. 37.15.6 D. 4.3.12 D. 4.3.14 D. 4.3.16 D. 4.3.18 D. 4.3.20 D. 4.3.22 D. 4.3.25 D. 6.1.7 D. 4.3.27 D. 4.3.29

E. 40 De dolo malo F. 137 (D. 4.3.2) F. 138 (D. 4.3.4) F. 139 (D. 4.3.10) F. 140 (D. 37.15.6) F. 141 (D. 4.3.12) F. 142 (D. 4.3.14) F. 143 (D. 4.3.16) F. 144 (D. 4.3.18) F. 145 (D. 4.3.20) F. 146 (D. 4.3.22) F. 147 (D. 4.3.25) F. 148 (D. 6.1.7) F. 149 (D. 4.3.27) F. 150 (D. 4.3.29)

E. 30 De minoribus viginti quinque annis D. 4.4.10 D. 4.4.14 D. 4.4.23 D. 4.4.24 D. 4.4.26

E. 41 De minoribus viginti quinque annis F. 151 (D. 4.4.10) F. 152 (D. 4.4.14) F. 153 (D. 4.4.23) F. 154 (D. 4.4.24) F. 155 (D. 4.4.26)

E. 31 De capite minutis D. 4.5.3 D. 4.5.5 D. 4.5.7 D. 50.16.21 D. 4.5.9 D. 41.1.42 D. 44.7.40

E. 42 De capite minutis F. 156 (D. 4.5.3) F. 157 (D. 4.5.5) F. 158 (D. 4.5.7) F. 159 (D. 50.16.21) F. 160 (D. 4.5.9) F. 161 (D. 41.1.42) F. 162 (D. 44.7.40)

93

Ivano Pontoriero Lenel 1889.I-II E. 43 Ex quibus causis maiores viginti quinque annis in integrum restituuntur* fr. 226 (D. 4.6.6) fr. 227 (D. 4.6.13) fr. 228 (D. 4.6.16) fr. 229 (D. 4.6.18) fr. 230 (D. 2.8.6) fr. 231 (D. 4.6.22) fr. 232 (D. 41.3.8) fr. 233 (D. 4.6.24) fr. 234 (D. 4.6.27) fr. 235 (D. 4.6.30) E. 44 Quod falso tutore auctore gestum esse dicatur

Krüger 1905

Luchetti et alii 2022

E. 32 Quod falso tutore auctore

D. 27.6.2 D. 27.6.4 D. 27.6.6 D. 27.6.8

F. 163 (D. 27.6.2) F. 164 (D. 27.6.4) F. 165 (D. 27.6.6) F. 166 (D. 27.6.8)

E. 33 Ex quibus causis maiores

fr. 236 (D. 27.6.2 + D. 27.6.4 + D. D. 4.6.6 27.6.6) D. 4.6.13 fr. 237 (D. 27.6.8) D. 4.6.16 D. 4.6.18 D. 2.8.6 D. 4.6.22 D. 41.3.8 D. 4.6.24 D. 4.6.27 D. 4.6.30 E. 45 Si quis plus petendo causa ceciderit fr. 238 (D. 6.1.8)

E. 43 Quod eo auctore qui tutor non fuerit (gestum [?]) esse dicatur

E. 44 Ex quibus causis maiores viginti quinque annis in integrum restituuntur F. 167 (D. 4.6.6) F. 168 (D. 4.6.13) F. 169 (D. 4.6.16) F. 170 (D. 4.6.18) F. 171 (D. 2.8.6) F. 172 (D. 4.6.22) F. 173 (D. 41.3.8) F. 174 (D. 4.6.24) F. 175 (D. 4.6.27) F. 176 (D. 4.6.30)

E. 34 (?) D. 6.1.8

E. 45 De lite restituenda F. 177 (D. 6.1.8)

E. 46 E. 35 E. 46 De alienatione iudicii mutandi causa De alienatione iudicii mutandi causa De alienatione iudicii mutandi causa facta facta facta fr. 239 (D. 4.7.8 + D. 4.7.10) E. 47 (?) De restitutione heredum fr. 240 (D. 50.17.120)

*

D. 4.7.8

F. 178 (D. 4.7.8) F. 179 (D. 4.7.10 [?])

E. 36 De restitutione heredum D. 50.17.120

E. 47 (?) De restitutione heredum F. 180 (D. 50.17.120)

Cfr. Lenel 1889.II, 1249, nt. 2.

94

Prospetto palingenetico riassuntivo Lenel 1889.I-II E. XI De receptis

Krüger 1905

Luchetti et alii 2022

E. 37 De receptis: qui arbitrium receperint

E. 48 Qui arbitrium receperint, ut sententiam dicant fr. 241 (D. 4.8.4) fr. 242 (D. 4.8.8) fr. 243 (D. 4.8.10) fr. 244 (D. 4.8.16) fr. 245 (D. 4.8.19) fr. 246 (D. 4.8.22) fr. 247 (D. 4.8.24) fr. 248 (D. 4.8.26) fr. 249 (D. 4.8.28) fr. 250 (D. 4.8.30) fr. 251 (D. 4.8.32pr.-3 + D. 4.8.12 + D. 4.8.32.3-21) fr. 252 (D. 4.8.34) fr. 253 (D. 36.1.37[36]) fr. 254 (D. 50.17.121) fr. 255 (C. 2.55[56].5.3[1]) E. 49 Nautae caupones stabularii ut recepta restituant fr. 256 (D. 4.9.4) fr. 257 (D. 19.2.42) E. 50 De recepticia actione (Lenel 1889.I, 992) Argentariae mensae exercitores quod pro alio solvi receperint ut solvant (Lenel 1889.II, 1249) fr. 258 (D. 13.5.12)

E. 48 Qui arbitrium receperint, ut sententiam dicant D. 4.8.4 D. 4.8.8 D. 4.8.10 D. 4.8.16 D. 4.8.19 D. 4.8.22 D. 50.17.121 D. 4.8.24 D. 4.8.26 D. 4.8.28 D. 4.8.30 D. 4.8.32pr.-3 + D. 4.8.12 D. 4.8.32.4-21 D. 4.8.34 D. 36.1.37(36) (?) E. 38 Nautae caupones stabularii D. 4.9.4 D. 19.2.42

E. XIII.52 Quibus causis praeiudicium fieri non oportet fr. 260 (D. 48.1.2) De inofficioso testamento fr. 261 (D. 5.3.8) fr. 262 (D. 50.17.124)

F. 181 (D. 4.8.4) F. 182 (D. 4.8.8) F. 183 (D. 4.8.10) F. 184 (D. 4.8.16) F. 185 (D. 4.8.19) F. 186 (D. 4.8.22) F. 187 (D. 50.17.121) F. 188 (D. 4.8.24) F. 189 (D. 4.8.26) F. 190 (D. 4.8.28) F. 191 (D. 4.8.30) F. 192 (D. 4.8.32pr.-3 + D. 4.8.12 + D. 4.8.32.3-21) F. 193 (D. 4.8.34) F. 194 (D. 36.1.37[36]) F. 195 (C. 2.55[56].5.3[1]) E. 49 Nautae caupones stabularii ut recepta restituant F. 196 (D. 4.9.4) F. 197 (D. 19.2.42)

E. 39 De recepto argentariorum

D. 13.5.12

E. 50 Argentariae mensae exercitores quod pro alio solvi receperint ut solvant

F. 198 (D. 13.5.12) E. 40 De satisdando

E. XII.51 De satisdando fr. 259 (D. 2.8.8)

E. XI De receptis

D. 2.8.8

E. XII.51 De satisdando F. 199 (D. 2.8.8)

E. 41 De iudiciis: quibus rebus praeiudicium ne fiat D. 48.1.2

E. XIII.52 Quibus causis praeiudicium fieri non oportet F. 200 (D. 48.1.2)

E. 42 De inofficioso testamento D. 5.3.8 D. 50.17.124

De inofficioso testamento F. 201 (D. 5.3.8) F. 202 (D. 50.17.124)

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COMMENTO

LIBRO IV

[Sulla chiamata in giudizio (E. V)] Per opinione generalmente condivisa, l’editto pretorio trattava, seguendo l’ordine cronologico di svolgimento di un’azione – e quindi diversamente dal Digesto ove il titolo de in ius vocando precede i titoli relativi all’editio, ai patti e alle transazioni – prima delle materie dell’editio e dei pacta1 e poi della in ius vocatio2, fissando i reciproci obblighi delle parti rispetto all’introduzione della lite, i limiti alla stessa chiamata in giudizio e prevedendo altresì delle azioni contro chi avesse violato detti limiti nonché contro il terzo che avesse impedito la comparizione del vocatus. Il titolo edittale de in ius vocando, confermato da Gaio (Gai. 4.46: …sub titulo de in ius vocando) nonché dai verba praetoris conservati in Ulp. 6 ad ed., D. 3.1.1.11: …de quibus personis sub titulo de in ius vocando…), è stato ricostruito, a partire da Rudorff, sulla base di D. 2.4 e C. 2.273.

1 Sul punto cfr. Rudorff 1869, 10 e Lenel 1927, 32. Per una diversa opinione sull’ordine di esposizione delle materie nell’editto pretorio, cfr. Lemosse 1975, 45 ss. 2 È ormai un uso invalso nella storiografia giuridica moderna ricorrere alla locuzione sostantivata in ius vocatio, ma l’espressione più corretta è la forma verbale in ius vocare, essendo l’unica attestata dalle fonti: sul punto v. in specie Mantovani 2005, 153, nt. 20. Sulle origini della vocatio in ius, cfr., tra gli altri, Nocera 1976, 235, il quale afferma che “la legalità… ha inizio con la vocatio in ius”; sul punto cfr. anche Behrends 1974, 31. Sull’argomento v. anche Buti 1984b, 2409 ss. e Id. 1984a, 226 ss. 3 Cfr. Rudorff 1869, 36, nt. 1 e Lenel 1927, 65, nt. 5. Per la corrispondenza tra i titoli edittali e quelli dei Digesta cfr. Soubie 1960, 39 ss.

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Sabrina Di Maria In particolare Lenel ha pensato a una suddivisione del titolo in tre diverse clausole, le prime due mutuate rispettivamente da D. 2.6 e da D. 2.74 e quindi denominate in ius vocati ut eant aut vindicem dent e ne quis eum qui in ius vocabitur vi eximat, la terza invece, di difficile ricostruzione, sprovvista di un’autonoma denominazione5. Diversamente Rudorff, attenendosi strettamente alla successione dei titoli del Digesto, mutua le tre clausole rispettivamente da D. 2.5, D. 2.6 e D. 2.7 denominandole i) si quis in ius vocatus non ierit sive quis eum vocaverit quem ex edicto non debuerit, ii) in ius vocati ut veniant aut vindicem dent e iii) ne quis eum qui in ius vocabitur vi eximat neve faciat dolo malo quo magis eximeretur6. All’editto de in ius vocando era dedicato il quarto libro del commentario di Paolo7, libro al quale sono riconducibili in tutto undici brani, di cui, secondo Lenel, nove riferibili alla clausola edittale in ius vocati ut eant aut vindicem dent e due attinenti alla clausola ne quis eum qui in ius vocabitur vi eximat8. I materiali sono stati ordinati dallo studioso in modo perfettamente coincidente con la sequenza pubblicata da Krüger dalla decima edizione stereotipa del Digesto9. F. 52 – D. 2.4.1 Ad apertura del quarto libro è collocato, sia nella Palingenesia iuris civilis sia nella sequenza individuata da Krüger, il frammento conservato in D. 2.4.1, testo che, secondo Lenel, andrebbe dunque riferito alla prima clausola edittale in ius vocati ut eant aut vindicem dent10. Nel brano, il giurista severiano definisce l’in ius vocatio come la potestà di citare in giudizio la controparte per far valere un diritto11. La definizione paolina introduce la lunga catena di brani del titolo D. 2.4 de in ius vocando, nell’ambito del quale si riscontrano altri dieci testi di Paolo, di cui sei estratti dall’ad edictum12.

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Cfr. Lenel 1927, 65, nt. 6 e 73, nt. 5. Cfr. Lenel 1889.II, 439 e Id. 1927, 74-75. Secondo lo studioso tedesco al commento della terza clausola andrebbero riferiti Iul. 1 dig., D. 13.6.19; Ulp. 5 ad ed., D. 19.2.41 e Ulp. 5 ad ed., D. 50.16.9. 6 Rudorff 1869, 35 ss. 7 Ulpiano se ne occupa invece nel suo quinto libro ad edictum; cfr. Lenel 1889.I, 974-975 (per Paolo); 435-439 (per Ulpiano) e Id. 1927, 65 ss. La successione delle materie trattate dai due massimi giuristi severiani si presenta infatti in generale sostanzialmente convergente per tutta la prima parte dell’editto fino al tredicesimo titolo della ricostruzione leneliana (Lenel, E. XIII: quibus causis praeiudicium fieri non oportet), cui si riferiscono rispettivamente il quattordicesimo libro del commentario ulpianeo e i libri quindicesimo e sedicesimo di quello paolino; sulla trattazione in parallelo della prima parte dell’ad edictum dei due giuristi v. quanto già osservato da Luchetti 2018a, 50. 8 Cfr. Lenel 1889.I, 974-975 e Id. 1927, 65 ss. Rudorff 1869, 39 non riferisce alcun brano paolino alla terza clausola edittale. 9 Krüger 1905, 897. 10 Cfr. Lenel 1927, 68 e nt. 5. 11 Sulla assenza di particolari formalità per la in ius vocatio cfr. Murga Gener 1980, 257 ss.; Cannata 1982, 136. Sulla non necessità dell’indicazione del motivo per il quale si citava in giudizio, v. anche Behrends 1974, 1, il quale rileva “vor dessen Tribunal die in ius vocatio führen sollte”. 12 Sulla definizione paolina cfr., tra gli altri, Behrends 1974, 14, il quale ritiene che Paolo parlasse semplicemente di una chiamata per l’esercizio di un diritto; sul punto cfr. anche, nella letteratura meno risalente, Buti 1984a, in specie 226 ss. Sul duplice aspetto dell’in ius vocatio, anche in relazione a quanto illustrato da Gai. 4.183, come 5

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Commento Il testo in esame è richiamato all’inizio del quarto libro paolino anche da Cuiacio, mentre non risulta neppure citato da Rudorff13. Tale omissione non sembra tuttavia priva di significato. Il tenore letterale del brano infatti, così come pervenutoci per mezzo della raccolta di iura giustinianea, sembra non offrire conforto alla proposta palingenetica di Lenel. Le parole paoline parrebbero infatti non tanto poste a commento della clausola in ius vocati ut eant aut vindicem dent, quanto piuttosto atteggiarsi a introduzione delle successive specifiche disposizioni edittali. La clausola cui Lenel riferisce il brano è ricavata dal titolo D. 2.6, che, come sostenuto dallo stesso studioso, ruota intorno alla figura del vindex, mentre il brano conservato in D. 2.4.1 contiene una semplice definizione di in ius vocare14. L’ipotesi che si intende avanzare, ossia che il frammento in esame costituisse una premessa generale alle diverse clausole dell’in ius vocando15, trova altresì conforto nella stessa collocazione sistematica del brano ad opera dei compilatori giustinianei, i quali appunto inseriscono il testo proprio ad apertura del titolo D. 2.4.

[Che coloro che siano stati chiamati in giudizio si presentino o diano un garante (E. 11)] F. 53 – D. 47.10.23 L’editto prevedeva dei limiti in capo all’attore nell’esercizio dell’in ius vocare e delle garanzie in favore del vocatus. Tra queste ultime va annoverato il divieto di chiamare in ius chi si trovasse presso il proprio domicilio16, divieto questo cui si riferisce il brano tramandatoci da D. 47.10.2317. La regola era già stata enunciata da Gaio nel suo commentario alla legge delle XII tavole (D. 2.4.18)18, ma la stessa doveva essere piuttosto risalente, di certo doveva avere preceduto

potere di convocare in giudizio la controparte e come onere per l’attore di tenere un comportamento utile a portare alla cognizione del magistrato giusdicente una controversia tra privati, v. recentemente Donadio 2011, in specie 168; sul carattere dell’in ius vocatio come mezzo generale di introduzione della lite, v. Buti 1984b, 2413, nt. 17 e Id. 1984a, 226 ss. 13 Cfr. Cuiacius 1584, 83 e Rudorff 1869, 35 ss. 14 Cfr. Lenel 1927, 65. 15 Si veda la suddivisione ad opera di Lenel del quinto libro ad edictum di Ulpiano: Lenel 1889.II, 435. 16 Sul tema della chiamata in ius di chi si trovava presso il proprio domicilio cfr. Kaser, Hackl 1996, 66 e 221, nonché, per limitarmi ad alcuni contributi, Pugliese 1963, 371; Blecher 1975, 280 s.; de Robertis 1983, 173; Buti 1984a, 233 ss.; Licandro 2004, 395 ss.; Mantovani 2005, 147 ss. 17 Sul brano in esame cfr., tra gli altri, Plescia 1977, 286; Buti 1984a, 235; Garbarino 2004, 232 ss.; Licandro 2004, 381 ss. 18 Cfr. Gai. 1 ad l. XII tab., D. 2.4.18: Plerique putaverunt nullum de domo sua in ius vocari licere, quia domus tutissimum cuique refugium atque receptaculum sit, eumque qui inde in ius vocaret vim inferre videri. Il divieto era enunciato da Gaio in sede di interpretatio a Tab. I.1-2: sul punto v. in particolare Diliberto 1992.I, 395 ss. Gaio dopo aver dichiarato l’illiceità di in ius vocari de domo sua, indica delle eccezioni al divieto stabilendo che poteva essere chiamato lecitamente in giudizio chi si trovava sull’ingresso o alle terme o a teatro (Gai. 1 ad l. XII tab., D. 2.4.20: sed etiam ab ianua et balineo et theatro nemo dubitat in ius vocari licere).

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Sabrina Di Maria di molto l’età di Gaio, come dimostra un passaggio dell’orazione de domo sua di Cicerone19 nonché il cenno al tema ad opera di Aulo Ofilio. Il giurista severiano riferisce infatti che Ofilio aveva sostenuto che l’ingresso non autorizzato nella domus altrui fosse punito con un’actio iniuriarum20, anche se l’intruso avesse effettuato la in ius vocatio21. Al proposito autorevole parte della dottrina ritiene che il parere di Ofilio richiamato da Paolo non possa considerarsi come una testimonianza diretta del divieto di in ius vocare de domo, poiché Ofilio avrebbe piuttosto posto l’accento sulla violazione di domicilio e, per quanto concerne l’in ius vocatio, avrebbe escluso soltanto che essa potesse valere da esimente22. Secondo tale filone interpretativo dunque la prospettiva di D. 47.10.23 sarebbe diversa rispetto a quella di D. 2.4.18 essendo il primo testo volto “ad affermare l’attribuzione dell’actio iniuriarum contro chi si è introdotto nella domus”, mentre nel brano gaiano “l’attenzione è posta esclusivamente sulla modalità illecita della in ius vocatio”23.

19 Cic., de domo sua, 119: Hoc perfugium est ita sanctum omnibus, ut inde abripi neminem. Su tale brano v. Licandro 2004, 388 ss. nonché Mantovani 2005, 151. Sul termine perfugium, cfr. Crifò 1961, 113 ss. e Bellardi 1973, 245. Sulle origini risalenti della regola enunciata da Gaio, cfr. Pugliese 1963, 371; Buti 1984a, 233; Licandro 2004, 413, il quale ipotizza che il divieto dell’inviolabilità del domicilio fosse effettivamente contenuto nella legge delle XII Tavole e che Gaio, ignorandolo, lo attribuisse erroneamente all’interpretatio, in quanto la lex era andata perduta nella trasmissione del testo decemvirale. Non condivide tale ipotesi Mantovani 2005, 147, poiché essa dipenderebbe “da un’altra ipotesi, per di più in contrasto con la communis opinio, ossia che il testo delle Dodici Tavole pervenuto a Gaio si allontanasse dall’archetipo più di quanto normalmente si supponga. Inoltre, nello specifico, l’ipotesi di una lacuna imputabile alla tradizione del testo appare inverosimile, se si pensi che, in questo caso, la perdita avrebbe colpito non una lex decemvirale obsoleta e caduta in desuetudine, bensì una norma ancora pienamente in vigore nel II secolo d.C.”. 20 A proposito dell’azione penale riconosciuta da Ofilio contro chi fosse entrato nella domus altrui invito domino, una parte della dottrina ritiene che si trattasse dell’actio iniuriarum ex lege Cornelia de iniuriis: v., tra gli altri, Manfredini 1977, 225, nt. 21; Plescia 1977, 286 e nt. 86; Santalucia 1998, 153; Cerami 1998, 102. Lenel invece nella sua Palingenesia iuris civilis (v. Lenel 1889.I, 799, nt. 1) mostra dubbi nel riferire la citazione ofiliana alla disciplina introdotta dalla legge di Silla. Ritengono che si trattasse dell’actio iniuriarum comune Watson 1965, 251; Buti 1984a, 233, nt. 36 e 235 s.; Licandro 2004, 424. 21 Lenel 1889.I, 799 non considera il parere ofiliano richiamato da Paolo di stretto contenuto edittale tanto che lo colloca in quella che la dottrina più recente individua come pars legum dei libri iuris partiti pubblicati da Ofilio nel 44 a.C. Al proposito va ricordato che anche Ulp. 5 ad ed., D. 2.7.1.2 (Ofilius putat locum hoc edicto non esse, si persona, quae in ius vocari non potuit, exempta est, veluti parens et patronus ceteraeque personae: quae sententia mihi videtur verior. et sane si deliquit qui vocat, non deliquit qui exemit), richiama il parere di Ofilio, il quale avrebbe sostenuto che l’editto che puniva chi avesse impedito con la vis che il vocatus fosse tratto in ius non poteva applicarsi quando questi fosse persona che non sarebbe stato lecito chiamare. Tale testo ulpianeo – a differenza di D. 47.10.23 – viene invece riferito da Lenel 1889.I, 796 ai libri ad edicta praetoris et aedilium curulium ofiliani, sotto la rubrica ne quis eum, qui in ius vocabitur, vi eximat. Sul commento ad edictum di cui sarebbe stato autore Ofilio, cfr. in specie Falcone 1996, 101 ss. In generale sui diversi tentativi di ricostruzione dell’opera ofiliana v. Sanio 1845, 68 ss.; Id. 1858, 85 ss.; nella letteratura meno datata cfr. Cerami 1998, 83 ss. Sulle citazioni di Ofilio da parte dei giuristi successivi cfr. Biavaschi 2011, 34 ss. ove l’autrice tuttavia censendo le citazioni di Ofilio da parte di Paolo e di Ulpiano non fa rifermento a D. 47.10.23. Sull’argomento v. anche Tondo 1979, 49, nt. 48. 22 Sulla non precipua attinenza del testo di Paolo con il divieto di in ius vocare de domo cfr. Licandro 2004, 247 e Mantovani 2005, 147 ss. In passato non sono mancati neppure dubbi circa la genuinità del brano: Arangio-Ruiz 1946, 184, nt. 1; contra Raber 1969, 152 ss. 23 Così Licandro 2004, 247. Sul punto cfr. anche Garbarino 2004, 232 ss., il quale ipotizza inoltre che, nella fattispecie presentata da Ofilio, “il dominus della domus in cui si effettua la in ius vocatio, sia persona diversa dal vocatus”, in quanto ivi ospite o eventualmente conduttore e che, sebbene la chiamata in ius sia lecita, “l’ingresso nella domus a quel fine, potrebbe comunque implicare una lesione della sfera giuridica del proprietario, il quale non abbia dato in merito il suo preventivo assenso” (Garbarino 2004, 235 s.); diversamente su tale ultimo punto Licandro 2004, 424 ss.

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Commento L’espresso riferimento all’azione penale e la convinzione che l’opinione di Ofilio non concernesse precipuamente il tema del divieto di in ius vocare de domo sono stati probabilmente i motivi che hanno indotto Rudorff a non richiamare il brano in esame nella sua ricostruzione dell’editto de in ius vocando24. Sull’actio iniuriarum che Ofilio riconosceva contro chi si fosse introdotto in domum alienam invito domino, si era soffermato anche Cuiacio25, il quale aveva invece trovato una connessione tematica tra il frammento in esame e quello che si legge in D. 2.8.4 [F. 60] (riferibile alla medesima clausola edittale), che riguarda in specie la posizione del vindex contro il quale poteva esperirsi, in caso di sua responsabilità, un’azione utile, che lo studioso ritiene essere di natura penale26. Ovviamente il collegamento con il testo di D. 2.8.4 comporta, pur se nell’ambito della medesima clausola edittale, un ordine dei frammenti diverso rispetto a quello delle sequenze di Lenel e di Krüger. A me pare che la riconducibilità del parere di Ofilio al divieto di in ius vocari de domo sua e il posizionamento del frammento nel contesto originario secondo l’ordine prospettato dagli studiosi or ora richiamati non possano essere messi in discussione, sia per il profilo contenutistico, in quanto è chiaro il riferimento al divieto di in ius vocari de domo sua, sia se esso viene valutato anche alla luce del commento paolino alle disposizioni edittali sull’in ius vocare davanti ai magistrati municipali. L’editto infatti affrontava il tema dell’in ius vocare in due diverse sedi, entrambe iniziali: oltre alla disposizione relativa alla giurisdizione del pretore, ce ne era un’altra relativa alla giurisdizione dei magistrati municipali (cfr. Lenel, E. 2) 27 e ciò comportava ripetizioni nelle opere di commento28. Paolo tratta infatti della citazione presso la domus anche nel primo libro del suo ad edictum e precisamente nei brani conservati in D. 2.4.19 e in D. 2.4.2129. Il primo testo fa riferimento alla missio in bona concessa a beneficio dell’attore che non fosse riuscito a in ius vocare la propria controparte e quindi a farla comparire in giudizio30. Tale previsione si rendeva necessaria appunto perché non era possibile, se non in casi eccezionali, in ius vocari de domo sua, circostanza questa che poteva far si che il vocatus ponesse in essere un comportamento ostruzionistico31.

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Cfr. Rudorff 1869, 35 ss. Cfr. Cuiacius 1584, 83-84. 26 Sul brano [F. 60] v. infra, 106 27 Cfr. Lenel 1927, 52 ss. 28 Cfr. Mantovani 2005, 177, nt. 77. 29 Cfr. Paul. 1 ad ed., D. 2.4.19 [F. 6]: Satisque poenae subire eum, si non defendatur et latitet, certum est, quod mittitur adversarius in possessionem bonorum eius. sed si aditum ad se praestet aut ex publico conspiciatur, recte in ius vocari eum Iulianus ait (v. Luchetti 2018c) e Paul. 1 ad ed., D. 2.4.21 [F. 7a]: Sed etsi is qui domi est interdum vocari in ius potest, tamen de domo sua nemo extrahi debet (v. Luchetti 2018c), cui va collegata la lex geminata che figura in D. 50.17.103 (cfr. Krüger 1905, 897). Questi due brani paolini si appoggiano, nel Digesto giustinianeo, ai testi di Gaio conservati in D. 2.4.18 e 20, formando insieme un trattato relativo all’in ius vocari de domo; sul punto v. ancora Luchetti 2018c, 110 ss. 30 Il brano deve essere letto congiuntamente con l’altro brano paolino supra richiamato (D. 2.4.21) nonché con i frammenti gaiani di D. 2.4.18 e 20, secondo la catena che si riscontra nel Digesto. Sul punto cfr. in specie Mantovani 2005, 145 ss. e Luchetti 2018c, 110 ss. 31 A proposito di D. 2.4.19, cfr. Lenel 1889.I, 89 che lo fa precedere dall’enunciazione contenuta in D. 2.4.18: plerique putaverunt nullum de domo sua in ius vocari licere. 25

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Sabrina Di Maria In particolare la chiamata in ius di chi si trovasse presso il proprio domicilio era concessa, secondo un’opinione che si dice risalire a Giuliano, se l’avversario, pur trovandosi in casa, avesse consentito l’accesso oppure fosse stato scorto dall’esterno (D. 2.4.19 ... si aditum ad se praestet aut ex publico conspiciatur, recte in ius vocari eum Iulianus ait)32. Tuttavia anche nei casi in cui era concesso di in ius vocare de domo vi era comunque il divieto di extrahere de domo sua (D. 2.4.21). In particolare Paolo sottolinea che la vocatio in ius poteva compiersi, in alcuni casi eccezionali33, anche nei confronti di chi si trovasse domi, mentre l’extrahere, ossia l’uso della forza per trarre fuori di casa il vocatus retinente, era sempre vietato34. Lenel ha riferito i due brani, trascurando la loro connessione con il regime della in ius vocatio, al titolo sulla cautio damni infecti35. La ricostruzione palingenetica leneliana è però stata messa in discussione, seguendo un’intuizione di Krüger36, da Mantovani il quale ha dimostrato con convincenti e fondate argomentazioni che i brani sono stati scritti a commento della clausola si quis in ius vocatus ad eum, qui in municipio colonia foro iure dicundo praeerit, non ierit sive quis eum vocaverit, quem ex edicto non debuerit37. Mi sembra dunque chiaro che Paolo torni a parlare del divieto di in ius vocare de domo anche in relazione alla giurisdizione del pretore e che lo faccia in un luogo del suo commentario che doveva, anche se di poco, precedere i passaggi tramandatici negli altri brani che qui riporto di seguito (seguendo l’ordine di Lenel e di Krüger), ripredendo così il discorso già svolto nel primo libro. F. 54 – D. 2.4.5 Il carattere sibillino del testo, dovuto alla mutilazione giustinianea dell’originario passo in favore dell’ampio brano ulpianeo che immediatamente lo precede nel Digesto (Ulp. 5 ad ed., D. 2.4.4), ha fatto sì che, soprattutto in passato, si sia dubitato della sua genuinità38. Tuttavia

32 Sull’espressione aditum ad se praestet e sull’avverbio recte cfr. Cannata 1993, 22. Sulla locuzione ex publico conspiciatur cfr. Licandro 2004, 432 s., contra Mantovani 2005, 150. 33 Che sono appunto le eccezioni al divieto indicate da Giuliano e richiamate dal giurista severiano in Paul. 1 ad ed., D. 2.4.19. 34 Sul divieto di extrahere il vocatus de domo sua cfr., tra gli altri, il quadro fornito da Blecher 1975, 281. Più in generale, per lo stretto rapporto tra il potere del pater familias e l’ambito domestico entro il quale tale potere si esercitava e per la conseguente inviolabilità della domus cfr. de Robertis 1983, 173 e Plescia 1987, 267 e nt. 4. 35 Cfr. Lenel 1927, 52, nt. 5 e 53, nt. 3 e Lenel 1889.I, 967. L’ipotesi leneliana è stata seguita, più di recente, anche da Domingo 1995, in specie 21, nt. 10 e 44, nt. 111 (v. anche 33 e 115). 36 Cfr. Krüger 1905, 897. 37 Cfr. Mantovani 2005, 145 ss. L’intuizione di Mantovani è stata ampiamente sviluppata da Luchetti 2018c, 101 ss. Va comunque osservato che l’ipotesi di ricondurre i due brani paolini all’editto si quis in ius vocatus fu seguita in un primo momento anche da Lenel 1881, 23 e nt. 22 (= 1990, I 289 e nt. 22), ma poi – senza esplicita motivazione – abbandonata. 38 Ha ritenuto non genuino il brano Schulz 1951, 143; dello stesso parere Solazzi 1956b, 131 ss. (= 1972, V 651 ss.). Di diverso avviso Kaser 1971, 345. Ha negato il carattere spurio del brano anche Lanfranchi 1964, 52: “è dunque per me genuino, seppur troppo sintetico; ma ciò è forse spiegabile con la fattispecie in ordine alla quale fu emesso”. La sinteticità del brano e la singolarità della fattispecie sono state rilevate anche da Jolowicz 1954, 34 ss., per il quale il principio pater vero is est, quem nuptiae demonstrant “… was certainly never intended to have so general a meaning, either by the original writer (Paul) or by the Compilers”.

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Commento proprio il coordinamento del frammento con il passo ulpianeo – ove il giurista di Tiro illustra la disciplina edittale relativa alla vocatio sine permissu39 – rende meno arduo l’individuazione del contesto preciso in cui si innestava il principio in esso contenuto40. Il pretore aveva introdotto dei limiti che imponevano di chiedere una autorizzazione per la vocatio nei confronti di alcune categorie di persone. Tra tali limiti era previsto il divieto di vocare parentes o patroni sine permissu. La clausola edittale è riferita testualmente da Ulp. 5 ad ed., D. 2.4.4.1 (praetor ait: ‘parentem, patronum patronam, liberos parentes patroni patronae in ius sine permissu meo ne quis vocet’)41. Ai verba edicti riportati da Ulpiano va collegato il brano in esame relativo alla certezza della maternità e posto, in dottrina, in correlazione con la c.d. presunzione di paternità42. Paolo, a commento dei verba praetoris riportati in D. 2.4.4.1, precisa che il figlio non poteva chiamare in giudizio la madre sine permissu in quanto essa semper certa est, etiam si vulgo conceperit, mentre per quanto concerne il padre, afferma semplicemente che pater vero is est, quem nuptiae demonstrant, ossia si limita a dire che il pater era indicato dal matrimonio. È dunque probabile che il filius, nell’ipotesi in cui avesse convenuto il padre senza il permesso del pretore, non potesse sfuggire alla pena edittale negando la paternità; non sarebbe stato dunque consentito che si instaurasse un giudizio per determinare se la vocatio in ius iniussu praetoris fosse irregolare dovendo decidersi sul fondamento delle nuptiae43. La disposizione edittale che impediva, sine permissu, di vocare i patroni e i parentes trovava la propria ratio nell’intento di salvaguardare la reverentia che era dovuta a determinate persone, come affermato in un frammento delle sententiae di Paolo, che i giustinianei hanno infatti inserito nei Digesta subito dopo quello in esame (Paul. 1 sent., D. 2.4.6: parentes naturales in ius vocare nemo potest: una est enim omnibus parentibus servanda reverentia). Nel brano si precisa

39 Cfr. Ulp. 5 ad ed., D. 2.4.4.2-3: Parentem hic utriusque sexus accipe: sed an in infinitum, quaeritur. quidam parentem usque ad tritavum appellari aiunt, superiores maiores dici: hoc veteres existimasse Pomponius refert; sed Gaius Cassius omnes in infinitum parentes dicit, quod et honestius est et merito optinuit. 3. Parentes etiam eos accipi Labeo existimat, qui in servitute susceperunt: nec tamen, ut Severus dicebat, ad solos iustos liberos: sed et si vulgo quaesitus sit filius, matrem in ius non vocabit. 40 Lenel 1889.I, 974 integra il testo di Paolo con l’enunciazione ulpianea sed et si vulgo quaesitus sit filius, matrem in ius non vocabit (D. 2.4.4.3 i.f.). 41 Cfr. Lenel 1927, 68 ss. Ulpiano richiama l’enunciato dell’editto anche in Ulp. 5 ad ed., D. 2.4.10.12: Praetor ait: ‘in ius nisi permissu meo ne quis vocet’. permissurus enim est, si famosa actio non sit vel pudorem non suggilat, qua patronus convenitur vel parentes. et totum hoc causa cognita debet facere: nam interdum etiam ex causa famosa, ut Pedius putat, permittere debet patronum in ius vocari a liberto: si eum gravissima iniuria adfecit, flagellis forte cecidit. La disposizione edittale non deve essere considerata diversa da quella riferita in D. 2.4.4.1 essendo essa semplicemente richiamata dal giurista al fine di commentare, questa volta, il significato e la portata del termine permissum. In questo senso già Buti 1984a, 241 e nt. 59. Quanto riferito da Ulpiano in D. 2.4.4.1 è confermato anche dal manuale gaiano (cfr. Gai. 4.183: …Quasdam tamen personas sine permissu praetoris in ius vocare non licet, veluti parentes patronos patronas, item libero set parentes patroni patronaeve…). Sulla autorizzazione del pretore ai fini della vocatio in ius di ascedenti e patroni, cfr. Fernández Barreiro 1971a, 261 ss. 42 Sul punto v. Lanfranchi 1968, 262 ss. e Lefebvre-Teillard 1991, 331. 43 Di questo avviso Solazzi 1956b, 135 (= 1972, V 654). Ritiene che tale regime contrasterebbe con i principi generali in tema di accertamento dello status del figlio, Lanfranchi 1964, 52, secondo il quale il figlio in ius vocans senza autorizzazione era libero di negare la paternità del vocatus, ottenendo l’instaurazione di un regolare giudizio di stato.

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Sabrina Di Maria la portata dei termini usati nella clausola edittale stabilendo che tra i parentes dovessero rientrare anche quelli naturales44. F. 55 – D. 2.4.7 Al commento del lemma edittale parentes si pone anche il brano in esame ove Paolo, rispetto a D. 2.4.5 [F. 54], aggiunge che non potevano rientrare nella prescrizione pretoria i parentes del genitore adottivo45. L’adottato avrebbe potuto vocare, senza incorrere nella sanzione stabilita dall’editto, i parentes patris adoptivi, poiché colui che era stato adottato diventava consanguineo soltanto di coloro rispetto ai quali diventava anche agnato (quoniam hi eius parentes non sunt, cum his tantum cognatus fiat quibus et adgnatus). F. 56 – D. 2.4.9 Ancora nel medesimo contesto, ma specificatamente, questa volta, a commento del termine patronus (Ulp. 5 ad ed., D. 2.4.4.1: …patronum patronam…), si pone il brano conservato in D. 2.4.946. Paolo precisa che il divieto pretorio di chiamare in giudizio i patroni si estendeva anche nei confronti di colui che avesse manomesso ex causa fideicommissi, il quale quindi non poteva essere chiamato in giudizio quamvis ut manumittat, in ius vocetur47. F. 57 – D. 2.4.11 Chi effettuava la vocatio senza la necessaria autorizzazione pretoria, agiva contra edictum e si trovava dunque esposto alla relativa sanzione. Il vocatus poteva esperire un’actio in factum tesa alla condanna del vocans sine permissu al pagamento di una pena48. Le prescrizioni edittali che prevedevano la concessione dell’actio poenalis non indicavano una causae cognitio, ma Paolo ci informa che probabilmente il pretore cominciò a effettuarla grazie all’intervento della giurisprudenza. I verba edicti commentati da Paolo in questo frammento sono ancora una volta riferiti da Ulp. 5 ad ed., D. 2.8.2.2 (praetor ait: ‘Si quis parentem, patronum patronam, liberos aut parentes

44 La giurisprudenza, nel commentare la clausola edittale, stabilì che dovessero intendersi per parentes tutti gli ascendenti, senza limitazioni di grado: cfr. Ulp. 5 ad ed., D. 2.4.4.2-3. 45 Sulla questione cfr. Fernández Barreiro 1971a, 264 ss. Il principio valeva invece per i genitori adottivi del vocans, ma non per effetto della proibizione pretoria, bensì iure potestatis: cfr. Ulp. 5 ad ed., D. 2.4.8pr.: Adoptivum patrem, quamdiu in potestate est, in ius vocare non potest iure magis potestatis quam praecepto praetoris, nisi sit filius qui castrense habuit peculium: tunc enim causa cognita permittetur. sed naturalem parentem ne quidem dum est in adoptiva familia in ius vocari. Sul brano cfr. Martini 1960, 104 nonché Buti 1984a, 243. 46 Cfr. Lenel 1927, 68 e nt. 7. A proposito del patrono, Ulpiano precisa che si dovesse considerare patronus il titolare del diritto di patronato sul liberto, indipendentemente dal sesso: cfr. Ulp. 5 ad ed., D. 2.4.8.1: ‘Patronum’, inquit, ‘patronam’. patroni hic accipiendi sunt, qui ex servitute manumiserunt: vel si collusionem detexit: vel si qui praeiudicio pronuntietur esse libertus, cum alioquin non fuerit, aut si iuravi eum libertum meum esse: quemadmodum per contrarium pro patrono non habebor, si contra me iudicatum est aut si me deferente iuraverit se libertum non esse. Sul tema cfr. Hackl 1976, 301 s. e prima Amirante 1954, 109 ss. 47 Sul brano cfr. Martini 1960, 104 ss.; Luzzatto 1965, 52 ss.; Fernández Barreiro 1971a, 267 ss. 48 Sulla formula dell’azione e sulla qualità del iudicium abbiamo notizia dal manuale gaiano, Gai. 4.46 e Gai. 4.183. V. anche Ulp. 57 ad ed., D. 2.4.12 e Ulp. 5 ad ed., D. 2.4.24; su questi frammenti v. quanto già osservato da Lenel 1927, 69 nonché nella letteratura successiva, tra gli altri, da Pugliese 1963, 380 ss.; Buti 1984a, 248, nt. 86.

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Commento patroni patronae, liberosve suos eumve quem in potestate habebit, vel uxorem, vel nurum in iudicium vocabit: qualiscumque fideiussor iudicio sistendi causa accipiatur’)49. In particolare la disciplina edittale prevedeva che se l’in ius vocatio fosse stata indirizzata contro le persone che non potevano essere chiamate in giudizio senza il permesso del pretore, il vocans avrebbe dovuto accettare qualunque vindex. Nel commento di tale previsione, Paolo riferisce che la giurisprudenza aveva introdotto un limite alla discrezionalità del magistrato (Labeo ait moderandam iurisdictionem)50 e così se il liberto paeniteat51 e actionem remittat o se il patrono non si fosse presentato o non fosse stato contrario alla vocatio, licet edicti verba non patiantur52. F. 58 – D. 50.17.108 A completamento del discorso svolto nel frammento precedente [F. 57] e quindi sempre in tema di azione concessa dal pretore nei confronti del vocans sine permissu53, Paolo, con allusione a un’attenuazione di pena, ricorda che in caso di azioni penali, si tiene conto dei comportamenti determinati dall’età o dall’imprudenza54. F. 59 – D. 2.6.3 Il brano, acefalo nei Digesta, è riferito da Lenel agli stessi verba praetoris riportati da Ulpiano in D. 2.8.2.255. Il titolo D. 2.6 in ius vocati ut eant aut satis vel cautum dent si apre con un altro brano paolino estratto dal primo libro dell’ad edictum: si tratta di D. 2.6.156, in cui il giurista severiano tratta

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Cfr. Lenel 1927, 69 e nt. 7. Parla di discrezionalità del magistrato Luzzatto 1965, 59 ss.; parzialmente diversa la posizione di Martini 1960, 40, il quale ritiene che l’espressione indica che il pretore doveva tenere conto delle circostanze di fatto; sul punto v. anche Brutti 1973.I, 266, che rileva come il testo evidenzi l’atteggiamento critico di Labeone “nei confronti dei dati normativi comunemente applicati … che si realizza anche mediante l’integrazione e la correzione delle norme pretorie ancora in pieno sviluppo, lontane dall’essere oggetto statico di sistemazione e commento”; sull’argomento v. altresì Buti 1984a, 249 s., il quale ritiene che “non tanto di limite alla discrezionalità del pretore dovrebbe parlarsi, quanto di esclusione dell’automaticità della sanzione, poiché il magistrato non sarebbe tenuto a concedere in ogni caso l’azione penale promessa nell’editto, ma avrebbe potuto tener conto delle circostanze di volta in volta presenti”. 51 Buti 1984a, 249 e nt. 86 considera errato il sintagma paeniteat libertum. 52 Sul punto cfr. Fernández Barreiro 1971a, 283 s., il quale parla di “requisitos para la procedencia de la acción en favor del vocatus”; al proposito Buti 1984a, 249, nt. 88 ritiene che quanto affermato dallo studioso spagnolo debba essere considerato “un errore materiale (o dovrebbe quanto meno parlarsi di requisiti negativi), perché dal contesto dello stesso a. si desume il contrario”. Sul passo in esame cfr. anche Martini 1960, 40 e 64. 53 Lenel 1889.I, 974 e Id. 1927, 69, nt. 7 individua una stretta connessione tra questo frammento e D. 2.4.11. 54 Cfr. sul punto Fernández Barreiro 1969, 110 ss. 55 Lenel 1927, 69 e nt. 7. 56 Edicto cavetur, ut «vindex» [fideiussor iudicio sistendi causa datus] pro rei qualitate locuples detur exceptis necessariis personis: ibi enim qualemcumque accipi iubet: veluti pro parente patrono [F. 5] (Luchetti 2018c). Che in questo testo, così come di conseguenza in D. 2.6.3 (cfr. Lenel 1889.I, 967, nt. 4 e 974, nt. 2), il riferimento originale fosse al vindex è comunemente ammesso dalla dottrina prevalente sulla base della testimonianza di Gai. 4.46; cfr. per tutti l’ampio quadro argomentativo fornito da Albanese 1998, in specie 20, 27 e 29. Sul punto v. anche, per un accenno, Kaser, Hackl 1996, 178 s. Peraltro non è mancato chi ha sostenuto che già in diritto classico fosse dato piuttosto un fideiussor iudicio sistendi causa: cfr. Tafaro 1976, in specie 242-243, cui, tra gli altri, aderisce Buti 1984a, 300 e nt. 50

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Sabrina Di Maria del medesimo argomento affrontato in D. 2.6.3, pur se a commento dell’editto relativo all’in ius vocare davanti ai magistrati municipali e che risulta assai utile nella ricostruzione dell’esatto tenore dello scarno testo riprodotto in D. 2.6.357. D. 2.6.1 si riferisce in particolare alla possibilità che il vocatus non si recasse personalmente in giudizio, in tal caso, al fine di non incorrere nel sistema sanzionatorio previsto in caso di mancata comparizione gli si concedeva la facoltà di nominare un vindex, che doveva essere di regola locuples pro rei qualitate58, ossia potenzialmente capace di soddisfare l’importo dell’eventuale condemnatio59. Solo qualora si trattasse di necessariae personae – ad esempio nel caso in cui il convenuto e il vindex fossero legati da un rapporto di parentela o di patronato (così in D. 2.6.1)60 – si poteva fornire un vindex qualiscumque e più esattamente, come si precisa in Ulp. 5 ad ed., D. 2.8.2.461, un vindex etiam non locuples e ciò evidentemente in quanto si riteneva che il legame con il vocatus fosse comunque atto a garantire sufficientemente il vocans in relazione alla successiva comparizione del convenuto62. È questo lo stesso principio che viene ripetuto da Paolo in D. 2.6.3, ma questa volta a commento dell’editto relativo all’in ius vocare davanti al pretore. F. 60 – D. 2.8.4 Strettamente connesso a quanto appena esposto risulta essere il contenuto del brano in esame, conservato nel titolo D. 2.8 qui satisdare cogantur vel iurato promittant vel suae promissioni committantur. Paolo analizza il caso in cui il pretore avesse emanato il decreto di esibizione del vocatus ignorando la morte di quest’ultimo, ipotesi questa in cui deneganda est actio63. Quando il vocatus dava un vindex, il procedimento seguito per ottenere la comparizione di questi non aveva più solamente carattere privatistico, in quanto il magistrato emanava un decretum che indicava il giorno della comparizione. Se il vindex non ottemperava all’atto del magistrato, era concessa al vocans contro di lui un’actio utilis, azione che era improponibile, secondo Paolo, solo in caso di morte del vocatus e solo se il decesso fosse stato anteriore al dies exibitionis64.

290. 57 Per la collocazione di D. 2.6.1 a commento dell’editto relativo all’in ius vocare davanti ai magistrati municipali cfr. le osservazioni di Lenel 1881, 23 (= 1990, I 289), nonché Lenel 1889.I, 967 e Id. 1927, 52, nt. 5. Per un’attenta esegesi di D. 2.6.1 v. Luchetti 2018c, 110. 58 V. Gai. 1 ad ed., D. 2.8.5: Si vero pro condemnato fideiusserit et condemnatus decesserit aut civitatem romanam amiserit, recte nihilo minus cum fideiussore eius agetur. (1) Qui pro rei qualitate evidentissime locupletem vel, si dubitetur, adprobatum fideiussorem iudicio sistendi causa non acceperit: iniuriarum actio adversus eum esse potest, quia sane non quaelibet iniuria est duci in ius eum, qui satis idoneum fideiussorem det. sed et ipse fideiussor, qui non sit acceptus, tamquam de iniuria sibi facta queri poterit. 59 Sulla idoneità del vindex cfr. Ulp. 5 ad ed., D. 2.8.2 e per un ampio quadro delle fonti cfr. Fernández Barreiro 1971b, 812 s. 60 Per una più ampia e articolata enumerazione dei rapporti che davano luogo a eccezione v. Ulp. 5 ad ed., D. 2.8.2.2. 61 Quod ait praetor ‘qualiscumque [fideiussor] accipiatur’: hoc quantum ad facultates, id est etiam non locuples. 62 Sulla possibilità di dare un vindex qualiscumque cfr. in specie Lenel 1927, 69, nt. 8 e Kaser, Hackl 1996, 225. Per un esame dei casi in cui alla luce di D. 2.8.2.2 era ammesso di dare un vindex qualiscumque, v. l’articolata discussione di Fernández Barreiro 1971b, 813-822 (e ivi discussione della letteratura precedente). 63 Per la responsabilità del garante nell’ipotesi di morte del vocatus cfr. Pugliese 1949, 258 e Id. 1963, 389. Sul punto cfr. anche Giménez-Candela 1982, 151 nonché Buti 1984a, 303 ss.

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Commento A proposito dell’azione concessa contro il vindex, Cuiacio ha sostenuto che essa avesse natura penale e ciò ha condotto lo studioso a collegare il brano in esame a quello tradito in D. 47.10.23 [F. 53], ragionamento questo cui consegue un ordine dei frammenti paolini riferibili all’in ius vocare diverso rispetto a quello di Lenel65. L’ipotesi di Cuiacio non può essere condivisa dovendosi, a mio avviso, seguire la sequenza leneliana, per un duplice ordine di motivi. Innanzi tutto le fonti a nostra disposizione non chiariscono se l’azione in questione fosse penale o reipersecutoria. Sappiamo solamente che due altre azioni a tutela del vocans erano penali, quella contro colui che in ius vocatus neque venerit neque vindicem dederit e quella contro il terzo in ius vocatum vi exemerit66, ma ciò non è sufficiente per inferirne che anche l’azione contro il vindex fosse di natura penale poiché, come sottolineato da Pugliese, “il vindex si impeganava con un proprio atto lecito e quindi avrebbe potuto essere responsabile a titolo diverso da quello per cui lo erano il vocatus recalcitrante e il terzo autore di un violento impedimento alla comparizione”67. In secondo luogo il brano di D. 47.10.23 si riferisce, come ho cercato di argomentare supra, al divieto di in ius vocari de domo sua.

[Che nessuno sottragga con violenza chi sarà chiamato in giudizio (E. 12)]

F. 61 – D. 2.7.2 Il brano si riferisce alla clausola edittale – di cui non disponiamo dell’esatto tenore letterale68 – ne quis eum qui in ius vocabitur vi eximat69, che puniva chi avesse impedito con la vis che il vocatus si recasse in ius70. Il ricorso alla vis non era tuttavia soggetto alle sanzioni edittali quando la vocatio non era stata correttamente posta in essere: così, riportando un’opinione di Ofilio, Ulpiano nel frammento che nel Digesto precede quello in esame (D. 2.7.1.2) precisa appunto che l’editto non

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Sulla genunità del brano v., tra gli altri, Daube 1960, 73 ss. e Pugliese 1963, 387. Cuiacius 1584, 84. A proposito di D. 47.10.23, cfr. supra, F. 53. 66 Gai. 4.46: ...Ceterae quoque formulae, quae sub titulo de in ius vocando propositae sunt, in factum conceptae sunt, velut adversus eum, qui in ius vocatus neque venerit neque vindicem dederit; item contra eum, qui vi exemerit eum, qui in ius vocaretur; et denique innumerabiles eius modi aliae formulae in albo proponuntur; al proposito v. le osservazioni di Buti 1984a, 295 ss. 67 Cfr. Pugliese 1963, 391. 68 Gli unici verba edicti a nostra disposizione sono quelli che leggiamo in Ulp. 5 ed ed., D. 2.7.3.2 (quod praetor praecepit ‘vi eximat’…) e i pochi altri riferiti da Paolo in D. 2.7.4 (paragrafo 2: ‘neve faciat dolo malo, quo magis eximeretur’); su tale ultimo brano v. infra, F. 62. 69 Cfr. Lenel 1927, 74; v. anche Rudorff 1869, 39 per il quale tuttavia la clausola sarebbe stata la terza del titolo in esame e non la seconda come per Lenel. 70 A proposito cfr. Stolfi 2001.II, 96 e nt. 81, che osserva giustamente che “non disponiamo del tenore letterale di questa disposizione, neppure da parte di Ulpiano, che si limita (5 ad ed., D. 2.7.1pr.) a segnalare come essa fosse stata emanata ‘ut metu poenae compesceret eos, qui in vocatos vi eripiunt’”. 65

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Sabrina Di Maria trova applicazione se è exempta una persona quae in ius vocari non potuit71. È questa la stessa conclusione cui giunge anche Paolo nel brano ora in D. 2.7.2. Dopo aver osservato nel principium72 che tanto il liberto che vocat sine permissu il patrono, quanto colui che patronum vi eximat, agiscono contra edictum, il giurista severiano afferma – instituendo un parallelo (eadem aequitas est) con l’exemptio di una persona che in ius vocari non potest – che non si configura un eximere vi (…dicendum est non videri vi eximi…) qualora qualcuno venga chiamato in giudizio in un luogo diverso da quello in cui avrebbe dovuto essere chiamato. La soluzione prospettata da Paolo in D. 2.7.2 è stata vista, da alcuni73, in contraddizione con quanto affermato dallo stesso giurista in un altro punto del commentario edittale relativo però alla giurisdizione municipale e precisamente in Paul. 1 ad ed., D. 2.5.2pr., ove si legge che ex quacumque causa ad praetorem… in ius vocatus venire debet74. Tuttavia tale contraddizione risulta essere, come già sostenuto da un’altra parte della critica, solamente apparente in quanto nel brano conservato in D. 2.7.2 Paolo non nega il dovere del vocatus di presentarsi dal magistrato, ma esclude solamente che ricorra un’ipotesi di exemptio vi quando questa abbia riguardato una persona che aveva il diritto di non essere convenuta in un certo luogo75. F. 62 – D. 2.7.4 Sotto il profilo palingenetico, va subito osservato che Lenel nelle diverse edizioni del suo Edictum perpetuum, nel ricostruire la clausola ne quis eum qui in ius vocabitur vi eximat prende le mosse proprio da D. 2.7.476, essendo in tale brano riportati i pochi verba edicti di cui disponiamo (paragrafo 2:‘neve faciat dolo malo, quo magis eximeretur’), per poi riferire alla clausola che ne ricava il frammento ora in D. 2.7.277. Tuttavia nella Palingenesi, lo studioso tedesco inserisce prima il frammento 2 e poi il 4, scelta questa condizionata verosimilmente dalla suc-

71 Cfr. Ulp. 5 ad ed., D. 2.7.1.2: Ofilius putat locum hoc edicto non esse, si persona, quae in ius vocari non potuit, exempta est, veluti parens et patronus ceteraeque personae: quae sententia mihi videtur verior. et sane si deliquit qui vocat, non deliquit qui exemit. Sul brano cfr. Murga Gener 1980, 265. In particolare sulla parte finale del testo (…et sane si deliquit qui vocat, non deliquit qui exemit), cfr. le osservazioni di Kaser 1938, 109 che mette in dubbio la genuinità dell’inciso; così anche Watson 1965, 266; propende invece per l’autenticità del passo Longo 1976, 36 s. 72 Cfr. Lenel 1889.I, 974 che al brano premette Huic edicto locus non est, si patronus a liberto in ius vocatus vi eximatur. 73 Cfr., tra gli altri, Pugliese 1963, 395 s. 74 Cfr. Paul. 1 ad ed., D. 2.5.2pr.: Ex quacumque causa ad praetorem vel alios, qui iurisdictioni praesunt, in ius vocatus venire debet, ut hoc ipsum sciatur, an iurisdictio eius sit [F. 4] (sul brano v. Luchetti 2018c, 108 ss.). La contraddizione è stata ravvisata anche con la soluzione adottata da Ulp. 5 ad ed., D. 5.1.5: Si quis ex aliena iurisdictione ad praetorem vocetur, debet venire, ut et Pomponius et Vindius scripserunt: praetoris est enim aestimare, an sua sit iurisdictio, vocati autem non contemnere auctoritatem praetoris: nam et legati ceterique qui revocandi domum ius habent in ea sunt causa, ut in ius vocati veniant privilegia sua allegaturi. Sul testo ulpianeo e sui rapporti con D. 2.5.2 v. Ziegler 1976, 563 e nt. 44; Simshäuser 1989, 623 e nt. 18 e Id. 1992, 166, nt. 9. 75 Cfr. Fernández Barreiro 1972, 30 s. e Buti 1984a, 340-341, nt. 14. In questo contesto si vedano anche le osservazioni di Domingo 1995, 23 s., che ritiene che il frammento paolino conservato in D. 2.5.2 [F. 4] si riferisca esclusivamente all’in ius vocare davanti al magistrato municipale e che conseguentemente la menzione del pretore sia stata inserita dai compilatori; sul punto cfr. le considerazioni di Luchetti 2018c, 108 ss. 76 La clausola edittale ne quis eum qui in ius vocabitur vi eximat, è stata infatti ricostruita da Lenel sulla base di D. 2.7.4 e in specie del paragrafo 2, oltre che sulla rubrica di D. 2.7; cfr. Lenel 1927, 74. 77 Cfr. Lenel 1883, 71; Id. 1907, 73 e Id. 1927, 74 e nt. 1.

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Commento cessione dei passi nel Digesto78 e venendo così la sequenza di Lenel a coincidere con l’ordine Bluhme-Krüger, che qui seguo anche io79. Anche sotto il profilo contenutistico infatti il frammento sembra continuare il discorso precedente svolto nel brano di D. 2.7.2 [F. 61], soffermandosi ancora sull’eximere. Paolo afferma che presupposto dell’azione è l’exemptio, termine questo che attirò probabilmente l’attenzione della giurisprudenza e in particolar modo di Pomponio (cfr. principium: sed eximendi verbum generale est, ut Pomponius ait). A proposito della citazione di Pomponio, è già stato sottolineato in dottrina, che “tanto stringente è la logica della soluzione pomponiana”80 che, nella prima parte del testo, appare difficile ricostruire esattamente fin dove Paolo stia trascrivendo da Pomponio e dove invece esponga una propria argomentazione. Probabilmente è da attribuire a Pomponio, come già sosteneva Lenel, il contenuto del brano sino a auferre (sed eximendi verbum generale est, ut Pomponius ait. eripere enim est de manibus auferre per raptum: eximere quoquo modo auferre)81. Pomponio dunque contrappone l’eximere all’eripere, attribuendo al primo una portata generale in grado di ricomprendere qualsiasi sottrazione e non soltanto il manibus auferre per raptum, che era invece il contenuto proprio del termine eripere82. Paolo, sulla scia di Pomponio, ritiene dunque che poteva ravvisarsi exemptio anche se qualcuno non avesse rapito un altro (puta si quis non rapuerit quem), ma ne avesse provocato un ritardo (moram fecerit quo minus in ius veniret)83, affinché scadesse il termine per l’esercizio dell’azione o perdesse la lite per decorso del tempo. Allo stesso modo si sarebbe considerata attuata una exemptio nell’ipotesi in cui non vi fosse stata una sottrazione corporale (quamvis corpus non exemerit), essendo sufficiente che la persona che doveva andare in giudizio fosse stata trattenuta eo loco.

78 Osservazioni in tal senso sono state svolte da Stolfi 2001.II, 96, nt. 80 a proposito di D. 2.7.4pr. in relazione a D. 2.7.1.1. 79 L’indagine bluhmiana (Bluhme 1820, 265 s. [= 1960, 243 s.]) permise infatti, tra l’altro, di ipotizzare con una certa sicurezza che i frammenti sono collocati nei titoli del Digesto, quando escerpiti dalla stessa opera, secondo l’originale ordine di collocazione nei libri. 80 Così Stolfi 2001.II, 99, nt. 95; cfr. anche Id. 2002.I, 49 s. ove l’autore, dopo aver definito ambiguo il testo riprodotto in D. 2.7.4pr., osserva che “è probabile che anche il secondo segmento dell’argomentazione paolina, decisivo per un’indagine lessicale, provenga dalla riflessione di Pomponio. Risulta così significativa l’ambiguità con cui è costruita la citazione, quasi non se ne volesse svelare il reale apporto rispetto al contributo del referente: la memoria dei precedenti interpreti finisce con l’essere compressa, facendola ritrarre da luoghi argomentativi dove verosimilmente aveva svolto un ruolo essenziale, e là dove sarebbe una troppo scoperta manipolazione tacerne del tutto i percorsi, si tende a restituirli entro scissioni (tra la scrittura propria e quella pomponiana) alquanto nebulose”. 81 Cfr. Lenel 1889.II, 17; così anche, nella letteratura più recente, Stolfi 2001.II, 97, nt. 83, che ritiene infatti che la continuazione del brano, dopo auferre, appare invece “ascrivibile al solo Paolo, seppure in continuità con le dottrine di Pomponio”. 82 Sul brano cfr., tra gli altri, Pugliese 1963, 395; Vonglis 1968, 45; Balzarini 1969, 165 s.; Buti 1984a, 293 e 338 s., ove lo studioso osserva che “è probabile, però, che solo l’interpretazione del giurista abbia portato a considerare come exemptio repressa dal pretore qualsiasi sottrazione…”. Sul brano in esame si veda anche Lambertini 1984, 196 nonché Giaro 1988, 180 ss. 83 Sull’interpretazione dell’espressione moram fecerit quo minus in ius veniret, cfr. Fernández Barreiro 1972, 19, il quale ritiene che dette parole si riferiscano a chi si fosse servito di altre persone per realizzare l’exemptio; di avviso contrario Buti 1984a, 399, nt. 7.

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Sabrina Di Maria Il giurista severiano specifica poi che al terzo non era consentito di difendersi in merito alla fondatezza dell’azione e pertanto lo stesso veniva perseguito in base alle prescrizioni edittali anche nel caso in cui l’attore fosse un calumniator (paragrafo 1: Item si quis eum, qui per calumniam vocabatur, exemerit: constat eum hoc edicto teneri)84. Infine Paolo riporta i verba edicti ‘neve faciat dolo malo, quo magis eximeretur’: chi dunque realizzava la sottrazione del vocatus non personalmente, ma ricorrendo alla vis di altre persone veniva considerato soggetto all’actio in factum, quando avesse agito dolo malo (paragrafo 2). La precisazione paolina è dovuta al fatto che l’intervento di altri poteva essere invocato allorquando vi fosse stata una iusta causa85.

LIBRO V

[Sulla proposizione della domanda giudiziale (E. VI.14-16)] Secondo una opinione comunemente accolta, l’editto del pretore prevedeva, in una parte piuttosto prossima all’inizio e successiva a quella dedicata alla in ius vocatio, una serie di prescrizioni relative al postulare, che, come spiega Ulpiano, consisteva nel desiderium suum vel amici sui in iure apud eum, qui iurisdictioni praeest, exponere: vel alterius desiderio contradicere86. Al commento dell’editto de postulando, Paolo dedica l’intero quinto libro del suo ad edictum, libro che nella Palingenesia iuris civilis, come spesso accade per l’opera paolina, non risulta articolato nelle diverse clausole edittali, che invece compaiono nell’omonimo sesto libro di Ulpiano, libro questo in cui i diversi materiali ulpianei sono riferiti a tre diverse clausole: i) qui omnino ne postulent, ii) qui pro aliis ne postulent e iii) qui nisi pro certis personis ne postulent87.

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Sul termine constat cfr. le osservazioni di Tafaro 1980, 191 e nt. 122. La genuinità dell’espressione iusta causa exemptionis di D. 2.7.4.2 i.f. è stata messa in dubbio ancora in piena temperie interpolazionistica (v. Donatuti 1921, 375 ss. [= 1976, I 35 ss.]), ma la letteratura meno risalente si è ormai pronunciata per la genuinità del passo: così, tra gli altri, Fernández Barreiro 1972, 37 s.; Buti 1984a, 342 e nt. 17. 86 Cfr. Ulp. 6 ad ed., D. 3.1.1.2. Sul significato di postulare e sulla definizione ulpianea, cfr., nella letteratura meno risalente, Carro 2006, in specie 5 ss. e 70-82; sulla postulatio in generale cfr., tra gli altri, Pugliese 1963, 304 ss.; Cannata 1982, 142 ss. nonché Kaser, Hackl 1996, 231 ss. 87 Cfr. Lenel 1889.I, 975 (per Paolo) e 1889.II, 439-445 (per Ulpiano); v. anche Id. 1927, 75 ss. In particolare secondo lo studioso tedesco la terza clausola edittale qui nisi pro certis personis ne postulent avrebbe a sua volta ricompreso due diversi editti: “Das erste schärfte summarisch die auf Gesetz oder gesetzesgleicher Vorschrift beruhenden Postulationsverbote ein, Ulp. 6 h.t. I § 8… Das zweite Edikt enthielt die hierhergehörigen prätorischen Postulationsverbote” (ibidem, 77). Anche Rudorff 1869, 39 ss. aveva ipotizzato tre diverse clausole edittali, pur indicando nominativamente la sola clausola qui pro aliis ne postulent. Tale ipotesi ricostruttiva è stata parzialmente ripresa, nella letteratura più recente, da Domingo, il quale ha sostenuto che non vi sarebbe stato un titolo de postulando con tre diverse clausole edittali, ma un solo titolo qui pro aliis ne postulent, che conteneva a sua volta uno 85

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Commento I frammenti paolini superstiti riferibili all’editto relativo alla postulatio risultano essere in tutto otto di cui uno solo è stato conservato dai giustinianei nel titolo D. 3.1 de postulando, mentre ben cinque sono stati collocati nel titolo D. 3.2 de his qui notantur infamia, il quale altro non sarebbe, secondo Lenel, che il risultato di un intervento bizantino sull’editto qui nisi pro certis personis ne postulent88. Gli altri due brani sono stati invece sistemati al di fuori della sedes materiae e precisamente uno, nel titolo D. 23.1 de sponsalibus e l’altro in D. 50.17 de diversis regulis iuris antiqui. I testi sono stati ordinati da Lenel in una sequenza parzialmente diversa rispetto a quella pubblicata da Krüger nelle edizioni stereotipe del Digesto89, ordine quest’ultimo che qui seguo in quanto si palesa come quello maggiormente aderente anche al profilo contenutistico.

[Che non propongano domanda giudiziale in favore di altri (E. 15)] F. 63 – D. 50.17.109 Nel breve frammento, elevato a regula iuris dai giustinianei, Paolo si limita ad affermare che non commette alcun crimine colui il quale non lo impedisce, pur potendolo impedire. Nella Palingenesia iuris civilis, Lenel colloca il frammento subito dopo D. 23.1.13 [F. 69]90 e ciò in quanto entrambi i brani, secondo lo studioso, sarebbero da riferire alla clausola edittale qui nisi pro certis personis ne postulent e avrebbero costituito in origine il commento ai medesimi verba edicti, che sono quelli riportati in D. 3.2.1 ove appare la voce verbale passus fuerit (…uxorem ducere passus fuerit…)91. Il frammento è strettamente col-

o diversi editti; v. Domingo 1993, 45-46, nt. 102: “esto no debe extrañarnos, pues, a veces, la rúbrica del título se refería a un tema menos amplio que el posteriormente desarrollado. Así sucede, por ejemplo, con la rúbrica Unde vi, que contenía varios edictos”. 88 Cfr. Lenel 1927, 77. Sul punto cfr. anche successivamente Soubie 1960, 153. Un titolo analogo a D. 3.2 si riscontra anche nel Codex repetitae praelectionis, si tratta in particolare di C. 2.11(12) de causis, ex quibus infamia alicui inrogatur; v. anche Bas. 21.3 (= Scheltema, van der Wal, A III, 1038). 89 Cfr. Lenel 1889, 975 e Id. 1927, 75 ss. e Krüger 1905, 897. Una diversa ipotesi ricostruttiva del quinto libro dell’ad edictum paolino era stata altresì proposta da Cuiacio e da Rudorff (v. Cuiacius 1584, 88 ss. e Rudorff 1869, 39 ss.). 90 Cfr. Lenel 1889.I, 975, nt. 6 e Id. 1927, 78, nt. 9. Su D. 23.1.13 [F. 69], v. infra 118. 91 Cfr. Iul. 1 ad ed., D. 3.2.1: Praetoris verba dicunt: ‘Infamia notatur… qui eam, quae in potestate eius esset, genero mortuo, cum eum mortuum esse sciret, intra id tempus, quo elugere virum moris est, antequam virum elugeret, in matrimonium collocaverit: eamve sciens quis uxorem duxerit non iussu eius, in cuius potestate est: et qui eum, quem in potestate haberet, eam, de qua supra comprehensum est, uxorem ducere passus fuerit: quive suo nomine non iussu eius in cuius potestate esset, eiusve nomine quem quamve in potestate haberet bina sponsalia binasve nuptias in eodem tempore constitutas habuerit’. Il brano, secondo la inscriptio giustinianea, sarebbe da ricondurre al primo libro ad edictum di Giuliano. Tuttavia la dottrina maggioritaria è concorde nel ritenere interpolata l’inscriptio del frammento, che sarebbe stato piuttosto escerpito dal commentario edittale di Ulpiano. L’inscriptio viene considerata insiticia da Lenel 1927, 77; Id. 1889.I, 484, nt. 4 (“Iuliani librorum ad edictum nusquam mentio fit nisi inscriptione fragmenti (3.2) I: quam inscriptionem a compilatoribus esse confictam nec unquam Iuliani libros ita inscriptos exstitisse pro certo habeo”) e Id. 1889.II, 441, nt. 3. In particolare secondo Lenel l’interpolazione non attiene solamente alla inscriptio, ma all’intera prima parte del brano (Praetoris verba dicunt: ‘infamia notatur...). Già prima considerava interpolata tale parte del brano Rudorff 1869, 41.

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Sabrina Di Maria legato a D. 23.1.13 anche nel tentativo ricostruttivo del commentario paolino di Cuiacio92. Rudorff, invece, partendo dal presupposto che il testo riguardasse specificatamente il commento del verbo pati, ha ipotizzato, giustamente, che esso, prima ancora che ai verba praetoris tramandatici in D. 3.2.1 e riferiti alla clausola edittale qui nisi pro certis personis ne postulent, dovesse essere riferito alla precedente clausola qui pro aliis ne postulent e precisamente ai verba edicti riportati in Ulp. 6 ad ed., D. 3.1.1.6 (removet autem a postulando pro aliis et eum qui corpore suo muliebria passus est)93, ove appunto compare per la prima volta, nell’editto in esame, il pati94. Si tratta dello stesso lemma cui pure Lenel, nella prima edizione del suo Edictum Perpetuum, riferiva il brano95. Tuttavia qualche anno più tardi nella Palingenesia iuris civilis, Lenel ebbe a sostenere che il riferimento del brano ai verba della seconda clausola edittale era stato un errore dovendo essere lo stesso strettamente collegato a quanto si legge in D. 23.1.13 e pertanto inteso come commento alla previsione edittale conservata in D. 3.2.196. Nella traduzione in lingua francese della prima edizione dell’opera leneliana relativa alla ricostruzione dell’editto, Frédéric Peltier riferisce il frammento conservato in D. 50.17.109 sia ai verba edicti riprodotti in D. 3.2.1 (…uxorem ducere passus fuerit…) a proposito del matrimonio del filius familias sia ai verba qui corpore suo muliebria passus erit della clausola edittale qui pro aliis ne postulent (cfr. D. 3.1.1.6)97. Tale ipotesi assume una valenza significativa se si ri-

Krüger 1905, 883, prima ritiene inesistenti i libri ad edictum di Giuliano, poi afferma: “[ad edictum l. 1 3, 2, 1 videlicet ex edicto perpetuo a Iuliano composito]”. Non hanno dubbi sulla non genuinità dell’inscriptio, tra gli altri, Kaser 1956, 245, nt. 111; Appleton 1895, 13 ss.; Albanese 1979, 409 ss.; successivamente Domingo 1993, 18 ss., il quale osserva che l’ipotesi secondo la quale il frammento sia da attribuire all’ad edictum di Ulpiano risulta suffragata da Bas. 21.2.1 (= Scheltema, van der Wal, A III, 1032) ove il frammento viene attribuito appunto al giurista di Tiro. Altri hanno sostenuto che i digesta di Giuliano sarebbero stati preceduti da un commentario ad edictum e che la inscriptio di D. 3.2.1 sarebbe stata la citazione di Ulpiano (6 ad ed.) del luogo ove Giuliano avrebbe riferito i verba dell’editto qui nisi pro certis personis ne postulent; in tal senso Guarino 1945, 218 ss. (= 1964, 183 ss.) e Id. 1953, 167 ss. (= 1994, IV 253 ss.). Nella letteratura più recente v. anche Stolfi 2002.I, 108, nt. 221 e Carro 2006, 147. 92 Cfr. Cuiacius 1584, 91, il quale sostiene anche che si debba seguire la vulgaris scriptura, ossia si debba leggere nullum crimen patitur, qui quum prohibere non potest, non prohibet 93 Cfr. Ulp. 6 ad ed., D. 3.1.1.6: Removet autem a postulando pro aliis et eum, qui corpore suo muliebria passus est. si quis tamen vi praedonum vel hostium stupratus est, non debet notari, ut et Pomponius ait. et qui capitali crimine damnatus est, non debet pro alio postulare. item senatus consulto etiam apud iudices pedaneos postulare prohibetur calumniae publici iudicii damnatus. et qui operas suas, ut cum bestiis depugnaret, locaverit. bestias autem accipere debemus ex feritate magis, quam ex animalis genere: nam quid si leo sit, sed mansuetus, vel alia dentata mansueta? ergo qui locavit solus notatur, sive depugnaverit sive non: quod si depugnaverit, cum non locasset operas suas, non tenebitur: non enim qui cum bestiis depugnavit, tenebitur, sed qui operas suas in hoc locavit. denique eos, qui virtutis ostendendae causa hoc faciunt sine mercede, non teneri aiunt veteres, nisi in harena passi sunt se honorari: eos enim puto notam non evadere. sed si quis operas suas locaverit, ut feras venetur, vel ut depugnaret feram quae regioni nocet, extra harenam: non est notatus. his igitur personis, quae non virtutis causa cum bestiis pugnaverunt, pro se praetor permittit allegare, pro alio prohibet. sed est aequissimum, si tutelam vel curam huiusmodi personae administrent, postulare eis pro his, quorum curam gerunt, concedi. qui adversus ea fecisse monstretur, et pro aliis interdicta postulatione repellitur et pro aestimatione iudicis extra ordinem pecuniaria poena multabitur. 94 Cfr. Rudorff 1869, 40 e 44, nt. 20. 95 Cfr. Lenel 1883, 61, nt. 11. 96 Cfr. Lenel 1889.I, 975, nt. 6: “cf. fr. 144: excusatur filius familias cuius nomine pater bina sponsalia habuerit, quamvis dissentiente eo sponsalia eius nomine fieri non possint. Perperam Lenel, p. 61 n. 11”. 97 Cfr. Lenel 1901, 86, nt. 3. La ipotesi sembra avanzata, senza tuttavia addurre alcuna motivazione, anche da Carro 2006, 98 e nt. 177, la quale riferisce appunto il brano ai verba edicti qui in corpore suo muliebria passus erit… qui capitali crimine damnatus est… qui operas suas, ut cum bestiis depugnaret, locaverit.

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Commento fletta sul fatto che, come è noto, Peltier ebbe la possibilità di discutere con l’autore i punti che potevano risultare controversi, in quanto Lenel decise – come egli stesso riferisce nella prefazione alla seconda edizione – di introdurre aggiornamenti della materia, che comparvero appunto per la prima volta nell’edizione francese, non immaginando che sarebbe giunto a pubblicare in seguito una seconda e persino una terza edizione98. Se si segue, come qui farò, l’ipotesi ricostruttiva abbozzata nella prima edizione dell’Edictum perpetuum nonché nella traduzione francese della stessa – e poi abbandonata nella Palingenesi e nelle edizioni successive dello stesso Edictum Perpetuum – il brano in esame dovrebbe occupare, nella ricostruzione palingenetica, la prima posizione nella sequenza dei testi paolini superstiti riferibili all’editto de postulando, come d’altronde si riscontra nell’ordine di Krüger99. Il principio espresso da Paolo, secondo il quale appunto nullum crimen patitur colui che non impediva un delitto, nonostante una possibilità in tal senso, subiva, in età classica, delle eccezioni che riguardavano il caso del pater familias o del dominus che, consapevole dell’illecito commesso dai sottoposti, non lo avesse prevenuto, ravvisandosi dunque in tal caso una ipotesi di compartecipazione 100. È chiaro che i frammenti elevati a rango di principio generale, come appunto D. 50.17.109, vanno intesi con molta discrezione, ma non sembra destituito di fondamento sostenere che Paolo nel brano in esame commentasse innanzi tutto il verbo pati della prescrizione edittale relativa al divieto di postulare nell’interesse degli altri. L’editto proibiva di postulare pro aliis a chi si fosse prostituito e in particolare la disposizione edittale colpiva chi volontariamente avesse accettato in un rapporto omossessuale il ruolo di passivo (Ulp. 6 ad ed., D. 3.1.1.6: …qui corpore suo muliebria passus est); l’infamia era invece esclusa dal pretore per chi fosse stato violentato contro la sua volontà, da predoni o da nemici (D. 3.1.1.6: …si quis tamen vi praedonum vel hostium stupratus est, non debet notari…)101. L’espressione muliebria pati indicava l’assoggettamento alla patientia, che connotava la soggezione servile o muliebre comportando una minore rispettabilità sociale. Dal pati muliebria derivava scandalo e disistima sul piano sociale e, in base a tali presupposti, il pretore escludeva, per coloro che appunto sopportavano muliebria, la possibilità di postulare pro alio. Il pati muliebria dell’editto si riferiva solamente ai maschi, essendo stato alle donne vietato sempre di postulare pro aliis (D. 3.1.1.5)102. La lex Iulia de adulteriis prevedeva che lo stuprum non potesse aver luogo per i servi, a causa del loro status e della conseguente sottomissione al padrone103. Il dominus aveva però a dispo-

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Lenel 1907, 14. Cfr. Krüger 1905, 897. 100 Sulle eccezioni alla regola paolina cfr., nella letteratura meno datata, Bock 2006, 215 ss. 101 Cfr. D. 3.1.1.6: Removet autem a postulando pro aliis et eum, qui corpore suo muliebria passus est. si quis tamen vi praedonum vel hostium stupratus est, non debet notari, ut et Pomponius ait. La previsione si appoggia a un parere di Pomponio, il che dimostra che il problema doveva essersi posto proprio in relazione al ruolo della volontà dello stupratus. Sul richiamo di Pomponio v. in specie Stolfi 2001.II, 84 ss.; per il significato della nozione di stuprum cfr. Dalla 1987, 71 ss. 102 In generale sulla capacità di diritto pubblico delle donne cfr. Albanese 1979, 406; sul tema in esame cfr. in specie Dalla 1987, 52. 103 Cfr. Papin. 1 de adult., D. 48.5.6pr.: Inter liberas tantum personas adulterium stuprumve passas lex Iulia locum habet. quod autem ad servas pertinet, et legis Aquiliae actio facile tenebit et iniuriarum quoque competit nec erit deneganda praetoria quoque actio de servo corrupto: nec propter plures actiones parcendum erit in huiusmodi crimine reo. 99

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Sabrina Di Maria sizione dei rimedi processuali contro chi attentava alla persona dello schiavo allorquando gli derivava da ciò danno o offesa104. Le azioni a favore del padrone non riguardavano in specie lo stuprum cum masculis, tuttavia a tale fattispecie poteva ricondursi l’actio servi corrupti riconosciuta al dominus anche nei confronti di colui che avesse invogliato il servo a tollerare lo stupro105. Al di fuori dei rapporti endofamiliari106, risulta invece particolarmente significativo un brano riportato nella Collatio legum Mosaicarum et Romanarum, sotto il titolo V de stupratoribus (Coll. 5.2: Paulus libro sententiarum II sub titulo de adulteris [= PS. 2.26.12-13]. 1. Qui masculum liberum invitum stupraverit, capite punietur. 2. Qui voluntate sua sutprum flagitiumque inpurum patitur, dimidia parte bonorum suorum multatur nec testamentum ei ex maiore parte facere licet). Nel testo, a proposito dello stuprum si distingueva la posizione del consenziente da quella del non consenziente. In particolare si sanzionava con pena capitale lo stupro del maschio libero non consenziente, mentre si comminava la sanzione pecuniaria della multatio, cui si aggiungeva la possibilità di testare solo per metà dei beni, per colui che voluntate sua stuprum flagitiumque inpurum patitur107. L’atto omosessuale compiuto su persona adulta e consenziente non comportava dunque per l’agente alcuna conseguenza penale. L’interessamento del diritto sorgeva allorquando l’attività omosessuale fosse stata compiuta su un soggetto libero non consenziente. Il termine invitus che si riscontra nel brano della Collatio (qui masculum liberum invitum stupraverit), come è già stato notato in letteratura, non identificava esclusivamente il carattere violento dello stuprum, essendo esso riassuntivo di “ogni ipotesi di stupro ai danni del non consenziente, tutte punite alla fine dell’età classica con pena capitale”108. La ricostruzione del pensiero paolino a proposito della prostituzione maschile si sviluppa anche nell’ad edictum a proposito della clausola qui pro aliis ne postulent proprio con il principio conservato in D. 50.17.109, in base al quale era dunque esente da pena, non avendo commesso alcun crimine, il terzo che non impediva lo stuprum del maschio libero, pur potendolo evitare purché non si configurasse alcun concorso e così gli era concesso di postulare pro aliis109.

104 Per il concorso delle azioni esperibili dal dominus cfr. Levy 1922, 222 ss.; Albanese 1959, 137. Sulla testimonianza dei rimedi a favore del dominus cfr. anche Ulp. 57 ad ed., D. 47.10.9.4; Ulp. 77 ad ed., D. 47.10.15.44; Ulp. 18 ad ed., D. 47.10.25. 105 Sul punto v. in particolare Dalla 1987, 45. 106 La repressione endofamiliare di atti omosessuali non assumeva autonomo rilievo inquadrandosi essa, almeno nel periodo repubblicano più antico, nella più ampia sfera del potere del pater familias Dalle fonti risultano interventi del pater in difesa della moralità sessuale del filius e, di conseguenza, per l’onore della familia; sul punto cfr. Rabello 1979, 121 ss.; per l’interpretazione secondo la quale il pater sarebbe stato investito di funzioni di stato rispetto ai sottoposti, cfr. Thomas, Y. 1984, 499 ss. Per un esame dettagliato delle fonti sul tema cfr. Dalla 1987, 78 ss. Per l’ipotesi di limitazioni progressivamente crescenti del potere del pater familias sui propri sottoposti cfr. Albanese 1979, 248 ss.; Voci 1980, 37 ss. (= 1985, II 397 ss.). 107 Per la genuinità del brano v. le convincenti argomentazioni fornite da Dalla 1987, 111. 108 Così Dalla 1987, 117; sul termine invitus cfr. anche Balzarini 1983, 200 e ntt. 203-204. 109 La posizione paolina, elevata a rango di principio generale dai giustinianei, va letta in combinato disposto con l’altro principio del giurista severiano, principio che assume anche esso valore di regula iuris per Giustiniano; si tratta della regola conservata in Paul. 39 ad ed., D. 50.17.50: Culpa caret qui scit, sed prohibere non potest (cfr. Lenel 1889.I, 1047 e nt. 1). Sulla compartecipazione al reato e sulle forme non tipiche di concorso, “che assumono fisionomia particolare per le peculiari concezioni giuridiche e sociali del mondo romano”, cfr., per una sintesi, Gioffredi 1970, 109 ss. e in specie 123.

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Commento Alla luce di quanto siamo andati sin qui dicendo, sembra dunque non una mera congettura riferire il frammento conservato in D. 50.17.109 al qui corpore suo muliebria passus est di D. 3.1.1.6, prima ancora – trattandosi di un commentario lemmatico – che a uxorem ducere passus fuerit di D. 3.2.1 e di conseguenza inserire il brano prima degli altri testi paolini del quinto libro.

[Che non propongano domanda giudiziale se non in favore di determinate persone (E. 16)] F. 64 – D. 3.2.14 Il brano si riferisce a una translatio iudicii ereditaria, ossia al caso in cui fosse stata intentata un’azione nossale contro il dominus e questi avesse accettato il giudizio nomine servi partecipando alla litis contestatio110. Paolo esclude che sia famosus lo schiavo succeduto quale erede al dominus nel giudizio nossale da quest’ultimo subito e contestato per un delitto del primo. La motivazione data dal giurista è che non suo nomine condemnatur111. L’infamia era infatti prevista solamente se si fosse stati condannati per un fatto proprio e in nome proprio. Nel caso di specie l’esclusione dell’infamia per lo schiavo istituito erede cum libertate era una conseguenza della circostanza che la lis non era stata contestata originariamente dal servo (quippe cum initio lis in eum contestata non sit), dovendosi avere riguardo a quella conclusa con il dominus convenuto con l’actio noxalis112. La disposizione edittale illustrata nel brano in esame sembra essere qui furti, vi bonorum raptorum, iniuriarum, de dolo malo et fraude suo nomine damnatus pactusve erit riportata da Ulpiano in D. 3.2.1113 e in particolare il commento riguarderebbe specificatamente – come so-

110 Per un’attenta esegesi del brano cfr., tra gli altri, Bonifacio 1956b, 45 ss; sull’argomento cfr. Biondi 1925, 239 e nella letteratura meno risalente cfr. Miceli 2001, 52 ss. 111 Sui verbi condemnare e damnare che compaiono nel passo in esame cfr. Liebs 1968, 216-217, nt. 189. 112 Sul brano v., nella letteratura meno risalente, Miceli 2001, 52, la quale ritiene che la parte finale di D. 3.2.14 abbia “un certo sapore insiticio, che sembra evidenziarsi fortemente sia nella struttura grammaticale che nella natura esplicativa della digressione. In realtà, il punto, però, è un altro. Il fatto che il servo, ormai libero ed erede, non sia stato condannato suo nomine non dipende tanto dalla mancata partecipazione alla litis contestatio, ma dal fatto che nell’intentio della formula, sulla quale si è conclusa la litis contestatio, non è stata menzionata una sua ‘obligatio’”. 113 Sull’inscriptio di D. 3.2.1 v. quanto osservato supra, nt. 91. I verba praetoris sono richiamati anche da Gaio nel suo manuale istituzionale (cfr. Gai. 4.182: Quibusdam iudiciis damnati ignominiosi fiunt, velut furti, vi bonorum raptorum, iniuriarum, item pro socio, fiduciae, tutelae, mandati, depositi. sed furti aut vi bonorum raptorum aut iniuriarum non solum damnati notantur ignominia, sed etiam pacti, ut in edicto praetoris scriptum est; et recte. plurimum enim interest, utrum ex delicto aliquis an ex contractu debitor sit. nec tamen ulla parte edicti id ipsum nominatim exprimitur, ut aliquis ignominiosus sit, sed qui prohibetur et pro alio postulare et cognitorem dare procuratoremve habere, item procuratorio aut cognitorio nomine iudicio intervenire, ignominiosus esse dicitur) nonché nel corrispondente luogo delle Istituzioni giustinianee (cfr. I. 4.16.2: Ex quibusdam iudiciis damnati ignominiosi fiunt, veluti furti, vi bonorum raptorum, iniuriarum, de dolo, item tutelae, mandati, depositi, directis non contrariis actionibus, item pro socio, quae ab utraque parte directa est, et ob id quilibet ex sociis eo iudicio damnatus ignominia notatur. sed furti quidem aut vi bonorum raptorum aut iniuriarum aut de dolo non solum damnati notantur ignominia, sed etiam pacti: et recte; plurimum enim interest, utrum ex delicto aliquis an ex contractu debitor sit).

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Sabrina Di Maria stenuto da Lenel – la locuzione suo nomine114. Si tratta della medesima ipotesi che era stata prospettata già prima da Cuiacio e da Rudorff, i quali riferivano appunto il frammento a commento della prescrizione edittale che consentiva di postulare solamente per sé e nell’interesse di determinate persone a colui che era considerato infame per essere stato, nell’ambito di azioni penali private (qui furti, vi bonorum raptorum, iniuriarum, de dolo malo et fraude suo nomine damnatus), condannato suo nomine, escludendo così dalle circostanze infamanti colui che fosse stato condannato perché convenuto in quanto erede o in quanto contro di lui si fosse agito in via nossale per illecito posto in essere da servi o da familiari sottoposti115. Quanto appena detto mi porta a ritenere che nel contesto originario il brano in esame precedesse i testi paolini del quinto libro sistemati nel medesimo titolo del Digesto (D. 3.2.5, D. 3.2.7, D. 3.2.9 e D. 3.2.12), ma si tratta di un titolo, quello de his qui notantur infamia, frutto probabilmente di un intervento bizantino sull’editto qui nisi pro certis personis ne postulent, con la conseguenza che i giustinianei hanno distribuito i brani inerenti l’infamia tra il citato titolo e D. 3.1 de postulando. F. 65 – D. 3.2.5 Le actiones furti, vi bonorum raptorum, iniuriarum, de dolo malo et fraude conducevano all’infamia anche in presenza di un accordo transattivo che ne evitasse la condanna (pactusve erit)116. A proposito Paolo offre una spiegazione della mancata esclusione dell’infamia nel caso in cui si patteggi. Il giurista precisa che chi in un giudizio di furto, rapina, atti ingiusti, dolo e frode fosse giunto a patteggiamento dovesse egualmente essere colpito con nota di infamia poiché il crimen doveva considerarsi confessato quando per esso si patteggiava117. I giustinianei inseriscono il frammento a completamento di un brano ulpianeo ove il giurista di Tiro riporta e commenta i medesimi verba edicti ‘si qui furti, vi bonorum raptorum, iniuriarum, de dolo malo suo nomine damnatus pactusve erit’ (D. 3.2.4.5 i.f.)118. F. 66 – D. 3.2.7 Nel medesimo contesto si pone il frammento conservato in D. 3.2.7119. A proposito dei iudicia ex quibus damnati ignominiosi fiunt, Paolo pone una distinzione: nelle azioni quae ex contractu proficiscuntur, sebbene esse fossero infamanti, si doveva escludere l’infamia nell’ipotesi di patteggiamento (licet famosae sint et damnati notantur, attamen pactus non notatur, merito)120. La spiegazione data da Paolo è che in tali controversie il patteggiamento

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Cfr. Lenel 1889.I, 975, nt. 1. Cfr. Cuiacius 1584, 88-89 e Rudorff 1869, 41-44 e nt. 13. 116 Cfr. anche Gai. 4.182. 117 Per l’applicazione processuale di tale principio, sia nel campo dei contratti che in quello dei delitti, cfr. Diósdi 1971, 98 e nt. 37. Sulla forma verbale intellegitur cfr. Pfaff 1921, 167. 118 Cfr. Ulp. 6 ad ed., D. 3.2.4.5: Item ‘si qui furti, vi bonorum raptorum, iniuriarum, de dolo malo suo nomine damnatus pactusve erit’ simili modo infames sunt. Nulla quaestio pertanto sul fatto che Paolo nel brano in esame commentasse il lemma pactusve erit: si riscontra concordanza di idee tra Cuiacius 1584, 89; Rudorff 1869, 44, nt. 13; Lenel 1889.I, 975, nt. 2 e Id., 1927, 77 e nt. 9. 119 Cfr. Rudorff 1869, 44, nt. 13; Lenel 1889.I, 975, nt. 2. 120 Cfr. Gradenwitz 1905, 363. Per un aspetto particolare del brano cfr. Sargenti 1987, 34, nt. 16. Cfr. anche Gai. 4.182 che richiama la parte dell’editto commentata in questo frammento da Paolo: Quibusdam iudiciis damnati ignominiosi fiunt, velut furti, ui bonorum raptorum, iniuriarum, item pro socio, fiduciae, tutelae, mandati, de115

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Commento non poteva essere considerato turpe quanto in quelle precedentemente menzionate (quam ex superioribus), ossia nei iudicia ex delicto121. F. 67 – D. 3.2.9 Il frammento in origine era chiaramente posto a commento dei verba edicti quo elugere virum moris est122, tramandatici sempre da D. 3.2.1123. In particolare il pretore prevedeva che fosse colpito con nota di infamia chi, essendo a conoscenza della morte del genero124 ed essendo la vedova in sua potestà, l’avesse data in matrimonio durante il tempo in cui era costume tenere il lutto per il marito e prima che fosse trascorso tale periodo125. Allo stesso modo l’infamia pretoria colpiva chi consentiva al figlio in sua potestà di sposare la vedova (D. 3.2.1 …et qui eum, quem in potestate haberet, eam, de qua supra comprehensum est, uxorem ducere passus fuerit) nonché chi la sposava non iussu eius, in cuius potestate est. L’editto non puniva invece la vedova poiché essa, in quanto donna, soffriva già di un’incapacità processuale ben più ampia, ossia poteva postulare soltanto pro se126. Proprio a proposito dell’infamia irrogata dal pretore a chi non rispettava il tempus lugendi della vedova, Paolo precisa che i mariti non erano costretti a osservare il lutto per

positi. sed furti aut ui bonorum raptorum aut iniuriarum non solum damnati notantur ignominia, sed etiam pacti, ut in edicto praetoris scriptum est; et recte. plurimum enim interest, utrum ex delicto aliquis an ex contractu debitor sit. nec tamen ulla parte edicti id ipsum nominatim exprimitur, ut aliquis ignominiosus sit, sed qui prohibetur et pro alio postulare et cognitorem dare procuratoremve habere, item procuratorio aut cognitorio nomine iudicio interuenire, ignominiosus esse dicitur. 121 Lenel 1927, 78, nt. 1 sostiene che il brano paolino debba intendersi quale commento lemmatico dei verba edicti qui pro socio, tutelae, mandati depositi suo nomine non contrario iudicio damnatus erit (D. 3.2.1), avvicinandosi parzialmente alla tesi già avanzata da Cuiacio (1584, 90), ma si tratta di una divergenza rispetto alla Palingenesi che non comporta alcuna modifica circa la collocazione del brano in esame. 122 Cfr. Lenel 1927, 78, nt. 3; dello stesso avviso Cuiacius 1584, 90 e Rudorff 1869, 44, nt. 19. 123 D. 3.2.1: …qui eam, quae in potestate eius esset, genero mortuo, cum eum mortuum esse sciret, intra id tempus, quo elugere virum moris est, antequam virum elugeret, in matrimonium collocaverit: eamve sciens quis uxorem duxerit non iussu eius, in cuius potestate est: et qui eum, quem in potestate haberet, eam, de qua supra comprehensum est, uxorem ducere passus fuerit: quive suo nomine non iussu eius in cuius potestate esset, eiusve nomine quem quamve in potestate haberet bina sponsalia binasve nuptias in eodem tempore constitutas habuerit’. 124 La sanzione dell’infamia colpiva soltanto chi era a conoscenza dello stato vedovile della donna (sciret; sciens in D. 3.2.1). Il tempus lugendi iniziava dalla morte del marito e non dal momento in cui se ne veniva a conoscenza; cfr. Ulp. 6 ad ed., D. 3.2.11.4: Notatur etiam ‘qui eam duxit’, sed si sciens: ignorantia enim excusatur non iuris, sed facti. excusatur qui iussu eius, in cuius potestate erat, duxerit, et ipse, qui passus est ducere, notatur, utrumque recte: nam et qui obtemperavit, venia dignus est et qui passus est ducere, notari ignominia nonché Ulp. 6 ad ed., D. 3.2.8: ‘Genero’ inquit ‘mortuo’: merito adiecit praetor: ‘cum eum mortuum esse sciret’, ne ignorantia puniatur. sed cum tempus luctus continuum est, merito et ignoranti cedit ex die mortis mariti: et ideo si post legitimum tempus cognovit, Labeo ait ipsa die et sumere eam lugubria et deponere. Non si era invece colpevoli se la conoscenza dello stato vedovile avveniva dopo la contrazione del matrimonio: cfr. Ulp. 6 ad ed., D. 3.2.13pr.: Quid ergo si non ducere sit passus, sed posteaquam duxit ratum habuerit? ut puta initio ignoraverit talem esse, postea scit? non notabitur: praetor enim ad initium nuptiarum se rettulit. 125 Cfr. D. 3.2.1. 126 Cfr. Ulp. 6 ad ed., D. 3.1.1.5: Secundo loco edictum proponitur in eos, qui pro aliis ne postulent: in quo edicto excepit praetor sexum et casum, item notavit personas in turpitudine notabiles. sexum: dum feminas prohibet pro aliis postulare. et ratio quidem prohibendi, ne contra pudicitiam sexui congruentem alienis causis se immisceant, ne virilibus officiis fungantur mulieres: origo vero introducta est a Carfania improbissima femina, quae inverecunde postulans et magistratum inquietans causam dedit edicto...

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Sabrina Di Maria le mogli e che inoltre non vi era lutto per chi avesse effettuato solo promesse di matrimonio127. F. 68 – D. 3.2.12 Chi sposava la vedova con lo iussum del pater, sebbene eam retinuit dopo essere stato liberato dalla patria potestà, non era colpito con nota di infamia. In tale ipotesi era punito il padre e non il figlio, in quanto il filius ubbidiva al padre, il cui consenso era necessario per la validità delle nozze128. F. 69 – D. 23.1.13 L’editto consentiva di postulare solo pro se e pro certis personis a chi avesse concluso – o fatto concludere a una persona sottoposta alla propria potestas paterna – bina sponsalia binasve nuptias nello stesso tempo (cfr. D. 3.2.1: …eiusve nomine quem quamve in potestate haberet bina sponsalia binasve nuptias in eodem tempore constitutas habuerit). A commento di tale previsione edittale doveva porsi il brano paolino collocato dai giustinianei nel titolo D. 23.1 de sponsalibus, in cui il giurista afferma che il pater familias non poteva contrarre fidanzamento per conto del filius che si opponeva129. Non dovevano esservi dubbi in età classica circa l’importanza essenziale del consenso dei filii familias nel caso in cui fosse il padre a fidanzarli130. Nel fidanzamento la volontà dei filii aveva la stessa importanza che assumeva nel matrimonio: il consenso dei fidanzati e dei nubendi si poneva come necessario accanto all’autorizzazione del pater131. F. 70 – D. 3.1.4 In questo frammento il giurista commenta, secondo la ricostruzione leneliana, i verba edicti praeterquam pro pupillo pupilla furioso furiosa, riportati da Ulpiano in D. 3.1.1.11: non si poteva postulare pro aliis praeterquam pro parente, patrono patrona, liberis parentibusque patroni patronae e liberisve suis, fratre sorore, uxore, socero socru, genero nuru, vitrico noverca,

127 Sul punto cfr. tra gli altri Garcia Sanchez 1976, 141-151, in particolare 144 e nt. 14. A proposito del tempus lugendi risultano ancora utili gli studi di Volterra 1933, 171 ss. (= 1991, I 449 ss.); Volterra 1935, 399 ss. (= 1991, I 477 ss.) nonché Gaudemet 1949, 309-366. Successivamente v. anche Corbett 1969, 249-251; Humbert 1972, 113 ss.; Robleda 1973, 1131-1155. Nella letteratura meno risalente cfr. Astolfi 2006, 171 ss. e per un accenno v. anche Astolfi 1989, 56. 128 Al proposito cfr. Coppola Bisazza 2008, 35 e nt. 36. Sul consenso paterno sono ancora utili gli studi di Volterra 1948, 213 ss. (= 1991, II 97 ss.); Matringe 1971, 191 e Voci 1980, 38 ss. (= 1985, II 397 ss.). 129 Cfr. Lenel 1889.I, 975, nt. 5 e Id. 1927, 78, nt. 9. 130 Sul punto cfr., per tutti, Albanese 1979, 255 s. nonché Astolfi 1989, 48-49. L’affermazione paolina contenuta in D. 23.1.13 assume valore assoluto per i giustinianei che contrappongono il frammento a quello che lo precede immediatamente e che riguarda invece il consenso della filia familias; Ulp. lib. sing. de spons., D. 23.1.12: sed quae patris voluntati non repugnat, consentire intellegitur. 1. Tunc autem solum dissentiendi a patre licentia filiae conceditur, si indignum moribus vel turpem sponsum ei pater eligat. In dottrina si è dubitato della genuinità del frammento ulpianeo, a differenza di quello paolino in commento; sul punto v. Voci 1980, 43, nt. 30 (= 1985, 404, nt. 30); dello stesso parere Astolfi 1989, 48. 131 In tal senso Bonifacio 1957b, 393 e nt. 14. Parla invece di un ordine e non di un’autorizzazione Steinwenter 1919, 1307. Sul significato e sull’evoluzione semantica del lessema iussum nell’ambito dei rapporti di famiglia, cfr. Coppola Bisazza 2008, in specie 89 ss.

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Commento privigno privigna, pupillo pupilla, furioso furiosa, persone cui si dava un tutore o un curatore132. Il brano paolino è posto dai compilatori giustinianei a completamento di quanto affermato da Ulpiano in D. 3.1.3.3133, ove il giurista, commentando appunto i verba edicti riportati in D. 3.1.1.11, precisa che fra i curatori dovevano aggiungersi quelli del muto e di tutti gli altri, quibus dari solent, id est surdo prodigo et adulescenti134. Così Paolo sottolinea, nel medesimo contesto, che tra i curatori andavano annoverati anche quelli dati dal pretore propter infirmitatem135.

LIBRO VI

[Sui vadimoni (E. VII.17-24), 1] Paolo, nei libri sesto e settimo del suo ad edictum136, commenta le prescrizioni edittali relative al vadimonium, istituto questo che, come è noto – attraverso una stipulazione che poteva prevedere137, in caso di inosservanza, il pagamento di una penale in denaro commisurata al valore

132 Cfr. Ulp. 6 ad ed., D. 3.1.1.11: Deinde adicit praetor: ‘Pro alio ne postulent praeterquam pro parente, patrono patrona, liberis parentibusque patroni patronae’: de quibus personis sub titulo de in ius vocando plenius diximus. Item adicit: ‘liberisve suis, fratre sorore, uxore, socero socru, genero nuru, vitrico noverca, privigno privigna, pupillo pupilla, furioso furiosa’, frammento ulpianeo collocato da Lenel 1889.II, 445 sotto la rubrica Qui nisi pro certis personis ne postulent. Il frammento è riunito, dallo studioso tedesco, al brano conservato in Ulp. 6 ad ed., D. 3.1.3pr.: ‘Cui eorum a parente, aut de maioris partis tutorum sententia, aut ab eo cuius de ea re iurisdictio fuit ea tutela curatiove data erit’. 133 Ulp. 6 ad ed.: In curatoribus debuisse eum adicere: muti ceterorumque, quibus dari solent, id est surdo prodigo et adulescenti. 134 Cfr. Lenel 1927, 78, nt. 16 e Id. 1889.II, 445. A proposito dell’incapacità di postulare dei ciechi, sordi e muti e della necessità di un curatore cfr. Küster 1991, 154 ss. 135 Sui curatori aggiunti dalla giurisprudenza classica alla lista di quelli previsti dall’editto pretorio cfr. Solazzi 1924a, 10 ss. (= 1957, 623 ss.). 136 Ulpiano se ne occupa invece nel solo settimo libro, il quale però, nella Palingenesia iuris civilis di Lenel, risulta articolato nelle diverse clausole edittali che non sono invece presenti, come è solito, nei libri paolini; v. Lenel 1889.II, 445 ss. In particolare secondo la ricostruzione dell’editto di Lenel, le clausole sarebbero state in tutto otto: i) de vadimonio faciendo, ii) quanti vadimonia fiant, iii) qui satisdare cogantur vel iurato promittant vel suae promissioni committantur, iv) de vadimonio concipiendo, v) si ex noxali causa agatur, quemadmodum caveatur, vi) quas personas sine permissu praetoris vadari non liceat, vii) de eo per quem factum erit, quo minus quis vadimonium sistat, viii) quibus ex causis vadimonia recuperatoribus suppositis fiant; v. Lenel 1927, 80 ss. Diversamente Rudorff 1869, 45 ss. ipotizza solo tre clausole, precisamente qui satisdare cogantur veli urato promittant vel suae promissioni committantur, si ex noxali causa agatur quemadmodum caveatur e de eo per quem factum erit quo minus quis in iudicio sistat. 137 Era possibile anche un vadimonium sine poena; tra i frammenti che testimoniano l’ammissibilità di tale tipo di vadimonio v. Paul. 69 ad ed., D. 2.11.5; Nerat. 2 membr., D. 2.11.14; Ulp. 47 ad Sab., D. 2.5.3; Ulp. 77 ad ed., D. 45.1.81pr.; Paul. 3 quaest., D. 45.1.126.3. Sul vadimonium sine poena v. Medicus 1962, 271; Kaser, Hackl 1996, 167 s.; Pugliese 1963, 403; Knütel 1976, 35, successivamente Sicari 2001, 294 ss., più di recente Donadio 2011, 216.

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Sabrina Di Maria della causa – tendeva ad assicurare il ritorno in ius del convenuto, nell’ipotesi di mancato raggiungimento della litis contestatio o a garantire la sua comparizione dinanzi ad altro magistrato se il primo era incompetente o ancora a garantire la prima comparizione del convenuto se questi non voleva subire l’in ius vocatio (vadimonio c.d. stragiudiziale)138. Il vadimonio, declinato in diversi tipi139, era oggetto di diverse prescrizioni edittali, circostanza questa che determinava ripetizioni nelle opere di commento lemmatico. Paolo tratta del vadimonium Romam faciendo (ove l’ordine di prestare il vadimonium era dato dai magistrati municipali) già nei libri primo e secondo140. Delle clausole edittali relative ai vadimonia tuttavia sono rimaste solo tracce nei Digesta, ove oltretutto il termine vadimonium è stato sostituito con quello di cautio o promissio iudicio sisti, anche con una modifica sostanziale della funzione dell’istituto da parte del diritto giustinianeo141, circostanza questa che rende ancora più difficoltosa la ricostruzione dei libri paolini in esame. Che la materia fosse complessa è testimoniato, tra l’altro, anche dalle citazioni di giuristi preseveriani che si riscontrano nei materiali paolini che qui esaminerò, segno appunto dell’inteso lavorìo della giurisprudenza sull’argomento142. Alla ricostruzione del tessuto espositivo del sesto e settimo libro non giova neppure il fatto che i frammenti a essi riconducibili provengano tutti da titoli diversi del Digesto (fatta eccezione per quattro brani del sesto libro, ma si tratta del titolo D. 50.17 e due del settimo libro collocati in D. 50.16), così che non può soccorrere neppure l’impiego del criterio delle sequenze bluhmiane.

[Coloro che siano costretti a dare garanti o promettano con giuramento o siano rimessi alla loro promessa (E. 18)] F. 71 – D. 50.17.110pr. Il brevissimo brano costituito dalla proposizione in eo, quod plus sit, semper inest et minus, elevata a regula iuris dai giustinianei, si atteggia ora a principio molto generale che appare, prima facie, suscettibile di diverse applicazioni, ma doveva verosimilmente porsi in origine nella parte iniziale del commento paolino alle prescrizioni edittali in materia di vadimonia.

138 In generale sulla funzione e la storia del vadimonium è ancora utile Pugliese 1963, II.1 398 ss. nonché Buti 1984a, 313 ss. e Kaser, Hackl 1996, 167 ss. Invero la letteratura sul tema è molto vasta, mi limito qui a rinviare all’ampio ragguaglio bibliografico presente in Donadio 2011. 139 Cfr. Gai. 4.185: Fiunt autem uadimonia quibusdam ex causis pura, id est sine satisdatione, quibusdam cum satisdatione, quibusdam iureiurando, quibusdam recuperatoribus suppositis, id est, ut qui non steterit, is protinus a recuperatoribus in summam uadimonii condemnetur; eaque singula diligenter praetoris edicto significantur. 140 Sui materiali paolini riconducibili all’editto sul vadimonium Romam v. Luchetti 2018c, 101 ss., con ampia discussione della letteratura precedente. 141 Cfr. Pugliese 1963, II.1 399. 142 Paolo dimostra, in questa parte del commentario edittale, una particolare tendenza a citare le opinioni dei giuristi che l’avevano preceduto, tendenza che non è presente negli altri luoghi del suo ad edictum; sulle citazioni dei giuristi precedenti ad opera di Paolo e la differenza rispetto ad Ulpiano v. Luchetti 2018a, 41 ss.

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Commento Secondo Lenel, il brano era posto a commento della clausola edittale quanti vadimonia fiant143, diversamente Rudorff aveva invece riferito il testo alla clausola qui satisdare cogantur vel iurato promittant vel suae promissioni committantur – ricavata dal titolo D. 2.8144 – che nella sua ricostruzione dell’Editto costituiva comunque la prima clausola del titolo de vadimoniis145. In effetti il contenuto del brano, pur se sibillino, sembra confermare la congettura avanzata da Rudorff e specificamente che esso si atteggiasse in origine a commento del vadimonium cum satisdatione. Alla clausola edittale appena supra richiamata allude Gaio in un passaggio delle proprie Institutiones146, informandoci prima che l’Editto prevedeva diversi tipi di vadimonia (pura, cum satisdatione, iureiurando, recuperatoribus suppositis; Gai. 4.185) e subito dopo aggiungendo, con specifico riferimento al vadimonium cum satisdatione, che se si intentava l’actio iudicati o l’actio depensi (l’azione di regresso dello sponsor contro il debitore principale), l’importo della penale corrispondeva a quanto l’attore chiedeva con quelle azioni (Gai. 4.186: …tanti fit, quanti ea res erit…)147, negli altri casi invece la summa vadimonii148 equivaleva soltanto a una parte dell’oggetto della lite, ossia la metà e, in ogni caso, non più di centomila sesterzi (Gai. 4.186: … nec tamen pluris quam partis dimidiae nec pluribus quam sestertium C milibus fit uadimonium)149. Ecco dunque che Paolo, probabilmente svolgendo osservazioni a proposito del vadimonium cum satisdatione e dunque a commento della clausola qui satisdare cogantur vel iurato promittant vel suae promissioni committantur, chiarisce che in giudizio la domanda può essere accolta anche per una somma inferiore rispetto a quella per cui si è agito, così, per esempio, se qualcuno abbia agito in giudizio per cento, la domanda può essere accolta anche per cinquanta essendo appunto nel più compreso anche il meno. F. 72 – D. 50.17.110.1 Nello stesso contesto del principium di D. 50.17.110 appena esaminato doveva porsi il paragrafo 1, ove Paolo afferma che non è un idoneo espromissore colui che non abbia fideiussori o che non abbia dato al creditore idonea garanzia. L’espromissore è infatti colui che fa proprio il debito altrui, liberando costui e il creditore perde il credito se l’espromissore non è solvibile, pertanto l’expromissor è idoneus solo cum satisdatione. In questo contesto va però rilevato che il breve testo paolino in commento trova un corrispondente quasi identico in un brano di Gaio (Gai. 4.101: …nemo alienae rei sine satisdatione

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Lenel 1927, 81, nt. 2. Lenel 1889.II, 446. 145 Cfr. Rudorff 1869, 45, nt. 2. 146 Cfr. Gai. 4.185: Fiunt autem uadimonia quibusdam ex causis pura, id est sine satisdatione, quibusdam cum satisdatione, quibusdam iureiurando, quibusdam recuperatoribus suppositis, id est, ut qui non steterit, is protinus a recuperatoribus in summam uadimonii condemnetur; eaque singula diligenter praetoris edicto significantur. 147 Cfr. Gai. 4.186: Et si quidem iudicati depensiue agetur, tanti fit uadimonium, quanti ea res erit; si uero ex ceteris causis, quanti actor iurauerit non calumniae causa postulare sibi uadimonium promitti: nec tamen pluris quam partis dimidiae nec pluribus quam sestertium C milibus fit uadimonium. itaque si centum milium res erit nec iudicati depensiue agetur, non plus quam sestertium quinquaginta milium fit uadimonium. 148 Sulla summa vadimonii v., tra gli altri, Pugliese 1963, II.1 405 s.; Buti 1984a, 328 ss.; Camodeca 1992, 52 ss. 149 Sul brano gaiano v., tra gli altri, La Rosa 1963, 129. 144

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Sabrina Di Maria defensor idoneus intellegitur…)150, che viene però ormai pacificamente riferito alla cautio iudicatum solvi151, la quale, come è stato efficacemente sottolineato, ormai già agli inizi del secolo scorso, da Debray, ha una funzione diversa rispetto al vadimonium: la cautio iudicatum solvi assicura all’attore il soddisfacimento della propria pretesa, il vadimonium si riferisce a un incidente di procedura e quindi non attiene al profilo sostanziale della lite152. Cuiacio prima e Gotofredo dopo, indipendentemente dalla testimonianza gaiana, sostenevano che anche il brano di Paolo riguardasse la cautio iudicatum solvi153. Lenel richiama questa esegesi, ma mantiene ferma sino all’ultima edizione dell’Editto l’ipotesi che D. 50.17.110.1 si riferisca al vadimonium cum satisdatione154. In particolare nelle prime edizioni dell’Editto, lo studioso tedesco avanza l’ipotesi che il testo fosse da riferire alla disciplina del vadimonium nei casi di sostituzione processuale, sostenendo che fosse il dominus litis a dover promittere vadimonium per il cognitor e il procurator praesentis155, ma tale tesi è stata poi rettificata dallo stesso autore156. Ora, che il brano sia da ricondurre all’editto sui vadimonia non credo possa essere messo in discussione considerata l’inscriptio giustinianea (a meno che non si dubiti dell’autenticità della stessa inscriptio, ma non abbiamo dati in base ai quali procedere in tal senso); potremmo però forse ipotizzare che Paolo, commentando il vadimonium cum satisdatione, ne mettesse in risalto le differenze con la cautio iudicatum solvi157. F. 73 – D. 3.3.6 Sotto il profilo palingentico, dico subito che la proposta leneliana, che trova in questo punto perfetta coincidenza con l’ordine Krüger, appare fondata158. Il brevissimo frammento è stato collocato dai compilatori nel titolo D. 3.3 de procuratoribus et defensoribus, ove interrompe il brano ulpianeo suddiviso tra i paragrafi 5 e 7. Leggiamoli insieme: Ulp. 7 ad ed., D. 3.3.5 Praesens habetur et qui in hortis est Paul. 6 ad ed., D. 3.3.6 et qui in foro et in urbe et in continentibus aedificiis Ulp. 7 ad ed., D. 3.3.7 et ideo procurator

150 Cfr. Gai. 4.101: Ab eius vero parte, cum quo agitur, si quidem alieno nomine aliquis interveniat, omni modo satisdari debet, quia nemo alienae rei sine satisdatione defensor idoneus intellegitur; sed si quidem cum cognitore agatur, dominus satisdare iubetur, si vero cum procuratore, ipse procurator. idem et de tutore et de curatore iuris est. 151 V., per tutti, l’ampia e fondata discussione di Brutti 1970, 293. La clausola de re iudicata è solo una delle tre previste dalla cautio (insieme a quella de re defendenda e de dolo malo indicate in Ulp. 78 ad ed., D. 46.7.6), ma è quella che è prevalsa nella denominazione; sul punto v. Lenel 1927, 531 e Kaser, Hackl 1996, 280. Sulla formula della cautio v. Mantovani 1999, 104. Per quanto concerne la cautio iudicatum solvi in generale, la bibliografia sul tema non è molto ampia: v. Duquesne 1910, 59 ss.; Lenel 1927, 530 ss.; successivamente La Rosa 1956b, 160 ss.; Bonifacio 1959a, 54 s.; più di recente Finkenauer 2009, 339 ss. 152 Cfr. Debray 1910, 144. 153 Cfr. Cuiacius 1584, 98 e Gothofredus 1733, 1024 s. 154 Lenel 1927, 81, nt. 4. 155 Lenel 1883, 66, nt. 2. La tesi di Lenel, riprodotta alla lettera nella seconda edizione dell’Editto (Lenel 1907, 81, nt. 3) nonchè nella Palingenesia iuris civilis (v. Lenel 1889.II, 446, nt. 1: Praesentis procurator vadimonium non ipse promittit, sed dominus eius, scil. cum satisdatione), veniva accolta da Fliniaux 1908, 64 s. e 67, nt. 1, ma v. Debray 1910, 142 ss. 156 Cfr. Lenel 1927, 81, nt. 4. 157 Cuiacio pur ritenendo che il brano tratti della cautio iudicatum solvi lo riconduce comunque alle prescrizioni edittali in materia di vadimonia e precisamente al processo nossale (Cuiacius 1584, 98). 158 Cfr. Lenel 1889, 975 e nt. 10.

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Commento eius praesentis esse videtur. Si tratta di frammenti che riguardano la posizione caratteristica del procurator praesentis159. I brani specificano chi possa considerarsi presente nel luogo del processo e in particolare Paolo sottolinea che era da ritenersi praesens non solo chi fosse nelle mura, ma anche chi fosse reperibile in continentibus aedificiis 160. Il frammento di Paolo, così come i testi ulpianei, sono riferiti da Lenel alla clausola edittale qui satisdare cogantur vel iurato promittant vel suae promissioni committantur161 e in particolare sarebbero serviti a illustrare proprio il lemma satisdatio e dunque i vadimonia cum satisdatione162. F. 74 – D. 2.8.16 Alla medesima clausola edittale doveva riferirsi il testo conservato in D. 2.8.16, atteggiandosi in particolare a commento del vadimonium iureiurando163, nell’ambito del quale il promittente doveva appunto confermare l’impegno mediante giuramento164. I sospetti avanzati sulla genuinità del testo – ove in particolare di fattura giustinianea è stata considerata la locuzione iurato promisit165 – non toccano la sostanza della soluzione in esso prospettato. Paolo specifica, a proposito del vadimonium iureiurando, che non si considera spergiuro colui che, pur avendo promesso con giuramento di presentarsi in giudizio, poi non si presenta per un legittimo impedimento. La precisazione paolina si giustifica se si pensa alle più gravi conseguenze che derivavano dall’inadempimento del vadimonium iureiurando. Alle normali conseguenze previste per il vadimonium desertum si sarebbe probabilmente affiancata un’azione penale per la rottura del giuramento, a meno che, apprendiamo dal testo ora in esame, non vi fosse un legittimo impedimento166. F. 75 – 12.2.15 Il frammento, sistemato dai compilatori nel titolo D. 12.2 de iureiurando sive voluntario sive necessario sive iudiciali, continua il discorso del brano appena supra illustrato, riferendosi ancora al vadimonium iureiurando. Paolo precisa che le persone del rango degli egregi e quelle impedite per ragioni di salute dovevano essere escusse a casa167.

159 Sulla figura del procurator praesentis è ancora utile lo studio di Eisele 1881, 221 s.; successivamente Kaser, Hackl 1996, 560 ss.; cfr. anche Marrone 2009, 256 ss. (= 2010, 185 ss. [= 2015, III 143 ss.]). 160 Cfr. sul punto Gagliardi 2006, 374. 161 Cfr. Lenel 1889.II, 446. Rudorff invece omette di richiamare il brano nella sua ricostruzione dell’Editto (v. Rudorff 1869, 45 ss.). Cuiacio (Cuiacius 1584, 94 ss.) ritiene che nella sistematica originaria il brano in esame seguisse il testo tradito in D. 2.9.2 e anticipasse il testo conservato in D. 28.6.17, così collocandolo in un contesto in cui Paolo avrebbe esteso il discorso al dominus litis presente, ma sprovvisto della capacità di stare in giudizio. 162 Lenel 1927, 81, nt. 3. 163 V. Rudorff 1869, 45, nt. 3 e Lenel 1927, 81, nt. 5. 164 V. ancora Gai. 4.185. 165 Cfr. Lenel 1889.I, 975; Archi 1946, 659 ss.; più di recente Trisciuoglio 2009, 58, nt. 123. 166 Si è discusso in letteratura se in questa tipologia di vadimonium il giuramento costituissse di per sé garanzia sufficiente per l’adempimento dell’impegno assunto mediante stipulatio; pensava all’azione penale Mommsen 1899, 586; in questo senso anche Fliniaux 1969, 621 e nt. 3. 167 Cfr. Rudorff 1869, 58 e nt. 3.

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Sabrina Di Maria Non ci è dato sapere quando occorresse prestare il vadimonio iureiurando, ma il brano or ora esaminato offre sostegno a quanto già sostenuto da una parte della romanistica, ossia che tale tipo di vadimonio, proprio per il giuramento che contemplava, fosse consentito solo alle persone di riprovata integrità morale o che comunque fosse usuale per gli appartenenti alle classi elevate e ai proprietari terrieri168.

[Su come deve essere redatto il vadimonio (E. 20)] F. 76 – D. 6.1.6 Il brano – l’unico riferito da Lenel alla clausola edittale de vadimonio concipiendo169 – è stato inserito dai giustinianei nel titolo de rei vindicatione, ma doveva originariamente riferirsi alla vera e propria “redazione” del vadimonium, il quale non sempre comprendeva la promessa di una summa vadimonii e in tal caso era necessaria l’indicazione della pretesa dell’attore, che serviva poi da fondamento alla determinazione della condanna da infliggere al contumace. Il brano illustra infatti l’onere dell’attore di enunciare in modo minuziosamente preciso la propria pretesa, in particolare viene sottolineata la necessità di designare rem nelle azioni reali170. Paolo parte da un’enunciazione generale ricordando che nelle azioni in rem la denominazione res non species, ma genus significat, pertanto allorquando viene esperita un’azione in rem (si in rem aliquis agat), è necessario indicare la res nonché se viene chiesta l’intera cosa o una sola parte di essa e in tal caso bisogna specifcare il quantum (debet designare rem et utrum totam an partem etquotam petat)171. Dopodiché Paolo richiama il giurista Ottaveno172, il quale, ai fini appunto dell’esatta indicazione della cosa oggetto di un’actio in rem, affermava che per le materiae infectae occorreva specificare il pondus, per quelle signatae il numerus e per quelle factae la species, non senza l’ulteriore determinazione della mensura ove la cosa stessa sia quantificabile appunto mediante misurazione173. Il testo elenca dunque una tipologia di possibili incertezze nella indicazione dell’oggetto della domanda: si va dalle precisazioni numeriche o comunque di misura alla forma e al colore di ciò che è richiesto; si va dal nome del fondo o

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Così già Bertolini 1913, 235 e Steinwenter 1948, 2058. Cfr. Lenel 1927, 82; contra Rudorff 1869, 63, nt. 103, che non ammette la detta clausola. 170 Sull’obbligo dell’attore di specificare in modo dettagliato la propria pretesa v., tra gli altri, nella letteratura più risalente, Pugliese 1963, 403, più di recente Bianchi 2011, 4; v. anche Rampazzo 2011, 822, nt. 62 che annovera il testo (insieme a Ulp. 75 ad ed., D. 44.2.7pr. per la proprietà e Paul. 70 ad ed., D. 44.2.14.1 e Papin. 17 quaest., D. 7.1.33.1, per l’usufrutto) tra quelli che testimoniamo “casi di richieste incongruenti con diritti ad esse sottesi”. 171 Sulla definizione di res sono ancora utili gli studi di Savagnone 1952, 18 ss.; Casavola 1954, 551 ss. (= 2000, I 379 ss.); Genzmer 1952, 469 ss.; più di recente v. Rüfner 2000 e Baldus 2003, 212 ss. 172 Sulle citazioni dei giuristi precedenti nell’opera di Paolo, v. Luchetti 2018a, 37 ss. In particolare sulla datazione di Ottaveno e della sua opera v. Ferrini 1887, 332 ss. (= 1929, II 113 ss.); nella letteratura meno risalente v. Varvaro 2008, 41, nt. 109, con indicazioni bibliografiche. 173 Sotto questo profilo il frammento è stato ampiamente frequentato dalla romanistica, ricordo qui, oltre agli studi già indicati supra nt. 171, anche Melillo 1978, 107 s. (= 2000, 107 s.). In particolare sul rapporto tra species e mensura v. Schermaier 1992, 26 ss. 169

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Commento dello schiavo che sono rivendicati all’età di quest’ultimo e si avverte che ove, ad esempio, sussista ignoranza sul nome, questa vada compensata con altra indicazione (sed si nomen eius ignorem, demonstratione eius utendum erit: veluti ‘qui ex illa hereditate est’, ‘qui ex illa natus est’. item fundum petiturus nomen eius et quo loci sit dicere debebit)174. Il giurista svolge dunque, in ordine all’esigenza di designare rem, un’elencazione ricca, ma meramente esemplificativa, ponendo invece l’accento sulla necessità di indicare precisamente la cosa rivendicata.

[In che modo sia prestata la stipulazione di garanzia se si agisca per causa nossale (E. 21)] F. 77 – D. 2.9.2 Il brano è comunemente riferito alla clausola edittale si ex noxali causa agatur, quemadmodum caveatur, costruita proprio sulla base di D. 2.9175. La disposizione edittale è riportata da Ulpiano nel principium del brano che nei Digesta immediatamente precede il testo in esame176. In D. 2.9.2 Paolo, dopo aver richiamato il principio noxa caput sequitur, che estende al caso prospettato, passa a considerare l’ipotesi in cui, assente in iure lo schiavo accusato di un delitto177, il suo dominus risponda positivamente alla interrogatio c.d. de potestate178. A tal proposito Paolo richiama Vindio179, secondo il quale se il dominus convenuto non negava che lo schiavo si trovasse nella sua potestà180, l’attore avrebbe dovuto scegliere fra diverse opzioni: o prestare

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Sul brano v. più diffusamente Bianchi 2011, 4. Cfr. Rudorff 1869, 46, nt. 1 e Lenel 1927, 82. 176 Ulp. 7 ad ed., D. 2.9.1pr.: Si quis eum, de quo noxalis actio est, iudicio sisti promisit, praetor ait in eadem causa eum exhibere, in qua tunc est, donec iudicium accipiatur. Sul testo v. Lenel 1927, 82, che reputa interpolata (a fini esplicativi) la frase Si quis-promisit e propone la seguente restituzione della clausola edittale: in qua tunc est, donec iudicium accipiatur. 177 Lenel 1899, 7, nt. 1 (= 1990, II 433, nt. 1), propone di espungere come giustinianea l’intera frase ‘Si absenscompetit’, sia pure giudicandola “sachlich… correct”. Tuttavia, come già rilevato in dottrina (v., tra gli altri, D’Angelo 2015a, 253, nt. 1), che Paolo dovesse riferirsi all’assenza in iure del servo non sembra si possa mettere in dubbio in considerazione della restante parte del passo, e segnatamente del segmento sed si servus praesens est…, in cui si contrappone all’ipotesi dell’assenza quella della presenza in iure dello schiavo. Sulle orme di Lenel, ma solo parzialmente, Krüger 1905, 23 che si limitava a uncinare le parole pro quo-competit, in ciò seguito da Visscher 1947, 276, nt. 50. 178 Per il significato da attribuire a potestas in questa interrogatio, per quella che ormai rappresenta la communis opinio, secondo la quale il termine potestas indica la mera disponibilità materiale dello schiavo e che, nel caso in cui questi non fosse presente in iure, si facesse luogo a due interrogationes distinte, una sul dominium e l’altra sulla potestas, ovvero a una sola interrogatio volta ad accertare a un tempo entrambe queste situazioni, v. Kaser, Hackl 1996, 254 s., 278 s., con ampie indicazioni bibliografiche; ormai superata invece deve ritenersi quella tesi secondo la quale con il termine potestas nell’interrogatio si alludeva a un potere più ampio e complesso sullo schiavo, così Girard 1887, 427 ss. (= 1923, II 346 ss.); successivamente v. Falchi 1976, 149 ss. 179 Sul punto cfr. le osservazioni di Brutti 1970, 281, nt. 10. 180 Cfr. Spengler 1994, 89, 99, il quale ritiene, facendo leva sul fatto che Paolo scrive si quidem dominus non negat rell., che il giurista vorrebbe distinguere fra il caso in cui il convenuto non negasse e quello in cui ammettesse di avere il servo in potestate; contra D’Angelo 2015b, 255, nt. 2. 175

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Sabrina Di Maria il vadimonium nossale (iudicio eum sisti promittere)181, ossia promettere di esibire lo schiavo182 a una certa data e in eadem causa183; b) o accettare la formula (iudicium accipere), così assumendo la difesa del servo; c) o garantire di esibire quest’ultimo il prima possibile (cauturum, cum primum potuerit, se exhibiturum) laddove non volesse difenderlo (si nolit defendere). Paolo considera poi l’ipotesi inversa, precisando che qualora il dominus rispondeva falsamente all’interrogatio sulla potestà dello schiavo, egli avrebbe dovuto sostenere il iudicium sine noxae deditione e, richiamando Giuliano184, rileva che l’actio sine noxae deditione si estende anche alla perdita dolosa della potestà. La citazione di Giuliano ha fatto pensare, almeno a una parte della critica romanistica, che l’estensione dell’applicazione dell’actio sine noxae deditione al caso della perdita dolosa del possesso fosse dovuta a Giuliano185. Così, in un primo momento, l’azione pretoria sarebbe stata concessa contro il dominus, che aveva falsamente negato di avere la potestà dello schiavo e poi, grazie a un orientamento giurisprudenziale risalente al giurista citato, sarebbe stata inclusa l’ipotesi della perdita dolosa del possesso. Non mi sembra però che tale interpretazione possa essere condivisa: la citazione di Giuliano non indica necessariamente una sua innovazione e ciò a maggior ragione se si considera che in un altro punto del suo commentario edittale186, Paolo, chiarendo il significato di detta perdita della potestà, aggiunge hoc et Labeo187, facendo dunque riferimento anche a giuristi diversi da Giuliano. Mi pare invece molto più probabile che nel passo in esame Paolo ricordi l’applicazione estensiva dell’actio sine noxae deditione citando, non a caso, l’ordinatore dell’editto, che forse aveva appunto “codificato” il principio secondo il quale il pretore concedeva tale azione anche quando il dominus avesse perso intenzionalmente la potestà dello schiavo. Infine Paolo contrappone all’ipotesi dello schiavo assente quella dello schiavo presente, ma sprovvisto di difesa, in quanto è assente il suo proprietario nec quisquam eum defendit (sed si servus praesens est); in tal caso, il giurista, richiamando ancora il parere di Vindio, cui stavolta affianca quello di Pomponio188, riferisce che il pretore poteva autorizzare la ductio dello schiavo, ma il dominus poteva successivamente intervenire e, causa cognita, assumerne la difesa.

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Per l’interpolazione delle parole iudicio eum sisti in luogo di vadimonium v. Lenel 1889.I, 976, nt. 3. Secondo l’opinione prevalente, tra cui v. più di recente D’Angelo 2015a, 252, nt. 8, esibire lo schiavo equivaleva a procurarne la presenza in iure. 183 Sull’exhibitio in eadem causa dello schiavo, v. Brutti 1970, 261–301; Giménez-Candela 1981, 189 ss.; Ead. 1982, 74 ss.; Ead. 1982b, 148–166; più di recente, con diversità di vedute, D’Angelo 2015a, 251 ss. 184 Secondo Lenel 1889.I, 321 (sotto la rubrica si ex noxali causa agatur, quemadmodum caveatur) Giuliano avrebbe esposto tale soluzione nel secondo libro dei Digesta. 185 Cfr. Giménez-Candela 1981, 188. 186 Paul. 18 ad ed., D. 9.2.24: illo videndum, utrum adversus eum tantum, qui dolo fecit, quo minus in potestate haberet, actio locum habeat noxalis, si ex dolo eius acciderit, ut cesset noxalis actio (forte si servo suo fugam mandavit) an et si possit nihilo minus cum alio agi (quod accidit, cum alienatus manumissusve est). quod est verius: in quo casu electio est actoris, cum quo velit agere. Iulianus autem ait de eo qui manumisit, si paratus sit defendere se manumissus, exceptionem dandam ei qui manumisit. hoc et Labeo. 187 In questo senso già González Roldán 2010, 68. 188 Sulla citazione di Vindio e Pomponio v. in specie, Stolfi 2002.I, 570-571, il quale sostiene che siano i due giuristi citati a sostenere quanto riferito nel brano “sebbene il testo non lo dica espressamente” attribuendo la previsione al solo Paolo. 182

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Commento F. 78 – 9.4.12 Ancora in tema di perdita dolosa del possesso dello schiavo è il passo conservato in D. 9.4.12. Qui Paolo precisa che se il possessore di buona fede allontanava lo schiavo con il preciso scopo di perderne la potestà o il possesso, per evitare di essere convenuto a seguito di un’azione nossale, rimaneva comunque obbligato. Nel caso prospettato da Paolo infatti il dominus, anche se non poteva essere convenuto con actio nossale, era comunque tenuto con quella sine noxae deditione, che poteva essere esercitata contro chi aveva affermato falsamente di non avere la potestas dello schiavo o che l’aveva persa dolosamente (D. 9.4.21.2)189. F. 79 – D. 2.10.2 Il brano contempla un’ipotesi particolare di applicazione dell’exceptio doli generalis190. In particolare Paolo riporta il caso di uno schiavo che si comporta dolosamente, impedendo il vadimonium sistere191 al convenuto nell’ambito del giudizio ove è attore il proprio dominus, il quale conscio dell’accaduto (sciente), non fa nulla per impedirglielo192. Paolo richiama il parere di Ofilio, secondo il quale, nel caso di specie, andava accordata un’exceptio (aggiungo doli) a colui il quale il servo, sciente domino, avesse impedito di presentarsi in giudizio, e ciò per evitare che il dominus potesse trarre vantaggio dal dolo del suo servus. Il giurista severiano prende poi in considerazione anche l’ipotesi inversa, ossia il caso in cui il servo abbia agito autonomamente, richiamando, questa volta, il parere di Sabino193, secondo il quale doveva essere concessa l’azione nossale, in quanto l’operato del servo non poteva nuocere al padrone194.

[Su colui a causa del quale sia avvenuto che qualcuno non presti il vadimonio (E. 23)] F. 80 – D. 50.17.110.2 La brevissima regula si limita a stabilire che non si può tollerare che un pupillus patisca.

189 Cfr. Ulp. 23 ad ed., D. 9.4.21.2: Praetor ait: ‘si is in cuius potestate esse dicetur negabit se in sua potestate servum habere: utrum actor volet, vel deierare iubebo in potestate sua non esse neque se dolo malo fecisse, quo minus esset, vel iudicium dabo sine noxae deditione’. 190 Così già Albanese 1967, 185 (= 1991, I 549), che qui seguo; diversamente Knütel 1983, 367 ss., il quale ritiene che l’exceptio di cui si parla fosse “älter und spezieller als die exceptio doli, die sich freilich nicht sicher ausschliessen lässt”. Su tale specifica applicazione dell’exceptio doli v. ora brevemente anche Caravaglios 2012, in specie 422 e nt. 75. 191 Per il riferimento originario del testo, ove appunto vi è stata la tradizionale sostituzione di vadimonium con in iudicio, rinvio a Lenel 1927, 83. 192 Sulla scientia dominii v. Albanese 1967, 119 ss. (= 1991, I 483 ss.), il quale, contro la dottrina precedente (v., Biondi 1925, 331 ss.; Lisowski 1940, 648 ss.; De Visscher 1947, 489 ss.) ha dimostrato come i classici ammettessero sì che la scientia domini determinasse un’actio in solidum contro il dominus sciens, ma solamente in poche ipotesi ben delimitate e quella contemplata in D. 2.10.2 non era una di quelle. 193 Sul richiamo nominativo di Sabino nell’ad edictum paolino v. Luchetti 2018a, 42 ss. 194 Sulla seconda parte del testo v. Pringsheim 1958, 266. Sul brano v. anche brevemente Buti 1984a, 360 e nt. 89.

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Sabrina Di Maria Lenel, pur mostrando non pochi dubbi, riferisce il brano alla clausola edittale de eo, per quem factum erit, quo minus quis vadimonium sistat, ricavata da D. 2.10195. Il contenuto di tale parte dell’editto è riportato da Giuliano in D. 2.10.3pr. (ex hoc edicto adversus eum, qui dolo fecit, quo minus quis in iudicium vocatus sistat, in factum actio competit quanti actoris interfuit eum sisti…)196, ove si specifica che contro colui che avesse impedito con dolo la comparizione in giudizio del vocatus era concessa un’azione in factum parametrata non al valore della lite principale, ma al danno subito dall’attore in conseguenza della mancata comparizione dell’avversario197. Per Lenel, così come per Rudorff, con il brano riportato in D. 50.17.110.2, Paolo avrebbe commentato proprio il dolo fecit198. Ora, considerata la probabile clausola di riferimento e il tenore letterale del brano, si può ipotizzare che nel frammento in esame Paolo trattasse della responsabilità del tutore per il vadimonium desertum del pupillo. F. 81, F. 82 – D. 50.17.110.3, D. 50.17.110.4 Va subito detto che Lenel, nella Palingenesia iuris civilis, pur se in modo dubitativo, separa, con il brano riprodotto in D. 26.8.17, i testi ora in esame dal precedente paragrafo 2 dello stesso titolo D. 50.17199. A me pare invece, anche sul base del dato contenutistico, che i tre frammenti possano considerarsi l’uno la continuazione dell’altro. Rudorff sosteneva che D. 50.17.110.3 in origine si atteggiasse a commento di quel medesimo dolo fecit cui ho riferito D. 50.17.110.2200. Se così fosse deve ritenersi che nel brano il giurista trattava dell’actio contro chi avesse impedito vadimonium sisti. Certo è fuor di dubbio che il frammento abbia carattere sibillino e che quel sufficit alterutrum esse factum sia di difficile spiegazione, ma l’interpretazione appena accennata sembra sposarsi bene sia con il brano supra illustrato sia con quanto si legge nel successivo paragrafo 4 ove il giurista mostra attenzione verso la posizione processuale delle donne. In particolare Paolo, affermando che succurrendum est, cum defendantur, stava forse originariamente trattando delle conseguenze del vadimonium desertum per la donna, che aveva bisogno dell’auctoritas del tutore. È vero che le limitazioni concernenti la capacità della donna di agire in giudizio risultano rigidamente ancorante allo schema dell’antico processo civile e quindi in larga parte superate in epoca classica201, e che, nell’ambito del processo formulare, l’ingerenza del tutore muliebre era limitata ai iudicia legitima, mentre restava esclusa nei iudicia quae imperio continentur202,

195 Lenel 1927, 83; allo stesso modo Rudorff 1869, 47, nt. 2. Per il titolo D. 2.10 che diventa de eo per quem factum erit quominus quis in iudicio sistat, v. ancora Lenel 1927, 83. 196 Cfr. Iul. 2 dig., D. 2.10.3pr.: Ex hoc edicto adversus eum, qui dolo fecit, quo minus quis in iudicium vocatus sistat, in factum actio competit quanti actoris interfuit eum sisti. in quo iudicio deducitur si quid amiserit actor ob eam rem: veluti si reus tempore dominium rei interim sibi adquirat aut actione liberatus fuerit. 197 Sul brano v. Buti 1984a, 360 s. Sul quantum actoris interfuit eum sisti, v., tra gli altri, Tafaro 1980, 110. 198 Lenel 1927, 83 e prima Rudorff 1869, 47, nt. 2. 199 Lenel 1889.I, 977 e Id. 1927, 83-84. 200 Rudorff 1869, 47, seguito nella romanistica meno risalente da Fernández Barreiro 1972, 52. 201 V., per tutti, Biscardi 1968, 207 ss. 202 Cfr., tra gli altri, Pugliese 1963, 299.

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Commento ma è altrettanto vero che l’intervento del tutore restava necessario nell’ipotesi della donna che si difendeva in qualità di convenuta, in quanto in tal caso dovevano ravvisarsi “i più evidenti e macroscopici presupposti concreti dell’intervento del tutore sul piano processuale, a salvaguardia delle sue aspettative ereditarie sul patrimonio della donna medesima”203. F. 83 – D. 26.8.17 Della medesima trattazione doveva far parte il brano conservato in D. 26.8.17, ove Paolo passa a parlare della tutela impuberum, dopo aver fatto appunto riferimento alla diversa tuela mulierum. La donna, almeno da una certa epoca, poteva rivolgersi al pretore, per ottenere la coercitio del consenso tutorio ad actum, mentre non poteva agire con actio tutelae204. Paolo invece qui spiega che il pretore non poteva costringere il tutore a prestare l’auctoritas, perché sarebbe stato ingiusto, sia se ciò fosse convenuto al pupillo sia in caso contrario, in quanto l’impubere sarebbe stato risarcito tramite actio tutelae205. Il tutore doveva infatti risarcire il pupillo, finita tutela, nel caso in cui il patrimonio di questi avesse subito un pregiudizio a causa della mancata auctoritas.

LIBRO VII

[Sui vadimoni (E. VII.17-24), 2] [Per quelle cause per le quali siano prestati i vadimoni con l’aggiunta di un collegio di giudici recuperatori (E. 24)] F. 84 – D. 48.6.9 La stringatezza del testo estrapolato dal suo contesto originario e collocato dai giustinianei sotto il titolo D. 48.6 ad legem Iuliam de vi publica rende difficile ricostruire l’occasione in cui il giurista severiano dichiarava che dovevano considerarsi armati tutti coloro che avevano un qualsiasi strumento idoneo a nuocere e non solamente qui tela habuerunt, così annoverando tra i casi di violenza pubblica l’uso di qualunque arma206.

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Così Zannini 1979, 58. Una voce fuori dal coro è stato Guzmán Brito 1976, 145 ss., il quale ha sostenuto, basandosi proprio su D. 26.8.17 che anche la mulier, almeno nel caso in cui il pretore fosse già intervenuto a favore della donna e il tutore insistesse a non autorizzare l’atto, potesse intentare l’azione di tutela. Tuttavia Guzmán Brito stesso precisa che questa è solo un’ipotesi, poiché, in effetti, l’actio tutelae era intentata dal pupillo finita tutela, perciò bisognerebbe pensare a degli escamotages che legittimassero la donna ad agire. 205 In generale sul tema v. Schilardi 2013 e Herrero Medina 2019 e per un accenno v. anche Sciortino 2009, 184. 206 Sul brano v. Longo 1970, 451 ss. Per un accenno v. anche Solidoro 1993, 174 ss. 204

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Sabrina Di Maria Nella sua ricostruzione dell’editto, Lenel riferisce il frammento in esame alla clausola edittale quibus ex causis vadimonia recuperatoribus suppositis fiant, che Paolo avrebbe appunto commentato nel settimo libro del suo ad edictum207. La spiegazione fornita dal giurista al termine armati induce infatti a pensare all’azione de damno vi hominibus armatis coactisve dato che era appunto un giudizio recuperatorio208. Nella Palingenesia iuris civilis, Lenel, seppur dubitativamente, inserisce il brano tra il principium e il paragrafo 1 di D. 50.16.14 (Lenel, F. 160)209, ma mi sembra che tale ricostruzione non possa essere seguita, apparendo più verosimile la sequenza di Krüger, ove il testo è collocato all’inizio del settimo libro210. Già Cuiacio aveva inserito il frammento prima di D. 50.16.14pr.-1 [F. 85 e F. 86]211, frammenti questi che, come vedremo infra, non appaiono suscettibili di essere separati, così come ad essi appare strettamente legato il brano conservato in D. 4.1.5 [F. 87]. F. 85, F. 86 – D. 50.16.14pr., D. 50.16.14.1 Nel principium del brano, Paolo richiama il parere di Labeone e Sabino per spiegare la significazione del verbo abesse212. Secondo le prescrizioni della clausola edittale quibus ex causis vadimonia recuperatoribus suppositis fiant, ci si sarebbe probabilmente dovuti impegnare a garantire l’esistenza della res oggetto del contenzioso e ciò in quanto l’aestimatio in sede processuale doveva riferirsi con precisione al valore del bene oggetto della lite quale si presentava al tempo di esperimento dell’azione213. La res, pertanto, non doveva essere “assente” prima del giudizio. In particolare, l’editto si riferiva all’ipotesi di assenza del bene a causa di furto (rem furto abesse)214 e il testo in esame commentava proprio il verbo abesse, ponendo in particolare l’accento sul valore dalla res, rilevando a tal proposito come l’identità materiale di essa non fosse sufficiente alla sua identificazione in termini giuridici215. In particolare il giurista, richiamando i due auctores precedenti, sottolinea, come fa anche Ulpiano nel brano che nei Digesta immediatamente precede quello in esame216, che la cosa oggetto di controversia doveva risultare presente nel suo valore, pertanto erano reputati assenti, pur se presenti fisicamente, un vesti-

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Cfr. Lenel 1927, 84 s. Sull’argomento v. di recente Lambrini 2019, 81 ss. 209 Cfr. Lenel 1889.I, 977, nt. 3. 210 Krüger 1905, 950. 211 Cfr. Cuaicius 1584, 163 ss. 212 Sulla citazione ad opera di Paolo della giurisprudenza precedente, v. ancora Luchetti 2018a, 37 ss. 213 Cfr. Lenel 1927, 84. 214 Lenel 1927, 85. 215 È noto il saggio sul valore delle cose di Thomas, Y. 2002, 1491 ss., pubblicato in lingua italiana nell’edizione 2015, a cura di M. Spanò, corredata dal saggio di G. Agamben. Sul pensiero dello studioso v. Mantovani 2014, 21 ss. e Schiavone 2014, 15 ss.; in argomento v. anche Brutti 2016, 9 ss. 216 Cfr. Ulp. 7 ad ed., D. 50.16.13.1-3: Res ‘abesse’ videntur (ut Sabinus ait et Pedius probat) etiam hae, quarum corpus manet, forma mutata est: et ideo si corruptae redditae sint vel transfiguratae, videri abesse, quoniam plerumque plus est in manus pretio, quam in re. 2. ‘desinere’ autem ‘abesse’ res tunc videtur, cum sic redit in potestatem, ne amittere eius possessionem possimus. 3. Ob hoc, quod furto pridem subtracta est, abest et ea res, quae in rebus humanis non est. Sul brano v., tra gli altri, Frunzio 2016, 145 ss. ed Ead. 2017, 143 ss, con ampio ragguaglio bibliografico. In particolare sul paragrafo 3, v., tra gli altri, anche Genovese 2007, 87 ss. 208

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Commento mentum scissum o una res corrupta o una tabula rasa pictura, in quanto il pretium di tali cose non consisteva in substantia, ma in arte217. Allo stesso modo recte dicitur res abesse nel caso in cui il proprietario acquistasse la cosa che gli era stata rubata ignorando che fosse la sua. Qui il riferimento è alla c.d. reversio in potestatem218 che, per i prudentes, non era intesa solo come recupero materiale dell’oggetto, ma anche come recupero giuridico, da parte del dominus, che fosse nelle condizioni di rivendicare l’oggetto o di riacquistarlo, dopo il furto, purché consapevolmente219. Il successivo paragrafo 1 conclude il discorso svolto nel principium. Paolo specifica che si considera amittere rem, ossia aver perso la cosa, colui che non possa esercitare l’azione reipersecutoria e pertanto quando è stata determinata l’absentia ai fini di una valutazione economico-giuridica220. F. 87 – D. 4.1.5 Il frammento contiene una specificazione di quanto affermato nel brano appena supra illustrato (D. 50.16.14.1 [F. 86]). Paolo, dopo aver affermato che la res è persa allorquando non si ha actio per perseguirla, aggiunge che però non può essere ritenuto exclusus dalla cosa, colui a favore del quale il pretore concede una restitutio in integrum. Pertanto colui che non ha più l’azione, per esempio perché è intervenuta l’usucapione di un terzo, può ottenere il ripristino dello status quo ante, grazie al provvedimento di reintegrazione221.

217 La dottrina si è occupata dei due passi sotto molteplici aspetti, soprattutto per la ricostruzione della disciplina della tabula picta, al fine di rinvenirvi spie di una nuova considerazione del lavoro artigianale e per una valutazione dell’elemento pretium a base delle soluzioni giurisprudenziali classiche; cfr. Melillo 1982, 401 ss. (= 2000, 115 ss.); successivamente cfr, inoltre, Plisecka 2011, specie 100 ss. Per ulteriori indicazioni bibliografiche, v. Frunzio 2016, 145 ss., e Ead. 2017, 143 ss. 218 Sull’introduzione della reversio in potestatem e la sua riferibilità alla lex Atinia del II sec. a.C., v. quanto lo stesso Paolo rileva in un altro punto del suo ad edictum, Paul. 54 ad ed., D. 41.3.4.6: Quod autem dicit lex Atinia, ut res furtiva non usucapiatur nisi in potestatem eius, cui subrepta est revertatur, sic acceptum est ut in domini potestatem debeat reverti, non in eius utique, cui subreptum est. Igitur creditori subrepta, et ei cui commodata est, in potestatem domini redire debet. Sul brano v. Borgna 1897, 86; Albanese 1961b, 28 ss. (= 1991, I 185 ss.); Formigoni 1996, 120, nt. 61; Ankum 2006, 20 ss.; Frunzio 2014, 1 ss. 219 Sull’argomento v. in specie Nicosia 1960a, 253 ss.; Albanese 1966, 19 ss. (= 1991, I 407 ss.); più di recente v. Frunzio 2014, 1 ss. 220 Cfr. sul punto Thomas, Y. 2015, 22. Come è stato giustamente notato in dottrina, anche di recente, “il tenore di entrambi i brani viene ritagliato sulla posizione giuridica del proprietario che addirittura perde il suo bene nell’ipotesi tipica del furto e non può rivendicarlo, perché incapace ormai di rintracciarlo né di aver consapevolezza del suo recupero” (così Frunzio 2016, 5). 221 Sull’argomento v., tra gli altri, Cervenca 1965.

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Fabiana Mattioli

LIBRO VIII

[Sui cognitori, sui procuratori e sui difensori (E. VIII.1)] [Sui cognitori]

La ricostruzione del tessuto espositivo dell’ottavo libro del commentario di Paolo in cui si iniziava la trattazione del titolo edittale dedicato a cognitores, procuratores e defensores222, benché non evidenzi particolari difficoltà sul piano strettamente palingenetico, è resa almeno a tratti faticosa dalla cancellazione, operata dai giustinianei, della menzione del cognitor, originariamente inserita nei nostri testi, ma sistematicamente sostituita con quella, per loro ancora attuale, del procurator (e nello specifico del procurator ad litem)223. La circostanza, se non crea particolari problemi nell’individuazione dei passi che nella loro stesura originaria facevano riferimento al cognitor, rende però non pienamente affidabile l’utilizzazione dell’ordine Bluhme-Krüger per la ricostruzione di quanto rimane del testo paolino224 a fronte della contestuale tendenza dei compilatori a mescolare, nella specifica sedes materiae di D. 3.3 de procuratoribus et defensoribus, le trattazioni, originariamente separate e distinte, relative ai cognitores e ai procuratores (e al commento dei relativi editti), trattazioni che conseguentemente, nella raccolta di iura, vengono spesso a fondersi e, sia pure solo nell’apparenza determinata dai giustinianei, a confondersi225.

222 Sul punto cfr. Lenel 1889.I, 977 ss. Sulla rubrica del titolo, ricostruita sulla base di quella di D. 3.3 de procuratoribus et defensoribus, v. Id. 1889.II, 447, 449 e 1249. Cfr. anche Id. 1927, 86. Diversamente Rudorff 1869, 47 ss., che ipotizzava piuttosto un titolo edittale (nella sua ricostruzione il settimo) caratterizzato dalla rubrica de iis per quos agere possumus. Tale titolo sarebbe stato oggetto della trattazione paolina fino al libro decimo compreso (includendo dunque anche l’editto de calumniatoribus, v. ibidem, 54-55). Si tratta in ogni caso di una parte dell’editto specificamente dedicata ai rappresentanti processuali (o se si preferisce ai sostituti processuali): sul punto e per l’inadeguatezza di queste categorie moderne a qualificare la posizione di chi stava in giudizio per altri nel processo formulare cfr. le osservazioni, sempre attuali, di Pugliese 1963, 318 ss. 223 Sull’evoluzione storica della figura del cognitor e sulla sua definitiva scomparsa in età giustinianea si è soffermato, nella letteratura recente, Marrone 2010, 305 ss. (= 2009, 123 ss. [= 2015, III 115 ss.]). Per un rapido accenno v. anche Id. 2009, 285, nt. 87 (= 2010, 218, nt. 87 [= 2015, III 168, nt. 87]). Sul cognitor v. anche, in generale, Kaser, Hackl 1996, 210 ss. Più in generale, sul dibattito dottrinale riguardo alla figura del procurator ad litem, un tempo ritenuta estranea al diritto romano classico, cfr. nella letteratura recente la rapida disamina fornita da Briguglio 2007, 5, nt. 5; sul punto v. anche Miceli 2008, 218 ss., nonché, brevemente, Scevola 2012, 352, nt. 67. 224 Per l’importanza fondamentale dell’ordine Bluhme-Krüger nella ricostruzione palingenetica dei commentari ad edictum v. Luchetti 2018b, 93 ss. Peraltro, come si vedrà, nel caso specifico l’indagine e le scelte ricostruttive non si basano esclusivamente su criteri contenutistici, ma su un dato formale che contribuisce a renderle maggiormente attendibili: si tratta del fatto che dalle fonti a nostra disposizione possiamo ragionevolmente ritenere che alla trattazione dedicata ai cognitores e agli editti che li riguardavano fosse dedicato l’ottavo libro di entrambi i commentari, con l’aggiunta di una coda in quello ulpianeo che sconfinava nel nono. 225 Va comunque osservato che in gran parte i frammenti paolini inseriti nel titolo della raccolta di iura provengono dall’ottavo libro del commentario edittale (cfr. D. 3.3.2 [F. 89], D. 3.3.4 [F. 90], D. 3.3.11 [F. 99], D. 3.3.14 [F. 100], D. 3.3.16 [F. 102], D. 3.3.20 [F. 103], D. 3.3.22 [F. 104], D. 3.3.24 [F. 105], D. 3.3.26 [F. 106], D. 3.3.32 [F. 91], D. 3.3.36 [F. 101], D. 3.3.42 [F. 94]) e solo tre dal nono (cfr. D. 3.3.41 [F. 109], D. 3.3.43 [F. 110 e F. 111], D. 3.3.45 [F. 112]). Si può aggiungere che un testo proviene invece dal sesto libro (si tratta di quello conservato in D. 3.3.6 [v. supra, F. 73, 122 s.]), mentre alcuni altri provengono da libri successivi, cfr. Paul. 54 ad ed., D. 3.3.49; Paul. 57 ad ed., D. 3.3.52; Paul. 50 ad ed., D. 3.3.54; Ulp. 71 ad ed., D. 3.3.58; Paul. 57 ad ed., D. 3.3.77.

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Commento Lo sforzo di ricostruzione è reso per certi aspetti anche più complesso dal fatto che in tale titolo, e soprattutto nella parte dell’ottavo libro dedicata agli editti sui cognitores, lo “scheletro” espositivo, come di norma costituito da testi tratti dal commentario ulpianeo, viene frequentemente integrato (anche più di quanto accada di norma) attraverso l’innesto di testi assai brevi, talvolta di pochissime parole, tratti dal commentario di Paolo226. Si pone quindi anche un problema di ricostruzione contenutistica che, per la talvolta diversa contestualizzazione originaria dei passi messi a profitto dai compilatori, solo in parte (e comunque con molta cautela) può essere risolto ponendo i frammenti di Paolo in relazione con i passi ulpianei che con essi furono artificiosamente “saldati” all’atto della compilazione del Digesto227. Si spiegano soprattutto attraverso questa chiave di lettura alcuni scostamenti dall’ordine Bluhme-Krüger con riferimento a testi (mi riferisco a D. 3.3.32 [F. 91], a D. 3.3.36 [F. 101] e a D. 3.3.42 [F. 94]) che evidentemente vennero ricollocati dai compilatori, piuttosto sulla base di criteri di tipo contenutistico, in un contesto da loro ampiamente riformulato. Va precisato che questo ampio ripensamento di tipo sistematico, che coinvolge, come si è rilevato, in pratica l’intero titolo della raccolta di iura, rende complessa la ricostruzione dell’originaria scansione espositiva dei commentari soprattutto per quanto riguarda la parte iniziale della trattazione dedicata da Paolo ai cognitores e agli editti che li riguardavano. Ciò rilevato – e nonostante non si possa escludere la possibilità di ricostruzioni almeno in parte diverse – sembra tuttavia ragionevole ritenere, a fronte di un attento e ponderato riesame delle fonti, che alla trattazione dei singoli editti (qui ne dent cognitorem [E. 25], qui ne dentur cognitores [E. 26], de cognitore ad litem suscipiendam dato [E. 27] e de cognitore abdicando vel mutando [E. 28]) fosse premessa, nel commentario di Paolo, un’ampia parte introduttiva dedicata principalmente all’individuazione delle modalità di designazione del cognitor, nonché, fra l’altro, ai casi in cui tale designazione risultasse possibile o invece, al contrario, non lo fosse228. F. 88 – Vat. 319 Più precisamente di questa parte iniziale della trattazione doveva innanzi tutto far parte il testo paolino conservato in Vat. 319 che risulta strettamente connesso al frammento ulpianeo,

226 In questo senso si vedano, per quanto riguarda i frammenti tratti dai libri iniziali (e particolarmente dall’ottavo), D. 3.3.4 [F. 90], D. 3.3.6 [F. 73] (che, come abbiamo visto, proviene dal sesto), D. 3.3.11 [F. 99], D. 3.3.20 [F. 103], D. 3.3.22 [F. 104], D. 3.3.24 [F. 105] e D. 3.3.26 [F. 106]. Analoga sorte tocca altrettanto frequentemente ai frammenti del commentario ad edictum paolino tratti da libri successivi, cfr. Paul. 54 ad ed., D. 3.3.49; Paul. 57 ad ed., D. 3.3.52 e Paul. 57 ad ed., D. 3.3.77. 227 Si deve infatti notare che almeno parte dei testi ulpianei cui vengono saldati frammenti di Paolo o che comunque a essi vengono preposti si occupavano piuttosto del procurator, cfr. Ulp. 9 ad ed., D. 3.3.1; Ulp. 9 ad ed., D. 3.3.3; Ulp. 9 ad ed., D. 3.3.31.1-2 e Ulp. 9 ad ed., D. 3.3.35. Sul punto v. Lenel 1889.II, 450 s. e 452 s., Ulp. 320-321 e 334-335. Un caso particolare è quello della sequenza paolina D. 3.3.41-43 in cui il frammento 42, tratto dall’ottavo libro (e riferibile al cognitor), è incuneato, come meglio vedremo, fra due frammenti tratti dal nono (e dunque riguardanti piuttosto la trattazione degli editti sui procuratori). 228 Sul punto già esplicitamente Lenel 1927, 87, che ipotizza che l’esistenza di questa parte introduttiva (e di quella analoga dedicata ai procuratores, preposta ai relativi editti) caratterizzasse entrambi i due grandi commentari all’editto di Ulpiano e di Paolo, così come, in precedenza, il commentario di Gaio all’editto provinciale. Quanto alle rubriche degli editti seguo quelle proposte da Lenel 1927, 89-94, che in un caso differiscono da quelle proposte in Id. 1889.I, 978 in cui alla rubrica de cognitore ad litem suscipiendam dato si sostituisce quella ut cognitor iudicium accipere cogatur (E. 27), rubrica che peraltro Lenel curiosamente non riproduce né nella ricostruzione del commentario ulpianeo, né nell’Edicti perpetui rubricarum index, cfr. Lenel 1889.II, 449 e 1249.

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Fabiana Mattioli tratto dall’ottavo libro del commentario all’editto, che immediatamente lo precede229. I due testi contigui conservatici nei Fragmenta Vaticana hanno evidentemente la funzione di precisare, in un contesto appunto introduttivo, che la datio di un cognitor non implicava l’uso di tassative formule solenni (in questo senso non doveva avvenire ‘certis verbis’ e ciò perché le formule di designazione del cognitor ammettevano comunque delle modifiche e cioè che qualcosa venisse aggiunto o tolto)230 e che anzi, come afferma Paolo nel nostro frammento, era ritenuto pacifico che la datio cognitoris potesse avvenire anche ‘Graecis verbis’231. F. 89, F. 90 – D. 3.3.2, D. 3.3.4 Ulteriori testimonianze paoline rivolte, probabilmente nello stesso contesto, a precisare alcune modalità della datio cognitoris, si riscontrano nella parte iniziale di D. 3.3. In particolare

229 Cfr. Vat. 318: Ulpianus libro VIII ad edictum. Non tamen sic putat certis verbis cognitorem dari debere, ut, si quid fuisset adiectum vel detractum, non valeat datio ut in legis actionibus. Correttamente Lenel pone entrambi i frammenti nella parte iniziale delle due rispettive trattazioni dedicate al cognitor. Il frammento ulpianeo nella ricostruzione leneliana risulta tuttavia preceduto da D. 46.2.17 (cfr. Lenel 1889.II, 447, rispettivamente Ulp. 301 e 302). Peraltro, secondo la ricostruzione dell’autore tedesco, sarebbero relativamente pochi i frammenti superstiti di questa parte iniziale della trattazione ulpianea dedicata al cognitor: oltre ai due testi già citati, Lenel vi colloca infatti solo D. 3.4.2 (Lenel, Ulp. 303) e D. 12.3.7 (Lenel, Ulp. 304). 230 Così dice il testo ulpianeo. Tuttavia Gaio facendoci conoscere le formule della costituzione del cognitor sembra dirci il contrario affermando che la datio cognitoris avveniva, diversamente da quanto afferma Ulpiano, ‘certis verbis’, cfr. Gai. 4.83: Cognitor autem certis verbis in litem coram adversario substituitur. nam actor ita cognitorem dat ‘quod ego a te’ verbi gratia ‘fundum peto, in eam rem Lucium Titium tibi cognitorem do’; adversarius ita ‘quia tu a me fundum petis, in eam tibi Publium Mevium cognitorem do’. potest ut actor ita dicat ‘quod ego tecum agere volo, in eam rem cognitorem do’, adversarius ita ‘quia tu mecum agere vis, in eam rem cognitorem do’… V. anche Gai. 4.97: Ac nec si per cognitorem quidem agatur, ulla satisdatio vel ab ipso vel a domino desideratur. cum enim certis et quasi sollemnibus verbis in locum domini substituatur cognitor, merito domini loco habetur. Le testimonianze di Gaio e di Ulpiano, per quanto apparentemente contraddittorie (Gaio sembra richiedere i certa verba che invece Ulpiano esclude), segnano al più una progressiva deformalizzazione della datio cognitoris. La composizione del contrasto si può vedere nell’uso del quasi in Gaio (et quasi sollemmnibus verbis) e nel riferimento alle legis actiones in Ulpiano: insomma la solennità dei verba non si spingeva fino al formalismo delle legis actiones. Per Ulpiano ciò bastava ad affermare che la datio cognitoris non avveniva ‘certis verbis’, laddove Gaio, evidentemente più legato al passato – e all’origine storica della datio cognitoris, quasi certamente risalente nelle sue prime applicazioni, benché forse solo in presenza di certae causae, proprio al processo per legis actiones (cfr. in questo senso, per tutti, Marrone 2010, 311 e 318 ss. [= 2009, 128 e 134 ss. (= 2015, III 118 e 123 ss.)]) – sottolineava piuttosto la solennità della formula (e in questo senso parlava di ‘certis verbis’). 231 Sull’uso del greco nella datio cognitoris v., con specifico riguardo al nostro testo, Wacke 1993, 54. Per un accenno cfr. anche Voß 1980, 239 e nt. 136, con riferimento in generale all’utilizzazione della lingua greca negli atti negoziali e processuali. Il momento della datio cognitoris, che avveniva in presenza della controparte, va conseguentemente collocato, secondo la dottrina maggioritaria, non prima dell’inizio del processo, sul punto v. in specie Pugliese 1963, 327 (che ritiene che le due formule prospettate da Gaio si riferissero a due momenti diversi in cui poteva avvenire la datio cognitoris e cioè nel primo caso al momento della litis contestatio, nel secondo appunto al momento delle procedure di avvio del processo, eventualmente già prima della fase in iure), nonché, con un ampio esame dell’intera questione e della letteratura precedente, Zabłocka 1983-84, 140 ss., che a sua volta ritiene che la datio cognitoris non potesse essere compiuta prima dell’in ius vocatio. Nello stesso ordine di idee, in relazione alla testimonianza ricavabile da TPSulp. 27 = TP. 66 + 113, Camodeca 1992, 105 ss., ha da parte sua ritenuto di poter affermare (e, rispetto all’orientamento della migliore dottrina, sostanzialmente confermare) che nella prassi la datio cognitoris avveniva già al momento dell’edictio actionis stragiudiziale (per altra letteratura sul punto v. l’ampio quadro bibliografico fornito da Marrone 2010, 322 s., nt. 47 [= 2009, 138, nt. 47 (= 2015, III 126 s., nt. 47)]). Rimane isolata – e non adeguatamente dimostrata – la posizione di Rozwadowski 1973, 27 ss. e 34 ss., che ha invece avanzato l’ipotesi della possibilità di costituire un cognitor per un processo futuro.

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Commento si tratta di due passi (D. 3.3.2 e 4) che vengono a innestarsi su un tessuto ulpianeo costituito da due testi tratti dal nono libro del commentario all’editto del giurista di Tiro (D. 3.3.1 e 3) che, benché riguardanti piuttosto i procuratores – di cui l’opera ulpianea si occupava nella seconda parte del libro dopo aver terminato la trattazione degli editti cognitori, soffermandosi anzitutto su alcuni aspetti generali in forma di premessa – furono ciò nonostante anteposti dai giustinianei232. Costoro, eliminata la figura del cognitor, unificarono, come abbiamo già accennato, la trattazione originariamente divisa nell’editto e nelle trattazioni edittali, intrecciando le testimonianze ulpianee relative al procurator con quelle paoline che, per la collocazione nell’ottavo libro, dovevano originariamente riguardare invece la datio cognitoris. Nella raccolta di iura il primo testo (D. 3.3.2) si ricollega direttamente a quello che immediatamente lo precede e in cui si affermava che poteva esser nominato procuratore anche un assente (Ulp. 9 ad ed., D. 3.3.1.3: Dari autem procurator et absens potest)233. Paolo precisa che la nomina dell’assente come cognitor avrebbe comunque implicato l’individuazione di una persona certa e la necessità della ratifica da parte di quest’ultima, aggiungendo che la stessa regola non si sarebbe potuta applicare in nessun caso per il furiosus e ciò quia in eo animus deest, facendo quindi riferimento all’ovvia impossibilità di quest’ultimo di ratificare234.

232 Sulla catena di testi collocati in D. 3.3.1-4, posti dai compilatori giustinianei all’inizio del titolo a mo’ di introduzione e pertanto al di fuori del rigoroso rispetto dell’ordine Bluhme-Krüger in relazione ai successivi D. 3.3.5-7, v. in particolare le osservazioni di Honoré 1973, 271 ss. e 286, con ampi rilievi critici rispetto alle indicazioni dello stesso Krüger relativamente agli spostamenti di singoli testi o di catene di testi (“displacements”) compiuti dagli editori del Digesto. 233 Lo stesso valeva per il cognitor, cfr. Gai. 4.83, in fine: …nec interest, praesens an absens cognitor detur; sed si absens datus fuerit, cognitor ita erit, si cognoverit et susceperit officium cognitoris. Sul punto v., fra gli altri, Bürge 1989, 283 ss. Per la nomina del cognitor era dunque necessaria la presenza di entrambe le parti (anche quella della controparte, coram adversario dice Gai. 4.83 [v. supra, nt. 230]), ma non quella del designato. Non era infatti ammesso, a differenza di quanto avveniva per il procurator, che venisse dato da un assente come precisa anche Festo (cfr. Fest., v. cognitor [Lindsay, 49]: Cognitor est, qui litem alterius suscepit coram ab eo, cui datus est. Procurator autem absentis nomine actor fit). Sul punto, anche con riferimento alla testimonianza di Isidoro, che sembrerebbe contraddire le altre fonti in nostro possesso, richiedendo anche la presenza del cognitor oltre a quella delle parti (cfr. Isid., diff. 1.430 (123): …cognitor non nisi praesens a praesente prasenti datur…), v. Pugliese 1963, 328 e nt. 63 (che giustamente, contro una parte della dottrina, ritiene complessivamente coerenti le testimonianze di Gaio e di Festo, considerato che quest’ultimo intenderebbe in particolare evidenziare che la designazione del cognitor richiedeva, a differenza di quella del procurator, la presenza del costituente), nonché, successivamente, sostanzialmente nello stesso ordine di idee, Rozwadowski 1973, 35 e nt. 37. 234 La ratifica del cognitor assente è, come abbiamo visto, esplicitamente richiesta anche da Gai. 4.83 (…si cognoverit et susceperit officium cognitoris). Sull’esclusione dell’equiparazione furiosus-assente in D. 3.3.2.1 v. brevemente Lambrini 1999, 329, nt. 44. La precisazione non era inopportuna perché l’avvicinamento del furiosus all’absens o comunque l’idea di ritenere il furiosus absentis loco si riscontra in altre fonti, cfr. Ulp. 35 ad ed., D. 26.4.5.2: ...vel absentes vel furiosos esse...; Iul. 37 dig., D. 29.7.2.3: Furiosus non intellegitur codicillos facere, quia nec aliud quicquam agere intellegitur, cum per omnia et in omnibus absentis vel quiescentis loco habetur; Paul. 16 ad ed., D. 50.17.124.1 [F. 202]: Furiosus absentis loco est et ita Pomponius libro primo epistularum scribit (sul testo v. infra, 277 s.). Altrove si dice che il furiosus non può considerarsi praesens in quanto non ha la capacità di capire, cfr. Flor. 10 inst., D. 50.16.209: ‘Coram Titio’ aliquid facere iussus non videtur praesente eo fecisse, nisi is intellegat: itaque si furiosus aut infans sit aut dormiat, non videtur coram eo fecisse. Scire autem, non etiam velle is debet: nam et invito eo recte fit quod iussum est. V. anche Pomp. 16 epist., D. 50.16.246pr.: Apud Labeonem pithanon ita scriptum est: exhibet, qui praestat eius de quo agitur praesentiam. nam etiam qui sistit, praestat eius de quo agitur praesentiam, nec tamen eum exhibet: et qui mutum aut furiosum aut infantem exhibet, non potest videri eius praestare praesentiam: nemo enim ex eo genere praesens satis apte appellari potest.

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Fabiana Mattioli Quanto alle modalità di designazione del procurator il testo seguente precisa la possibilità che costui potesse essere nominato anche ad litem futuram o con l’indicazione di un termine iniziale o finale o sotto condizione (Ulp. 9 ad ed., D. 3.3.3: Item ad litem futuram et in diem et sub condicione et usque ad diem dari potest). Il successivo frammento paolino (D. 3.3.4) che su di esso si innesta, sottolineando nel contesto giustinianeo l’ampio spettro di modalità relative alla designazione di coloro che stavano in giudizio per altri, precisa altresì, anche in questo caso con riferimento originario alla figura del cognitor, che la nomina poteva – ma, nel caso del cognitor, secondo quanto si deve certamente ritenere, doveva – avvenire senza l’indicazione di un termine, e quindi in perpetuum, cioè senza alcun limite di tempo, ovviamente in relazione all’attività giudiziale cui la datio cognitoris si riferiva235. F. 91 – D. 3.3.32 Della possibilità che venissero nominati contemporaneamente più cognitores si occupa invece, inserito più avanti nello stesso titolo del Digesto, un altro testo di Paolo, che fa seguito anche questa volta a un frammento ulpianeo che tuttavia si era invece riferito alla nomina successiva di due procuratores, circostanza che, secondo l’opinione di Giuliano menzionata nel passo attribuito al giurista di Tiro, avrebbe implicato con la nuova nomina la revoca della precedente236. Il nostro testo, per la sua collocazione nella raccolta di iura, si pone evidentemente al di fuori dell’ordine Bluhme-Krüger, essendo posposto ai frammenti che nello stesso titolo si occupano dei singoli editti relativi ai cognitores e non potendo essere ricondotto, a quanto si deve ragionevolmente ritenere, alla trattazione dell’editto de cognitore abdicando vel mutando (E. 28), cui, come vedremo, si riferiscono i frammenti che immediatamente lo precedono237. Il testo di D. 3.3.32, continuando piuttosto a occuparsi delle modalità della datio cognitoris, prevedeva invece specificamente che, nel caso di nomina congiunta (in solidum) di più cognitores, dovesse essere preferita la condizione di quello che dopo la designazione (evidentemente avvenuta in sede stragiudiziale al momento dell’editio actionis e della relativa in ius vocatio) per primo avesse dato corso all’azione presentandosi in iure (in questo senso va in-

235 Sembrerebbe dunque che D. 3.3.4, per quanto posto dai compilatori in un rapporto di continuità con quanto affermato in D. 3.3.3, esprimesse riguardo al cognitor una regola opposta a quelle espresse dal testo ulpianeo per il procurator. Non era infatti nemmeno possibile dare un cognitor sotto condizione, cfr. Papin. 2 resp., Vat. 329: Sub condicione cognitor non recte datur, non magis quam mancipatur aut acceptum vel expensum fertur; nec ad rem pertinet, an ea condicio sit inserta, quae non expressa tacite inesse videatur. Sembrerebbe perciò doversi ritenere che la datio cognitoris fosse del tutto assimilata a un actus legitimus, circostanza che pare avvalorata dall’avvicinamento, operato da Papiniano, con la mancipatio, la acceptilatio e l’expensilatio. Secondo una dottrina ampiamente maggioritaria la datio cognitoris non poteva neppure avvenire ad litem futuram: v. supra, nt. 231. 236 Cfr. Ulp. 9 ad ed., D. 3.3.31.2: Iulianus ait eum, qui dedit diversis temporibus procuratores duos, posteriorem dando priorem prohibuisse videri. Il testo, secondo la ricostruzione leneliana, rientrerebbe in una trattazione introduttiva dedicata dal giurista severiano ai procuratores (Lenel 1889.II, 450 s.) e seguirebbe insieme al paragrafo 1 dello stesso frammento ulpianeo riprodotto in D. 3.3.31 (Lenel, Ulp. 321) i due, già ricordati frammenti, collocati in D. 3.3.1 e 3 (Lenel, Ulp. 320). 237 Mi riferisco in particolare, nell’ambito del commentario paolino, a D. 3.3.20 [F. 103], D. 3.3.22 [F. 104], D. 3.3.24 [F. 105] e D. 3.3.26 [F. 106], che costituiscono un insieme di frammenti che più da vicino precedono il nostro testo e che tutti vanno appunto inseriti a commento dell’editto de cognitore abdicando vel mutando (E. 28) (v. infra, 147148). A commento dello stesso editto erano posti anche i frammenti tratti dal commentario ulpianeo immediatamente precedenti a D. 3.3.32: cfr. in proposito D. 3.3.27, D. 3.3.29 e D. 3.3.31pr. (cfr. Lenel 1889.II, 450, Ulp. 315-319).

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Commento terpretata nel nostro contesto l’espressione occupantis melior condicio erit), senza che la sua posizione potesse essere pregiudicata (e con la sua quella del convenuto) dal fatto che un altro nominato avesse nuovamente provveduto a dar seguito all’azione per la stessa causa (questo il significato da attribuire alla chiusa ut posterior non sit in eo quod prior petit [procurator] )238. F. 92, F. 93 – D. 47.23.5, D. 47.23.1 Nello stesso contesto si doveva altresì prevedere che la nomina di un cognitor in talune circostanze non fosse possibile. Più precisamente in D. 47.23.5 si afferma che nelle azioni popolari un cognitor poteva essere dato solo nel caso in cui si fosse convenuti, essendo escluso che la datio cognitoris avvenisse invece da parte di chi intentava, in qualità di attore, un actio popularis (Qui populari actione convenietur, ad defendendum [procuratorem] dare potest: is autem, qui eam movet, [procuratorem] dare non potest)239. La precisazione forniva l’occasione di spiegare sinteticamente quale fosse lo scopo perseguito attraverso la previsione delle azioni popolari che, si dice, erano appunto quelle con cui si tutelava il ‘suum ius populi’. La riflessione paolina sulla funzione di tali azioni (Eam popularem actionem dicimus, quae suum ius populi tuetur), benché certamente espressa in un contesto specifico e appunto posta in stretta relazione con l’enunciazione relativa all’esclusione della possibilità di nominare un co-

238 Sul testo v. in particolare le osservazioni di Bürge 1989, 280 s., che evidenzia giustamente come l’affermazione della regola occupantis melior condicio erit si risolvesse anche a vantaggio del convenuto che non poteva essere chiamato a rispondere due volte. Il testo paolino viene dunque inserito dai compilatori a fianco dei paragrafi 1 e 2 del frammento ulpianeo che lo precede per fornire una serie di regole applicabili nel caso di nomina di una pluralità di soggetti destinati a stare in giudizio per conto altrui (nel caso dei giustinianei specificamente di una pluralità di procuratori). In sequenza si afferma dunque anzitutto che era possibile nominarne più di uno (D. 3.3.31.1), poi che, nel caso di nomina in tempi successivi, la nuova nomina avrebbe comportato la revoca di quella precedente (D. 3.3.31.2). Seguiva infine il nostro testo che, nel contesto della raccolta di iura, riferito alla nomina contemporanea di più procuratori, affermava la priorità di chi avesse per primo intentato l’azione (in questo senso, anche nel significato attribuito al testo dai giustinianei, appare chiaro il riferimento al prior petere) (D. 3.3.32). 239 Sul punto cfr. anche Paul. 8 ad ed., D. 3.3.42pr. [F. 94], su cui v. subito infra, nel testo. Il divieto di nominare un cognitor per agire nelle azioni popolari risulta sostanzialmente confermato da Vat. 340a (Lenel 1889.II, 1234, Frag. incerta 26 [Ulp. 9 ad ed.?]: Actio popularis cognitorem procuratoremve eius qui agit non nisi post litem contestatam admittit. È appena il caso di precisare che in questo caso il riferimento al cognitor che sarebbe stato ammesso post litem contestatam riguarda necessariamente una translatio iudicii in cognitorem; il cognitor infatti non poteva essere nominato dopo la litis contestatio perché il suo nome doveva essere indicato nella formula come destinatario della condemnatio). Riguardo all’impossibilità del cognitor di essere designato nelle azioni popolari la dottrina ha fornito diverse spiegazioni. Seguendo la ricostruzione proposta da Mommsen 1855, 461 ss. (= 1905, I 269 ss.), la ragione dell’impossibilità di nominare un cognitor, o più genericamente un soggetto destinato a stare in giudizio al proprio posto, risiederebbe nella particolare natura dell’azione popolare: la nomina di altri sarebbe infatti preclusa a chi è già a sua volta legittimato attivamente in rappresentanza del popolo. Rimanendo alla letteratura ottocentesca, v. anche Bruns 1864, 341 ss. (= 1882, I 313 ss. [= 19 ss.]), che ha, invece, ricollegato il divieto in esame alla testimonianza di Ulp. 6 ad ed., D. 50.16.12pr., secondo cui: ...ex populari causa, ante litis contestationem recte dicetur creditoris loco non esse, postea esse. In questo senso, v. anche Fadda 1894, 142 ss. e successivamente, nella letteratura del XX secolo, Gandolfi 1955, 60 e nt. 84. Per una diversa interpretazione, cfr. tuttavia Casavola 1958, 113 ss., che, valorizzando la spiegazione contenuta in Sch. 1 a Bas. 60.32.9 (= Scheltema, Holwerda, van der Wal, B IX, 3622), ricollega il divieto alla “irrappresentabilità di interessi individuali egualmente presenti in ogni singolo cittadino” (ibidem, 124). Sulla questione, v. anche brevemente Scevola 2012, 359 e nt. 69. Più in generale, sulle caratteristiche delle azioni popolari, cfr., per un quadro di sintesi, Gutiérrez-Masson 1994, 739 ss., nonché, successivamente, Miglietta 2009, 694 ss. e Giagnorio 2012, 1 ss.

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Fabiana Mattioli gnitor, assunse peraltro un rilievo del tutto nuovo in relazione alla scelta dei giustinianei di porla in apertura del titolo 47.23 de popularibus actionibus della raccolta di iura, così evidenziandone e anzi, direi, esaltandone, nella loro trattazione, la valenza definitoria240. F. 94 – D. 3.3.42 Peraltro il divieto di nominare un cognitor quando si agisse con un’azione popolare non trovava applicazione nei casi in cui si potesse pur sempre scorgere nell’esercizio dell’azione uno specifico interesse privato. Lo si rileva in D. 3.3.42, un testo assai articolato (e l’unico di una certa estensione tratto dall’ottavo libro) che, nella collocazione datagli dai compilatori, si pone a sua volta evidentemente al di fuori dell’ordine Bluhme-Krüger, incuneato com’è, ratione materiae, fra altri due frammenti paolini tratti dal nono libro che, nell’ambito della trattazione dedicata non più ai cognitores, ma alle altre categorie di coloro che stavano in giudizio per altri, erano, come meglio vedremo, posti a commento dell’editto quibus alieno nomine, item per alios agere non liceat (E. 30)241. Nel principium Paolo, in stretta connessione con quanto detto in precedenza, vi affermava appunto che, sebbene non potesse essere nominato un cognitor per l’esercizio di un’azione po-

240 L’ordine logico dei due frammenti tratti dal titolo 47.23 del Digesto è plausibilmente quello suggerito da Lenel 1889.I, 977. Li inverte Krüger 1905, 897, seguendo l’ordine del Digesto, ma senza peraltro considerare il fatto che la definizione di actio popularis, dato il contesto, non poteva altro che intervenire in connessione (e in un rapporto di successione) rispetto alla questione della possibilità o meno di nominare, appunto nelle actiones populares, un cognitor. Sull’interesse tutelato da tali azioni, che non va considerato come un interesse collettivo, ma intendendo piuttosto il riferimento al populus (la definizione paolina sembra voler affermare che le actiones populares erano volte alla tutela del ius populi, inteso quale diritto proprio del popolo) come riguardante “l’empirico insieme degli individui che popolano la città e che rivendicano come ius suum il riconoscimento e la tutela di interessi, non ricompresi nella res familiaris ed estranei alla res publica, ma posti dall’ambiente comune in cui si svolgono le loro individuali e quotidiane attività” v. Casavola 1958, 18. Peraltro, come ha ben visto lo stesso autore, ibidem, 102, la definizione paolina ha una valenza sul piano storico-sociale piuttosto che su quello tecnico e in questo senso non pare che possa esserne messa in discussione la sostanziale autenticità (v. ancora Casavola 1958, 97). Semmai si potrebbe ipotizzare che il testo sia stato in qualche modo accorciato, sul punto, anche con riferimento alle possibili emendazioni proposte dalla dottrina più antica, cfr. Danilović 1974, 21 ss. e ntt. 21 e 23. La questione rimane in ogni caso difficile da definire considerando sia il contesto particolare in cui la definizione paolina era inserita, sia l’estrema brevità del testo che ci è stato conservato. 241 Su D. 3.3.41 [F. 109] e D. 3.3.43 [F. 110 e F. 111], che nella sua seconda parte, a partire dal paragrafo 2, è tuttavia posto a commento dell’editto de defendendo eo, cuius nomine quis aget et de satisdando (E. 32, ma a mio avviso E. 31, cfr, infra, 149 e nt. 272) v. ampiamente infra, 151 s. e 152 ss. Si tratta dei due dei tre testi tratti dal nono libro inseriti in D. 3.3 de procuratoribus et defensoribus. Il terzo è D. 3.3.45 [F. 112] (a sua volta posto a commento dell’editto de defendendo eo, cuius nomine quis aget et de satisdando, v. infra, 155 s.). È forse interessante notare che la composizione del titolo del Digesto è, quanto al commentario di Paolo, prevalentemente formata da frammenti tratti dall’ottavo libro e quindi dedicati originariamente al cognitor e agli editti che lo riguardavano. Qualcosa di simile accade, con esclusione dei frammenti iniziali (mi riferisco a D. 3.3.1 e 3 su cui v. supra, 135 s.), anche per il commentario ulpianeo, sia pure in maniera forse meno accentuata. Nel commentario del giurista di Tiro lo spartiacque fra la trattazione dedicata agli editti cognitori e quella che aveva per oggetto gli editti riguardanti i procuratores (o comunque coloro che stessero in giudizio per altri) è posto nel nono libro e, a quanto pare, più precisamente, guardando al Digesto, fra i singoli paragrafi di D. 3.3.31 (cfr. Lenel 1889.II, 450 s., Ulp. 319 e 321). Successivamente, tratti dalla trattazione ulpianea dedicata ai procuratores e ai relativi editti, sono D. 3.3.33, D. 3.3.35, D. 3.3.37, D. 3.3.39 e D. 3.3.40, tutti, salvo la parte iniziale di D. 3.3.33 (fino al paragrafo 1), riferibili, secondo Lenel 1889.II, 452-454, o al commento dell’editto quibus alieno nomine, item per alios agere non liceat (E. 30) (Ulp. 329) o di quello de defendendo eo, cuius nomine quis aget et de satisdando (a mio avviso E. 31) (Ulp. 333-336).

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Commento polare, tuttavia era stato ‒ e a ragione ‒ ritenuto che colui il quale agisse de via publica in quanto avesse subito un danno in ragione di una proibizione, potesse comunque nominarlo come se si trattasse piuttosto di un’azione privata242. A maggior ragione, secondo il giurista severiano, il titolare del ius sepulchri lo avrebbe potuto nominare per l’esercizio dell’actio de sepulchro violato243. In un’ottica analoga si pone ancora il paragrafo 1 che, senza tuttavia più riferirsi alle azioni popolari, afferma che un cognitor poteva essere nominato anche nel caso in cui ci si avvalesse dell’actio iniuriarum prevista dalla lex Cornelia de iniuriis244. Tale azione, motiva il giurista, nonostante venisse esercitata ‘pro publica utilitate’, era infatti un’azione privata245.

242 La dottrina ha, a lungo, discusso circa la fattispecie descritta dalla proposizione relativa qui de via publica agit et privato damno ex prohibitione adficitur. L’ipotesi secondo cui il giurista si sarebbe riferito a un rimedio di natura interdittale affonda le sue radici nella Glossa (cfr. Gl. acc. Agit, ad h. l., che richiama l’interdetto ne quid in loco publico vel itinere fiat). Secondo Schmidt 1853, 133, nt. 20, che basa la sua proposta su Sch. 3 a Bas. 8.2.42 (= Scheltema, B I, 119), si farebbe specificamente riferimento all’interdetto restitutorio de itinere publico ricordato da Ulp. 68 ad ed., D. 43.8.2.35. Ritiene invece che il brano riguardi l’interdetto proibitorio quo minus illi via publica itinereve publico ire agere liceat, vim fieri veto (menzionato in Ulp. 68 ad ed., D. 43.8.2.45), Ubbelohde 1889, 27 s., nt. 63 (= 1899, 20 s., nt. 63), seguito, nella più recente letteratura, da Ponte 2007, 202 ss. Da parte sua Scherillo 1945, 159, osserva genericamente come il passo attesti la possibilità di individuare chi stesse in giudizio in luogo altrui negli interdetti de viis. Più specificamente ora Schiavon 2019, 275 ss., 283 ss., tende a identificare il rimedio richiamato nell’interdetto proibitorio de itinere publico (cfr. Ulp. 68 ad ed., D. 43.8.2.20), escludendo altresì la legittimazione del quivis de populo, se non come criterio preferenziale nel caso in cui il deterioramento della sede stradale occasionasse un danno per un privato. È però merito di Casavola 1958, 115 ss., l’aver ipotizzato una soluzione ai dubbi della dottrina sulla base del collegamento fra D. 3.3.42pr. e PS. 5.6.2: l’azione menzionata dal giurista sarebbe pertanto un’actio in factum, concessa, essendosi già verificata la condotta vietata, a fronte dell’inapplicabilità dell’interdetto proibitorio quo minus illi via publica itinereve publico ire agere liceat, vim fieri veto. Per questa ipotesi, da considerarsi prevalente nella dottrina degli ultimi decenni, cfr. in senso adesivo, fra gli altri, d’Ors 1969, 114, nt. 183 e, più di recente, in specie Miglietta 2009, 698-699; sul punto v. altresì, per alcune considerazioni sui caratteri delle azioni popolari pretorie e sulla motivazione addotta nel testo paolino, Gutiérrez-Masson 1994, 750. 243 Per Casavola 1958, 118, la spiegazione dell’uso dell’espressione multo magis risiedebbe nel “diverso rilievo dell’interesse privato in funzione della legittimazione dell’attore”, legittimazione appunto riservata nel caso dell’actio de sepulchro violato al dominus, con esclusione del concorso di terzi. Sulla legittimazione all’esercizio dell’actio de sepulchro violato, cfr. in particolare Martini 1960, 64 s.; sul punto v. anche Botta 1996, 176 ss. 244 Che la lex Cornelia de iniuriis abbia dato vita a un procedimento di carattere criminale fu sostenuto in particolare da Pugliese 1941, 117 ss. Secondo tale autore, la lex Cornelia avrebbe concesso all’individuo leso “un potere di accusa da esercitarsi dinanzi ad una quaestio” (ibidem, 145). Tale opinione è seguita da una letteratura ampiamente maggioritaria (cfr. fra gli altri, con riferimento specifico al nostro testo, von Lübtow 1969, 159 s. e Kaser 1986, 49 ss., nonché il quadro d’insieme delineato da Ruiz Fernández 1994, 821 s.). Per una diversa ricostruzione v. tuttavia Manfredini 1977, 217 ss., secondo il quale la lex Cornelia de iniuriis sarebbe invece da ritenere una lex privati iudicii. In senso critico rispetto alla ricostruzione proposta da quest’ultimo autore, cfr. ancora Pugliese 1978, 193 ss.; sul punto v. inoltre, in sintesi, le osservazioni formulate da Balzarini 1983, 2 e nt. 4 (cui rinvio per un quadro completo dell’ampia letteratura sulla natura della Lex Cornelia de iniuriis). 245 Peraltro Naber 1899, 265 e nt. 11, ritenendo incompatibile la qualificazione come actio privata di un’azione destinata ad attivare una procedura criminale per quaestionem, proponeva la seguente restituzione della chiusa del paragrafo 1: …etsi publica est, tamen pro privata utilitate exercetur. In senso contrario, v. però Pugliese 1941, 146, nonché Manfredini 1977, 237 e nt. 62. Le diverse ricostruzioni offerte circa i caratteri dell’actio iniuriarum ex lege Cornelia (v. nt. precedente) condizionano la dottrina nella valutazione del pensiero e dell’apporto del giurista severiano. Secondo Pugliese (ibidem, 145), la precisazione paolina relativa all’eventualità che qualcuno potesse stare in giudizio per altri nell’esercizio dell’actio iniuriarum ex lege Cornelia poteva trovare la sua ragion d’essere nella diversità di regime caratterizzante i iudicia publica nel caso di accusa aperta a un quivis de populo. Secondo Manfredini, invece, il giurista avrebbe piuttosto inteso fugare il dubbio che qualcuno potesse stare in giudizio per altri, dubbio che sarebbe potuto sorgere in relazione al carattere strettamente personale dell’actio iniuriarum (ibidem,

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Fabiana Mattioli Successivamente il testo cambia argomento. Il paragrafo 2 si occupa infatti del rapporto obbligatorio che si instaurava fra il dominus litis e il cognitor: da esso scaturiva di norma l’actio mandati. Vi erano, tuttavia, delle situazioni in cui – dice Paolo – non si contraeva l’obligatio mandati, come nel caso in cui si garantiva un cognitor nel suo interesse e a tale titolo si prometteva, prestando la cautio iudicatum solvi, di pagare un’eventuale condanna246. Spiega infatti il giurista che, se in forza di quella promessa fosse stato prestato qualcosa, si sarebbe dovuto agire in rivalsa non con l’actio mandati, ma con l’actio ex vendito (se ad esempio fosse stata venduta un’eredità) e comunque in base alla causa sottostante alla nomina, circostanza che – come viene sottolineato – si sarebbe del resto verificata anche quando il fideiussore, assunta la garanzia mediante mandato, avesse nominato come cognitor il debitore principale. In altri termini, con particolare riferimento a queste specifiche fattispecie (e cioè quando il cognitor fosse stato nominato in virtù di una causa sottostante), l’azione sarebbe comunque spettata sulla base dell’originario rapporto fra cognitor e chi l’avesse nominato. Peraltro, con specifico riguardo al caso in cui il nominato dal fideiussore fosse il debitore principale, si è osservato, non inopportunamente, che, se non si avesse riguardo al rapporto originario, il fideiussore costretto a pagare si sarebbe trovato a non poter esperire l’actio mandati contraria per la rivalsa, perché diventato a sua volta mandante247. In continuità con quanto detto nel paragrafo 2, la trattazione prosegue prendendo in considerazione una serie di situazioni particolari in cui la nomina del cognitor era da mettere a sua volta in relazione agli specifici rapporti esistenti fra il dominus litis e il cognitor che stava

238). La diversità di vedute condiziona anche l’interpretazione del significato della proposizione concessiva etsi pro publica utilitate exercetur. Pugliese osserva in proposito: “Essa significa... che l’esercizio di quell’actio interessa in modo particolare la res publica, la quale infatti vi partecipa con i suoi organi molto più intimamente che non accada per le comuni azioni private” (ibidem, 146). Argomenta in modo diverso Manfredini, secondo cui l’espressione utilitas publica farebbe riferimento soltanto all’interesse della collettività e non alla forma del procedimento (ibidem, 238). Non appare invece a mio avviso persuasiva la recente interpretazione proposta da Scevola 2012, 376, secondo cui la nozione di utilitas publica, con riferimento al brano in esame, perseguirebbe lo scopo di ricomporre la dialettica interesse pubblico/interesse privato “attraverso una disciplina processuale derogatoria”. Non sembra infatti che nel testo paolino possa essere riscontrata una qualche deroga a una regola processuale e, tanto meno, una deroga giustificata attraverso il ricorso alla nozione di utilitas publica. La possibilità di nominare chi stia in giudizio per altri deriva piuttosto dall’affermata natura privata dell’azione. Sulla qualificazione come privata dell’actio iniuriarum ex lege Cornelia v. anche Botta 1996, 169 s. 246 Sul richiamo all’actio mandati come strumento da far valere in via ordinaria nel rapporto fra dominus litis e cognitor, cfr. per tutti le osservazioni di Arangio-Ruiz 1949, 60, cui adde, fra gli altri, Watson 1961, 45 s. Come ebbe a rilevare già Eisele 1881, 49 s., il riferimento alla cautio iudicatum solvi prestata dal dominus litis dimostra come tutto il passo, anche alla luce di Gai. 4.101, debba essere riferito al cognitor. Non inficia l’osservazione quanto sul punto è in generale rilevato da Marrone 2010, 327 s. (= 2009, 143 [= 2015, III 129 s.]), che, argomentando da Gai. 4.90, avverte che comunque nelle azioni reali l’onere di prestare la cautio ricadeva sullo stesso cognitor e non sul dominus litis (su tale espressione e sul suo utilizzo nelle fonti giurisprudenziali cfr. ibidem, 323 s. e ntt. 48 e 49 [= 2009, 138 ss. e ntt. 48 e 49]). Nel nostro testo il discorso è generico ma è da ritenersi ragionevolmente certo, anche per la collocazione nell’ottavo libro, che in esso ci si riferisse originariamente al cognitor: in questo senso v. anche Serrao 1947, 49 e 167 s., nonché Cugia 1953, 303. Più cauto, ma senza considerare che il testo non è isolato, ma fa parte di una lunga serie di passi dell’ottavo libro del commentario ad edictum di Paolo modificati dai compilatori attraverso la costante sostituzione della menzione del procurator a quella del cognitor, è invece Watson 1961, 45. 247 Su quest’ultimo aspetto v. Cugia 1953, 303 s., che ha altresì sostenuto che nel testo sarebbe interpolato ex vendito in luogo dell’originario ex stipulatu. Sulla questione, v. anche Gehrich 1963, 25 ss. L’ipotesi non appare convincente. Con particolare riferimento alla fattispecie della vendita dell’eredità, cfr. in particolare le osservazioni di Rozwadowski 1973, 85 e 87 e nt. 59, nonché, ulteriormente, González Roldán 1997, 50 ss. e 123.

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Commento in giudizio al suo posto. Si afferma anzitutto nel paragrafo 3 che il fedecommissario, al quale fosse stata restituita l’eredità in forza del senatoconsulto Trebelliano, avrebbe potuto legittimamente nominare come cognitor l’erede248. Di seguito, nel paragrafo 4, si ammette altresì che il creditore pignoratizio, nell’esercizio dell’actio Serviana, potesse a sua volta nominare correttamente come cognitor il proprietario del pegno. Nel successivo paragrafo 5 si prevede ulteriormente che, se fosse stato pattuito con un constitutum di pagare un debito di uno tra più concreditori solidali, il creditore che ne avesse beneficiato avrebbe potuto costituire come cognitor un altro dei concreditori nell’esercizio dell’actio de pecunia constituta. Del resto, continua Paolo, anche tra due condebitori sarebbe stato possibile che ciascuno nominasse l’altro come cognitor per la difesa e tuttavia, secondo quanto si riferisce subito dopo nel paragrafo 6, non sarebbe stato invece permesso di nominare lo stesso cognitor per più persone qualora si trattasse di più coeredi e si dovesse esercitare l’actio familiae erciscundae o l’actio communi dividundo: ciò non avrebbe infatti reso possibile disporre aggiudicazioni e condanne. Peraltro – si aggiunge – chiaramente diversa sarebbe dovuta essere la soluzione nel caso in cui invece più eredi fossero succeduti a un coerede, caso in cui tutti insieme avrebbero potuto nominare un unico cognitor nell’esercizio delle azioni divisorie relative all’eredità dell’unico e comune de cuius249. Cambiando infine ancora prospettiva, nel paragrafo 7 si prevede, da ultimo, che, qualora il convenuto si fosse reso irreperibile dopo la litis contestatio, si dovesse ammettere che potessero essere piuttosto i garanti (il testo del commentario di Paolo doveva far riferimento agli sponsores) ad assumerne la difesa a condizione o che uno di essi lo difendesse per l’intero, o che lo difendessero tutti insieme, o che lo difendesse quello che fosse stato da loro indicato affinché nei suoi confronti avvenisse la translatio iudicii250.

248 Sulla restitutio dell’hereditas in forza del senatoconsulto Trebelliano, cfr. in specie Voci 1963, 344 ss. e Id. 1968, 106 ss.; v. altresì fra gli altri, limitandomi alla letteratura relativamente recente, Murillo Villar 1989, 38 ss.; Giodice-Sabbatelli 1993, 158 ss.; per un’utile sintesi cfr. anche Desanti 1999, 14 ss. 249 Quanto alla situazione descritta nel paragrafo 4 l’azione menzionata era ovviamente l’actio Serviana, detta anche pigneraticia (in rem), hypothecaria o ancora vindicatio pignoris, per la cui formula v. specificamente Lenel 1927, 493 ss.; sul punto v. anche Mantovani 1999, 45. Per la fattispecie descritta nel paragrafo 5 cfr. in particolare Tondo 1958, 226; sul punto v. anche, fra gli altri, sinteticamente, Astuti 1941, 128. In relazione a quanto detto nel paragrafo 6, per quanto riguarda le formule delle azioni divisorie, cfr. Lenel 1927, 206 ss. Sul punto v. anche la trattazione di Mantovani 1999, 60 s. Sulla regola che impediva di rappresentare al contempo, nello stesso processo, un attore e un convenuto, cfr. le osservazioni, ancora attuali, di Redenti 1907, 113. 250 La regola, volta a impedire il frazionamento della lite, è stabilita nell’interesse dell’attore, come risulta da Ulp. 77 ad ed., D. 46.7.5.7: Si tamen plures fideiussores defendere fuerint parati, videamus, utrum unum defensorem debent dare, an vero sufficiat, ut unusquisque eorum pro parte sua defendat vel defensorem substituat. et magis est, ut, nisi unum dent procuratorem, desiderante scilicet hoc actore, committatur stipulatio ob rem non defensam: nam et plures heredes rei necesse habebunt unum dare procuratorem, ne defensio per plures scissa incommodo aliquo adficiat actorem. aliud est in heredibus actoris, quibus necessitas non imponitur, ut per unum litigent. V. anche Paul. 12 ad Sab., D. 10.2.48: Si familiae erciscundae vel communi dividundo vel finium regundorum actum sit et unus ex litigatoribus decesserit pluribus heredibus relictis, non potest in partes iudicium scindi, sed aut omnes heredes accipere id debent aut dare unum procuratorem, in quem omnium nomine iudicium agatur. Cfr. sul punto Koschaker 1905, 264, nt. 2. Su D. 3.3.42.7, cfr. in specie Lenel 1927, 87, nt. 2, che sottolinea appunto come il testo dovesse ricollegarsi alla necessità che comunque la difesa fosse assunta unitariamente o da uno solo (cfr. già, per il caso di datio cognitorum in solidum, quanto detto in D. 3.3.32 (F. 91, su cui v. supra, 136 s.); v. anche Bonifacio 1956b, 44 s., nonché, per un accenno, Kaser, Hackl 1996, 354 e nt. 38. Per l’originario riferimento della scrittura paolina agli sponsores anziché ai fideiussores cfr. ancora Lenel 1889.I, 978, nt. 4. Sulla scomparsa in diritto tardoantico e giustinianeo delle figure della sponsio e della fidepromissio, v. per tutti Talamanca 1968, 338 s.

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Fabiana Mattioli F. 95 – D. 46.3.86 Il testo enuncia anzitutto la regola generale e che si dice condivisa (Hoc iure utimur…) secondo cui il cognitor non può ricevere correttamente un pagamento e ciò perché si dice assurdo (nam et absurdum est...) che chi non può esercitare l’actio iudicati possa ricevere prima che sia intervenuto il giudizio (…cui iudicati actio non datur, ei ante rem iudicatam solvi posse)251. In una coda del passo si aggiunge peraltro, in via di eccezione, che, se la nomina fosse avvenuta proprio per ricevere il pagamento, ciò sarebbe stato ammesso con l’effetto di liberare l’obbligato (…si tamen ad hoc datus sit, ut et solvi possit, solvendo eo liberabitur). È plausibile tuttavia che si tratti di un’aggiunta dei compilatori che riferiscono piuttosto il testo al procurator litis, riconoscendogli in quanto tale la possibilità di ricevere il pagamento, preclusa invece al cognitor252. F. 96 – D. 50.17.112 Paolo riferisce qui un’altra regola generale, non a caso inserita dai compilatori nel titolo 50.17 de diversis regulis iuris antiqui del Digesto. La stringatezza del testo estrapolato dal suo contesto originario rende difficile ricostruire l’occasione in cui il giurista severiano dichiarava appunto non esserci differenza tra il non vedersi concessa un’azione o essere respinti mediante un’eccezione253. Ciò nonostante si può forse formulare la congettura che Paolo affermasse la regola

251 Quanto all’esclusione del cognitor dalla legittimazione attiva e passiva rispetto all’actio iudicati a meno che non si trattasse di cognitor in rem suam cfr. in particolare Vat. 317 (Lenel 1889.II, 1233, Frag. incerta 22): …cognitore enim interveniente iudicati actio domino vel in dominum datur; non alias enim cognitor experietur vel ei actioni subicietur, quam si in rem suam cognitor factus sit. interveniente vero procuratore iudicati actio ex edicto perpetuo ipsi et in ipsum, non domino vel in dominum competit. Si ritiene peraltro indiscusso, anche a questo proposito, l’originario riferimento al cognitor piuttosto che al procurator dei testi che si occupano del tema, cfr. sul punto Marrone 2010, 333 ss. e ntt. 87 e 88 (= 2009, 147 ss. e ntt. 86 e 87 [= 2015, III 134 e ntt. 87 e 88]). A questo proposito si deve ricordare che secondo un’opinione largamente condivisa in letteratura il pretore, verso la fine del I secolo d.C., ammise, molto probabilmente previa causae cognitio, il dominus litis all’esercizio dell’azione, benché quest’ultima spettasse piuttosto iure civili a favore e contro il cognitor. Pertanto l’esclusione del cognitor rispetto alla facoltà di esercitare l’actio iudicati non sarebbe originaria, essendo stata prevista nell’ambito del diritto onorario e non in quello del diritto civile (in questo senso appare possibile ipotizzare che il trasferimento dell’actio iudicati a carico del dominus litis sia avvenuto attraverso un’apposita clausola edittale prevista dal pretore: testimonianze indirette in questo senso potrebbero riscontrarsi in Paul. 9 ad ed., D. 3.4.6.3 [F. 116], in cui si dice che l’actor universitatis non poteva ex edicto esercitare l’actio iudicati [v. infra, 159 s.] e nello stesso Vat. 317, laddove si dice che sempre ex edicto discendeva al contrario la possibilità che l’actio iudicati fosse esperita dal procurator e contro di lui). Sul punto cfr. le osservazioni di Pugliese 1963, 321 ss., nonché 346 e nt. 87. Nello stesso senso v. anche Bonifacio 1956a, 544 ss.; Id. 1956b, in specie 83. 252 Per questa possibilità v. dubitativamente già Lenel 1889.I, 978, nt. 6. Nello stesso senso v. Levy, Rabel 1935, 454. Per la preclusione alla solutio (sia ante litem contestatam, sia post litem contestatam) riguardante il cognitor e per la sua connessione con l’esclusione dall’esercizio dell’actio iudicati, riservata al dominus litis, cui era rimessa la definizione del rapporto con il debitore v., con particolare riferimento a D. 46.3.86, le osservazioni di Marrone 2010, 325 e nt. 56, 333 s. e nt. 87, 338 e nt. 98 (= 2009, 141 e nt. 55, 148 e nt. 86, 152 e nt. 97 [= 2015, III 128 e nt. 56, 134 s. n. 87, 137 e n. 97]), cui rinvio per ulteriori indicazioni bibliografiche. 253 Appare comunque preferibile collocarlo al termine della parte introduttiva che anticipava la trattazione dei singoli editti, cfr. Lenel 1889.I, 978. Diversamente Krüger 1905, 897, lo pone, sia pure dubitativamente, come ultimo del libro. Sul testo cfr. le osservazioni di Metro 1972, 76 ss. e nt. 22, anche con riferimento a Ulp. 13 ad ed., D. 4.8.21.9; Gai. 4 ad ed. prov., D. 4.4.12 e Ulp. 22 ad ed., D. 12.2.9, che prospettano analogamente, a loro volta, il ruolo alternativo di denegatio actionis ed exceptio. Peraltro l’equivalenza che il testo sembrerebbe voler evidenziare presuppone comunque una fase evoluta del processo in cui la denegatio actionis poteva essere disposta per ragioni equitative da mettere in relazione al caso concreto e non piuttosto per questioni di pura legittimità. Sul punto, ma senza cogliere il carattere problematico dell’equiparazione, v. altresì, brevemente, Sturm 1972, 525 s. Diversamente

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Commento in relazione all’effetto di consumazione dell’azione provocato dalla litis contestatio compiuta dal cognitor e questo indipendentemente dal fatto che ciò si determinasse ipso iure provocando come conseguenza la denegatio actionis di fronte alla reiterazione della domanda o piuttosto ope exceptionis (con riferimento all’opponibilità dell’exceptio rei iudicatae vel in iudicium deductae). Rispetto all’estinzione dell’azione spettante al dominus litis si potevano in questo senso (e solo in questo senso) pienamente equiparare denegatio actionis ed exceptio254.

[Coloro che non diano un cognitore (E. 25)] F. 97 – D. 3.2.10 Coloro che erano colpiti da infamia così come non potevano postulare pro aliis non potevano neppure nominare un cognitor al proprio posto255. Due testi paolini – entrambi tratti da D.

Quadrato 1983, 101 ss., che, sulla base del fatto che lo stesso Paolo sembrerebbe esprimere una concezione non omogenea in altri passi (cfr. Paul. lib. sing. de var. lect., D. 44.1.22pr. e Paul. 4 quaest., D. 36.1.61[59]pr.), ritiene piuttosto che il testo di D. 50.17.112, nella sua generalizzata formulazione, esprima “una prospettiva teorica lontana da quella dell’autore severiano” e al contrario consonante a un’ottica più tipicamente tardoantica e giustinianea. 254 Nel senso prospettato, sia pure dubitativamente, già Lenel 1889.I, 978, nt. 7. Questa stessa ipotesi appare sostanzialmente condivisa anche da Quadrato 1983, 104 s. Sul punto v. Gai. 4.106-107 in relazione alla diversa disciplina operante nel caso dei iudicia imperio continentia (per i quali era sempre necessario il ricorso all’exceptio) e dei iudicia legitima (per i quali invece, nel caso si trattasse di agere in personam, si dice appunto che ipso iure de eadem re agi non potest): cfr. a questo proposito Marrone 2010, 329 (= 2009, 144 [= 2015, III 131]). Sul significato dell’espressione ipso iure con riferimento al ius civile cfr. specificamente Lamberti 1996, 72, nt. 136. Peraltro, anche con riferimento alla menzione dell’actio iudicati che già ricorre in D. 46.3.86 [F. 95], si può forse formulare in alternativa anche la congettura che Paolo affermasse la regola con riferimento all’impossibilità di esperire tale actio da parte del cognitor o nei suoi confronti. È cioè anche possibile che Paolo escludesse sotto questo particolare profilo ogni differenza fra la denegatio actionis che operava ipso iure qualora il cognitor si facesse attore e la reiezione ope exceptionis della pretesa della controparte qualora il cognitor fosse stato invece convenuto. In entrambi i casi il giudizio non avrebbe avuto effetto nella sfera giuridica del cognitor, non potendosi far valere nei suoi confronti l’esito del giudicato. Anche su questo aspetto cfr. le osservazioni di Marrone 2010, 335 s. (= 2009, 149 s. [= 2015, III 135 s.]), cui rinvio per l’indicazione delle fonti. 255 Le due categorie di persone che non potevano postulare pro aliis (cfr. supra, nel titolo edittale de postulando [E. VI], con riferimento in particolare all’editto qui pro aliis ne postulent [E. 15]) e che non potevano dare un cognitor tendenzialmente coincidevano (anche se il secondo gruppo era meno ampio, perché le donne non colpite da infamia, escluse dalla possibilità di postulare pro aliis, erano invece ammesse alla datio cognitoris, sul punto v. subito infra, quanto osservato a nt. 258, anche con riferimento ai testi paolini posti a commento dell’editto qui ne dent cognitorem [E. 25]). Si trattava essenzialmente delle persone ignominiosae di cui parla Gai. 4.182: Quibusdam iudiciis damnati ignominiosi fiunt, velut furti, vi bonorum raptorum, iniuriarum; item pro socio, fiduciae, tutelae, mandati, depositi. sed furti aut vi raptorum aut iniuriarum non solum damnati notantur ignominia, sed etiam pacti, ut in edicto praetoris scriptum est; et recte: plurimum enim interest, utrum ex delicto aliquis an ex contractu debitor sit. nec tamen ulla parte edicti id ipsum nominatim exprimitur, ut aliquis ignominiosus sit; sed qui prohibetur et pro alio postulare et cognitorem dare procuratoremve habere, item curatorio aut cognitorio nomine iudicio intervenire, ignominiosus esse dicitur (con specifico riferimento al postulare pro aliis v. anche Ulp. 6 ad ed., D. 3.1.1.6: Removet autem a postulando pro aliis et eum, qui corpore suo muliebra passus est... et qui capitali crimine damnatus est, non debet pro alio postulare... et qui operas sua, ut cum bestiis depugnaret, locaverit…). Le due situazioni erano peraltro previste appunto in diversi editti, così come in un altro editto si faceva riferimento a coloro che non potevano esser dati come cognitores (qui ne dentur cognitores [E. 26] di cui peraltro non è rimasta traccia nel commentario edittale di Paolo). Sul punto v. però esplicitamente PS. 1.2.1: Omnes infames, qui postulare

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Fabiana Mattioli 3.2 de his qui notantur infamia, in cui figurano accanto ad altri che, come abbiamo visto, sono da collocarsi piuttosto nel quadro della trattazione dedicata al titolo edittale de postulando – erano con ragionevole probabilità inseriti piuttosto nel commento dell’editto qui ne dent cognitorem256. Un primo frammento – qui specificamente considerato – torna a occuparsi del tempus lugendi la cui violazione, come è noto, comportava appunto l’infamia257. In questo contesto Paolo, evidentemente per escludere che nel caso prospettato la vedova dovesse essere esclusa dalla possibilità di nominare un cognitor, menziona l’eventualità che fosse stata fatta richiesta all’imperatore per permetterle di risposarsi prima della scadenza del periodo del lutto (ut intra [legitimum tempus] muliere nubere liceat), precisando ulteriormente che sarebbe stato comunque pienamente legittimo, durante lo stesso periodo, un suo eventuale fidanzamento258. prohibentur, cognitores fieri non possunt etiam volentibus adversariis. Che due fossero gli editti riguardanti i cognitores (cfr. Lenel 1927, 89 ss.) e che un editto ulteriore riguardasse l’estensione dei divieti ai procuratori (si tratta dell’editto quibus alieno nomine, item per alios agere non liceat [E. 30]) è dimostrato da Ulp. 9 ad ed., Vat. 322 (Lenel, Ulp. 326: Verba autem edicti haec sunt: ‘alieno’, inquit, ‘nomine, item per alios agendi potestatem non faciam in his causis, in quibus ne dent cognitorem neve dentur, edictum comprehendit’) e 323 (Lenel, Ulp. 327: Quod ait ‘alieno nomine, item per alios’, breviter repetit duo edicta cognitoria, unum, quod pertinet ad eos qui dantur cognitores, alterum ad eos qui dant; ut qui prohibentur vel dare vel dari cognitores, idem et procuratores dare darive arceantur). Quanto ai motivi delle esclusioni e particolarmente riguardo a quelle previste dall’editto qui ne dent cognitorem (E. 25) cfr. in specie Pugliese 1963, 336, che li riconduce a esigenze sanzionatorie e afflittive (sul punto v. già, sostanzialmente nello stesso senso, Lenel 1927, 90 e nt. 6). 256 In questo senso a mio avviso giustamente Lenel 1889.I, 978. Diversamente Krüger 1905, 897, li pone entrambi all’inizio dell’ottavo libro, con riferimento alla collocazione che hanno nel Digesto. Tuttavia è evidente che i due frammenti dell’ottavo libro collocati in D. 3.2 de his qui notantur infamia sono attratti in quella sede da quelli del sesto, circostanza che ne esclude la priorità rispetto agli altri frammenti dello stesso ottavo libro. Per quanto riguarda i frammenti del commentario di Paolo del sesto libro ben cinque risultano inseriti in D. 3.2: si tratta di D. 3.2.14 [F. 64], D. 3.2.5 [F. 65], D. 3.2.7 [F. 66], D. 3.2.9 [F. 67] e D. 3.2.12 [F. 68]. Tutti sono riconducibili al titolo edittale de postulando e probabilmente all’editto qui nisi pro certis personis ne postulent (E. 16): sul punto v. supra, 111 ss., in cui si ipotizza che il testo di D. 50.17.109 [F. 63] sia l’unico del commentario di Paolo ascrivibile invece al commento dell’editto qui pro aliis ne postulent (E. 15). 257 In particolare allo stesso tema sono dedicati Paul. 5 ad ed., D. 3.2.9 [F. 67] e 12 [F. 68]. Il problema in quel contesto non si poneva peraltro per la donna, che in quanto tale non poteva comunque postulare pro aliis (cfr. Ulp. 6 ad ed., D. 3.1.1.5, su cui infra, nt. 278), ma piuttosto per chi esercitava su di lei la potestà, per chi consentiva al proprio figlio in potestà di sposarla e per chi la sposava non iussu eius, in cuius potestate est (cfr. Iul. 1 ad ed., D. 3.2.1; sul punto, con riferimento all’editto qui ne dent cognitorem [E. 25], v. anche quanto si ricava dal frammento edittale riportato in Ulp. 8 ad ed., Vat. 320, cfr. Lenel, Ulp. 307 e nt. 5), che venivano tutti colpiti da infamia. A questo specifico proposito proprio il testo di D. 3.2.12 [F. 68] precisava che il figlio in potestà che avesse sposato iussu patris una donna durante il tempus lugendi non era colpito da infamia neppure se fosse successivamente uscito dalla patria potestas in costanza di matrimonio. Sui testi del commentario paolino v. in specie supra, 117-118 (e ivi nt. 127, indicazioni della letteratura in tema di tempus lugendi e della relativa infamia comminata a chi lo violasse). 258 Sul punto v. Kupiszewski 1967, 101. Per la sostituzione di legitimum tempus all’originale decem menses v. Lenel 1889.I, 978, nt. 9, con riferimento a (Imppp. Grat. Valentin. et Theod. AA. Eutropio, a. 381) C. 5.9.2. Proprio il caso della donna che violava il tempus lugendi senza che ciò fosse avvenuto iussu patris costituisce un caso in cui l’infamia rileva specificamente rispetto alla datio cognitoris. Che il divieto di dare cognitorem riguardasse anche la donna non sottoposta a potestà che si risposasse in violazione del tempus lugendi risulta del resto specificamente da Vat. 320 (Ulp. 8 ad ed.): ...quaeve, cum in parentis sui potestate non esset, viro mortuo, cum eum mortuum esse sciret, intra id tempus, quo elugere virum moris est, nupserit (cfr. Pugliese 1963, 335). Se infatti la donna non poteva né agire per altri, né essere data come cognitor (se non nel caso in cui potesse qualificarsi come cognitor in rem suam, cfr. PS. 1.2.2 e [Impp. Sev. et Ant. AA. Saturnino, a. 207] C. 2.12(13).4, sui cui testi v. infra, nt. 278), per lei l’infamia aveva conseguenze solo a questo particolare fine. Non è un caso dunque che entrambi i frammenti conservati nel libro ottavo e riferibili a questo editto riguardino l’infamia che colpisce delle donne. Era infatti l’unico caso in cui l’infamia femminile diventava condizione di esclusione ulteriore rispetto ai casi di infamia considerati rilevanti per l’editto qui pro aliis ne postulent (E. 15). Quanto alla non applicabilità

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Commento F. 98 – D. 3.2.16 Il secondo testo si occupa di un’altra fattispecie che comportava l’infamia e conseguentemente l’esclusione della possibilità di nominare un cognitor. Era quella della donna sui iuris259 che, affermando di essere incinta, fosse stata immessa nel possesso dei beni dell’asserito padre in nome del nascituro (cfr. Ulp. 8 ad ed., D. 3.2.15: Notatur quae per calumniam ventris nomine in possessionem missa est, dum se adseverat praegnatem), ma ciò, come precisa Paolo, nel caso in cui non fosse incinta o lo fosse di un altro, circostanza quest’ultima che comportava che la donna avesse agito per calumniam qualora appunto sapesse di non essere incinta dell’uomo nei cui beni chiedeva l’immissione nel possesso e con l’intento dunque di ingannare il magistrato260.

[Del cognitore nominato per assumere il giudizio (E. 27)] F. 99 – D. 3.3.11 Per quanto riguarda specificamente il cognitor vengono ancora in considerazione alcuni passi inseriti nel titolo 3.3 del Digesto. In Ulp. 8 ad ed., D. 3.3.8.3 si ricordava la previsione edittale con cui il pretore imponeva al cognitor pro quo consentiente dominus iudicatum solvi exposuit di accettare il giudizio, salvo che non sussistessero sopravvenute cause di giustificazione da valutarsi causa cognita261. A queste si affiancava l’ipotesi in cui dominus litis risultasse comunque

del tempus lugendi rispetto ai fidanzati v. già Paolo in Paul. 6 ad ed., D.3.2.9.1 [F. 67]: Sponsi nullus luctus est (cfr. supra, 117-118). Al contrario l’editto si applicava anche nel caso di violazione del lutto da portare per la morte di genitori e figli (cfr. ancora Ulp. 8 ad ed., Vat. 320: ...quaeve virum parentem liberosve suos uti moris est non eluxerit…), sul punto cfr. ancora le osservazioni di Pugliese ibidem, 335, che più in generale giustamente ritiene altresì che l’editto qui ne dent cognitorem (E. 25) prevedesse un regime di esclusioni unitario, senza le distinzioni e le eccezioni previste invece dagli editti relativi al postulare pro aliis: cfr. a questo proposito l’editto qui nisi pro certis personis ne postulent (E. 16). 259 Sul punto cfr. Ulp. 8 ad ed., D. 3.2.17: …sed ea notatur, quae cum suae potestatis esset hoc facit (del resto anche la violazione del tempus lugendi comportava l’infamia per la donna solo se fosse di condizione sui iuris v. già supra, nt. precedente). Nel caso che invece si trattasse di donna alieni iuris l’infamia avrebbe colpito il padre che avesse la figlia in potestà e che le avesse concesso di chiedere per calumniam l’immissione nel possesso in nome del figlio in grembo, cfr. Ulp. 8 ad ed., D. 3.2.19: …idque et in patre erit servandum, qui calumniae causa passus est filiam, quam in potestate habebat, in possessionem ventris nomine mitti. 260 In questo senso esplicitamente Ulp. 8 ad ed., D. 3.2.17: debuit enim coerceri quae praetorem decepit… Coerentemente non sarebbe incorsa in infamia colei che avesse chiesto e ottenuto l’immissione nel possesso ingannandosi circa il proprio stato. Così esplicitamente Gai. 3 ad ed. prov., D. 3.2.18: Ea, quae falsa existimatione decepta est, non potest videri per calumniam in possessione fuisse. Su tutte queste fonti v., brevemente, Kaser, Hackl 1996, 212, nt. 20. 261 Il problema dell’obbligo di iudicium accipere si poneva dunque ovviamente solo nei confronti del cognitor consenziente una volta prestata la cautio iudicatum solvi. Come sappiamo il cognitor non poteva infatti essere dato invitus, intendendo per tale colui che non avesse comunque prestato il suo consenso, cfr. Ulp. 8 ad ed., D. 3.3.8.1: Invitus [procurator] non solet dari. invitum accipere debemus non eum tantum qui contradicit, verum eum quoque qui consensisse non probatur. Quanto alle cause di giustificazione v. Ulp. 8 ad ed., D. 3.3.8.3: …Verum ex causa non debebit compelli. ut puta inimicitiae capitales intervenerunt inter ipsum [procuratorem] et dominum: scribit Iulianus debere in [procuratorem] denegari actionem. item si dignitas accesserit [procuratori] : vel rei publicae causa afuturus sit; Gai. 3 ad ed. prov., D. 3.3.9: aut si valetudinem aut si necessariam peregrinationem alleget; Ulp. 8 ad ed., D. 3.3.10: vel hereditas superveniens eum occupet: vel ex alia iusta causa… Si tratta peraltro di cause di giustificazione che non erano considerate tassative, cfr. Ulp. 8 ad ed., D. 3.3.13: Sed haec neque passim admittenda sunt neque destricte deneganda, sed a praetore causa cognita temperanda.

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Fabiana Mattioli praesens (Ulp. 8 ad ed., D. 3.3.10: …hoc amplius et si habeat praesentem dominum, non debere compelli [procuratorem] ), sempreché, come precisa appunto Paolo in D. 3.3.11, a costui potesse comunque essere imposto l’onere del giudizio262. F. 100 – D. 3.3.14 Un caso specifico in cui il cognitor non poteva essere costretto ad assumere l’onere del processo è inoltre quello della capitalis inimicitia sopravvenuta con il dominus litis dopo la sua nomina, circostanza che appunto escludeva, in virtù della causa sopravvenuta, che il cognitor potesse essere costretto ad accettare il giudizio e che potesse avere efficacia nei suoi confronti la stipulatio ob rem non defensam263. F. 101 – D. 3.3.36 Il testo è posto dai compilatori in stretta connessione con quello precedente collocato in D. 3.3.35, un passo del nono libro ad edictum di Ulpiano che in origine era probabilmente collocato nella trattazione dell’editto de defendendo eo, cuius nomine quis aget, et de satisdando (E. 31) e quindi in una parte relativa agli editti in seguito dedicati alle altre figure di coloro che agiscono in giudizio per altri e in particolare a quelli riguardanti i procuratori264. Tuttavia la circostanza che il passo provenga dall’ottavo libro dimostra che Paolo si riferiva piuttosto, anche in questo caso, a un editto certamente precedente fra quelli dedicati piuttosto ai cognitores. La scelta di agganciarlo al passo ulpianeo permette di giustificarne la collocazione al di fuori dell’ordine Bluhme-Krüger, secondo il quale il passo dovrebbe invece essere inserito piuttosto a commento di un editto certamente successivo e quantomeno, dovendosi tener conto della collocazione nell’ottavo libro paolino, non precedente a quello de cognitore abdicando vel mutando (E. 28)265.

262 Peraltro qualora il dominus litis non fosse presente il cognitor poteva essere costretto ad assumere la lite anche in presenza di una causa giustificativa nel caso prospettato in Gai. 3 ad ed. prov., D. 3.3.12 e cioè qualora la controparte, in assenza del dominus litis, avesse affermato che col decorso del tempo la pretesa potesse estinguersi: Sed etiam ex his causis dicitur aliquando cogendum [procuratorem] iudicium accipere: veluti si dominus praesens non sit et actor adfirmet tractu temporis futurum ut res pereat. 263 Il testo ritorna dunque sull’inimicitia capitalis come causa di giustificazione volta a escludere che il cognitor potesse essere costretto ad assumere la lite. Un riferimento parallelo è, come abbiamo visto, in Ulp. 8 ad ed., D. 3.3.8.3. Qui il testo di Paolo è funzionale, nell’ottica dei compilatori, a precisare che la causa giustificativa aveva come conseguenza di escludere appunto l’efficacia dell’eventuale stipulatio ob rem non defensam. Il riferimento è alla clausola de re defendenda della cautio iudicatum solvi. Sulla struttura di quest’ultima cfr. Lenel 1927, 530 ss., che, come è noto, l’articola nelle clausole de re iudicata, de re defendenda e de dolo malo. Sul rapporto di alternatività fra la clausola ob rem iudicatam e quella ob rem non defensam e sul fatto che quest’ultima avrebbe potuto avere effetto di escludere la possibilità di agire per il giudicato qualora nel giudizio intentato appunto ob rem non defensam si fosse pervenuti alla litis contestatio cfr. Ulp. 7 disp., D. 46.7.13pr. 264 Cfr. Lenel 1889.II, 452 ss., Ulp. 334-335. Si tratta di un testo piuttosto lungo che riguarda fra l’altro l’obbligo di assunzione della difesa da parte del procurator e le circostanze da cui potesse desumersi tale assunzione, come in particolare nel caso in cui il procurator avesse accettato il giudizio, circostanza testimoniata fra l’altro dall’aver prestato la cautio ratam rem dominum habiturum o la cautio iudicatum solvi. 265 Cfr. Lenel 1889.I, 979. A tale editto si riferivano, come subito vedremo, i testi paolini contenuti in D. 3.3.16 [F. 102], D. 3.3.20 [F. 103], D. 3.3.22 [F. 104], D. 3.3.24 [F. 105] e D. 3.3.26 [F. 106]. Parallelamente al commento dello stesso editto si riferivano i testi ulpianei presenti nel titolo del Digesto almeno fino a D. 3.3.29 e forse a D. 3.3.31pr.: v. Lenel 1889.II, 450, Ulp. 318-319. Il nostro testo a stare all’ordine Bluhme-Krüger dovrebbe piuttosto stare addirittura a commento dell’editto de defendendo eo, cuius nomine quis aget et de satisdando (E. 31), circostanza peraltro certamente da escludersi perché appunto collocato nell’ottavo libro.

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Commento Come risulta dal passo ulpianeo che precede, il procuratore si considera aver assunto la difesa anche se abbia dovuto sopportare un provvedimento di immissione nel possesso a garanzia di un danno temuto o della prestazione dei legati266. Altrettanto sarebbe dovuto accadere – come dice Paolo – nel caso di operis novi nuntiatio, così come anche se si fosse tollerato che un servo fosse prelevato per una causa nossale. Si aggiunge poi che ciò sarebbe avvenuto sempreché chi stesse in giudizio per altri avesse prestato la cautio ratam rem dominum habiturum, precisazione peraltro certamente non riferibile al cognitor, il che induce a pensare, salvoché non si ipotizzi un’aggiunta compilatoria di tutta la frase ita tamen, ut in his omnibus ratam rem dominum habiturum caveat, che il testo si riferisse piuttosto, a differenza di quanto risulta prima facie dalla sua collocazione attuale nella raccolta di iura, a comportamenti del dominus litis in presenza dei quali non si sarebbe potuto costringere il cognitor ad accettare il giudizio267. [Sulla rimozione o sulla sostituzione del cognitore (E. 28)] F. 102 – D. 3.3.16 Si ricordava anzitutto che ante litem contestatam era piena la facoltà del dominus litis di sostituire il cognitor o di accettare direttamente il giudizio. In taluni casi la sostituzione del cognitor o l’assunzione diretta del giudizio era tuttavia possibile anche post litem contestatam, purché causa cognita e in presenza di cause che potessero giustificare tale soluzione268.

266 Cfr. D. 3.3.35.3 i.f.: …defendere videtur procurator et si in possessionem venire patiatur, cum quis damni infecti satis vel legatorum desideret, Il testo si pone in qualche modo in parallelo con quanto affermato in D. 3.3.35.2 laddove si prevede che il procuratore debba assumere la difesa se al contrario voglia che gli sia prestata la stipulazione di garanzia per i legati o per il danno temuto (e cioè la cautio legatorum servandorum e quella damni infecti): Non solum autem si actio postuletur a procuratore, sed et si praeiudicium vel interdictum, vel si stipulatione legatorum vel damni infecti velit caveri: debebit absentem defendere in competenti tribunali et eadem provincia… 267 Questa “lettura” del testo è già adombrata da un accenno di Lenel 1889.I, 978, nt. 10. Non mi risulta peraltro che questa parte del frammento sia stata segnalata come di mano compilatoria, cfr. Levy, Rabel 1929a, 35 e Iid. 1929b, 39. Sul fatto che il cognitor non dovesse prestare né la cautio ratam rem dominum habiturum, né la cautio iudicatum solvi, circostanze da collegarsi al fatto che l’actio iudicati era concessa a favore e contro il dominus litis, cfr. Bonifacio 1956a, 544 ss.; Id. 1956b, 81 ss.; v. anche Pugliese 1963, in specie 337 ss. Specificamente riguardo alla cautio ratam rem dominum habiturum cfr. anche Rozwadowski 1973, 116 e nt. 80. 268 Sulla revoca e sulla sostituzione del cognitor v. Marrone 2010, 325 e nt. 55 e 333 e nt. 86 (= 2009, 141 e nt. 54 e 147 s. e nt. 85 [= 2015, III 128 e nt. 55 e 133 e nt. 85) con indicazione di fonti e letteratura. È ragionevole ritenere che la revoca del cognitor dovesse almeno originariamente essere compiuta così come la datio cognitoris alla presenza della controparte e tuttavia tale necessità è smentita già per il II secolo d.C. da un passo gaiano in cui il cognitor del convenuto, successivamente revocato, risulta essere stato ugualmente in giudizio, circostanza in cui si dice che secondo Giuliano l’attore che non fosse a conoscenza della revoca avrebbe comunque potuto giovarsi della cautio iudicatum solvi in precedenza prestata dal dominus litis, cfr. Gai. 27 ad ed. prov., D. 46.7.7: Si ante acceptum iudicium prohibitus fuerit [procurator] a domino et actor ignorans prohibitum eum esse egerit, an stipulatio committatur? et nihil aliud dici potest quam committi. quod si quis sciens prohibitum esse egerit, Iulianus non putat stipulationem committi… Sul punto cfr. Rozwadowski 1973, 69 s. Quanto all’impossibilità di revocare il cognitor post litem contestatam, se non causa cognita, si deve precisare che essa era legata al fatto che il iudicium in cui il dominus litis lo avesse appunto nominato consisteva in una formula con trasposizione di soggetti (salvo nel caso in cui si trattasse di azioni reali e il cognitor rivestisse il ruolo di convenuto cfr. Marrone 2010, 328 s. [= 2009, 144 (= 2015, III 130 s.)]) e che la condanna, benché la litis contestatio compiuta dal cognitor in qualità di attore consumasse la lite, avveniva soltanto contro o a favore del cognitor stesso.

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Fabiana Mattioli F. 103, F. 104, F. 105, F. 106 – D. 3.3.20, D. 3.3.22, D. 3.3.24, D. 3.3.26 Tra queste i testi paolini conservatici prospettavano il caso in cui il cognitor fosse occupato in una causa pubblica o privata o in un proprio più rilevante affare o altrimenti fosse impedito da ragioni di salute (D. 3.3.20) o perché diventato erede o affine della controparte (D. 3.3.22). Si trattava in generale di cause non dissimili da quelle che permettevano al cognitor di giustificarsi dall’accettare il giudizio (cui si era fatto riferimento nel commento all’editto de cognitore ad litem suscipiendam datus [E. 27]) e che vengono ulteriormente elencate in una serie di frammenti che precedono o seguono quelli tratti dal commentario paolino. Mi riferisco al passo tratto dal decimo dei libri pandectarum di Modestino conservato in D. 3.3.18, a quello gaiano tratto dal terzo libro di commento all’editto provinciale che possiamo leggere in D. 3.3.21 e ai tre testi ulpianei riprodotti in D. 3.3.17.2 e in D. 3.3.19 e 23, tutti tratti dal nono libro del commentario all’editto269. Veniva altresì precisato che la sostituzione sarebbe potuta avvenire anche su richiesta dello stesso cognitor, mentre non sarebbe stata invece di norma possibile qualora nel corso del giudizio il cognitor avesse potuto far valere il proprio diritto di ritenzione per le spese (cfr. Ulp. 9 ad ed., D. 3.3.25: …item si retentione aliqua [procurator] uti velit, non facile ab eo lis erit transferenda), a meno che il dominus litis, come precisa Paolo in D. 3.3.26, non fosse pronto a far fronte personalmente alle spese sostenute270.

LIBRO IX

[Sui cognitori, sui procuratori e sui difensori (E. VIII.2)] [Sui procuratori e sui difensori]

Il nono libro era dedicato alla trattazione degli editti riguardanti le altre figure di coloro che stavano in giudizio per altri. Si trattava in particolare, oltre che dei procuratores, di tutti coloro che stavano in giudizio senza mandato (parenti prossimi, tutori e curatori), dell’actor municipum o civitatis, dell’actor universitatis e infine di chi assumesse spontaneamente la difesa in qualità di defensor.

269 Cfr. Ulp. 9 ad ed., D. 3.3.17.2: In causae autem cognitione non solum haec versantur, quae supra diximus in [procuratore] non compellendo suscipere iudicium, verum et aetas; Mod. 10 pand., D. 3.3.18: aut religionis beneficium; Ulp. 9 ad ed., D. 3.3.19: Item si suspectus sit [procurator] aut in vinculis aut in hostium praedonumve potestate; Gai. 3 ad ed. prov., D. 3.3.21: vel exilio, vel si latitet, vel inimicus postea fiat; Ulp. 9 ad ed., D. 3.3.23: aut longa peregrinatio et aliae similes causae impedimento sint. 270 Secondo lo stesso testo di D. 3.3.25 un altro caso in cui il cognitor non poteva essere privato della lite era quello in cui potesse provare di essere stato nominato nel proprio interesse: …plane si dicat in rem suam se [procuratorem] datum et hoc probaverit, non debet carere propria lite…

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Commento Sul piano palingenetico alcune difficoltà sono originate dal fatto che alcuni testi paolini del nono libro conservati nella raccolta di iura sembrano saldare fra loro parti distinte e non immediatamente contigue della trattazione del giurista severiano e che anzi appaiono riguardare editti diversi (mi riferisco in particolare a D. 3.3.43 [F. 110 e F. 111] e a D. 3.4.6 [F. 115 e F. 116]), circostanza che richiede che in sede ricostruttiva si tenga conto delle loro specificità tematiche, spezzandoli quando necessario e ricollocandone le varie parti a commento dell’editto cui originariamente si riferivano. Peraltro sembrerebbe che anche in questo caso il commentario di Paolo, come del resto anche quello di Ulpiano e quello di Gaio all’editto provinciale, anteponesse alla trattazione dei singoli editti una parte introduttiva riguardante, per quanto ci è possibile ricostruire dall’unico frammento che sembrerebbe esserci conservato, le modalità di nomina e di revoca del procurator. Quanto alla successione degli editti e delle loro rispettive trattazioni appare opportuno invertire rispetto alla ricostruzione lenialiana l’ordine fra l’editto de defendendo eo, cuius nomine quis aget, et de satisdando (che diviene E. 31) e l’editto quibus municipum nomine agere liceat (che si pospone e diventa E. 32)271. Ciò anzitutto per ragioni di coerenza sistematica, evidenti nell’opportunità di tenere uniti da un lato gli editti riguardanti i procuratori, dall’altro quelli relativi alle modalità dell’esercizio delle azioni in nome delle comunità cittadine e delle universitates o contro di esse. Inoltre per un argomento che a me pare decisivo (e che riguarda specificamente le testimonianze del commentario paolino) e cioè per non esaltare la discontinuità (cui abbiamo accennato e che pure esiste) fra le varie parti di D. 3.3.43 e a D. 3.4.6, che, accogliendo la ricostruzione qui proposta, commenterebbero editti sì diversi, ma sostanzialmente contigui e non inframezzati, come invece era costretto a ritenere l’autore tedesco, da altri tematicamente diversi, rispettivamente riguardanti il commento all’editto dedicato a chi poteva agire in nome delle comunità cittadine (nel caso di D. 3.3.43) e quello relativo all’editto sugli obblighi dei procuratori in relazione alla difesa e alle cautiones da prestare, che a sua volta interromperebbe la continuità degli editti riguardanti le stesse comunità cittadine e le universitates (nel caso di D. 3.4.6)272.

271 Per il resto, nella successione degli editti e per la formulazione delle relative rubriche, ho seguito Lenel 1927, 95-109, nella cui ricostruzione è da condividere l’esclusione di un editto de abdicando vel mutando procuratore (v. ibidem, 87 s.), ipotizzato erroneamente da Rudorff 1869, 52. Quanto alle rubriche va peraltro segnalato che lo stesso Lenel sostituiva nella Palingenesi a quella quibus alieno nomine agere liceat quell’altra ut alieno nomine sine mandatu agere non liceat (E. 29), cfr. Lenel 1889.I, 979 (v. anche Lenel 1889.II, 451 e 1249). Per l’erroneità di tale formulazione, considerato che nell’editto non si doveva fare riferimento al mandato neppure in relazione alla nomina del procurator, v. le osservazioni formulate dallo stesso Lenel 1927, 96. 272 Per la “continuità” fra le due parti di D. 3.3.43 [F. 110 e F. 111] v. già Krüger 1905, 897, che conseguentemente anticipa, come anche qui si propone, D. 3.3.45 [F. 112], che anche Lenel 1889.I, 980, riteneva strettamente connesso alla seconda parte di D. 3.3.43 costituita dai paragrafi 2-6 [F. 111] (i due testi sono infatti riuniti da Lenel in Paul. 185). Quanto ai motivi della scelta qui non condivisa, v. Lenel 1927, 86, che ritiene che le trattazioni dell’editto quibus municipum nomine agere liceat e di quello quod adversus municipes agatur (per lui rispettivamente E. 31 ed E. 33) non potessero essere collocate da Ulpiano in libri diversi (e cioè rispettivamente nel nono e nel decimo). Si tratta di un’ipotesi fondata su un dato meramente formale e di cui lo stesso Lenel dimostrava di non essere pienamente convinto (v. il dubbio espresso ibidem, 98). D’altra parte, oltre agli argomenti qui addotti (e in specie quello relativo all’eccessiva “discontinuità” che si verrebbe a determinare rispetto al contenuto dei due passi paolini), è appena il caso di accennare al fatto che a favore dell’ipotesi qui proposta sta anche l’ordine dei titoli del Digesto (è cioè plausibile anche da questo punto di vista che i frammenti tratti da D. 3.3 precedessero, nelle opere d’origine, quelli tratti da D. 3.4).

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Fabiana Mattioli F. 107 – D. 46.3.51 Probabilmente in questo quadro si inseriva appunto il testo tratto da D. 46.3 de solutionibus et liberationibus in cui si affermava che il pagamento fatto al dispensator liberava il debitore anche se chi avesse appunto ricevuto il pagamento fosse stato in precedenza rimosso e ciò sempreché il debitore non fosse a conoscenza della rimozione273. La soluzione adottata trova giustificazione nella massima secondo cui ex voluntate enim domini ei solvitur, quam si nescit mutatam qui solvit liberatur. Si può ipotizzare che il testo si inquadrasse in un contesto in cui si sottolineava l’importanza della denuntiatio che riguardasse la nomina o la revoca del procurator e le conseguenze che ne sarebbero potute derivare in relazione all’eventuale solutio anche se in questo caso, probabilmente nel quadro di una digressione del commento e con un evidente slittamento di prospettiva, si fa piuttosto riferimento non a chi sta in giudizio per altri, ma a chi, come appunto il dispensator, era piuttosto colui cui, in quanto sottoposto, veniva specificamente demandato il compito di ricevere il pagamento274.

[A chi sia lecito agire in nome altrui (E. 29)] F. 108 – D. 26.7.24 Il testo fa riferimento a diverse fattispecie in cui si doveva agire nell’interesse del pupillo, per il quale di norma stava in giudizio il tutore275. Nel principium si prevede tuttavia che, quando lo richiedessero l’estensione delle attività negoziali da svolgere (sul piano quantita-

273 Qualcosa di simile viene detto in I. 3.26.10, in cui il dispensator è stato manomesso e riceve una volta divenuto liberto: …et huic simile est, quod placuit, si debitores manumisso dispensatore Titii per ignorantiam liberto solverint, liberari eos: cum alioquin stricta iuris ratione non possent liberari, quia alii solvissent, quam cui solvere deberent. Il dispensator, che può qualificarsi come un contabile fra i cui compiti rientrava anche quello della riscossione dei crediti, era infatti, come risulta anche nel nostro testo, di norma uno schiavo, cfr. Gai. 1.122: …qui dabat olim pecuniam, non numerabat eam, sed appendebat; unde servi quibus permittitur administratio pecuniae, dispensatores appellati sunt... Ciò risulta in termini espliciti da molte delle fonti giurisprudenziali che lo nominano, cfr. Gai. 3.160; Alf. 2 dig., D. 11.3.16; Iul. 11 dig., D. 14.3.12; Pomp. 6 ad Sab., D. 34.2.1; Gai. 1 rer. cott. sive aur., D. 40.4.24; Maec. 15 fideicomm., D. 40.5.35; Scaev. 4 resp., D. 40.5.41.15; Pomp. 7 ex Plaut., D. 40.7.21; Paul 8 ad Plaut., D. 46.3.62; Ulp. 77 ad ed., D. 47.10.15.44; Pomp. 6 ad Sab., D. 50.16.166; Alf. 7 dig., D. 50.16.203. 274 Sulla denuntiatio cfr. in generale Kipp 1903, 222 ss., nonché Berger 1953, 431. Sull’importanza della denuntiatio cfr. altresì Rozwadowski 1973, 90 s. e nt. 69 (con particolare riferirmento alla denuntiatio per mettere a conoscenza il debitore della nomina o della revoca di un procurator). 275 Quanto al fatto che il tutore stesse in giudizio per il pupillo in base a una previsione edittale v. Lenel 1927, 95. Cfr. specificamente Ulp. 77 ad ed., D. 46.7.3.5: …nam edicto praetoris illi tutori agendi facultas datur, cui a parente maioreve parte tutorum eorumve, cuius ea iurisdictio fuit, tutela permissa erit. Sul punto v., brevemente, Kaser, Hackl 1996, 217, nt. 70. Anche con riferimento ai curatori v. altresì Ulp. 6 ad ed., D. 3.1.3pr.: ‘Cui eorum a parente, aut de maioris partis tutorum sententia, aut ab eo cuius de ea re iurisdictio fuit ea tutela curatiove data erit’. Vi erano ovviamente altri soggetti che stavano in giudizio in virtù della previsione del pretore: si tratta dei familiari di cui agli elenchi contenuti, con riguardo all’editto qui nisi pro certis personis ne postulent (E. 16), in Ulp. 6 ad ed., D. 3.1.1.11 (Deinde adicit praetor: ‘pro alio ne postulent praeterquam pro parente, patrono patrona, liberis parentibusque patroni patronae’: de quibus personis sub titulo de in ius vocando plenius diximus. Item adicit: ‘liberisve suis, fratre sorore, uxore, socero socru, genero nuru, vitrico noverca, privigno privigna, pupillo pupilla, furioso furiosa’) che peraltro, nel richiamo finale a pupilli e furiosi, fa nuovamente riferimento

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Commento tivo o su quello della dispersione territoriale) o altrimenti la dignitas, l’età o le condizioni di salute del tutore, il pretore potesse provvedere alla nomina con decreto di un actor che, a rischio dello stesso tutor, agisse in sua vece. Il ricorso al decreto del pretore risultava peraltro necessario ogniqualvolta non si potesse procedere alla nomina di chi stesse in giudizio al suo posto (si trattasse di un cognitor o di un procurator) o perché il pupillo non era in grado di parlare o perché era assente276. Diversa la questione di cui si fa parola nel paragrafo 1, sempre comunque in relazione alla capacità di stare in giudizio da parte di chi rivestisse la tutela. Vi si dice che qualora la gestione della tutela fosse stata concessa a due congiuntamente doveva ritenersi che fosse permesso agire anche a uno solo, non potendo agire due simultaneamente277. La connessione fra le due parti del frammento mi pare ricostruibile con ragionevole certezza. Non risultava problematica la situazione in cui due contutori fossero chiamati a gerire la tutela, perché comunque ciascuno avrebbe potuto individualmente agire in giudizio. La questione si poneva invece se il tutore non si trovasse nella condizione di poter agire e non si potesse procedere alla nomina di chi agisse in sua vece. Non potendosi trovare chi difendesse gli interessi del pupillo era il pretore a nominare un actor mediante decreto.

[A chi non sia lecito agire per altri o mediante altri (E. 30)] F. 109 – D. 3.3.41 In questo editto si estendevano ai procuratores i divieti di agire in giudizio per altri o attraverso altri già previsti per i cognitores (E. 25 ed E. 26). Sappiamo già che alle donne era impedito di postulare pro aliis e che non potevano neppure essere nominate come cognitor, a meno che non risultassero agire come cognitor in rem suam. Qui si precisa che ciò non escludeva tuttavia

anche ai tutori e ai curatori, cfr., per la collocazione di entrambi i testi, Lenel 1889.II, 445, Ulp. 290. Sulla portata della disposizione edittale v. anche Ulp. 9 ad ed., D. 3.3.35pr., nonché Ulp. 77 ad ed., D. 46.7.3.3, sul punto cfr. ancora Lenel 1927, 95 s. All’editto quibus alieno nomine agere liceat si riferiscono anche D. 26.7.2, D. 26.7.4 e D. 3.1.5, tutti tratti dal nono libro del commentario ulpianeo, cfr. Lenel 1889.II, 451, Ulp. 323-325. 276 Le due situazioni sono strettamente connesse e non mi sembra necessario ipotizzare l’interpolazione del finale tunc actor necessario constituendus est per sostenerlo (cfr. invece Solazzi 1910, 31 s.). I presupposti del ricorso al decretum praetoris e alla nomina di un actor sono dunque due: il tutore non può agire in giudizio e non si può procedere alla nomina di chi, in alternativa, stia in giudizio per tutelare gli interessi del pupillo (il testo riguarda la nomina di un procurator, ma si è ritenuto che anche qui il riferimento originario fosse al cognitor, cfr. Lenel 1889.I, 979, nt. 3). Il testo paolino di D. 26.7.24 è riecheggiato nei contenuti in I. 1.23.6: Quodsi tutor adversa valetudine vel alia necessitate impeditur, quo minus negotia pupilli administrare possit, et pupillus vel absit vel infans sit, quem velit actorem periculo ipsius praetor vel qui provinciae praeerit, decreto constituet (e infatti conseguentemente Ferrini 1900, 139 [= 1929, II 349], ipotizza una derivazione del testo di I. 1.23.6 dalle Istituzioni di Paolo). Quanto alla possibilità di ricorrere alla nomina di un actor cfr. anche quanto si dice in Papin. 2 defin., D. 26.9.6: Tutor interposito decreto praetoris actorem reliquit. secundum eum sententia dicta iudicati transfertur ad pupillum actio non minus, quam si tutor optinuisset. 277 Il tutor gerens era ovviamente il tutore unico che come tale amministrava la tutela o quel tutore o quei tutori, come nel nostro caso, cui la gestione fosse stata devoluta in relazione all’editto de administratione tutorum, cfr. a questo proposito I. 1.24.1, Ulp. 35 ad ed., D. 26.2.19.1; Ulp. 35 ad ed., D. 26.4.5.2; Ulp. 35 ad ed., D. 26.7.3.1. Sul punto cfr., per alcuni brevi cenni, Voci 1970, 75. Sull’editto de administratione tutorum v. altresì Guzmán 1974, 161 ss.

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Fabiana Mattioli che, causa cognita, si permettesse loro di agire per i propri ascendenti, qualora questi fossero impediti a farlo a causa dell’età o per malattia e a patto che non vi fosse alcun altro che potesse agire al loro posto278. Si ricordava dunque un’eccezione che permetteva alle donne di stare in giudizio per altri. Si trattava tuttavia di un rimedio eccezionale e circoscritto, ammesso, causa cognita, in una situazione particolare e cioè in assenza di chiunque altro che, in alternativa, potesse agire. F. 110 – D. 3.3.43pr.-1 Si dice nel principium che al muto e al sordo non era vietato nominare un procuratore, ma che era loro permesso di farlo nel modo in cui gli fosse possibile in relazione alla loro menomazione fisica279. Segue un’osservazione che viene tradizionalmente ritenuta non genuina: può accadere anzi che i muti e i sordi siano a loro volta nominati come procuratori, tuttavia certamente non per agire in giudizio, ma piuttosto con il compito di amministrare280. Nel paragrafo 1 il giurista esprime altresì, attraverso quello che appare un giro di parole, una precisazione, probabilmente originata dalla fattispecie presa in considerazione, ma che assume una valenza di carattere generale. Essendo l’editto proibitorio (riguardando cioè chi non può agire per altri o attraverso altri) alla domanda riguardante la possibilità di qualcuno di avere un procuratore, si sarebbe dovuto rispondere valutando se non gli fosse proibito di nominarlo281.

278 Sul punto v. Kaser, Hackl 1996, 206, nt. 19. Sul divieto imposto alle donne di postulare pro aliis cfr. Ulp. 6 ad ed., D. 3.1.1.5: Secundo loco edictum proponitur in eos, qui pro aliis ne postulent: in quo edicto excepit praetor sexum et casum, item notavit personas in turpitudine notabiles. sexum: dum feminas prohibet pro aliis postulare. et ratio quidem prohibendi, ne contra pudicitiam sexui congruentem alienis causis se immisceant, ne virilibus officiis fungantur mulieres: origo vero introducta est a Carfania improbissima femina, quae inverecunde postulans et magistratum inquietans causam dedit edicto… Sul punto v. anche Val. Max., fact. et dict. mem. 8.3.2, a conferma della vicenda ricordata nel testo ulpianeo. Sulla questione cfr. in specie Cantarella 1996, 94 s.; fra gli altri v. anche Giachi 2010, 114 ss., in specie nt. 29. Quanto alla possibilità che la donna potesse essere data come cognitor in rem suam cfr. esplicitamente PS. 1.2.2: Femina in rem suam cognitoriam operam suscipere non prohibetur; v. altresì C. 2.12(13).4 che enuncia l’esclusione generale e l’eccezione: …cum aliena negotia per mulieres non aliter agi possunt, nisi in rem suam et proprium lucrum mandatae sunt eis actiones. 279 I sordi e i muti erano, invece, incapaci di designare, in ragione della loro menomazione, un cognitor, la cui nomina veniva posta in essere, come sappiamo, con un atto unilaterale ricettizio, ‘certis et quasi sollemnibus verbis’ (Gai. 4.83; 4.97 [v. supra, nt. 230]). Sul punto v. in specie Pugliese 1963, 335 s., che sottolinea il fatto che la posizione di sordi e muti, proprio perché originata da un handicap fisico e non da una menomazione giuridica, non era verosimilmente presa specificamente in considerazione da questa parte dell’editto (e cioè da E. 25, E. 26 ed E. 30). In questo senso si spiega la parte finale del testo, laddove si dice della natura proibitoria dell’editto quibus alieno nomine, item per alios agere non liceat. Sordi e muti infatti non possono stare in giudizio per altri e non possono nominare un cognitor solo perché ciò è impedito dalla loro menomazione. In assenza di una proibizione gli è permesso di fare quello che sono in grado di fare e cioè di procedere alla nomina di un procurator. 280 Sul punto v. in generale PS. 1.3.2: Procurator aut ad litem aut ad omne negotium aut ad partem negotii aut ad res administrandas datur. Peraltro la proposizione forsitan et ipsi dantur non quidem ad agendum, sed ad administrandum è stata ritenuta interpolata già da Faber 1604, 376 s. Dell’ipotesi del giurista savoiardo dà conto Krüger 1908, ad h. l. Sul punto v. anche Levy, Rabel 1929a, 36 e Iid. 1929b, 40. Sull’inserimento compilatorio, peraltro ampiamente condiviso, v. anche le osservazioni di Serrao 1947, 50. 281 Serrao 1947, 51, ritiene che l’interpolazione del richiamo alla figura del procurator, in luogo dell’originaria menzione del cognitor, sia provata dal testo di Ulp. 9 ad ed., Vat. 323 (Lenel, Ulp. 327): Quod ait ‘alieno nomine, item per alios’, breuiter repetit duo edicta cognitoria, unum, quod pertinet ad eos qui dantur cognitores, alterum ad eos qui dant; ut qui prohibentur uel dare uel dari cognitores, idem et procuratores dare dariue arceantur. Cfr. anche Levy, Rabel 1929a, 36. L’argomentazione va a mio avviso rigettata perché l’editto qui in questione, pur essendo ricalcato sui due editti cognitori, riguarda appunto i procuratores e dunque plausibilmente proprio ai procuratores già Paolo si riferiva.

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Commento [Sulla difesa di colui in nome del quale qualcuno agisca e della garanzia da prestare (E. 31)] F. 111, F. 112 – D. 3.3.43.2-6, D. 3.3.45 Dopo un taglio operato dai compilatori, che hanno saldato questa parte della trattazione paolina con quanto detto nel principium e nel paragrafo 1 a proposito dell’editto quibus alieno nomine, item per alios agere non liceat (E. 30), il testo conservatoci in D. 3.3.43 prosegue affrontando una serie di situazioni che erano probabilmente prese in considerazione, forse in un contesto originariamente più ampio e articolato, a commento dell’editto de defendendo eo, cuius nomine quis aget, et de satisdando282. Il giurista severiano ricorda anzitutto (paragrafo 2) che nelle azioni popolari, in cui si agisce ‘quasi unus ex populo’, nessuno poteva essere costretto ‒ indipendentemente da quanto previsto nella disposizione edittale ‒ ad assumere la difesa in qualità di procuratore283. Seguono una serie di paragrafi che sembrano potersi specificamente ricondurre agli obblighi di difesa imposti dall’editto e alle stipulazioni di garanzia che si sarebbero dovute prestare in assenza del dominus litis. Nel paragrafo 3, probabilmente in relazione al fatto che l’editto commentato si riferiva anche ai tutori e ai curatori che, in quanto chiamati ad agire per altri, erano tenuti, come risulta da Gai. 4.99, a prestare garanzia (Tutores et curatores eo modo, quo et procuratores, satisdare debere verba edicti faciunt…), si ricorda anzitutto che la nomina di un curatore sarebbe potuta avvenire esclusivamente con il consenso (e su richiesta) del minore sempreché costui fosse presente, ma che in sua assenza la nomina, che sarebbe dovuta avvenire tramite la richiesta di un procuratore, avrebbe comunque reso necessaria la cautio ratam rem dominum habiturum284.

282 Cfr. Ulp. 9 ad ed., D. 3.3.33.3: Ait praetor: ‘Cuius nomine quis actionem dari sibi postulabit, is eum viri boni arbitratu defendat: et ei quo nomine aget id ratum habere eum ad quem ea res pertinet, boni viri arbitratu satisdet’. Sulla portata dell’editto v. specificamente Donatuti 1923, 190 ss. (= 1976, I 105 ss.); cfr. altresì Pugliese 1963, 332 s., 337 ss. Per un accenno, v. anche Finazzi 1999, 91 e nt. 208, che sottolinea il fatto che l’assunzione della difesa da parte del procurator, in quanto non spontanea, non avrebbe comunque reso applicabile l’azione pretoria prevista per la negotiorum gestio processuale, se non eventualmente in via utile. Ove peraltro la defensio fosse risultata un obbligo accessorio del mandato ad agire si sarebbe potuta esercitare piuttosto, efficacemente, l’actio mandati. 283 Su questa regola, v. Casavola 1958, 121 s., che, alla luce di quanto affermato in D. 3.3.43.2, evidenzia come il divieto di utilizzare un procuratore nelle azioni popolari (se non dopo la lits contestatio) sancito da Vat. 340a (su cui v. supra, nt. 239) sia dovuto al fatto che l’unus ex populo “non è tenuto a praestare defensionem ut procurator, perché non può rappresentare altri che sé medesimo, allo stesso modo che ogni altro cittadino qualunque, appunto nella qualità di cittadino qualunque”; sul punto v. anche Danilović 1974, 22 s. Quanto affermato in D. 3.3.43.2 va peraltro messo specificamente in relazione con Ulp. 9 ad ed., D. 3.3.33.3: il procurator non è tenuto a defensionem praestare perché nelle azioni popolari non può neppure agire in quanto in esse unus ex populo agit. Quanto detto da Paolo non ha cioè una funzione definitoria generale, ma semplicemente quella di spiegare perché il procuratore nelle azioni popolari non può essere costretto a esercitare la difesa che invece di norma, in quanto tale, deve esercitare. 284 Allo stesso proposito v. anche Mod. 1 excus., D. 26.6.2.4-5: Ταῦτα μὲν περὶ ἐπιτρόπων: κουράτορας δὲ ἑαυτοῖς

αἰτήσουσιν οἱ ἀφήλικες, ἐὰν μὲν παρῶσι, δι’ ἑαυτῶν· ἐὰν δὲ ἀποδημῇ τις αὐτῶν, αἰτήσει διὰ φροντιστοῦ. 5. Εἰ δὲ ἄλλος αἰτῆσαι κουράτορα δύναται τῷ ἀφήλικι, ἐζητήθη. καὶ Οὐλπιανὸς ὁ κράτιστος οὕτως γράφει, ὡς δέον ἄλλον αὐτῷ μὴ αἰτεῖν, ἀλλὰ αὐτὸν ἑαυτῷ… Cfr. sul punto Kränzlein 1971, 327 (= 2010, 41 s.). Sulla cautio ratam rem dominum habiturum

v. Palermo 1941, 23 ss. e in particolare Pugliese 1963, 337 ss. Cfr. inoltre Rozwadowski 1973, 116 ss. e Giomaro 1982, 223 ss. Con specifico riferimento al testo di D. 3.3.43.3 v. anche De Filippi 2002, 95.

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Fabiana Mattioli Il presupposto di quanto affermato nel successivo paragrafo 4 pare invece potersi individuare in quella parte della disposizione edittale secondo cui il procurator che fosse stato nominato dal dominus per agire in giudizio era obbligato ad assumerne anche la difesa in qualità di convenuto nelle azioni che fossero intentate contro di lui (cfr. Ulp. 9 ad ed., D. 3.3.33.3). A questo proposito si afferma che la sanzione (la poena) in cui lo stesso procurator sarebbe incorso, qualora fosse venuto meno al proprio obbligo difensivo, sarebbe stata quella della denegatio actionis in relazione all’azione che avesse inteso esercitare in esecuzione del mandato ricevuto285. Subito di seguito, nel paragrafo 5, spostando nuovamente l’attenzione sulle stipulazioni di garanzia, si ricorda invece l’opinione di Atilicino, secondo il quale, qualora il procurator agisse in nome del dominus litis assente, ma comunque in presenza di uno schiavo che appartenesse a quest’ultimo la stipulazione di garanzia si sarebbe dovuta prestare piuttosto allo schiavo che non al procuratore stesso286. Infine (paragrafo 6) si affronta il caso specifico di chi, senza essere obbligato a difendere l’assente, avesse tuttavia prestato la satisdatio iudicatum solvi allo scopo di assumerne la difesa, situazione che ‒ si dice ‒ comportava come conseguenza che costui dovesse essere costretto a sostenere il giudizio affinché non venisse tratto in inganno chi aveva ricevuto la garanzia e ciò perché ‒ come precisa ancora Paolo ‒ si sarebbe dovuto applicare il principio secondo cui eos, qui non coguntur rem defendere, post satisdationem cogi287. A ciò si aggiunge che peraltro Labeone riteneva che tale principio dovesse subire, previo svolgimento di un’istruttoria (e cioè causa cognita), un temperamento. Si precisa infatti che chi avesse prestato la garanzia doveva sì essere costretto a sostenere il giudizio, ma sempreché il suo rifiuto potesse cagionare un danno per l’attore in ragione del decorso del tempo, mentre non avrebbe dovuto esserlo ‒ come apprendiamo attraverso il prosieguo della trattazione paolina (Paul. 9 ad ed., D. 3.3.45pr.: non cogendum) ‒ se ad esempio fosse venuto meno un rapporto di affinità, o fossero sorte inimicizie, o se chi avesse prestato la garanzia avesse iniziato

285 Sul punto, cfr. Pugliese 1963, 332 s. e nt. 68, nonché Kaser, Hackl 1996, 215 e nt. 52. Alla sanzione fa riferimento anche (Imp. Ant. A. Pancratiae, a. 212) C. 2.12(13).5: Actionem ei, qui absentis nomine agere vult, si non eum defendat, denegari oportere iam edicto perpetuo expressum est. Va aggiunto che il procurator che intendesse agire avrebbe dovuto prestare la cautio ratam rem dominum habiturum comunque prima della litis contestatio, cfr. Ulp. 9 ad ed., D. 3.3.40.3: Ratihabitionis autem satisdatio ante litis contestationem a procuratore exigitur: ceterum semel lite contestata non compelletur ad cautionem. La mancata prestazione della cautio avrebbe anche in questo caso portato alla denegatio actionis, cfr. PS. 1.3.8: Si satis non det procurator absentis, actio ei absentis nomine non datur. 286 Secondo Cuiacius 1584, 114, la spiegazione della soluzione proposta da Atilicino starebbe nel fatto che in tal modo il dominus avrebbe potuto acquistare l’actio directa, mentre se la stipulazione di garanzia fosse prestata al procuratore avrebbe potuto acquistarla soltanto in via utile. Sul punto v. anche Pothier 1819, 307, nt. 2. 287 Che questa sia la fattispecie presa in considerazione dal testo è sostenuto ‒ credo a ragione ‒ da Finazzi 1999, 90 e nt. 206. Peraltro non si può escludere che il testo contenesse un riferimento al cognitor (cfr. Lenel 1889.I, 980, nt. 1, che così propone di emendarlo: qui non cogitur defendere absentem…), circostanza che configurerebbe una fattispecie in cui il cognitor attraverso il liti se offerre si sarebbe comportato da semplice defensor prestando egli stesso la satisdatio iudicatum solvi. Sul punto v. Pugliese 1963, 347, che richiama D. 3.3.8.3 in cui si ricorda che la prestazione della stipulazione di garanzia da parte del dominus litis obbligava il cognitor consenziente ad assumere il giudizio, fatto che appunto non si verificava se il dominus litis invece non la prestava. Il testo peraltro presenta un’altra anomalia nella frase cogendum procuratorem iudicium accipere che implica o l’aggiunta di un sicut prima di procuratorem o piuttosto che il riferimento al procurator sia da eliminare, cfr. Lenel 1889.I, 980, nt. 2.

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Commento a possedere i beni dell’assente, o ancora, come risulta dal frammento ulpianeo strettamente collegato dai compilatori (Ulp. 7 disp., D. 3.3.44), dovesse assentarsi per andare in luoghi lontani o altrimenti, più in generale, potesse dirsi intervenuta intervenuta un’altra giusta causa288. Come apprendiamo dal principium di D. 3.3.45, tale prospettiva non era tuttavia condivisa da Sabino che al contrario non riconosceva al pretore alcun potere coercitivo in materia (...Sabinus autem nullas praetoris partes esse ad compellendum defendere...) e reputava piuttosto che chi si fosse rifiutato di sostenere il giudizio fosse comunque tenuto in base alla stipulatio ob rem non defensam289. Tale diversa opinione non sembrerebbe peraltro accolta da Paolo che anzi, riprendendo il discorso precedente, ricordava che, in presenza di una giusta causa per rifiutare legittimamente l’assunzione del giudizio, anche gli eventuali garanti (il testo menziona i fideiussores, ma anche qui il testo doveva invece riferirsi in origine agli sponsores), non sarebbero stati comunque tenuti, dal momento che appunto non si sarebbe potuto costringere ad assumere la difesa chi, alla stregua dell’arbitratus di un vir bonus, avesse addotto una adeguata giustificazione (quia vir bonus arbitraturus non fuerit, ut qui iustam excusationem adferret, defendere cogeretur). Lo stesso sarebbe dovuto valere anche qualora non fosse stata prestata la satisdatio (et si satis non dedit), ma si fosse ritenuto di poter dar credito all’impegno in precedenza assunto mediante semplice stipulatio (sed repromittenti ei creditum est)290. Il tema cambia nel paragrafo 1 in cui si ritorna su una questione già affrontata in precedenza con riferimento alla datio cognitoris (v. supra F. 92). Vi si afferma infatti che a chi agisca

288 Quella suggerita da Labeone appare come una causae cognitio non prevista dall’editto, come dimostra la contraria opinione di Sabino esposta dallo stesso Paolo in D. 3.3.45pr. (v. subito infra, nel testo). Peraltro la presa di posizione di Labeone, volta a temperare le prescrizioni edittali attraverso la causae cognitio pretoria, non è isolata, ma è testimoniata in almeno altri due casi, cfr. Paul. 4 ad ed., D. 2.4.11 [F. 57]: Quamvis non adiciat praetor causa cognita se poenale iudicium daturum, tamen Labeo ait moderandam iurisdictionem: veluti si paeniteat libertum et actionem remittat: vel si patronus vocatus non venerit: aut si non invitus vocatus sit, licet edicti verba non patiantur (v. supra, 104 s.); nonché Ulp. 3 ad ed., D. 4.8.15: Licet autem praetor destricte edicat sententiam se arbitrum dicere coacturum, attamen interdum rationem eius habere debet et excusationem recipere causa cognita: ut puta si fuerit infamatus a litigatoribus, aut si inimicitiae capitales inter eum et litigatores aut alterum ex litigatoribus intercesserint, aut si aetas aut valetudo quae postea contigit id ei munus remittat, aut occupatio negotiorum propriorum vel profectio urguens aut munus aliquod rei publicae: et ita Labeo. Quanto all’elencazione delle cause giustificative enunciate nella raccolta di iura va peraltro ricordato che la proposizione vel alia iusta causa intervenerit di Ulp. 7 disp., D. 3.3.44 è ritenuta non genuina da Donatuti 1921, 404-405 (= 1976, I 57-58). È appena il caso di ricordare infine che esigenze redazionali hanno determinato la collocazione fuori massa del frammento tratto dai libri disputationum ulpianei inserito appunto in D. 3.3.44. Sul punto, cfr. Lovato 2003, 72-73. 289 Sull’impiego dell’espressione praetoris partes nelle fonti giuridiche romane, v. le osservazioni di Mantovani 2003, 44, nt. 15. In sostanza secondo Sabino il pretore non avrebbe avuto il potere di costringere alla difesa e pertanto non si sarebbe neppure posta la questione delle cause di giustificazione da valutare causa cognita di cui si era appena detto in D. 3.3.43.6. 290 Che il testo non si riferisse ai fideiussores, ma piuttosto agli sponsores è sostenuto da Lenel 1889.I, 980, nt. 3. Sul significato dell’espressione ei creditum est nel senso di dar credito, prestar fede, cfr. Valiño 1967, 426 s. (anche con riferimento ad altre fonti in cui ricorre analogo significato). Che la frase (et si satis non dedit) si riferisca al fatto che non fosse stata prestata la satisdatio mi sembra chiaro nella contrapposizione con quanto detto in D. 3.3.43.6, laddove si prevede al contrario che la satisdatio sia stata invece prestata (tamen si iudicatum solvi satisdedit). Quanto alla valutazione della condotta alla stregua dell’arbitratus di un vir bonus va ricordato che si tratta, come è ben noto, di espressione assai frequente nelle fonti giuridiche e che ricorre anche altrove come parametro di valutazione utilizzato dal pretore con specifico riferimento all’assunzione della difesa in giudizio, cfr. a questo proposito in specie Pomp. 26 ad Sab., D. 46.7.12; Venul. 6 disp., D. 46.7.17 e Venul. 7 disp., D. 46.7.18.

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Fabiana Mattioli ‘de publico’ (e cioè con un’azione popolare), ma in modo tale da difendere anche un interesse privato, si debba riconoscere, causa cognita, la facoltà di nominare chi stia per lui in giudizio (in questo caso un procuratore), dovendosi pertanto respingere con un’eccezione il quivis e populo che in virtù di un’analoga legittimazione avesse agito in un momento successivo291. Situazione ancora diversa è quella affrontata nel paragrafo 2. Con riferimento al caso in cui al procuratore fosse stata fatta denuncia di nuova opera e costui si fosse avvalso dell’interdetto ne vis fiat aedificanti, si ricorda il parere di Giuliano che riteneva che con ciò egli assumesse il ruolo di difensore (defensoris partes eum sustinere) e che non gli dovesse essere pertanto richiesta la cautio ratam rem dominum habiturum, che peraltro, sempre secondo Giuliano ‒ la cui opinione è riportata qui da Paolo in forma diretta ‒, anche se prestata non avrebbe potuto trovare applicazione (et si satisdederit, non animadverto, inquit Iulianus, quo casu stipulatio committatur)292.

[A chi sia lecito agire in nome dei membri di una comunità cittadina (E. 32)] F. 113 – D. 50.16.18 L’editto riguardava la nomina di chi potesse agire municipum nomine e quindi a nome dei membri di una comunità cittadina (indicato pertanto come actor municipum o civitatis). A commento di questo editto è quasi certamente in primo luogo da collocare il testo di D. 50.16.18, in cui il giurista severiano spiega i possibili significati del termine munus. L’occasione è fornita dalla volontà di spiegare il termine municipes che appunto ‒ si dice ‒ così si chiamavano quod munera civilia capiant293. Ciò offre evidentemente lo spunto per la digressione de-

291 Cfr. sul punto Casavola 1958, 118, che rileva come il testo si riferisca evidentemente a quelle azioni in cui non esisteva una “riserva della potestas experiundi a favore dell’attore interessato”, ma per le quali era riconosciuto un potere di scelta del pretore che individuava “l’attore in base al suo interesse privato mediante una causae cognitio” (cfr. a questo proposito Paul. 1 ad ed., D. 47.23.2 [F. 3]: Si plures simul agant populari actione, praetor eligat idoneiorem: v. Luchetti 2018c, 105 s.). Sull’exceptio di cui si fa parola nel nostro testo, da intendersi come exceptio doli perché, una volta nominato il procuratore, l’alius agens rimane privo di legittimazione, v. le osservazioni dello stesso Casavola 1958, 143 ss., cui rinvio per un ampio esame della letteratura più antica e per le varie ipotesi formulate circa la natura dell’exceptio (con particolare riferimento all’esclusione che potesse trattarsi invece di un’exceptio rei iudicatae vel in iudicium deductae). 292 Su questa parte del testo, v. in specie Gandolfi 1955, 58 s. Sull’interdetto ne vis fiat aedificanti cfr., per tutti, Paricio 1982, 204 ss. Sull’espressione defensoris partes eum sustinere, che in forma analoga ricorre anche in Ulp. 52 ad ed., D. 39.1.5.20, cfr. le osservazioni di Orestano 1982, 14 (e ivi ulteriore indicazione di fonti in cui ricorre l’espressione sustinere partes). 293 La valenza definitoria del passo mi induce a premetterlo agli altri che erano posti a commento dello stesso editto. Diversamente Lenel 1889.I, 980, Paul. 184, lo pone come ultimo fra i frammenti superstiti, probabilmente limitandosi a seguire l’ordine del Digesto. Anche Krüger 1905, 898 lo pospone a D. 3.4.4 [F. 114] e a D. 3.4.6pr.-2 [F. 115], inserendolo fra l’altro come unico a commento dell’editto quod adversus municipes agatur (che peraltro individua con la rubrica edittale si contra municipes agatur). La collocazione che qui si propone, oltre che conformarsi alle caratteristiche del testo (l’editto riguardava chi potesse agire a nome dei municipes e opportunamente Paolo spiegava all’inizio della sua trattazione chi fossero i municipes e perché si chiamassero così), ha, a mio avviso, l’ulteriore pregio di non interrompere del tutto la contiguità delle due parti di D. 3.4.6 (v. supra, 149), anche se ben

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Commento finitoria contenuta nel frammento. Vi si dice che il termine munus poteva assumere tre diversi significati. Anzitutto quello di dono (et inde munera dici dari mittive), in secondo luogo quello di onere (quod cum remittatur, vacationem militiae munerisque praestat inde immunitatem appellari), infine quello di ufficio (unde munera militaria et quosdam milites munificos vocari), significato da cui derivava appunto il nome di municipes per coloro che assumevano uffici civili294. F. 114 – D. 3.4.4 A questo editto certamente si riferisce un testo ulpianeo in cui si precisa che l’individuazione di chi stesse in giudizio per le città e per le loro curie era regolata dalla legge e che, in mancanza di esplicite previsioni legislative, competesse all’ordo decurionum, in presenza di almeno due terzi dei componenti (cfr. Ulp. 9 ad ed., D. 3.4.3: Nulli permittitur nomine civitatis vel curiae experiri nisi ei, cui lex permittit, aut lege cessante ordo dedit, cum duae partes adessent aut amplius quam duae)295. A questo proposito il testo paolino riprodotto in D. 3.4.4, in stretta connessione con quanto affermato nel frammento che lo precedeva nel Digesto, precisava in via interpretativa che nel computo dei due terzi (e quindi ai fini del calcolo del quorum) doveva essere inserito anche colui che eventualmente fosse stato nominato dall’assemblea dei decurioni. F. 115 – D. 3.4.6pr.-2 La designazione da parte dell’ordo decurionum sarebbe dovuta avvenire secondo Pomponio senza alcun obbligo di astensione dovuto al rapporto di filiazione (cfr. Ulp. 8 ad ed., D. 3.4.5: Illud notandum Pomponius ait, quod et patris suffragium filio proderit et filii patri). Altrettanto, come aggiunge Paolo nel principium di D. 3.4.6, si doveva dire in relazione al rapporto di pa-

mi avvedo che esse risultano comunque separate dalla trattazione dell’editto quod adversus municipes agatur (E. 33), che pur non essendo documentato dai frammenti paolini (ma diversamente appunto Krüger 1905, 898), doveva interporsi fra l’editto quibus municipum nomine agere liceat (E. 32) e quello quod cuiuscumque universitatis nomine vel contra eam agatur (E. 34). Ciò sempreché gli editti riguardanti le comunità cittadine fossero due come ritenuto da Lenel 1927, 99, la cui ipotesi ricostruttiva (fondata anche sul tenore letterale dei testi e in particolare di Ulp. 10 ad ed., D. 3.4.7pr.: Sicut municipum nomine actionem praetor dedit, ita et adversus eos iustissime edicendum putavit. sed et legato, qui in negotium publicum sumptum fecit, puto dandam actionem in municipes) si potrebbe teoricamente mettere in dubbio guardando all’unicità dell’editto sulle universitates, ma che tuttavia pare tutto sommato preferibile accogliere alla luce del fatto che se, come abbiamo detto (v. supra, nt. 271), è ben possibile che i due editti, benché contigui, fossero oggetto del commento ulpianeo in due diversi libri (il nono e il decimo), appare tuttavia molto difficile pensare invece che la trattazione dello stesso editto avvenisse in due libri diversi. Non aiuta per la soluzione della questione l’ipotesi ricostruttiva formulata da Rudorff 1869, 52 s., che ipotizza a sua volta l’esistenza di due soli editti, uno riguardante il caso in cui le comunità cittadine e le universitates si trovassero ad agire in giudizio e l’altro in cui fossero piuttosto nella condizione di convenuti. 294 Alla funzione definitoria il testo abbina dunque nel suo complesso anche un evidente sforzo etimologico, facendo derivare da munus, non solo il termine municipes (in questo senso va rilevata la sostanziale consonanza con Fest., v. municeps [Lindsay, 117]: Municeps… est …qui… munus functus est), ma anche l’immunitas che deriva dalla rimessione di un onere con riferimento particolare all’esonero dall’esercito, così come, con riferimento specifico invece al significato di officium, la denominazione di munifices attribuita ad alcuni militari che occupavano una posizione subalterna nell’esercito in quanto sottoposti alle corvées e alle fatiche più gravi (cfr. a questo proposito Veget., epit. rei milit. 2.7.12 e Ammian., res gestae 16.5.3): sul punto, per un accenno a questa valenza del testo, Marrone 1994a, 592 s., nt. 49 (= 2003, I 538 s., nt. 49). 295 Il quorum dei due terzi è previsto specificamente da Ulp. 3 de appell., D. 50.9.3: Lege autem municipali cavetur, ut ordo non aliter habeatur quam duabus partibus adhibitis. Nello stesso senso cfr. anche Lex Irnitana, c. 29, ll. 26-29, in materia di datio tutoris: …ex decreto decurionum, quod / cum duae parte[s] decurionum non minus adfuerint, factum erit, eum, / qui nominatus erit, quo ne a iusto tutore tutela abeat, ei tuto- / rem dato… (cfr. González 1986, 157).

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Fabiana Mattioli rentela fra coloro che fossero sottoposti allo stesso vincolo potestativo e ciò in quanto il voto dato a costoro doveva intendersi dato quasi decurio… non quasi domestica persona296, regola che si dice sarebbe dovuta valere anche per l’elezione alle cariche magistratuali, a meno che ciò non fosse esplicitamente vietato da una legge municipale o da una perpetua consuetudo297. Nei paragrafi 1 e 2 dello stesso testo si esaminano anche alcune altre situazioni in relazione alla designazione dell’actor civitatis. Si fa anzitutto riferimento (paragrafo 1) alla possibilità che i decurioni avessero delegato la scelta ai duumviri e si precisa che, in tal caso, chi fosse stato indicato lo si sarebbe considerato come nominato dall’ordo decurionum, non rilevando che la scelta fosse stata fatta dal senato cittadino o da chi da questo ne fosse stato delegato (…parvi enim refert, ipse ordo elegerit an is cui ordo negotium dedit…). Non sarebbe stata invece legittima una designazione che valesse per il futuro (e quindi conferita attraverso un mandato generico ad omnes futuras lites), non potendosi provvedere alla nomina altro che per una controversia già in atto (quia non possit videri de ea re, quae adhuc in controversia non sit, decreto datam persecutionem)298. Tale soluzione sembra però trovare un limite nella proposizione successiva (sed hodie haec omnia per syndicos solent secundum locorum consuetudinem explicari), quasi unanimemente ritenuta interpolata e volta a rappresentare, a detta dei più, un quadro conforme alla realtà dei tempi di Giustiniano299. Si tratta peraltro solo di un’ipotesi che non trova un conforto sicuro nelle fonti che anzi tendono a farci escludere che nel diritto giustinianeo vi fosse una regola che ammetteva un

296 Non mi pare suffragata da argomenti che possano considerarsi adeguatamente convincenti l’ipotesi formulata da Honoré 2002, 74, secondo cui l’intero testo di D. 3.4.6 da questo punto in poi (e cioè da quod et in honorum petitione) andrebbe attribuito non a Paolo, ma piuttosto a Ulpiano, sulla base di una serie di dati puramente stilistici: “The construction erit followed by the gerundive is common in Ulpian but very rare in Paul. The passage in question continues with other Ulpianic phrases. For instance, we find, a little later (3.4.6.1) parvi refert, which occurs in thirty-seven texts of Ulpian and otherwise only once in Papinian and once (this text) in Paul. Then there is a sentence (3.4.6.2) beginning et puto and another short sentence (et constitui ei potest: 3.4.6.3) beginning with et. Indeed the whole passage, from quod et in honorum petitione to the end of D. 3.4.6, though attribuited to Paul, is really a passage from Ulpian that continues D. 3.4.5”. 297 Il testo fa qui nel suo principium un primo riferimento alla consuetudo, richiedendo dunque, affinché avesse valore praeter legem, che si trattasse appunto di una perpetua consuetudo. Va sottolineato che non si tratta però dell’unico riferimento alla consuetudo contenuto nel nostro passo che, più avanti nel paragrafo 1, richiama, pur su altro piano, anche la consuetudo locorum in relazione alla facoltà dei syndici di stare in giudizio per le rispettive comunità cittadine, effettuando dunque in questi termini e in quel contesto un richiamo alla regolamentazione, ancora una volta praeter legem, riconducibile alle modalità della prassi amministrativa locale. Quello della consuetudo è insomma un elemento che mette in relazione le varie parti del testo di D. 3.4.6pr.-1, pur se le sue diverse declinazioni rivelano una distanza significativa fra la consuetudo che si dice perpetua (e quindi risalente ab antiquo) del principium e la consuetudo locorum significativamente introdotta dall’avverbio hodie, rivolta ad avvalorare la prassi del presente. 298 La regola enunciata è comunemente ritenuta rappresentare il diritto dell’epoca del Principato e va posta in relazione con quanto detto in Arcad. Char. lib. sing. de mun. civ., D. 50.4.18.13: Defensores quoque, quos Graeci syndicos appellant, et qui ad certam causam agendam vel defendendam eliguntur, laborem personalis muneris adgrediuntur. L’actor municipum si contrapporrebbe dunque al defensor o syndicus (la cui menzione, nel testo attribuito a Paolo, sarebbe frutto di un intervento successivo, v. infra, nt. seguente) perché nominato con riferimento a una singola causa (ad certam causam) e senza dunque un mandato generale a stare in giudizio per la civitas, sul punto, per un quadro dell’orientamento della letteratura dominante, v. brevemente de Robertis 1970, 305 s. 299 Quest’ultima frase fu ritenuta interpolata già dal Faber 1604, 406. L’interpolazione è comunemente ammessa, cfr. Levy, Rabel 1929a, 38, Iid. 1929b, 43 e condivisa anche dalla letteratura postinterpolazionista, cfr. in specie Biscardi 1980, 17 e nt. 30.

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Commento mandato generalizzato ad futuras controversias300. Ciò mi induce a riconoscerne piuttosto la genuinità, attribuendole, nella dinamica del discorso del giurista severiano, la funzione di precisare che tutto quanto detto in precedenza (haec omnia) non avrebbe necessariamente dovuto aver luogo ai tempi in cui Paolo scriveva (in questo senso dovrebbe infatti esser letto l’incipit sed hodie), tempi in cui il compito di stare in giudizio per le comunità cittadine risultava affidato, secundum locorum consuetudinem (e quindi a seconda dei casi con mandato generico o relativo a singole liti), ai syndici (individuati esemplificaticamente come figure paradigmatiche dei rappresentanti delle civitates)301. Il testo si conclude (paragrafo 2) facendo riferimento al fatto che la revoca dell’incarico avrebbe comportato che la mancanza di legittimazione potesse essere eccepita al designato, essendogli appunto permesso di agire solo fintantoché rimanesse in essere la designazione.

[Come si agisca in nome di una qualche collettività o contro di essa (E. 34)] F. 116 – D. 3.4.6.3 A commento di questo editto doveva essere quasi certamente inserito il testo di D. 3.4.6.3 che nella raccolta di iura risulta ricongiunto a quanto detto nei paragrafi immediatamente precedenti a proposito dell’actor municipum o civitatis302. Vi si afferma che chi agisce in quanto

300 Per un quadro del diritto giustinianeo e sulle numerose fonti che dimostrano come invece già nell’epoca del Principato vi fossero figure destinate a stare in giudizio permanentemente per civitates e collegia (cfr. per le fonti giuridiche, sia pure in termini non del tutto espliciti, Ulp. 5 ad ed., D. 2.4.10.4 e Gai. 3 ad ed. prov., D. 3.4.1.1) v. de Robertis 1970, rispettivamente 312 ss. e 326 ss. Ciò peraltro ha spinto il de Robertis fino al punto di rovesciare la communis opinio, ritenendo genuina la proposizione sed hodie haec omnia per syndicos solent secundum locorum consuetudinem explicari e ipotizzando piuttosto che non rispecchi la realtà del Principato la parte precedente del testo secondo cui sarebbe stata nulla una designazione conferita attraverso un mandato generico ad omnes futuras lites. Non è escluso invece che questa parte esprimesse il punto di vista di Paolo (v. lo stesso de Robertis ibidem, 334 s.), configurando la posizione dell’actor come del tutto simile a quella del cognitor e invece diversa da quella del procurator così come rappresentata, rispetto alle liti future, in Ulp. 9 ad ed., D. 3.3.1.3 e D. 3.3.3 (Dari autem procurator et absens potest […] 3. Item ad litem futuram et in diem et sub condicione et usque ad diem dari potest) (v. già supra, 135 s.). 301 Credo insomma che il rapporto fra le due parti del testo possa essere ricostruito senza necessariamente individuarvi (in un senso o nell’altro) un contrasto insanabile. In questo quadro interpretativo il riferimento ai syndici potrebbe avere valore esemplificativo (e forse una valenza frequenziale), non escludendo che un ruolo analogo potesse essere riconosciuto a figure affini come quelle del defensor o dell’actor municipum o civitatis. Ipotizzerei cioè che Paolo abbia introdotto nella frase sed hodie… explicari una precisazione rispetto a quanto detto in precedenza, evidenziando dunque la variabilità e la flessibilità di situazioni introdotte già al suo tempo dalla consuetudo locorum. 302 Che anche D. 3.4.6.3 si riferisse all’actor municipum o civitatis è sostenuto dalla dottrina interpolazionistica, cfr. Levy, Rabel 1929a, 38 (nonché Iid. 1929b, 43), che appunto ritiene interpolato universitatis al posto degli originari civitatis o municipum. Si tratta di un’ipotesi volta a ricongiungere tematicamente il paragrafo 3 con quanto detto nei paragrafi precedenti dello stesso frammento. Nulla peraltro esclude che il testo di Paolo sia stato piuttosto raccorciato dai compilatori e che siano state saldate due parti, comunque originariamente non lontane, relative rispettivamente alle figure del resto analoghe dell’actor civitatis o municipum e dell’actor universitatis. È del resto un modus operandi che può notarsi anche con riguardo a D. 3.3.43 [F. 110 e F. 111]. Non mi pare invece potersi accogliere l’ipotesi che il testo di D. 3.4.6.3, come i paragrafi precedenti, possa essere attribuito ai libri ad edictum di Ulpiano piuttosto che a quelli di Paolo (v. supra, nt. 296).

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Fabiana Mattioli delegato di una collettività (e cioè l’actor universitatis) deve anche assumerne la difesa e tuttavia non è tenuto a prestare la cautio de rato (e cioè a garantire per la ratifica), salvoché, secondo quanto appunto detto nel testo, non si potessero avanzare dubbi riguardo al decreto di nomina303. Tale attore avrebbe assunto la funzione di un cognitor (actor itaque iste procuratoris partibus fungitur) e sulla base dell’editto non gli sarebbe stata data neppure l’actio iudicati, a meno che, come il cognitor, non fosse stato nominato nel proprio interesse304, così come, a quanto si deve a mio avviso ritenere e nonostante il testo così come ci è pervenuto attesti piuttosto il contrario, non gli sarebbe stata riconosciuta, su tutt’altro piano, la facoltà di concludere un constitutum305. Si aggiunge infine, a completamento del discorso, che poteva essere nominato come actor universitatis anche un figlio in potestà e che la sua sostituzione era ammessa in forza degli stessi motivi per i quali si poteva sostituire un cognitor, con ciò facendo evidentemente riferimento a quanto in precedenza previsto nell’editto de cognitore abdicando vel mutando (E. 28).

303 Non vi sono dubbi che il testo equiparasse l’actor universitatis al cognitor, cfr. Lenel 1889.I, 980, nt. 4. La necessità di prestare la cautio si pone in relazione a possibili incertezze sulla qualifica dell’actor universitatis e conseguentemente sulla sua legittimazione ad agire (con riferimento al decretum di investitura): cfr. Bonini 1968, 196 nt. 64. Dubbi sull’attribuibilità a Paolo di questa limitazione alla regola generale sono espressi da Pugliese 1963, 342 e 344, nt. 84, che ritiene la frase sed interdum si de decreto dubitetur, puto interponendam et de rato cautionem il risultato di un’aggiunta avvenuta in epoca tardoantica. La regola generale sembra riaffermata anche in Vat. 335 (Lenel 1889.II, 1234, Frag. incerta 24) che esclude a sua volta, pur in un testo mutilo, che l’actor municipum debba essere in ogni caso tenuto a prestare la cautio de rato: Actor municipum etsi ex edicto et cavere de rato et defendere cogitur, interdum neutrum praestare necesse habet... Come è noto anche il tutore e il curatore secondo Gaio potevano talvolta non prestare la cautio (cfr. Gai. 4.99: Tutores et curatores eo modo quo et procuratores satisdare debere uerba edicti faciunt; sed aliquando illis satisdatio remittitur), ma tuttavia sembra vi fossero a loro volta sempre tenuti qualora non fosse certa la loro posizione come tutori o curatori (o la loro permanenza come tali o il fatto che a loro fosse attribuita la gestione), cfr. in specie Ulp. 9 ad ed., D. 26.7.23: Vulgo observatur, ne tutor caveat ratam rem pupillum habiturum, quia rem in iudicium deducit. quid tamen si dubitetur, an tutor sit vel an duret tutor vel an gestus illi commissus sit? aequum est adversarium non decipi. idem et in curatore est, ut Iulianus scripsit. Peraltro anche su questo testo si sono appuntati i dubbi di Pugliese ibidem, 344 e nt. 84. Tuttavia sostanzialmente nello stesso senso anche Herm. 1 iur. epit., D. 46.8.6: Tutore suspecto postulato defensor si velit respondere, cautionem ratam rem dominum habiturum cavere compellendus est. Sul punto v. anche Rozwadowski 1973, 112 ss., che in particolare sottolinea come non possa riscontrarsi una divergenza di vedute fra la giurisprudenza del secondo secolo e quella del terzo e più specificamente fra Gaio e Ulpiano, evidenziando il fatto che i due giuristi sostanzialmente esprimano, sia pure con formulazioni diverse (e direi quasi come un negativo e un positivo fotografici), la stessa regola. 304 Che il passo facesse originariamente riferimento all’analogia della posizione dell’actor con quella del cognitor è generalmente ammesso, v. La Rosa 1963, 152, nt. 51. Cfr. anche Pugliese 1963, 349 s. Sulla questione v. inoltre Ulp. 58 ad ed., D. 42.1.4.2: Actor municipum potest rem iudicatam recusare: in municipes enim iudicati actio dabitur. Cfr. altresì Vat. 335 (Lenel 1889.II, 1234, Frag. incerta 24): …neque ex iudicato iudicium accipere cogitur, quod iudicium in ipsos municipes datur... sicut in cognitore... Sul punto v. anche Biscardi 1980, 18. 305 Il testo ha infatti et constitui ei potest. Sul punto v. però Lenel 1889.I, 980, nt. 5, che propone, sia pure dubitativamente, di sostiuire nella ricostruzione dell’originale paolino all’et che si legge attualmente un nec: nec constitui ei potest. La proposta mi pare plausibile considerato sia l’andamento del testo (si era infatti immediatamente prima affermato che all’actor universitatis non era data l’actio iudicati a meno che non si trattasse di un actor in rem suam datus), sia il fatto che comunque l’incarico ricevuto riguardava lo svolgimento di un’attività processuale. In ogni caso si tratta di una frase che sembra non pienamente coerente con il contenuto del frammento nel suo complesso, circostanza che potrebbe anche farla ritenere nella sua interezza aggiunta dai giustinianei.

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Commento [Sulla gestione d’affari (E. 35)] È ragionevole pensare che l’editto de negotiis gestis (E. 35) riguardasse originariamente l’actio in factum prevista nel caso della gestione processuale (e quindi la defensio absentis)306, ma è comunque dimostrato dalle fonti che ci sono conservate che l’editto pretorio contemplava in questo contesto anche le formule in ius conceptae ex fide bona con riferimento alla gestione d’affari assunta al di fuori della difesa processuale307. Si spiega così il fatto che i frammenti dei commentari edittali che ci sono pervenuti nella gran parte (e, per quanto qui più interessa, probabilmente tutti quelli provenienti dal commentario di Paolo) riguardino piuttosto la gestione di affari sostanziale e le actiones negotiorum gestorum con formula in ius concepta ex fide bona308. Va ancora preliminarmente osservato che nei frammenti superstiti, qui più che in ogni altro caso, con l’eccezione forse dei soli due titoli edittali de pactis et conventionibus (E. IV) e de vadimoniis (E. VII), Paolo dimostra, in questa prima parte del commentario edittale, una particolare tendenza a citare le opinioni dei giuristi che l’avevano preceduto (Giuliano, Pomponio in due passi diversi, Proculo, Pegaso, Nerazio, Cervidio Scevola, Sabino, Labeone, Servio e Alfeno), circostanza che peraltro non va considerata come indizio di un diverso modus operandi del giurista, ma che, pur essendo dovuta in parte alla maggiore estensione dei frammenti che ci sono conservati, è soprattutto testimone dell’intenso lavorìo della giurisprudenza preseveriana su un tema ricchissimo di spunti e problematiche.

306 Sul punto cfr. per tutti Finazzi 1999, in specie 89 ss., che ritiene che l’actio in factum abbia esclusivamente riguardato, finché sia esistita, la sola gestione processuale e in questo senso adduce sia collocazione dell’editto de negotiis gestis nella topografia edittale, sia la laudatio edicti di cui abbiamo testimonianza in Ulp. 10 ad ed., D. 3.5.1: Hoc edictum necessarium est, quoniam magna utilitas absentium versatur, ne indefensi rerum possessionem aut venditionem patiantur vel pignoris distractionem vel poenae committendae actionem, vel iniuria rem suam amittant. Per una connessione almeno originaria con il processo propende anche la letteratura maggioritaria: cfr. l’ampia letteratura menzionata dal Finazzi ibidem, 25 s., nt. 1. Diversamente nella letteratura successiva in specie Cenderelli 2011, 77 ss., che, anche alla luce della laudatio edicti riprodotta in D. 3.5.1, esclude invece che l’actio negotiorum gestorum in factum concepta abbia trovato applicazione solo in relazione agli interventi gestori in sede processuale e ritiene piuttosto che tale azione abbia riguardato (in origine e fino al suo decadimento) senza distinzione tutti i casi di intervento gestorio spontaneo e occasionale, laddove invece l’applicazione originaria dell’azione di buona fede avrebbe riguardato esclusivamente la gestione autorizzata del procurator. 307 In questo senso cfr. Lenel 1927, 103 ss. Il commento alla formula in factum è certamente riscontrabile solo in Ulp. 10 ad ed., D. 3.5.3.1-7, mentre già con Ulp. 10 ad ed., D. 3.5.3.10 ha inizio il commento alle formule in ius conceptae, cfr. Lenel 1889.II, 455 s., Ulp. 347 e 349. Rimane comunque discussa la portata della clausola edittale riferita in Ulp. 10 ad ed., D. 3.5.3pr. (Ait praetor: ‘Si quis negotia alterius, sive quis negotia, quae cuiusque cum is moritur fuerint, gesserit: iudicium eo nomine dabo’). Secondo Finazzi 1999, 36 ss. (e 53 ss. per l’ipotesi di inserimento di sponte prima di gesserit), confermerebbe la limitazione dell’actio in factum alla gestione spontanea processuale. Diversamente ancora Cenderelli 2011, 82 ss., che, con particolare riferimento al richiamo ai negotia, quae cuiusque cum is moritur gesserit, vi trova un riscontro della sua ipotesi circa il fatto che la clausola edittale non riguardasse esclusivamente gli interventi di gestione processuale. 308 Mi sembra certo, a differenza di quanto ritenuto da Kreller 1939, 424 s., che non riguardi l’azione pretoria D. 17.1.40 [F. 123] (v. infra, 173 s.). Qualche dubbio è peraltro tuttora avanzato, con riferimento ai nostri testi, su D. 35.2.41 [F. 124] (v. infra, 174 s.) per il quale non sarebbe del tutto chiaro se la condotta del gestore fosse strumentale a escludere l’indefensio: sul punto cfr., per un rapido accenno, Finazzi 1999, 90, nt. 205.

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Fabiana Mattioli F. 117 – D. 3.5.6(7) Si ricorda qui che l’actio negotiorum gestorum era un’azione di buona fede, avvicinando altresì, quanto agli effetti, l’officium iudicis (e cioè le prerogative e il potere discrezionale che derivavano al giudice dalla natura actionis) alla conceptio verborum nella stipulatio (Quia tantundem in bonae fidei iudiciis officium iudicis valet, quantum in stipulatione nominatim eius rei facta interrogatio)309. Per la brevità del frammento appare impossibile dire con certezza a che proposito Paolo si soffermasse su questo specifico aspetto. Il richiamo alla natura actionis e il rispetto dell’ordine Bluhme-Krüger ci inducono comunque a porlo per primo fra quelli superstiti della trattazione paolina dell’actio negotiorum gestorum. Peraltro l’occasione dell’inserimento del testo nella raccolta di iura è da individuare nella fattispecie descritta in Ulp. 9 ad ed., D. 3.5.5(6).14(12) che immediatamente precede il nostro passo310. Con riferimento alla posizione del gestore generale ci si domandava se chi amministra affari vivente domino, essendosi limitato alla gestione di alcuni omettendo di occuparsi di altri, fosse tenuto a rispondere per quelli che non aveva gestito. La risposta affermativa di Ulpiano è corredata da un esempio che è quello del gestore che abbia omesso di richiedere un pagamento di cui era condebitore311. Se nulla infatti gli sarebbe stato imputato per la mancata riscossione del credito rispetto agli altri condebitori (e ciò perché comunque non avrebbe potuto convenirli in giudizio), tuttavia avrebbe dovuto rispondere per la mancata riscossione di quanto da lui stesso dovuto, con l’aggiunta fra l’altro degli interessi secondo quanto stabilito anche in un rescritto di Antonino Pio a Flavio Longino e ciò benché non fosse tenuto a corrisponderli in base a una stipulatio e sempreché non gli fossero stati espressamente rimessi312.

309 Si tratta dunque di uno dei testi giurisprudenziali in cui si fa esplicita menzione dell’actio negotiorum gestorum con formula in ius concepta ex fide bona. A questo proposito v. anche Paul. 6 ad Sab., D. 17.2.38pr., nonché Gai. 4.62; Tryph. 2 disp., D. 3.5.37(38); Ulp. 10 ad ed., D. 22.1.37; Gai. 3 aur., D. 44.7.5pr.; PS. 1.4.3. Nella legislazione imperiale cfr. (Imp. Alex. A. Tulliae, a. 223) C. 2.4.3 e (Imp. Alex. A. Eustathiae et aliis, s.d.) C. 4.32.13. 310 Cfr. Ulp. 9 ad ed., D. 3.5.5(6).14(12): Videamus in persona eius, qui negotia administrat, si quaedam gessit quaedam non, contemplatione tamen eius alius ad haec non accessit, et si vir diligens (quod ab eo exigimus) etiam ea gesturus fuit: an dici debeat negotiorum gestorum eum teneri et propter ea quae non gessit? quod puto verius. certe si quid a se exigere debuit, procul dubio hoc ei imputabitur. quamquam enim hoc ei imputari non possit, cur alios debitores non convenerit, quoniam conveniendi eos iudicio facultatem non habuit, qui nullam actionem intendere potuit: tamen a semet ipso cur non exegerit, ei imputabitur: et si forte non fuerit usurarium debitum, incipit esse usurarium, ut divus Pius Flavio Longino rescripsit: nisi forte, inquit, usuras ei remiserat. Per un quadro delle ipotesi interpolazionistiche e per un esame del testo di cui va comunque accettata la sostanziale genuinità cfr. per tutti l’ampia trattazione fornita da Finazzi 2006, 36 ss. 311 L’obbligazione del gestore dipendeva dal suo essere gestore generale o quantomeno dall’apparire come tale al punto da scoraggiare dall’intervenire altri che invece avrebbero potuto intraprendere la gestione (…contemplatione tamen eius alius ad haec non accessit…). Più specificamente l’esempio prospettato da Ulpiano pone il testo fra quelli in cui si prevedeva in relazione all’actio negotiorum gestorum l’obbligo di a semet ipso exigere, vale a dire l’obbligo dell’amministratore generale di rispondere all’amministrato dei propri debiti scaduti prima o durante l’amministrazione: sono vari i testi che vi fanno riferimento nell’ambito delle trattazioni dedicate dai commentari all’editto de negotiis gestis, cfr. per Paolo D. 3.5.17(18) [F. 120] (su cui infra, 166 ss.). Quanto a Ulpiano, oltre a D. 3.5.5(6).14(12), v. anche D. 3.5.7(8), che immediatamente segue nel Digesto il testo paolino qui commentato. 312 Il testo di Ulpiano si occupa qui specificamente degli interessi sulle somme dovute per il ritardo nell’adempiere all’obbligazione (e quindi per il decorso della mora) e non di quelli dovuti in quanto non fosse stato impiegato in maniera fruttifera il denaro del gerito: così invece Cervenca 1969, 90 s., che interpretando in questo modo il testo sposta l’obbligo degli interessi dal debito originario alle somme non riscosse e

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Commento È a questo proposito che nella raccolta di iura si innesta il frammento di Paolo che, alla luce di quanto detto in precedenza, sembrerebbe dunque avere una valenza relativamente circoscritta (riferendosi alle usurae dovute al ritardo nell’adempiere all’obbligo di a semet ipso exigere). Tuttavia non si può arrivare alla conclusione che questa fosse necessariamente la sua portata originaria. Su di essa non abbiamo infatti certezze perché non siamo in grado di ricostruire il contesto in cui il frammento era inserito. Possiamo solo dire in astratto che il passo paolino, se isolato, sembra poter assumere un significato più ampio, potendosi riferire, così come è scritto, non solo agli interessi che il gestore deve prestare per il proprio omesso adempimento, ma anche a quelli per il mancato impiego fruttifero delle somme appartenenti al gerito o comunque a lui spettanti. Ciò perché appunto nelle azioni di buona fede la determinazione operata dal giudice in forza dei poteri conferitigli equivale e può dunque sostituirsi alla stipulatio e alla descrizione del contenuto dell’obbligazione in essa contenuta (e ciò con evidente riferimento agli interessi, dovuti appunto officio iudicis e non per una stipulatio che li avesse avuti come oggetto della promessa)313. F. 118 – D. 3.5.12(13) In questo caso il testo si occupa di un problema interpretativo riguardo all’incidenza dei criteri di valutazione della responsabilità e della ripartizione del rischio con riferimento al caso concreto di un creditore di una somma di cinquanta che avesse intrapreso l’amministrazione dell’eredità del debitore defunto, spendendo a tale titolo dieci (huius hereditatis curationem suscepi et impendi decem) e avendo messo da parte, ponendoli in un forziere, cento ricavati dalla vendita di un bene ereditario (deinde redacta ex venditione rei hereditariae centum in arca reposui), somma tuttavia successivamente perduta senza sua colpa (haec sine culpa mea perierunt)314. Ci si domandava in particolare se avesse potuto successivamente ri-

guentemente non impegnate (per l’obbligo del gestore in questo senso cfr. D. 3.5.18[19].4 [F. 121], su cui v. infra, nel testo, 170). Mi sembra da condividere l’idea che la scelta adottata derivi dall’interpretazione giurisprudenziale e che il rescritto citato da Ulpiano non avesse carattere innovativo, ma solo la funzione di avvalorare la soluzione accolta attraverso il richiamo all’autorità imperiale, cfr. sul punto quanto osservato da Finazzi 2006, 48 e nt. 81, cui rinvio anche per l’impossibilità di convenire in giudizio gli altri debitori (e quindi in relazione alla mancanza della facultas agendi del gestore) per l’assenza del potere di concludere validamente la litis contestatio senza che fosse intervenuta la ratihabitio del gerito (cfr. ibidem, in specie 96 ss.). Sul rescritto del divus Pius a Flavio Longino, per la figura di quest’ultimo e per le ipotesi possibili circa la datazione cfr. ancora Finazzi 2003, 423, nt. 192. 313 Sulla genericità del testo che appunto collega, quanto agli effetti, l’officium iudicis nei iudicia bonae fidei alla conceptio verborum nella stipulatio v. Cannata 1993, 18 s. Sul fatto che nel testo paolino di D. 3.5.6(7) l’omologazione dell’officium iudicis alla conceptio verborum della stipulatio non avesse portata generale, ma si riferisse verosimilmente in modo specifico alle usurae cfr. Cenderelli 1997a, 188. Sulla portata di quanto detto nel frammento e sulla sua riferibilità alle usurae “sulle somme che il gestore aveva presso di sé nell’interesse del gerito, in quanto di proprietà di quest’ultimo o a lui spettanti” v. Finazzi 2006, 113. Si tratta di un’ipotesi certo condivisibile, ma che va a mio avviso completata, proprio per la genericità del testo, attribuendo a quest’ultimo anche il significato che gli deriva dalla connessione con la fattispecie dell’obbligo di a semet ipso exigere cui si riferiva, quanto alle usurae, il testo connesso di Ulp. 9 ad ed., D. 3.5.5(6).14(12). 314 La spesa dei dieci va evidentemente messa in relazione alle necessità dell’amministrazione ereditaria come si ripete anche più avanti: …non solum decem, quae in hereditaria negotia impenderim… Quanto alla vendita, non se ne riescono dal testo a individuare con chiarezza i motivi, ma è possibile che si trattasse di una vendita in qualche modo necessitata o quanto meno resa opportuna in relazione all’amministrazione

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Fabiana Mattioli chiedere all’erede i cinquanta di cui era creditore e i dieci spesi per l’ammistrazione ereditaria (quaesitum est, an ab herede, qui quandoque extitisset, vel creditam pecuniam quinquaginta petere possim vel decem quae impendi), arrivando alla conclusione, che si dice suggerita da Giuliano, che ciò sarebbe stato possibile solo nel caso in cui vi fosse stata una iusta causa per non distribuire ai creditori e piuttosto mettere da parte i cento ricavati dalla vendita ereditaria (Iulianus scribit in eo verti quaestionem, ut animadvertamus, an iustam causam habuerim seponendorum centum)315. Altrimenti il ‘periculum’ del perimento sarebbe dovuto ricadere su di lui, che avrebbe dovuto restituire all’eredità i cento perduti, trattenendo per sé in questa fase solo i dieci spesi nell’amministrazione ereditaria (nam si debuerim et mihi et ceteris hereditariis creditoribus solvere, periculum non solum sexaginta, sed et reliquorum quadraginta me praestaturum, decem tamen quae impenderim retenturum, id est sola nonaginta restituenda)316. Se al contrario vi fosse stata una giusta causa per trattenere i cento (si vero iusta causa fuerit, propter

ditaria: cfr. sul punto Finazzi 2003, 540, nt. 129, che ipotizza che si trattasse di una vendita strumentale a evitare il deperimento della cosa venduta. A me pare tutto sommato più probabile che vada messa in relazione con una delle giuste cause per trattenere i cento elencate successivamente: …veluti si periculum erat, ne praedia in publicum committerentur, ne poena traiecticiae pecuniae augeretur aut ex compromisso committeretur… Non credo peraltro sia necessario ipotizzare che, come vuole Talamanca 1971, 242, nt. 34, sia sottintesa nel testo la ratihabitio. Può essere piuttosto che non la si sia menzionata perché non necessaria in una situazione in cui la vendita fosse incontrovertibilmente necessitata dalle esigenze dell’amministrazione ereditaria. Quanto al riferimento alla culpa è da osservare che si tratta del normale regime di responsabilità previsto per la gestione d’affari e ciò benché, in relazione alla fattispecie esaminata, l’assenza di culpa non si risolva in assenza di responsabilità: sul punto cfr., relativamente alle testimonianze sulla responsabilità per culpa del gestore riscontrabili nei frammenti paolini, Finazzi 2006, 229 ss., che, con riferimento al nostro testo, ritiene “verisimile che Paolo volesse affermare che, nel caso di specie, per ipotesi, il perimento non era dovuto a negligenza o imprudenza del gestore stesso nell’avvalersi di un’arca idonea e nel custodirla”. Sulle modalità di effrazione dell’arca, che poteva avvenire segandone il fondo in legno, v. Wacke 2002, 27 e 62, nt. 87. 315 Il criterio della iusta causa che avrebbe indotto il gestore a mettere da parte il ricavato della vendita è decisivo, nella riflessione di Giuliano, per escluderne la responsabilità. Non va accolta l’opinione di Donatuti 1921, 420 (= 1976, I 70 s.) che, ritenendo aggiunto il tratto in eo verti... nam e tutta la parte finale da decem tamen, ipotizzava piuttosto che la responsabilità del gestore venisse presa in considerazione, nel pensiero di Paolo e in quello da lui riferito di Giuliano, esclusivamente in relazione alla necessità o meno di adempiere subito alle obbligazioni gravanti sul defunto. In ogni caso il testo non prende invece specificamente in considerazione l’obbligo del gestore di impiegare nel miglior modo possibile il denaro ricevuto: su questo aspetto v. invece, Voci 1990, 98 e nt. 46 (= 2007, 136 e nt. 46). 316 Questo si ricava nella sostanza dal tenore complessivo del testo. Più precisamente i novanta sarebbero stati dovuti all’erede che avesse intentato l’azione diretta nei confronti del gestore. Peraltro dubbi si devono avanzare sul tratto periculum non solum sexaginta, sed et reliquorum quadraginta me praestaturum, decem tamen quae impenderim retenturum, id est sola nonaginta restituenda. A parte il disordine logico dell’affermazione che più correttamente avrebbe potuto essere periculum non solum quadraginta, sed et reliquorum sexaginta me praestaturum, tutto il discorso, per quanto comprensibile, è aritmeticamente e concettualmente mal posto. Appare infatti incongruo dire che il periculum avrebbe riguardato anche i sessanta, includendovi sia i cinquanta del credito che i dieci delle spese e poi aggiungere che i dieci relativi alle spese si sarebbero tuttavia potuti trattenere. Da qui la proposta di emendare il testo, cfr. Mommsen, editio maior, 102, nt. 2 [cfr. anche Krüger 1908, ad h.l.]): periculum non solum quinquaginta, sed et reliquorum quadraginta me praestaturum, decem tamen, quae impenderim retenturum (eliminando altresì id est sola nonaginta restituenda). Per l’opinione che la chiusa esplicativa id est sola nonaginta restituenda abbia natura glossematica v. anche Lenel 1889.I, 981, nt. 2. Anche così però il discorso logicamente non fila. Senza distinguere fra sessanta e quaranta si sarebbe dovuto piuttosto dire che il periculum relativo al perimento avrebbe riguardato i cento nella loro interezza e che comunque il gestore, a fronte dell’azione diretta intentatagli dal gerito, avrebbe potuto trattenere i dieci per la gestione, restando altresì fermo il fatto di poter

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Commento quam integra centum custodirentur…), come ad esempio nel caso in cui vi fosse pericolo di perdere il proprio diritto su terreni per il mancato pagamento del tributo o che aumentasse la penale di un prestito marittimo o che diventasse efficace la penale di un compromissum per la costituzione di un arbitro, allora si sarebbero potuti ottenere dall’erede non solo i dieci spesi per gli affari ereditari, ma anche i cinquanta del credito pregresso (…non solum decem, quae in hereditaria negotia impenderim, sed etiam quinquaginta quae mihi debita sunt ab herede me consequi posse)317. Nel caso di specie dunque il gestore non avrebbe dovuto rispondere per la perdita dei cento solo se privo di culpa per il perimento e sempreché vi fosse anche una iusta causa seponendi che giustificasse il non aver proceduto al pagamento dei debiti ereditari, conservando piuttosto in arca quanto incassato. Si intrecciavano in questi termini, alla luce dell’opinione risalente a Giuliano, aspetti relativi alla responsabilità della gestione e aspetti relativi alla ripartizione del rischio per il perimento. Qualora infatti si potesse imputare al gestore la mancata distribuzione ai creditori del ricavato e individuare così una sua responsabilità nella gestione gli si addossava anche il rischio del perimento del denaro benché quest’ultimo fosse indipendente dalla sua culpa. F. 119 – D. 3.5.14(15) Si fa qui riferimento al fatto che secondo quanto detto da Pomponio nel ventiseiesimo libro del commentario ad edictum la condizione del gerito doveva essere presa in considerazione con riguardo al momento iniziale della gestione, non rilevando quindi i mutamenti successivi e cioè che il pupillo fosse poi diventato pubere (quid enim, inquit, si pupilli negotia coeperim gerere et inter moras pubes factus sit?) o che il filius familias fosse successivamente diventato sui

dedurre in compensazione (o azionare autonomamente in base al titolo preesistente alla gestione) i cinquanta del credito. Qualora invece fosse stato il gestore ad agire sulla base del titolo obbligatorio relativo al rapporto preesistente gli si sarebbe potuto opporre in compensazione il credito originato dal perimento tramite il meccanismo dell’exceptio doli, fatta sempre salva, a beneficio del gerito, la possibilità di recuperare i quaranta residui attraverso l’esercizio dell’actio directa. 317 Pertanto in presenza di una iusta causa seponendi il gestore avrebbe potuto agire nei confronti dell’erede per i cinquanta in base al titolo del credito preesistente e, con l’actio contraria, ottenere i dieci delle spese nonostante la perdita del corrispettivo derivato dalla vendita. Sull’elencazione esemplificativa delle iustae causae si sono peraltro appuntati in letteratura numerosi dubbi. Si va dall’ipotesi che tutto il tratto veluti si... ex compromisso committeretur sia frutto di interpolazione (cfr. Sachers 1938, 332 e nt. 72 [con bibliografia]), a quella che singoli interventi siano stati operati sui vari esempi prospettati e in particolare su quello relativo alla pecunia traiecticia (cfr. in specie Biscardi 1974, 65 ss. (2019, 50 ss.), nonché Id. 1978, 289 e nt. 79 e ancora Cenderelli 1997b, 101, ma in senso contrario peraltro già Visky 1969, 410 s.). Sul punto, per il sostanziale superamento delle ipotesi di rimaneggiamento, cfr. tuttavia Finazzi 2003, 545 ntt. 142 e 143 (con ampia indicazione di letteratura). Riguardo al primo (e cioè il caso ne praedia in publicum committerentur) a fronte dell’interpretazione tradizionale che vi intravede il rischio della perdita della proprietà di un fondo in relazione al mancato pagamento dell’imposta (cfr. a questo proposito in specie Klingenberg 1992, 369 s.), mi sembra da preferire l’ipotesi che in realtà il caso riguardasse la possibilità della revoca della concessione di un ager vectigalis conseguente all’omesso pagamento del canone annuo, cfr. in questo senso Biscardi 1974, 66 s. (2019, 51), nonché Cerami 1995, 117. In generale quanto ai tre casi di iustae causae prospettati nel testo cfr. anche Biscotti 2007, 20 s. e nt. 9, che peraltro, nel quadro di una rilettura del parere giulianeo che non esclude un’attenzione legata all’ipotetica prospettiva di un’esecuzione concorsuale (ipotesi che pur presenta qualche forzatura), sottolinea che i tre esempi più che giustificare la conservazione del denaro sembrano essere il motivo della vendita del bene al fine di far fronte a prioritari impegni debitori (v. supra, nt. 314).

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Fabiana Mattioli iuris o ancora che lo schiavo avesse in un secondo momento ottenuto la libertà (vel servi aut filii familias et interea liber aut pater familias effectus sit?)318. Ciò, come precisa Paolo aderendo all’opinione di Pomponio, doveva tuttavia considerarsi vero sempreché la gestione non fosse stata originariamente intrapresa per un solo affare (nisi si ab initio quasi unum negotium gesturus accessero) e successivamente, mutata la condizione del gerito (diventato, secondo gli esempi prospettati, pubere, libero o sui iuris), si fosse intrapresa, alio animo (e quindi con una determinazione indipendente e autonoma), una nuova gestione, dovendosi in tal caso al contrario modellare l’azione e proporzionare la condanna in relazione ai periodi corrispondenti ai diversi status del gerito319. F. 120 – D. 3.5.17(18) Paolo ricorda in questo caso l’opinione di Proculo e di Pegaso. La questione riguardava l’obbligo di a semet ipso exigere gravante sullo schiavo che avesse iniziato la gestione generale degli affari del dominus quando si trovava in condizione servile (in servitute gerere coepit), circostanza che si dice lo avrebbe comunque obbligato (benché ancora schiavo nel momento dell’inizio della gestione) a risponderne secondo buona fede320. Ne sarebbe derivata come conseguenza

318 Si tratta di tutti mutamenti in melius dello status giuridico del gerito. Il testo nella sua stesura attuale ha comunque qualcosa che non va (non è cioè del tutto chiaro se secondo Pomponio si dovesse guardare esclusivamente alla condizione iniziale [initio] o si dovesse tener conto dei mutamenti successivi della condizione del gerito [cuiusque temporis condicionem]). Quest’ultima ipotesi è più confacente al tenore del testo che ci è conservato, ma è in contrasto con tutta la seconda parte del passo (da hoc et ego verius esse didici) che ci permette di comprendere che il parere di Pomponio era piuttosto nel senso di tener conto della situazione iniziale. Pertanto, se si vuole dare un senso ragionevole al testo, l’opinione di Pomponio non può che essere ricostruita, sul piano logico, alla luce dell’adesione di Paolo e in relazione al distinguo operato da quest’ultimo. Sembra quindi potersi ritenere che Pomponio esprimesse la regola generale secondo cui nel caso di mutamento di status nel corso della gestione si dovesse comunque guardare alla condizione iniziale e non a quella successivamente ottenuta. Problema diverso è quello di ricostruire l’esatto tenore del testo. Sul punto v. Finazzi 2003, 68 e 70, che fra tutte le ipotesi formulate dalla dottrina propone quella che, a suo modo di vedere, ne esprime meglio e più correttamente il senso: Pomponius libro vicensimo sexto in negotiis gestis initi[o] cuiusque temporis condicionem spectand[a]m ait. Peraltro fra le molte altre ipotesi ricostruttive, spesso fra loro contraddittorie (v. Finazzi ibidem, 70, nt. 63, nonché 69 s. ntt. 61 e 62 per quelle che negano invece l’autenticità del tratto nisi... moderatur o di quello nisi... effectus est), a me pare che quella più coerente, perché meno “invasiva” rimanga quella di Mommsen, editio maior, 102, nt. 4 (v. anche Krüger 1908, ad h.l.), che ipotizzò di espungere temporis: Pomponius libro vicensimo sexto in negotiis gestis initio cuiusque condicionem spectandam ait. Non convince invece, perché non risolve la contraddizioni fra le due parti del testo, Lenel 1889.I, 981, nt. 3, che legge Pomponius libro vicensimo sexto in negotiorum gestorum iudicio cuiusque temporis condicionem spectandam ait. 319 L’opinione paolina espressa nei libri ad edictum trova conferma in Paul. 7 ad Plaut., D. 3.5.15(16): Sed et cum aliquis negotia mea gerat, non multa negotia sunt, sed unus contractus, nisi si ab initio ad unum negotium accessit, ut finito eo discederet: hoc enim casu si nova voluntate aliquid quoque adgredi coeperit, alius contractus est. Per l’esegesi del testo e per lo stretto rapporto con D. 3.5.14(15), rapporto che è evidente nelle corrispondenze anche formali presenti nel tratto nisi... coeperit che esprime in termini analoghi il punto di vista di Paolo, cfr. in specie Finazzi 2003, 71 ss. 320 Si deve ricordare che l’obbligo di a semet ipso exigere, che risulta qui ammesso già da Proculo e da Pegaso, è attestato con riferimento alla negotiorum gestio da numerosi passi, cfr., in aggiunta a quelli dei commentari edittali collocati nella sedes materiae già indicati supra, nt. 311 e, oltre a Paul. 2 ad Nerat., D. 3.5.18(19)pr. di cui si dirà subito di seguito nel testo e in nt. 322, Scaev. 1 quaest., D. 3.5.34(35)pr.; Ulp. 35 ad ed., D. 27.3.13; Tryph. 2 disp., D. 3.5.37(38). Quanto al significato dell’espressione bonam fidem praestare presente nel nostro frammento v., con opinioni non coincidenti, Cardilli 1995, 403 s. (che vi individua un criterio di responsabilità) e Finazzi 2006, 245

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Commento che lo schiavo poi divenuto libero (e che come tale avesse continuato la gestione) dovesse rispondere, in forza dell’azione nascente dalla gestione d’affari, di quanto avrebbe potuto riscuotere anche da se stesso (appunto in relazione all’obbligo di a semet ipso exigere) come se qualcun altro avesse amministrato gli affari al suo posto (si alius eius negotia gessisset) e ciò sempreché nel peculio che gli fosse stato concesso di conservare al momento della manomissione vi fosse qualcosa attraverso la cui ritenzione potesse avvenire la riscossione di quanto dovuto al dominus321. Tale soluzione, che obbligava dunque lo schiavo nei limiti della capienza del peculio, non sembrerebbe peraltro essere stata condivisa da Paolo. Ciò pare potersi evincere dal testo immediatamente successivo di Paul. 2 ad Nerat., D. 3.5.18(19)pr., in cui il giurista severiano riprendeva, a quanto pare, il discorso a proposito dell’opinione di Nerazio che nella parte finale di D. 3.5.17(18) si diceva conforme a quella espressa da Proculo e di Pegaso. Con riferimento fra l’altro a una fattispecie che le parole in eodem actu perseverans parrebbero qualificare come una gestione costituita da più operazioni connesse piuttosto che come un caso di amministrazione generale322, vi si affermava che chi aveva cominciato la gestione da servo era tenuto in base a un’obbligazione naturale (natura debitor fuit). Secondo il giurista severiano in questi termini e solo in questi termini, lo schiavo sarebbe stato tenuto ad adempiere e ciò indipendentemente dall’originaria capienza del peculio e dalla stessa costituzione di quest’ultimo,

ss. (secondo cui l’espressione non richiamerebbe invece un criterio di responsabilità, ma piuttosto, vertendo la questione sul contenuto dell’obbligazione, porrebbe specificamente la buona fede come criterio di valutazione del comportamento dello schiavo relativamente all’obbligo di quest’ultimo di a semet ipso exigere). 321 Sul testo cfr. in specie Cardilli 1995, 401 ss. (che ne esclude sostanziali rimaneggiamenti, v. 402, nt. 13 e 403, nt. 15) e Finazzi 2006, 54 ss. (che a sua volta conferma la sostanziale genuinità del testo contro le numerose ipotesi di rimaneggiamento v. 55, nt. 102 e 56 ntt. 104 e 105), peraltro con impostazioni diverse circa le ragioni della soluzione adottata da Proculo e Pegaso (v. nt. precedente). Cardilli evidenzia infatti come la soluzione prospettata trovi naturale fondamento nel carattere di buona fede dell’obbligazione del gestore, carattere alla cui stregua si sarebbe dovuto valutare il suo comportamento anche se ancora schiavo (chiave interpretativa di cui sarebbe testimone la frase si aliquid habuit in peculio, cuius retentione id servari potest [potuit, Mommsen], che appare genuina, nonostante la contraria opinione espressa da Valiño 1968, 410, nt. 59 e già prima da Pernice 1873, 152 e da Bremer 1901, 167). Finazzi diversamente ritiene che la soluzione avesse carattere di eccezionalità in relazione all’obbligo di a semet ipso exigere rispetto alla regola generale secondo cui eum actum, quem quis in servitute egit, manumissus non cogitur reddere. In quest’ultimo senso già Jacota 1968, 233. Per quest’ultima lettura il principale testo di riferimento è costituito Ulp. 35 ad ed., D. 3.5.16(17): [Eum actum] , quem quis in servitute egit, manumissus non cogitur reddere. plane si quid conexum fuit, ut separari ratio eius quod in servitute gestum est ab eo quod in libertate gessit non possit: constat venire in iudicium vel mandati vel negotiorum gestorum et quod in servitute gestum est… Peraltro la distinzione fra attività svolta in servitute e quella svolta dopo la manomissione ricorre anche in Papiniano (cfr. Papin. 11 quaest., D. 26.7.37.1) e ancora in un rescritto di epoca dioclezianea (cfr. [Impp. Diocl. et Max. AA. et CC. Mitrae, a. 294] C. 2.18[19].21), testi che, a loro volta, come il passo ulpianeo, tuttavia ammettevano che l’attività svolta prima della manomissione potesse essere ricollegata a quella svolta successivamente se si fosse trattato di attività connesse e inscindibili. L’idea della separazione fra attività svolta in servitute e quella svolta dopo la manomissione risale alla Scuola sabiniana (cfr. Papin. 11 quaest., D. 26.7.37pr. e 2): v. sul punto le osservazioni di Liebs 1976, 268, nonché, successivamente, Wacke 1986, 233 s. 322 Per l’ipotesi che la fattispecie considerata in Paul. 2 ad Nerat., D. 3.5.18(19)pr. (Adquin natura debitor fuit, etiam si in peculio nihil habuit, et si postea habuit, sibi postea solvere debet in eodem actu perseverans…) non coincidesse, sotto il profilo indicato, con quella esaminata in D. 3.5.17(18) v. Finazzi 2006, 57 ss. (e ivi nt. 113, indicazione della letteratura precedente), che ritiene che Paolo aderisse alla soluzione prospettata da Ulpiano e Papiniano, favorevole alla separazione dei periodi di gestione (nello stesso senso in specie Liebs 1976, 268) salvo che si trattasse, come parrebbe, di atti di gestione connessi.

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Fabiana Mattioli purché avesse avuto qualcosa per farlo al momento della manomissione o anche dopo esser divenuto libero e sempreché avesse continuato l’attività di gestione già intrapresa (etiam si in peculio nihil habuit, et si postea habuit, sibi postea solvere debet in eodem actu perseverans)323. F. 121 – D. 3.5.18(19).1-5 Il testo è come il principium dello stesso frammento attributo dall’inscriptio al secondo dei libri ad Neratium. Tuttavia la connessione tematica da un lato fra D. 3.5.17(18) [F. 120] e D. 3.5.18(19).1, dall’altro fra D. 3.5.18(19).5 e D. 3.5.20(21)pr. [F. 122] fece ipotizzare già a Cuiacio, che il testo di D. 3.5.18(19), sia pure limitatamente ai paragrafi da 1 a 5, appartenesse piuttosto al nono libro del commentario all’editto e che l’attribuzione ai libri ad Neratium sia stata dovuta a un errore di trascrizione, probabilmente conseguenza dell’inserimento ad incastro del principium provocato dalla citazione finale di Nerazio in D. 3.5.17(18). Sul piano formale l’ipotesi appare plausibile, l’andamento del testo, ampio e diffuso, così differente rispetto agli stringati interventi paolini presenti nei libri ad Neratium, le citazioni di opinioni giurisprudenziali che dovevano essere invece del tutto infrequenti nei libri neraziani, inducono ad aderire all’idea – peraltro riferita anche da Krüger che mostra di accoglierla nell’editio minor – che questa parte di D. 3.5.18(19) facesse effettivamente parte del commentario edittale324. Del resto sul piano dei contenuti il paragrafo 1 sembra continuare il discorso iniziato in D. 3.5.17(18), riprendendo la questione della distinzione fra attività gestionale svolta in servitute e quella svolta dopo la manomissione e ricordando a questo proposito, attraverso il filtro di Scevola, l’opinione di Sabino (Scaevola noster ait putare se, quod Sabinus scribit) secondo il quale

323 Se la restituzione del testo compiuta da Mommsen nella parte in cui si dice et si postea habuit, sibi postea solvere debet è corretta (cfr. editio maior, 103) – e a me pare che sia comunque la migliore possibile, benché l’esatto tenore del testo rimanga incerto – sembrerebbe dunque che secondo Paolo lo schiavo non fosse tenuto nei limiti della capienza del peculio al momento della manomissione, ma che la sua obbligazione, diventato libero, dovesse essere configurata come obligatio naturalis e come tale eventualmente adempiuta qualora l’ex schiavo avesse comunque la possibilità di praestare al dominus quanto gli doveva. Sulle parole Adquin natura debitor fuit da ritenere genuine – v. Honoré 1975, 233, nt. 86 – e sul riferimento all’obbligazione naturale cfr. in specie Didier 1981, 243 s. 324 Sul punto cfr. Cuiacius 1584, 127, che appunto attribuiva il testo di D. 3.5.18(19), con la sola esclusione del principium, al nono libro del commentario all’editto. Tale ipotesi fu accolta da Krüger 1905, 898 negli Additamenta, III, Libri ad edictum (inseriti per la prima volta in tale edizione [la decima] dell’editio minor) e poi ancora nell’apparato critico, a partire dall’undicesima edizione (cfr. Krüger, 1908, 75, nt. 14) e del resto lo stesso Lenel 1889.I, 1141, nt. 1 ammetteva: Non sine ratione Cuiacius hoc fragmentum non ex Pauli libris ad Neratium esse desumptum suspicatur, sed ex eiusdem libro nono ad edictum. Extremum fragmentum cohaerere videtur cum fr. (3.5)20pr. Di recente, nello stesso senso, anche Luchetti 2018a, 41, nt. 11, che attribuisce le citazioni giurisprudenziali presenti nei paragrafi 1 e 2 ai libri ad edictum. È dunque a mio avviso plausibile ipotizzare che nella trascrizione sia “saltata” l’inscriptio ove gli attuali paragrafi da 1 a 5 dovevano essere appunto attribuiti al commentario edittale. A me sembra invece che il principium introdotto dalle parole idem Neratius che chiudono D. 3.5.17(18) [F. 120] si armonizzi, per le caratteristiche del testo, con gli altri frammenti dei libri ad Neratium ed esprima l’opinione di Paolo secondo lo schema tipico dei libri neraziani. Diversamente Finazzi 2003, 490 e nt. 389, che propende per l’attribuzione dell’intero testo di D. 3.5.18(19) ai libri ad Neratium. È vero che la contiguità tematica non ci permette da sola di modificare l’attestazione dell’inscriptio, tanto più in un caso come questo in cui lo stesso autore ben potrebbe aver parlato di questioni connesse in due opere diverse, ma qui, come accenno nel testo, anche le caratteristiche formali rimandano piuttosto al commentario edittale soprattutto a fronte della estrema stringatezza dei frammenti pervenutici dei libri ad Neratium (che normalmente sono costruiti da un “dialogo” serrato fra i due giuristi) e della quasi totale assenza in essi di citazioni giurisprudenziali, v. la sola citazione di Giuliano in Paul. 3 ad Nerat., D. 13.1.19.

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Commento il fatto che lo schiavo dovesse render conto dall’inizio della gestione (debere a capite rationem reddend[u]m) non doveva essere inteso nel senso che fosse chiamato a risponderne per dolo o colpa commessi quando era schiavo (non ut dolum aut culpam in servitute admissam in obligationem revocet), ma solo con riferimento al fatto che si potesse tener conto di quanto fosse nel peculio al momento in cui cominciò a essere libero, essendo invece esente da ogni responsabilità circa la gestione avvenuta in condizione servile (itaque si inveniatur vel malo more pecunia in servitute erogata, liberabitur)325. Nel paragrafo 2 si richiama invece un’opinione di Labeone (Labeo ait) riguardante il caso particolare di un uomo libero che, credendo erroneamente e in buona fede di essere in stato servile, riceva l’incarico di svolgere delle attività da parte del dominus apparente (Si libero homini, qui bona fide mihi serviebat, mandem...). In tale ipotesi, secondo il giurista di epoca augustea, non sarebbe stata esperibile l’azione di mandato in quanto tale contratto non poteva dirsi integrato per il rapporto di fatto esistente che impediva di individuare tra lo schiavo putativo e il dominus apparente tale tipo di rapporto contrattuale (quia non libera voluntate exsequitur rem sibi mandatam, sed quasi ex necessitate servili). Come riferisce Paolo in virtù della consapevolezza del gestore dell’alienità dell’affare si sarebbe integrata invece la negotiorum gestio con la conseguenza che sarebbe risultata esperibile l’azione relativa (erit igitur negotiorum gestorum actio, quia et gerendi negotii mei habuerit affectionem et is fuit, quem obligare possem)326. In un ambito non dissimile si pone anche il paragrafo 3, in cui la fattispecie commentata è quella del gestore che compra una cosa ignorando l’appartenenza di essa al gerito assente e ne acquista poi la proprietà per usucapione. In un caso del genere, secondo Paolo, il gestore generale (Cum me absente negotia mea gereres) non sarebbe stato tenuto ex negotiorum gestione alla restituzione (mihi negotiorum gestorum ut restituas obligatus non es) e tuttavia la sopravvenienza dell’effettiva conoscenza dell’appartenenza della cosa al gerito nel lasso di tempo intercorso fra l’acquisto e l’usucapione avrebbe comportato il sorgere in capo al gestore dell’obbligo di trovare un terzo disposto a intentare la reivindicatio nell’interesse del gerito, contro il gestore stesso (subicere debes aliquem, qui a te petat meo nomine). Con questo escamo-

325 Il testo fa dunque specifico riferimento alla posizione di Sabino sul tema della separazione riguardo alla negotiorum gestio fra attività svolta in servitute e quella svolta dopo la manomissione. Sul punto v. Finazzi 2006, 59 e nt. 119; 242, nonché quanto già detto supra, nt. 321, più in generale in relazione agli orientamenti della scuola sabiniana. Quanto alla caratteristica espressione Scaevola noster utilizzata nel testo di Paolo per citare il proprio maestro v. Mattioli 2019a, 159, nt. 28 (= 2020, 91, nt. 29) e ivi fonti e bibliografia. 326 L’opinione di Paolo aderisce a quella di Labeone rispetto alla non esperibilità dell’actio mandati, ma è altresì probabile che anche la soluzione di utilizzare l’actio negotiorum gestorum risalisse già al giurista augusteo. Peraltro rispetto alla fattispecie qui considerata del liber homo bona fide serviens diverso era l’atteggiamento di altri giuristi. In particolare Celso e Pomponio ritenevano possibile esperire proprio l’actio mandati o un’actio praescriptis verbis, cfr. Pomp. 11 ad Sab., D. 13.6.13.2: sul punto e per la ricostruzione dell’opinione labeoniana circa l’esclusione dell’esperibiltà dell’actio mandati, pur in presenza della probabilità che già l’autore di epoca augustea non escludesse in generale, come anche Paolo (cfr. Paul. 4 quaest., D. 3.5.35[36]), la validità dei negozi posti in essere dal liber homo bona fide serviens, v. l’ampia e articolata discussione di Finazzi 1999, 390 ss., anche con riferimento al formarsi della diversa opinione prospettata da Celso e condivisa da Pomponio. In questo quadro il ritorno di Paolo all’opinione espressa da Labeone, fra l’altro in un momento in cui le gestioni necessarie avevano ormai un rilievo marginale, può dirsi forse, pur senza alcuna volontà di generalizzare una testimonianza riguardante una questione specifica, un’ulteriore dimostrazione del legame di Paolo con il passato e in particolare con Labeone: sul punto v. le considerazioni di Luchetti 2018a, 46-47, 53 e 55.

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Fabiana Mattioli tage la cosa veniva dunque assicurata al gerito e il gestore avrebbe potuto conseguentemente avvalersi della garanzia per l’evizione contro il venditore. In caso contrario, invece, il gestore sarebbe stato chiamato a rispondere attraverso l’actio negotiorum gestorum nei confronti del gerito327. Ancora di temi specifici della gestione d’affari si occupa la parte finale del testo. Più precisamente, nel paragrafo 4, Paolo si sofferma sugli interessi dovuti dal gestore, precisando che costui fosse tenuto a corrispondere al gerito non solo quelli effettivamente riscossi, ma anche quelli che avrebbe potuto percepire (configurando pertanto in questi termini in capo al gestore l’obbligo di mettere a frutto il denaro del gerito) e che, corrispondentemente, il gestore avrebbe potuto pretendere con l’actio negotiorum gestorum contraria la restituzione degli interessi pagati e anche di quelli non percepiti rispetto al proprio denaro speso durante la gestione328. Infine, nel paragrafo 5, si affronta la questione dell’esperibilità della stessa actio negotiorum gestorum contraria nei confronti del captivus ritornato in patria. A tal riguardo Paolo ammette, senza esitazioni (negotiorum gestorum mihi actio competit), che il gestore fosse comunque legittimato a esperire l’azione, malgrado non potesse dirsi vi fosse un dominus negotiorum durante la captivitas329. F. 122 – D. 3.5.20(21) Il frammento si presenta strettamente connesso al testo di D. 3.5.18(19).5 [F. 121], nonché al frammento immediatamente precedente di Ulp. 10 ad ed., D. 3.5.19(20), secondo cui – a stare alla formulazione che ci è pervenuta, peraltro probabilmente rimaneggiata – se il gerito è venuto a mancare presso i nemici, spetta, in favore e contro il suo successore, l’actio negotiorum

327 Sul testo v. specificamente Wacke 1980a, 269 ss. È interessante sottolineare che il gestore non sembrerebbe essere tenuto neppure se l’acquisto fosse avvenuto imprudens e cioè se, adibendo una normale diligenza, fosse stato in grado di venire a conoscenza del fatto che la cosa acquistata apparteneva al gerito. La sua responsabilità è infatti limitata al caso (che configurerebbe una culpa in omittendo) in cui, accortosi il gestore dell’appartenenza della cosa al gerito, non avesse assolto l’obbligo di trovare qualcuno disposto a esercitare l’azione di rivendica per conto del gerito. In questo quadro appare presupposta la ratihabitio da parte del gerito dell’azione intrapresa dal terzo contro il gestore, sul punto v. Finazzi 2006, 86 e 100-101 e nt. 247 (in generale, sulla responsabilità del gestore, v. anche 87 e 241-242 con riferimento all’esclusione della responsabilità per dolo resa esplicita nelle parole nec videris dolum malum facere in hac subiectione). 328 Il frammento si divide dunque in due parti, la prima delle quali riguardante l’obbligo del gestore di corrispondere le usurae percepite e percipiende attraverso l’utilizzazione del denaro del gerito, circostanza da mettere in relazione con la natura di iudicium bonae fidei dell’actio negotiorum gestorum: sul punto v., anche con riferimento all’ulteriore testimonianza di Papin. 2 resp., D. 3.5.30(31).3, Finazzi 2006, 110 ss., cui rinvio anche per il riconoscimento della genuinità della prima parte del testo (v. ibidem, 111-112, nt. 274, con ampie indicazioni bibliografiche). La seconda parte (da contra in poi), da ritenersi altrettanto genuina (cfr. Finazzi ibidem, 170 e nt. 471), riguarda invece, per connessione di materia, la situazione inversa, vale a dire quella degli interessi dovuti al gestore con riferimento anche in questo caso a due situazioni e cioè anzitutto riguardo agli interessi corrisposti a terzi per le somme prese a prestito nell’interesse del gerito, nonché, in secondo luogo, a quelli invece non percepiti per aver speso il proprio denaro nella gestione, interessi che sarebbero stati da commisurare al tasso praticato nel luogo della gestione stessa (v. Ulp. 10 ad ed., D. 22.1.37). 329 L’approccio del giurista appare dunque molto pragmatico, laddove afferma appunto che non rileva l’inesistenza del dominus negotii in quanto captivus e ciò indipendentemente dalla consapevolezza o meno del gestore circa lo status del gerito (di condizione servile in quanto appunto captivus durante la gestione). Sul testo v. in specie Finazzi 2003, 490. Nella letteratura meno recente, Amirante 1950, 80 s., nonché più brevemente Id. 1963, 27.

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Commento gestorum, rispettivamente, directa e contraria330. La trattazione paolina ricorda nel principium, peraltro notissimo e denso di problematiche controverse, un responso di Servio Sulpicio Rufo, di cui il giurista severiano afferma di avere notizia attraverso il trentanovesimo libro dei digesta di Alfeno Varo331. Vi si racconta che i Lusitani, avendo catturato tre cittadini romani, avevano convenuto con i prigionieri che uno di essi fosse lasciato andare per raccogliere il denaro richiesto per il riscatto dei tre e che, qualora non avesse fatto ritorno, i due rimasti in cattività pagassero anche per lui332. Il prigioniero liberato, violando i patti, non aveva fatto però ritorno e per questo motivo gli altri due erano stati costretti a pagare il riscatto per tutti e tre. Il racconto si conclude riferendo la soluzione prospettata da Servio che rispose affermando che fosse equo che il pretore concedesse ai due che avevano pagato un’azione contro colui che, non rispettando l’accordo, non aveva fatto ritorno (Servius respondit aequum esse praetorem in eum reddere iudicium)333. Altre questioni specifiche sono affrontate nei paragrafi successivi. Nel paragrafo 1 si afferma che, poiché chi gestisce gli affari ereditari obbliga l’eredità nei suoi confronti e cor-

330 Cfr. Ulp. 10 ad ed., D. 3.5.19(20): Sin autem apud hostes constitutus decessit, et successori et adversus successorem eius negotiorum gestorum directa et contraria competit. Sul brano, v. Sanna 1998, 39 s. Peraltro sui dubbi riguardo all’autenticità del testo v. Finazzi 2003, 492 ss., che ritiene che esso si limitasse a dire che, venuto a mancare il gerito presso i nemici, sarebbe spettata contro il suo successore l’actio negotiorum gestorum (sarebbe quindi aggiunto il riferimento all’actio directa e a quella contraria, così come la menzione dell’azione a favore dell’erede contro il gestore). L’inserimento del testo ulpianeo da parte dei compilatori ha dunque l’obiettivo di dare risposta alla situazione, inversa rispetto a quella prospettata in D. 3.5.18(19).5 [F. 121], in cui il captivus fosse morto in prigionia. Ciò permette di avvalorare l’idea della diretta continuità, nel contesto paolino, fra D. 3.5.18(19).5 e D. 3.5.20(21), a conferma della provenienza anche del primo testo dai libri ad edictum. 331 Sulla precisa conoscenza che certamente aveva il giurista severiano dell’opera di Alfeno, di cui, come è noto, Paolo fu epitomatore, cfr. Ferrini 1891b, 7 (= 1929, II 174). Sul punto, v. anche Miglietta 2010, 261 e nt. 198. 332 Per la contestualizzazione storica dell’episodio occorso nell’ambito della guerra sertoriana o forse in anni più probabilmente di poco successivi (intorno – direi io – al 75/70 a.C.), cfr. in specie d’Ors 1978, 269 ss.; Cursi 1996, 195 s.; Cenderelli 1997a, 167; Finazzi 1999, 82 s., nt. 184. Sul punto v. anche Ratti 1926, 13, nt. 22 (= 1927, I contributo, 13, nt. 22). Quanto all’occasione che avrebbe determinato il responsum serviano Ferrini 1891b, 4 (= 1929, II 172) ritiene che il brano sia frutto di una consultazione fatta “a scopo teoretico e non immediatamente pratico”. Nella letteratura più recente, Miglietta 2010, 259 s., nt. 195, ipotizza che possa trattarsi “di un caso di scuola... mirato, attraverso la prospettazione da parte di Servio di un ‘caso limite’, a discutere della operatività dell’actio negotiorum gestorum”. 333 Sull’aequitas come criterio d’ispirazione delle soluzioni prospettate nella riflessione serviana e sulle relative testimonianze nelle fonti v. in specie Voci 1999a, 8 (= 2007, 301). Dalle parole usate nel testo sembrerebbe potersi ipotizzare che l’azione cui si fa riferimento fosse un’azione decretale, cfr. a questo proposito Cenderelli 1997a, 163, nonché Finazzi 1999, 83 ss., che esclude con dovizia di argomentazioni sia che l’azione menzionata potesse essere un’actio mandati o un’actio mandati utilis (in questo senso, fra gli altri, v. già Ratti 1927, 31, nt. 1 [= 1927, III contributo, 31, nt. 1]), sia che si trattasse di un’actio negotiorum gestorum eventualmente concessa in via utile e ciò non perché, come vuole il Cenderelli, non fosse stato ancora emanato l’editto de negotiis gestis a tutela della gestione spontanea e per non essere utilizzabile l’azione civile, peraltro a suo avviso già introdotta, ma piuttosto perché la fattispecie non rientrava nei limiti di applicazione dell’actio in factum (che, come ben sappiamo, riguardava, a parere dell’autore, esclusivamente la gestione processuale) e perché d’altra parte, indipendentemente dagli eventuali dubbi circa l’esperibilità nel caso di specie, non era stata probabilmente ancora introdotta l’azione civile, che Finazzi (v. ibidem, 88 e 175) colloca, nella sua prima applicazione, “nella seconda parte della prima metà del I secolo a.C.”. Anche a me sembra che nulla si possa ricavare dal nostro testo circa il momento di introduzione dell’editto de negotiis gestis. Diversamente, per l’osservazione secondo cui il brano permetterebbe invece di desumerne con una certa approssimazione il terminus post quem, v. le osservazioni prospettate da Nicosia 1969, 638, nt. 49, nonché d’Orta 1990, 97 s. (che riprende testualmente le argomentazioni di Nicosia).

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Fabiana Mattioli rispondentemente se stesso nei confronti dell’eredità, qualora fosse divenuto erede un impubere quest’ultimo sarebbe stato integralmente tenuto per i debiti e gli altri oneri ereditari, dovendosi pertanto escludere che il pupillo fosse responsabile nei limiti dell’arricchimento334. A una situazione ancora diversa fa riferimento il paragrafo 2. Qualora fosse stata iniziata l’amministrazione degli affari di Tizio mentre costui era ancora in vita, non si sarebbe potuta interrompere la gestione dopo la sua morte: più precisamente si dice che il gestore avrebbe avuto l’obbligo di condurre a termine gli affari già intrapresi e conservarne gli effetti favorevoli (vetera explicare ac conservare necessarium est), benché non fosse tenuto a iniziare nuove attività (nova tamen inchoare necesse mihi non est)335. Al fine di meglio argomentare la soluzione prospettata quanto appena affermato è messo da Paolo esplicativamente in relazione (ut accidit) con l’obbligo del socio di concludere la gestione intrapresa malgrado lo scioglimento della società per morte dell’altro socio: nam quaecumque prioris negotii explicandi causa geruntur, nihilum refert, quo tempore consummentur, sed quo tempore inchoarentur336. L’ultima fattispecie è presa in considerazione nel paragrafo 3, un testo che, come già quello del principium, spesso è stato oggetto delle attenzioni della letteratura romanistica. Lucio Tizio ha gestito degli affari altrui in virtù di un mandato conferitogli da un terzo: poiché non ha gestito in modo corretto, il mandante è tenuto nei confronti del gerito attraverso l’actio negotiorum gestorum e ciò non solo per garantire al gerito la cessione delle azioni a lui spettanti nei confronti del mandatario-gestore (e cioè l’actio mandati che ha contro di lui), ma anche perché attraverso di essa potrà essere chiamato a rispondere personalmente per ogni

334 Su questa parte del testo v. in specie Voci 1967, 538 e nt. 74, che appunto rileva che il pupillo, non sarebbe stato responsabile nei limiti dell’arricchimento, come se fosse stato gerito un suo negozio personale (cfr. Ulp. 10 ad ed., D. 3.5.5.2 [Impp. Sev. et Ant. AA. Rufinae, a. 197] C. 2.18[19].2), ma per l’intero. Cfr. anche von Lübtow 1968, 610. L’espressione quodammodo sibi hereditatem seque ei obligat dimostra la tendenza di Paolo ad accettare l’idea, di ascendenza giulianea, che l’hereditas personae defuncti vicem sustinet e quindi della sua personificazione, cfr. sul punto Finazzi 2003, 487 e nt. 381, che peraltro sottolinea come ciò rilevi sotto un profilo esclusivamente sostanziale, senza che se ne possano inferire conseguenze circa l’esistenza o meno di una formula civile riguardante specificamente gli affari ereditari (formula di cui Voci nega l’esistenza e che invece Finazzi tende a ipotizzare). Quanto alla costruzione dogmatica dell’obligatio hereditati, v. anche le osservazioni di Biscardi 1991, 153 ss. (con ampia indicazione delle relative fonti). 335 Cfr. sul punto Voci 1967, 358 e nt. 76, nonché, specificamente sul significato di explicare, Id. 1987, 114 e nt. 67 (= 2007, 39 e nt. 67). Sulla possibilità di applicare per analogia lo stesso criterio formulato per la gestione continuativa degli affari altrui al caso della gestione di un singolo affare v. Finazzi 2006, 27 s. Peraltro l’obbligo del gestore generale vivente domino si estende invece anche agli affari ulteriori, cfr. Ulp. 10 ad ed., D. 3.5.5(6).14(12), con riferimento al caso in cui la presenza del gestore avrebbe potuto scoraggiare l’intromissione di altri (v. sul punto quanto già detto supra, 162 e nt. 311). Non c’è contraddizione fra i due testi che si occupano di situazioni diverse, quello di Paolo della gestione degli affari di chi è defunto, quello di Ulpiano appunto della gestione vivente domino. 336 Il parallelo istituito con riferimento all’obbligo del socio di concludere la gestione intrapresa nonostante lo scioglimento della società per morte dell’altro socio vuole evidentemente sottolineare che quanto affermato in materia di gestione d’affari costituiva in realtà una regola generale. Analogo obbligo gravava del resto sul mandatario e sul tutore, v. Finazzi 2006, 28 e ntt. 16 e 17 per l’indicazione delle relative fonti. Sul punto cfr. anche Voci 1990, 60 e nt. 72 (= 2007, 101 e nt. 72).

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Commento pregiudizio arrecato al gerito dal comportamento negligente di Lucio Tizio in quanto riconducibile alla sua culpa in eligendo (quod imprudenter eum elegeris)337. F. 123 – D. 17.1.40 Alcuni altri testi tratti dal nono libro sono qui di seguito inseriti seguendo l’ordine dei diversi titoli della raccolta di iura da cui sono tratti, l’unico possibile in mancanza di evidenze significative quanto alla loro collocazione originaria338. Il primo, che proviene da D. 17.1 mandati vel contra, riguarda gli effetti della negotiorum gestio prohibente domino ed evidenzia a questo proposito la rilevanza determinante dell’elemento soggettivo della prohibitio rispetto a qualunque altra valutazione della gestione in termini oggettivi. Con specifico riferimento al caso della fideiussione prestata te praesente et vetante, Paolo afferma infatti che in tale circostanza non poteva essere riconosciuta né l’actio mandati (circostanza che giustifica la collocazione in D. 17.1), né l’actio negotiorum gestorum (aspetto questo che costituiva invece evidentemente lo spunto da cui aveva preso Paolo per affrontare la questione prospettata)339. Si aggiunge altresì che dei non meglio identificati quidam ammettavano tuttavia la concessione di un’actio utilis, prospettiva tuttavia a sua volta rigettata dal giurista severiano (quibus non consentio) sulla

337 Non può essere messa in discussione la genuinità del riferimento alla culpa in eligendo, cfr. Finazzi 1999, 342 s., che evidenzia altresì come il passo non faccia parola della responsabilità del mandatario-gestore rispetto al gerito, nei cui confronti peraltro l’actio negotiorum gestorum non sarebbe stata esercitabile o perché la gestione non era spontanea o perché piuttosto, come sembra testimoniato da altri testi (cfr. Iav. 8 ex Cass., D. 3.5.27[28]; Papin. 9 quaest., D. 16.1.7; Papin. 9 quaest., D. 17.1.53; Ulp. 10 ad ed., D. 3.5.3.11), il mandato assorbiva la gestione. Sulla responsabilità del mandante per l’attività del mandatario-gestore, cfr. in specie le osservazioni di Voci 1990, 113 e 115 (= 2007, 150 e 152); sul punto v. anche Cannata 1992, 425 s. Sul testo cfr. altresì l’ampia discussione in Knütel 1983, 345 ss. (e ivi dettagliata indicazione della letteratura precedente), nonché l’attento quadro fornito da Fercia 2008, in specie 185 ss.; per una efficace sintesi v. altresì Pontoriero 2010, 364 e nt. 16. 338 L’unico per cui si potrebbe tentare una ricostruzione diversa è proprio D. 17.1.40, che Krüger 1905, 898 inseriva fra D. 3.5.6(7) [F. 117] e D. 3.5.12(13) [F. 118] forse per connessione di materia con Ulp. 10 ad ed., D. 3.5.7(8).3 (v. infra, nt. 340), che dunque a sua volta lo può in qualche modo ricollegare ratione loci a D. 3.5.6(7). Se ben intendo l’ermetica congettura di Krüger mi sembra si tratti tuttavia di connessioni troppo fragili per dare consistenza a un’ipotesi ricostruttiva diversa da quella più prudente prospettata da Lenel 1889.I, 982 e qui condivisa. 339 Sull’alternativa prospettata fra actio mandati e actio negotiorum gestorum in relazione alla fideiussio rispettivamente prestata in assenza di volontà contraria o invece pro absente cfr. Finazzi 2003, 560 s., nt. 184 (con ampia indicazione di letteratura). La soluzione adottata da Paolo è in linea con quella che era la posizione di Giuliano, condivisa dalla decisio giustinianea riportata in (Imp. Iust. A. Iuliano pp., a. 530) C. 2.18(19).24pr.-1: Si quis nolente et specialiter prohibente domino rerum administrationi earum sese immiscuit, apud magnos auctores dubitabatur, si pro expensis, quae circa res factae sunt, talis negotiorum gestor habeat aliquam adversus dominum actionem. 1. Quam quibusdam pollicentibus directam vel utilem, aliis negantibus, in quibus et Salvius Iulianus fuit, haec decidentes sancimus, si contradixerit dominus et eum res suas administrare prohibuerit, secundum Iuliani sententiam nullam esse adversus eum contrariam actionem, scilicet post denuntiationem, quam ei dominus transmiserit nec concedens ei res eius attingere, licet res bene ab eo gestae sint. La costituzione giustinianea emanata il 17 novembre del 530 (e quindi facente parte dell’ultima tranche di decisiones emanate prima dell’avvio dei lavori di compilazione del Digesto) ci dà dunque notizia di un contrasto giurisprudenziale (apud magnos auctores dubitabatur) in cui alcuni sostenevano invece la possibilità che a beneficio della posizione del gestore potesse essere concessa una azione che viene definita directa o quantomeno un’azione utile (su tale duplice possibilità e sulla contrapposizione terminologica actio directa-actio contraria nella decisio giustinianea cfr. Cenderelli 1999, 291 s.). Si tratta peraltro di opinioni cui non riusciamo a dare un volto, dato che le testimonianze superstiti vanno tutte, come del resto è comprensibile, nella direzione accolta da Giuliano e condivisa dalla decisio imperiale.

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Fabiana Mattioli scia di un’opinione concorde già in precedenza manifestata da Pomponio (secundum quod et Pomponio videtur)340. F. 124 – D. 35.2.41 Il frammento è tratto questa volta da D. 35.2 ad legem Falcidiam. Si riferisce evidentemente alla gestione di affari ereditari e, circostanza che spiega la collocazione del frammento nel titolo del Digesto, riguarda specificamente la distribuzione dei legati. Vi si afferma che non si considera priva di dolo la condotta del gestore che, dopo aver sollevato una controversia de hereditate (si iam mota quis controversia hereditatis), distribuisca appunto i legati senza preventivamente esigere le relative cauzioni (e cioè le cautiones evicta hereditate legata reddi)341. Il passo riguarda dunque i limiti della responsabilità del gestore che, come sappiamo, si spingevano a ricomprendere, per regola generale certamente affermata dalla giurisprudenza del II e del III secolo, anche i comportamenti colposi (e che a maggior ragione dovevano dunque contemplare quelli dolosi)342.

340 Il quadro dunque si completa, armonizzandosi con le notizie che ci derivano da C. 2.18(19).24. Viene confermato che alcuni ipotizzavano la concessione di un’actio utilis e che invece Pomponio condivideva la soluzione negativa già prospettata da Giuliano e accolta da Paolo. Si può aggiungere che la stessa soluzione è presupposta nel parere di Giuliano, cui aderisce Ulpiano in Ulp. 10 ad ed., D. 3.5.7(8).3: Iulianus libro tertio tractat, si ex duobus sociis alter me prohibuerit administrare, alter non: an adversus eum qui non prohibuit habeam negotiorum gestorum actionem? movetur eo, quod, si data fuerit adversus eum actio, necesse erit et eum pertingi qui vetuit: sed et illud esse iniquum eum qui non prohibuit alieno facto liberari, cum et si mutuam pecuniam alteri ex sociis prohibente socio dedissem, utique eum obligarem. et puto secundum Iulianum debere dici superesse contra eum qui non prohibuit negotiorum gestorum actionem, ita tamen ut is qui prohibuit ex nulla parte neque per socium neque per ipsum aliquid damni sentiat. All’opinione giulianea aderivano dunque non solo Pomponio e Paolo, ma anche Ulpiano. Ciò peraltro non ci permette di affermare che l’opinione giulianea, per quanto autorevolmente sostenuta e ampiamente condivisa, fosse ‘largamente maggioritaria’ (l’espressione è di Finazzi 2003, 560) in relazione al fatto che la dubitatio risolta dalla cancelleria giustinianea con la decisio conservata in C. 2.18(19).24 implicava che vi fosse una discussione considerata evidentemente ancora rilevante al momento dell’intervento giustinianeo, quantomeno con riferimento all’ipotesi di concessione dell’actio utilis di cui fa parola anche il testo paolino. Benché non se ne possano individuare i nomi, i quidam che ammettevano la concessione di tale azione (sulle probabili caratteristiche di quest’actio utilis cfr. Finazzi ibidem, 562 s., che ipotizza che si trattasse di un’actio negotiorum gestorum adattata con una fictio che imponeva al giudice di decidere come se non ci fosse stata la prohibitio così fornendo, a discrezione del magistrato, un temperamento equitativo rispetto alla soluzione che dava esclusivo rilievo alla volontà contraria del gerito) dovevano insomma essere giuristi non irrilevanti nella prassi dell’epoca e le cui opere evidentemente ancora circolavano nel VI secolo. 341 Sul testo cfr. Finazzi 2006, 242 s. La fattispecie è complessa. Il gestore, a fronte di un’azione intentata iure successionis da chi pretendeva di essere heres, poteva sollevare la controversia de hereditate, così acquistando la legittimazione passiva rispetto all’hereditatis petitio (cfr. Papin. 6 quaest., D. 5.4.10): v. Talamanca 1956, 148 ss. 342 Non vi è motivo di ritenere interpolata l’espressione dolo carere (cfr. tuttavia Levy, Rabel 1931, 320). È vero che, come abbiamo visto, la responsabilità del gestore era per Paolo commisurata alla culpa (cfr., per i testi da noi direttamente considerati, D. 3.5.12(13) [F. 118] e D. 3.5.20(21).3 [F. 122], su cui rispettivamente supra, 163 e nt. 314 e 172 s. e nt. 337), ma è altrettanto vero che a maggior ragione il gestore doveva essere tenuto per dolo e che del resto, come è stato rilevato, nel caso di specie ci si trovava in una zona di confine tra quelle due figure che i moderni qualificano come dolo eventuale e colpa cosciente: cfr. sul punto le osservazioni di Finazzi 2006, 244, cui rinvio anche per il raffronto dell’opinione di Paolo con quella, ugualmente orientata ad affermare la responsabilità per culpa del gestore, di Papiniano e di Ulpiano (e già in precedenza di Pomponio), v. ibidem, 211 ss. Si deve altresì aggiungere che nel momento in cui il gestore sollevava la controversia de hereditate cessava di comportarsi da gestore e, proponendosi piuttosto come erede, cominciava ad attendere ad affari che riteneva

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Commento Stando questa interpretazione del testo mi sembra da escludere che la fattispecie fosse presa in considerazione in sede di commento all’actio in factum in relazione a una gestione strumentale a impedire l’indefensio343. Nel frammento si pone, è vero, una questione processuale, ma evidentemente in relazione a una gestione degli affari ereditari intrapresa prima dell’insorgere della controversia ereditaria, innestata iure successionis dal preteso heres e fissata nella sua materia del contendere attraverso la controversia de hereditate sollevata dal gestore. F. 125 – D. 50.17.114 L’ultimo dei passi tratti dal nono libero proviene da D. 50.17 de diversis regulis iuris antiqui e di fronte all’asciuttezza del frammento conservatoci rimane impossibile individuare il preciso contesto in cui Paolo collocava la sua riflessione interpretativa344. Vi viene enunciata una importante e ben nota regola ermeneutica secondo cui in presenza di obscuritas (in obscuris) si suole aver riguardo a ciò che è maggiormente verosimile (quod verisimilius est) o altrimenti a ciò che comunque accade nella maggior parte delle circostanze (quod plerumque fieri solet). Di fronte all’obscuritas, cui fanno peraltro riferimento alcuni altri testi giurisprudenziali conservati nella raccolta di iura, si esprime dunque l’opportunità di adottare il criterio interpretativo della verosimiglianza o di fare riferimento ai dati di esperienza che ci permettono di individuare, con un calcolo probabilistico legato al ripetersi degli eventi, ciò che di norma accade345.

mente propri. Tale aspetto potrebbe ulteriormente giustificare il riferimento al dolo contenuto nel nostro testo. Ci troviamo infatti di fronte a un evidente slittamento di prospettiva che vale a giustificare, nel caso di specie, una responsabilità che tende a concentrarsi nel dolo (diventando insomma rilevante, nella riflessione paolina, la volontà di danneggiare la pretesa ereditaria dell’attore). 343 Se così fosse la questione affrontata potrebbe essere messa in relazione con quella parte della clausola edittale che in base a quanto riferito da Ulp. 9 ad ed., D. 3.5.3pr. riguardava anche i negotia, quae cuiusque cum is moritur fuerint e che, come risulta dal commento contenuto in D. 3.5.3.6, era estesa dall’interpretazione giurisprudenziale a tutti gli affari facenti capo all’eredità: Haec verba: ‘Sive quis negotia, quae cuiusque cum is moritur fuerint, gesserit’ significant illud tempus, quo quis post mortem alicuius negotia gessit: de quo fuit necessarium edicere, quoniam neque testatoris iam defuncti neque heredis qui nondum adiit negotium gessisse videtur. sed si quid accessit post mortem, ut puta partus et fetus et fructus, vel si quid servi adquisierint: etsi his verbis non continentur, pro adiecto tamen debent accipi. 344 Una suggestione è fornita da Lenel 1889.I, 982, nt. 2, che propone di collegare il nostro testo a quanto detto in Paul. 1 quaest., D. 3.5.33(34) in cui fra l’altro ricorre la frase at in proposito aviam, quae negotia administrabat, verisimile esse de re ipsius nepotis eum aluisse che rimanda al criterio dell’id quod verisimilius est enunciato in D. 50.17.114. Benché tale criterio e quello dell’id quod plerumque fieri solet cui ugualmente si riferisce il testo paolino dei libri ad edictum potessero trovare applicazione nella fattispecie esaminata nel passo delle quaestiones (e più precisamente potessero essere utilizzati come criteri per accertare se ricorresse la voluntas alium sibi obligandi) rimane tuttavia congettura non verificabile che siano stati enunciati da Paolo con riferimento al caso considerato nel passo delle quaestiones o a un caso analogo. Ciò infatti potrebbe essere sostenuto sulla sola base di una ‘assonanza’ tematica e cioè argomentando dal fatto che tali criteri risultavano funzionali nella soluzione prospettata da Paolo in D. 3.5.33(34) a discriminare la negotiorum gestio dalla prestazione alimentare come emanazione della pietas materna. 345 Per un inquadramento del testo e dei suoi possibili referenti filosofici e retorici cfr. Carcaterra 1986, 99 s. Le altre fonti giurisprudenziali che fanno riferimento all’obscuritas sono Marcian. 7 inst., D. 40.5.50 e Ulp. 15 ad Sab., D. 50.17.9. Su tali fonti e sul nostro testo v. recentemente Masuelli 2015, 5 ss. Su D. 50.17.114 v. altresì Brutti 2017, 93, che in parallelo richiama anche Ulp. 49 ad Sab., D. 18.4.2.1, in cui ritorna il criterio della frequenza casistica di ciò che avviene il più delle volte per fissare al momento della vendita dell’eredità la consistenza del patrimonio ereditario.

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Fabiana Mattioli

LIBRO X

[Sui calunniatori (E. IX.36-38)] Come è noto del decimo libro del commentario paolino all’editto ci sono conservati appena quattro testi346, tutti considerati da Lenel riconducibili a un titolo de calumniatoribus che si sarebbe articolato in tre diversi editti347. Più precisamente si sarebbe trattato anzitutto di quello che prevedeva un’azione in quadruplum contro chi avesse ricevuto della pecunia per facere o non facere un negotium calumniae causa (E. 36)348, cui, secondo l’autore tedesco, si sarebbero aggiunti quello relativo iudicium calumniae decimae partis (E. 37)349 e un altro sul iusiurandum calumniae (E. 38)350. La ricostruzione leneliana risulta assai più articolata rispetto a quella proposta da Rudorff, che invece aveva in precedenza ipotizzato la presenza del solo primo editto, l’unico di cui, per giudizio unanime, sia riscontrabile traccia indiscussa nelle fonti351. Non

346 Si tratta, come meglio vedremo, di D. 3.6.2 [F. 126a], D. 3.6.7 [F. 128 e F. 129], D. 37.15.8 [F. 130] e D. 50.17.115 [F. 126b e F. 127] (in cui peraltro qui vengono individuati cinque diversi frammenti del commentario paolino). Il decimo è dunque un libro conservatoci in misura assai più frammentaria dei precedenti (con la sola eccezione del settimo di cui a sua volta il Digesto ci ha trasmesso, come abbiamo visto [v. supra, 129 ss.], appena tre frammenti). 347 Cfr. appunto Lenel 1927, 106 ss. (che argomenta l’esistenza del titolo da D. 3.6 e C. 9.46, entrambi caratterizzati dalla rubrica de calumniatoribus, cfr. ibidem, 106, nt. 1), seguito da García Camiñas 1994a, in specie 114 ss. Della presenza di tre diversi editti sarebbe indizio secondo Lenel (ibidem, 106) e García Camiñas (ibidem, 35 s. e 55) anche l’ampiezza della trattazione paolina in cui appunto l’intero libro decimo appare dedicato, alla luce dei testi superstiti, ai calumniatores, circostanza che proverebbe indirettamente, salvo che non si voglia ipotizzare che alcune delle sue parti fossero piuttosto da riconnettere con gli argomenti trattati nei libri contigui, che i temi presi in considerazione fossero in realtà più numerosi rispetto a quanto ci dicano in termini espliciti le testimonianze a nostra disposizione. 348 A questo editto sono certamente riconducibili anche i frammenti delle corrispondenti trattazioni edittali ulpianee (D. 3.6.1, D. 3.6.3, D. 3.6.5) e gaiane (D. 3.6.4, D. 3.6.6). All’editto in questione si riferisce altresì certamente, fra i passi inseriti in D. 3.6, un ulteriore testo ulpianeo tratto dal quarto dei libri opinionum (D. 3.6.8). Per un esame complessivo dei singoli frammenti inseriti in D. 3.6, cfr. Giomaro 2003, 41 ss. Un più approfondito quadro d’insieme del titolo della raccolta di iura è fornito dalla stessa Giomaro 2007, 496 ss. 349 In particolare sono due i passi che testimonierebbero secondo Lenel 1927, 107 ss., la trattazione di questo editto nell’ambito del titolo edittale. Si tratta di Ulp. 10 ad ed., D. 5.1.10 = D. 4.4.21 e di Ulp. 10 ad ed., D. 37.15.5pr., al cui proposito rinvio alle argomentazioni esposte dallo stesso Lenel ibidem. Sul punto, in senso adesivo rispetto all’ipotesi leneliana, cfr. anche García Camiñas 1994a, in specie 93 e 112. Peraltro le principali testimonianze riguardanti il iudicium calumniae decimae partis sono quelle riscontrabili nelle Istituzioni gaiane, cfr. Gai. 4.163, 4.175, 4.178. V. anche Cons. 6.13. 350 L’ipotesi di Lenel 1927, 109, poggia sulle testimonianze di Gai. 4.172 e Gai. 4.176, con particolare riferimento ai testi di Ulp. 10 ad ed., D. 12.2.16 in cui si esclude che il patrono debba giurare de rerum amotarum iudicio anche quando abbia deferito il giuramento alla moglie liberta. Un ulteriore richiamo al iusiurandum è inoltre riscontrabile, come già vide Lenel, in Ulp. 10 ad ed., D. 37.15.7.3. Su entrambi i testi v. infra, 182 e ntt. 369 e 370. L’opinione di Lenel è esposta peraltro in forma assai stringata e senza escludere dubbi, ma è ulteriormente argomentata da García Camiñas 1994a, 111 s. e 122, che ritiene che in questa parte del titolo edittale fossero inserite le formule del iusiurandum calumniae, sia che fosse prestato dall’attore (iusiurandum non calumniae causa agere), sia che fosse prestato dal convenuto (iusiurandum non calumniae causa infitias ire). 351 Cfr. a questo proposito la ricostruzione fornita da Rudorff 1869, 54 s. (che non pone la questione della presenza di altri editti). Nello stesso senso, ma con ricchezza di argomentazioni contrarie alle ipotesi ricostruttive di Lenel e García Camiñas, Domingo 1994, in specie 641 ss.

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Commento sorprende dunque che la ricostruzione del titolo edittale de calumniatoribus e particolarmente l’ipotesi che contenesse una pluralità editti e quella della sua stessa esistenza sia stata in anni relativamente recenti messa in discussione da chi ha piuttosto riproposto l’ipotesi che vi fosse un unico editto de calumniatoribus, ritenuto connesso all’editto che immediatamente lo precedeva, individuato in quello de negotiis gestis, e che sarebbe stato inserito, insieme ad altri, in un titolo edittale di carattere generale352. Sulla questione vi sono una pluralità di argomentazioni che possono essere addotte a favore dell’una o dell’altra ipotesi353, ma rimane a mio avviso vero che la ricostruzione leneliana ha dalla sua il fatto che almeno alcuni frammenti riconducibili alla trattazione del iusiurandum calumniae sembrano potersi effettivamente individuare fra quelli superstiti dei commentari edittali e che la mancanza di testimonianze relative al iudicium calumniae decimae partis potrebbe forse trovare spiegazione nella desuetudine che aveva colpito l’antico iudicium calumniae e nella conseguente generalizzazione giustinianea del iusiurandum354. È in ogni caso certo (e la letteratura è almeno in questo concorde) che in questa parte dell’editto fosse collocata la previsione pretoria volta a sanzionare il comportamento illecito di coloro che avessero ricevuto del denaro ut calumniae causa negotium faceret vel non faceret. Sotto questo profilo è necessario prendere le mosse da un frammento del decimo libro del commentario all’editto ulpianeo (D. 3.6.1pr.) in cui può nella sostanza riscontrarsi il dettato edittale355. Le due ipotesi prospettate nell’editto, certamente da “leggere” in chiave proces-

352 Tale ipotesi è sostenuta da Domingo 1994, 647, la cui proposta ricostruttiva, che pure può presentare alcuni argomenti di un certo peso nella parte critica rispetto alle singole argomentazioni addotte da Lenel e da García Camiñas, appare assai fragile nella pars construens, dato che l’autore spagnolo non precisa né il contenuto complessivo del titolo edittale ipotizzato, né propone al proposito una specifica rubrica (“…sino que se trataba… tan sólo de un único edicto, dentro de un título más general – en el que se encontraba, entre otros, también el edicto de negotiis gestis –…”). Diversamente Rudorff 1869, 47 ss., da cui prende le mosse la critica di Domingo, ipotizzò che l’editto de calumniatoribus fosse inserito nel titolo edittale de iis per quos agere possumus che dunque, come abbiamo già accennato, sarebbe stato oggetto della trattazione paolina a partire dal libro ottavo e fino al decimo compreso. 353 Per una sintetica, ma assai utile elencazione delle argomentazioni addotte da Lenel e da García Camiñas v. Giomaro 2003, 57, nt. 77. L’autrice riprende da vicino l’elenco per punti argomentativi già fornito da Domingo 1994, 638 ss. e utilizzato dall’autore spagnolo per esprimere in forma analitica le proprie obiezioni, volte a escludere anzitutto l’esistenza di un titolo edittale de calumniatoribus (v. 641 s.) e successivamente, con argomentazioni ampiamente articolate, la presenza dei tre editti ipotizzati da Lenel e da García Camiñas (v. 642 ss.). 354 Mi riferisco, per quanto riguarda il iusiurandum calumniae, ai due già citati testi di Ulp. 10 ad ed., D. 12.2.16 e di Ulp. 10 ad ed., D. 37.15.7.3 che Domingo 1994, 644, nella sua pur serrata critica a Lenel e a García Camiñas, non prende in considerazione. Risulta infatti troppo generico l’argomento (enunciato a proposito del testo di Gai. 4.172) secondo cui del iusiurandum calumniae si discuteva in diverse parti dell’editto a fronte della presenza di almeno due frammenti che dimostrano che di tale iusiurandum si parlava proprio nel decimo libro del commentario ulpianeo. Quanto al iudicium calumniae decimae partis la spiegazione prospettata nel testo è quella avanzata da García Camiñas 1994a, 38 s. Si tratta è vero di un argomento essenzialmente negativo, come evidenzia Giomaro 2003, 57, nt. 77, ma che, anche alla luce degli indizi già raccolti da Lenel (v. supra, nt. 349), può assumere qualche peso per argomentare in via congetturale, e pur con tutta la prudenza del caso, l’esistenza di un editto sul iudicium calumniae, che peraltro va considerata a mio avviso assai più incerta di quella riguardante l’editto sul iusiurandum. 355 Cfr. Ulp. 10 ad ed., D. 3.6.1pr.: In eum qui, ut calumniae causa negotium faceret vel non faceret, pecuniam accepisse dicetur, intra annum in quadruplum eius pecuniae, quam accepisse dicetur, post annum simpli in factum actio competit. Secondo la ricostruzione leneliana, in cui vengono modificate le cinque parole finali (cfr. Lenel 1927, 106, in precedenza Levy 1915, 103 ss.), il testo edittale avrebbe dovuto recitare: In eum qui, ut calumniae causa negotium faceret vel non faceret, pecuniam accepisse dicetur, intra annum in quadruplum eius pecuniae, quam accepisse dicetur, post annum de eo quod ad eum pervenerit iudicium dabo (v. anche Domingo 1994, 637 s.).

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Fabiana Mattioli suale, erano rivolte a sanzionare due comportamenti diversi e in qualche modo speculari. Quella in cui il denaro era corrisposto per evitare un’accusa calunniosa e l’altra in cui invece il denaro veniva corrisposto per indurre l’accusatore a promuoverla356. In entrambi i casi si prevedeva che contro l’accipiens potesse essere esercitata un’azione penale nel quadruplo qualora l’azione fosse esercitata entro l’anno o un’azione in simplum qualificata come actio in factum qualora invece l’esercizio dell’azione fosse avvenuto oltre tale termine357. Poteva poi eventualmente aggiungersi l’esercizio della condictio ob turpem causam al fine di poter ottenere la restituzione di quanto illegittimamente corrisposto358. F. 126a = F. 126b, F. 127 – D. 3.6.2 = D. 50.17.115pr., D. 50.17.115.1 In sede di interpretazione del testo edittale ci si soffermò ampiamente sul significato da attribuire alle parole pecuniam accepisse359. In particolare da quattro frammenti, due di Ulpiano

356 In generale sulla previsione edittale rinvio fra gli altri a Levy 1915a, 102 ss.; Serrao 1956, 92 ss.; Provera 1965, 544 ss.; Venturini 1987, 139 ss.; un accenno anche in Centola 2000, 187, nt. 76. Successivamente si sono occupate del tema anche Buzzacchi 2002, 129 s. e Giomaro 2003, 41 ss., Ead. 2007 499 ss. (e in particolare 501 per alcune osservazioni sul significato del termine negotium e sulle attività calunniose che vi erano ricondotte nel contesto della disposizione edittale). 357 Non rilevava che la dazione di denaro avvenisse prima o dopo l’accettazione del giudizio, cfr. Ulp. 10 ad ed., D. 3.6.1.2: Qui autem accepit pecuniam sive ante iudicium sive post iudicium acceptum, tenetur. Il rimedio edittale spettava inoltre anche nel caso in cui l’azione calunniosa fosse esercitata in sede criminale e particolarmente nei processi in materia di repetundae, cfr. Ulp. 10 ad ed., D. 3.6.1.1: Hoc autem iudicium non solum in pecuniariis causis, sed et ad publica crimina pertinere Pomponius scribit, maxime cum et lege repetundarum teneatur, qui ob negotium faciendum aut non faciendum per calumniam pecuniam accepit. Sul punto v. Serrao 1956, 92 e Venturini 1987, 139 ss., che ipotizzano però che l’estensione della previsione edittale all’accusa pubblica presupponga l’avvento e il consolidamento della cognitio extra ordinem. 358 Ciò poteva peraltro avvenire solo nel caso in cui il dans avesse pagato per evitare un’azione calunniosa, non invece in quello in cui l’avesse provocata. La regola è enunciata in Ulp. 10 ad ed., D. 3.6.5.1: Sed etiam praeter hanc actionem condictio competit, si sola turpitudo accipientis versetur: nam si et dantis, melior causa erit possidentis… Sulla genuinità della soluzione prospettata cfr. Schwarz 1952, 181. Quanto detto in D. 3.6.5.1 deve essere peraltro coordinato con il testo di Ulp. 10 ad ed., D. 3.6.3.3: Illud erit notandum, quod qui dedit pecuniam, ut negotium quis pateretur, non habebit ipse repetitionem: turpiter enim fecit: sed ei dabitur petitio, propter quem datum est ut calumnia ei fiat. quare si quis et a te pecuniam accepit, ut mihi negotium faceret, et a me, ne mihi faceret, duobus iudiciis mihi tenebitur. Dunque, nonostante l’affermazione secondo cui in pari causa turpitudinis melior est condicio possidentis, la vittima della macchinazione avrebbe comunque avuto la possibilità di intentare a sua volta la condictio e anzi avrebbe potuto intentare anche due diverse condictiones (questo a mio avviso il senso da dare al testo che qui si occupa esclusivamente della restituzione) qualora avesse a sua volta pagato perché l’azione calunniosa non avesse luogo. Inoltre, a stare al prosieguo di D. 3.6.5.1, sembrerebbe che il concorso fra l’azione prevista dall’editto e la condictio fosse considerato comunque come alternativo nel caso in cui spettassero alla stessa persona, tant’è che l’esercizio della condictio avrebbe potuto escludere quello dell’actio in simplum: …quare si fuerit condictum, utrum tollitur haec actio, an vero in triplum danda sit? an exemplo furis et in quadruplum actionem damus et condictionem? sed puto sufficere alterutram actionem. ubi autem condictio competit, ibi non est necesse post annum dare in factum actionem. Al testo manca peraltro qualcosa, come dimostra l’evidente salto logico che si verifica nel brusco passaggio dal quesito che riguarda l’actio in quadruplum alla soluzione prospettata che si riferisce invece all’actio in simplum. Che il passo sia stato oggetto di interventi di modifica sembra confermato alla luce della soluzione adombrata nel caso di esercizio dell’actio in quadruplum che parrebbe configurarsi, secondo una logica tutta giustinianea, come azione mista: cfr., per le ipotesi di rimaneggiamento di questa parte del testo, Levy, Rabel 1929a, 43; Iid. 1929b, 52 e in specie le osservazioni di Levy 1922, 151 ss. (e già prima Id. 1915, 142 e nt. 1), nonché, brevemente, di Provera 1965, 545 e nt. 8. 359 Si trattava in questo senso di commentare le parole edittali, che nel pecuniam accipere fissavano un essenziale elemento costitutivo del comportamento illecito (in questo senso è significativo che tutti e tre i primi testi inseriti

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Commento (tratti entrambi dal decimo libro) e dai due geminati di Paolo inseriti rispettivamente in D. 3.6.2 e D. 50.17.115pr. si evince che si ritenne di poter assimilare al denaro ogni lucrum o utilità economica che potesse derivarne al calumniator (v. Ulp. 10 ad ed., D. 3.6.1.4 e D. 3.6.3pr.)360 anche in forma indiretta, come nel caso in cui l’accipiens fosse stato liberato da un’obbligazione (è questa la parte in cui i due testi di D. 3.6.2 e D. 50.17.115pr. coincidono) o altrimenti avesse ricevuto del denaro senza doverne pagare gli interessi o avuto in locazione o acquistato un bene a un corrispettivo ridotto, comprese altresì le situazioni in cui il denaro fosse stato ricevuto da altri o per suo ordine o comunque in presenza di una sua ratifica successiva (cfr. D. 3.6.2)361. Al contrario, immediatamente dopo, nel paragrafo 1 di D. 50.17.115, si prevede che non potesse considerarsi ricevuto (e quindi rientrare nella fattispecie del pecuniam accipere) quanto invece semplicemente stipulato al fine di evitare un’accusa calunniosa o per indurre qualcuno a promuoverla se e in quanto vi fosse la possibilità di opporsi all’actio ex stipulato con una eccezione (probabilmente l’exceptio doli), circostanza quest’ultima che avrebbe di fatto escluso che lo stipulante potesse ricavare dal negozio una concreta utilità362. F. 128 – D. 3.6.7pr.-1 Il testo riguarda anzitutto la legittimazione attiva rispetto all’esercizio dell’azione nel caso in cui si fosse dato del denaro per evitare l’esercizio di un’azione calunniosa. A questo proposito,

dai compilatori in D. 3.6 ruotino intorno proprio a questo aspetto della previsione edittale). La fattispecie veniva cioè integrata dall’accipere (nelle varie forme e modalità individuate dall’interpretazione giurisprudenziale) cui certo corrispondeva un dare, ma senza che quest’ultimo comportasse conseguenze rispetto alla disposizione dell’editto, salvoché, su altro piano, come abbiamo visto, quella di non poter ottenere la restituzione di quanto pagato nel caso in cui il denaro fosse stato corrisposto per indurre a promuovere un’accusa calunniosa (v. nt. precedente). 360 Cfr. Ulp. 10 ad ed., D. 3.6.1.4: Pecuniam autem accepisse dicemus etiam si aliquid pro pecunia accepimus; Ulp. 10 ad ed., D. 3.6.3pr.: Et generaliter idem erit, si quid omnino compendii sensit propter hoc, sive ab adversario sive ab alio quocumque. Ogni lucro, ogni utilità avrebbe dunque potuto costituire il corrispettivo atto a integrare la fattispecie prevista dal pretore. Inoltre, sempre in via interpretativa, si previde che il semplice accordo, purché ad esso avesse comunque fatto seguito il lucrum pattuito, potesse dar luogo all’esercizio dell’azione anche se l’attività calunniosa non avesse successivamente avuto luogo, cfr. Ulp. 10 ad ed., D. 3.6.3.1: Si igitur accepit ut negotium faceret sive fecit sive non fecit, et qui accepit ne faceret etsi fecit, tenetur. 361 Dunque si sarebbe potuta esperire l’azione anche se il beneficiario immediato non fosse stato il calumniator, circostanza che trova conferma nelle parole ab alio quocumque di D. 3.6.3pr. (v. nt. precedente). Si tratta anche in questo caso di un’interpretazione giurisprudenziale innestatasi sulla previsione edittale, consistente in un’estensione anche sotto il profilo soggettivo del pecuniam accipere: sul punto v., per un accenno, García Camiñas 1994a, 56 s. 362 Sul punto v. in specie Provera 1965, 546 ss., che segnala che il passo, riferendosi alla possibilità di paralizzare l’azione iure praetorio (mediante eccezione come previsto esplicitamente nel testo o eventualmente mediante il ricorso alla denegatio actionis; per la possibilità che ciò potesse avvenire anche mediante un’exceptio in factum fondata sull’illiceità dell’accordo v. García Camiñas 1994a, 57, nt. 74), conferma al contrario la legittimità iure civili della stipulatio ob turpem causam. Sempre argomentando dal nostro testo Provera ritiene altresì che a fortiori, nel diritto dell’epoca del Principato, si dovesse escludere la rilevanza del semplice pactum, riflessione da cui argomenta il carattere non originario di quanto attribuito a Ulpiano in Ulp. 10 ad ed., D. 3.6.3.2: Hoc edicto tenetur etiam is qui depectus est: depectus autem dicitur turpiter pactus (testo in cui è peraltro indice di un’origine tarda l’uso del termine depectus nel senso di turpiter pacisci). La previsione contenuta nel testo che va sotto il nome di Ulpiano troverebbe piuttosto giustificazione nella tendenza, diffusasi probabilmente con il progressivo espandersi della cognitio extra ordinem, a sanzionare qualunque accordo diretto a evitare un’accusa calunniosa o a indurre qualcuno a promuoverla anche in relazione alla possibilità di irrogare una sanzione pro modo delicti (sul punto, con riferimento specifico alla previsione contenuta in Ulp. 4 opin., D. 3.6.8, v. Provera ibidem, 549).

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Fabiana Mattioli secondo quanto affermato da Paolo nel principium, qualora la dazione fosse avvenuta materialmente a opera di altri, ai fini dell’esercizio dell’azione prevista dall’editto il denaro si sarebbe dovuto considerare come dato dall’interessato dall’azione calunniosa anche qualora fosse stato dato dal mandatario, dal procurator omnium bonorum o anche da chi avesse assunto la negotiorum gestio purché in quest’ultimo caso fosse intervenuta la ratifica363. Anche nel caso in cui la dazione fosse piuttosto avvenuta a opera di altri misericordiae causa e senza che fosse avvenuta una apposita ratifica l’esercizio dell’azione prevista dall’editto sarebbe spettato all’interessato, riservandosi a chi avesse messo il denaro l’apposita condictio per ripetere quanto pagato. L’aver agito misericordiae causa incide dunque sulla soluzione adottata dal giurista nel senso di delimitare il confine delle rispettive pretese di colui che appunto fosse interessato dall’azione calunniosa e di chi avesse in concreto versato il denaro364. Il testo continua a occuparsi di legittimazione attiva e passiva all’esercizio dell’azione anche nel paragrafo 1. Vi si prevede infatti che se si fosse ricevuto del denaro perché venisse intentato un processo nei confronti di un filius familias, l’azione dovesse essere concessa anche al padre e che specularmente, se fosse un filius familias ad aver ricevuto del denaro perché venisse esercitata un’accusa calumniae causa o piuttosto al fine di non promuoverla, si dovesse agire nei confronti del titolare della potestà365. Inoltre, tornando a occuparsi specificamente di una questione di legittimazione attiva, si prevede che, nel caso in cui si fosse dato del denaro a un filius familias affinché non agisse e ciò fosse avvenuto in assenza di un mandato da parte dell’eventuale soggetto passivo dell’azione calunniosa, a quest’ultimo dovesse comunque spettare l’azione edittale e che invece quella per la restituzione dovesse essere riconosciuta a chi avesse dato il denaro366.

363 Non avrebbe invece potuto esercitare l’azione l’erede, cfr. Gai. 4 ad ed. prov., D. 3.6.4 che si sarebbe dovuto limitare a richiedere la restituzione di quanto diede il de cuius: Haec actio heredi quidem non competit, quia sufficere ei debet, quod eam pecuniam quam defunctus dedit repetere potest. Contro l’erede l’azione era invece data nell’id quod ad eum pervenit, cfr. Ulp. 10 ad ed., D. 3.6.5pr.: in heredem autem competit in id quod ad eum pervenit. nam est constitutum turpia lucra heredibus quoque extorqueri, licet crimina extinguantur: ut puta ob falsum vel iudici ob gratiosam sententiam datum et heredi extorquebitur et si quid aliud scelere quaesitum. 364 Per l’esegesi del testo cfr., fra gli altri, García Camiñas 1994a, 59 s. e in particolare, da ultimo, Luchetti 2017, 320 s. (= 2021, 120 ss.), cui rinvio per le indicazioni bibliografiche. Nella letteratura meno recente esamina il frammento, ma ritenendolo interpolato e offrendo una proposta di restituzione del suo presunto tenore originario, Solazzi 1923, 739 s. (= 1957, II 572 s.). 365 Il carattere essenzialmente personale dell’offesa che giustifica che legittimato attivamente sia il solo interessato, così come la regola che vuole che comunque legittimato passivamente sia colui che ha ricevuto il denaro trovano qui una mitigazione connessa al carattere della patria potestas romana. Se sia il filius familias direttamente interessato dall’azione calunniosa potrà agire in virtù dell’editto il padre, così come contro il padre si agirà nel caso in cui sia stato il filius familias a ricevere il denaro: sul punto v. García Camiñas 1994a, 62 s., che sottolinea come l’azione contro il padre potesse contemplare la noxae deditio, ovviamente a meno che il figlio non avesse agito su suo incarico. 366 La situazione prospettata ricalca da vicino quella descritta in precedenza rispetto al caso della datio pecuniae misericordiae causa. Anche qui si è dato senza che sia intevenuto un mandato (non meo mandatu) perché non venisse esercitata un’azione calunniosa, con l’unica differenza che l’accipiens è un filius familias, circostanza che ricollega la fattispecie a quanto detto immediatamente prima nello stesso paragrafo 1. La soluzione è analoga nel delimitare il confine delle rispettive pretese di colui che appunto fosse interessato dall’azione calunniosa e di chi avesse in concreto versato il denaro. Il primo potrà esercitare l’azione prevista dall’editto, il secondo agirà con la condictio per la restituzione di quanto pagato (…tunc et ipsum repetere et me in quadruplum agere posse).

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Commento F. 129 – D. 3.6.7.2 Di una questione diversa si occupa il paragrafo 2 di D. 3.6.7, testo che risulta discontinuo rispetto al discorso fin qui condotto dal giurista, circostanza che fa ipotizzare l’esistenza di un taglio e di una ricucitura compiuta dai compilatori. La questione è quella del pubblicano che trattenga abusivamente degli schiavi altrui al fine di richiedere ai contribuenti una somma non dovuta (Cum publicanus mancipia retineret dataque ei pecunia esset quae non deberetur…), situazione che, secondo quanto affermato nel frammento, permetteva di esperire nei suoi confronti un’azione in factum ex hac parte edicti. Nonostante Lenel, come sappiamo, abbia immaginato l’esistenza nel titolo de calumniatoribus di una pluralità di editti, anche la condotta illecita del pubblicano sembra poter essere a sua volta ricondotta alla fattispecie presa in considerazione appunto ex hac parte edicti, cioè, per dirlo in altre parole, dall’editto di cui il giurista si stava occupando367. Infatti, anche se la situazione prospettata in D. 3.6.7.2 non è certo immediatamente inquadrabile nel pecuniam accipere ut calumniae causa negotium faceret vel non faceret, risulta plausibile il collegamento con la previsione edittale di una azione in factum (o più probabilmente di un’actio utilis) che, per quanto ciò si risolvesse in un evidente ampliamento della nozione di calumnia, aveva lo scopo di evitare un comportamento vessatorio che poteva avere almeno alcuni punti di contatto con la fattispecie già presa in considerazione dal pretore. Evidentemente, come vide già Cuiacio, si ritenne in via interpretativa che il riferimento al negotium faceret vel non faceret nel testo edittale non dovesse riferirsi in via esclusiva alla lite calunniosa, ma potesse ricomprendere qualunque comportamento che si rivelasse vessatorio, tanto più se aggravato, come in questo caso, dal fine di estorsione368. F. 130 – D. 37.15.8 Il testo espone una massima, estrapolata dal suo contesto, in cui si afferma che l’erede del liberto deve considerarsi del tutto estraneo rispetto al patrono e che come tale ha pienamente integri i propri diritti, essendo svincolato da ogni obsequium nei suoi confronti. La stringatezza del frammento conservatoci rende difficile individuare il contesto esatto in cui si collocava l’affermazione di Paolo. Tuttavia nel Digesto il passo si ricollega al testo ulpianeo immediatamente precedente (D. 37.15.7) che era a sua volta inserito nel decimo libro del commento

367 L’espressione ex hac parte edicti può risultare ambigua. Pars edicti è infatti un modo di esprimersi del linguaggio dei giuristi che tuttavia non ha una precisa valenza tecnica e può assumere diversi significati rispetto al contesto in cui si trova inserito (cfr. Domingo 1994, 644 s.). Secondo García Camiñas 1994a, 55, l’espressione confermerebbe la presenza nel titolo edittale di una pluralità di editti (v. supra, nt. 347). Peraltro il riferimento alla pars edicti non sembra qui poter riguardare, come vorrebbe García Camiñas, una parte del titolo edittale de calumniatoribus, ma piuttosto, come detto nel testo, la riconducibilità della fattispecie considerata all’editto di cui il giurista si stava occupando. La collocazione del frammento nel libro decimo del commentario di Paolo all’editto e proprio lo specifico riferimento contenuto nel testo a questa specifica pars edicti vale piuttosto a escludere che il passo possa avere una collocazione al di fuori del titolo de calumniatoribus. Il titolo edittale de publicanis prevedeva invece a sua volta in particolare un editto (quod publicanus vi ademerit [E. 183]) che concedeva contro gli illeciti dei pubblicani una azione in duplum, cfr. Gai. ad ed. praet. urb. de publ., D. 39.4.5.1. Sul titolo edittale e sui singoli editti relativi ai publicani cfr. Lenel 1927, 387 ss. 368 Cfr. Cuiacius 1584, 137. Per l’ipotesi che si trattasse di un’azione utile v. quanto osserva Lenel 1927, 106, nt. 12. Sulla specificità della fattispecie cfr. in particolare De Martino 1993, 26 s., nonché García Camiñas 1994a, 54 s.

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Ivano Pontoriero all’editto e che, almeno in parte, parrebbe riferirsi al iusiurandum calumniae. In particolare l’esplicito riferimento presente in D. 37.15.7.3 (Nec deferentes iusiurandum de calumnia iurant) sembra infatti poter essere messo in relazione all’impossibilità di deferire il giuramento al patrono e alla patrona (depone in questo senso il riferimento alla questione nelle parole libertus… de calumnia patroni quaeri non debet in D. 37.15.7.4)369, circostanza che permetterebbe di collocare tutto il discorso ulpianeo a commento della clausola ipotizzata da Lenel a chiusura del titolo (Adversus parentem, patronum patronam, liberos parentes patroni patronae has actiones non dabo), clausola con cui si escludeva appunto il ricorso alle azioni in esso previste nei confronti di determinate persone e, per quanto qui interessa specificamente, si negava la possibilità di deferire il giuramento al patrono o alla patrona e di ottenere che dagli stessi, una volta deferito, fosse prestato370. Pare dunque plausibile che il passo di Paolo si inserisse in questo contesto per dire che l’esclusione prevista nell’editto riguardo alla possibilità di deferire il iusiurandum calumniae non riguardava comunque l’erede del liberto, proprio perché costui doveva ritenersi svincolato da ogni obsequium dovuto al patrono esclusivamente dal suo dante causa.

LIBRO XI

[Sulle reintegrazioni (E. X)] L’undicesimo e il dodicesimo libro sono dedicati al commento del titolo edittale relativo alle restitutiones in integrum (E. X)371. La trattazione del giurista si sofferma dunque, nell’undice-

369 Cfr. Ulp. 10 ad ed., D. 37.15.7.4: Nec non et si ventris nomine in possessionem calumniae causa missa dicatur patrona, libertus hoc dicens non audietur, quia de calumnia patroni quaeri non debet. his enim personis etiam in ceteris partibus edicti honor habebitur. Il riferimento in realtà non riguarda il iusiurandum e tuttavia il collegamento fra il paragrafo 3 e il paragrafo 4 rimane evidente. A certe persone non può essere deferito il giuramento e se viene deferito non sono obbligate a prestarlo (paragrafo 3) e ciò perché a esse è dovuto un honor che esclude fra l’altro che il liberto possa accusare la patrona che sia stata immessa calumniae causa nel possesso ventris nomine (paragrafo 4). 370 Sul punto cfr. Lenel 1927, 109. Che in particolare la clausola ipotizzata debba essere messa in relazione con il iusiurandum calumniae sembra potersi evincere anche da quanto detto in Ulp. 10 ad ed., D. 12.2.16: Si patronus libertam suam uxorem duxerit, non compelletur iurare de rerum amotarum iudicio. sed et si ipse deferat iusiurandum libertae suae, de calumnia non debet iurare. 371 Lenel 1889.I, 982-988; Id. 1927, 109-130. Per un inquadramento di carattere generale, v. Lauria 1930, 513524; Grosso 1936b, 137-138 (= 2001, III 546-547); Cervenca 1968, 739-744; Luzzatto 1971, 711-722; Cervenca 1978, 213-219; nonché Chevreau 2006, 262-299. Indaga sulle origini della restitutio in integrum, attraverso l’analisi delle fonti di età repubblicana, Sargenti 1966, 193-298 (= 2011, 709-801). L’autore mette in luce come “l’istituto” sia “andato formandosi e caratterizzandosi, da prima nella definizione di situazioni spiccatamente politiche, pubblicistiche e di carattere internazionale, più tardi anche sul terreno dei rapporti di diritto privato”. Con riferimento all’età repubblicana, la “fluidità” della restitutio rifletterebbe il suo carattere pubblicistico e l’ampiezza dei poteri riconosciuti

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Commento simo, sulle previsioni dell’editto relative al metus (E. 39), al dolo (E. 40), ai minori di venticinque anni (E. 41), alle persone che hanno subito un mutamento di stato (E. 42)372.

[Ciò che sarà fatto a causa di timore (E. 39)] Due dei frammenti superstiti della trattazione paolina concernente la rubrica quod metus causa gestum erit si soffermano sul campo di applicazione dell’editto tradito da Ulp. 11 ad ed., D. 4.2.1, individuando i caratteri del timore rilevante ai fini della concessione degli strumenti di tutela offerti dal pretore (D. 4.2.4 [F. 131] e D. 4.2.8 [F. 132])373. I rimanenti frammenti, prendono in considerazione, verosimilmente, in ragione della collocazione assunta all’interno del titolo D. 4.2, la formula dell’actio quod metus causa (D. 4.2.15 [F. 133] e D. 4.2.21 [F. 134])374. Lo stesso deve essere osservato, per ragioni di carattere contenutistico, anche in relazione a due ulteriori testimonianze paoline, collocate dai commissari di Giustiniano al di fuori della sedes materiae (D. 4.7.5 [F. 135] e D. 50.17.117 [F. 136]). F. 131 – D. 4.2.4 Il giurista commenta il lemma metus e precisa che, ai fini dell’applicazione delle previsioni contenute nell’editto, rilevano anche il timore di cadere in condizione servile e quello di altre

al magistrato giusdicente. Sulla traduzione di restitutio e restituere in integrum con ‘reintegrazione’ e ‘reintegrare’ “perché il sostantivo ‘reintegrazione’ e il verbo ‘reintegrare’ danno già l’idea espressa in latino dalle parole in integrum”, v. Marrone 2001, 123-124 (= 2003, II 765-766). Non seguo, tuttavia, il suggerimento relativo alla traduzione della rubrica de in integrum restitutionibus con ‘dei provvedimenti di reintegrazione’. Essendo estranea all’elaborazione della giurisprudenza romana la nozione di provvedimento, preferisco tradurre con ‘sulle reintegrazioni’. Questa proposta di traduzione, oltre ad evitare l’impiego anacronistico di una categoria sviluppata dalla dogmatica successiva – frutto dell’affermazione della nozione di sovranità, articolata secondo il principio della separazione dei poteri e, quindi, ulteriormente strutturata e definita nelle sue implicazioni dagli apporti del costituzionalismo, specie novecentesco (cfr. gli spunti offerti da Palermo 1967, 401-423) – sembra più aderente alle caratteristiche di un linguaggio giuridico caratterizzato da particolare concretezza e basso livello di astrazione. 372 I profili palingenetici della ricostruzione del commento paolino saranno affrontati nel prosieguo di questa trattazione con riferimento a ciascuna rubrica. 373 Ulp. 11 ad ed., D. 4.2.1: Ait praetor: ‘Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo’. olim ita edicebatur ‘quod vi metusve causa’: vis enim fiebat mentio propter necessitatem impositam contrariam voluntati: metus instantis vel futuri periculi causa mentis trepidatio. sed postea detracta est vis mentio ideo, quia quodcumque vi atroci fit, id metu quoque fieri videtur [Il pretore afferma: ‘non terrò per valido ciò che sarà fatto a causa di timore’. Una volta così si stabiliva nell’editto: ‘ciò a causa di violenza o timore’; veniva appunto fatta menzione della violenza per l’imposizione di una costrizione contraria alla volontà, del timore per l’agitazione della mente a causa di un pericolo presente o futuro. Ma poi è stata eliminata la menzione della violenza per questo motivo, perché qualsiasi cosa venga fatta a causa di atroce violenza, si considera essere fatta anche per timore]. Sul testo ulpianeo, cfr. Pontoriero 2020, 64-65. Secondo la ricostruzione delle previsioni contenute nella rubrica proposta da Lenel 1927, 110-114, la clausola tradita da D. 4.2.1 sarebbe stata seguita da un’altra clausola, relativa alla promessa dell’azione e, dunque, dalla formula dell’azione. Una revisione della palingenesi leneliana del commentario ulpianeo è proposta da d’Ors 1981, in particolare 284-287. Più di recente, Calore 2011, 30-56, ha ipotizzato che anche la promessa dell’actio quod metus causa fosse contenuta nel primo editto. 374 Per la ricostruzione della formula, v. Lenel 1927, 112; Mantovani 1999, 70; Calore 2011, 359-364; nonché Gaulhofer 2019, 170-173.

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Ivano Pontoriero cose, similmente gravi (Ego puto etiam servitutis timorem similiumque admittendum)375. Esemplificazioni relative alla rilevanza del timore di essere ridotti in condizione servile si ritrovano, nel prosieguo della trattazione, in D. 4.2.8.1 [F. 132] e in D. 4.2.21pr. [F. 134]376. F. 132 – D. 4.2.8 Ancora nel contesto relativo all’individuazione dei caratteri del timore rilevante ai fini dell’applicazione dell’editto, Paolo sottolinea che il pretore deve disporre la reintegrazione in favore di quanti, dopo aver violato le previsioni contenute nella lex Iulia de adulteriis coercendis, hanno dato qualcosa, perché era stato loro incusso il timore della morte377. La motivazione fornita al riguardo è che si tratta di una condotta contraria ai buoni costumi (nam et gestum est malo more), e, inoltre, il pretore non considera se chi ha effettuato la dazione sia un adultero, ma solo che qualcuno abbia ricevuto metu mortis illato (et praetor non respicit, an adulter

375 Cfr. Calore 2011, 78, nt. 26 e 97. L’autrice sottolinea come i compilatori di Giustiniano “anche per la parte del titolo dedicata al commento del termine metus” abbiano utilizzato in prevalenza materiali ulpianei, mentre viene lasciato “uno spazio residuale” ai testi provenienti dalla trattazione gaiana e da quella paolina. Secondo Emanuela Calore, i contributi di Gaio e di Paolo sarebbero “probabilmente” stati inseriti “solo laddove innovativi rispetto al commento di Ulpiano”. Si tratta, comunque, di una scelta che risponde all’orientamento generalmente assunto dai compilatori nella costruzione dei titoli del Digesto. Cfr. in proposito Luchetti 2018a, il quale osserva che Ulpiano “con il suo ‘enciclopedismo’, costituisce più di ogni altro, nelle sue opere sistematiche, il ‘deposito’ ultimo di una comune esperienza plurisecolare e che forse, proprio per questo, fu scelto dai giustinianei e preferito a Paolo per costruire lo scheletro della raccolta di iura”. Dal testo considerato (Ego puto…), inoltre, emerge sicuramente “l’impostazione fortemente personalizzata del discorso” paolino, che “si manifesta… nell’uso frequente di forme verbali come in particolare puto, existimo e dico”: sul punto, v. in particolare Id. 2018, 47, nt. 49. 376 Castello 1939, 153-155, intravede in questi testi e in D. 4.2.8.2 [F. 132] una cauta tendenza paolina ad estendere al timor stupri e al timor servitutis la tutela originariamente prevista dall’editto, che, secondo l’autore, sarebbe stata limitata, sulla base degli stessi verba edicti, al timor mortis vel cruciatus corporis. Solo in diritto giustinianeo sarebbe stata riconosciuta una più ampia rilevanza al metus. L’ipotesi formulata da Carlo Castello circa l’originaria configurazione dell’editto non sembra adeguatamente suffragata dalle fonti. È possibile, invece, individuare nel commento del giurista uno spiccato interesse per l’approfondimento dei requisiti di rilevanza del timor servitutis. 377 La riconduzione nel campo di applicazione dell’editto della dazione o dell’assunzione di un’obbligazione per timore della morte o della prigione da parte di chi è stato sorpreso a commettere un delitto o un crimine risale alla riflessione scientifica di Pomponio, come si evince da Ulp. 11 ad ed., D. 4.2.7.1, che, all’interno del titolo D. 4.2 precede immediatamente il frammento paolino: Proinde si quis in furto vel adulterio deprehensus vel in alio flagitio vel dedit aliquid vel se obligavit, Pomponius libro vicensimo octavo recte scribit posse eum ad hoc edictum pertinere: timuit enim vel mortem vel vincula. quamquam non omnem adulterum liceat occidere, vel furem, nisi se telo defendat: sed potuerunt vel non iure occidi, et ideo iustus fuerit metus. sed et si, ne prodatur ab eo qui deprehenderit, alienaverit, succurri ei per hoc edictum videtur, quoniam si proditus esset, potuerit ea pati quae diximus [Per la qual cosa, se qualcuno sorpreso mentre commette un furto o un adulterio o un altro atto turpe ha dato qualcosa o si è obbligato, Pomponio correttamente scrive nel ventottesimo libro che costui possa rientrare nella previsione di questo editto: ha temuto infatti la morte o la prigionia. Sebbene non sia lecito uccidere ogni adultero, o ladro, a meno che non si difenda con un’arma; ma avrebbero potuto anche essere uccisi non secondo il diritto e perciò il timore sarà stato giustificato. Ma anche se, per non essere tradito da chi lo ha sorpreso, abbia alienato, sembra che gli si debba venire in aiuto attraverso questo editto, dal momento che, se fosse stato tradito, avrebbe potuto patire quelle cose che abbiamo detto]. Sul punto e per l’esegesi della testimonianza ulpianea, v. Castello 1939, 150-153; Lovato 1994, 4849; Rizzelli 1997, 136-137; Stolfi 2002.I, 90-93; nonché Calore 2011, 86-89. Adame Goddard 1987, 116, nt. 67, ipotizza che lo strumento processuale concesso dal pretore per ripetere quanto sia stato pagato sia l’actio quod metus causa. Secondo lo stesso autore, l’esperibilità della condictio, attestata da Pomp. 22 ad Sab., D. 12.5.7, sarebbe stata in questo caso esclusa “ya que la causa de la dación había sido ilícita para ambas partes”. Sul punto, in modo più sfumato, cfr. anche Id. 2010, 210 e nt. 390.

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Commento sit qui dedit, sed hoc solum, quod hic accepit metu mortis illato)378. Naturalmente – ricorda il giurista nello stesso principium del frammento – a carico di quanti hanno ricevuto pro conperto stupro sorge anche la responsabilità criminale scaturente dalla violazione delle previsioni contenute nella stessa lex Iulia379. Nel primo paragrafo la trattazione del giurista si sofferma sulla rilevanza del timore di essere ridotto in condizione servile, già individuato come suscettibile di ricadere nel campo di applicazione dell’editto nel precedente D. 4.2.4 [F. 131]. Si considera la fattispecie di chi riceva del denaro per non sottrarre i documenti che attestano lo stato di libero di qualcuno, ingenerando in quest’ultimo un timore quantomai grave, specie in chi si trovi già soggetto a una vindicatio in servitutem e non disponga di altri strumenti di prova a suo favore380. L’editto trova inoltre applicazione nel caso in cui la dazione sia stata effettuata, da un uomo o da una donna, sotto la minaccia di subire uno stupro381. La motivazione fornita in proposito dal giurista è che per gli uomini onesti questo timore deve essere superiore a quello della morte382.

378 Sul testo, v. Castello 1939, 150. Sulla motivazione fornita da Paolo, che, come nel precedente frammento D. 4.2.4, sta considerando “le ipotesi in cui il pretore sarebbe intervenuto per far conseguire la restitutio alla vittima della violenza”, cfr. inoltre Calore 2011, 90-92. L’autrice considera giustamente infondata l’ipotesi formulata da Kupisch 1974, 150-151, secondo cui la riflessione paolina sarebbe incentrata sul lemma edittale gestum. Depongono in tal senso il collegamento tematico con la precedente trattazione di Ulp. 11 ad ed., D. 4.2.7.1 e l’osservazione che lo stesso commento ulpianeo inizia a soffermarsi sul termine gestum in Ulp. 11 ad ed., D. 4.2.9.1. Cfr. in proposito Lenel 1927, 110. 379 Cfr. in particolare Rizzelli 1997, 137, secondo cui il caso affrontato da Paolo “è quello dell’uomo che approfitti dell’adulterio della moglie, accordandosi con l’adultero, una volta scoperta l’infedeltà”. Per il riferimento alle previsioni della lex Iulia de adulteriis, v. anche Gaulhofer 2019, 99-100. 380 Per l’esegesi, v. Castello 1939, 154; nonché Calore 2011, 97-98. Il riferimento all’ipotesi del timore ingenerato in chi sia già sottoposto a una vindicatio in servitutem sembra richiamare il requisito di creazione giurisprudenziale dell’attualità del male minacciato, elaborato da Labeone e oggetto della riflessione scientifica di Pomponio, su cui si sofferma la trattazione di Ulp. 11 ad ed., D. 4.2.9pr.: Metum autem praesentem accipere debemus, non suspicionem inferendi eius: et ita Pomponius libro vicensimo octavo scribit. ait enim metum illatum accipiendum, id est si illatus est timor ab aliquo. denique tractat, si fundum meum dereliquero audito, quod quis cum armis veniret, an huic edicto locus sit? et refert Labeonem existimare edicto locum non esse et unde vi interdictum cessare, quoniam non videor vi deiectus, qui deici non expectavi sed profugi. aliter atque si, posteaquam armati ingressi sunt, tunc discessi: huic enim edicto locum facere. idem ait, et si forte adhibita manu in meo solo per vim aedifices, et interdictum quod vi aut clam et hoc edictum locum habere, scilicet quoniam metu patior id te facere. sed et si per vim tibi possessionem tradidero, dicit Pomponius hoc edicto locum esse [Dobbiamo poi considerare il timore attuale, non la supposizione che venga incusso: e così scrive Pomponio nel ventottesimo libro. Afferma infatti che deve essere considerato il timore incusso, vale a dire se il timore è stato incusso da qualcuno. E così dunque discute, se io avrò abbandonato il mio fondo sulla base della notizia che qualcuno sarebbe arrivato con le armi, forse ha luogo l’applicazione di questo editto? E riferisce che Labeone reputa che non si dia luogo all’editto e che non trovi applicazione l’interdetto per la violenza, dal momento che non si considera che io sia stato cacciato con la forza, perché non ho aspettato di essere cacciato, ma sono fuggito via. Diversamente, se, dopo che sono entrati armati, allora me ne sono andato: infatti ha luogo l’applicazione di questo editto. Lo stesso afferma, anche se per caso tu avendo usato le vie di fatto edifichi nel mio suolo attraverso la violenza, ha luogo sia l’applicazione dell’interdetto ‘ciò che con violenza o di nascosto’ (quod vi aut clam) sia di questo editto, naturalmente dal momento che sopporto per timore che tu lo faccia. Ma anche se io ti abbia trasferito il possesso a causa di violenza, dice Pomponio che ha luogo l’applicazione di questo editto]. Sul brano, v. per tutti Stolfi 2002.I, 349-358 e Id. 2002.II, 244-245. 381 Secondo Lenel 1889.I, 983, nt. 1, la specificazione vir seu mulier sarebbe frutto di una glossa. 382 Difende la genuinità della motivazione, contro i sospetti in passato avanzati sulla sua classicità, Calore 2011, 94, in particolare ntt. 75 e 77. Cfr. anche Castello 1939, 154; Zimmermann 1996, 654 e nt. 2; nonché Gaulhofer 2019, 119-120.

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Ivano Pontoriero Nell’ultimo paragrafo, Paolo precisa che non importa se qualcuno abbia temuto per sé o per i propri figli, dal momento che, in ragione dell’affetto, i genitori si spaventano di più per i figli383. F. 133 – D. 4.2.15 Nella struttura del titolo D. 4.2, il breve frammento si presenta strettamente collegato dal punto di vista contenutistico alla precedente trattazione ulpianea di D. 4.2.14.15, in cui si dà conto, a commento della formula dell’actio quod metus causa, di una deroga al regime della solidarietà cumulativa, caratteristico delle actiones poenales, nel caso in cui l’illecito sia stato realizzato da più coautori384. In quest’ultima ipotesi, dal momento che, secondo quanto afferma lo stesso Ulpiano, l’azione rei habet persecutionem, se chi è stato convenuto in giudizio restituisce spontaneamente il bene prima della sentenza o paga la condanna nel quadruplo, gli altri compartecipi sono liberati385. La storiografia ha dunque opportunamente sottolineato in proposito come l’actio quod metus causa, “nonostante il carattere penale”, assuma “una forte coloritura patrimoniale”386. Il frammento paolino, secondo Lenel originariamente posto a commento dell’editto che conteneva la promessa dell’actio quod metus causa o della formula, prospetta la possibilità che l’azione venga concessa anche nei confronti dei rimanenti compartecipi, per pretendere quanto non sia stato possibile ottenere da chi è stato convenuto in giudizio387. In considerazione della collocazione assunta dal frammento all’interno del titolo D. 4.2 e, in particolare, del collegamento con

383 È dunque rilevante, ma non in modo indiscriminato, la violenza diretta verso terzi. Sul testo, v. Ferrini 1953: “non importa che la minaccia si riferisca alla persona stessa del minacciato o a quella dei suoi cari”; nonché Calore 2011, 106-107. 384 Ulp. 11 ad ed., D. 4.2.14.15: Secundum haec si plures metum adhibuerint et unus fuerit conventus, si quidem sponte rem ante sententiam restituerit, omnes liberati sunt: sed etsi id non fecerit, sed ex sententia quadruplum restituerit, verius est etiam sic peremi adversus ceteros metus causa actionem [Secondo queste cose, se più hanno indotto il timore ed è stato convenuto uno solo, se di certo abbia restituito il bene spontaneamente prima della sentenza, tutti sono liberati; ma anche se non lo abbia fatto, ma abbia restituito il quadruplo sulla base della sentenza, è più vero che l’azione a causa di timore venga meno nei confronti degli altri]. Albertario 1913b, 105-107 (= 1946, IV 385-386) e Bonfante 1916, 690-691 (= 1921, III 217-218) considerano il testo interpolato nella sua parte finale, relativa al venir meno dell’azione nei confronti dei compartecipi nell’ipotesi in cui fosse stato prestato il quadruplo, in ragione della tendenza giustinianea a considerare l’actio quod metus causa un’azione mista, orientamento, quest’ultimo, che emergerebbe anche da Ulp. 11 ad ed., D. 4.2.14.9-11 e Ulp. 11 ad ed., D. 4.2.16.2. La storiografia più risalente ha ritenuto dunque che il diritto giustinianeo abbia sostituito un regime di responsabilità solidale elettiva all’antica solidarietà cumulativa: cfr., in questo senso, anche Voci 1939, 119 e 154; nonché Albertario 1948, 139-141. Sull’impiego del verbo peremere “senza un preciso significato tecnico, per indicare svariati casi in cui l’azione è tolta di mezzo, ma non a causa di prescrizione”, v. Amelotti 1958, 5 e nt. 9. Sul brano ulpianeo, cfr. inoltre Calore 2011, 211-222 e Gaulhofer 2019, 238-240. 385 Per l’interpretazione ulpianea, secondo cui l’azione rei habet persecutionem, cfr. in particolare Ulp. 11 ad ed., D. 4.2.14.9-10 e D. 4.2.16.2. Sul punto, v. da ultimo Pontoriero 2020, 69-70. 386 Così Vacca 1982, 701 (= 2015, 236). Più di recente, Cursi 2015, 396, osserva che “superando la rigida contrapposizione tra azioni penali e azioni reipersecutorie, l’actio quod metus causa” si configura “come uno strumento fluido, capace di combinare esigenze che, pur potendo apparire contrapposte, non sono state ritenute affatto inconciliabili dai giuristi romani”. 387 Lenel 1889.I, 983, nt. 2, ritiene che il coordinamento tra la trattazione ulpianea di D. 4.2.14.15 e il testo paolino sia stato effettuato dai compilatori attraverso l’inserimento della congiunzione aut all’inizio di quest’ultimo. Per i profili palingenetici, v. in particolare Id. 1927, 111. In modo coerente rispetto all’assunto di partenza, secondo cui sarebbe stato solo Giustiniano ad introdurre un regime di solidarietà elettiva, come conseguenza

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Commento la precedente trattazione ulpianea, più probabile la seconda tra le alternative prospettate da Lenel e che, dunque, il testo fosse originariamente posto a commento della formula. F. 134 – D. 4.2.21 Otto Lenel ritiene che il principium e il primo paragrafo del frammento siano posti a commento dell’editto tradito da Ulp. 11 ad ed., D. 4.2.1, come pure il quinto e il sesto, mentre il secondo, il terzo e il quarto sarebbero stati invece dedicati all’editto sull’azione in quadruplo o alla formula388. La tesi non appare del tutto condivisibile, perché il precedente frammento D. 4.2.15 appare già dedicato al commento dell’editto sull’azione in quadruplo o della formula. Inoltre, seguendo la ricostruzione proposta da Lenel, dovremmo ammettere che la trattazione paolina, dopo essersi soffermata nel principium e nel primo paragrafo sull’editto generale tradito da D. 4.2.1, prenda in considerazione nel secondo, nel terzo e nel quarto l’editto sull’azione in quadruplo o la formula, per poi tornare di nuovo sul primo editto nei due paragrafi conclusivi. Appare più verisimile ipotizzare che il giurista stesse prendendo in considerazione, aggiungendo alla sua spiegazione anche opportuni richiami e digressioni, la formula dell’azione389. Nel principium del frammento il giurista afferma che l’editto non trova applicazione se una liberta, resasi ingrata nei confronti del patrono e consapevole di esserlo, temendo in relazione al proprio stato, abbia dato o promesso qualcosa allo stesso patrono, per non essere nuovamente ridotta in condizione servile390. Paolo motiva osservando che lo stato di timore

della riconduzione dell’actio quod metus causa al novero delle azioni miste (sul punto, cfr. supra, nt. 384), Albertario 1913b, 107 (= 1946, IV 386) osserva: “Il testo di Paolo è uno dei molti testi, che i compilatori dicono estratti dal suo commentario all’editto e che sono, invece, di sana pianta inventati da loro o pervenuti a loro già alterati”. Per l’esegesi del brano, v. Calore 2011, 223-225; adde Gaulhofer 2019, 238, nt. 615. 388 Cfr. Lenel 1927, 110-111. Nella Palingenesia il frammento è riportato per intero, secondo l’ordine del Digesto (fr. 201): v. Id. 1889.I, 983. 389 Il frammento colpisce per l’eterogeneità delle ipotesi considerate e non è da escludere che i commissari abbiano effettuato ampi tagli e aggiustamenti al momento del suo inserimento nel Digesto. Cfr. in proposito Schulz 1922, 293 e von Lübtow 1932, 179. Hartkamp 1971, 63, ipotizza la provenienza del testo di D. 4.2.21.2 “von einem anderen Teil des paulinischen Ediktskommentars”. Talamanca 2003, 179-180, nt. 519, osserva: “tutta la trattazione di Paolo, al livello in cui è stata – con possibili ed ampi tagli – recepita nel Digesto appare, a prima vista, abbastanza disordinata e casuale”. Sulla questione, v. inoltre Milani 2015, 220-222, secondo cui “pare ragionevole ipotizzare che la scelta di Paolo di affrontare e spiegare situazioni così diverse tra loro trovi giustificazione nella complessità del fenomeno in commento, nonché nella difficoltà di tratteggiare appieno i confini operativi, entro la dialettica tra ius civile e ius honorarium, delle diverse forme di protezione concesse dal pretore”. 390 Cfr. Buckland 1908, 424 e nt. 10. Sulla fattispecie e per l’interpretazione della proposizione cum de suo statu periclitabatur, v. de Francisci 1926, 311-313. Secondo l’autore, la precisazione contenuta in questa proposizione farebbe “pensare che, oltre l’ingratitudine della quale la liberta aveva coscienza, esistesse pure un’incertezza anche sul suo status, o perché la manomissione non fosse valida o perché fosse caduta sotto le sanzioni del senatoconsulto Claudiano o per altro motivo”. Secondo de Francisci, inoltre, il caso “potrebbe riferirsi a condizioni provinciali”. Più in generale, l’autore ritiene che la revocatio in servitutem non sia “istituto del diritto classico… normalmente connesso con l’ingrati accusatio”, diversamente da quanto accadeva “nei diritti greci e quindi in quelli degli stati ellenistici”. Nella più recente letteratura, ipotizza che si tratti di una decisione relativa a una fattispecie particolare anche Roth 2018, 140-141. Secondo Annunziata 2020, 22-45, che, tuttavia, non si sofferma sulla testimonianza di D. 4.2.21pr., il quadro offerto in relazione alla revocatio in servitutem dalle fonti di età precostantiniana “appare alquanto incerto e contraddittorio”, mentre solo con la costituzione contenuta in C.Th. 4.10.1 (= C. 6.7.2) – sui problemi di datazione e sul rapporto tra le due versioni di quello che, verosimilmente, era in origine un unico provvedimento, cfr. la persuasiva analisi di Sargenti 1990, 181-191 (= 2011, 1084-1092) – si arrivò “ad una prima elaborazione di carattere generale”.

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Ivano Pontoriero non è indotto da un altro, ma è provocato dalla stessa condotta della donna (quia hunc sibi metum ipsa infert)391. Il giurista aggiunge nel primo paragrafo che il pretore non ratificherà ciò che sarà stato fatto per timore, senza limiti temporali di sorta (nullo tempore praetor ratum habebit)392. Nel prosieguo della trattazione, Paolo richiama un’opinione di Pomponio in materia di determinazione dell’ammontare della condemnatio. Secondo il giurista antoniniano, se qualcuno, in seguito a violenza, ha trasferito il possesso di un fondo non suo, attraverso l’esercizio dell’azione otterrà una somma pari al quadruplo o, dopo l’anno, al semplice valore non del fondo, ma del suo possesso, insieme ai frutti393. La spiegazione fornita è che forma oggetto di stima ai fini della determinazione dell’importo della condanna ciò che deve essere restituito, cioè ciò che manca394. E, nel caso di specie, chi ha subito violenza è stato privato del nudo possesso del fondo e dei suoi frutti395. Nel terzo paragrafo il giurista esclude che una dotis promissio effettuata per timore possa dar vita a un’obbligazione, perché una siffatta promessa di dote è radicalmente nulla396. La trattazione affronta quindi nel quarto paragrafo il tema del recesso da un contratto di buona

391 Secondo Castello 1939, 155: “Paolo, il giurista più favorevole ad ampliare le ipotesi di metus, include tra i semplici sospetti ‘quae ipsa sibi infert’ il timor servitutis della liberta ingrata”. L’autore ricollega la motivazione paolina ai principi enunciati da Ulp. 11 ad ed., D. 4.2.9pr., in cui si dà conto dell’affermazione di Pomponio secondo cui metum illatum accipiendum, id est si illatus est timor ab aliquo. Il testo di D. 4.2.9pr. è stato riportato supra, nt. 380. Sull’apporto del giurista del secondo secolo, v. in particolare Stolfi 2002.I, 353. 392 Cfr. Calore 2011, 54-55. 393 Sulla soluzione, cfr. in particolare Stolfi 2002.II, 249-250, che richiama anche il diverso orientamento – più attento a tutelare l’interesse del possessore – espresso dallo stesso Pomponio in Paul. 17 ad ed., D. 43.16.6: In interdicto unde vi tanti condemnatio facienda est, quanti intersit possidere: et hoc iure nos uti Pomponius scribit, id est tanti rem videri, quanti actoris intersit: quod alias minus esse, alias plus: nam saepe actoris pluris interesse hominem retinere, quam quanti is est, veluti cum quaestionis habendae aut rei probandae gratia aut hereditatis adeundae intersit eius eum possideri [Nell’interdetto ‘da dove con violenza’ (unde vi) la condanna deve essere disposta nella misura di tanto quanto è l’interesse a possedere: e Pomponio scrive che ci serviamo di questo diritto, cioè che la cosa si considera di valore corrispondente all’interesse dell’attore; che a volte è inferiore, a volte superiore: infatti spesso interessa di più all’attore ritenere il servo, che il suo valore; per esempio perché ha interesse che questo sia posseduto per svolgere un interrogatorio, o per provare una cosa, o per adire un’eredità]. L’actio quod metus causa è un’actio poenalis in quadruplum, concessa, dopo l’anno, solo in simplum e previo svolgimento di un’istruttoria (Ulp. 11 ad ed., D. 4.2.14.1; [Imp. Gord. A. Primo et Eutycheti, a. 239] C. 2.19[20].4]). Sulla natura della causae cognitio pretoria “rivolta ad accertare che esistano i presupposti per la concessione dell’azione”, cfr. Luzzatto 1965, 62-63 (= 2004, 58-59). Sulle caratteristiche dell’azione, v. il quadro d’insieme da me fornito in Pontoriero 2020, 68. 394 Secondo Voci 1939, 53-54, dal momento che la violenza ha determinato la perdita del possesso: “la restitutio comprenderà la possessio con i frutti, e, in mancanza, si avrà la condanna nel quadruplo del valore di essa”. L’autore osserva, inoltre, come la menzione della possessio nell’intentio determini un’interpretazione restrittiva del quanti ea res erit della condemnatio. Sul diverso orientamento che emerge da Paul. 17 ad ed., D. 43.16.6 (v. la nota precedente) e da Ulp. 69 ad ed., D. 43.17.3.11 si sofferma Tafaro 1980, 55-56, il quale rileva, da parte sua, come la soluzione prospettata in Paul. 11 ad ed., D. 4.2.21.2 tenga chiaramente conto del fatto che chi ha esercitato l’actio quod metus causa non fosse proprietario. 395 Cfr. Calore 2011, 54-56. 396 Lenel 1889.I, 983, nt. 3, avanza il dubbio che l’originale scrittura paolina si riferisse alla dotis dictio. Secondo Ferrini 1953, 165 e nt. 2: “pel diritto giustinianeo il passo va inteso nel senso che tale obbligazione praticamente è inefficace perché annullabile”. L’autore aggiunge: “in quanto al senso genuino di quelle parole non possiamo pronunciarci, perché strappate dal loro contesto”.

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Commento fede, come una compera o una locazione, determinato da timore397. Ci si chiede se tale recesso sia nullo e permanga quindi l’antica obbligazione o se il recesso abbia avuto lo stesso effetto di un’accettilazione, determinando l’estinzione del precedente rapporto398. Il giurista propende per quest’ultima soluzione399. Sarà dunque esperibile l’actio quod metus causa400. È stato osservato da Mario Talamanca come la soluzione prescelta possa “a prima vista, sorprendere”, ove si consideri che “una compravendita estorta con violenza è nulla” e che, pertanto: “la soluzione più ovvia sembrerebbe nel senso della nullità della risoluzione per mutuo consenso estorta con la violenza”401. Secondo lo stesso Talamanca, la soluzione proposta dal giurista potrebbe forse trovare una giustificazione nel fatto che: “il metus non concerneva direttamente il contratto di vendita o di locazione tutelato da azioni di buona fede, bensì il patto di risoluzione”. Quest’ultimo patto, secondo i principi ricavabili dalla trattazione contenuta in Paul. 3 ad ed., D. 2.14.27.2 [F. 51], avrebbe, in particolare, determinato l’estinzione ipso iure del contratto di buona fede402. Paolo afferma nel quinto paragrafo che l’hereditatis aditio effettuata a causa di timore non esclude l’acquisto della qualifica di erede, perché sussiste una volontà, sebbene coartata403. L’hereditatis aditio, civilmente valida nonostante l’impiego della violenza, potrà essere rescissa dal pretore, che concederà una restitutio in integrum propter metum, riconoscendo all’erede lo ius abstinendi404.

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Cfr. in particolare Talamanca 2003, 179; Milani 2015, 222; adde Marini 2017, 155-157. Si sofferma sul passaggio quia nulla ex bonae fidei obligatione possimus niti, cum finita sit dum amittitur, sostenendone la sostanziale genuinità, anche alla luce di quanto osservato dallo stesso giurista severiano in PS. 3.6.28 e 33, dove si traccia la distinzione tra “i casi in cui usus fructus amittitur e i casi in cui usus fructus finitur”, Grosso 1965, 323-327 (= 2001, III 697-701). Sul punto, cfr. anche Quadrato 1983, 103 e nt. 122. Sull’assimilazione tra contrarius consensus e acceptilatio, giustificata dal fatto che “entrambi svolgono una funzione meramente risolutiva e non già satisfattoria del vinculum iuris”, v. Cerami 1989, 1282 e nt. 24. Sull’accettilazione, v. il quadro d’insieme fornito da Mollá Nebot 1993, in particolare 31-70. 399 È stato sottolineato come il riconoscimento dell’efficacia estintiva del contrarius consensus, anche se viziato da metus, sia conforme all’orientamento espresso dal giurista nel quinto paragrafo di questo stesso frammento. Cfr. in proposito Hartkamp 1971, 153 e nt. 25; Cerami 1989, 1282 e nt. 25; nonché Marini 2017, 157 e nt. 481. 400 Per l’identificazione dell’actio praetoria menzionata nel testo con l’actio quod metus causa, v. Talamanca 2003, 179. 401 Talamanca 2003, 179-182. 402 Secondo Talamanca 2003, 182 e nt. 523, ci troveremmo di fronte un’ipotesi in cui: “la costruzione dogmatica prevale… sulla valutazione degli interessi in gioco, con il paradosso – non soltanto apparente – che, a livello della tutela offerta dalle azioni contrattuali, i negozi protetti da iudicia stricti iuris ricevono – mediante il gioco fra ius civile e ius honorarium – una protezione più adeguata di quelli tutelati dai iudicia bonae fidei”. L’autore propone l’esempio di un patto di rimessione del credito nascente dalla conclusione di una stipulatio ed estorto con violenza. All’exceptio pacti del reus promittendi, l’attore potrebbe opporre una replicatio metus (o, se del caso, doli). L’interpretazione offerta da Mario Talamanca è ripresa e ulteriormente sviluppata da Milani 2015, 250-255. 403 Il punto è efficacemente sottolineato da Ferrini 1953, 164. Cfr. inoltre Hartkamp 1971, 84-88 e Pontoriero 2020, 52-58. 404 Cfr. Papin. 30 quaest., D. 29.2.85: Si metus causa adeat aliquis hereditatem, fiet ut, quia invitus heres existat, detur abstinendi facultas [Se qualcuno adisca un’eredità a causa di timore, accadrà che, essendo venuto ad esistere un erede contro la sua volontà, venga concessa la facoltà di astenersi]. Sul rapporto tra il testo paolino e quest’ultimo frammento, v. le osservazioni di Cervenca 1965, 174-178, nt. 24, che si sofferma sulla mancanza di un espresso richiamo all’in integrum restitutio nel testo di Papiniano. Ritiene invece senz’altro invalida l’hereditatis aditio compiuta per violenza Celso, la cui opinione è riferita da Ulp. 6 ad Sab., D. 29.2.6.7: Celsus libro quinto decimo digestorum 398

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Ivano Pontoriero Nel paragrafo finale il giurista si sofferma sugli strumenti di tutela offerti dal pretore nel caso in cui taluno rinunci ad un’eredità a seguito di violenza. Il pretore offre soccorso attraverso due tipologie di rimedi, secondo l’opzione manifestata dal richiedente: la concessione di azioni utili o l’actio quod metus causa405. F. 135 – D. 4.7.5 Il breve frammento è stato collocato dai giustinianei al di fuori della sedes materiae, all’interno del titolo D. 4.7 de alienatione iudicii mutandi causa facta406. I compilatori hanno saldato il testo alla precedente trattazione di Ulp. 13 ad ed., D. 4.7.4.5-6, concernente i caratteri dell’azione in factum concessa dal pretore contro chi avesse dolosamente posto in essere un’alienazione, allo scopo di mutare le condizioni di un giudizio407. Tale azione ha carattere reipersecutorio,

scripsit eum, qui metu verborum vel aliquo timore coactus fallens adierit hereditatem, sive liber sit, heredem non fieri placet, sive servus sit, dominum heredem non facere [Celso ha scritto nel quindicesimo libro dei Digesti: pare bene che colui il quale abbia adito l’eredità senza volerlo costretto dal timore delle parole o da qualche altra paura, se sia libero, non divenga erede, oppure, se sia servo, non renda erede il padrone]. Secondo Perozzi 1928.II, 629, nt. 2, da quest’ultima testimonianza emergerebbe “la tendenza giustinianea a considerare senz’altro nulla l’adizione fatta per violenza”. Pur considerando il testo “guasto”, propone una diversa spiegazione Ferrini 1953, 165 e nt. 2: “parrebbe opportuno pensare ad una simulazione (fallens) di accettazione, che è scusata propter metum”. Sul significato assunto dal participio fallens, cfr. anche Voci 1967, 637, nt. 62: “il fallens può appunto alludere alla circostanza, che il delato adisce per evitare ciò che gli si minaccia, cioè obbedisce esteriormente all’autore della vis”. 405 Sul testo, v. Adame Goddard 1987, 103-104; Id. 2010, 199 e Calore 2011, 205-211. Secondo quest’ultima autrice, il regime di concorrenza elettiva tra le azioni utili e l’actio quod metus causa, incomprensibile nel caso in cui quest’ultima venisse concepita come di carattere esclusivamente penale, dimostra come “il fine perseguito” attraverso l’esperimento dell’azione consista nella “restituzione del bene” o, comunque, nel “ripristino della situazione nello stato quo ante”. L’interpretazione giurisprudenziale enfatizza dunque, ancora una volta, la funzione di reintegrazione patrimoniale connessa all’esercizio dell’azione. Su questa testimonianza e sul regime di concorrenza elettiva da essa risultante, adde Gaulhofer 2019, 341-343. 406 La rubrica è di derivazione edittale: cfr. Soubie 1960, 42. Sull’omologo editto, dal quale scaturiva un’azione in factum, reipersecutoria e arbitraria, cfr. Lenel 1927, 125-129. Diversamente, de Francisci 1912, 35-38, secondo cui ci troveremmo di fronte un’azione penale. L’autore argomenta sulla base di Gai. 4 ad ed. prov., D. 4.7.7 (cfr. infra, 191, nt. 408). L’opinione di Pietro de Francisci è seguita da Albertario 1913b, 104 (= 1946, IV 383-384). Anche secondo Biondi 1912, 106-114, l’azione scaturente dell’editto avrebbe avuto carattere penale e la relativa formula sarebbe stata priva di clausola arbitraria. L’affermazione dell’arbitrarietà sarebbe conseguenza del tentativo giustinianeo “di fondere in uno i due mezzi di cui disponeva il diritto classico a proposito di alienatio iudicii mutandi causa facta: la restitutio in integrum e l’actio in factum penale”. Sull’interpretazione proposta dall’autore, in relazione alle due testimonianze del carattere arbitrario dell’azione, Ulp. 13 ad ed., D. 4.7.4.6 e Paul. 12 ad ed., D. 4.7.8pr. [F. 178], v. infra, nt. 407 e 239, nt. 638. 407 Ulp. 13 ad ed., D. 4.7.4.5-6: Haec actio in id quod interest competit. proinde si res non fuit petitoris aut si is qui alienatus est sine culpa decessit, cessat iudicium, nisi si quid actoris praeterea interfuit. (6) Haec actio non est poenalis, sed rei persecutionem arbitrio iudicis continet, quare et heredi dabitur: in heredem autem [Questa azione compete nella misura dell’interesse. Se dunque la cosa non è appartenuta all’attore o se chi è stato alienato è deceduto senza colpa, non vi è l’azione, a meno che non vi sia stato un altro interesse da parte dell’attore. (6) Questa azione non è penale, ma comprende la reintegrazione patrimoniale secondo la valutazione del giudice, per la qual cosa sarà concessa anche all’erede, nei confronti dell’erede poi]. Sulla trattazione ulpianea, v. Partsch 1909, 56. Secondo de Francisci 1912, 35-36, il sesto paragrafo dovrebbe essere corretto, attraverso la soppressione del non iniziale: Haec actio est poenalis. In questo modo, verrebbe meno la contraddizione tra l’asserito carattere reipersecutorio dell’azione e il regime di intrasmissibilità passiva e l’annalità che si desume dal prosieguo del commento in D. 4.7.6. Biondi 1912, 111, ritiene frutto di interpolazione sia la negazione iniziale, sia il riferimento all’arbitrarietà dell’azione sed rei persecutionem arbitrio iudicis continet. Pesanti sospetti di interpolazione sulla catena di testi da D. 4.7.4.6 a Gai. 4 ad ed prov., D. 4.4.7 sono formulati da Albertario 1913b, 104 (= 1946, IV 383-384), la cui opinione è seguita da Longo 1976, 221-222 (= 73-74). I sospetti sono riproposti da Amelotti 1956, 203, nt. 63 (= 1996, 377, nt. 63), il quale indi-

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Commento ma, essendo concessa a seguito del compimento di un delitto, è annale e passivamente intrasmissibile: non viene dunque concessa contro l’erede o contro chi si trova in una condizione simile408. Nel suo contesto originario, il frammento doveva, invece, con elevato grado di verosimiglianza, dare conto della regola dell’intrasmissibilità passiva dell’actio quod metus causa, regola, quest’ultima, temperata dalla concessione di un’azione contro gli eredi, o simili, nei limiti dell’arricchimento da essi conseguito a seguito della violenza409. Come è dato evincere dalla successiva testimonianza di D. 50.17.117 [F. 136], deve ritenersi simile alla situazione dell’erede quella del bonorum possessor. F. 136 – D. 50.17.117 Il prosieguo della trattazione, ora contenuto in D. 50.17.117, ricorda che il pretore considera, in ogni situazione, il possessore dei beni in luogo dell’erede410. Sulla collocazione palingenetica

vidua nell’actio ex alienatione iudicii mutandi causa facta, il “tentativo abortito” di trasformare l’azione da penale e annale in reipersecutoria e perpetua: “i giustinianei da penale l’hanno dichiarata reipersecutoria, ma hanno mantenuto l’annualità e l’intrasmissibilità passiva”. L’autore ritorna sul punto in Id. 1958, 46, nt. 76. Passando a considerare le interpretazioni offerte dalla storiografia più recente, dubita della genuinità di D. 4.7.4.6, nella parte in cui viene negato il carattere penale dell’azione, Viaro 2012, 115, nt. 16. 408 Cfr. Ulp. 13 ad ed., D. 4.7.6: vel post annum non dabitur [o dopo l’anno non sarà concessa] e Gai. 4 ad ed. prov., D. 4.7.7: quia pertinet quidem ad rei persecutionem, videtur autem ex delicto dari [perché certamente ha carattere reipersecutorio, ma si ritiene che sia concessa in forza di un delitto]. Il frammento di Gaio è considerato interamente spurio da Longo 1976, 222 (= 74), il quale osserva: “il dire che un’azione rei persecutionem continet e che, perciò, deriva da delitto suona assai male per un giurista romano mentre l’accenno alla rei persecutio si rivela come proveniente dalla stessa mano che alterò il fr. 4 § 6”. 409 Cfr. Lenel 1889.I, 983, che così integra il testo: [Haec actio in heredem] vel similem [datur in id quod pervenit ad eos]. Secondo Longo 1907, 142, la brevissima inserzione potrebbe essere integralmente di fattura giustinianea: “la probabilità più vicina è che il ‘vel similem’ non sia che il rappresentante giustinianeo del passo di Paolo trasferito nel titolo de R. I.”. Il riferimento dell’autore è al successivo frammento D. 50.17.117 [F. 136]. Per la tesi secondo cui D. 4.7.5 potrebbe essere stato integralmente creato dai compilatori, v. già Id. 1901, 157-158; nonché Id. 1903, 283-284, nt. 1. L’actio quod metus causa, in quanto azione penale, è caratterizzata dalla nossalità (Ulp. 11 ad ed., D. 4.2.16.1) e da un regime di intrasmissibilità passiva, temperato dalla concessione di un’azione nei limiti dell’id quod ad eos pervenit contro gli eredi (D. 4.2.16.2). Sulla concessione di un’azione contro gli eredi nei limiti dell’arricchimento, cfr. de Francisci 1912, 83-85, che, tuttavia, sospetta della genuinità della parte finale di questa testimonianza (non immerito … pertinere). Anche secondo Albertario 1913a, 449-466 (= 1946, IV 303-320) quest’ultimo luogo ulpianeo e le altre fonti che riconoscono la responsabilità dell’erede nei limiti dell’arricchimento sarebbero stati interpolati, rivelando “una chiara tendenza dell’epoca giustinianea”. L’autore si pronuncia nuovamente sull’interpolazione di D. 4.2.16.2 in Id. 1913b, 103-104 e nt. 2 (= 1946, IV 383 e nt. 1). Sulla trasmissibilità passiva dell’azione, nei limiti dell’arricchimento, cfr. Pontoriero 2020, 67-68. 410 Lenel 1889.I, 983, colloca D. 4.7.5 e D. 50.17.117 all’interno di un unico frammento palingenetico (fr. 202). Cfr. anche Id. 1927, 112. L’affermazione che il bonorum possessor è loco heredis è frequente nelle fonti e trova fondamento nella considerazione che “hereditas e bonorum possessio sono concepite come species del genere successio”: cfr. Voci 1967, 192 e nt. 49 e 199-201. Lo stesso autore ipotizza che sia frutto di un’interpolazione giustinianea l’impiego dell’espressione in omni causa, “perché le differenze c’erano, e notevoli”. Secondo Pasquale Voci, nel sistema della compilazione, l’“analogia” tra la posizione dell’erede e quella del bonorum possessor, già affermata dai giuristi classici, è stata trasformata in una “identità assoluta”. Identico intervento sarebbe stato effettuato dai commissari incaricati di redigere il Digesto sul testo di Ulp. 14 ad ed., D. 37.1.2, attraverso l’inserimento delle parole iniziali in omnibus, mentre in Paul. 4 ad leg. Iul. et Pap., D. 50.16.138, l’unificazione del regime dell’eredità e di quello della bonorum possessio sarebbe stata realizzata semplicemente estrapolando il frammento dal suo contesto originario e collocandolo nel titolo D. 50.16 de verborum significatione. Sul punto, v. anche Quadrato 1972, 12, nt. 21. D’Amati 1999, 58 e nt. 54 osserva che “l’atto di assimilazione affidato al termine loco ricorre assai frequentemente nel linguaggio dei giuristi romani, e di Paolo in particolare”.

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Ivano Pontoriero di questo frammento è ritornato David Johnston, il quale suggerisce una correzione all’opera leneliana, in ragione del contenuto del precedente Ulp. 11 ad ed., D. 50.17.116.2, che appare dedicato al commento dell’editto de minoribus XXV annis (E. 41)411. Alla luce di questa osservazione, l’autore ritiene che il testo di D. 50.17.117 sia stato posto originariamente a commento delle previsioni contenute in quest’ultimo editto o di quello successivo, de capite minutis (E. 42)412. La tesi non appare del tutto persuasiva, perché il principium del frammento ulpianeo è indiscutibilmente posto a commento dell’editto quod metus causa gestum erit (E. 39), mentre solo per il primo e per il secondo paragrafo è più verosimile ipotizzare, in ragione della materia trattata, una derivazione dal commento all’editto sui minori di venticinque anni413. In assenza di indici più significativi e tenuto conto dei profili di carattere contenutistico che emergono dall’esegesi di D. 50.17.117, ritengo senz’altro preferibile continuare a seguire la palingenesi tradizionale414.

[Sul dolo (E. 40)] La trattazione del giurista concernente la rubrica de dolo malo si sofferma innanzitutto sul tema della sussidiarietà dell’azione, attraverso l’interpretazione dei lemmi edittali si de his rebus alia actio non erit415. Al commento di tali lemmi risultano sicuramente riconducibili i frammenti D. 4.3.2 [F. 137] e D. 4.3.4 [F. 138]. Il giurista passa quindi a considerare i lemmi et

411 Ulp. 11 ad ed., D. 50.17.116: Nihil consensui tam contrarium est, qui ac bonae fidei iudicia sustinet, quam vis atque metus: quem comprobare contra bonos mores est. (1) Non capitur, qui ius publicum sequitur. (2) Non videntur qui errant consentire [Niente è così contrario al consenso, che sorregge i giudizi di buona fede, quanto la violenza e il timore, giustificare il quale è contro i buoni costumi. (1) Non viene ingannato chi segue il diritto pubblico. (2) Non si considerano consentire coloro i quali errano]. 412 Cfr. Johnston 1997, 63-64, nt. 35: “D. 50,17,117 (Paul 11): quod metus causa (E. 39) after de minoribus XXV annis (E. 41): since fr. 116,2 (Ulp. 11) on error plainly fits with E. 41 but non with E. 39 or 40, correct fr. 117 to E. 41 or possibly E. 42”. 413 Cfr. Lenel 1889.I, 460-461. Per la collocazione palingenetica del primo e del secondo paragrafo, v. Id. 1889.I, 477. È quindi: “estremamente probabile che la trattazione ulpianea contenuta in D. 50.17.116 abbia subito importanti tagli da parte dei commissari di Giustiniano, al momento dell’inserimento nel titolo D. 50.17 De diversis regulis iuris antiqui”. Cfr., in proposito, Pontoriero 2020, 58. 414 Nella ricostruzione del commento paolino all’editto quod metus causa gestum erit, assume un indirizzo conservativo, mantenendo le soluzioni proposte nella palingenesi leneliana anche Krüger 1905, 898. 415 Il testo dell’editto è riportato da Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.1.1: Verba autem edicti talia sunt: ‘Quae dolo malo facta esse dicentur, si de his rebus alia actio non erit et iusta causa esse videbitur, iudicium dabo’ [Tali poi sono le parole dell’editto: ‘Se per queste cose, che si dirà essere state fatte con dolo, non vi sarà un’altra azione e sembrerà sussistere una giusta causa, darò azione’]. Nell’editto, alla promessa iudicium dabo, seguiva probabilmente la formula dell’azione preceduta dalle parole in ea verba, come attestato dalla lex Rubria de Gallia Cisalpina, 20 l. 32 (v. Crawford 1996.I, 456). Sul punto, cfr. Cannata 2003, 22. Secondo Lenel 1927, 114, nt. 15, in ragione dell’emanazione della costituzione (Imp. Const. A. ad Symmachum vicarium, a. 319) C.Th. 2.15.1 = C. 2.20(21).8, che introdusse un termine di prescrizione biennale decorrente dalla commissione del dolo, i compilatori avrebbero espunto dalla citazione ulpianea, dopo videbitur e prima di iudicium dabo, un riferimento all’annalità dell’azione, del seguente tenore: intra annum, cum primum experiundi potestas fuerit.

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Commento iusta causa esse videbitur in D. 4.3.10 [F. 139], D. 37.15.6 [F. 140], D. 4.3.12 [F. 141], D. 4.3.14 [F. 142]. L’esposizione contenuta nei paragrafi successivi sembra assumere un andamento meno lineare. In D. 4.3.16 [F. 143] la trattazione considera la formula dell’azione, così come accade nel successivo D. 4.3.18 [F. 144]. Il commento ritorna sul tema della sussidiarietà dell’azione in D. 4.3.20 [F. 145], D. 4.3.22 [F. 146], D. 4.3.25 [F. 147] e, infine, in D. 6.1.7 [F. 148]. La struttura circolare dell’esposizione può trovare forse spiegazione nel fatto che la valutazione del quanti ea res erit costituisce occasione per ribadire che l’azione non viene concessa se non quando la posizione del richiedente non possa essere altrimenti salvaguardata: in D. 4.4.18 la trattazione relativa alla valutazione dell’interesse dell’attore scivola per ben due volte sul tema della sussidiarietà, nel primo e nel secondo paragrafo e, nuovamente, nel quarto e nel quinto416. La parte conclusiva della trattazione relativa alla rubrica de dolo malo è dedicata all’azione concessa contro gli eredi dell’autore della condotta dolosa (D. 4.3.27 [F. 149] e D. 4.3.29 [F. 150]). Dal punto di vista palingenetico, deve essere ancora segnalato che Krüger nella ricostruzione del commento alle previsioni edittali sul dolo, diversamente da Lenel, fa precedere D. 6.1.7 (Lenel 214) a D. 4.3.27 e a D. 4.3.29 (raggruppati nella Palingenesia iuris civilis in un unico frammento palingenetico: Lenel 213a e 213b)417. Come si vedrà in sede di commento a D. 6.1.7 [F. 148], la scelta di Krüger appare pienamente giustificata da ragioni di carattere contenutistico e viene dunque recepita nella ricostruzione offerta in questa sede. F. 137 – D. 4.3.2 Il breve frammento D. 4.3.2 è stato escerpito dal commento ai lemmi edittali si de his rebus alia actio non erit418. Lo stesso accade anche per il successivo D. 4.3.4 (F. 138). Il testo di D. 4.3.2 è stato strettamente collegato dai compilatori alla trattazione di Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.1.48, in cui il giurista si sofferma sulla sussidiarietà dell’actio doli, dando peraltro conto del ricco dibattito giurisprudenziale maturato sul punto419. I compilatori innestano il frammento pao-

416 Lo stesso sembra accadere nell’omologa trattazione ulpianea, che, dal commento della formula in Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.17 (cfr. Lenel 1889.II, 469) e dalla concessione dell’azione contro gli eredi nel primo paragrafo di quest’ultimo testo, ritorna nuovamente al tema della sussidiarietà in D. 4.3.21 e D. 4.3.24, per poi passare, a conclusione dell’esposizione e analogamente a quanto accade nel commentario paolino, all’azione concessa contro gli eredi (D. 4.3.30). Resta salva la possibilità di una diversa palingenesi del commentario edittale ulpianeo (cfr. Lenel 1889.II, 469; nonché Krüger 1905, 898), ma non si vede quale motivo potrebbe aver indotto i commissari di Giustiniano, nella composizione del titolo D. 4.3, a ritornare sul tema della sussidiarietà dell’azione con i frammenti D. 4.3.21 e D. 4.3.24, collocandoli dopo D. 4.3.15.3 e D. 4.3.17, già dedicati al commento ad formulam. Che l’inserimento dei frammenti all’interno del titolo 4.3 non segua l’ordine della trattazione dei giuristi potrebbe comunque essere rivelato, dopo D. 4.3.18, dall’interruzione della massa edittale attraverso l’inserimento di Papin. 37 quaest., D. 4.3.19. 417 Cfr., rispettivamente, Lenel 1889.I, 984 e Krüger 1905, 898. 418 Sulla collocazione palingenetica del testo paolino, v. Lenel 1927, 114 e nt. 13. 419 Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.1.4-8: Ait praetor: ‘si de his rebus alia actio non erit’. merito praetor ita demum hanc actionem pollicetur, si alia non sit, quoniam famosa actio non temere debuit a praetore decerni, si sit civilis vel honoraria, qua possit experiri: usque adeo, ut et Pedius libro octavo scribit, etiamsi interdictum sit quo quis experiri, vel exceptio qua se tueri possit, cessare hoc edictum. idem et Pomponius libro vicensimo octavo: et adicit, et si stipulatione tutus sit quis, eum actionem de dolo habere non posse, ut puta si de dolo stipulatum sit. (5) Idem Pomponius ait et si actionem in nos dari non oporteat, veluti si stipulatio tam turpis dolo malo facta sit, ut nemo daturus sit ex ea actionem, non debere laborare, ut

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Ivano Pontoriero lino D. 4.3.2 in corrispondenza dell’ottavo e ultimo paragrafo di Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.1, interrompendo con la precisazione in esso contenuta (vel ab eo res servari poterit), la continuità della trattazione ulpianea, che riprende in D. 4.2.3, per essere poi nuovamente interrotta dall’altro breve testo paolino contenuto in D. 4.2.4. Questa catena di testi deve essere dunque esaminata congiuntamente. Il termine actio impiegato nell’editto viene dalla giurisprudenza interpretato estensivamente, dal momento che, come chiarisce lo stesso Ulpiano in D. 4.3.1.4, la concessione di un’azione infamante non deve essere decretata dal pretore alla leggera, se vi sia un’altra azione, civile o onoraria, che possa essere esperita (quoniam famosa actio non temere debuit a praetore decerni, si sit civilis vel honoraria, qua possit experiri)420. Così, Ulpiano riferisce che Sesto Pedio, nell’ottavo libro del suo commento all’editto, aveva scritto che l’editto sul dolo non avrebbe trovato applicazione se il richiedente avesse potuto avvalersi di un interdetto o di

beam de dolo malo actionem, cum nemo sit adversus me daturus actionem. (6) Idem Pomponius refert Labeonem existimare, etiam si quis in integrum restitui possit, non debere ei hanc actionem competere: et si alia actio tempore finita sit, hanc competere non debere, sibi imputaturo eo qui agere supersedit: nisi in hoc quoque dolus malus admissus sit ut tempus exiret. (7) Si quis cum actionem civilem haberet vel honorariam, in stipulatum deductam acceptilatione vel alio modo sustulerit, de dolo experiri non poterit, quoniam habuit aliam actionem: nisi in amittenda actione dolum malum passus est. (8) Non solum autem si adversus eum sit alia actio, adversus quem de dolo quaeritur [Afferma il pretore: ‘se per queste cose non ci sarà un’altra azione’. A ragione il pretore promette questa azione allora soltanto, se non ve ne sia un’altra, poiché un’azione infamante non deve essere decretata dal pretore alla leggera, se ve ne sia una civile o onoraria attraverso la quale possa far valere le proprie ragioni; al punto che, come scrive anche Pedio nel libro ottavo, questo editto non trova applicazione anche se vi sia un interdetto attraverso cui qualcuno possa far valere le proprie ragioni o un’eccezione mediante la quale tutelarsi. La stessa cosa anche Pomponio nel ventottesimo libro, e aggiunge: anche se qualcuno sia tutelato da una stipulazione, che non possa avere l’azione di dolo, come per esempio se si sia fatto promettere mediante stipulazione in relazione al dolo. (5) Lo stesso Pomponio afferma che, anche se contro di noi non debba essere concessa alcuna azione, come, per esempio, se sia stata conclusa con dolo una stipulazione tanto turpe che nessuno concederebbe un’azione in base ad essa, non devo darmi pena per ottenere l’azione di dolo, dal momento che nessuno concederà un’azione contro di me. (6) Lo stesso Pomponio riferisce che Labeone ritiene non debba competere questa azione neppure a chi possa essere reintegrato; e se l’altra azione si sia estinta per il tempo, che questa non debba competere, perché chi trascura di agire dovrà imputarlo a sè, a meno che anche in ciò non sia stato commesso dolo: che il tempo trascorresse. (7) Se qualcuno, avendo un’azione civile o onoraria dedotta in stipulazione l’abbia estinta con accettilazione o in un’altra maniera, non potrà esperire l’azione di dolo, perché ha avuto l’altra azione: a meno che non abbia subito il dolo nella perdita dell’azione. (8) Non solo, poi, se vi sia un’altra azione contro quello, contro il quale si domanda di agire per dolo]. 420 Secondo Ulpiano, la sussidiarietà dell’azione è conseguenza del suo carattere infamante. Albanese 1961a, 7-8 e 138-147, dopo aver osservato che non tutte le azioni infamanti sono sussidiarie, ritiene che la caratteristica della sussidiarietà possa trovare un’efficace spiegazione solo sul piano storico, in ragione dell’ampliamento della nozione di damnum e il correlativo restringimento di quella di furtum, nell’ambito del “grande lavoro di sistemazione scientifica del diritto da parte dell’ultima giurisprudenza repubblicana, da Q. Mucio in poi” (144). In senso contrario, v. le fondate osservazioni formulate da Guarino 1962, 271-272 (= 1995, VI 282-283). Per la replica, cfr. Albanese 1963, 42-56 (= 1991, I 333-347). Una diversa spiegazione, che fa leva, piuttosto, sulla finalità eminentemente restitutoria del rimedio è proposta da Cannata 2003, 24 e 30-31, nt. 70. La sussidiarietà può essere letta anche come una conseguenza del carattere generale del rimedio: v. in proposito Brutti 1973.I, 148 e nt. 37; Lambrini 2009b, 229-232 (= 2010, 73-76 [= 2013, 45-48]); Stolfi 2016, 131; Id. 2017, 408-409 e nt. 87. Sulla testimonianza di Ulpiano e più, in generale, sul carattere infamante dell’actio doli, cfr. il quadro d’insieme fornito da Blanch Nougués 1988, 1151-1157 e da Elsener 2004, 53-62; nonché Pontoriero 2020, 94, nt. 28. L’elenco delle actiones famosae contenuto in Gai. 4.182 deve essere dunque integrato: sul punto, v. per tutti Wolf 2010, 499 e nt. 50.

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Commento un’eccezione421. Della posizione espressa da Pedio dava, probabilmente, conto anche Pomponio, nel ventottesimo libro del suo commento, aggiungendo, da parte sua, che non avrebbe potuto esperire l’azione di dolo anche chi avesse fatto ricorso a un’apposita stipulazione, naturalmente perché, in questo caso, lo stipulante sarebbe stato tutelato dall’azione scaturente dal contratto concluso422. Ancora, Pomponio avrebbe pure precisato che l’azione di dolo non sarebbe stata necessaria di fronte alla conclusione di un contratto tanto turpe da dar vita a una denegatio actionis423. Lo stesso Pomponio – ricorda ancora Ulpiano (D. 4.3.1.6) – dava conto dell’opinione di Labeone, secondo cui l’actio doli non avrebbe dovuto essere concessa a chi poteva disporre del rimedio della restitutio in integrum e in caso di estinzione dell’azione per decorso del tempo, salvo che tale decorso non fosse stato determinato da una condotta dolosa424. Dopo aver delineato il quadro dell’evoluzione giurisprudenziale in materia di sussidiarietà dell’azione, lo stesso Ulpiano aggiunge (D. 4.3.1.7) che l’actio doli non poteva essere concessa a chi avesse estinto con accettilazione o in un’altra maniera l’obbligazione nascente da una stipulazione novatoria, perché costui ha avuto la disponibilità di un’altra azione, a meno che l’estinzione dell’azione non sia stata determinata da dolo425. La trattazione ulpianea contenuta nell’ottavo paragrafo di D. 4.3.1 e che continua, dopo l’inserzione paolina di D. 4.3.2, in D. 4.3.3, chiarisce che l’editto non trova applicazione non solo qualora nei confronti di chi viene accusato di aver posto in essere una condotta dolosa vi sia un’altra azione, ma anche quando vi sia un’azione nei confronti di un altro426.

421 Sull’apporto di Sesto Pedio nell’interpretazione dell’editto e per l’osservazione secondo cui il giurista avrebbe proposto “un’individuazione amplificata della sua sfera normativa, declinando casisticamente la previsione edittale”, cfr. Giachi 2006, 374-379. 422 Per la possibilità che Ulpiano trovasse in Pomponio tracce del pensiero di Pedio, v. le osservazioni di Giachi 2006, in particolare 23-26. 423 Cfr. anche Pomp. 22 ad Sab., D. 45.1.27pr.: veluti si quis homicidium vel sacrilegium se facturum promittat. sed et officio quoque praetoris continetur ex huiusmodi obligationibus actionem denegari [come per esempio se qualcuno prometta attraverso stipulazione di commettere un omicidio o un sacrilegio. Ma rientra anche nell’ufficio del pretore che venga denegata l’azione scaturente da siffatte obbligazioni]. Sul testo e sul suo rapporto con la testimonianza offerta da Ulp. 42 ad Sab., D. 45.1.26, v. Quadrato 1983, 79-82. Sulla denegatio actionis e per la tesi secondo cui quest’ultima avrebbe assunto la forma di un decreto, cfr. Sciortino 2012, 659-704; cui adde le osservazioni di Palma 2016, 116-129. 424 Cfr. Brutti 1973.I, 156, nt. 55; Id. 1973.II, 339-340; nonché Stolfi 2014, 66, il quale osserva che Labeone viene “citato per ultimo, per il verisimile tramite di Pomponio”. 425 Sulla fattispecie considerata, v. Albanese 1961a, 181-182 e nt. 13, che ritiene senz’altro trattarsi di una stipulatio Aquiliana. Lo stesso autore sottolinea che la proposizione causale quoniam habuit aliam actionem: “non significa che colui che ha estinto l’obbligazione ha un’altra azione, bensì ebbe un’altra azione e la estinse volontariamente”. Cfr. anche Wacke 1971, 120 e Stolfi 2016, 145, nt. 123. Sull’impiego dell’espressione de dolo experiri non poterit si sofferma Marrone 1972, 351, nt. 36 (= 2003, I 193, nt. 36). L’autore osserva come, dato il contesto concernente il tema della sussidiarietà, il giurista si riferisca, effettivamente, alla denegatio actionis da parte del pretore. 426 Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.3: non habet hoc edictum locum, verum etiamsi adversus alium [non ha luogo questo editto, ma anche se contro un altro]. Il giurista esemplifica al riguardo nel successivo Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.5: Ideoque si quis pupillus a Titio, tutore auctore conludente, circumscriptus sit, non debere eum de dolo actionem adversus Titium habere, cum habeat tutelae actionem, per quam consequatur quod sua intersit. plane si tutor solvendo non sit, dicendum erit de dolo actionem dari ei [E perciò se qualcuno, pupillo, sia stato raggirato da Tizio, con la complicità del tutore che ha dato l’autorizzazione, non deve ottenere l’azione di dolo contro Tizio, dal momento che dispone dell’azione di tutela, per mezzo della quale conseguirà la stima del suo interesse. Chiaramente, se il tutore non sia solvibile, dovrà dirsi che gli sarà concessa l’azione di dolo]. Sul rilievo assunto dalla situazione di insolvenza ai fini della concessione dell’actio doli si sofferma Triggiano 2016, 51 e nt. 108.

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Ivano Pontoriero I brevi frammenti D. 4.3.2 e D. 4.3.4 sono funzionali a precisare, ulteriormente, che l’editto non trova applicazione quando la situazione potrebbe essere altrimenti salvaguardata da quello contro il quale si intende agire con l’actio doli (D. 4.3.2), o da un altro (D. 4.3.4 [F. 138])427. È merito di Bernardo Albanese aver evidenziato come la riflessione paolina in materia di sussidiarietà, incentrata sul res servari posse (D. 4.3.2: res servari poterit; D. 4.3.4: res mihi servari potest), vale a dire sulla valutazione in concreto della “possibilità per la vittima del dolo di eliminare il pregiudizio subito”, risulti del tutto coerente con la posizione espressa da Pomponio in Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.7pr.428, orientamento, quest’ultimo, del resto ampiamente condiviso e recepito all’interno del dibattito giurisprudenziale429. La storiografia ha, inoltre, opportunamente richiamato l’attenzione degli interpreti sull’impiego da parte della giurisprudenza di un criterio c.d. di “sussidiarietà sostanziale”, “al fine di far conseguire al danneggiato la reintegrazione del proprio patrimonio”430.

427 Lenel 1889.I, 983, riunisce D. 4.3.2 e D. 4.3.4 in un unico frammento palingenetico (Paul. 203), attraverso alcune integrazioni: [Hoc edictum locum non habebit, si] vel ab eo res servari poterit, [adversus quem de dolo quaeritur, vel adversus alium] (4) sit actio vel si ab alio res mihi servari potest. Lo stesso autore, in nt. 4, ipotizza che il sintagma sit actio sia frutto di un’interpolazione, evidentemente funzionale ad assicurare il collegamento con la precedente trattazione ulpianea di D. 4.3.3 e che Paolo abbia invece scritto: si vel ab eo vel ab alio res mihi servari poterit. Sul significato e sulla portata della concatenazione creata dai commissari di Giustiniano, v. Elsener 2004, 54 e nt. 110. 428 Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.7pr.: Et eleganter Pomponius haec verba ‘si alia actio non sit’ sic excipit, quasi res alio modo ei ad quem ea res pertinet salva esse non poterit. nec videtur huic sententiae adversari, quod Iulianus libro quarto scribit, si minor annis viginti quinque consilio servi circumscriptus eum vendidit cum peculio emptorque eum manumisit, dandam in manumissum de dolo actionem (hoc enim sic accipimus carere dolo emptorem, ut ex empto teneri non possit) aut nullam esse venditionem, si in hoc ipso ut venderet circumscriptus est. et quod minor proponitur, non inducit in integrum restitutionem: nam adversus manumissum nulla in integrum restitutio potest locum habere [E in modo elegante Pomponio interpretò queste parole ‘qualora non vi sia un’altra azione’, come se si riferissero all’ipotesi in cui non si potesse salvaguardare in modo diverso la situazione del soggetto interessato. Né sembra contrastare questa opinione, quanto Giuliano scrive nel quarto libro , dove afferma che, se un minore di venticinque anni, tratto in inganno dal suggerimento del servo, ha venduto quest’ultimo con il peculio e il compratore lo ha manomesso, debba essere concessa nei confronti del servo manomesso l’azione di dolo (riteniamo infatti valida questa soluzione nel caso in cui il compratore non abbia posto in essere una condotta dolosa, così che non possa essere tenuto in forza della compera) o che la vendita sia nulla, se il minore è stato tratto in inganno per quanto concerne lo stesso proposito di vendere. E il fatto che il soggetto sia minore d’età, non può portare alla reintegrazione: infatti nessuna reintegrazione può aver luogo contro chi è stato manomesso]. Per una valutazione d’insieme dell’apporto interpretativo di Pomponio, cfr. in particolare le osservazioni di Stolfi 2002.I, 362-367 e Id. 2002.II, 259-260. Sulla posizione risultante da D. 4.3.7pr., v. anche Id. 2014, 67, secondo cui l’interpretazione del giurista antoniniano: “quasi coglieva una sineddoche nella formulazione edittale (actio come indicazione della parte per il tutto) e traduceva la sussidiarietà dell’actio de dolo nella circostanza che non vi fosse altra modalità processuale per salvaguardare l’integrità patrimoniale della vittima dei raggiri”. 429 Oltre che da Paolo e da Ulpiano, come pure si evince dall’impiego dell’espressione Et eleganter nel testo richiamato alla nota precedente, già da Gai. 4 ad ed. prov., D. 4.3.6: Nam is nullam videtur actionem habere, cui propter inopiam adversarii inanis actio est [Infatti quello, la cui azione rimane infruttuosa a causa dell’incapienza dell’avversario, non si considera avere alcuna azione]. Cfr. Albanese 1961a, 206-211; adde Brutti 1973.I, 158-159, il quale, a sua volta, osserva come “la reintegrazione dell’interesse leso, cui alludono… espressioni come res servari o res salva esse (poterit), appare la forma più completa di quella neutralizzazione degli effetti dell’illecito che è il punto di vista centrale intorno a cui la giurisprudenza costruisce il regime dell’actio de dolo”. 430 Cfr. in particolare Cursi 2008a, 27-28, nt. 8: “ne è la riprova, d’altro canto, il fatto che l’attenzione al rem servari è inserita nella parte di commento edittale relativa al criterio della sussidiarietà” (sull’impiego del criterio della sussidiarietà sostanziale da parte della giurisprudenza, v. anche le osservazioni formulate dall’autrice, ivi, 40 e nt. 3).

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Commento F. 138 – D. 4.3.4 Per ragioni di carattere contenutistico, questo frammento è già stato commentato sopra, insieme a D. 4.3.2 (F. 137). F. 139 – D. 4.3.10 Il frammento prende in considerazione i lemmi edittali et iusta causa esse videbitur, come il precedente paragrafo Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.9.5, testo, quest’ultimo, al quale l’escerto paolino è stato strettamente collegato dai commissari incaricati di redigere il Digesto431. L’actio doli viene concessa previo svolgimento di un’istruttoria432. La trattazione ulpianea ricorda che a ragione il pretore ha previsto lo svolgimento di tale istruttoria, perché l’actio doli non deve essere accordata senza un’adeguata riflessione433. In primo luogo, sottolinea ancora Ulpiano, l’azione non deve essere concessa per una somma di modico valore434. Il breve testo paolino, che interrompe la continuità del commento ulpianeo, individua il valore al di sotto del quale l’azione non può essere concessa435.

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Lenel 1927, 114, nt. 14. Martini 1994, 230 osserva che: “di norma la riserva edittale espressa… con le parole causa cognita equivale all’altra ‘si iusta causa esse videbitur’, come è già implicito in D. 4.3.9.5 dove si parla di c.c. per commentare la frase dell’editto de dolo: ‘et iusta causa esse videbitur’”. Si veda in proposito anche il testo di (Imp. Ant. A. Agrippae, a. 211) C. 2.20(21).2: De dolo actio, cum alia nulla competit, causa cognita permittitur [L’azione di dolo è permessa , quando non compete nessun’altra azione, previa cognizione della causa]. Il rescritto di Antonino Caracalla contiene un riferimento alla causae cognitio e, probabilmente, sul fondamento della lezione promittitur conservata dal codex monasterii Casinensis 49 (C: v. Krüger 1870, vii e 205), alla promessa edittale. 433 Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.9.5: Merito causae cognitionem praetor inseruit: neque enim passim haec actio indulgenda est. nam ecce in primis, si modica summa sit [A ragione il pretore ha inserito la cognizione della causa: infatti questa azione non deve essere accordata indiscriminatamente. Ecco, per esempio, in primo luogo, se la somma sia modesta]. Cfr. Luzzatto 1965, 63 (= 2004, 59), che osserva: “dato il carattere sussidiario di tale azione, e le conseguenze infamanti della condanna, è evidente la necessità di accertare, preliminarmente alla concessione dell’actio de dolo la non esperibilità di altre azioni”. Si veda al riguardo Mantovani 1998, 163-164, secondo cui l’apprezzamento ulpianeo per la riserva di causae cognitio contenuta nell’editto – espresso attraverso il ricorso all’avverbio merito – si giustifica con la considerazione “dell’atteggiamento prudente che il pretore intende tenere nell’accordare l’actio doli”. Sul testo, v. anche Id. 2003, 91-92. 434 Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.11pr.: non debet dari [non deve essere concessa]. 435 Il riferimento agli aurei (solidi) è frutto di un’interpolazione giustinianea: cfr. Lenel 1889.I, Praef., VII.11. Secondo Longo 1903, 283-284, nt. 1, tutto il breve frammento sarebbe stato integralmente scritto dai compilatori: la previsione di un limite fisso, ponendosi in contrasto con il carattere discrezionale della causae cognitio, “si comprende dal punto di vista legislativo”. Tale interpolazione sarebbe inoltre provata dal confronto tra C.Th. 1.29.2 e C. 1.55.1, per l’aggiunta della specificazione id est usque ad quinquaginta solidorum summam all’indicazione in minoribus causis presente nel testo della costituzione (sulla sua portata precettiva e sul testo tradito dal Codex repetitae praelectionis, cfr. Mannino 1984, 34-37 e nt. 64 e Goria 1995, 270, nt. 29 [= 2016, 252, nt. 29]; Nov. 15.3.2 [a. 535] eleva successivamente il limite della competenza per valore del defensor civitatis in materia civile a trecento solidi, v. Franciosi 1998, 33, nt. 34). Carlo Longo ritorna sul punto in Id. 1907, 143: “il limite di somma qui fissato è più probabile che sia legislativo e non dovuto a Paolo: si tratta della cognitio praetoria cui contraddice il limite fisso”. Sull’inserimento dell’escerto paolino, v. inoltre le osservazioni di Mantovani 1998, 164 e nt. 98, secondo cui “il fatto che i compilatori siano dovuti ricorrere alle parole di un altro autore, dovendo per di più modificarle al fine di adattarle all’unità monetaria attuale ai loro tempi, è il sintomo (ovviamente, non la prova) che Ulpiano si asteneva dalla quantificazione”. 432

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Ivano Pontoriero F. 140 – D. 37.15.6 Il breve frammento è stato collocato dai compilatori al di fuori della sedes materiae, nel titolo D. 37.15 de obsequiis parentibus et patronis praestandis [Sugli ossequi che devono essere prestati nei confronti dei genitori e dei patroni]436. L’escerto paolino è stato in particolare inserito tra Ulp. 10 ad ed., D. 37.15.5 e Ulp. 10 ad ed., D. 37.15.7, entrambi ricavati dal commento al titolo edittale de calumniatoribus (E. IX)437. La trattazione ulpianea escludeva che l’azione penale in quadruplum scaturente dall’editto potesse trovare applicazione nei confronti di parentes e patroni, aggiungendo che contro queste stesse persone non sono concesse le azioni infamanti, né quelle che contengono menzione del dolo o della frode, sebbene non siano infamanti438. Nel suo contesto originario, il frammento paolino si soffermava sui lemmi edittali et iusta causa esse videbitur439. L’omologa trattazione ulpianea conservata in Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.11.1 esclude che l’actio doli, in ragione del suo carattere infamante, possa essere concessa a talune persone contro altre440. Paolo doveva quindi verosimilmente ricordare a questo proposito

436 Su questa rubrica, cfr. Soubie 1960, 60 e nt. 4; contro l’opinione di Kaser 1938, 115, che la considera “unklassisch”, v. le osservazioni di Quadrato 1996, 353, nt. 87. Sull’obsequium dovuto dai liberti ai patroni, cfr. in generale Robleda 1976, 169-170 e Waldstein 1986, 51-69; adde Masi Doria 1989, 382-385 (= 1993, 111-115); Ead. 1993, 76-81 (= 99-102); Ead. 1996, 76 e nt. 21; con specifico riferimento al tema della revocatio in servitutem, v. ora Annunziata 2020, 13-14 e 42-44, il quale, richiamando la testimonianza di (Impp. Diocl. et Max. AA et CC. Eutychio, a. 294) C. 7.16.30, ricorda come “la semplice accusa di mancato obsequium” non sia di per sé idonea a determinare la perdita della libertà. 437 Cfr. Lenel 1889.II, 459-460. Sul collegamento operato dai commissari di Giustiniano, cfr. Albanese 1959, 38-39. Erroneamente Bonfiglio 1998, 107, attribuisce D. 37.15.5 all’undicesimo libro ad edictum di Ulpiano. 438 Ulp. 10 ad ed., D. 37.15.5: Parens, patronus patrona, liberive aut parentes patroni patronaeve, neque si ob negotium faciendum vel non faciendum pecuniam accepisse dicerentur, in factum actione tenentur. (1) Sed nec famosae actiones adversus eos dantur, nec hae quidem, quae doli vel fraudis habent mentionem [Il genitore, il patrono, la patrona, i figli o i genitori del patrono o della patrona, neppure se si dicesse che abbiano ricevuto denaro per eseguire un affare o non eseguirlo, sono tenuti per mezzo dell’azione in fatto (1) Ma non sono concesse contro di loro neanche le azioni infamanti, né certamente quelle che contengono menzione del dolo o della frode]. Ulp. 10 ad ed., D. 37.15.7pr.: licet famosae non sint [sebbene non siano infamanti]. Il riferimento è all’azione menzionata da Ulp. 10 ad ed., D. 3.6.1pr.: In eum qui, ut calumniae causa negotium faceret vel non faceret, pecuniam accepisse dicetur, intra annum in quadruplum eius pecuniae, quam accepisse dicetur, post annum simpli in factum actio competit [Contro colui il quale si dica abbia ricevuto denaro per eseguire un affare, o non eseguirlo, a scopo di calunnia, compete entro l’anno un’azione in fatto nel quadruplo di quel denaro, che si dica aver ricevuto, dopo l’anno solo per il suo ammontare]. Cfr. Lenel 1927, 106-109. Si veda anche Centola 2000, 187, nt. 76. 439 Lenel 1927, 114, nt. 14. 440 Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.11.1: Et quibusdam personis non dabitur, ut puta liberis vel libertis adversus parentes patronosve, cum sit famosa. sed nec humili adversus eum qui dignitate excellet debet dari: puta plebeio adversus consularem receptae auctoritatis, vel luxurioso atque prodigo aut alias vili adversus hominem vitae emendatioris. et ita Labeo. quid ergo est? in horum persona dicendum est in factum verbis temperandam actionem dandam, ut bonae fidei mentio fiat [E non sarà concessa anche a talune persone, come per esempio ai figli o ai liberti contro i genitori o i patroni, essendo infamante. Ma non deve essere concessa neppure a chi è di umile condizione contro chi eccelle per dignità: per esempio al plebeo contro la persona di rango consolare di riconosciuto prestigio, oppure al dissoluto e prodigo, o altrimenti vile, contro un uomo dalla vita alquanto irreprensibile. E così anche Labeone. Cosa si fa dunque? Bisogna dire che contro queste persone deve essere concessa un’azione in fatto da temperare nelle parole, in modo tale che venga fatta menzione della buona fede]. Cfr. Martini 1960, 53-55; Kelly 1966, 67; Garnsey 1970, 182-184. Secondo Bretone 1987, 193, attraverso l’interpretazione di Labeone e di Ulpiano: “l’ambito di applicabilità della norma pretoria si definisce secondo un criterio politico-assiologico”. Secondo lo stesso autore: “possiamo dire che si traduce in un privilegio giuridico, positivo o negativo, l’articolarsi dei ceti dell’ordinamento sociale”. Per il suggerimento di impiegare un’azione in factum in cui vi fosse menzione della bona fides, v. in particolare Mantovani

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Commento che non sarebbe stato possibile agire contro il genitore o il patrono neppure con l’azione di corruzione del servo441. F. 141 – D. 4.3.12 Il frammento, ricavato dal commento ai lemmi edittali et iusta causa esse videbitur, è stato collegato dai compilatori del Digesto al precedente Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.11.1. Il testo paolino fornisce così la la motivazione (ne ex dolo suo lucrentur) della concessione dell’actio in factum da quest’ultimo richiamata442. F. 142 – D. 4.3.14 La trattazione del giurista ha ancora ad oggetto la causae cognitio pretoria prodromica alla concessione dell’azione443. Il testo propone un interrogativo: che cosa accade se un pupillo abbia ottenuto di essere liberato dal cognitor dell’attore, oppure, se, dopo aver mentito in relazione al tutore, abbia ricevuto del denaro, oppure abbia commesso altre cose simili, che non richiedono una grande macchinazione?444 La soluzione affermativa del giurista in ordine alla concessione dell’actio doli contro il pupillo nelle ipotesi prospettate si può ragionevomente inferire dal contesto in cui il frammento è inserito e dal confronto con l’omologa trattazione ulpianea445.

1998, 164-171; per una diversa interpretazione, cfr. Fiori 1999, 174-175, nt. 45; Id. 2003, 36, nt. 110; Id. 2011, 122 e nt. 288. È appena il caso di ricordare che anche l’exceptio doli non può essere concessa contro parentes e patroni e che, in questi casi, viene sostituita da un’exceptio in factum: lo ricorda, nella sedes materiae, Ulp. 76 ad ed., D. 44.4.4.16. Cfr. in proposito anche la trattazione di Ulp. 10 ad ed., D. 37.15.7.2. 441 Lenel 1889.I, 983, nt. 6, individua un collegamento tematico con la trattazione contenuta in Ulp. 11 ad ed. D. 4.3.11.1. L’autore propone di ricostruire così il testo di D. 37.15.6: Nec servi corrupti agetur [adversus parentem, patronum etc.]. Sull’inesperibilità dell’actio servi corrupti contro parentes e patroni, cfr. Bonfiglio 1998, 107-109. 442 Lenel 1889.I, 983, così ricostruisce la trattazione paolina: [Adversus quos de dolo actio non datur, datur in factum actio], ne ex dolo suo lucrentur. 443 Cfr. Lenel 1927, 114 e nt. 14. 444 Il riferimento al procuratore dell’attore è ritenuto interpolato da Lenel 1889.I, 983, nt. 7. La trattazione paolina doveva originariamente menzionare il cognitor. Secondo Elsener 2004, 182 e nt. 360, ci troveremmo di fronte “l’un des rares textes où les juristes classiques font référence au caractère subjectif du dolus, donc à la volonté de nuire (indiquée, ici, par l’emploi du verbe mentiri)”. 445 Il frammento è preceduto da Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.13.1: Item in causae cognitione versari Labeo ait, ne in pupillum de dolo detur actio, nisi forte nomine hereditario conveniatur. ego arbitror et ex suo dolo conveniendum, si proximus pubertati est, maxime si locupletior ex hoc factus est [Labeone parimenti afferma che nella cognizione della causa si valuta di non concedere l’azione di dolo contro il pupillo, a meno che non sia per caso convenuto a titolo di erede. Io ritengo che possa essere convenuto anche per il suo dolo, se è prossimo alla pubertà, soprattutto se in ragione di ciò ha conseguito un arricchimento]. Il prosieguo della trattazione ulpianea si pronuncia in favore della concessione dell’actio doli contro il pupillo, anche nel caso in cui la condotta dolosa sia stata posta in essere dal tutore, se da tale condotta il pupillo abbia conseguito un arricchimento. Si veda in proposito Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.15pr.: Sed et ex dolo tutoris, si factus est locupletior, puto in eum dandam actionem, sicut exceptio datur [Ma anche in forza del dolo del tutore, se ha conseguito un arricchimento, reputo che debba essere concessa contro di lui l’azione, come è concessa l’eccezione]. Sul testo, cfr. Knütel 1986, 110; Cursi 2008a, 54, nt. 46; Cursi 2011, 177, nt. 121. Così Lenel 1889.I, 983, integra l’incipit di D. 4.3.14: [Causa cognita etiam in pupillum datur de dolo actio]. Alla luce di quanto osservato, non appare del tutto convincente la lettura di D. 4.3.15pr. ora proposta da Spina 2018, 249, secondo cui “l’eccezione di dolo – ma anche l’actio doli – potrebbe essere avviata in caso di tutore che abbia dolosamente gestito il patrimonio pupillare al fine di arricchirsi”. Correttamente, v. Elsener 2004, 76, nt. 163, secondo la quale il testo riconosce l’actio doli contro il pupillo “dans la mesure où il a été rendu locupletior du fait du dol du tuteur” (per l’interpretazione del testo, v. anche 176, nt. 352).

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Ivano Pontoriero F. 143 – D. 4.3.16 È verisimile ritenere che il giurista stia qui commentando la formula dell’azione446. Il pretore esige che venga indicato cosa sia stato fatto con dolo. La motivazione è che l’attore deve sapere in che cosa sia stato raggirato e non essere vago in un’accusa tanto grave447. F. 144 – D. 4.3.18 Il principium del frammento dà conto dell’arbitrarietà dell’actio doli: nella formula dell’azione è inserita la clausola arbitraria (Arbitrio iudicis in hac quoque actione restitutio comprehenditur)448. Se il convenuto non ripara il pregiudizio subito dall’attore, viene condannato nella misura del valore della controversia (et nisi fiat restitutio, sequitur condemnatio quanti ea res est). A tale

446 Cfr. sul punto Lenel 1889.II, 469; Id. 1927, 115, secondo cui il commento ulpianeo alla formula dell’azione avrebbe inizio da Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.15.3: In hac actione designari oportet, cuius dolo factum sit, quamvis in metu non sit necesse [In questa azione deve essere indicato per dolo di chi sia stato fatto, sebbene non sia necessario nel caso del timore]. Diversamente, Cannata 2003, 22, nt. 24: “L’actio de dolo era dunque concessa dal pretore sulla base di una causae cognitio, sulla quale si vedano i testi da Ulp. D. 4,3,9,5 a Paul. D. 4,3,16”. Sembra essere decisivo, al riguardo, oltre alla collocazione del testo dopo Ulp. 11 ad ed., 4.3.15.3, anche l’impiego del verbo comprehendatur nel frammento paolino: la formula processuale deve indicare cosa è stato compiuto con dolo. Il testo assume, comunque, rilievo anche ai fini della precisazione dell’oggetto della causae cognitio pretoria, perché, come giustamente sottolinea Carlo Augusto Cannata, non sarebbe stato ascoltato colui il quale non avesse precisato: “con chiarezza quale fosse il comportamento del convenuto che egli pretendeva lo avesse tratto in inganno”. Sul punto, v. già Pontoriero 2020, 95. 447 Albertario 1923b, 502, nt. 3 (= 1936, III 82, nt. 3); Id. 1924, 66-67 (= 1936, III 189) considera spuria la chiusa del frammento nec in tanto crimine vagari. L’interpolazione rifletterebbe il superamento del rigore dogmatico classico nell’impiego dei termini delictum e crimen, evoluzione determinata dalla fusione tra ius civile e ius honorarium – che avrebbe offuscato la differenza tra illeciti di derivazione civilistica e illeciti di creazione pretoria – e dalla completa attrazione del diritto penale nella sfera del diritto pubblico. Il testo impone all’attore “un onere di precisione assoluta”, cfr. Provera 1958, 172-174 e nt. 15. Quest’ultimo autore condivide peraltro i sospetti di interpolazione avanzati da Emilio Albertario. Pensa, invece, che la proposizione nec in tanto crimine vagari sia frutto di un’“annotazione postclassica” Longo 1976, 284-285. Secondo l’autore: “è anche possibile che la chiusa abbia inizio da ‘scire enim’ che prepara, o ha tutto il tono di preparare, l’avvertenza finale”. Adame Goddard 1985, 15 e nt. 4, osserva, a proposito di questo testo e del successivo D. 4.3.20pr. [F. 145], che Paolo sembra accogliere la definizione di dolo elaborata da Labeone e nota attraverso Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.1.2, mentre in PS. 1.8.1 il dolo viene ancora identificato con la simulazione, secondo una linea di pensiero seguita dalla giurisprudenza tardorepubblicana e, in particolare, da Aquilo Gallo e da Servio Sulpicio Rufo. Secondo l’autore, l’estensore delle Sententiae “por descuido no recoge la definición completa, vigente en su tiempo”. Sul punto, v. anche Id. 2010, 218 e nt. 411, in cui si ipotizza, piuttosto, un intervento successivo, operato tra il 300 e il 450: “es posible que en la PS original hubiera, además de la definición serviana de dolo que se nos ha conservado, una definición de dolo acorde con lo que tenían por tal los juristas tardoclásicos, que se perdió cuando se redujo la materia de este título”. Giova ricordare in questa sede che Jorge Adame Goddard riprende nelle sue ricerche sulle Pauli Sententiae il metodo inaugurato da Levy 1945. Sul punto e per ulteriori indicazioni di carattere storiografico, cfr. Adame Goddard 2009, 1-12. Su tale metodo, che permetterebbe di individuare all’interno del testo delle Sententiae ben sei diverse stratificazioni e sui suoi limiti, v. anche le considerazioni svolte da Ruggiero 2017, 21-23 e 418-441. 448 Biondi 1912, 35-37 e 78-105, considerando incompatibile la presenza della clausola restitutoria con il carattere penale del rimedio, ritiene che l’actio doli sia diventata un’azione arbitraria solo in diritto giustinianeo. La storiografia più recente sottolinea, invece, come il carattere sussidiario dell’azione, l’arbitrarietà, l’adozione di un regime di solidarietà elettiva nel caso in cui il delitto sia stato posto in essere da una pluralità di compartecipi (Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.17pr.), permettano di individuare, analogamente a quanto accade a proposito dell’actio quod metus causa (cfr. supra, 186 e nt. 386), anche la presenza di una finalità di reintegrazione patrimoniale e il conseguente affievolimento del suo carattere penale: cfr. in particolare Vacca 1982, 702-703 (= 2015, 237-238). Sul punto, v. anche Pontoriero 2020, 98 e nt. 39.

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Commento ultimo proposito il giurista precisa che, come del resto accade quando viene esercitata l’actio quod metus causa, non si indica nella formula una certa quantità (ideo autem et hic et in metus causa actione certa quantitas non adicitur), in modo tale che, in caso di contumacia del convenuto, tale valore possa essere determinato attraverso il iusiurandum in litem449. In quest’ultima ipotesi, rientrerà nell’officium iudicis stabilire, attraverso una taxatio, il limite massimo alla determinazione effettuata dall’attore450. Il giurista osserva nel primo paragrafo che la restituzione non è sempre possibile, come accade, per esempio, quando il servo, consegnato a seguito della condotta dolosa posta in essere dal convenuto, sia morto451. In questo caso, si dovrà procedere direttamente alla

449 Il testo è considerato interpolato da ideo autem a iusiurandum refrenari da Antoine Favre, il quale esclude che il iusiurandum in litem possa trovare applicazione sia a seguito dell’esperimento dell’actio quod metus causa, sia a seguito di quello dell’actio de dolo: cfr. Faber 1602, 359-364; Id. 1604, 544. Secondo l’autore, sarebbe falso quanto si afferma in relazione all’actio quod metus causa, vale a dire “certam quantitatem non comprehendi verbis edicti”. Osserva, infatti, Favre che: “certa quantitas et certa poena constituta est, scilicet quadrupli”. L’affermazione contenuta nel frammento paolino appare però pienamente comprensibile se si considera che la formula dell’azione prevede la condanna al quadruplum del valore della controversia: quanti ea res erit tantae pecuniae quadruplum (cfr. Lenel 1927, 112; adde Mantovani 1999, 70) e che tale valore viene determinato, in caso di contumacia del convenuto, attraverso il iusiurandum in litem. La tesi di Favre ha avuto un certo seguito: v. Biondi 1912, 80, nt. 1. Correttamente, Provera 1953, 38, nt. 53, osserva: “noteremo qui, per inciso, come non ci sembri esatto escludere, come fa il Biondi, l’applicabilità del iusiurandum in litem nell’actio quod metus causa sotto il profilo che in essa l’ammontare della condemnatio era fissato in un quadruplo, perché questo era un multiplo di un elemento variabile quale il quanti ea res est”. Identiche osservazioni, a sostegno della possibilità di ricorrere al giuramento estimatorio in sede di esercizio dell’actio quod metus causa sono formulate da Chiazzese 1958, 204-205. Il termine contumacia fa riferimento all’inottemperanza del convenuto all’ordine del giudice di effettuare la restituzione in favore dell’attore. Sul deferimento del iusiurandum in litem come conseguenza della contumacia, v. Pugliese 1950, 134 (= 1985, I 470); Chiazzese 1958, 157-165; Viaro 2012, 53 e nt. 53. Più in generale, sul significato tecnico assunto dal termine contumacia nelle fonti giuridiche romane, cfr. l’analisi di Volterra 1930, 121-149 (= 1999, VII 105-133). 450 La proposizione avversativa sed officio iudicis debet in utraque actione taxatione iusiurandum refrenari con cui si conclude il principium del frammento è stata considerata interpolata perché il riconoscimento del potere del giudice di far ricorso alla taxatio finirebbe per snaturare l’efficacia deterrente del iusiurandum in litem rimesso all’attore: cfr. Faber 1602, 362-364; Id. 1604, 544; Levy 1915b, 65-66 (= 1963, I 365); Perozzi 1928.II, 383, nt. 2. Secondo Chiazzese 1958, 207, che pur riconosce la possibilità di ricorrere al iusiurandum in litem in sede di esercizio dell’actio quod metus causa o dell’actio doli (v. nota precedente), Triboniano avrebbe “quasi annullata la classica efficacia” del giuramento “imponendo al giudice di porre la ‘taxatio’”. Nutre sospetti di interpolazione anche Cannata 2003, 30-31, nt. 69. Che il giudice abbia il potere di fissare un limite al giuramento risulta da Ulp. 36 ad ed., D. 12.3.4.2. Cfr. sul punto Grzimek 2001, 153 e Viaro 2012, 53-54, nt. 55. 451 Lenel 1889.I, 984, nt. 1, ritiene che dandum est si riferisca al iusiurandum. In senso contrario, v. le fondate osservazioni di Biondi 1912, 84-87, secondo cui l’impossibilità di restituire la cosa determina il venir meno dello iussum de restituendo del giudice privato. Secondo l’interpretazione proposta da quest’ultimo autore, dunque: “il convenuto che non può restituire la res perché perita fortuitamente, verrà condannato, non secondo il giuramento dell’attore, ma nel quanti ea res est”. Biondo Biondi, tuttavia, nel tentativo di negare il carattere arbitrario dell’actio doli e la possibilità di deferire il iusiurandum in litem all’attore in caso di contumacia del convenuto, ritiene D. 4.3.18.1 interamente di fattura giustinianea. Secondo Chiazzese 1958, 184-185, è invece possibile individuare nel testo “un fondo classico”. Il participio traditus deve essere comunque considerato interpolato in luogo dell’originale mancipatus. Si sofferma sull’interpretazione dell’espressione non tamen semper in hoc iudicio arbitrio iudicis dandum est Viaro 2012, 164-170, secondo la quale: “fermo l’inserimento dell’arbitratus nella formula”, “non sempre il giudice invitava il convenuto a operare la ‘restituzione’”. Sul punto, v. anche Ead. 2013, 393-398 (= 2019, 195-202). Sul rapporto tra casi ed esempi, v. le osservazioni di Stolfi 2014, 32-37. L’autore mette in guardia dall’uso improprio del termine esempio con riferimento alle testimonianze dei giuristi romani, sottolineando come “sul piano logico”, sia caratteristica essenziale dell’esempio la sua fungibilità.

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Ivano Pontoriero condanna nella misura dell’interesse dell’attore452. Nel paragrafo successivo, Paolo precisa che, se il nudo proprietario di una palazzina, il cui usufrutto era stato disposto per legato, l’abbia incendiata, non sarà concessa l’actio doli, perché da tale condotta scaturiscono altre azioni453. Nel terzo paragrafo del frammento, Paolo dà conto di un’opinione di Trebazio, secondo cui sarebbe stato possibile esperire l’actio doli contro chi avesse consapevolmente prestato dei pesi contraffatti ad un venditore, in modo tale che costui potesse pesare le merci per il compratore454. Paolo sottopone l’opinione di Trebazio a una critica radicale, che conduce a cir-

452 Il riferimento all’id quod interest è stato talvolta considerato frutto di interpolazione: Voci 1939, 54, nt. 1. Su questo passaggio, v. in particolare García Camiñas 1994, 959; nonché Lambrini 2009b, 228 e nt. 13 (= 2010, 72 e nt. 13 [= 2013, 44 e nt. 13]), che, da parte sua, osserva: “qualora la restitutio fosse impossibile, non si inseriva l’arbitratus e la condanna era in id quod intersit actoris, senza la conseguenza negativa dell’infamia”. 453 Il giurista riconosce all’usufruttuario un’azione ad exemplum legis Aquiliae contro il proprietario in Paul. 10 ad Sab., D. 9.2.12. Sul punto, v. Albanese 1950, 260-269. L’espressione aliae actiones si riferisce all’actio utilis ex lege Aquilia e all’actio ad exhibendum, secondo Carrelli 1934, 366-367, il quale ritiene che Paolo abbia preso in considerazione l’incendio verificatosi prima della consegna del bene all’usufruttuario (si dominus proprietatis insulam, cuius ususfructus legatus erat, incenderit…), escludendo, coerentemente, la possibilità per quest’ultimo di esperire l’interdictum quod vi aut clam; la proposta esegetica di Odoardo Carrelli è accolta da Valditara 1992, 474. Una diversa opinione esprime Valiño 1973, 91-92, che preferisce pensare ad “acciones in factum complementarias de la lex Aquilia”. Richiamando la testimonianza di Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.7.5 (per l’esegesi, v. Ferrini 1891c, 171 [= 1930, V 201]), Iliffe 1965, 343-345, ritiene che possa trattarsi anche di un’actio ex testamento. Sul punto, cfr. inoltre Wacke 1980b, 361, secondo cui le aliae actiones potrebbero essere identificate l’actio ex testamento e l’actio utilis ex lege Aquilia. Sul significato e sull’impiego del termine insula nei testi giuridici, v. Procchi 2020, 69-71. 454 Sulla vendita di genere e sul suo momento perfezionativo, v. Casavola 1954, 551-580 (= 2000, I 381410) e Pennitz 2000, 277-302. Un sintetico quadro d’insieme sulle problematiche giuridiche che scaturiscono dall’impiego di falsi strumenti di misurazione nella compravendita è offerto da Stein 1955, 226-232. Fabio Mela si pronuncia a favore dell’esperibilità dell’actio furti, come apprendiamo da Ulp. 37 ad ed., D. 47.2.52.22: Maiora quis pondera tibi commodavit, cum emeres ad pondus: furti eum venditori teneri Mela scribit: te quoque, si scisti: non enim ex voluntate venditoris accipis, cum erret in pondere [Qualcuno ti ha concesso in comodato pesi maggiori, dal momento che tu compravi a peso: Mela scrive che costui sia tenuto per furto nei confronti del venditore: anche tu, se ne sei stato a conoscenza: infatti non ricevi in forza della volontà del venditore, perché cade in errore sul peso]. Secondo Ferrini 1891a, 443 (= 1930, V 150-151), in quest’ultimo testo l’affermazione della responsabilità per furto del comodante presuppone l’omologa responsabilità del comodatario, in mancanza della quale sarebbe stata concessa l’actio doli contro il primo: “bisogna… intendere il ‘si scisti’ del testo latino come una condizione riferita non solo a ‘te quoque teneri’, ma anche ad ‘eum teneri’”. Per una diversa interpretazione, cfr. Albanese 1953, 71-73 e 93-96, secondo cui la posizione di Trebazio rifletterebbe l’accoglimento di una nozione di furto più circoscritta, emersa a seguito dell’introduzione pretoria dei rimedi contro il dolo. L’interpretazione proposta da Bernardo Albanese è seguita da d’Orta 1990, 180-182, che, tuttavia, non si sofferma, se non incidentalmente, su D. 47.2.52.22, nonché da Cursi 2008a, 30-33, secondo la quale Trebazio, rispetto a Mela, avrebbe accolto “una concezione più ristretta della nozione di furtum” e, quindi, si sarebbe pronunciato a favore della concessione del rimedio sussidiario dell’actio doli. Per una critica dell’interpretazione di Albanese e la valorizzazione degli elementi di diversità che sussistono tra le fattispecie considerate da Mela e da Trebazio, v. Fargnoli 2006, 138-151. In effetti, come osserva l’autrice (145), risulta “difficilmente dimostrabile” che la riflessione di Mela abbia preceduto quella di Trebazio. Rimane, inoltre, dubbio “che il fine di lucro del comodante abbia un qualche rilievo”. Che si trattasse di una fattispecie diversa potrebbe essere confermato, come ricorda la stessa Fargnoli, dalla trattazione di Ulp. 11 ad ed., D. 19.1.32, su cui v. infra, nt. 456. Sul rapporto tra D. 47.2.52.22 e D. 4.3.18.3, v. pure Ferretti 2005, 201-202, nt. 111. Sull’opinione di Trebazio, cfr. inoltre Provera 1951, 105, nt. 57 e Sciandrello 2017, 107, nt. 56. Per il profilo scientifico e sugli interessi retorici di Trebazio, v. Talamanca 1985, 29-204; per un quadro d’insieme sulla biografia e la figura del giurista adde Castro Sáenz 2009, 33-112.

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Commento coscriverne l’ambito di applicazione455. Il giurista osserva in proposito che, se sono stati impiegati pesi più leggeri, sarà possibile esperire la condictio per ripetere la merce data in eccesso, mentre, nell’ipotesi inversa, si potrà agire in forza della compera per ottenere la rimanente merce456. Sarà invece possibile esperire l’actio doli quando la merce sia stata venduta a condizione che venisse consegnata facendo ricorso proprio a quei pesi, avendo quello affermato, allo scopo di ingannare, di avere dei pesi non contraffatti457. Nel quarto paragrafo del frammento, Paolo richiama nuovamente un’opinione di Trebazio, secondo cui, in caso di estinzione della lite per decorso dei termini di legge, deve essere concessa l’actio doli458. L’azione, in questo caso, non è diretta a ottenere la restituzione della

455 Per l’osservazione secondo cui la serrata critica paolina sarebbe introdotta dalla congiunzione avversativa atquin, v. Talamanca 1988a, 801, seguito da Fargnoli 2006, 141. 456 Si presenta coerente con questa impostazione Ulp. 11 ad ed., D. 19.1.32: Si quis a me oleum quod emisset adhibitis iniquis ponderibus accepisset, ut in modo me falleret, vel emptor circumscriptus sit a venditore ponderibus minoribus, Pomponius ait posse dici venditorem sibi dare oportere quod plus est petere: quod habet rationem: ergo et emptor ex empto habebit actionem, qua contentus esse possit [Se qualcuno avesse ricevuto da me l’olio che aveva comprato attraverso l’impiego di pesi contraffatti, per ingannarmi sulla quantità, oppure il compratore sia stato raggirato dal venditore per mezzo di pesi minori, Pomponio afferma potersi dire che il venditore chieda che gli venga ridato ciò che vi è di più; il che ha una ragione: dunque anche il compratore avrà l’azione da compera, per mezzo della quale possa essere soddisfatto]. Il frammento è stato ricavato dalla trattazione ulpianea relativa alla sussidiarietà dell’actio doli: cfr. Lenel 1889.II, 468, nt. 3. Il giurista severiano attribuisce a Pomponio la paternità della soluzione in forza della quale viene concessa al venditore la condictio per la ripetizione della merce data in eccesso a seguito dell’impiego di pondera iniqua. Cfr. sul punto Stolfi 2002.I, 114-117; per la possibilità che risalga all’opinione del giurista del secondo secolo anche la soluzione della concessione dell’actio ex empto, v. anche Id. 2002.I, 181. Sul testo, adde Fargnoli 2006, 146 e nt. 31. 457 Sulla posizione del giurista, v. Cursi 2008a, 35. Secondo l’autrice, la possibilità di esperire l’actio doli contro il comodante si spiegherebbe con la mancata conclusione della compravendita: “possiamo immaginare che, rilevata l’alterazione dei pesi derivante dalla frode del comodante, le parti non abbiano proceduto alla vendita. In questo modo, avendo sofferto un danno dalla mancata conclusione della vendita, i contraenti agiscono per il risarcimento con l’actio de dolo”. In realtà, il ricorso all’actio doli contro il comodante potrebbe trovare spiegazione nella mancanza di dolo in capo ai contraenti, che avrebbe precluso il ricorso ai rimedi nascenti dalla compravendita. Rimane da spiegare perché Paolo non accenni alla possibilità di esperire l’actio commodati contraria contro il comodante. Talamanca 1988a, 802, contro l’interpretazione offerta da Paricio Serrano 1988, 501, sottolinea come l’actio doli potesse “essere esperita anche da chi non fosse stato parte del contratto di comodato”, mentre la mancata menzione del iudicium contrarium troverebbe un’adeguata spiegazione nell’“impostazione casistica” e nella “dipendenza dal contesto problematico trattato”. Sulla posizione di Paolo, v. anche Cursi 2008b, 93: “l’alternativa proposta da Paolo, tutta interna al rapporto contrattuale, sposta il limite del carattere sussidiario dell’azione di dolo, restringendo l’uso del rimedio”. 458 Gai. 4.104-105: Legitima sunt iudicia, quae in urbe Roma vel intra primum urbis Romae miliarium inter omnes cives Romanos sub uno iudice accipiuntur; eaque e lege Iulia iudiciaria, nisi in anno et sex mensibus iudicata fuerint, expirant. Et hoc est quod vulgo dicitur e lege Iulia litem anno et sex mensibus mori. (105) Imperio vero continentur recuperatoria et quae sub uno iudice accipiuntur interveniente peregrini persona iudicis aut litigatoris. In eadem causa sunt, quaecumque extra primum urbis Romae miliarium tam inter cives Romanos quam inter peregrinos accipiuntur. Ideo autem imperio contineri iudicia dicuntur, quia tamdiu valent, quamdiu is qui ea praecepit imperium habebit. [Sono legittimi i giudizi che si accettano nella città di Roma o entro il primo miglio dalla città di Roma fra parti tutte cittadini romani sotto un giudice unico; e questi in base alla legge Giulia giudiziaria si estinguono se non siano stati giudicati entro un anno e sei mesi. Ed è ciò che comunemente si dice: per la legge Giulia una lite muore in un anno e sei mesi. (105) Sono poi fondati sull’imperio i giudizi recuperatori e quelli che si accettano sotto un giudice unico con l’intervento di uno straniero nella persona del giudice o di un litigante; rientrano in quest’ambito, tutti quelli che si accettano oltre il primo miglio dalla città di Roma tanto tra cittadini romani quanto tra stranieri. Ma perciò sono detti fondati sull’imperio, perché valgono finché chi li ha ordinati avrà l’imperio]. Sulla mors litis, o expiratio iudicii, v. Bonifacio 1952, 34-68; Amelotti 1958, 4-7; con par-

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Ivano Pontoriero cosa, ma solo il risarcimento dell’interesse dell’attore459. La motivazione fornita dal giurista è evitare che, altrimenti, la legge venga elusa (ne aliter observantibus lex circumscribatur)460. L’ultimo paragrafo del frammento prende in considerazione il caso in cui un terzo abbia ucciso il servo promesso attraverso stipulazione461. Paolo riferisce che i più reputano, correttamente, che allo stipulante debba essere concessa l’actio doli contro il terzo, dal momento che il promittente sarà liberato462. Conseguentemente, quest’ultimo incorrerà nel diniego dell’actio legis Aquiliae463. F. 145 – D. 4.3.20 Nel principium del frammento Paolo dà conto dell’opinione di Labeone, secondo cui, se un servo, non essendo solvibile, ha preso del denaro a mutuo su esortazione del suo dominus

ticolare riferimento all’apporto della legislazione augustea, v. Martini 1989, 93-102; Bertoldi 2003, 185-196; per un quadro d’insieme che abbraccia anche l’età tardoantica e giustinaianea cfr. Metro 2014, 638-647. L’espressione temporibus legitimis transactis è spesso considerata frutto di interpolazione, alla luce dell’emanazione della lex properandum: (Imp. Iust. A. Iuliano pp., a. 530) C. 3.1.13 e in luogo dell’originario riferimento alle previsioni contenute nella lex Iulia: cfr. Lenel 1889.I, 984, nt. 2, secondo cui Paolo avrebbe forse scritto anno et sex mensibus; Id. 1925, 34, nt. 1 (= 1992, IV 432, nt. 1), laddove si ipotizza la formulazione ut lis e lege Iulia moreretur; nonché Brutti 1973.I, 150 e nt. 38. Ritiene “che la sostanza del passo sia genuina”, Bertoldi 2003, 192 e nt. 20. In questo senso, cfr. anche Viaro 2012, 55. 459 Bonifacio 1952, 57-60, considera D. 4.3.18.4 “frutto di un rimaneggiamento compilatorio” (59), ma v. in proposito le osservazioni critiche di Amelotti 1958, 6 e nt. 12, seguito da Metro 2014, 642 e nt. 28. Sul brano paolino, cfr. anche Voci 1939, 24-25, secondo cui: “nella formula dell’a. doli, concessa perché il convenuto ha determinato l’estinzione del rapporto processuale facendo inutilmente trascorrere i termini prescritti dalla lex Julia, non c’è evidentemente il riferimento ad alcuna cosa; e, se una condanna ci deve essere, deve riferirsi al danno causato dalla mors litis. Vale a dire, la condanna nell’id quod int. è una necessità”. Sul punto, v. anche Brutti 1973.I, 165-166, secondo cui l’esercizio dell’actio doli “non può sotto alcun aspetto aprire la via ad una ripresa della lite estinta, dato che il funzionamento della clausola restitutoria rimane escluso”, seguito da d’Orta 1990, 185; nonché García Camiñas 1994b, 959. Secondo Viaro 2012, 57-58: “La liquidazione monetaria nel ‘quanti actoris interfuerit’” non sarebbe “da intendersi come riferita alla sentenza, ma piuttosto come adempimento ‘ordinato’ dal giudice per evitare di pronunciare la condanna del convenuto: questi avrebbe così potuto soddisfare l’attore mediante pagamento di un importo adeguato al risultato che egli si proponeva di trarre dalla vittoria del processo estinto”. Ritorna sul testo Brutti 2020, 99 e nt. 49. 460 Bonifacio 1952, 59-60, ritenendo il testo frutto di interventi compilatori, ipotizza che si faccia riferimento a C. 3.1.13 (v. supra, nt. 458). Sottolinea come il richiamo debba essere inteso, nel quadro del diritto giustinianeo, alla lex properandum Brutti 1973.I, 152-153. Lo stesso autore (165, nt. 76), osserva come “l’accenno alla circumscriptio legis” rinvii “all’espressione analoga sententiam legis circumvenire” impiegata in Paul. lib. sing. ad legem Cinciam, D. 1.3.29. In Paul. 21 quaest., D. 49.14.40pr., come ricorda ancora Massimo Brutti, si incontra la proposizione relativa qui non tantum legem circumvenire voluit, sed etiam interpretationem legis. Secondo Bertoldi 2003, 191-192, il “restituere in senso proprio”, “avrebbe significato continuare l’altro processo. Tale comportamento sarebbe stato in frode alla lex Iulia iudiciorum privatorum, in quanto la mors litis da questa prevista non era disponibile”. 461 Una rassegna critica della principale letteratura sul testo è in Slapnicar 1980, 234-239. Cfr. inoltre Elsener 2004, 144-147; Cursi 2008a, 82-86; Lambrini 2010, 123-124 (= 2011, 61-62); Ead. 2011, 286-287 (= 2013, 130-131 [= 2019, 136-137]); Ead. 2015, 285-289. 462 Sottolinea come l’actio doli venga “accordata per qualunque azione volontaria diretta intenzionalmente a ledere l’interesse altrui”, richiamando la testimonianza conforme di Ulp. 30 ad ed., D. 4.3.35, Pugliese 1965, 572573 (= 1985, II 458-459). In Papin. 37 quaest., D. 4.3.19 si dà conto di un responso di Nerazio Prisco e Giuliano, secondo cui deve essere concessa l’actio doli contro il garante che abbia ucciso, ante moram, l’animale promesso dal debitore principale. Secondo Elsener 2004, 146, la soluzione paolina sarebbe stata ispirata da quella di Nerazio. 463 Sulla motivazione, cfr. Valditara 1995, 199, il quale osserva come il diniego dell’azione sia conseguenza della liberazione del promissor. Adde Elsener 2004, 146, che, a sua volta, precisa come tale misura sia diretta ad evitare una doppia condanna del terzo. Il promittente, del resto, non ha subito alcun pregiudizio.

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Commento per estinguere un debito nei confronti di quest’ultimo, al mutuante sarà concessa l’actio doli, perché, da un lato, in mancanza di un peculio, non gli sarà possibile esperire utilmente l’actio de peculio, mentre, dall’altro, trattandosi del pagamento di un debito, gli sarà altresì precluso l’esercizio dell’actio de in rem verso464. Il testo, come è stato messo in luce, costituisce testimonianza della scelta labeoniana: “di estendere la possibilità di impiego dell’actio de dolo ad una serie di situazioni che l’applicazione formalistica della norma edittale lascerebbe prive di tutela”465. Nel primo paragrafo, Paolo richiama l’opinione di Giuliano, secondo cui deve essere concessa l’azione di dolo contro chi abbia falsamente persuaso l’erede del suo socio in ordine alla insussistenza del rapporto di società, ottenendo, in tal modo, l’assoluzione nel relativo giudizio466. Il riconoscimento della possibilità di esperire l’azione di dolo a seguito dell’assoluzione ottenuta dal convenuto attraverso il ricorso all’inganno appare in contrasto con quanto affermato da Paolo nel successivo frammento D. 4.3.25 [F. 147], in cui l’applicazione del rimedio sussidiario viene, invece, esclusa, perché l’attore può agere ex integro e opporre una replica di dolo all’exceptio rei iudicatae del convenuto467. F. 146 – D. 4.3.22 Paolo afferma che, in caso di falso giuramento, non deve essere concessa l’azione di dolo,

464 Per l’esegesi, v. Albanese 1961a, 278-282 e Cursi 2011, 175-177. Sul testo, cfr. inoltre Elsener 2004, 147-148, che osserva: “le dominus du cas d’espèce, après avoir orchestré un état des faits qui lui procure un avantage inspiré de la mauvoise foi, demeure formellement intouchable. Seul l’exercice de l’actio de dolo permettra au créancier déchu d’ajuster le tir”. Coppola Bisazza 2008, 126, nt. 70, sottolinea come una semplice esortazione (hortatu tuo) non sia in grado di fondare una responsabilità quod iussu. 465 Così Brutti 1973.I, 262-266, che richiama la conforme testimonianza di Ulp. 31 ad ed., D. 17.1.8.1 (il soggetto dell’ait finale è Labeone, come si evince dal principium del frammento). Il giurista augusteo riconosce la possibilità di esperire l’actio doli contro l’avversario assolto per collusionem procuratoris, nel caso in cui l’esercizio dell’azione scaturente dal contratto di mandato risultasse infruttuosa per l’insolvenza di quest’ultimo. Sulla riflessione di Labeone in materia di collusio e sull’apporto ulpianeo, risultante da Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.7.9, cfr. Cursi 2011, 167-170 (sul riferimento al transferre iudicium contenuto nel testo adde Turelli 2020, 6 e nt. 4). Sul punto, v. anche Stolfi 2014, 67-68, nt. 170, che, da parte sua, ricorda come l’indirizzo labeoniano tendente verso la realizzazione di una tutela effettiva emerga anche da Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.7.3, in cui si dà conto dell’equiparazione stabilita dal giurista augusteo tra l’ipotesi contemplata dalla previsione edittale si alia actio non sit a quella in cui solo si fosse dubitato dell’esistenza di un’altra azione (si dubitetur an alia sit). Secondo l’autore, di tale indirizzo interpretativo Pomponio “intendeva probabilmente tener conto”, come si potrebbe ricavare, oltre che dalla testimonianza appena richiamata, anche da Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.9.3 (sul punto, cfr. anche ivi, 68-69, nt. 173). Su D. 4.3.7.3, cfr. in particolare l’esegesi proposta da Lambrini 2009a, 230-244 (= 2010, 51-67 [= 2013, 23-40]). 466 L’opinione giulianea è citata dal giurista senza indicazione del libro dei digesta dal quale è stata ricavata. Lenel attribuisce quindi, in via congetturale, la testimonianza al quarto libro, sotto la rubrica de dolo malo e preceduta da una crux: v. Lenel 1889.I, 325. Per l’esegesi, cfr. Amirante 1962, 36-37, secondo cui “il ‘persuaseris’ indica che privatamente il convenuto ha indotto l’attore ad abbandonare il processo; questi, infatti, probabilmente astenendosi dal comparire apud iudicem, ha lasciato – come indica il ‘passus sim’ – che il convenuto fosse assolto”; nonché Lambrini 2013, 108 (= 2015, 240). 467 Si veda in proposito Zoz 2006, 530-532, secondo cui le contraddizioni tra i due testi possono superarsi “riconoscendo che esse dipendono dalla diversità dei contesti (cioè delle fattispecie concrete) in cui si innestano le scelte giurisprudenziali”; nello stesso ordine di idee, cfr. Lambrini 2013, 115-119 (= 2015, 246-249), la quale ipotizza che le peculiarità del caso affrontato in D. 4.3.20.1, purtroppo non riportate nel testo, abbiano impedito il ricorso al rimedio restitutorio, aprendo quindi la strada alla concessione dell’actio doli.

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Ivano Pontoriero perché è sufficiente la pena per lo spergiuro468. Il contesto dal quale è stato escerpito il breve frammento si ricava dalla precedente trattazione di Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.21, in cui si dà conto di un contrasto giurisprudenziale in ordine alla possibilità di concedere l’actio doli contro colui il quale, giurando il falso, fosse risultato vincitore in giudizio: alla soluzione positiva prospettata da Labeone si contrappone quella negativa formulata da Pomponio, poi seguita da Marcello e dallo stesso Ulpiano469. Nella struttura del titolo D. 4.3, il frammento paolino aggiunge, in relazione alla soluzione del diniego del rimedio, la motivazione nam sufficit periurii poena a quella, già risultante dal testo ulpianeo, stari enim religioni debet470. È appena il caso di ricordare che Gai. 4 ad ed. prov., D. 4.3.23 concede invece l’actio doli contro il legatario che ultro iurando vel quadam alia fallacia ottiene dall’erede, pur in presenza di una violazione della lex Falcidia, l’integrale pagamento dei legati471.

468 Lenel 1889.I, 984, così ricostruisce il frammento: [De periurio non datur doli actio]: nam sufficit periurii poena. Cfr. anche Amirante 1962, 38 e nt. 62. Si tratta di una pena “di carattere sociale”: v. sul punto Provera 1953, 103; nonché Lambrini 2013, 106 e nt. 42 (= 2015, 238 e nt. 42). 469 Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.21: Quod si deferente me iuraveris et absolutus sis , postea periurium fuerit adprobatum, Labeo ait de dolo actionem in eum dandam: Pomponius autem per iusiurandum transactum videri, quam sententiam et Marcellus libro octavo digestorum probat: stari enim religioni debet [Poi se, avendolo io deferito, abbia prestato il giuramento e sia stato assolto, e dopo sia stato dimostrato lo spergiuro, Labeone afferma che debba essere concessa l’azione di dolo nei suoi confronti: Pomponio invece che si considera definito con una transazione, opinione che anche Marcello approva nell’ottavo libro dei Digesti; ci si deve attenere infatti alla religione]. È oggetto di discussione se la testimonianza si riferisca a un giuramento prestato ante o post litem contestatam: per la prima interpretazione, cfr. Amirante 1962, 24-26, per la seconda, v. Biondi 1913, 80 (è incerto, ma propende per la tesi formulata da quest’ultimo autore, Amirante 1954, 186, nt. 39); nonché Izzo 2006, 102-103. Sul testo, cfr. inoltre Papa 2009, 239 e Lambrini 2013, 102-106 (= 2015, 235-238), che opportunamente sottoliena come Ulpiano: “per negare l’utilizzabilità di strumenti processuali diretti a ritornare sulla decisione, fa leva sul valore religioso del giuramento, piuttosto che sulla forza dell’elemento transattivo”. Sull’orientamento di Labeone, cfr. le osservazioni di Brutti 1973.I, 288, secondo il quale saremmo di fronte a un tentativo labeoniano di laicizzare l’istituto del giuramento. Cursi 2011, 167, individua la cifra caratterizzante dell’apporto del giurista augusteo nel piegare “l’applicazione del rimedio a un’interpretazione della residualità in senso ‘sostanziale’”. Un’eco della posizione di Pomponio sembra riemergere in Paul. 18 ad ed., D. 12.2.2: Iusiurandum speciem transactionis continet maioremque habet auctoritatem quam res iudicata [Il giuramento contiene una specie di transazione ed ha un’autorità maggiore della cosa giudicata]. Cfr. sul punto Triggiano 2016, 72 e nt. 172. Sul principio secondo cui “il giuramento ha maggior forza della res iudicata”, v. Bertolini 1886, 135-136. Con riferimento al carattere transattivo, cfr. Biondi 1913, 56-58; adde Amirante 1954, 37, nt. 128. Biondi 1930, 60, propone di espungere come emblematico il passaggio maioremque habet auctoritatem quam res iudicata. 470 Cfr. Bertolini 1886, 163. Sulla connessione instaurata dai commissari incaricati di redigere il Digesto, v. Izzo 2006, 103. 471 Gai. 4 ad ed. prov., D. 4.3.23: Si legatarius, cui supra modum legis Falcidiae legatum est, heredi adhuc ignoranti substantiam hereditatis ultro iurando vel quadam alia fallacia persuaserit, tamquam satis abundeque ad solida legata solvenda sufficiat hereditas, atque eo modo solida legata fuerit consecutus: datur de dolo actio [Se un legatario, in favore del quale è stato legato sopra la misura della legge Falcidia, abbia persuaso l’erede, che ancora ignorava la consistenza dell’eredità, giurando di propria iniziativa o con qualche altro inganno, che l’eredità bastasse in modo più che sufficiente per i legati nella loro interezza, e in tal modo abbia integralmente conseguito i legati: viene concessa l’azione di dolo]. Secondo Brutti 1973.I, 292, il parere di Labeone potrebbe dunque non essere rimasto del tutto privo di seguito. Sulla testimonianza di Gaio, cfr. inoltre Cursi 2011, 166 e nt. 83 e Lambrini 2013, 106-107 (= 2015, 238239).

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Commento F. 147 – D. 4.3.25 La trattazione del giurista, che si sofferma ancora sulla sussidiarietà dell’actio doli, esclude che l’azione possa venire concessa a vantaggio di chi, falsamente persuaso dal convenuto in ordine all’avvenuto pagamento di un debito, abbia acconsentito alla sua assoluzione472. La motivazione fornita è che il creditore dispone di altri strumenti di tutela in sede giurisdizionale: potrà esercitare nuovamente l’azione, e, nel caso in cui gli venga opposta l’eccezione di cosa giudicata, potrà servirsi di una replica473. Una parte della storiografia ha recisamente negato la riconducibilità dell’ex integro agere menzionato nel testo paolino ad un’ipotesi di restitutio in integrum474. L’orientamento prevalente individua, invece, un preciso riferimento alla restitutio in integrum, realizzata attraverso la concessione della replicatio doli contro l’exceptio rei iudicatae del convenuto475. F. 148 – D. 6.1.7 Il frammento è stato collocato dai commissari di Giustiniano al di fuori della sedes materiae, in D. 6.1 de rei vindicatione [Sull’azione di rivendicazione]476. Ragioni di carattere contenutistico inducono ad anteporlo a D. 4.3.27 e D. 4.3.29, discostandosi, in tal modo, dalla palingenesi

472 Sulla fattispecie, v. Amirante 1962, 37. Cfr. inoltre Zoz 2006, 527-530; Lambrini 2013, 110 (= 2015, 242); nonché Scevola 2014, 282, nt. 88 (= 2015, 217, nt. 88 [= 2019, 381-382, nt. 88]). 473 Cfr. Pugliese 1979, 431 (= 1985, I 445); che si tratti di una replicatio doli è sostenuto da Duquesne 1910, 96; Papa 2002, 47-48; Id. 2009, 340; nonché da Lambrini 2013, 112 (= 2015, 243-244). Sul testo, v. anche di Cintio 2006, 240 e nt. 9; Ead. 2009, 171 e nt. 57. 474 Negano che il testo concerna un’ipotesi di in integrum restitutio Wacke 1971, 118 e Kaser 1977, 149, seguiti da Mader 1993, 221. In senso contrario, v. l’esatta constatazione di Lambrini 2013, 113 (2015, 244-245), che ricorda come la restitutio in integrum pretoria non assumesse alcuna forma tipica, potendo, dunque, essere disposta attraverso una pluralità di strumenti, tra i quali, appunto, la concessione della replicatio. 475 Cfr. Duquesne 1910, 96, secondo cui “le demandeur obtient donc satisfaction par l’introduction d’un judicium nouveau et la replicatio doli opère ici à la manière d’une rescision absolue”; Albanese 1961a, 282; nonché Lambrini 2013, 113-115 (= 2015, 244-246). L’autrice ricorda come il giurista riconosca all’attore la possibilità di servirsi della replicatio doli contro l’exceptio rei iudicatae del convenuto anche in Paul. 9 resp., D. 26.7.46.5. Identico impiego della replica di dolo è attestato da (Impp. Sev. et Ant. AA. Valerio, a. 210) C. 3.1.2. Sul punto, v. anche Marrone 1994a, 40-41 e nt. 55 (= 2003, I 486-487 e nt. 55) – in precedenza l’autore aveva considerato D. 4.3.25 e D. 26.7.46.5 interpolati, cfr. Id. 1955, 364, nt. 717, per il riferimento all’exceptio rei iudicatae, che sarebbe stata del tutto superflua in caso di esercizio di un’actio in personam, in ragione dell’effetto preclusivo ipso iure della litis contestatio (v. Gai. 4.106-107) – e Zoz 2006, 533-539. 476 Albanese 1972, 381 (= 1991, II 1075), nota che la “trama fondamentale del titolo” è “costituita, nella sua parte iniziale, dall’intreccio di frammenti escerpiti dal l. 16 ad ed. di Ulpiano e dal l. 21 ad ed. di Paolo”. Tali frammenti si soffermano “sull’oggetto dell’azione di rivendica”, mentre D. 6.1.7 “introduce invece ex abrupto un problema di reiterabilità della rivendica (contro un secondo convenuto), problema che non trova sviluppo nel seguito del titolo”. Sulla base di questa constatazione, l’autore afferma essere “ben fondato il sospetto” che il frammento costituisca “un intarsio compilatorio compiuto al fine di enunziare, come cosa ovvia ed incidentalmente, l’esperibilità efficace d’una rivendica, per così dire, senza oggetto; cioè, contro chi vindicationi se optulit”. L’esegesi della testimonianza proposta dall’autore è condizionata dall’adesione alla tesi di fondo secondo cui la possibilità di ottenere la condanna del liti se offerens nell’azione di rivendica sarebbe “una soluzione compilatoria”. Secondo Bernardo Albanese, da Gai. 27 ad ed. prov., D. 4.3.39 e da Paul. 11 ad ed., D. 6.1.7 risulterebbe la possibilità di esperire l’actio doli contro il possessore fittizio. Nel tentativo di dimostrare questa tesi, l’autore ritiene che le parole quamvis absolutus sis di D. 4.3.39 si riferiscano, “a meno di inammissibili forzature ermeneutiche”, all’actio ex stipulatu e non alla rivendica, ma tale soluzione appare invece come la più probabile: cfr. Schipani 1971, 93-96. In relazione a D. 6.1.7, Albanese ritiene che le parole damnatus est si riferissero originariamente all’actio de dolo.

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Ivano Pontoriero leneliana477. Il frammento, infatti, richiama un’opinione di Sesto Pedio, secondo cui sarebbe stato possibile esperire l’azione di rivendica contro il possessore, nonostante la condanna di colui il quale optulit se fundi vindicationi478. Paolo doveva dunque soffermarsi sul tema della sussidiarietà dell’azione: l’actio doli non sarebbe stata concessa contro il possessore fittizio, perché il proprietario avrebbe avuto nuovamente a disposizione l’azione di rivendica479. F. 149 – D. 4.3.27 L’actio doli, dato il suo carattere penale, è passivamente intrasmissibile480. La regola è temperata dalla concessione di un’azione contro gli eredi, nei limiti dell’arricchimento481. Il frammento paolino è stato collegato dai compilatori al precedente Gai. 4 ad ed. prov., D. 4.3.26, in cui si riferisce che tale azione viene promessa dal proconsole nei limiti di quanto sia pervenuto

477 Cfr. Lenel 1889.I, 984. Si discosta dalla palingenesi leneliana, anteponendo D. 6.1.7 a D. 4.3.27 e D. 4.3.29 anche Krüger 1905, 898. Albanese 1972, 382, nt. 35 (= 1991, II 1076, nt. 35) si sofferma sulle scelte di Otto Lenel, osservando come quella di collocare il frammento “in coda a tutti gli altri frammenti paolini superstiti del l. 11 ad ed.” riconducibili alla rubrica de dolo malo, risponda alla tecnica abitualmente seguita “di fronte a testi di cui non si riesce a stabilire un rapporto preciso con gli altri provenienti dallo stesso libro”. L’autore ricorda come lo stesso accada anche con riferimento alla palingenesi della testimonianza di Pedio (per la quale, cfr. Lenel 1889.II, 2). Sull’originaria destinazione del frammento paolino al commento delle parole si de his rebus alia actio non erit, v. Lenel 1927, 114 e nt. 13. 478 Partsch 1909, 35, nt. 1, ritiene che: “la condamnation prononcée contre le dolo desinens possidere semble résulter d’une action de dol”. L’interpretazione proposta non appare persuasiva: la condanna è subita dal liti se offerens (Si is, qui optulit se fundi vindicationi, damnatus est). Inoltre, il testo sembra fare riferimento alla possibilità di esercitare nuovamente l’azione reale (nihilo minus a possessore recte petitur). Secondo Talamanca 1956, 49, nt. 124 e 50-51, la condanna sarebbe stata disposta in forza della clausula doli contenuta nella cautio iudicatum solvi prestata dal convenuto a seguito dell’esperimento dell’azione reale, o, nel caso in cui la cautio non fosse stata prestata, in forza dell’actio doli. Lo stesso autore (cfr. Id. 1963, 154-155) non esclude che la condanna del convenuto sia avvenuta “in base all’actio in rem” ed aggiunge che “uno spunto a favore di questa soluzione potrebbe forse trovarsi nella circostanza che egli [scil. Paolo] sottolinei espressamente l’esperibilità dell’actio in rem contro l’attuale possessore, nonostante la condanna del liti se offerens”. Sulla fattispecie e sulle ragioni della condanna del convenuto che liti se optulit, v. anche Marrone 1970, 178-183; nonché Schipani 1971, 93-99 e 220-221. Sul testo, cfr. inoltre Talamanca 1979, 172 e nt. 45. Che per Paolo la condanna del liti se offerens possa avvenire in forza dell’azione reale è chiaramente dimostrato da Paul. 21 ad ed., D. 6.1.27pr. e Paul. 21 ad ed., D. 7.6.6. In un diverso contesto, relativo al carattere nossale dell’actio legis Aquiliae (v. Lenel 1889.I, 1012), il giurista esprime il principio, suscettibile di assumere una portata più generale, secondo cui pro possessione dolus est. Cfr. Paul. 22 ad ed., D. 50.17.131: Qui dolo desierit possidere, pro possidente damnatur, quia pro possessione dolus est [Chi abbia smesso di possedere per dolo, è condannato come il possessore, perché vi è il dolo in luogo del possesso]. Sull’opinione di Pedio si sofferma, in particolare, Giachi 2006, 429-435. 479 Sottolinea efficacemente come la trattazione di Paolo dovesse vertere sul tema della sussidiarietà, pur fornendo un’interpretazione della testimonianza che non appare condivisibile, Albanese 1972, 389-390 e nt. 42 (= 1991, II 1083-1084 e nt. 42). 480 Su tale caratteristica delle azioni penali, cfr. per tutti Voci 1998, 2 (= 2007, 196). 481 Cfr. Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.17.1: Haec actio in heredem et ceteros successores datur dumtaxat de eo quod ad eos pervenit [Questa azione nei confronti dell’erede e dei rimanenti successori è concessa solo in relazione a quanto è a loro pervenuto]. Per il riferimento ai ceteri successores, cfr. l’articolata indagine critico-esegetica di Longo 1901, 150-165. L’autore sostiene che tale riferimento, non conoscendo i giuristi classici il concetto di successione a titolo particolare, sia frutto di una nuova costruzione dogmatica, emersa in età tardoantica e prediletta dai giustinianei. Albertario 1913a, 453 (= 1946, IV 306), considera questa testimonianza interpolata (sul punto, in relazione al testo di Ulp. 11 ad ed., D. 4.2.16.2, v. supra, 191, nt. 409). Sull’azione concessa contro gli eredi dell’autore della condotta dolosa, cfr. García Camiñas 1994, 961.

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Commento all’erede, vale a dire, nei limiti di quanto l’eredità, a seguito della condotta dolosa posta in essere dal dante causa, gli sia pervenuta più cospicua482. La trattazione di Paolo precisa in proposito che si tiene conto anche di quanto, per dolo dell’erede, fu fatto in modo che non gli pervenisse483. F. 150 – D. 4.3.29 La trattazione si sofferma ancora sull’azione concessa contro gli eredi dell’autore della condotta dolosa484. Paolo ricorda l’opinione di Masurio Sabino circa il carattere reipersecutorio di tale azione: quest’ultima è, dunque, perpetua e non ha conseguenze infamanti485.

[Sui minori di venticinque anni (E. 41)] L’editto oggetto di commento è tradito da Ulp. 11 ad ed., D. 4.4.1.1486. Tutte le cinque testimonianze paoline relative a questo editto sono state collocate dai commissari incaricati di redigere il Digesto nella sedes materiae, all’interno del titolo D. 4.4 de minoribus viginti quinque annis487. F. 151 – D. 4.4.10 Il frammento è stato collegato dai compilatori alla precedente trattazione di Ulp. 11 ad ed.,

482 Albertario 1913a, 453 e 456 (= 1946, IV 307 e 310), considera il breve inserto paolino interamente di fattura giustinianea. Sul collegamento operato dai compilatori, v. González Roldán 2010, 206-207. 483 Lenel 1889.I, 984, così ricostruisce la trattazione paolina: [In heredem datur haec actio de eo quod ad eum pervenit] dolove malo eius factum est, quo minus pervenerit. 484 Di contrario avviso Albertario 1913a, 457-458 (= 1946, IV 311-312), secondo cui il frammento “non vuole punto alludere all’arricchimento dell’erede, quale è inteso da Giustiniano”. 485 Cfr. de Francisci 1912, 83 e Amelotti 1958, 15 e nt. 30. Per la palingenesi dell’opinione di Sabino, che proviene verosimilmente dall’opera di commento ad edictum praetoris urbani, v. Bremer 1898, 570. Il carattere perpetuo dell’azione concessa contro gli eredi risulta anche dal precedente Gai. 4 ad ed. prov., D. 4.3.28: Itaque si accepto lata sit tibi pecunia, omnimodo cum herede tuo agetur. at si res tibi tradita sit, si quidem mortuo te ea res extitit, agetur cum herede tuo, si minus, non agetur. sed utique in heredem perpetuo dabitur, quia non debet lucrari ex alieno damno. cui conveniens est, ut et in ipso, qui dolo commiserit in id quod locupletior esset perpetuo danda sit in factum actio [E così se sia stata compiuta in tuo favore l’accettilazione del denaro, in ogni modo si agirà contro il tuo erede. Ma se la cosa ti sia stata consegnata, se certamente dopo la tua morte quella cosa c’è, si agirà contro il tuo erede, in caso contrario, non si agirà. Ma, in ogni caso, sarà concessa contro l’erede in perpetuo, perché non si deve lucrare dal danno di un altro. È coerente con ciò che anche nei confronti di quello stesso che abbia agito con dolo debba essere concessa un’azione in fatto nei limiti dell’arricchimento]. 486 Ulp. 11 ad ed., D. 4.4.1.1: Praetor edicit: ‘Quod cum minore quam viginti quinque annis natu gestum esse dicetur, uti quaeque res erit, animadvertam’ [Il pretore stabilisce nell’editto: ‘Ciò che si dirà essere stato fatto con un minore di venticinque anni, a seconda delle circostanze del caso, lo considererò’]. Sull’ambito di applicazione, cfr. Burdese 1951, 78-79; Cervenca 1983, 141 e nt. 85; Cannata 2001, 69-74; Musumeci 2002, 254 e nt. 21; Brutti 2020, 99 e nt. 51. 487 D. 4.4.10 [F. 151], D. 4.4.14 [F. 152], D. 4.4.23 [F. 153], D. 4.4.24 [F. 154], D. 4.4.26 [F. 155]. Il testo di D. 4.4.24, nonostante la diversa indicazione dell’inscriptio e salvo forse la breve frase iniziale, deve essere attribuito, per ragioni di carattere stilistico e per il suo contenuto, all’undicesimo libro ad edictum di Paolo. Cfr. Lenel 1927, 116, nt. 4.

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Ivano Pontoriero D. 4.4.9.6488. Paolo, come si desume dal contesto, precisa che il pretore non può disporre la reintegrazione in pregiudizio della libertà, neppure in favore di un minore, a meno che lo stesso minore non abbia ottenuto la reintegrazione dal principe, per un grave motivo489. F. 152 – D. 4.4.14 Il giurista dà conto dell’opinione di Pomponio, secondo cui, per tutto il tempo in cui chi ha ricevuto una cosa da un minore, o il suo erede, siano solvibili non deve essere stabilito nulla di nuovo nei confronti del secondo acquirente in buona fede490. Dalla trattazione contenuta in Ulp. 11 ad ed., D. 4.4.13.1 apprendiamo che tale orientamento era stato in precedenza espresso da Labeone, cui va riconosciuto il merito di aver superato, in via interpretativa, il presupposto edittale della diretta contrattazione con il minore (v. Ulp. 11 ad ed., D. 4.4.1.1: Praetor edicit: ‘Quod cum minore… gestum esse dicetur…), per riconoscere a quest’ultimo una più effettiva tutela di fronte a condotte comunque pregiudizievoli491. Sappiamo da Call. 1 ed.

488 Ulp. 11 ad ed., D. 4.4.9.6: Adversus libertatem quoque minori a praetore subveniri impossibile est [Anche contro la libertà è impossibile che da parte del pretore si venga in soccorso del minore]. Sul testo, con riferimento alla capacità del minore di manomettere, v. Solazzi 1912, 7. Che il rimedio restitutorio non possa trovare applicazione in pregiudizio della libertà è affermato anche in Ulp. 11 ad ed., D. 4.3.7pr. Cfr. sul punto Palazzolo 1974, 193 e nt. 175; Musumeci 2007b, 495-496 (= 2008, 38); Id. 2013, 207-208. Ritiene che il testo di Ulp. 11 ad ed., D. 4.4.9.6 sia stato oggetto di pesanti interventi compilatori Raggi 1965, 105. L’autore argomenta richiamando “la ben più complessa ed articolata casistica al riguardo” risultante dal prosieguo del commento in Ulp. 11 ad ed., D. 4.4.11.1. 489 Cfr. Lenel 1889.I, 985, che così ricostruisce la trattazione paolina: [Adversus libertatem minori non subvenitur], nisi magna causa hoc a principe fuerit constitutus. Sul punto, v. Palazzolo 1974, 193-194; Musumeci 2007b, 495-496, ntt. 121 e 122 (= 2008, 38, ntt. 121-122); Id. 2013, 207-208, ntt. 109-110. Adame Goddard 1985, 30-31, argomenta da Ulp. 11 ad ed., D. 4.2.9.2, Paul. 11 ad ed., D. 4.4.10, Call. 3 de iur. fisc., D. 49.14.3.9, testi dai quali si ricava che in diritto romano classico la regola secondo la quale non si sarebbe potuta disporre la reintegrazione in pregiudizio della libertà subisse delle eccezioni, per sostenere la tesi dell’origine compilatoria di PS. 1.9.5a = D. 4.4.48.1. Riconosce invece la riferibilità del contenuto della sentenza all’estensore dell’opera, Id. 2010, 241-243: “cabe notar el tono mesurado de la sentencia, que no afirma de modo general… que no procede una restitución en contra la libertad, sino que en el caso contemplado no procede”. 490 Nella sua ricostruzione dei libri ad edictum di Pomponio, Lenel 1889.II, 23, inserisce la testimonianza paolina, preceduta da una crux, immediatamente di seguito a Ulp. 11 ad ed., D. 4.4.13.1 e nell’ambito dello stesso frammento palingenetico (Pomp. 53). Dal testo ulpianeo si può ragionevolmente inferire che anche l’opinione richiamata da Paolo era espressa nel ventottesimo dei libri ad edictum del giurista antoniniano. Luzzatto 1971, 718, nt. 146, annovera D. 4.4.14 tra i testi “in cui vengono indicati limiti e oggetto della causae cognitio magistratuale”, che si identifica “con l’accertamento dei presupposti edittali e di legittimità”. 491 Ulp. 11 ad ed., D. 4.4.13.1: Interdum autem restitutio et in rem datur minori, id est adversus rei eius possessorem, licet cum eo non sit contractum. ut puta rem a minore emisti et alii vendidisti: potest desiderare interdum adversus possessorem restitui, ne rem suam perdat vel re sua careat, et hoc vel cognitione praetoria vel rescissa alienatione dato in rem iudicio. Pomponius quoque libro vicensimo octavo scribit Labeonem existimasse, si minor viginti quinque annis fundum vendidit et tradidit, si emptor rursus eum alienavit, si quidem emptor sequens scit rem ita gestam, restitutionem adversus eum faciendam: si ignoravit et prior emptor solvendo esset, non esse faciendam: sin vero non esset solvendo, aequius esse minori succurri etiam adversus ignorantem, quamvis bona fide emptor est [Talvolta poi viene concessa al minore anche una reintegrazione che persegue direttamente la cosa, cioè contro il possessore della sua cosa, sebbene non sia stato concluso alcun contratto con lui. Come per esempio: hai comprato una cosa dal minore e l’hai venduta ad un altro; può talvolta richiedere di essere reintegrato contro il possessore, per non perdere la sua cosa o non esserne privo, e questo o attraverso la cognizione del pretore, o, una volta rescissa l’alienazione, attraverso la concessione di un’azione reale. Anche Pomponio nel ventottesimo libro scrive che Labeone ha ritenuto, se un minore di venticinque anni ha venduto e consegnato un fondo e il compratore lo ha alienato di nuovo, se certamente il secondo compratore sa che la cosa è stata gestita così, che debba essere disposta la reintegrazione conto di lui; se lo ha ignorato, e il

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Commento monit., D. 4.4.45pr. che il giurista augusteo, oltre all’ipotesi della successiva alienazione del bene del minore da parte del primo acquirente (Ulp. 11 ad ed., D. 4.4.13.1), considerò rilevante ai fini della concessione del rimedio restitutorio anche quella della perdita di un bene, conseguente al completamento dell’usucapione, di un minore concepito, ma non ancora nato492. F. 153 – D. 4.4.23 Il giurista esclude che possa essere disposta la reintegrazione quando il figlio sottoposto a potestà abbia amministrato su mandato del padre (Cum mandato patris filius familias res administraret, non habet beneficium restitutionis)493. Paolo è contrario alla concessione del rimedio restitutorio al filius familias quando tale concessione, in realtà, si risolve in un vantaggio per il pater494. La concessione del rimedio restitutorio deve essere esclusa anche se il mandato sia stato conferito da una persona diversa dal padre, perché, altrimenti, si provvederebbe in favore del maggiore di età, che deve, invece, sopportare le conseguenze della sua scelta (nam et si alius ei mandasset, non succurreretur, cum eo modo maiori potius consuleretur, cuius damno res sit cessura)495. Diversa soluzione vale nel caso in cui il minore sia in procinto di subire un danno, perché non può recuperare quanto ha speso da quello i cui affari ha gestito, non essendo quest’ultimo solvibile: in questo caso il pretore interverrà496. Il giurista si sofferma quindi sull’ipotesi in cui il soggetto interessato dalla gestione sia un minore di venticinque anni, mentre il procu-

primo compratore fosse solvibile, che non debba essere disposta; ma se non fosse solvibile, che sia più equo venga prestato soccorso al minore anche contro chi lo ha ignorato, sebbene sia un compratore di buona fede]. Cfr. in proposito Musumeci 1997, 55-58; Stolfi 2002.I, 376-382 e nt. 215, il quale ipotizza, a proposito di Paul. 11 ad ed., D. 4.4.14, che la menzione dell’erede, in caso di premorienza del primo acquirente rispetto all’iniziativa processuale del minore, possa essere frutto dell’apporto di Pomponio o, meno probabilmente, di Paolo; nonché Musumeci 2013, 49 e nt. 55. Lenel 1889.II, 476, nt. 2 avanza il sospetto che il passaggio si quidem emptor … solvendo in D. 4.4.13.1 sia frutto di un’interpolazione: “licet sententia non offendat, interpolationis tamen suspicionem movet scribendi genus”. Sul punto, v. anche Solazzi 1912, 10-11, nt. 1. 492 Call. 1 ed. monit., D. 4.4.45pr.: Etiam ei, qui priusquam nasceretur usucaptum amisit, restituendam actionem Labeo scribit [Labeone scrive che l’azione deve essere restituita anche a chi, prima di nascere, ha perso una cosa per usucapione]. Cfr. in particolare Musumeci 1997, 57-58; Stolfi 2002.I, 384, nt. 218; Musumeci 2013, 58-59. Sulla fattispecie considerata e per l’orientamento teso ad estendere l’ambito di applicazione della previsione edittale, v. anche Puliatti 2020, 189. 493 Sul testo, cfr. Carrelli 1938a, 25-27, ma con eccessivi sospetti di alterazione. Precisa che non si tratta di “un vero mandato, dal momento che si riferisce a un figlio in potestate”, ma di “una sorta di praepositio” Brutti 2020, 104-105 e nt. 66. 494 Cfr. Musumeci 2010, 2313; Id. 2013, 25, che richiama la conforme opinione espressa dal giurista in Paul. 1 decret., 4.4.38.1: Quod dicitur non solere filiis familias post emancipationem adhuc minoribus succurri in his, quae omisissent manentes in potestate, tunc recte dicitur, cum patri adquirere possunt [Ciò che si dice, che non si è soliti venire in soccorso dei figli ancora minori dopo l’emancipazione, in relazione a quelle cose che avessero omesso mentre si trovavano sottoposti a potestà, si dice correttamente allorquando possono acquistare a vantaggio del padre]. Su questo testo, cfr. Brutti 2020, 104-105, secondo cui Paolo nei suoi libri ad edictum: “assume una posizione che ricalca e generalizza” il decretum di cui il giuristà dà conto in D. 4.4.38.1. 495 Per l’analoga posizione risultante da Ulp. 11 ad ed., D. 4.4.3.4: …nequaquam fuit praetori propositum: praetor enim minoribus auxilium promisit, non maioribus… […non fu affatto il proposito del pretore: il pretore infatti ha promesso aiuto ai minori, non ai maggiori…], v. Musumeci 2013, 16 e nt. 19. 496 Secondo Ankum 1993, 18 e nt. 41, il giurista avrebbe preso in considerazione, dopo le parole res sit cessura il caso di un minore sui iuris. Diversamente, Musumeci 2010, 2313, nt. 42; Id. 2013, 25, nt. 41, è propenso a ritenere che qui il giurista si stia riferendo a un minore alieni iuris.

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Ivano Pontoriero ratore una persona di età maggiore497. In questo caso – osserva Paolo – non è facile che il minore possa trovare ascolto, a meno che la gestione non sia stata condotta su suo mandato e nulla si possa recuperare dal procuratore. Il giurista, infine, ricorda, richiamando in proposito la conforme opinione già espressa da Marcello, che se il minore è stato raggirato nella sua qualità di procuratore, questo deve essere imputato all’interessato, che affidò i suoi affari a una siffatta persona498. F. 154 – D. 4.4.24 Nonostante l’inscriptio attribuisca l’intero frammento alle Pauli Sententiae, è stata sostenuta da Cuiacio, la cui opinione è seguita da Lenel, la riconducibilità a quest’ultima opera del solo periodo iniziale (Quod si minor… damnum accidat), mentre tutta la rimanente trattazione sarebbe stata ricavata dai compilatori dall’undicesimo libro del commento all’editto499.

497 Lenel 1889.I, 985, nt. 1, avanza il dubbio che il testo sia stato interpolato da si autem a possit. Musumeci 2010, 2313, nt. 42; Id. 2013, 25, nt. 41, sottolinea che questa parte del testo considera sicuramente un minore giuridicamente autonomo. 498 Lenel 1889.I, 985, nt. 2, ipotizza che l’originaria scrittura paolina contenesse l’aggettivo cognitorio in luogo di procuratorio. Sul testo, v. inoltre Brutti 2020, 105, nt. 66, che richiama l’ipotesi considerata nella parte iniziale del frammento (cfr. supra, 211 e nt. 493). 499 L’indicazione contenuta nell’inscriptio è già messa in discussione da Antonio Agustín: v. Augustinus 1543, lix: “Quod vero xxiv idem liber inscribitur. non arbitror ad totum caput pertinere, quippe quod non sententiis constet, cuius item initium solum extat”. Cuiacius 1584, 154, evidentemente prestando ancora fede all’indicazione del Digesto, passa ad esaminare, dopo Paul. 11 ad ed., D. 4.4.23 [F. 153], il frammento D. 4.4.26 [F. 155]. Lo stesso autore, nelle sue interpretationes alle Pauli Sententiae (v. in particolare Id. 1599, 325), osserva a proposito di PS. 1.9.2: “Gestori negotiorum minoris aetatis, licet dominus maior sit, datur restitutio in integrum: quoniam cum domino nihil imputari possit, non est aequum ob gestum minoris maiorem in damno versari. Et haec postrema Pauli Sententia relata est in l. quod si minor, ff. eod. tit. cuius initium est ex lib. I. Sentent. At reliqua certe omnia sunt ex Pauli lib. xi ad edictum”. La proposta di Cuiacio è seguita da Lenel 1889.I, 985 e nt. 3. Cfr. PS. 1.9.2: Qui minori mandavit, ut negotia sua agat, ex eius persona in integrum restitui non potest, nisi minor sua sponte negotiis eius intervenerit [Chi conferì mandato a un minore di condurre i propri affari, non può essere reintegrato in ragione della sua persona, a meno che il minore non sia intervenuto nei suoi affari di sua spontanea volontà]. Secondo Mommsen 1870.I, 133, nt. 1, l’escerto ricavato dalle Sententiae sarebbe ancora più limitato e si fermerebbe con le parole maioris intervenerit. Una diversa posizione assume, a partire dall’Editio stereotypa undecima, Krüger, che ritiene, invece, di poter ricondurre alla scrittura delle Sententiae anche le parole restituendus erit: cfr. Krüger 1908, 89, nt. 7. Sulla questione, nella letteratura più recente, cfr. Di Salvo 1979, 182-183, nt. 280, che, pur non escludendo una possibile derivazione del testo “dal commentario edittale di Paolo”, preferisce mantenere ferma l’indicazione dell’inscriptio. Rimane da chiarire il rapporto tra D. 4.4.24pr. e PS. 1.9.2. Di Salvo parla di una “corrispondenza esatta nel testo del Breviarium”, ma l’affinità è solo tematica. Per questa stessa ragione non sembra del tutto condivisibile la palingenesi delle Sententiae proposta da Liebs 1996, 142: Quod si e negotiis maioris non sono varianti contenute nel Digesto (sul punto, v. anche, in precedenza, Id. 1993, 132). Cfr. inoltre Adame Goddard 1985, 18 e nt. 4 e 20, il quale ritiene, invece, che l’intero frammento D. 4.4.24 debba essere attribuito ai libri ad edictum. Secondo l’autore, ci troveremmo di fronte ad un semplice errore nella redazione dell’inscriptio commesso dai compilatori e “originado por haber tenido a vista la sentencia que transmite Brev.”. Quanto al rapporto tra D. 4.4.24 e PS. 1.9.2, l’autore ipotizza che “las palabras iniciales” di D. 4.4.24 “fueran la fuente de la frase final (nisi… intervenerit) de la sentencia que transmite Brev.”. L’ipotesi proposta permetterebbe di evitare la difficoltà “de aceptar que un fragmento del Digesto proceda de dos libros distintos y que su procedencia se atribuye a la obra de la que se tomó sólo una parte muy pequeña”. Un approfondito riesame della questione è in Kaiser 2013, 83-86, secondo il quale, sarebbe comunque da escludere la riconducibilità delle parole ne maiori damnum accidat alla scrittura delle Sententiae: “da er in der Parallelüberlieferung innerhalb der Lex Romana Visigothorum nicht vorhanden ist”.

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Commento A mio avviso, risultano decisivi per sostenere la derivazione del frammento dai libri ad edictum, salvo, forse, la sola frase iniziale, fortemente complementare e simmetrica rispetto alla trattazione di PS. 1.9.2, elementi di carattere stilistico, come la citazione di Scevola con la quale si apre il secondo paragrafo e il richiamo all’editto contenuto nel quinto, dati sui quali ha giustamente richiamato l’attenzione dell’interprete Wolfgang Kaiser500. Il giurista sta prendendo in considerazione il caso in cui un minore di venticinque anni sia intervenuto spontaneamente nella gestione degli affari di un maggiore di età: in questo caso avrà luogo la reintegrazione, affinché a quest’ultimo non derivi un danno501. La trattazione precisa ulteriormente che, se il minore si sia rifiutato di intraprendere questa strada e sia stato convenuto con l’actio negotiorum gestorum, non sarà reintegrato rispetto a questa azione, ma dovrà essere costretto a cedere al maggiore il rimedio della restitutio in integrum, in modo tale da renderlo procuratore nell’interesse proprio e da permettergli di conseguire il risarcimento per il danno cagionato dal minore502. Nel primo paragrafo il giurista sottolinea che non sempre i negozi compiuti con i minori devono essere rescissi, ma sono da ricondurre alla misura di ciò che è buono ed equo503. Ciò, secondo Paolo, risponde allo stesso interesse dei minori, che, altrimenti, sarebbero esposti a un grave pregiudizio, non trovando nessuno disposto a contrattare e risultando, in un certo qual modo, loro interdetto il commercio504. Di segno conforme è la riflessione di Ulp. 11 ad ed., D. 4.4.7.8505.

500 Paul. 11 ad ed., D. 4.4.24.2: Scaevola noster aiebat…; D. 4.4.24.5: Ex hoc edicto… Cfr. Kaiser 2013, 84 e nt. 88. Il testo di PS. 1.9.2 è stato riportato nella nota precedente. 501 Sulla fattispecie presa in considerazione, v. Ankum 1993, 18-19, nt. 42. 502 Cfr. Buigues Oliver 1992, 68. 503 Sospetti di interpolazione in ordine al riconoscimento del potere di ad bonum et aequum redigere in Biondi 1927, 235 e nt. 1 e Carrelli 1938b, 80 e nt. 2. Sul significato assunto dal binomio, specie con riferimento alla restitutio in integrum, cfr. Mantovani 2017, 33-39. 504 La lezione interdicetur contenuta nella littera Florentina, è stata opportunamente emendata in interdicatur (cfr. Haloander 1529, 161; sul punto, v. anche Mommsen 1870.I, 133, nt. 2): il congiuntivo presente è richiesto all’interno della proposizione finale negativa introdotta dalla congiunzione ne. Sull’argomentazione formulata dal giurista, cfr. Pugliese 1983, 482-483 e nt. 20, il quale sottolinea come il minore “pur capace in linea di diritto, poteva così non di rado venirsi a trovare incapace in linea di fatto”. Lo stesso autore osserva come il termine commercium indichi qui l’“attività negoziale”. Si tratta di una preoccupazione diffusa: nello Pseudolus di Plauto (vv. 303-304), Calidoro lamenta che tutti temono di prestargli del denaro a causa delle disposizioni introdotte dalla lex Laetoria: cfr. Di Salvo 1979, 36-42; Cannata 2001, 73, nt. 121. Sul testo paolino, v. anche Brutti 2020, 100, che, a sua volta, mette in luce la “preoccupazione pratica” che ispira la riflessione del giurista: “se il rimedio diventa pressoché automatico – secondo una tendenza che talvolta traspare nei testi – ogni rapporto commerciale con gli adolescenti è destinato all’incertezza”. 505 Ulp. 11 ad ed., D. 4.4.7.8: Quaesitum est ex eo, quod in lucro quoque minoribus subveniendum dicitur, si res eius venierit et existat qui plus liceatur, an in integrum propter lucrum restituendus sit? et cottidie praetores eos restituunt, ut rursum admittatur licitatio. idem faciunt et in his rebus, quae servari eis debent. quod circumspecte erit faciendum: ceterum nemo accedet ad emptionem rerum pupillarium, nec si bona fide distrahantur. et destricte probandum est in rebus, quae fortuitis casibus subiectae sunt, non esse minori adversus emptorem succurrendum, nisi aut sordes aut evidens gratia tutorum sive curatorum doceatur [È stato chiesto in ragione di ciò, che si dice doversi prestare soccorso ai minori anche in relazione al lucro, se la sua cosa sia stata venduta e si trovi chi faccia un’offerta maggiore, deve forse essere reintegrato per il lucro? E quotidianamente i pretori li reintegrano, in modo tale che la licitazione venga ammessa di nuovo. Lo stesso fanno anche in relazione a quelle cose che devono essere loro conservate. La qual cosa dovrà essere fatta con circospezione: altrimenti nessuno accederà alla compera di beni pupillari, neppure se saranno venduti in buona fede. E deve essere approvato in modo rigoroso in relazione alle cose, che sono soggette a casi fortuiti, che non si debba prestare soccorso al minore contro il compratore, a meno che non siano rappresentate o sordidezza o evi-

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Ivano Pontoriero Così, prosegue Paolo, il pretore non deve intervenire, a meno che il raggiro non sia manifesto o le parti non si siano comportate in modo del tutto negligente506. Nel prosieguo della trattazione il giurista dà conto dell’opinione del suo maestro Cervidio Scevola, secondo cui la reintegrazione dovrà essere concessa al minore di venticinque anni che, spinto dalla leggerezza giovanile, abbia omesso di compiere gli atti necessari o ripudiato un’eredità o il possesso dei beni, a condizione che tutto sia rimasto nel pristino stato507. La richiesta dovrà, invece, essere respinta se, essendo già stata venduta l’eredità e portati a termine i negozi, il minore si limiti a esigere il denaro approntato grazie alle attività poste in essere dal sostituto. La restitutio in integrum dovrà poi essere concessa in modo ancor più parco a favore dell’erede del minore508.

dente compiacenza dei tutori o dei curatori]. Su questa motivazione, cfr. in particolare Musumeci 2001, 37 e nt. 5; Id. 2007a, 3717; Id. 2013, 128 e nt. 74; adde tuttavia le osservazioni di Brutti 2020, 100-101, nt. 56. Sull’attestazione della frequenza con cui i pretori concedevano la restitutio in integrum “in un’epoca nella quale la concessione di tale rimedio non era più, come prima, una loro prerogativa”, v. anche Musumeci 2007b, 454 (= 2008, 9); Id. 2013, 180. 506 Musumeci 2001, 36; Id. 2004, 70-71 (= 212-213) mette in rapporto il testo paolino, sottolineando la “consonanza di idee esistente tra Paolo e Ulpiano, contrari entrambi ad una concessione indiscriminata della protezione edittale ai minori”, con Ulp. 5 opin., D. 4.4.44: Non omnia, quae minores annis viginti quinque gerunt, irrita sunt, sed ea tantum, quae causa cognita eiusmodi deprehensa sunt, vel ab aliis circumventi vel sua facilitate decepti aut quod habuerunt amiserunt, aut quod adquirere emolumentum potuerunt omiserint, aut se oneri quod non suscipere licuit obligaverunt [Non tutte le cose che compiono i minori di venticinque anni sono invalide, ma solo quelle che sono riconosciute tali previa cognizione della causa, perché, o raggirati da altri, o tratti in errore dalla propria inesperienza, o hanno perso quello che avevano, o hanno omesso di acquisire il guadagno che avrebbero potuto acquisire, o si sono vincolati ad un onere che non era lecito assumere]. Sul testo ulpianeo e sul significato assunto dall’espressione causa cognita, che “non è qui usata nel senso consueto di valutazione discrezionale volta a stabilire se nel caso di specie sia o meno opportuna l’emanazione del provvedimento restitutorio, bensì nel diverso senso di accertamento della effettiva esistenza delle condizioni necessarie per la concessione del rimedio”, v. in particolare Santalucia 1971.II, 219-221. Secondo Corbino 2006, 4344, il testo paolino sottolinea: “il dovere del magistrato di non intervenire, se non in presenza di precise condizioni di manifesta evidenza delle circostanze sottoposte”. Per l’affinità riscontrabile tra il pensiero di Paolo e quello di Ulpiano, v. anche Musumeci 2007a, 3716-3717; Id. 2013, 104-105. Secondo Francesco Musumeci, Paolo e Ulpiano reagirebbero in tal modo ad un orientamento estensivo in ordine ai presupposti per il riconoscimento della reintegrazione, tendenza emersa con la riflessione scientifica di Giuliano (Ulp. 11 ad ed., D. 4.4.11.4-5), e, poi, seguita dalla cancelleria imperiale sotto il principato di Settimio Severo e di Antonino Caracalla ([Impp. Sev. et Ant. AA. Anniae, a. 197] C. 2.30[31].1; [Impp. Sev. et Ant. AA. Florentio et aliis, a. 198] C. 2.38[39].1; [Impp. Sev. et Ant. AA. Romano et aliis, a. 204] C. 2.43[44].1) e quello dello stesso Caracalla, una volta rimasto unico imperatore ([Imp. Ant. A. Muciano, a. 212] C. 5.71.1; [Imp. Ant. A. Prunico, a. 214] C. 2.37[38].1; [Imp. Ant. A. Marcianae, a. 215] C. 2.24[25]1). Cfr. ancora Musumeci 2001, 44-49 e 63-68; nonché Id. 2013, 115-120 e 131-136. Sul riferimento di Paolo alla circumscriptio, v. anche le osservazioni di Ankum 1992, in particolare 43-44 (= 2007, 235-236), secondo cui il termine captus ha una maggiore comprensività rispetto al termine circumscriptus. L’autore giunge alla conclusione che: “les minores capti sont soit des minores circumscripti, soit des minores lapsi ou sua facilitate decepti. Quand il est question dans les sources d’un minor circumscriptus, ce mineur a toujours été circumscriptus par quelqu’un d’autre”. Se dalla riflessione paolina e da quella ulpianea emerge senz’altro l’obiettivo di evitare una concessione indiscriminata del rimedio restitutorio, deve, tuttavia, essere apprezzato, come suggerisce Brutti 2020, 100, il peculiare apporto di Paolo: “egli stabilisce due distinti presupposti del decretum di origine pretoria che cancella l’atto giuridico: da un lato il dolo a detrimento del minore; dall’altro uno sviamento particolarmente grave del suo agire, che il giurista fa discendere dalla negligenza”. 507 Cfr. Musumeci 2006, 526; Id. 2013, 48-49, che sottolinea come le previsioni dell’editto vennero sottoposte dalla giurisprudenza a un’interpretazione di tipo estensivo. In questo caso, si riconosce rilievo a condotte meramente omissive, ben al di là, dunque, del tenore letterale della previsione, risultante da Ulp. 11 ad ed., D. 4.4.1.1. 508 La proposizione infinitiva multoque parcius ex hac causa heredem minoris restituendum esse, dipendente da Scaevola noster aiebat, induce a ritenere che anche questo passaggio sia da ricondurre all’apporto interpretativo di Scevola. Lenel 1889.II, 317, inserisce la testimonianza indiretta di D. 4.4.24.2 tra quelle in cui Scaevola laudatur non indicato libro.

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Commento Nel terzo paragrafo il giurista si sofferma sull’ipotesi in cui il raggiro ai danni del minore sia stato posto in essere da un servo o da un filius familias509. In questo caso, il pretore ordinerà agli esercenti la potestà di restituire ciò che sarà a loro pervenuto grazie al raggiro, o di prestare dal peculio dei sottoposti quanto non sarà a loro pervenuto510. Qualora, nonostante ciò, il minore non venga soddisfatto, il servo autore del raggiro che abbia agito con dolo sarà fustigato o dato a nossa, mentre il figlio sottoposto a potestà sarà condannato per il proprio dolo511. Si prendono quindi in considerazione le modalità attraverso le quali viene effettuata la restitutio in integrum. Ciascuno – spiega il giurista – deve recuperare integro il suo diritto512. Così, se la reintegrazione venga disposta in favore di un minore di venticinque anni che sia stato raggirato nella vendita di un fondo, il pretore deve ordinare al compratore di restituire il fondo con i frutti e di ricevere indietro il prezzo, a meno che allora non l’abbia pagato non ignorando che il minore lo avrebbe dissipato, come accade quando concede del denaro in prestito a questo stesso che è in procinto di consumarlo513. Il principio appena enunciato si

509 Cfr. Di Salvo 1979, 177-178. Sull’impiego del termine circumscriptus, v. Ankum 1992, 44 (= 2007, 236) e supra, 214, nt. 506. Sul testo, v. anche Musumeci 2007b, 485-486, nt. 101 (= 2008, 31, nt. 101). Non persuade l’ipotesi di quest’ultimo autore, secondo cui, in questo passaggio, circumscribere indicherebbe “una condotta non fraudolenta”. Il dolo posto in essere dal servus è considerato distintamente perché ad esso si riconnette un trattamento sanzionatorio più grave, nel caso in cui il minore non venga soddisfatto. La trattazione paolina, del resto, considera separatamente anche l’ipotesi del dolo del filius familias (sed et si filius familias hoc fecit, ob dolum suum condemnabitur). Correttamente, invece, Musumeci 2013, 81 e nt. 51. Sul punto, v. comunque infra, nel testo. 510 Per una diversa interpretazione, cfr. Ankum 1992, 39-40 (= 2007, 231-232), secondo cui: “les mots pater dominusve quod ad eum pervenerit restituere iubendus est doivent être interprétés sans doute comme ‘le juge doit leur donner un iussum à restituer ce qu’ils ont reçu’”. Il testo fa riferimento allo iussus indirizzato dal pretore alla controparte di chi chiedeva la restitutio in integrum e non allo iussus de restituendo emanato dal giudice privato a seguito dell’esercizio dell’actio rescissoria. Sulla questione, cfr. anche infra, nt. 513. 511 Sulla verberatio del servo, v. Garnsey 1970, 139 e nt. 4. Sul testo, cfr. inoltre Di Salvo 1979, 178 e nt. 261 e 184-185. L’autore ritiene di natura glossematica la conclusione del paragrafo sed et si filius familias hoc fecit, ob dolum suum condemnabitur. Secondo lo stesso autore, che dubita della riferibilità del testo al processo formulare: “non è nella prospettiva dell’officium iudicis che qui si elencano provvedimenti restitutori o sanzioni prevalentemente afflittive a carico del servus. Gli uni e le altre rientrano invece nella cognitio magistratuale”. 512 Sulla nozione di restitutio in integrum offerta dal giurista, cfr. Duquesne 1910, 89 e nt. 4. 513 Levy 1951, 367-368 (= 1963, I 450-451), procedendo a un raffronto con Iul. 45 dig., D. 4.4.41, ha ritenuto interpolata la menzione del praetor, in luogo di un originario riferimento del testo paolino al giudice privato. Per una diversa interpretazione, v. Cervenca 1965, 32-47, secondo cui lo iussus pretorio cui fa riferimento il testo avrebbe assunto, probabilmente, la forma di un decreto. Si tratterebbe, in particolare, di: “un invito del praetor a compiere spontaneamente gli atti necessari al fine di ricostituire la situazione giuridica anteriore al verificarsi dell’atto impugnato. È dunque possibile che il praetor intendesse così evitare il giudizio rescissorio, invitando colui che vi sarebbe apparso in qualità di convenuto ad una composizione extragiudiziale della vertenza” (42). L’autore sottolinea, inoltre, gli elementi di diversità rispetto alla fattispecie considerata in Iul. 45 dig., D. 4.4.41. In quest’ultimo frammento si fa riferimento allo iussus de restituendo emanato dal giudice privato a seguito dell’esercizio dell’actio rescissoria. Sulla questione, cfr. anche Fabbrini 1967, 215-216 e nt. 52. Sulla scia di Ernst Levy, Kupisch 1974, 113-114 e Ankum 1992, 39 (= 2007, 231), considerano il riferimento al praetor interpolato in luogo dell’originale riferimento al iudex. Secondo Di Salvo 1979, 182-183 e nt. 282, l’intero frammento paolino “proveniente dalle sententiae… va letto, nel suo testo attuale, in chiave di cognitio extra ordinem”. Quest’ultimo autore osserva che tutto il frammento “ignora la fase rescissoria, tipicamente formulare” (sull’interpretazione proposta da Settimio Di Salvo, v. anche infra, 216, nt. 518). Un’acuta riflessione sulla creazione storiografica delle nozioni di cognitio extra ordinem ed extraordinaria cognitio è in Orestano 1980, 236-247 (= 1981, 469-480 [= 1998, III 1831-1842]). Sul rapporto tra la testimonianza giulianea e quella paolina ritorna Chevreau 2006, 269-270.

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Ivano Pontoriero applica, tuttavia, in modo più parco con riferimento alla vendita perché in questo caso viene pagato un debito, la qual cosa è necessario fare, mentre non è necessario concedere un prestito514. La soluzione giurisprudenziale secondo cui il prezzo di una compravendita deve essere restituito dal minore solo nei limiti dell’arricchimento conseguito è testimoniata anche da Gai. 4 ad ed. prov., D. 4.4.27.1 e da Mod. 6 resp., 26.7.32.4515. Sempre con riferimento alla maggiore cautela da osservare nel disporre la reintegrazione di fronte ai contratti di compravendita, il giurista sottolinea ulteriormente che, anche se l’origine del contratto ha un fondamento tale da dover essere infirmata, se, tuttavia, è stato necessario che il prezzo venisse pagato, il compratore non in ogni caso deve subire il danno (nam et si origo contractus ita constitit, ut infirmanda sit, si tamen necesse fuit pretium solvi, non omnimodo emptor damno adficiendus est)516. Il tema della restituzione del prezzo da parte del minore che ha alienato un fondo ed è stato reintegrato è affrontato anche da PS. 1.9.7, che non fa riferimento al limite dell’arricchimento conseguito e si sofferma sulla compensazione tra gli interessi dovuti dal venditore minore sul prezzo e i frutti che il compratore avrebbe dovuto restituire517. Nel paragrafo conclusivo Paolo ricorda che dall’editto oggetto di commento non scaturisce alcuna specifica azione o cauzione: tutto dipende dalla cognizione del pretore518.

514 V. ancora Musumeci 2006, 520; Id. 2007b, 479, nt. 91 (= 2008, 26, nt. 91); Id. 2013, 201, nt. 97. Sul testo, cfr. anche Finazzi 2010, 742 e 787. 515 Cfr. sul punto Ankum 1979, 7 e nt. 22. Cfr. inoltre le osservazioni di Musumeci 2006, 519-520, che si sofferma sul tema della protezione del minore dissipatore del denaro ricevuto a mutuo, prendendo in considerazione lo stesso Gai. 4 ad ed. prov., D. 4.4.27.1 e Ulp. 31 ad ed., D. 17.1.12.11. Sul ruolo svolto dalla denegatio actionis nella fattispecie esaminata da Paolo, v. anche Id. 2007b, 470-480 (= 2008, 21-27); Id. 2013, 194-202. Sul brano ulpianeo, che nega la possibilità di esperire l’actio mandati contraria contro l’adulescens luxuriosus che abbia conferito mandato di prestare una fideiussione pro meretrice, con la motivazione “quia simile est, quasi perdituro pecuniam sciens credideris”, v. Merotto 2017, 282-283 e nt. 125. 516 Secondo Biondi 1927, 235-236, il testo da nisi si tunc ad adficiendus est sarebbe “un elaborato bizantino”. 517 PS. 1.9.7: Minor adversus emptorem in integrum restitutus pretio restituto fundum recipere potest: fructus enim in compensationem usurarum penes emptorem remanere placuit [Il minore reintegrato nei confronti del compratore, restituito il prezzo, può ricevere indietro il fondo: piacque infatti che i frutti rimanessero presso il compratore in compensazione degli interessi]. Sul testo, cfr. Adame Goddard 1985, 34-37, che, tuttavia, dubita della classicità della regola relativa all’obbligazione del minore reintegrato di corrispondere gli interessi sul prezzo e della regola sulla compensazione. Di diverso avviso è Id. 2010, 248-250, in forza della corretta valorizzazione delle testimonianze offerte in proposito da Gai. 4 ad ed. prov., D. 4.4.27.1 e Ulp. 5 opin., D. 4.4.40.1. L’autore osserva, inoltre, come la regola sulla compensazione rimanderebbe al processo cognitorio, perché in quest’ultimo “se amplía el uso y el concepto de la compensación” (249). 518 La storiografia ha ritenuto l’affermazione contenuta in D. 4.4.24.5 suscettibile di assumere una portata di carattere generale, idonea a descrivere i caratteri della restitutio in integrum globalmente considerata: v. Duquesne 1910, 88-89, secondo cui: “le principe fondamental de la matière, celui qui régit les causes de l’in integrum restitutio comme ses effets, c’est que tout y depend du pouvoir arbitraire du magistrat: totum enim hoc pendet ex praetoris cognitione”. Sul testo, cfr. inoltre Lenel 1927, 116, nt. 13; Carrelli 1938b 61-62 e 81-82; Lauria 1930, 516 e nt. 219; Martini 1960, 72, nt. 3; Di Salvo 1979, 183 e nt. 282. Quest’ultimo autore ritiene estremamente probabile che tutto il frammento D. 4.4.24 si riferisca al sistema processuale della cognitio extra ordinem, mentre il paragrafo conclusivo rappresenterebbe, forse, l’“unica eccezione”. Il testo, secondo lo stesso autore, sarebbe stato “presumibilmente rispettato dalle alterazioni successive per la sua brevità e perché sostanzialmente il prinicipio affermatovi valeva ancora”. Cfr. anche Buigues Oliver 1992, 69. Secondo Musumeci 1997, 40-41, nt. 1, da questo passaggio: “implicitamente si ricava che, proprio in base all’editto sui minori e subordinatamente alla cognitio pretoria, l’adolescente avrebbe potuto ottenere pure una cautio”. Amplius, v. Id. 2007b, 450-453 (= 2008, 6-8); Id. 2013, 176-177.

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Commento F. 155 – D. 4.4.26 Nel principium del frammento il giurista afferma che, dubitandosi dell’esistenza di un mandato speciale quando viene richiesta la restitutio in integrum, sarà possibile porre rimedio alla situazione attraverso la stipulazione che l’interessato ratificherà quanto compiuto (cautio ratam rem dominum habiturum)519. Paolo aggiunge nel primo paragrafo che, se sia assente colui il quale si afferma aver compiuto un raggiro, il suo difensore dovrà prestare stipulazione di garanzia che il giudicato sarà adempiuto (cautio iudicatum solvi)520.

[Su quelli che hanno subito un mutamento di stato (E. 42)] L’editto de capite minutis ci è stato tramandato da Ulp. 11 ad ed., D. 4.5.2.1521. Le previsioni edittali riguardano solo la capitis deminutio minima, non le altre due forme di capitis deminutio522.

Opportunamente, Cannata 2001, 70, ricordando la formulazione dell’editto tradita da Ulp. 11 ad ed., D. 4.4.1.1 (v. supra, 209, nt. 486), sottolinea che: “l’editto non prevedeva un rimedio specifico, riservandosi il magistrato la scelta dei più adatti nella situazione propostagli di volta in volta”. 519 Per la ricostruzione della formula della cautio, cfr. Lenel 1927, 541-542. Sul testo, cfr. Musumeci 2007b, 451, nt. 23 (= 2008, 7, nt. 23); Id. 2013, 177, nt. 25. 520 Sulla cautio iudicatum solvi, v. Lenel 1927, 530-536; La Rosa 1956b, 160-186 e Mantovani 1999, 104-105. 521 Ulp. 11 ad ed., D. 4.5.2.1: Ait praetor: ‘qui quaeve, posteaquam quid cum his actum contractumve sit, capite deminuti deminutae esse dicentur, in eos easve perinde, quasi id factum non sit, iudicium dabo’ [Afferma il pretore: ‘quelli o quelle che, dopo che sia stato con loro concluso un atto o un contratto, si dirà che abbiano subito un mutamento di stato, contro di essi o di esse, come se ciò non sia stato fatto, darò azione’]. L’espressione capite deminutus indica un mutamento della condizione del soggetto, non il suo peggioramento. Il filius familias emancipato va incontro a una capitis deminutio, ma acquista la piena capacità di agire. L’opinione di François Hotman (cfr. Hotomanus 1569, 58-59: “caput plerumque personam significat, numerum in ordine aliquo efficientem; ut cum apud Livium legimus, censa esse civium capita tot”), secondo cui l’espressione capitis deminutio avrebbe indicato il venir meno di una persona all’interno di un gruppo, ha avuto largo seguito. Cfr. de Francisci 1930, 859: “capitis deminutio doveva indicare in antico, la perdita, da parte di un gruppo, di uno dei suoi membri. Ma poiché tali fatti che colpiscono il gruppo mutano anche la posizione giuridica dell’individuo, l’espressione capitis deminutio fu usata in relazione con l’individuo e il termine caput venne a indicare la posizione dell’individuo di fronte al diritto”. Sulla questione, cfr. anche Bretone 1958, 916, che da parte sua, osserva come quest’ultima sia un’“ipotesi che, per quanto suggestiva e logicamente attendibile manca di ogni prova testuale”. Un’ampia discussione critica del problema, incentrata sullo studio della polisemia del termine caput è condotta da Panero Gutiérrez 1976, 1-52 (= 2013, 17-48). Furia 1987, praecipue 128-131, dubita della collocazione dell’editto de capite minutis nell’ambito del titolo edittale dedicato alle reintegrazioni. Secondo l’autrice, “la collocazione sotto il titolo de in integrum restitutionibus dell’ipotesi della capitis deminutio sarebbe […] un’aggiunta successiva rispetto alla fissazione del testo dell’editto, dovuta all’opera di sistemazione della tarda giurisprudenza classica” (131). La tesi non appare del tutto convincente, perché, da un lato, postula che l’elencazione delle cause di in integrum restitutio contenuta in Ulp. 11 ad ed., D. 4.1.1 abbia carattere esaustivo, mentre, dall’altro, svaluta la testimonianza di Paul. 1 sent., D. 4.1.2 = PS. 1.7.2. Che l’enumerazione delle cause di restituzione contenute nella trattazione ulpianea sia “incompleta” è già riconosciuto da Solazzi 1905, 688. 522 Come affermano espressamente Ulp. 11 ad ed., D. 4.5.2pr. e Paul. 11 ad ed., D. 4.5.7.2 [F. 158]. Nelle ipotesi di capitis deminutio media e maxima, veniva concessa un’azione utile in eos, ad quos bona eorum pervenerunt. Sul punto, v. Lenel 1927, 118 e nt. 4.

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Ivano Pontoriero La formula dell’actio utilis rescissa capitis deminutione può essere ricostruita sulla base di Gai. 4.38523. La palingenesi delle testimonianze paoline relative a questo editto non presenta particolari difficoltà: l’ordine dei frammenti stabilito dalla Palingenesia di Lenel è confermato da Krüger524. Per la collocazione di D. 50.16.21 [F. 159] di seguito a D. 4.5.7 [F. 158], soccorre il collegamento tematico con la trattazione contenuta in quest’ultimo frammento525. Per le altre due testimonianze inserite dai commissari di Giustiniano al di fuori della sedes materiae D. 4.5 de capite minutis, si adotta semplicemente il criterio della successione dei frammenti all’interno del Digesto: D. 41.1.42 [F. 161] e D. 44.7.40 [F. 162]. F. 156 – D. 4.5.3 Il giurista ricorda che i figli che seguono il genitore arrogato subiscono un mutamento di stato, trovandosi sotto l’altrui potestà e cambiando famiglia (capitis deminutio minima)526. Paolo rimarca la differenza che sussiste tra l’emancipazione del filius familias e degli altri discendenti, da un lato, e la manumissione del servo, dall’altro. Nel primo caso, si verifica una capitis deminutio, dal momento che nessuno può essere emancipato se non attraverso la ri-

523 Gai. 4.38: Praeterea aliquando fingimus adversarium nostrum capite deminutum non esse. Nam si ex contractu nobis obligatus obligatave sit et capite deminutus deminutave fuerit, velut mulier per coemptionem, masculus per adrogationem, desinit iure civili debere nobis, nec directo intendi potest sibi dare eum eamve oportere; sed ne in potestate eius sit ius nostrum corrumpere, introducta est contra eum eamve actio utilis rescissa capitis deminutione, id est in qua fingitur capite deminutus deminutave non esse [Inoltre talvolta fingiamo che il nostro avversario non abbia subito un mutamento di stato. Se infatti sia obbligato o obbligata verso di noi per contratto, ed egli o ella abbiano subito un mutamento di stato, come ad esempio una donna per compera reciproca (coemptio), un maschio per arrogazione, cessa per diritto civile di essere nostro debitore, e non si può pretendere direttamente che egli o ella ci debbano dare, ma affinché non sia in sua potestà corrompere il nostro diritto, è stata contro di lui o di lei introdotta un’azione utile per rescissione del mutamento di stato, cioè un’azione nella quale si finge che egli o ella non abbiano subito un mutamento di stato]. Sul punto, v. Lenel 1927, 118. Per la datazione della formula menzionata da Gai. 4.38 all’ultima età repubblicana, contro la tesi sostenuta da Di Lella 1984, 182-188, che, sulla base di Ulp. 12 ad ed., D. 15.1.42, prospetta la possibilità di individuare il terminus post quem dell’introduzione dell’editto de capite minutis “in epoca più recente rispetto a quella di Sabino e di Cassio”, v. le convincenti osservazioni di Bianchi 1997, 324-327. 524 D. 4.5.3 [F. 156], D. 4.5.5 [F. 157], D. 4.5.7 [F. 158], D. 50.16.21 [F. 159], D. 4.5.9 [F. 160], D. 41.1.42 [F. 161], D. 44.7.40 [162]. Cfr. Lenel 1889.I, 986; nonché Krüger 1905, 898. 525 La connessione tematica appare a Lenel così evidente che i due frammenti sono collocati all’interno di un unico frammento palingenetico (Lenel 222). Sul punto, v. anche Lenel 1927, 116, nt. 18. 526 Sul testo, cfr. Coli 1922, 51 (= 1973, I 195-196); Gallo 1970, 49, nt. 71; Bretone 1958, 917 e nt. 23; nonché Rabello 1975, 189. Deve essere pure ricordato in questa sede che la tripartizione della capitis deminutio in maxima, media (minor) e minima venne elaborata dalla giurisprudenza tra il secondo e il terzo secolo e, in particolare, da Gaio (Gai. 1.159-162) e da Paolo. Cfr. Paul. 2 ad Sab., D. 4.5.11: Capitis deminutionis tria genera sunt, maxima media minima: tria enim sunt quae habemus, libertatem civitatem familiam. igitur cum omnia haec amittimus, hoc est libertatem et civitatem et familiam, maximam esse capitis deminutionem: cum vero amittimus civitatem, libertatem retinemus, mediam esse capitis deminutionem: cum et libertas et civitas retinetur, familia tantum mutatur, minimam esse capitis deminutionem constat [Vi sono tre generi di mutamento di stato: massimo, medio, minimo; infatti sono tre le cose che abbiamo: la libertà, la cittadinanza, la famiglia. Quando dunque perdiamo tutte queste cose, cioè la libertà, la cittadinanza e la famiglia, consta che il mutamento di stato sia massimo; quando in verità perdiamo la cittadinanza, ma conserviamo la libertà, che il mutamento di stato sia medio; quando si conservano sia la libertà, sia la cittadinanza, ma si cambia solo la famiglia, che il mutamento di stato sia minimo]. I dubbi in passato avanzati sulla genuinità della testimonianza paolina (cfr. in particolare Kaser 1952, 51-53), sono giustamente respinti da Bretone 1958, 917 e nt. 4. Sulla costruzione della teoria dei tre status da parte della storiografia romanistica, v. Schulz 1951, 72 e Siimets-Gross 2010, 217-249.

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Commento conduzione fittizia in una condizione servile527. Diversamente accade quando si manomette un servo, perché quest’ultimo non ha alcun diritto e perciò non può neppure subire un mutamento di stato528. F. 157 – D. 4.5.5 Un mutamento di stato si verifica con la perdita della cittadinanza, come accade quando qualcuno subisca l’interdizione dall’acqua e dal fuoco (capitis deminutio media)529. Il giurista ritorna sul punto in Paul. 15 ad ed., D. 48.1.2 [F. 200], ricordando che la condanna ad una pena capitale comporta la perdita della cittadinanza530. Vanno incontro a un mutamento di stato i disertori (defectores), vale a dire quanti abbandonano quelli al cui comando sono sottoposti e si portano nel novero dei nemici531. A questi devono essere poi aggiunti quanti siano stati dichiarati nemici attraverso un senatoconsulto o una legge che abbiano previsto la perdita della cittadinanza (utique usque eo, ut civitatem amittant)532.

527 Fragili sospetti di interpolazione in relazione al contenuto del primo paragrafo sono avanzati da Coli 1922, 67-68 (= 1973, I 210-211). Sul significato dell’espressione deductus in imaginariam servilem causam, attraverso la quale: “Paolo indica la situazione di essere in mancipio”, cfr. Volterra 1966, 128 (= 1991, II 592); cui adde Corbino 1974, 107, nt. 10. Si soffermano su questo passaggio anche Venturini 2007, 2767 (= 2010, 155 [= 2014, 399]) e D’Alessio 2014, 65 e nt. 77. Sulla categoria delle personae in causa mancipii, v. in generale Corbino 2013, 23-32 (= 2016, 107-118). Sulla considerazione servi loco della persona in mancipio, cfr. Cristaldi 2019a, 159-163. 528 All’interno del titolo D. 4.5 de capite minutis al frammento paolino è stato collegato dai compilatori, con funzione ulteriormente chiarificatrice, il breve Mod. 1 pandect., D. 4.5.4: hodie enim incipit statum habere [oggi infatti comincia ad avere uno stato]. Solo a seguito della manumissione il servo inizia ad essere soggetto di diritto. Sulla motivazione di Paolo quia servile caput nullum ius habet e sul significato del termine ius, v. Gioffredi 1967, 231 (= 1968, 365-366); Robleda 1976, 69 e nt. 311; Negri 2010, 123. La stessa regola è richiamata da I. 1.16.4: Servus autem manumissus capite non minuitur, quia nullum caput habuit [Il servo manomesso poi non subisce alcuna diminuzione di stato, perché non ne ebbe alcuno]. Sulla manumissione del servo, cfr. anche Desserteaux 1919, 23, nt. 4 e 62, nt. 3. 529 Che l’aqua et igni interdictio determini una capitis deminutio media è attestato anche da Gai. 1.128; Gai. 1.161; Ulp. 10.3; Ulp. 11.12; Mod. 12 pandect., D. 38.10.4.11; Afric. 7 quest., D. 46.3.38pr., Pomp. 37 ad Q. Muc., D. 50.7.18(17); Call. 1 de cognit., D. 50.13.5.3; I. 1.16.2. Cfr., sul punto, Brasiello 1934b, 298-299; Albanese 1979, 316 e nt. 15; Crifò 1985b, 136, nt. 80 (= 1986, 30, nt. 80); Torres Aguilar 1994, 752 e nt. 185. La questione relativa agli effetti dell’interdizione dall’acqua e dal fuoco sulla cittadinanza presenta comunque profili problematici in relazione all’età repubblicana, alla luce delle testimonianze di Cic. dom. 78, dom. 82 e Caecin. 100: cfr. in proposito Kelly, G.P. 2006, 45-47; nonché le osservazioni di Mantovani 2009, 49-50, nt. 88 e di Vladimirovna Ledneva 2009, 66 e nt. 22. 530 Paul. 15 ad ed., D. 48.1.2: Publicorum iudiciorum quaedam capitalia sunt, quaedam non capitalia. capitalia sunt, ex quibus poena mors aut exilium est, hoc est aquae et ignis interdictio: per has enim poenas eximitur caput de civitate. nam cetera non exilia, sed relegationes proprie dicuntur: tunc enim civitas retinetur. non capitalia sunt, ex quibus pecuniaria aut in corpus aliqua coercitio poena est [Dei giudizi pubblici certi sono capitali, altri non capitali. Sono capitali quelli in forza dei quali vi è la pena di morte o l’esilio, cioè l’interdizione dell’acqua e del fuoco: attraverso queste pene infatti una persona viene allontanata dalla cittadinanza. E appunto le rimanenti sono dette propriamente non esili, ma relegazioni: allora infatti si conserva la cittadinanza. Non sono capitali quelli in forza dei quali vi è una pena pecuniaria o una qualche coercizione corporale]. 531 Cfr. Perozzi 1928.I, 523 e nt. 3. Per l’esclusione dei defectores dall’applicazione del postliminio, v. Sertorio 1915, 29; Cursi 1996, 224 e nt. 77, 231; Ead. 2001, 311, nt. 60. 532 Cfr. Volterra 1956, 699 (= 1991, II 399). L’autore ricorda che I. 1.16.2 “per effetto delle riforme dell’ultima epoca” aggiunge il caso di chi è in insulam deportatus. Sulla proclamazione a hostis publicus, cfr. in generale Guarino 1972, 95-100 (= 1994, III 387-395). Con particolare riferimento al testo di Paolo e al ruolo del Senato, adde Vincenti 1992, 33 e 127 e Arcaria 2016, 83 e nt. 56.

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Ivano Pontoriero La trattazione passa quindi a considerare gli effetti della capitis deminutio e, in primo luogo, di quella che si verifica senza la perdita della cittadinanza (capitis deminutio minima)533. Tale mutamento di stato non determina il venir meno dei publica iura: così permangono le magistrature, le funzioni di senatore o quelle di giudice ricoperte da chi lo subisca534. F. 158 – D. 4.5.7 Il mutamento di stato non fa venir meno neppure le tutele, salvo quelle che sono conferite a persone sottoposte al diritto altrui535. La capitis deminutio estingue le tutele legittime, non quelle testamentarie e dative. Pertanto, i tutori nominati nel testamento o quelli dati sulla base di una legge, come la lex Atilia e la lex Iulia et Titia, o di un senatoconsulto, saranno, nondimeno, tutori536. Ma le tutele legittime, concesse sulla base della legge delle dodici tavole, sono revocate – spiega Paolo – per la stessa ragione per cui lo sono anche le eredità legittime derivanti dalle stesse: perché sono conferite agli agnati, che smettono di essere tali, avendo cambiato famiglia537. Il giurista ricorda anche che, sulla base di nuove leggi, le eredità e le tutele vengono per lo più conferite in modo che siano designate persone legate da vincoli naturali, come, per esempio, accade per i senatoconsulti che deferiscono l’eredità alla madre e al figlio538.

533 Che il giurista si stia riferendo alla capitis deminutio minima (quae salva civitate accidit) è correttamente evidenziato da Cristaldi 2019b, 141, nt. 38. 534 Questa stessa regola è richiamata in Ulp. 51 ad Sab., D. 4.5.6: Nam et cetera officia quae publica sunt, in eo non finiuntur: capitis enim minutio privata hominis et familiae eius iura, non civitatis amittit [Infatti anche i restanti uffici pubblici non si estinguono nei suoi confronti: il mutamento di stato infatti fa venir meno i diritti privatistici dell’uomo e della sua famiglia, non quelli relativi alla cittadinanza]. Cfr. sul punto Leuregans 1975, 245, nt. 72; Aricò Anselmo 1983, 494-495; Kaser 1986, 67; nonché D’Alessio 2014, 8. Opportunamente, Cristaldi 2019b, 141, nt. 38, ricorda che nella produzione scientifica di Paolo si trovano altre due testimonianze relative al permanere dei publica iura a seguito di capitis deminutio minima: Paul. 4 ad Sab., D. 1.7.3 e Paul. 4 ad Sab., D. 1.14.2. Queste due testimonianze sono collocate da Lenel 1889.I, 1262, sotto la rubrica De adoptionibus, nell’ambito dello stesso frammento palingenetico (Lenel 1692). 535 Secondo Cuiacius 1584, 157-158, deve leggersi quae iure agnationis proximis potissimum, in luogo di quae in iure alieno personis positis. Perozzi 1918, 51, nt. 1 (= 1948, III 195-196, nt. 2), ritiene il periodo iniziale frutto di interpolazione. L’ipotesi è ripresa e sviluppata con nuovi argomenti da Coli 1922, 45-46 (= 1973, I 190-191). Dubita poi della genuinità dell’intero principium del frammento Perozzi 1921, 52 (= 1948, III 254). 536 La regola è attestata anche da Ulp. 11.17. Cfr. sul punto Coli 1922, 4 e nt. 3 (= 1973, I 154 e nt. 3). Per la sostanziale genuinità del passaggio testamento dati vel ex lege vel ex senatus consulto erunt nihilo minus tutores, contro le osservazioni di Perozzi 1921, 52 (= 1948, III 254), v. Solazzi 1925, 41-45 (= 1960, III 112-115). 537 La stessa regola è richiamata da Ulp. 11.9; Ulp. 35 ad ed., D. 26.4.5.5. Cfr. in proposito Desserteaux 1919, 280-281, 297 e nt. 3; Id. 1926a, 511 e nt. 5; Perozzi 1928.I, 508-509, nt. 4; de Francisci 1930, 859; Melillo 2001, 390 (= 2006, 63-64); nonché D’Amati 2004, 72-73 e nt. 215. 538 Il riferimento congiunto alle eredità e alle tutele può essere frutto di una glossa. Cfr. sul punto Lenel 1889.I, 986, nt. 1: “ex novis… et filio Trib. aut certe pro ‘et hereditates et tutelae’ leg. ‘hereditates’”. Per l’interpolazione della chiusa del principium, v. Perozzi 1921, 52 (= 1948, III 254) e Solazzi 1925, 41, nt. 4 (= 1960, III 112, nt. 37). La storiografia più risalente tendeva ad escludere recisamente che le donne potessero esercitare la tutela: cfr. Frezza 1931, 363-385 (= 2000, I 3-25); Id. 1934 (= 2000, I 317-351); Solazzi 1940, 579 (= 1973, 916). Per una decisa rivalutazione della genuinità della testimonianza di Nerat. 3 regul., D. 26.1.18, v. Crifò 1964, 126-130 e Masiello 1979, praecipue 11-20. Nella più recente letteratura, cfr. anche Viarengo 2009, 141 e Ead. 2015, 185-186. Sui rapporti tra adgnatio e cognatio, v. Paul. lib. sing. de grad. et adfin. et nomin. eor., D. 38.10.10.4: Inter adgnatos igitur et cognatos hoc interest quod inter genus et speciem: nam qui est adgnatus, et cognatus est, non utique autem qui cognatus est, et adgnatus est: alterum enim civile, alterum naturale nomen est [Tra agnati dunque e cognati intercorre la differenza che vi è tra genere e specie: infatti chi è agnato, è anche cognato, non in ogni caso invece chi è cognato, è anche agnato, l’una è una denominazione civile, l’altra naturale]. Sulle previsioni contenute nei senatoconsulti Tertulliano e Orfiziano, v. in generale Meinhart 1967, 11-27; adde Giunti 2012, 369-379 (= 2014, 130-143).

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Commento Nel primo paragrafo del frammento, il giurista ricorda che le obbligazioni per le ingiurie e quelle che scaturiscono dalle azioni concesse a seguito del compimento di un delitto cum capite ambulant, vale a dire, danno vita a una responsabilità che segue la persona dell’esercente la potestà sull’autore della condotta riprovevole, contro la quale saranno, dunque, esperibili le relative azioni539. Nel paragrafo successivo la trattazione precisa che il mutamento di stato conseguente alla perdita della libertà (capitis deminutio maxima) non dà luogo a reintegrazione nei confronti del servo540. La motivazione fornita è che nemmeno in forza della giurisdizione pretoria il servo si obbliga in modo tale che vi sia un’azione contro di lui541. Paolo riporta quindi l’opinione di Giuliano, secondo cui deve essere concessa un’azione utile contro il dominus, e, se la difesa del servo non venga assunta per l’intero, si deve permettere l’immissione nel possesso dei beni che il servo avrebbe avuto se non avesse subito la capitis deminutio542. Infine, il rimedio della reintegrazione, fondato sull’aequitas praetoria (nulla restitutionis aequitas), non trova applicazione nei confronti di chi, dopo aver perso i beni e la cittadinanza, si reca in esilio privo di ogni cosa543. F. 159 – D. 50.16.21 Il frammento è stato collocato dai compilatori al di fuori della sedes materiae, in D. 50.16

539 La regola noxa caput sequitur è richiamata dal giurista anche nel precedente Paul. 6 ad ed., D. 2.9.2pr.: Sed alio iure utimur. nam ex praecedentibus causis non liberatur noxae deditus: perinde enim noxa caput sequitur, ac si venisset [Ma facciamo uso di un diverso diritto. Infatti chi è dato a nossa non è liberato da precedenti cause: la responsabilità da delitto (noxa) infatti segue la persona, così come se fosse stato venduto]. Le altre testimonianze delle fonti sono numerose: Gai. 4.77, PS. 2.31.9, Ulp. 41 ad Sab., D. 47.1.1.2, Paul. 9 ad Sab., D. 47.2.18, Ulp. 41 ad Sab., 47.2.41.2. Su questa regola, v. Buckland 1908, 106; nonché Longo 2003, 2-3, nt. 3. Sul significato del termine caput nell’espressione noxa caput sequitur si sofferma, con argomentazioni persuasive, Sirks 2013, 81108. Il principio secondo cui la responsabilità ex delicto non viene meno a seguito di capitis deminutio è testimoniato anche da Ulp. 12 ad ed., D. 4.5.2.3: Nemo delictis exuitur, quamvis capite minutus sit [Nessuno viene liberato dai delitti, nonostante abbia subito un mutamento di stato]. Cfr. sul punto Duquesne 1910, 195, nt. 1. La regola noxa caput sequitur in età tardoantica perde il suo legame con il tema della responsabilità per la commissione di delitti da parte da schiavi e viene elevata a principio generale. Cfr. Nov. Maior. 7.11 (a. 458): Numquam curiae a provinciarum rectoribus generali condemnatione multentur, cum utique hoc et aequitas suadet et regula iuris antiqui, ut noxa tantum caput sequatur, ne propter unius fortasse delictum alii dispendiis adfligantur [Giammai le curie vengano multate dai governatori delle province con una condanna genericamente rivolta a tutti, perché senz’altro esorta a ciò sia l’equità sia la regola del diritto antico, che la responsabilità segua solamente la persona, affinché gli altri non vengano per caso afflitti da dispendi per il delitto di uno solo]. Sul punto, v. le osservazioni di Stein 1966, 114. 540 Cfr. Desserteaux 1926a, 475 e nt. 4 e 504-505 e nt. 1; Id. 1926b, 192-193, nt. 3; nonché D’Amati 2004, 7677. 541 Cfr. Gai. 1 ad ed. prov., D. 50.17.107: Cum servo nulla actio est [Non vi è alcuna azione contro il servo]. Sul difetto di capacità processuale del servo, con l’eccezione delle controversie attinenti a questioni di status, cfr. Pugliese 1963, 280-282; Robleda 1976, 70 e nt. 317 e, in una prospettiva sistematica di ampio respiro, Bürge 2010, 372-377. 542 Cfr. il meccanismo descritto per le obbligazioni ex contractu delle persone in manu o in mancipio dal testo, gravemente lacunoso, di Gai. 4.80. Sulla testimonianza di Gaio, v. D’Amati 2009. Sul brano paolino, cfr. Desserteaux 1926b, 195; Buigues Oliver 1992, 75-76; nonché D’Alessio 2014, 144-146 e 157. 543 Cfr. Desserteaux 1926a, 475 e nt. 4. Sul testo, v. anche Carrelli 1936, 145. Che la restitutio in integrum trovi fondamento nell’equità del pretore è affermazione ricorrente nelle fonti. Per una valutazione sul significato assunto dal termine aequitas nelle testimonianze dell’antichità, v. Mantovani 2017, 27-55.

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Ivano Pontoriero de verborum significatione544. Il giurista sottolinea che, di fronte a un provvedimento imperiale di reintegrazione nei ‘bona’, si considerano tra questi ricomprese anche le obbligazioni545. F. 160 – D. 4.5.9 Il breve frammento è stato collegato dai compilatori al precedente Gai. 4 ad ed. prov., D. 4.5.8, in cui si precisa che le obbligazioni quae naturalem praestationem habere intelleguntur, non si estinguono a seguito di un mutamento di stato, perché la civilis ratio naturalia iura corrumpere non potest546. Così, ricorda ancora Gaio, l’actio rei uxoriae, dal momento che è in bonum et aequum concepta, si conserva anche dopo la capitis deminutio547. Attraverso la connessione creata dai compilatori, il frammento paolino chiarisce, ulteriormente, che la donna potrà esperire questa azione una volta che sia stata emancipata548.

544 Sull’origine della rubrica, v. Soubie 1960, 161-163. Circa il contenuto e la funzione svolta dal titolo D. 50.16 all’interno del sistema della compilazione giustinianea, cfr. in generale Marrone 1994b, 483-596 (= 2003, I 529542); Id. 1995, 169-189 (= 2003, II 563-583); Penta 1998, 357-389; Marrone 1998, 43-59 (= 2000, 37-52 [= 2003, I 511-526]); nonché Dell’Oro 2001, 5-13 (= 2015, 439-446). 545 Vale a dire i debiti e i crediti: cfr. in particolare Desserteaux 1927, 303-304 e Zilletti 1968, 67-68, che richiama anche il conforme orientamento interpretativo di carattere estensivo ricavabile dal secondo periodo di Papin. 16 resp., D. 48.23.3. 546 Gai. 4 ad ed. prov., D. 4.5.8: Eas obligationes, quae naturalem praestationem habere intelleguntur, palam est capitis deminutione non perire, quia civilis ratio naturalia iura corrumpere non potest. itaque de dote actio, quia in bonum et aequum concepta est, nihilo minus durat etiam post capitis deminutionem [Quelle obbligazioni, che si considerano avere una prestazione naturale, è chiaro che non periscono per un mutamento di stato, perché la ragione civile non può corrompere i diritti naturali. E così l’azione di dote, dal momento che è concepita sulla base del buono e dell’equo, nondimeno dura anche dopo il mutamento di stato]. Sul principio enunciato da Gaio, v. Cornioley 1964, 134-138. Sulla dialettica tra ratio naturalis e ratio civilis, che emerge anche in Gai. 1.158 (nel testo istituzionale il giurista precisa che la capitis deminutio non fa venir meno il ius cognationis: quia civilis ratio civilia quidem iura corrumpere potest, naturalia vero non potest [perché la ragione civile può corrompere certamente i diritti civili, ma non quelli naturali]), cfr. Casavola 1976, 163-173 (= 1980, 54-71 [= 2011, 43-56]); cui adde le osservazioni di Talamanca 1977, 294-298. 547 Secondo Lauria 1952, 104, il testo prenderebbe in considerazione la “capitis deminutio della ex moglie”. Burdese 1955, 113-114, ritiene frutto dell’intervento dei compilatori il collegamento tra il regime dell’azione e l’affermazione iniziale del frammento, alla luce di quanto risulta da (Imp. Iust. A. Demostheni pp., a. 529) C. 5.12.30pr. e da Sch. 1 a Bas. 46.2.7 (= Scheltema, Holwerda, B VII, 2742). Secondo lo stesso autore, nel sistema della compilazione, in ragione del collegamento operato dai commissari con il successivo frammento D. 4.5.9, il testo si riferirebbe “alla capitis deminutio della donna creditrice”. Sulla questione, v. anche Longo 1962, 193196. Alberto Burdese ritorna sul testo in Id. 1972, 510, laddove osserva: “non sembra comunque possibile accertare a quale tipo di capitis deminutio, e se del debitore o del creditore, si riferisse il brano, che nel contesto giustinianeo, come si evince dal seguente § 9, riguarda la capitis deminutio minima della donna creditrice, né precisare quindi a qual fine fosse indirizzato”. Sul significato assunto dall’impiego dell’espressione in bonum et aequum concepta nell’argomentare gaiano e in difesa della classicità del testo, cfr. le convincenti argomentazioni di Varvaro 2006, 76-82 e 270, secondo cui il riferimento al bonum et aequum sarebbe stato contenuto nell’intentio della formula processuale. Mario Varvaro ritiene, inoltre, che il testo di Gaio prendesse in considerazione la capitis deminutio del marito debitore. 548 Lenel 1889.I, 986, così restituisce il senso del frammento: [Rei uxoriae actio durat etiam post capitis deminutionem], ut quandoque emancipata agat. Che la figlia emancipata possa agire per la restituzione della dote è confermato da Paul. 5 quaest., D. 24.3.44pr., Paul. 16 quaest., D. 21.2.71, Ulp. 33 ad ed., D. 24.3.22.5. Si veda in proposito Albanese 1979, 334 e nt. 55. Sui frammenti D. 4.5.8 e 9, cfr. inoltre le osservazioni di Knütel 1994b, 259-261; nonché Varvaro 2006, 75.

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Commento F. 161 – D. 41.1.42 Il frammento è stato collocato dai compilatori al di fuori della sedes materiae, nel titolo D. 41.1 de adquirendo rerum dominio549. Paolo ricorda che l’eredità, in presenza di una sostituzione, non può essere annoverata tra i beni del sostituto prima che se ne verifichino i presupposti550. F. 162 – D. 44.7.40 Anche questo frammento è stato inserito dai compilatori al di fuori della sedes materiae, nel titolo D. 44.7 de obligationibus et actionibus551. Il giurista precisa come si considerino azioni concernenti le eredità anche quelle relative ai legati, sebbene questi ultimi abbiano avuto inizio dalla persona dell’erede552.

LIBRO XII

Nel dodicesimo libro la trattazione del giurista si sofferma sugli editti quod eo auctore qui tutor non fuerit (gestum [?]) esse dicatur (E. 43), ex quibus causis maiores viginti quinque annis in integrum

549

La rubrica di D. 41.1 deriva dal sistema di Sabino: cfr. Soubie 1960, 77 e 187. Lenel 1889.I, 986, nt. 2; Id. 1927, 117, nt. 6, inquadra il testo nell’ambito della trattazione relativa all’indefensio del convenuto in caso di esercizio dell’actio utilis rescissa capitis deminutione (Gai. 3.84), che avrebbe giustificato la missio in bona dei creditori (su tale missio in bona, v. Pérez Alvarez 2011, 63-64). Cfr. Gai 3.84: […] et si adversus hanc actionem non defendantur, quae bona eorum futura fuissent, si de alieno iuri non subiecissent, universa vendere creditoribus praetor permittit [(…) e se contro questa azione non si difendano, i beni che sarebbero stati loro, se essi non si fossero assoggettati al potere altrui, il pretore permette ai creditori di venderli tutti]. Cfr. inoltre Bonfante 1893, 186, nt. 2 (= 1921, III 563, nt. 2), il quale osserva icasticamente a proposito del frammento in esame: “un semplice diritto di aspettativa, come la sostituzione extra bona nostra est”. 551 Il titolo, che riflette la concezione secondo cui le azioni derivano dalle obbligazioni (Paraph. 3.13pr.), non è riconducibile al sistema dell’editto, ma di fattura giustinianea. Cfr. Soubie 1960, 137-141 e 188. Sul punto, v. anche Pontoriero 2018, 165 e nt. 281. 552 Lenel 1889.I, 986, nt. 3, riferisce il testo al principio ipse adrogator heres fit, attestato da Gai. 3.84. Il padre adottivo o il coemptionator, mentre non subentrano nei debiti personali dell’adottato o della donna che subisce la conventio in manum, sono vincolati dalle obbligazioni scaturenti dall’eredità già deferita all’adottato o alla donna, perché divengono essi stessi eredi. Sul regime illustrato da Gaio, v. in particolare Gandolfi 1957, 910-920 (con riferimento al testo di Paolo e alle obbligazioni scaturenti dal legato per damnationem, 917 e nt. 30; nonché Voci 1967, 664, nt. 17). Secondo Gandolfi: “la adrogatio e la conventio in manum, quali forme di successio alterius generis, sono di formazione giurisprudenziale. E il regime dei rapporti patrimoniali conseguente ad esse, rivela questa natura”. La disciplina dei rapporti patrimoniali conseguente alla adrogatio e alla conventio in manum risente della combinazione e dell’interferenza di principi diversi: le regole relative alla capitis deminutio “come perdita di uno status familiae” e “i principi della successio per il subingresso in una diversa sfera giuridica patrimoniale in seguito all’acquisto di un nuovo status, delle norme riguardanti i rapporti fra pater e sottoposti, perché il nuovo status era appunto quello di filius familias”. Ciò permette di trovare una spiegazione per quel regime “apparentemente strano e anomalo che Gaio ci descrive”. Sulle successioni conseguenti a capitis deminutio si sofferma Scherillo 1957, 605-606 (= 1995, II.1 174-175). Su Gai. 3.84, v. anche Coppola Bisazza, 2008, 42 e nt. 59 e Arces 2020, 30. 550

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Ivano Pontoriero restituuntur (E. 44), de lite restituenda (E. 45), de alienatione iudicii mutandi causa facta (E. 46), de restitutione heredum (E. 47 [?])553.

[Ciò che si dica essere stato (fatto [?]) con l’autorizzazione di chi non sia stato tutore (E. 43)] La restituzione di questa rubrica edittale e la definizione dell’ambito di applicazione delle relative previsioni hanno, specie in passato, suscitato qualche difficoltà554. Lenel, nella prima e nella seconda edizione della sua opera di ricostruzione dell’editto, si è avvalso della rubrica di D. 27.6 quod falso tutore auctore gestum esse dicatur, avanzando, tuttavia, il dubbio che l’impiego del participio gestum fosse il risultato dell’attività dei compilatori555. Secondo Lenel, l’editto prenderebbe in considerazione, nella sua prima clausola (Ulp. 12 ad ed., D. 27.6.1.2 e 6, Paul. 12 ad ed., D. 27.6.2 [F. 163]), solo la restitutio in integrum disposta a seguito dell’estinzione di un’azione conseguente a una litis contestatio effettuata falso tutore auctore556. La tesi formulata da Lenel in relazione a questa prima clausola edittale appare ancora oggi pienamente condivisibile, per l’impiego del termine actor nei verba edicti557. Questo stesso problema, di carattere squisitamente processuale, secondo la ricostruzione proposta da Lenel, sarebbe stato affrontato anche dalla seconda clausola, contenente la pro-

553 Deve essere segnalato in questa sede che Lenel 1889.I, 987-988, fa precedere la trattazione relativa all’editto sui maggiori di venticinque anni a quella relativa agli atti compiuti falso tutore auctore. Id. 1889.II, 1249, nt. 2, segnala la necessità di invertire l’ordine delle due rubriche edittali (la correzione è pure segnalata in Praef., III.1) sulla base di quanto risulta dal trentesimo e dal trentunesimo dei libri ad edictum di Pomponio (v. Id. 1889.II, 23: la trattazione dell’editto relativo al falsus tutor nel trentesimo e nel trentunesimo libro ad edictum del giurista di età antoniniana precede quella concernente la restitutio in integrum disposta in favore dei maggiori di venticinque anni). Sul punto, v. anche Id. 1927, 119, nt. 1. 554 Una dettagliata ricostruzione del dibattito della storiografia novecentesca sulle previsioni contenute in questa rubrica è offerta da Spina 2018, 190-195. 555 La rubrica di D. 27.6 è utilizzata anche da Rudorff 1869, 62 e nt. 1. L’impiego dell’espressione tutore auctore trova riscontro, oltre che nella rubrica di D. 27.6, anche nelle Notae iuris di Valerio Probo (Prob. 5.17: T. A. tutore auctore [ed. Baviera 1940, 547]). Cfr. Lenel 1883, 99; nonché Id. 1907, 115. 556 Ulp. 12 ad ed., D. 27.6.1.2: ‘Quod eo auctore’ inquit ‘qui tutor non fuerit’. verbis edicti multa desunt: quid enim si fuit tutor, is tamen fuit qui auctoritatem accommodare non potuit? puta furiosus vel ad aliam regionem datus [‘Per il fatto che con l’autorizzazione’ dice ‘di chi non sia stato tutore’. Alle parole dell’editto mancano molte cose: che dire infatti se vi fu un tutore, ma costui tuttavia non avrebbe potuto prestare la sua autorizzazione? Come per esempio un furioso o uno nominato per un’altra regione]. Cfr. inoltre Ulp. 12 ad ed., D. 27.6.1.6: Ait praetor: ‘si id actor ignoravit, dabo in integrum restitutionem’. scienti non subvenit, merito, quoniam ipse se decepit [Afferma il pretore: ‘se l’attore lo ha ignorato, concederò la reintegrazione’. Non viene in aiuto di chi ne è a conoscenza, a ragione, dal momento che questo ha tratto in errore se stesso]. 557 Rudorff 1869, 62, ipotizza per la prima clausola la seguente ricostruzione: Quod eo auctore, qui tutor non fuerit, gestum esse dicatur, si id actor ignoraverit, dabo in integrum restitutionem. La ricostruzione proposta da Rudorff va incontro ad alcuni rilievi critici: le parole gestum esse non sono attestate dalle citazioni letterali dell’editto contentute nei commenti giurisprudenziali e non risulta chiara la menzione dell’actor con riferimento all’attività indicata come gestum esse. Più in generale, risultano piuttosto indefiniti i rapporti tra la prima clausola relativa alla restitutio in integrum e la seconda contenente la promessa di un’actio in factum (v. infra, nel testo).

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Commento messa di un’azione in factum diretta al conseguimento del quanti ea res erit, nel caso in cui un tutore avesse prestato la propria auctoritas dolosamente (Ulp. 12 ad ed., D. 27.6.7pr.)558. La tesi secondo la quale anche il campo di applicazione di questa seconda clausola sarebbe stato limitato all’estinzione dell’azione derivante dalla litis contestatio effettuata falso tutore auctore suscita, invece, qualche perplessità. Secondo Lenel, ai pregiudizi derivanti dall’attività negoziale posta in essere falso tutore auctore, avrebbe avuto riguardo un’altra clausola edittale, commentata da Ulpiano nel trentacinquesimo libro ad edictum559. Un’ulteriore fragile prova della limitatezza dell’ambito di applicazione di questa clausola è ravvisata da Lenel nei commenti giurisprudenziali e, in particolare, nella testimonianza di Ulp. 12 ad ed., D. 27.6.7.3, in cui Ulpiano riporta l’opinione di Pomponio, secondo la quale, nella determinazione del quanti ea res erit, si sarebbe dovuto tenere conto anche delle spese affrontate dell’attore per ottenere la reintegrazione560. Che il campo di applicazione di questa seconda clausola sia limitato alle conseguenze della litis contestatio effettuata falso tutore auctore non risulta in modo univoco né dalle parole delle promessa edittale, né dai commenti giurisprudenziali. L’estensione dell’ambito di applicazione dell’azione in factum all’attività negoziale posta in essere falso tutore auctore potrebbe, forse, essere confermata dal riferimento ai contraenti contenuto nella laudatio edicti che si legge in Ulp. 12 ad ed., D. 27.6.1pr.561. Una modifica nella restituzione della rubrica edittale è stata da Lenel proposta nel 1927, aderendo alla tesi, nel frattempo formulata da Siro Solazzi, secondo cui l’espressione falsus tutor sarebbe stata di conio giustinianeo562. Se la nuova restituzione della parte iniziale della rubrica quod eo auctore qui tutor non fuerit appare giustificata dalla formulazione dei verba edicti traditi da Ulp. 12 ad ed., D. 27.6.1.2, deve essere comunque sottolineato che la storiografia più recente ha abbandonato la tesi secondo

558 Ulp. 12 ad ed., D. 27.6.7pr.: Novissime praetor ait: ‘in eum qui, cum tutor non esset, dolo malo auctor factus esse dicetur, iudicium dabo, ut quanti ea res erit, tantam pecuniam condemnetur’ [Da ultimo il pretore afferma: ‘Nei confronti di chi, non essendo tutore, si dirà che abbia prestato l’autorizzazione con dolo, darò l’azione, affinché venga condannato a dare tanto denaro quanto sarà il valore della controversia’]. 559 Cfr. Ulp. 35 ad ed., D. 27.6.11. L’esistenza di questa seconda actio in factum è quantomai dubbia: cfr. Mancaleoni 1906, 104-105. 560 Cfr. Lenel 1883, 99 e nt. 5; Id. 1907, 115 e nt. 15. Sul testo e per l’interpretazione di D. 27.6.7.3, v. per tutti Stolfi 2002.II, 277. 561 Ulp. 12 ad ed., D. 27.6.1pr.: Huius edicti aequitas non est ambigua, ne contrahentes decipiantur, dum falsus tutor adhibetur [È indubbia l’equità di questo editto, affinché i contraenti non vengano ingannati, quando venga impiegato un falso tutore]. Sull’illustrazione della ratio della previsione e sul ricorrente richiamo al fondamento equitativo dell’editto, v. Stolfi 2002.II, 275, nt. 122. 562 Cfr. in particolare Solazzi 1924b, 150-152, che, a sua volta, aderendo alla tesi di Lenel circa la limitazione dell’editto alla “consumazione processuale”, propone la seguente restituzione: quod eo auctore, qui tutor non fuerit, iudicium acceptum esse dicatur. Solazzi ritiene che “nel concetto di falsus tutor” sia “implicito il dolo”, osservando, al contempo, come la clausola edittale relativa alla restitutio in integrum e tradita da Ulp. 12 ad ed., D. 27.6.1.2 (ma v. anche Ulp. 12 ad ed., D. 27.6.1.6 e Paul. 12 ad ed., D. 27.6.2) il dolo del tutore non fosse contemplato, risultando invece sufficiente per consentire l’accesso alla tutela restitutoria la condizione di ignoranza dell’attore. Lenel 1927, 119, sopprimendo il riferimento al falsus tutor, così ricostruisce la formulazione della rubrica: quod eo auctore qui tutor non fuerit (gestum [?]) esse dicatur. I sospetti circa la non classicità del riferimento al falsus tutor sono accolti da Soubie 1960, 57 e nt. 14, che richiama l’opinione di Lenel.

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Ivano Pontoriero cui l’espressione falsus tutor sarebbe stata creata dai giustinianei. Tale espressione era correntemente impiegata dalla giurisprudenza di età severiana, come dimostrano la già considerata laudatio edicti in Ulp. 12 ad ed., D. 27.6.1pr. e l’ampia definizione formulata da Paul. 10 resp., D. 50.16.221563. In relazione alla proposta ricostruttiva leneliana e circa i dubbi avanzati dall’autore sull’impiego del participio gestum, rimane inoltre da osservare come il termine, pur non presente nei verba edicti, venga comunque impiegato dai commenti giurisprudenziali con riferimento all’attività posta in essere dal tutore564. Alla luce di questa osservazione, dovrebbe essere ritenuta poco probabile l’ipotesi che il termine gestum sia stato introdotto dai giustinianei565. L’impiego di tale termine potrebbe essere stato considerato idoneo a ricomprendere sotto una rubrica unitaria due diverse clausole edittali, la seconda delle quali probabilmente introdotta in tempi più recenti e con ambito di applicazione esteso all’attività negoziale realizzata falso tutore auctore566. In questa prospettiva, non sembrano sussistere particolari ostacoli ad accettare nella ricostruzione della rubrica edittale anche la formulazione tradita da D. 27.6 quod falso tutore auctore gestum esse dicatur567. La palingenesi delle testimonianze paoline relative a questa rubrica non presenta profili problematici, perché tutte sono inserite nella sedes materiae568. F. 163 – D. 27.6.2 La trattazione si sofferma sulle parole si id actor ignoraverit contenute nell’editto oggetto di commento (‘Si id’, inquit, ‘actor ignoraverit’)569. Paolo ricorda l’interpretazione estensiva proposta da Labeone in relazione al requisito dell’ignoranza da parte dell’attore stabilito dal pretore570. Secondo lo scolarca proculiano, la clausola avrebbe trovato applicazione anche se l’attore fosse stato informato di trovarsi di fronte un falso tutore, ma in buona fede, non avesse dato credito alla notizia (Labeo: et si dictum sit ei et bona fide non crediderit)571.

563 Paul. 10 resp., D. 50.16.221: Paulus respondit falsum tutorem eum vere dici, qui tutor non est, sive habenti tutor datus est sive non: sicut falsum testamentum, quod testamentum non est, et modius iniquus, qui modius non est [Paolo ha risposto che in verità si dice falso tutore chi non è tutore, sia stato dato il tutore a chi lo aveva o a chi non lo aveva; così falso testamento, quello che non è un testamento, e moggio iniquo, quello che un moggio non è]. Per la genuinità di questo testo, v. Spina 2018, 190; Ead. 2019, 146, nt. 3. 564 Cfr. Ulp. 12 ad ed., D. 27.6.1.3 e 5. Su questi testi, in cui Ulpiano richiama l’apporto interpretativo di Pomponio, cfr. Stolfi 2002.II, 275-278 e Spina 2018, 223-228. 565 Sull’ambito di applicazione delle previsioni contenute sotto questa rubrica, v. Ferrini 1953, 738-739, il quale, dopo aver richiamato le previsioni della prima clausola, osserva: “L’interpretazione estese però l’editto anche agli altri casi, in cui il terzo ricevesse nocumento per la nullità da lui non conosciuta dell’auctoritas”. La posizione di Ferrini è ripresa da Albanese 1979, 508, nt. 407: “pare certo che già il diritto classico avesse esteso la previsione edittale ai negotia gesta”. 566 Come potrebbe essere dimostrato dall’impiego dell’avverbio novissime in Ulp. 12 ad ed., D. 27.6.7pr. 567 Come si è visto supra, 224 nt. 555, il sintagma tutore auctore è attestato dalle Notae iuris di Valerio Probo. 568 D. 27.6.2 [F. 163], D. 27.6.4 [F. 164], D. 27.6.6 [F. 165], D. 27.6.8 [F. 166]. Cfr. Lenel 1889.I, 988; nonché Krüger 1905, 898. 569 V. in proposito Lenel 1927, 119, nt. 8. Sul testo, cfr. anche Mancaleoni 1906, 104. Il giurista prende in considerazione gli stessi verba edicti traditi da Ulp. 12 ad ed., D. 27.6.1.6. Cfr. supra 224 e nt. 556. Sul punto, v. le osservazioni di Spina 2018, 211. 570 Circa il carattere estensivo dell’interpretazione proposta dallo scolarca proculiano, v. Brutti 1973.II, 363. 571 Spina 2018, 211-212.

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Commento F. 164 – D. 27.6.4 Il commento del giurista prende in considerazione ancora il requisito dell’ignoranza da parte dell’attore572. Viene precisato che sarà invece prestato soccorso al minore di venticinque anni, anche nel caso in cui quest’ultimo abbia avuto conoscenza dell’insussistenza della potestà tutelare (Minori viginti quinque annis succurretur, etiamsi scierit)573. I compilatori di Giustiniano fanno seguire a questo frammento Ulp. 12 ad ed., D. 27.6.5, in cui si precisa ulteriormente che la conoscenza dell’insussistenza della potestà tutelare non nuoce nel caso in cui qualcuno sia stato costretto dal pretore a iudicium accipere574. F. 165 – D. 27.6.6 Ancora in ordine al requisito edittale dell’ignoranza da parte dell’attore, il giurista precisa che non deve essere valutata la conoscenza da parte del pupillo, ma quella del suo tutore (Pupilli scientia computanda non est, tutoris eius computanda est)575. In ogni caso, anche se è stata prestata stipulazione di garanzia a favore del pupillo, è preferibile disporre la reintegrazione, in considerazione dell’incerto esito della stipulazione (utique etsi pupillo cautum sit, melius dicitur rem suam restitui pupillo quam incertum cautionis eventum eum spectare). Paolo riferisce che l’opinione espressa è conforme anche a un responso emanato da Giuliano, nell’ipotesi in cui il pupillo fosse stato altrimenti circonvenuto (quod et Iulianus, si alias circumventus sit pupillus, respondit)576.

572 Nella trama espositiva del Digesto, il testo è preceduto da Ulp. 12 ad ed., D. 27.6.3: Plane si is sit qui auxilio non indiget, scientia ei non nocet, ut puta si pupillus cum pupillo egit: nam cum nihil actum sit, scientia non nocet [Chiaramente se questo sia uno che non ha bisogno di aiuto, la conoscenza non gli nuoce, come per esempio se un pupillo ha agito contro un pupillo: infatti non essendo stato compiuto nulla, la conoscenza non nuoce]. Ulpiano precisa che la conoscenza dell’insussistenza della potestà tutelare non nuoce a chi non ha alcun bisogno della tutela pretoria, come accade nel caso in cui un pupillo abbia agito contro un altro pupillo. 573 Sul testo, v. Spina 2018, 230. Secondo l’autrice, il brano paolino costituirebbe testimonianza dell’“estensione della protezione giudiziaria anche oltre i limiti canonici della tutela, per ricomprendervi le situazioni di curatela… per rispondere a un’esigenza di protezione e di soccorso nei riguardi del minore”. L’interpretazione offerta non appare del tutto condivisibile. Paolo si sta soffermando sul presupposto dell’ignoranza dell’attore in ordine alla condizione di chi tutor non fuerit (Ulp. 12 ad ed., D. 27.6.1.2), previsto dall’editto ai fini della concessione del rimedio restitutorio (Ulp. 12 ad ed., D. 27.6.1.6 e Paul. 12 ad ed., D. 27.6.2). Il minore di venticinque anni pubere poteva stare personalmente in giudizio – anche senza l’assistenza di un curatore (di ciò costituisce prova irrefutabile il rescritto [Imp. Alex. A. Marcianae, s.d.] C. 2.24[25].2: cfr. per tutti Cervenca 1972, 248-249 e nt. 62 [in relazione all’ulteriore testimonianza offerta da Macer 2 de appell., D. 4.1.8, v. anche 277-278] e Alessandrì 2020, 133-134 e nt. 130; sulla capacità del minore di stare in giudizio, v. anche in generale Pugliese 1946, 273-274; Id. 1948, 292293; Id. 1963, 303-304) – e proprio a questa ipotesi sembra riferirsi il testo paolino, che considera la consapevolezza dell’attore minore in ordine all’insussistenza della potestà tutelare sull’impubere a suo tempo convenuto in giudizio come irrilevante ai fini della concessione del rimedio della reintegrazione. Anche in questo caso, come nel precedente D. 27.6.2, Paolo adotta un’interpretazione idonea ad ampliare la sfera di tutela riconosciuta dall’editto. Deve essere conclusivamente osservato che se il minore fosse stato rappresentato in giudizio da un curatore sarebbe stato necessario valutare la consapevolezza di quest’ultimo, come sembrerebbe potersi evincere dalla successiva testimonianza Paul. 12 ad ed., D. 27.6.6. 574 Ulp. 12 ad ed., D. 27.6.5: Interdum tamen etsi scientia noceat, tamen restitutio facienda erit, si a praetore compulsus est ad iudicium accipiendum [Talvolta, tuttavia, anche se la conoscenza nuoccia, la reintegrazione dovrà nondimeno essere disposta, se è stato costretto dal pretore ad accettare il giudizio]. 575 Spina 2018, 230. 576 Lenel 1889.I, 325, colloca congetturalmente la testimonianza di Giuliano sotto la rubrica De minoribus, preceduta da una crux (†). Sulla posizione di Giuliano, v. Spina 2018, 230-233.

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Ivano Pontoriero F. 166 – D. 27.6.8 Il giurista sta commentando la clausola tradita da Ulp. 12 ad ed., D. 27.6.7pr., attraverso la quale il pretore promette un’azione diretta al quanti ea res erit contro il falso tutore che ha dolosamente prestato la propria autorizzazione577. Paolo affronta l’ipotesi in cui la condotta oggetto di riprovazione sia stata realizzata da una pluralità di compartecipi578. Il giurista, richiamando l’opinione espressa in proposito da Sabino, sottolinea che, nel caso in cui sia stato convenuto in giudizio uno dei compartecipi e la pretesa dell’attore non sia stata integralmente soddisfatta, non dovrà essere denegata l’azione diretta a conseguire il valore residuo nei confronti dei rimanenti (et ideo si nihil aut non totum servatum sit, in reliquos non denegandam in id quod deest Sabinus scribit)579.

[Per quali cause i maggiori di venticinque anni vengono reintegrati (E. 44)] Questa rubrica contiene l’editto tradito da Ulp. 12 ad ed., D. 4.6.1.1 e, verosimilmente, la formula della relativa azione rescissoria (la c.d. actio Publiciana rescissoria, cui si riferisce il testo di I. 4.6.5)580. Il commento paolino segue molto da vicino le previsioni contenute all’interno

577 Sul testo ulpianeo, v. Spina 2018, 219-221. Nel secondo paragrafo dello stesso frammento il giurista pone l’accento sul carattere reipersecutorio dell’azione. Cfr. Ulp. 12 ad ed. D. 27.6.7.2: Quod ait praetor ‘quanti ea res erit’, magis puto non poenam, sed veritatem his verbis contineri [Poiché il pretore afferma ‘quanto sarà il valore della controversia’, reputo preferibile che in queste parole non si ricomprenda una pena, ma la verità]. 578 Nella trama espositiva del Digesto, il frammento paolino è strettamente collegato al precedente Ulp. 12 ad ed., D. 27.6.7.4: Si plures sint qui auctores fuerunt, perceptione ab uno facta et ceteri liberantur, non electione: [Se siano più quelli che hanno prestato l’autorizzazione, gli altri sono liberati quando sarà stato percepito il dovuto da parte di uno, non a seguito della scelta]. Secondo Albertario 1948, 143-144, entrambi i testi sarebbero stati interpolati per sostituire un regime di solidarietà elettiva all’antica solidarietà cumulativa. 579 Lenel 1889.I, 988, integra così: [Si ex pluribus, qui dolo malo auctores facti sunt, unus conventus sit, ceteri non liberantur]. L’opinione di Sabino proviene verosimilmente dal commento ad edictum praetoris urbani: v. Bremer 1898, 570. Sul testo, v. anche le osservazioni di Bonfante 1916, 694-695 (= 1921, III 223-224). Nella letteratura più recente, cfr. Spina 2018, 242-243. 580 Ulp. 12 ad ed., D. 4.6.1.1: Verba autem edicti talia sunt: ‘si cuius quid de bonis, cum is metus aut sine dolo malo rei publicae causa abesset, inve vinculis servitute hostiumque potestate esset : sive cuius actionis eorum cui dies exisse dicetur: item si quis quid usu suum fecisset , aut quod non utendo amisit , consecutus, actioneve qua solutus ob id, quod dies eius exierit, cum absens non defenderetur, inve vinculis esset, secumve agendi potestatem non faceret, aut cum eum invitum in ius vocari non liceret neque defenderetur: cumve magistratus de ea re appellatus esset sive cui pro magistratu sine dolo ipsius actio exempta esse dicetur: earum rerum actionem intra annum, quo primum de ea re experiundi potestas erit, item si qua alia mihi iusta causa esse videbitur, in integrum restituam, quod eius per leges plebis scita senatus consulta edicta decreta principum licebit’ [Tali poi sono le parole dell’editto: ‘Se qualcosa dai beni di qualcuno, essendo questo assente a causa di timore, o, senza dolo, nell’interesse pubblico, oppure essendo in prigionia, servitù e potestà dei nemici ; oppure se si dirà che sia decorso il termine di qualche azione per qualcuno di questi beni; parimenti se che qualcuno abbia reso suo qualcosa per usucapione, o che abbia conseguito ciò che sia stato perso per non uso, oppure che sia

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Commento della rubrica edittale. Le ricostruzioni palingenetiche offerte da Lenel e da Krüger convergono581. F. 167 – D. 4.6.6 Il giurista sta commentando le parole rei publicae causa abesset contenute nell’editto tradito da Ulp. 12 ad ed., D. 4.6.1.1582. I commissari di Giustiniano hanno strettamente collegato il breve escerto paolino alla trattazione contenuta in Ulp. 12 ad ed., D. 4.6.5.1, in cui si precisa che coloro i quali prestano la propria attività per un interesse pubblico (rei publicae causa) a Roma non sono assenti583. In questo contesto, il frammento paolino fornisce l’esempio dei magistrati (ut sunt magistratus)584. F. 168 – D. 4.6.13 Il giurista, a commento del lemma servitute contenuto nell’editto, riporta adesivamente l’opinione di Labeone, secondo cui le relative previsioni non trovano applicazione al servo manomesso per testamento prima che quest’ultimo divenga erede585. La motivazione fornita è che il servo non ha beni e il pretore parla di uomini liberi (quia nec bona habeat et praetor de liberis hominibus loquatur)586.

stato liberato da qualche azione per il decorso del relativo termine, non essendo difeso durante l’assenza, o mentre era in prigionia, oppure non dando la potestà di agire contro di lui, oppure non essendo lecito chiamarlo in giudizio contro la sua volontà né che fosse difeso; oppure essendo stato investito di questo affare un magistrato, oppure se si dirà che a causa dei magistrati gli sia venuta a mancare l’azione senza suo dolo; l’azione per quelle cose entro l’anno, dal momento in cui si sarebbe potuto agire per quell’affare; parimenti se mi sembrerà sussistere qualche altra giusta causa, reintegrerò, per quanto sarà permesso dalle leggi, dai plebisciti, dai senatoconsulti, dagli editti e dai decreti dei principi]. Cfr. Lenel 1927, 120-123. Sull’origine di queste previsioni si sofferma Gallet 1937, in particolare 407-425; cui adde Raggi 2001, 95-98. Sulle previsioni dell’editto, v. Lauria 1927, 324-325; Aru 1934, 52; Burdese 1951, 75 e nt. 2; Cervenca 1961a, 207 e nt. 27; Id. 1961b, 200 e nt. 9; Lambrini 2000, 68 e nt. 34; Ricart Martí 2007, 416-418, ma con alcune sviste (l’autrice sostiene, senza addurre argomenti decisivi, che la rubrica di D. 4.6 ex quibus causis maiores viginti quinque annis in integrum restituuntur sia “claramente justinianea” [per la derivazione edittale della rubrica, cfr. invece Soubie 1960, 42 e 180]); Periñán Gómez 2008, 99-102; Sixto 2010, 25-86; nonché D’Amati 2016, 8689. Richiama l’attenzione sulla “descrizione circostanziata” dei presupposti di applicazione dell’editto contenuta in questo testo Turelli 2020, 117 e nt. 169. La previsione edittale dimostra che il termine di un anno per l’esperimento delle azioni pretorie debba essere computato come tempus utile ratione initii e non come tempus utile ratione cursus, perché, altrimenti, non avrebbe alcun senso la concessione del rimedio restitutorio. Sul punto, v. Amelotti 1958, 58-61; Triggiano 2011, 395-398; Ead. 2012, 224-226. Sull’actio Publiciana rescissoria, v. infra, 235, nt. 616. 581 D. 4.6.6 [F. 167], D. 4.6.13 [F. 168], D. 4.6.16 [F. 169], D. 4.6.18 [F. 170], D. 2.8.6 [F. 171], D. 4.6.22 [F. 172], D. 41.3.8 [F. 173], D. 4.6.24 [F. 174], D. 4.6.27 [F. 175], D. 4.6.30 [F. 176]. Cfr. Lenel 1889.I, 987; Krüger, 898. 582 Il testo della testimonianza ulpianea è riportato supra, 228-229, nt. 580. 583 Ulp. 12 ad ed., D. 4.6.5.1: Sed qui Romae rei publicae causa operam dant, rei publicae causa non absunt [Ma coloro i quali si adoperano a Roma per un interesse pubblico, non sono assenti per un interesse pubblico]. Cfr. Fanizza 1992, 26-27; Bellodi Ansaloni 1998, 31; Sixto 2010, 47 e nt. 55. 584 Ulp. 12 ad ed., D. 4.6.7 precisa ulteriormente che i milites che prestano servizio a Roma sono, invece, considerati absentes rei publicae causa. Cfr. Bellodi Ansaloni 1998, 31 e nt. 61 e D’Amati 2016, 22-23 e nt. 36. 585 Cfr. Lenel 1889.I, 987, nt. 1; Lenel 1927, 120 e nt. 14; Sixto 2010, 49, nt. 67; Puliatti 2020, 193, nt. 53. 586 Per la palingenesi della testimonianza labeoniana, cfr. Lenel 1889.I, 507. Sulla motivazione, verosimilmente da ascrivere a Labeone e ispirata a un sottile positivismo (“spitzfindigen Positivismus”), attraverso l’applicazione del metodo deduttivo, cfr. le osservazioni di Seidl 1971, 65.

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Ivano Pontoriero Nel primo paragrafo Paolo sottolinea, invece, come le previsioni dell’editto riguardino il figlio in potestà per quanto concerne il peculio castrense587. La restitutio in integrum con riferimento al peculio castrense spetta anche al minore di venticinque anni, come apprendiamo da Ulp. 11 ad ed., D. 4.4.3.10588. F. 169 – D. 4.6.16 Il frammento è posto a commento della parola posteave contenuta nell’editto e riferita da Ulp. 12 ad ed., D. 4.6.15.3589. Il giurista osserva che queste previsioni non vengono in aiuto delle persone negligenti (Non enim neglegentibus subvenitur), ma di quanti hanno subito un impedimento in forza delle circostanze (sed necessitate rerum impeditis)590. Il prosieguo della trattazione ricorda che spetta al pretore la valutazione dei presupposti per la concessione del rimedio restitutorio (totumque istud arbitrio praetoris temperabitur), in modo tale che quest’ultimo venga riconosciuto non a chi ha posto in essere una condotta negligente (id est ut ita demum restituat, si non neglegentia), ma solo quando la limitatezza del tempo a disposizione abbia impedito l’instaurazione di un giudizio (sed temporis angustia non potuerunt litem contestari)591.

587 Non sembra necessario emendare tamen con etiam, come segnala Krüger 1908, 93, nt. 2. L’impiego della congiunzione avversativa risponde pienamente all’andamento logico della spiegazione paolina. Il giurista, dopo aver dato conto della rigorosa interpretazione dei verba edicti offerta da Labeone, propone il proprio punto di vista e fornisce, invece, un’interpretazione tesa ad ampliare l’ambito di applicazione delle previsioni oggetto di commento (Puto tamen filius familias in castrensi peculio pertinere ad hoc edictum). Sull’impostazione “fortemente personalizzata del discorso” paolino, che sembra emergere anche da questo passaggio, v. supra, 184, nt. 375. 588 Ulp. 11 ad ed., D. 4.4.3.10: Si autem filius familias sit, qui castrense peculium habeat, procul dubio ex his, quae ad castrense peculium spectant, in integrum restituendus erit quasi in proprio patrimonio captus [Se poi vi sia un figlio in potestà, che abbia il peculio castrense, senza dubbio dovrà essere reintegrato per tutte quelle cose che riguardano il peculio castrense, come se si fosse ingannato nel proprio patrimonio]. Cfr. sul punto La Rosa 1953, 95 e nt. 70. Sul peculio castrense e sui poteri spettanti al filius familias, v. in generale Guarino 1941, 41-73 (= 1995, VI 105-133); La Rosa 1956a, 393-405 e Longo 1957, 3-23 (= 1966, 405421). 589 Ulp. 12 ad ed., D. 4.6.15.3: Sed quod simpliciter praetor edixit ‘posteave’ ita accipiendum est, ut si inchoata sit bonae fidei possessoris detentatio ante absentiam, finita autem reverso, restitutionis auxilium locum habeat non quandoque, sed ita demum, si intra modicum tempus quam rediit hoc contigit, id est dum hospitium quis conducit, sarcinulas componit, quaerit advocatum: nam eum, qui differt restitutionem, non esse audiendum Neratius scribit [Ma ciò che in modo semplice il pretore ha stabilito nell’editto ‘o dopo (posteave)’ si deve intendere così, che, se la detenzione del possessore di buona fede sia iniziata prima dell’assenza, ma sia finita dopo il rientro, l’ausilio della restituzione abbia luogo non tutte le volte, ma solo così, se ciò accade entro un modico lasso di tempo dal rientro, cioè mentre qualcuno prende in locazione un alloggio, mette a posto i bagagli, cerca un avvocato: infatti scrive Nerazio che non si debba prestare ascolto a chi differisce la restituzione]. Cfr. in proposito Lenel 1889.I, 987, nt. 2; Id. 1927, 120 e nt. 17; Sixto 2010, 3536. 590 Sul presupposto dell’assenza di neglegentia per la concessione del rimedio restitutorio, cfr. Cervenca 1961a, 208; Buigues Oliver 1992, 86; Periñán Gómez 2008, 101 e nt. 75; nonché Sixto 2010, 36 e nt. 31. 591 Sul testo e sul significato assunto dall’impiego del termine arbitrium, v. Martini 1960, 199-200; adde Cervenca 1965, 12-14, il quale osserva in proposito che la causae cognitio del pretore non è limitata alla clausola finale si qua alia mihi iusta causa esse videbitur dell’editto tradito da Ulp. 12 ad ed., D. 4.6.1.1.

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Commento F. 170 – D. 4.6.18 Il giurista sta commentando le parole deminutum esse contenute nell’editto592. Si precisa al riguardo che il rimedio della reintegrazione è funzionale a soddisfare pretese di carattere reipersecutorio (Sciendum est, quod in his casibus restitutionis auxilium maioribus damus in quibus rei dumtaxat persequendae gratia queruntur)593. La reintegrazione è invece esclusa quando il richiedente miri a realizzare un guadagno a danno di un altro (non cum et lucri faciendi ex alterius poena vel damno auxilium sibi impertiri desiderant)594. F. 171 – D. 2.8.6 Il frammento è stato collocato dai compilatori al di fuori della sedes materiae, in D. 2.8 qui satisdare cogantur vel iurato promittant vel suae promissioni commitantur595. Il giurista sta commentando le parole cum absens non defenderetur contenute nell’editto596. Si precisa che ogniqualvolta sia stata invalidamente prestata una cauzione o una satisdazione, non si ritiene che si sia garantito (Quotiens vitiose cautum vel satisdatum est, non videtur cautum)597. F. 172 – D. 4.6.22 Il principium di questo frammento è ancora dedicato al commento dei lemmi edittali cum absens non defenderetur598. Il giurista chiarisce quali sono i presupposti per l’applicazione della relativa previsione: l’editto non trova applicazione se non quando gli amici dell’assente siano stati richiesti di assumerne la difesa o quando non vi sia nessuno a cui possa essere chiesto (Ergo sciendum est non aliter hoc edictum locum habere, quam si amici eius interrogati fuerint, an defendant, aut si nemo sit, qui interrogari potest)599. L’assente si considera dunque indefensus quando l’attore chieda di propria iniziativa se qualcuno intenda assumerne la difesa e nessuno lo faccia (ita enim absens defendi non videtur, si actor ultro interpellat nec quisquam defensioni se offerat). Di ciò – precisa ancora il giurista – è necessario conservare memoria, attraverso la confezione di un documento scritto, redatto alla presenza di testimoni (eaque testatione complecti oportet)600.

592 Le parole non sono tradite da Ulp. 11 ad ed., D. 4.6.1.1, ma vengono ricostruite sulla base della versione del testo ulpianeo contenuta nei Basilici. Cfr. Bas. 10.35.1 (= Scheltema, van der Wal, A II, 612): Ἐὰν μειωθῇ τὰ πράγματα τῇ ἀχρησίᾳ… [Se i beni abbiano subito una diminuzione per non uso…]. Sul punto, v. Lenel 1889.I, 987, nt. 3; Id. 1927, 120 e nt. 18. 593 Cfr. Ricart Martí 2007, 418-419. 594 Cfr. sul punto Chevreau 2006, 285 e nt. 359, nonché Periñán Gómez 2008, 110 e nt. 102. 595 La rubrica è di derivazione edittale: cfr. Lenel 1927, 81; nonché Soubie 1960, 40. 596 Lenel 1889.I, 987, nt. 5; Id. 1927, 121, nt. 3. 597 Sul testo, v. Sixto 2010, 63 e nt. 93. L’autrice sottolinea come identico principio emerga da Ulp. 12 ad ed., D. 4.6.21.3: Defendi autem non is videtur, cuius se defensor ingerit, sed qui requisitus ab actore non est defensioni defuturus, plenaque defensio accipietur, si et iudicium non detrectetur et iudicatum solvi satisdetur [Non si considera poi essere difeso quello per il quale un difensore si ingerisce, ma chi, richiesto dall’attore, non sia sul punto di difettare della difesa, e la difesa si considererà piena, se anche non venga rifiutato il giudizio e sia prestata garanzia per l’adempimento del giudicato]. 598 Lenel 1889.I, 987, nt. 5; Id. 1927, 121, nt. 3. 599 Sul ruolo del defensor, “ossia qualunque terzo che, senza essere né cognitor né procurator, prestasse la cautio iudicatum solvi o, in certi casi, quella pro praede litis et vindiciarum”, v. Pugliese 1953, 264 (= 1985, I 524). Cfr. inoltre Id. 1963, 379; Buti 1984a, 284; nonché Finazzi 2010, 808. 600 Cfr. Sixto 2010, 63 e nt. 94.

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Ivano Pontoriero Il primo e il secondo paragrafo del frammento prenderebbero in considerazione, secondo Otto Lenel, i lemmi item si quis quid usu suum fecisset601. La tesi può suscitare qualche riserva, perché questi lemmi edittali precedono quelli ai quali risulta già dedicato il principium (cum absens non defenderetur). Paolo ricorda che l’intervento del pretore ha lo scopo di evitare che i maggiori di venticinque anni patiscano un danno, non quello di permettere che realizzino un guadagno (Sicut igitur damno eos adfici non vult, ita lucrum facere non patitur)602. Il giurista richiama quindi l’opinione di Labeone, secondo cui le previsioni dell’editto si applicano anche ai furiosi, agli infanti e alle città (Quod edictum etiam ad furiosos et infantes et civitates pertinere Labeo ait)603. F. 173 – D. 41.3.8 Il frammento è stato collocato dai compilatori al di fuori della sedes materiae, in D. 41.3 de usurpationibus et usucapionibus604. Il giurista sta prendendo in considerazione i lemmi edittali inve vinculis esset605. Ulpiano spiega in D. 50.17.118 perché il pretore non inserisce la parola servitute dopo vinculis: la ragione è che i servi non possono usucapire606. Il prosieguo della trattazione ulpianea ricorda che non può acquistare per usucapione neppure chi si trovi in condizione di prigionia apud hostes (D. 4.6.23.1), richiama l’opinione di Papiniano, secondo cui il pretore deve venire in aiuto del prigioniero di guerra che abbia perduto il possesso di un fondo o il quasi possesso di un usufrutto, disponendo anche la restituzione dei frutti che siano stati, nel frattempo, percepiti da un altro (D. 4.6.23.2), sottolinea, infine (D. 4.6.23.3), che quanti furono in potestà del prigioniero di guerra possono acquistare attraverso l’usucapione una cosa che si trovi nel peculio (usu rem adquirere possunt ex re peculiari)607. L’omologa trattazione paolina riporta la concorde opinione espressa da Labeone e Nerazio, secondo cui è possibile usucapire i beni acquistati dal servo attraverso il peculio (Labeo Neratius responderunt ea, quae servi peculiariter nancti sunt, usucapi posse), anche senza esserne

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Lenel 1889.I, 987, nt. 6; Id. 1927, 120, nt. 19. Cfr. Ricart Martí 2007, 418-419 e Periñán Gómez 2008, 104 e nt. 87. 603 Sul secondo paragrafo del frammento si soffermano Duff 1938, 231 e Murga Gener 1968, 536, nt. 104. La considerazione congiunta di infantes e civitates contenuta in questo brano ha avuto importanti sviluppi nella costruzione del pensiero politico medievale: v. Kantorowicz 1957, 372-383 (con riferimento al testo in esame, v. in particolare 374, nt. 204). Sul punto, cfr. anche Giesey 1970, 48 e nt. 15. 604 Sull’origine della rubrica, derivata dal sistema di Sabino, cfr. Soubie 1960, 77 e nt. 3. 605 Lenel 1889.I, 987, nt. 7; Id. 1927, 121 e nt. 4. 606 Ulp. 12 ad ed., D. 50.17.118: Qui in servitute est, usucapere non potest: nam cum possideatur, possidere non videtur [Chi versa in condizione servile, non può usucapire: infatti, essendo posseduto, non si considera possedere]. Cfr. sul punto Lenel 1889.II, 481, nt. 1: “Explanantur quare praetor verba ‘servitute hostiumque potestate’ hic non adicerit”. 607 La trattazione di Ulp. 12 ad ed., D. 4.6.23.1-3 è collocata da Lenel 1889.II, 481, di seguito a quella di D. 50.17.118, nell’ambito dello stesso frammento palingenetico (Lenel 435b e Lenel 435c). Sulla quasi possessio ususfructus menzionata da Ulpiano si sofferma Albanese 1985, 153, nt. 576. Secondo l’autore: “L’espressione quasi possessio usus fructus non corrisponde ad un istituto particolare, ma costituisce solo un modo di dire che fu ritenuto efficace per sottolineare, in un caso particolare, l’analogia tra la perdita dell’usufrutto per riduzione in servitù a causa di prigionia di guerra dell’usufruttuario e la perdita del possesso per la stessa ragione”. Sul testo di D. 4.6.23.3, cfr. Fuenteseca 1954, 563 e Luchetti 2004, 49, nt. 85. 602

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Commento a conoscenza (quia haec etiam ignorantes domini usucapiunt)608. Questa opinione è condivisa anche da Giuliano (idem Iulianus scribit)609. Nel primo paragrafo il giurista ricorda l’opinione di Sesto Pedio, secondo cui chi non può usucapire in nome proprio non può farlo neppure attraverso il suo servo (Sed eum, qui suo nomine nihil usucapere potest, ne per servum quidem posse Pedius scribit)610. F. 174 – D. 4.6.24 La trattazione si sofferma sui lemmi secumve agendi potestatem non faceret611, sottolineando, in proposito, come l’editto abbia riguardo alle condotte dilatorie poste in essere da quei conve-

608 Mommsen 1870.II, 519, nt. 2, propone, sulla base di Paul. 54 ad ed., D. 41.2.1.5, l’integrazione ab infante quoque et furioso (vel similia) prima di usucapi posse. In quest’ultimo testo Paolo illustra la regola dell’acquisto del possesso domino ignoranti per mezzo dei sottoposti a potestà, ex causa peculiari. Il giurista severiano cita in proposito Sabino, Cassio e Giuliano (sicut Sabino et Cassio et Iuliano placuit). Il limite della causa peculiaris è ritenuto di matrice giustinianea da una parte minoritaria della storiografia: cfr. Schulz 1951, 438 e Nicosia 1960b, 339. Per un quadro d’insieme sul tema dell’acquisto del possesso attraverso i potestati subiecti, v. Lambrini 1998, 83-90; adde Briguglio 2007, 49-58. Che la trattazione paolina contenuta in D. 41.3.8pr. dia conto della stessa regola illustrata da Ulp. 12 ad ed., D. 4.6.23.3 è sostenuto da Fuenteseca 1954, 563-564. L’autore ipotizza che la limitazione dell’acquisto ai beni che si trovino nel peculio risalga all’apporto di Nerazio, come sarebbe testimoniato da Paul. 3 ad Nerat., D. 41.3.47. L’impiego dell’espressione receptum est in quest’ultimo testo e la citazione di Labeone contenuta in D. 41.3.8pr. induce, comunque, a ritenere che l’elaborazione della regola risalga almeno al giurista augusteo (cfr., sul punto, Albanese 1985, 27, nt. 68). Questa osservazione indebolisce anche la tesi, formulata da Bonfante 1933, 273 (= 1972, 338), di un possibile contrasto tra Sabiniani, che avrebbero richiesto la causa peculiaris (come si potrebbe desumere da D. 41.2.1.5), e Proculiani, di opposto orientamento (tale tesi non sembra peraltro tener conto del richiamo a Labeone in D. 41.3.8pr.). Sul punto, risulta invece persuasiva l’opinione espressa da Cannata 1960, 100 (= 2011, I 34), secondo cui: “laddove i Sabiniani ammettevano l’acquisto del possesso al dominus (o pater) per mezzo di uno schiavo (o figlio) qualora tale acquisto fosse avvenuto ex peculii causa, i proculiani esigevano l’acquisto peculiare solo perché il possesso potesse considerarsi idoneo all’usucapione”. Deve essere pure ricordato che Paul. 19 ad ed., D. 41.3.11 esclude radicalmente il possesso da parte del prigioniero di guerra. Ciò ha indotto Pablo Fuenteseca ad ipotizzare l’impiego di regole in parte diverse in materia di usus e in materia di possessio. Sul dibattito giurisprudenziale relativo all’acquisto del possesso attraverso i sottoposti, v. anche Biavaschi 2006, 299302. Secondo l’autrice, la posizione di Paolo in materia di acquisto del possesso attraverso il servo sarebbe ricavabile da Paul. 54 ad ed., D. 41.4.2.11. Il giurista severiano avrebbe accolto una “prospettiva moderata, nella quale non si nega completamente, come avrebbero fatto i sabiniani, l’acquisto del possesso in capo al dominus al di fuori della causa peculiare, ma quest’ultima sarebbe stata necessaria per usucapire”. 609 Si sofferma sulla posizione giulianea in materia di acquisto del possesso attraverso dei potestati subiecti Ankum 1976, 88-92, secondo cui: “Julien a exigé pour l’acquisition de la possession par le maître en cas d’une tradition à l’un de ses esclaves, et par le pater familias en cas d’une tradition à l’un de ses filiifamilias, qu’il l’ait su et voulu ou que la traditio concerne le pécule”. 610 Cenderelli 1978, 376-377 (= 2011, 184-186), sottolinea, correttamente, come da questo testo e dal successivo Paul. 13 ad ed., D. 4.8.32.16 [F. 192], luoghi nei quali l’opinione di Pedio viene citata a breve distanza da quella di Giuliano, non possa trarsi alcun elemento per la datazione dell’opera del primo. Secondo Giachi 2005, 12 e nt. 32, la citazione dell’opinione di Pedio ha lo scopo di chiarire che: “la capacità di acquistare anche ignorante domino non può consentire la violazione delle regole sull’usucapio, che si attuerebbe superando un eventuale difetto di capacità acquisitiva nel dominus”. 611 Ulp. 12 ad ed., D. 4.6.23.4: Deinde adicit praetor: ‘secumve agendi potestatem non faceret’, ut si, dum hoc faciat, per usum adquisitio impleta vel quid ex supra scriptis contigit, restitutio concedatur: merito, nec enim sufficit semper in possessionem bonorum eius mitti, quia ea interdum species esse potest, ut in bonis latitantis mitti non possit aut non latitet: finge enim, dum advocationes postulat, diem exisse, vel dum alia mora iudicii contingit [Aggiunge quindi il pretore ‘oppure non dando la potestà di agire contro di lui (secumve agendi potestatem non faceret)’, affinché se, mentre faccia ciò, si verifica il completamento dell’acquisto attraverso l’usucapione o un’altra cosa tra quelle scritte sopra,

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Ivano Pontoriero nuti, che, attraverso qualsivoglia tergiversazione e astuzia, fanno in modo che non si possa agire contro di loro (Sed et ad eos pertinet, qui conventi frustrantur et qualibet tergiversatione et sollertia efficiunt, ne cum ipsis agi possit)612. F. 175 – D. 4.6.27 La trattazione si sofferma sulla clausola generale item si qua alia mihi iusta causa esse videbitur contenuta nell’editto oggetto di commento613. La diversa opinione sostenuta da Marié Sixto, secondo cui il giurista si starebbe soffermando sulle parole deminutum esse non appare persuasiva, alla luce della collocazione assunta dal testo all’interno del titolo D. 4.6614. Paolo osserva che la reintegrazione deve essere disposta se l’interessato abbia perso qualcosa o non

venga concessa la reintegrazione; a ragione, infatti, non è sempre sufficiente che venga immesso nel possesso dei suoi beni, perché talvolta può verificarsi il caso specifico che non possa essere immesso nel possesso dei beni di un latitante o di chi non sia tale: supponi infatti che il termine sia scaduto mentre chiede assistenza legale o mentre si verifica un altro ritardo del giudizio]. Cfr. Lenel 1889.I, 987, nt. 8; Id. 1927, 121, nt. 5; Sixto 2010, 72-73. Sul testo ulpianeo, v. anche Solazzi 1917, 415, nt. 4. 612 La riflessione giurisprudenziale precisa come l’editto concerna anche la condotta di chi sfugga all’iniziativa dell’attore non frustrandi gratia, ma perché oberato da molti impegni. Gai. 4 ad ed. prov., D. 4.6.25: Quod quidem simili modo ad eum quoque pertinere dicemus, qui non frustrandi gratia id faceret, sed quod multitudine rerum distringeretur [Certamente diremo che concerna in modo simile anche chi non faccia ciò allo scopo di frustrare, ma perché occupato da una moltitudine di affari]. Cfr. sul punto Sixto 2010, 73, che osserva: “la categoría se define, entonces, con un criterio objetivo, donde no es imprescindible el elemento intencional”. 613 Ulp. 12 ad ed., D. 4.6.26.9: ‘Item’, inquit praetor, ‘si qua alia mihi iusta causa videbitur, in integrum restituam.’ haec clausula edicto inserta est necessario: multi enim casus evenire potuerunt, qui deferrent restitutionis auxilium, nec singillatim enumerari potuerunt, ut, quotiens aequitas restitutionem suggerit, ad hanc clausulam erit descendendum. ut puta legatione quis pro civitate functus est: aequissimum est eum restitui, licet rei publicae causa non absit: et saepissime constitutum est adiuvari eum debere, sive habuit procuratorem sive non. idem puto, et si testimonii causa sit evocatus ex qualibet provincia vel in urbem vel ad principem: nam et huic saepissime est rescriptum subveniri. sed et his, qui cognitionis gratia vel appellationis peregrinati sunt, similiter subventum. et generaliter quotienscumque quis ex necessitate, non ex voluntate afuit, dici oportet ei subveniendum [‘Parimenti’, dice il pretore, ‘disporrò la reintegrazione se mi sembrerà sussistere qualche altra giusta causa’. Questa clausola è stata inserita nell’editto per necessità: possono, infatti, verificarsi molti casi, che richiedono l’ausilio della reintegrazione e non possono essere enumerati singolarmente, in modo tale che, ogni qualvolta l’equità suggerisce la reintegrazione, si dovrà ricorrere a questa clausola. Come, per esempio, se qualcuno ha svolto le funzioni di legato per una città: è quantomai equo che venga disposta la reintegrazione in suo favore, sebbene non sia stato assente nell’interesse pubblico; e spessissimo è stato stabilito da costituzioni che dovesse essere aiutato, abbia avuto o meno un procuratore. Reputo lo stesso anche se per testimoniare sia stato chiamato da qualsivoglia provincia nell’Urbe o presso il principe; infatti spessissimo è stato disposto con rescritto che gli venisse prestato soccorso. Ma similmente si è prestato soccorso anche a quelli che abbiano peregrinato per un processo o un appello. Ed è necessario che si dica in termini generali che, ogniqualvolta uno è stato assente per una necessità, e non volontariamente, gli si debba prestare soccorso]. Per la palingenesi del testo paolino, v. Lenel, 1889.I, 987, nt. 9; Charvet 1920, 13, nt. 1; Lenel 1927, 121, nt. 14. Raggi 1965, 145-146 e nt. 20, osserva come “nell’impiego del termine aequitas indicante il presupposto della restitutio in integrum il riferimento al criterio pretorio di valutazione s’intreccia con il riferimento all’equità imperiale”. Sulla riflessione ulpianea e con particolare riferimento al tema dell’aequitas, v. anche Solidoro 2013, 69-70. Su D. 4.6.26.9, cfr. da ultimo Turelli 2020, 168 e nt. 52, il quale sottolinea che nel caso del transferre iudicium non è dato rinvenire una clausula generalis come quella riportata dal testo ulpianeo. 614 Per l’integrazione delle parole deminutum esse attraverso la testimonianza di Bas. 10.35.1, v. supra, 231, nt. 592. Il testo paolino all’interno del titolo D. 4.6 segue la testimonianza di Ulp. 12 ad ed., D. 4.6.26.9, dedicata alla clausola generale dell’editto. La precedente testimonianza D. 4.6.24 appare già dedicata al commento dei lemmi secumve agendi potestatem non faceret. Cfr. Sixto 2010, 40: “es más plausible la conjetura de que Paulo dedicase este comentario a la frase inicial del edicto (quid de bonis … deminutum esse), como parece sugerir la expresión que Paulo utiliza (etiamsi non ex bonis quid amissum sit)”.

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Commento abbia guadagnato, anche se non sia andato perduto nessuno dei suoi beni (Et sive quid amiserit vel lucratus non sit, restitutio facienda est, etiamsi non ex bonis quid amissum sit)615. F. 176 – D. 4.6.30 Il frammento si sofferma sulla formula dell’azione rescissoria616. Il giurista sottolinea come risponda ad equità rescindere l’usucapione compiuta dall’erede del militare deceduto, in modo tale che l’erede conservi la stessa posizione del dante causa (Cum miles qui usucapiebat decesserit et heres impleverit usucapionem, aequum est rescindi quod postea usucaptum est, ut eadem in heredibus, qui in usucapionem succedunt, servanda sint)617. La motivazione fornita è che il possesso del de cuius si aggiunge a quello dell’erede e, il più delle volte, l’usucapione si compie prima dell’adizione dell’eredità (quia possessio defuncti quasi iniuncta descendit ad heredem et plerumque nondum hereditate adita completur)618. Nel primo paragrafo si afferma che la restitutio in integrum dovrà essere disposta anche nel caso in cui chi fu assente per un interesse pubblico abbia usucapito e poi alienato la cosa (Si is, qui rei publicae causa afuit, usucepit et post usucapionem alienaverit rem, restitutio facienda erit), dal momento che, anche se sia stato assente senza dolo e abbia usucapito (et licet sine dolo afuerit et usuceperit), occorre porre rimedio al suo guadagno (lucro eius occurri oportet). Conclusivamente, il giurista ricorda che il rimedio della restitutio in integrum dovrà essere concesso in tutti gli altri casi, come, per esempio, se sia stata emanata una pronuncia di condanna nei confronti dell’assente (item ex reliquis omnibus causis restitutio facienda erit, veluti si adversus eum pronuntiatum sit).

[Sulla reintegrazione che deve essere fatta in relazione alla lite (E. 45)] La denominazione di questa rubrica e l’esatta portata delle previsioni edittali in essa contenute sono, in realtà, piuttosto incerte619. In relazione alla denominazione, che non trova rispondenza in alcun titolo del Digesto, occorre osservare che, nella prima edizione del tentativo di ricostruzione dell’editto, Lenel inserisce semplicemente due punti interrogativi, nella palingenesia dei libri ad edictum paolini compare la rubrica si quis plus petendo causa ceciderit, giustificata in nota dal richiamo a Gai. 4.53, nella palingenesia dell’omologa opera ulpianea quella de restituenda lite, riprodotta pure nell’Edicti perpetui rubricarum index e, quindi, nella seconda e nella terza edizione del lavoro

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Cfr. Charvet 1920, 13 e 84-85; nonché Chevreau 2006, 286 e nt. 363. A questa formula si riferisce il testo di I. 4.6.5. Per la ricostruzione, cfr. Lenel 1927, 121-123. Sull’actio Publiciana rescissoria v. Carrelli 1937, 20-41 e 1938a 62-66. Sul rinvio al Digesto operato dalle Istituzioni, cfr. le osservazioni di Luchetti 2004, 47-55. A questa azione ha già accennato la trattazione di Paul. 1 ad ed. praet., D. 44.7.35pr. [F. 2]. Il giurista ricorda che l’azione è annale, perché concessa contra ius civile: sul punto v. in particolare Luchetti 2018c, 104 e nt. 14. La denominazione di actio Publiciana rescissoria, di impiego ricorrente in letteratura, è stata coniata da Doroteo (Sch. 4 a Bas. 14.1.57 = Scheltema, Holwerda, B II, 792). Cfr. sul punto de Jong 2020, 173-193. 617 Sull’uso del verbo rescindere, di largo impiego “proprio ad indicare l’effetto che l’i.i.r. produce sull’atto impugnato”, v. Cervenca 1965, 87 e nt. 65. Il testo è preso in considerazione anche da Castro Sáenz 1998, 156. 618 Sulla successione nell’usucapione, v. in particolare Bonfante 1905, 561 e nt. 2 (= 1916, I 286 e nt. 3 [= 2007, I 270 e nt. 106]); Zanzucchi 1904, 201-202; Fadda 1949.II, 218; nonché Albanese 1985, 114 e nt. 433. 619 Cfr. le riserve avanzate da Duquesne 1929, 193-197; nonché Cervenca 1968, 740. 616

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Ivano Pontoriero sull’editto620. L’incertezza della rubrica è indicata spatio vacuo relicto da Krüger (Additamenta, III, Libri ad edictum)621. Le Pauli Sententiae contengono invece la rubrica de plus petendo (PS. 1.10), collocata nell’opera immediatamente dopo la trattazione relativa alle restitutiones in integrum622. In relazione al contenuto della rubrica, Lenel tende a ricondurvi tutti i casi di restituzione della lite di cui è traccia nelle fonti, e, in particolare, la restituzione dell’attore contro le conseguenze della pluris petitio (Gai. 4.53), quella del convenuto contro la formula che reca una condemnatio eccessiva (Gai. 4.57), la restituzione contro l’omissione delle eccezioni (Gai. 4.125)623. F. 177 – D. 6.1.8 Il frammento, collocato dai compilatori nel titolo D. 6.1 de rei vindicatione, era verosimilmente posto a commento delle previsioni dell’editto dirette a concedere all’attore la restitutio in integrum in caso di assoluzione del convenuto determinata da pluris petitio624.

620 Cfr., rispettivamente, Lenel 1883, 100; Id. 1889.I, 988 e nt. 1; Id. 1889.II, 483 e 1249; Id. 1907, 119; Id. 1927, 124. Nell’edizione francese viene invece adottata la rubrica de litibus restituendis: cfr. Lenel 1901, 141. È appena il caso di ricordare che Rudorff 1869, 62, impiega la denominazione de (eo qui causa cadit) plus petendo. 621 Krüger 1905, 898. 622 Cfr. Lenel 1927, 124, nt. 8. L’autore osserva, dunque: “Daher dürfte das Fragment zu dieser letztern Lehre selbs gehört haben”. Sulle previsioni dell’editto e con riferimento a PS. 1.10 De plus petendo, cfr. Adame Goddard 2010, 257-262. 623 Cfr. Lenel 1927, 124-125. Le testimonianze giurisprudenziali ricondotte a questa rubrica sono particolarmente esigue: si tratta, oltre che del testo paolino che sarà subito considerato [F. 177], di Ulp. 13 ad ed., D. 26.7.25 e Ulp. 13 ad ed., D. 44.2.2 (che cita un’opinione espressa da Giuliano nel quarto libro dei suoi digesta). L’opinione di Giuliano ci è nota anche attraverso la lex geminata Iul. 4 dig., D. 44.7.15. Sul rapporto tra quest’ultima testimonianza e D. 44.2.2, v. Mattioli 2019b, 97-100. 624 Gai. 4.53: Si quis intentione plus conplexus fuerit, causa cadit, id est rem perdit, nec a praetore in integrum restituitur exceptis quibusdam casibus, in quibus… [Se qualcuno abbia ricompreso di più nella pretesa, decade dalla causa, cioè perde la lite, e non è reintegrato dal pretore, fatta eccezione per alcuni casi, nei quali…]. I casi in cui il pretore concedeva la restitutio in integrum sono noti attraverso l’omologa trattazione contenuta in I. 4.6.33: Si quis agens in intentione sua plus complexus fuerit, quam ad eum pertinet, causa cadebat, id est rem amittebat, nec facile in integrum a praetore restituebatur, nisi minor erat viginti quinque annis. huic enim sicut in aliis causis causa cognita succurrebatur, si lapsus iuventute fuerat, ita et in hac causa succurri solitum erat. sane si tam magna causa iusti erroris interveniebat, ut etiam constantissimus quisque labi posset, etiam maiori viginti quinque annis succurrebatur: veluti si quis totum legatum petierit, post deinde prolati fuerint codicilli, quibus aut pars legati adempta sit aut quibusdam aliis legata data sint, quae efficiebant, ut plus petisse videretur petitor quam dodrantem, atque ideo lege Falcidia legata minuebantur [Se qualcuno agendo avesse ricompreso nella sua pretesa più di quanto gli spettava, decadeva dalla causa, vale a dire la perdeva, e non veniva reintegrato dal pretore facilmente, a meno che non fosse minore di venticinque anni. Si veniva in soccorso di questo, infatti, come in altri casi, previa cognizione della causa, se avesse sbagliato a causa della giovinezza, così anche in questa situazione si soleva venirgli in soccorso. Certamente, se si verificava un caso di errore scusabile così grave che anche un uomo molto saldo avrebbe potuto sbagliare, si veniva in soccorso anche dei maggiori di venticinque anni: come, per esempio, se qualcuno avesse chiesto un legato integralmente, e poi in seguito fossero stati pubblicati i codicilli, per mezzo dei quali o sia stata tolta una parte del legato o siano stati dati legati a certi altri, le quali cose facevano in modo che il richiedente si considerasse chiedere più della quarta parte, e perciò i legati venivano diminuiti dalla legge Falcidia]. Cfr. sul punto Lenel 1927, 124 e nt. 9; nonché Provera 1958, 188-190. Sulla base della testimonianza offerta da Svet. Claud. 14, Orestano 1953, 113 e nt. 2; Id. 1965, 229-242 (= 1998, III 1615-1628) ipotizza che l’introduzione dell’in integrum restitutio conseguente alla pluris petitio costituisca un’innovazione introdotta dal diritto imperiale, successivamente recepita dallo ius honorarium. L’ipotesi formulata da Orestano è accettata dalla storiografia successiva: cfr. Cervenca 1962, 212-214; Id., 1965, 70-71; Sargenti 1966, 198 (= 2011, 713); Fabbrini 1967, 218-219; Kaser 1968a, 179 e ntt. 33-34 (1977, II 509 e ntt. 33-34); Cantarella 1969, 104-105 e nt. 14; Sacconi 1977, 41-42. Sull’innovazione di Claudio e sull’atteggiamento critico del biografo, v. anche le osservazioni di Brutti 2012, 132-134 e Laurendi 2013, 21-30.

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Commento Paolo riporta l’opinione espressa da Pomponio nel trentaseiesimo libro del suo commento all’editto (Pomponius libro trigensimo sexto probat). Secondo Pomponio, il comproprietario di un fondo in comunione, posseduto dall’altro comproprietario e da un terzo soggetto, Lucio Tizio, non deve chiedere all’uno e all’altro la quarta parte del fondo (si ex aequis partibus fundum mihi tecum communem tu et Lucius Titius possideatis, non ab utrisque quadrantes petere me debere), ma l’intera metà al terzo, dal momento che quest’ultimo non è proprietario (sed a Titio, qui non sit dominus, totum semissem)625. Diversamente, qualora il fondo venga posseduto in appezzamenti determinati (aliter atque si certis regionibus possideatis eum fundum), l’attore dovrà chiedere la quarta parte all’altro comproprietario e a Lucio Tizio e, perciò, anche il comproprietario, se agirà con l’azione di rivendica, dovrà fare altrettanto (nam tunc sine dubio et a te et a Titio partes fundi petere me debere: quotiens enim certa loca possidebuntur, necessario in his aliquam partem meam esse: et ideo te quoque a Titio quadrantem petere debere)626. Paolo precisa, conclusivamente, che la distinzione tracciata non trova applicazione in relazione ai beni mobili e nelle azioni di petizione di eredità, dal momento che i beni mobili e le eredità non sono suscettibili di essere posseduti pro diviso (quae distinctio neque in re mobili neque in hereditatis petitione locum habet: nunquam enim pro diviso possideri potest)627.

[Sull’alienazione posta in essere allo scopo di mutare il giudizio (E. 46)] L’editto de alienatione iudicii mutandi causa facta è diretto a reprimere la condotta di chi, passivamente legittimato all’esercizio di un’azione, avesse alienato la cosa per rendere più gravosa la condizione dell’attore628. La palingenesi leneliana include nella ricostruzione del commento paolino alla rubrica, oltre a D. 4.7.8 [F. 178], il frammento D. 4.7.10 [F. 179?], che, stando alle indicazioni fornite

625 Cfr. Provera 1958, 189, nt. 24 e Aricò Anselmo 1992, 392-393, nt. 47. Pomponio stava commentando l’editto relativo alla rei vindicatio (E. 69): cfr. Lenel 1889.II, 26. Sull’opinione espressa da Pomponio, v. Stolfi 2002.II, 329331. 626 Cfr. Provera 1958, 189, nt. 24; nonché Aricò Anselmo 1992, 392-393, nt. 47. 627 Secondo Provera 1958, 189-190, nt. 24, la parte finale del brano sarebbe frutto di interpolazione. Sul principio secondo cui in hereditatis petitione numquam pro diviso possideri potest si sofferma Aricò Anselmo 1992, 391-393, che ricorda, in relazione alla “tradizionale assimilazione” tra hereditas e res mobiles, la testimonianza di Gai. 2.54. Per la riconducibilità della chiusa del frammento all’apporto interpretativo paolino, cfr. Stolfi 2002.II, 331. 628 Sui presupposti di applicazione dell’editto si soffermano Partsch 1909, in particolare 7-15; Pissard 1910, 380-391, che indaga sui rapporti tra l’actio in factum e la restitutio in integrum, sostenendo la tesi di una più recente emersione di quest’ultima; Biondi 1912, 106; Kretschmar 1928, 556-559; De Marini Avonzo 1967, 136-141; nonché González Roldán 2010, 215-219. Prende in considerazione i rapporti tra dolo desinere possidere ante litem contestatam e alienatio iudicii mutandi causa facta, a partire da Ulp. 13 ad ed., D. 4.7.4.1, Marrone 1976, 367-411 (= 2003, I 251295). L’autore ipotizza, anche in ragione dell’esiguità delle testimonianze giurisprudenziali concernenti l’editto, che l’intervento del magistrato (forse il governatore provinciale, alla luce di Gai. 4 ad ed. prov., D. 4.7.1 e 3) possa essere successivo alla precisazione da parte della giurisprudenza dei caratteri del dolo desinere possidere.

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Ivano Pontoriero nell’inscriptio, sarebbe stato escerpito dal dodicesimo libro ad edictum di Ulpiano629. Il commento ulpianeo, tuttavia, prendeva in considerazione l’editto de alienatione iudicii mutandi causa facta solo nel tredicesimo libro630. Otto Lenel intravede una forte connessione tra la trattazione paolina di D. 4.7.8 [F. 178] e il testo di D. 4.7.10 [F. 179?], tanto da proporre l’attribuzione di quest’ultimo testo a Paolo e collocare quindi le entrambe testimonianze nello stesso frammento palingenetico (Paul. 239)631. Sulla questione si è soffermato Tony Honoré, il quale, in ragione di considerazioni di carattere stilistico e, in particolare, dall’impiego dell’espressione ait praetor in Paul. 12 ad ed., D. 4.7.8.1 per introdurre la citazione dei verba edicti – forma che, secondo l’autore, sarebbe caratteristica della scrittura ulpianea, con ben centodiciassette occorrenze, mentre nell’opera di Paolo l’espressione ricorrerebbe, oltre che nel testo appena richiamato, solo in Paul. 63 ad ed., D. 43.3.2.1 (del quale viene ugualmente revocata in dubbio l’attribuzione, insieme ai rimanenti tre paragrafi del frammento) – propone di considerare ricavato dal tredicesimo libro del commento ad edictum di Ulpiano il testo di D. 4.7.8.1-5632. Un ulteriore argomento addotto da Honoré a sostegno della sua tesi riguarda l’inscriptio di D. 4.7.9 (Paulus libro primo ad edictum aedilium curulium), che, se il testo precedente fosse effettivamente paolino, dovrebbe contenere, anziché l’indicazione del nome del giurista, il pronome Idem633. La tesi di Honoré, per quanto assai suggestiva e in grado di fornire una spiegazione plausibile per l’indicazione contenuta nell’inscriptio di D. 4.7.9, sconta il limite costituito dall’impiego di un raffronto statistico tra dati quantitativamente esigui e non immediatamente suscettibili di diretta comparazione: al di là della nota e indiscutibile prevalenza dei materiali ricavati dai libri ad edictum ulpianei – con un rapporto più che triplo rispetto all’omologa opera paolina – è proprio il commentario di Ulpiano a costituire, nella maggior parte dei casi, l’ossatura impiegata dai commissari di Giustiniano nella costruzione dei titoli del Digesto634. Considerato lo stato delle fonti, appare quindi estremamente difficile argomentare l’attribuzione del testo contenuto in D. 4.7.8.1-4, sulla base degli stilemi impiegati nelle laudationes edicti ulpianee, semplicemente perché, a causa delle scelte operate dai compilatori, non disponiamo di dati raffrontabili con riferimento a quelle paoline. A ben guardare, poi, lo stile impiegato dall’estensore dei due frammenti D. 4.7.8 [F. 178] e 10 [F. 179?] appare

629

Lenel 1889.I, 988 e nt. 3. Cfr. D. 4.7.2, D. 4.7.4, D. 4.7.6; D. 50.17.119. Anche Krüger 1905, 898, opta per la correzione dell’inscriptio di D. 4.7.10, attribuendo il frammento al tredicesimo dei libri ad edictum di Ulpiano. 631 Lenel 1916, 116, nt. 1 (= 1992, IV 74, nt.1): “Fr. 10 ist versehentlich Ulp. 12 ad ed. inskribiert. Ich halte es, da fr. 10 als Fortsetzung so gut zu fr. 8 paßt, für wahrscheinlicher, daß das Versehen in dem Juristennamen und nicht (so Krüger) in der Buchziffer liegt”. Secondo Johnston 1997, 60, nt. 17, entrambe le soluzioni sono possibili “on grounds both of Bluhme-Krueger order and book content”. 632 Honoré 2007, rispettivamente, 2533 e nt. 26, 2536-2537, 2539. L’autore osserva, inoltre, che D. 4.7.8.1 è l’unico testo di Paolo in cui viene impiegata la formula Ait praetor (ad inizio di paragrafo, dunque), a fronte di novantuno occorrenze ulpianee. Cfr. sul punto anche Id. 2010, 141 e nt. 26 e 144. 633 Honoré 2007, 2537; nonché Id. 2010, 144. Quest’ultimo argomento non potrebbe dirsi “concludente” secondo Viaro 2012, 112-113 e nt. 12, “specie se si tiene conto che i due testi inseriti nella sequenza dei Digesta imperiali sono tratti da due opere diverse del giurista severiano, il primo, dal commentario all’editto pretorio, il secondo, invece, dal commentario all’editto degli edili curuli”. 634 Cfr. sul punto Luchetti 2018a, 40 e nt. 7. 630

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Commento molto simile, ma non è certo possibile, stante l’esiguità dei dati testuali a nostra disposizione, decidere l’attribuzione in un senso o nell’altro ricorrendo ad argomenti di carattere stilistico635. Con tutta la prudenza richiesta dalle circostanze e nella speranza che di ciò possa giovarsi l’esegesi, ritengo senz’altro non inutile giovarsi dell’intuizione di Otto Lenel e continuare a prendere in considerazione – sia pure dubitativamente – il testo di D. 4.7.10 nella palingenesi e nel commento delle testimonianze dei libri ad edictum paolini. F. 178 – D. 4.7.8 Il giurista precisa che è tenuto in forza delle previsioni dell’editto anche chi fa l’esibizione di una cosa se, secondo la valutazione del giudice, non ha ripristinato le originarie condizioni del giudizio636. La semplice esibizione, dunque, non è sufficiente a liberare dall’azione: è necessario effettuare la restituzione637. Questo testo, insieme a Ulp. 13 ad ed., D. 4.7.4.6, dimostra che l’azione in factum proposta dal pretore nell’editto aveva carattere arbitrario638.

635 Mi riferisco all’impiego dell’espressione huic edicto locus non erit in D. 4.7.8.3 e in D. 4.7.10pr., espressione che è dato incontrare solo in questi due luoghi. Huic edicto locus ricorre in Ulp. 11 ad ed., D. 4.2.9pr.-1 (2 volte), Paul. 19 ad ed., D. 11.3.14.1, Ulp. 40 ad ed., D. 37.8.1.6, Paul. 41 ad ed., D. 37.10.6.3, Ulp. 59 ad ed., D. 42.4.3.3, Ulp. 56 ad ed., D. 47.9.3.2. Per l’espressione huic edicto locus possiamo quindi individuare cinque occorrenze ulpianee e due paoline, occorrenze che, alla luce dell’evidenziato rapporto tra la consistenza delle testimonianze dell’opera dei due giuristi non fornisce certo un indice significativo ai fini dell’attribuzione. Se poi volessimo prendere in considerazione l’espressione huic edicto locus non ci troveremmo di fronte alla sola testimonianza di Paul. 19 ad ed., D. 11.3.14.1 e saremmo dunque costretti ad affermare che entrambi i testi non possono che essere attribuiti a Paolo. 636 Partsch 1909, 51, dopo aver osservato che il commentario paolino è stato poco utilizzato dai giustinianei per la costruzione del titolo D. 4.7 e che “Paul ne commente pas le texte de l’édit en le suivant mot à mot”, considera inutile chiedersi perché in questo frammento “un passage traitant de la notion de ‘restitution’ précède le commentaire d’une phrase édictale qui, selon toute vraisemblance, formait les premiers mots de l’édit sur la restitutio in integrum”. Sembra opportuno osservare in proposito che il riferimento alla restitutio contenuto nel principium ben si presta a fornire un inquadramento generale della previsione edittale, prodromico al commento lemmatico svolto – dopo la citazione dei verba edicti nel primo paragrafo – nel prosieguo del frammento, in cui il giurista si sofferma sulla nozione di alienatio. 637 Cfr. Cuiacius 1584, 161-162. L’autore richiama a conforto dell’interpretazione offerta Gai. 4 ad ed. prov., D. 50.16.22, che sarebbe stato scritto proprio in relazione a questo editto. Per la collocazione palingenetica di quest’ultimo frammento, v. tuttavia Lenel 1889.I, 195, secondo cui la testimonianza gaiana sarebbe stata invece posta a commento delle parole neque ea res restiuetur dell’actio quod metus causa. Avanza il dubbio che la testimonianza gaiana possa concernere l’editto de alienatione iudicii mutandi causa facta Johnston 1997, 64, nt. 36: “The proper position is unclear: perhaps de alienatione iudicii mutandi causa facta (E. 46)?”. Che il giurista si riferisca all’azione scaturente dall’editto sull’alienatio iudicii mutandi causa facta, è già sostenuto da Cuiacio: “Et ita si rem restituerit, hujus edicti evitat actionem”. 638 Ulp. 13 ad ed., D. 4.7.4.6 è stato già considerato supra, 190-191, nt. 407. Biondi 1912, 107, nega che il testo possa essere riferito all’arbitrarietà dell’azione: “L’arbitratus iudicis qui non si riferisce alla nostra actio in factum, ma invece all’actio ad exibendum; si osservi, infatti, che appunto la mancata restituzione della pristina causa iudicii nell’actio ad exibendum, rende passibile dell’actio in factum l’alienante (ex hoc edicto tenetur)”. L’opinione di Biondi persuade Lenel 1916, 115, nt. 1 (= 1992, IV 73, nt. 1). Lo stesso autore, tuttavia, non esita a configurare l’azione come arbitraria: v. Id. 1927, 129 e nt. 3. Secondo Talamanca 1987, 67, nt. 473, è “incerto” se l’azione “concessa probabilmente nel caso di alienatio iudicii mutandi causa facta avesse effettivamente la clausola arbitraria”. Lo stesso autore esprime dei dubbi sul suo carattere penale. Per il carattere arbitrario dell’azione, cfr. anche Burillo 1960, 215 e nt. 83; Kaser 1977, 171 e nt. 272; Voci 1998, 7 e nt. 31 (= 2007, 201 e nt. 31); Gröschler 2002, 125 e nt. 19; nonché Viaro 2012, 113-114. Che si trattasse di un’azione in factum si ricava da Gai. 4 ad ed. prov., 4.7.1pr.

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Ivano Pontoriero Il giurista riporta letteralmente le parole dell’editto quaeve (rectius: quae) alienatio iudicii mutandi causa facta erit639. Si precisa che l’editto non riguarda le alienazioni compiute dopo che il giudizio sia stato già instaurato (id est si futuri iudicii causa, non eius quod iam sit)640. La trattazione si sofferma quindi sulla nozione di alienatio rilevante ai fini dell’applicazione dell’editto. Tale nozione comprende la vendita della cosa altrui (paragrafo 2)641, mentre non vi rientrano l’istituzione d’erede o la disposizione di un legato (paragrafo 3)642. L’applicazione dell’editto non ha luogo nel caso in cui l’alienante abbia in un secondo momento recuperato il bene (paragrafo 4). Parimenti, l’applicazione dell’editto è esclusa quando un compratore restituisca il bene al venditore a seguito dell’esercizio dell’azione redibitoria, perché, evidentemente, il compratore non si priva del bene allo scopo di mutare il giudizio (paragrafo 5)643. F. 179? – D. 4.7.10 È merito di Otto Lenel aver evidenziato la forte affinità di D. 4.7.10 con la precedente trattazione paolina contenuta in D. 4.7.8644. Nel principium si esclude che l’editto possa trovare applicazione quando l’alienazione sia conseguenza dell’adempimento di un’obbligazione. Nel primo paragrafo si riconosce la possibilità di esperire un’azione utile quando l’alienazione sia stata effettuata dal tutore di un pupillo o dall’agnato curatore di un furiosus645. La motivazione fornita è che tali soggetti non possono pianificare questa frode (quia consilium huius fraudis inire non possunt)646.

639 Sulla scia di Cuiacius 1584, 162, sostiene la necessità di emendare quaeve in quae, ipotizzando l’errore di un copista, Lenel 1927, 128. L’impiego della particella enclitica ve ha indotto gli autori delle più risalenti ricostruzioni dell’editto ad ipotizzare la presenza di altre parole prima di quelle citate da Paolo. 640 La clausola edittale non riguarda le alienazioni avvenute dopo la litis contestatio: v. De Marini Avonzo 1967, 137 e nt. 52; Marrone 1976, 370 e nt. 8 (= 2003, I 254 e nt. 8); nonché Turelli 2020, 65, nt. 143. 641 Sul testo, v. Partsch 1909, 38, secondo cui l’interpretazione giurisprudenziale “fait rentrer dans la notion d’aliénation le cas où la possession seule est transmise”. Cfr. inoltre de Francisci 1924, 107. 642 Osserva come il testo sia l’unico luogo delle fonti giuridiche romane a impiegare il verbo alienare con riferimento all’istituzione di erede o alla disposizione di un legato Mengoni 1975, 127 e nt. 31, che sottolinea come “nel linguaggio tecnico giuridico, come del resto nel linguaggio comune, il termine ‘alienare’” comprenda “soltanto i trasferimenti per atto tra vivi”. L’autore ricorda l’opinione di Wächter 1880, 334, secondo il quale D. 4.7.8.3 fa uso del verbo alienare in modo assolutamente improprio (“ganz uneigentlich”). Sul punto, v. anche Sansón Rodríguez 1998, 127, nt. 1. In realtà, il giurista precisa che nella nozione di alienatio rilevante ai fini dell’applicazione dell’editto non rientrano l’istituzione di erede e la disposizione di un legato. 643 Per l’interpretazione del testo e sull’impiego del verbo abalienare da parte del giurista, v. Sturm 1957, 127, che correttamente osserva: “rédhibition n’est pas aliénation iudicii mutandi causa”. Sul punto, cfr. anche Masuelli 2017, 16. I commissari di Giustiniano hanno strettamente collegato alla chiusa di D. 4.7.8.5, in modo da fornire, all’interno della trama espositiva del titolo, una più articolata motivazione per la soluzione proposta, il frammento Paul. 1 ad ed. aed. cur., D. 4.7.9: quia redhibito homine omnia retro aguntur: et ideo non videtur iudicii mutandi causa alienare qui redhibet: nisi si propter hoc ipsum redhibet non redhibiturus alias [perché, una volta restituito il servo, retroagiscono tutti gli effetti: e perciò non si considera che chi restituisce alieni allo scopo di mutare il giudizio: a meno che, chi non avrebbe altrimenti restituito, non restituisca per questo preciso scopo]. 644 Cfr. supra, 237-239. 645 Su questo paragrafo si soffermano Nardi 1983, 157-158; Kaser 1977, 171, nt. 270; Knütel 1896, 118-199; nonché Gröschler 2002, 125-126. Sulla cura furiosi dell’adgnatus, istituto di ascendenza decemvirale (ed. Riccobono 1941, 39-40: Tab. V.7a; ed. Crawford 1996.II, 646: Tab. V.7), cfr. inoltre Lanza 1990, 31-67. Per quanto concerne i profili palingenetici del versetto delle dodici tavole, v. in particolare Diliberto 1984, 1-48; Agnati 2005, 239-264; Finazzi 2018, 234-235 e nt. 34. 646 Sul testo, v. Grevesmühl 2003, 158, nt. 728.

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Commento [Sulla reintegrazione degli eredi (E. 47 [?])] Otto Lenel nota che nella parte conclusiva dei commentari dei giuristi al titolo edittale de in integrum restitutionibus sono presenti trattazioni relative alla trasmissibilità ereditaria delle richieste di reintegrazione647. Si tratta, in particolare, oltre che del testo paolino oggetto di commento in questa sede [F. 180], dal tenore assai generalizzante e inserito dai giustinianei nel titolo D. 50.17 de diversis regulis iuris antiqui, di D. 4.1.6 e di D. 4.4.19, entrambi ricavati dal tredicesimo libro ad edictum di Ulpiano648. Lenel trae argomento da D. 4.1.6 per sostenere che l’editto prendesse in considerazione solo gli eredi del minore a vantaggio del quale era prevista la reintegrazione649. Il tema della restitutio in integrum degli eredi del minore è anticipato da Ulp. 11 ad ed., D. 4.4.18.5, in sede di trattazione dell’editto de minoribus XX annis650. La prova dell’esistenza dell’editto dubitativamente chiamato de restitutione heredum viene riscontrata da Lenel nel riferimento ut est edicto expressum contenuto in Ulp. 13 ad ed., D. 4.4.19651.

647 Cfr. Lenel 1883, 102-103; Id. 1907, 125; Id. 1927, 129-130. Nella Palingenesia iuris civilis la rubrica viene denominata senz’altro de restitutione heredum nella ricostruzione dei libri ad edictum paolini, de heredibus minorum viginti quinque annis, in quella dell’omologa opera ulpianea, mentre si adotta dubitativamente la prima denominazione – in modo del resto coerente con la scelta già effettuata nel 1883 – nell’Edicti perpetui rubricarum index: cfr. Id. 1889.I, 988; Id. 1889.II, 484 e 1249. Il tentativo di restituzione dell’editto di Adolf Friedrich Rudorff non contiene questa rubrica: alle previsioni relative all’editto de alienatione iudicii mutandi causa facta seguono immediatamente quelle relative al titolo de receptis. Cfr. Rudorff 1869, 64. La rubrica de restitutione heredum è accolta, in modo non dubitativo, da Krüger 1905, 898. 648 Cfr. Lenel 1889.II, 984 e Id. 1927, 130. 649 Ulp. 13 ad ed., D. 4.1.6: Non solum minoris, verum eorum quoque, qui rei publicae causa afuerunt, item omnium, qui ipsi potuerunt restitui in integrum, successores in integrum restitui possunt, et ita saepissime est constitutum. sive igitur heres sit sive is cui hereditas restituta est sive filii familias militis successor, in integrum restitui poterit. proinde et si minor in servitutem redigatur vel ancilla fiat, dominis eorum dabitur non ultra tempus statutum in integrum restitutio. sed et si forte hic minor erat captus in hereditate quam adierit, Iulianus libro septimo decimo digestorum scribit abstinendi facultatem dominum posse habere non solum aetatis beneficio, verum et si aetas non patrocinetur: quia non apiscendae hereditatis gratia legum beneficio usi sunt, sed vindictae gratia [Possono essere reintegrati non solo i successori del minore, ma anche di quelli che furono assenti per un interesse pubblico, parimenti di tutti quelli che avrebbero potuto personalmente essere reintegrati, e così assai spesso è stato stabilito da costituzioni imperiali. Sia dunque o l’erede o colui al quale l’eredità è stata restituita o il successore di un militare figlio in potestà, potrà essere reintegrato. Per la qual cosa, anche se un minore venga ridotto in servitù o una minore diventi serva, la reintegrazione sarà concessa ai loro padroni non oltre il tempo stabilito. Ma anche se per caso questo minore si era ingannato in relazione all’eredità che aveva adito, Giuliano scrive nel diciassettesimo libro dei Digesti che il padrone possa avere la facoltà di astenersi non solo per beneficio dell’età, ma anche se l’età non venga difesa: perché si sono serviti del beneficio delle leggi non per ottenere l’eredità, ma per punire]. Cfr. Lenel 1927, 130. 650 Ulp. 11 ad ed., D. 4.4.18.5: Non solum autem minoribus, verum successoribus quoque minorum datur in integrum restitutio, etsi sint ipsi maiores [La reintegrazione poi non è concessa solo ai minori, ma anche ai successori dei minori, anche se gli stessi siano maggiori]. Cfr. Lenel 1889.II, 476. 651 Ulp. 13 ad ed., D. 4.4.19: Interdum tamen successori plus quam annum dabimus, ut est edicto expressum, si forte aetas ipsius subveniat: nam post annum vicensimum quintum habebit legitimum tempus. hoc enim ipso deceptus videtur, quod, cum posset restitui intra tempus statutum ex persona defuncti, hoc non fecit. plane si defunctus ad in integrum restitutionem modicum tempus ex anno utili habuit, huic heredi minori post annum vicensimum quintum completum non totum statutum tempus dabimus ad in integrum restitutionem, sed id dumtaxat tempus, quod habuit is cui heres extitit [Talvolta, tuttavia, concederemo al successore più di un anno, come è espressamente previsto dall’editto, se per caso venga in soccorso l’età del medesimo: e appunto dopo il venticinquesimo anno avrà il tempo legittimo. Infatti si

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Ivano Pontoriero F. 180 – D. 50.17.120 Lenel ipotizza, dunque, che il frammento di Paolo oggetto di commento, nel suo contesto originario, riguardasse la possibilità per gli eredi del minore di richiedere la reintegrazione nel termine residuo di cui si sarebbe potuto avvalere il loro dante causa652. Il breve frammento paolino ha assunto all’interno della compilazione giustinianea – grazie alla sua decontestualizzazione e all’inserimento in D. 50.17 de diversis regulis iuris antiqui – un significato ben più ampio e generale653. La testimonianza è stata allora impiegata dalla tradizione romanistica per illustrare il funzionamento dei modi di acquisto della proprietà a titolo derivativo, specie insieme al testo di Ulp. 46 ad ed., 50.17.54, considerato, a sua volta, espressione di un principio di logica universale, del quale il testo paolino avrebbe fatto applicazione in materia successoria, o, anche, parallelamente, per costruire la teoria del subentro dell’erede nella posizione giuridica del de cuius654.

dera tratto in errore per ciò stesso, che, potendo essere reintegrato nel tempo stabilito in base alla persona del defunto, non lo ha fatto. Chiaramente se il defunto ha avuto per la reintegrazione un breve periodo di tempo dell’anno utile, a questo erede minore dopo il compimento del venticinquesimo anno non concederemo per la reintegrazione tutto il tempo stabilito, ma solo questo tempo, che ha avuto colui del quale è divenuto erede]. 652 Lenel 1927, 130 e nt. 3. Sul testo, cfr. anche Adame Goddard 1985, 23-25; Id. 2010, 232-235. L’autore sottolinea come un diverso regime potrebbe essere forse riflesso – in ragione dell’emanazione della costituzione di Costantino contenuta in C.Th. 2.16.2 = C. 2.52(53).5 (per la datazione al 319, v. Seeck 1919, 168) – da PS. 1.9.4: Si minor minori heres existat, ex sua persona, non ex defuncti in integrum restitui potest [Se un minore diventi erede di un minore, può essere reintegrato in base alla sua persona, non di quella del defunto]. Il primo paragrafo della costituzione richiamata, infatti, riconosce al minore erede di un minore la possibilità di chiedere la reintegrazione ex sua persona. In proposito, si deve tuttavia tener conto di quanto osservato da Ulp. 13 ad ed., D. 4.4.19, che prende in considerazione il caso del minore erede del minore, riconoscendo all’avente causa un termine maggiore di quello riconosciuto al dante causa. 653 Sulla decontestualizzazione derivante dall’inserimento dei testi della giurisprudenza nel titolo conclusivo del Digesto, v. le considerazioni di Albertario 1935, 159, il quale osserva: “nell’ultimo titolo del Digesto sembra toccare il suo culmine la lotta fra domma e storia, il contrasto tra presente e passato”. Sulla compilazione del titolo e sulla funzione da esso svolta all’interno del sistema della compilazione, cfr. Stein 1966, 114-123; Id. 2007, 25-29. Si sofferma sul “valore relativo” delle regulae iuris, mettendo in luce come “la libertà di fronte alle regole” sia un tratto caratterizzante dell’interpretatio giurisprudenziale Finkenauer 2015, 15-21 (= 2016, 77-86). Sull’attuale impiego delle regulae iuris da parte della giurisprudenza comunitaria, attraverso la mediazione dello ius commune, si sofferma Reinoso-Barbero 2016, 591-625. 654 Ulp. 46 ad ed., 50.17.54: Nemo plus iuris ad alium transferre potest, quam ipse haberet [Nessuno può trasferire ad un altro un diritto maggiore di quello che egli stesso abbia]. Per la collocazione palingenetica del testo ulpianeo, v. Lenel 1889.II, 722 e nt. 1. L’autore riferisce il testo alla rubrica unde legitimi nell’ambito della trattazione della bonorum possessio sine tabulis, avvertendo in nota che le parole del giurista potrebbero concernere l’in iure cessio hereditatis. Ulpiano esprime identico principio in Ulp. 29 ad Sab., D. 41.1.20pr., che doveva originariamente riferirsi agli effetti della mancipatio, anziché a quelli della traditio. Un’eccezione riguarda il creditore pignoratizio, che, come ricorda Ulp. 65 ad ed., D. 41.1.46, senza essere proprietario, può vendere il bene che appartiene al debitore oppignorante (per la palingenesi del testo, inserito nell’ambito della trattazione concernente il curator bonorum, v. Lenel 1889.II, 798). Più in generale, le Istituzioni di Gaio esprimono un principio opposto, secondo il quale, talvolta, il proprietario non ha la potestas alienandi, mentre tale facoltà è riconosciuta a chi proprietario non è. Cfr. Gai. 2.62: Accidit aliquando, ut qui dominus sit, alienandae rei potestatem non habeat, et qui dominus non sit, alienare possit [Accade talvolta che, chi sia proprietario, non abbia la facoltà di alienare la cosa, e che chi non sia proprietario possa alienare]. La casistica ricordata da Gaio concerne il divieto di alienare il fondo dotale contro il volere della moglie previsto dalla lex Iulia de fundo dotali (Gai. 2.63), l’alienazione compiuta dall’agnato curatore del furiosus, dal procurator e il già ricordato caso della vendita effettuata dal creditore pignoratizio (Gai. 2.64). Alla luce di queste osservazioni, Schulz 1951, 351-352, ritiene spurio il testo di D. 50.17.54 (identico giudizio viene formulato a proposito del conforme Ulp. 29 ad Sab., D. 41.1.20pr.). L’autore, inoltre, considerando il contesto palingenetico relativo alla trattazione

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Commento Appare significativo notare in proposito come già Accursio abbia instaurato un collegamento tra D. 50.17.120 e Ulp. 3 disp., 50.17.59655, mentre, nella lettura dei glossatori, D. 50.17.54 veniva piuttosto ricondotto al tema dell’acquisto del dominium656. Si deve quindi alla riflessione di Jacques Godefroy l’individuazione del contesto palingenetico di D. 50.17.54 nella trattazione della bonorum possessio unde legitimi e il contestuale isolamento, nell’ambito del medesimo titolo D. 50.17, di ulteriori sette regulae, tra cui quella enunciata da D. 50.17.120, relative alla “heredis cum defuncto ἰσονομία ἰσοδυναμία”657. Lo stesso autore, prendendo in considerazione ex professo la testimonianza paolina contenuta in D. 50.17.120, la riconduce alla trattazione concernente l’editto ex quibus causis maiores viginti quinque annis in integrum restituuntur, ipotizzando, altresì, un collegamento con Paul. 12 ad ed., D. 4.6.30pr. [F. 176]658.

della bonorum possessio sine tabulis, nell’ambito della rubrica unde legitimi, e tenendo conto della disciplina della in iure cessio hereditatis attestata da Gai. 2.35, propone la seguente ricostruzione: Heres non plus iuris ad alium transferre potest quam ipse haberet si hereditatem adisset. Sulla palingenesi di D. 50.17.54 si sofferma Longchamps de Bérier 2015, 69-71, il quale, tuttavia, nel prosieguo della sua analisi (78), considera come solo apparenti le eccezioni richiamate da Gai. 2.62-64. Considera il principio espresso da D. 50.17.54 “gleichsam ‚naturgesetzlich’” Kaser 1979, 92, nt. 6 (= 1986, 148-149, nt. 6). In senso critico, v. Giaro 1991, 220-222. La forte affinità tra D. 50.17.54 e D. 50.17.120 è percepita da Reinoso Barbero 1987, 337, secondo il quale i due frammenti enuncerebbero “reglas prácticamente iguales”. L’autore, giudicando improbabile che Paolo e Ulpiano, “casi coetáneos”, abbiano “espontaneamente” formulato “las mismas reglas”, ipotizza che i due giuristi abbiano attinto alla tradizione precedente. Due approfondite analisi sulle posizioni assunte dalla tradizione romanistica e dalla storiografia nella valutazione di D. 50.17.54 vengono proposte da Salomone 2017, 7-23 (= 2017, 2172-2185) e da Sansón Rodríguez 2017, 2-15. In relazione all’impiego della teoria del subentro dell’erede nella posizione giuridica del de cuius da parte della civilistica contemporanea, v. in particolare Cicu 1927, 161; Id. 1945, 14; nonché l’accurato quadro d’insieme tracciato da Ruperto 1950, 123-148. 655 Ulp. 3 disp., D. 50.17.59: Heredem eiusdem potestatis iurisque esse, cuius fuit defunctus, constat [Consta che l’erede abbia gli stessi poteri e gli stessi diritti che ebbe il defunto]. Lenel 1889.II, 396 e nt. 2, colloca il frammento sotto la rubrica de furtis (E. XXIII), facendolo precedere a D. 44.3.5. Su D. 50.17.59 e sul contesto della trattazione ulpianea, cfr. Scherillo 1954, 51-53 (= 1997, 59-60) e Voci 1967, 221 e nt. 56. Per l’interpretazione di D. 50.17.59, v. anche Robbe 1965, 161, secondo cui: “il significato di questo testo è molto limitato e circoscritto: esso non vuole assolutamente significare né una generale né tanto meno una generica identità fra le due situazioni giuridiche del defunto e dell’erede. Il suddetto testo ha un significato determinato e specifico”. Secondo l’autore: “esso vuol dire soltanto che l’erede in quello che eredita è libero come e quanto lo era il defunto; l’erede, sempre in quello che eredita, ha tutti gli stessi poteri, persino di disposizione, eiusdem potestatis, come li aveva il defunto”. Adde, tuttavia, le osservazioni di Torrent 1967, 632, il quale ritiene che si possa intravedere una certa identità tra la posizione giuridica del dante causa e quella dell’erede “al menos en relación a lo que se hereda”, secondo un orientamento della giurisprudenza reso evidente da D. 50.17.54, D. 50.17.120, D. 50.17.175 e D. 50.17.117. 656 Cfr. Gl. Acc. Nemo plus a D. 50.17.120: Dic ut l. eo. heredem. Accursius [Di’ come, in questo stesso titolo, la l. heredem (scil. D. 50.17.59). Accursio]. Per la riconduzione di D. 50.17.54 al tema dell’acquisto del dominium, v. gl. acc. Nemo plus a D. 50.17.54: Si mihi fundum vendideris et tradideris, quod tu iuris habes, in me transfers. unde si tu dominus eras: et ego dominus ero: et si non dominus eras, nec ego: sed possess(sionem) adipiscor. (…) [Se tu mi avrai venduto e consegnato un fondo, trasferisci a me il diritto che hai. Ragion per cui se tu eri proprietario: anch’io sarò proprietario; e se non eri proprietario, non lo sarò neppure io: ma acquisto il possesso. (…)]. Per questo inquadramento di D. 50.17.54, cfr. anche il Commentarius ad Digestorum titulum de diversis regulis iuris antiqui di Bulgaro (ed. Beckhaus, Bonnae 1856 [rist. Frankfurt/Main 1967], 49). 657 Cfr. Gothofredus 1652, 242. Si tratta, segnatamente, di Ulp. 3 disp., D. 50.17.59; Iul. 6 dig., D. 50.17.62; Paul. 12 ad ed., D. 50.17.120; Paul. 19 ad ed., D. 50.17.128.1; Ulp. 62 ad ed., D. 50.17.143; Ulp. 70 ad ed., D. 50.17.156.2 = D. 43.19.3.2; Ulp. 76 ad ed., D. 50.17.160.2. Godefroy osserva che la formulazione di D. 50.17.120 è pressoché corrispondente a quella di D. 50.17.54: “E quibus etiam dicta lex 120, iisdem pene verbis concepta est: Nemo plus commodi heredi suo relinquit, quam ipse haberet”. 658 Gothofredus 1652, 508.

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Ivano Pontoriero La storiografia ha messo opportunamente in luce come il frammento paolino impieghi un topos argomentativo che, già presente nella riflessione scientifica di Gaio e in quella di Papiniano, risulta poi ampiamente recepito dalla giurisprudenza successiva659. Nello stesso titolo D. 50.17 de diversis regulis iuris antiqui sono conservate altre due testimonianze ricavate dai libri ad Plautium di Paolo, testi nei quali lo svolgimento dell’interpretazione è incentrato sul rilievo che l’avente causa non può avere una posizione migliore rispetto a quella del dante causa660. Paolo individua, con argomentare sottile, una solo apparente eccezione al principio in Paul. lib. sing. de iur. sing., D. 7.1.63, a proposito della costituzione dell’usufrutto da parte del proprietario di un fondo: quest’ultimo può cedere l’usufrutto del fondo ad un altro, sebbene, a rigore, egli stesso non sia titolare del diritto di usufrutto661.

659 In Iav. 7 ex Cass., D. 41.2.21pr. si afferma che, talvolta, chi non ha il possesso di un bene può tradere possessionem. L’illustrazione fornita riguarda il caso di un possessore pro herede, che, a seguito della precarii rogatio rivolta all’erede non possessore, inizi a possedere pro precario, perdendo, dunque, la possibilità di usucapire. Sulla fattispecie considerata, v. Biavaschi 2006, 119. Per l’impiego di questo topos argomentativo in Gaio e in Papiniano, v. rispettivamente Gai. 6 ad ed. prov., D. 9.4.27.1 e Papin. 20 quaest., D. 20.1.3.1. Sul punto, v. la persuasiva analisi condotta da Rodríguez Diez 2015, 361-369; Id. 2016, 285-301; seguito da Sansón Rodríguez 2017, 10-12. 660 Cfr. Paul. 11 ad Plaut., D. 50.17.175.1: Non debeo melioris condicionis esse, quam auctor meus, a quo ius in me transit [Non devo trovarmi in una condizione migliore del mio dante causa, dal quale il diritto passa a me]. Vedi inoltre Paul. 14 ad Plaut., D. 50.17.177pr.: Qui in ius dominiumve alterius succedit, iure eius uti debet [Chi succede nel diritto o nel dominio di un altro, deve servirsi del di lui diritto]. Per la palingenesi delle due testimonianze, cfr. Lenel 1889.I, rispettivamente, 1165 e nt. 5 e 1167 e nt. 8. L’autore inserisce la prima sotto la rubrica incerta de testamentis et legatis, avanzando in nota 5 il dubbio che possa trattarsi di una rubrica ad legem Iuliam et Papiam, mentre il secondo testo, collocato sotto la rubrica, parimenti incerta, de exceptionibus, prendeva, verosimilmente, in considerazione l’exceptio rei venditae et traditae. Il riferimento alla successio in dominium contenuto in D. 50.17.177pr. è ritenuto interpolato da Longo 1901, 258-259 e da de Francisci 1924, 173 e 269. Secondo quest’ultimo autore, l’idea del trasferimento dei diritti emergerebbe solo in età postclassica, ciò, peraltro, spiegherebbe anche la mancata formulazione da parte dei giuristi romani della distinzione tra modi di acquisto della proprietà a titolo originario e modi di acquisto della proprietà a titolo derivativo (queste tesi sono già state anticipate in Id. 1921, 5-33; sull’origine e sulla portata della distinzione tra modi di acquisto della proprietà a titolo originario e modi di acquisto della proprietà a titolo derivativo, elaborata da Grotius 1625, 154: “Singulari iure aliquid nostrum fit acquisitione originaria aut derivativa”, cfr. in particolare Mengoni 1949, 3-6). I sospetti di interpolazione sono riproposti da Gaetano Scherillo, il quale, da parte sua, rileva che, trattandosi della legittimazione attiva ad avvalersi dell’exceptio rei venditae et traditae, come sarebbe provato dall’espressione iure eius uti, sarebbe “assurdo” parlare di “successione nel dominio”: cfr. Scherillo 1954, 53-54 (= 1997, 60-61). Sulle due testimonianze paoline, cfr. anche Giaro 2006, 45. 661 Paul. lib. sing. de iur. sing., D. 7.1.63: Quod nostrum non est, transferemus ad alios: veluti is qui fundum habet, quamquam usum fructum non habeat, tamen usum fructum cedere potest [Trasferiremo ad altri ciò che non è nostro, per esempio se qualcuno ha un fondo, sebbene non abbia l’usufrutto, tuttavia può cedere l’usufrutto]. Per l’esegesi, v. Grosso 1935, 27; Id. 1936a, 403 (= 2001, IV 45), il quale non ritiene “così inverosimile… l’interpretazione nel senso che il proprietario, per quanto non sia titolare di un usufrutto, può costituirlo in favore di un terzo”; propone una diversa lettura Bretone 1962, 188-191, secondo cui il testo avrebbe inteso “affermare la legittimazione del nudo proprietario a costituire l’usufrutto”, dando così risposta ad una questione che aveva suscitato l’interesse della giurisprudenza con riferimento al legato per vindicationem (cfr. Ulp. 17 ad Sab., D. 7.1.72, mentre Iul. 52 dig., D. 45.1.56.6, si riferisce al nudo proprietario come a colui il quale ha il fondo, ma non l’usufrutto); v. però le osservazioni critiche formulate da Guarino 1964, 46-49 (= 1995, VI 75-79), che condivide l’esegesi di Giuseppe Grosso. In questo senso, cfr. anche Longchamps de Bérier 2015, 78-79. Antonio Guarino nega la classicità della categoria dello ius singulare e considera il liber singularis de iure singulari uno scritto integralmente apocrifo (cfr. in precedenza Id. 1946, 35-42 [= 1995, VI 49-59]). Sul liber singularis paolino, del quale rimangono, oltre a quello richiamato, solo i due frammenti D. 1.3.16 e D. 24.3.54, v. Fiori Maciocco 1996, 33, secondo la quale si tratterebbe

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Commento Lo stesso topos argomentativo viene applicato anche da Ulpiano al campo successorio ricorrendo, al contempo, all’argumentum ex absurdo662.

LIBRO XIII

[Sulle assunzioni (E. XI)] Il tredicesimo libro del commentario paolino è dedicato all’esame del titolo edittale de receptis, cui, come è noto, facevano riferimento tre diversi editti aventi a oggetto, rispettivamente, il receptum degli arbitri, quello degli armatori, dei tavernieri e degli stallieri, e quello degli argentarii663. Nonostante le caratteristiche peculiari di ciascun tipo di receptum, elemento comune a tutte queste figure era la responsabilità derivante da un recipere, che si concretizzava nel dovere di assolvere l’impegno assunto664. Più in particolare, il receptum arbitri, che originariamente doveva limitarsi a una responsabilità di tipo materiale in relazione alla cosa oggetto della lite, si realizzava con la volontaria assunzione delle vesti di arbitro di una controversia. I due litiganti, che si impegnavano reci-

di “un’opera di carattere scientifico con cui Paolo volle dare, dal punto di vista della sistematica, una elaborazione definitiva del concetto di ius singulare”. Sulla denominazione dell’opera, cfr. anche Cossa 2018, 105-107, e, per l’impiego da parte dei compilatori e l’assegnazione alla massa papinianea, 628-629 e nt. 863. Sulla definizione di ius singulare tradita da D. 1.3.16 e sul suo impiego come “schema di qualificazione che è servito per i fini più diversi” da parte delle “scienze giuridiche sviluppatesi dal tronco della tradizione romanistica”, cfr. le osservazioni di Orestano 1964, 746-747 (= 1981, 451-454 [= 2000, V 114-115]). 662 Ulp. 76 ad ed., D. 50.17.160.2: Absurdum est plus iuris habere eum, cui legatus sit fundus, quam heredem aut ipsum testatorem, si viveret [È assurdo che colui al quale è stato legato un fondo abbia un diritto maggiore di quello dell’erede o dello stesso testatore, se fosse in vita]. Si sofferma sulla testimonianza, rilevando come il ricorso all’argomento ex absurdo corrobori in questo caso la soluzione ricavabile dall’applicazione della regola illustrata da Ulp. 46 ad ed., D. 50.17.54, Giaro 2006, 45; Id. 2016, 249. È appena il caso di ricordare che la critica interpolazionistica, sulla scorta di Beseler 1913, 25-35 (ma v. già il fondamentale apporto in questo senso di Gradenwitz 1910, 305-320), riteneva sistematicamente non genuina la deductio ad absurdum contenuta nelle fonti giurisprudenziali: su tale orientamento e sulla sua infondatezza, rilevata già negli anni sessanta del secolo scorso da Wieacker 1962, 1-21, con particolare riferimento alle tecniche argomentative impiegate da Celso figlio, e da Bretone 1963, 331338, che sottolinea, da parte sua, l’“ampiezza” e la “continuità” dell’impiego dell’argumentum ex absurdo da parte dei giuristi, v. le considerazioni svolte da Reggi 1974, 148-172; nonché Capone 1997, 199-200. Si soffermano sull’impiego della deductio ad absurdum anche Wacke 1999, 547-568, e, in relazione alla produzione di Quinto Cervidio Scevola, Gokel 2013, 65-85. 663 Sulla ricostruzione dell’editto de receptis, cfr. Lenel 1927, 130-135. V. anche Rudorff 1869, 64-65, che tuttavia non indica la terza delle menzionate clausole. Questa, d’altronde, era stata variamente intesa anche da Lenel, che inizialmente l’aveva rubricata de recepticia actione (Lenel 1889.I, 992 e Id. 1889.II, 491) e, successivamente, argentariae mensae exercitores quod pro alio solui receperint ut solvant (Lenel 1927, 127, ma in questo senso già Id. 1883, 104 e Id. 1889.II, 1249). 664 In generale, sull’istituto del receptum, v. le voci enciclopediche di Klingmüller 1914, 355-358 e Frezza 1967, 1026-1027.

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Elena Pezzato procamente tramite un compromissum, solitamente garantito da stipulazioni penali, ad attenersi alla sua decisione, vedevano così garantito il diritto a ottenere la pronuncia di una sententia per mezzo della coazione del magistrato (con la multae dictio e, probabilmente anche la pignoris capio) nei confronti dell’arbiter665. Il pretore previde inoltre una speciale forma di responsabilità in capo a nautae, stabularii e caupones, tutelata tramite un’actio in factum. Tale responsabilità sorgeva in tutti quei casi in cui armatori, tavernieri e stallieri non fossero in grado di restituire integro ogni bene che era stato loro affidato: grazie alla lezione di Labeone (Ulp. 14 ad ed., D. 4.9.3.1), erano comunque fatti salvi i casi di forza maggiore. L’impegno, che inizialmente doveva essere espressamente assunto, in seguito sarebbe stato svincolato dall’esistenza di una esplicita dichiarazione666. Il receptum argentarii, infine, si realizzava con la promessa da parte di un banchiere di compiere una prestazione dovuta dal suo cliente a un terzo. Al creditore, l’editto pretorio riconosceva l’actio recepticia, in factum. A causa della soppressione da parte di Giustiniano di questo istituto, fuso con quello del constitutum debiti (cfr. [Imp. Iust. A. Iuliano pp., a. 531] C. 4.18.2.1), l’unico dato certo in merito è la totale indipendenza dell’obbligazione del banchiere risultante dal receptum con quella del terzo667. La trattazione della clausola edittale qui arbitrium receperint ut sententiam dicant si ritrova, in gran parte, in D. 4.8, avente omonima rubrica. La ricostruzione palingenetica non appare pertanto particolarmente problematica, a differenza della restituzione del tenore originario dei singoli testi, spesso non agevole per la tendenza dei compilatori giustinianei a innestare, anche in questa parte, passi paolini, spesso assai brevi, in un contesto ampiamente dipendente dall’esposizione ulpianea. Al di fuori di D. 4.8, sono riconducibili al titolo edittale appena due frammenti, D. 36.1.37(36) [F. 194] e D. 50.17.121 [F. 187], collocati nel Digesto rispettivamente sotto i titoli ad senatus consultum Trebellianum e de diversis regulis iuris antiqui. Un paragrafo di una costituzione giustinianea (si tratta di [Imp. Iust. A. Iuliano pp., a. 530] C. 2.55[56].5.3[1]) permette inoltre di integrare indirettamente i temi oggetto dell’esposizione paolina: si evince, in particolare, che vi si trattasse anche dell’interruzione della prescrizione all’inizio del procedimento arbitrale. Peraltro, mentre i frammenti iniziali, da F. 181 a F. 189 (fatta eccezione per F. 185) appaiono come chiose apposte alla trattazione ulpianea e si conformano pertanto al quadro appena delineato, un discorso almeno in parte diverso va svolto per i passi successivi, da F. 190 a F. 192, che sono grammaticalmente e logicamente autonomi. F. 191, in particolare, con le sue quasi due colonne occupate nella palingenesi leneliana, costituisce uno dei frammenti più lunghi di quanto sia rimasto del commentario paolino ad edictum. Il confronto della trattazione di Paolo sulla clausola edittale qui arbitrium receperint ut sententiam dicant con quella

665 In merito al receptum arbitri, si considerino, almeno, i contributi di Wlassak 1895, 409; Wenger 1914, 358372 e Id. 1925, 9 ss., 22, 330 ss. (= 1938, 9 ss., 22, 338 ss.); Bonifacio 1957a, 925-926; Ziegler 1971, 77 ss.; Buigues Oliver 1990, 225 ss.; dalla Massara 2012a, 130-131 e Rampazzo 2012, 71 ss. 666 Sul receptum nautarum, cfr. praecipue Brecht 1962, 83 ss.; de Robertis 1952, nonché, più in generale sul receptum di armatori, tavernieri e stallieri, Salazar Revuelta 2007. 667 In tema di receptum argentarii, da ultimi, Rodríguez González 2004 e Pedone 2020, a cui si rinvia per una completa ricognizione della letteratura precedente.

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Commento di Ulpiano, inoltre, evidenzia la sua straordinaria lunghezza relativa. A fronte delle cinque colonne e mezzo ulpianee, sono quasi quattro le colonne riportate da Paolo in materia di receptum arbitri, un dato che si discosta notevolmente da quello più generale in cui, come è noto, i libri ad edictum ulpianei, quantitativamente, rappresentano il triplo di quelli paolini668. La ragione di questa singolare estensione può ricondursi in ipotesi a più ordini di ragioni, vale a dire o a una libera scelta dei compilatori, che – insolitamente – hanno deciso di escerpire da un autore più che dall’altro, oppure a una decisione dettata dalla presenza di una trattazione più ricca e completa nell’opera di Paolo. Considerato che la singolarità dell’estensione paolina, di fatto, deve essere quasi esclusivamente ricondotta al F. 191 e che la frammentarietà e brevità dei frammenti iniziali confermano l’utilizzo – anche in questo titolo in via principale – del testo ulpianeo, credo possa escludersi che all’opera di Paolo sia stato qui semplicemente ed eccezionalmente attribuito il ruolo di guida. Piuttosto, e con una certa probabilità, la trattazione paolina presente nel F. 191 deve esser stata considerata maggiormente perspicua ed esauriente di quella di Ulpiano, tale da togliergli, anche se per poco, la scena669. Gli argomenti esposti appaiono in gran parte sconnessi tra loro e a stento è possibile individuare dei nuclei tematici. La trattazione ha come Leitmotiv l’obbligo dell’arbitro e l’eventuale coercitio del pretore, a tratti interrotta da digressioni su altri temi – comunque sempre connessi a quello principale – come, ad esempio, il contenuto della sentenza arbitrale (F. 185 e F. 191 nella conclusione) o la poena compromissi (F. 189 e F. 191 nella sua parte iniziale). La clausola edittale successiva è rubricata nautae caupones stabularii ut recepta restituant e raccoglie soltanto due frammenti, scollegati tra loro e collocati, tra l’altro, in differenti titoli del Digesto (l’omonimo D. 4.9 e D. 19.2 locati conducti). Del conclusivo editto in materia di receptum argentarii (argentariae mensae exercitores quod pro alio solui receperint ut solvant), ci è stato conservato un solo frammento, peraltro manomesso dai compilatori.

[Coloro che abbiano assunto l’ufficio di arbitro affinché pronuncino sentenza (E. 48)] F. 181 – D. 4.8.4 Il primo passo pervenutoci è stato inserito dai compilatori in funzione esplicativa rispetto al precedente commento di Ulpiano, Ulp. 13 ad ed., D. 4.8.3.3, in merito alla coercibilità riconosciuta al pretore nei confronti di colui che, liberamente, avesse assunto l’incarico di arbitro. Come afferma Ulpiano, la vincolatività che seguiva l’assunzione dell’officium arbitri si esplicava nel potere di cogere del pretore, potere indirizzabile nei confronti di qualsiasi soggetto, rivestito di qualsiasi dignità, perfino quella consolare (etiam si sit consularis). Il giurista rico-

668 Sul punto, per tutti, v. Luchetti 2018a, 40, che attesta il rapporto tra l’opera di Ulpiano e quella di Paolo con un rapporto di 3,62 a 1. 669 Similmente anche Giachi 2005, 191, che tuttavia non mi pare sottolineare sufficientemente il fatto che l’estensione paolina si limiti, di fatto, al solo F. 191.

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Elena Pezzato nosce tuttavia un’eccezione con riguardo a chi stesse attualmente rivestendo il consolato o la pretura, circostanza che escludeva il potere coercitivo del pretore670. Quest’ultimo, infatti, come precisa Paolo, non poteva comunque esercitarlo nei confronti di chi rivestisse una magistratura superiore aut pari imperio671. Il testo paolino fa inoltre riferimento all’irrilevanza del momento di assunzione dell’incarico di arbitro rispetto al momento di inizio della carica magistratuale: anche qualora il receptum fosse stato concluso anteriormente, infatti, non vi sarebbe stato alcun potere di coazione nei confronti del magistrato672. F. 182 – D. 4.8.8 Il passo viene nuovamente inserito dai compilatori in funzione chiosastica e parzialmente integrativa di un precedente commento ulpianeo, Ulp. 13 ad ed., D. 4.8.7. Ulpiano, riportando nel principium il pensiero di Pedio e di Pomponio (espresso rispettivamente nel nono e nel trentatreesimo libro del loro commentario edittale), dichiara l’irrilevanza della condizione di libero o di liberto dell’arbitro, così come del fatto che quest’ultimo fosse di integra fama o ignominiosus. Di contro, secondo l’opinione di Labeone, espressa nell’undicesimo dei suoi libri ad edictum e condivisa dallo stesso Ulpiano (et est verum)673, sarebbe impossibile la conclusione di un compromesso con la nomina di un servus come arbitro. Secondo l’opinione di Giuliano, poi, qualora il compromissum abbia richiesto la sentenza congiunta di Tizio e di un servo, Tizio sarebbe incoercibile alla pronuncia perché la nomina ad arbitro di un servo deve appunto considerarsi nulla (paragrafo 1)674. Il commento di Paolo si limita dunque a chiarire che diverso è il caso in cui l’incarico fosse stato attribuito disgiuntamente (ut vel alterutrius sententia valeat), ipotesi in cui sarebbe possibile costringere Tizio a pronunciare la sentenza675.

670 D. 4.8.3.3: Tractemus de personis arbitrantium. et quidem arbitrum cuiuscumque dignitatis coget officio quod susceperit perfungi, etiam si sit consularis: nisi forte sit in aliquo magistratu positus vel potestate, consul forte vel praetor, quoniam in hoc imperium non habet. Sul passo ulpianeo, v. praecipue Ziegler 1971, 120-121; Buigues Oliver 1990, 113 e Rampazzo 2012, 134-135. I dubbi sulla genunità del passo avanzati in particolare dalla letteratura più risalente (cfr. Levy, Rabel 1929a, 62) non intaccano la sua portata sotto un profilo sostanziale: cfr. Talamanca 1958, 136, nt. 215. 671 Si ricordi però che le magistrature di età severiana, sebbene ancora presenti sotto un profilo formale, avevano perso gran parte del loro valore nell’impero “assoluto” ed erano state “svuotate del loro valore politico, sia per l’esistenza del forte potere autoritario del principe, sia per la conseguente istituzione di cariche e funzionari imperiali, cui vennero devoluti importanti compiti di direzione politica”: così De Martino 1974, 615, a cui si rinvia (615 ss.) per alcune considerazioni sull’argomento. 672 Sul passo, v. Rotondi 1920, 172-173 (= 1922, I 395-396); Ziegler 1971, 120-121; Buigues Oliver 1990, 113 e Rampazzo 2012, 135-136, nonché, in particolare sotto il profilo della relazione tra imperia, Masi Doria 2000, 308309 e Cascione 2000, 176. Correttamente Talamanca 1958, 136-138, esclude si possa considerare invalida la sentenza nullo cogente del magistrato che non può essere costretto a pronunciarsi, non essendo possibile assurgere Call. 1 ed. monit., D. 4.8.41 a regola di carattere generale. 673 In merito al riferimento alla “verità” delle fonti giuridiche romane, e in ispecie in Ulpiano, v. Gallo 2009, 83 ss. 674 D. 4.8.7: Pedius libro nono et Pomponius libro trigensimo tertio scribunt parvi referre, ingenuus quis an libertinus sit, integrae famae quis sit arbiter an ignominiosus. in servum Labeo compromitti non posse libro undecimo scribit: et est verum. (1) Unde Iulianus ait, si in Titium et servum compromissum sit, nec Titium cogendum sententiam dicere, quia cum alio receperit: quamvis servi, inquit, arbiterium nullum sit. quid tamen si dixerit sententiam Titius? poena non committitur, quia non, ut receperit, dixit sententiam. Su questo passo, cfr. Matthiass 1888, 51; Talamanca 1958, 135, nt. 214; Ziegler 1971, 34-35; 116; 121 ss. (ma contra Talamanca 1974, 96); Buigues Oliver 1990, 104 ss.; 114 ss.; Rampazzo 2012, 8790; Stolfi 2002.I, 390 ss. (in ispecie sul principium) e Giachi 2005, 21 ss. 675 Sul passo, v. Ziegler 1971, 116; Buigues Oliver 1990, 105 e Rampazzo 2012, 90.

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Commento F. 183 – D. 4.8.10 Anche questo laconico frammento, drasticamente ridotto dai compilatori, risulta del tutto dipendente – tanto sotto il profilo grammaticale quanto quello logico – dal precedente e dal successivo testo ulpianeo, Ulp. 13 ad ed., D. 4.8.9.5 e D. 4.8.11pr. Il passo, di fatto, si limita ad aggiungere un’ipotesi ai casi in cui non poteva essere esercitata la coercitio del pretore nei confronti dell’arbitro che non si pronuncia. Afferma Ulpiano che qualora le parti – entrambe – si rivolgano successivamente a un giudizio ordinario per poi tornare al primo arbiter adito, quest’ultimo non potrà essere costretto all’obbligo sorto con il receptum dal momento che gli hanno portato disprezzo676. Come si evince dai frammenti ulpianei immediatamente vicini, quindi, Paolo sta trattando di una fattispecie rientrante nella più generale ipotesi di spretus auctoritatis arbitri. Il breve passo paolino, infatti, aggiunge che la medesima previsione ha luogo anche qualora le parti si rivolgano a un altro arbitro. È necessario precisare che la ratio della previsione non può essere identificata con la presunta intervenuta estinzione del procedimento, causata dalla devoluzione ad altra autorità giudicante della lite, e dunque nel comportamento concludente delle parti nel senso della risoluzione per mutuo dissenso del precedente compromissum: se così fosse, infatti, sarebbe privo di significato il ricorso, da parte di Ulpiano, alla categoria dell’excusatio arbitrale677. F. 184 – D. 4.8.16 Sempre in tema di excusatio arbitrale, il primo periodo del principium del passo paolino è connesso, logicamente e grammaticalmente, al precedente frammento di Ulpiano, Ulp. 13 ad ed., D. 4.8.15, di cui rappresenta una disposizione conclusiva aperta, prevedendo l’allargamento della disciplina esposta ad altre fattispecie. L’elenco ulpianeo delle ipotesi di excusatio dell’arbitro (diffamazione da parte dei litiganti, precedenti gravi inimicizie, età, malattia, occupazioni derivanti dai propri affari, partenza non rimandabile o l’esser stato chiamato a qualche incarico pubblico)678 è integrato nel prin-

676 D. 4.8.9.5: Idem et si spreta auctoritate eius ad iudicium; D. 4.8.11pr.: litigatores ierint, mox ad eundem arbitrum redierint, praetorem non debere eum cogere inter eos disceptare, qui ei contumeliam hanc fecerunt, ut eum spernerent et ad alium irent. Sui due passi ulpianei, v. in ispecie Ziegler 1971, 76 (nonché Beseler 1933, 31 e Id. 1948, 280 circa infondati sospetti di interpolazione). Diversa è l’ipotesi in cui soltanto una delle parti si rivolgesse all’autorità giudiziaria: è la fattispecie presa in considerazione dal successivo frammento di Paolo D. 4.8.30 [F. 191], su cui infra 254-255. 677 Così Talamanca 1958, 75, nt. 81, seguito da Ziegler 1971, 76. Diversamente Buigues Oliver 1990, 224-225 e Rampazzo 2012, 194-195. A D. 4.8.10 viene inoltre fatto ricorso da parte di Arangio-Ruiz, Pugliese Caratelli 1955, 458 e nt. 1 e 459-460, per la ricostruzione filologica del testo di TH 81 e TH 82 (erroneamente ad avviso di Talamanca 1958, 13 e nt. 27). 678 D. 4.8.15: Licet autem praetor destricte edicat sententiam se arbitrum dicere coacturum, attamen interdum rationem eius habere debet et excusationem recipere causa cognita: ut puta si fuerit infamatus a litigatoribus, aut si inimicitiae capitales inter eum et litigatores aut alterum ex litigatoribus intercesserint, aut si aetas aut valetudo quae postea contigit id ei munus remittat, aut occupatio negotiorum propriorum vel profectio urguens aut munus aliquod rei publicae: et ita Labeo. Su questo testo, v. Ziegler 1971, 36 e 87-88 (con indicazioni anche sui presunti interventi interpolatori da parte della letteratura più risalente), nonché ampiamente Rampazzo 2012, 198 ss., a cui si rinvia, più in generale, sull’istituto giuridico dell’excusatio dell’arbitro (190 ss.). È proprio dalle parole Licet autem praetor destricte edicat sententiam se arbitrum dicere coacturum, precedute da quelle di Ulp. 13 ad ed., D. 4.8.3.2 (Ait praetor: “Qui arbitrium pecunia compromissa receperit”) che Lenel ricostruisce la rubrica della clausola edittale qui arbitrium receperint ut sententiam dicant.

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Elena Pezzato cipium del testo paolino con la generica previsione et si qua alia incommoditas ei post arbiterium susceptum incidat, cui segue la precisazione secondo cui in causa valetudinis similibusve la facoltà del pretore si limita alla possibilità di determinare causa cognita il differimento della decisione679. Subito di seguito (paragrafo 1) è preso in considerazione anche il caso in cui l’arbiter sia coinvolto a sua volta e personalmente in un giudizio, e tale incombenza impedisca il tempestivo adempimento dell’incarico: è allora necessario distinguere se sia stata o meno prevista dalle parti la possibilità di procrastinare il termine per la pronuncia della sentenza. Tuttavia, anche nel caso in cui manchi la previsione di differibilità del giudizio (quamvis cautum non sit de die proferenda), l’arbitro potrà essere costretto ad adempiere al proprio ufficio qualora le parti rinnovino il compromesso ed egli accetti, ancora una volta, la propria nomina680. F. 185 – D. 4.8.19 Tre sono le questioni specificamente affrontate in questo frammento da Paolo: nel principium la libertà spettante all’arbitro nel valutare i fatti in causa e nel determinare il contenuto della pronuncia, nel paragrafo 1 la necessità di emettere una sentenza che risolva la lite nella sua interezza, infine nel paragrafo 2 la facoltà dell’arbiter di modificare provvedimenti istruttori – e dunque non definitori – del procedimento. Per quanto concerne l’autonomia di giudizio dell’arbitro, Paolo riporta l’opinione di Labeone in merito alla necessaria estraneità della coercitio pretoria rispetto al contenuto della pronuncia arbitrale – purché formulata in base a quod ipsi videtur681 –, cui fa coerentemente seguito la presa di posizione di Giuliano, nel quarto libro dei digesta, volta ad affermare la nullità dell’arbitrium682 il cui contenuto sia stato predeterminato683.

679 Paolo sembra così distinguere l’ipotesi in cui il giudice sia colpito da valetudo e quella in cui sia affetto da morbus sonticus, che, più gravemente, “iudicandi necessittatem... remittit” (cfr. Paul. 2 quaest., D. 5.1.46). Così, pur con qualche incertezza, Lanza 1987, 513-514 e nt. 142. Sotto il profilo delle giuste cause di rinuncia, il receptum si avvicina al mandatum: cfr., in particolare, D. 4.8.15 e 16 con PS. 2.15.1: Ob subitam valetudinem, ob necessariam peregrinationem, ob inimicitiam et inanes rei actiones integra adhuc causa mandati negotio renuntiari potest. Sul punto, per tutti, v. Rampazzo 2012, 76-79. 680 Non sembrano sufficientemente fondati i dubbi sulla genuinità della seconda parte del paragrafo 1 evidenziati da parte della letteratura: v. Beseler 1911, 86 e Id. 1936, 49; Bertolini 1915, 247 ntt. 1 e 3 e Ziegler 1971, 88, nt. 209. 681 Sul punto, in particolare, v. Weizsäcker 1879, 66; Matthiass 1888, 86; Schönbauer 1936, 397 e Ziegler 1971, 37 e 136. A differenza di quanto ritenuto da alcuni autori più risalenti, tra cui lo stesso Matthiass, il passo non può essere richiamato a sostegno della tesi in base alla quale l’arbitro non sarebbe vincolato all’applicazione delle norme di diritto oggettivo: cfr. Talamanca 1958, 24, nt. 58 (con ricognizione bibliografica nella precedente nt. 57). In merito all’opinione espressa da Labeone, cfr. anche Stein 1974, 137. 682 Arbitrium avrebbe qui il significato di compromissum secondo La Pira 1936, 212 (= 2019, II.1 195); contra Talamanca 1958, 20, nt. 45 e 21. 683 Secondo Matthiass 1892, 56, seguito da Ziegler 1971, 61, nt. 67 (d’accordo anche De Sarlo 1971, 421), Paolo avrebbe in tal maniera posto a confronto l’arbitrato romano e la δίαιτα ἐπὶ ῥητοῖς, che attribuiva il valore di sentenza arbitrale al mero accordo intercorso tra le parti e ricevuto dall’arbitro. Ziegler afferma che questa precisazione sarebbe dovuta alla sua “Mitwirkung an der kaiserlichen Rechtsprechung die im griechischen Lokalrecht noch üblichen Veträge im Auge hatte”; contra v. Talamanca 1974, 102, nt. 36. È alla luce dell’orientamento di Giuliano che va letto l’interrogativo di Pomponio riportato in Ulp. 13 ad ed., D. 4.8.17.3, circa la validità dell’impegno di un arbitro a pronunciare una sentenza in conformità al parere di un terzo: cfr., per tutti, Stolfi 2002.II, 154.

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Commento A seguire, Paolo ricorda che l’arbitro ha comunque il dovere di risolvere del tutto la controversia e che la sua pronuncia deve esaurire ogni questione che sia stata a lui deferita: da ciò deriva che qualora egli si pronunci soltanto parzialmente e ometta di trattare un tema del contendere, il pretore avrà potere di coercitio nei suoi confronti. Viene infine fatto riferimento alla discussa facoltà dell’arbitro di mutare sententiam e a un’antica diatriba giurisprudenziale, che aveva avuto a oggetto la discussa possibilità dell’arbiter di far seguire a una sentenza in cui aveva ordinato di dari una in cui al contrario lo si vietava. Presumibilmente la diatriba vedeva opposte la Scuola dei sabiniani e quella dei Proculiani: è menzionato infatti il punto di vista di Sabino – a quanto pare oggetto di fraintendimento e controversie – secondo cui l’arbiter avrebbe potuto cambiare la sua pronuncia. Di diverso avviso, dunque, dovevano essere stati gli esponenti della Scuola proculiana, che, sembra potersi presumere in via induttiva, fecero divieto all’arbitro di mutare la propria sentenza. A ogni modo, Paolo, quasi a voler ricomporre l’antica controversia, precisa che l’affermazione sabiniana debba leggersi sulla base dell’interpretazione di Cassio, che faceva rientrare in tale facoltà soltanto i provvedimenti di natura istruttoria e non in grado di definire il giudizio, come, ad esempio, l’ordine di comparizione in un dato giorno684. Di contro, come conclude Paolo, una volta che l’arbitro abbia condannato o assolto, si deve ritenere che la sentenza non possa essere mutata. Il criterio distintivo viene così individuato tra la sententia de praeparatione causae e quella che arbitrium finiat685. F. 186 – D. 4.8.22 Il frammento è grammaticalmente e logicamente connesso al precedente passo di Ulpiano, Ulp. 13 ad ed., D. 4.8.21.12, in materia di tempo dell’adempimento della sententia arbitri686. Qualora non sia stato indicato un termine per l’adempimento, secondo la lezione di Celso, riportata appunto da Ulpiano e da lui riferita al secondo libro dei digesta687, al debitore veniva concesso, senza incorrere nella penale, un modicum tempus688 ai fini dell’adempimento della prestazione richiesta.

684 Si osservi che il medesimo esempio presente nel passo (ordine di presentarsi alle idi, anziché alle calende) è riportato nel corrispondente Bas. 7.2.19 (= Scheltema, van der Wal, A I, 308-309) (v. anche Sch. 1 a Bas. 7.2.19 [= Scheltema, B I, 43]). 685 Su D. 4.8.19.2, cfr., in ispecie, Ziegler 1971, 84; 93-94; 131; 146 e Litewski 1997, 166-168. La distinzione tra le due tipologie di sentenze ricorre anche in Iav. 11 ex Cass., D. 4.8.39, come sottolineato da Talamanca 1958, 33 e nt. 73; contra Buigues Oliver 1990, 244-246 (ma v. ancora Talamanca 1992, 577-578). I dubbi sulla genuinità del periodo et alias – debeat evidenziati già da Beseler 1936, 50, nt. 1 e 76 e Id. 1951, 30, condivisi anche da Ziegler 1971, 93, nt. 242, non rilevano sotto il profilo contenutistico. Altre presunte interpolazioni di natura comunque meramente formale sono indicate anche da Huschke 1888, 359. 686 D. 4.8.21.12: Intra quantum autem temporis, nisi detur quod arbiter iusserit, committatur stipulatio, videndum est. et si quidem dies adiectus non sit, Celsus scribit libro secundo digestorum inesse quoddam modicum tempus: quod ubi praeterierit, poena statim peti potest: et tamen, inquit, et si dederit ante acceptum iudicium, agi ex stipulatu non poterit. 687 La stessa soluzione viene attribuita da Africano a Servio, cfr. Afr. 7 quaest., D. 44.7.23. Sul punto, cfr. Knütel 1976, 139-140. Secondo Voci 1971, 336, Ulpiano si sarebbe limitato “a riferire il parere del giurista a lui più vicino”. 688 Il riferimento al modicum tempus è stato da molti autori considerato un emblema Triboniani: così già Faber 1631, 39. Dubbi sulla genuinità del frammento ulpianeo, sotto differenti profili, sono stati avanzati da De Medio 1902, 232; Guarneri Citati 1922, 251-257 e Kaser 1968b, 124-125. Contra Talamanca 1958, 90, nt. 117; Frezza 1962, 327-330; Riccobono 1962, 304-305 (che ritiene possibile una sola manipolazione formale); Voci 1971, 336-337 e, in ispecie, 338-339, nt. 65 (= 1985, I 382-383 e, in ispecie, 385, nt. 65); Ziegler 1971, 141-142 e Knütel 1976, 135 ss. (con ulteriore letteratura alla nt. 1).

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Elena Pezzato Ad ogni modo, prima della litis contestatio sulla petitio poenae, il condannato poteva ancora liberarsi senza dovere alcuna penale689, sempre che, come afferma il passo paolino, il creditore preservasse interesse alla ritardata prestazione690. F. 187 – D. 50.17.121 Pare corretto inserire qui nella ricostruzione palingenetica dell’opera paolina il testo di D. 50.17.121, discostandosi così dalla lezione leneliana e seguendo la diversa proposta di Cuiacio, condivisa anche da Krüger691. Questa sequenza risulta avvalorata da un nesso contenutistico con il precedente F. 186, in quanto entrambi i passi fanno riferimento al iussus arbitri. Il frammento in esame è stato inserito dai compilatori nel titolo D. 50, 17 de diversis regulis iuris antiqui, ampliandone il contenuto dispositivo e attribuendogli la valenza di regula iuris692. Il suo precetto, infatti, cui è stata così assegnata una portata generale, originariamente afferiva alla sola valutazione del comportamento delle parti rispetto al contenuto della pronuncia arbitrale. Seguendo una struttura chiastica693, si afferma come il non facere ciò che è stato ordinato di compiere sia da considerarsi come facere adversus ciò che è stato ordinato di non fare; di contro e parallelamente, il facere ciò che non si doveva fare è da considerarsi non facere ciò che era stato ordinato di compiere. F. 188 – D. 4.8.24 Il passo è in tema di mora creditoris694. Accedendo all’opinione di Celso e di Ulpiano espressa nel paragrafo 1 del frammento immediatamente precedente (Ulp. 13 ad ed., D. 4.8.23.1)695,

689 Così Talamanca 1958, 90; Riccobono 1962, 305-306; Voci 1971, 338 (= 1985, I 384); Knütel 1976, 149 ss. Diversamente, Guarneri Citati 1922, 251-257 e Id. 1923, 233, nt. 4 e 262 ss. (= 1923, 73, nt. 4 e 102 ss.) distingue tra liberazione ope iure e ope exceptionis e ritiene operativa, in età classica, sola la seconda, seguito da Kaser 1968b, 124-125. Ritengono necessario l’esperimento di eccezione di dolo da parte del debitore (cfr. Ulp. 13 ad ed., D. 4.8.23pr.) anche Frezza 1962, 327-330 e Ziegler 1971, 142. 690 Propone di espungere utique nisi Guarneri Citati 1922, 251 e 253-254; contra, in ispecie, Riccobono 1962, 304-305 e nt. 14. 691 Cfr. Cuiacius 1584, 178; Krüger 1905, 898. Lenel 1927, 130, nt. 7 (che colloca il frammento tra D. 36.1.37 [F. 194] e C. 2.55[56].5.3[1] [F. 195], cfr. Id. 1889, 992), lo riconduce alla clausola edittale in questione, ma non lo riferisce, a differenza degli altri brani paolini in esame, a specifici verba edicti. 692 Cfr. la definizione paolina riportata in Paul. 16 ad Plaut., D. 50.17.1: Regula est, quae rem quae est breviter enarrat. non ex regula ius sumatur, sed ex iure quod est regula fiat. per regulam igitur brevis rerum narratio traditur, et, ut ait Sabinus, quasi causae coniectio est, quae simul cum in aliquo vitiata est, perdit officium suum, su cui, da ultima e ampiamente, v. Frunzio 2021, 46 ss., che si sofferma sul valore della regula in Plauzio, Nerazio e Paolo. Sulle regulae iuris, più in generale, oggetto di grande interesse da parte della letteratura, anche più recente, e per le quali rimangono imprescindibili le ricerche di Stein 1966 e Cannata 1997a e Id. 1997b, v. la completa rassegna bibliografica di Di Cintio 2019, 13 ss. e note, cui adde Nitsch 2007, 3797 ss. 693 Probabilmente frutto di un errore di trascrizione sono le parole quia non facit: per un perfetto parallelismo avrebbe dovuto esservi quae non facere iussus est, come sottolineato già da Mommsen 1870.I, 923, nt. 23. 694 Sulla mora accipiendi, v., in particolare, Scuto 1905; Guarneri Citati 1923, 163 ss.; Riccobono 1962, 105 ss.; Vigneron 1979, passim; Apathy 1984, 190 ss.; ampiamente Harke 2005, 74 ss. (su cui la minuziosa recensione di Cannata 2008-2009, in ispecie 307 ss.), nonché Pennitz 2006, 152 ss. 695 D. 4.8.23.1: Idem ait, si iusserit me tibi dare et valetudine sis impeditus, quo minus accipias, aut alia iusta ex causa, Proculum existimare poenam non committi, nec si post kalendas te parato accipere non dem. sed ipse recte putat duo esse arbitri praecepta. unum pecuniam dari, aliud intra kalendas dari: licet igitur in poenam non committas, quod intra calendas non dederis, quoniam per te non stetit, tamen committis in eam partem, quod non das. Diverso l’insegnamento di Servio (cfr. Pomp. 11 ex var. lectionib., D. 4.8.40; Ulp. 77 ad ed., D. 22.2.8; Afr. 7 quaest., D. 44.7.23) e di Proculo (cfr. lo stesso Ulp. 13 ad ed., D. 4.8.23.1), che escludevano in ogni caso la scadenza della poena compromissi in caso di mora creditoris. Secondo Celso e

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Commento Paolo precisa che, qualora successivamente il creditore sia in grado di ricevere la prestazione dovuta, non è possibile per il debitore esentarsi dall’esecuzione senza incorrere nella penale696. F. 189 – D. 4.8.26 Il testo paolino, ancora una volta, inserito a mo’ di chiosa dopo un difficile passo di Ulpiano (Ulp. 13 ad ed., D. 4.8.25.2), ha per oggetto la disciplina della garanzia fideiussoria in caso di prolatio diei697. Ulpiano afferma che, qualora l’arbitro – in tal senso legittimato – proroghi il termine per la risoluzione della controversia, si pone la questione della garanzia del sequens compromissum. Labeone la ritiene necessaria. Pomponio si interroga sulla necessità dell’identità soggettiva dei fideiussores e su cosa fare a fronte di un loro rifiuto a prestare una nuova garanzia. Ulpiano chiarisce doversi ricorrere, in tale ultima ipotesi, a garanti non absimiles698. In questo contesto si innesta il passo di Paolo che chiarisce che la ratio sottesa alla soluzione prospettata è quella di non far dipendere dalla potestas – o dalla sorte – dei fideiussori l’efficacia della penale, che, invece, diverrebbe efficace qualora il garante rifiutasse di prestare fideiussione o morisse. Da tale ultima precisazione mi pare doversi inevitabilmente sottintendere che la garanzia accedesse all’obbligazione delle parti di attenersi alla sentenza arbitrale e non, come invece ritenuto da parte della letteratura, al receptum. Diversamente, infatti, non si spiegherebbe come potrebbe influire sull’efficacia della poena la mancata prestazione di fideiussione in merito al dovere dell’arbitro699.

Ulpiano, di contro, il creditore non avrebbe potuto richiedere la penale soltanto in caso di un suo rifiuto non giustificato. Sul punto, per tutti, v. Ziegler 1971, 101-103 e Knütel 1976, 108-119. Non convince l’opinione di Knütel 1976, 111 e 115-116, secondo il quale Paolo avrebbe sostenuto un’opinione differente da quella di Celso e di Ulpiano e ammesso, in ogni caso, l’emendatio della mora del creditore (quindi anche in assenza di una giusta causa che motivasse il comportamento del creditore). Secondo l’autore il rimaneggiamento compilatorio avrebbe fatto perdere il significato originale del passo: “Vielleicht hat er gemeint, der unterlegene Teil müsste in einem solchen Falle die im Schiedsurteil bestimmte Summe hinterlegen”, come egli ipotizza sulla base di Paul. 5 ad Sab., D. 40.7.4pr. Ma qui, come di fatto riconosce lo stesso Knütel, la mora del creditore è giustificata (rei publicae causa) e, in generale, non vi è alcuna fondata ragione per ipotizzare una divergente posizione di Paolo in argomento: né l’utilizzo del termine paratus implica un comportamento volontario del creditore, né il fatto che il frammento sia mutilo consente di ricostruirne arbitrariamente la portata originaria. Diversamente Voci 1977, 639, dà per plausibile la ricostruzione di Knütel. 696 Sul passo paolino, cfr. Ziegler 1971, 103; Knütel 1976, 110 ss. e Rampazzo 2012, 123. Alcuni dubbi sulla sua autenticità – sulla base di considerazioni meramente formali – sono stati espressi da Guarneri Citati 1923, 165, nt. 2, e accolti da Frezza 1962, 343, nt. 1 e Ziegler 1971, 103 e nt. 297, che considera il frammento “wohl überarbeitet[e]”. Contra Knütel 1976, 111, nt. 10. 697 D. 4.8.25.2: Si per fideiussorem fuerit cautum in primo compromisso, et sequens similiter proferendum Labeo dicit. sed Pomponius dubitat, utrum isdem an et aliis tam idoneis: quid enim, inquit, si idem fideiubere noluerint? sed puto, si noluerint fideiubere, tunc alios non absimiles adhibendos. Su questo passo, cfr. Ziegler 1971, 37-39 e 105-107, criticato sotto svariati profili da Talamanca 1974, 94-95; Stolfi 2002.I, 394-398 e Id. 2002.II, 156. Sulla fonte si era già brevemente e superficialmente soffermato, senza coglierne i profili critici, Cohen 1958, 196-197. 698 L’espressione ha destato qualche sospetto: v. Levy 1907, 123, nt. 3 con ulteriore letteratura e, più di recente, Ziegler 1971, 106, nt. 311. Non prende posizione Stolfi 2002.I, 398, nt. 249. 699 Per la tesi qui criticata, cfr. Stolfi 2002.I, 396-397 e nt. 246 e Id. 2002.II, 156 e nt. 91, il quale fonda la propria interpretazione sul tenore letterale del testo e sulla collocazione del passo nel titolo edittale de receptis. Nessuno di tali elementi argomentativi mi sembra stringente. Ziegler 1971, 38-39 e 106-107 (non correttamente interpretato da Stolfi 2002.II, 397, nt. 246) ha considerato la garanzia finalizzata, oltre che all’“Erlangung der poena compromissi” anche alle “Erfüllung der Verpflichtungen aus der sententia arbitri” (106) e ha accostato Ulp. 13 ad ed., D. 4.8.29 a D. 4.8.25.2 e 26. A tal proposito, cfr. la breve osservazione di De Sarlo 1971, 427, che parimenti fa accedere la garanzia al compromesso e critica Ziegler 1971, 106-107. In D. 4.8.29, infatti, è evidente che il fideiussore garantisce solo l’obbligazione oggetto del giudizio arbitrale, e non il compromesso (Adversus sententiam arbitri fit...), ragione per la quale l’accostamento stride.

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Elena Pezzato F. 190 – D. 4.8.28 Il passo è logicamente connesso a Ulp. 13 ad ed., D. 4.8.27.7700, a sua volta posto in relazione con il paragrafo immediatamente precedente in materia di commissio poenae susseguente all’impedimento frapposto da una delle parti alla pronuncia da parte dell’arbitro701. I testi di Ulpiano e di Paolo considerano due fattispecie tra loro assimilabili in quanto non facenti capo a una stipulatio poenae702: il primo prende in considerazione una stipulatio ad sententiam stari (dunque una stipulatio in faciendo), mentre il secondo una stipulatio quanti ea res erit. In entrambi i casi, non essendo possibile agire per mezzo di un’actio certi per ottenere il conseguimento della pena, viene apprestata tutela contro la parte inadempiente per mezzo di un’actio incerti. Paolo, in particolare, testimonia come la rigidità dei verba dell’editto (pecunia compromissa) sia superata facendo ricadere, in tale terminologia, tanto la pecunia certa quanto quella incerta703. F. 191 – D. 4.8.30 Il discusso passo paolino in questione, a differenza di quanto visto sinora, è logicamente e grammaticalmente autonomo. In letteratura è fortemente sospettato di manomissioni compilatorie, soprattutto nella seconda parte del testo, benché si possa forse solo trattare di un intervento inteso a raccorciare il testo in una rielaborazione di sintesi704. Così come il frammento ci viene riportato dai compilatori e viene inteso dalla maggioranza degli autori che se ne sono occupati705, la quaestio giuridica sottesa a D. 4.8.30 attiene all’eventualità della risoluzione del compromesso nel caso di devoluzione di una controversia, già oggetto di compromissum, al giudice ordinario competente. Si è già visto come secondo Ulpiano e Paolo (cfr. D. 4.8.9.5, D. 4.8.10 [F. 183] e D. 4.8.11pr.) dovesse essere regolata l’ipotesi in cui entrambe le parti, a seguito di compromissum, facessero ricorso al giudice ordinario o ad altro arbitro. Così, secondo i due giuristi, era necessario far ricorso alla categoria dell’excusatio arbitrale per spretum arbitri e, conseguentemente, veniva meno il potere di coercitio del pretore nei confronti dell’arbitro. Paolo prende ora invece in considerazione la differente ipotesi in cui sia soltanto una delle parti a portare la lite in un giudizio ordinario706.

700 D. 4.8.27.7: Sed si poena non fuisset adiecta compromisso, sed simpliciter sententia stari quis promiserit, incerti adversus eum foret actio. Su questo frammento e sulla sua genuinità sostanziale, cfr., per tutti, Talamanca 1958, 103 ss.; 116 ss. e 123-124. Sul punto, v. anche Ziegler 1971, 53 e nt. 31, con ricognizione bibliografica. 701 Cfr. D. 4.8.27.6: Et si quis praesens arbitrum sententiam dicere prohibuit, poena committetur. 702 Cfr., sul punto, anche Talamanca 1958, 116 ss. Più in generale, sulla stipulatio poenae, per tutti, v. Knütel 1976. 703 D. 4.8.28 è stato ritenuto un’interpolazione: così (ma immotivatamente) Rotondi 1915, 229, nt. 5 (= 1922, I 290, nt. 4). Contra Roussier 1939, 181, nt. 1 e Talamanca 1958, 117, nt. 174, seguito da Ziegler 1971, 55, nt. 39. Anche Voci 1971, 333, nt. 54 (= 1985, I 380, nt. 54) non sembra riservare alcun dubbio sulla genuinità del frammento. Più in generale sul passo, v. Talamanca 1958, 116-121 e Ziegler 1971, 54-55, nonché, brevemente, Broggini 1957, 202 (che erroneamente ritiene si parli di incertezza della prestazione oggetto del compromesso). 704 Cfr. gli autori più risalenti ricordati da Levy, Rabel 1929a, 63, cui adde almeno Beseler 1933, 59; Gradenwitz 1933, 415; Bonifacio 1959b, 786; Lenel 1918, 144-145; Talamanca 1958, 76 ss.; Voci 1971, 334, nt. 58 (= 1985, I 381, nt. 58) e Ziegler 1971, 68, nt. 97 e 69. 705 Cfr., in ispecie, Landucci 1890, 324-325, nt. b; Matthiass 1888, 80, nt. 4; Rotondi 1915, 233, nt. 1 (= 1922, I 293, nt. 1) e Bonifacio 1959b, 786. Da ultimo, Rampazzo 2012, 61-63. 706 Non mi pare, dunque, che tra Ulpiano e Paolo vi fosse diversità di vedute (così invece Rampazzo 2012, 41).

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Commento Egli riporta anzitutto l’opinione di alcuni dei giuristi che l’hanno preceduto: alcuni (quidam), in particolare, sostenendo l’intervenuto scioglimento del compromesso, ritenevano che il pretore non dovesse intervenire per costringere l’arbitro a pronunciarsi, non essendo più applicabile la penale. Il giurista severiano critica la posizione di costoro – sarebbe infatti come lasciare nella facoltà di chi ha concluso il compromesso, e poi si è pentito, il potere di eluderlo – ed esprime una differente opinione. Così, secondo Paolo, una simile inosservanza del compromissum avrebbe portato alla commissio poenae nei confronti dell’inadempiente, nonché al proseguimento della lite innanzi al giudice707. Non è comunque da escludere, come suggerisce Talamanca, alla luce di presunti profondi interventi compilatori, che il tenore originario del testo sarebbe stato di tutt’altra natura e che, forse, Paolo si sarebbe riferito al problema dell’iterazione della commissio poenae, in connessione a Paul. 15 resp., D. 45.1.134.3708. F. 192 – D. 4.8.32pr.-3 + D. 4.8.12 + D. 4.8.32.3-21 L’assai ampio frammento conservato in D. 4.8.32 prende le mosse da alcune osservazioni in merito alla poena compromissi. Nel principium, infatti, si afferma l’irrilevanza del valore della penale rispetto a quello della lite, riconoscendo così alle parti piena discrezionalità nel determinare l’ammontare della poena. A differenza di quanto rilevato da parte della letteratura709, l’affermazione paolina, nel riconoscere la validità del compromesso in cui minor sit poena quam res de qua agitur, non si pone affatto in contraddizione con l’opinione di Labeone riportata in Ulp. 76 ad ed., D. 44.4.4.3710. Quest’ultimo passo prende in considerazione la corrispondenza tra commissio poenae e il quantum della condanna arbitrale: secondo Labeone rientrerebbe nell’officium arbitri emettere una condanna commisurata al quantum re vera debeatur, senza che vi sia un vincolo rispetto a quanto previsto dalle parti. Per ciò che qui interessa, va rilevato soltanto che tale considerazione non riguarda il rapporto tra la penale e il valore della lite, bensì tra quest’ultimo e la condanna arbitrale. Il passo di Paolo prosegue al paragrafo 1 affermando l’impossibilità di costringere l’arbitro a pronunciare la sentenza qualora la penale fosse già divenuta efficace: la commissio poenae rap-

707 La necessità di prevedere espressamente tramite pattuizione delle parti la risoluzione della controversia in caso di deductio in iudicium sembrerebbe essere testimoniata da TH 82 (su questa testimonianza, cfr. però Talamanca 1958, 77, nt. 87 e, più cautamente, Id. 1974, 93, nonché Ziegler 1971, 69-70). Secondo Ziegler ibidem, 68-70, la semplice Klageerhebung presso il giudice ordinario non avrebbe causato la solutio compromissi, che si sarebbe potuta realizzare solo con la pronuncia della sentenza da parte del giudice (ma, sul punto, v. i rilievi critici di Talamanca 1974, 95-96). 708 Cfr. D. 45.1.134.3: Idem respondit, quotiens pluribus specialiter pactis stipulatio una omnibus subicitur, quamvis una interrogatio et responsum unum subiciatur, tamen proinde haberi, ac si singulae species in stipulationem deductae fuissent. V. Talamanca 1958, 76-81. Secondo l’autore, in origine il passo sarebbe stato strettamente correlato anche a Paul. 13 ad ed., D. 4.8.34.1: Semel commissa poena solvi compromissum rectius puto dici nec amplius posse committi, nisi id actum sit, ut in singulas causas totiens committatur, su cui cfr. infra 264-265. Ma contra v. Paricio 1984, 285, nt. 14 e Behrends 1970, 124, nt. 33. 709 V. Ziegler 1971, 91, nt. 228 e Rampazzo 2012, 45, nt. 81. 710 D. 44.4.4.3: Item quaeritur, si cum eo, a quo tibi sexaginta deberentur, compromisseris, deinde per imprudentiam poenam centum stipulatus fueris. Labeo putat convenire officio arbitri iubere tantum tibi dari, quantum re vera debeatur, et, si non fiat, non vetare, ne quid amplius petatur: sed etiamsi id omissum fuerit, peti posse quod debetur Labeo dicit, et si forte poena petatur, doli mali exceptionem profuturam. Sul passo, cfr. Talamanca 1958, 73 e 112-113, nt. 166; Ziegler 1971, 41-43 e, ampiamente da ultimo, dalla Massara 2016, 321 ss. Come correttamente rilevato da tutti gli autori citati, è necessario accogliere la lezione della Vulgata nella parte in cui, al posto di sexaginta, è riportata la somma di sescenta (cfr., in ispecie, Talamanca 1958, 112-113, nt. 166, e dalla Massara 2016, 325-327). Contra Buigues Oliver 1990, 198-200.

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Elena Pezzato presenta dunque, sotto tale profilo, un modo di estinzione del compromissum711. Il paragrafo 2, con un’evidente disconnessione tematica, prende invece in considerazione la conclusione di un compromissum nomine alieno da parte di una donna. In virtù del divieto posto dal senatoconsulto Velleiano712, che vietava alla donna di intercedere pro aliis, Paolo riconosce l’invalidità della pecunia compromissa. Come correttamente osservato, è da ritenersi che l’invalidità dell’intercessio713 si ripercuotesse non solo sulla coercitio del pretore, ma anche sull’invalidità dell’intero negozio714. Il paragrafo 3 a sua volta afferma invece l’inopportunità – in linea di massima715 – dell’intervento da parte del pretore nell’ambito del processo arbitrale. Paolo specifica, in particolare, le tre situazioni in cui si applica il divieto di se interponere: quando il compromesso è nullo sin dall’inizio; quando il compromesso è valido, ma è in pendenza la possibilità di esigere la penale; quando viene meno la penale allo sciogliersi del compromesso. Per quanto concerne la seconda circostanza, secondo una ricostruzione palingenetica condivisa716 – senz’altro da accogliere per ragioni contenutistiche –, il testo paolino prosegue con il frammento D. 4.8.12, che riconosce al pretore, in questo caso, la sola possibilità di prorogare, ove sia possibile, il termine di conclusione del compromesso717. Con riguardo alla terza delle circostanze menzionate – appunto il venir meno della penale allo sciogliersi del compromesso –, nel prosieguo del paragrafo 3 si fornisce un’elencazione, peraltro non completa, delle cause di estinzione del compromesso718: solutio diei; mors719; acceptilatio; iudicium720 e pactum721.

711 Sul punto, cfr. Talamanca 1958, 76; Ziegler 1971, 75 e Rampazzo 2012, 210-211, che sottolinea, inoltre, l’indipendenza della commissio poenae dalla previa pronuncia della sentenza (così, ad esempio, in ipotesi di violazione degli obblighi di attiva cooperazione delle parti). 712 Le fondamentali fonti di riferimento, come noto, sono raccolte in D. 16.1 e C. 4.29, entrambi ad senatus consultum Velleianum. 713 In merito al contenuto dell’intercessio secondo Paolo, cfr. Cancelli 1960, 240. 714 Cfr. Talamanca 1958, 132-133, nt. 210. Diversamente Matthiass 1888, 44, nonché parrebbe anche Ziegler 1971, 56. 715 Sulle ipotesi di intervento del pretore, ammesso soltanto in situazioni procedurali patologiche, cfr., in ispecie, Rampazzo 2012, 137-139. 716 Cfr. Lenel 1889, 990 e Krüger 1905, 898. 717 Secondo Beseler 1913, 84, andrebbe espunto l’inciso in eo forsitan solo. L’osservazione ha comunque un rilievo meramente formale. 718 In materia, cfr. Kurz 1866, 22-23; Mayer 1888, 46-50; Talamanca 1958, 73-76; Ziegler 1971, 73-77; Buigues Oliver 1990, 221-225 e Rampazzo 2012, 57-69. Le cause indicate a seguire possono essere singolarmente qualificate come oggettive (cumulative) o soggettive (individuali): a tal proposito, differenti sono le classificazioni di Talamanca 1958, 73 ss., e di Rampazzo 2012, 57 ss. Diverso è altresì il piano su cui i due autori pongono l’acceptilatio, il iudicium e il pactum: mentre il primo riferisce le cause estintive alle stipulazioni penali, il secondo incentra la lettura sui rapporti negoziali preesistenti e condizionanti (similmente, già Buigues Oliver 1990, 225). 719 Sul punto, cfr., in ispecie, le considerazioni di Buigues Oliver 1990, 222-224 e Rampazzo 2012, 66 ss. 720 Secondo Talamanca 1958, 75-76, è da escludere che iudicium faccia riferimento alla deductio in iudicium della pretesa avanzata nel compromesso (di comune accordo o su iniziativa di una sola delle parti) e l’espressione farebbe riferimento alla litis contestatio sull’actio ex stipulatu nascente dalla stipulazione penale. Ziegler 1971, 7677, coordina l’interpretazione del passo a quella di D. 4.8.30 [F. 191] e attribuisce al termine il significato di “sentenza” (v. supra 255, nt. 707). Contra Talamanca 1974, 96. Buigues Oliver 1990, 224-225, interpreta il riferimento con riguardo a D. 4.8.10 [F. 183] e così, similmente, Rampazzo 2012, 58-59 (v. supra 249). 721 La Pira 1936, 194, 197 e nt. 18, 199 (= 2019, II.1 178, 181 e nt. 18, 183) propone di espungere il termine pacto, ritenendolo corrispondente alla concezione bizantina secondo cui il compromesso sarebbe un pactum. Contra v. Talamanca 1958, 73-74, nt. 77, il quale ritiene che il termine indichi il pactum de non petendo intervenuto in relazione a una delle due actiones ex stipulatu. Secondo Rampazzo 2012, 59, si alluderebbe a un accordo volontario per porre fine alla controversia senza ricorrere all’arbitro (in tal senso, già Buigues Oliver 1990, 225).

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Commento Subito di seguito si sviluppa un nucleo tematico che tratta prettamente del tema del receptum e, in particolare, prende in considerazione differenti ipotesi in cui l’arbitro non poteva essere costretto a pronunciarsi. Questo blocco inizia col paragrafo 4 considerando la singolare ipotesi di conflitto tra sacerdozio e carica di arbiter. Paolo contempla sia l’ipotesi in cui l’ordinazione sacerdotale sia successiva all’accettazione dell’incarico di arbitro, sia il caso opposto in cui un sacerdote assuma il ruolo di arbiter, fornendo una soluzione diversa. Nonostante sia necessario rispettare, oltre all’onore delle persone, la maiestas dei722, è infatti doveroso che, nel secondo caso, si porti a compimento il proprio officium di arbitro e si pronunci sentenza723. Rimanendo in tema, al paragrafo 5 si menzionano due ipotesi in cui il pretore non può esercitare alcun potere di coazione nei confronti dell’arbitro: qualora sia intervenuta una transazione sull’oggetto della lite e qualora sia perita la res litigiosa (si menziona, in particolare, uno schiavo: homo mortuus est de quo erat compromissum). In tale ultima ipotesi, rimane salvo il dovere dell’arbitro di pronunciarsi qualora le parti ne abbiano comunque interesse724. Si considerano, successivamente, nel paragrafo 6, quelle controversie in cui il pretore deve vietare la pronuncia dell’arbitro e, in ogni caso, non darvi esecuzione. Si tratta di ipotesi di incompetenza individuate ratione materiae. Riportando l’opinione di Giuliano725, vengono menzionati i giudizi aventi a oggetto delicta famosa o illeciti per i quali siano istituiti publica iudicia, come, ad esempio, i giudizi de adulteriis o de sicariis (e simili)726. Nel successivo paragrafo 7 si individuano, sempre in ragione della materia trattata, delle controversie per le quali il pretore non gode del potere di coercitio nei confronti dell’arbitro: sono le causae liberales (eventualmente anche in forza di un fedecommesso), quelle de ingenuitate e de libertate, nonché quelle che sorgono sulla base di un’azione popolare727. Per le prime tre, in particolare, è il favor libertatis a richiedere l’intervento di giudici di grado superiore (ma la giustificazione probabilmente è di mano compilatoria)728. Per le ultime, sembre-

722 Sull’esatta traduzione del termine si sofferma, in particolare, Knütel 1994a, 379-381. L’espressione è stata considerata da alcuni interpolata, così come altra parte del passo: cfr. gli autori citati da Levy, Rabel 1929a, 63, cui adde Kalb 1912, 89; ancora Beseler 1936, 84, nonché Nicholas 1964, 153-154 e nt. 19. 723 Circa D. 4.8.32.4, cfr., in ispecie, Ziegler 1971, 87-88 e Rampazzo 2012, 204-205. 724 Sul paragrafo 5 del frammento in esame, v. Broggini 1956, 363 (= 1966, 296); Ziegler 1971, 75 e 76 e Rampazzo 2012, 211. Come osservato per D. 4.8.32.2, anche il tal caso è da ritenersi invalido lo stesso compromissum: così Talamanca 1958, 133, nt. 210. Diversamente Matthiass 1888, 78. 725 Lenel 1889, 327 inserisce il passo nel quarto libro dei digesta di Giuliano. Più di recente, cfr. Bund 1965, 3132 e Fanizza 1982, 97. Sulla genuinità del passo, alcuni dubbi sono stati avanzati da Beseler 1933, 23, seguito da Kaser 1956, 251, nt. 139. Contra Pugliese 1939, 305, nt. 1 e Bund 1965, 32 (pur con qualche riserva), seguito da Ziegler 1971, 57-58, nt. 51. 726 In merito alla ratio dell’assimilazione del iudicium de adulteriis a quello de sicariis e alla loro riconducibilità ai publica iudicia, cfr., da ultimo, Botta 1996, 42 ss. Su D. 4.8.32.6, v. anche Matthiass 1888, 74 ss., Talamanca 1958, 100, nt. 137; Ziegler 1971, 57-58, 86, 126; Buigues Oliver 1990, 212 e Rampazzo 2012, 205-207. 727 Risultato di un fraintendimento il riferimento presente in Bas. 7.2.32.7 ἀνήβou (Scheltema, Van der Wal, A I, 313), causato dal travisamento di popularis con pupillaris. Sul punto, cfr. ampiamente Ziegler 1971, 127-128. Su questo frequente errore nel testo dei Basilici, cfr. van der Wal 1964, 1163. 728 Probabilmente frutto di interpolazione l’espressione maiores iudices: cfr. Pernice 1885, 65, nt. 1 e Lenel 1889, 990, nt. 3, che suggerisce maiores magistratus, seguito sul punto da Bertolini 1915, 251, nt. 3. Spurio l’intero tratto quia – debeat secondo Albertario 1923a, 56 (= 1933, I 66-67). Similmente Nicolau 1933, 43-45 e Marrone 1955a, 30-31 e nt. 25, dal momento che, tra l’altro, il soggetto di debeat è – illogicamente –, nel contesto attuale, l’arbiter. Differenti e molteplici gli organi giudicanti cui si è riferita l’espressione: i cinque ca-

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Elena Pezzato rebbe esservi una ragione meramente tecnica alla base dell’esclusione, ossia l’inopponibilità per via di eccezione del compromesso729. È opportuno evidenziare che le due fattispecie, richiamate ai paragrafi 6 e 7, presentano un differente coinvolgimento del pretore: mentre i delicta famosa e i crimina, divenuti oggetto di compromesso – sul quale l’arbitro non si è ancora pronunciato –, implicano un vero e proprio intervento del magistrato (vetare debet praetor sententiam dicere), le cause liberali e quelle che nascono da azioni popolari condotte in sede arbitrale richiedono soltanto la sua astensione dal potere di coercitio nei confronti dell’arbitro inadempiente730. Paolo prosegue, col paragrafo 8, esponendo l’opinione di Ottaveno in materia di compromesso concluso da uno schiavo. In tale ipotesi vengono esclusi sia l’obbligo dell’arbitro di pronunciare sentenza, sia l’azionabilità dell’actio de peculio nei confronti del dominus per il soddisfacimento della poena compromissi731. È parimenti preferibile, secondo la laconica opinione di Paolo e sulla base di un evidente rapporto di reciprocità delle stipulazioni, non riconoscere al dominus azione alcuna nei confronti del libero che abbia concluso il compromesso con lo schiavo732.

valieri e i cinque senatori del consilium della lex Aelia Sentia (Karlowa 1901, 1109); i centumviri (Martin 1904, 51, nt. 2; Pugliese 1948, 238-239, ma dubitativamente); i presidi delle province (così Buckland 1908, 657 e nt. 4; Nicolau 1933, 44-45; Bongert 1952, 194); il tribunale dei decemviri (Scialoja 1936, 83 e nt. 1). Da ultimo Franciosi 1961, 99-101, ha ritenuto sottintesa una competenza dei recuperatores, seguito da Schmidlin 1963, 87-88, nt. 3; Danilović 1974, 29 ss. e Kaser, Hackl 1996, 199 e nt. 61: questa è la lettura da preferirsi. 729 Cfr. Ulp. 4 ad ed., D. 4.8.2: Ex compromisso placet exceptionem non nasci, sed poenae petitionem. Così Casavola 1958, 129-132, riprendendo un’intuizione di Matthiass 1888, 76, e criticando la posizione di Fadda 1894, in ispecie 212-214 sul passo paolino. Differente e non accoglibile la spiegazione offerta da Bongert 1952, 200-201, che ritiene l’ipotesi delle azioni popolari assimilabile alla causa liberalis in quanto partecipi dell’interesse pubblico. Danilović 1974, 31-33, ritiene le due ipotesi simili sotto il profilo della competenza giurisdizionale (a suo dire spettante ai recuperatores). Su D. 4.8.32.7, oltre agli autori già citati, v. Weizsäcker 1879, 49-50; Mayer 1888, 19; Wlassak 1907, 94, nt. 1; Talamanca 1958, 100, nt. 137; Ziegler 1971, 126-128; Buigues Oliver 1990, 212 e Rampazzo 2012, 206207. Il passo è richiamato anche da Vismara 1995a, 369-370 e Id. 1995b, 121, trattando della competenza dei vescovi nel decidere causae liberales. 730 Sul punto, cfr. anche Rampazzo 2012, 206-207, che tuttavia non rileva la distinzione ora sottolineata. L’autore osserva, invece, come l’incompetenza dell’arbitro non si riverberi in vizi degli atti negoziali da cui scaturisce l’obbligo di pronunciare la sentenza e come il giurista si limiti a prendere in considerazione il potere di compellere o meno a pronunciare la sentenza. 731 Identica è la regula iuris (v. supra 252, nt. 692) applicata in Ulp. 29 ad ed., D. 15.1.3.8: Si servus, cum se pro libero gereret, compromiserit, quaeritur, an de peculio actio ex poena compromissi quasi ex negotio gesto danda sit, sicuti traiecticiae pecuniae datur. sed hoc et Nervae filio et mihi videtur verius ex compromisso servi non dandam de peculio actionem, quia nec si iudicio condemnetur servus, datur in eum actio, ove si evince che il fondamento di tale esclusione sia il difetto di capacità processuale del servus. Non condivisibile la distinzione sottolineata da Biscardi 1974, 15 ss. e 193 (= 2019, 15 ss. e 142-143), nonché Id. 1975, 149-152, tra il passo paolino e quello ulpianeo. Così, secondo l’autore, la precisazione presente nel passo di Ulpiano circa il comportamento dello schiavo che “cum se pro libero gereret” testimonierebbe una difformità di vedute dei giuristi in merito alla capacità dello schiavo di stare in giudizio. Contra correttamente Burdese 1982, 152-153 e, più di recente, Pontoriero 2011, 127-128, nt. 40. 732 L’opinione di Paolo è stata probabilmente compendiata dai compilatori: cfr. Talamanca 1958, 132, nt. 210, il quale ipotizza che il giurista intravedesse un difetto di validità del compromesso. Un rimaneggiamento si rinverrebbe anche nella sostituzione di petitio con la giustinianea exsecutio a parere di Beseler 1936, 78. Sul paragrafo 8 del frammento paolino ora analizzato, v., Bonifacio 1959b, 785; Ziegler 1971, 109-110; Buigues Oliver 1990, 220; Rampazzo 2012, 207, nonché, da ultimo, Buchwitz 2020, 31. Nella letteratura più risalente, anche Seeler 1891, 39-43.

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Commento Nel successivo paragrafo 9733, Paolo prende in esame l’ipotesi del compromesso concluso da un ambasciatore e opera una duplice distinzione. Qualora il compromissum sia stato concluso a Roma ante legationem e poi l’ambasciatore si sia recato proprio a Roma, ciò nonostante l’arbitro non è costretto a pronunciarsi, analogamente a quanto sarebbe avvenuto nel caso di un giudizio ordinario in virtù del c.d. ius domum revocandi734. Di contro, se il compromesso viene posto in essere in legatione, l’arbitro è invece tenuto a sententiam dicere, come avverrebbe qualora avesse avuto luogo un giudizio ordinario. Paolo tuttavia aggiunge che, in materia, alcuni tra i giureconsulti esprimevano dubbi (sunt tamen qui de isto non recte dubitant). Questi, secondo il giurista, non avevano certo ragione di dubitare del compromesso concluso in legatione su una questione ivi sorta (a titolo della quale il legatus sarebbe comunque obbligato a iudicium accipere). La discussione, al più, avrebbe potuto riguardare l’obbligo dell’arbitro di pronunciarsi su richiesta del legatus che avesse compromesso ante legationem, rimettendo dunque a quest’ultimo la volontà di attuare o meno il compromissum. E ciò, a parere di Paolo, doveva ammettersi, perché a lui era anche concessa analoga facoltà nel caso di un’azione ordinaria, a condizione però che, come in quest’ultimo caso, si trovasse nella condizione di convenuto735. Nel paragrafo 10 viene preso invece in considerazione il caso in cui due soggetti abbiano concluso un compromesso e uno di questi sia morto prima della pronuncia arbitrale. Qualora la parte superstite avesse deciso di istaurare una controversia ereditaria con riferimento all’eredità della controparte, viene fatto divieto all’arbiter di pronunciarsi, dal momento che ciò potrebbe dar luogo a un praeiudicium hereditati736. Paolo procede prevedendo, nel paragrafo 11, la facoltà delle parti di prorogare il dies compromissi cum iussu arbitri, escludendo tuttavia che ciò possa avvenire, al fine di evitare l’effi-

733 Sul complesso paragrafo 9 del frammento paolino in esame, v., ampiamente, La Pira 1936, 204-207 (= 2019, II.1 188-190), che si sofferma per sottolinearne le analogie di struttura e di fine tra litis contestatio e compromissum. Sulla fonte, cfr. altresì Bellocci 1972, 338-340; Sitzia 2011, 403-404 e Ziegler 1971, 113-114. Si soffermano brevemente sul passo anche Buigues Oliver 1990, 206-207 e Rampazzo 2012, 205, nt. 88. 734 Cfr. Ulp. 3 ad ed., D. 5.1.2.4: Omnes autem isti domum revocant, si non ibi contraxerunt, ubi conveniuntur. ceterum si contraxerunt ibi, revocandi ius non habent: exceptis legatis, qui licet ibi contraxerunt, dummodo ante legationem contraxerunt, non compelluntur se Romae defendere, quamdiu legationis causa hic demorantur. quod et Iulianus scribit et divus Pius rescripsit. plane si perfecta legatione subsistant, conveniendos eos divus Pius rescripsit, su cui v., in ispecie, Sitzia 2011, 396 ss. Dello ius domum revocandi Paolo si era già occupato nel secondo libro del commentario, trattando del vadimonium da prestare in relazione all’esercizio di questo diritto: cfr. Luchetti 2018c, 131 ss. 735 L’ultima parte del passo non è genuina secondo Bellocci 1972, 339-340, che riprende alcune osservazioni di Beseler 1937, 25, ricordate anche da Buigues Oliver 1990, 207 e nt. 356. Il paragrafo sarebbe sostanzialmente classico, nonostante le molteplici inesattezze formali, invece, secondo La Pira 1936, 204, nt. 32 (= 2019, II.1 188, nt. 32) e Sitzia 2011, 403, nt. 46. 736 Si tratterebbe di un pregiudizio “morale” secondo Pissard 1907, 164 e “di fatto” secondo Marrone 1955a, 264. Hackl 1976, 68-72, ritiene, invece, che il divieto di pronunciare sentenza dell’arbitro trovi la propria ragione giustificativa nel fatto che questa potrebbe essere vanificata dalla decisione del giudice, qualora si accerti che il pretendente erede non sia effettivamente tale. Talamanca 1956, 179-180, nt. 66, avanza alcune riserve in merito alla possibilità del pretore di intervenire nei confronti dell’arbiter nell’ambito di un negozio di diritto privato e ipotizza un intervento compilatorio. A parere dell’autore il testo originario avrebbe fatto riferimento alla sola assente coazione pretoria a pronunciare il lodo. Contra e sul punto, v. Gagliardi 2002, 248, nt. 353. Su D. 4.8.32.10, v. ancora Ziegler 1971, 86 e 128 e Rampazzo 2012, 138-139 e 201.

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Elena Pezzato cacia della penale, in base a una loro semplice convenzione737. Nel paragrafo 12, si disciplina invece l’ipotesi in cui l’arbitro tenti di sfuggire ai propri compiti e sese celare temptaverit. Il pretore è chiamato a intervenire (eum investigare debet) e, nel caso in cui l’arbitro persista a lungo nel suo inadempimento e non si renda reperibile, a comminare a suo carico una multa738. Il successivo paragrafo 13 si occupa specificamente del regime del compromesso con la nomina collegiale di più arbitri e del corrispettivo potere coercitivo del pretore. Sono due le condizioni prese in esame e apposte al compromissum: che la sentenza debba essere pronunciata da quilibet vel unus o altrimenti che la sentenza debba essere la pronuncia di tutti o della maggior parte. Mentre nel primo caso, anche qualora manchino gli altri, qui praesens est cogetur, nella seconda ipotesi il pretore non potrà singolarmente imporre a ciascuno di pronunciarsi739.

737 Circa il significato che qui assume il termine conventio, cfr. Ziegler 1971, 49, nt. 14 (che si riferisce al passo per criticare la tesi di Talamanca 1958, 37 ss., sulla distinzione e sul significato di conventio e di compromissum). Su D. 4.8.32.11, cfr. Ziegler ibidem, 130, cui adde Buigues Oliver 1990, 216 e Rampazzo 2012, 131-132. 738 Infondata l’ipotesi di interpolazione sospettata da Beseler 1948, 361 (contra anche Ziegler 1971, 85, nt. 190). Del passo si è da ultimo occupato Scevola 2004, 138-144, che ricollega questo particolare regime a quello anticamente previsto per il iudex e l’arbiter da Tab. II.2 (= FIRA, I2, 31). L’autore attribuisce alla prima fase di attività del pretore natura istruttoria, affermando che questa si sarebbe realizzata nell’accertamento dei motivi dell’assenza dell’arbitro. In verità, celare e parere mi paiono attribuire al passo paolino un significato prettamente concreto, materiale, e l’ipotesi sembra essere soltanto quella in cui l’arbitro cerchi di rendersi irreperibile, con la conseguente ricerca dell’inadempiente da parte del pretore (in tal senso, anche Rampazzo 2012, 157). Non accoglibili, come correttamente rileva anche Scevola 2004, 140-141, nt. 27, le tesi formulate in letteratura circa l’eventuale esperibilità anche di un’actio in factum nei confronti dell’arbiter inadempiente: cfr., in ispecie, Paricio 1984, 297-306 e Cremades 1988, 1187-1204. Parimenti non testimoniato dalle fonti – ma maggiormente plausibile –, invece, il concorrere con la multa della pignoris capio, come ipotizzato già da Pernice 1873, 447 e Lenel 1927, 131 e accolto, tra gli altri, da Ziegler 1971, 7, nt. 7. La concorrenza delle due sanzioni è testimoniata, d’altronde, per la mancata comparizione della parte apud praetorem (cfr. Ulp. 24 ad ed., D. 25.4.1.3, erroneamente riferito da Buigues Oliver 1990, 238, all’arbiter ex compromisso e su cui, per tutti, v. Scevola 2004, 138-139, nt. 25). Sul passo paolino, oltre agli autori citati, si soffermano brevemente anche Wlassak 1921, 117-118 e dalla Massara 2012a, 130, ripreso in Id. 2012b, 22, nt. 5. 739 Rampazzo 2012, 85-87, rileva una discrepanza tra la soluzione di Paolo e quella di Celso riportata in Ulp. 13 ad ed., D. 4.8.17.7: Celsus libro secundo digestorum scribit, si in tres fuerit compromissum, sufficere quidem duorum consensum, sed si praesens fuerit et tertius: alioquin absente eo licet duo consentiant, arbitrium non valere, quia in plures fuit compromissum et potuit praesentia eius trahere eos in eius sententiam. Non mi sembra, invero, che il passo ulpianeo contraddica quello paolino. Il requisito costitutivo e deliberativo richiesto da Celso per la validità della pronuncia arbitrale – se sono stati nominati tre giudici, è necessario che la pronuncia avvenga alla presenza di tutti e tre e con la concordanza di due – ricorre solamente nell’ipotesi in cui non sia stata apposta alcuna clausola in materia dalle parti. Parimenti differente, inoltre, l’ipotesi di Ulp. 13 ad ed., D. 4.8.17.4: Sed si ita sit compromissum arbitratu Titii aut Seii fieri, Pomponius scribit et nos putamus compromissum valere: sed is erit cogendus sententiam dicere, in quem litigatores consenserint, così come già sottolineato da Talamanca 1991-1992, 574, che ben evidenzia come la prima fattispecie di Paolo implichi sì la fungibilità dell’arbitro, ma al contempo la necessità della collegialità qualora vi fosse la disponibilità di tutti. Diversamente Buigues Oliver 1990, 123-124, secondo il quale – sulla base di queste fragili argomentazioni – il frammento ulpianeo sarebbe stato interpolato. Sul punto, v. anche Matthiass 1888, 54-56, correttamente criticato da Talamanca 1958, 139, nt. 221, laddove ritiene che entrambi i frammenti affermino che “durch die Wahl der Parteien bedingte comprom. völlig gültig ist”. Corretto il rilievo di Rampazzo 2012, 210, il quale sottolinea che la non costrizione del singolo arbitro non rientri in un’ipotesi di excusatio, bensì assuma la natura di una mera istruzione operativa rivolta al pretore. Sul passo paolino, cfr. anche Ziegler 1971, 123-124.

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Commento Il seguente paragrafo 14 è stato oggetto di attenzione da parte della letteratura sotto diversi profili740. La fattispecie presa in esame è quella di un arbitro che, apparso inimicus manifeste rispetto a una delle parti, nonostante sia stato diffidato dal pronunciarsi – anche alla presenza di testimoni –, emetta comunque sentenza. Si fa a questo proposito riferimento alla pronuncia imperiale741, che riconobbe alla parte lesa – per rescritto – l’esperibilità dell’exceptio doli al fine di tutelarsi dall’ingiustizia subita742. Tale rimedio fu peraltro ribadito dallo stesso imperatore che, a seguito di una consultatio rivoltagli dal iudex presso il quale era richiesta la pena743, precisò altresì che in tal caso dovesse essere escluso l’appello744. A questo proposito il testo, in una parte probabilmente aggiunta dai giustinianei, conclude affermando che l’exceptio diveniva in tal caso quaedam appellandi species, dato che con essa veniva rimessa in discussione la decisione arbitrale745. Subito di seguito, nel paragrafo 15, forse facendo uso, come da alcuni sostenuto, delle parole di Sesto Pedio746, si afferma poi l’assoluta signoria delle parti nella decisione dei termini di assoggettamento della loro controversia all’arbitro: la competenza di quest’ultimo è limitata

740 L’interesse per il passo è riconducibile a due ordini di ragioni: una attinente alla collocazione temporale dell’opera di Paolo e una rappresentata dai rilievi che il frammento presenta per la materia processualistica. Per entrambe, cfr. quanto detto nelle note a seguire. Su D. 4.8.32.14, oltre agli autori di seguito citati, v. anche Hellmann 1903, 87-89; Voci 1971, 334-335 (= 1985, I 381); Knütel 1976, 252, nt. 41; Serangeli 1995, 278-279 e Rampazzo 2012, 155. 741 Nel passo si dice che la subscriptio è dell’imperator Antoninus, ma non è pacifico se questo sia da indentificarsi con Antonino Caracalla, Antonino Pio, Eliogabalo o Commodo. Sembra invero trattarsi dell’imperatore Caracalla: cfr. Arcaria 2000, 256, nt. 206 e de Petris 2018, 31 (ai quali si rinvia per una panoramica sulle posizioni assunte nella letteratura del secolo scorso). Riferisce il passo ad Antonino Pio, invece, Pergami 2007, 136, nt. 3 (= 2011, 391, nt. 3). 742 Secondo Talamanca 1958, 26, nt. 60, il rimedio sarebbe stato piuttosto recente, stante l’utilizzo dell’espressione posse eum uti e la necessità, per l’imperatore, di ribadire l’esperibilità dell’exceptio. Similmente v. Costa 1897, 269. La medesima soluzione viene proposta, con riguardo a una fattispecie di corruzione, in un rescritto di Diocleziano e Massimiano del 293 riportato in C. 2.55(56).3: Impp. Diocletianus et Maximianus AA. Et CC. Petroniae. Arbitrorum ex compromisso sententiae non obtemperans, si sordes vel evidens gratia eorum qui arbitrati sunt intercessit, adversus filiam tuam agentem ex stipulatu exceptione doli mali uti poteris. sed et ex doli clausula, quae compromissi stipulationi subici solet, filiam tuam convenire non vetaberis. PP. III id. Ian. Caro et Carino conss. 743 Circa la possibilità del iudex privatus di proporre delle consultationes rivolte all’imperatore, cfr. Arcaria 2000, 257-258. Risulta così smentita la tesi formulata da Litewski 1969, 230, circa la proponibilità di consultationes soltanto da parte dei giudici della cognitio extra ordinem. 744 Quanto ai presupposti richiesti per la concessione del rimedio, secondo Matthiass 1888, 110-111, sarebbe possibile opporre l’exceptio doli soltanto qualora non sia intervenuta la coercitio pretoria. Contra correttamente Talamanca 1958, 26, nt. 60, che sottolinea come, oltre alla manifesta inimicizia dell’arbitro nei confronti di una delle parti e la diffida da parte di quest’ultima a pronunciarsi, è necessario che la pronuncia sia stata dolosamente falsata al fine di favorire o danneggiare una delle parti. Inimicizia e diffida alla presenza di testimoni, pertanto, assumono la funzione di meri elementi di prova di una sentenza viziata, che deve comunque risultare tale nella valutazione dell’organo giudicante. 745 La parte finale (per hanc – rell.) è stata ritenuta non genuina già da Faber 1765, 163, nt. 3 e, nella letteratura più recente, da Biondi 1930, 96 e nt. 267, seguito da Talamanca 1958, 26, nt. 60, che bene mette in luce come si tratti, a ogni modo, di “un’interpolazione innocua”. In tal senso, v. anche Litewski 1965, 414, nt. 143 e 424, nt. 192; Buigues Oliver 1990, 134. Contra Raggi 1965, 141-142, nt. 36; Ziegler 1971, 100-101 e 138 e Id. 1992, 686, nonché Serangeli 1995, 278, nt. 9. 746 Secondo le osservazioni di La Pira 1938, 300-301 (= 2019, II.1 417), qui Paolo avrebbe fatto ricorso all’opera di Pedio, così come esplicitamente avviene nei successivi paragrafi 16 e 20. Questa congettura potrebbe risultare avvalorata dal fatto che il passo è da ricollegarsi in via dogmatica alla definizione riportata da Ulpiano – ma da lui stesso attribuita a Pedio – in Ulp. 13 ad ed., D. 4.8.13.2, in cui si determina il contenuto del recipere arbitrium: Recepisse autem arbitrium videtur, ut Pedius libro nono dicit, qui iudicis partes suscepit finemque se sua sententia controversiis impositurum pollicetur. quod si, inquit, hactenus intervenit, ut experiretur, an consilio suo vel auctoritate discuti litem paterentur, non videtur arbitrium recepisse. Sul punto, cfr. ampiamente Giachi 2005, 185 ss.

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Elena Pezzato a ciò che nel compromesso è stato devoluto747. In stretta connessione con questa affermazione incomincia un nuovo – ultimo – nucleo tematico, avente genericamente a oggetto la sentenza dell’arbitro e in cui, con particolare frequenza, Paolo menziona, stavolta esplicitamente, il pensiero di altri giuristi. Il paragrafo 16, in particolare, tratta di una questione già ampiamente discussa dai giureconsulti e richiama, a tal proposito, alcune autorevoli opinioni748. Il tema sta nel determinare quali pronunce arbitrali sia possibile qualificare come sententiae. Nonostante alcuni punti su cui non si è trovato un punto d’accordo, sembra pacifico potersi affermare che non possa essere ritenuta sententia qualsiasi pronuncia dell’arbitro. Così, Paolo ritiene non esserlo quella in cui si dice essere necessario, per una determinata controversia, adire al giudice o concludere un (nuovo) compromesso con (nuova) nomina arbitrale. Egli richiama a sostegno della propria tesi l’opinione di Giuliano, che ha l’importante funzione di esplicitare il criterio discretivo tra mere “pronunce arbitrali” e “sentenze”. Il giurista adrianeo, infatti, ripreso da Paolo, ritenne che la penale non sarebbe divenuta efficace qualora l’arbitro avesse ordinato di recarsi da un altro arbitro, ne finis non sit. È pertanto logico dedurre che il fine della sentenza arbitrale – suo elemento qualificante – sia quello di porre termine alla lite (come già detto in D. 4.8.19.1) e che le pronunce che non permettono di dire sopita la questione dei litiganti non possano essere qualificate come “sentenze”. Il periodo che segue – forse di mano compilatoria749 – presenta, di contro, un’esemplificazione di pronunce qualificabili come “sentenze”: si tratta di quella in cui, secondo il giudizio dell’arbitro Publio Mevio, si ordini di consegnare un fondo o si imponga la dazione di garanti. A questo punto Paolo richiama anche l’opinione di Sesto Pedio, che, a sua volta, conferma quanto detto da Giuliano750: la sentenza arbitrale ha il

747 Sul passo si soffermano anche La Pira 1936, 197-198 (= 2019, II.1 181-182); Buigues Oliver 1990, 211 e 232 e Rampazzo 2012, 85. Non sono da condividersi i dubbi circa la sua sostanziale genuinità avanzati da Beseler 1948, 382: cfr. Broggini 1957, 21, nt. 41, che, pur riconoscendo l’intervento di interpolazioni tardoantiche e giustinianee, lo ritiene contenutisticamente classico. Nello stesso senso, v. Ziegler 1971, 61, nt. 66. 748 Circa l’attitudine di Paolo a citare l’opinione di altri giuristi – per criticarla, o, più di frequente e come in tal caso, per trovare conferma della propria – cfr. per tutti Luchetti 2018a, 41 ss. Sul passo ora esaminato, oltre agli autori citati a seguire, v. anche Ziegler 1971, 82-83 e Rampazzo 2012, 96-99 e 126. 749 Sulla genuinità del tormentato passo si sono avanzati molteplici dubbi: cfr. Levy, Rabel 1929a, 63. Più di recente, La Pira 1938, 300 (= 2019, II.1 417), riprendendo una proposta di Mommsen 1870.I, 157, nt. 6, ha ritenuto di sostituire le parole idem Pedius probat con Pedius id improbat. È evidente, infatti, la dissonanza con cui si colloca l’inciso quod si – sententiae posto tra l’opinione di Giuliano e quella di Pedio, con cui si inserisce una precisazione “positiva” di ciò che una sentenza può contenere, interrompendo una logicità di pensiero che probabilmente univa l’opinione concorde dei due giuristi. Come sottolineato anche da Gallo 1995, 131-133, infatti, è corretto ritenere che Paolo citi Giuliano e Pedio soltanto al fine di suffragare la propria tesi e che i tre giuristi si collocassero nello stesso orientamento dottrinale. Posta, dunque, la non genuinità della proposizione quod si – sententiae, è inevitabile dubitare anche della successiva nisi – satisdaretur, che alla prima direttamente si ricollega. Evidenziano le medesime interpolazioni Gradenwitz 1887, 70-72 e Lenel 1889, 991 e ntt. 1 e 2, nonché Talamanca 1958, 8, nt. 14, che ipotizza anche l’intervento di altri rimaneggiamenti, come ad esempio l’inciso ne propagentur – transferatur. Non accoglibile, invece, la ricostruzione di Giachi 2005, 198-204, che attribuisce a Giuliano le parole quod si – sententiae e, pur con qualche riserva, a Paolo il pezzo conclusivo nisi – satisdaretur. 750 Secondo parte della letteratura, ciò proverebbe la conoscenza da parte di Sesto Pedio degli scritti di Giuliano e, pertanto, la sua posteriorità cronologica. Così, tra gli altri, Gallo 1995, 130-133. Contra Cenderelli 1978, 376377 (= 2011, 184-185) e Giachi 1996, 85. L’opinione di Pedio è riportata in modo uniforme anche da Ulpiano nel già ricordato D. 4.8.13.2, nella parte in cui si dice: … qui iudicis partes suscepit finemque se sua sententia controversiis impositurum pollicetur. Non si capisce allora perché Paolo avrebbe fatto ricorso a una citazione di seconda mano riprendendola da Giuliano, come, invece, afferma Ferrini 1886, 40, nt. 4 (= 1929, II 45, nt. 4).

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Commento compito di condurre alla finis controversiae e ciò non avviene, ovviamente e ad esempio, quando la lite viene trasferita innanzi ad altro arbitro. La sentenza è chiamata anche a determinare in che modo sia prestata la garanzia, con quali fideiussori e, a giustificazione dell’esempio sopra richiamato, si afferma che possa delegare tale determinazione al giudizio di un altro arbitro soltanto qualora questo sia stato lo specifico fine perseguito dalle parti nel compromesso. Quest’ultima proposizione (nisi – rell.), che si ricollega direttamente all’esempio che si è supposto essere interpolato, non può che essere, a sua volta, probabilmente non genuina. Il paragrafo 17 aggiunge un’ulteriore precisazione al fine di qualificare correttamente un dictum arbitrale come “sentenza”751: quest’ultima, infatti, deve essere il giudizio del soggetto (o dei soggetti) cui le parti hanno concordemente assegnato il ruolo di arbitro (o di arbitri). In tal senso, si afferma che colui che è stato designato come unico arbitro non può chiedere l’intervento di altri, e debba attenersi a de re compromissa ribadendo, dunque, un principio già espresso nel precedente paragrafo 15752. Passando a trattare dei poteri dell’arbiter, nel successivo paragrafo 18, si riconosce a quest’ultimo la facoltà di citare le parti affinché compaiano in giudizio, nonostante queste abbiano deciso di farsi rappresentare da dei procuratores. Analogamente, si aggiunge nel paragrafo 19, che qualora nel compromesso sia contenuta la menzione degli eredi, anche a costoro possa essere richiesto di presenziare in giudizio753. Nel paragrafo 20 si afferma che è altresì compito dell’arbitro determinare come debba essere trasmessa la vacua possessio. Inoltre, secondo Pedio, i procuratores sarebbero stati tenuti a prestare la cautio ratam rem habiturum. Paolo è di diverso avviso, poiché qualora non si fosse correttamente adempiuto a quanto ordinato dall’arbitro sarebbe divenuta efficace la penale: secondo il giurista era dunque lo stesso meccanismo della stipulatio compromissi a garantire l’adempimento754. Infine, concordemente a quanto in precedenza affermato755, il successivo paragrafo 21 fa riferimento ai limiti posti

751 Probabilmente, Paolo sta ancora facendo ricorso all’opera Sesto Pedio: così Giachi 1996, 85, nt. 58 e Ead. 2005, 207, nonché Rampazzo 2012, 126. Sul passo, v. anche Ziegler 1971, 125. 752 Mi sembra evidente che il passo sia stato drasticamente ridotto dai compilatori. La proposizione conclusiva (nam sententia – rell.) logicamente non spiega quanto affermato in precedenza. Il fatto che la sentenza debba essere pronunciata dal solo soggetto designato al ruolo di arbitro nel compromesso nulla c’entra col fatto che l’arbiter abbia una competenza di materia limitata a quanto attribuito dalle parti. 753 Per il ricorso a Sesto Pedio anche nei paragrafi 18 e 19, cfr. sempre Giachi 1996, 85, nt. 58 e Ead. 2005, 207. In D. 4.8.32.18 la rappresentanza è quella del procurator apud arbitrum, non finalizzata alla conclusione del compromissum, cfr. Weizsäcker 1879, 38-39 e Matthiass 1888, 81, nonché Talamanca 1958, 14 e nt. 30 e Ziegler 1971, 115, nt. 357. Il paragrafo è da considerarsi sostanzialmente autentico: cfr. Arangio-Ruiz, Pugliese Caratelli 1955, 460, nt. 1, seguiti da Ziegler 1971, 114, nt. 356. Circa la funzione della mentio heredum, cfr. da ultimo Finkenauer 2010, 126 ss. (e 134-135 su D. 4.8.32.19). 754 Interpretano il passo come una critica rivolta a Sesto Pedio anche Weizsäcker 1879, 40; La Pira 1938, 301 (= 2019, II.1 417); Ziegler 1971, 115 e 148, nt. 543 e Cenderelli 1978, 401 e nt. 106 (= 2011, 211 e nt. 106). Sembra propendere per questa lettura anche Giachi 2005, 205-206, che tuttavia non esclude una differente costruzione sintattica della frase, secondo cui il quod sarebbe da ricollegarsi al verbum dicendi e le opinioni dei due giuristi, quindi, ne risulterebbero concordi. Una simile costruzione sintattica, tuttavia, non risulta mai utilizzata da Paolo nei libri ad edictum, dove il verbo puto viene sempre seguito da un’infinitiva o, al più, una costruzione con il gerundivo (e, a differenza di quanto dice la Giachi, neppure Ziegler avvalla questa seconda lettura). Sul passo, v. anche Matthiass 1888, 82, cui adde Levy, Rabel 1929a, 64 (per alcuni dubbi formali avanzati dalla più risalente letteratura). 755 V. D. 4.8.32.15 e D. 4.8.32.17, su cui supra 261 ss.

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Elena Pezzato dal compromissum all’autorità giudiziale dell’arbiter756: Arbiter nihil extra compromissum facere potest… Nel paragrafo si afferma inoltre come l’arbitro non possa posticipare in autonomia il termine del compromesso, ma spetti alle parti, eventualmente, riconoscergli la facoltà de die compromissi proferenda757. Si aggiunge ancora che, qualora l’arbiter abusi del suo potere, le parti non saranno tenute a rispettare la sua pronuncia e, alla sua violazione, non incorreranno nella penale758. F. 193 – D. 4.8.34 La fattispecie presa in esame nel principium è quella di due creditori o di due debitori solidali, uno dei quali rimane estraneo a un compromissum intercorso, rispettivamente, con il debitore o con il creditore. Emessa una pronuncia di assoluzione, ci si chiede se questa sia vincolante anche nei confronti del soggetto rimasto estraneo al compromesso, sia esso in un rapporto di solidarietà attiva o passiva. In altre parole, ci si chiede se diventi efficace la penale, qualora il creditore o il debitore solidale rimasto escluso dal compromissum rispettivamente agisca nei confronti del debitore (oramai liberato) oppure qualora gli sia richiesto il pagamento di un presunto debito (dichiarato inesigibile). A questa fattispecie, si aggiunge, devono essere assimilate quella degli argentarii e quella dei fideiussores socii759. La risposta del giurista è sibillina e, probabilmente, riguarda la sola ipotesi di più concreditori in solido760: non è certamente

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Sulla negata potestas all’arbitro – a differenza di quanto avviene per il iudex –, cfr. in ispecie Broggini 1957,

19 ss. 757 Si tenga a mente, a ogni modo, quanto precedentemente detto nel paragrafo 11 (v. supra 259-260): la dilatazione del termine potrà avvenire, in giudizio, soltanto cum iussu arbitri (e non sulla base di un semplice accordo interprocedimentale delle parti). 758 Lo stesso principio regolatore è riportato da Alfeno Varo in Alf. 7 dig., D. 48.50: Arbiter ex compromisso sumptus cum ante eum diem, qui constitutus compromisso erat, sententiam dicere non posset, diem compromissi proferri iusserat: alter ex litigatoribus dicto audiens non fuerat: consulebatur possetne ab eo pecunia ex compromisso peti. respondi non posse, ideo quod non esset arbitro permissum, ut id iuberet, su cui v., per tutti, Ziegler 1971, 30-31 e Rampazzo 2012, 130131. Circa D. 4.8.32.21, cfr. anche Paricio 1984, 292, nt. 33; Ziegler 1971, 70-71 (con ulteriori considerazioni sul regime della clausola de die proferenda); Buigues Oliver 1990, 142 e 216; Rampazzo 2012, 131-132. 759 Circa l’attribuzione di un rapporto di solidarietà attiva alla società degli argentarii, cfr. Arangio-Ruiz 1950, 82-83 e nt. 3 (84); Talamanca 1990a, 830 e Petrucci 2003, 123-125. Più in generale, sul punto v. anche Serrao 1971, 743-744 e nt. 1. Bürge 1987, 520, intravede nell’espressione nomina simul eunt riferita agli argentarii un riferimento all’istituto dell’expensilatio; contra, in ispecie, Talamanca 1988b, 919 e 920, sottolinea come qui l’allusione sia al rapporto tra i due argentarii e non al negozio costitutivo sottostante. Nello stesso senso anche Petrucci 1991, 339340. Secondo Bürge 1987, 524, il passo paolino denota un “institutionelle Verfestigung der societas” che non riguarda solo gli argentarii, ma “die societates ganz allgemein”. 760 Il fatto che la riposta al quesito precedentemente posto sia formulata poco chiaramente e soltanto con riguardo all’ipotesi di solidarietà attiva pone gravi dubbi in merito alla genuinità dei termini aut, aut debendi, aut ne ab eo petatur e vel ab alio petatur. Il frammento, d’altronde, è stato ritenuto interpolato dalla letteratura in altri ulteriori punti: oltre ai termini già citati, si è dubitato anche dell’inciso et fortasse – sunt e nec – petitur. Cfr. Levy, Rabel 1929a, 64, cui adde Lenel 1918, 145; Ziegler 1971, 97, 229 e 250; Sacconi 1973, 54, ntt. 13, 14 e 15; Bonfante 1979, 107-108 e Petrucci 1991, 339-341 (ma Id. 2003, 123, nt. 70). Secondo Albertario, 1948, 190-196, i compilatori avrebbero compendiato un originario testo paolino in cui si affrontavano, invero, sia l’ipotesi di solidarietà attiva che passiva, negando anche in tal caso ogni effetto al compromissum qualora si agisse nei confronti del debitore solidale rimasto estraneo al rapporto di compromesso, salvo nel caso dell’argentarius socius. Eccessivamente “genuinista” l’analisi esegetica di Schmieder 2007, 141-144, che attribuisce al passo una struttura chiastica e così spiega la frase conclusiva: “Doch geht der Schlussteil nur auf den Fall der Gesamtforderung ein und nicht auf die

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Commento possibile richiedere il pagamento da parte del soggetto che ha partecipato al compromissum, mentre invece lo è per colui che non vi aveva preso parte. Nel paragrafo successivo si afferma l’estinzione del compromesso al divenire efficace della penale, salvo che le parti abbiano espressamente stabilito la reiterazione della penale in singulas causas, quindi – seguendo la lezione di Talamanca – in relazione ai singoli impegni assunti dalle parti con il compromissum761. F. 194 – D. 36.1.37(36) L’inscriptio di D. 36.1.37(36) attesta l’originaria appartenenza del passo al XIII libro di Paolo ad edictum e testimonia così la decontestualizzazione operata dai giustinianei. Benché il frammento, infatti, sia da ricondursi al commento paolino dell’edictum avente a oggetto il receptum arbitri, salvo un incidentale riferimento a un intercorso compromissum, sono altre le tematiche di cui si occupa il passo, al punto da aver fatto dubitare dell’autenticità di gran parte di esso762. In particolare, vi si afferma che, qualora l’erede fiduciario abbia concluso un compromissum, il fedecommissario sarà tenuto a prestare a suo favore cauzione circa eventuali obblighi e oneri relativi. In tal modo, sotto il solo – si badi bene – profilo sostanziale, il passaggio dei beni ereditari avviene nella sua interezza, trasferendosi sia l’attivo che il passivo. Lo strumento giuridico alternativo alla cautio si dice essere allora la retentio, impossibile da realizzarsi, tuttavia, qualora i beni consistano in crediti o non siano suscettibili di possesso. Come già correttamente rilevato, retentio e cautio, invero, erano due strumenti fondati su presupposti ben differenti tra loro: se con la prima si realizzava il diritto dell’erede fiduciario a restituire l’eredità al netto di ogni spesa sostenuta, la seconda aveva, in tale contesto, la natura di cautio de indemnitate763. F. 195 – C. 2.55(56).5.3(1) Nell’ambito del commentario paolino relativo alla clausola edittale qui arbitrium receperint ut sententiam dicant sarebbe altresì stato presente un riferimento al regime dell’interruzione della prescrizione con l’inizio del procedimento arbitrale. Di ciò offre testimonianza la costituzione

samtschuld, auf die allein sich der Eingangshalbsatz nec a te petitur bezieht”. Similmente anche Steiner 2009, 6971, che dà – implicitamente – per autentico l’intero paragrafo. Contenutisticamente difforme sul punto Bas. 7.2.34 (= Scheltema, van der Wal, A I, 314-315), che sembra, invece, riconoscere l’efficacia della penale nel caso del soggetto estraneo alla stipulatio che agisca qualora questo sia in un rapporto di società con lo stipulante. Sul punto, v. anche Rotondi 1913, 66, nt. 2 (= 1922, II 364, nt. 4). 761 Stralciano l’eccezione nisi – rell. Guarneri Citati 1921, 213-216 e Beseler 1926, 92 (ma v. anche Id. 1948, 352). Per l’autenticità del passo, cfr., invece, Talamanca 1958, 78; Ziegler 1971, 75, nt. 134 e Knütel 1975, 158-160. Circa la necessaria espressa previsione dell’efficacia della penale per ogni singola causa, cfr. Talamanca 1974, 103, nt. 51, che ricollegando il passo a D. 4.8.30 [F. 191] (cfr. Id. 1958, 76 ss.; v. anche supra 255, nt. 708) ritiene di poterlo riferire alla commissio poenae ante sententiam. Il riferimento alla singula causa è stato variamente inteso in letteratura: mentre Guarneri Citati 1921, 215, ha ritenuto esservi un compromesso avente a oggetto più controversie, Talamanca 1958, 78, nt. 89, ha fatto riferimento ai vari impegni che le parti assumono con il compromesso, lettura da preferirsi. Sul punto, da ultima, anche Babusiaux 2006, 81-82, che parla di “jede(r) Streitpunkt des plenum compromissum”. 762 Per la non autenticità del passaggio sicut – rell., cfr. Beseler 1931, 21. Similmente (ma con riserva) Nardi 1947, 68. Bartošek 1948, 332, limita l’interpolazione a quid enim – rell. 763 Così Nardi 1947, 69-70, che classifica l’intero passaggio come una “non troppo felice dissertazione compilatoria”.

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Elena Pezzato giustinianea C. 2.55(56).5 risalente al 27 marzo 530, di cui rileva, in particolare il terzo paragrafo, in cui la cancelleria imperiale dispone che l’avvio del procedimento arbitrale, così come avviene nel procedimento ordinario, determini l’interruzione della prescrizione764. Muovendo una critica alle opinioni di Paolo e di alii prudentes ceteri765, si afferma che costoro trattarono la questione, ma non perfectissime peregerunt, sed usque ad quasdam temporales actiones standum esse existimaverunt. Benché, invero, non sia possibile la ricostruzione della posizione di Paolo e degli altri prudentes766, è ragionevole ritenere – per affinità tematica – che Paolo, in qualche punto del suo XIII libro ad edictum, trattasse proprio di questa questione, forse anche menzionando gli altri giuristi cui fa riferimento il testo giustinianeo767.

[Affinché armatori, tavernieri, stallieri restituiscano le cose ricevute (E. 49)] F. 196 – D. 4.9.4 Nel principium del frammento, chiaramente risultante da un taglio compilatorio (la frase inizia con sed), si riconosce all’armatore la legittimazione a esperire l’actio furti. La ragione giustificativa di tale legittimazione ad agire è rinvenuta nel fatto che su di lui grava il periculum di perimento della cosa. Uniche ipotesi di eccezione a tale trattamento sono il cui caso in cui egli stesso abbia precedentemente e furtivamente sottratto il bene o fosse insolvente768. Il primo paragrafo del frammento riconosce, poi, la responsabilità in capo a nautae, stabularii e caupones anche qualora in veste di cliente vi fosse un negotiator eiusdem generis, testimoniando una particolare attenzione per la tutela della parte contrattualmente “debole”769.

764 Sul contenuto di C. 2.55(56).5.3(1), cfr., in ispecie, Talamanca 1958, 144, nt. 229; Ziegler 1971, 215, nonché da ultima Mattioli 2018, 19-20, che si sofferma sul valore della menzione di Paolo da parte dei giustinianei. La costituzione risulta promulgata lo stesso giorno di (Imp. Iust. A. Iuliano pp., a. 530) C. 3.1.13; C. 4.20.20; C. 6.23.28; C. 7.62.39; C. 8.40(41).26 e, probabilmente, C. 3.1.14 e C. 3.2.3 (cfr. Krüger 1877, rispettivamente 238, nt. 1 e 240, nt. 1) e formava un unico testo normativo assieme a C. 4.20.20, attinente alle deposizioni rese nel procedimento arbitrale: sul punto, cfr. Di Maria 2010, 32-33, nt. 33. 765 Su tale particolare profilo, cfr. Di Maria 2010, 32-34, che ha correttamente identificato tali soggetti come altri giuristi classici menzionati nel testo paolino o dei quali i giustinianei disponevano le opere. Contra Pescani 1974, 224, secondo cui si tratterebbe degli altri giuristi della legge delle citazioni. 766 Così anche Talamanca 1958, 143, nt. 229. 767 In tal senso, cfr. la già menzionata Di Maria 2010, 34. 768 Su D. 4.9.4pr. si è accanita la critica interpolazionista, che ha avanzato dubbi sia sulla parte iniziale – letta accanto a Ulp. 14 ad ed., D. 4.9.3.5, sulla base di (Ulp. 38 ad ed.) D. 47.5.1.4 –, sia sulle due eccezioni poste a chiusura del principium. Cfr. Levy, Rabel 1929a, 65, cui adde almeno De Robertis 1949, 90 (= 1950, 38 e 1987, III 342) e Id. 1952, 117, nt. 2 e 119, nt. 1), nonché Levy 1922, 86 e nt. 1. In realtà, sembra potersi concordare, con la più recente letteratura, sulla sostanziale genuinità dell’intero passo: cfr. Voci 1939, 130-131 e nt. 4 e Klingenberg 1999, 258259. Non solleva alcun dubbio di interpolazione neppure Pennitz 2014, 570-571. 769 In tal senso, cfr. Cerami 2009, 473. Anche su questo primo paragrafo sono stati avanzati dubbi da parte della letteratura. Così Solazzi 1936, 122-123, secondo il quale il passo originariamente avrebbe fatto riferimento soltanto a “un marinaio alle dipendenze dell’armatore della nave” e i restanti riferimenti sarebbero frutto di “un glossema od un’interpolazione, magari soltanto completomane”. Nello stesso senso, cfr. de Robertis 1952, 126, nt. 1. Contra Brecht 1962, 102, nt. 1, che propone soltanto di aggiungere il termine res, come già suggerito anche da Mommsen 1870.I, 162, nt. 1.

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Commento Infine, il secondo paragrafo riporta l’opinione del giurista Viviano circa l’estensibilità della responsabilità dell’armatore a vestimenta e penus cottidianus del locatore che accompagna le sue merci in virtù dell’accessione del viatico al contratto di locazione770. F. 197 – D. 19.2.42 Nel frammento, Paolo riconosce la cumulabilità dell’azione di locazione e di quella di furto nei confronti del soggetto che, indebitamente, si appropria771 del servo locato772.

[Coloro che esercitano il banco di argentario affinché paghino ciò che abbiano accettato di pagare per un altro (E. 50)] F. 198 – D. 13.5.12 Del commentario paolino della clausola edittale sul receptum argentarii è stato conservato soltanto il frammento in esame. Collocato dai compilatori nel XIII libro sotto il titolo de pecunia constituta, è anzitutto necessario osservare che, originariamente, al posto di constituat vi era recipiat e il passo faceva dunque riferimento non all’istituto del constitutum, bensì a quello del receptum argentarii773. Ciò detto, Paolo sembra dunque imporre la congruenza dell’obbligazione ex recepto con quella del cliente dell’argentarius, apparentemente contraddicendo il noto principio di astrat-

770 Il medesimo concetto – sempre ascritto a Viviano – è riportato anche in Ulp. 14 ad ed., D. 4.9.1.6: Ait praetor: ‘quod cuius salvum fore receperint’: hoc est quamcumque rem sive mercem receperint. inde apud Vivianum relatum est ad eas quoque res hoc edictum pertinere, quae mercibus accederent, veluti vestimenta quibus in navibus uterentur et cetera quae ad cottidianum usum habemus. Sull’attribuzione di tale innovazione a Viviano, v. Russo Ruggeri 1997, 63 e, ampiamente, 88-96. Il passo viene in rilievo trattando la complessa e dibattuta questione dell’assunzione di garanzia da receptum nautae ed è in tal caso evidente che esso testimoni la non necessaria esplicita assunzione di garanzia: cfr., in tal senso e tra gli altri, Arangio-Ruiz 1933, 109-110 e Luzzatto 1938, 169. Contra De Robertis 1952, in ispecie con riferimento al passo trattato 52-53, nt. 4, 56-57 e 76. Secondo Brecht 1962, 111-112, il receptum avrebbe riguardato esclusivamente i bagagli dei viaggiatori sulla nave e, nei due passi indicati, Viviano avrebbe fatto riferimento alle sarcinae che accompagnavano i normali viaggiatori. Il riferimento al principio di accessione sarebbe a suo modo di vedere frutto di un’interpolazione. Contra De Robertis 1965, 384-385, che critica la tesi di fondo e ritiene che il passo si riferisca ad accessioni di altre “merci”, appartenenti dunque agli accompagnatori delle merci o afferenti carichi di schiavi. Sempre contra e sul punto, cfr. anche Földi 1993, 278, nt. 35 (e v. anche 281-282) e Cursi 2007, 138 e nt. 67. Sul D. 4.9.4, oltre agli autori citati, v. più genericamente López-Amor 1994, 723. 771 Sul significato che assume in tale contesto il verbo subripere, v. Ankum 1980, 133 e nt. 130. 772 Sulla cumulabilità, in tale fattispecie, dell’actio locati con l’actio furti, v. Mayer-Maly 1956, 180 (che espunge actionis dal passo). Più in generale, sul cumulo dell’azione di furto con tutte le actiones bonae fidei, cfr. Ulp. 30 ad Sab., D. 17.2.45, benché probabilmente interpolata proprio nell’inciso idemque in omnibus bonae fidei iudiciis dicendum est, v. Levy, Rabel 1931, 300 e per tutti, Voci 1998, 9 (= 2007, 203-204). In argomento, cfr. anche Thomas, J.A.C. 1976, 170 ss. Sulla locatio servi e la locatio operarum servi – nonché sulla loro distinzione –, infine, cfr. Martini 1958, 15 ss. 773 Questa la lezione di Lenel 1881, 65 (= 1990, I 331) e Id. 1889, 992, nt. 3, seguito, tra gli altri, da Rossello 1890, 21-22 e 70-72 (= 27-28 e 76-78); Astuti 1941, 279 e, pur con qualche riserva, Fasolino 2000, 173-174 e nt. 18. V. anche Levy, Rabel 1929a, 203. Non accoglibile, di contro, la lettura proposta da Karlowa 1901, 758-759 e ripresa da Magdelain 1958, 154, nt. 342, secondo i quali, nonostante la collocazione del frammento nel XIII libro di Paolo, il passo avrebbe comunque fatto riferimento al constitutum debiti, posto a confronto con il receptum. Permissivo sul punto Andreau 1987a, 695 e Id. 1987b, 421, nt. 10. Contra, in ispecie, Talamanca 1960, 288. Non sembra preferire alcuna delle due posizioni Petrucci 1991, 380-383.

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Giovanni Luchetti tezza che si ascrive al negozio in Ulp. 14 ad ed., D. 13.5.27 e (Imp. Iust. A. Iuliano pp., a. 531) C. 4.18.2.1774. Il passo, infatti, afferma che, qualora l’obbligazione sia di dieci, e l’argentarius si obblighi per dieci e per lo schiavo Stico775, egli sia comunque tenuto soltanto per dieci. La criticità rilevata, invero, come già detto, può essere superata ritenendo che la validità del receptum dell’argentarius fosse sì indipendente da quella del suo cliente, ma che qualora quest’ultima obbligazione venisse da lui espressamente evocata nel negozio, questo ne rimanesse quantitativamente vincolato776.

LIBRO XIV [Sulla dazione dei garanti (E. XII.51)] F. 199 – D. 2.8.8 Il testo è l’unico tratto dal quattordicesimo libro del commentario edittale di Paolo e anche l’unico riconducibile al titolo edittale de satisdando, che opportunamente Lenel colloca, nella

774 Cfr. D. 13.5.27: Utrum praesente debitore an absente constituat quis, parvi refert. hoc amplius etiam invito constituere eum posse Pomponius libro trigensimo quarto scribit: unde falsam putat opinionem Labeonis existimantis, si, postquam quis constituit pro alio, dominus ei denuntiet ne solvat, in factum exceptionem dandam: nec immerito Pomponius: nam cum semel sit obligatus qui constituit, factum debitoris non debet eum excusare. C. 4.18.2.1: Imp. Iustinianus A. Iuliano pp. [...]. Cum igitur praefata actio, id est pecuniae constitutae, in his tantummodo a veteribus conclusa est, ut exigeret res quae in pondere numero mensura sunt, in aliis autem rebus nullam haberet communionem et neque in omnibus casibus longaeva sit constituta, sed in speciebus certis annali spatio concluderetur, et dubitaretur, si pro debito sub condicione vel in diem constituto eam possibile est fieri et si pure constituta pecunia contracta valeret, hac apertissima lege definimus, ut liceat omnibus constituere non solum res quae pondere numero mensura sunt, sed etiam alias omnes sive mobiles sive immobiles sive se moventes sive instrumenta vel alias quascumque res, quas in stipulationem possunt homines deducere: et neque sit in quocumque casu annalis, sed (sive pro se quis constituat sive pro alio) sit et ipsa in tali vitae mensura, in qua omnes personales sunt actiones, id est in annorum metis triginta: et liceat pro debito puro vel in diem vel condicionali constitui: et non absimilem penitus stipulationi habeat dignitatem, suis tamen naturalibus privilegiis minime defraudata: sed et heredibus et contra heredes competat, ut neque recepticiae actionis neque alio indigeat res publica in huiusmodi casibus adminiculo, sed sit pecuniae constitutae actio per nostram constitutionem sibi in omnia sufficiens, ita tamen, ut hoc ei inhaereat, ut pro debito fiat constitutum (cum secundum antiquam recepticiam actionem exigebatur et si quid non fuerat debitum), cum satis absurdum et tam nostris temporibus quam iustis legibus contrarium est permittere per actionem recepticiam res indebitas consequi et iterum multas proponere condictiones, quae et pecunias indebitas et promissiones corrumpi et restitui definiunt. […]. Sull’astrattezza dell’obbligazione del receptum argentarii, per tutti, v. Frezza 1962, 279-281. Le due fonti citate non sarebbero, invece, incompatibili con il passo paolino in questione secondo Fasolino 2000, 185, il quale sottolinea come il receptum fosse astratto soltanto per quanto concerne la causa del debito, non il suo oggetto. 775 Errata l’esegesi di Astuti 1941, 279-280, che ritiene trattarsi di un’obbligazione alternativa. Rileva il fraintendimento anche Talamanca 1960, 292, nt. 35. Circa l’oggetto del receptum, v., in ispecie, le osservazioni di Petrucci 1991, 380-383, il quale giunge a ipotizzare l’esistenza di conti in derrate da cui gli argentarii potevano prelevare, ai fini di pagamento, beni fungibili su ordine degli stessi clienti (ma contra v. Talamanca 1994, 838), nonché, per i beni mobili infungibili, forme di deposito con l’assunzione dell’obbligo di trasmettere il bene al creditore o all’impegno di procurare il bene oggetto dell’obbligazione. 776 Così Talamanca 1957, 941 e Id. 1960, 289. Già Lenel 1881, 65 (= 1990, I 331), aveva distinto tra receptum astratto e causale, seguito poi da Frezza 1962, 281. Contra Rossello 1890, 70-72 (= 76-78) e Partsch 1908, 416, nt. 1, il quale, ritenendo il passo gravemente manomesso, hanno ritenuto vano cercare una ratio sottesa all’affermazione paolina.

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Commento sua ricostruzione dell’editto, dopo il titolo de receptis777. Nel principium si fa anzitutto riferimento al fatto che il termine di comparizione da includere nella stipulazione doveva essere concordato dalle parti (il riferimento era probabilmente alla cautio vadimonium sisti e al fatto che le parti erano solite convenire il momento in cui il vadimonium diventasse esigibile)778 e che, secondo Pedio, qualora ciò non fosse avvenuto (e mancasse pertanto l’indicazione del dies vadimonii), fosse l’attore a poter fissare a sua discrezione il momento di esigere la prestazione in caso di mancata comparizione. Tale termine, che si sarebbe dovuto stabilire con riferimento a un ragionevole spazio di tempo (moderato spatio), sarebbe stato comunque sottoposto alla valutazione del giudice che, secondo la ricostruzione che parrebbe più attendibile, avrebbe avuto luogo ove fosse successivamente esperita l’actio vadimonii deserti779. Dal fatto che sul punto si pronunciassero i giuristi sembra potersi anzitutto argomentare che del tema non si occupasse specificamente il testo edittale780. Peraltro il passo è travagliatissimo nella parte in cui afferma Pedius putat in potestate stipulatoris esse moderato spatio: de hoc a iudice statuendum. Si è infatti molto discusso circa la possibilità che l’espressione moderato spatio sia interpolata781 e ancor di più riguardo alla collocazione della pausa indicata dai due

777 Sul punto e sul contenuto del titolo edittale di cui poche sono le testimonianze superstiti v. Lenel 1927, 135, in cui la collocazione del titolo de satisdando è messa in relazione alla successione tematica che trova conferma nel Codice giustinianeo (in cui il titolo de receptis [C. 2.55(56)] è seguito appunto da quello de satisdando [C. 2.56(57)]) e a quella presente nelle Pauli sententiae (in cui il titolo de satisdando, in assenza di una trattazione de receptis, segue immediatamente la parte dell’opera relativa alle restitutiones in integrum). 778 In questo senso cfr. in specie Knütel 1994a, 387, che opportunamente ricorda come invece, nel quadro della compilazione, il testo riguardi la cautio iudicio sisti attraverso la quale il convenuto prometteva di ripresentarsi in giudizio (cfr. I. 4.11.2). Per l’opinione che il passo riguardasse originariamente la cautio vadimonium sisti v. anche, successivamente, Donadio 2011, 463. 779 Per questa ipotesi cfr. Donadio 2011, 467 ss. (e già 106, nt. 183). Secondo la lettura più attendibile al giudice, ove appunto fosse stata esercitata l’actio vadimonii deserti, era rimessa, nel caso dell’interruzione della fase in iure e quindi con riferimento alla riassunzione della defensio, la valutazione della pretesa del creditore di ottenere l’adempimento della prestazione (e cioè il pagamento del vadimonium) appunto con riferimento a un moderatum spatium temporis. L’inadempimento, in mancanza di un termine convenuto (in caso di dissenso secondo l’interpretazione di Bas. 7.14.8 [= Scheltema, van der Wal, A I, 374]) era cioè riconnesso al decorso di un lasso di tempo fissato dal creditore, ma che doveva essere poi valutato, alla stregua del criterio della ragionevolezza, dal giudice. Rimane peraltro dubbia l’autenticità del riferimento al iudex, sul punto v. Platschek 2011, 285, nt. 25, che, trattandosi di riassunzione del giudizio nell’ambito della fase in iure, ritiene piuttosto che il testo originale facesse riferimento al pretore. Sul punto v. anche cfr. Kaser, Hackl 1996, 529, nt. 28. Circa la possibilità che si trattasse di un vadimonio stragiudiziale v. Donadio 2011, 464 ss., nonché, già in precedenza, Platschek 2011, 285, che sottolinea come nel vadimonio giudiziale la mancanza di accordo sul dies di comparizione era soggetto a essere integrato in via diretta dal pretore. 780 Per l’opinione che della questione non si trattasse nell’editto cfr. Lenel 1927, 136. Del resto il testo parla di litigatores e la stipulatio sembrerebbe specificamente riguardarli senza coinvolgere terzi: da ciò Knütel 1994a, 387, ricava l’idea che il principium non riguardasse una satisdatio. Diversamente Platschek 2011, 285, nt. 24, che, proprio per la collocazione del testo nel titolo edittale de satisdando, ipotizza che si riferisse piuttosto a un vadimonium cum satisdatione. 781 Per l’interpolazione di tutta la parte finale del principium (moderato spatio de hoc a iudice statuendo) v. già Cuiacius 1584, 197. Effettivamente l’espressione moderato spatio ricorre solo in questo caso nella raccolta di iura; sul punto, con riferimento all’intera frase in questione, cfr. Levy, Rabel 1929a, 18 e Iid. 1929b, 16. Recentemente in favore dell’interpolazione anche Metzger 2005, 96: “there is some obvious interpolation here. Moderato spatio hangs badly on what precedes it, and in the classical law a iudex would not make this kind of determination in iure” (ma v. qui nel testo e nt. 779).

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Giovanni Luchetti punti, posti da Mommsen nell’editio maior dopo l’espressione contestata e invece da Krüger in quella minor immediatamente prima di essa782. Dal testo, così come è scritto, sembrerebbe inoltre potersi evincere che l’opinione di Pedio, certamente espressa nel suo commentario edittale, non fosse del tutto condivisa da Paolo, circostanza che parrebbe testimoniata dal fatto che in prima battuta sembra rimessa all’attore la determinazione del momento in cui si produceva l’esigibilità del vadimonium (Pedio), mentre in un secondo momento si riconosce piuttosto al giudice la specifica competenza in materia di fissazione del termine (Paolo)783. Come ha dimostrato Knütel la formulazione più attendibile è peraltro Pedius putat in potestate stipulatoris esse: moderato spatio de hoc a praetore statuendo, il che indurrebbe a pensare, con tutte le cautele del caso e volendo salvare la genuinità della parte finale da moderato spatio a statuendo, che in ultima analisi fosse il giudice a stabilire, sulla base di un criterio di ragionevolezza, l’idoneità del termine fissato dallo stipulante784. Della stipulazione di garanzia in cui venivano prestati dei garanti (e cioè propriamente della satisdatio) si occupano peraltro ex professo i paragrafi che seguono, con riferimento specifico a situazioni in cui i garanti fossero ab origine inidonei o lo fossero divenuti in un momento successivo. Come riferisce il paragrafo 1 non potevano di norma essere adibiti come garanti (e a quanto sembra, più precisamente, nell’originale paolino, come sponsores) né le donne, né i militari, né i minori di venticinque anni, salvo che costoro non prestassero garanzia nel proprio interesse, come nel caso in cui lo facessero a favore del loro procuratore o, almeno secondo alcuni (il testo fa generico riferimento a dei quidam), nel caso della donna qualora fosse stato richiesto in giudizio al marito il fondo dotale785.

782 Sul punto, quanto ai problemi di interpunzione suscitati dal testo, v. diffusamente Knütel 1994a, 387 e nt. 36, con ampia indicazione della bibliografia precedente riguardante l’orientamento più antico riproposto da Krüger nell’Editio minor. La lettura di Mommsen colloca i due punti dopo moderato spatio perché, se posti dopo in potestate stipulatoris esse, il discorso rimarrebbe sospeso. Tuttavia, come osserva opportunamente Knütel, il problema non è risolto e ci si aspetterebbe che dopo moderato spatio il testo aggiungesse l’espressione diem ponere o una simile. 783 Diversamente Lenel 1889.I, 992, nt. 4 e 1889.II, 3, nt. 3, che tende a ritenere che la parte moderato... statuendum non possa essere riferita né alla scrittura di Pedio, né a quella di Paolo. Per un tentativo di ricostruire la collocazione, nel commentario edittale di Pedio, dell’opinione riferita da Paolo in D. 2.8.8pr. v. Giachi 2005, 344, che, anche alla luce del testo qui in esame, ipotizza altresì che Pedio combinasse la sua trattazione delle stipulazioni pretorie (di cui abbiamo alcune altre testimonianze paoline: cfr. Lenel 1889.II, 8-9, Ped. 51-54) con “una trattazione più generale della stipulatio” (v. ibidem, 525 e nt. 58). Alla stessa autrice rinvio anche per una valutazione d’insieme sulle citazioni paoline del commentario edittale del giurista del I secolo (cfr. ibidem, 161 ss.). 784 Questo mi sembra il significato più plausibile del testo. Quanto alla sostituzione di statuendo (risultante dalla Florentina) a statuendum accolto da Mommsen dando fede alla lectio primitiva del Codex Parisinus (databile fra la fine dell’XI secolo e l’inizio del XII) v., in termini convincenti, le argomentazioni fornite da Knütel 1994a, 388, che, aderendo alla ricostruzione di Krüger, esclude altresì che l’ablativo assoluto moderato spatio statuendo possa dipendere da putat. 785 Sul testo, che nella compilazione riveste un ruolo chiave nell’individuazione dei requisiti di capacità richiesti per obbligarsi come fideiussor e che peraltro evidenzia appunto l’incapacità tendenziale di donne, minori di 25 anni e militari, cfr. ampiamente Trisciuoglio 2009, in specie 57 ss., che fra l’altro sottolinea come il caso del marito che beneficia dell’intervento fideiussorio della moglie dimostri come il testo riguardi la garanzia prestata da parte dei convenuti. Peraltro, per la probabilità che il testo paolino si riferisse, qui come nei successivi paragrafi 2 e 3, alla sponsio e non alla fideiussio cfr., a mio avviso opportunamente, Lenel 1889.I, 992, nt. 5. Per l’accostamento fra donne e minori che ricorre nuovamente anche nel paragrafo 2 v., oltre allo stesso Trisciuoglio 2009, 58, nt. 6, che menziona in particolare Papin. 10 quaest., D. 46.1.48pr.-1, in specie Beaucamp 1976, 497, nt. 51 (= 2010, 10, nt. 51), con indicazione di ulteriori fonti (riguardanti anche gli impuberi).

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Commento Come riferisce il paragrafo 2 neppure un servo avrebbe potuto essere adibito come garante nella satisdatio iudicatum solvi e se per caso ciò fosse avvenuto prima dell’accettazione del giudizio si sarebbe dovuta concedere all’attore la possibilità di ottenere nuovamente garanzia. In ogni caso, come precisa il testo invero in termini poco perspicui, si sarebbe dovuto venire in aiuto anche al minore di venticinque anni, così come forse anche alla donna786. Peraltro, come si afferma nel paragrafo 3, la satisdatio iudicatum solvi sarebbe venuta altresì meno nel caso in cui il garante (anche qui il testo doveva riferirsi allo sponsor) fosse divenuto erede dello stipulante o, secondo il testo, lo stipulante erede del garante, con la conseguenza di dover ricorrere a una nuova prestazione di garanzia787. Segue poi nel paragrafo 4 un’elencazione di alcune situazioni in cui la garanzia doveva essere prestata nel luogo di origine (evocatio in municipium). Ciò valeva per la satisdatio rem salvam fore prestata dal tutore e dal curatore, così come anche per la satisdatio de re restituenda cui era tenuto l’usufruttuario, nonché, ancora, per la satisdatio evicta hereditate legata reddi (et quod amplius per legem Falcidiam ceperit) prestata dal legatario. Lo stesso, continua il testo, doveva altresì valere per l’erede riguardo alla satisdatio legatorum servandorum causa. Peraltro alla stipulazione di garanzia l’erede non sarebbe stato ammesso qualora il legatario fosse già stato immesso nel possesso per la mancata prestazione della garanzia da parte dello stesso erede che invece, disposto successivamente a prestarla, richiedesse la restituzione del possesso, salvo che non potesse dimostrarsi che la precedente immissione nel possesso fosse avvenuta senza sua colpa o dolo788. Come riferisce il successivo paragrafo 5 si richiedeva peraltro che fosse prestato un apposito iusiurandum calumniae, affinché nessuno, al fine di vessare la controparte, la invitasse a comparire nel proprio luogo d’origine per ricevere la satisdatio, pur potendo prestare i garanti piuttosto a Roma789. A questo proposito viene riferita anche la formula del giura-

786 Sul testo v. brevemente Perozzi 1948, 347. Sul punto v. anche Zilletti 1961, 169 e nt. 17, che annovera il nostro testo fra quelli che, nell’elaborazione casistica, attribuiscono rilevanza al iustus error, che nel caso specifico implica la possibilità di rescindere la litis contestatio e di ottenere successivamente nel nuovo processo sponsores idonei. Cfr. a questo stesso proposito altresì Voci 1937, 239, nt. 5, che reputa altresì un glossema tutta la parte finale del testo da minori quoque fino alla fine. A tale opinione aderisce Biondi 1952, 225, che evidenzia che nel caso dello schiavo la rescissione è nell’interesse dell’attore, mentre nel caso della donna e del minore avrebbe luogo piuttosto nell’interesse di costoro. In questo senso il quoque non si spiega e d’altra parte il minore ha nell’inabilità il motivo specifico per ottenere la restitutio, mentre l’affiancamento della donna si giustifica, in un’ottica tarda, sul piano piuttosto della protezione. 787 Peraltro dubbi sussistono sulla seconda fattispecie e cioè su quella in cui lo stipulante diventasse erede dello sponsor. L’obbligazione di quest’ultimo infatti non si trasmetteva agli eredi e la morte la estingueva (cfr. Gai. 3.120 e 4.113): sul punto v. le osservazioni di Solazzi 1956a, 308, nt. 5. 788 Questa parte del testo va messa in relazione con Ulp. 14 ad ed., D. 2.8.7.1 che precisa che l’evocatio in municipium doveva essere concessa solo nel caso di satisdatio necessaria, ma non in quello di satisdatio voluntaria: Si necessaria satisdatio fuerit et non facile possit reus ibi eam praestare, ubi convenitur: potest audiri, si in alia eiusdem provinciae civitate satisdationem praestare paratus sit. si autem satisdatio voluntaria est, non in alium locum remittitur: neque enim meretur qui ipse sibi necessitatem satisdationis imposuit. 789 Sul iusiurandum calumniae in funzione di garanzia rispetto al fatto che l’evocatio in municipium non fosse compiuta vexandi causa v. García Camiñas 1994, 464 e nt. 35 (e ivi indicazione della bibliografia precedente). Come precisa il testo da questo giuramento di non agire calunniosamente venivano dispensate alcune persone, come gli ascendenti e i patroni, cfr. anche Ulp. 10 ad ed., D. 12.2.16; Ulp. 10 ad ed., D. 37.15.7.3; Ulp. 26 ad ed., D. 12.2.34.4.: sul punto v. in particolare Centola 2000, 195, nt. 106.

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Martina Beggiato mento di colui che prestava i garanti e che consisteva nell’affermare che “Romae se satisdare non posse et ibi posse, quo postulat remitti, idque se non calumniae causa facere” e non piuttosto “alibi se quam eo loco satisdare non posse” perché se non avesse potuto prestarli a Roma, ma potesse invece altrove, avrebbe giurato il falso. Come tuttavia precisa ancora il paragrafo 6, la possibilità di prestare garanzia nel luogo d’origine sarebbe stata ammessa solo in presenza di una giusta causa e in particolare, come si evidenzia ricorrendo alla formulazione di una domanda retorica, non sarebbe stata al contrario concessa qualora, dopo essersi rifiutato di prestare la garanzia nel luogo d’origine, lo richiedesse poi trovandosi a Roma, essendo dipeso da lui non aver dato garanti nel luogo ove ora si chiedeva invece di recarsi790.

LIBRO XV

[Per quali cause non è opportuno che vi sia un giudizio preliminare (E. XIV)] Con ogni probabilità il quindicesimo dei libri ad edictum di Paolo aveva per oggetto il titolo edittale quibus causis praeiudicium fieri non oportet, di cui ben più ampia traccia è conservata nel quattordicesimo libro del commentario ulpianeo791. Peraltro, dalle testimonianze conservateci non appare possibile ricostruire quante e quali clausole vi rientrassero. Ciò che si può ricavare dalle fonti è che in questo contesto era affermata la pregiudizialità del iudicium publicum rispetto al iudicium privatum, a condizione che si fosse trattato di un iudicium capitis792, così come quella della hereditatis petitio rispetto alle azioni di stato e alle altre azioni

790 Sul testo di D. 2.8.8.5-6 e sulla possibilità del pretore di rifiutare causa cognita l’evocatio in municipium nonostante fosse prestato il giuramento cfr. Martini 1960, 136. Sul punto cfr. anche Simon 1966, 187. 791 Cfr. Ulp. 14 ad ed., D. 5.3.5.1: Divus Hadrianus Trebio Sergiano rescripsit, ut Aelius Asiaticus daret satis de hereditate quae ab eo petitur, et sic falsum dicat: hoc ideo, quia sustinetur hereditatis petitionis iudicium, donec falsi causa agatur; Ulp. 14 ad ed., D. 5.3.5.2: Eorum iudiciorum, quae de hereditatis petitione sunt, ea auctoritas est, ut nihil in praeiudicium eius iudicii fieri debeat; Ulp. 14 ad ed., D. 5.3.7pr.: Si quis libertatem ex testamento sibi competisse dicat, non debebit iudex de libertate sententiam dicere, ne praeiudicium de testamento cognituro faciat: et ita senatus censuit: sed et divus Traianus rescripsit differendum de libertate iudicium, donec de inofficioso iudicium aut inducatur aut finem accipiat. 792 Sul punto De Marini Avonzo 1956, 132, osserva come non fosse da ritenersi “provata l’esistenza di una regola pregiudiziale che, introdotta dal pretore nel suo editto già in età repubblicana, accorderebbe al processo criminale questo privilegio”, giacché si sarebbe trattato di circoscrivere l’ambito applicativo di siffatta “regola edittale” al solo “processo criminale capitale”. D’altra parte la stessa De Marini Avonzo rileva come le fonti permettessero di considerare immediatamente evidente l’applicabilità “di tale prerogativa” ai soli iudicia capitalia. In questo senso, cfr. altresì Lenel 1927, 140-141 e nt. 9; Burdese 1956, 156; Mantovani 2003, 131-132, nt. 225; Gardini 2017, 159, nt. 24.

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Commento successorie793 nonché, forse, della rei vindicatio immobiliare rispetto all’actio confessoria servitutis794. In stretta connessione sia il commentario ulpianeo (ancora nel quattordicesimo libro) che quello paolino (nel sedicesimo, a stare agli unici due passi che ci sono pervenuti) si occupavano della querela inofficiosi testamenti, tema che, invece, non appare affrontato nelle corrispondenti sedi dei digesta giulianei e del commentario gaiano all’editto provinciale, circostanza che peraltro non sembra particolarmente significativa perché ben potrebbe essere riferibile non alle opere originali e ai loro autori, quanto piuttosto alle scelte dei compilatori giustinianei. In ogni caso pare ragionevole pensare che non vi fosse una specifica clausola dedicata alla querela, ma che piuttosto la trattazione riscontrabile nei commentari severiani sia dovuta a un’ampia digressione occasionata dalla connessione di materia nell’ambito del titolo dedicato ai praeiudicia795. Il fatto che la querela fosse proposta davanti al collegio centumvirale e che proprio l’auctoritas centumviralis iudicii fosse argomento per affermare la pregiudizialità dell’hereditatis petitio796, unitamente alla circostanza che la querela di norma si innestava in via

793 Si soffermano sull’exceptio quod praeiudicium hereditati non fiat Pissard 1907, 42 ss.; Wenger 1925, 160 (= 1938, 165); Solazzi 1953, 326 ss. (= 1972, VI 656 ss.); Marrone 1955a, 266-267; De Marini Avonzo 1956, 132; Kreller 1956, III 297-298; nonché Lenel 1927, 140-141 e 505-506, il quale correttamente ricorda come “der Vorrang der hereditatis petitio vor den erbschaftlichen Singularklagen ist bekannt”. Non diverse sembrano essere le conclusioni formulate da Biondi 1954, 382, laddove osserva che “in generale nessuna azione può esercitarsi che possa recare pregiudizio alla h.p.”. Cfr. Ulp. 14 ad ed., D. 5.3.5.2, in cui si legge che: Eorum iudiciorum, quae de hereditatis petitione sunt, ea auctoritas est, ut nihil in praeiudicium eius iudicii fieri debeat; Gai. 7 ad ed. prov., D. 10.2.1.1 e Iul. 50 dig., D. 44.1.13, ove il riferimento all’exceptio è esplicito. Cfr., inoltre, Pissard 1907, 42, nt. 1; Lenel 1927, 506, nt. 1 per una completa ricostruzione degli altri testi, al di fuori del Digesto, in cui compare la prospettata exceptio. 794 All’exceptio quod praeiudicium fundo (partive eius) non fiat si riferiscono Pissard 1907, 104 ss.; Lenel 1927, 505506; Marrone 1955a, 267-268; De Marini Avonzo 1956, 132. L’impiego dell’exceptio è attestato da Afr. 9 quaest., D. 44.1.16 – quod praeiudicium praedio non fiat – e da Afr. 9 quaest., D. 44.1.18 – in cui il riferimento all’exceptio quod praeiudicium fundo partive eius non fiat è esplicito. 795 Cfr. Rudorff 1869, 70, nt. 4 “In edicto legis actio proposita fuit, qua apud centumviros inofficiosum diceretur ... Praeterea de bonorum possessione litis ordinandae causa petenda edicto provisum fuisse putes”. Di conseguenza, ad avviso di Lenel, non vi sarebbe alcuna certezza circa la reale presenza della rubrica all’edictum, giacché “die Erwähnung der Zentumvirn kann, ebensogut wie hier, auch gelegentlich der cautio pro praede litis et uindiciarum oder gelegentlich eines der das Präjudizialverhältnis betreffenden Edikte stattgefunden haben, beweist also nichts für die Existenz unserer Rubrik” ma, al contrario, è plausibile che “von alledem steht nur die Ediktmässigkeit des C. V. fest, und, ich nehme an, auch für das Hadrianische Edikt” (Lenel 1927, 141-142). 796 Quanto all’utilizzo della exceptio ne praeiudicium hereditati fiat al fine di evitare che l’hereditatis petitio potesse essere pregiudicata viene in rilievo, sulla scia di quanto riportato da Lenel 1927, 141-142, (Imp. Iust. A. Iohanni pp., a. 531) C. 3.31.12pr.: Cum hereditatis petitioni locus fuerat, exceptio adsumebatur, quae tuebatur hereditatis petitionem, ne fieret ei praeiudicium. magnitudo etenim et auctoritas centumviralis iudiii non patiebatur per alios tramites viam hereditatis petitionis infringi. In argomento, cfr. inoltre Liebs 1970, 153; Hackl 1976, 73-74 e, in particolare, Schindler 1966, 292 ss., il quale allude a diversi epiloghi discendenti proprio dell’exceptio: in primo luogo, l’azione individuale esercitata dal beneficiario di un’eredità verrebbe dalla stessa paralizzata, giacché gli sarebbe precluso il suo diritto all’eredità, mentre qualora ad agire fosse un creditore ereditario, allora la sua pretesa verrebbe sospesa – e, dunque il processo rinviato – in attesa della definizione della pregiudiziale questione ereditaria. Ancora, cfr. Marrone 1955a, 36-37; Id. 1955b, 76-77 (= 2003, I 5-6); Id. 1978, 75 (= 2003, 1032); Gagliardi 2002, 246 ss.

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Martina Beggiato incidentale proprio sulle cause ereditarie intentate dall’erede istituito797, costituiscono argomento sufficiente per accedere all’ipotesi qui sostenuta e già avanzata, pur con qualche cautela, da Lenel. Vi è anzi di più: a fronte alla querela veniva meno la pregiudizialità dell’hereditatis petitio di cui si era parlato in precedenza, circostanza che – a maggior ragione – ne giustificava in siffatta sede la presentazione. Merita infine di essere segnalato il fatto che in questa parte la trattazione paolina, che pure ci è pervenuta in maniera assai frammentaria, doveva essere assai più ampia di quella corrispondente di Ulpiano. Il nostro tema occupava in Paolo, non sappiamo se integralmente, ben due libri, mentre la parallela esposizione ulpianea, benché come di norma assai più ampiamente utilizzata dai compilatori giustinianei, occupava solo una parte del quattordicesimo libro, in cui erano inserite anche le trattazioni della parte finale del titolo de receptis e l’intero titolo de satisdando. F. 200 – D. 48.1.2 Nel quadro ricostruttivo sinora delineato si inserisce perfettamente il testo paolino collocato dai compilatori sotto il titolo D. 48.1, de publicis iudiciis. Tale frammento, l’unico superstite del libro quindicesimo, fa riferimento alla summa divisio tra iudicia capitalia e non capitalia798. Peraltro ai primi sono riconducibili tanto i iudicia publica dai quali consegue la poena mortis, tanto quelli dai quali discende l’exilium799, cui il giurista affianca, con funzione esplicativa, l’antica nell’aquae et ignis interdictio800. In particolare, come rileva Paolo, è ca-

797 V. a questo proposito Marrone 1955a, 43; Id. 1962, 43 e 145-146. Sul rimedio processuale, cfr. Lenel 1927, 142; La Pira 1930, 414 ss. (= 2019, II.2 910 ss.); Di Lella 1972, 13 ss. e 126, il quale, mettendo in luce l’aspetto suppletivo del rimedio in parola, la sua origine (centumvirale o pretoria) e il suo successivo riconoscimento iure civili quale “azione di rescissione del testamento, preordinata all’apertura della successione intestata” valorizza la sua originaria natura incidentale, in seguito abbandonata per assumere le vesti di uno strumento autonomo di tutela. Sul tema cfr., inoltre, Marrone 1955b, 85 (= 2003, I 14); Talamanca 1990a, 768; Fercia 2013, 5. Quanto alle origini “oscure e discusse” della querela inofficiosi testamenti, cfr. Brugi 1907, I 120-121; Talamanca 1990a, 768-769; Voci 2004, 620. 798 Ciò che emerge prima facie dalla lettura del frammento è la contrapposizione tra i iudicia publica capitalia e non capitalia, in cui l’elemento discretivo è particolarmente rilevante giacché, come osserva Lenel 1927, 140, “daß eben diese Einteilung für die Frage, ob ein Zivilprozeß bis zur Beendigung eines Kriminalverfahrens zu sistieren sei, bedeutungsvoll war, ist nicht zu bezweifeln”. Sul punto v. anche Pissard 1807, 178-179, nt. 4; Brasiello 1935b, 79 ss.; Id. 1937, 13; Burdese 1956, 156; De Marini Avonzo 1956, 132; Provera 1989, I-II 493; Lovato 1994, 147; Kursa 2012, 93-94 e nt. 131; Sciortino 2017, 235, nt. 214. 799 Si vedano Brasiello 1934a, 4; Crifò 1985a, 9 e 108; Martín 2004, 253-254; McClintock 2010, 68-69, nt. 26, secondo i quali, nella testimonianza in disamina, l’exilium è da intendersi quale sinonimo di pena, dal quale scaturisce la perdita dello status di cittadino romano. 800 Sul punto cfr. Sichirollo 1878, 43; Oliverio 1927, IV 58; Voci 1999b, 16 (= 2007, 261); De Castro-Camero 2000, 53; Zumpt 1871, 460-461 e nt. 3, il quale precisa che “die capitale Strafe bestand also in Aechtung, welche bei Einigen Verbannung, bei Andern nur elendes und verachtetes Leben herbeiführte”. Sull’aquae et ignis interdictio, Costa 1921, 44 ss., nt. 3; Brasiello 1937, 272 ss.; Crifò 1961, I 229 ss.; Id. 1984, 483-484 (= 1985, 31 ss.); Garnsey 1970, 115; Fiori 1996, 56; Murga Gener 1996, 166, nt. 68; Laurendi 2016, 281, nt. 67; Sciortino 2017, 235, nt. 214; De Villa 1953, 295 e 299-300, nt. 1, a parere del quale “la interdictio pertanto o fu considerata nei testi della giur. classica che ne facevano menzione, come equivalente a deportatio oppure equiparata alla deportatio con l’aggiunta di un vel”.

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Commento pitalis801 quella poena che comporta come conseguenza di eximere caput de civitate802. È insomma capitale quella pena che comporta per la comunità il venir meno di un caput803. Da qui l’opportunità di distinguere fra l’interdictio e la relegatio804, che non comportava invece la perdita della cittadinanza805. Il testo si conclude soffermandosi anche sulle caratteristiche dei iudicia quae capitalia non sunt, cioè dei processi ove la sanzione poteva consistere in una pena pecuniaria o, in alternativa, in una qualche forma di coercitio corporale806.

801 Cfr., Cuiacius 1584, 200-201; De Giorgi 1857, II 119; Vignali 1859, VII 600; Strachan-Davidson 1912, II 69, nt. 1; Hackl 1976, 184, nt. 37. Si vedano, quanto alla definizione di poena capitalis, Mommsen 1899, 907 ss. e Carcaterra 1966, 141, il quale accede all’idea secondo cui “nel linguaggio giuridico, ‘capitalis’ (poena) è termine da interpretare (definire) in senso più ristretto che non nella lingua latina corrente”. Cfr., inoltre, Levy 1931, 5, nt. 1 (= 1963, II 325, nt. 1) secondo cui “die klassischen Definitionen von capitalis sich vielfach des Wortes mors bedienen” e Brasiello 1934a, 5, 14 e 17, che asserisce come “il concetto ‘capitale’... più che alla poena, si riferisce al crimen, o al iudicium, alla causa, alla res, all’accusatio”. 802 Cfr., Mommsen 1899, 907 e nt. 4; Volterra 1932, 104 (= 1991, I 355-356), secondo cui “l’evoluzione del diritto penale ha portato a che nell’epoca classica s’intendesse per condannato alla pena capitale colui cui poena mors aut aquae et ignis interdictio sit o, in altre parole, il termine capitalis esprime il concetto di eximere caput de civitate”. Sul punto cfr., altresì, Pelloso 2008, 230 e nt. 222, seguito poi anche da Pietrini 2012, 132, nt. 7. 803 Sul punto, cfr. Fiori 1996, 56-57, il quale sostiene come l’allusione paolina assuma una duplice connotazione, in quanto può essere intesa sia come sottrazione fisica di un soggetto che “viene eliminato dal novero dei cittadini”, sia come l’elisione di “un elemento, giuridicamente inteso, del gruppo”. In tempi meno recenti, v. Levy 1931, 44-45 (= 1963, II 354-355). Cfr. il collegamento tematico di Paul. 15 ad ed. praet., D. 48.1.2 [F. 200] e I. 4.18.2 che viene richiamato da Levy 1931, 64 (= 1963, II 368); Mentxaka 1997, 400, nt. 20; Pelloso 2008, 230, nt. 222; Martini, Pietrini 2012, 68-69 e nt. 23; Laurendi 2016, 281, nt. 67; Pietrini 2012, 132 ss., la quale, argomentando soprattutto sulla “similitudine dello schema”, ravvisa in D. 48.1.2 [F. 200] la “fonte ispiratrice” di quanto contenuto nelle Institutiones giustinianee. Parimenti conclude, in precedenza, Brasiello 1937, 252, 513 e 542, il quale osserva, da un lato, come dal raffronto tra le due testimonianze si tragga la necessaria interpolazione del brano contenuto nelle Institutiones giustinianee e, in secondo luogo, che “il passo delle Istituzioni indubbiamente deriva da Paolo, ed aggiunge la deportatio ed il metallum”. 804 Va segnalato come la contrapposizione tra interdictio e relegatio fosse analizzata da Brasiello 1935a, 51 e nt. 2; Id. 1937, 277 ss.; Meinhart 1965, 249-250; Mancini 2003, 234-235 e Kelly, G.P. 2006, 65 ss. 805 Cfr., a supporto della ricostruzione, Garnsey 1970, 115 e nt. 6, il quale osserva come “Paulus firmly distinguished between ‘capital’ penalties such as mors (death) and exilium (which he equated with aquae et ignis interdictio) and cetera, the ‘rest’, which were properly called non exilia sed relegationes” e Meinhart 1965, 250, secondo cui la relegatio “sie nicht mit dem Verlust der civitas zusammenfällt”. Si è pure correttamente notato, da parte di De Villa 1953, 296 e 301, come “al concetto di esilio è tecnicamente congiunto quello di perdita della cittadinanza che avviene mediante l’interdictio, mentre non rientra nella categoria dell’exilium la relegatio in insulam, in quanto il condannato a questa pena conserva la qualifica di civis”. Così anche De Castro-Camero 2000, 56-57 e 67 ss., secondo cui l’interdictio aqua et igni “al igual que la muerte, suponía la pérdita de una cabeza de la ciudad”, laddove sarebbe “situada al mismo nivel que la pena de muerte” e Torres Aguilar 1994, 741 e nt. 137, il quale sosteneva che “el término exilium, es distinto a relegatio, por razón de que ésta mantiene íntegro el derecho del ciudadano”. 806 Ipotizza che il tenore letterale della parte finale del passo potesse essere “ex quibus poena est pecuniaria aut in corpus aliqua coercitio” Mommsen 1899, 908-909, nt. 2. Sulla poena pecuniaria e sulle altre forme di coercizione corporale, cfr. Lovato 1994, 147; De Castro-Camero 2000, 54, nt. 80 e Sciortino 2017, 235, nt. 214. Quanto, ancora, all’“antitesi capitale-patrimoniale”, cfr. Brasiello 1937, 64, 365 e 562, il quale individua nell’espressione aut in corpus aliqua coercitio “una timida tendenza ... alla formazione di un concetto di costrizione corporale, distaccato da altri tipi”. Ancora sul raffronto tra D. 48.1.2 [F. 200] e I. 4.18.2, lo studioso prosegue considerando eloquente la discrasia esistente tra le due testimonianze, giacché dal loro confronto si evince come “l’elaboratore ha lavorato sulla base della distinzione di Paolo, relativa al binomio capitale-pecuniario, contaminandola con la infamia, e dando a questa il primo posto, ma senza formare una terza categoria”. Cfr., altresì Levy 1931, 63-64 (= 1963, II 368). Considera il verbo coercere quale sinonimo di “difesa e repressione” Gioffredi 1971, II 342.

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Martina Beggiato

LIBRO XVI

[Sul testamento contrario ai doveri verso i congiunti] Come già accennato, nel sedicesimo libro era certamente presente una trattazione dedicata al testamento inofficioso807, di cui peraltro ci sono pervenuti appena due frammenti inseriti dai giustinianei rispettivamente in D. 5.3.8 [F. 201] e D. 50.17.124 [F. 202]. Si trattava, con ogni probabilità, di una trattazione tematicamente connessa a quella dedicata al titolo edittale quibus causis praeiudicium fieri non oportet808 e anzi si potrebbe ipotizzare che, all’interno del titolo, potesse trovare collocazione anche una sottorubrica dedicata appunto all’inofficiosità del testamento809. In questo senso una testimonianza interessante è costituita da Ulp. 14 ad ed., D. 5.3.7pr. in cui si espone la regola secondo cui il giudizio di inofficiosità testamentaria non può essere pregiudicato da nessun’altra azione. Il passo riguarda, in particolare, un caso di azione di libertà ex testamento che non può essere oggetto di una qualunque decisione sino a quando non sia stata risolta la pregiudiziale questione sull’inofficiosità del testamento810. La ratio della pregiudizialità va scorta nella subordinazione della libertà rispetto alla questione dell’inofficiosità, giacché in caso di caducazione della disposizione testamentaria verrebbe a mancare la base sulla quale incardinare la pretesa liberatoria dello schiavo. Dunque, la causa liberale doveva essere sospesa fino a quando la causa pregiudiziale sull’inofficiosità non fosse stata decisa o, in alternativa, la querela non fosse stata ritirata. F. 201 – D. 5.3.8 Del resto la stretta connessione tematica fra hereditatis petitio e querela de inofficioso811 è confermata dal primo dei due testi paolini tratti dal sedicesimo libro e inserito appunto in D. 5.3,

807 Quanto all’analisi terminologica del lemma inofficiosus, cfr. Marrone 1962, 37, secondo cui significherebbe – quantomeno alle origini – “non conforme ... ad un dovere morale”, sebbene assuma le vesti del giuridicamente rilevante a seguito di “invalidità del testamento”. Ancora sulla valutazione dell’inofficioso testamento, cfr. Rudorff 1869, 70 (paragrafo 56); Voci 1963, I 702-703 e 728 ss., laddove lo studioso mette in luce come la lesione della portio debita “senza giusta ragione” possa manifestarsi tanto nei riguardi dell’“officium pietatis erga liberos”, quanto dell’“officium pietatis erga parentes”. 808 Sul punto, cfr. Lenel 1927, 141 e nt. 3. 809 Sul punto, cfr. Lenel 1927, 141-142. 810 Cfr. Pissard 1907, 155; Schindler 1966, 294 e 296. 811 Cfr. Cuiacius 1584, 202; Lenel 1927, 140 ss.; Kreller 1956, III 301-302. Sui profili della querela inofficiosi testamenti, cfr. ex plurimis Eisele 1894, 256 ss.; Woeß 1911, 178 ss.; Solazzi 1932, I 229 ss.; Sanfilippo 1939, 195 ss.; Renier 1942, 125 ss.; Marrone 1962, 37 ss.; Id. 2006, 625-626; Voci 1963, I 702 ss.; Di Lella 1972, 125 ss.; Negri 1975, 147 ss.; Di Ottavio 2012b, I 81 ss., secondo cui “la querela inofficiosi testamenti (q.i.t.) è l’azione con la quale i figli ingiustamente diseredati e/o i congiunti esclusi dal testamento ne attaccavano la validità, sostenendo che il de cuius dovesse essere considerato come se non fosse nel pieno possesso delle sue facoltà mentali nel momento in cui aveva redatto il negozio” (Ead. 2012a, 1 ss.). Non a caso, a essere leso dalla querela inofficiosi testamenti è l’“officium pietatis verso i parenti più vicini”, vale a dire “il dovere di affetto verso di essi” (cfr., sul punto, Hellwig 1908, 8; Sanfilippo 1939, 196; Voci 2004,

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Commento de hereditatis petitione812. In particolare, nel frammento si prevede che possa rivendicare l’eredità legittima colui che, ignorando la validità o meno del testamento, abbia accettato la volontà del defunto e, conseguentemente, vi abbia dato seguito. Siffatta prospettazione induce a pensare che Paolo alludesse a un testamento successivamente invalidato a seguito dell’esercizio della querela de inofficioso813, circostanza vieppiù confermata dal tenore letterale del passo, laddove si collegava la configurabilità della rivendica all’esecuzione della voluntas del de cuius, avvenuta con ignoranza rispetto alla validità o meno della disposizione testamentaria. Ciò risulta anche dal testo contenutisticamente parallelo di Paul. 2 quaest., D. 5.2.19 che, con riferimento ai diritti alla successione intestata della sorella istituita in un testamento poi caducato in virtù dell’esercizio della querela da parte dell’altra sorella in esso preterita, afferma “nec enim quae ex testamento adiit, quod putat valere, repudiare legitimam hereditatem videtur, quam quidem nescit sibi deferri: cum et hi qui sciant ius suum, eligentes id quod putant sibi competere, non amittant” 814. F. 202 – D. 50.17.124 Il brano è collocato dai compilatori in D. 50.17, De diversis regulis iuris antiqui815, circostanza che certo non favorisce l’individuazione del contesto in cui Paolo si soffermava sulla questione che vi viene presa in considerazione. Nel principium si afferma che ove non sia necessaria la voce, ma solo la presenza, il muto e il sordo possono rispondere se dotati di intelletto816. Diversa la situazione del furiosus che – come già riteneva Pomponio nel libro primo delle epistulae817 – va considerato piuttosto alla stregua di un assente818. 620; Marrone 1962, 37; Di Lella 1972, 13; Negri 1975, 147; Fernández de Buján 1989, 99 ss.; Talamanca 1990a, 768; Burdese 1993, 671; Di Ottavio 2012b, I 81 ss.; Fercia 2013, 5; Coppola Bisazza 2014, 30; Volpe 2017, 10-11 e nt. 12). In età postclassica, considerando “l’iniuria fondamento giuridico della querella classica e il color insaniae” – che, si badi, avrebbe estorto la vera volontà del de cuius – “fondamento di quella postclassica,” si rende possibile che la querela inofficiosi testamenti “divenga un’azione d’impugnativa indipendente” (cfr., sul punto, ex plurimis La Pira 1930, 437 [= 2019, II.2 935-936]; Marrone 1955b, 119 [= 2003, I 48]; Di Ottavio 2012a, 43-44; Volpe 2017, 11-12). 812 Sul punto, cfr. Querzoli 2000, 213-214 e nt. 66. 813 Così argomenta La Pira 1930, 462, nt. 1 e 553 (= 2019, II.2 963, nt. 97 e 1065). 814 Sul punto, cfr. Lenel 1927, 140 ss. (Id. 1889.I, 63, nt. 6); Kreller 1956, III 301-302. 815 Viene suggerito da Wlassak 1907, 8, nt. 4, di ascrivere il frammento al libro 17, nella parte in cui il commentario ad edictum si occuperebbe espressamente di interrogatio in iure (cfr. Lenel 1889.I, 994, E. 53), asserendo che “vielleicht ist in der Überschrift des cit. fr. l. XVI zu verwandeln in l. XVII”. Analoga soluzione sarebbe stata prospettata da Lepri 1947, II 106, a parere della quale “il ripetuto riferimento al respondere è ben in armonia” con la collocazione del passo nel titolo 17. Cfr. sul punto, ancora Cuiacius 1584, 202; Küster 1991, 44, nt. 143; Wacke 1993, 21. 816 Sul punto, cfr. Bufalini 1879, 15; Wacke 1993, 21; Lanza 1990, I 92; Id. 1987, 537, il quale osserva come il giureconsulto non negasse “in ogni caso intellectus ai muti e ai sordi”. Per quanto attiene alla perimetrazione del termine loco, cfr. D’Amati 1999, 58 e 74, nt. 54 mentre, sul contenuto di questo frammento, cfr. Lomonaco 1881, 708, nt. 1; Barzellotti 1831, I 187 a parere del quale “questa legge non è dettata per coloro che al tempo stesso fossero sordi e muti, ma per quelli che soffrono l’uno, e l’altro morbo”. 817 Per la collocazione del frammento nel primo libro delle epistulae di Pomponio, cfr. Lenel 1889.II, 52. Sul rapporto tra gli epistularum libri e gli epistularum [et variarum lectionum] libri XX., v. Lenel 1889.II, 52-53, ntt. 1 e 3; Schulz 1946, 222 e 231-232 (= 1961, 280 e 292-293 [= 1975, 343-344]); Wieacker 1960, 87; Liebs 1971, 51 ss.; Nörr 1976, II 543-544 (= 2002, 203-204). 818 Quanto all’assimilazione del furiosus con l’assente, cfr. Bufalini 1879, 15; Nardi 1983, 30 e 169; Küster 1991, 43-44; Carro 1995, 539 e 551, nt. 7; Fayer 1994, I 561, nt. 685, che ravvisa nell’assenza di intelletto del furiosus l’elemento cardine cui ancorare l’accostamento. Non dissimili sembrano le conclusioni formulate, in tempi più recenti, da Lepri 1947, II 101 ss. e, in particolare, 106, secondo cui “l’equiparazione del furiosus all’absens” rivestirebbe carattere “eminentemente processuale”. Ancora sul punto, cfr. Lanza 1990, I 92-93, laddove asserisce che, sebbene “absentia è qui assoluta mancanza di volontà”, nondimeno “la rilevanza giuridica del furiosus” rimane intatta e Diliberto 1990, I 170.

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Martina Beggiato Quanto al contesto in cui il testo era inserito non si possono che formulare congetture. Lenel lo mise in relazione con quanto detto in Gai. 4.31 con riferimento al lege agere nel processo centumvirale819. Un ulteriore collegamento potrebbe altresì essere individuato con la situazione prospettata in Ulp. 14 ad ed., D. 49.1.14.1 in cui si ricorda che nel processo de inofficioso il silenzio (o l’assenza) dell’erede avrebbe comportato la pronunzia di una sentenza a completo vantaggio della parte avversaria, ossia del querelante (Quotiens herede non respondente secundum adversarium sententia datur...)820.

819 Gai. 4.31: Tantum ex duabus causis permissum est [id legis actionem facere] lege agere, damni infecti et si centumuirale iudicium futurum est; sane cum ad centumuiros itur, ante lege agitur sacramento apud praetorem urbanum uel peregrinum... Cfr., Lenel 1889.I, 993, nt. 7; Marrone 1955b, 75 [= 2003, I 4]; Coppola Bisazza 2014, 31; Küster 1991, 44, nt. 143, laddove osserva come, per Lenel, il frammento vertesse “auf die legis actio” e, ancora, cfr. Albanese 1987, 12-13 e nt. 16, ove asserisce “che lege agere non possa significare altro che portare in essere un’actio mediante una lex”. 820 Cfr. La Pira 1930, 467 (= 2019, II.2 969); Marrone 1973, 364; Fercia 2013, 9; Di Lella 1972, 250-251, secondo cui “dall’inerzia dell’erede istituito” che fosse anche “rimasto assente nel giudizio” consegue “una pronunzia in favore del querelante”. Con riguardo al principium di D. 50.17.124 [F. 202] evidente è il nesso che si profila con D. 5.3.8 [F. 201] dato che, in entrambe le testimonianze, chiara è l’allusione alla validità della disposizione testamentaria. Cfr. Lenel 1927, 141 e nt. 4.

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APPARATI E INDICI

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Buigues Oliver 1990 – 1992 Bund 1965 Burdese 1951 – 1955 – 1956 – 1972 – 1982

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Carcaterra 1966 – 1986 Cardilli 1995 Carrelli 1934 – 1936 – 1937 – 1938a – 1938b Carro 1995 – 2006 Casavola 1954

– 1958 – 1976

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– 1999

– 2011

Centola 2000 Cerami 1989 – 1995 – 1998 – 2009 Cervenca 1961a – 1961b

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Cornioley 1964

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– 1985a – 1985b Cristaldi 2019a – 2019b Cugia 1953 Cuiacius 1584

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G. Luchetti, M. Beggiato, S. Di Maria, F. Mattioli, E. Pezzato, I. Pontoriero Cursi 2008a – 2008b – 2011 – 2015 D’Alessio 2014 Dalla 1987 dalla Massara 2012a

– 2012b – 2016

D’Amati 1999 – 2004 – 2009 – 2016 D’Angelo 2015a – 2015b Danilović 1974 Daube 1960 Debray 1910 De Castro-Camero 2000 De Filippi 2002 de Francisci 1912

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De Marini Avonzo 1956 – 1967 De Martino 1974 – 1993 De Medio 1922 de Petris 2018 de Robertis 1949

– 1952

– 1965 – 1970 – 1983

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Bibliografia Di Ottavio 2012b

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G. Luchetti, M. Beggiato, S. Di Maria, F. Mattioli, E. Pezzato, I. Pontoriero Faber 1631 – 1765 Fadda 1894 – 1949 Falchi 1976 Falcone 1996 Fanizza 1982 Fasolino 2000 Fayer 1994 Fercia 2008 – 2013 Fernández Barreiro 1969 – 1971a – 1971b – 1972 Fernández de Buján 1989 Ferretti 2005 Ferrini 1886 – 1887 – 1891a – 1891b – 1891c

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Gandolfi 1955 – 1957 Garbarino 2004 García Camiñas 1994a

P. Frezza, La donna tutrice e la donna amministratrice di negozi tutelari nel diritto romano classico e nei papiri greco-egizi, in «Studi Cagliari» 22 (1934) 125 ss. = Id., Scritti, I, Romae 2000, 317 ss. P. Frezza, Le garanzie delle obbligazioni. Corso di diritto romano, I, Le garanzie personali, Padova 1962. P. Frezza, v. Receptum, in «NNDI», XIV, Torino 1967, 1026 s. M. Frunzio, ‘Reversio in potestatem’ delle res furtivae e ‘furtum suae rei’ nel pensiero del giurista Paolo, in «Cultura giuridica e diritto vivente» 1 (2014) 1 ss. M. Frunzio, ‘Absentia rei’ e furtività, in «IAH» 8 (2016) 145 ss. M. Frunzio, Res furtivae. Contributo allo studio della circolazione degli oggetti furtivi in diritto romano, Torino 2017. M. Frunzio, Nerazio interlocutore privilegiato di Paolo [§§ 1-6], in G. Santucci et alii, Iulius Paulus. Ad Neratium. Libri IV, Roma 2021, 33 ss. P. Fuenteseca, Possessio domino ignoranti, in «AHDE» 24 (1954) 559 ss. C. Furia, Gai. 3, 84; 4, 38 e la collocazione originaria dell’editto ‘de capite minutis’, in «SDHI» 53 (1987) 110 ss. L. Gagliardi, Decemviri e centumviri. Origini e competenze, Milano 2002. L. Gagliardi, Mobilità e integrazione delle persone nei centri cittadini urbani. Aspetti giuridici, I, La classificazione degli incolae, Milano 2006. L. Gallet, Essai sur le sénatus-consulte «de Asclepiade sociisque», in «RHDFE» 4e série 16 (1937) 242 ss., 388 ss. F. Gallo, «Potestas» e «dominium» nell’esperienza giuridica romana, in «Labeo» 16 (1970) 17 ss. F. Gallo, Synallagma e conventio nel contratto. Ricerca degli archetipi della categoria contrattuale e spunti per la revisione di impostazioni moderne. Corso di diritto romano, II, Torino 1995. F. Gallo, La ‘verità’: valore sotteso alla definizione celsina del diritto, in Valori e principii del diritto romano. Atti della Giornata di studi per i 100 anni di S. Romano Maestro di Istituzioni (Torino, 12 ottobre 2007), Napoli 2009, 83 ss. G. Gandolfi, Contributo allo studio del processo interdittale romano, Milano 1955. G. Gandolfi, «Ipse pater adoptivus aut coemptionator heres fit» (Gai, 3,84), in «RIL» 91 (1957) 910 ss. P. Garbarino, Un’ipotesi di lettura di D. 47.10.23 (Paul. 4 ad. edict.). Brevi note a proposito di in ius vocatio e violazione del domicilio, in Scritti in ricordo di B. Bonfiglio, Milano 2004, 231 ss. J. García Camiñas, Ensayo de reconstrucción del Título IX del Edicto perpetuo: de calumniatoribus, Santiago de Compostela 1994. 300

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Giagnorio 2012 Giaro 1988 – 1991 – 2006 – 2016 Giesey 1970 Giménez-Candela 1981 – 1982a – 1982b

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G. Luchetti, M. Beggiato, S. Di Maria, F. Mattioli, E. Pezzato, I. Pontoriero Giodice-Sabbatelli 1993 Gioffredi 1967 – 1970 – 1971 Giomaro 1982 – 2003 – 2007

Girard 1887 Giunti 2012

Gokel 2013

González 1986 González Roldán 1997 – 2010 Goria 1995

Gothofredus 1652 – 1733 Gradenwitz 1887 – 1905

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– 1953

– 1962 – 1964 – 1972 Guarneri Citati 1921 – 1922

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G. Luchetti, M. Beggiato, S. Di Maria, F. Mattioli, E. Pezzato, I. Pontoriero Guarneri Citati 1923 Gutiérrez-Masson 1994 Guzmán 1974 – 1976 Hackl 1976 Haloander 1529 Harke 2005 Hartkamp 1971 Hellmann 1903 Hellwig 1908 Herrero Medina 2019 Honoré 1973 – 1975 – 2002 – 2007 – 2010 Hotomanus 1569 Humbert 1972 Huschke 1888 Iliffe 1965

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– 1986 Kaser, Hackl 1996 Kelly, J.M. 1966 Kelly, G.P. 2006 Kipp 1903

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G. Luchetti, M. Beggiato, S. Di Maria, F. Mattioli, E. Pezzato, I. Pontoriero Klingenberg 1992 – 1999 Klingmüller 1914 Knütel 1975 – 1976 – 1983 – 1986 – 1994a – 1994b Koschaker 1905 Kränzlein 1971 Kreller 1939 – 1956 Kretschmar 1928 Krüger 1877 – 1905 – 1908 – 1911 Kupisch 1974 Kupiszewski 1967

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Bibliografia Kursa 2012 Kurz 1866 Küster 1991 Lamberti 1996 Lambertini 1984 Lambrini 1999 – 2000 – 2009a

– 2009b

– 2010

– 2011

– 2013 – 2015 – 2019 Landucci 1890 Lanfranchi 1964 Lanza 1987 – 1990

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G. Luchetti, M. Beggiato, S. Di Maria, F. Mattioli, E. Pezzato, I. Pontoriero La Pira 1930 – 1936

– 1938 La Rosa 1953 – 1956a – 1956b – 1963 Laurendi 2013

– 2016

Lauria 1927 – 1930 – 1952 Lefebvre-Teillard 1991 Lemosse 1975 Lenel 1881 – 1883 – 1889 – 1899

G. La Pira, La successione ereditaria intestata e contro il testamento in diritto romano, Firenze 1930 = Id., La fondazione romanistica. Scritti di storia e di diritto romano, II.2, Firenze 2019. G. La Pira, ‘Compromissum’ e ‘litis contestatio’ formulare, in Studi in onore di S. Riccobono nel XL anno del suo insegnamento, II, Palermo 1936, 187 ss. = Id., La fondazione romanistica. Scritti di storia e di diritto romano, II.1, Firenze 2019, 173 ss. G. La Pira, La personalità scientifica di Sesto Pedio, in «BIDR» 45 (1938) 293 = Id., La fondazione romanistica. Scritti di storia e di diritto romano, II.1, Firenze 2019, 411 ss. F. La Rosa, I peculi speciali in diritto romano, Milano 1953. F. La Rosa, Ancora in tema di «peculium castrense», in Studi in onore di P. de Francisci, II, Milano 1956, 393 ss. F. La Rosa, La struttura della «cautio iudicatum solvi», in «Labeo» 2 (1956) 160 ss. F. La Rosa, L’«actio iudicati» nel diritto romano classico, Milano 1963. R. Laurendi, La conoscenza globale dell’opera giuridica di Claudio attraverso l’interpretazione di G. May: oblio ed eredità nella dottrina contemporanea, in G. May, L’attività giuridica dell’imperatore Claudio. Testo tradotto e commentato da R. Laurendi, Romae 2013, 7 ss. R. Laurendi, Riflessioni sul fenomeno associativo in diritto romano. I collegia iuuenum tra documentazione epigrafica e giurisprudenza: Callistrato de cognitionibus D. 48.19.28.3, in «AUPA» 59 (2016) 263 ss. M. Lauria, L’errore nei negozi giuridici, in «RDC» 19 (1927) 313 ss. M. Lauria, Iurisdictio, in Studi in onore di P. Bonfante nel XL anno d’insegnamento, II, Milano 1930, 481 ss. M. Lauria, Matrimonio-dote in diritto romano, Napoli 1952. A. Lefebvre-Teillard, «Pater is est quem nuptiae demonstrant»: jalons pour une histoire de la présomption de paternité, in «RHDFE» 69 (1991) 185 ss. M. Lemosse, ‘Editio actionis’ et procédure formulaire, in «Labeo» 21 (1975) 45 ss. O. Lenel, Beiträge zur Kunde des Edicts und der Edictcommentare, in «ZSS» 2 (1881) 14 ss. = Id., Gesammelte Schriften, I, Napoli 1990, 280 ss. O. Lenel, Das edictum perpetuum. Ein Versuch zu dessen Wiederherstellung, Leipzig 1883. O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I-II, Lipsiae 1889 (rist. Graz 1960 e Roma 2000). O. Lenel, Nachträge zum Edictum Perpetuum, in «ZSS» 20 (1899) 1 ss. = Id., Gesammelte Schriften, II, Napoli 1990, 427 ss. 308

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Scherillo 1945 – 1954 – 1957

Schermaier 1992 Schiavon 2019 Schiavone 2014 Schilardi 2013 Schipani 1971 Schmidlin 1963 Schmidt 1853 Schmieder 2007 Schönbauer 1936 Schulz 1922

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Solazzi 1905

– 1910 – 1912 – 1917 – 1923 – 1924a – 1924b – 1925 – 1926 – 1932 – 1936 – 1940 – 1953

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Vacca 1982

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Viarengo 2009 – 2015 Viaro 2012 – 2013

Vignali 1859 Vigneron 1979 Vincenti 1992 Visky 1969

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331

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– 1948 – 1956 – 1966 Vonglis 1968 Voß 1980

Wacke 1971 – 1980a

– 1980b – 1986 – 1993 – 1999

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334

ABBREVIAZIONI

«AG» «AHDE» «AUPA» «IAH» «ANRW» «BIDR» «ED» «EI» «IAH» «JRS» «LR» «NNDI» «NRHDFE» «OIR» «PP» «RDC» «RDR» «RE» «REHJ» «RGDR» «RHDFE» «RISG» «RIDA» «RIL» «RJ» «SDHI» «SC» «T» «TSDP» «ZGR» «ZPE» «ZRG» «ZSS»

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GIURISTI CITATI*

Africano, Sesto Cecilio 251.687

62; 63; 68; 69; 82; 83; 74; 75; 102; 102.33; 111.91; 112.91; 126; 126.184; 126.186; 136; 136.236; 145.261; 147.268; 156; 160.303; 161; 164; 164.315; 165; 168.324; 173.339; 174.340; 196.428; 204.462; 205; 214.506; 221; 227; 227.576; 233; 233.608; 233.610; 236.623; 241.649; 248; 248.674; 250; 250.683; 257; 257.725; 259.734; 262; 262.749; 262.750

Alfeno Varo XII.8; XII.11; 38; 39; 161; 171; 171.331; 264.758 Atilicino XII.8; 30; 31; 154; 154.286 Callistrato X.4 Cassio Longino, Gaio XII.8; XIII.11; 70; 71; 103.39; 218.523; 233.608; 251 Celso, Publio Giuvenzio 169.326; 189.404; 190.404; 245.662; 251; 251.686; 252; 252.695; 253.695; 260.739 Cervidio Scevola, Quinto XII; XII.9; 36; 37; 54; 55; 168; 169.325; 213.500; 214; 214.508; 245.662 Gaio X.4; 97; 99; 99.18; 100; 100.19; 101.29; 115.113; 121; 133.228; 134.230; 134.231; 149; 160.303; 184.375; 191.408; 206.471; 221.542; 222; 222.547; 223.552; 242.654; 244; 244.659

Labeone, Marco Antistio XI; XI.6; XII.10; XIII.11; 4; 5; 18; 19; 30; 31; 36; 37; 50; 51; 60; 61; 62; 63; 68; 69; 103.39; 105; 105.50; 117.124; 126; 126.186; 130; 135.234; 154; 155.288; 169; 169.326; 185.380; 194.419; 195.424; 198.440; 199.445; 200.447; 204; 205.465; 206; 206.469; 206.471; 210; 210.491; 211.492; 226; 226.564; 226.570; 229; 229.586; 232; 233.608; 246; 248; 248.674; 249.678; 250; 250.681; 255; 255.710; 268.774 Marcello, Ulpio XII; XII.9; XIII.11; 52; 53; 206; 206.469; 212 Mela, Fabio 202.454

Gallo, Gaio Aquilio 200.447 Modestino, Erennio 148 Giuliano, Salvio XI; XI.6; XII; XII.10; XII.11; 14; 15; 32; 33; 34; 35; 50; 51; 56; 57; 60; 61;

Mucio Scevola, Quinto 194.420

* I nomi dei giuristi sono stati ordinati talvolta secondo il nomen, in altri casi secondo il cognomen, seguendo l'uso

più consueto.

337

G. Luchetti, M. Beggiato, S. Di Maria, F. Mattioli, E. Pezzato, I. Pontoriero Nerazio Prisco, Lucio XI.5; XII; XII.9; XII.10; 36; 37; 62; 63; 161; 167; 168; 168.324; 204.462; 230.589; 232; 233.608; 252.692

248.674; 250.683; 253; 253.697; 260.739; 268.774; 277; 277.817 Proculo XII.8; XII.10; 36; 37; 161; 166; 166.320; 167; 167.321; 252.695

Nerva, Cocceio, filius 258.731 Ofilio, Aulo XII.8; 4; 5; 16; 17; 100; 100.20; 100.21; 100.23; 101; 107; 108.71; 127 Ottaveno XII.8; 14; 15; 72; 73; 124; 258 Papiniano, Emilio 136.235; 158.296; 167.321; 167.322; 174.342; 189.404; 232; 244; 244.659 Pedio, Sesto XI; XI.7; XII.10; XIII.11; 50; 51; 62; 63; 74; 75; 77; 80; 81; 103.41; 130.216; 193.419; 194; 194.419; 195; 195.421; 195.422; 208; 208.477; 208.478; 233; 233.610; 248; 248.674; 261; 261.746; 262; 262.749; 262.750; 263; 263.753; 263.754; 269; 270; 270.783 Pegaso XII.8; XII.10; 36; 37; 161; 166; 166.320; 167; 167.321 Pomponio, Sesto XI; XI.6; XII; XII.10; XII.11; XIII; XIII.11; 6; 7; 14; 15; 36; 37; 38; 39; 44; 47; 52; 53; 64; 65; 84; 85; 103.39; 108.74; 109; 109.80; 109.81; 112.93; 113.101; 126; 126.188; 135.234; 157; 161; 165; 166; 166.318; 169.326; 174; 174.340; 174.342; 178.357; 184.377; 185.380; 188; 188.391; 188.393; 193.419; 194.419; 195; 195.422; 195.424; 196.428; 203.456; 205.465; 206; 206.469; 210; 210.490; 210.491; 211.491; 224.553; 225; 226.564; 237; 237.625; 248;

Sabino, Masurio XI; XI.7; XII.10; XIII.11; 16; 17; 18; 19; 32; 33; 36; 37; 52; 53; 60; 61; 70; 71; 127; 127.193; 130; 130.216; 155; 155.288; 168; 169.325; 209; 209.485; 218.523; 223.549; 228; 228.579; 233.608; 251; 252.692 Servio Sulpicio Rufo XII.8; 38; 39; 161; 171; 171.332; 200.447; 251.687; 252.695 Trebazio Testa XII.8; XII.10; 48; 49; 202; 202.454 Ulpiano, Domizio IX.1; X; X.2; 98.7; 99.15; 100.21; 103; 103.41; 104.46; 105; 107; 107.70; 110; 110.87; 111.91; 112.91; 115; 116; 118; 119; 119.136; 120.142; 125; 130; 133.228; 134.230; 135; 136; 138.241; 146; 149; 149.272; 158.296; 159.302; 160.303; 162; 162.311; 162.312; 163.312; 167.322; 172.335; 174.340; 174.342; 178; 179.362; 184.375; 186; 194; 194.420; 195; 195.422; 196.429; 197; 197.435; 198.437; 198.440; 206; 206.469; 207.476; 214.506; 225; 232; 232.607; 238; 238.630; 241; 242.654; 243.654; 245; 247; 247.668; 248; 248.673; 249; 251; 251.687; 252; 253; 253.695; 254; 254.706; 258.731; 261.746; 262.750; 274 Vindio Vero, Marco XII; XII.9; 14; 15; 108.74; 125; 126; 126.188 Viviano XII.8; 267; 267.770

338

FONTI ANTICHE

TRADIZIONE MANOSCRITTA*

Ammianus Marcellinus Res gestae 16.5.3

157.294

Basilicorum libri (Scheltema, van der Wal) 7.2.19 7.2.32.7 7.2.34 7.14.8 10.35.1 21.2.1 21.3

251.684 257.727 265.760 269.779 231.592; 234.614 112.91 111.88

Basilicorum Scholia (Scheltema, Holwerda, van der Wal) 1 a Bas. 7.2.19 251.684 3 a Bas. 8.2.42 139.242 4 a Bas. 14.1.57 235.616 1 a Bas. 46.2.7 222.547 1 a Bas. 60.32.9 137.239 Cicero De domo sua 78 82 119

219.529 219.529 100.19

* La numerazione dei frammenti paolini da [F. 1] a [F. 51] si riferisce alla ricostruzione palingenetica offerta nel volume SIR 2.

339

G. Luchetti, M. Beggiato, S. Di Maria, F. Mattioli, E. Pezzato, I. Pontoriero Pro Caecina 100

219.529

Codex Theodosianus 1.29.2 2.15.1 2.16.2 4.10.1

197.435 192.415 242.652 187.390

Collatio legum Mosaicarum et Romanarum 5.2

114

Consultatio veteris cuiusdam iurisconsulti 6.13

176.349

Corpus iuris civilis Institutiones 1.16.2 1.16.4 1.23.6 1.24.1 3.26.10 4.6.5 4.6.33 4.11.2 4.16.2 4.18.2

219.529; 219.532 219.528 151.276 151.277 150.273 228; 235.616 236.624 269.778 115.113 275.803; 275.806

Digesta 1.3.16 1.3.29 1.7.3 1.14.2 2.1.6 2.1.9 2.4 2.4.1 2.4.4 2.4.4.1 2.4.4.2-3

244.661; 245.661 204.460 220.534 220.534 XI.6 XI.6; XII.8; XII.11 97; 98; 99 2; 3; 89; 98; 99 102 103; 103.41; 104 103.39; 104.44

[F. 27] [F. 29] [F. 52]

340

Fonti antiche 2.4.4.3 2.4.5 2.4.5.11 2.4.6 2.4.7 2.4.8pr. 2.4.8.1 2.4.9 2.4.10.4 2.4.10.12 2.4.11 2.4.12 2.4.18 2.4.19 2.4.20 2.4.21 2.4.24 2.5 2.5.2 2.5.2pr. 2.5.3 2.6 2.6.1 2.6.3 2.7 2.7.1pr. 2.7.1.1 2.7.1.2 2.7.2 2.7.3.2 2.7.4 2.7.4pr. 2.7.4.1 2.7.4.2 2.7.4.4 2.8 2.8.2 2.8.2.2 2.8.2.4 2.8.4 2.8.5 2.8.6 2.8.7.1 2.8.8

[F. 54]

[F. 55]

[F. 56]

[F. 57]

[F. 6] [F. 7a]

[F. 4]

[F. 5] [F. 59]

[F. 61] [F. 62]

[F. 60] [F. 171] [F. 199] 341

103.40 4; 5; 89; 102; 104 218.526 103 4; 5; 89; 104 104.45 104.46 4; 5; 89; 104 159.300 103.41 XI.6; 4; 5; 89; 104; 105.53; 155.288 104.48 99; 99.18; 100; 101.29; 101.30; 101.31 XI.6; 101; 101.29; 101.31; 102.32 99.18; 101.29; 101.30 101; 101.29; 101.30; 102 104.48 98 108.74; 108.75 108; 108.74 119.137 98; 99; 105 105; 106; 106.57 X.4; 6; 7; 89; 105.56; 106 98; 108.76 107.70 109.78 100.21; 107; 108.71 6; 7; 89; 107; 108; 109 107.68 XI.6; 6; 7; 89; 107.68; 108; 108.76 109.78; 109.80 110 108; 108.76; 110; 110.85 108 X.3; 106; 121 106.59 104; 105; 106.60; 106.62 106 X.3; 6; 7; 89; 101; 106 106.58 X.3; 62; 63; 94; 229.581; 231 271.788 X.3; 80; 81; 95; 268

G. Luchetti, M. Beggiato, S. Di Maria, F. Mattioli, E. Pezzato, I. Pontoriero 2.8.8pr. 2.8.8.1 2.8.8.2 2.8.8.3 2.8.8.4 2.8.8.5 2.8.8.6 2.8.16 2.9 2.9.1pr. 2.9.2 2.9.2pr. 2.9.2.1 2.10 2.10.2 2.10.3pr. 2.11.5 2.11.14 2.13.5 2.13.9 2.14 2.14.2 2.14.4.2 2.14.11 2.14.15 2.14.17.4 2.14.17.5 2.14.19 2.14.21.2 2.14.25.1 2.14.25.2 2.14.27 2.14.27pr. 2.14.27.2 3.1 3.1.1.2 3.1.1.5 3.1.1.6 3.1.1.8 3.1.1.11 3.1.3pr. 3.1.3.3 3.1.4 3.1.5

[F. 74]

[F. 77]

[F. 79]

[F. 36] [F. 37] [F. 42] [F. 43] [F. 46] [F. 48] [F. 50] [F. 50] [F. 50] [F. 50] [F. 50] [F. 50] [F. 51]

[F. 70]

342

XI.7; XII.10; 269 270 270.785; 271 270.785; 271 271 271; 272.790 272; 272.790 X.3; 12; 13; 90; 123 125 125.176 14; 15; 90; 123.161; 125 221.539 XI.6; XII.9 128 XI.7; XII.8; 16; 17; 90; 127; 127.192 128; 128.196 119.137 119.137 X.4 XI.6 X.3 XI.6 XI.6 X.4 XI.6 XI.6 XI.6; XI.7 X.4 XI.6; XII.8 XI.6 XI.6 X.3 XI.6; XII.8; XII.9 XII.9; 189 11 110.86 113; 117.126; 144.257; 152.278 112; 112.93; 113; 113.101; 115; 143.255 110.87 97; 118; 119; 150.275 119.132; 150.275 119 X.4; 10; 11; 89; 118 151.275

Fonti antiche 3.2 3.2.1 3.2.4.5 3.2.5 3.2.7 3.2.8 3.2.9 3.2.9.1 3.2.10 3.2.11.4 3.2.12 3.2.13pr. 3.2.14 3.2.15 3.2.16 3.2.17 3.2.18 3.2.19 3.3

[F. 65] [F. 66] [F. 67] [F. 97] [F. 68]

[F. 64] [F. 98]

3.3.1 3.3.1.3 3.3.1-4 3.3.2 3.3.2.1 3.3.3

[F. 89]

3.3.4

[F. 90]

3.3.5 3.3.5-7 3.3.6

[F. 73]

3.3.7 3.3.8.1 3.3.8.3 3.3.9 3.3.10 3.3.11

[F. 99]

3.3.12 3.3.13 343

111; 111.88; 143-144; 144.256 111; 111.91; 112; 112.91; 115; 115.113; 117; 117.121; 117.123; 117.124; 117.125; 118; 144.257 116; 116.118 X.4; 8; 9; 89; 116; 144.256 8; 9; 89; 116; 144.256 117.124 8; 9; 89; 116; 117; 144.256; 144.257 145.258 XIII; 24; 25; 91; 143 117.124 10; 11; 89; 116; 118; 144.256; 144.257 117.124 8; 9; 89; 115; 115.112; 144.256 145 X.4; 24; 25; 91; 145 145.259; 145.260 145.260 145.259 122; 132; 132.222; 133; 134; 138.241; 145; 149.272 133.227; 135; 136.236; 138.241 135; 159.300 135.232 20; 21; 91; 132.225; 134; 135 135.234 133.227; 135; 136; 136.235; 136.236; 138.241; 159.300 X.4; 20; 21; 91; 132.225; 133.226; 134; 135; 136; 136.235 122 135.232 X.4; 12; 13; 90; 122; 132.225; 133.226 122 145.261 145; 145.261; 146; 154.287 145.261 145.261; 146 X.4; 24; 25; 91; 132.225; 133.226; 145; 146 146.262 145.261

G. Luchetti, M. Beggiato, S. Di Maria, F. Mattioli, E. Pezzato, I. Pontoriero 3.3.14 3.3.16 3.3.17.2 3.3.18 3.3.19 3.3.20

[F. 100] [F. 102]

[F. 103]

3.3.21 3.3.22

[F. 104]

3.3.23 3.3.24

[F. 105]

3.3.25 3.3.26

[F. 106]

3.3.27 3.3.29 3.3.31 3.3.31pr. 3.3.31.1-2 3.3.31.1 3.3.31.2 3.3.32

[F. 91]

3.3.33 3.3.33.1 3.3.33.3 3.3.35 3.3.35pr. 3.3.35.2 3.3.35.3 3.3.36 3.3.37 3.3.39 3.3.40 3.3.40.3 3.3.41 3.3.41-43 3.3.42

[F. 101]

[F. 109] [F. 94]

3.3.42pr. 3.3.42.1 3.3.42.2 3.3.42.3 344

24; 25; 91; 132.225; 146 26; 27; 91; 132.225; 146.265; 147 148; 148.269 148; 148.269 148; 148.269 X.4; 26; 27; 91; 132.225; 133.226; 136.237; 146.265; 148 148; 148.269 X.4; 26; 27; 91; 132.225; 133.226; 136.237; 146.265; 148 148; 148.269 X.4; 26; 27; 91; 132.225; 133.226; 136.237; 146.265; 148 148; 148.270 X.4; 26; 27; 91; 132.225; 133.226; 136.237; 146.265; 148 136.237 136.237; 146.265 138.241 136.237; 146.265 133.227 136.236; 137.238 136.236; 137.238 20; 21; 91; 132.225; 133; 136; 136.237; 137.238; 141.250 138.241 138.241 153.282; 153.283; 154 133.227; 138.241; 146 151.275 147.266 147.266 X.4; 24; 25; 91; 132.225; 133; 146 138.241 138.241 138.241 154.285 28; 29; 91; 132.225; 138.241; 151 133.227 22; 23; 91; 132.225; 133; 133.227; 138 137.239; 138; 139.242 139; 139.245 140 XIII; 141

Fonti antiche 3.3.42.4 3.3.42.5 3.3.42.6 3.3.42.7 3.3.43 3.3.43pr. 3.3.43pr.-1 3.3.43.1 3.3.43.2 3.3.43.2-6 3.3.43.3 3.3.43.4 3.3.43.5 3.3.43.6 3.3.44 3.3.45 3.3.45pr. 3.3.45.1 3.3.45.2 3.3.49 3.3.52 3.3.54 3.3.58 3.3.77 3.4 3.4.1.1 3.4.2 3.4.3 3.4.4 3.4.5 3.4.6 3.4.6pr.-1 3.4.6pr.-2 3.4.6pr. 3.4.6.1 3.4.6.2 3.4.6.3

[F. 110]

[F. 111]

[F. 112]

[F. 114]

[F. 115]

[F. 116]

3.4.7pr. 3.5.1 3.5.3pr. 3.5.3.1-7 345

141; 141.249 141; 141.249 141; 141.249 141; 141.250 XI; 91; 132.225; 138.241; 149; 149.272; 153; 159.302 152; 153 30; 31; 91; 152 152; 153 138.241; 153; 153.283 30; 31; 92; 149.272; 153 153; 153.284 154 XII.8; 154 XI.6; XII.10; 154; 155.289; 155.290 155; 155.288 X.4; XII.10; 32; 33; 91; 92; 132.225; 138.241; 149.272; 153 XI.7; 154; 155; 155.288 155 XI.6; 156 132.225; 133.226 132.225; 133.226 132.225 132.225 132.225; 133.226 149.272 159.300 134.229 157 X.4; 32; 33; 92; 156.293; 157 157; 158.296 XI; 149; 156.293; 158.296 158.297 X.4; 32; 33; 92; 156.293; 157 157; 158.297 158; 158.296; 158.297 158; 158.296; 159 34; 35; 92; 142.251; 158.296; 159; 159.302 157.293 161.306 161.307; 175.343 161.307

G. Luchetti, M. Beggiato, S. Di Maria, F. Mattioli, E. Pezzato, I. Pontoriero 3.5.3.6 3.5.3.10 3.5.3.11 3.5.5.2 3.5.5(6).14(12) 3.5.6(7)

[F. 117]

3.5.7(8) 3.5.7(8).3 3.5.12(13)

[F. 118]

3.5.14(15) 3.5.15(16) 3.5.16(17) 3.5.17(18)

[F. 119]

[F. 120]

3.5.18(19) 3.5.18(19)pr. 3.5.18(19).1 3.5.18(19).1-5 3.5.18(19).2 3.5.18(19).3 3.5.18(19).4 3.5.18(19).5 3.5.19(20) 3.5.20(21) 3.5.20(21)pr. 3.5.20(21).1 3.5.20(21).2 3.5.20(21).3 3.5.27(28) 3.5.30(31).3 3.5.33(34) 3.5.34(35)pr. 3.5.35(36) 3.5.37(38) 3.6 3.6.1 3.6.1pr. 3.6.1.1 3.6.1.2 3.6.1.4

[F. 121]

[F. 122]

346

165.343 161.307 173.337 172.334 162; 162.310; 162.311; 163.313; 172.335 X.4; 34; 35; 92; 162; 163.313; 173.338 162.311 173.338; 174.340 XI.6; 34; 35; 92; 163; 173.338; 174.342 XI.6; XII.11; 36; 37; 92; 165; 166.319 166.319 167.321 XII.8; XII.9; XII.10; 36; 37; 92; 162.311; 166; 167; 167.322; 168; 168.324 168; 168.324 XII.10; 166.320; 167; 167.322; 168; 168.324 XI.7; XII.9; 168; 168.324 XI.5; 36; 37; 92; 168; 168.324 XI.6; 168.324; 169 169 163.312; 170 168; 170; 171.330 170; 171.330 38; 39; 92; 170; 171.330 XII.8; XII.11; 168; 168.324; 171 171 172 172; 174.342 173.337 170.328 175.344 166.320 169.326 162.309; 166.320 176.347; 176.348; 179.359 176.348 177; 177.355; 198.438 178.357 178.357 179; 179.360

Fonti antiche 3.6.2 3.6.3 3.6.3pr. 3.6.3.1 3.6.3.2 3.6.3.3 3.6.4 3.6.5 3.6.5pr. 3.6.5.1 3.6.6 3.6.7 3.6.7pr. 3.6.7pr.-1 3.6.7.1 3.6.7.2 3.6.8 4.1.1 4.1.2 4.1.5 4.1.6 4.1.8 4.2 4.2.1 4.2.3 4.2.4 4.2.7.1 4.2.8 4.2.8pr. 4.2.8.1 4.2.8.2 4.2.8.3 4.2.9pr. 4.2.9pr.-1 4.2.9.1 4.2.9.2 4.2.14.1 4.2.14.9-10 4.2.14.9-11 4.2.14.15 4.2.15 4.2.16.1 4.2.16.2 4.2.21 4.2.21pr.

[F. 126a]

[F. 128] [F. 129]

[F. 87]

[F. 131] [F. 132]

[F. 133]

[F. 134]

347

42; 43; 92; 176.346; 178; 179 176.348 179; 179.360; 179.361 179.360 179.362 178.358 176.348; 180.363 176.348 180.363 178.358 176.348 92; 176.346 180 42; 43; 92; 179 180; 180.366 42; 43; 92; 181 176.348; 179.362 217.521 217.521 XI; 18; 19; 90; 130; 131 241; 241.649 227.573 183; 184.377; 186 183; 183.373; 187 194 44; 45; 93; 183; 185; 185.378; 194 184.377; 185.378 44; 45; 93; 183; 184 185 184; 185 184.376 186 185.380; 188.391 239.635 185.378 210.489 188.393 186.385 186.384 186; 186.384; 186.387 X.4; 44; 45; 93; 183; 186; 187 191.409 186.384; 186.385; 191.409; 208.481 44; 45; 93; 183; 187 184; 187; 187.390

G. Luchetti, M. Beggiato, S. Di Maria, F. Mattioli, E. Pezzato, I. Pontoriero 4.2.21.1 4.2.21.2 4.2.21.3 4.2.21.4 4.2.21.5 4.2.21.6 4.3 4.3.1.1 4.3.1.2 4.3.1.4 4.3.1.4-8 4.3.1.6 4.3.1.7 4.3.1.8 4.3.2

[F. 137]

4.3.3 4.3.4

[F. 138]

4.3.5 4.3.6 4.3.7pr. 4.3.7.3 4.3.7.5 4.3.7.9 4.3.9.3 4.3.9.5 4.3.10 4.3.11pr. 4.3.11.1 4.3.12 4.3.13.1 4.3.14 4.3.15pr. 4.3.15.3 4.3.16 4.3.17 4.3.17pr. 4.3.17.1 4.3.18 4.3.18pr. 4.3.18.1 4.3.18.2 4.3.18.3 4.3.18.4

[F. 139]

[F. 141] [F. 142]

[F. 143]

[F. 144]

348

187; 188 XI.6; 187; 187.389; 188; 188.394 187; 188 187; 188 187; 189 187; 190 193.416; 206 192.415 200.447 194 193; 193.419 195 195 194; 195 X.4; 46; 47; 93; 192; 193; 194; 195; 196; 196.427; 197 195; 195.426; 196.427 X.4; 46; 47; 93; 192; 193; 196; 196.427; 197 195.426 196.429 196; 196.428 205.465 202.453 204.465 205.465 197; 197.432; 197.433; 200.446 X.4; 46; 47; 93; 193; 197 197.434 198; 198.440; 199; 199.441 X.4; 48; 49; 93; 193; 199 199.445 48; 49; 93; 193; 199; 199.445 199.445 193.416; 200.446 48; 49; 93; 193; 200; 200.446 193.416 200.448 193.416; 208.481 48; 49; 93; 193; 193.416; 200 200; 201.450 201; 201.451 202 XII.8; XII.10; 202; 202.454 XII.8; 203; 204.459

Fonti antiche 4.3.18.5 4.3.19 4.3.20 4.3.20pr. 4.3.20.1 4.3.21 4.3.22 4.3.23 4.3.24 4.3.25 4.3.26 4.3.27

[F. 145]

[F. 146]

[F. 147] [F. 149]

4.3.28 4.3.29

[F. 150]

4.3.30 4.3.35 4.3.39 4.4 4.4.1.1 4.4.3.4 4.4.3.10 4.4.7 4.4.7.8 4.4.9.6 4.4.10

[F. 151]

4.4.11.1 4.4.11.4-5 4.4.12 4.4.13.1 4.4.14

[F. 152]

4.4.18 4.4.18.1 4.4.18.2 4.4.18.4 4.4.18.5 4.4.19 4.4.21 4.4.23

[F. 153]

4.4.24

[F. 154]

349

204 193.416; 204.462 XI.6; 50; 51; 93; 193; 204 200.447; 204 205; 205.467 193.416; 206; 206.469 X.4; 50; 51; 93; 193; 205 206; 206.471 193.416 50; 51; 93; 193; 205; 207; 207.475 208 X.4; XI.5; 50; 51; 93; 193; 207; 208; 208.477 209.485 XI.5; XI.7; 52; 53; 93; 193; 207; 208.477; 209 193.416 204.462 207.476 209 209; 209.486; 210; 214.507; 217.418 211.495 230; 230.588 190.407 213; 213.505 210; 210.488 X.4; XIII; 52; 53; 93; 209; 209.487; 210.489 210.488 214.506 142.253 210; 210.490; 210.491; 211 XI.6; 52; 53; 93; 209.487; 210; 210.490 193 193 193 193 193; 241; 241.650 241; 241.651; 242.652 176.349 XII.9; 52; 53; 93; 209.487; 211 212.499 52; 53; 93; 209.487; 212; 212.499; 216.518

G. Luchetti, M. Beggiato, S. Di Maria, F. Mattioli, E. Pezzato, I. Pontoriero 4.4.24pr. 4.4.24.1 4.4.24.1-5 4.4.24.2 4.4.24.3 4.4.24.5 4.4.26 4.4.26pr. 4.4.27.1 4.4.38.1 4.4.40.1 4.4.41 4.4.44 4.4.45pr. 4.4.48.1 4.5 4.5.2pr. 4.5.2.1 4.5.2.3 4.5.3 4.5.4 4.5.5 4.5.6 4.5.7 4.5.7.2 4.5.8 4.5.9 4.6 4.6.1.1 4.6.5.1 4.6.6 4.6.7 4.6.13 4.6.15.3 4.6.16 4.6.18 4.6.21.3 4.6.22 4.6.22.1 4.6.22.2 4.6.23.1 4.6.23.2 4.6.23.3 4.6.23.4 4.6.24

[F. 155]

[F. 156] [F. 157] [F. 158]

[F. 160]

[F. 167] [F. 168] [F. 169] [F. 170] [F. 172]

[F. 174] 350

52; 53; 93; 212.499 213 52; 53; 93 XII.9; 213.500; 214.508 215 213.500; 216; 216.518 54; 55; 93; 209.487; 212.499; 217 217 216; 216.515; 216.517; 217 211.494 216.517 215.513 214.506 210; 211.492 210.489 218; 219.528 217.522 217; 217.521 221.539 54; 55; 93; 218; 218.524 219.528 56; 57; 93; 218.524; 219 220.534 56; 57; 93; 218; 218.524; 220 XI.6; 217.522 222; 222.546 X.4; 58; 59; 93; 218.524; 222 234; 234.614 228; 229; 230.591; 231.592 229; 229.583 X.4; 60; 61; 94; 229; 229.581 229.584 XI.6; XII.10; 62; 63; 94; 229; 229.581 230; 230.589 62; 63; 94; 229.581; 230 62; 63; 94; 229.581; 231 231.597 XI.6; 62; 63; 94; 229.581; 231 232 232 232; 232.607 232; 232.607 232; 232.607; 233.608 233.611 64; 65; 94; 229.581; 233; 234

Fonti antiche 4.6.25 4.6.26.9 4.6.27 4.6.30 4.6.30pr. 4.7 4.7.1 4.7.1pr. 4.7.2 4.7.3 4.7.4.1 4.7.4.5-6 4.7.4.6 4.7.5 4.7.6 4.7.7 4.7.8 4.7.8pr. 4.7.8.1 4.7.8.1-4 4.7.8.1-5 4.7.8.2 4.7.8.3 4.7.8.4 4.7.8.5 4.7.9 4.7.10

[F. 175] [F. 176]

[F. 135]

[F. 178]

[F. 179]

4.7.10pr. 4.7.10.1 4.8 4.8.2 4.8.3.2 4.8.3.3 4.8.4 4.8.7 4.8.7.1 4.8.8 4.8.9.5 4.8.10

[F. 183]

4.8.11pr. 4.8.12

[F. 192]

[F. 181]

[F. 182]

351

234.612 234.613; 234.614 64; 65; 94; 229.581; 234 64; 65; 94; 229.581; 235 243 190; 239.636 237.628 239.638 238.630 237.628 237.628 190; 190.407 190.406; 190.407; 191.407; 191.408; 239 X.4; 46; 47; 93; 183; 190; 191.409; 191.410 190.407; 191.408; 238.630 190.406; 191.408 66; 67; 94; 237; 238; 239; 240 190.406 238; 238.632 238 238 240 239.635; 240 240 240 238; 240.643 66; 67; 94; 237; 238; 238.630 239; 240 239.635; 240 240 246 258.729 249.678 247 68; 69; 95; 246; 247 248 248 68; 69; 95; 246; 248 249; 254 X.4; 68; 69; 95; 246; 249; 254; 256.720 249; 254 X.4; 72; 73; 95; 246; 247; 255; 256

G. Luchetti, M. Beggiato, S. Di Maria, F. Mattioli, E. Pezzato, I. Pontoriero 4.8.15 4.8.16 4.8.16.1 4.8.17.3 4.8.17.4 4.8.17.7 4.8.19 4.8.19pr. 4.8.19.1 4.8.19.2 4.8.21.9 4.8.21.12 4.8.22 4.8.23pr. 4.8.23.1 4.8.24 4.8.25.2 4.8.26 4.8.27.6 4.8.27.7 4.8.28 4.8.29 4.8.30 4.8.32 4.8.32pr.-3 4.8.32.1 4.8.32.2 4.8.32.3 4.8.32.3-21 4.8.32.4 4.8.32.5 4.8.32.6 4.8.32.7 4.8.32.8 4.8.32.9 4.8.32.10 4.8.32.11 4.8.32.12 4.8.32.13 4.8.32.13.2 4.8.32.14 4.8.32.15 4.8.32.16

[F. 184]

[F. 185]

[F. 186]

[F. 188] [F. 189]

[F. 190] [F. 191] [F. 192]

352

155.288; 249; 250.679 X.4; 68; 69; 95; 246; 249; 250.679 250 250.683 260.739 260.739 68; 69; 95; 246; 247 XI.6; XII.11; 250 250; 262 XI.7; XII.8; 250; 251.685 142.253 251; 251.686 X.4; 70; 71; 95; 246; 251; 252 252.689 252; 252.695 X.4; 70; 71; 95; 252 253; 253.697; 253.699 X.4; 70; 71; 95; 246; 247; 252; 253; 253.699 254.701 254; 254.700 70; 71; 95; 246; 254; 254.703 253.699 70; 71; 95; 246; 247; 249.676 ; 254; 256.720; 265.761 X.3 72; 73; 95; 246; 247; 255 255 256; 257.724 256 72; 73; 95; 246; 247; 255 257 257 XI.6; 257; 258 257; 258 XII.8; 258; 258.732 259 259 259; 260.737; 264.757 260 260 261.746; 262.750 XIII; XIII.12; 261; 261.740 261; 263.755 XI.6; XI.7; 233.610; 262

Fonti antiche 4.8.32.17 4.8.32.18 4.8.32.19 4.8.32.20 4.8.32.21 4.8.34 4.8.34pr. 4.8.34.1 4.8.40 4.8.41 4.8.50 4.9 4.9.1.6 4.9.3.1 4.9.3.5 4.9.4 4.9.4pr. 4.9.4.1 4.9.4.2 4.18.2.1 5.1.2.4 5.1.5 5.1.10 5.1.46 5.2.19 5.3 5.3.5.1 5.3.5.2 5.3.7pr. 5.3.8 5.4.10 6.1 6.1.6 6.1.7 6.1.8 6.1.21 6.1.27pr. 7.1.33.1 7.1.63 7.1.72 7.6.6 9.2.12 9.2.24 9.4.12

[F. 193]

[F. 196]

[F. 201]

[F. 76] [F. 148] [F. 177]

[F. 78] 353

263; 263.755 263; 263.753 263; 263.753 XI.7; XII.10; 263 263; 264.758 76; 77; 95; 264 264 255.708 252.695 248.672 264.758 247 267.770 246 266.768 78; 79; 95; 266; 267.770 266; 266.768 266 XII.8; 267 246 259.734 108.74 176.349 250.679 277 276 272.791 272.791; 273.793 272.791; 276 84; 85; 95; 276; 278.820 174.341 207; 236 XII.8; 14; 15; 90; 124 XI.5; XI.7; 50; 51; 93; 193; 207; 207.475; 208; 208.477 XI.6; XII.10; XII.11; 64; 65; 94; 236 XIII.11 208.478 124.170 244; 244.661 244.661 208.478 202.453 126.186 16; 17; 90; 127

G. Luchetti, M. Beggiato, S. Di Maria, F. Mattioli, E. Pezzato, I. Pontoriero 9.4.21.1 9.4.27.1 10.2.1.1 10.2.48 11.3.14.1 11.3.16 12.1.6 12.2 12.2.2 12.2.9 12.2.15 12.2.16 12.2.34.4 12.3.4.2 12.3.7 12.5.7 13.1.19 13.5.12 13.5.27 13.6.13.2 13.6.17.4 13.6.19 13.7.16.1 14.3.12 15.1.3.8 15.1.42 16.1 16.1.7 17.1 17.1.8pr. 17.1.8.1 17.1.12.11 17.1.40 17.1.53 17.2.38pr. 17.2.45 17.2.65.5 18.5.6 18.6.8pr. 19.1.32 19.2 19.2.41 19.2.42 20.1.3.1

[F. 75]

[F. 198]

[F. 123]

[F. 25]

[F. 197]

354

127; 127.189 244.659 273.793 141.250 239.635 150.273 XIII.11 123 206.469 142.253 12; 13; 90; 123 176.350; 177.354; 182.370; 271.789 271.789 201.450 134.229 184.377 168.324 78; 79; 95; 267 268; 268.774 168.326 XII.8 98.5 XIII.11 150.273 258.731 218.523 256.712 173.337 173 205.465 205.465 216.515 XI.6; 38; 39; 92; 161.308; 173; 173.338 173.337 162.309 267.772 XIII.11 XI.7 XIII.11 202.454; 203.456 247 98.5 78; 79; 95; 267 244.659

Fonti antiche 22.1.37 22.2.8 23.1 23.1.12 23.1.13 24.3.54 26.1.1.3 26.1.18 26.2.19.1 26.4.5.2 26.4.5.5 26.6.2.4-5 26.7.2 26.7.3.1 26.7.4 26.7.23 26.7.24 26.7.24pr. 26.7.24.1 26.7.25 26.7.32.4 26.7.37pr. 26.7.37.1 26.7.37.2 26.7.46.5 26.8.17 26.9.6 27.3.13 27.6 27.6.1pr. 27.6.1.2 27.6.1.3 27.6.1.5 27.6.2 27.6.3 27.6.4 27.6.5 27.6.6

[F. 69]

[F. 108]

[F. 83]

[F. 163]

[F. 164] [F. 165]

27.6.7pr. 27.6.7.2 27.6.7.3 27.6.7.4 355

162.309; 170.328 252.695 111; 118 118.130 10; 11; 89; 111; 111.90; 112; 118; 118.130 244.661 XIII.11 220.538 151.277 135.234; 151. 277 220.537 153.284 151.275 151.277 151.275 160.303 28; 29; 91; 150; 151.276 150 151 236.623 216 167.321 167.321 167.321 207.475 XI; 16; 17; 90; 128; 129; 129.204 151.276 166.320 224.555 225; 225.561; 226 224.556; 225.562; 227.573 226.564 226.564 XI.6; 60; 61; 94; 224; 225.562; 226.568; 227.573 227.572 60; 61; 94; 226.568; 227 227; 227.574 XI.6; 60; 61; 94; 226.568; 227; 227.573 225; 226.566; 228 228.557 225 228.578

G. Luchetti, M. Beggiato, S. Di Maria, F. Mattioli, E. Pezzato, I. Pontoriero 27.6.8 27.6.11 28.6.17 29.2.6.7 29.2.85 29.7.2.3 34.2.1 35.2 35.2.41 36.1.37(36) 36.1.61(59)pr. 37.1.2 37.1.6.2 37.6.2.5 37.8.1.6 37.10.6.3 37.15 37.15.5 37.15.5pr. 37.15.6 37.15.7 37.15.7pr. 37.15.7.2 37.15.7.3 37.15.7.4 37.15.8 38.1.18 38.10.4.11 38.10.10.4 39.1.5.20 39.4.5.1 40.4.24 40.5.35 40.5.41.15 40.5.50 40.7.4pr. 40.7.21 41.1 41.1.20pr. 41.1.42 41.2.1.5 41.2.21pr. 41.3.4.6 41.3.8

[F. 166]

[F. 124] [F. 194]

[F. 140]

[F. 130]

[F. 161]

[F. 173] 356

X.4; XI.7; 60; 61; 94; 226.568; 228 225.559 123.161 189.404 189.404 135.234 150.273 174 40; 41; 92; 161.308; 174 76; 77; 95; 246; 252.691; 265 143.253 191.410 XIII.11 XIII.11 239.635 239.635 198 198; 198.437; 198.438 176.349 X.4; 48; 49; 93; 193; 198; 199.441 181; 198 198.438 199.440 176.350; 177.354; 182; 182.369; 271.789 182; 182.369 42; 43; 92; 176.346; 181 XIII.11 219.529 220.538 156.292 181 150.273 150.273 150.273 175.345 253.695 150.273 223 242.654 58; 59; 93; 218, 218.524; 223 233.608 244.659 131.218 XII.10; 62; 63; 94; 229.581; 232

Fonti antiche 41.3.8pr. 41.3.8.1 41.3.11 41.3.47 41.4.2.11 42.1.4.2 42.1.36 42.4.3.3 42.5.6.2 43.3.2.1 43.8.2.20 43.8.2.35 43.8.2.45 43.16.6 43.17.3.11 43.19.3.2 44.1.13 44.1.16 44.1.18 44.1.22pr. 44.2.2 44.2.7pr. 44.2.14.1 44.4.4.3 44.4.4.16 44.7.5pr. 44.7.15 44.7.23 44.7.35 44.7.35pr. 44.7.40 45.1.26 45.1.27pr. 45.1.56.6 45.1.81pr. 45.1.126.3 45.1.134.3 46.1.48pr.-1 46.2.17 46.3 46.3.38pr. 46.3.51 46.3.62 46.3.86 46.7.3.3

[F. 2] [F. 162]

[F. 107] [F. 95]

357

XI.6; XII.9; 233.608 XI.7 233.608 233.608 233.608 160.304 XIII.11 239.635 XII.9 238 138.242 138.242 138.242 188.393; 188.394 188.394 243.657 273.793 273.794 273.794 143.253 236.623 124.170 124.170 255; 255.710 199.440 162.309 236.623 251.687; 252.695 XII.8 235.616 58; 59; 93; 218; 218.524; 223 195.423 195.423 244.661 119.137 119.137 255; 255.708 270.785 134.229 150 219.529 28; 29; 91; 150 150.273 22; 23; 91; 142; 142.252; 143.254 151.275

G. Luchetti, M. Beggiato, S. Di Maria, F. Mattioli, E. Pezzato, I. Pontoriero 46.7.3.5 46.7.5.7 46.7.6 46.7.7 46.7.12 46.7.13pr. 46.7.17 46.7.18 46.8.6 47.1.1.2 47.2.18 47.2.41.2 47.2.52.22 47.5.1.4 47.9.3.2 47.10.9.4 47.10.15.44 47.10.23 47.10.25 47.23 47.23.1 47.23.2 47.23.5 48.1 48.1.2 48.5.6pr. 48.6 48.6.9 49.14.3.9 49.14.40pr. 50.4.18.13 50.7.18(17) 50.8.9(7) 50.9.3 50.13.5.3 50.16 50.16.1-3 50.16.4 50.16.5 50.16.9 50.16.12pr. 50.16.14 50.16.14pr.

[F. 53]

[F. 93] [F. 3] [F. 92] [F. 200]

[F. 84]

[F. 9]

[F. 11] [F. 22]

[F. 85] 358

150.275 141.250 122.151 147.268 155.290 146.263 155.290 155.290 160.303 221.539 221.539 221.539 202.454 266.768 239.635 114.104 114.104; 150.273 XII.8; 4; 5; 89; 99; 100; 100.21; 107; 107.65 114.104 138; 138.240 22; 23; 91; 137 156.291 20; 21; 91; 137 274 82; 83; 95; 274; 275.803; 275.806; 219; 219.530 113.103 129 XI; 18; 19; 90; 129 210.489 204.460 158.298 219.529 XI.6 157.295 219.529 120; 191.410 130.216 XII.8 XI.6 98.5 137.239 XI; 90 XI.6; XI.7; 18; 19; 90; 130; 131

Fonti antiche 50.16.14pr.-1 50.16.14.1 50.16.18 50.16.21 50.16.22 50.16.138 50.16.166 50.16.203 50.16.209 50.16.221 50.16.246pr. 50.17

[F. 86] [F. 113] [F. 159]

50.17.1 50.17.9 50.17.19 50.17.50 50.17.54 50.17.59 50.17.62 50.17.102.2-4 50.17.103 50.17.107 50.17.108 50.17.109 50.17.110 50.17.110pr. 50.17.110pr.-1 50.17.110.1 50.17.110.2 50.17.110.2-4 50.17.110.3 50.17.110.3-4 50.17.110.4 50.17.112 50.17.114 50.17.115 50.17.115pr. 50.17.115.1 50.17.116 50.17.116pr. 50.17.116.1 50.17.116.2

[F. 7b] [F. 58] [F. 63] [F. 71] [F. 72] [F. 80] [F. 81] [F. 82] [F. 96] [F. 125] [F. 126b] [F. 127]

359

130 18; 19; 90; 130; 131 XI; 32; 33; 92; 156 XIII; 56; 57; 93; 218; 218.524; 221 239.637 191.410 150.273 150.273 135.234 226 135.234 111; 120; 128; 142; 175; 192.413; 241; 242; 244; 252 252.692; 277 175.345 243.657 114.109 242; 242.654; 243.654; 243.655; 245.662 243; 243.655 243.657 XI 101.29 221.541 4; 5; 89; 105 8; 9; 89; 111; 112; 113; 114; 115; 144.256 121 12; 13; 90; 120 90 12; 13; 90; 121; 122 16; 17; 90; 127; 128 90 16; 17; 90; 128 90 16; 17; 90; 128 24; 25; 91; 142; 143.253 40; 41; 92; 175; 175.344; 175.345 92; 176.346 42; 43; 92; 178; 179 42; 43; 92; 178; 179 192.411; 192.413 192 192; 192.413 192; 192.412; 192.413

G. Luchetti, M. Beggiato, S. Di Maria, F. Mattioli, E. Pezzato, I. Pontoriero 50.17.117 50.17.118 50.17.119 50.17.120 50.17.121 50.17.124 50.17.124.1 50.17.128 50.17.131 50.17.143 50.17.156.2 50.17.160.2 50.17.175 50.17.175.1 50.17.177pr. Codex Iustinianus 1.55.1 2.4.3 2.11(12) 2.12(13).4 2.12(13).5 2.18(19).2 2.18(19).21 2.18(19).24 2.18(19).24pr.-1 2.19(20).4 2.20(21).2 2.20(21).8 2.24(25).1 2.24(25).2 2.27 2.30(31).1 2.37(38).1 2.38(39).1 2.43(44).1 2.52(53).5 2.55(56) 2.55(56).3 2.55(56).5 2.55(56).5.3(1) 2.56(57) 3.1.2 3.1.13

[F. 136]

[F. 180] [F. 187] [F. 202]

[F. 195]

360

46; 47; 93; 183; 191; 191.409; 191.410; 192; 192.412; 243.655 232; 232.606; 232.607 238.630 66; 67; 94; 242; 243; 243.655 XI.5; 70; 71; 95; 246; 252 84; 85; 95; 276; 277; 278.820 XI.6; XII.11; 135.234; 277 243.657 208.478 243.657 243.657 243.657; 245.662 243.655 244.660 244.660 197.435 162.309 111.88 144.258; 152.278 154.185 172.334 167.321 174.340 173.339 188.393 197.432 192.415 214.506 227.573 97 214.506 214.506 214.506 214.506 242.652 269.777 261.742 266 76; 77; 95; 246; 252.691; 265; 266 269.777 207.475 204.458; 204.460; 266.764

Fonti antiche 3.1.14 3.2.3 3.31.12pr. 4.18.2.1 4.20.20 4.29 4.32.13 5.9.2 5.12.30pr. 5.71.1 6.23.28 7.16.30 7.62.39 8.40(41).26 6.7.2 9.46

266.764 266.764 273.796 246; 268; 268.774 266.764 256.712 162.309 144.258 222.547 214.506 266.764 198.436 266.764 266.764 187.390 176.347

Novellae Iustiniani 15.3.2

197.435

Festus grammaticus (Lindsay) De verborum significatu cum Pauli epitome p. 49 p. 117

v. cognitor 135.233 v. municeps 157.294

Fragmenta Vaticana 317 318 319 320 322 323 329 335 340a

142.251 134.229 20; 21; 91; 133 144.257; 144.258; 145.258 144.255 144.255; 152.281 136.235 160.303; 160.304 137.239; 153.283

[F. 88]

Gaius Institutiones 1.122 1.128

150.273 219.529 361

G. Luchetti, M. Beggiato, S. Di Maria, F. Mattioli, E. Pezzato, I. Pontoriero 1.159-162 1.161 2.35 2.54 2.62 2.63 2.64 3.84 3.120 3.160 4.31 4.38 4.46 4.53 4.57 4.62 4.77 4.80 4.83 4.90 4.97 4.99 4.101 4.104-105 4.106-107 4.113 4.125 4.163 4.172 4.175 4.176 4.178 4.182

218.526 219.529 243.654 237.627 242.654 242.654 242.654 223.550 271.787 150.273 278; 278.819 218; 218.523 97; 104.48; 105.56; 107.66 235; 236 236 162.309 221.539 221.542 134.230; 135.233; 135.234; 152.279 140.246 134.230; 152.279 153; 160.303 121; 122.150; 140.246 203.458 143.254 271.787 236 176.349 176.350; 177.354 176.349 176.350 176.349 115.113; 116.116; 116.120; 143.255; 194.420 98-99.12; 103.41; 104.48 120.139; 121; 121.146; 123.164 121; 121.147

4.183 4.185 4.186 Isidorus De differentiis 1.430(123)

135.233

362

Fonti antiche Lex duodecim tabularum I.1-2 II.2 V.7a (= V.7 RS)

99.18 260.738 240.645

Novellae Maioriani 7.11

221.539

Pauli Sententiae 1.2.1 1.2.2 1.3.2 1.3.8 1.4.3 1.7.2 1.8.1 1.9.2 1.9.4 1.9.5a 1.9.7 1.10 2.15.1 2.26.12-13 2.31.9 3.6.28 3.6.33 5.6.2

143.255 144.258; 152.278 152.280 154.285 162.309 217.521 200.447 212.499; 213 242.652 210.489 216; 216.517 236; 236.622 250.679 114 221.539 189.398 189.398 138.242

Theophilus Institutionum paraphrasis (Lokin, Meijering, Stolte, van der Wal) 3.13pr. 223.551 Tituli ex corpore Ulpiani 10.3 11.12 11.17

219.529 219.529 220.536

363

G. Luchetti, M. Beggiato, S. Di Maria, F. Mattioli, E. Pezzato, I. Pontoriero Valerius Maximus Factorum et dictorum memorabilium libri IX 8.3.2

152.278

Vegetius Epitoma rei militaris 2.7.12

157.294

EPIGRAFI

Lex Irnitana 29, ll. 26-29

157.295

Lex Rubria de Gallia Cisalpina 20, l. 32

192.415

Tabulae Herculanenses (Arangio-Ruiz; Pugliese Carratelli) 81 249.677 82 249.677; 255.707 Tabulae Pompeianae Sulpiciorum (Camodeca) TPSulp. 27 = TP. 66 + 113

364

134.231

Finito di stampare nel mese di maggio 2022 per conto de «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER Tipografia CSC Grafica s.r.l. via A. Meucci, 28 00012 - Guidonia - Roma